SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO de il manifesto
GIUGNO 2010
DOPO OTTANTA ANNI DI ATTESA, L’11 GIUGNO L’AFRICA ACCOGLIERÀ NEL PAESE DI MANDELA I PRIMI MONDIALI DI CALCIO DELLA SUA STORIA. OMAGGIO A ZAHOUI, MILLA E TUTTI QUEI CALCIATORI AFRICANI CHE HANNO CAMBIATO IL NOSTRO MODO DI GUARDARE AI PIÙ POVERI TRA I POVERI DELLA TERRA
I have a Team
2 • I HAVE A TEAM - GIUGNO 2010
Alessandro Robecchi
E’
più facile che un cammello passi per la cruna di un ago – o che nonno Cannavaro riesca a fermare un ventenne lanciato palla al piede – piuttosto che il politicamente corretto entri in uno stadio. Così, seduti in curva o in tribuna si sente ancora dire «il negro», a volte con sincera ammirazione tecnica. Un sombrero avventuroso, una chiusura chirurgica e il contrappunto dell’abbonato: «T’è vist el negher?». Senza ferocia, senza malizia, solo per quel razzismo atavico che non viene riconosciuto tale per il semplice motivo che gli italiani sanno raccontarsi ancora la storiella degli «italiani brava gente». Razzismo relativo: quando Marc André Zoro, ivoriano del Messina, classe ‘83, veniva fischiato in quanto africano durante la partita con l’Inter, un altro africano, Oba Oba Martins, sgambettava sullo stesso prato applaudito anche dai settori nazisti della curva. Come disse Goebbels a
EDITORIALE
Nostalgia di una riscossa
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i ha detto lo scrittore bolognese Enrico Brizzi: «La curva prende per il culo un giocatore bianco per mille motivi; ma per un giocatore nero il motivo è uno solo: è nero». Simon Kuper si lamenta: «Quando parliamo dei giocatori africani in Europa il massimo che sappiamo dire è che si tratta di nuovi schiavi. Non abbiamo nemmeno fantasia». «In generale comunque è meglio che un africano venga qui da europeo - aggiunge Alessandro Robecchi - nel calcio l'Africa continua a non esistere». Avvicinandoci ai Mondiali di calcio sudafricani raccontiamo come attraverso il calcio – con i suoi oriundi, stranieri, extracomunitari, ora con la generazione Balotelli - il nostro Paese ha costruito, cambiato, confermato la sua percezione dell'Africa. E di riflesso anche la percezione di se stesso. Quella che leggerete perciò è innanzitutto un’indagine sul nostro inguaribile e vischioso razzismo. Ma è anche il nostro omaggio nostalgico all'Africa che abbiamo tifato nel pallone - un po' per uscire dalla cappa del patriottismo becero, un po' per allegria: lo Zambia che ci trafisse 4-0, il Camerun di Roger Milla, il Ghana di Essien e Muntari nel 2006. Nostalgico perchè quello che nel calcio globale si va smarrendo è proprio il senso di avventura, di riscossa anche politica che questo sport ci ha saputo regalare, anche grazie alle squadre e ai giocatori africani. E' il calcio che non vorremmo mai smettere di raccontare: i colonizzati che battono i colonizzatori, i «più poveri tra i poveri, non potendendo trovare conforto neanche in una partita» (Osvaldo Soriano) che un giorno cambiano la storia. Il calcio che meglio di tante guerre giuste sa insegnare democrazia e tolleranza, anche nei nostri campetti polverosi dove i ragazzini non si chiamano più soltanto Rossi o Bianchi.
Fritz Lang: «Qui decidiamo noi chi è ebreo e chi no». Lang scappò in America, Zoro al Benfica. Quando ero ragazzino io l’Africa non esisteva. Il calcio era una faccenda di Europa e SudAmerica, con vaghe propaggini a est dove le squadre avevano nomi di sindacati e dopolavoro ferroviari. I «negri» erano al massimo brasiliani, e devo ammettere che per il mio privato antirazzismo ha fatto più Jair di Martin Luther King, un po’ me ne vergogno. Ma tant’è: l’Asia non esisteva, sull’Africa stava ancora scritto Hic sunt leones, mica calciatori. E l’unica volta che ho sentito dei pallidi padani discettare di Ramadan era per stigmatizzare l’assurdo vizio di Sulley Ali Muntari di non bere durante gli allenamenti: cos’era, dopotutto, un millennio di religione islamica di fronte a un mancato recupero a centrocampo? Naturalmente non c’è bisogno di tirare in ballo Salgari o Kipling per vedere nell’esotismo un’altra faccia del razzismo, che a sua volta, si sa, è un’altra faccia dell’ignoranza. Kanu era assai esotico, alto come una pertica e
Quando ero ragazzino io, l’Africa non esisteva. Il calcio era una faccenda di Europa e Sud-America, con vaghe propaggini a est. Oggi facciamo il tifo per Eto’o e Drogba ma per quanto sia paradossale, l’Africa continua a non esistere. Preferiamo credere di averla inventata noi
dinoccolato come un Pinocchio con le gambe attaccate male. Segnò un gol solo in nerazzurro prima che l’aorta lo tradisse e venisse riaggiustato da San Moratti, e poi ne fece 30 nell’Arsenal, dove era un eroe della curva. Di Martins si ricordano i festeggiamenti funambolici con capriola e salto mortale (commento dei tecnici da secondo anello: «Se si sderena una caviglia per festeggiare un gol vado giù e gli sparo»), e il fatto che a volte era così veloce che andava più forte del pallone. In generale comunque è meglio che un africano venga qui da europeo. Per Essien darei un braccio, per Drogba due, essendo in assoluto l’attaccante più forte del pianeta. E’ nato ad Abidjan in Costa d’Avorio, ha giocato in Francia, ha vinto una coppa d’Africa e segnato 43 reti con la sua nazionale, ma se chiedi in giro è più facile sentir dire che è londinese. Un altro leone inarrivabile, Samuel Eto’o, ha vinto la coppa d’Africa e le Olimpiadi con il Camerun, ma se chiedi in giro è spagnolo del Barça, 107 reti di cui due decisive in finale di Champions League. Quei fessi del Real lo ebbero per le mani e lo mandarono in prestito al Laganès, da non credere, e ora giganteggia nell’Inter schierato da punta e capace di fare il mediano. Per quanto sia paradossale, insomma, l’Africa continua a non esistere, e questo a dispetto del fatto che almeno una decina dei migliori calciatori attivi in Europa siano africani e centinaia affollino panchine, serie minori, giovanili e squadre francesi di prima e seconda fascia. Gli osservatori in cerca di talenti non van-
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no in Africa, semmai ai mondiali under 17. A vedere gli africani. In compenso fiorisce il racket dei trasferimenti, a conferma che lo schiavismo non si pratica con grande soddisfazione degli schiavisti soltanto a Rosarno. Centinaia di giovani africani sui 15-16 anni vengono qui allettati da mirabolanti promesse, vengono ceduti in prestito a società minori, firmano contratti decennali per pochi euro e finiscono – quando va bene – nella zona grigia dello schiavismo pallonaro, e poi, se non sfondano, nello schiavismo tout-court. Perché l’Africa, anche ai tempi di Eto’o e di Drogba, come materia prima fornisce soprattutto quella: gli schiavi, e per uno che ce la farà, centinaia passeranno dai campetti della speranza ai campi di pomodori, dove speranza non ce n’è. In ogni caso, l’esotico piace, fa fine e non impegna. Le cronache della Coppa d’Africa si soffermano sul colore delle tifoserie, sulla strabordante maggioranza di bambini che assistono alle partite fuori dallo stadio (questa faccenda che in Africa fanno i bambini ci inquieta sempre un po’), sui riti tribali delle tifoserie (come se non fosse un rito tribale buttare un motorino dagli spalti, cantare un inno o dipingersi il numero 10 in faccia). Di tecnica e tattica si parla poco o niente, considerandole (altro razzismo) finezze da bianchi europei. E questo nonostante Costa d’Avorio e Camerun possano dare parecchio fastidio ai colonizzatori, e il Ghana prometta bene. C’è da sperare sinceramente che ai mondiali ci diano memorabili lezioni. Ma non c’è da illudersi: anche schiacciati dall’African football power, anche in affanno davanti a giocate micidiali, a sgroppate da gazzelle sulla fascia, vedrete: i telecronisti pubblici e privati dell’Italietta nostra non mancheranno di farci notare che quelle nazionali africane sono zeppe di campioni che giocano qui. Insomma verrà fuori questo: che gli africani li abbiamo inventati noi, e prima non esistevano.
L’ATTACCANTE IVORIANO FRANCOIS ZAHOUI CON LA MAGLIA DELL’ASCOLI NEL 1981 QUANDO FU IL PRIMO CALCIATORE AFRICANO INGAGGIATO NEL CAMPIONATO ITALIANO DAL PRESIDENTISSIMO COSTANTINO ROZZI (FOTO OLYCOM). A SINISTRA DIDIER DROGBA, STELLA DEL CHELSEA E CAPITANO DELLA COSTA D’AVORIO, LA NAZIONALE AFRICANA CHE PIÙ SPAVENTA LA CONCORRENZA EUROPEA E SUDAMERICANA AI MONDIALI /(FOTO AP)
Alberto Piccinini
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rancois Zahoui venne ad Ascoli nell'autunno del 1981. Vent'anni, mezzala ivoriana, buon controllo di palla ma più che altro una promessa, fu scovato dagli scout dell'Ascoli mentre giocava in un torneo estivo a Marsiglia con addosso la maglia dello Stella Club di Abidjan. Piacque al Bordeaux, piacque all'Olympique. Mostrarono qualche stupore i dirigenti del suo club quando videro arrivare ad Abidjan quelli dell'Ascoli. Pensavano che il ragazzo fosse come minimo troppo giovane per trasferirsi in Italia, ma l'affare si fece. «Per il contratto – racconta Zahoui – mi feci aiutare da un mio cugino che lavorava nella filiale francese di una banca italiana». Dieci milioni di lire, venticinque secondo altre fonti, qualcuno sostiene che il pagamento sia avvenuto più che altro in forma di materiale tecnico
Ingaggiato dal presidente Rozzi per dieci milioni e un paio di scarpini, l’ivoriano Francois Zahoui fu il primo africano della serie A. «Mazzone mi insegnò tattica e contropiede. Ero il cocco di tutti, in un’epoca senza razzismo e senza immigrazione» girato alla squadra africana. A Costantino Rozzi, «vulcanico» presidente dell'Ascoli, non interessava granchè che Zahoui fosse un affare. La sua voleva essere più che altro una provocazione. L'anno prima si erano aperte le frontiere del calcio. Erano sbarcati in Italia Falcao e Krol, Brady e Prohaska. Rozzi dichiarò che quello sconosciuto ragazzino africano era l'unico straniero che l'Ascoli poteva permettersi. Probabilmente fu un caso
che fosse africano, ivoriano (ma ci vollero più di dieci anni perchè in Italia arrivasse il secondo africano, Abedì Pelé). Mazzone, l'allenatore di quell'Ascoli che giocava con le unghie e con i denti, non disse niente. Va da sé che Zahoui fece quasi solamente panchina, per due lunghe stagioni. «Ero così giovane... - ricorda oggi al telefono, mentre allena i ragazzini dell'Fc Seynois in Francia - con Mazzone scoprii per la
prima volta la tattica, il contropiede, come giocare la palla di prima. Il mio era un gioco più leggero, palla a terra, dribbling. E l'Ascoli all'epoca giocava prevalentamente difesa e contropiede, non era il mio stile». Non parlategli male di Mazzone, comunque: «Mai avuto problemi con l'allenatore. Quella che ho avuto ad Ascoli è stata una grande esperienza, in un paese di grande cultura calcistica». Cominciò così. In FiorentinaAscoli Zahoui venne messo dentro a venti minuti dalla fine, giocando accanto ai difensori avversari in modo da farsi pescare in fuorigioco ogni volta che la sua squadra riconquistava palla. Confessò candidamente alla fine della partita che Mazzone glielo aveva suggerito per perdere tempo e allentare la pressione. L'Ascoli quel giorno strappò un pareggio, Rozzi fu espulso dal campo per proteste. Zahoui guadagnava 12 milioni all'anno, il minimo sindacale. «Il primo anno ho vissuto praticamente da solo – ci racconta ancora – non è stato facile. Non sapevo una parola di italiano, non ero abituato al cibo, si mangiava solo pasta, pasta, pasta. Ma sono stato accolto bene, la città era bellissima e ospitale». I tifosi lo soprannominarono con affetto Zigulì, come la caramella. «E' vero, ad Ascoli ero il cocco di tutti. Non c'era razzismo, e per la verità non c'era neppure immigrazione. Io ero il primo africano, perciò stavo simpatico a tutti». Nacque qualche leggenda metropolitana: la più famosa racconta che Zahoui si presentò al primo allenamento a piedi scalzi, come forse avrebbe fatto a casa sua. Ma è una leggenda. I suoi due angeli custodi furono due titolari della squadra: Leonardo Anzivino, roccioso difensore, e Leonardo Menichini, centrocampista in seguito assistente allenatore di Mazzone. Zahoui li frequenta ancora, quando può, in vacanza, ci ha detto con affetto. Nella stagione che vide apparire le prime magliette sponsorizzate, Zigulì giocava (quando giocava) con la scritta «Pop84», la marca di jeans messa in piedi nel 1970 da un industriale molisano. Cultissima, oggi. Ma che quello restasse ancora un altro calcio, nonostante tutto, si capisce leggendo un articolo del Fraternitè Matin, un giornale di Abdjan, uscito nel 1982: «Siamo rimasti molto sorpresi leggendo che c'è un giocatore africano nel campionato di calcio italiano. E la sorpresa è stata ancora maggiore scoprendo che questo giocatore è sconosciuto qui da noi». «Penso che resterò ancora in Italia per qualche tempo – dichiarò Zahoui al giornale ivoriano – E poi cercherò di trasferirmi in Francia tra i semiprofessionisti perchè voglio imparare un mestiere». Invece l'Ascoli rappresentò un buon affare anche per Zahoui: la sua carriera vera e propria di calciatore continuò in Francia, prima al Nancy e poi al Tolone, infine al Nervers, fino alla metà degli anni Novanta. Quanto al mestiere, i tentativi di Zahoui di fare l'allenatore sembrano essere arrivati soltanto di recente a un primo traguardo: la responsibilità della nazionale cadetta della Costa d'Avorio. «La mentalità deve ancora cambiare – dice oggi del calcio nel suo paese - non siamo ancora capaci di gestire un grande club per esempio. Quanto ai mondiali, beh, si gioca quasi a casa, ci sarà il nostro pubblico, i tifosi. Arrivare in finale sarà dura, ma passare il primo turno è totalmente alla nostra portata. Anche perchè la Coppa d'Africa non ci è andata bene e i giocatori hanno grandi motivazioni».
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Gli stereotipi sull’Africa, gli ecomostri ideologici del calcio, la squadra del cuore di Mandela. Intervista allo scrittore Simon Kuper. «Quando parliamo dei giocatori africani in Europa il massimo che sappiamo dire è che si tratta di nuovi schiavi. Non abbiamo nemmeno fantasia»
Andrea De Benedetti
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ome è cambiata la nostra percezione dell’Africa attraverso il calcio? Poco, temo. L’unica cosa che la gente conosce dell’Africa continua a essere la schiavitù, e quando parliamo dei giocatori africani in Europa il massimo che sappiamo dire è che si tratta di nuovi schiavi. Non abbiamo nemmeno fantasia». Fantasia di immaginare, non di inventare. Fantasia di scavalcare i luoghi comuni e di provare a verificare in prima persona che cosa c’è dietro. In questo senso – e non solo in questo – Simon Kuper è uno dei migliori «fantasisti» del giornalismo sportivo mondiale, e lo è da almeno vent’anni, da quando cioè, armatosi di zaino e svuotatolo di ogni pregiudizio, prese a girare il mondo per dimostrare che il calcio c’entra più con la storia, con le scienze sociali, con l’economia e con la politica che con la metafisica. Il libro che ne scaturì si intitolava Football against the enemy (tradotto in Italia nel 2008 come Calcio e potere, Isbn edizioni) e mescolava tanti generi - reportage, racconto, saggio - ottenendone un omogeneizzato di sapienza calcistica tuttora ineguagliato. O forse sì, a giudicare dal rigore scientifico e dall’audacia argomentativa della sua ultima fatica, Calcionomica (Isbn), in cui, con il prezioso aiuto di Stefan Szymanski, si incarica di demolire alcuni dei più orrendi ecomostri ideologici riguardanti il calcio, dalla sostenibilità economica dei Mondiali alla «sfortuna» dell’Inghilterra, passando ovviamente per tutti quelli che hanno a che fare con l’Africa. Kuper, almeno nel calcio siamo riusciti a farci un’idea un po’ più articolata dell’Africa? Mica tanto. Purtroppo anche i calciatori africani sono rappresentati in maniera molto stereotipata. Se parli con una persona qualunque ti dirà che sono tatticamente sprovveduti, naïf, infantili, divertenti ma poco evoluti, eccetera. Come se fosse tutto fermo a quarant’anni fa. A volte però sono gli africani stessi a perpetuare questi cliché. Quando fu acquistato dal Barça, Eto’o esordì con questa frase: «Lavorerò come un nero per guadagnare come un bianco». In realtà non parlava di schiavitù, ma del desiderio di raggiungere una posizione economica privilegiata.
Però si presentava come un nero, non come un camerunese o come rappresentante di un’etnia particolare. Vero. Il fatto è che purtroppo, spesso, si parla di Africa come se fosse un tutt’uno, e non ha nessun senso. Io mica vengo a dirti che l’Italia e la Francia sono la stessa cosa, con tutto che siete vicini, parlate lingue affini e guardate lo stesso tipo di televisione. In Africa le distanze sono molto più lunghe, le lingue diversissime, le culture non ne parliamo, ma nei discorsi della gente sembra che si tratti di un continente perfettamente omogeneo. Infatti per tutti questi saranno i «mondiali africani». Siamo noi che semplifichiamo o è una forma di retorica pan-africana che propagandano Fifa e organizzatori? Entrambe le cose. In realtà non esiste nessun sentimento panafricano, come non esiste un sentimento paneuropeo. Se la Germania vincerà i Mondiali, italiani e inglesi moriranno di rabbia, altro che solidarietà. La stessa cosa capita in Africa. Agli abitanti del Botswana o della Guinea, per dire, non gliene viene nulla da un avvenimento che si svolge in Sudafrica, e non è che se la Costa d’Avorio o il Ghana vanno in semifinale si mettono a tifare per loro. In «Calcio e Potere» spieghi che il calcio è stato un fattore unificante nel Sudafrica dell’apartheid. Com’è potuto accadere che il gioco dei coloni sia diventato fattore di integrazione socio-culturale?
Il black football ha avuto una parte importante in questo processo. Gli Orlando Pirates, storico club di Soweto, sono stati qualcosa di molto simile a un movimento anti-apartheid, hanno dato l’esempio e anche una specie di patria sportiva ai neri senza diritto di cittadinanza. Mandela ha fatto il resto, cercando di costruire un sentimento nazionale attraverso lo sport. Il calcio ma anche il rugby. Il Sudafrica era fatto, bisognava fare i sudafricani… Esatto, è successo proprio come in Italia, solo che è successo quasi 150 anni dopo.
NELSON MANDELA CON LA COPPA DEL MONDO E LO STADIO SOCCER CITY DI SOWETO (FOTO REUTERS). IN ALTO A DESTRA, UNA FOTO D’EPOCA DEL CALCIO COLONIALE
LA CANZONE DELLA BANDIERA CHE SVENTOLA Vuvuzela a parte, sono almeno due i tormentoni musicali annunciati: quello polifonico e para-liturgico di «Nkosi Sikelel’i Afrika», adottato come inno nazionale dopo aver consacrato per circa 80 anni i meeting Anc e quello più profano di «Wavin' Flag», la canzone scelta da Fifa e Coca-Cola come jingle ufficiale. Cantata in più lingue, pubblicata in oltre 100 paesi, utilizzata nei videogame o per raccogliere fondi a favore di Haiti, iniettata di pathos e percussioni nella versione «dedicata» (celebration mix), è la formula magica per far ondeggiare le curve su qualcosa di cantabile, retorico come una bandiera che sventola e melodicamente truce, ma non privo di allusioni alle lotte innominabili dell’Africa di oggi. K’Naan, il fortunato rapper somalo rifugiato in Canada che la canta, ha almeno due qualità: pensa cose ragionevoli sui pirati suoi connazionali, tipo che il pirata è chi scarica scorie davanti alle coste di una terra di nessuno per antonomasia, e con la musica ci sa fare più di quanto «Wavin’ Flag» lasci intendere. (m.bo.)
Sempre in «Calcio e potere» racconti il tuo incontro con Mandela. Ricordo un uomo molto gentile, ma ricordo anche due cose che mi colpirono. La prima fu che nel presentare il sottoscritto e un mio amico alla figlia del selezionatore sudafricano, suggerì a questa di sposare uno di noi due. Pensai che era molto gentile ma anche un po’ sessista. La seconda è che gli chiesi se tifava per i Pirates, e lui mi risposte che tifava per tutte le squadre allo stesso modo. Non si voleva sbilanciare. Lui era diventato il padre di tutto il Sudafrica, non poteva permettersi di fare differenze tra i figli, nemmeno nel calcio. In «Calcionomica» sostenete che non è vero che i mondiali portano soldi e benessere a chi li organizza. Vale anche per il Sudafrica? Certo. I sudafricani sono arrabbiati perché si stanno accorgendo che quello che il governo ha promesso in termini di lavoro e benessere economico non è stato mantenuto. Avevano assicurato che la Coppa del Mondo avrebbe cambiato tutto, invece non è successo. La gente è arrabbiata e prevedo che durante i mondiali ci saranno pubbliche manifestazioni di questa rabbia.
Nemmeno il turismo ne guadagna? Guarda: in un mese normale viaggiano in Sudafrica circa 700.000 visitatori stranieri, per i Mondiali ne sono attesi poco più di 200.000. Non c’è indotto turistico per la coppa del mondo. Gli aerei sono semivuoti. Magari, sul lungo periodo, servirà almeno a migliorare l’immagine del paese. Non credo. Dappertutto si parla di quanto il Sudafrica sia pericoloso. Ma non capiterà nulla. E se invece capitasse qualcosa? Basterebbe un ferito accidentale e la CNN ne parlerebbe ventiquattr’ore al giorno. E comunque il mondiale dura solo un mese, ma la preparazione comincia sette anni prima. In questi sette anni non si è fatto che parlare del Sudafrica come di un paese a rischio. Nemmeno un mese senza incidenti potrebbe rimediare questo danno d’immagine. Nella pubblica opinione questo è l’ultima opportunità per sfruttare il calcio come strumento di progresso politico ed economico La Coppa del Mondo rende la gente felice e orgogliosa, ma non la arricchisce e non migliora la sua qualità di vita. Di recente hai intervistato George Weah. È stato candidato presidente, ha un piccolo impero mediatico: ha imparato da Berlusconi? Gliel’ho chiesto anch’io. Mi ha risposto di aver imparato da Berlusconi ad amare il suo popolo e che quelli che abitano a Milano 2 lo adorano. Non ho mai pensato che Weah fosse un raffinato pensatore politico, ma sono convinto che sia una brava persona e che l’anno prossimo abbia buone possibilità di vincere le elezioni. Nel 2005 ha perso, ma nel frattempo ha finito l’università e ha imparato molte cose A proposito di africani, mai sentito parlare di Balotelli? Siamo l’unica grande nazione euro-
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A. Pi.
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e L’inattesa piega degli eventi, il suo penultimo romanzo, Enrico Brizzi ha ricostruito in maniera vivida e soprendente il calcio che si giocava nelle colonie italiane d'Africa tra gli anni ’30 e ’40. Una vicenda quasi del tutto dimenticata, pochissimo approfondita dalla nostra storiografia. «Lo stimolo iniziale per scrivere il libro – ci ha detto - è stato banalmente il fatto che la Francia o l’Inghilterra hanno da tempo in Nazionale calciatori non esattamente di pelle bianca. Da noi invece fa ancora scandalo il caso Balotelli: mi colpisce il fatto che si parli ben poco del calciatore Balotelli e molto più della nostre paure, del nostro confrontarci con gli stereotipi del giocatore nero e forte, ma italiano». Stereotipi razzisti. Molti dicono di non sopportare Balotelli perchè è una «testa calda». Più che razzismo mi sembra stupore. E’ lo stupore nell’accettare l’idea che il fidanzato di tua figlia o il compagno di scuola di tuo figlio possa essere italiano e di colore. Chiunque abbia dei figli che vanno a scuola sa cosa vuol dire: i ragazzini in Italia non si chiamano più tutti Rossi oppure Bianchi. Si può non vedere nella vicenda di Balotelli tutte le cose che ci vedo io, ma da frequenta-
pea a non avere dei neri in nazionale. Lui poteva essere un simbolo. Suppongo sia solo una questione di tempo. In Inghilterra il primo nero che ha giocato con la nazionale è stato Viv Anderson nel ’79, e negli anni Ottanta a quelli come lui i tifosi facevano ancora versi da scimmia. Se succede adesso, sono gli stessi tifosi a denunciarti subito alla polizia. Ci arriverete anche voi. Perché le squadre africane di solito scelgono allenatori stranieri? Perché da sempre la migliore fabbrica di tattica calcistica è quella dell’Europa occidentale. È una questione geografica, prima ancora che culturale. In Europa le distanze sono più brevi e le idee circolano più facilmente. Quando era giovane, Arrigo Sacchi accompagnava il padre nei suoi viaggi di lavoro in Germania, Francia, Spagna e ogni volta imparava qualcosa. L’Europa era piccola ai tempi di Galileo e Copernico, e a maggior ragione è piccola ora. Si viaggia più facilmente, si comunica più facilmente, si condividono idee più facilmente. E poi le grandi competizioni sono tutte lì. Però Italia, Francia o Spagna non giocano tutte nello stesso modo. No, ma esiste comunque una matrice comune. In Europa ti insegnano a tenere poco la palla, a non eccedere nel dribbling, ad avere disciplina. Il Brasile ha i migliori giocatori, ma noi abbiamo la tattica più sviluppata. Per questo l’Europa esporta allenatori. Non solo in Africa. Tu sei nato in Uganda. Raccontaci la tua Africa, nel senso di quella calcistica. Il mio calciatore africano preferito è stato Roger Milla. Era un calciatore buffo. Divertiva e si divertiva. Mentre segnava i suoi gol lo vedevi ridere. È stato un grande calciatore pur non avendo fatto una grande carriera. Soldi col calcio ne ha fatti pochi e non ha raggiunto la fama di un Drogba o un Eto’o.
Enrico Brizzi e la storia dimenticata del calcio che si giocava nelle colonie italiane d’Africa a cavallo degli anni trenta. «Vigeva l’apartheid ma le squadre dei nativi e dei mezzosangue battevano quelle dei bianchi sbugiardando così la retorica grottesca dell’Impero»
1920, QUANDO l’ITALIA SCOPRÌ I FARAONI L’Egitto è la prima nazionale africana a giocare i mondiali e lo fa in Italia nel 1934. Allo stadio Ascarelli di Napoli contro l’Ungheria, rimonta due gol grazie a Abdulrahman Fawzi ma poi cede 4-2 e viene eliminata. L’Egitto è anche la prima squadra africana ad affrontare gli azzurri, alle Olimpiadi di Anversa (1920): vince l’Italia 2-1 con reti di Baloncieri, Daki Osman e Brezzi. Nel 1954 li ospitiamo a San Siro, finisce 5-1 ed è la prima diretta televisiva sperimentale di una partita nel nostro paese. Resteranno l’unico avversario del continente nero fino all’incontro col Camerun nell’82. L’anno scorso, Confederations Cup, i Faraoni sono stati gli ultimi africani a batterci grazie a un’inzuccata di Mohamed Homos, uno storico successo festeggiato da caroselli al Cairo come a piazza Vittorio. In Sudafrica però non ci saranno.
tore di stadi in passato ricordo che un giocatore bianco veniva preso per il culo dalle curve per tanti motivi diversi, mentre il giocatore nero è preso per il culo sempre e soltanto perché è nero. Parli degli ultimi 20 anni da noi. Mi ricordo bene quando hanno riaperto le frontiere, ero bambino. Arrivò il brasiliano Eneas nel mio Bologna, e fu amatissimo. Ricordo tutti i luoghi comuni sui giocatori neri: l’idea della forza fisica accoppiata con poca intelligenza tattica. All'epoca erano visti praticamente come delle mascotte. Si raccontava, non so se era una leggenda oppure no, che Zahoui dormisse negli spogliatoi dell’Ascoli… In poche parole, ogni volta che si parla di Africa e sport, mediamente in Italia si ha un brivido di morbosità. Come se non ci fossimo ancora abituati all’idea che in una società ci sono i bianchi, i neri, i gialli eccetera. Nel tuo libro racconti come durante il colonialismo italiano ci siamo confrontati con una situazione del genere, e nel peggiore dei modi per crudeltà e razzismo. Prima di scrivere il libro ho riletto gli almanacchi del calcio di quegli anni. Anche se i giocatori africani non erano ammessi nelle squadre italiane, perchè nelle colonie vigeva l’apartheid, laggiù si giocavano dei campionati, per squadre italiane e per squadre di «nativi». Lo sport è sempre un modo per vedere in controluce una società, e quella italiana degli anni dell’Impero è particolarmente grottesca se vista attraverso la sua retorica. Che poi è quella che ha lasciato di più il segno nell’Italia di oggi. Racconti di una squadra che si chiama San Giorgio, una squadra di etiopi, italiani, mezzosangue, che batte tutte le fascistissime favorite... Parlando di calcio è inevitabile che prima o poi Davide batta Golia. Il San Giorgio che nel mio libro batte le squadre più titolate, persino la Juventus, è essenzialmente una squadra mista che batte le squadre per soli bianchi. Non c’è bisogno di aggiungere che questo è accaduto molte volte: tutto il calcio che abbiamo importato nel nostro paese è una storia di garzoni e fattorini che battevano i signorini inglesi. Il calcio che ami raccontare ha una valenza politica, democratica. Quel calcio esiste ancora? Se si parla del calcio che possono giocare i ragazzini nei quartieri di tutto il mondo, ovviamente sì. Non mi illudo sinceramente che le leghe professionistiche di questo o quel paese possano portare beneficio alla comunità. Né credo che i procuratori europei che fanno incetta di tredicenni in Ghana o in Brasile possano far bene al Ghana o al Brasile, per dire. Per me l’unico calcio democratico è quello non professionistico, in cui la gente che sta tutta la settimana in fabbrica, in ufficio o in cassa integrazione può credere in qualcosa, può dire in undici quello che uno solo non riesce a dire.
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Portiere della nazionale alla fine degli anni ’40, ridotto in miseria da affari sbagliati, Giuseppe Moro si trasferì in Tunisia nel 1964 per andare ad allenare giovani promesse che sognavano l’Europa. Mario Pennacchia gli dedicò un racconto autobiografico di cui qui pubblichiamo un capitolo
Massimo Raffaeli
L’
uomo che una mattina dell’autunno del ’65 entra nella redazione romana del Corriere dello Sport per incontrare un amico giornalista, ha appena quarantaquattro anni, un fisico aitante e l’aria spavalda che non riesce comunque a mascherare un fondo di autentica disperazione. Al momento vive in Tunisia, allena giovani promesse che sognano gli stadi d’Europa ma non se li possono permettere, proprio come il Mister senza patentino che ogni sera vedono tornare in perfetta solitudine al suo appartamento. Giuseppe Moro, nato a Carbonera di Treviso il 16 gennaio del 1921, è stato nel decennio precedente un portiere della nazionale italiana e anzi, come qualcuno continua a sostenere, tra i massimi campioni nel suo ruolo, forse superiore nei fondamentali a Giorgio Ghezzi e allo stesso Sentimenti IV: gli appassionati rammentano in particolare la partita contro l’Inghilterra sul campo del Tottenham, a White Hart Lane nel novembre del ’49, dove pare sia stato inenarrabile. Ha giocato però in troppe squadre (in pratica una all’anno, Treviso, Fiorentina, Bari, Torino, Lucchese, Sampdoria, Roma, Verona) per non dare il sospetto della medesima incostanza che la vox populi ha poi tradotto nei termini di una nativa sventatezza e/o di una scarsa serietà professionale. Così, per esempio, ne delinea il profilo Gianni Brera nel Mestiere del calciatore (Mondadori 1972, poi Baldini & Castaldi 1994): «Alternò favolose prodezze a errori co-
sì madornali da sembrare voluti. In questo sgradevole sospetto lasciò molti che pure lo ammiravano. Finì malamente, giusta la spensierata leggerezza con cui affrontò e assolse il suo lavoro di atleta». Il colpo d’occhio, la presa, lo scatto, l’estro del volare a comando, sono i tratti elettivi di colui che parava i rigori come nessun altro, ben 46 sui 62 complessivi che ha dovuto subire in campionato. Quanto alla vita privata, tutto ciò non ha impedito un precoce effetto di deriva che gli è stato davvero fatale: affari sbagliati, denaro perso al gioco delle carte, la gestione catastrofica di un bar nel centro di Roma, poi l’improvvisa miseria, il senso di totale abbandono, la solitudine gelata di un uomo che pure ha moglie e quattro figli. L’Africa, per lui, non è dunque una fuga nell’esotico ma una scelta coatta. Chi riceve al Corriere dello Sport lo sfogo di Giuseppe Moro e, su stimolo dell’allora direttore Antonio Ghirelli, sa tradurlo in uno splendido racconto autobiografico in dieci puntate a tutta pagina (dal 16 novembre al 1 dicembre di quel 1965, ora nel volume Una vita disperata. Giuseppe Moro, portiere, di prossima pubblicazione da Isbn), è un redattore ancora molto giovane, Mario Pennacchia, ma destinato a una carriera di maestro della critica e della storiografia calcistica, come oggi testimonia fra decine di titoli la summa intitolata Il calcio in Italia (Utet 1999). Il reportage di Pennacchia ha un grande successo di pubblico, la storia commuove i lettori ma non sembra tuttavia scalfire il muro dell’ipocrisia e della cattiva coscienza che da sempre protegge l’ambiente federale e il mondo del calcio. Peraltro al grande ex portiere non restano nemmeno dieci anni di vita. Chiusa la parentesi tunisina, è di nuovo in Italia, a Sant’Elpidio nelle Marche, fra la precarietà e gli stenti consueti: lo attende un secondo periodo da allenatore-giocatore nella squadretta del San Crispino e un modesto lavoro di rappresentante di dolciumi. La sua una è malinconica elegia, già prossima alla fine. Muore infatti nel silenzio più glaciale a Porto Sant’Elpidio la mattina del 27 gennaio 1974, ad appena cinquantatre anni: solamente Dino Zoff, fra i colleghi, si ricorda di lui offrendo la sua maglia azzurra per il funerale. Resta poco altro, di Giuseppe Moro, se non sbiadite immagini di repertorio e i ricordi di Flavio, l’ultimo figlio nato nel 1968, che li serba con grande fedeltà tra le colline che hanno visto le ultime parate di suo padre: «Eppure tutti dicono che fosse un uomo buono, che negli anni migliori ha aiutato molte persone senza poi, nel bisogno, ricevere aiuto da nessuno».
SCOGLIO E BETTINO AD HAMMAMET Trentaquattro anni dopo Moro, in Tunisia sbarca anche Franco Scoglio. E’ il 1998, gli affidano la nazionale biancorossa e lui si presenta così. «L'uomo discende dall'Africa ed è per questo che sono arrivato qui io ad allenare». E’ amore a prima vista, il «Professore» (era laureato in pedagogia) diventa Franco l’africano, sempre incazzoso, i capelli dritti in testa, un idolo per tifosi e giocatori. Appena arrivato, va a trovare Bettino Craxi ad Hammamet. «Sì l'ho visto con estremo piacere – confessa senza imbarazzo al Corriera della Sera - avrei potuto rispondere no o ni. Invece vi dico che l'ho incontrato tre volte e con reciproci scambi di doni: io a lui, un libro sul Toro e una maglia della nazionale tunisina; lui a me, delle stampe sugli italiani a Tunisi e un vaso di terracotta, naturalmente fatto con le sue mani. Raffigurava l' Italia che piange. Mi ha commosso. Sono favorevole al suo rientro in Italia. Con Andreotti forma una coppia di politici di grande valore». Vabbè. Sotto la sua guida, la Tunisia si qualifica per i mondiali del 2002 ma alla vigilia del sorteggio lui molla tutto per tornare a Genova e salvare il Grifone che rischia la serie C: porta con sè 5 giocatori tunisini, uno più cult dell’altro. I rossoblù si salvano, la Tunisia affonda e i 5 fanno le valigie quando l’anno successivo Scoglio decide di tornare in Africa. In Libia questa volta ma non dura molto perché lascia sempre in panchina Saadi Gheddafi e l’ingegnere lo caccia via. Chiude come opinionista di Al Jazeera prima di spegnersi improvvisamente nel 2005. (s.pie)
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2006, LA RINCORSA COMINCIA DAL GHANA 12 giugno 2006, contro il Ghana ad Hannover comincia la cavalcata trionfale dell’Italia di Lippi. Per le Black Stars è la prima volta ai mondiali e il «manifesto» ovviamente tifa per loro. Serve a poco. Pirlo apre le danze con una saetta nel traffico dell’area di rigore, un contropiede di Iaquinta le chiude favorito da uno svarione di Samuel Kuffour. Che 15 anni prima era sbarcato a Torino, giovanissimo, insieme ai connazionali Mohammed Gargo e Emmanuel Duah. Furono assunti come fattorini perché non c’era posto per gli extracomunitari, scapparono e fecero carriera altrove.
PIEDI AFRICANI NEGLI ANNI SESSANTA. A SINISTRA L’EX PORTIERE DELLA NAZIONALE GIUSEPPE MORO AI TEMPI DELLA ROMA. IN BASSO FRANCO SCOGLIO L’AFRICANO, CT DELLA TUNISIA DAL 1998 FINO AL 2001 QUANDO DECISE DI TORNARE AL GENOA
Mario Pennacchia
N
el 1962, dopo due anni di lavoro nel San Crispino, a Porto Sant’ Elpidio, non fui confermato. Non sapevo cosa fare. La stagione 1962-63 stava per cominciare. Andai a dar l'esame per allenatore a Coverciano. Dopo la prova di educazione fisica, passai a quella tecnica. Foni mi domandò come me la passassi. Si parlò così, amichevolmente. Foni mi chiese come ero andato nelle altre prove. Mi incoraggiò, assicurandomi che me la sarei cavata. All'esame di medicina però crollai perché effettivamente alla domanda sulla funzionalità del cervello non seppi cosa rispondere. Così mi trovai rimandato, ma non soltanto in medicina, come temevo, bensì anche in tecnica da parte dell'amico Foni! Del mio diploma, ormai, si sarebbe parlato nel 1964. (…) Fu allora che si insinuò in me la tentazione di farla finita. Prima, però, decisi di scrivere una lettera a Bardelli. Gli scrissi che volevo spararmi. Lui mi rispose subito, scongiurandomi di non fare pazzie, promettendomi che avrebbe parlato di me al presidente della Federazione. Il San Crispino fortunatamente mi confermò. Ma dopo altri due anni, tornarono ad esonerarmi. Scoppiò una sommossa fra i tifosi e dovettero perfino intervenire i carabinieri. I tifosi fecero una raccolta di firme per invalidare l'assemblea e ci riuscirono. Così dopo 15 giorni di agitazioni, fui confermato. Pur sapendo di avere molte antipatie, specialmente fra dirigenti e giocatori, accettai solo perché dovevo mangiare. Rimasi fino alla vigilia del Natale 1963. Nel febbraio 1964, per 50.000 lire al mese, andai a Sant’Elpidio a Mare per restarvi sino alla fine della stagione. Ero di nuovo disperato. In agosto venni a Roma, per chiedere aiuto alla Federazio-
ne, anche perché il segretario del Centro Tecnico, Baccani, aveva promesso di trovarmi un posto come istruttore dei calciatori militari. Ma gli uffici della Federazione erano chiusi per le vacanze di Ferragosto. Allora andai alla Roma. Quando arrivai in viale Tiziano, il segretario Pierangeli parlando al telefono con il presidente Marini Dettina gli trasmise i miei saluti. Dettina mi fece invitare nel suo ufficio. Ci andai e lui mi disse che avrei potuto collaborare, osservando i giocatori che la Roma aveva prestato a diverse società. Gli dissi che ero disposto a svolgere qualsiasi lavoro nell'ambito calcistico. «Si faccia vedere, io intanto ne parlo con il segretario generale». Avevo soltanto 200 lire in tasca. Ero alloggiato in un albergo vicino alla stazione, dove mi conoscevano perciò nessuno si azzardava fortunatamente a chiedermi soldi. Il segretario generale della Roma, Valentini, neanche volle ricevermi e mi negò perfino un biglietto per assistere alla partita amichevole di precampionato Roma-Fiorentina. Neanche Dettina volle più ricevermi. Da Roma non potevo partire perché dovevo prima saldare l'albergo. A piedi andai continuamente dalla stazione a viale Tiziano, a via Crescenzio, nella sede della Federazione. Il mangiare, qualche volta, me lo offriva l'amico giallorosso Alessio. Il 24 o 25 agosto finalmente riuscii a parlare con il segretario della Federazione, Bertoldi. Gli ricordai la promessa di Baccani e Bertoldi rimase a bocca aperta: «Ma per i calciatori mi-
Alleno 5 squadre per un totale di 120 giocatori. Mi seguono e mi apprezzano ma mi considerano soprattutto uno che finalmente paga un debito e rispetta il loro diritto di sapere e di essere uguali agli europei
litari è già stato tutto sistemato!» mi rispose. Sentii crollare tutto intorno a me. Bertoldi capì il mio dramma, mi fece firmare una ricevuta e mi consegnò 50.000 lire, 30.000 le mandai subito a casa e con le altre 20.000 saldai le spese sostenute a Roma. Mi misi alla ricerca di alcune mie vecchie conoscenze romane, finché non arrivai a parlare con l’on. Simonacci. Erano i giorni in cui si discuteva la partecipazione dell'Italia alle Olimpiadi di Tokyo. Simonacci riferì al dott. Pasquale e mi assicurò che il presidente della Federazione gli aveva promesso che uno stipendio per me l'avrebbe fatto saltar fuori con una sistemazione a Coverciano. Intanto, sempre l’on. Simonacci mi offrì un biglietto per partecipare alla crociera CivitavecchiaCagliari-Palermo-Napoli riservata agli ex azzurri. Ma mentre stavo per partire, mia moglie mi spedì un espresso giunto dalla Tunisia in cui mi si offriva un posto di allenatore laggiù. Monaldi, allenatore italiano a Kef, aveva fatto il mio nome e mi precipitai con questa lettera da Bertoldi. Lui inviò immediatamente un telegramma a Kef per avere conferma e garanzie e dopo sette giorni arrivò la risposta. Bertoldi fu veramente generoso. Mi dette altre 50.000 lire per tornare a casa e farmi rilasciare il passaporto. Mi ripresentai a Bertoldi, mi consegnò un biglietto per il viaggio aereo e altre 75.000 lire. Erano le 9 di lunedì 28 settembre 1964. Come faccio a ricordare? Il sacrificio e il dolore fanno cuore e memoria di pietra e ci scrivono sopra, incidono e scavano. Al terminal dell'Alitalia forse avevo la febbre. Un'oppressione, un incubo, una paura, si scatenarono dentro di me. Ma su tutto prevalse la speranza. Ero solo, volevo rendermi conto, prima di chiamare la famiglia a raggiungermi. L'aereo decollò alle 10 e 20. Se mi avessero detto che c'era lavoro per me in Italia, mi sarei buttato senza paracadute. Ma il ricordo di tante umiliazioni mi inchiodò alla poltrona più forte della stessa cintura di sicurezza. All'aeroporto di Tunisi trovai Di Benedetti, l'ex centravanti. Era venuto ad aspettarmi, mi accompagnò a Kef e qui mi presentò a Monsieur Bakari, delegato allo sport. Questi mi condusse a Ebba Ksour, un villaggio di 5000 abitanti, nell'interno. Mi offrirono lo stipendio base e unico per tutti gli allenatori: 150 dinari al
mese, pari a circa 200.000 lire italiane, più la casa e la luce. Firmai. Avevo un appartamento di quattro stanze e come arredamento una semplice branda. La sera, come calava il sole, il villaggio appariva evacuato. Le donne, poi, non si vedevano neanche di giorno, mai. Quando rincasavo, la prima, la seconda, la decima, la ventesima sera, mi si chiudeva lo stomaco, la testa mi scoppiava, ma in Italia ero stato tanto umiliato che non riuscivo neppure a trovare la forza, la rabbia, la debolezza di una lacrima. Io la nostalgia non la conoscevo. Ora non la auguro a nessuno di quanti mi hanno fatto del male. Dopo un mese non seppi resistere, anche perché i soldi non si potevano spedire e la mia famiglia ne aveva urgente bisogno. Ripresi la mia roba e tornai, portando con me 75.000 lire, tutto quello che avevo. Ma, una volta a casa, mi accorsi che ero una bocca in più da sfamare. E poiché avevo il biglietto andata-ritorno, mi feci coraggio e ripartii. Com’è Ebba Ksour? Come un villaggio veneto del 1930: desolazione e miseria. Comunque, mi acclimatai piano piano. Mi feci fare l'abbonamento al numero del lunedì del Corriere dello Sport e la prima volta che il giornale mi arrivò, l'avrei baciato. Lessi, che dico, divorai tutto. Imparai a memoria certi titoli. Lessi la pubblicità, come se fossi stato un uomo d'affari. Italia, Italia, a quei semplici fogli di carta stampata s'era ridotta per me! Mia moglie mi scriveva continuamente per tranquillizzarmi, ma leggere che pane e formaggio riuscivano ancora a trovarli, per poco non mi portò alla pazzia. Volli la mia famiglia con me e venni a prenderla in occasione delle nozze di mia figlia Mirella. E così, con mia moglie e gli altri due figli, tornai a Ebba Ksour. Nel breve soggiorno in Italia nemmeno tentai più di trovare una sistemazione qui. Mi trattenne soprattutto il ricordo di questa animazione, fra le tante. Ero riuscito ad entrare all'Olimpico, un giorno che si giocava RomaJuventus, grazie alla compiacenza di una maschera che mi aveva riconosciuto. Ebbene, in mezzo a 80.000 spettatori vennero a ripescarmi per buttarmi fuori dallo stadio come un ladro. «Mi perdoni, Moro - mi disse la maschera ma se lei non esce io perdo il posto». Uscii disgustato. Fu il dirigente Agostino Rosa che, appena mi vide, mi rincorse fuori dei cancelli per darmi un biglietto. Perciò, come potevo, con questi ricordi, rivolgermi e sperare ancora nella comprensione in Italia? (…) Tornai ad Ebba Ksour. La squadra disputava il campionato di III categoria. Arrivammo al sesto posto, ma vivemmo due giorni di gloria quando eliminammo dalla Coppa di Tunisia il Keruan e lo Stayussien, due squadre di I categoria. A fine anno, grazie all'amico Bakari, passai al Beja, la squadra di una città di 50.000 abitanti a 100 km da Tunisi. È qui che adesso mi trovo. Qui è già un'altra cosa. Intanto la vita non è cara, perché con 500 lire si compra un chilo di filetto. (…) Io lavoro dalle 8 del mattino alle 23, perché la sera tengo lezioni teoriche e disbrigo pratiche in società. Alleno da solo cinque squadre per un totale di 120 giocatori: dai «minimi» ai cadetti, dagli juniores, alle speranze e ai titolari che giocano in II categoria e sono a metà classifica. I giocatori mi seguono e mi apprezzano, ma mi considerano soprattutto uno che finalmente paga un debito e rispetta il loro diritto di sapere e di essere uguali agli europei (…). Tratto da «Una vita disperata. Giuseppe Moro, portiere». Di Mario Pennacchia, di prossima pubblicazione da Isbn
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THOMAS N’KONO Guardiano dei pali camerunese. Lo scoprimmo al mundial spagnolo con la sua lunga tuta nera, quando scivolò su un pallonetto beffardo di Graziani. Cominciò a 16 anni nel Canon Yaoundé, poi una lunga militanza in Spagna per chiudere a 41 in Bolivia. Due vittorie in Coppa d’Africa, tre mondiali, è grazie alle sue prodezze di Italia ’90 se Buffon un giorno decise di diventare portiere tanto da chiamare il figlio col nome di un leone indomabile. Oggi N’Kono fa l’allenatore, indimenticabile il suo arresto in Mali nel 2002, beccato dalla polizia mentre faceva una macumba in mezzo al campo fingendo di guardare il tabellone. Mostrò alla folla le manette (quelle vere) mentre lo trascinavano via. Fu squalificato per un anno e poi perdonato.
Matteo Patrono
Roma e da me a Modena. Quando arrivò la foto di Matias Bebé, in bianco e nero, provai una felicità fanciullesca. Altro che Pizzaballa, lui potevi ordinarlo alla Panini, il mio uomo del Mozambico no.
I
l primo album di figurine dedicato al calcio africano lo stampò la Panini 14 anni fa, in occasione della prima Coppa d’Africa nel paese di Mandela. 316 pezzi: le 16 squadre qualificate, 3 grandi escluse, 9 vecchie glorie. A raccogliere i volti da trasformare in figu setacciando il continente, la storica casa modenese chiamò un africanista del pallone che si era fatto le ossa spulciando tra i resoconti di campionati allora sconosciuti nelle ambasciate africane di Roma. Filippo Ricci, all’epoca collaboratore del manifesto, oggi corrispondente della Gazzetta da Madrid. Per tutti, sempre, l’esperto di calcio africano. Al quale ha dedicato viaggi, amicizie, passione, un bellissimo libro (Scusate il ritardo, Racconti di calcio africano, Limina 2005) e appunto la prima collezione Black della Panini, seguita poi da altre tre. «All’inizio mi sentivo un po’ come un esploratore, uno storico, un avventuriero del football. Ed effettivamente è stato un viaggio complicato ed emozionante». Da dove cominciò la ricerca? Per la prima, storica collezione, anno ’95, sono partito forte comprando due terzi delle foto in Sudafrica, negli archivi dei giornali locali. Alcune avevano i nomi sbagliati, ma la magagna era relativa rispetto al tesoro trovato. I problemi sono cominciati dopo:
Come si dice figu in Mozambico? Ovunque in Africa è steakers.
come quando si fa una collezione di figu qualsiasi, più ci si avvicina alla meta meno si trovano le rarissime. Mi mancavano tre zairesi, me la cavai fotografando una foto di un giornale poi ritoccata e trasformata in figurina, con relativo cambio di maglia. Finii l’album con una foto di un tipo del Mozambico partita da Maputo, spedita a Lisbona, quindi a
Le foto della nazionale liberiana erano senza nomi, ti toccò chiedere aiuto a George Weah. Andai a Milanello e King George partecipò al riconoscimento con la stessa sicurezza con la quale colpiva il pallone ma sinceramente quei giocatori non li conosceva perché le foto erano state scattate in una partita alla quale non aveva partecipato. Quindi buttò giù dei nomi alla rinfusa, collegandoli a casaccio alle foto. Quando gli portai l’album a Durban, durante la Coppa d’Africa, Weah lo accolse come una reli-
La storia del primo album di figurine dedicato al calcio africano. Raccolto da Filippo Ricci e stampato dalla Panini nel 1996. «Un viaggio tra giocatori introvabili e senza nome. Con l’aiuto di photoshop e Weah»
quia cominciando a sfogliarlo con attenzione attorniato dai suoi compagni di nazionale. A un certo punto uno dice che quello nella foto, col suo nome, non è lui. Lo stesso fa un altro, e un altro ancora. George cercò di dare la colpa a me. Io mi difesi ricordandogli la chiacchierata a Milanello e tutto si chiuse con una gran risata. Nel ‘92, Sacchi annunciava che quello africano era il calcio del futuro. A che punto siamo? In grave ritardo. I giocatori africani hanno vinto tutto con i club europei ma le nazionali continuano a soffrire. Questo dovrebbe essere il Mondiale dell’Africa e io continuo a sperare in un miracolo, ma di questo parliamo, di un miracolo. Non c’è programmazione, mancano strutture, interessi comuni. Sono pochissimi i giocatori che tornano a casa e investono proponendosi come tecnici, allenatori, presidenti. Alcuni hanno progetti benefici, ma sono una minoranza. Dai dirigenti il calcio è ancora considerato una maniera per arricchirsi rapidamente.
Come cambierà il nostro modo di guardare l’Africa dopo i mondiali? Per prima cosa bisognerà superare lo shock culturale legato alla disputa del Mondiale in Africa. In questi ultimi due anni del Sudafrica si è parlato solo in termini di violenza, aids e altre amenità. Mai una parola sul calcio locale, pur ben organizzato, la tradizione sportiva, lo sforzo messo in atto dal paese. I giornalisti europei partono come per una guerra: autisti, guardie del corpo, macchine blindate, assicurazioni sulla vita. Superato questo ostacolo forse qualcuno sarà capace di guardare all’Africa e al suo calcio con occhi diversi. Io spero vivamente che una nazionale africana faccia bene e che si prenda qualche bello scalpo europeo o sudamericano. Allora, forse, il calcio africano smetterà di essere solo una divertente macchia di colore acquistando un’altra dimensione.
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TARIBO WEST Difensore piuttosto rude a dispetto delle treccine multicolori con le quali si presentava in campo, vestì la maglia dell'Inter per due stagioni. Quando Lippi lo mise fuori squadra, West andò da lui e disse: «Dio mi ha detto che devo giocare». E l'allenatore, rigirando il toscano: «Strano, a me non ha detto niente». Appesi gli scarpini al chiodo, ha aperto fuori Milano la chiesa pentecostale «Shelter from the storm», dove continua tutt'ora a predicare il Vangelo e a tifare Inter. Nell'ultimo periodo «minaccia» di tornare in Nigeria e entrare in politica.
ABEDÌ PELÉ Dal suo magico piede sinistro partì il corner che l’ivoriano Basil Bolì incornò nella rete del Milan, regalando al Marsiglia la Coppa dei Campioni 1993. Nel suo lungo girovagare per l’Europa, il piccolo numero dieci ghanese fece tappa anche a Torino, beniamino del popolo granata. Era partito da Domé come Abedi Ayew e strada facendo diventò Pelé, gol e dribbling sempre col sorriso. Tre volte pallone d’oro africano, capitano delle Black Stars, non è mai riuscito a disputare un mondiale. Tornato a casa, ha aperto una scuola calcio e fondato una squadra, il Nania Fc. Nel 2007 l’aveva guidata fino alla promozione in serie A ma nell’ultima decisiva partita i suoi segnarono 30 gol in mezz’ora (i diretti concorrenti 28) e la Federazione ghanese retrocesse entrambe le squadre in quarta serie, squalificando Pelé per un anno. Lui si difese citando Manchester-Roma 7-1. «Segnare tanti gol non è una colpa. Anzi».
DAYO OSHADOGAN Il primo black italian a vestire la maglia azzurra (under 21) 14 anni fa, in Moldavia, ct della rivoluzione Cesare Maldini. Padre nigeriano, madre ligure, difensore: all’inizio lo chiamavano Otello, una volta a Messina chiese all’arbitro la squalifica del campo per gli ululati del pubblico, quello gli rispose «tieni duro ragazzo, mancano solo venti minuti». L’avventura in nazionale durò tre partite, poi la serie C, la Champions al Monaco, il campionato polacco, oggi il Lanciano. Dopo di lui vennero il somalo del Tuscolano Fabio Liverani e l’italo-algerino-guineiano Matteo Ferrari. Fino a Okaka e Balotelli che quando Oshadogan entrava in campo a Chisinau, aveva sei ani.
AKEEM OMOLADE Attaccante nigeriano. Nel 2001, giovane promessa del Treviso, viene gettato nella mischia nel finale di una partita di serie B a Terni. I suoi tifosi nazistoidi arrotolano le bandiere e se ne vanno per protesta cantando «il negro non lo vogliamo». Per vergogna se ne vanno anche gli sponsor. La domenica successiva, contro il Genoa, i suoi compagni di squadra scendono in campo con la faccia dipinta di nero, eccoci siamo tutti negri. Il sindaco sceriffo Gentilini va su tutte le furie («il nero è il colore della retrocessione»), Omolade segna di testa e dice che certa gente non si può educare. Si trasferisce al Torino in serie A, poi scende nelle serie minori inseguito dai soliti ululati. Finchè nel 2008 al Gela sbotta: insultato dagli avversari del Celano ne stende due a pugni scatenando una mega rissa. Chiede scusa e si becca 3 giornate di squalifica. L’ultimo campionato l’ha giocato con la maglia della Vibonese in seconda divisione.
KHALED BADRA E’ uno dei cinque tunisini che Scoglio porta con sè al Genoa nel 2001 dopo aver guidato per 3 anni le Aquile di Cartagine. «Tatticamente è secondo solo a Franco Baresi, in più ha l’autorevolezza di Beckenbauer», spiega il Professore nel presentare il difensore ai tifosi rossoblu. Insieme a Badra arrivano pure Bouzaienne («il Maldini d’Africa»), Gabsi («più forte di Di Livio»), Chockri Elouaer (uno stravagante portiere di quasi 40 anni) e la «pantera del deserto», tale Imed Mhadhbi. Certi giudizi furono rivisti rapidamente, soprattutto su Badra, autore di svarioni memorabili. «Ha commesso una cappella grande 5 volte la Cappella Sistina», sentenziò il Professore. E Badra se ne tornò a casa. (s.pie.)
PIERRE WOME Arrivato giovanissimo in Italia, ha giocato con Vicenza, Bologna, Roma, Brescia e Inter. Nel 2005 il dramma, sportivo e non solo. In Egitto-Camerun, valida per la qualificazione ai Mondiali, Wome sbaglia un rigore al 95' e condanna i suoi a restarsene a casa. Accusa i compagni di averlo lasciato solo a battere il rigore. Eto'o racconta invece che l'ha voluto battere a tutti i costi. A Yaoundè bande di ragazzi gli bruciano la macchina e devastano il negozio della fidanzata. La polizia è costretto a farlo scappare. La nazionale l'ha lasciata perdere.
MARC ZORO E’ il difensore ivoriano del Messina che nel 2005, di fronte ai cori razzisti dei tifosi dell’Inter, prende il pallone sotto il braccio e interrompe la partita. Basta, io non gioco più. Martins e Adriano lo convincono a ripensarci ma quello di Zoro è un gesto che smuove la coscienza intorpidita del calcio italiano e costa il Daspo a 4 razzistoni della curva interista che infatti a San Siro lo accoglie con lo striscione «Noccioline e banane la paga dell’infame». Tre anni fa se n’è andato in Portogallo: nella città di Mourinho i tifosi anti-razzisti del Vitoria Setubal gli hanno dedicato lo striscione «Somos todos Marc Zoro» (quelli del Messina una volta «Ce l’ho quanto Zoro»). Grande amico di Drogba, non è stato convocato in Sudafrica.
ROGER MILLA Camerunese, calciatore professionista dal 1965 (a 13 anni), è stato uno dei simboli del Mondiale di Italia ’90. Aveva abbandonato il calcio professionistico – giocato soprattutto in Francia – e si era trasferito nell'Isola di Reunion, quando fu richiamato in servizio a 38 anni dal presidente del Camerun in persona, con una telefonata. Giocò e fece due doppiette, alla Romania e alla Colombia, portando la sua squadra fino ai quarti di finale. Risultato storico. E popolarità planetaria per Milla, che fu accompagnata da canzoni di ogni genere composte sulla sua storia. Giocò anche il Mondiale del ’94, a 42 anni, e pure quello fu un record.
RACHID NEQROUZ Difensore centrale marocchino, per 7 anni colonna del Bari, dove sbarcò nel ’97 e Fascetti lo trasformò in libero grosso, brutto e cattivo. Le sue gesta sono state cantate da Elio e le storie tese, la sua leggenda è legata alle astuzie messe in gioco per fermare quel branco di centravanti fighetti che si appressava alla sua porta. Una volta, contro la Juve, strinse le palle a Pippo Inzaghi e poi - visto che la cosa non sortiva effetti - tentò di mettergli un dito nel culo. Tutto sotto l'occhio delle telecamere. Era uno che ci metteva l’anima, musulmano osservante: dopo l'11 settembre invitò a leggere gli attentati delle Torri gemelle con gli occhi dei ragazzini di Gaza e scoppiò il finimondo. Un giorno prese a calci Cassano che in allenamento gli aveva fatto un tunnel gridando «Chiudi le gambe» (e prese pure i ladruncoli di Poggiofranco che gli avevano rubato la macchina). Nel 2004 il Bari lo scarica, lui si ubriaca e con un amico algerino distrugge un pub sul lungomare picchiando pure i poliziotti. Da allora si son perse le sue tracce.
GEORGE WEAH «Deodoranti Roberts Noir… ti spoglieranno con gli occhi». Lo spot televisivo nel quale l’asso liberiano entrava in un ristorante elegante, le signore lo vedevano nudo e lui sorrideva a una di loro «Tutto bene?» è probabilmente il momento più folle della carriera italiana del miglior calciatore africano del secolo. Molto fecero per il suo non banale impiego da testimonial «extracomunitario» la maglia rossonera e il presidente Berlusconi, che sostiene di avergli dato pure parecchi consigli in occasione della campagna presidenziale persa da Weah nel 2005. Primo e unico pallone d’oro africano (nel 1995), Weah giocò al Milan per tre stagioni e mezzo. Nel 1996 segnò il suo gol più famoso, contro il Verona: «coast to coast» dalla propria area fino alla porta avversaria scartando sette giocatori e depositando la palla in rete. A metà degli anni ’90 si è convertito all’Islam aggiungendo Ousmane al suo nome. Di soprannome lo chiamavano «Re Leone». Cominciava ogni intervista così: «Ciao a tutti, belli e brutti».
MARIO BALOTELLI Nato a Palermo da genitori ghanesi, affidato a una famiglia bresciana, Balotelli è italiano «come un cinese è cinese». Lo ha dichiarato di recente a «Vanity Fair». Attaccante completo, calciatore esplosivo, promessa assoluta, amico di Fabrizio Corona, testa calda, il razzismo che lo ha colpito in quasi tutti gli stadi d’Italia («Non ci sono negri italiani») è direttamente proporzionale al suo stile eccessivo da «seconda generazione». Un misto di cori ultrà, etica di strada, deriva postcoloniale. Nulla che si possa affrontare, insomma, con le armi spuntate della morale del vecchio calcio (è giovane, deve crescere, eccetera). Pure in questa chiave andrebbe letto il «negro di merda» che gli avrebbe rifilato Totti, assieme a un calcione, nella finale di Coppa Italia. La «generazione Balotelli» è diventata un slogan persino per Fini e la nuova destra. Lippi non se n'è accorto.
NWANKWO KANU Arriva all’Inter nel ’96, fresco campione olimpico con la Nigeria e d’Europa con l’Ajax ma i medici gli riscontrano una grave disfunzione a una valvola cardiaca e lo fermano. Moratti pagò personalmente l'intervento, finendo così per commuovere l'Italia. Segna un solo gol in nerazzurro, poi finalmente guarito passa all’Arsenal di Wenger dove realizza gol pazzeschi. A 34 anni il suo cuore regge ancora e infatti sarà in Sudafrica, terzo mondiale in carriera. L’Inter non curò solo lui: nel 2003 fermò anche il senegalese Fadiga, cuore troppo grande che però non gli aveva impedito di giocare per 10 anni in mezza Europa. Dopo un anno fu rispedito al mittente come l’algerino Rabah Madjer, il tacco di Allah che nel 1988 non passò le visite mediche (solo guai muscolari) e continuò a giocare altrove.
LUCIANO VASSALLO Classe 1935, figlio di un' eritrea e di un soldato italiano in missione al Corno d' Africa, miglior calciatore del continente nel 1962. Era il re del centrocampo, maglia numero 9 e gol facile, il Di Stefano africano. Si fece conoscere nel campionato degli italiani col Gruppo Sportivo Asmara e grazie a un capitano eritreo l’Etiopia conquistò la terza edizione della Coppa d’Africa ricevuta dalle mani dall’imperatore Heilé Sellasiè. Poi ct della nazionale, amico di Abebe Bikila, amato più del dittatore Menghistu che infatti lo costrinse a fuggire da Addis Abeba alla fine degli anni settanta. Trovò rifugio a Ostia, come meccanico. Quando saliva la tensione tra etiopi ed eritrei, lui era solito organizzare sfida di pallone tra i due gruppi. Oggi è proprietario dell’officina e si gode la pensione sul litorale laziale ascoltando Bob Marley.
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John Irving, Giovanni Ruffa
S
low Food è internazionale da molti anni. La sua organizzazione è attiva in tutti i continenti. È chiaro quindi che il pensiero di John e Giovanni non può farsi impressionare più di tanto dal prossimo evento pedatorio nel Continente Nero. Anzi, i due sembrano presi da altre preoccupazioni: la biodiversità in crisi, il cambiamento climatico, gli ogm. John: Penso a questo primo Mondiale in Africa, e penso al Brasile. Giovanni: Anche il mio primo ricordo di una squadra africana al Mondiale riguarda il Brasile. J: Sentiamo. G: Mwepu Ilunga, terzino dello Zaire. Mondiali del 1974 in Germania. J: Cosa ha combinato? G: Non ti ricordi? Il Parkstadion di Kaiserslautern. Brasile-Zaire. Mancano cinque minuti al termine. Punizione al limite dell’area per i verdeoro. Rivelino sta per calciare, ma Mwepu Ilunga, il numero 2 della formazione africana, esce correndo dalla barriera e spara il pallone chi sa dove. J: Mi ricordo eccome. Mio padre stava soffocando nella sua birra. Ilunga si sarà emozionato a giocare contro i maestri del pallone. G: Maestri che comunque all’Africa dovevano e devono tanto. J: Il sociologo Gilberto Freyre scrisse: «I brasiliani giocano a calcio come se fosse una danza. Grazie, probabilmente, all’influenza di quei brasiliani di sangue africano o di cultura prevalentemente africana che tendono a ricondurre tutto a danza, lavoro e gioco». G: «Il calcio brasiliano si gioca a ritmo di musica», disse l’indimenticabile giornalista diventato Ct della Seleçao, João Saldanha. J: Una volta, prima dell’omologazione globale, ai tempi delle scuole calcistiche, i giocatori brasiliani sembravano tutti capoeiristas. G: «È defesa, ataque, ginga do corpo e malandragem… capoeira!». Danza guerriera degli schiavi negri e dei briganti che vivevano nei sobborghi delle grandi città. La sua storia è complessa, ma di certo origina dalla mescolanza di rituali di lotta e danza di tribù africane già colonie portoghesi, deportate come schiave in Brasile. J: Certo è che quando è stato concesso ai neri di giocare a futebol, il futebol è diventato grande. La prima società brasiliana a schierare neri è stata il Bangù di Rio. Uno dei suoi campioni è stato Domingos da Guia che, per evitare di essere menato dai bianchi ha inventato il miudinho, un dribbling a passi brevi ispirato a un tipo di samba. G: Grazie dell’informazione, enciclopedia britannica. Ma forse non sai che il primo Paese al mondo ad avere giocatori di colore in Nazionale fu l'Uruguay, subito dopo la prima guerra mondiale. J: Altrettanto memorabile fu il nero brasiliano Artur Friedenreich, El Tigre, figlio di un tedesco e di una lavandaia di colore, al quale sono stati accreditati 1329 gol, più di Pelé. Grazie a un suo gol proprio contro l’Uruguay il Brasile vinse la terza edizione della Coppa America nel 1919. G: Anche se la lotta contro la segregazione razziale nel calcio sudamericano durò a lungo. Ancora nel 1921 il presidente del Brasile Epitacio Pessoa vietò ai giocatori di pelle scura di prendere parte alla Coppa America. Essere mulatto nel calcio brasiliano non era facile: Friedenreich prima di entrare in campo si stirava i capelli, il terzino della Fluminense Carlos Alberto si schiariva la faccia con polvere di riso. Ti ricorda qualcosa? J: Il Sud Africa dell’apartheid? G: Risposta esatta. Tornando al Brasile, ricordo che nel 1968 per celebrare l’800˚ anniversario della fondazione della città di Alessandria, fu organizzata un’amichevole al Moccagatta contro il Santos di Pelé. Io c’ero. J: Hai visto giocare la «perla nera»? G: Certo. Ma il mio ricordo più limpido è quello dell’ala sinistra Edu. Che tecnica, che passo felpato. J: Anche se era po’ grassottello. Lo ricordo anch’io Jonas Eduardo Américo. Detto Urubu bonito, il bell’avvoltoio nero. Somigliava a Louis Armstrong. Nella Seleção, è stato riserva di Paulo César Caju. Urubu feio, il brutto avvoltoio nero. G: Che somigliava a Sammy Davis Junior. J: Al Mondiale del 1970 in Messico, erano tutt’e due riserve. La panchina verdeoro sembrava un complessino jazz. G: Il jazz. Altro regalo dell’Africa alla cultura occidentale per il tramite del blues. Ricorda che alla fine del XVIII secolo ci sono in Ameri-
ca 3 milioni di schiavi neri. La loro musica nasce acustica e rurale nel delta del Mississipi e diventa elettrica e urbana con la grande emigrazione al Nord nella prima metà del ’900. J: E chi ti credi? Alan Lomax? Torniamo al pallone. Lì il comune denominatore siamo noi inglesi. G: I soliti colonialisti sfruttatori. J: E anche «missionari» dello sport. Abbiamo insegnato il cricket agli indiani e il calcio ai brasiliani. E anche a voi italiani. G: Rubando cacao, banane e minerali. J: Il nome di Charles Miller non ti dice nulla? Fu quello che, sbarcando al porto di Santos nel 1894, portò i primi due palloni di cuoio in Brasile, uno per mano. G: Mbé? J: È ricordato come l’inventore del calcio brasiliano. Se un giorno andrai a São Paulo, in centro troverai la Praça Charles Miller. G: Ne parli come se fosse uno di quei grandi esploratori vittoriani. J: Grazie dell’assist. Sai che quando David Livingstone arrivò nell’allora Rhodesia, portò con sé tre cose: la Bibbia, una valigetta con gli attrezzi medici e un pallone. G: E il Sud Africa? J: Lì il calcio lo portarono i soldati inglesi
IL PORTOGHESE-MOZAMBICANO EUSEBIO AI MONDIALI INGLESI DEL 1966. A SINISTRA IL SUDAFRICANO STEVE KALAMAZOO MOKONE CHE GIOCÒ ANCHE IN ITALIA, AL TORINO, NEL TORNEO DE MARTINO
impegnati nella guerra contro i boeri. Si racconta che, verso la fine della seconda guerra boera, durante una tregua si disputò una partita tra rappresentative dei due eserciti. G: WM contro calcio totale, scommetto. J: Tu scherzi, ma il calcio dei bianchi sudafricani ha sempre subito l’influenza britannica. Molti reduci della nazionale dei tre leoni che vinse i Mondiali del 1966… G: …che io ricordo soprattutto per le imprese di due mozambicani: Mario Coluna, o monstro sagrado, ed Eusebio, o pantera negra, il capitano e il puntero della nazionale portoghese. I migliori del torneo. J: Potrei essere d’accordo. Ma quello che volevo dire è che Bobby Moore, Alan Ball, Geoff Hurst e Roger Hunt hanno appeso le scarpe al chiodo in Sud Africa. G: Dove regnava l’apartheid. Che vergogna. J: Quelli tornarono subito in patria. Altri rimasero là a fare gli allenatori e i commentatori tv. Come Terry Paine, riserva di Ball nel ’66. G: E nel 1992, quando la Fifa riammette il Sudafrica nel meraviglioso mondo del calcio internazionale? J: Anche allora noi inglesi siamo in prima linea. La panchina dei Bafana Bafana fu affidata a un certo Jeff Butler. G: Ex campione anche lui? J: Sì e no. Presentò un curriculum vitae taroccato. Affermava di avere giocato nel Notts County.
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Da Eusebio a Pelé, il sangue africano scorre nelle vene dei grandi danzatori del pallone. Poi un giorno a Torino scoprimmo la Meteora Nera di Johannesburg, Kalamazoo Mokone G: E non era vero? J: No, ci aveva giocato suo cugino. Svelato l’inganno comunque, Jeff si dimise. Noi inglesi conosciamo l’etica professionale. G: Hai altre chicche? J: Certo, tornando alle guerre boere, ci fu un’altra partita che cambiò sia la storia del calcio che quella della lingua inglese. G: Uuh, addirittura. J: Sì, scusa, il Kop, cos’è? G: La curva del Liverpool. J: Sì, ma non solo. Una volta, quando ero bambino, il mio caro Carlisle United doveva giocare fuori casa col Preston in FA Cup. Mio padre decise di portarmi, la mia prima trasferta. I nostri biglietti recavano la scritta «Settore: Spion Kop». Lui mi raccontò che, in afrikaans, Spionkop vuol dire «collina» (kop) che funge da «posto di osservazione» (spion). G: Stringi. Torniamo alla guerra boera. J: Sì, fu organizzata una partita tra una rappresentativa del reggimento dei Gordon Highlanders e un'altra dei reggimenti del Natal. G: Scozzesi contro inglesi, insomma. J: Sì, solo che, a quanto pare, i boeri, appostati sopra uno Spionkop vicino, lanciarano una granata in campo, e nella confusione gli Highlander ne approfittarono per fare gol. G: E quelli del Natal si incazzarono con i boeri, immagino. J: No, con la Federazione inglese, che convalidò il gol. G: Scandalo! Kopopoli! J: Da allora la parola «Kop» è entrata nella lingua inglese per significare un posto dove si osserva una partita di calcio. Non solo a Liverpool. A Preston, già citata, a Blackpool, Sheffield, Wigan, Northampton, Leicester, Birmingham, Coventry… G: Coventry! Dove iniziò la sua carriera europea Kalamazoo. J: Kalama… chi? G: Steve «Kalamazoo» Mokone, naturalmente. Un mito nella storia del Toro, che ebbe un ruolo storico anche nel calcio inglese. J: Sono tutto orecchie. Io sono rimasto ad Albert Johanneson, nero sudafricano del Leeds United, che vide la neve per la prima volta a Carlisle e morì nel 1995, rovinato dall’alcol, senza un penny, a soli 53 anni. G: Ma non sai che Steve fu il primo nero su-
dafricano a giocare in Inghilterra. Nel Coventry City appunto. J: Quando? G: Nel 1956. Poi passò all’Heracles Almelo. J: Mai sentito. G: Almelo è una cittadina dell’Olanda. Se un giorno ci andrai, in centro troverai una via dedicata a Kala. Nel 1957-58, aiutò la squadra locale a vincere la Terza Divisione B. J: Terza Divisione olandese? Grandi livelli. G: Non finisce qua. Kala poi giocò, in ordine, nel Cardiff City, nel Barcellona, nel Marsiglia (dove aprì una fabbrica di scarpe da gioco), nel Barnsley, nel Toro e nel Valencia. Dopo una breve esperienza in Australia, chiuse la carriera in Canada. J: Beh, una vita da girovago del pallone come tanti. L’unico aspetto particolare mi sembra il numero di chilometri percorsi, più dei food miles di un ananasso! G: Ma ascolta questa. Dopo una vittoria del Toro sul Verona - 5-2, cinquina di Kala - il vecchio cronista de La Stampa Beppe Bracco scrisse: «Se, fra i giocatori di calcio, Pelé è la Rolls Royce, Stanley Matthews la Mercedes Benz e Di Stefano la Cadillac, beh, allora Kala è la Maserati». J: Caspita, paragoni impegnativi. G: Non solo. Dopo un’amichevole giocata a Kiev contro la Dinamo, un radiocronista commentò: «In quarant’anni che mastico calcio di ogni parte del mondo, non ho mai visto un gol più bello di quello segnato stasera da Kala, a parte quello di Pelé contro la Svezia nella finale di Coppa del Mondo nel 1958». J: Così, si chiude il cerchio. Dal Brasile al Sud Africa. Da Pelé, di Três Coracôes, stato di Minas Gerais, Brasile, detto a pérola negra, la perla nera… G: …a Steve «Kalamazoo» Mokone, di Doornfontein, Johannesburg, in Sud Africa, detto De Zwarte Meteoor, la meteora nera.
1988, LO ZAMBIA E L’INCUBO BWALYA Olimpiadi di Seul, 1988. L’Italia di Francesco Rocca affronta lo Zambia. Africa nera, ex Rhodesia del nord, religione animista. Un bronzo nel pugilato in sei partecipazioni olimpiche, il calcio conosciuto grazie a un esploratore scozzese. Gli azzurri schierano gente del calibro di Ferrara, Tassotti, Virdis, Mauro e Carnevale. I carneadi zambiesi però infilano quattro volte l’incredulo Tacconi, uno smacco che rievoca la Corea del ’66. Sigla tre reti un minatore nato in una capanna col corpo disegnato da Prassitele, Kalusha Bwalya. L’incubo nero del calcio italiano. Assieme a due soli connazionali, il bomber africano scamperà poi alla sciagura aerea sulle coste del Gabon che nel 1993 cancella tragicamente la nazionale arancione. Bwalya militava nel Psv Eindhoven, avrebbe dovuto raggiugere la squadra con un altro volo. (n.sel.)
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UN TIFOSO DEL CAMERUN A SAN SIRO PER LA GARA INAUGURALE DEI MONDIALI DI ITALIA ’90 QUANDO I LEONI INDOMABILI SUPERARONO A SORPRESA I CAMPIONI IN CARICA DELL’ARGENTINA. A CENTRO PAGINA, DIEGO ARMANDO MARADONA NELLA MORSA CAMERUNENSE, IN BASSO SAMUEL ETO’O VERSIONE DJ. NELLA PAGINA A FIANCO ANTONIO ALBANESE NEI PANNI DI FRENGO E STOP, PERSONAGGIO DI CULTO DEL PROGRAMMA TV «MAI DIRE GOL». IN BASSO L’ATTACCANTE NIGERIANO YEKINI PREGA DOPO UN GOL A USA ’94
Osvaldo Soriano
A
l tramonto di venerdì gli africani d’Italia hanno dimenticato per alcune ore le pene degli ultimi tempi. Nei quartieri bassi di Milano e intorno alla Stazione Termini di Roma grandi sorrisi, e molti immigrati che palleggiavano cartacce, barattoli di birra e tutto ciò che era alla portata dei loro piedi. Il Camerun ha battuto la squadra di Maradona e questa vittoria ha il sapore di una rivincita contro il mondo ostile. I giocatori allenati dall’argentino Carlos Bilardo non si sono nemmeno accorti che gli africani giocavano qualcosa di più di una partita di calcio: fra tutti i poveri della terra erano i più poveri, non potendo trovare conforto nemmeno in una partita di calcio. Finché venerdì la storia è cambiata. L’inaugurazione del primo mondiale del proibizionismo e del post-moderno è dedicata a quelli che ancora credono che la rappresentazione della vita si giochi anche in un campo di calcio. Con un giocatore in meno, il Camerun è andato in vantaggio ed è riuscito a difendere il gol di Omam Biyik con soli nove uomini, sbriciolando il prestigio di Maradona e dei sudamericani. Bilardo aveva insistito tanto che tutto si sarebbe giocato a centrocampo, da dimenticarsi di avvertire Nery Pumpido che qualcuno poteva anche tentare di buttare la palla in rete. Il portiere argentino, che ha già 32 anni, ha commesso il più infantile degli errori prima di cominciare la partita: mentre ascoltava l’inno del suo paese ha alzato gli occhi sulle tribune piene di San Siro. Persino un bambino sa che non si deve guardare un pubblico che tifa per gli avversari, tranne se è una sfida, come fece il grande uruguaiano Obdulio Varela, nel 1950, nel Maracanà di Rio de Janeiro. Quel giorno Ob-
Italia ’90, gara inaugurale del primo mondiale del proibizionismo e del post-moderno. Ridotti in nove, i leoni indomabili superano i campioni in carica dell’Argentina con un gol di Oman Biyik. Così Osvaldo Soriano raccontò il grande banchetto africano che sbriciolò il prestigio di Maradona dulio fece zittire le centomila persone che festeggiavano il gol del Brasile e cambiò una partita impossibile. Venerdì invece, Pumpido ha alzato lo sguardo perché insicuro, e ciò che ha visto deve averlo terrorizzato. Più tardi si farà scappare un pallone del tutto inoffensivo e così comincerà la felicità per gli africani del Camerun. Dopo la partita, tranne gli argentini e i metalmeccanici caricati dalla polizia, erano tutti contenti. Ma c’è un po’ d’ipocrisia tra quanti si stupiscono dei «simpatici» camerunesi, che non si sono stancati di malmenare Maradona e Caniggia, malgrado l’arbitro Michel Vautrot abbia tentato con due espulsioni di mettere un po’ d’ordine. Questi africani non sono proprio degli angeli e nemmeno lo pretendono: se gli si concede lo spazio necessario per giocare con il pallone possono essere pericolosi, perché difendono il loro mito di invitta povertà ed è molto probabile che con un altro punto possano anche entrare negli ottavi di finale. Ma le loro gesta non possono cancellare altre dolorose realtà: il rozzo culto della personalità a «sua eccellenza» Paul Biya, che si pavoneggiava insieme con Cossiga, Menem e Collor de Mello nella tribuna ufficiale; gli arbitrari arresti degli ultimi mesi di Yaoundé – tra gli oppositori
SAMUEL ETO’O, L’IMMAGINE DEL SUCCESSO (E 30 MACCHINE IN GARAGE) Samuel Eto’o ha una casa di mille metri quadrati in centro a Milano, con la piscina sul terrazzo. Proprio di fronte alla sede del Milan. Ha trenta automobili in garage. Ne fa collezione. Coltiva una passione sfrenata per lo shopping nel triangolo della moda. E' il testimonial di Puma, per la quale in un famoso spot televisivo mostrò allegramente il culo. Insomma, è l'immagine del successo. Triplete al Barcellona, tripletta all'Inter, dov'è stato l'immagine di una stagione intera nel segno di Mourinho, da quando lo Special One lo ha costretto a fare la spola tra attacco e difesa. Protagonista anche di uno dei più celebri gesti antirazzisti della storia del calcio, quando minacciò di lasciare il campo del Saragozza dove era stato bersagliato da bu e noccioline, e fu fermato a fatica dai suoi compagni di squadra. Il Saragozza fu multato per 9000 euro, Et'o si fece una risata e disse che avrebbero dovuto chiudere lo stadio per un anno. Ha dichiarato spesso che i suoi figli allo stadio non ce li manda, proprio per via del razzismo di certi tifosi.
incarcerati ci sono il giurista Yondo Black e lo scrittore Albert Mukong – la tortura come sistema di estorsione e intimidazione. Lo sconfitto Carlos Menem (che ha confermato la sua fama di jettatore di fronte a tutti i tifosi argentini), nel frattempo si prepara a concedere un indulto sospettosamente ampio per i militari genocidi che ancora sono in prigione in Argentina. Nel frattempo gli italiani aspettano la loro prima battaglia di questa nuova guerra mondiale. Ma una guerra postmoderna, soft o light, trasmessa al mondo intero da 16 telecamere dietro le quali si accumulano tanti soldi come quelli che guadagnavano i fabbricanti di missili ora caduti in disgrazia. Che il calcio prenda il posto della guerra è un trionfo di grande umanità. Non vinceranno né gli Stati uniti né l’Unione sovietica e questo è già un passo avanti. Ma tra un mese questa guerra sarà finita e il mondo sarà di nuovo in pericolo. Nel frattempo milioni di africani sognano di aver spinto quel pallone che perse il terrorizzato Pumpido. Italiani, sovietici, arabi, tutti sudano davanti ai televisori come o più gli undici in campo. Come nella roulette la palla gira, scorre il denaro e i cuori si agitano: qualcuno può immaginare cosa ha sentito Oman Biyik nel momento del gol africano? Sì, forse chi si ricorda degli sguardi incrociati con il uso primo amore adolescente; o un navigante fuori rotta che intravveda all’orizzonte la figura di una nave. E il povero Pumpido? Per un istante, quando Menem è sceso negli spogliatoi, è diventato il paralitico Couton all’Assemblea del Termidoro. Tutti hanno giocato male ma è stato lui a sistemare il vassoio per il grande banchetto degli africani. dal manifesto del 10/06/1990
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1982, IL PAREGGIO SOSPETTO PRIMA DEL TRIONFO AZZURRO Il 23 giugno 1982 a Vigo, ultima gara delle eliminatorie mondiali, l'Italia chiede al Camerun il pass per gli ottavi di finale. Dopo i sofferti pareggi con Polonia e Peru, serve almeno un punto. I camerunensi resistono sessanta minuti, sino alla rete di Graziani. Pareggiano un minuto dopo con Mbida, poi
in campo è melina. Finisce 1-1 e l’Italia si qualifica per la migliore differenza reti. Per gli azzurri è il punto più basso della spedizione spagnola, tra interrogazioni parlamentari sui premi e Bearzot «minus habens». Poi la seconda fase strabiliante, i successi inaspettati su Argentina e Brasile, il trionfo del Bernabeu sulla Germania Ovest. Due anni dopo ecco lo scandalo: secondo il giornalista di «Repubblica» Oliviero Beha la Federazione comprò il pareggio coi soldi della Camorra (30 milioni per ogni giocatore). Aveva raccolto la soffiata dei servizi segreti di Yaoundè e la confessione in carcere del capoclan Michele Mazza, amico del presidente federale Sordillo. Scalfari rifiutò di pubblicare l’inchiesta, Beha fu spostato in cronaca e poi licenziato. (n.sel.)
Antonio Albanese Enzo Santin
I
talia 2, Nigeria 1, la partita regolamentare, a tratti supplementare. La notte della vigilia, nel silenzio ovattato della sua cameretta cosmica, Infallibilità Sacchi, pesando e ripensando ai perché, ai percome, ai why e ai because delle tattiche di gioco contro la Nigeria, si ritrovava a vagare in un inquientate labirinto senza uscita. La sua incrollabile fede cominciava a vacillare. Ma all'improvviso, come un'apparizione biblica, si manifestava davanti ai suoi occhi increduli Onnipotenza Berlusconi nelle sembianze di un gigantesco tubo catodico: «Mio caro Arrigo Sacchi, mio adorato Recchia di Gomma, mi riconosci? Sono io, il tuo Presidente, signore e padrone di tutte le antenne visibili e invisibili. Alzati e cammina, ora devi compiere il Miracolo italiano». Illuminazione Sacchi, colto dal furore mistico degli schemi tattici, svegliava i suoi fedeli giocatori evocando lo spettro della Nigeria e organizzava rapidamente una partita di prova nel cuore della notte. Da una parte i sonnambuli azzurri, dall'altra i fantasmi nigeriani. E quando gli italiani, dopo ore e ore di allenamento, in compagnia degli spettri, cominciavano ad avvertire i primi sintomi di disfacimento fisico, tutto ad un tratto, come un qualcheccosa di imprevedibile, i fantasmi svanivano nel nulla, ed entravano in campo i nigeriani, quelli veri. Fischio dell'arbitro, inizio della partita. Quella vera. Nel primo
Usa ’94: «Infallibilità Sacchi» rischia grosso contro la banda Yekini. Il nuovo miracolo italiano del «Codino di gomma» nella fredda cronaca di Frengo e stop tempo, Codino di Gomma Baggio guidava la squadra come uno spericolato pilota e trascinava i suoi in una enigmistica giostra di automobiline a pedali, creando ingorghi e tamponamenti a catena. Sulla complanare del gioco si alternavano così momenti di immobilità ad attimi di paralisi motoria. Intanto i nigeriani, zitti zitti, per non disturbare gli avversari, così per passa-
tempo, giocavano un po' a calcio. E ad un certo punto, Tempismo Amunike guardava Maldini e gli poneva una spiritosa filastrocca nigeriana: «Se tu mi dai una palla a me, io ti faccio gol a te». Ingenuità Maldini, che non era poliglotta, cadeva nella trappola dell'umorismo, e nel divertimento generale di Incredulità Marchegiani la palla entrava in rete. Nigeria 1, Italia 0. L'io di Sacchi si frantumava di fronte al peso dell'impossibilità. Durante l'intervallo, negli spogliatoi, così per rilassarci nel pluralismo dell'informazione, abbiamo fatto un po' di zapping. Tutti insieme in compagnia abbiamo visto: su Raiuno Funari News, su Raidue il Tg4 e in diretta su Raitre un'allegra sfilata di programmi in costume regionale, e poco dopo, a reti unificate, è apparso a tutto schermo il volto di Sportività Berlusconi che esortava gli azzurri alla riflessione: «Siete partiti carichi di speranze, vi aspettiamo per caricarvi di mazz't». Nel secondo tempo, la fredda cronaca di una rimonta soprannaturale. Mentre sul tavoliere di gioco sfrecciava come una meteora Attimo Fuggente Zola, quando tutto sembrava perduto, poco dopo, dopo poco, poco poco dopo dopo, Buddismo Baggio vedeva passare una palla, scendeva dal'automobilina a pedali, e cominciava a giocare a calcio: tiro a Baffo de Copertone, gol, pareggio. Nel terzo tempo, anatomia di un trionfo. Resurrezione Baggio saliva le vette della gloria pigghiando 'a funicolare del rigore: palo, doppio palo, traversa, incrocio dei pali, gol, doppio gol, 2 a 1. Cistaffec' Zola, Signori, Massaro?! Roby Roby forever Roby, abbiamo sempre creduto in te. Nel quarto tempo, i giganti nigeriani nulla potevano di fronte allo strapotere atletico dei crampi degli azzurri, e subito dopo, il testone di gomma di Santificazione Sacchi diventava meta di pellegrinaggio per tutti i fedeli di Forza Italia. Nel quinto tempo, in sala stampa, don Tonino Matarrese dimostrava un cauto ottimismo: «Contro la nazionale spagnola basterà un pareggio, e saremo in coppa Uefa». Annunciato da un celestiale karaoke, prendeva la parola la nostra affezionata mascotte, il ministro gonfiabile Mongolfiera Ferrara: «Abbiamo fatto un decisivo passo avanti verso il nuovo Miracolo Italiano, ora non ci resta che camminare sulle acque». dal manifesto del 08/07/1994
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Da Tom Clegg a Cheik Doukouré, il football raccontato sul grande schermo come diletto collettivo e odissea di speranza. Con ironia e disincanto Roberto Silvestri
«L
oro sono arrivati. Li abbiamo incrociati nel sottopassaggio. Questi qui avevano le radioline, ballavano. Cioè… Mi avevano fatto un po’ impressione perché non pensavano proprio alla partita…». Così Marco Tardelli, ancora nervoso, ricorda oggi, strani e ricchi dentro, i giocatori del Camerun gialloverde, e quel 1-1 che ci portò agli ottavi. Proprio Tardelli, che sarebbe poi diventato il simbolo dei Mondiali 1982, dopo il gol segnato alla Germania in finale, e grazie al suo urlo psicotico e liberatorio, rallentato all’inverosimile nel film ufficiale sul Mundial, G’olé dell’inglese Tom Clegg, commento di Stan Hey, voce di Sean Connery. Nervosismo, silenzio stampa, concentrazione sull’obiettivo, quasi da ragionieri invasati di lavoro, calcio-scommesse e mistica patria (a suon di premi partita). Questi gli azzurri. E sarebbero peggiorati, di mondiale in mondiale, fino al fondamentalismo del «risultato» di oggi, in campo, in tv e fuori (nonostante i tanti calciatori africani che, da quel momento, cominciarono a arrivare nella nostra serie A, B e C). E, di contro, da Douala e Yaoundé un modo di intendere il calcio rilassato e godereccio, una
CAROSIO E LA LEGGENDA DEL GUARDALINEE ETIOPE Seyoum Tarekegn è il guardalinee etiope che costò il posto di telecronista della nazionale a Nicolò Carosio, l’Omero del pathos nazionale. Accadde ai mondiali del ’70, Italia-Israele, uno scialbo 0-0. Tarekegn fece annullare un gol a Gigi Riva per dubbio fuorigioco, secondo la leggenda Carosio si inalberò e gridò al microfono :«ma che combina quel negro?». L’ambasciata etiope presentò una protesta formale, il re delle telecronache fu richiamato in patria, poi lasciato in Messico ma degradato a favore di Nando Martellini. Negli archivi Rai però non c’è traccia dell’insulto, al massimo «L’etiope sbandiera, l’etiope lascia correre». Forse fu un equivoco, qualcuno dice un cortocircuito causato da Enrico Ameri che in radiocronaca annunciò «Il Negus si è vendicato».
maniera di amare il football prima di tutto come un gioco di destrezza e di invenzione, forma suprema di diletto collettivo, degna della «allegria del popolo» dei propri tifosi, competenti ma disincantati. In quel documentario non c’è passaggio o assist riuscito tra i nazionali del Camerun che non sia sottolineato da applausi, risate e occhiate di complicità. Applausi che, recentemente di moda in Europa, diventano perfido dileggio sottolineato del compagno mal servito, in forma di ipocrita ammirazione. Sogno, non ossessione. Abbiamo imparato allora che i popoli sottosviluppati (da noi) sono super-gaudenti, nonostante gli straordinari (quanto a scioperi e lotte sociali) che li costringiamo a fare contro le loro classi e eserciti dominanti. Il Camerun e gli altri non avrebbero mentalità vincente? Palle. L’importante per l’afrocalcio è vincere sprigionando virtuosismo contaggioso, cioé anticipare un trand di mercato, il football spettacolo: non si paga per vedere 22 giocatori sempre tesi, terrorizzati o paralizzati (dalla paura di perdere le partite, le scommesse, e il favore dei Moggi di turno). Non si seducono i ragazzini se gli si promette un avvenire da «Miccoli alla Juve». Quel documentario resta la prima testimonianza, occidentale, di uno stile calcistico altro, ma di alto quoziente tecnico, tattico e umoristico. Professionisti come Milla e N’Kono fecero andare ai pazzi, con la loro autoironia, non solo i giocatori ma anche la stampa e i critici italiani. Tanto che qualcuno, più furbetto, ebbe modo di nascondere il proprio turbamento, culturale e etnico, inventandosi complotti e combine. In un paese che, da Paolo Rossi in giù stava imparando a farsi corrompere tutto. Del Camerun, e di Douala, è anche il pioniere del cinema subsahariano e ex giocatore professionista in Francia nel 1960 e 1961, Jean-Pierre Dikongue-Pipa che nel 1980 dedicò alla squadra Canon di Yaoundé, e ai suoi giocatori, vincitori della coppa d’Africa, un magnifico documentario, Pka Koum che festeggiava ben tre «tituli», 1971, 1978 e 1980. Il regista del Camerun Jean Pierre Bekolo, 45 anni, sta finendo il montaggio delle 15 ore di girato sul giocatore dell’Inter e militante anti razzista Samuel Eto’o. E’ un film biografico, metà fiction metà doc, con riprese anche in Ghana, Barcellona, Milano, Sudafrica (il film inizia durante la festa per l’89˚ compleanno di Nelson Mandela alla presenza del leone indomabile e di Pelé), che conterrà interviste a campioni del passato come Roger Milla. E, se non c’è film africano, o girato in Africa, senza, magari solo sullo sfondo, nel campetto polveroso, una partita di calcio (da A nous la rue di Mustapha Dao, Burkina Faso, 1989, a Invictus di Eastwood, 2010), non c’è settore o tema calcistico che non sia stato ben analizzato, come le potenti armi del cinema di genere (com-
media, drammi, musical, film d’arte, horror, film per ragazzi…) dai nostri cugini neri e non solo dell’altra riva. Basta pensare alle parodie di Nollywood (e non dimentichiamo che la super star Uche Jombo rivendica un passato da calciatrice di strada), ai due film sul calcio di Rod Hay che in Sudafrica ha girato A way of life (1981) sul black soccer e Will to win (1982) sulla squadra dei Kaiser Chiefs. O alla commedia per famiglia del 1994 Le ballon d’or di Cheik Doukouré (coproduzione Guinea Conakry-Francia), la sto-
ria di un ragazzino di 8 anni, Will Bandian, fanatico pazzo del calcio e di Milla, che vuole diventare un leone indomabile ma è conscio che gli ci vorranno almeno 522 giorni di lavoro duro per pagarsi un pallone come si deve. La fatina «Madame Aspirine», dottoressa bianca di Medicine sans frontieres glielo regalerà, e gli amici glielo dipingeranno, auguralmente, d’oro. Ma il ragazzo dovrà fuggire da Douala e ne passerà di tutti i colori prima di approdare al Sant Etienne. Odissea che non scoraggerà,
nella realtà, centinaia di talenti in cerca di gloria e soldi che, novelli Weah, hanno trasformato e impreziosito tecnicamente il nostro calcio (con ritardo di decenni rispetto a quello, diversamente razzista, dei paesi lusofoni, e questo spiega la mancanza di rispetto di Mourinho per la parziale cultura calcistica italiana), come ci ricorda il documentario di finzione Football fables di Baff Akoto (Ghana, 2009), piccoli campioni crescono, da Accra in Gran Bretagna, attraversando una selva oscura fatta di agenti, manager,
UN’IMMAGINE DEL FILM «LE BALLON D’OR» DI CHEIK DOUKOURÉ (1994). A DESTRA UN GRUPPO DI TIFOSI DELLA COSTA D’AVORIO DAVANTI ALLA TV DURANTE I MONDIALI DEL 2006 IN GERMANIA /FOTO AP
I HAVE A TEAM - GIUGNO 2010 • 15
A. Pi.
«C
ampioni del mondo», disse per tre volte Nando Martellini, nel 1982. «Campioni del mondo», ripeterono Fabio Caressa e Beppe Bergomi nel 2006: era come un remix, da discoteca. 43 anni, romano trapiantato a Milano, Caressa sarà anche stavolta la voce delle telecronache della Nazionale targate Sky. L’abbiamo incontrato poco prima che partisse per il Sudafrica. Anche con lui abbiamo parlato della lunga marcia dell’Africa del calcio. «Anch’io l’Africa l’ho scoperta grazie al calcio, ho commentato la coppa d’africa in Burkina Faso nel ’98, poi nel 2000 sono stato in Ghana quando allenava la nazionale Beppe Dossena, l’anno scorso la Confederations Cup in Sudafrica...». Vorrei chiederti subito se hai mai visto all’opera i tuoi colleghi africani. Sì, e hanno una passione straordinaria, una grande preparazione. Ma soprattutto hanno libero accesso nei ritiri delle loro nazionale. Cioè, i ritiri africani sono profondamente diversi dai nostri. Sono aperti, amichevoli, anche molto divertenti. Il mio dubbio rispetto a questi mondiali è che non so quanto questo paghi. A Sky lavora con noi Malu Mapansinkatu, che è del Congo, lui è fortemente ottimista. Come tutti i suoi colleghi ha grandi rapporti coi «fratelli», come chiama tutti i calciatori africani. E’ il loro stile: il concetto di fratellanza nera nel calcio è molto pronunciato. E’ rispuntata in questi giorni la storia di Niccolò Carosio che perse il posto in Messico per aver dato del «negretto» a un guardalinee etiope. Pare che le cose siano andate diversamente, ma chiedo anche a te se hai mai avuto problemi del genere, di politically correctness. Non cerco il politically correct a tutti i costi, ma no. Durante i mondiali del 2006 ebbe qualche problema Beppe Bergomi perché disse dei giocatori africani – lui ha giocato con Taribo West e altri – «ho notato che ogni tanto hanno dei problemi di concentrazione». Figurati se Beppe, cattolicissimo, voleva dire qualcosa di offensivo. Voleva semplicemente dire che per come crescono i giocatori africani sono più brasileiri e meno difensori, tutto qui. Commentare le partite negli stadi italiani significa invece chiedersi se ascoltare e commentare i bu bu che ogni tanto salgono dalle curve. Se noi dessimo meno spazio ai bu bu, queste cose scomparirebbero, perché vivono anche della pubblicità che gli diamo, fatalmente. Certo che se tutto lo stadio fa dei bu bu razzisti allora uno lo dice, lo denuncia.
I MONDIALI PIÙ TELEVISTI DI SEMPRE NEL PAESE CHE ACCESE LA TV NEL 1976 Il Sudafrica accese la televisione soltanto nel 1976, con 20 anni di ritardo sul resto del pianeta ma è già stato calcolato che i prossimi Mondiali nella nazione arcobaleno saranno l’evento sportivo più televisto di sempre: 125 milioni di teletifosi a partita, 350 per la finale, un pubblico virtuale di quasi 10 miliardi di telespettatori per l’intero torneo. L’Africa sarà l’unico continente dove tutte le partite saranno trasmesse gratuitamente in chiaro (Al Jazeera permettendo). In Italia la Rai manderà in onda 25 gare (tra cui quelle degli azzurri, semifinali e finale), le altre 39 in differita. La copertura totale la offrirà solo Sky che due anni fa ha comprato i di-
Ti sarà capitato di commentare in diretta la «saga» di Balotelli, i buu e tutto il resto... Balotelli un po’ se le cerca, questo è indubbio. Però è anche vero che prima bisogna sapere qual è stata la sua storia. Mi dicono che lui era così anche a dodici-tredici anni, che ha avuto problemi a Lecco mi pare. Certo che c’è del razzismo contro Balotelli: se fosse bianco qualcuno sarebbe più tenero con lui. Detto questo, il ragazzo deve crescere… Però non portarlo al Mondiale…. Di sicuro non c’è nessun razzismo nella scelta di Lippi. La valutazione è se puoi metterti in casa un ragazzo simpatico che negli ultimi anni ha litigato con tutti in campo…. Un’altra valutazione poteva essere: lui è un simbolo, è la generazione Balotelli, è fortissimo. Portiamolo ai mondiali, facciamo vedere che esistono «negri italiani!», tanto per rovesciare lo slogan delle curve… C’è tempo, ha vent’anni. Adesso, per come gioca, può decidere la partita, oppure tira un calcio a uno e ti ritrovi in dieci. Io sono convinto che è l’attaccante più forte del mondo, e che deve maturare qua, non all’estero come si dice. Ti faccio un’altra domanda, generica. Il calcio ha una funzione educativa rispetto al razzismo? Se prendi dei giocatori tipo Eto’o, oppure gli africani dell’Udinese, forse sono stati fatti più passi avanti verso l’integrazione nel mondo del calcio, che in tutto il resto del paese. Pensa pure a quello che successe a Treviso, dove tutti i giocatori si dipinsero la faccia di nero per solidarietà con Omolade. Il calcio ha un potenziale di comunicazione enorme, dovrebbe sfruttarlo e forse non lo fa abbastanza. Io prima di partire per il Sudafrica mi sto leggendo due libri sulla storia di questo paese, spiegare le cose è importante. E poi va bene fare due ore di pal-
ritti da viale Mazzini nell'ambito dell'accordo di scambio con i diritti delle Olimpiadi 2010 e 2012. In Sudafrica la tv di Murdoch lancerà il canale Panchine, una sorta di Grande Fratello (ma senza audio) dedicato ad allenatori e riserve sui quali sarà puntata una telecamera fissa per tutta la partita. L’audio multiplo consentirà di ascoltare le sfide più importanti con la voce originale dei telecronisti stranieri (brasiliani, argentini, spagnoli, tedeschi), l’Italia di Lippi avrà un canale ad hoc (Azzurri 24). Tutto in alta definizione, col ritorno in studio di Ilaria D’Amico e l’ingaggio di un mito del calcio come Zico in qualità di commentatore. La Rai ha provato a convincere Baggio e Cassano che però ha prefirito convolare a nozze, al suo posto Maurizio Costanzo e forse il caro vecchio Trap.
Intervista a Fabio Caressa, prima voce delle telecronache mondiali di Sky. «Ho scoperto l’Africa attraverso il calcio nel ’98 in Burkina Faso. Poi in Ghana con Dossena ct e i cuochi coreani, che libertà in quei ritiri. L’inverno sudafricano favorirà lo spettacolo, attenti all’Italia»
lavolo a scuola, ma la storia dello sport è una materia che può dare educazione ai ragazzi come poche altre nella vita. Quanti ragazzi conoscono la storia di Jesse Owens? Perché non gliela raccontano a scuola? La scuola è il luogo dove intanto, silenziosamente, l’integrazione va avanti. La scuola, e magari i campetti di calcio di periferia. Io li sto frequentando in questo periodo, ci registro una trasmissione. E lì vedo la seconda generazione degli immigrati che comincia ad avvicinarsi al mondo del calcio. Li conosciamo: parlano bresciano, milanese, fanno il tifo per l’Inter. Ma la cosa più importante è che nello spogliatoio non c’è differenza. Ci può essere antipatia personale, ma razzismo no. Io sono ottimista. Ti ricordi Italia-Zambia 0-4, alle Olimpiadi? Come no!? E ne ho riparlato con Tacconi e con Rocca. Loro raccontano che dello Zambia si sapeva pochissimo, era proprio un paese remoto, e in campo che ci hanno stroncati fisicamente. Correvano il doppio, il triplo. Punto. Questo fa pensare a quando c’era un po’ di curiosità circense nei confronti delle squadre africane, una cosa che si è perduta da quando i giocatori africani giocano in Europa. Adesso il calcio si è livellato, tutti sanno tutto degli avversari. L’unica cosa che è ancora rimasta come un tempo sono i punti deboli delle squadre africane, cioè: una certa incertezza tattica perché gli allenatori cambiano ogni dieci minuti e tranne pochi casi non sono mai di grande livello - adesso arriva Erikksson ma a soli due mesi dal mondiale; il problema dei procuratori, perché l’Africa è pur sempre un posto depredato, e spesso i giocatori tendono a fare gruppo a seconda dei loro procuratori. Poi c’è l’alimentazione. Nel 2000 seguivo il ritiro del Ghana, avevano una partita col Mozambico e Dossena mi spiegò che avevano trovato dei cuochi coreani che avrebbero cucinato il riso. Prima della partita arrivò il riso, ma subito dopo arrivò un vassoio enorme di baccalà fritto. Tutti sopra, Dossena glielo strappò via a fatica. Come è finita poi la partita? Zero a zero. Ma le cose stanno cambiando, coi loro tempi. Tra il giocatore dello Zaire degli anni ’70 e Drogba, che è un imprenditore di se stesso, le cose sono cambiate. Concludiamo parlando di Italia. Pronostica. Beh il girone è facile…
faccendieri, burocrati, presidenti, trainer, medici, procuratori, truffatori, ma anche interviste a Sulleynan Alì Sulley Muntari, Michel Essien, Sellas Tetteh. Commedia quasi all’italiana è La Coup di Moahmed Damak (Tunisia, 1985) che utilizza la chiave demenziale (con tanto di trasfusione di sangue color giallorosso da un tifoso ferito dell’Esperance) per raccontare i superdeliri degli ultras, prima, durante e dopo l’ennesimo derby trionfale contro i «governativi» bianco-rossi del Club Africaine.
…quindi la Nuova Zelanda sarà l’ultima spiaggia. Vedi già i titoli dei giornali? La Slovacchia si difenderà, farà catenaccio. Sarà molto importante la prima partita col Paraguay. Ma io credo che si possa arrivare in semifinale, perché siamo rognosissimi. La chiave è vedere come funziona l’integrazione tra giovani e vecchi. Il grande paragone che si fa è con l’1986. Anche allora Bearzot chiamò alcuni reduci, Bergomi, Scirea, Conti. Mi hanno raccontato che stavano in un albergo con la camere che davano tutte su un bel prato. La prima sera uno apre la veranda e per smaltire la tensione tira fuori il pallone e comincia a palleggiare. Apre la veranda un altro, poi un terzo, un quarto, si mettono tutti sul prato a giocare. Finchè si levano delle voci: «Basta, dobbiamo riposare!». Ecco, molti giocatori dell’86 possono raccontarti che quando finì quel torello, finì pure quella nazionale. Bella storia. Lippi pensa che trovare questa unione sia più importante della tattica, al limite anche dei giocatori che vanno in campo. Però 'sta storia del gruppo... Va bene il gruppo, ma i grandi attori dove sono? Tutti i ct, se ci fai caso, faranno a meno dei giocatori spettacolari, a parte Messi. Questo sarà un mondiale invernale, dove la stanchezza si sentirà meno e la fisicità conterà di più, Io credo che proprio per questo potrebbe essere un mondiale più spettacolare di altri.
Art Direction: emisferosinistro@gmail.com
GRUPPO B ARGENTINA (ARG) NIGERIA (NGA) COREA DEL SUD (KOR) GRECIA (GRE)
GRUPPO A SUD AFRICA (RSA) MESSICO (MEX) URUGUAY (URU) FRANCIA (FRA)
GRUPPO C INGHILTERRA (ENG) STATI UNITI (USA) ALGERIA (ALG) SLOVENIA (SVN)
GRUPPO D GERMANIA (GER) AUSTRALIA (AUS) SERBIA (SRB) GHANA (GHA)
GRUPPO E OLANDA (NED) DANIMARCA (DEN) GIAPPONE (JPN) CAMERUN (CMR)
GRUPPO F ITALIA (ITA) PARAGUAY (PAR) NUOVA ZELANDA (NZL) SLOVACCHIA (SVK)
GRUPPO G BRASILE (BRA) COREA DEL NORD (PRK) COSTA D’AVORIO (CIV) PORTOGALLO (POR)
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Le partite così contrassegnate sono trasmesse solo su SKY
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Su Sky Mondiale 1 (canale 205) in diretta tutte le 64 partite del Mondiale 2010, 39 in esclusiva. E non solo: otto canali e la riproposizione dei match per non perdere neanche un minuto del tuo Mondiale. GIUGNO 2010
GRUPPO H SPAGNA (ESP) SVIZZERA (SUI) HONDURAS (HON) CILE (CHI)
I
2 PARTITE SU 4 SOLO SU SKY
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FINALE
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3°- 4° 1°- 2°
LE CINQUE NOVITA’ DEL MONDIALE IN TV
Su Sky il Mondiale 24 ore su 24, come e quando vuoi. E tutto in Alta Definizione
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Per essere registi dell’evento, clicca il tasto verde e accedi al mosaico interattivo 24 ore su 24, con 6 finestre video.
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“Panchine”: il canale interattivo per vedere e seguire il ct affiancando l’immagine a quello del match in diretta