scritto & mangiato
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
Di emergenza in emergenza, breve viaggio nell’epicentro della nuova espansione agricola. Fra predatori di terre e datteri dimenticati
Africa nostra
MARZO 2011
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in collaborazione con Slow Food
Le illustrazioni di queste pagine sono gentilmente concesse dalla libreria Griot, a Roma. Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8e tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 25/3/2011
5 Sotto il Marocco di Paola Nano 6 Donne in onda di Alessandra Abbona 7 Dalla parte dei datteri di Paolo Bolzacchini e Marta Mancini 10-11 La lunga corsa alla terra di Franca Roiatti 12 Orto rivoluzionario di Serena Milano 13 Il Re mangiava di nascosto di Geraldina Colotti 14 Pesca per sette di Silvio Greco 14 Il destino dei pesci di Loris Campetti
angue e petrolio scuotono l’Africa. Se fosse stato davvero un continente invisibile, non ci sarebbe stata nemmeno una guerra. E’ l’ultima emergenza che viene dal sud e putroppo non sarà l’ultima ultima. Perché lì i problemi hanno da sempre le dimensioni della stessa area e vi insistono fino allo sfinimento. Proviamo a cambiare pagina? La fame e l’agricoltura, le coltivazioni e le tradizioni fanno pensare ad Antoine de Saint Exupery, quando scrive «l’essenziale è invisibile agli occhi, si vede solo con il cuore». E allora un po’ di essenzialità ce la raccontano i nostri amici di Slow Food con cui confezionamo questo supplemento, girovaghi mondiali di cuore e di cultura alimentare. Dai datteri della Libia oggi sconvolta dalla guerra, al Presidio dell’olio di Argan concepito nel Marocco delle grandi asimmetrie con l’obiettivo di dare assistenza ai produttori e cercare nuovi sbocchi, tutto sta in un viaggio che vuole essere innanzitutto di pace. Ma l’Africa invisibile è sulla mappe di tutti i predatori di terre. La Banca mondiale ha provato a recensirli sotto la voce «Land grabbing», e non ci è riuscita tanto bene. I nostri amici di Slow Food li chiamano i «cacciatori di zolle». Il fenomeno è mondiale, ma il 70% dei milioni di ettari opzionati in questa incredibile corsa alla terra è FRANCESCO PATERNÒ proprio in Africa. E nei prossimi venti anni, si prevede, il continente resterà l’epicentro di questa espansione agricola. Con molti governi che finora hanno dimostrato incapacità o non volontà di controllare cosa accade ai progetti dopo la stipula di certi contratti. A rimetterci, più degli altri, le donne, spesso escluse dal diritto alla terra e quindi dalle eventuali consultazioni sulla sua destinazione, ma anche ulteriormente danneggiate dalla perdita di risorse comuni. Dalla terra all’acqua, andiamo poi a sbirciare cosa succederà a Slow Fish dal 27 al 30 maggio, l’appuntamento marinaro di Genova, che vale tutto, compreso una grande ricetta in fondo a queste pagine. Se poi volete leggere ancora e il supplemento non vi basta, assaggiate qualche libro segnalato a pagina 13. Ci sono storie con pezzi d’Africa, tra cui quella di un re che mangiava di nascosto, per accrescere l’idea che fosse una divinità. Succedeva (forse) in Ghana molti secoli fa ed è una storia bella, bellissima. Perché non è di guerra.
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Datteri e zolle
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l 20 febbraio scorso era una data attesa dagli osservatori della rivoluzione in Nord Africa: una domenica di manifestazioni annunciate in tutto il Marocco. Si aspettava di vedere se e come il contagio della ribellione potesse diffondersi, dopo l’Egitto, all’altro capo del Maghreb. “E se fosse la volta del Marocco?” titolava un articolo di El Paìs. L’analisi si basava su elementi oggettivi: la popolazione anche lì molto giovane (il 55% sotto i 25 anni); il tasso di disoccupazione estremamente elevato proprio in questa fascia (82%, a fronte di dati meno disastrosi in Tunisia ed Egitto, rispettivamente al 56% e al 73%); il fatto che tra questi giovani disoccupati il 58% sia in possesso di un diploma superiore, quindi abbia familiarità con Internet e social network. I dispacci dell’ambasciata statunitense a Rabat rivelati da WikiLeaks denunciavano inoltre un alto livello di corruzione nelle istituzioni. La rivista Forbes rendeva noto che le partecipazioni del re Mohammed VI nel settore bancario, delle assicurazioni, immobiliare, delle telecomunicazioni, minerario e agricolo lo posizionano al settimo posto tra i più ricchi del mondo, mentre i suoi sudditi hanno un reddito medio pro capite inferiore ai 5000 dollari, contano il 40% di analfabeti e il 30% sotto la soglia di povertà, con un Pil che dipende per il 20% dalle rimesse degli emigrati. Il 20 febbraio era dunque una data attesa, anche dalla piccola delegazione di Slow Food che aveva in programma soltanto qualche giorno dopo un viaggio in Marocco: per la prima volta alcune comunità di Terra Madre, così come i dirigenti marocchini di Slow Food impegnati nelle tante attività di salvaguardia del cibo tradizionale, nelle scuole e nelle università, avrebbero accolto il loro presidente Carlo Petrini. Le manifestazioni ci sono state: nella capitale Rabat, a Tangeri, nelle turistiche Marrakech, Fès, Meknès passando per El Jadida, a sud di Casablanca e pure a Tetouan, nel Rif. Ma hanno avuto un carattere pacifico, chiedendo maggiore democrazia e servizi sociali, diritto al lavoro e migliore ridistribuzione delle ricchezze, con una presenza defilata delle forze dell’ordine, intervenute solo per controllare alcuni casi sporadici di casseurs, subito processati per direttissima. Così, mentre viaggiamo verso Essaouira per incontrare alcune comunità di Terra Madre del Marocco meridionale, l’attualità politica diventa uno dei temi obbligati di conversazione con Zoubida Charrouf, la pioniera di Slow Food in Marocco, docente
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Sotto il
Marocco universitaria che per prima, con il suo progetto di riqualificazione dell’albero arganier, utilissimo baluardo alla desertificazione, ha dato impulso al Presidio dell’olio di argan: «In Marocco abbiamo una situazione complessa, che si riflette anche nella lingua. L’arabo è la lingua ufficiale, ma l’arabo che parliamo (darija) è frutto della mediazione con gruppi etnici diversi, dai Berberi alle tribù Tarifit del Rif, o ai Tamasight del Medio Atlante o ai Tuareg del Sahara. Abbiamo bisogno del re, di un’istituzione che ci tenga uniti. Per questo il popolo fa riferimento a lui e nel complesso lo ama, mentre ha poca fiducia nel governo e nella rappresentanza parlamentare di tipo occidentale. Del resto alle ultime elezioni i votanti sono stati solo il 37%». Ma è l’incontro diretto con i giovani della rete di Terra Madre a offrirci quella che è forse l’immagine più autentica delle potenzialità positive del paese, dove l’agricoltura occupa oltre il 40% della popolazione. Alla cooperativa Ajddigue di Tidzi troviamo una trentina di persone ad attenderci attorno alle tavole imbandite con grandi piatti di cous cous. Donne e uomini che lavorano nelle comunità rurali, concentrati sulle loro realtà locali ma con lo sguardo e la mente aperta, informati e consapevoli della globalizzazione, decisi a sfruttarne le potenzialità positive attraverso i mezzi più moderni di comunicazione; ma anche ben convinti della necessità di sviluppare le proprie potenzialità conservando e adattando alle esigenze del presente le tradizioni e i saperi antichi in fatto di gestione delle risorse naturali, di produzione sostenibile, di conservazione della ricchezza agroalimentare marocchina. Basta sentire le storie di alcuni di loro per capirlo. Abdelouhab El Gasmi viene da Mhammid El-ghizlane, città alle porte del deserto, a una decina di chilometri dal confine algerino. Qui i problemi principali sono la carenza d’acqua e il bayoud o punteruolo rosso, un insetto che distrugge le palme da dattero, alla base dell’economia e della sussistenza della sua comunità. Abdelouhab con suo fratello e sua madre ha fondato la Cooperative de l’Oasis du Sud, che trasforma i datteri di
di Paola Nano
Incontri di viaggio nel paese dove il re è al settimo posto mondiale per ricchezza mentre i suoi sudditi hanno un reddito medio pro capite inferiore ai 5.000 dollari annui
varietà locali in sciroppo (rob) e marmellata di datteri. Oltre a promuovere il suo prodotto anche a livello internazionale (ha partecipato a Eurogusto in Francia, alla BioFach in Germania), ha ottenuto un finanziamento dalla Regione Souss Massa Draa per l’installazione di un impianto a goccia per irrigare l’oasi, creando degli orti: il progetto si chiama Oasis Potager. Nel passato furono proprio gli Arabi a esportare nelle regioni aride del Sud Europa le tecniche per l’irrigazione e la conservazione dell’acqua. Abdelouhab si ispira al passato, ma sfrutta intelligentemente il presente: collabora all’organizzazione di un Festival des Nomads che vuole attirare turisti attenti e curiosi di altre culture, secondo un modello alternativo ai grandi resort e ai campi da golf divoratori d’acqua. Salahddine Sahrawi è un giovane agronomo di Safi e lavora con comunità produttrici di uvetta, fichi, argan: «La formazione e l’accompagnamento sono le attività più importanti per fare qualità,
essere competitivi e creare reddito. Resta ancora molto da fare: far conoscere questi prodotti ai cuochi nelle città, mettere in piedi altri canali di commercializzazione come gruppi d’acquisto o via web». Rachid El Hiyani lavora per l’Ong Migrations et Developpement, partner della Fondazione Slow Food per il Presidio dello zafferano di Taliouine. Vuole aprire dei negozi dove vendere i prodotti delle cooperative. Bisogna dire che questa forma associativa si sta moltiplicando velocemente, da quando il ministero dell’Economia e Sviluppo Sociale ha eliminato alcuni passaggi burocratici che ne frenavano la creazione. Oltre a questo racconta della sua esperienza nel turismo: dal 2006 a oggi sono state create 21 maison d’hotes in case di produttori d’argan e di zafferano. Rachid, Salahddine e Abdelouhab sono tre figure del nuovo Marocco. Con loro tanti altri, rappresentanti di un’agricoltura che non si misura soltanto in quantità e qualità del prodotto, ma
anche in mantenimento del tessuto sociale e della cultura rurale. Ancorare i giovani alla loro terra: sembra un obiettivo chiaro oggi per le autorità. Il Piano agricolo Maroc Vert, lanciato nel 2008, prevede due “pilastri”: il primo è a favore dell’agroindustria, della produttività più spinta, delle monocolture da esportazione, un modello che ha già dimostrato di produrre ricchezza solo per pochi, impoverendo i contadini e spingendoli sulla strada dell’urbanizzazione o dell’emigrazione; il secondo pilastro si focalizza invece sull’agricoltura di piccola scala, con l’obiettivo di rafforzare le produzioni legate al territorio e la pastorizia. Il problema è che il Piano destina due terzi del proprio budget al primo pilastro e un terzo al secondo. Invece, investendo in maniera convinta sulle grandi potenzialità dei giovani contadini, dando loro modo di sviluppare le opportunità offerte da una modernità autentica, il governo potrebbe avere maggiori possibilità di evitare un’escalation di malcontento e di rivolte.
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houmicha significa “piccolo sole” e, nomen omen, non le fa torto la definizione di vero astro nascente della food tv araba. Giovane, bella, preparata, è entrata nei salotti dell’intero Marocco, così come nelle case dell’estesa galassia arabofona che va dall’Europa al Medio Oriente, con un programma dedicato alla cucina e alle tradizioni gastronomiche nordafricane in onda sull’emittente marocchina 2M. Ch’hiwates m’âa Choumicha, “le delizie con Choumicha” e Ch’hiwates Bladi, “delizie regionali”, sono i contenitori tv che la vedono protagonista. Con fare disinvolto, dialogando in arabo dialettale marocchino, Choumicha ha portato in video i saperi femminili del Maghreb fatti di tempi lunghi e laborio-
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sa manualità, accanto alla freschezza di nuove ricette o rivisitazioni di piatti classici della cucina internazionale. Dando spazio in tv alla cucina del bled, il paese natio, ha creato un canale affettivo e della memoria con quei milioni di nuovi cittadini europei originari dell’Africa del Nord che vivono con nostalgia la loro dimensione transnazionale. Ma anche è entrata in contatto con le sempre più numerose giovani donne dei milieux urbani che si dividono tra casa e lavoro e che non possono passare ore in cucina. Choumicha, oltre a essere probabilmente la più nota donna chef della tv araba, è anche un’accorta imprenditrice di se stessa. Sulla scia del successo delle sue trasmissioni, ha creato la rivista e il sito Saveurs et cuisine du Maroc, scritto libri di
Donne
di Alessandra Abbona
Ch’hiwates Bladi, il programma tv itinerante di una giornalista marocchina che la porta a incontrare donne in tutte le regioni del Marocco. Contro ogni clichè gastronomico
in onda
ricette ed è testimonial di diversi prodotti legati all’alimentare. Ma non è tutto: nella cittadina di Azemmour, a pochi chilometri da El Jadida, ha creato con il suo partner Karim Acharki la struttura Dar Choumicha (“casa Choumicha”). Su una superficie di 12 000 metri quadrati sorgono un modernissimo studio televisivo, sale convegni, saloni per ricevimenti, un laboratorio artigianale di prodotti gastronomici, cucina, ristorante, foresteria, parco e piscina. Insomma, una “macchina” dell’eccellenza gastronomica e dell’ospitalità a tutto tondo. Abbiamo incontrato Choumicha a Torino in occasione di un progetto dedicato all’olio di argan coordinato da Slow Food e promosso dalla Regione Piemonte. In quest’occasione la giovane chef ha cucinato piatti a base di questo prezioso olio del Sud del Marocco, oltre a concedersi e concederci un po’ di tempo per fare una chiacchierata. La nostra conversazione prende spunto dal successo delle sue trasmissioni televisive per toccare vari temi: il Marocco, le donne, gli immigrati marocchini in Italia e i loro figli, la tradizione e la modernità. Le dico subito che mi piace la formula di Ch’hiwates Bladi, il suo programma itinerante che la porta a incontrare donne in tutte le regioni del Marocco, dalle grandi città imperiali fino alle pendici dell’Atlante, nelle piccole comunità berbere di montagna. «Questa tramissione mi consente di viaggiare in tutto il paese. C’è un lungo lavoro di organizzazione. In primo luogo effettuiamo sopralluoghi, poi contattiamo i referenti delle varie comunità locali per individuare le donne anziane che detengono la conoscenza del patrimonio gastronomico del territorio. Le feste tradizionali come i moussem, ma anche le cerimonie familiari come matrimoni o circoncisioni sono i momenti in cui si preparano i piatti speciali. Conoscere queste realtà, incontrare queste donne, vedere quanto sanno fare con le risorse della loro terra è un lavoro appassionante». Così Choumicha ha in qualche modo “censito”, attraverso le varie regioni marocchine, gran parte del savoir-faire culinario del paese facendo scoprire storie, prodotti, ricette, luoghi poco noti del Marocco alle seconde e terze generazioni di giovani di origine maghrebina residenti in Europa, che vedono il paese d’origine della loro famiglia principalmente attraverso il tubo catodico. Se è conscia di questo ruolo quasi didattico, o meglio dell’impatto sentimentale sulla memoria del paese natale che suscita nella comu-
nità espatriata, è una questione che sollevo immediatamente. «Sì, me ne rendo conto dalle e-mail, dai contatti e dagli incontri che faccio nei miei viaggi in Europa». Durante i bui e deprimenti inverni del nord, Ch’hiwates m’âa Choumicha tiene compagnia a tutte quelle donne che passano gran parte della giornata in casa: l’arabo colloquiale, le ricette della tradizione, i panorami del cuore sono una piccola pillola che prova a curare il male del sentirsi lontano dal luogo natio. La digressione sentimentale non ci fa dimenticare, però, che di cibo stiamo parlando. E il Marocco è un paese che vanta una ricchezza di prodotti notevole. Se per l’immaginario collettivo il repertorio gastronomico si declina in couscous, tajine, tè alla menta e spiedini di montone, Choumicha è pronta a smentire questo stantio clichè. Quando le faccio osservare che, forse anche in virtù del fatto che non si possono consumare alcolici, i pasti in Marocco e nelle case marocchine italiane sono annegati nella stucchevolezza dei più disparati soft drinks, Coca-Cola in primis, la star di 2M mi sciorina una lista di bevande storiche e tradizionali che un tempo accompagnavano il cibo. «La Coca-Cola è un fenomeno universale, non marocchino o arabo. Noi abbiamo il tè, la cui versione alla menta è relativamente recente. Si consuma, per esempio sugli altopiani del sud, il tè allo zafferano, e in montagna quello al timo. E poi ci sono sempre state bevande rinfrescanti, come il tanabun, a base di datteri, o vari succhi di frutta». Il discorso dell’omologazione dei sapori ci porta a parlare dei giovani o meglio dei bambini e della loro educazione. Anche lei, mamma, è preoccupata di come educare a una corretta alimentazione e dedica una trasmissione settimanale ai più giovani, insegnando a utilizzare tutti gli alimenti. «Le mamme tendono a dare ai loro figli solo le verdure più comuni o dai sapori più semplici. I bimbi devono provare di tutto, educare il palato: quindi non solo patate e piselli. Ho proposto per esempio un tajine ai cardi, e i bimbi in trasmissione hanno apprezzato incuriositi». Con il suo fare discreto, Choumicha sa coniugare l’allure internazionale di chi è abituato a girare il mondo e i modi semplici di chi sa rapportarsi con rispetto agli anziani in contesti rurali. Un volto fresco di un Marocco giovane, pieno di risorse umane e intellettuali che dovrebbero far riflettere tutti coloro che, nella vecchia Europa, pensano soltanto a costruire baluardi e respingere indiscriminatamente chi arriva dalla sponda meridionale del Mediterraneo.
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Dalla parte dei di Paolo Bolzacchini e Marta Mancini
I mille frutti della Libia. Gli adagi popolari ne recano ancora le tracce: «In una casa dove non ci sono datteri gli abitanti soffriranno la fame».
ibia ed Egitto. Storie di oasi, di vie carovaniere, di palme da dattero. Nella prima, Al Jufrah è una regione centrale, circa 650 chilometri a sudest di Tripoli. È costituita da tre oasi contigue (Sokna, Hun e Waddan), che si estendono per circa 40 chilometri, e da due oasi più piccole, Al Fugha e Zellah. La presenza di consistenti risorse idriche e di strati di terra sciolta ha permesso la crescita di vari gruppi di palme. Nella grande conca di Al Jufrah il deserto assume l’aspetto di un’immensa distesa di ghiaia (serir) o di ciottoli piuttosto grossi (hammada), interrotta da alture (gare) a forma di tronchi di cono. Le valli sono attraversate dai wadi, i letti dei corsi d’acqua ormai asciutti che vivono fino a 200 anni. È nei wadi che si concentra la vegetazione, composta da tamerici e acacie africane. L’abbondanza dell’acqua nel suolo, a pochi metri dalla superficie, ha permesso lo sviluppo della coltura delle palme. Negli anni Trenta, in tutta Al Jufrah se ne contavano 88 000. Purtroppo le piantagioni di Sokna, probabilmente le più estese, furono parzialmente distrutte durante i continui scontri fra arabi e berberi che qui avevano una loro roccaforte. Al Jufrah ha avuto da sempre una posizione strategica. Si trova infatti nella direttiva orizzontale che collegava Timbuctu al Mar Rosso egiziano, sulla quale passavano i grandi pellegrinaggi diretti al Sudan centrale all’epoca dei grandi splendori degli imperi sudanesi. Ma anche in quella verticale che collegava Tripoli con il fiume Niger e il lago Ciad. Di lì passavano anche gli schiavi neri che dal Fezzan, regione libica sudoccidentale,
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datteri
andavano a Misurata per essere barattati con i cereali coltivati nella fertile striscia di pianura del litorale. Fin dai tempi più remoti lungo il 29° parallelo correva una via carovaniera dall’est dell’Egitto fino a Fezzan percorsa da pellegrini e da mercanti a dorso di cammello. Questi si cibavano quasi esclusivamente di datteri secchi, capaci di mantenersi integri per mesi. Ad Al Jufrah sono ancora oggi coltivate decine di varietà differenti. Si tratta di varietà locali, ciascuna con caratteristiche organolettiche proprie, capaci di stupire i palati più attenti e curiosi. Tra le varietà più diffuse si trovano: kathari, molto apprezzata, sebbene leggermente astringente, con frutto gialloverdastro, ovale, tozzo, con buccia spessa e dura e polpa morbida; saiedi, dal frutto marrone scuro, ovale allungato, con buccia sottile e tenera, polpa morbida e sciropposa; bestian, dalla bassa percentuale di zucchero; tagiat, con frutto marrone scuro, ovale allungato, con buccia liscia, spessa e dura, e polpa morbida; hamria, ottima per il lagbi, il succo estratto dal tronco della palma; abel, secca, facile da conservare e trasportare; halima, considerata una rara prelibatezza, rappresenta l’eccellenza in fatto di datteri. Saiedi, kathari, bestian, hamria, abel e tagiat erano fra le varietà che il Regio decreto italiano del 1928 definiva “di gran pregio” e riservava all’esportazione. Le palme, quindi, erano tenute dai coloni sotto lucchetto; al momento della raccolta gli italiani acquistavano tutti i frutti migliori, lasciandone ben pochi agli abitanti locali. Intere civiltà si sono sviluppate esclusivamente grazie alle palme e gli adagi popolari ne recano ancora le tracce: «In una casa dove non ci sono datteri gli abitanti soffriranno la fame». La Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus partecipa al programma Miglioramento e valorizzazione della palma da dattero nelle oasi di Al Jufrah in Libia. Le attività, avviate nel 2009,
sostengono lo sviluppo economico locale favorendo i produttori, singoli o associati, di datteri. Due sono i princìpiguida: individuare e garantire datteri di qualità attraverso disciplinari di produzione che assicurino omogeneità e qualità del prodotto finale; tutelare l’agro-biodiversità di Al Jufrah, promuovendo le varietà locali di palma e rafforzando i sistemi tradizionali di gestione delle oasi. Siwa, invece, è conosciuta anche come la “città da un milione di palme”, si trova nel deserto egiziano nord-occidentale, , a 300 chilometri dall’abitato più vicino (Marsa Matruh, sulla costa mediterranea), adagiata nella depressione del Qattarah, a 65 chilometri dal confine con la Libia. Fin dalla 26 a dinastia faraonica venne a trovarsi alla confluenza di cinque vie carovaniere che collegavano la valle del Nilo con l’Africa centrale e le coste del Mediterraneo. In epoca romana, sotto l’Imperatore Traiano, l’oasi divenne un importante centro agricolo e vi fu introdotta la coltivazione dell’olivo. Da allora l’economia di Siwa è basata sulla produzione di datteri e olio. Il fascino maggiore dell’oasi è la popolazione. Parlano una lingua di origine berbera, il siwi, una lingua non scritta. L’arabo lo si apprende a scuola, come l’inglese che serve per i turisti. Sono di religione musulmana, ma seguono la tradizione senussi, iniziata nel secolo XIX nell’oasi di Cufra, sul lato libico della frontiera. E alla Libia sono legati da vincoli familiari tenuti in vita dalle antiche vie carovaniere e dal lavoro che vi si trovava quando i tempi in Egitto erano peggiori. La terra coltivata nell’oasi si estende per circa 5000 ettari, suddivisi in appezzamenti denominati “giardini”. Ogni giardino a sua volta è raggruppato in un’unità produttiva collegata a un pozzo per l’irrigazione, chiamata hattia. Gli abitanti dell’oasi sono culturalmente berberi e parlano una lingua comune a quella delle tribù presenti in Libia, Algeria e Marocco. Grazie a un progetto della
Cooperazione italo-egiziana, dal 2002 il governo egiziano ha dichiarato il deserto attorno a Siwa area protetta, con l’intenzione di conservare il patrimonio naturale della regione e di assicurare un utilizzo sostenibile ed equilibrato delle sue risorse. I datteri sono un cibo fondamentale nella tradizione locale e sono l’ingrediente base di alcune preparazioni quali l’elhuji (una crema di uova, olio di oliva e datteri), il tarfant (una pasta di datteri ottenuta con la miscela di olio di oliva) e i tagilla (sorta di frittelle fatte con farina, olio di oliva, acqua e datteri) che durante il Ramadan si mangiano la sera, per rompere il digiuno. I datteri prodotti nell’oasi sono di due tipologie: ci sono varietà per il consumo fresco, praticato a livello locale, e varietà essiccate, adatte alla manipolazione e al commercio. Le tre cultivar più importanti sono la sewi, la frahi e la azawi. Altre tre varietà, particolarmente apprezzate e ricercate, sono coltivate in misura minore, e rischiano di scomparire: si tratta della ghazal (dalla polpa semidura), della taktakt (dalla polpa morbidissima) e della amenzoh (tra le prime a fruttificare a Siwa); queste varietà autoctone producono pochissimi polloni ed è quindi molto difficile la loro moltiplicazione. La coltivazione di datteri di antiche varietà nell’oasi di Siwa è stata segnalata alla Fondazione Slow Food nel marzo 2006 e a maggio è stato organizzato il primo viaggio per incontrare i produttori, dove è emerso immediatamente che lo scopo prioritario del Presidio doveva essere la salvaguardia di alcune specie a rischio di estinzione per via della delicatezza della polpa: questa caratteristica ne rende interessante il consumo fresco, ma ostacola la commercializzazione del prodotto essiccato. La coltivazione dei datteri, infatti, cosituisce una buona possibilità di reddito per i siwani, obiettivo che può essere raggiunto solo se i produttori sono coinvolti anche nel processo di trasformazione.
HAI MAI PENSATO A QUANTA STRADA DEVE FARE L’ ACQUA PRIMA DI ARRIVARE NEL TUO BICCHIERE?
Per salvaguardare l’ambiente si può bere l’acqua del rubinetto, XQD YROWD YHUL¿FDWD OD VXD TXDOLWj RSSXUH XQœDFTXD PLQHUDOH proveniente da fonti vicine al tuo territorio.
Per l’imbottigliamento e il trasporto su gomma di 100 litri di acqua per 100 km, si producono emissioni almeno pari a 10 kg di anidride carbonica*. IRQWH GDWL VFLHQWL¿FL QD]LRQDOL H LQWHUQD]LRQDOL
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L’identità degli investitori L’ I di Grain
Altima One World Agriculture Fund, con sede alle Isole Cayman, è un fondo americano di 625 milioni di dollari creato da Altima Partners per investimenti in terra agricola in America Latina, in Russia, Ucraina e Kazakistan. Nel 2009 la sezione della Banca Mondiale incaricata degli investimenti privati, la International Finance Corporation, ha annunciato che si sarebbe associata ad Altima Fund con una partecipazione di 75 milioni di dollari. Altima detiene il 40% dell’argentina El-Tejar, che controlla oltre 200 000 ettari di terra in Sudamerica. Costituito nel 2008, l’olandese Apg Investment è uno dei maggiori gestori mondiali di fondi pensione. Ha creato un fondo agricolo da investire in strutture che affittano terra coltivabile e dispone di un fondo per la silvicoltura che investe in foreste e in fattorie in Uruguay, Paraguay, Brasile e Argentina. Secondo il direttore del fondo, Frank Asselbergs, «queste fattorie sono enormi distese di terra, condotte da società professionali. Ultimamente abbiamo comprato una fattoria grande come l’intera regione olandese di Veluwe».
La Bkk Partners, con sede in Australia, progetta un investimento di 600 milioni di dollari per l’acquisto di 100 000 ettari in Cambogia. Creata nel 2007 da Louis Dreyfus, l’argentina Calyx Agro è un fondo impegnato a individuare, acquistare e vendere terra agricola in Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Nel 2008 la statunitense Aig ha investito 65 milioni di dollari nel fondo. L’egiziana Citadel Capital investe fondi privati in Medio Oriente e Nord Africa e controlla oltre 8,3 miliardi di dollari di investimenti. Nel 2008 ha costituito il fondo Sabina, che ne controlla l’investimento agricolo presso Kosti (Stato del Nilo Bianco, Sudan), dove ha ottenuto una concessione di 99 anni su una distesa di 107 000 ettari, di cui 37 chilometri situati direttamente sul Nilo. Citadel possiede inoltre il più grande produttore di latte dell’Egitto, Dina Farms, con una mandria di 11 000 capi. Emergent Asset Management, con sede nel Regno Unito, gestisce un Africa Agricultural Land Fund. Nel giugno 2009 Emergent controllava oltre 150 000 ettari in Angola, Botswana, Mozambico, Sudafrica, Swaziland e Zambia. International Farmland Holdings/Adeco Agropecuaria con sede negli Usa e in Argentina ha investito più di 600 milioni di dollari in Argentina, Brasile e Uruguay per acquistare 263 000 ettari di terra coltivabile. Jarch Capital, con sede alle Isole Vergini, ha acquisito nel 2009 il 70% della sudanese Leac for Agriculture and Investment e affittato circa 400 000 ettari di terra nel Sudan meridionale. Poco dopo ha annunciato che intendeva affittare altri 400 000 ettari di terra in Africa entro la fine del 2009. La statunitense Nch Agribusiness Partners gestisce più di 3 miliardi di dollari di dotazioni universitarie, fondi pensione aziendali e statali, fondazioni e società di investimento familiari. Dispone di un fondo di 1,2 miliardi di dollari per l’acquisto di fattorie in Europa orientale. Pharos Miro Agricultural Fund, con sede negli Emirati Arabi Uniti, è un fondo di 350 milioni di dollari che si occuperà della coltivazione del riso in Africa e di cereali in Europa orientale e negli ex paesi sovietici. Lo statunitense Teachers Insurance and Annuity Association, College Retirement Equities Fund è il più grande gestore americano di fondi pensione. Nel dicembre 2008 avrebbe investito 340 milioni di dollari in terra agricola negli Usa. Ha inoltre costituito una holding company in Brasile, la Mansilla, che ha investito 150 milioni di dollari nel fondo agricolo di Cosan, il Radar Propriedades Agricolas. Il fondo per l’81,1% è di proprietà di Tiaa ma è interamente controllato da Cosan, il maggiore produttore di zucchero del Brasile e uno dei più grandi del mondo. Tiris Euro Arab, con sede negli Emirati Arabi Uniti, ha firmato nel 2009 un contratto con il governo del Marocco per affittare 700 000 ettari di terra vicino alla cittadina di Guelmim. Prevede un investimento di 44 milioni di dollari. La canadese Feronia Inc., sussidiaria di TriNorth Capital Inc., è stata costituita per investire nella produzione agricola e in impianti di trasformazione in Sudafrica, Uganda, Zimbabwe e Repubblica Democratica del Congo. * Questo prospetto riassume le informazioni più dettagliate raccolte da Grain nell’ottobre 2009 e continuamente aggiornate sul sito blog farmlandgrab.org.
n poco più di un anno, tra il 2008 e il 2009, nel mondo si sono contrattati, affittati o venduti 45 milioni di ettari di terra coltivabile. Una superficie che equivale a una volta e mezza quella dell’Italia ed è destinata a crescere, perché la corsa ad arraffare pezzi di paesi in via di sviluppo dove seminare mais o piantare canna da zucchero non si fermerà. È la conclusione più chiara cui è giunta la Banca mondiale nel suo rapporto sul land grabbing. Una parola che entra soltanto di striscio nel documento Rising Global Interest in Farmland. Can It Yeld Sustainable and Equitable Benefits? (Il crescente interesse globale nella terra agricola può fruttare benefici equi e sostenibili?), basato su 1 informazioni raccolte in 14 paesi del mondo , attraverso indagini dirette e notizie di stampa. L’uscita di queste 140 pagine è stata annunciata e rinviata più volte. A fine luglio scorso una fonte interna all’organismo finanziario di Washington aveva fatto avere una bozza dello studio al quotidiano Financial Times, per «impedire che la Banca lo pubblicasse in agosto», nel pieno dell’estate e della disattenzione collettiva. Perché la Banca avrebbe deciso di “nascondere” il suo rapporto, atteso da oltre nove mesi? Forse perché il quadro che emerge dal documento (presentato infine il 7 settembre) contiene molte ombre e poche luci. Innanzitutto la Banca ammette le difficoltà riscontrate nell’ottenere notizie dai singoli paesi sui grandi investimenti agricoli: «L’accesso alle informazioni, anche a quelle che non dovrebbero essere confidenziali, è stato un problema più serio di quanto preventivato. La scarsa condivisione dei dati, i buchi e gli errori nella registrazione [dei contratti] comportano una sorprendente mancanza di consapevolezza di quanto sta accadendo sul campo, perfino da parte delle istituzioni che dovrebbero controllare il fenomeno». Le amministrazioni statali, in sostanza, brancolano nel buio della disorganizzazione e dell’inettitudine e questo, sottolinea lo studio, favorisce la negazione dei diritti delle popolazioni creando presupposti per il malgoverno e la corruzione. I cacciatori di zolle si dividono in tre gruppi: il primo è formato dai governi che dopo la crisi alimentare del 2007-2008 hanno cominciato a preoccuparsi di come garantire la sicurezza alimentare ai propri cittadini. Tra questi spiccano Cina, paesi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait e Bahrain), Libia ed Egitto. Ma sono forti investitori anche Russia, India e Gran Bretagna. Il secondo gruppo comprende le entità finanziarie, come i fondi d’investimento, in cerca di un riparo dall’inflazione e attratti più dalle prospettive di futuri guadagni che dalla prospettiva di produrre agrocarburanti o cibo. Il terzo, e più attivo, riunisce imprese dell’agrobusiness e del settore industriale, intenzionate a mettere a frutto la terra. L’analisi degli accordi conclusi in molti paesi oggetto dello studio consegna, però, un’immagine diversa dell’investitore tipo. Secondo la Banca, a chiedere più terra non sono stranieri, ma élite nazionali. «Tuttavia,» ammettono i ricercatori «siccome le aziende locali potrebbero agire come prestanome, la percentuale di terra acquisita da società estere potrebbe essere più
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cors ampia di quella effettivamente riportata». Il 70% dei milioni di ettari opzionati in questa incredibile corsa alla terra è in Africa. E nei prossimi venti anni il continente resterà l’epicentro dell’espansione agricola. La stima prudenziale contenuta nel rapporto prevede che fino al 2030 ogni anno saranno avviati alla coltivazione 6 milioni di ettari di terra, due terzi dei quali saranno concentrati nell’Africa subsahariana e in America Latina. La fetta più grossa (23%) degli affari contrattati fino al 2009 è suddivisa tra Sudan, Etiopia, Nigeria, Ghana e Mozambico, un altro 21% sono stati siglati in America Latina (Argentina e Brasile in particolare), l’11% in Europa e Asia Centrale (soprattutto Russia, Ucraina e Kazakistan), il 10% nel Sud Est asiatico (Filippine, Cambogia, Indonesia, e Laos). In generale, ha osservato la Banca Mondiale, l’interesse degli investitori si focalizza sui paesi «con una debole capacità di gestione delle questioni fondiarie» e «un basso livello di riconoscimento dei diritti legati alla terra». Ma questo è solo uno dei pericoli evidenziati. Nonostante gli enormi effetti che questi investimenti potrebbero avere sull’ecosistema e sull’economia di un paese, quasi mai è richiesta una valutazione di impatto sociale e ambientale. Critica risulta anche la fattibilità di molti progetti agricoli su larga scala. Spesso, rileva il rapporto, i governi danno per scontato che gli investitori presentino piani sostenibili dal punto di vista economico e fattibili sotto il profilo tecnologico. La storia e uno sguardo agli ultimi mega contratti, tuttavia, raccontano un’altra verità. Dei 464 progetti censiti dal blog dell’organizzazione Grain (e usati dalla Banca Mondiale come dati di partenza) soltanto il 21% è in fase di realizzazione. «Sembra che gli investitori non abbiano la
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unga
sa alla terra necessaria competenza tecnica o siano più interessati a guadagni di tipo speculativo che a sfruttare davvero la terra» afferma la Banca, dando corpo all’ipotesi che dietro molti accordi ci sia l’intenzione di accaparrarsi un bene destinato ad aumentare di valore nel tempo anziché a sviluppare una risorsa. Gli stessi canoni richiesti ai privati per la concessione della terra pubblica sono molto bassi e «spesso non vengono neppure raccolti», continua il documento, per non parlare delle imposte fondiarie, dalle quali i grandi investitori sono di frequente esentati. Agevolazioni che rendono finanziariamente appetibili per gli acquirenti anche progetti altrimenti destinati al fallimento. L’incapacità o la non volontà da parte di molti governi di controllare cosa accade dopo la stipula di questi contratti ha fatto sì che finora siano davvero poche le concessioni revocate o riviste alla luce delle inadempienze. Gli investitori, secondo la Banca, in molti casi sottostimano le complessità delle operazioni agricole e i governi, dal canto loro, selezionano i progetti con poco rigore, rinunciando a determinare ciò che è davvero vantaggioso per il paese e ciò che, invece, risponde soltanto ai desideri dei privati. L’esperienza del passato non induce all’ottimismo. In Sudan l’avventura delle grandi imprese agricole è cominciata negli anni Settanta e come si legge nel rapporto «non è stata incoraggiante». I paesi del Golfo miravano a trasformare il grande paese africano nel granaio della regione attraverso una facilitazione dell’accesso alla terra e sussidi al credito per l’acquisto dei macchinari necessari a coltivare estensioni superiori ai 1000 ettari. Le statistiche ufficiali parlano di oltre 5 milioni di ettari convertiti in terreni agricoli, ma più del doppio furono quelli ufficiosamente arraffati. «In con-
dizioni simili di clima e suolo, in Sudan si è riuscito a produrre non più di mezza tonnellata di sorgo per ettaro, contro le 4 tonnellate dell’Australia». Nel frattempo la natura è stata devastata, interi villaggi spogliati della terra, e le fattorie abbandonate. Vicende simili sono accadute in Tanzania e Nigeria. Alla domanda «possono i piccoli contadini e le grandi aziende coesistere?» la Banca Mondiale risponde con alcuni calcoli che lasciano poco spazio alle interpretazioni. Prima di tutto sotto il profilo dell’efficienza a vincere sono i piccoli agricoltori perché, sebbene i loro raccolti siano inferiori, spesso lo sono anche i costi di produzione. Ma è dal punto di vista dell’equità sociale che il paragone non regge: il reddito di un contadino che coltiva la sua terra è da 2 a 10 volte superiore a quanto potrebbe mai guadagnare lavorando come bracciante in un’azienda. Deludenti rischiano di essere anche gli effetti positivi sull’occupazione. Le proiezioni contenute nel rapporto fissano una forbice compresa tra 0,01 e 0,35 posti di lavoro per ettaro. Ad avere la peggio in questa lotteria sono come sempre le fasce sociali più deboli che il rapporto identifica nelle donne, spesso escluse dal diritto alla terra e quindi dalle eventuali consultazioni sulla sua destinazione, ma anche ulteriormente danneggiate dalla perdita di risorse comuni. In molti villaggi africani sono le donne che vanno a prendere l’acqua, a raccogliere la legna per il fuoco, le erbe medicinali, i frutti della foresta. Che cosa accade se la fonte non è più accessibile o gli alberi vengono tagliati? Lo stesso vale per i pastori, che non possono vantare alcun titolo sulle terre dove fanno pascolare il bestiame. Nonostante il lungo rosario di rischi snocciolato nello studio, la Banca Mondiale, tuttavia, è convinta che nella corsa alla terra vi siano
di Franca Roiatti
Rapporto banca Mondiale sul land grabbing, l’arraffare pezzi di paesi in via di sviluppo. Come e perché in un solo anno si sono contrattati, affittati o venduti 45 milioni di ettari di terra coltivabile nel mondo
anche «grandi opportunità». Molti paesi in via di sviluppo hanno ampie estensioni di terra non coltivata e frotte di piccoli contadini che sopravvivono a stento su minuscoli appezzamenti, senza avere accesso a capitali e innovazioni tecnologiche. Gli investitori possono contribuire alla crescita della produttività e allo sviluppo in molti modi ma, osserva l’organismo finanziario, è importante che i governi siano trasparenti, attenti ai diritti locali e abbiano un approccio più strategico nella concessione della propria terra. La Banca di concerto con altre organizzazioni ha anche elaborato sette princìpi per gli investimenti agricoli responsabili, una sorta di codice di condotta che tutte le parti coinvolte, stati, fondi e aziende, sono chiamate a rispettare. Volontariamente, però. All’ultimo vertice sull’alimentazione svoltosi nella sede della Fao lo scorso ottobre, le Ong e le associazioni che danno voce ai piccoli coltivatori del mondo hanno bocciato i sette princìpi, e chiesto che si faccia di più: una moratoria sulla tratta della terra, e soprattutto leggi nazionali e internazionali che obblighino tutti al rispetto del diritto e dei diritti.
Note 1. Cambogia, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Indonesia, Liberia, Laos, Mozambico, Nigeria, Pakistan, Paraguay, Perù, Sudan, Ucraina e Zambia.
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di Serena Milano stata la prima terra ad essere abitata dall’uomo, tre milioni di anni fa. È un continente sterminato, ricco di foreste, acque, minerali preziosi, petrolio. Ma è anche il più lacerato: da guerre, conflitti etnici e religiosi, siccità, carestie. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta quasi tutti gli stati africani hanno ottenuto l’indipendenza dai paesi europei ed è iniziata una fase di ottimismo e di speranza che, però, si è spenta molto presto. Le varie nazioni hanno ereditato dalle colonie strutture amministrative fragili, nate con l’unico scopo di predare le comunità locali. La corruzione è dilagata, i gov-
È
(che per la sua opera vinse il Nobel per la pace) e finanziata dai soldi delle fondazioni Ford e Rockefeller e della Banca mondiale, è stata avviata in tutto il continente la cosiddetta Rivoluzione verde. Obiettivo: aumentare la produzione di cibo, modernizzare l’agricoltura puntando sulla tecnologia e le monocolture, favorire la concentrazione della terra e delle risorse, sostituendo progressivamente le produzioni tradizionali, considerate inefficienti, con coltivazioni intensive. Coltivazioni che, però, hanno bisogno di molto denaro per sostenere gli alti costi degli input, per comprare ogni anno sementi, per acquistare fertilizzanti chimici e pesticidi. Le prove del completo falli-
Obiettivo? Aumentare la produzione di cibo, modernizzare l’agricoltura puntando sulla tecnologia e le monocolture, favorire la concentrazione della terra e delle risorse.
Orto
rivoluzionario erni si sono indebitati sempre di più ed è iniziata una lunga fase di dipendenza dagli aiuti economici internazionali, che continua tuttora. Aiuti che, secondo diversi ecomonisti (come l’africana Dambisa Moyo) non solo non hanno contribuito a risolvere, ma hanno aggravato i problemi africani, fomentando conflitti, alimentando la corruzione e creando una pericolosa e sterile dipendenza. Di fatto, da un quarto di secolo, l’economia è controllata dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, eccetera). Che cosa ha significato tutto questo per l’agricoltura e per il territorio? Negli anni Sessanta, promossa dallo scienziato Norman Borlaug
mento di questa strategia sono incontrovertibili. Un dato su tutti: nel 1970 i sottoalimentati in Africa erano 80 milioni. Dieci anni dopo questo numero è raddoppiato, fino a raggiungere i 250 milioni di persone nel 2009. Eppure, in nome della sicurezza alimentare, gli stessi soggetti di un tempo (affiancati da un nuovo, potentissimo, protagonista: la Bill and Melinda Gates Foundation) stanno cercando di rilanciarla attraverso l’Alliance for a Green Revolution in Africa (Agra) e il suo programma (ProAgra), costituito per tradurre in pratica i progetti. Cinquant’anni fa i paesi africani producevano cibo a sufficienza per il consumo domestico e riuscivano a esportare. Oggi importano la maggior parte degli alimenti.
Noi testimoni
dward Mukiibi è un giovane ugandese. Nel suo paese coordina un progetto che coinvolge 13 orti scolastici e 17 scuole. «In Uganda il successo dell’agricoltura è nelle mani dei giovani, la maggioranza della popolazione. L’agricoltura constituisce il 65% del Pil nazionale e il nostro obiettivo consiste nel promuovere sistemi di produzione sostenibile e nel migliorare il rapporto col cibo della tradizione. Lo facciamo educando gli studenti più piccoli, gli studenti delle scuole elementari e secondarie, creando e stimolando interesse per un’agricoltura appassionata, rispettosa dell’ambiente». Un altro ragazzo, Peter Wasika Namianya, è fra i responsabili del progetto kenyota, che riguarda una quarantina di orti, fra scolastici, comunitari e urbani. «Lavorare un orto in gruppo insegna ai giovani a diventare adulti responsabili. Produrre il proprio cibo in fattoria consente di seguire le colture fino a maturità, di mangiare in modo più equilibrato che consumando alimenti da supermercato, di riattivare rapporti e scambi intergenerazionali, rendendo più efficace la nostra attività».
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A Sandaga, il più grande mercato alimentare nell’Africa occidentale (nel cuore di Dakar) si possono comprare frutta e ortaggi portoghesi, spagnoli, italiani e greci a metà del prezzo degli equivalenti locali. E questo vale per tutti i prodotti: dalle ali di pollo degli allevamenti industriali europei al cotone americano al riso thailandese. L’agroindustria occidentale, grazie a giganteschi sussidi pubblici, piazza le proprie eccedenze sottocosto sui mercati poveri, rovinando i contadini locali. Il 95% del riso consumato in Senegal è importato dalla Thailandia, mentre le produzioni tradizionali di riso del paese non trovano sbocchi di mercato. Il riso importato inoltre ha sostituito i cereali locali – il fonio in particolare – stravolgendo la dieta familiare. Oggi è più che mai evidente che le strategie attuate e proposte dalla Rivoluzione verde e il suo paradigma tecnologico, che punta tutto sul miglioramento genetico delle colture e sull’applicazione di fertilizzanti, non sono una risposta adeguata. Un cambiamento di direzione è urgente e necessario. Per farlo, occorre invece recuperare le produzioni tradizionali e riportare il cibo locale sul mercato, nelle case e nelle scuole. Le coltivazioni tradizionali sono caratterizzate da una grande varietà genetica. La di-
versificazione consente alle comunità di gestire la produzione, destinando i prodotti in parte alla sussistenza e in parte al mercato, garantisce la disponibilità di cibo in ogni stagione, tutela dal rischio di epidemie diffuse, dai cambiamenti climatici e dai predatori. Diversificare le produzioni significa dipendere meno dall’oscillazione dei prezzi fissati dai mercati internazionali e, dunque, essere meno vulnerabili, dal punto di vista economico e sociale. Ecco perché la filosofia di Slow Food può dare una risposta a tante comunità africane. «Per anni gli occidentali ci hanno spiegato che tutto quanto facevamo era sbagliato,» spiega un rappresentante del Camerun a Terra Madre «che le nostre tecniche erano inefficienti, che i nostri prodotti erano da sostituire con colture più produttive. Ora sentiamo esattamente il contrario. A Terra Madre tutti riconoscono che la nostra storia è importante». Parole che Slow Food ha intenzione di mettere in pratica, mobilitando tutta la sua rete internazionale per finanziare la nascita di 1000 orti, nell’arco di due anni, tra il 2011 e il 2012. Fare un orto in Africa significa produrre cibo sano e fresco per la comunità, trasferire i saperi degli anziani alle nuove generazioni, dare alle donne il ruolo di protagoniste dell’economia comunitaria,
favorire la conoscenza dei prodotti locali, il rispetto dell’ambiente, l’uso sostenibile di suolo e acqua, la salvaguardia delle ricette tradizionali. Grazie a una grande mobilitazione internazionale saranno avviati orti scolastici, comunitari e urbani in 20 paesi africani. Saranno coltivati secondo tecniche sostenibili (compostaggio, riproduzione delle sementi, preparati naturali per la difesa da infestanti e insetti, gestione razionale dell’acqua), comprenderanno alberi da frutta, verdure ed erbe medicinali, e privilegeranno le varietà locali. Mentre scriviamo, 30 orti sono già partiti: si trovano in Kenya, Uganda e Costa d’Avorio. Nel mese di marzo, una settimana di incontri e formazione con 20 rappresentanti africani è servita a porre le basi del progetto, a raccogliere opinioni e a definire i singoli punti del disciplinare con le linee guida degli orti. È stato inoltre preparato materiale di comunicazione e formazione in un gran numero di lingue africane, anche in forma di fumetti, tavole illustrate, cassette audio, da diffondere in modo capillare nelle comunità contadine, spesso analfabete, anche attraverso la rete delle radio rurali, nel continente. Per adottare un orto in Africa o per avere maggiori informazioni: tel. +39 0172 419756 ortiafrica@terramadre.org
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a riscossa delle erbacce, che spuntano senza chiedere il permesso sui prati di montagna o in un vaso sul balcone. Eppure, dice Davide Ciccarese nel suo libro Cucinare le erbe selvatiche (Ponte alle Grazie) queste piante hanno aiutato l’umanità nella sua lotta per la sopravvivenza. Al centro di miti e leggende, ispirano gustose ricette. Basta saperle riconoscere. Molte di quelle più usate sulle nostre tavole provengono dal Nord Africa. Il cappero, per esempio, pianta perenne con fusti cespugliosi e foglie verdi carnose e fiori di straordinaria bellezza. I boccioli – obiettivi dei buongustai – vengono conservati sotto sale, sott’olio o sott’aceto. Deliziosa la Salsa di capperi e acciughe oppure la Tartare di tonno e capperi. E che dire del cerfoglio i cui steli e il profumo sembrano ricordare quello del prezzemolo? Il cerfoglio, che ha macchie rosse lungo i rami, è però più resistente, “facile da coltivare e ha un aroma più complesso, dai sentori di anice, liquirizia, zenzero e ovviamente di prezzemolo”. Per molti secoli, i romani – che lo hanno portato in Europa dalle regione del Medioriente – lo hanno utilizzato come tonico. Si dice venisse dato ai gladiatori peer migliorarne il tono muscolare prima degli incontri. Anche il cipollaccio, considerato dagli intenditori una vera prelibatezza, ha sempre sfamato le classi meno abbienti. E’ diffuso in tutta la regione del Mediterraneo: in Europa, Medioriente e Africa settentrionale. I contadini dicono che il miglior modo per gustare il cipollaccio è cuocerlo sotto la brace. Quando il Maghreb fu conquistato dai musulmani, nell’VIII secolo, i mercanti arabi che arrivarono “nella parte occidentale del paese dei neri non trovarono nessun re più potente di quello del Ghana”, e dissero che la capitale, Kumbi Saleh, costituiva una delle città più grandi del mondo e una delle più popolate. Nel volume Quando i neri fanno la storia, (Emi), Serge Bilé racconta che alla frontiera del Ghana ad eccitare gli stranieri c’era anche una curiosità: uno stagno in cui cresceva un’erba la cui radice si diceva fosse afrodisiaca, e di cui il re del paese era geloso. Un re – il Kaya Maga – che non consumava mai i pasti in pubblico, nemmeno con la famiglia. Nessuno doveva vederlo mangiare, per cui quando dava sontuosi banchetti, rimaneva a digiuno. Il cibo gli veniva portato poi in gran segreto e nessuno sapeva da dove provenisse. Un modo per raffor-
L
di Geraldina Colotti
Mai pasti in pubblico, benché sontuosi banchetti fossero ordinati nella sua reggia. Storie africane, storie del mondo in tanti libri, riletti al punto giusto zare l’idea che avesse poteri divini, racconta un geografo del XII secolo, al-Muhallabi. Nel suo interessante lavoro di divulgazione storico-antropologico, Bilé (giornalista e scrittore nato in Costa d’Avorio) ricostruisce l’antica storia africana sfatando il racconto coloniale che ne ha negato civiltà e splendori. Soprattutto nell’Africa occidentale – scrive – il Medioevo fu un periodo fecondo, segnato da un fermento culturale, uno sviluppo
nella, mele, muschio e sapone e corn flakes e pulizia”. Studia l’antico Egitto e insegna a “orde di bambini selvaggi”: bambini che arrivano dal Nordafrica, dal Pakistan, dall’India, esposti al razzismo larvato del perbenismo britannico Il romanzo The White Family, della scrittrice londinese Maggie Gee (edizioni Spartaco, trad. di Giovanni Giri) fotografa i vizi nascosti di una famiglia inglese alternando le voci di tutti i protagonisti: l’anziano Alfred, il guardiano del parco; la giovane Shirley, sposata a un ghanese snobbato dalla famiglia; Dirk, razzista represso che scatenerà il dramma; e May, la madre, divoratrice di libri e sognatrice. La storia prende avvio con l’infarto di Alfred, costretto a lasciare il parco per l’ospedale. Con gli occhi di May, il lettore osserva la vita sfiorire, il quartiere che cambia e che muore, portandosi via antichi odori mentre altre abitudini si affacciano e si mescolano. Una volta, lì c’era un forno-pasticceria. Di solito May acquistava gli
accesi della via. Il quartiere non sta morendo. Rinasce. Anatra arrosto, maiale al forno con contorno di mele prugne e patate caramellate o cavolo rosso, merluzzo affogato al burro fuso, rafano e patate al vapore. Dopo cena, un bicchiere di acquavite per lui, e un quarto di bicchiere per lei. E nelle sere in cui fa fresco, Aage prepara il glögg, quel punch caldo danese “nel quale acquavite, vino rosso, porto, rhum, uva passa, mandorle, cannella e chiodi di garofano si ritrovano come i clienti di un albergo nell’ascensore” e che lui confeziona a meraviglia. Non proprio la preparazione dietetica di una boxeuse professionista, ma per Julia potersi permettere una cena così costituisce comunque una grande vittoria. Finiti i tempi in cui in Marocco girava affamata per strada, inseguendo “l’odore acre delle carni avariate che venivano grigliate per i turisti”. Finite le zuppe di pesce e orzo, consumate nelle baracche di pescatori a Marrakech. Julia, protagonista del roman-
Il Re mangiava
di nascosto economico e una stabilità politica rappresentati da tre grandi imperi: quello del Ghana, del Mali e del Songhai, “che uguagliavano in potenza i vicini, benché lontani, regni arabi ed europei, con i quali intrattenevano rapporti continui”. Molte le testimonianze riportate dai viaggiatori come l’andaluso Leone l’Africano che visitò Timbuctù nel 1526 e vide “cereali e bestiame in grande abbondanza, tanto che il consumo di latte e burro è considerevole”.Una sorta di età dell’oro in cui prese forma persino una “dichiarazione dei diritti umani” ante-litteram. Un articolo riguardava le donne: “Le donne, oltre alle occupazioni quotidiane, devono essere associate a tutti i nostri governi”. E un altro ammoniva: “Non fate torto agli stranieri”. Melissa “profuma di can-
omini di pan di zenzero per i bambini e un pandispagna il sabato “perché i suoi si sgonfiavano sempre”. La pasticceria era il lustro della strada principale, “un segno del benessere arrivato con gli anni Cinquanta”. Un tempo, c’era anche una pescheria con le lastre di marmo su cui risplendevano pesci azzurri e rosa. May di solito comprava le uova di pesce e le metteva sul pane tostato. Era il piatto preferito di Alfred. A colazione, gli piacevano il salmone affumicato e i filetti di platessa. Il pesce fa bene – pensa May – anche se l’odore è tremendo. “Io lo compravo sempre due volte la settimana, ma che bene gli ha fatto, che bene, che bene?” May tocca il suo libro nella borsa: ne porta sempre uno con sé, “un peso gentile” che le preme sulle spalle e le tiene compagnia. Ora vede anche i colori
zo di Pierre Brunet, Jab (Angelo Colla editore, trad. di Monica Capuani) è stata abbandonata da piccola all’imbarco dei traghetti di Tangeri. L’ha raccolta Najwa, una trentanovenne zoppa, che all’epoca faceva le pulizie nella sala d’attesa dell’imbarco. Impossibile ritrovare i genitori di Julia, due spagnoli venuti in vacanza in Marocco e che hanno lasciato alla piccola solo un foglietto con il nome e la data di nascita. Sarà la boxe a cambiare la vita di Julia, come nel film di Clint Eastwood, Million Dollar Baby. Il suo viaggio tra abisso e rinascita si sviluppa intorno al ricordo di una parola: quemadura, ossia bruciatura. Brucia l’abbandono e la vita spinta all’estremo, brucia la tensione del corpo all’attacco, mentre una rabbia cieca di bambina impotente sale da dentro, lacerando la paura.
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I
costiero doveva però anche assicurare la conservazione e la gestione razionale delle risorse biologiche. La Convenzione sanciva inoltre l’obbligo di tutti gli stati a cooperare per la conservazione e la gestione delle risorse viventi nell’alto mare (al di là delle 200 miglia). Per il Mediterraneo la Convenzione si limitava a suggerire ai paesi rivieraschi di cooperare nella gestione delle risorse biologiche. Ma, di fatto, il Mediterraneo è l’unico mare in cui, in quasi totale assenza di Zee nazionali e in mancanza di una regolamentazione internazionale, mentre da un lato vige ancora il principio della libertà di pesca in alto mare oltre le 12 miglia, dall’altro non esiste nessuna politica comune per la salvaguardia delle risorse. La struttura artigianale della pesca mediterranea, la multispecificità delle risorse e il contesto produttivo richiedono un diverso approccio, dove è necessario riconsiderare la dimensione socio-economica. In particolare, occorre progressivamente riconoscere la titolarità del diritto di pesca a quanti esercitano l’attività lungo la fascia costiera, eventualmente attraverso la costituzione di
Pesca
per sette di Silvio Greco
Sono i paesi che operano nel Mediterraneo, con quasi cinquantamila pescherecci. Un mondo da esplorare e rispettare
Consorzi di gestione o Distretti di pesca entro cui poter realizzare programmi di investimento, ripopolamento, miglioramento dell’area anche attraverso la definizione di Piani di pesca. Occorre inoltre favorire la realizzazione di collegamenti stabili fra le diverse realtà di pesca nel Mediterraneo. La gestione della pesca nel Mediterraneo richiede un approccio basato su un sistema flessibile e caratterizzato dallo sfruttamento delle sinergie fra le misure di tipo biologico e socio economico. Tale approccio ha dimostrato in più occasioni di rispondere meglio alle esigenze di riequilibrio tra sforzo e cattura, attraverso il coinvolgimento sistematico degli operatori del settore nei processi decisionali. Innanzitutto, è necessario definire per ciascun paese mediterraneo gli obiettivi gestionali relativi alla pesca, che devono seguire le linee guida per una pesca responsabile fissate dalla Fao. La pesca è un’attività commerciale, ma deve essere sostenibile, compatibile con la salvaguardia dell’ecosistema. Per raggiungere tale obiettivo, sono necessari un monitoraggio continuo e una profonda conoscenza dei processi dinamici che caratterizzano le risorse della pesca. Va sottolineato come le problematiche ambientali rivestano un ruolo non marginale nella gestione delle risorse rinnovabili. Ad esempio, l’evoluzione dei principali agenti inquinanti nelle reti trofiche, nella colonna d’acqua e nei sedimenti, interviene drasticamente, da una parte aumentando la mortalità di uova e larve di pesci, crostacei e molluschi, dall’altra modificando o la struttura sessuale degli organismi marini o le finestre temporali riproduttive. Se c’è consenso unanime sul fatto che la limitazione dello sforzo di pesca costituisca la maniera migliore di gestire le attività di prelievo al fine di ottimizzare lo sfruttamento delle risorse, ciò non esclude, tuttavia, che per alcune risorse e zone sia possibile sperimentare con successo altre misure di gestione, come l’istituzione di aree di rispetto o di aree marine pro-
Slow Fish 2011
segnali della sofferenza dei prodotti della pesca in Mediterraneo sono essenzialmente due: i numeri riferiti dal Comitato scientifico, tecnico ed economico della Commissione pesca dell’Ue, secondo cui su 36 stock ittici 32 sono ormai sovrasfruttati; e il dato empirico, dimostrato dall’immissione sul mercato di specie che fino a pochi anni fa venivano ributtate a mare. Ma cos’è in termini numerici la pesca mediterranea – la pesca comunitaria è ovviamente solo una parte – e qual è lo scenario di riferimento? I paesi comunitari che operano in Mediterraneo per ora sono solo sette: Spagna, Francia, Italia, Grecia, Slovenia, Malta e Cipro. La filiera dà lavoro a circa 105 000 pescatori (il 40% di tutti i pescatori comunitari) imbarcati su 47 000 pescherecci (il 48,5 % delle flottiglie comunitarie). Storicamente, l’Italia ha sempre avuto la più numerosa flottiglia comunitaria del Mare Nostrum, in termini sia di stazza lorda sia di numero di imbarcazioni, che utilizzano tutti gli attrezzi di cattura conosciuti: dalle grandi reti a circuizione alle reti da posta, passando per la pesca a strascico, che rappresenta il sistema di pesca nazionale più importante. Al contrario, Francia e Spagna hanno una modesta flotta mediterranea e una grossa flotta atlantica, mentre Grecia, Slovenia, Cipro e Malta posseggono una modesta flottiglia, perlopiù dedita alla pesca locale costiera. La novità è rappresentata dai paesi che si affacciano sulla sponda nord africana, in particolare dall’Egitto (90 000 addetti per una produzione nel 2008 di 237 572 ton) e dall’Algeria (160 000 ton), seguiti da Turchia, Marocco, Siria e Tunisia. Quest’ultima in particolare è passata da una piccola flottiglia di imbarcazioni adibite alla piccola pesca costiera a una numerosa e ben attrezzata flotta di pescherecci di altura e le stime riferiscono che nel 2008 erano 85 000 le persone coinvolte nella filiera, con una produzione di 1096 ton. Che il Mediterraneo sia un bacino complesso, dove la pesca viene esercitata in modi diversi e con regole diverse, anche se nella maggior parte dei casi gli stock di pesci sono gli stessi, lo conferma anche la questione della Zona Economica Esclusiva (Zee). Nel 1970 l’Assemblea generale dell’Onu decise di convocare una conferenza internazionale sul diritto del mare, che si concluse a Montego Bay con la firma di una Convenzione internazionale (entrata in vigore nel 1994) che di fatto “abrogava” il vecchio principio della libertà di pesca, attribuendo allo stato costiero la sovranità sul mare territoriale di 12 miglia e il diritto a sfruttare le risorse economiche fino a 200 miglia dalla costa. Nella Zee lo stato
orna alla Fiera di Genova dal 27 al 30 maggio Slow Fish, manifestazione internazionale, dedicata al mondo ittico e agli ecosistemi acquatici. Attraverso convegni, incontri, laboratori e degustazioni si affrontano temi legati alla produzione sostenibile di pesce e al consumo responsabile. Tema portante dell’edizione 2011 è Una specie in più: i pescatori. Quest’anno, infatti, i riflettori saranno accesi sugli uomini, in particolare i pescatori della piccola pesca costiera. La manifestazione si articola in un cammino della memoria: com’era e com’è la pesca artigianale, quanto è cambiata, come si relaziona con il mondo intero e come è stata penalizzata dalla globalizzazione. Il dibattito si concentra sulla dialettica tra i diritti economici dei pescatori e i diritti delle risorse a essere preservate. Per informazioni e approfondimenti: www.slowfish.it.
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tette, l’adozione di piani di riconversione di sistemi “sensibili”, lo sviluppo del sistema di controllo in mare attraverso le tecnologie satellitari… Inoltre è necessario definire, per ciascuna zona, quali siano le tecniche e i sistemi di pesca da promuovere al fine di massimizzare gli utili in un contesto di cautela. Infine, i responsabili della gestione devono mettere a punto una suddivisione ottimale dello sforzo di pesca per zona, stagione e attrezzo utilizzato. Va altresì sottolineata la necessità di risolvere il problema della mancanza di conoscenze essenziali e della produzione di dati affidabili per tutti i settori della pesca. Infine, è necessario incoraggiare il potenziamento delle attività di ricerca. Un ruolo importante deve essere attribuito al General Council of Mediterranean Fisheries (Gfcm) della Fao, responsabile del rafforzamento delle attività del suo Comitato scientifico consultivo (Sac) e dello sviluppo delle attività di ricerca scientifica e di raccolta dati.
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scato, ho escluso le ipotesi più banali, direi scontate: arrostiti, grigliati, in padella con vino bianco, al pomodoro, fritti, neanche a parlarne. Si potrebbe pensare a un risotto: il fumetto si fa con la testa di una cernia, poi si sgusciano i gamberi, li si fa a pezzi e si mettono da parte per buttarli nel risotto solo all’ultimo; si fa un soffritto leggero con poco aglio e peperoncino, si salta il riso e una volta rosolato si innaffia con un bicchierino di rum. Poi, una volta sfumato il liquore, si cuoce senza girare aggiungendo il fumetto di cernia preparato a parte e 5-7 minuti prima di spegnere si aggiungono le code di gambero e quattro gamberi interi, testa compresa. All’ultimo, una presa di zafferano e un po’ di prezzemolo tritato e il piatto è servito. Niente male, ma ci sono dei limiti. Il principale è che la testa di una cernia o d’un pesce similare non la trovi a ogni angolo del molo o in pescheria; il limite secondario è che buttar via le teste dei gamberi rossi di Gallipoli, freschi come sono, o
Il destino
dei pesci di Loris Campetti
Passeggiando su un molo del sud Italia, pensando al prezzo pagato dal disastro in Giappone e a una ricetta che nasce dall’incontro con della asparagina usarli per il fumetto, sarebbe un crimine. La Aristaeomorpha non lo merita. Alla fine, passeggiando in una pineta ecco apparire come d’incanto l’asparagina, uno, due, cinquanta asparagi selvatici: che fai, non li cogli? Non starebbero male con i gamberi. Per farla breve, ecco
come abbiamo risolto il problema. Abbiamo sbollentato un chilo di gamberoni rossi di Gallipoli per non più di cinque minuti. Separate e messe da parte le teste abbiamo sgusciato le code e le abbiamo fatte a pezzi lunghi 2-3 centimetri. In un recipiente di coccio (l’ideale è una ceramica di Vietri con disegni di crostacei) abbiamo spremuto un limone, rovesciato mezzo bicchiere di olio extravergine d’oliva, un cucchiaino di senape, un bicchierino di rum (ancora con il rum)? Quello avevo in casa (se vi potete permettere un torbato meglio ancora) e la parte molle estratta con un cucchiaino dalle teste dei gamberi. Abbiamo montato con un cucchiaio di legno tutti questi ingredienti e infine vi abbiamo messo le code. Aggiustate di sale e mettere in frigorifero. A parte, lavate l’asparagina (dato il risultato, il linguaggio si trasforma, dal racconto alla formazione e dunque il soggetto diventate voi) eliminan-
do la parte più dura, saltate per una decina di minuti le punte di asparagi in olio con mezzo spicchio d’aglio e una puntina di peperoncino, aggiungendo un po’ d’acqua o meglio ancora del rum (o il vostro torbato da ricchi). Fate raffreddare e per concludere unite l’asparagina all’insalata di gamberi. Anche in questo caso avrete salvato quattro gamberi interi che userete per guarnire un piatto di cui i vostri ospiti vi saranno riconoscenti per tutta la vita.
Le illustrazioni
e un giorno, inaspettatamente, vi capitasse di incontrare una famigliola di Aristaeomorpha foliacea, la vostra vita rischierebbe di cambiare di colpo. Potreste tornare a sorridere, almeno per un po’ liberi dai pensieri più tristi, guardando il mondo con occhi diversi. A noi è successo. L’incontro è avvenuto sul molo di un porticciolo lontano, laggiù nel Mezzogiorno. Eravamo turbati dal disastro che ha colpito il Giappone, pensavamo alla follia del nucleare che nulla ha a che fare con «eventi naturali» come il terremoto e lo tsunami. Riflettevamo sui disastri provocati da quell’onda che tutto ha travolto e su un aspetto trascurato da tutti: lo tsunami si è portato via case, cose e soprattutto esseri umani, si contano i morti e gli scomparsi, ma non si pensa agli animali, e tra essi ai pesci. Quale sarà il prezzo pagato dai pesci? E quanto questo disastro peserà sul futuro alimentare di un popolo che di pesce vive, fin troppo se si pensa al rastrellamento sfrenato operato in tutti gli oceani per rispondere a una domanda giapponese diventata ormai incompatibile con l’ambiente marino? Ai danni dell’onda che ha vomitato a terra pesci e crostacei si aggiungono le conseguenze del disastro atomico: l’agenzia per la sicurezza nucleare nipponica ha messo in guardia il governo di Tokyo sui frutti di mari e sui possibili guai, oltre che per le povere ostriche, per l’industria. Nel dubbio la politica sceglie ancora una volta di minimizzare: nessuna limitazione alla vendita di pesce, cosicché undici giorni dopo la tragedia i pescherecci scampati allo tsunami sono tornati in mare. Anche al largo di Fukushima, in acque dove le analisi hanno registrato un alto tasso di radioattività. Il mercato detta legge anche all’ambiente e divora l’intelligenza. I pensieri, come le nuvole, vanno, vengono, a volte si fermano, recitava De Andrè. Al molo di quel porto laggiù nel Mezzogiorno aveva attraccato una barca di ritorno dalla pesca. In una cassetta che un vecchio stava scaricando a terra c’era un brulicare di Aristaeomorpha foliacea, gamberi rosso vivo che certo non arrivavano dal mare di Fukushima. Il gambero rosso di Gallipoli si pesca quaggiù nel sud della Puglia, in un mare certo sofferente, con scogli trapanati per decenni prima del divieto di raccolta dei datteri, in un mare stressato da una pesca eccessiva e impietosa (lo strascico), comunque meno malato di quello all’uranio neanche impoverito come quello caduto sulla testa degli umani e degli animali di Libia. Che fare? La domanda è diversa: come cucinarli? Data la qualità e la freschezza del pe-
I gamberi si digeriscono, e come le nuvole se ne vanno. I pensieri però restano e corrono ai frutti di mare giapponesi inquinati dalla nuvola radioattiva. I pensieri tornano alla stupidità umana, al nucleare e alla pesca di rapina. La mia impressione è che dopo il piatto che vi abbiamo raccontato anche il pensare in modo impegnato può risultare più produttivo, sviluppando la creatività e tenendo sotto controllo il pessimismo cosmico o il leopardiano nihilismo attivo.
Alle pagine 7 e 13 di questo supplemento troviamo due disegni di Abdoulaye Barry; vive e lavora nell'isola di Goreé in Senegal, ha esposto in numerose mostre sull'isola, a Dakar, in Israele, in Spagna e in Francia. Dipinge esclusivamente su vetro con la tecnica tradizionale senegalese del sous-verre (o suwer), costruendo le cornici con materiale di riciclo. Le illustrazioni delle altre pagine sono invece di Sérigne Gueye, figlio di un celebre pittore di sous-verre, Mor Gueye. Ha iniziato fin da bambino a dipingere su vetro sviluppando una sua estetica ben distinta da quella del padre. Ha il suo atelier a Dakar, dove dipinge sous verre che diventano quadri, vassoi, scatole, lampade. I suoi lavori sono venduti ed esposti in Senegal e in Europa. Le illustrazioni sono state gentilmente concesse dalla Libreria Griot a Roma, Via di S.Cecilia 1/A, dove le opere dei due artisti sono in vendita.
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