scritto & mangiato
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
Un anno vissuto combattivamente, a difesa di beni comuni dall'acqua alla terra. Storie di vigilie culinarie intorno al mondo, con calendario e atlante alla mano
Ciao2010
DICEMBRE 2010
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in collaborazione con Slow Food
Le illustrazioni di queste pagine sono di Paolo Pineschi, che vive e lavora a Roma dove svolge la sua attività di architetto. Dal 2001 è associato dello studio AKA a Roma. Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8e tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 9/12/2010
4 Pancia e cervello di Alberto Capatti 7 Grassomagro di Paola Gho 10 Birre sotto l’albero di Eugenio Signoroni 11 Il bue di Amedeo di John Irving e Giovanni Ruffa 12 Maialata di Silvia Ceriani 13 Mangiare il Teˆt di Nelly Krowolski 15 Lo stomaco non dorme di Geraldina Colotti
iao 2010, è stato un anno vissuro combattivamente. Per un referendum sull’acqua pubblica sono state raccolte in Italia 1,4 milioni di firme. Si è capito che battersi per la difesa e per il rilancio dei beni comuni è una questione strategica. I nostri amici di Slow Food, partner preziosi di questo supplemento trimestrale, al Salone del Gusto di Torino e a Terra Madre nello scorso ottobre hanno dimostrato quanto può valere allearsi con gli agricoltori per difendere una piccola produzione, un bosco o, più in generale, quella biodiversità minacciata da colate di cemento. La terra ne ha bisogno, tanto più che la crisi picchia duro ovunque e durissimo sui contadini. Ciao 2010, se te ne vai è meglio per quel che è successo in casa Ogm. Lo scorso agosto la Commissione europea di Bruxelles ha approvato l’importazione a scopo alimentare e come mangime di sei varietà di mais geneticamente modificato. E’ una porta aperta ai cibi transgeniFRANCESCO PATERNÒ ci, un segnale perché noi tutti si stia con gli occhi aperti. A difesa di un’alimentazione ogm-free, cioè di un altro bene comune. Ciao 2010, ti lasciamo con queste pagine a seguire che raccontano storie di vigilie natalizie, a tavola, in osteria, in cucina e soprattutto nel mondo. C’è un filo rosso o una stella polare che le accompagna, come dice il professor Capatti appena voltate pagina: “La guerra scoppia quando i piccolissimi alimenti, non ancora tutelati e alla ricerca di una difesa, intendono insegnare al sistema, con le sue batterie di scatole e di surgelati, che cosa dovrebbe essere la qualità commerciale”. Storie di maialate (in senso letterale e non metaforico, per una volta), storie di birre, storie di buoi grassi e belli (così almeno ci raccontano). In coda, che qui non è un altro piatto, trovate un po’ di libri cucinati a dovere. Il resto è da gustare, passata la vigilia e andando oltre. Nel 2011 torniamo.
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Nel 2011 torniamo
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di Alberto Capatti*
Pancia e cervello
Cosa nutre l’alta qualità? Riflessioni sul sistema alimentare in Italia, dove a insegnarci come mangiare sono anzitutto gli anziani, poi una schiera di giovani, ancora più vecchi dei loro maggiori...
e guardo il ventennio alle nostre spalle, il sistema alimentare in Italia mi appare immobile. Agli scaffali dei supermercati, con le loro linee – quella blu della pasta, quella oro del caffè – si contrappongono le scelte elitarie, celebrate in saloni come quello di Torino e presso Eataly, l’iper della qualità; al fast food (6 euro per big mac patatine e coca) fanno da contraltare le “osterie” segnalate da Slow Food (massimo 35 euro). Sono i consumi che permettono di scoprire una popolazione più o meno capace di spendere per il cibo. L’offerta muta impercettibilmente, e un mozzarillo prende posto fra un crispy e il big mac centrando i panini della multinazionale americana sull’Italia, in Italia. Non sono trovate strutturali, ma è marketing, in un paese che della localizzazione dei prodotti, delle cucine e della microgastronomia ha fatto il principale principio di coesione politico-alimentare. A veder bene, infatti, l’Italia è divisa, oltre che fra ricchi e poveri – per costoro, nelle grandi città, un mac è il pasto domenicale al ristorante – anche fra tradizionalisti e modernisti, e verrebbe voglia di dire che i modernisti sono gli assatanati della qualità, gli scouts del tipico. Comunque, la convivenza è tacita, e tutti i frigoriferi sono pieni di prodotti dell’agroalimentare. Le élites gastronomiche sono poco inclini alla tensione intellettuale. Da tre anni i soci di Slow Food rimuginano lo slogan inventato da Carlo Petrini e applicato al cibo – buono, pulito e giusto – e ne sono paghi, perché, in fondo, è l’ave maria del gusto, tra aggettivi facili da ricordare e da assegnare. Chi fa qualche passo oltre, dotato di audacia e di fantasia, resta sempre in linea con le icone della associazione: il contadino e terra madre principalmente. I laici, pochi e arrabbiati, come sempre irridono ai santini e si augurano di non vedere un giorno un cartellone sull’autostrada che segnali con l’immagine del contadino, del farmer, un biocampo etico, con le pianticelle di un orto, l’orto virtuoso di prossimità. Ma non corriamo il pericolo di arrivare a tanto: il dibattito scarseggia, e gli italiani prendono il loro futuro alimentare come un passato migliore, anch’esso fornito di guide che permettano di fruirlo appieno, e costellato di orti e di mercati per istruirsi ancora, tenendo per mano i loro bimbi. Dire però che il sistema alimentare sia silenzioso o laconico, sarebbe un controsenso. Una pioggia di nomi, di cibi e di vini, ognuno con una loro ragion d’essere, a ognuno una forma, una sostanza, una materia. In questo comparto, c’è un polverone che dà lavoro, riflessione e ristoro, che distrae dai compiti e concentra tutta l’attenzione. La novità, rispetto a cinque decenni addietro? Le parole, le formule, le etichette. Ma dietro le etichette, ormai, regna la noia. Il made in Italy copre di tutto e non copre nulla, malgrado le sue conserve consumate ed esportate come nazionali: pasta e prosciutti che restituiscono la faccia più nota di un paese riproposto ovunque nel mondo. E tra esse le denominazioni di origine protetta, le indicazioni geografiche protette, i prodotti con marchi europei assegnati ad alimenti e località italiane, altra faccia arcinota, resa popolare da una grande forma di formaggio o da una bottiglia d’olio toscano. Tutto questo finanziato dagli assessorati delle regioni, da una politica che domanda solo di mettersi la coscienza a posto e incoraggiare un senso di pienezza e di abbondanza, oppure prevenire la minaccia di un pericolo, le paure ambientali. La guerra scoppia quando i piccolissimi alimenti, non ancora tutelati e alla ricerca di una difesa, intendono insegnare al sistema, con le sue batterie di scatole e di surgelati, che cosa dovrebbe essere la qualità commerciale. Una eccezione? Una anomalia? Sicuramente la sintesi di un ambiente fragile, di piccole comunità, di specie vegetali o animali minacciate d’estinzione, di saperi silenziosi. Così nasce e combatte una ricottina o un piatto di acciughe che pochissimi hanno avuto il privilegio di assaggiare. L’alta qualità nutre il cervello più che la pancia, e tocca una parte infima non solo della popolazione ma del fabbisogno nutritivo. Nutre, instillando qualche idea che entra nella memoria dell’individuo, si assesta e definitivamente si aggiu-
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sta alla vecchia mentalità, aiutandola a digerire. Il paradosso sta nel divario fra gli alimenti d’uso con un titolo commerciale, e quelli di riferimento ideologico, chiamati da associazioni come Slow Food prodotti dei presìdi, studiati, tutelati, degustati con assaggi che costituiscono in sé una contestazione e un privilegio. C’è la qualità a norma, riconosciuta nelle etichette e dalle Asl, e c’è una qualità più sottile, diremmo intellettuale, filtrata da conoscenze approfondite delle filiere, dello spazio e del tempo che occorrono a un uomo per fabbricare un alimento e a un altro per saperlo mangiare. Questa seconda qualità è come quella dei libri di pregio, delle edizioni d’arte con carte di stracci e torchi di legno a mano. È la qualità di un prodotto, ultimo anello di una sequenza di lavoro, e primo di una seconda che si manifesta dopo il taglio, il calore, i condimenti… Qual è il suo futuro? Gli ultimi vent’anni hanno dimostrato che è mediaticamente brillante ma forse poco incisiva nel mutare basi, strutture ed esiti del sistema agroalimentare. Come uscire da questo stallo? La soluzione, eretica, è levare discipline, dogmi e preghiere, introducendo il dibattito, lo studio e la ricerca, non sul set, non a soli fini propagandistici come era utile fare sinora. Poi entrare nella pedagogia, una pedagogia della libertà, perché cibo, oggi, è anzitutto libertà di scegliere, rifiutare, ricredersi. Cibo e prodotto, oggi, sono complessità che risulta riduttivo semplificare con degli slogan, ma pare più corretto descrivere senza correggerne retrospettivamente i processi, senza anteporre alla realtà princìpi e valori. Ammettere che qualsiasi
pesce arrivi in tavola ha necessitato il combustibile a petrolio (per essere catturato e distribuito), l’energia elettrica (per la refrigerazione o la surgelazione), il controllo (sanitario e commerciale), il confezionamento (per il trasporto e per la vendita) significa dire che benzina, corrente elettrica, misure termiche e materie plastiche sono alcuni dei suoi ingredienti. Accertare poi che il viaggio da esso compiuto, dall’Oceano Indiano a Milano, comporta certi valori qualitativi e ne esclude altri è affrontare un secondo livello di valutazione, comparativa con altre provenienze e altri livelli di conservazione. Il cammino è lungo e, fino a ora, si continuano a ripetere vecchi slogan. A insegnarci come mangiare – è un insegnamento antico, impartito cent’anni fa solo ai bambini, oggi sempre più agli adulti da medici, comunicatori e gastronomi – sono anzitutto gli anziani, poi una schiera di giovani, ancor più vecchi dei loro maggiori, che cercano di farsi belli con il cibo e di mostrare di saper parlare alla gente. Vediamo in televisione alcuni industriali, decrepiti imbonitori, che raccomandano il loro pollo o il loro raviolo sottovuoto, cuochi di ogni share, qualche intellettuale che presenta il suo libro, le star della sostenibilità e del chilometro zero, e la televisione rappresenta il meglio di un paese che le idee preferisce risputarle, se già masticate, piuttosto che dar loro un suono o una forma. A tavola si invecchia, non diceva ma oggi dice il proverbio. *Docente di Storia della cucina presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo
AL CUORE DELLA SALUTE di Giulia Bianchi
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n cuore che nasce incrociando due forchette. Che aiuta a mangiare sano e vivere meglio. Quando lo trovi nella vetrina del bar, della tavola calda o della trattoria dove hai deciso di fermarti per uno spuntino, puoi stare tranquillo: se vuoi, mangerai qualcosa di appetitoso ma non pesante. Piatti, insalate e panini preparati in modo semplice, con prodotti freschi di stagione, a filiera corta. Con la scommessa di coniugare la leggerezza al gusto. Con la certezza di non aver pranzato male in ogni caso. Una idea intelligente. Si chiama“Pranzo sano fuori casa”. Un progetto della Regione Toscana che partirà fra circa un mese ed è legato all’obiettivo, comune al singolo come alla sanità pubblica, di“guadagnare salute”. L’adesivo con il cuore sopra non costa niente: l’auspicabile via libera al progetto di tanti ristoratori di mezzodì non ha effetti collaterali. Non si aderisce ad alcuna associazione, né tantomeno si paga qualcosa. Anzi alla fine ci guadagnano tutti. Chi mette alla prova le sue abilità culinarie nel sempre raffinato segno della semplicità. Chi decide di consumare in modo consapevole. Anche chi, dal guadagnare salute di ognuno di noi, trae a sua volta un vantaggio. È il sistema sanitario, che quando è pubblico è di tutti e per tutti. Insomma anche nostro. Perché preoccuparsi tanto di mangiare con attenzione, e non lasciare invece libero sfogo all’umore gastronomico del giorno? Qualche motivo c’è. Anche serio. Ad esempio il 14 novembre scorso, nella giornata internazionale del diabete, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato il suo avvertimento: in trent’anni in Italia i malati sono raddoppiati. Sono passati dal 2,5% al 5% della popolazione. Quasi tre milioni di cittadini della penisola. In maggioranza colpiti da un diabete di tipo 2, tipico negli adulti in sovrappeso. Ma l’età si sta sempre più riducendo, segnala l’Oms, che offre anche la spiegazione di quella che ormai definisce una epidemia globale. Una risposta semplice che si chiama junk food. Il “cibo spazzatura”, che certo costa meno ma porta, anche rapidamente, all’obesità e all’insorgere della malattia. Non per caso, i picchi più significativi del diabete di tipo 2 si stanno registrando nei paesi poveri. Ma anche in quelli in sviluppo come la Cina e l’India, che pure hanno lunga tradizione culinaria, esportata nel mondo al pari dell’ancor più celebrata scuola italiana. Dunque non è solo una malattia dei più poveri, o delle gastronomie nazionali meno “evolute”. Contrastare la diffusione del junk food non è semplice. Specie da quando le abitudini alimentari sono state rivoluzionate dai modelli di vita più “performanti”. Si pranza veloce. Magari poco, per non appesantirsi. E quasi sempre fuori da casa. Solo in Toscana 600mila persone maggiorenni, per impegni di lavoro o di studio. mangiano al bar, alla mensa, alla tavola calda, perfino in ufficio. Va da sé che così facendo aumenta il rischio di passi falsi. Che certo possono essere voluti, come spesso accade. Ma che talvolta diventano obbligati, quando latitano menù alternativi capaci di abbinare qualità e leggerezza. “Pranzo sano fuori casa”parte da qui. Dalla possibilità di offrire una scelta diversa, rispettando alcune piccole regole. Preparare panini anche senza salse, e magari con un solo ingrediente, nel solco della salda tradizione gastronomica toscana. Quella che consiglia di preparare insalate impreziosite solo da ottimo olio extravergine di oliva e da sale iodato. Poi piatti cucinati in modo semplice, con alimenti freschi di filiera
corta. E ancora verdura e frutta di stagione, e macedonia senza liquori. Insomma un menù che, senza rinunciare al piacere del cibo, tiene conto di quella“piramide alimentare”che certifica le buone pratiche di una corretta e bilanciata alimentazione. In grado di aumentare le difese naturali dell’organismo, prevenendo guasti fisici, malattie vascolari, e anche quella obesità che, come segnala l’Oms, tanto dipende dal junk food. Con annesse, e soprattutto connesse, patologie. Una piramide alimentare subito adottata dalla Toscana, e ingentilita nella sua fredda geometria da un centinaio di prodotti tipici genuini, freschi e naturalmente prodotti vicino al luogo di consumo. Dal pollo del Valdarno ai pecorini della Maremma grossetana, senza (mai) dimenticare il prosciutto del Casentino. Non costa niente ai ristoratori aderire a“Pranzo sano fuori casa”(per informazioni ulteriori, ad anno nuovo sarà operativo anche l’indirizzo web www.regione.toscana.it/pranzosanofuoricasa). Perfino la pubblicità è gratis, grazie a una campagna di comunicazione messa in cantiere con l’obiettivo di raggiungere coloro che, appunto, fuori casa pranzano. Quanto a questi ultimi, hanno una possibilità in più di scegliere. Quella di volersi un po’più bene anche quando arriva il desiderato momento di farsi un bello spuntino.
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Grassomagro liturgici. Obblighi che, tornati rigorosissimi in epoca post-tridentina, si sono ovviamente allentati e annacquati con la progressiva secolarizzazione della società. Restano, ancora radicate nelle gastronomie regionali e negli usi familiari, preparazioni legate al calendario liturgico, come i dolcetti quaresimali, i piatti del “venerdì di magro” (come non pensare ai veneziani bigoli in salsa di acciughe?), le paste condite con il già citato sugo di scàmmaro. E i menù della vigilia di Natale, che fanno la parte del leone proprio sulle tavole delle regioni centromeridionali dove, ben lungi dal sottovalutare il pranzo del giorno dopo, si dedica particolare cura al cenone di magro con familiari e amici. Se in una regione lambita da un mare pescosissimo come la Puglia abbondano nel menù pesci freschi e, soprattutto, frutti di mare, il pesce conservato ha un posto d’onore presso napoletani, romani, lucani, calabresi. Sarà il baccalà fritto, magari preceduto da fritture vegetali (cavolfiori, broccoli, carciofi…) o dalla scarola imbottita; sarà lesso, accompagnato da peperoni crusch’ di Senise, essiccati al sole e poi tuffati nell’olio bollente; sarà il pescestocco ‘a ghiotta, che si avvale dell’ottima materia prima proveniente dai laboratori di Cittanova o di Mammola, in provincia di Reggio Calabria, storicamente centri della lavorazione dello stockfish, importato dai paesi del Nord attraverso i porti campani e qui pulito e spugnato nelle buone acque locali. A Roma non dispiace inserire, ora che è stata riscoperta dai ristoranti, la minestra di broccoli e arzilla, da farsi con il brodo di razza e con il cavolbroccolo romanesco, con le cimette puntute di un bel verde chiaro; a Napoli lo spaghetto di magro o con le vongolette comuni; altrove si sceglieranno ceci in zuppa a precedere, con il rito un po’ truculento della sua morte, il capitone, da friggere, arrostire o marinare. Mitico capitone, anguilla femmina di cospicue dimensioni che si crogiola nelle acque dolci o semisalmastre delle lagune per provvedere alla riproduzione; inquietante capitone, che guizza lucido e scuro nelle grandi bacinelle del mercato napoletano, con i venditori che, ancora oggi, richiamano gli acquirenti con la voce ‘e vive e ‘muorte, capitune verace, suggerendo il più basso prezzo per il capitone morto. Poi in cu-
DALLA CUCINA
di Paola Gho
Nei ricettari, un’alternanza che sovrasta per lungo tempo ogni altra distinzione. Con i cuochi “storici” a raccomandare ingredienti che incrocino l’offerta stagionale, le esigenze del palato e gli obblighi liturgici
cina, a vedersela con l’anguillona sgusciante rischiando rimbalzi e tagli mancati, se non addirittura la fuga del capitone stesso, il fuoriprogramma che movimenta la giornata della scombinata famiglia inscenata da Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello. Capitone che arriva da Comacchio, da Lesina, da Bolsena o magari dal biondo Tevere se i pescatori di frodo, ben organizzati con nasse assassine (le vietatissime «mazzangole») non cadono a loro volta, come per fortuna è successo, nelle maglie delle forze dell’ordine. Sulla tavola napoletana si porterà con il pesce l’insalata di rinforzo (vedi box) e, infine, cesti di frutta fresca – arance, mandarini, meloni d’inverno, pere, uva, melagrane, – e sec-
ca: castagne, noci, nocciole, mandorle, arachidi, fichi infornati, per concludere con dolci secchi o fritti. E, fra struffoli, mostaccioli, rococò e susamielli si aspetta – o si aspettava – la messa di mezzanotte. Ma si sa, la cosiddetta “tradizione” è uno zoccolo tutt’altro che fisso e immobile, anzi si costruisce – per poi trasformarsi e di nuovo stabilizzarsi per un tempo più o meno lun-
go – sugli scambi e sulle integrazioni. In Italia il clou dell’ibridazione si colloca a partire dagli anni Cinquanta, con la massiccia immigrazione dal Sud: alla Fiat operai piemontesi lavorano gomito a gomito con campani, calabresi, siciliani, pugliesi; i nuclei familiari diventano eterogenei e il capitone, che a Torino non aveva nazionalità, compare sulle tavole dei cenoni natalizi accanto al cotechino o allo zampone. Per le stesse ragioni, e per molte altre indotte dalla comunicazione giornalistica e televisiva, il Nord, che ha sempre riservato più spazio al pranzo del giorno di Natale con tortellini, agnolotti, capponi e panettoni, si accoda al rito della cena della vigilia con trionfo, questa volta, di crostacei, mol-
luschi, orate in crosta e dentici al forno. Non si dimentica, in qualche famiglia che resiste al fascino del pesce cosiddetto “pregiato”, il vecchio cefalo cotto con le sue interiora o un cappun magro che infila, sotto strati di verdure lessate e di salsa verde, qualche frammento di pesce cappone. Ma più spesso sulla piramide degli strati, oggi rosseggia una scenografica aragosta.
che sarà mai questa insalata di rinforzo da gustare la sera della vigilia di Natale? Lo si può chiedere, per esempio, ad Antonio Tubelli che la descrive nel suo recentissimo La cucina napoletana, edizioni L’ancora del Mediterraneo, Napoli ottobre 2010, volume che spazia dai menù delle festività, ai piatti di casa, dalle ricette storiche di derivazione cortigiana alla cucina di strada, dai piatti che furono tipici dei “mangiafoglie” al trionfo della pasta, quando i napoletani sposarono i maccheroni. Commenti, riflessioni e, naturalmente, ricette. Come questa: cimette di cavolfiore e di broccoletti lessate, olive verdi e nere, filetti di acciughe dissalate, papaccelle (un piccolo peperone carnoso e tondeggiante) e altre verdurine sott’olio e sott’aceto. Da condire con olio e sale e da gustare lungo le feste natalizie, “rinforzando” ogni volta con qualche altro ingrediente. (p. g.)
Rinforzo napoletano
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uesta la versione pugliese di un detto diffuso in tutto il Mezzogiono italiano: ricorda l’intrinsecità del digiuno della vigilia di Natale, giorno in cui si digiunava a pranzo mentre la sera si mangiava di magro consumando pesce fresco o conservato, verdure, magari una pasta allo scàmmaro (a Napoli è un condimento a base di acciughe salate sciolte nell’olio, aglio, capperi e olive snocciolate), frutta fresca e secca. Insomma, in attesa del pranzo sontuoso del giorno dopo, la vigilia non ci si cammarava, laddove càmmaro e scàmmaro costituiscono le rotaie di un binario su cui correvano gli usi alimentari, che rispettavano con rigore i giorni “di grasso” e quelli “di magro”. Le portate – riferisce l’etnologo Vito Teti nel saggio Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, contenuto nel tredicesimo volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi – erano, a seconda delle zone, sette, nove, tredici, venticinque, secondo un rituale di origine magico-religiosa, e bisognava assaggiare un boccone di ogni cibo, fino ad arrivare al numero previsto. Il mangiare “di magro” o “di grasso” in quelle comunità si fondava su ragione e necessità. Sedimentazioni culturali secolari inducevano a privilegiare un’alimentazione vegetariana: dalle prescrizioni dei Pitagorici a quelle di Gioacchino da Fiore, dalle indicazioni delle confraternite religiose agli usi alimentari descritti da Tommaso Campanella ne La città del sole, dove non si uccidono volentieri animali utili come il bue o il cavallo. Lo stato di necessità, poi, induceva a far “buon viso a cattivo gioco” e a esaltare sulla tavola le “foglie” (come non ricordare che i napoletani, prima di diventare “mangiamaccheroni”, sono stati a lungo “mangiafoglie”), ovvero lattughe, cicorie, erbe coltivate o spontanee, e poi zucche, cavoli, cipolle, patate… anche se il florido con la pancia piena e la tavola imbandita di carni, di lardo o di provolette al burro aleggiavano nei sogni di ciascuno. Nei ricettari, l’alternanza grasso/magro sovrasta, per lungo tempo, ogni altra distinzione e i cuochi “storici” raccomandano di scegliere gli ingredienti cercando di incrociare l’offerta stagionale, le esigenze del palato e gli obblighi
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Birre
sotto l’albero a tradizione delle birre di Natale è molto antica. Se lontani antenati possono essere considerate la bevanda alcolica che i Romani preparavano per festeggiare i Saturnalia e la birra ad alta gradazione che, in epoca medievale, si produceva nei monasteri durante le festività natalizie, la loro storia vera comincia in Belgio a metà Ottocento. I birrifici, un tempo numerosissimi, confezionavano, inizialmente per proprio il consumo, in seguito per regalarle ai clienti più fedeli, birre ad alta gradazione arricchite da spezie, come cannella e chiodi di garofano, e miele. Conosciute nei paesi anglosassoni con il nome di winter warmers, erano prodotte esclusivamente per la stagione invernale e, spesso, la ricetta cambiava di anno in anno. Oggi sono preparate di solito in estate e sono pronte per il periodo festivo. Pronte, ma non al massimo della loro espressione organolettica. Date la notevole alcolicità e la complessità aromatica, necessitano di tempo per maturare e danno il meglio l’anno successivo la produzione o dopo ancora. Imbottigliate spesso in magnum o in doppio magnum in cui rifermentano, vanno versate in bicchieri ampi, per essere bevute in accompagnamento a cioccolato o formaggio. La tradizione ha rischiato di scomparire a metà del Novecento, da un lato per la complessità di una preparazione lenta e costosa, ma soprattutto a causa dello sviluppo dei birrifici industriali che hanno nella standardizzazione del prodotto uno dei loro punti di forza. Non a caso una delle
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DALLA CANTINA
di Eugenio Signoroni
Una antica tradizione che ha rischiato di scomparire a metà del Novecento, a causa dello sviluppo dei birrifici industriali. Il caso della Samichlaus, sparita e poi ricomparsa in Austria, al birrificio Eggenberg birre di Natale più famose, la Samichlaus del birrificio svizzero Hürlimann, ha cessato di essere prodotta quando questo è stato acquistato dalla Carlsberg, alla fine degli anni Novanta del Novecento. Ma la Samichlaus non è scomparsa, oggi è brassata in Austria dal birrificio Eggenberg. Molti sono i motivi di interesse di que-
sta specialità: innanzitutto il fatto di essere a bassa fermentazione, mentre le birre natalizie sono di solito ad alta. Prodotta per la prima volta nel 1979, la Samichlaus, che deve il nome a quello di Santa Claus nella lingua svizzero-tedesca, è il frutto della ricerca sui lieviti condotta dal fondatore del birrificio Albert Hürlinamm, che aveva trovato il modo di portare la bevanda a 14 gradi, un record a quei tempi. La Samichlaus è brassata una sola volta all’anno, il 6 dicembre, giorno di San Nicola e, dopo aver fermentato per tre mesi, matura a bassa temperatura per quasi 10 mesi ed è venduta nell’inverno successivo. Una birra di Natale senz’altro particolare, anche perché non prevede spezie tra i suoi ingredienti ma ha come fonti esclusive dell’aroma il lievito e l’alto numero di luppoli (muehlviertler insieme a merle, magnum e spalter). Un ruolo molto importante nella rinascita della tradizione delle birre di Natale ha avuto il movimento della birra artigianale statunitense. Anchor Brewing è il birrificio capostipite della nouvelle vague americana. Tra i suoi prodotti storici non si può non citare la Our Special Ale, meglio conosciuta come Christmas Ale, la cui produzione è iniziata nel 1975, primo esempio di birra
natalizia prodotta negli Usa. Nei primi anni la ricetta restò la stessa: una birra ricca in malto, dal color tonaca di frate, aromatizzata con luppolo cascade in dry hopping (aggiunto fresco durante la fermentazione). Ma dal 1980 Fritz Maytag, titolare e birraio, decise di utilizzare ogni anno spezie diverse e di tenere la ricetta assolutamente segreta. Ogni anno cambia l’etichetta, che raffigura un albero di Natale sempre diverso, diventando così un ricordo o un oggetto da collezione. Come detto, è il Belgio la patria d’origine di questa tipologia. Tra i molti esempi ci sono la Stille Nacht del De Dolle Brouwers e la Gouden Carolus Christmas del birrificio Het Anker, il più antico nella città di Mechelen. È un classico esempio di birra di Natale e la sua produzione è ricominciata nel 2002, dopo che era stata abbandonata per 38 anni: ad alta fermentazione, dai toni ambrati piuttosto intensi e dalla gradazione intorno ai 10 gradi, è aromatizzata con sei spezie e tre varietà di luppolo originarie del Belgio. La Stille Nacht, invece, ha una storia più movimentata e un profilo aromatico poco canonico per lo stile natalizio, dato che si tratta di una birra acida. Nasce con toni scuri e maltati nel 1982, dalla mente del birraio Kris Herteleer che nel 1990 ha cambiato la ricetta, trasformandola in una birra dai chiari riflessi dorati. Fino al 2000 fermentava con i lieviti del birrificio Rodenbach che le donavano la caratteristica nota acidula, oggi è ottenuta fermentando il 20% del mosto con batteri lattici. E l’Italia? Terra di scarsa tradizione birraia – anche se ormai alcuni birrifici hanno più di dieci anni – è riuscita a creare birre natalizie che in alcuni casi hanno riscontrato un successo tale da essere poi prodotte tutto l’anno. È il caso della Nöel del Birrificio Baladin o della Divinatale di Torrechiara, due prodotti che dicono della flessibilità con la quale il movimento italiano ha interpretato questo stile, riuscendo a spaziare dal non utilizzo totale della speziatura al mondo delle birre acide, dall’utilizzo di erbe locali alla più tradizionale aromatizzazione con ani-
ce e altre spezie. La Nöel del Baladin è una birra di Natale anomala. Non prevede, come la Samichlaus, alcuna speziatura e la componente aromatica è affidata al lavoro del lievito e alle diverse tostature dei malti. Questa scelta è uno dei motivi del suo successo: l’attento lavoro di fermentazione ha permesso a Teo Musso, il suo artefice, di dimostrare come si possa creare una birra assai complessa e di forte impronta natalizia senza l’utilizzo di spezie, mantenendo eleganza e bevibilità. È invece l’acidità a caratterizzare la Divinatale del birrificio Torrechiara, dai toni chiari, fermentata lasciando il mosto a contatto con l’aria per un giorno intero, finché batteri e lieviti non l’abbiano contaminato e iniziato la loro attività. Una birra natalizia non classica, con un naso pungente e citrino. Sensazione quest’ultima che si ritrova in bocca, accompagnata da un finale quasi sapido, sorprendente. Un prodotto di grande complessità. Moreno Ercolani del birrificio l’Olmaia si cimenta con le birre di Natale interpretandole nel senso più classico, quello della speziatura, affidata al miele di Olmo. La Christmas Duck ha una gradazione tipicamente elevata (8,5 gradi), bel colore bruno, grande ampiezza gustativa e note tostate dei malti che si fondono negli aromi del miele per dare sensazioni calde riconducibili alla frutta secca e ai canditi. A scanso di equivoci, Leonardo di Vincenzo, birraio di Birra del Borgo, affermatissima realtà laziale, il Natale l’ha messo nel nome. La 25 dodici è una birra natalizia piuttosto classica: calda al palato e intensamente speziata, con note molto intense di agrumi canditi, sostenute nel finale da una piacevolissima vena amara data dai luppoli. Un tocco di grande bevibilità. Infine la Magia d’inverno di Massimiliano di Prinzio del Birrificio Maiella, giovane realtà abruzzese, che prevede un importante utilizzo di grano duro Senatore Cappelli e una speziatura, anche nella versione estiva, con scorze d’arancia. Una birra dai toni ambrati piuttosto carichi in cui è il malto a farla da padrone, regalando sensazioni avvolgenti e di calore.
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IN VIAGGIO
di John Irving e Giovanni Ruffa
Crescere buoi grassi richiede tempo, cura e capacità. E la resa economica finale non compensa spese e sacrifici. Intorno alle tecniche si raccontano storie e leggende
Il bue di Amedeo S
con il buio da Saluzzo, Savigliano, Fossano, Alba, ma anche da Asti, Torino, Milano e trovano un paese già tutto in piedi. Gli addetti ai lavori, nei grembiuloni di ordinanza, con bastone e cappello, se ne stanno a gruppi chiacchierando in dialetto. Poi entrano nei recinti del bestiame, osservano e valutano, palpando cosce e musi (un tempo, c’era uno specialista in questa operazione, il tocau, esperto nel “toccare” e valutare muscolature e consistenze). Con loro, i membri della giuria che decreterà i vincitori delle tre categorie: vitello comune o nostrano, migliorato e della coscia. Quest’ultimo, il più tipicamente, e orgogliosamente, piemontese, è il frutto di una mutazione naturale riscontrata per la prima volta in un vitello nato nel 1886 a Guarene d’Alba: è il vitello “della coscia”, dotato di una doppia muscolatura e, di conseguenza, di una maggiore ricchezza in carne; il tipo migliorato deriva dal suo incrocio con il bue comune. Poi, naturalmente, i buoi grassi. Il bue di razza piemontese oggi è allevato per la carne ma un tempo, prima della meccanizzazione e dei motori, era soprattutto una bestia da lavoro, tanto da essere detto il “trattore delle Langhe”. I vitelli erano castrati fra i due e i quattro mesi, per rafforzarne la muscolatura e renderli docili. A tre anni cominciavano a trainare carri e aratri, in campi e vigneti. Dopo tre-quattro anni, ritirati dal lavoro, erano nutriti in modo da far loro acquisire
peso e renderli pronti per il macello a metà dicembre, in tempo per le festività natalizie. Ecco l’origine del bue grasso. Oggi gli allevatori sono rimasti pochi e la loro è più una passione che un’attività a scopo commerciale. Crescere un bue grasso richiede tempo, cura, capacità e la resa economica finale non compensa spese e sacrifici. Intorno alle tecniche utilizzate per ingrassare queste bestie si raccontano storie che spesso non è facile distinguere dalle leggende. C’è chi, si dice, inserisce nella loro dieta quotidiana decine di litri di latte, chi li rimpinza di tajarin (tagliatelle tirate a mano che sono una delle specialità della cucina langarola), chi somministra loro giornalmente dozzine di uova fresche. Questo, in particolare, nel periodo immediatamente precedente il concorso, per presentarsi a Carrù al massimo della forma. Il giorno della Fiera, lungo le strade del paese bancarelle vendono prodotti tipici; caffè, bar e ristoranti servono, già alle prime ore del mattino, trippa e brodo “corretto” al Dolcetto, il re dei vini locali e invece che con cornetto e cappuccino si fa colazione con lingua e testina. Intanto, nel recinto di piazza del Mercato i buoi esibiscono le massicce masse muscolari, le proporzioni (che «devono essere aggraziate come quelle di una bella donna», secondo un allevatore), la distribuzione delle parti grasse, la struttura delle ossa, lo spessore della pelle: i requisiti che determineranno
l’assegnazione dei premi. Verso mezzogiorno, in un clima da stadio, tra applausi e grida, si proclamano i vincitori. Al bue grasso più bello, un esemplare di almeno quattro anni che di peso supera spesso la tonnellata, è assegnata la Moscarola d’oro, un drappo che va a vestire il vincitore che coronerà la sua performance con una trionfale passeggiata lungo corso Italia, la via centrale del paese. Una passeggiata faticosa, per lui così pesante e così poco aduso all’attività fisica. Poi ci sarà il macello e infine la vetrina di uno dei macellai più prestigiosi del nord Italia, a Torino o Milano, o magari a Pavia o Cremona, che tradizionalmente si contendono le bestie più belle. Per finire, tutti a tavola, con il gran bollito misto naturalmente, un rito conviviale che ognuno dovrebbe compiere a Carrù almeno una volta nella vita. Il bollito misto alla piemontese è costituito tradizionalmente da sette pezzi, di cui cinque di bovino – muscolo di spalla, scaramella (biancostato), testina, coda, lingua –, inoltre la gallina o il cappone e il cotechino di maiale. Il tutto si serve accompagnato dalle tradizionali salse: bagnet verde e rosso (a base di prezzemolo e pomodoro), cognà (mostarda a base di uva e frutta), saosa d’avie (di miele), mostarda di Cremona. Ma i bocconi possono essere intinti semplicemente nel sale grosso, secondo gli intenditori l’accompagnamento più giusto per queste carni.
l torrone è il dolce natalizio italiano: da nord a sud ne troviamo innumerevoli varietà e tipologie. Furono probabilmente i Romani a tramandarci la ricetta di questa specialità. Benché controversa, l’etimologia del nome torrone richiama infatti il latino torrere (“tostare”) e i suoi ingredienti di base, mandorle tostate e miele, sono disponibili in tutto il bacino del Mediterraneo. Per questo anche gli arabi diffusero la loro cubbaita o giuggiolena, fatta di miele e sesamo, in Sicilia e in Spagna. Gli spagnoli lo portarono poi in molte regioni, tra cui la Campania, il Piemonte e la Lombardia. Certo è che a Cremona il 25 ottobre 1441, al banchetto delle nozze di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, fu presentato un dolce fatto di mandorle, miele e bianco d’uovo, molto compatto, modellato in modo da riprodurre la forma del campanile del duomo, il noto Torrazzo, all’epoca chiamato Torrione. Probabilmente si fece ricorso a questa specialità perché era la più adatta a tenere in piedi la “scultura” (pare alta due metri): la meraviglia da esso generata da allora in poi fece favoleggiare sul mitico torrone di Cremona. Altro dolce nazionale, anch’esso dalla tradizione antichissima, derivato dai pani addolciti con la frutta o il mosto, è il panettone. La tipologia principale consiste in preparazioni di pasta lievitata (o non lievitata) con l’associazione di frutta fresca, appassita o secca. La ritroviamo con nomi diversi in varie regioni, dal mecoulin valdostano alla focaccia di Lerici e al pandolce genovese, dalla gubana friulana alla bisciola valtellinese, dal pani ’e saba sardo alla pizza di fichi marchigiana, dal panettone basso piemontese al panettone milanese, diventato, grazie all’industria, il simbolo del Natale in tutt’Italia. Fin dai tempi dell’impero romano le famiglie si radunavano, in Lombardia, intorno al ceppo acceso e il capofamiglia, seguendo un rito celtico, spargeva sul fuoco vino e ginepro, quindi spezzava il pan grande. Il rito fu tramandato per secoli in occasione del Natale. Dopo il 1000 il pan grande divenne di solo frumento, un vero pane di lusso. Solo successivamente furono introdotti tutti, o quasi, gli ingredienti odierni. (Luisella Verderi)
Torrere torrere torrere
iamo in provincia di Cuneo, nel Piemonte meridionale, a due passi dalle Langhe dei grandi vini. A Carrù, paesone di 4000 abitanti, quella del bue grasso, che si tiene ogni anno dal 1910 il secondo giovedì antecedente il Natale, è allo stesso tempo una fiera agricola, un evento conviviale e gastronomico, una genuina festa popolare, tra le ultime a sopravvivere in questi tempi di centri commerciali e fast food. Documenti storici attestano che fin dal XV secolo si svolgevano settimanalmente in paese mercati del bestiame e nel 1635 il duca Amedeo I di Savoia concesse il permesso di tenere una fiera annuale. Il calendario piemontese, del resto, era tradizionalmente scandito, più che dai giorni e dai mesi, dai cicli lunari e dai ritmi dei lavori agricoli e se primavera, estate e autunno erano i tempi più impegnativi nei campi e nelle vigne, l’inverno era il momento del commercio e degli scambi. Da qui la tradizione delle cosiddette “fiere fredde”, molto diffuse in particolare nelle province di Cuneo e di Asti. Il bue grasso si celebra e si contratta ancora, oltre che a Carrù, a Fossano, a Moncalvo, a Montechiaro d’Acqui; il cappone a Morozzo, Vesime, San Damiano; le lumache a Borgo San Dalmazzo. A Carrù la fiera comincia presto al mattino. Allevatori, agricoltori, macellai, commercianti, appassionati arrivano
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12scritto&mangiato
Maialate ho, Piadena. Trenta chilometri da Cremona, 37 da Mantova, 40 da Parma, un po’ di più, 63 per la precisione, da Piacenza. Non siamo proprio al centro del mondo ma, certo, al centro di un mondo particolare, di un territorio ricco, generosissimo di prodotti locali, che attingono alle campagne, ai fiumi e alle rogge, e di tradizioni gastronomiche originali, che si fondano su secoli di cultura culinaria. Come non citare, come espressione peculiare di questo mondo, i tortelli di zucca, uno degli esempi più emblematici della cucina rinascimentale, dove dolce e salato facevano il paio? Eppure, tanta varietà e mescolanza di tradizioni e territori diversi non hanno spazzato via né confini né campanilismi. Al Vho i tortelli di zucca della vigilia di Natale – nel loro ripieno entrano anche gli amaretti, la mostrada di mele cotogne e un po’ di noce moscata di cui si percepisca appena un lieve sentore – li si condisce con un soffritto leggero di pomodoro e cipolla. Basta spostarsi di pochi chilometri verso Cremona e sono al burro fuso, mentre, dirigendosi a sud e sconfinando dalla Lombardia all’Emilia, li si ritrova conditi col ragù di carne, una vera eresia per i vohesi. Ma, come ben si può immaginare, questa parte della Bassa non affida esclusivamente ai tortelli di zucca la propria fama e le proprie fortune: marubini in brodo, oca in terragna, pollo all’agresto, anguilla al forno, sbrisolona con zabaione sono solo alcuni dei piatti proposti
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IN OSTERIA
di Silvia Ceriani
Roba da Bassa, gli appuntamenti dedicati sono sostanzialmente due. I pranzi del sabato e della domenica, che contemplano un menù più articolato e tavoli separati come al loro solito
quotidianamente dalla Trattoria dell’Alba, un locale storico, prezioso, autentico, con cui è stato immediato, incondizionato amore. Dalla prima volta che ci sono stata, sono trascorsi pranzi, cene, viaggi in treno attraverso una pianura fredda e innevata o, più raramente, appiccicosa e accaldata, canti e bevute; gli osti, Omar e Ubaldo Bertoletti, sono diventati amici, la trattoria uno dei luoghi del cuore e
buona parte degli avventori locali persone da abbracciare, da chiacchiere e da festa. Soprattutto, sono trascorse ben quattro maialate, tappa obbligata dell’autunno inoltrato. Tre vissute ai tavoli come cliente, l’ultima – il glorioso 30 novembre 2010 – dietro le barricate, in cucina come aiuto-cuoco. Questa nuova prospettiva mi elettrizza e mi interessa, tanto più che quest’anno il menù ha subìto alcune importanti modifiche e arricchimenti. Ma procediamo con ordine. All’Alba la maialata si fa praticamente da sempre, nel periodo delle prime gelate. Da sempre si insaccano i salami per far provvista e li si fa stagionare naturalmente per garantirne la migliore conservazione. E da sempre l’abbondanza dei giorni successivi all’uccisione del maiale è festeggiata con pranzi e cene che ne valorizzino le parti meno nobili – interiora, ossi, codino, musetto, orecchie e piedini… Gli appuntamenti dedicati alla maialata sono sostanzialmente due. I pranzi del sabato e della domenica, che contemplano un menù più articolato, caratterizzato dalla presenza delle frattaglie: il cuore trifolato e gli spiedini di fegato in rete. I tavoli sono separati come al loro solito. Li occupa una clientela variegata e tranquilla – famiglie, coppie, gruppi di amici –, ben predisposta a un’esperienza speciale. I rumori sono quelli consueti di una trattoria, niente più di un chiacchiericcio che sale d’intensità a inizio e fine pranzo, o tra una portata e l’altra. Ognuno ordina il suo vino. Ol-
tre alle interiora proposte come antipasto, il salame, i ciccioli, il gras pistà – una crema di lardo, insaporita da aglio e prezzemolo e magari accompagnata da fette di polenta abbrustolita –, il riso e verze, dolce, delicato e brodoso, e il piatto dei lessi accompagnati dalle mostarde della casa. Il martedì sera, invece, le cose procedono altrimenti. Omar la chiama «maialata a porte chiuse» ed è stata, almeno fino a quest’anno, un’esperienza decisamente più “spartana” e chiassosa. I tavoli sono trasformati in tavolate e l’apparecchiatura non contempla i calici da vino: per bere il Lambrusco mantovano, lo stesso per tutti, sono più che sufficienti i bicchieri da acqua o, tutt’al più, delle tazze bianche e capienti, come quelle da colazione. La sequenza delle portate è di molto semplificata, le ricette meno elaborate: restano il salame, il gras pistà, il riso con le verze e i vassoi dei lessi, mentre fanno la loro comparsa gli ossi, lessati a lungo con le verdure e gettonatissimi dagli avventori. Diverso, soprattutto, è il senso di convivialità che si viene a creare. Le tavolate danno la percezione di partecipare a un rito comune, il dialogo si allarga, i singoli gruppi si mischiano, interagiscono, e i toni si modificano. In un amen si inizia a cantare, intonando un canto popolare o proponendo cover, a dire il vero un po’ sgangherate, di qualche cantautore italiano. Si può quasi sempre contare su una polifonia, un accompagnamento musicale, magari un ballo. Ma, si è detto, l’ultimo mar-
tedì non è stato come gli altri… Ubaldo ci ha studiato a lungo, nell’intento di proporre qualcosa di diverso, ragionando e lavorando sui sapori, le consistenze, i tempi di cottura e di conservazione, in modo da far apprezzare a un pubblico più ampio anche i pezzi più “ostici”. Addio al vassoio dei lessi che, ultimamente, era diventato una cosa più coreografica che altro, perché pochi, in realtà, si prendevano la briga di affrontare il musetto o le orecchie bolliti. Largo, invece, a interessantissime preparazioni – ogni pezzo ne ha una sua propria –, che, in una combinazione equilibrata di tradizione e innovazione, attingono un po’ alle ricette della nonna e un po’ al genio dello chef, diventando, all’improvviso, alla portata di tutti. Le orecchie, ad esempio, sono presentate in umido, insieme ai fagioli dell’occhio: è la stessa ricetta che si utilizza per cucinare le cotiche; il codino, invece, è trattato allo stesso modo dell’anguilla, in modo da sgrassarlo per bene: la carne appare delicata, con appena una punta di agretto; poi il musetto, cucinato al forno come un tortino e condito con abbondanti rafano e prezzemolo. Questo ingentilimento mi piace e, in generale, pare incontrare il favore del pubblico, straordinariamente anche delle frange più “reazionarie”, quelle che il lesso… Vissuta dietro le barricate, la maialata ha un sapore ancora più intenso, quello della preparazione e dei tanti accorgimenti che mi illudo di avere appreso. Il sapore di una tradizione che ho fatto anche un po’ mia.
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el Vietnam, così come in Cina, le feste sono soprattutto festini, tanto che la festa viene letteralmente “mangiata”. “Celebrare il Nuovo Anno” in vietnamita suona come: “mangiare il Têt”. Un altro detto sull’argomento precisa, d’altronde, quali siano gli elementi indispensabili alla celebrazione del Nuovo Anno: Maiale grasso, scalogno in conserva, massime scritte su carta rossa, una lunga canna di bambù, una girandola di petardi e fagottini di riso dolce glutinoso. Non si pianta più la canna di bambù davanti a casa, i petardi che scacciano gli spiriti maligni sono oggi proibiti, ma le massime scritte con bella grafia su carta rossa – il colore della felicità – decorano ancora la casa. I cibi della festa, però – maiale, verdure in conserva, banh chung al nord, fagottini di riso dolce glutinoso farciti e cotti in acqua (chung) o gli equivalenti banh têt al sud e al centro – restano sempre quelli. Se a causa della sua latitanza nella dieta quotidiana la carne resta l’ingrediente indispensabile di ogni pranzo di festa, i fagottini di riso dolce glutinoso farciti con fagioli e carne di maiale sono l’emblema del nuovo anno. La loro importanza è tale che persino nei periodi di penuria nessuno sforzo è trascurato per mettere insieme tutti gli ingredienti necessari alla loro realizzazione, sia da parte dello Stato, che si sforza di assicurare un sufficiente approvvigionamento, che delle famiglie, che mobilitano tutte le loro energie e risorse.
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Banh chung La preparazione dei banh chung, “fagottini” di riso dolce glutinoso (banh è il termine generico che viene di solito tradotto con “torta” e designa torte, pani e gallette e fagottini sia salati che dolci, a base di riso o di altri cereali) e la loro cottura prolungata in una grande pentola alla vigilia dell’Anno Nuovo era, e a volte è ancora, occasione della più bella veglia dell’anno, durante la quale si raccontavano leggende e storie buffe. Alimento completo, pronto in quantità sufficiente in anticipo, i fagottini costituiranno, accompagnati da verdure in conserva (soprattutto scalogno, come nella massima sopra citata), un piatto unico o, quanto meno, la portata principale. Il carico di lavoro delle donne di casa viene in questo modo alleviato durante il periodo di festa, che certo non si protrae più, come un tempo, per tutto il primo mese del calendario lunare, ma che in ogni caso dura ancora una buona settimana. I banh permettono, dunque, alle donne e alle ragazze della famiglia di divertirsi e uscire per incontrare parenti e amici. Infatti, durante i
DAL MONDO
di Nelly Krowolski
Il nuovo anno in Vietnam. Non si pianta più la canna di bambù davanti a casa, i petardi che scacciano gli spiriti maligni sono proibiti, ma i cibi tradizionali restano sempre quelli
che sarebbe diventato suo erede. Li riunì dunque un giorno, consigliato in tal senso da un Mandarino, ed annunciò loro: «Sono ormai vecchio, e desidero lasciare il mio trono a uno di voi. Il mio erede sarà colui che saprà offrire ai nostri antenati il cibo più delizioso». Mentre tutti i principi inviavano emissari nel paese intero, nelle regioni del nord come lungo le coste, per trovare i cibi più preziosi, Lieu, il diciottesimo principe, orfano di madre dalla più tenera età, non aveva nessuno che lo aiutasse ed era troppo povero per permettersi di partire alla ricerca. Il giovane si tormentava per non essere in grado di soddisfare la richiesta del padre. Ma una notte gli apparve in sogno una dea che gli insegnò a preparare due fagottini di riso glutinoso. Il primo, il
LE RICETTE Banh Chung Ingredienti per 2 fagottini 1 kg di riso dolce glutinoso 400 gr di fagioli mungo 250 gr di carne di maiale un po’ grassa, tagliata a cubetti sale e pepe foglie di dong Preparazione Lasciate in ammollo per una notte il riso glutinoso e i fagioli mungo mondati dalla buccia verde. Cuocete con un po’ di sale i mungo ben lavati e riduceteli in pasta nel mortaio. Tagliate a cubetti la carne di maiale. Fate scaldare due cucchiai di strutto, aggiungetevi un po’ d’aglio, il maiale a dadini, i fagioli ridotti in pasta, pepe, sale e un po’ di zucchero. Disponete le foglie di dong
(phrynium) in una scatola quadrata di 15 centimetri di lato; versatevi il riso leggermente salato, comprimete bene; disponete al centro il ripieno preparato in precedenza, ricoprite con il riso, ripiegando quindi le foglie di dong così da formare un pacchetto ben chiuso. Cuocete in acqua per sei ore. I fagottini sono pronti. Banh giay Ingredienti riso dolce glutinoso Preparazione Lasciate in ammollo per qualche ora il riso, lavatelo bene e fatelo cuocere al vapore. Pestate il riso nel mortaio fino a ottenere una pasta fine. Prendete delle cucchiaiate di pasta e formate delle semisfere che disporrete su foglie di banano.
Mangiare il Teˆt primi tre giorni dell’anno ognuno è tenuto a fare gli auguri andando a visitare tutti coloro con i quali è legato da vincoli di amicizia, di riconoscenza o di parentela. Gli alunni, dunque, fanno visita al professore responsabile della loro classe, i vecchi alunni al professore che più ha segnato la loro formazione, i malati o gli ex malati al loro medico, e così via. Come il regalo che spesso le accompagna, queste visite innescano controvisite, rinsaldando i rapporti di parentela, di vicinato e anche professionali. Una leggenda, la sola del genere che riguardi dei cibi, spiega la ragione per la quale due preparazioni molto simili – una di riso dolce glutinoso farcito e di forma quadrata, l’altra di riso dolce glutinoso ridotto in pasta nel mortaio e di forma piatta e rotonda (banh giay) – siano indispensabili a questa festa del rinnovamento, che riunisce la famiglia composta da tutti i parenti, i vivi come i morti, invitati per l’occasione a partecipare al festino. Questi cibi, infatti, sono tutt’altro che anodini; infatti, se un piatto di lenticche consentì a Giacobbe di
acquistare da Esaù il diritto di primogenitura, si narra che un principe vietnamita, più di duemila anni orsono, grazie ai banh riuscisse ad aggiudicarsi un intero regno. La leggenda Il sesto re della dinastia Hung regnava da molto tempo. Essendo la sua salute in declino ogni giorno di più, decise di scegliere tra i suoi figli quello
banh chung, con la sua forma quadrata sarebbe stato simbolo della terra; il secondo, dalla forma tondeggiante, il banh giay, avrebbe simboleggiato il cielo. Il giorno della consegna dei doni, il re, dopo avere assaggiato i cibi più rari – ragù di pavone, paté di fenice, zampa d’orso, fegato di rinoceronte… – offerti dagli altri principi, dichiarò vincitore il diciotte-
simo principe. Sia per le loro qualità gustative, sia per la loro carica simbolica, i fagottini di riso vincevano su tutto. Queste preparazioni, nella loro semplicità, erano il dono più prezioso che ci potesse essere. Da allora, nel periodo del Nuovo Anno, i vietnamiti hanno l’usanza di preparare questi fagottini, divenuti offerta indispensabile per la cerimonia in onore degli Antenati.
TRA LE PANNE, LA CRĂˆME.
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n libro, un cibo, una ricetta, in un gioco di rimandi e paradossi, per trovare le vie del gusto seguendo le migrazioni degli alimenti e quelle delle persone. Un’utile bussola è offerta dall’Atlante mondiale della gastronomia, di Gilles Fumey e Olivier Etcheverria (Vallardi). Nato dall’incontro tra geografia e alimentazione, illustra i diversi stili della cucina planetaria fra tradizioni, riti e ibridazioni: dall’antica raccolta del cibo alla moderna scienza culinaria, dal pasto di una volta a quello dei nostri giorni. In Europa, nel Medioevo e nell’epoca moderna, i pasti venivano consumati in una stanza comune, al cui centro si trovavano un caminetto o un focolare. Nel XIX secolo, quando nacquero ristoranti e trattorie, la borghesia inventò la sala da pranzo, mentre i ceti popolari mangiavano in cucina (che nel frattempo era stata dotata di fornelli). Con l’industrializzazione e il conseguente aumento della distanza fra casa e luogo di produzione, il pasto si è consumato al lavoro, sul vassoio della mensa o nella gamella in cantiere. Gli sviluppi della ristorazione hanno poi diffuso il pasto in treno, sull’areo o sulle navi di linea, “o addirittura in macchina, come nei drive in americani”. Rimane però valida la massima: “Il popolo digiuna, il borghese cena, il nobile desina. Lo stomaco si alza più o meno tardi nell’uomo a seconda della sua estrazione”. Lo stomaco di Justice, protagonista (reale) del romanzo di Paul Kenyon, Il mio nome è giustizia (Piemme) non dorme da molti giorni. Insieme ad altri migranti, Justice è alla deriva su un gommone, partito dalla Libia e diretto in Italia. Dal ponte di un’imbarcazione di metallo, l’equipaggio diffidente verso quel piccolo drappello di umani alla deriva, ha calato loro un sacchetto bianco, che ondeggia come un frutto maturo. Moses, “un ghanese timido e atletico”, che è il più vicino, lo afferra. “La prima cosa che venne fuori dal sacchetto fu una mela. Moses l’addentò e se ne riempì la bocca prima di passarla a chi gli stava vicino. La mela passò di mano in mano e ognuno l’addentava. Justice era il ventunesimo”. L’odissea di Justice, non è però ancora finita. E il ricordo dell’ultimo piatto di riso e stufato si confonde con quello dei tanti compagni perduti fra le onde. Dal cibo sognato, a quello imbandito. Fra gli ultimi titoli proposti da Ponte alle Grazie, troviamo La cucina persiana, di Chiara Riccarand, che spazia dalla tradizione classica all’Iran di oggi combinando sapori speziati. La Cucina napoletana, di Edmondo Capece-
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latro, racconta invece “la storia di una città attraverso la storia della sua cucina”. Fra le ricette della domenica, la crostata di tagliolini, rivisitata in alcuni elementi, ma sempre piatto delle grandi occasioni. E ancora, I magnifici 20, di Marco Bianchi. Coniugando nutrizione, farmaceutica e invitanti ricette, l’autore presenta “i buoni alimenti che si prendono cura di noi” e ne spiega le proprietà. Troppo zucchero provoca obesità, carie e diabete – malattie dei paesi ricchi. Perché allora non sostituirlo in parte con il malto (di orzo, di mais, di miglio, di riso)? Il malto – dice Bianchi- è uno dei “magnifici 20”, e prova a convincere anche i più golosi. Piatti e non parole, replica la poetessa comica Paola Sansone che, nel volume Raccol-
za del dono, degli affetti e della gratuità come antidoto al tutto-merce che non dà nulla per nulla. Negli Stati uniti – ricorda Patel – “la forbice tra ricchi e poveri è sempre più larga: tra il 1979 e il 2005, il reddito netto dell’1 per cento più ricco della popolazione è cresciuto di quasi il 200 per cento, mentre quello del 20 per cento più povero è salito di appena il 6 per cento. La ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochi”. Quella di governare il mondo in base alla ricetta neoliberista – dice – è un’illusione del capitalismo. Patel che prima di diventare un attivista ha lavorato per il Fondo monetario internazionale, analizza con cognizione di causa le politiche della Banca mondiale e dell’Fmi: hanno favorito – dice - la grande proprietà, portando i
Lo stomaco non dorme IN LIBRERIA
di Geraldina Colotti
Quando in cucina un libro tira l’altro. Dopo l’invenzione della sala da pranzo e dopo il ventunesimo morso alla stessa mela. Tanti modi per non perdere la ragione insieme alle papille
ta differenziata, di prossima pubblicazione per Ibiskos, “Nutre i malumori/ con formaggio/pomodori/ … Continuamente mastica/cibi che san di plastica…” e, con masochistica perseveranza invita il convitato troppo freddo a fare finalmente… piatti chiari. Nel romanzo di Roberta Schira e Alessandra de Vizzi, Le voci di Petronilla (Salani), Petronilla – popolarissima
scrittrice di cucina nel corso degli anni ’30 -. racconta se stessa mentre si trova a un passo dalla morte. Mantovana, figlia di farmacista e pediatra plurilaureata, si chiamava in realtà Amalia Foggia Moretti. Con lo pseudonimo di dottor Amal – perché una donna medico “negli anni ’20 non sembrava affidabile” – firmò una rubrica di consigli medici sulla Domenica del Corriere. Con quello di Petronilla, dispensò ricette nell’Italia del fascismo e della guerra. Intanto, esercitava il mestiere di pediatra: “Curato il piccino, ne curava la famiglia e se v’erano difficoltà materiali cercava di alleviarle”. Non subì ostracismi dal regime, perché non fece battaglie aperte, preferendo “essere utile alla causa femminile senza troppo fracasso”, ma il romanzo ne celebra la figura di “donna eccezionale e femminista ante-litteram”, che “frequentava i circoli impegnati degli anni ’30”, amica di Anna Kuliscioff (medico e rivoluzionaria russa, morta nel ’25) e di Ada Negri, poetessa invece legata al fascismo. Nel romanzo-diario, scorrevole e partecipe, Petronilla non nasconde invece la propria insofferenza per un regime che considerava una donna senza figli “poco meno di un sacco vuoto”. E, fra una ricetta
e una riflessione sul Quarto stato di Pellizza da Volpedo, se ne lamenta con il lettore. Celebri, oggi, anche i consigli di Benedetta Parodi, che replica il successo di Cotto e mangiato con il volume Benvenuti nella mia cucina (Vallardi): 255 ricette rapide e gustose per cucinare bene e con poco. La pasta più veloce del mondo? Tagliatelle con panna e zafferano. Per una volta, si può, ma attenzione ai chili di troppo… Quando sulla terra il numero degli obesi supera come ora quello degli affamati, che pure sono un miliardo di persone, il centro del problema non è produrre di più, ma ridiscutere il sistema che ha portato a questa situazione”, ha detto a Milano l’economista indiano Raj Patel intervenendo all’incontro “Da Cancún all’Expo: il valore delle cose tra clima, cibo e territori”, organizzato dall’associazione Ya Basta! Patel, studioso delle politiche alimentari mondiali e relatore sul diritto al cibo per le Nazioni unite, nei suoi libri mette a nudo i dogmi del diomercato svelandone iniquità e ferocia. Il valore delle cose (Feltrinelli), si snoda fra economia e storia, psicologia sociale e antropologia e mostra la poten-
piccoli contadini ad affollare le megalopoli, o al suicidio. Quando si acquista una banana, alla fine della catena di importazione, trasporto, ricavo della compagnia che controlla la piantagione, al contadino che l’ha prodotta spetta una miseria: meno del 3%. Invece, negli Usa “i consumatori finanziano la vendita di hamburger a basso costo con le imposte versate all’erario. La carne degli hamburger McDonald’s proviene da animali ingrassati a mais, la coltura con i sussidi più massicci”. Quella proposta da Patel, è l’idea di una proprietà “più malleabile” e condivisa, da contrapporre alle illusioni del mercato neoliberista per trascenderne i limiti che impone e “stabilire i confini della gestione collettiva delle risorse”. E infine, per chi non teme “di perdere la ragione insieme alle papille”, a tavola coi bucanieri, dove il piccante non manca. Nel volume di Melani Le Bris, La cucina della Filibusta (Elèuthera), il peperoncino – sovrano dei Caraibi che ne producono di tutti i colori e in tutte le forme – abbonda. Superato lo shok del primo incontro, i filibustieri lo cucinarono in tutte le salse. Il libro, ricco di ricette caraibiche, ne offre un’ampia portata.
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