scritto & mangiato
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
Come crescere insieme, in equilibrio con il pianeta. Appuntamento al Salone del Gusto di Torino
La terra
educa
OTTOBRE 2010
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
Ringraziamo Angelo Monne autore dei disegni che illustrano queste pagine. Angelo Monne è nato, vive e quasi sicuramente morirà a Dorgali (Nu), dove lavora come grafico editoriale e illustratore. È antifascista. Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino/Tag design Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf Spa via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 14/10/2010
5 Che gusto c’è di Valeria Cometti 6-7 Le mani sulla terra di Georges Desrues 10 La mensa giusta di Mariagiulia Mariani 11 La sfida dei mille orti di Serena Milani 13 Se passa l’appetito di Loris Campetti 14 Brasile doppio di Lia Poggio 15 Lotta venezuelana di Geraldina Colotti
he ormai si corra per qualsiasi cosa, si corre. Ma quando ciò avviene in cucina o semplicemente per alimentarci (o purtroppo anche per morire di fame), la situazione richiede una pausa. Lunga almeno cinque giorni, ci suggeriscono i nostri amici di Slow Food con cui abbiamo confezionato questo supplemento. Cioè la durata del Salone del Gusto e di Terra Madre, dal 21 al 25 ottobre. Stiamo parlando più o meno di cinquemila persone piombate a Torino a rappresentare comunità del cibo del mondo, e di cuochi, docenti, giovani, musicisti impegnati qui e in qualche lontano altrove a promuovere una produzione alimentare locale, sostenibile, in equilibrio con il pianeta e rispettosa dei saperi tramandati di generazione in generazione. Una pausa lunga cinque giorni vale anche per fermarsi ad ascoltare le donne e gli uomini di Terra Madre, luogo fisico in cui è messa al centro la salvaguardia delle diversità culturali e linguistiche, delle etnie, delle lingue autoctone, e ancora la valorizzazione dei valori dell’oralità e della memoria. La pausa è buona pure per discutere con loro, volendo. FRANCESCO PATERNÒ Torino resta poi un’occasione speciale per fare un punto sui progetti di tutela della biodiversità agricola, come sulle continue minacce al fragile sistema produttivo africano. Se vi dicessimo che Slow Food sta lavorando a un progetto per avere mille orti proprio in Africa?Per sapere come va, basta leggersi l’articolo su questo supplemento. Oppure: volete capire come si può migliorare l’alimentazione dei bambini nelle mense scolastiche? C’è il racconto di un progetto europeo che coinvolge dieci paesi dell’est e dell’ovest. E ci sono storie di quel che avviene in paesi come il Brasile e il Venezuela, nonché polemiche legate all’attualità politico-gastronomica di questo nostro strano paese, con paci improbabili a Roma davanti a piatti regionali. Naturalmente c’è anche molto altro. Per il menù completo, basta prendersi un’altra pausa. Questa volta per leggere, e tramandare.
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Prendiamoci una pausa
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iviamo in una società dove ritmi e abitudini di vita e alimentazione stanno via via deteriorandosi, dove si consumano 3.500.000 pasti al giorno nelle mense dello stato – senza considerare quelle aziendali e i ticket restaurant – con una produzione di scarti fino anche al 50%. Una piramide alimentare rovesciata, fatta per lo più di cibi confezionati e complessi e di bevande zuccherate, una dieta con un profondo e pesante impatto ecologico ed economico. I dati sanitari sono preoccupanti: patologie croniche quali malattie cardiovascolari, diabete, obesità e tumori ormai costituiscono il 75% della spesa pubblica sanitaria, in Italia e Europa. L’obesità infantile è quintuplicata negli ultimi 30 anni: oggi un bambino su tre fra i 6 e 10 anni è obeso e il 36% degli anziani (dato riferito al Piemonte) ospitati in strutture residenziali sono malnutriti. Una fotografia che non lascia dubbi sulla necessità di investire in politiche di riqualificazione e valorizzazione delle produzioni agroalimentari e su un’educazione alimentare più capillare ed efficace. Fin dal principio, come associazione impegnata a ridare valore alla cultura del cibo e alla sua capacità di veicolare sapori ma anche saperi, Slow Food ha creduto e investito energie e risorse nell’educazione alimentare e del gusto. Con il supporto – e in sinergia – di istituzioni, enti locali, aziende e altre associazioni, ha progettato un’educazione a 360°, rivolta ad adulti, bambini, insegnanti, politici, genitori e professionisti del settore per discutere e stimolare sensibilità e comportamenti più consapevoli in tema di cibo, e imparare a leggere le interrelazioni fra cibo e salute, territorio, ambiente, economie. Tutto cominciò negli anni Ottanta con le “Settimane del gusto”, un modo di far capolino nelle scuole e tra i giovani seguendo un binario parallelo: da un lato predisponendo l’intervento in aula di operatori della cultura materiale (cuochi, pastai, norcini, casari, pasticceri) a coinvolgere i ragazzi in esperienze di degustazione ma anche di manipolazione; dall’altro, negli stessi giorni, l’offerta a giovani al di sotto dei 25 anni di gustare menù a prezzo ridotto presso ristoranti italiani di qualità, una opportunità di avvicinarsi all’arte culinaria. Poi convegni, corsi di aggiornamento per gli insegnanti, laboratori del gusto, soprattutto a seguito della pubblicazione di Dire, fare, gustare. Discorsi, progetti, esperienze intorno all’educazione sensoriale, un fortunato manuale realizzato con il docente Rossano Nistri. Oggi il settore educativo di Slow Food propone una preci-
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sa gamma di attività educative e, via via, i progetti si moltiplicano. L’orto scolastico fa scoprire ai ragazzi, insieme a nonni, genitori, cuochi e produttori, che un cibo è buono quando valorizza il territorio e le varietà locali, chi lo coltiva e i saperi gastronomici. Il Master of Food accompagna i più grandi a scoprire i legami tra cibo, territorio e salute e a confrontarsi sulle scelte alimentari. I corsi di educazione alimentare per insegnanti, accreditati dal Ministero dell’Istruzione, stimolano
getti pedagogici: educare al piacere dei sapori locali, alla tutela delle tradizioni e dei paesaggi. In Senegal, per esempio, dove il livello di povertà è importante e la biodiversità agricola fortemente minacciata, la sede locale Slow Food di Dakar ha avviato il progetto “Mangeons local” per promuovere il consumo dei cereali autoctoni tra i bambini di 10-12 anni. A Cuba invece, per citare un altro continente, il progetto “Training Local Leaders” prevede la realizzazione di seminari di for-
di Valeria Cometti*
Quanto, cosa e come Slow Food investe nella cultura dell’alimentazione. Una storia che parte da lontano e arriva a Torino, Terra Madre 2010
pi di cioccolato e di varietà di mele per mettere a confronto, apprezzare le differenze, rilevare il croccante, il dolce, il succoso, l’acido, l’amaro, l’intensità dell’aroma e, alla fine, stabilire una scala di valori. Il programma di Terra Madre 2010 prevede altri incontri sul tema. Il Laboratorio della Terra “Slow Food nelle mense” (domenica 24 ottobre, ore 10 in sala B) sarà dedicato alla ristorazione collettiva scolastica. Comprando, trasformando e servendo milioni di pasti al
Che gusto c’è
a progettare percorsi interattivi e multidisciplinari collegati al cibo: perché non studiare la geografia e la storia attraverso le produzioni e le migrazioni del cibo? Nel frattempo, con il formarsi e il consolidarsi della rete mondiale di Terra Madre, progetti educativi specifici attecchiscono presso le comunità del cibo che, oltre a lavorare sulle loro microeconomie, saggiamente si impegnano in pro-
mazione diretti agli adulti per favorire la diffusione di orti biologici comunitari. Ma che cosa troverete a Torino, nel padiglione 5 di Lingotto Fiere? Terra Madre 2010, quarta edizione del meeting mondiale delle comunità del cibo, ospiterà un’area dedicata all’educazione e ai progetti pedagogici della rete. All’interno dell’Oval, una sala sarà allestita con due terminal informatici, che consentiranno ai parteci-
panti di segnalare le loro tradizioni culinarie e i progetti educativi in corso. Il percorso sensoriale “Alle origini del gusto”, poi, disponibile nelle 8 lingue di Terra Madre, propone un video che introduce alla degustazione e ne presenta il vocabolario di base. Prosegue con giochi sensoriali suddivisi in varie sezioni (gusto, olfatto, vista, tatto, multisensorialità) e si conclude con l’assaggio comparato di ti-
giorno, le mense hanno la possibilità di orientare il mercato e l’utenza verso comportamenti virtuosi e prodotti locali, di qualità e di stagione. L’incontro fa parte del progetto European Schools for Healthy Food promosso da Slow Food e finanziato dalla Commissione Europea-Direzione Generale dell’Agricoltura e dello Sviluppo Rurale: vede impegnati 10 Paesi europei (Italia, Francia, Belgio, UK, Irlanda, Irlanda del Nord, Spagna, Polonia, Romania, Bulgaria e Lettonia) in una campagna che promuove, all’interno delle scuole, il consumo di cibo sano e fresco. Così come “Slow Food in the Canteen”, una rete che riunisce le mense scolastiche europee impegnate a migliorare la qualità del servizio e a sviluppare progetti educativi per i più giovani. Sotto il titolo “Principi pedagogici e pratiche di educazione alimentare di Slow Food” si svolgerà (domenica 24 ottobre, ore 13 in sala H) una riflessione sul “Manifesto internazionale per l’educazione”, che chiarisce il quadro teorico in cui si collocano le azioni educative dell’associazione; l’obiettivo è di uscire con la definizione condivisa di un vademecum sulle buone pratiche nelle attività educative, sulla base di quelle svolte da Slow Food in tutto il mondo. Citiamo ancora un laboratorio dedicato alla rete degli orti (domenica 24 ottobre, ore 13 in sala D) e la presentazione di un kit di educazione sensoriale realizzato da Slow Food in collaborazione con l’Ong Mani Tese nel quadro del progetto “From food security to food sovereignty. Citizens and Local Authorities towards a new paradigm in Europe to reduce world hunger”. Il kit, dedicato all’educazione del gusto, al concetto di sovranità alimentare e alla sua pedagogia, sarà distribuito a tutti i delegati interessati. *Slow Food
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Di una situazione “win-win”, che vada a vantaggio di entrambe le parti, non si può proprio parlare. Io sono estremamente preoccupato per questa tendenza. In molti paesi africani la terra appartiene allo Stato e i governi danno per scontato di poterne disporre liberamente. Per questo, spesso la terra viene ceduta a investitori a cui non si impongono regole per quanto riguarda il rispetto della popolazione locale. Molti piccoli agricoltori e pastori sono rappresentati molto male a livello politico e corrono il rischio di uscire perdenti da questi affari»
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A differenza da quella che è la nostra idea, in Occidente, la terra in Africa oltre a essere proprietà privata è anche proprietà della comunità. Le mandrie di animali dei pastori ci pascolano sopra e fertilizzano il terreno. Oppure, ci si raccoglie la legna per il fuoco. La terra africana ha un grande valore comunitario. Sottrarla alla comunità e venderla a investitori esteri o anche autoctoni comporterebbe un enorme sovvertimento per la popolazione rurale»
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Prima di tutto, bisogna estinguere subito il debito estero dei paesi più poveri. Poi bisognerebbe ristrutturare il programma del Fondo monetario internazionale, che promuove l’agricoltura per l’esportazione invece di quella per la sussistenza. Inoltre, bisogna bandire i biocombustibili che si producono utilizzando piante commestibili. Infine, si dovrebbe incrementare la produttività degli agricoltori africani, invece di derubarli» Sia Olivier De Schutter, relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, sia Jean Ziegler, che lo ha preceduto nella stessa carica, nutrono grandi preoccupazioni. Nell’intervista concessa a Slowfood entrambi si dichiarano convinti che la competizione per i terreni agricoli in Africa costituisca un fenomeno pericoloso e che la fame nel mondo crescerà ulteriormente. Mentre il belga De Schutter, laureato ad Harvard e professore di scienze giuridiche, mostra una certa cautela nella scelta delle parole, Jean Ziegler fa esattamente il contrario. Sociologo svizzero impegnato ed ex uomo politico, Ziegler è noto tanto per i suoi discorsi appassionati e diretti, quanto per il tono esplicito delle sue denunce. Il libro più recente di Ziegler si occupa proprio di land grabbing ed è uscito di recente in italiano presso Marco Tropea Editore, con il titolo L’odio per l’Occidente.
Lei vede l’acquisto di aree agricole in Africa da parte di governi e imprese straniere più come una situazione “win-win” o come una nuova forma di colonialismo? Ziegler Naturalmente si tratta di neocolonialismo. Le imprese multinazionali e la Banca mondiale comunicano cifre che di primo acchito sembrano dare loro ragione. Si servono delle statistiche della Fao le quali riportano che mentre, ad esempio, in Lombardia su un ettaro di terreno si producono 10 tonnellate di grano, nella zona del Sahel, su una superficie di uguali dimensioni, si raccolgono soltanto da 600 a 700 chili di cereali. E ne traggono la conseguenza che si dovrebbe affidare la terra a qualcuno che sia in grado di ottenere raccolti più consistenti. È una logica che va contestata. Quello che manca agli agricoltori in Africa sono i mezzi di produzione. Un contadino della tribù dei Bambara, nel Mali, è altrettanto competente e alacre quanto un contadino della Lombardia.
Le mani su De Schutter Di una situazione “win-win”, che vada a vantaggio di entrambe le parti, non si può proprio parlare. Io sono estremamente preoccupato per questa tendenza. In molti paesi africani la terra appartiene allo stato e i governi danno per scontato di poterne disporre liberamente. Per questo, spesso la terra viene ceduta a investitori a cui non si impongono regole per quanto riguarda il rispetto della popolazione locale. Molti piccoli agricoltori e pastori, ma anche molte popolazioni indigene, che per la loro sopravvivenza dipendono dalle foreste, sono rappresentati molto male a livello politico e corrono il rischio di uscire perdenti da questi affari. Quindi si tratta comunque di neocolonialismo? (De Schutter) Di questa espressione – peraltro inutilmente polemica – non mi piace il fatto che attribuisce la pressione economica, a cui è assoggettata la terra, soltanto agli investitori stranieri. Spesso in questi affari sono coinvolti in uguale misura anche investitori locali, con i loro amici e parenti. Allora è questo il motivo per cui continua a crescere il numero degli uomini politici e di governo africani che sono alla ricerca di persone che vogliano acquistare terreni… (Ziegler) Sì, naturalmente ci sono anche quelli! È una questione di corruzione. I politici sono semplicemente prezzolati da fondi speculativi e imprese multinazionali. Ma non c’è nulla di nuovo. Di governi che hanno lavorato con l’industria agraria o che ne sono stati controllati ce ne sono stati anche prima. Basta pensare alle repubbliche delle banane, che si sentono citare spesso. De Schutter Sembra quasi che si impongano di nuovo vecchi scenari, di cui evidentemente si sono dimenticate le conseguenze negative. Ziegler Di radicalmente nuovo c’è il valore che oggi hanno le materie prime agricole. Fin dal crollo dei mercati finanziari, i fondi speculativi sono alla ricerca di altri settori, in cui investire. Bruciare prodotti alimentari sotto forma di biocarburante è diventato un gigantesco business redditizio. Quindi lei non riesce a immaginarsi situazioni in cui l’acquisto della terra potrebbe portare vantaggi per la popolazione locale, come invece sostengono spesso gli investitori? De Schutter La destinazione degli investimenti di questo ordine di grandezza sono quasi sempre le piantagioni di grandi dimensioni, che richiedono poca mano d’opera. Anche se qualcuno potrebbe trarne vantaggio, molti altri verrebbero a essere tagliati fuori dalle loro risorse idriche, sospinti su terreni non fertili e successivamente obbligati a rinunciare all’agricoltura. Ziegler Vantaggi di questo genere non ne esistono! Voler sfruttare una condizione di miseria non è altro che un crimine contro l’umanità. Le imprese e i fondi speculativi sostengono di creare posti di lavoro. Ma parliamo per esempio della Sierra Leone: qui la Addax Bioenergie, una ditta con sede a Losanna, ha acquistato 20.000 ettari di terra. Su questi terreni lavorano decine di migliaia di persone, che ora vengono scacciate e finiscono per convergere negli slums di Freetown, la capitale. I pochi che hanno trovato lavoro nelle piantagioni dove si coltiva la canna da zucchero, utilizzata poi per la produzione di biocarburanti, guadagnano meno di due euro al giorno. Anche questo è ancora schiavismo.
otto la voce land grabbing, tecnicamente, si indicano le operazioni di compravendita e di affitto, di solito a lungo termine, di terreni in paesi a basso livello di sviluppo da parte di stati e imprese private. Si tratta per lo più di vaste zone coltivabili (superiori ai 10 mila ettari) acquisite per produrre beni alimentari o per ricavare biocombustibili destinati ai mercati interni dei paesi acquirenti. L’espressione, tuttavia, derivando dal verbo inglese to grab che significa “arraffare”, è provvista di una palese connotazione negativa che, nelle intenzioni di chi l’ha coniata e la utilizza, allude a operazioni tutt’altro che neutrali, a iniziative che non favoriscono affatto i paesi che alienano le loro terre, a nuove forme di sfruttamento e, come affermano alcuni, di neocolonialismo e di neofeudalesimo che privano i paesi più poveri della sovranità alimentare, dell’agricoltura territoriale, del patrimonio di biodiversità. Gli stati che acquistano – e sono sempre più quelli del “secondo mondo”, i neoricchi: sovrappopolati, non autosufficienti dal punto di vista alimentare, dotati di cospicue possibilità di investimento per mettersi al riparo dalle fiammate dei prezzi di beni alimentari e dal rischio di crisi energetica – “garantiscono” ai paesi ospitanti infrastrutture, ingresso di tecnologie e di professionalità, approvvigionamento di sementi. Il fenomeno è oggetto di analisi da parte delle organizzazioni internazionali, tra cui la Fao, che caldeggiano l’adozione di un codice di condotta e un quadro di norme concordate per regolare gli acquisti alla luce della trasparenza e del rispetto dei diritti dei più deboli. Se dalla compravendita di terreni nel mondo terzo (Africa soprattutto, ma la lista dei paesi “in vendita” coinvolge Asia, America latina, Europa dell’est) scaturissero davvero vantaggi paritetici per entrambi i contraenti, in modo che non vi siano “vincitori e vinti”, si produrrebbe una soluzione virtuosa che in gergo è chiamata win-win. Applicata a termini come strategy o situation la locuzione, mutuata dalla teoria dei giochi, invita a non ragionare nell’ottica del ritorno immediato ma a considerare la complessità del sistema economico, ad abbandonare la logica del profitto puramente quantitativo che conduce a un braccio di ferro nel quale qualcuno vince e qualcuno perde (win-lose) ma a far riflettere sul fatto che chi esce vittorioso potrebbe alla lunga risentire della perdita altrui. Insomma, si tratta di fare in modo che tutti i soggetti coinvolti nella relazione ne escano vincenti e arricchiti, per il bene complessivo. Paola Gho
Land grabbing versus win-win
e imprese multinazionali e la Banca mondiale comunicano cifre che di primo acchito sembrano dare loro ragione. Si servono delle statistiche della Fao le quali riportano che mentre, ad esempio, in Lombardia su un ettaro di terreno si producono 10 tonnellate di grano, nella zona del Sahel, su una superficie di uguali dimensioni, si raccolgono soltanto da 600 a 700 chili di cereali. E ne traggono la conseguenza che si dovrebbe affidare la terra a qualcuno che sia in grado di ottenere raccolti più consistenti. È una logica che va contestata»
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ulla terra
E gli investitori chi sono? Ziegler Esistono due tipi di aggressori. Da un lato ci sono le imprese multinazionali, come la già citata Addax, che ha sede a Losanna. E dall’altro lato ci sono i fondi speculativi privati e i fondi statali. Il fondo dello stato libico, per esempio, ha acquistato 11.000 ettari di terreno in Mali. Vi si coltivano principalmente piante per la produzione di biocarburanti e ortaggi, venduti come primizie nei periodi in cui in Europa sono fuori stagione. Tutto questo fa crescere il numero delle persone che in Africa soffrono la fame, e le spinge a fuggire oltremare. Quindi, si tratta prevalentemente di paesi che avrebbero comunque dei problemi a nutrire in modo adeguato la loro popolazione. De Schutter È un paradosso che viene spesso messo in evidenza. Ma la cosa non finisce qui. Perché spesso non si tiene conto che questi investimenti generano una sorta di dumping interno. Mentre le grandi piantagioni possono avere accesso a crediti e godono di un input agricolo, i piccoli agricoltori ne restano esclusi. Di conseguenza, nelle piantagioni e nella media nazionale la produzione cresce. Di questo potrebbero rallegrarsi i governi, che oltre tutto vedono affluire nel paese anche valuta estera. Ma i prezzi più bassi praticati dai grandi produttori finiscono con l’escludere dalla competizione i piccoli agricoltori e, di conseguenza, nelle zone rurali potrebbero crescere ulteriormente la povertà e le differenze sociali. Come lei forse sa, oggi la fame nel mondo non è causata dal basso livello della produzione di alimenti, ma dalla povertà e dalle ingiustizie nella distribuzione della ricchezza.
di Georges Desrues
La competizione per i terreni agricoli in Africa è un fenomeno pericoloso e la fame nel mondo crescerà ulteriormente. Ce lo dicono in questa intervista Olivier De Schutter, relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, e Jean Ziegler che lo ha preceduto nella stessa carica
Nonostante questo, lei non negherà che oggi l’agricoltura africana abbia urgentemente bisogno di investimenti. Ziegler Certamente ha bisogno di investimenti, ma non di questo genere. È incontestabile che il rendimento della terra sia molto basso. Bisogna dare agli agricoltori africani i mezzi perché possano diventare più produttivi, invece di derubarli. Gli africani hanno bisogno di fertilizzanti, sistemi di irrigazione, forza motrice e sementi. I loro Paesi enormemente indebitati non possono fare investimenti. De Schutter È vero che in passato si è investito troppo poco. Questo è il motivo per cui l’agricoltura africana è molto meno produttiva, ad esempio, di quella del Sudest asiatico. Ma il fatto che l’Africa abbia bisogno di investimenti è soltanto l’inizio del discorso. Non tutti gli investimenti sono uguali. Ci sono anche quelli che hanno come conseguenza l’esodo dalle campagne e la fame. Spesso si sostiene che queste terre non siano coltivate e restino semplicemente abbandonate. Ziegler Questa è una menzogna spudorata. Di terre abbandonate di questo genere in Africa non ce ne sono assolutamente. Dappertutto vivono pastori, cacciatori o raccoglitori. De Schutter A differenza da quella che è la nostra idea, in Occidente, la terra in Africa oltre a essere proprietà privata è anche proprietà della comunità. Le mandrie di animali dei pastori ci pascolano sopra e fertilizzano il terreno. Oppure, ci si raccoglie la legna per il fuoco. La terra africana ha un grande valore comunitario. Sot-
trarla allacomunità e venderla a investitori esteri o anche autoctoni comporterebbe un enorme sovvertimento per la popolazione rurale. Che cosa propone, allora, perché i paesi democratici come la Corea o il Giappone, che mostrano un interesse evidente, investano in modo responsabile? De Schutter È semplicissimo: devono investire senza arrivare a causare un cambiamento nella proprietà della terra. Ci sono esempi a sufficienza del sistema che in inglese si chiama contract farming, in cui agli investitori si garantisce l’accesso alla produzione, a condizione che essi si impegnino a garantire agli agricoltori l’accesso ai mezzi di produzione, al credito e alla tecnologia. E, per fare questo, non c’è bisogno che milioni di ettari di terreno cambino proprietario. Ziegler Prima di tutto, bisogna estinguere subito il debito estero dei paesi più poveri. Poi bisognerebbe ristrutturare il programma del Fondo monetario internazionale, che promuove l’agricoltura per l’esportazione anziché quella per la sussistenza. Inoltre, occorre bandire i biocombustibili che si producono utilizzando piante commestibili. Bruciare prodotti alimentari significa condurre una guerra contro l’umanità. Infine, si dovrebbe incrementare la produttività degli agricoltori africani, invece di derubarli. Ma ciò che sta succedendo qui, oggi, è un assassinio e una evidente violazione del diritto umano all’alimentazione. Viviamo in un mondo in cui ogni cinque secondi muore di fame un bambino di età inferiore ai 10 anni. (Traduzione di Fanny Meroni)
HAI MAI PENSATO A QUANTA STRADA DEVE FARE L’ ACQUA PRIMA DI ARRIVARE NEL TUO BICCHIERE?
Per salvaguardare l’ambiente si può bere l’acqua del rubinetto, XQD YROWD YHUL¿FDWD OD VXD TXDOLWj RSSXUH XQœDFTXD PLQHUDOH proveniente da fonti vicine al tuo territorio.
Per l’imbottigliamento e il trasporto su gomma di 100 litri di acqua per 100 km, si producono emissioni almeno pari a 10 kg di anidride carbonica*. IRQWH GDWL VFLHQWL¿FL QD]LRQDOL H LQWHUQD]LRQDOL
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La mensa
giusta ambiare il mondo cominciando a cambiare menù. Questo l’obiettivo di Slow Food, spesso giudicato utopistico e, al più, possibile per un’élite, in grado di fare scelte non dettate principalmente dal prezzo degli alimenti. Non si può negare che l’eccellenza alimentare abbia costi gravosi, sia monetari sia simbolici. La cultura, e soprattutto l’economia, determinano il contenuto dei nostri piatti e la disuguaglianza sociale spesso origina cattive abitudini alimentari. Una prova è la maggiore incidenza dell’obesità e il minor consumo di frutta e verdura nell’alimentazione dei più poveri. Come sfuggire ai meccanismi economici che regolano il nutrirsi quotidiano? Slow Food con il suo discorso di promozione di un’alimentazione di qualità potrebbe toccare tutta la società, ma in realtà molti strati della popolazione restano impermeabili. È possibile mangiare bene anche con poche risorse economiche: autoprodurre, comprare direttamente dal produttore, cucinare le materie prime, evitare sprechi e privilegiare legumi rispetto alla carne e pesce azzurro rispetto agli inflazionati (e insostenibili) tonni e spada. È difficile però avere gli strumenti per farlo coinvolgendo tutte le classi sociali, anche perché i cambiamenti richiedono tempi molto lunghi. Un settore di attività che sembra essere vincente per una democraticizzazione dell’alimentazione quotidiana è quello dell’educazione alimentare e del gusto, in primis nelle scuole: è durante l’infanzia che si formano i comportamenti che restano quasi immutati durante tutta la vita. E a scuola ci vanno tutti. Quale educazione? Molto spesso, il focus è quello della salute. Il cibo viene identificato con i nutrienti che lo compongono e con gli effetti che hanno sul benessere fisico. L’aumento delle informazioni, tuttavia, non sempre si traduce in un reale cambiamento delle abitudini. Anzi, l’attenzione all’aspetto medico tende a far crescere l’ansia, disgrega il legame sociale e il
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di Mariagiulia Mariani*
Una rete per coordinare gli sforzi e condividere le esperienze di miglioramento dell’alimentazione degli alunni. Che cosa è European Schools for Healthy Food (Scuole europee per un cibo sano) in cui sono coinvolti dieci paesi, dall’est all’ovest del continente
piacere legato al cibo. Il cibo, in verità, è complesso, e nella pratica educativa occorre considerare i diversi orizzonti dell’atto alimentare: il suo legame con il piacere, oltre che con la salute, le sue dimensioni simboliche, la prospettiva ecologica... L’alimentazione, poi, è determinante nella socializzazione e quindi è opportuno rispettare i particolarismi alimentari, sociali, regionali, religiosi che contribuiscono alla costruzione delle identità sociali. Questo, in primis, andrebbe insegnato ad Adro, al sindaco che ha bandito dalle mense i menù speciali per motivi religiosi, dopo aver negato alcuni mesi fa il servizio alle famiglie che non pagavano regolarmente i buoni pasto. Con questi atti si insegna l’esclusione e si destabilizza il benessere psicofisico dei bambini. Un anno fa è nata una rete di mense desiderose di coordinare gli sforzi e condividere le esperienze di miglioramento dell’alimentazione degli alunni. Con il nome di “European Schools for Healthy Food” (Scuole europee per un cibo sano) e il sostegno della DG Agri, oggi questa rete coinvolge 10 Paesi europei, dall’est all’ovest del continente. Altri si stanno avvicinando. I contesti geografici e culturali sono i più
disparati. Ad esempio in Irlanda raramente le scuole forniscono la possibilità di consumare un pasto: il cibo viene acquistato o portato da casa. In Francia, invece, lo stato promuove un’intensa campagna per aumentare i cibi bio nella ristorazione scolastica. In Lettonia, ancora, il problema principale è quello della scarsità di fondi e di prodotti locali, perché la norma è l’importazione attraverso grandi piattaforme di distribuzione. Nella maggioranza delle scuole della rete lo strumento didattico principale è l’orto scolastico: riavvicinare i bambini alla terra e insegnare loro il rispetto del lavoro agricolo, la stagionalità, le varietà locali, il lavoro di gruppo e lo scambio intergenerazionale, il piacere di raccogliere e mangiare quanto si è seminato o piantato con le proprie mani. L’altro asse di lavoro riguarda l’utilizzo dei sensi: esercitarli all’assaggio attento è un fattore determinante per la creazione di modelli alimentari positivi. Si educano i bambini ad assaporare il cibo, dedicando tempo all’atto alimentare e scoprendo che questo può diventare fonte di grande piacere. Grazie al kit “Alle origini del gusto”, ideato e tradotto da Slow Food in 12 lingue, tutte le scuole della rete hanno iniziato a includere nei curricula l’educazione sensoriale e alimentare. Ad esempio, in Bulgaria, la scuola primaria di Tcherni Vit, villaggio dei Balcani, gestisce direttamente la mensa con un budget molto limitato: gli studenti pagano 0,6 leva (30 centesimi di euro) e lo stato integra con una somma equivalente. Questo budget equivale a un piatto di patatine fritte. I cuochi, tuttavia, cercano di selezionare gli alimenti locali e l’insegnante Tzonka Dimitrova ha introdotto l’educazione del gusto in classe e, insieme ai bam-
bini e ai loro nonni, sta realizzando una raccolta di ricette tradizionali per preparare le conserve tipiche della regione. Nell’Irlanda del Nord, la giovane studentessa e giornalista Orlagh Thompson, insieme con la madre, sta lavorando sodo: «Quando tornai dall’evento [due edizioni di terra Madre, ndr ] decisi di avviare un progetto nell’Irlanda del Nord e partii dall’idea di migliorare la qualità del cibo nella mia scuola, il Lagan College di Belfast. Il cibo servito in mensa è davvero poco invitante. Ci danno cose come patatine e altri cibi fritti, o panini con un gommoso formaggio industriale di indefinita provenienza. Inoltre non è possibile avere alcuna informazione sui cibi in menù, su cosa siano e da dove provengano, e quelli prodotti localmente non sono neppure considerati. L’atmosfera in mensa è grigia e ostile: la gente siede in gruppi separati, non c’è armonia né scambio. Anche fuori dalla mensa c’è bisogno di migliorare nel suo insieme la nostra visione del cibo. Nelle lezioni di economia domestica, per esempio, impariamo regole d’igiene, ma non cuciniamo buoni cibi… Con mia madre, Celia Spoucer, ci siamo unite al progetto “European Schools for Healthy Food”. Ci stiamo dando da fare per portare più prodotti locali in mensa e ci occupiamo di aspetti come la gestione dei rifiuti; abbiamo anche introdotto l’educazione del gusto per aiutare studenti e insegnanti ad apprezzare meglio il buon cibo. Mamma è un architetto paesaggista e gestisce un’impresa specializzata in tutela della biodiversità e progetti di educazione alimentare. Ora sta lavorando con la scuola per realizzare aree destinate alla coltivazione di piante edibili, come parte integrante del progetto». Slow Food*
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n occasione di Terra Madre 2010, Slow Food lancerà una sfida: realizzare mille orti in Africa. Fare un orto nei paesi africani significa produrre cibo sano e fresco per la comunità (per i bambini innanzitutto), trasferire i saperi degli anziani alle nuove generazioni, favorire la conoscenza dei prodotti locali, il rispetto dell’ambiente, l’uso sostenibile di suolo e acqua, la salvaguardia delle ricette tradizionali. Nei vari paesi saranno avviati diversi tipi di orti: scolastici, comunitari, urbani e periurbani. Tutti quanti dovranno essere coltivati secondo tecniche sostenibili – compostaggio, preparati naturali per la difesa da infestanti e insetti, gestione razionale dell’acqua –, privilegiare le varietà locali, prevedere la consociazione fra alberi da frutta, verdure ed erbe medicinali.
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Le esperienze in corso L’idea dei mille orti in Africa non è nuova, ma parte da numerose esperienze già in corso, oltre 40. In Uganda, ad esempio, il convivium di Mukuno ha avviato un progetto con 17 scuole – e oltre 620 studenti – per migliorare il rapporto dei giovani con l’agricoltura e garantire la sicurezza alimentare del-
di Serena Milano*
Destinazione Africa. Un modo per produrre cibo fresco, da coltivare secondo tecniche sostenibili, privilegiando le varietà locali, prevedendo la consociazione fra alberi da frutta, verdure ed erbe medicinali
le comunità. Attraverso l’esperienza sul campo e le lezioni in aula, gli studenti imparano a conoscere e coltivare i prodotti locali, che sono poi cucinati nella mensa scolastica. In Costa d’Avorio, nel villaggio di N’Ganon, una comunità di donne sta coltivando in modo biologico un orto di sette ettari: una parte del raccolto va alle famiglie delle produttrici, una parte è donata alla mensa scolastica per i pasti degli studenti, e ciò che
rimane è venduto sul mercato locale. In Kenya esistono già 12 orti scolastici gestiti in collaborazione con i convivia di Slow Food e uno di questi (nella scuola elementare di Michinda, a Elburgon, nel distretto di Molo) è stato premiato dal ministero dell’Agricoltura come migliore orto scolastico del paese. I mille orti saranno realizzati prima di tutto nei paesi in cui la rete di Terra Madre è già solida (Kenya, Uganda, Costa d’Avorio, Mali, Marocco, Etiopia, Senegal, Tanzania…) e poi, via via, in tutti gli altri. Saranno gestiti dalle comunità di Terra Madre, ma anche da alcuni studenti africani rientrati nelle loro comunità dopo la laurea all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e impegnati ora in diverse attività: dalla mappatura dei saperi tradizionali alla gestione di progetti con contadini e pastori, dalla promozione dell’educazione alimentare e del gusto nelle scuole alla realizzazione di orti nei villaggi. Il costo annuale per realizzare un orto in Africa è di 900 euro e comprende diverse voci: l’acquisto delle attrezzature (zappe, pale, rastrelli, innaffiatoi, sementi, piantine da trapianto…), la formazione del personale locale, il coordina-
mento delle attività in loco, l’organizzazione di scambi di formazione con altri progetti, la distribuzione di materiale didattico pubblicato nelle lingue locali (swaili, amarico, oromo, bambarà, wolof, eccetera), l’assistenza tecnica per consentire la realizzazione di orti in sintonia con la filosofia di Slow Food (con varietà locali, senza l’uso di trattamenti chimici), un contributo per sostenere i costi di borse di studio per giovani africani (affinché possano studiare presso l’Università di Scienze Gastronomiche) e un contributo per la partecipazione delle comunità degli orti africane all’evento Terra Madre. La Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus – strumento tecnico per realizzare progetti a sostegno delle comunità del cibo di Terra Madre – gestirà i contributi e coordinerà le attività in Africa. *Slow Food
Per adottare un orto in Africa o per avere maggiori informazioni, potete contattare Elisabetta Cane, tel. +39 0172 419756 ortiafrica@terramadre.org
Mille orti di sfida
Cose di scuola a alcuni anni Slow Food si occupa di orti e di orticoltura sostenibile. L’ha fatto, in Italia, con una iniziativa rivolta ai più giovani, costruendo una rete di orti scolastici e un progetto chiamato “Orto in condotta”. Il nome – che evoca l’otto in condotta – ha il duplice scopo di richiamare l’ambito scolastico nel quale il progetto si sviluppa e, al contempo, collegarlo con il termine “condotta” al mondo associativo di Slow Food. La condotta (che nel gergo medico di un tempo rappresentava un’area geografica omogenea in cui operare, una comunità) è, infatti, l’organismo di base dell’associazione, organismo che riunisce i soci e ne organizza le attività: conviviali, educative, di salvaguardia delle produzioni locali di qualità e delle comunità del cibo. Il progetto prende avvio nel 2004 – oggi sono 300 gli orti ospitati in altrettante scuole italiane – diventando lo strumento principale delle attività di educazione alimentare e ambientale nelle scuole targata Slow Food. Insieme agli studenti, gli insegnanti, i genitori, i nonni e i produttori locali sono gli attori del progetto: per tre anni sviluppano le attività legate all’orto realizzando esperienze che possano attraversare gli altri momenti curricolari. Coinvolgimento di altri soggetti, dunque, a torto considerati estranei al mondo della scuola, per costituire di fatto una comunità di apprendimento in cui trasmettere alle giovani generazioni i saperi legati alla cultura del cibo e alla salvaguardia dell’ambiente. Pur esaltando l’aspetto gioioso del “mettere le mani nella terra”, gli orti si coltivano secondo un preciso decalogo che prevede, tra l’altro, la scelta di varietà tipiche del territorio regionale legate alle stagioni, l’utilizzo di metodi biologici o biodinamici, la gestione oculata dell’acqua nel quadro di una consapevole didattica delle risorse. Info: www.slowfood.it/educazione Alberto Arossa
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Guardarsi intorno n invito a coltivare un orto buono, pulito e giusto, a trarre gratificazione nel curarlo e a diventare consapevoli che si può fare una piccola “rivoluzione” pacifica (così si esprime la bella introduzione) facendo crescere le piante migliori per il territorio in cui si abita, imparando i ritmi della stagionalità, utilizzando tecniche meno dispendiose e più ecologiche: questi i contenuti del nuovo manuale edito da Slow Food che guida a realizzare orti tradizionali, decorativi, urbani e socio-educativi. Diversi modelli, accomunati da medesime logiche: essere rispettosamente produttivi, essere belli e funzionali, essere malleabili e capaci di adattarsi all’interno di contesti metropolitani, e infine essere punti di incontro e di condivisione alla luce di obiettivi educativi e di inclusione sociale. Nelle 256 pagine de Il piacere dell’orto si è accompagnati a guardarsi intorno per verificare clima e risorse, a osservare il suolo, a programmare spazi, avvicendamenti e consociazioni, a riconoscere ed esaltare la diversità delle piante, a difendere l’orto dalle avversità, a scegliere contenitori, terricci e substrati… Senza contare che un orto può rafforzare la conoscenza del proprio territorio attraverso gli ortaggi e le piante che lo rappresentano, contribuire a instaurare stili alimentari rinnovati e a ripensare lo spazio che ci circonda – pensiamo ai contesti urbani – in modo più armonioso e vivibile. Per i ragazzi poi, è occasione di lavoro condiviso e di scoperta di ambienti e relazioni con la natura da cui sono sempre più estraniati. A completare il volume – che sarà presentato al Salone Internazionale del Gusto di Torino il 22 ottobre, ore 12, in sala Azzurra –, una guida illustrata alla scelta degli ortaggi, reportages su esperienze già realizzate, proposte di attività ludiche per le scuole e i giovanissimi, appendici e bibliografie. Paola Gho
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e radici, il territorio, il locale, l’identità, l’appartenenza, la tradizione. Da destra a sinistra, nella politica come nei movimenti, c’è stata una riscoperta di termini “forti” quanto ambigui che possono significare tutto e il contrario di tutto. Succede persino in cucina e dunque a tavola. Quando il baccalà mantecato, il risotto alla milanese o il brasato al barolo vengono alzati come bandiere per rivendicare improbabili superiorità culturali di un territorio nei confronti di un altro, i piatti perdono gusto e si irrancidiscono, le radici diventano catene (metalliche, non alimentari) e passa l’appetito. Contrapporre alla polenta - su cui Bossi pretende di imprimere il sole delle Alpi – la coda alla vaccinara – che la Polverini pretende di agitare come se le appartenesse – è un’operazione a perdere che fa male alla polenta, alla coda e a tutti noi. E’ difficile decidere se sia più volgare la Polverini che imbocca Bossi o il coro degli accoliti che accompagna l’immondo evento «unitario» cantando «ce piaceno li polli/ l’abbacchi e le galline/ perché so’ senza spine e nun so’ come er baccalà». Roba, per l’appunto, da «società de li magnacciò». Insomma, la restaurazione identitaria messa in scena dalla politica fa male alla società perché divide e azzera le conquiste della Rivoluzione francese (libertà, fraternità, eguaglianza), ma fa male anche all’alimentazione, cioè alla cultura. Questo non vuol dire che i piatti «nazionali» siano progressisti e la cucina regionale reazionaria. Tanto più che i piatti italiani conosciuti in tutto il mondo hanno quasi sempre una tradizione territoriale, e dunque delle radici: vogliamo parlare della pizza inequivocabilmente partenopea, o degli spaghetti al ragù che come sottotitolo hanno scritto «alla bolognese»? Nel centocinquantesimo dell’unità d’Italia sarebbe utile tessere una tela meticcia per dare un senso, o meglio una chance, a un insieme squinternato nato su basi centralistiche e tenuto appiccicato con l’autoritarismo burocratico, senza nulla concedere alla demenza secessionista. Per restare a tavola, questa tessitura comporterebbe un’audace quanto salutare rottura delle gabbie alimentari. Esaltando i presidi, cari a Slow Food, ma liberandone le eccellenze dalle prigioni territoriali, cioè socializzandole, di conseguenza mescolandole con le eccellenze di altri presidi. Non stiamo proponendo una versione «unitaria» della nouvelle cuisine ma una pratica antica di meticciato, diffusa in un popolo di navigatori come il nostro. Per non portarla per le lunghe, è me-
base di basilico anch’esso locale e prodotto secondo la classica ricetta peglina. Il risultato è eccellente ed è la dimostrazione della nostra teoria sul meticciato alimentare. Di esempi come questo se ne potrebbero fare altri, e sarebbe interessante se tra le sue campagne e inchieste Slow Food dedicasse un po’ d’attenzione a questo tipo di esperienze, potrebbe essere un utile contributo alla costruzione di una nuova, migliore unità d’Italia. Una nuova Teano a tavola, senza pretendere obbedienze e subalternità a chissà quale cultura primigenea. Non è soltanto cercando in radici meticce che si può esaltare una buona, meno nota e meno identitaria cucina, anche perché la contaminazione, per fortuna, è ovunque: lo zafferano che esalta il risotto alla milanese non si coltiva propriamente lungo il Naviglio o in Brianza ma all’Aquila, o in Medio Oriente, o in Iran, o in Sardegna. E il merluzzo da cui proviene il mitico stoccafisso cucinato all’anconetana non è stato pescato in Adriatico: il fatto è che gli anconetani sono pescatori e nei tempi dei tempi già navigavano fino ai lontani mari del nord, riempivano le reti di merluzzi e presto si posero il problema della conservazione del pesce, essiccato al sole e al vento, o sot-
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glio fare qualche esempio. Uno in particolare. C’è un’isoletta nel sud della Sardegna, separata da uno spruzzo d’acqua dall’isola maggiore, che si chiama San Pietro, più nota con il nome di Carloforte. I carlofortini sono una popolazione di pescatori partiti da Pegli nel Cinquecento in cerca di fortuna; sbarcati in questo paradiso mediterraneo si dedicarono naturalmente alla pesca e anche all’agricoltura. Vissero nell’isola felice finché dal Nordafrica (“li turchi so’ sbarcati alla marina”) arrivarono i briganti tabarkini da un’altra isola, non turca in verità ma tunisina) e fecero prigionieri tutti gli infedeli pegliesi di Carloforte per deportarli come prigionieri a Tabarka. Qui restarono sognando la terra promessa finché i Savoia, nel Diciottesimo secolo, ne fecero finalmente una giusta: accolsero il disperato appello dei prigionieri e ne riscattarono la libertà pagando il dovuto ai tabarkini. I carlofortini tornarono alla loro isola con il mandato sabaudo di coltivarla. (Un’altra narrazione esclude che il periodo tabarkino dei pegliesi fosse legato alla prigionia e alla deportazione, nel qual caso l’intervento, questo sì storicamente dimostrato, dei Savoia avrebbe qualche quarto in meno di nobiltà). Grazie alla pesca e alla lavorazione del tonno, questo popolo meticcio è arrivato fino a oggi vivendo più che dignito-
Se passa l’appetito samente, orgoglioso delle sue origini così come di quel che è diventato. Di originale i carlofortini, oltre alla lingua hanno la cucina, ricchissima perché «imbastardita» da una storia di conquiste, prigionie e liberazioni. Un piatto tipico, più che italiano mediterraneo, si chiama “cascà” e altro non è che un cuscus a base di verdure, la cui origine è evidentemente nordafricana. Un piatto tipicamente italiano, invece, è la pasta, naturalmente “alla carlofortina”: la pasta è corta, un misto di orecchiette e minchiarelli direbbero nel Salento e il condimento consiste in un sugo di tonno, neanche a dirlo locale, cotto con il pomodoro e prima di servire in tavola si dà un’ultima mescolata con qualche cucchiaio di pesto a
di Loris Campetti
Perché la restaurazione identitaria messa in scena dalla politica fa male alla società, dividendo e azzerando le conquiste della Rivoluzione francese, e fa male anche all’alimentazione, cioè alla cultura
to sale. Poi, si sa, nelle Marche si sa cucinare ed ecco pronto lo stocco all’anconitana. Bisogna anche avere il coraggio di mescolare ingredienti, ricette e culture diverse, senza strafare, senza voler stupire. Provate per esempio a mettere a fine cottura su un risotto agli scampi - al posto dell’insulsa manciata di parmigiano cara agli istriani che rivendicano la primogenitura di questo piatto – un po’ di zafferano e mi saprete dire. Per concludere, spesso i piatti della tradizione regionale sono pesantissimi, unti e bisunti e non dal Signore. Qualche intervento sapiente e misericordioso, magari politicamente scorretto, può aiutare. I deliri territoriali lasciamoli alla demenza leghista e al generone romano.
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Brasile doppio L
gare delle colture geneticamente modificate. Il Brasile moderno capitalista e globalizzato coesiste con un paese povero, arretrato e semifeudale. Anche se gli otto anni del governo Lula sono stati caratterizzati dall’attuazione di riforme a sostegno dell’agricultura familiar (tra cui i programmi Fome Zero e Bolsa Família), non sono stati fatti grandi progessi per la distribuzione delle terre, e la questione della riforma agraria continua a essere trascurata. Un aspetto interessante dei due mandati del governo Lula è la coesistenza di due ministeri che si occupano di politiche agricole: il Ministero dello sviluppo agricolo e il Ministero dell’agricoltura. Il primo promuove l’agricoltura di piccola scala e i progetti di agricoltura sostenibile, il secondo gli interessi dell’agroindustria che è rappresentata dall’1% dei proprietari terrieri, che però possiedono il 44% delle terre coltivabili del paese. Questa è la realtà del paese, una grande potenza economica con profonde contraddizioni. Rafforzare l’agricoltura di
piccola scala, valorizzare le produzioni agroalimentari di qualità e tutelare la straordinaria biodiversità del paese sono gli obiettivi principali della rete Terra Madre in Brasile. Nata nel 2004, la rete brasiliana, forte del grande interesse suscitato dai temi di cui si fa portavoce, accoglie sempre più alleati riuniti in una solido intreccio di sostegno reciproco, promozione e distribuzione di prodotti, nonché salvaguardia
del ricchissimo patrimonio gastronomico. Queste alleanze hanno dato vita, nel 2007, al primo Terra Madre nazionale, a Brasilia, in contemporanea alla IV Feira Nacional de Agricultura Familiar e Reforma Agrária, la più ampia vetrina nazionale dedicata all’agricoltura di piccola scala e ai prodotti dell’artigianato locale, organizzata dal Ministero dello sviluppo agricolo brasiliano, con il quale Slow Food collabora dall’agosto del 2004. La sinergia tra la Feira e Terra Madre ha permesso di moltiplicare lo scambio tra produttori e di avvicinarli ai cuochi e ai saperi di docenti e ricercatori universitari. Questo primo incontro ha segnato una tappa importante nel percorso di Terra Madre in Brasile, soprattutto perché ha rafforzato la comunicazione e gli attori della rete, tant’è che l’esperienza è proseguita e ora una sezione del sito di Slow Food in Brasile è dedicata alla realtà di Terra Madre. Uno spazio virtuale dove pubblicare articoli e immagini, approfondire temi legati alla produzione e al consumo, promuovere attività,
raccontare esperienze e divulgare iniziative. Nel 2006 è nato, inoltre, un gruppo di discussione on line, a disposizione degli intelectuais da terra, un ottimo metodo per alimentare la condivisione e la discussione tra realtà affini ma geograficamente distanti. L’entusiasmo della rete in seguito all’evento e il coinvolgimento del Ministero dello sviluppo agricolo e del Ministero della cultura hanno
permesso la realizzazione della seconda edizione di Terra Madre Brasile, che si è svolta a Brasilia dal 19 al 22 marzo 2010, presso il complesso culturale Funarte. Hanno partecipato all’evento 500 delegati e più di 200 osservatori (rappresentati delle istituzioni locali e della società civile, giornalisti esperti e professionisti del mondo della produzione agroalimentare). Durante le quattro giornate dell’evento i delegati hanno partecipato a workshop tematici per affrontare e discutere questioni di interesse comune. Il programma prevedeva inoltre laboratori di educazione del gusto per adulti e bambini, percorsi di analisi sensoriale, dimostrazioni gastronomiche dei cuochi della rete, conferenze e seminari dedicati alla qualità alimentare, alla produzione sostenibile e alla biodiversità agricola. Nell’area verde adiacente alla struttura che ospita l’evento è stato allestito un “mercato della biodiversità” dove i visitatori hanno potuto scoprire, assaggiare e acquistare i prodotti delle comunità del cibo, dell’Arca del Gusto e
dei Presìdi brasiliani. La collaborazione del Ministero della cultura ha favorito la realizzazione di attività culturali legate ai temi del cibo, tra cui mostre, proiezione di lungometraggi, spettacoli di musica, teatro e danza. In questa seconda edizione è stata data particolare attenzione al tema della diversità culturale e al coinvolgimento delle popolazioni indigene e si è molto discusso dell’importanza di promuovere, valorizzare e tutelare il patrimonio gastronomico del paese. La gestione della mensa è stata affidata al cuoco David Hertz e al gruppo di ragazzi coinvolti nel progetto Gastromotiva, un’impresa sociale che si occupa di catering e che si pone come obiettivo incoraggiare e aiutare i giovani che vivono situazioni di disagio ed emarginazione sociale a costruirsi un futuro nel settore gastronomico. Dona Rosa Nascimento, produttrice di farina di manioca del litorale caterinense, è venuta a Brasília per incontrarsi con altri piccoli produttori e per raccontare la sua storia. Ha 53 anni e per la prima volta affronta un viaggio così lungo, non ha mai preso un aereo ed è rimasta stupefatta dalla straordinaria diversità culturale che ha incontrato nella capi-
di Lia Poggio*
Fra le tante storie di Terra Madre, una ce la racconta Dona Rosa Nascimento, produttrice di farina di manioca del litorale caterinense, venuta a Brasília per incontrarsi con altri piccoli produttori tale federale. La sua storia è molto simile a quella di Seu Bené, produttore di farina di manioca di Bragança, protagonista del documentario Seu Bené vai para Itália che racconta la sua partecipazione alla terza edizione di Terra Madre a Torino. La diversità rimane uno degli aspetti più interessanti della rete di Terra Madre.Come ci ricorda Maria Araújo de Barbalha, produttrice del Ceará, “O povo que perde sua cultura, perde sua identidade. Não podemos mudar a cultura do outro, mas ajudá-lo”. *Slow Food
erra Madre nasce dalla necessità d’incontro e di scambio tra i veri protagonisti del settore agroalimentare, tra i rappresentanti di un modo diverso di intendere la produzione e il consumo del cibo. Un’intuizione che si è trasformata nella volontà di costruire una grande rete mondiale delle comunità del cibo, composte da persone che producono, trasformano e distribuiscono cibo di qualità, adottando pratiche sostenibili e rispettose dell’ambiente. Le comunità si oppongono all’agricoltura intensiva, lesiva delle risorse naturali, e all’industria alimentare massificata che tende a omologare prodotti e gusti e mette in pericolo l’esistenza stessa delle piccole produzioni tradizionali. La rete di Slow Food Terra Madre, composta da 3000 comunità sparse in 150 paesi, è oggi un movimento globale che si interroga sulle grandi questioni legate alla produzione e al consumo di cibo. La rete ambisce a diventare soggetto politico, punto di riferimento per le decisioni riguardanti il presente e il futuro dell’agricoltura di piccola scala, e portavoce delle istanze dei produttori e consumatori di un cibo buono, pulito e giusto. L’appuntamento biennale a Torino non è più sufficiente a soddisfare le esigenze di scambio e confronto che nascono dalla rete. La necessità di dialogare con le istituzioni locali e con la società nel suo complesso, il desiderio di raccontare le proprie esperienze e di conoscere quelle altrui, il bisogno di condivisione e di solidarietà hanno spinto la rete a organizzarsi autonomamente e a creare riunioni a livello locale. Di questa esigenza ci danno testimonianza i numerosi incontri regionali organizzati in diversi paesi, le cosiddette “figlie di Terra Madre”, realizzate in Brasile, Etiopia, Olanda, Irlanda, Bielorussia, Norvegia, Svezia, Spagna, Kenya, Argentina, Austria, Georgia, Azerbaijan, Kazakistan, Balcani e Corea negli ultimi due anni. Lia Poggio
Tutte le figlie
a promozione del cibo locale e la salvaguardia della biodiversità vegetale e culturale sono questioni cruciali in Brasile, un paese che risente particolarmente degli effetti negativi della globalizzazione alimentare, dell’omologazione del cibo, della scarsità di terre per i contadini, della rapida scomparsa degli ecosistemi a causa della deforestazione e del dila-
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arantire alla nostra popolazione l’accesso a una alimentazione adeguata, sicura e permanente è stata una preoccupazione costante del governo bolivariano”. Gladys Urbaneja Duran, ambasciatrice della Repubblica Bolivariana del Venezuela presso la Fao, spiega a il manifesto i passi compiuti dal suo paese nella lotta contro la povertà e la fame. A cinque anni dalla scadenza fissata dalle Nazioni unite, il Venezuela ha infatti già realizzato 6 degli 8 Obiettivi del Millennio per lo Sviluppo (Osm), proposti in occasione del vertice del 2000. Nel 1° semestre del 2009, il coefficiente di Gini è sceso allo 0.3928: grazie a una migliore distribuzione della ricchezza e a molti programmi sociali che hanno aumentato il reddito delle famiglie, il governo di Hugo Chavez ha ridotto le disuguaglianze. “In 11 anni di governo bolivariano – dice l’ambasciatrice -, circa 330 bilioni di dollari sono stati investiti in programmi sociali per fornire ai venezuelani cibo, lavoro, sanità, e istruzione”. E così “se nel 1999 il 70% della popolazione viveva in condizioni di povertà (49% in condizioni di povertà generale e del 21% in condizioni di estrema povertà), in 11 anni questi indici sono notevolmente diminuiti, e nella seconda metà del 2009, la povertà estrema ha raggiunto il 7,2%. Su questo ultimo punto, il Venezuela ha già soddisfatto il primo Obiettivo degli Osm”. Per quanto riguarda il secondo degli Osm la lotta contro la fame -, è stato quasi raggiunto, perché: “il tasso di prevalenza della malnutrizione è sceso dall’11% al 6% per il periodo 1990-1992 e il periodo 2005-2007 “. Tramite Casa (Corporazione per il Rifornimento e i Servizi Agricoli) e la Rete Mercal, il governo garantisce alla popolazione i prodotti di base a prezzi agevolati fino al 50%, e una varietà di carni, verdure e frutta a prezzi inferiori. “Questo è possibile - continua l’ambasciatrice – mediante l’integrazione diretta tra produzione e commercio. Non vi sono intermediari; si favorisce il decentramento dei monopoli dell’alimentare, gli agricoltori e le cooperative vendono direttamente i loro prodotti, e
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Lotta venezuelana senza l’utilizzo di mezzi di comunicazione di massa per incoraggiare il consumo.” Oltre 600.000 persone provenienti dai settori sociali più vulnerabili ricevono, tutti giorni, un’alimentazione gratuita e bilanciata dalle Reti alimentari, come le Case di Alimentazione e le cucine comunitarie. Il Pae (Programma di alimentazione scolare) raggiunge oltre 4 milioni di bambini in età scolare. Come risultato di queste politiche, dal 2003 il numero di calorie disponibili per ogni venezuelano è di 2.700 al giorno, 126%, rispetto ai requisiti minimi stabiliti dalla Fao”. Per garantire il diritto all’alimentazione e lo sviluppo agricolo sostenibile - previsti negli articoli 305 e 306 della costituzione venezuelana – il governo Chavez ha dichiarato guerra al latifondo adottando uno specifico decreto legge e, nel 2003, facendo tesoro dello sciopero degli imprenditori che aveva bloccato gran parte della distribuzione di beni alimentari, ha intensificato le politiche volte a garantire la sicurezza alimentare dei venezuelani, promulgando una serie di leggi: “Nel 1998 – spiega l’ambasciatrice -, prima che iniziasse il proceso bolivariano, le statistiche mostravano che la produzione agricola, nel decennio degli anni ’90, aveva registrato un netto calo in tutti i settori, a causa delle politiche neoliberiste, imposte dai monopoli e dalle multinazionali, che favorivano un’agricoltura di esportazione. In questi 11 anni, con l’attuazione della Legge sulla Terra e lo Sviluppo Agricolo, i piccoli agricoltori vengono sostenuti e si sono create delle imprese agricole di proprietà sociale. La superficie coltivata è aumentata del 48%, arrivando a 2,4 milioni di ettari, rispetto a 1,6 milioni
di Geraldina Colotti
L’ambasciatrice presso la Fao racconta cosa sta facendo il suo governo nel contrastare la povertà e la fame. Nel paese quinto esportatore di petrolio al mondo
del 98. Le modifiche più importanti si sono verificate nei comparti strategici, come mais, riso, soia, zucchero e caffè”. Inoltre, “Con l’eliminazione della pesca a strascico, l’industria ha recuperato l’ecosistema marino, si è favorita la
pesca artigianale, che è aumentata del 14%, si è sviluppata la pesca industriale alternativa, e sono state create imprese socialiste, che integrano la dieta del popolo con tonnellate di frutti di mare”. Per garantire la sostenibilità dell’ambiente, il settimo degli Osm, il Venezuela, quinto esportatore di petrolio al mondo, ha emanato una serie di leggi e firmato numerosi impegni internazionali per la conservazione delle risorse naturali e degli ecosistemi: perché – afferma l’ambasciatrice - sebbene “la nostra principale attività economica sia quella del petrolio, abbiamo anche uno straordinario patrimonio naturale, che consiste in acqua, foreste e biodiversità. Una Legge Organica ha favorito i progetti comunitari, e oggi il 90% della popolazione ha accesso ad acqua potabile sicura, che è un bene pubblico”. Le donne sono state le principali beneficiarie dei piani di
sviluppo e per la promozione della parità tra i sessi: 4 dei 5 poteri pubblici sono guidati da donne, e la loro partecipazione politica è alta in tutti gli organi di governo. “Attraverso il Ministero del Potere Popolare per le Donne e l’Uguaglianza di Genere – dice ancora l’ambasciatrice -in tutti gli stati del Paese, vengono raccolte proposte per realizzare progetti di apprendimento collettivo e di organizzazione della comunità. La creazione della Banca di Sviluppo della Donna sostiene progetti di piccole dimensioni attraverso il micro-credito. La Costituzione del Venezuela contiene l’articolo 88, che riconosce il lavoro domestico come produttore di plusvalore e lo assicura socialmente”. Anche il terzo degli Oms – garantire una maggiore partecipazione delle donne alle attività economiche e sociali - è stato così raggiunto. Un altro tassello importante verso “una società socialista, produttiva, inclusiva e partecipata”.
osa attingiamo dal piatto, alimenti indispensabili o veleni che ci fanno ammalare? Dopo il bestseller Toxic, che svelava le cause dell’obesità, William Reymond – giornalista francese che vive da molto tempo negli Stati uniti – torna con una nuova inchiesta sulle conseguenze dell’alimentazione industriale sulla salute: Cibi killer (Nuovi Mondi, traduzione di Fabio Regattin). L’inchiesta di Reymond riparte da dove si era concluso il libro precedente: da Rio Grande City, una città del Texas meridionale, a pochi chilometri dal Messico. Una città di frontiera invasa da McDonald’s, Burger King o Pizza Hut… cibo spazzatura i cui effetti si traducono in statistiche allarmanti: “Un quarto dei bambini sotto i cinque anni è obeso; e, tra i ragazzini di dieci anni, quasi uno su due – seguendo l’esempio dei propri genitori – si propone come serio candidato per il diabete di tipo 2”. Oggetto d’inchiesta, questa volta, è il rapporto fra il cibo industrial e lo sviluppo di gravi malattie come l’Alzheimer e alcuni tipi di cancro, una correlazione evidenziata da molti studi scientifici. Gli alimenti che compriamo – scrive Reymond – si sono progressivamente impoveriti delle capacità nutrizionali: quanti sanno che per consumare la stessa vitamina A che i nostri nonni assumevano con un’arancia, oggi dovremo consumarne… 8? Per sfuggire alle insidie del cibo-spazzatura, è in arrivo L’Assaggenda duemilaundici di Anna Colarossi, illustrata da Monica Auriemma (Sinnos), dedicata alle zuppe: 365 giorni di curiosità e ricette tradizionali di feste italiane e di tanti paesi diversi. Sempre dalla Sinnos, il Calendario interculturale 2011, illustrato da autori vari, che offre ricette di cibi e bevande per conoscere il mondo.
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