scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food
Supplemento al numero odierno de il manifesto
Da Milano all'Avana, da Bologna a Beirut, facciamo la spesa con pi첫 consapevolezza. Storie di banchi e di banchetti, di prodotti naturali e di cucine.
Cercando
mercati
GIUGNO 2011
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
4 La vacca di Zipo Le immagini che illustrano queste pagine ci sono state gentilmente concesse dall’autore, Alberto Novelli Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore Norma Rangeri Vice Direttore Angelo Mastrandrea Direttore responsabile Valentino Parlato Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8e tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 9/6/2011
va in città di Valeria Cinisi 5 Lezioni di cucina di Laura Demerciari 6 Linfa dl Libano di Ramy Zurayc 7 Tempo di salicornia di Loris Campetti 10 La spesa del cuoco di Luca Angelini 11 Scandicci, non solo mostri di John Irving 12 Miracolo all’Avana di Silvia Ceriani 13 L’anguria sola di Novella Carpenter 14 Nuovi equilibri di Gianluca Brunori 15 Per mezza tazza di Geraldina Colotti
una chiocciolina giovane, ha appena venticinque anni, e il 18 giugno ha deciso di festeggiare il suo compleanno. I nostri amici di Slow Food con cui cuciniamo questo supplemento trimestrale sono nati nel 1986 e oggi con la loro chiocciolina saranno presenti in trecento piazza d’Italia per incontrare quanta più gente possibile, per farsi conoscere e per coinvolgere nei loro progetti chi ne avrà voglia. Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia, sostiene che il senso più profondo dell’«essere e fare» l’associazione, sta nel «costruire reti di relazioni, dove ogni persona porta con sé un sottile filo che la lega a quelli che incontra e con cui stabilisce un contatto». Confermiamo tutto, perché così è nata anche la «rete» fra il manifesto e Slow Food, oltre che davanti a un buon bicchiere di rosso bevuto in compagnia di un altro nostro amico caro come il fondatore Carlo Petrini. «Tutti questi fili – seguiamo ancora Roberto – compongono una fitta trama e quando siamo capaci di vedere il disegno che ne è venuto fuori, in qualche misura leggiamo un pezzo di ciò FRANCESCO PATERNÒ che è la nostra vita, di quanto abbiamo saputo costruire. Il fatto, poi, che tutto questo avvenga in funzione del cibo, lo rende ancora più gustoso, curioso, divertente». La ricetta vale ovviamente anche per queste pagine che vi accingete a leggere. Trecento piazze sono un breve o lungo viaggio nei mercati cittadini, che già di per sé sono un’attrazione fatale per piacere e colori. Se poi si tratta dei Mercati della Terra organizzati da Slow Food, come quelli di Milano o di Bologna, il menù si fa piccante. Se non altro perché fare qui la spesa è piacevole e perché il tempo dedicato diventa un intrigante momento di condivisione. Provare per credere: si chiedono informazioni ai produttori e parte uno scambio sui prodotti e su come cucinarli. Per non sbagliarci, abbiamo poi tirato dentro un’intervista a un giovane chef e abbiamo sguinzagliato a Cagliari uno dei nostri alla ricerca dell’asparagio di mare, altrimenti noto come la salicornia, da comprare nei più raffinati mercati di pesce. Siamo alla frutta, allora chiudiamo con un po’ di libri sul mangiar sano che ci riportano al tema centrale: scegliere implica sempre nuova consapevolezza nel fare la spesa. Non solo al mercato.
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18 giugno festa nazionale
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La vacca di Zip etti un sabato, a Milano. Più precisamente ogni terzo sabato del mese, agosto eslcuso. Dalla stazione Centrale raggiungo il parco Vittorio Formentano, anche noto come Largo Marinai d’Italia. Con i suoi 72 000 metri quadri di prato e alberi è un importante polmone verde per la città, mentre la sua storia racconta di fortini austriaci – Radetzky aveva accampato qui il proprio esercito durante le Cinque giornate – e del verziere, il mercato ortofrutticolo che fu trasferito in largo Marinai nel 1911 per restarvi fino agli anni Sessanta. Qualcosa di questa storica destinazione commerciale possiamo ritrovarlo anche oggi. Infatti basta percorrere pochi metri di viale per avvistare i primi gazebi del Mercato della Terra, scorgere file ordinate di gente, sentire un chiacchiericcio confuso e indistinto, intervallato da note di banda. Inaugurato a dicembre 2009 come parte della rete internazionale dei mercati contadini di Slow Food e come progetto pilota del programma “Nutrire Milano, energie per il cambiamento” (www.nutriremilano.it), il mercato si propone come luogo d’incontro privilegiato tra città e campagna, di rinsaldare i legami tra centro costruito e aree agricole, di ricostruire un tessuto di relazioni tra urbe e contado. Non è un’utopia. Oltre Milano, si aprono infatti importanti aree agricole, precisamente nel Parco Agricolo Sud (www.provincia.mi.it/parcosud) e nelle zone di Lodi, Bergamo, Monza e Brianza, Lecco, Como, Varese e Pavia. Il tutto entro un raggio di 40 chilometri, la distanza massima delle aziende ospitate al mercato. Nel mio “tour” approfitto per fare quel che qui sembrano fare tutti: parlare coi produttori, cercando di capire qualcosa di più sul loro lavoro e la filosofia che lo ispira. Nel Parco Agricolo Sud si trovano le aziende di Elisa Pozzi e Alberto Gilardi, entrambi giovani, motivati e appassionati. Elisa ha 24 anni, la testa piena di buone idee, le mancano sei esami alla laurea in agraria ed è felice di fare quello che fa. «Zipo, la nostra azienda, si trova a Zibido San Giacomo, una campagna prossima alla città. Abbiamo 120 vacche di razza frisona, ma al momento la maggior parte del latte lo conferiamo. La mia speranza è che col tempo la percentuale di prodotto conferito sia sempre più limitata e che riusciamo a venderlo o caseificarlo direttamente in azienda. Della caseificazione mi occupo io, utilizzando latte crudo e caglio vegetale». Come molte altre realtà della zona, le attività di Zipo non si limitano all’allevamento e alla produzione di formaggio, comprendendo anche la produzione di riso e foraggio: molti dei produttori incontrati parlano, infatti, di diversificazione delle attività. Un banco affollatissimo è quello di Alberto Gilardi – anche lui giovane, neolaureato in veterinaria, allevamento e benessere animale –, dell’azienda Cascina Cassinetta dei Ronchi di Gudo Visconti. Ogni volta che provo a parlargli arriva gente per acquistare i suoi salumi, per chiedere se si può assaggiare, per informarsi. Armata di santa pazienza, attendo in coda, mentre vedo assottigliarsi le file di salamelle, cacciatorini e alpini fino a esaurimento scorte. «Che il prodotto esaurisca non è così insolito, ma davvero non riusciamo a portarne di più… Come attività principale coltiviamo il riso, ma negli ultimi anni abbiamo iniziato a diversificare l’attività, riattando le vecchie strutture per l’allevamento. Abbia-
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di Valeria Cinisi
Il Mercato della Terra di Milano, vicino a Largo Marinai, tra gusto, vocazioni e produzioni naturali
mo realizzato una porcilaia con macello per i suini e il laboratorio per la lavorazione. Qui al mercato portiamo solo i salumi, perché quel che ci caratterizza maggiormente è la filiera della carne. Il bello di questo mercato è il pubblico che si informa e partecipa. Dopo essere stati qui, molti vengono a trovarci in cascina, dove la prima cosa che chiedono è dove sono gli animali, come sono allevati, nella consapevolezza che i veri produttori sono quelli che hanno il controllo di tutta la filiera». Ma, oltre a quella del Parco Agricolo Sud, il Mercato della Terra di Milano ha anche altre anime. A spiegarmelo è Davide Longoni, panificatore di Carate Brianza. «La Brianza ha una vocazione più di trasformazione, perché di campagna ne è rimasta pochissima. Siamo l’anima settentrionale del mercato». Al pane Davide è arrivato dopo altre esperienze, riprendendo in mano l’attività paterna e introducendovi sostanziali modifiche. Il suo pane è semplice e complesso al tempo stesso: è fatto di sola farina, acqua e lievito madre e acquista complessità di profumo e sapore con l’andar del tempo, con l’evoluzione dei lieviti. Nonostante l’eccezionalità del prodotto, Davide riesce a proporlo a un prezzo popolare. «Il pane è il cibo quotidiano per eccellenza e un prodotto come il nostro, fatto con la pasta madre e grani poco raffinati, correrebbe il rischio di diventare un pane da gourmet, vendu-
to a una media di 7-8 euro al chilo. Noi lo mettiamo a 5 euro, il prezzo giusto per chi lo acquista e remunerativo per me». E, proprio come il lievito su una massa, i progetti futuri di Davide crescono lentamente: «Nell’ambito del progetto Nutrire Milano stiamo lavorando anche per un mulino nel Milanese e per ricostruire una filiera corta del pane. Quest’anno abbiamo seminato varietà di grano e aspettiamo il raccolto per capire quali risultati possono dare. Questi test sono necessari perché l’agricoltura del Parco Agricolo Sud era rivolta alla zootecnia e in minima parte all’alimentazione umana, e quindi bisogna acquisire nuove competenze». Un altro produttore dalle visioni lungimiranti è Fausto Andi, sguardo acuto e una logicità di idee sorprendente, che conduce un’azienda vitivinicola a Montù Beccaria (Pv). «Facciamo il vino e, benché siamo interpretati come un’azienda anomala e fuori dagli schemi, tutto quel che facciamo ha un senso e segue la logica della natura, che è uno degli elementi fondamentali della produzione agricola. Abbiamo solo vitigni autoctoni e i miei prodotti sono solo biodinamici, in un utilizzo molto innovativo di questo concetto agronomico: per me, non ci sono dettami da applicare sempre e ovunque né si può imporre un pacchetto di regole alla natura, che va interpretata seguendo delle logiche, molto elastiche ma al tempo stesso molto rigide. Per realizzare
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città
una produzione davvero naturale è innanzitutto necessario seguire la vocazionalità della terra e produrre quel che è tipico di un determinato territorio». L’attenzione ambientale viaggia di pari passo con l’attenzione sociale: infatti, oltreché per la scelta del biodinamico, l’azienda si caratterizza per l’inserimento nel mondo del lavoro di ragazzi che hanno bisogno di un ambiente familiare e accogliente. Vorrei ascoltarli ancora, saperne ancora di più, ma siamo in chiusura e il mio treno parte fra poco. Scappo, il taccuino pieno di appunti e molti minuti di registrato da sbobinare. Dimenticavo: la sporta piena di spesa, ché un mercato serve anche a questo.
l Mercato della Terra di Bologna si svolge in un luogo speciale, il cortile del Cinema Lumière, nello spazio dell’ex macello, in cui sono ora ubicate alcune sedi della Cineteca di Bologna e del dipartimento di Musica e spettacolo. Si trova a Porta Lame, nel distretto culturale della Manifattura delle arti. Questa zona, per lungo tempo area problematica, vede dal 2000, anno in cui fu avviata la sua ristrutturazione, una volontà politica di forte rivitalizzazione sociale e culturale. Sempre qui, infatti, ha sede anche il MAMbo, la galleria di arte moderna della città, trasferitosi da pochi anni nell’edificio dell’ex forno del pane. Nell’ ex manifattura tabacchi c’è un’altra sede della Cineteca e a poca distanza, nell’ex salara, il Cassero (storica associazione gay di avanguardia). Nella stessa area hanno anche sede la facoltà di Scienze della comunicazione, numerose associazioni, gallerie d’arte… La presenza di tutte queste attività in una stessa area della città rafforza l’idea di nuovo centro di produzione, ricerca e innovazione culturale. L’esperienza del Mercato della Terra di Bologna è iniziata nel novembre del 2008; due date in quell’anno e poi una cadenza mensile o bimestrale hanno introdotto i prodotti del territorio nelle abitudini dei bolognesi. La svolta è stata nel settembre del 2009, quando l’appuntamento è diventato settimanale, tutti i sabati dalle 9 alle 14. Da quel momento sono aumentate le persone che vengono a comprare, i produttori e i prodotti. Il mercato si è trasformato da evento occasionale a punto di riferimento per la spesa settimanale delle famiglie. La sua forza risiede nelle collaborazioni. È nato con l’appoggio della provincia di Bologna e di una fondazione bancaria per poi evolvere in entità autonoma. Dall’inizio dell’anno è gestito dai produttori stessi, che hanno acquistato nuovi tendoni, compreso uno più grande destinato agli incontri, concepiti per raccontare ai consumatori consapevoli, i co-produttori, il significato del lavoro a contatto con la terra. Fra i primi eventi, le lezioni di cucina in cui si fa la spesa nel mercato e si rielaborano insieme i prodotti, aiutati da cuochi e rezdore; poi i la-
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Lezione di cucina di Laura Demerciari
Al mercato della Terra di Bologna si insegna, anche. Una quarantina i produttori, presenti a rotazione secondo stagionalità
boratori per i bambini, per insegnargli la stagionalità dei prodotti e per stimolarli a osservare le cose da una prospettiva inattesa. I produttori sono in tutto una quarantina ma ogni sabato al mercato ce ne sono poco più della metà, in una rotazione naturale determinata dalla stagionalità. Ai produttori piace far parte del Mercato della Terra per molte ragioni. La prima è la più banale: viene molta gente e quindi si vende bene. Ma, a parità di condizioni commerciali, è la tipologia delle persone che fa la differenza. Chi viene a fare la spesa qui è davvero un co-produttore. Qui le persone interagiscono, parlano, si raccontano e hanno voglia di sapere, di conoscere i prodotti e il lavoro che ci sta dietro. I banchi dell’ortofrutta sono sempre i più affollati, si fa la coda, perciò i produttori sono sempre un po’ tesi, anche se il tempo per qualche consiglio lo trovano sempre, specialmente per le verdure a cui non siamo più abituati, come le erbe spontanee e le varietà territoriali che per la maggior parte di noi sono un’incognita. Ma verso la chiusura, mentre i produttori radunano le
poche verdure rimaste per gli immancabili ritardatari, di tempo ce n’è di più per raccontare la giornata al mercato, i lavori da fare nel pomeriggio, commentare il troppo freddo o il bel sole. Il pane finisce a mezzogiorno o anche prima. Se si arriva in tempo si possono acquistare pani di pasta madre montanari o di grani antichi, biscotti di farro o di farina di castagne, ciambelle e crostate; inoltre, ci si può far raccontare la filiera del pane, del recupero di varietà come il gentil rosso o dei lavori di ristrutturazione di un vecchio mulino in pietra alimentato ad acqua. Per i casari il copione si ripete, indipendentemente dall’orario. La ricotta finisce subito, da tutti. Quella di latte vaccino del Presidio della vacca bianca modenese (famoso per il Parmigiano Reggiano) è molto dolce e potrebbe quasi essere scambiata per panna, mentre quella di pecora ha una consistenza leggera e spumosa, ha un buon sapore di latte e si accompagna con tutto. I birrai, tutti produttori artigianali e microbirrifici, partecipano a rotazione. Hanno storie molto diverse, dai giovani che hanno intrapreso una nuova attività ai produttori stranieri che hanno importato le loro conoscenze brassicole da Oltremanica. Producono in collina o in pianura, ma la qualità è sempre alta, tant’è che spesso riescono a esportare i loro prodotti al di fuori del territorio d’origine. Ospite fisso è una azienda vinicola delle colline vicine, che produce vino di qualità in un territorio non proprio rinomato per i suoi vitigni. Eppure, il giovane proprietario ha deciso di scommettere sulla riconversione dei terreni alla biodinamica, e ha vinto. Da diversi mesi propone anche il vino sfuso, ma al mercato c’è an-
Mercati della Terra non sono solo luoghi dove un cibo si compra e si vende; sono una rete internazionale di mercati, di produttori e di contadini, coerente con la filosofia Slow Food. Un Mercato della Terra nasce quando una comunità consapevole – produttori, enti pubblici, cittadini, condotte Slow Food e altri soggetti interessati come i ristoratori – crea un nuovo spazio di incontro fra consumatori e produttori. Un comitato di gestione, nel quale tutti questi soggetti sono rappresentati, è responsabile della selezione dei produttori, della promozione del mercato, del rispetto delle sue regole. Il comitato gestisce anche il funzionamento del mercato con un occhio di riguardo per l’ambiente: impegnandosi a produrre meno rifiuti possibili, a smaltirli in modo corretto, con attenzione al risparmio energetico e utilizzo di materiali di consumo il più possibile biodegradabili. I Mercati della Terra sono riservati solo a produttori locali selezionati. In particolare i piccoli agricoltori e i produttori artigianali, quelli che fanno più fatica a confrontarsi con il circuito della grande distribuzione, ma la cui dimensione aziendale permette spesso di presentare prodotti di qualità. Chi è ammesso nei Mercati della Terra vede riconosciuta la possibilità di una retribuzione corretta del proprio lavoro. Il presupposto principale è che essi presentino solo i loro prodotti, frutto del loro impegno e della loro esperienza. Con la presenza diretta possono creare un legame con i consumatori, raccontando i prodotti dei quali si assumono la responsabilità, il lavoro che ne è alla base, cosa definisce la loro qualità, cosa giustifica il prezzo praticato. Per saperne di più e per conoscere la rete dei Mercati della Terra: www.mercatidellaterra.it
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Locali e selezionati
che la mescita al bicchiere, da degustare in abbinamento agli altri prodotti in vendita. E poi il pesce. Il primo proposto sul mercato è stato il Presidio del salmerino del Corno alle Scale, un salmonide importato dall’America a fine Ottocento, con carni bianche e compatte dal sapore fine e delicato che amano ricette poco elaborate. Da qualche mese, però, l’offerta si è arricchita di altri pesci, portati da una famiglia di pescatori di Cattolica. E anche se rispetto ad altri prodotti presenti al mercato questi ultimi devono fare più strada, la possibilità di avere del buon pesce di Riviera pescato nel rispetto del mare è molto apprezzata. Come gli altri produttori, anche i pescatori sono sempre pronti a illustrare il loro lavoro e le modalità di pesca e, oltre a vendere quello che hanno potuto pescare, non mancano di proporre preparazioni gustosissime. Al mercato ci sono moltissime altre opportunità di acquisto e di conoscenza: il miele, le castagne, farine e cereali, le ciliegie nelle svariate qualità, gli asparagi, la lavanda, il latte, i salumi, la carne e i fiori… Il motivo, il più importante, per cui le persone ci vengono, è che fare la spesa qui è un piacere, perché il tempo dedicato alla spesa diventa un interessante momento di condivisione. Si chiedono informazioni ai produttori e inizia uno scambio proficuo sui prodotti e su come cucinarli. Il piacere è quello di stare in un posto accogliente, divertente, vario; d’incontrare persone, conoscerle; di sedersi per fare colazione, di prendere un aperitivo o di pranzare insieme. Ogni sabato persone di tutte le età si incontrano e condividono un luogo, il mercato, che è così occasione di sana mondanità e rivendicazione del diritto al piacere.
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el corso dell’ultimo decennio si è assistito a una crescita esponenziale dei farmers’ markets nel mondo. Solamente negli Stati Uniti il loro numero è passato da 1.755 nel 1994 a 3.700 nel 2004, servendo più di tre milioni di consumatori. Sono stati accolti e acclamati come componenti essenziali dei sistemi alimentari locali. I mercati contadini costituiscono un’alternativa ai supermercati e alle grandi aziende alimentari, pilastri su cui si fonda il sistema alimentare globalizzato dominante. Essi sono un’opportunità per i piccoli agricoltori intraprendenti che cercano di ricreare filiere più corte (incrementando così il proprio margine di profitto) attraverso la vendita diretta di prodotti di alta qualità. Si stima che la vendita diretta consenta al produttore di ricevere l’80-90% dell’incasso della vendita degli alimenti contro il solito 8-10% guadagnato attraverso i canali di mercato convenzionali. I mercati contadini si collocano alla convergenza tra svariate discipline: impegno sociale, sanità pubblica, ambiente, agricoltura sostenibile, trasporti, conservazione del patrimonio storico ed economia locale. Sono un grande beneficio per le comunità, fornendo opportunità economiche e rendite sostenibili, promuovendo una sana alimentazione e la salute pubblica, creando spazi sociali attivi, plasmando la crescita e ravvivando il centro delle città e i quartieri. Danno vita a contatti tra produttori e consumatori che trascendono le semplici operazioni commerciali. Il Libano è principalmente noto per il protrarsi dei conflitti che affliggono questa terra dal 1975. Pochi sanno che tra gli altri problemi del Libano si annoverano un sistema politico basato sul settarismo religioso e un regime economico ancorato nel fondamentalismo di mercato. Dal settarismo sono risultate divisioni e diffidenza tra gli appartenenti ai diversi culti, mentre l’ultra-liberalismo ha contribuito all’incremento della povertà e al collasso dei sistemi locali di produzione alimentare. Molto prima degli attuali sistemi economici agricoli, i mercati dei contadini erano la base dei sistemi comunitari di distribuzione alimentare in Libano. Tuttora si tengono mercati locali, i souk, nella maggior parte delle cittadine rurali. Si tratta di mercati settimanali con cadenza regolare, in cui viene offerta l’opportunità di acquisto di prodotti da venditori itineranti. Il più popolare souk nel sud del Libano è Nabatiyyeh, che si tiene tradizionalmente ogni lunedì. Testimonianze storiche raccontano di come Nabatiyyeh attraesse persone dai quattro angoli della regione. Nel 1860 il cronista Chaker el Khoury descrive il mercato come un luogo d’incontro tra appartenenti alle diverse fedi religiose: cristiani, musulmani, drusi ed ebrei. Oggi il souk di Nabatiyyeh è ancora vibrante ma, come pure in altri mercati del Libano, molti dei prodotti in vendita sono importati da paesi lontani come la Cina. Per di più, l’incontro di diversità che lo caratterizzava è stato decisamente smorzato dalla guerra, dalla polarizzazione e dalle divisioni nella società libanese. Il progetto denominato “Sostegno ai mercati agricoli locali come mezzo per la promozione dello sviluppo della produzione agricola in Libano” è stato avviato in un territorio con un retaggio di conflitti, lotte interne e forti disuguaglianze sociali e ha ottenuto il sostegno dal Programma ROSS, un’iniziativa del ministero italiano degli affari esteri per l’aiuto alla ricostruzione del Libano in seguito ai bombardamenti israeliani del luglio 2006. Questo progetto è inoltre implementato dall’Ong italiana Ucodep, in collaborazione con Slow Food Beirut e la Fondazione Slow Food per la Biodiversità. L’obiettivo principale del progetto è di aiutare i piccoli agricoltori libanesi ad avere accesso ai mercati locali, aprendo dei mercati settimanali per la vendita diretta da parte dei contadini. Questi mercati hanno luogo nelle città costiere di Tripoli e Beirut. Sono denominati souk el ard (mercati della terra) e fanno parte del network internazionale dei mercati contadini promosso da Slow Food. Questi mercati condividono l’impegno di Slow Food per la ricerca di prodotti
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Linfa del
Libano
di Rami Zurayk
In un paese quasi in guerra permanente dal 1975, la realtà del souk che aiuta i piccoli produttori a raggiungere i mercati locali
buoni, puliti e giusti e per il ritorno dei sistemi alimentari locali. Il mercato di Tripoli, il primo dei mercati pianificati è stato inaugurato quasi quattro anni fa, il 6 dicembre 2007. È situato in una delle parti più belle della città e si tiene ogni giovedì in un giardino pubblico messo a disposizione dal comune, situato accanto la spianata che confina con il porto per la pesca. Ci sono una ventina di bancarelle e sono tutte utilizzate da piccoli produttori. Vi si trovano coltivatori di ortaggi biologici, produttori di mouneh, i trasformati tipici della gastronomia libanese e alcuni bancarelle di artigiani che presentano prodotti non alimentari ma connessi con il mondo del cibo. Lo spazio del cibo di strada è riservato alle donne che preparano i fatayer, fagottini ripieni e profumati con erbe e spezie. Il Mercato della Terra di Beirut, invece, ha luogo ogni martedì dalle 9 alle 14 nel centralissimo quartiere di Hamra, rinomato per i suoi negozi e per i suoi caffè. Quindici piccoli produttori libanesi vendono i loro prodotti: dalla frutta e verdura fresca al mouneh, dal manhoushe (focaccia tradizionale servita col timo) all’olio d’oliva e ai saponi naturali prodotti artigianalmente. La ricerca sull’efficienza economica dei farmers’ markets è ancora rara. Molti analisti credono che il loro impatto sia limitato, per via della loro natura locale. Questa visione è condivisa in particolar modo dai forti sostenitori dell’economia capitalistica globale che esortano la produzione orientata all’esportazione e impiegano il parametro del costo più basso per misurare l’efficienza di mercato. Ma questo approccio ignora l’“impatto ecologico” della produzione
alimentare, ossia i costi dal punto di vista ambientale di produzione e trasporto e la perdita di qualità degli alimenti dovuta al commercio su lunghe distanze, così come lo spreco delle derrate associato al commercio all’ingrosso. Questo approccio ignora pure i costi sociali della coltivazione su larga scala, solitamente legati alla perdita di sostentamento per i piccoli produttori a causa della consolidazione dell’impresa agricola necessaria a sostenere un sistema commerciale esteso. I mercati contadini, aiutando i piccoli agricoltori e i produttori biologici a restare sul mercato, contribuiscono direttamente alla conservazione degli spazi aperti e al mantenimento del paesaggio agricolo. E questa, al giorno d’oggi, è una necessità fondamentale in Libano così come in ogni altro paese. Infine, i Mercati della Terra offrono ulteriori benefici nel caso specifico del Libano. Essi fungono da luogo d’incontro per persone di diversi ambiti, produttori e consumatori, che altrimenti non si sarebbero mai incontrati e non avrebbero avuto occasione di interagire. In Libano i conflitti interni si fomentano costantemente e l’esistenza di un ambiente “neutrale” dove le persone di credo diverso e provenienti da tutte le regioni possono incontrarsi liberamente è una necessità fondamentale per la sopravvivenza della società. Il fatto di unire in uno stesso luogo libanesi e stranieri appartenenti a tutte le classi sociali e provenienti dai quattro angoli del paese è un inestimabile servizio alla società. Presso i Mercati della Terra si possono trovare prodotti buoni, puliti, giusti. Prodotti di pace: questo potrebbe essere il loro contributo più prezioso.
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on c’è stagione migliore di questa per chiudere casa e imbarcarsi per Cagliari. Troverete gente festante e, se non perdete troppo tempo, vi imbatterete in centinaia di magliette rosse esibite con orgoglio da tutti quei ragazzi e quelle ragazze che hanno portato la primavera nel capoluogo della Sardegna. La primavera politica, naturalmente, quella atmosferica può farsi attendere o arrivare in anticipo ma ci si è sempre potuto contare, persino nella stagione del dominio sabaudo e nei decenni di malgoverno prima democristiano e poi berlusconiano. Che a Cagliari stesse per compiersi il miracolo si è capito prima del voto, quando quattromila coppie di fenicotteri rosa provenienti dalla Camargue, dalla Spagna e dalla Tunisia sono approdati nello stagno di Molentargius, non per la solita villeggiatura ma addirittura per nidificare. Il trentacinquenne neoeletto sindaco, Massimo Zedda, guardando lo stagno rosa la butta in poesia, o forse tenta un tuffo nel mondo passato degli aruspici, gli indovini che leggevano il futuro nel volo degli uccelli, ma anche negli intestini dei pennuti come di qualsiasi altro animale. Ora che il cielo di Cagliari è rosa sarà meglio che vi interessiate del volo dei fenicotteri, lasciando stare le loro viscere. Perché dovete sapere che nei tempi passati (da poco, e per carità di patria non rileveremo le fonti) questi volatili correvano molti rischi, oltre che dall’inquinamento o dal prosciugamento delle saline e degli stagni dove trovano il loro alimento in minuscoli crostacei, dovevano guardarsi dalla rapacità degli umani, soggetti senza scrupoli che catturavano (non vi diremo come) quegli eleganti portatori di primavera e felicità e se li mangiavano. Ma sotto le piume rosa hanno uno strato protettivo di grasso anch’esso rosa, dicono assai sgradevole al gusto. Tolto quello, il crimine della cottura (non vi diremo come) aveva inizio con tutto quel che sciaguratamente ne consegue. Per evitare immorali curiosità, nel corso di questo viaggio cagliaritano vi offriremo validissime alternative, ai più ignote. La giunta di destra, prima di essere rimandata a casa dai cagliaritani con il biglietto di sola andata, ha lasciato il segno facendo scempio di alberi esotici che soltanto in questa città si possono ammirare in quantità: si chiama Jacaranda mimosifolia, appartiene alla famiglia delle bignoniaceae originiarie delle regioni tropicali e subtropicali. Fa dei bellissimi fiori blu a grappolo che l’amministrazione precedente ha fatto potare a manetta prima della fioritura, cosicché ora largo Carlo Felice non offre più riparo dal sole, né colori. Dicono che il crimine fosse giustificato dal fatto che quei fiori azzurri, cadendo, sporcano l’asfalto e per di più sugli alberi salgono i topi. La prima motivazione chiama urgenti interventi psichiatrici, la seconda chiama le forze dell’ordine preposte all’arresto di chi pratica politiche criminali: invece di affrontare e debellare i topi tagliano le jacarande. Per fortuna ci sono ancora viali cagliaritani azzurreggianti e siamo certi che la nuova giunta si guarderà bene dal proseguire sulla stessa strada asfaltata. Ma a voi lettori di «Scritto&mangiato» di tutto questo forse interesserà ben poco, abituati come siete a mettere le gambe sotto un tavolo, anzi una tavola imbandita. Allora vi portiamo per mano al mercato del pesce di Cagliari, una visita che merita da sola il viaggio nel mar di Sardegna. Oltre al pesce bianco e azzurro d’ogni specie, ai crostacei come aragoste, astici, granchi, gamberi, scampi, ai molluschi e ai frutti di mare vi capiterà di imbattervi in almeno un banco allestito con gli asparagi di mare. Noi qui ci siamo fermati e interrogati, poi abbiamo chiesto lumi al venditore e conferme al nostro Caron dimonio che ci accompagnava nel viaggio ittico. Insomma, ci siamo documentati, abbiamo sperimentato e adesso siamo pronti a introdurvi nel mondo segreto dell’asparagio di mare. L’abbiamo scelto tra mille tentazioni per mantere il filo di ragionamento avviato nell’ultimo numero di «Scritto&mangiato» in cui troneggiava un risotto con gamberoni, asparagi selvatici e zafferano. Dunque, l’asparagio di mare o sali-
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cornia. E’ suggestiva ma falsa la traduzione in presunto sardo «sa leccornia», si chiama invece così per i molti sali minerali di cui è ricca, dal bromo allo iodio, per non parlare della vitamina C. E’ raccomandata agli ipertiroidei e il loro uso medicinale pare fosse noto ai vichinghi. Ha anche capacità depurative. L’asparagio di mare non è un’alga, in realtà non è di mare ma di terra e cresce sulle spiagge, nelle paludi e negli stagni costieri. E’ verde e più che a un asparago, per forma, lunghezza e colore assomiglia a un fagiolino, ha un gusto saporito (ricordate perciò di non salarlo in cottura) e si accompagna a piatti di pesce. E’ conosciuto e usato in cucina in Bretagna per accompagna-
gliato nel senso della lunghezza gli asparagi (crudi o appena sbollentati e ben asciugati). Infine aggiungete la salicornia alla pastella, mescolate bene l’insieme e procedete alla frittura mettendo l’impasto nell’olio bollente a cucchiaiate. Va da sé che le polpettine vegetali fritte devono essere ben asciuhate in carta adeguata, salate e servite, costringendo gli ospiti ignari a indovinare cosa stiano mangiando. Per non essere generici, precisiamo le dosi: per 100 grammi di asparagi sono necessari 20-30 grammi di lievito secco, 3-400 grammi di farina e altrettanti di acqua tiepida. Invece dell’acqua e del lievito chi scrive preferisce mescolare insieme alla farina della birra e, volendo, un uovo ben montato. Dobbiamo
Tempo di
salicornia re il plateau royal di frutti di mare e crostacei, in Spagna, in Nordafrica ma anche in Gran Bretagna. In Italia la salicornia cresce, oltre che in Sardegna e in alcune coste meridionali, sicuramente in Emilia e in Veneto ma il suo uso alimentare è pressoché sconosciuto da noi. E’ inutile dire che i giapponesi se ne nutrono da sempre. Innanzitutto bisogna eliminare il tronco centrale della piantina e prendere solo i germogli laterali. Il modo più semplice per cucinarli è bolliti in insalata (3-4 minuti, oppure 5-6 se cotti al vapore), quindi aggiungere succo di limone e ottimo olio extravergine d’oliva. Disporli al centro di un grande piatto ovale in cui sono stati accomodati frutti di mare crudi. Facile no? Facciamo un passo avanti nelle difficoltà, livello 2: frittelle con asparagi di mare. Serve qualche grammo di lievito che va posto in un piatto fondo o meglio una terrina insieme alla farina e a qualche cucchiaio di acqua tiepida, mescolate con impegno e aggiungete ancora dell’acqua tiepida. Lasciare riposare questa pastella dopo aver coperto il piatto per un’oretta. Intanto avrete pulito e ta-
anche dirvi che per friggere serve l’olio? Il livello di difficoltà 3 prevede l’utilizzo della salicornia nel condimento di primi piatti rigidamente a base di pesce. Qualche esempio? Linguine con gamberi, zucchine e asparagi di mare, in questo caso messi crudi in padella e saltati insieme agli altri ingredienti su olio, aglio e peperoncino. Se al mercato di qualche città di mare ne avrete trovati a sufficienza potrete anche fare a meno delle zucchine. Noi partiamo dal principio che è il pescato a imporre le ricette. Mettiamo di trovare una cernia, ed ecco che il condimento della pasta, in questo caso corta, sarà a base di cernia e salicornia con l’avvertenza di aggiungere a fine cottura un pizzico di zafferano sciolto in un dito d’acqua tiepida. Se poi avete a disposizione della bottarga di mugine degli stagni di Cabras – se ne siete sprovvisti va bene anche quella più commerciale della laguna di Orbetello – dimenticatevi dello zafferano e spolverate invece la vostra possente pasta con la suddetta bottarga. Evitate di aggiungere i fiori di Jacaranda.
di Loris Campetti
Viaggiando a Cagliari, ci si imbatte nell’asparagio di mare. Che non è un’alga, non è di mare ma di terra e cresce sulle spiagge, nelle paludi e negli stagni costieri
Coop lancia il progetto Boschi e Foreste: una serie di iniziative concrete per contrastare la deforestazione e favorire l’aumento di produzioni ecosostenibili entro il 2015.
NELLA PARTITA CONTRO LA DEFORESTAZIONE FACCIAMO IL TIFO PER GLI ALBERI.
Abbiamo cercato di limitare al massimo l’utilizzo di carta per questa nostra iniziativa; ti invitiamo quindi a consultare e scaricare direttamente il folder e il dossier scientifico dal nostro sito www.coopambiente.it
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e il cameriere che vi serve si presentasse al tavolo con un cappuccio in testa, vi fidereste di quel che c’è nel piatto? Per me è lo stesso con i produttori, i contadini da cui faccio la spesa: prima di comprare qualcosa, voglio vederli in faccia, farci quattro chiacchiere, per capire se stiamo parlando la stessa lingua. Sono fatto così, mi fido più delle persone che dei marchi». Pier Giorgio Parini, chef dell’Osteria del Povero Diavolo di Torriana (Rimini), ha solo trentatré anni ma le idee molto chiare. E te le spiattella davanti con la schiettezza della sua terra, la Romagna (è di San Mauro Pascoli). L’anagrafe sembra bugiarda anche a sentire tutte le esperienze che ha già messo in saccoccia. Figlio di agricoltori («mio padre è il mio primo fornitore di verdura»), ha scelto la scuola alberghiera, a Riccione, un po’ per caso, o per prova. «A quindici anni, nessuno sa davvero quel che vuole fare da grande» confessa Pier Giorgio, che ancora ricorda il trauma delle prime stagioni, d’estate, nei ristoranti della riviera. «Lo shock più grande, soprattutto per un ragazzino, sono gli orari e i ritmi di lavoro di una cucina. Per fortuna i miei mi hanno sostenuto molto. E ho avuto anche una fortuna: il primo albergo in cui ho lavorato, l’Hotel Danubio di San Mauro Mare, era un po’ come una cucina di famiglia, con la nonna che prepara da mangiare per tutti. Le ricette erano quasi le stesse di mia madre, solo che, anziché per tre o quattro persone, c’era da cucinare per quaranta o cinquanta». Il primo salto di qualità Pier Giorgio lo ha fatto finita la scuola, quando è andato a lavorare in un ristorante che ora non c’è più, il Cielo Rosso di Rimini. «Lì ho incontrato il mio primo maestro, Fabio Rossi. Sono rimasto da lui quattro anni e mi ha davvero aperto gli occhi, facendomi vedere un mondo che non conoscevo e aiutandomi a capire cosa davvero vuol dire essere uno chef». Quel che non ha imparato lì, gliel’ha insegnato il suo secondo maestro: il “tri-stellato” Massimiliano Alajmo delle Calandre di Rubano (Padova), dal quale è rimasto due anni, prima di approdare, quattro anni e mezzo fa, al Povero Diavolo di Fausto Fratti e Stefania Arlotti. «La cosa più importante che ho imparato da Massimiliano è non accontentarsi mai, avere sempre la curiosità di cercare qualcosa di nuovo: un ingrediente, una cottura, un abbinamento. Non è che quando sei arrivato a dieci piatti buoni ti devi fermare. Devi continuare a provare, anche a rischio di sbagliare». Alla fine, a Pier Giorgio è venuta la voglia di provare da solo. Perché, come dice lui, che a volte parla come i proverbi di campagna, «se non cominci a camminare da solo, magari inciampando, non imparerai mai a correre». A vederlo ai fornelli, si direbbe che a correre abbia imparato da un pezzo: grande attenzione alle tecniche di cottura («il mio riso in bianco si cuoce come un risotto, ma l’acqua aromatizzata al cipresso non deve mai bollire, sennò perde il suo gusto»); voglia di giocare alla sorpresa («i piatti mi piace svelarli dopo che sono stati mangiati, non sulla carta del menù»); azzardi deliziosi (il dolce? Un tortino di cioccolato con frattaglie di piccione e Barolo chinato). L’unico inciampo arriva alla più classica delle domande: come definiresti la tua cucina? «Me lo chiedono sempre e non so mai cosa rispondere. Posso solo dire che è una cucina molto personale, perché uso me stesso come filtro. E che è legata alla mia regione e al mio territorio». Talmente legata che, durante l’ultima edizione del Salone del Gusto, ha deciso di servire al pubblico il suo “riso in bianco”, profumato con le foglie di cipresso che abbondano attorno al Povero Diavolo. I rami glieli ha raccolti “la Sonia”, una delle sue fornitrici preferite: «Vive sola coi suoi cani e ha un orto e un frutteto biologici meravigliosi». Si capisce che ci gode, Pier Giorgio, a parlare dei “suoi” produttori. «Per fortuna» spiega «il Povero Diavolo, domeniche a parte, è aperto solo di sera. Così ho il tempo di andare tutte le
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La spesa del cuoco di Luca Angelini
Parla lo chef Pier Giorgio Parini. Il suo andare quotidiano al mercato, di cui conosce tutto e tutti
mattine a fare la spesa e a cercarmi i fornitori. Ho un contatto diretto con tutto quello che entra nella mia cucina: so da dove viene, chi l’ha coltivato, pescato o allevato e in che modo. Lo so che, nel mercato della ristorazione, ci sono anche prodotti buonissimi, di gran marca. Ma ve l’ho detto, io mi fido più delle persone che dei marchi». Uno come Pier Giorgio, Carlo Petrini lo arruolerebbe subito tra i “co-produttori” da prendere ad esempio. Perché, con la sua voglia di vedere in faccia chi coltiva e alleva, finisce anche per migliorare quel che viene allevato e coltivato. Un esempio? «Ho conosciuto una ragazza che vende pesche. Ne aveva una pianta di una qualità buonissima. Ma le avevano sempre detto di raccoglierle qualche giorno prima che fossero mature, perché così duravano di più. Io le ho detto: le cinquanta pesche che produce quella pianta te le compro tutte io, ma le tiri giù belle mature. Così ha fatto. Dovreste assaggiarle, sono squisite. E quelle che cadono a terra sono le più buone di tutte». Già, però i piccoli contadini, allevatori e pescatori, per bravi che siano, se la passano quasi tutti malaccio. «Il rischio più grosso per un bravo produttore» dice Pier Giorgio «è di finire invischiato nella massa. Se la sua frutta o la sua verdura finiscono in mezzo a tante altre, sullo scaffale di un supermercato, non hanno speranza di emergere. Anche perché la gente, ormai, compra più con gli occhi che con il naso o la bocca e
spesso preferisce la frutta o la verdura che sembra più bella o meglio confezionata» La soluzione, per Pier Giorgio, è dividere, per così dire, la strada dei piccoli da quella dei grandi. «Un conto è comprare una pesca sul bancone di un supermercato e un conto è comprarla guardando negli occhi chi l’ha coltivata. Dietro queste due scelte ci sono valori abissalmente diversi. Per questo mi piace l’idea dei farmers’ markets e della vendita diretta. Sono un modo che i produttori hanno per far capire quello che fanno. Quanto a me, i miei produttori cerco sempre di farli conoscere ai clienti del ristorante, perché come cuoco mi sento un po’ il trait d’union fra gli uni e gli altri. Certo, il problema è che, poi, quella cassetta di pesche te la devi andare a comprare, percorrendo magari cinquanta o sessanta chilometri in macchina. Per me ne vale la pena, per altri non so». Magari lo farebbero, se solo sapessero distinguere la differenza. L’impressione, invece, è che il senso del gusto sia uno dei più negletti, obnubilato da cibi precotti e prodotti buoni solo da guardare. «Sono d’accordo con Slow Food quando insiste sull’educazione del gusto, sugli orti scolastici o sull’alleanza fra cuochi e produttori. Quello è il nocciolo di tutto il discorso. Solo se ci si forma una memoria gustativa, un bagaglio di sapori, di ricordi, di profumi, si riesce poi a distinguere se una cipolla o un peperone sono buoni o se ti hanno fregato». Se ci manca quello, poveri (diavoli) noi.
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Scandicci, non solo mostri eriferia di Scandicci, dicembre inoltrato. Usciamo per una passeggiata pre-prandiale dallo scintillante foyer – albero di Natale ben in vista, stampe di Botticelli alle pareti – di un isolato albergo, situato su un’anonima rotonda di periferia. Fuori fa un freddo boia. Girano poche persone taciturne e aggrondate, quasi tutte indossano passamontagna e guanti di lana. «Che friddo, matre mia benedetta» borbotta uno, evidentemente non del posto. Desolazione totale, atmosfere da assedio di Stalingrado. Contiamo una quindicina di condomini in cemento, alti e tristi, che nereggiano contro un cielo carico di neve. Non troviamo nessun negozio. Solo una farmacia enorme e un bar-tabacchi che fa anche da tavola calda e propone spezzatino o arista con patate a soli 4,90 euro. C’è anche un self-service chiuso e abbandonato: Ciritorno si chiama, ma qua non ritornerà mai nessuno. Non bastano le luminarie natalizie appese ai balconi per convincerci che questo non sia il posto più triste del mondo. Ecco la Toscana che non ti aspetti, una Toscana che il turista non vede mai. Meno male. Guai però a farsi ingannare dalle prime impressioni. Un’ora più tardi, nel centro della cittadina, scopriamo il magnifico Castello dell’Acciaiolo, e la nostra opinione cambia. Eccome cambia. Costruito nel XIV secolo dall’importante famiglia fiorentina dei Rucellai, il castello fu acquistato nel 1546 da Roberto di Donato Acciaioli, da cui il nome. Quasi mezzo millennio dopo – nel 1999 per la precisione –, l’antica fabbrica fortificata è stata acquistata e ristrutturata dall’amministrazione comunale di Scandicci. Circondata da un vasto parco, è ora sede del Centro polifunzionale della pelletteria italiana (non bisogna dimenticare che a Scandicci, 55 000 abitanti, vengono prodotte alcune tra le più prestigiose firme del made in Italy, tra cui Gucci e Ferragamo), nonché fucina di svariate iniziative culturali e teatrali. Nei giorni della nostra visita, ospitava una mostra dedicata a Domenico Ghirlandaio e la sua bottega, con alcuni quadri provenienti dagli Uffizi. Il castello contiene anche un’importante realtà eco-enogastronomica: Da Bobo all’Acciaiolo, “osteria-enoteca-birreria-bar” dedicata al noto personaggio veterocomunista di Sergio Staino, che abita da queste parti in collina. Chi ci racconta la storia del luogo è Mauro Bagni, segretario regionale di Slow Food Toscana e marito di Giovanna Licheri, ex presidente regionale. Dopo avere girato la regione in lungo e in largo in qualità di insegnanti, ora la coppia si è stabilita a Scandicci, dove ha aperto una libreria. L’osteria si trova nelle vecchie rimesse del castello. Il bel lavoro di ristrutturazione è costato ben 300 000 euro, più di un terzo dei quali contribuiti dai 530 soci di Slow Food Scandicci. «Storicamente, l’associazionismo di base è ben radicato qui in Toscana» commenta Mauro con un pizzico di understatement. «La Toscana è la terra dell’associazionismo, della democrazia di base, dei rompiscatole…» ribadisce Giovanna. Una bella prova di come qui vadano le cose sta d’altra parte in tutti quei volontari («siamo in novanta» commenta Mauro) impegnati a ren-
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di John Irving
Tappa nell’osteriaenoteca-birreriabar dedicata al noto personaggio veterocomunista di Staino
dere effettiva una realtà come questa osteria. Da Bobo, inaugurata nel 2008, conoscono l’abc di Slow Food, per loro la neogastronomia non ha segreti. Hanno pure pubblicato un pamphlet, La nostra “filosofia” per il cibo, in cui esaltano concetti come «l’identità con il territorio… il legame con la cucina tradizionale fiorentina (e toscana in genere)»; come «la tracciabilità, cioè la possibilità di conoscere cosa c’è nel piatto, chi lo ha fornito o prodotto»; come «la filiera corta». E i vini ? Buoni, puliti e giusti, naturalmente, privilegiando prodotti biologici e biodinamici. Le birre? Tutte, rigorosamente, di piccoli birrifici. Mauro snocciola una sfilza di fornitori artigianali. Per la pasta secca Giovanni Fabbri di Greve in Chianti, per la pasta fresca e i salumi la Fattoria di San Michele a Torri di Scandicci, per il pane e altri prodotti da forno il Forno a legna Abatangelo e il Forno di Montespertoli, entrambi di Scandicci, per la verdura la Cooperativa agricola di Legnaia (si tratta del quartiere di Firenze confinante con Scandicci, tradizionalmente era il quartiere degli orti). Non che Da Bobo si disdegni di interpretare i
prodotti dei Presìdi di Slow Food e delle comunità del cibo di Terra Madre. Rimanendo in Toscana, non è difficile trovare in menù i fagioli di Sorana o la bottarga di Orbetello. Spaziando nel mondo, negli ultimi tempi l’osteria ha anche “ospitato” la salsiccia di mangalica ungherese, lo slatko, un dolce di fichi secchi macedone e l’olio di argan marocchino, nonché altri prodotti presidiati statunitensi e cileni. D’altra parte, la promozione dei Presìdi è uno degli obiettivi di Bobo (la salsiccia di mangalica e i formaggi tradizionali del parco di Mavrovo sono stati a tutti gli effetti adottati dall’osteria). L’altro è finanziare progetti, come i Mille orti in Africa: da Scandicci ne sostengono già due. «Facciamo la spesa tutti i giorni» spiega Mauro «e cambiamo il menù ogni 15, inserendovi pochi piatti per volta. Ma poi facciamo mille altre cose». E qui viene il bello perché quella di Scandicci non è una normale osteria. O almeno non è solo un’osteria. Da Bobo è soprattutto il Bistrot del Mondo, vale a dire il primo circolo culturale della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, luogo deputato per ogni tipo di attività di comunicazione, educazione, promozione. Ecco quindi tutto un calendario di eventi, che spaziano dalle visite di comunità del cibo, di cuochi e di Presìdi da tutto il mondo a mostre, convegni e Laboratori del Gusto. Pian piano si stanno anche sviluppando una biblioteca e una mediateca. Una simpatica abitudine Da Bobo è quella di far firmare dei piccoli taglieri dagli ospiti più rinomati per poi metterli all’asta. «Grazie dell’ospitalità, dei cibi, del vino, del permesso di fumare» ha dichiarato il cantautore Francesco Guccini sul suo, accompagnando la scritta con un’autocaricatura. «Slow Food mi fa venire in mente la legalità, per questo mi piace» ha scritto invece Pier Luigi Vigna, ex procuratore nazionale antimafia e socio Slow Food. Altri “firmatari” comprendono il cantautore romano Simone Cristicchi, il cantante rock fiorentino Piero Pelù, il già citato Sergio Staino (è suo il tagliere record, venduto a 165 euro). Per finanziare i propri progetti ed eventi speciali, a Scandicci le pensano tutte. È proprio un evento speciale che ci aspetta la sera della nostra visita: “Il pesce povero”, una cena a tema per 90 persone preparata da Silvestro Greco, biologo marino e membro del comitato scientifico di Slow Fish. «Mangerete malissimo» annuncia Mauro Bagni, presentando lo chef d’eccezione. Ma scherza naturalmente. In realtà, Greco ha trascorso la mattinata al mercato del pesce di Livorno alla ricerca di pesce povero appunto, che lui definisce «specie neglette». Le sue fatiche si trasformano in una grande cena: antipasto di patate schiacciate con un goccio – quanto basta – di colatura di alici, un primo di paccheri con la palamita, un secondo di sarde e alici ripiene di pistacchi. Tutto buonissimo, tutto perfetto. Un altro punto fermo della filosofia del luogo, si capisce, è la convivialità. La serata infatti si conclude con vigorose pacche sulle spalle, pizzicotti alla nuca, buffetti alla guancia. Tutto questo tra persone che non si erano mai viste prima. D’altronde, non poteva finire diversamente in questa, la terra di Amici miei, anzi di amici nostri.
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ecessità, possibilità e volontà. Con queste tre parole un orticoltore urbano di un piccolo appezzamento nel quartiere di Vedado, sintetizzò le ragioni del "miracolo agricolo" cubano al suo intervistatore, Sinan Koont, autore di molti scritti sull'argomento e, in particolare, dell'articolo "The Urban Agriculture of Havana", pubblicato su Monthly Review nel 2009. Lo individuo fra miriadi di documenti disponibili on line e lo leggo con attenzione prima della partenza per L'Havana, come propedeutico alla visita al Vivero Alamar. È una mattina di maggio, l'aria calda ma sopportabile; la sede dell'organopónico – l’orto urbano e biologico che si sviluppa in "vasconi" rialzati di diversa estensione – e all'estremo est della città, e dista circa mezz'ora di taxi dalla zona di Miramar, dove alloggiamo. Un percorso tra vecchie dimore barocche ed edifici art déco, parchi verdi e l'azzurro del Malecón. L'isola di Regla, dall'altra parte del porto di fronte ad Habana Vieja è l'ultimo ricordo di urbanità che registro. Poi la strada prosegue in zone meno densamente popolate. La vegetazione ruba progressivamente spazio ai palazzi e lungo la strada è tutto un fiorire di cartelloni di grafica lineare e slogan efficaci: «El trabajo nutre/La pereza encoleriza y enloquece», «Revolución es: modestia, desinterés, altruismo, solidaridad», «Venceremos»… Il taxi svolta a sinistra, pochi metri e siamo di fronte all'ingresso della Ubpc (Unidad Básica de Producción Cooperativa) Vivero Alamar. Una zona ombreggiata, un banco di vendita che espone cassette di ananas, gombo, peperoncino, pomodori, buste di spezie, spinaci, tutto col relativo prezziario in moneda nacional o pesos cubanos, ché i pesos convertibles, la moneta che ho utilizzato finora, sono roba da turisti, clienti dei grandi alberghi e dei ristoranti di lusso, gente che viaggia in taxi. C'è coda. Un andirivieni di donne, anziani, famiglie. Gli abitanti del quartiere si servono qui per la spesa quotidiana e, ultimate le compere, sono in molti a concedersi un bicchierone di guarapo ghiacciato, una bibita energetica e dissetante, ottenuta dalla spremitura della canna da zucchero e preparata espressa sul momento. Oltrepassiamo l'ingresso, chiediamo informazioni; al telefono ho parlato con una donna di nome Inés che oggi, però, è impegnata altrove. Siamo affidati a Miguel Salcines López, presidente della cooperativa. Appena lo vedo lo riconosco: è il protagonista di alcuni video sull'agricoltura urbana presenti in rete, di lui si parla in molti articoli. Miguel è un grand'uomo. Per idee, statura, coscienza. Ci accomodiamo nell’area destinata ai pasti, un pergolato a pochi passi dalla cocina, e con lui ripercorriamo le tappe alimentari e produttive dell’isola, da un’agricoltura di tipo industriale improntata alle monocolture fino al crollo dell’economia sovietica, che in un batter di ciglia spazzò via macchinari, pezzi di ricambio, fertilizzanti e pesticidi chimici, mezzi di trasporto, benzina e gasolio. Dimenticare le grandi piantagioni di canna da zucchero, rendersi autosufficienti nella produzione di alimenti, coltivare vicino alle città riducendo al minimo i costi di trasporto, e adottare pratiche sostenibili e di piccola scala per rendersi indipendenti dalle energie fossili furono visti come interventi necessari durante il período especial. Ma Cuba era in un certo modo preparata ad affrontare la crisi: fin dagli anni Settanta, infatti, centri di ricerca e istituzioni statali quali il ministero della Difesa avevano iniziato a studiare e percorrere una strada per riuscire a vivere facendo a meno del petrolio. È il caso di Vivero Alamar. Miguel era presente fin dall'inizio, nel 1997, insieme ad altre quattro persone, quando ottenne di lavorare un appezzamento di 3,7 ettari ad Habana del Este. Un terreno incolto, una zona apparentemente priva di valore. Ed ecco il "miracolo": gli orticoltori urbani hanno iniziato a espandersi ottenendo in uso altri lotti agricoli, a diversificare la produzione, a introdurre, per quanto era loro concesso, tecnologie sostenibili e pulite, a ottenere i primi risultati concreti. I numeri parlano chiaro. At-
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di Silvia Ceriani
Il caso di Vivero Alamar, dove orticoltori urbani hanno iniziato a espandersi, a diversificare la produzione, a introdurre tecnologie sostenibili e pulite...
tualmente gli occupati in cooperativa, su circa 11 ettari di terreno, sono 158 persone, fra cui giovani che guardano alla terra come a una prospettiva di buona vita, professionisti universitari, oltre 40 donne e un 35% di pensionati. E le condizioni lavorative sono privilegiate: sette ore di lavoro al giorno, salari di 800 pesos circa (rispetto ai 450 della media nazionale), la possibilità di accedere a corsi di preparazione e di aggiornamento, di usufruire della mensa comune – e gratuita – e addirittura dei servizi di un barbiere che viene all'Alamar una volta alla settimana. È ovvio che questa realtà abbia un forte impatto sociale, generando fonti di impiego, migliorando la qualità della vita di chi vi lavora e la dieta dell'intero quartiere. Si tratta di un'esperienza esemplare, una struttura all'avanguardia per lo sviluppo tecnolo-
suolo; un lombricaio per la produzione di un terreno carico di umidità, scuro, pesante e vivissimo; metodi naturali per controllare i parassiti delle piante (ad esempio, "per sterminare le gorgoglione, grattugiare cinque spicchi d'aglio in un litro d'acqua, farlo bollire, lasciarlo freddare e vaporizzare su tutta la pianta"); una fabbrica, ancora un po' rustica, per la realizzazione di conserve e alimenti di valore aggiunto; pozzi per l'irrigazione… Non stiamo andando indietro nel tempo, questa è pura evoluzione, sono scelte che Miguel e compagni hanno intrapreso studiando, documentandosi e ristabilendo un contatto autentico con la natura. Ed è interessante vedere come allo sviluppo tecnologico siano accostate pratiche e credenze "magiche" che tengono in alta considerazione le energie della natura. Un esempio? Per individuare nuove risorse
Miracolo all’Avana
gico, ambientale, sociale ed economico. Miguel sostiene che nell'intera Cuba non vi siano altre realtà analoghe. E dall'esterno sembrano dargli ragione. Fra le varie Ubpc dell'isola, l'Alamar mantiene da anni la qualifica di excelencia, riceve molte visite da delegazioni ufficiali straniere, media o contadini di altri paesi che vogliono apprendere da questa esperienza. Mentre camminiamo per la proprietà li vediamo anche noi: un gruppo di venezuelani armati di penne e quaderni. Fanno domande, osservano, si appuntano le risposte. Alamar ha molto da insegnare. Ce ne accorgiamo osservando più da vicino la realtà di questa cooperativa, una sorta di "condensato" di tutto quel che abbiamo letto e appreso sull'agricoltura pulita. In ordine sparso: un progetto incentrato sulle micorrize, che facilitano l'assorbimento di acqua e nutrienti da parte del terreno e aiutano a ristabilire l'equilibrio del
idriche Miguel racconta che fanno ricorso alla rabdomanzia, servendosi di una bacchetta biforcuta di guayaba. Ultimo capitolo, la biodiversità: innumerevoli tipi di ortaggi coltivati secondo un ciclo breve che prevede fino a 4-5 rotazioni all'anno, frutti tropicali quali manghi, avocadi, papaye, piante ornamentali, erbe aromatiche e officinali come la yerba buena per i mojitos o la Albahaca santísima (una particolare varietà di basilico) per le pratiche di santeria, fiori variopinti sotto le serre, polli, conigli, tori per produrre letame. E tutt'intorno i palazzi. «¡Mira!, urbanismo y comida» dice Miguel. Ogni cosa è correlata all'altra, terra-insetti-piante-animali, benessere ambientalesociale-economico, e tutto parla di competenza e creatività. Continuo a ripetermelo tornando all'albergo in autobus. La corsa costa 2 pesos cubanos.
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L’anguria sola ovoidali con polpa di color crema dal gusto dolce». Le varietà autoctone spesso non tollerano bene le lunghe distanze, spiegava il libro, il che le rende difficilmente reperibili nei negozi. L’anguria Cream of Saskatchewan possiede un gene esplosivo: se il frutto viene urtato, si spacca in due. Questo fatto mi pareva incredibilmente sexy. Quale negozio terrebbe un’anguria esplosiva? Ora, era candidata a essere l’ultima cosa che avremmo raccolto dall’orto. (…) Vidi che Chan e compare avevano esposto cartelli recanti la scritta “Vietato l’accesso” sul cancello dell’orto. Si riferivano proprio a tutti? O questi cartelli costituivano una direttiva solo per me, la residente abusiva? Restai in piedi al cancello e sbirciai l’interno dell’orto. Fagiolini scarlatti si tessevano attraverso la rete metallica ed erano carichi di peluriosi baccelli verdi. Enormi zucche rotolavano sui tralci. Gli spinaci Malabar si intrecciavano su un traliccio. Le mele maturavano sugli alberi. I gambi delle bietole rosso sangue germogliavano accanto alle folte piantine di basilico. Otto varietà di pomodori maturavano in diversi vasconi. Una distesa di granturco frusciava nell’angolo. La mia presenza, la mia influenza, erano presenti tutt’intorno a me. Alla fine, Thoreau, un agricoltore abusivo come me, aveva ceduto il suo campo di fagioli alle marmotte. Presto sarebbe toccato a me cedere il mio orto alla peste più temuta dall’agricoltore urbano: il palazzinaro. Dalla mia finestra avrei potuto assistere al rinselvatichimento prima della distruzione. I pomodori sarebbero diventati rossi, sarebbero scoppiati, sarebbero colati i semi. Le carote si sarebbero gonfiate e si sarebbero spaccate, avrebbero generato uno stelo, sarebbero diventate fibrose. Eserciti di lumaconi e lumache sarebbero scivolati attraverso i vasconi in legno, sarebbero scesi nella terra, si sarebbero follemente riprodotti. Il granturco, trascurato e non raccolto, sarebbe crollato a terra. L’erba Bermuda, la mia nemica, sarebbe strisciata su tutto l’appezzamento, formando un frastagliato tappeto verde. Alla fine, i finocchi si sarebbero autoseminati nei vasconi rialzati. Poi gli assi di legno si sarebbero staccati l’uno dall’altro. Il tavolo di propagazione si sarebbe coperto di piccoli germogli, i bicchieri d’acqua si sarebbero riempiti di pioggia. Il mio orto sarebbe
di Novella Carpenter
Il diario di una contadina urbana degli Stati Uniti. Un estratto del libro
Chi è N. Carpenter
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ualche settimana dopo uscii nell’orto per controllare l’anguria. Sì, anguria al singolare. I tralci si erano spiegati per tutto agosto e affiancavano l’aiuola. Erano spuntati dei fiori di color giallo chiaro. Un impollinatore deve visitare un’anguria otto volte per garantire la fertilizzazione. Per questo, vedendole lavorare il finocchio dozzinale e pacchiano che soffoca i nostri parcheggi, avevo rimproverato le api. «Andate a fare un giro dai fiori d’anguria», le avevo sollecitate. In pieno agosto, avevo notato un rigonfiamento all’estremità del tralcio. Solo uno. Era stata un’estate particolarmente fredda nella Bay Area, e le altre piante erano spoglie. Ora l’anguria si era gonfiata e le sue striature nere stavano iniziando a manifestarsi. Mentre ammiravo la mia sola anguria quasi pronta per il raccolto, Jack Chan entrò dal cancello dell’orto accompagnato da un alto signore bianco. Questi indossava un cappello da sole e aveva una folta barba bianca. Aveva una latta di vernice a spruzzo in una mano e dei paletti in ferro nell’altra. Ero arrivata in qualche modo a pensare a Jack Chan come il mio Emerson: un uomo non interessato alla proprietà, forse un trascendentalista che amava essere in comunione con la natura. Forse veniva nell’orto perché ne apprezzava l’aspetto. (…) Ignorandomi completamente, i due iniziarono a segnare delle linee divisorie sul terreno. Mi avvicinai a loro. Stavano proprio al centro preciso di uno dei miei vasconi rialzati, fissando un palo di ferro nel terreno. «Quindi, lei è…» esordii. «Condomìni, proprio qui. Fra tre mesi» disse Chan, il signore delle poche parole, girandosi verso di me. «Oh» dissi. La bolla emersoniana scoppiò. Chan non era altro che un palazzinaro. (…) Poi l’uomo bianco dipinse il palo appena piantato con la vernice a spruzzo, macchiando di giallo alcune foglie della mia pianta di frutto della passione. Diedi un’occhiata all’orto. E la mia preziosa anguria? Secondo una guida ai semi autoctoni intitolata The Seeds of Kokopelli, la Saskatchewan prometteva di essere «verde chiara con striature scure. I semi sono neri. I frutti sono
Novella Carpenter è cresciuta in campagna, nell’Idaho e nello stato di Washington. Ha studiato biologia e inglese presso l’Università di Washington, dove ha svolto svariati lavori, tra cui quelli di maneggiatrice di cimici assassine e proiezionista di pellicole 16 mm. Dopo essersi trasferita in California, ha frequentato la Scuola di Giornalismo della University College Berkeley, dove ha studiato con Michael Pollan. Le sue avventure nel mondo dell’agricoltura urbana sono iniziate in un appezzamento abusivo nel ghetto di Oakland, con delle api, pochi polli e poi qualche tacchino, per espandersi fino alla creazione di una fattoria urbana operativa. Oltreché sul blog dell’autrice, le vicende della fattoria di CittàFantasma sono descritte in Farm City – L’educazione di una contadina urbana (in uscita a luglio per Slow Food Editore), un libro di orticoltura divertente, bizzarro, perversamente provocatorio. In questa pagina ne riportiamo un estratto.
tornato selvatico, ritrasformandosi in quello che era stato tre anni prima: un appezzamento soffocato da erbacce, non amato, abbandonato. Immaginando che questo posto fosse condannato a morire, mi chiesi perché non avessi fatto di più. Perché non mi ero sostenuta con questo pezzo di suolo verdeggiante? Perché non avevo seminato di più, raccolto di più, dato di più a questo pezzo di terra che avevo imparato ad amare? La natura mi aveva trattata così bene. Il sole splendeva. La pioggia veniva e, quando non lo faceva, il mio padrone di casa socialista pagava la bolletta dell’acqua. I vermi e i cavalli generavano nutrienti. E le piante, che facevano tutto il lavoro, catturando e utilizzando questi doni della natura, poi producevano un raccolto. Come agricoltrice abusiva ero stata una scroccona su più livelli. Eppure, facendo questo lavoro, non stavo semplicemente ripetendo quello che gli esseri umani avevano fatto per migliaia di anni? I semi, questi semi che avevo selezionato con tanta cura, costituivano la prova tangibile della cultura dell’uomo, della mia cultura, la continuazione di una linea. Anche in questo appezzamento abusivo del ghetto, stavo coltivando la storia umana. Angurie dall’Africa. Zucche dalle Americhe. Patate storiche dal Perù. Radicchi indigeni dall’Asia, ma addomesticati in Egitto. Tutto cresceva ora, qui a Oakland. Lì al cancello, realizzai che non solo avevo creato l’orto, l’orto aveva creato me. Mangiavo i prodotti di questo luogo tutti i giorni. Ero diventata questo orto – la sua aria, la sua acqua, il suo suolo. Abbandonando l’appezzamento, avrei abbandonato me stessa. Quando Jack Chan mi disse di non costruire – niente strutture permanenti, solo orto – si rendeva conto che, costruendo il suolo, forse stavo creando qualcosa di più permanente di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare? Fissai i caratteri rossi: “Vietato l’accesso”. Cosa significa poi un cartello a CittàFantasma? Tanto quanto i miei cartelli che intimavano alla gente di non cogliere l’aglio. In questo posto dimenticato da Dio, “Vietato l’accesso” è solo un suggerimento, una speranza condannata a morire. Avrebbe potuto essere anche un invito. Con lo sguardo cercai in giro Jack Chan e il suo compare. Poi tirai giù i cartelli. Fingendomi il vento, li buttai nella strada, cosicché divennero altra spazzatura che volava per il quartiere.
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a globalizzazione ha cambiato in modo radicale l’organizzazione delle cose e delle persone nello spazio e nel tempo. Essa ha portato alle estreme conseguenze “l’annullamento dello spazio attraverso il tempo”, il vero motore dello sviluppo del capitalismo, creando enormi infrastrutture in grado di far circolare risorse da una parte all’altra del pianeta in tempi irrisori. Secondo Castells, questi processi hanno portato alla distinzione tra uno spazio dei luoghi e uno spazio dei flussi. Il primo è uno spazio continuo, contenuto all’interno di confini ben defi-
L
tutto ha un prezzo e può essere venduto e acquistato, e le scelte più importanti sono compiute da corporations e da istituzioni globali. Di fronte all’espansione dell’economia totale, le economie locali sono costrette ad arretrare. Privati della necessaria base economica, gli spazi dei luoghi perdono la capacità di riprodurre la propria differenza, e si sciolgono progressivamente nello spazio di flussi che li svuota o li riempie a seconda delle condizioni del mercato globale. Tra gli esempi più evidenti del rapporto tra economia totale ed economia locale è l’insedia-
Nuovi
equilibri
di Gianluca Brunori
Se il consumatore sa da dove proviene il bene che consuma. La consapevolezza del valore delle risorse locali, per consentire agli attori economici di prendere decisioni responsabili
niti, modellato da elementi materiali e immateriali che si accumulano nel tempo, che manifesta una coerenza interna e una chiara differenziazione rispetto all’esterno. Il secondo è uno spazio discontinuo, fatto da nodi localizzati spazialmente che si collegano tra di loro attraverso i flussi di cose, di persone, di informazioni ed è continuamente trasformato dalla ristrutturazione dell’ambiente costruito necessaria per governare i flussi delle merci. Lo spazio dei luoghi è governato dalla storia e dalla cultura, lo spazio dei flussi è governato dalla tecnologia e dalle mercato. Wendell Berry contrappone le economie locali, che si dispiegano nello spazio dei luoghi, alle economie totali, che caratterizzano lo spazio di flussi. Le economie locali sono basate sul controllo locale delle attività economiche, e i comportamenti economici si intrecciano strettamente, e sono influenzati, dalle norme e dai valori caratteristici del luogo. Nelle economie totali
mento non controllato dei grandi supermercati in un territorio. Quando questo avviene, l’accoglienza della popolazione è spesso favorevole, in quanto promette una grande varietà di beni a buon mercato. Ma la chiusura delle piccole attività commerciali, non più in grado di reggere alla concorrenza, crea disoccupazione, desertifica i centri urbani, aumenta la dipendenza dei consumatori dall’automobile, esclude coloro che non posseggono un’auto o che non possono guidare, chiude gli sbocchi commerciali alle produzioni locali minacciandone la sopravvivenza. Il dominio incontrastato dell’economia totale non genera un maggiore benessere. La ricchezza creata è l’altra faccia della distruzione: i suoi beneficiari non sono gli stessi ai quali la ricchezza viene distrutta; le fasi di transizione generano sofferenze non tollerabili; le disuguaglianze e le concentrazioni di potere crescono. La distruzione delle economie locali e il conseguente arretramento dello spazio dei luoghi è
alla base della perdita di diversità economica, culturale e biologica, che rappresentano le basi per la sopravvivenza del delicato equilibrio tra uomo e natura. Creare un contrappeso all’economia totale attraverso il rafforzamento delle economie locali è un impegno che dovrebbe riguardare chiunque abbia a cuore le sorti dell’umanità. È dunque da auspicare un processo di rilocalizzazione, che rafforzi il controllo locale dei processi economici e valorizzi le risorse locali. Al momento, i processi di rilocalizzazione sono animati soprattutto da movimenti dal basso, che in pochi anni sono stati in grado di crescere notevolmente e di suscitare una crescente attenzione nella società civile, nel tessuto economico e nelle istituzioni. Attraverso l’iniziativa di questi gruppi, la rilocalizzazione ha assunto una dimensione simbolica, una dimensione relazionale e una dimensione fisica. Rilocalizzazione simbolica significa rafforzare la consapevolezza del valore delle risorse locali – la biodiversità, il paesaggio, la cultura, le reti sociali – e dell’origine delle merci, per consentire agli attori economici di prendere decisioni informate e responsabili. Se il consumatore sa da dove proviene il bene che consuma, può acquisire la consapevolezza dello sfruttamento dell’ambiente e dell’uomo che ne hanno consentito la produzione e la distribuzione. Se il produttore locale è in grado di comunicare ai consumatori il valore che l’impiego di risorse locali aggiunge al prodotto finale, può creare una situazione di vantaggio per entrambi. Rilocalizzazione relazionale significa favorire relazioni di scambio tra attori locali. Alcuni studi nel Regno Unito hanno mostrato che, a parità di spesa, l’acquisto in negozi locali trattiene una quota di reddito all’interno della comunità pari ad almeno il 40% in più. Le banche del tempo che si stanno diffondendo un po’ ovunque fanno leva sulla capacità dei membri di una comunità di fornire beni o servizi che il mercato o le istituzioni non sono in grado di fornire. I gruppi di acquisto solidale stabiliscono un canale di comunicazione tra consumatori e produttori imperniato sulla comunanza di valori che consente di generare forme di conoscenza e un’etica del consumo esterne alle relazioni commerciali. Rilocalizzazione fisica, infine, implica la ristrutturazione della produzione, della distribuzione e del consumo in modo da privilegiare, quando possibile, la riduzione delle distanze e delle intermediazioni commerciali. Il cibo è un punto di partenza fondamentale per i movimenti di rilocalizzazione. Esso simboleggia i rapporti tra uomo, società e natura. È un bene essenziale ma al tempo stesso soddisfa bisogni profondi di identificazione e di socialità, e soprattutto riguarda tutti, nessuno escluso. Agire sui significati del cibo significa agire sulle pratiche quotidiane, e piccoli cambiamenti nelle scelte individuali, ripetuti quotidianamente, possono dare luogo a grandi cambiamenti collettivi. La rilocalizzazione simbolica e relazionale consente la rilocalizzazione fisica, e si concretizza nella preferenza dei prodotti locali, freschi e a basso impatto ambientale, o nella scelta dei prodotti tipici, testimoni dell’identità di altri luoghi. Quando il consumatore sceglie un prodotto locale, che incorpora e valorizza le risorse locali, contribuisce al mantenimento di queste risorse e al rafforzamento dei produttori locali di fronte all’economia totale. I farmers’ markets, le iniziative di community supported agriculture, l’introduzione di prodotti biologici e locali nelle scuole, i gruppi di acquisto solidale, il Fair Trade, i Presìdi Slow Food, i movimenti di sensibilizzazione sui “chilometri alimentari” sono motori al tempo stesso di rilocalizzazione simbolica, relazionale e fisica. Essi stanno superando la fase embrionale per diventare un movimento ampio e diffuso. La costruzione di economie locali solide dipende dalla capacità di questi movimenti di trasformare in profondità gli stili di vita privati, di favorire l’estensione ad altre aree di consumo, di dare continuità ai modelli produttivi alternativi, di far maturare le condizioni per l’adeguamento delle regole pubbliche.
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Per mezza tazza di Geraldina Colotti
Cattura&cottura
La giusta dose per mangiar bene e tante altre cose, libri di gusto compresi
angiare con gusto e in modo equilibrato. Nel volume Le ricette dei magnifici 20 (Ponte alle Grazie), Marco Bianchi – già autore del precedente I magnifici 20 - porta di nuovo in tavola i cibi “nutraceutici”, quelli che curano nutrendo, come attestano numerosi studi. Certo – ricorda l’autore -, una corretta alimentazione, da sola, non risolve patologie conclamate, ma può fare molto per prevenirle. Per esempio – dicono gli esperti , il rischio di tumori si abbassa assumendo adeguate dosi di frutta e verdura: mezza tazza di broccoli, cavolfiori, cipolle (e famiglia); un cuc-
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Bemar, ovvero Bio, eco e marinaro. A Roma (Via Ancona, 34) c’è una piccola impresa sociale che racchiude la sua scommessa nel nome. Nata nel 2009 dall’incontro tra le cooperative Mare Mare e Arancia, assicura il controllo del pesce “dalla cattura alla cottura” e invita al consumo critico organizzando corsi e Gruppi di acquisto solidali. Il pesce a km. Zero “dal mare a casa tua”, recita il sito www.criticalfish.it in cui viene illustrata la mission della “prima pescheria didattica a Roma”. Perché “la provenienza fa la differenza”. Il pesce di Bemar – spiega Francesco, uno dei fondatori – arriva direttamente da alcune cooperative di pescatori come la Forza 7 di Sapri. Barche che vanno in mare a Fiumicino e a Anzio, e riforniscono il punto vendita di via Ancona senza intermediari. Un sistema di pesca ecocompatibile, assicura Francesco: “Niente tonnare volanti né pesci sopra i 15 chili che provengono da mari lontani e assimilano mercurio, solo quelli a ciclo vitale breve, che in 3 anni si riproducono. Su questa linea, insieme ad altre cooperative di pescatori, proponiamo una moratoria di 3 anni alla pesca del pesce spada e del tonno”. Con il supporto di una biologa marina, la pescheria didattica propone laboratori per le scuole. Ogni giorno – afferma Francesco – “gli alunni imparano a riconoscere i prodotti del mare e le proprietà nutritive dei pesci: un primo passo per essere in salute e diventare protagonista delle proprie scelte alimentari. Oggi anche chi vende il pesce spesso non sa valorizzare quello di seconda e terza mano, che invece è buonissimo”. Consumo critico significa “qualità e risparmio perché, con i Gruppi di acquisto, una famiglia povera può mangiare il pesce buono al 50% in meno”. Un progetto che per Bemar, nata all’interno dell’associazionismo e dei centri sociali, “ha anche finalità politiche: fornire inserimento al lavoro a giovani ex-detenuti e mettere in circolo nuova criticità ambientalista e sociale”. Per questo, dopo il referendum, chi si è recato in pescheria con il proprio certificato elettorale, per ogni kg di pesce, avrà ricevuto “un kg. di cozze in regalo”. Insieme all’invito a tornare, dalle 19,30, per “l’aperivito didattico” di Critical fish. ge.co.
chiaio di semi di lino e uno di pomodoro concentrato, un cucchiaio di curcuma e pepe nero. Mezza tazza è anche la dose giusta di mirtilli, more, lamponi, uva nera e spremuta di agrumi. Del potente aglio bastano invece due spicchi. E c’è anche una buona notizia per i super-golosi: 30 grammi di cioccolato fondente con almeno il 70% di cacao. Mangiare meglio, in sintesi, significa meno grassi animali, meno zuccheri, più verdure, più semi e cibi integrali: in un giusto equilibrio di proteine, carboidrati, fibre, sali minerali e vitamine, calcolati in base alla fascia d’età e allo stile di vita. Mangiare sano, quindi, implica nuova consapevolezza nel fare la spesa. Per questo, il “glossario nutraceutico” contenuto nel volume spiega cosa sono e a cosa servono le sostanze contenute nei cibi. Poi, si può passare alle ricette: semplici, gustose e veloci. Per cominciare, Barchette di belga con crema di tofu e sesamo, un antipasto sfizioso da proporre in estate… Il calendario dei frutti lo trovate invece nel libro di Cinzia Gambassi, Marmellandia (Avallardi). Nel mese di giugno si possono mangiare albicocche, amarene, ciliegie, fragole, ma anche cipolle e noci. E viole, con cui preparare un’ottima Crema di violette (che si conserva per un anno). Alle creme con i fiori, l’autrice dedica una sezione stuzzicante del suo volume di conserve fatte in casa, basate sui segreti della tradizione culinaria toscana e non solo: 249 preparazioni dolci speziate o piccanti, tradizionali o esotiche e 40 piatti golosi per secondi, stuzzichini o dessert. Tra le proposte, la Terrina di coniglio con confettura di cipolle, le Capesante con chutney di pomodori verdi, le Polpettine al kiwi o il Semifreddo alla melagrana… Anche Nino Pizzuto, protagonista del romanzo di Raffaele Mangano, Il pescatore di tonni (Amatea) cerca di riprendersi con una marmellata di fichi “spalmata a più strati su biscotti preparati dalla vicina di casa”. Nino, figlio di immigrati siciliani che hanno fatto fortuna a Milano, è tornato in vacanza sull’isola di Favignana. Ha affittato una stanza da una famiglia di pescatori. “Il pescespada si ammazza da solo. Lui non vuo-
le farsi pescare”, racconta al giovane Zu Beppe, patriarca della famiglia. Il pescespada, quando cade nella rete, comincia a correre “come nu pazzu”, e quando capisce che non può più uscire, si spacca la testa contro la barca e muore. Nino, affascinato dalle storie dei pescatori, vuole conoscere la loro vita, tornare alle proprie radici su quell’isola che vive intorno al carcere e alle briciole di un’economia in dismissione. Vincendo la paura, li accompagna in barca per la “mattanza” dei tonni. In un’atmosfera verghiana di sangue e fatica, assiste alla cattura dei pesci, che vengono incanalati in una zona chiusa su tutti i lati da altre reti, e poi uccisi fra i canti dei pescatori. Un’esperienza sconvolgente che gli farà salire la febbre. “Per noi i tonni sono la vita da mille anni; con i tonni qui ci hanno campato da sempre – gli spiega un giovane isolano -. Favignana sarebbe stata un’isola deserta senza la mattanza, mi capisce? Quello che ha visto è solo un modo per pescarli, non ne conosciamo altri. Come lo prende lei un animale da trecento chili? Con la canna da pesca? E noi cosa dobbiamo fare, ci cantiamo una canzone per farli addormire come i piccirilli?” Pizzuto riflette. Tra una zuppa di pesce, un pesto a base di pistacchio e una pasta con le melanzane da leccarsi i baffi, scopre di avere la Sicilia “nelle ossa, nei tendini, nella memoria cellulare”. Un legame ritrovato che non riuscirà più a spezzare. E infine, provato dalla vita, avrà voglia di stabilirsi sull’isola. Ma la mattanza adesso è solo un ricordo lontano. Un vecchio pescatore racconta: “Ormai i tonni erano diventati piccoli e ne arrivavano pure pochi. I giapponesi da anni usano gli aerei per avvistarli in alto mare e poi mettono una tonnara volante e fanno una strage, e quelli che non pescano li lasciano a pezzi in mare. Loro non hanno tempo da perdere come facevamo noi con le cantate e i riti degli antichi. E così addio tonnaroti e addio mattanza”. Nino Pizzuto, però, vuole salvare la memoria del luogo e i suoi ricordi. Seduto sul masso di fronte alla tonnara, pensa che domani si metterà a cercare fondi per restaurare lo stabilimento e trasformarlo in un museo.
L’ U n i t à d ’ I t a l i a è n e l n o s t r o c u o r e. Ogni giorno siamo orgogliosi di tutelare e valorizzare i mille capolavori del patrimonio enogastronomico sparsi n e l t e r r i t o r i o i t a l i a n o, n e i n o s t r i t r e m i l a p u n t i v e n d i t a . Sotto il nostro cielo sventola un ideale tricolore che profuma d’Italia.