E N E R G I A
&
A M B I E N T E
Le fonti del futuro
[GUGLIELMO RAGOZZINO]
S
PERANZA — La crescente preoccupazione per la minacciosa scarsità di petrolio, le bollette inarrestabili di elettricità e gas, il timore sempre più diffuso sulla fine imminente dell’energia ottenuta bruciando combustibili fossili, la soffocante CO2, l’inquinamento, il riscaldamento globale, il peggioramento ambientale nelle città e fuori: tutto questo offre un terreno favorevole allo sviluppo del fotovoltaico – Fv – che diventa una risposta generale alle paure e alle speranze umane. Esso appare come una produzione elettrica che a un tempo, è scientifica, diretta, non inquinante, illimitata; e soprattutto apre una finestra sul futuro. Una risposta necessaria a due delle tre richieste europee contenute nella direttiva europea del 20-20-20: 20 % di minore inquinamento, 20 % di energie rinnovabili e 20% di risparmio entro il 2020 nell’Ue per contenere il riscaldamento globale. Per alcuni il Fv va inteso come una bella rivincita. Tutto continuerà come prima; il mio suv, ancora più grande del tuo, andrà a trazione elettrica e mi farò beffe della pompa di benzina che adesso mi taglieggia. Per altri invece la nuova energia entrerà in un progetto di sobrietà attiva e di rispetto per la natura. Il Fv appare insomma a tutti come un’anticipazione del domani preferito che ormai si intravvede e si può determinare in qualche misura. Vi saranno nuove tecnologie, nuovi materiali: il costo di ogni chilowatt elettrico prodotto diminuirà rapidamente; la nuova forma di produzione energetica diventerà nel tempo competitiva con ogni altra; vi sarà modo di accumulare l’energia ottenuta nelle ore di luce per i periodi di buio; e così via. Pur avendo una produzione elettrica effettiva assai minore di altre rinnovabili: idroelettrico, eolico, biomasse, il Fv è stato per anni la filiera sulla quale si sono indirizzate le maggiori attese.
DIFFUSIONE — Poi il boom improvviso. Gli impianti fotovoltaici installati in Italia erano a metà ottobre 287.665. Quelli sopraggiunti nell’ultimo mese almeno 15 mila. La potenza complessiva supera i diecimila Mw – Megawatt, pari a un milione di watt – . Alla fine dell’anno si prevede di raggiungere un conto di 350 mila impianti con una produzione di dodicimila Mw. Il Fv non è più un orpello ma è un sistema elettrico di tutto rispetto che incide sulla produzione complessiva. In complesso, gli impianti elettrici italiani, termoelettrici e di ogni altro tipo, hanno una capacità produttiva di 110mila Mw, mentre la richiesta di punta non ha mai superato i 57mila Mw. Diecimila Mw sono dunque una misura consistente, e le previsioni che assegnano al fotovoltaico il compito ambizioso di raggiungere i ventimila Mw per il fatidico 2020 sembrano ragionevoli. Nel 2011 l’incremento di impianti fotovoltaici ha portato l’Italia al primo posto nella classifica europea e mondiale superando di slancio la Germania che era da anni il paese capofila della relativa produzione. Solo due anni fa, nel 2009 la Germania aveva una produzione di fotovoltaico dieci volte superiore a quella italiana. In effetti l’aumento è spettacolare. Mettendo a confronto luglio 2011, l’ultimo mese per il quale sono a nostra disposizione i dati disaggregati con il luglio del 2010, si può vedere che l’energia elettrica di origine Fv passa da 247 Gwh – 247 miliardi di watt all’ora – a 1.370, con una variazione percentuale del 455%. Guardando ai primi sette mesi – gennaio-luglio – dei due anni considerati si passa da 1.035 a 4.066 Gwh. In luglio, mese di alta insolazione, è il 5,15% della produzione elettrica nazionale che deriva dal fotovoltaico. Sempre nel corso di quest’anno si verifica anche, in giugno, per la prima volta, il sorpasso tra fotovoltaico ed eolico; il risultato complessivo dei primi
7 mesi vede ancora un vantaggio dell’eolico, 5.374 Gwh contro 4.066, ma è molto probabile che alla fine dell’anno il risultato sarà diverso. E’ un altro segnale della fortuna che ormai accompagna il Fv nel nostro paese. CONTI — Il decollo e il successo del Fv è stato determinato da rilevanti incentivi e favore politico, oltre che dal fervido fai-da-te dei neofiti. Per raggiungere e superare i trecentomila impianti Fv in pochissimi anni il fattore “incentivi” è stato determinante. Gli incentivi si sono susseguiti in quattro “conti energia”. Questi consistono in un contributo per venti anni da parte dello stato per ripagare in parte – o del tutto – i costi della produzione effettiva di watt elettrici Fv. Nel 2008 il sistema dei conti energia si è allargato al solare termodinamico che ha però la caratteristica di un gigantesco impegno finanziario iniziale ed è quindi caratteristico di imprese elettriche – Enel, in sostanza – già affermate e dai poderosi bilanci. E’ probabile che l’allargamento al termodinamico – 25 anni di durata – degli incentivi al Fv siano
l’effetto di un compromesso politico-industriale: da un lato la spinta dell’amministrazione a procedere in avanti, per una volta, compiendo un percorso verso rinnovabili di massa à la Rifkin; dall’altro l’indispettita reazione della grande impresa, poi compensata da un contributo elevato per la ricerca e le prime attuazioni del termodinamico, unita alla preoccupazione del sistema elettrico consolidato – il gestore Gse e compagnia bella – nel dover fare i conti con centinaia di migliaia di piccoli e piccolissimi produttori. Lo scontro fra le varie posizioni, la preoccupazione di aver troppo elargito, provocando una malformazione elettrica, le invidie di innovatori e imprenditori di altre possibili filiere elettriche rinnovabili per esempio quelle eoliche, il risentimento per la riduzione dei concorrenti certificati verdi, i cultori della via del risparmio, dell’efficienza elettrica, delle scelte di puntare sulla filiera del calore rinnovabile e infine le proteste degli utenti, visto che gli aggravi di spesa conseguenti agli incentivi erano e sono riversati nelle bollette, tutto questo antagonismo è stato fortissimo. Il tentativo di ostacolare o contenere la scelta tutta politica della scelta Fv, ha provocato il susseguirsi di quattro conti energia. Senza entrare nel dettaglio delle variazioni dell’incentivo monetario che si sono succedute in pochi anni per i nuovi impianti, occorre invece fare cenno a scaglioni e caratteristiche degli impianti. Queste ultime determinano la tipologia di impianti non integrati, semi integrati e integrati: sono non integrati quelli posti a terra, per esempio in un campo; semi integrati quelli posti a copertura di edifici preesistenti; infine integrati quelli incorporati nella struttura architettonica originaria con progettazione di tetti, terrazze e pareti, tali da produrre energia elettrica Fv. Gli scaglioni previsti sono tre: 1-3 Kw, 3-20 Kw, da 20 Kw in su. Intrecciando scaglioni e caratteristiche degli impianti risulta una tabella di incentivi che per un impianto nuovo andrebbe da 0,353 € per Kwh per un impianto a terra di oltre 20 Kw, a 0,480 € per Kwh per un impianto integrato con una potenza inferiore a 3 Kw. FEDERALISMO — Gli esperti considerano che gli investimenti fatti per un impianto possano essere recuperati molto prima della fine degli incentivi: in particolare tra 11e 13 anni nel Nord Italia; tra 9 e 11 nel Centro e tra 7 e 9 nel Sud del paese. Le differenze sono determinate con tutta evidenza dalla diversità di insolazione, mentre la forbice dipende dalle caratteristiche dell’impianto. Questa differenza è sembrata ingiusta ad alcuni cultori di un federalismo malinteso e hanno anche attirato l’attenzione del fisco. Confindustria, piuttosto contrariata per un sistema produttivo energetico che sfugge al controllo delle imprese elettriche maggiori, sue importanti associate, deve aver mandato segnali a chi di dovere, chiedendo una moratoria. D’altro canto la Lega, un po’ invidiosa del sole e dell’iniziativa altrui, deve aver suggerito di applicare qualche forma di perequazione, in sostanza una nuvola a equilibrare il vantaggio competitivo del sole del Sud. Per suo conto l’apparato che gestisce il sistema elettrico, da Gse a Terna, si sente sommerso dal quantitativo di allacciamenti che deve realizzare e chiede un po’di cautela. C’è dunque un’alleanza di nuova costituzione: l’industria termoelettrica spalleggiata dalla Confindustria, le imprese di rinnovabili diverse dal Fv, il fisco, il federalismo perequativo, i gestori elettrici oberati di lavoro, gli utenti arrabbiati e in bolletta. Tutti insieme, uniti contro il Fv, riusciranno a farlo fuori?
La corsa a ostacoli dello sviluppo del fotovoltaico – Fv – finestra sul domani e risposta generale alle paure e alle speranze umane
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Il nucleare non ci serve [Andrea Bertaglio]
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onostante i piani del governo e nonostante i tentativi, a pochi mesi dalla tragedia di Fukushima, di riabilitare anche in Italia l’immagine dell’energia nucleare, il professor Valerio Rossi Albertini, fisico, chimico e autorevole ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), ha praticamente confermato la bontà della scelta degli italiani di dire ‘no’ all’atomo attraverso le consultazioni referendarie dello scorso giugno. Durante il Carloforte Green Workshop, tenutosi sull’isola di San Pietro, in Sardegna, lo scienziato ha infatti spiegato che, negli ultimi sei mesi, in Italia “è stata installata una potenza fotovoltaica pari a quella che avrebbero prodotto un paio dei quattro famigerati reattori del piano nucleare del governo, per costruire i quali sarebbero occorsi almeno 12 anni, secondo le previsioni del governo stesso”. “È ora di smettere gli abiti a lutto per la perdita dell’opzione nucleare”, ha affermato il fisico nucleare: “Il nostro Paese si trova nella condizione di sopperire alla carenza dei reattori ipotizzati per soddisfare la crescente fame di energia”. Una affermazione importante, fatta non a caso, ma sulla base dei dati del Gestore dei Servizi Energetici (GSE). Se alla fine del 2010 la potenza installata nel Belpaese, generata da 200mila impianti, era di circa 7mila MW (contro i 1.142 MW del 2009), e le previsioni del GSE puntavano al raggiungimento degli 8mila MW già nel 2011, oggi è possibile dire che si sono superate tutte le aspettative. L’Italia, con i suoi 9.530 MW prodotti dagli oltre 264mila impianti attualmente in esercizio sul suo territorio, è infatti già prossima al raggiungimento dei 10 GW. Gli impianti sono distribuiti sul territorio nazionale in modo diverso: quelli di piccola taglia prevalgono al Nord, mentre quelli più grandi, spesso oggetto di critiche da parte del mondo ambientalista per la loro occupazione di ampi spazi di terreni liberi o agricoli, sono sorti soprattutto al Sud. Leader nazionale per potenza installata si riconferma la Puglia, con oltre 1.442 MW, mentre la prima in termini di numero complessivo di installazioni è la Lombardia, con oltre 35.900 impianti, seguita dal Veneto, con 33.400 impianti, e l’Emilia Romagna, che ne ha installati 22.823.
Grazie a questo vero e proprio boom di installazioni fotovoltaiche, l’Italia ha ormai superato Giappone, Spagna, Stati Uniti e Cina, ed al mondo è seconda solamente alla Germania, leader globale indiscussa in tutto ciò che concerne non solo l’energia solare, ma le tecnologie ambientali in generale. Proprio questo Paese ha dimostrato, in seguito alla scelta di abbandonare la strada del nucleare, che produrre abbastanza energia senza accollarsi i costi ed i rischi legati al funzionamento delle centrali atomiche è possibile. Già nel primo semestre del 2011, infatti, nella Repubblica Federale le fonti rinnovabili hanno fornito un quinto del fabbisogno energetico totale. Tornando all’Italia, le buone notizie non si limitano alla potenza installata, ma riguardano anche i costi: è infatti previsto il raggiungimento della cosiddetta “Grid Parity”, ossia la coincidenza tra il costo dell’elettricità prodotta da fotovoltaico e quello dell’energia ottenuta da fonti tradizionali, già tra il 2013 e il 2014. Il successo ed i riscontri del solare fotovoltaico rappresentano in effetti un bello schiaffo morale a tutti coloro che, negli ultimi anni, hanno continuamente affermato che solamente l’energia nucleare sarebbe stata in grado di soddisfare il crescente fabbisogno energetico del Paese. Per il professor Rossi Albertini, di conseguenza, proprio questa è “la riprova che le scelte in campo energetico sono dettate da miopia o lungimiranza politica, e non da impossibilità tecniche”. Per il ricercatore del CNR, però, la vera sfida inizia ora. È infatti questo il momento “di affrontare il discorso dello sviluppo delle nuove fonti rinnovabili, ancora più ecocompatibili e molto più economiche delle tradizionali, perché la transizione, oltre che salutare, sia anche vantaggiosa”. “Il nostro futuro energetico nei prossimi venti anni dipende dalle scelte che facciamo ora”, aveva dichiarato in altre circostanze il professore: “L’energia è il problema principale delle società avanzate, insieme a quello delle materie prime, anzi è ancora più fondamentale di queste”. Infatti, se le materie prime sono in qualche modo “intercambiabili”, l’energia è insostituibile. “Bisogna quindi evitare di fare solo battaglie di retroguardia, attenendosi a vec-
chi schemi, spesso superati dall’evoluzione tecnologica”, ricorda il ricercatore: “Sono palliativi che rinviano il problema di venti o trent’anni, ma non ne rappresentano la soluzione”. Perché non rivolgersi allora “alla scienza del terzo millennio per risolvere gran parte del problema o, almeno, impostarne correttamente la soluzione?”, si chiede Rossi Albertini. Del resto, “Oggi facciamo cose inimmaginabili anche solo venti anni fa”. Per lo scienziato il primo reattore nucleare, costruito da Enrico Fermi nel 1942, non ha visto nelle successive generazioni delle rivoluzioni tecnologiche, ma solo semplici migliorie. “Al contrario, la ricerca scientifica attuale, la scienza dei materiali, le nanotecnologie, l’elettrochimica, la meccatronica, possono essere la risposta cercata”, fa presente il primo ricercatore del CNR: “È questo il futuro, anzi il presente, delle fonti rinnovabili”.
Solare, energia più sicura
Nel fotovoltaico secondi solo alla Germania. Parla il professor Valerio Rossi Albertini, fisico, chimico e autorevole ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)
Due anni fa, hanno installato il primo impianto fotovoltaico sul sito di Fiume Santo, nel Nord-Ovest della Sardegna. Erano oltre 10 mila metri quadrati di pannelli solari per una capacità complessiva di 1,4 MW. Ne hanno costruiti altri, nelle province di Taranto, Alessandria, Pavia e Viterbo. Ora E.ON, tra i più grandi gruppi energetici al mondo a capitale interamente privato, da qualche stagione molto attivo in Italia, si è impegnato nello sviluppo di progetti a energia solare su larga scala e ha avviato la costruzione di due nuovi impianti che puntano sulle grandi condizioni d’irraggiamento (il nord della Sardegna è ai primi posti nazionali per ore di luce all’anno), localizzati accanto all’impianto termoelettrico di E.ON. a Fiume Santo. I due nuovi impianti, Fiume Santo 2 (FS2) e Fiume Santo 5 (FS5) avranno rispettivamente una capacità di 17,88 MW e 11,8 MW, portando complessivamente l’intera zona a superare i 30 MW. Fiume Santo 2 sarà il più grande impianto al mondo mai realizzato da E.ON. nel solare. Situati nell’area di Porto Torres, FS2 e FS5 utilizzano moduli fotovoltaici al silicio cristallino. A pieno regime, i due impianti genereranno in totale energia sufficiente a soddisfare il bisogno annuale di circa 20mila famiglie ed eviatre le emissioni di 36 mila tonnellate di CO2. Durante i lavori di costruzione delle due centrali, iniziati nello scorso giugno, saranno impiegate circa 100 persone. “La Sardegna si confema il focus primario per lo sviluppo del fotovoltaico in Italia – ha dichiarato Miguel Antonanzas, presidente e amministratore delegato di E.ON Italia – I nostri obiettivi di breve termine sono di accrescere ulteriormente il parco produttivo del fotovoltaico nella regione dando impulso alle attività locali e allo sviluppo del territorio con attività rinnovabili per i prossimi anni. In virtù dell’accordo siglato lo scorso anno con la regione Sardegna, rinnoviamo il nostro impegno a sostenere la ricerca sulla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili per i prossimi tre anni presso l’università di Sassari”. E non è il solo accordo siglato sulle fonti rinnovabili, un altro è stato firmato a giugno con la Regione Umbria, inaugurando una collaborazione per la produzione di energia verde a minor costo e a basso impatto ambientale. Ma c’è anche l’energia del vento. Nell’eolico, E.ON – che a livello globale ha maturato un’esperienza consolidata sia nella produzione dell’onshore che nell’offshore, (Roscoe in Texas, il più grande parco eolico onshore al mondo e London Array sull’estuario del Tamigi che, una volta completato, diventerà il più grande parco offshore al mondo)in Italia cont circa 300 MW di potenza installata. E.ON. sta sviluppando, inoltre, un nuovo parco di oltre 30MW a Alcamo, in Sicilia, con un investimento di circa 60 milioni di euro che sarà in grado di ridurre le emissioni di CO2 di 50mila tonnellate e che porterà la capacità installata a 328 MW entro fine anno. (f.d.l.)
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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
L’Autostrada dell’Energia L
a rete elettrica del futuro diventa una grande autostrada verde. Non è merito di Shrek o dei marziani. Quanto delle scelte di Terna, il gestore della rete di trasmissione dell’energia elettrica, che ha puntato decisamente verso la tecnologia, il design e la cultura dell’ambiente. Probabilmente una delle più grandi scoperte dell’umanità, l’elettricità, aiuta la nostra vita quotidiana, durante tutta la giornata, da quando spingiamo l’interruttore e accendiamo la luce o quando inseriamo la spina nella presa e facciamo partire lavatrice, televisione, computer. A differenza del cibo, del petrolio o dell’acqua, l’energia elettrica non si può immagazzinare ma va prodotta nel momento stesso in cui viene trasmessa. Così gli algoritmi di gestione permettono di mantenere in costante equilibrio la carica di energia elettrica tra produzione e consumo. E la rete nazionale -paragonabile a una grande struttura autostradale con stazioni di trasformazioni (ossia svincoli e incroci) e sottostazioni di smistamento (ossia caselli e aree di servizio) - deve essere duttile, potente, tecnologicamente all’avanguardia. Per questo, dopo il blackout del 2003 che mostrò le crepe del sistema elettrico italiano, si è deciso di migliorare la rete, rendendola più fluida e capillare, più elastica e intelligente. L’eccellenza tecnologica perseguita da Terna converge in un’unica direzione, quella di una rete della trasmissione elettrica all’avanguardia, dove le interconnessioni con cavi terrestri e sottomarini avranno un ruolo centrale. La Rete di Trasmissione Nazionale è già ‘smart’: oltre 63.000 km di linee elettriche che raggiungono l’intero territorio italiano garantendo parità di accesso a tutti i produttori e utenti, assicurando nel contempo un servizio elettrico sicuro, continuo e con elevati standard qualitativi, al top delle best practice europee. In particolare, la Smart Grid di Terna soddisfa le esigenze di flessibilità, economia e affidabilità dei consumatori; assorbe energia da qualsiasi punto venga prodotta e la trasferisce con flussi bi-direzionali ad altre aree in deficit e permette di effettuare ogni azione in tempo reale e in modo dinamico, attraverso innovativi sistemi di comunicazione e un avanzamento tecnologico che consente di mantenere elevati standard di sicurezza e generare efficienza per il sistema elettrico, a beneficio di imprese e cittadini. Questa modernizzazione si è concentrata quest’anno su tre opere principali, tre grandi linee elettriche con un piede già nel futuro: “Chignolo Po-Maleo”, “Sorgente-Rizziconi” e SA.PE.I.. La prima di queste si trova in Lombardia, in un’area con un alto fabbisogno d’energia: 24 chilometri di elettrodotto a 380 kV tra Pavia e Lodi, un’infrastruttura d’eccellenza dove le innovazioni tecnologiche tengono conto dell’aspetto estetico e funzionale. Protagonista assoluto della nuova linea elettrica è il palo monostelo che verrà utilizzato per circa il 70% dell’intera opera. Si tratta di un nuovissimo traliccio a basso impatto ambientale, che permette di ridurre di 15 volte l’area di territorio occupata dalle linee e l’ingombro al suolo dei sostegni (da 150 mq di un traliccio tronco-piramidale a 10 mq),. I sostegni installati sono stati progettati, e utilizzati per la prima volta, appositamente per sostenere elettrodotti a 380 kV su terreni montuosi e impervi e per permettere curve e cambi di direzione della linea per meglio adattarsi al territorio. La velocità del montaggio è un altro dei record del nuovo elettrodotto: il tempo per l’installazione di un sostegno monostelo si riduce di oltre 10 volte rispetto a quello necessario per il traliccio tradizionale (poche ore contro una media di 5 giornate). I monostelo, infine, richiedono l’utilizzo
Terna S.p.A. - Rete Elettrica Nazionale www.terna.it
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prevalente di mezzi meccanici (elicotteri o gru), riducendo o addirittura eliminando le lavorazioni in quota da parte del personale operaio con un notevole aumento della sicurezza. L’elettrodotto “Sorgente-Rizziconi” è un concentrato di moderne tecnologie che si sviluppa linearmente per oltre 100km trasportando fino a 2000MW di potenza, con il collegamento sottomarino più lungo del mondo in corrente alternata, con un tratto di 38 km (su una lunghezza totale di 105 km) sotto le acque del Tirreno che aggira lo stretto di Messina e unisce la rete elettrica siciliana a quella del continente, tramite la Calabria. Il nuovo ‘ponte sotto lo Stretto’ avrà un ruolo di primo piano nello sviluppo del settore dell’energia “verde” e porterà notevoli benefici per il sistema elettrico. La linea elettrica consentirà, infatti, la connessione alla rete siciliana di un maggior numero di centrali eoliche, in forte espansione in Sicilia e in tutta l’area meridionale, con la conseguente possibilità di esportare dall’isola verso il continente produzione rinnovabile (eolico e fotovoltaico) per oltre 700 MW e renderà più efficiente la gestione dei flussi delle centrali presenti nel Sud Italia. Notevoli i vantaggi per l’ambiente grazie ad una vasta e incisiva opera di bonifica della rete elettrica: la “Sorgente-Rizziconi” permetterà di dismettere oltre 170 km di linee aeree obsolete (87 nel lato siciliano e 85 in quello calabrese), pari complessivamente a 540 vecchi tralicci, riducendo in modo significativo l’impatto delle infrastrutture elettriche nei territori coinvolti. Ciò consentirà anche di liberare dal vincolo di servitù dell’elettrodotto 264 ettari di territorio, pari ad oltre 350 campi da calcio e di evitare emissioni di CO2 in atmosfera per 670 mila tonnellate annue. Il collegamento diretto tra Sardegna e Penisola Italiana, cosiddetto SA.PE.I, è il punto d’arrivo di un processo di sviluppo virtuoso nonché una eccellenza elettrica in ambito nazionale e mondiale. Il SA.PE.I., infatti, oltre ad essere la più importante e tecnologicamente avanzata linea elettrica ad alta tensione mai realizzata in Italia, è il cavo elettrico sottomarino più profondo del mondo (1.640 metri) e il più potente alla potenza di 1.000 MW e. Il collegamento è, in ordine di tempo, il 3° cavo sottomarino dopo il SA.CO.I. (1967) tra Sardegna e Toscana via Corsica e il cavo Italia-Grecia (2001) - che consente alla rete italiana l’interscambio di energia elettrica con altre reti, nazionali e internazionali, tramite la tecnologia HVDC (High Voltage Direct Current – Impianti ad alta tensione in corrente continua). Il SA.PE.I., autorizzato nel tempo record di 14 mesi, unisce le due più grandi stazioni elettriche di conversione in Italia: quella di Fiume Santo in Sardegna, di ben 48.000 mq e quella di Latina, situata su un’area di 35000mq. L’infrastruttura vanta anche un record di sostenibilità: la posa dei cavi è stata no-impact, ovvero nel rispetto degli ecosistemi mediterranei e con il minor impatto ambientale possibile. Il cavo consente una riduzione annua di oltre 500 mila tonnellate di CO2 in atmosfera per effetto del maggior utilizzo di energia rinnovabile. Ma il SA.PE.I. non è solo un punto d’arrivo, anche il primo tassello del cosiddetto “Progetto Insula” che nasce con l’obiettivo di potenziare la rete che unisce la Sicilia, l’Elba e Ischia alla penisola attraverso un network di cavi sottomarini
innovativi e tecnologicamente sofisticati, e realizzare un nuovo “ponte elettrico” sottomarino per Capri e tra Capri e Ischia. Allo studio anche il progetto di ammodernare il collegamento esistente tra Sardegna, Corsica e Toscana. Escluso il SA.PE.I., l’ammontare complessivo degli investimenti è di oltre 1,4 miliardi di euro, in linea con il Piano di Sviluppo. Quanto al SA.PE.I. la tecnologia HVDC, che interessa linee in corrente continua e solitamente usata per potenze elevate, anche superiori a 1.000 MW, viene progettata per la trasmissione di grossi carichi di energia elettrica su lunghe distanze e permette il controllo rapido e accurato del flusso di energia per quanto riguarda livello e direzione. Tale sistema di trasmissione, nelle lunghe distanze, risulta competitivo dal punto di vista economico rispetto alle linee elettriche in corrente alternata. In sintesi i benefici della tecnologia HVDC sono: minori costi, maggiore affidabilità e riduzione degli impatti ambientali delle reti di trasmissione. Per Flavio Cattaneo, amministratore delegato della società “Terna, grazie alla ottimizzazione dei flussi di energia e alla forte accelerazione nello sviluppo della rete, ha fatto risparmiare al sistema elettrico italiano circa 3 miliardi nel periodo 2005-2010; altri 9 miliardi ne farà risparmiare nei prossimi 15-20 anni” puntando sui nuovi sistemi di accumulo, ideati per garantire il pieno utilizzo delle fonti rinnovabili. Uno slogan di successo diceva che l’Italia ha un cuore verde, con lo sviluppo delle nuove reti elettriche altamente tecnologiche e a basso impatto ambientale, ha anche un sistema di arterie e vene verdi per quel paese che veniva chiamato il giardino d’Europa..
I primi passi della rete del futuro, sicura e sostenibile, di Terna. Con la messa in opera dei tre nuovi impianti -SAIPEI, Chignolo Po-Maleo al nord e Sorgente-Rizziconi al sud - ad alta tecnologia
Un operaio al lavoro sui nuovi tralicci, trasportati anche da grandi elicotteri. In basso l’approdo del grande cavo sulla spiaggia dello Stretto
Piccola grande auto elettrica [FRANCESCO PATERNÒ]
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ono passati quattro anni e mezzo e quasi duecentomila chilometri percorsi da quando l’hanno comprata, e l’unico problema serio lo hanno avuto nel centro storico di Roma, il cosiddetto tridente. Andando a passo d’uomo, i tassisti che girano su una Toyota Prius, auto ibrida, rischiano di investire i passanti che non sentono arrivare il veicolo, troppo silenzioso in modalità elettrica. Per la nuova generazione di auto soltanto a batterie, i costruttori stanno studiando un sistema di avviso acustico ad hoc, per risolvere il problema. Che sarà pure il più banale per lo sviluppo e la diffusione della macchina a zero emissioni (Ev), ma è spia di quanta strada in salita questo nuovo tipo di mobilità stia affrontando per affermarsi in Italia e nel mondo. Nella primavera del 2007, la Toyota fece un’offerta considerata irresistibile da molti tassisti di Roma e Milano per acquistare una Prius, 20.000 euro secondo la versione, garantita 200.000 chilometri o cinque anni e con tagliandi fino a 90.000 chilometri compresi nel pezzo. L’ibrida giapponese si è nel frattempo evoluta, arrivando a una versione plug-in, cioè sempre con un motore a benzina affiancato a uno elettrico, ricaricabile però da una semplice presa domestica. Ma sempre a Ro-
Ma la Cina va a Suv Nonostante il livello di motorizzazione sia la metà di quello delle nazioni occidentali, è la Cina il Paese che oggi vanta il più alto numero di veicoli circolanti. Grazie al boom di vendite del 2010, con 35 milioni di veicoli (quasi 100mila al giorno) che si sono aggiunti alle già congestionate strade delle metropoli cinesi, i veicoli attualmente in circolazione sul pianeta hanno superato il miliardo di unità. La brutta sorpresa, per chi sperava di vedere nel gigante asiatico il pioniere della mobilità sostenibile, è che, nonostante i sussidi governativi, nella Repubblica Popolare hanno molto più successo gli Sport Utility Vehicle (Suv) delle auto ibride o elettriche: nel 2010 ne sono stati infatti venduti 850mila (24% in più rispetto all’anno precedente), inclusi 425 Hummer, contro pochi esemplari di veicoli “verdi”. L’insuccesso più eclatante? Quello di Toyota Prius, il modello di auto ibrida più popolare al mondo, che dai 200 esemplari venduti nel 2009 è crollata ad un solo modello venduto in Cina nel corso dell’intero 2010. Nonostante aiuti pubblici da 6.500 euro per i veicoli elettrici puri e da circa 5.300 euro per quelli a propulsione ibrida, secondo la società di consulenze IHS Automotive di Shangai gli acquirenti considerano le auto tradizionali meno costose e più affidabili. Ne è un chiaro esempio l’incredibile crollo di vendite della Prius. Nello sfacelo della mobilità verde, in Cina c’è però chi sta vivendo un periodo florido. Marchi come Audi, Bmw e RollsRoyce hanno visto i propri profitti schizzare alle stelle. Ma il record di vendite è di Mercedes, che proprio grazie al mercato cinese ha celebrato all’inizio del 2011 il più alto numero di auto vendute in un singolo mese dalla sua fondazione, avvenuta circa 110 anni fa. Gli ambientalisti della Repubblica Popolare sono in allarme. Nel loro Paese i livelli di traffico sono già tali da superare ogni limite di inquinamento consentito, tanto che a Pechino si stanno prendendo misure per limitare il rilascio delle patenti di guida. In Cina oggi solo una persona su 16 possiede un’auto. È facile immaginare cosa succederebbe se si dovessero raggiungere i livelli degli Usa, dove tre persone su quattro hanno un’auto: la Repubblica Popolare si troverebbe con 900 milioni di veicoli in più, quasi l’intero parco auto mondiale odierno. Una prospettiva inquietante. Non solo per gli ambientalisti. (Andrea Bertaglio)
ma c’è oggi di meglio, ecoentusiasticamente parlando: la Citroen ha appena venduto al comune di Roma 14 C-Zero (valore di listino 500.000 euro), auto completamente elettriche che il costruttore francese produce insieme alla sorella Peugeot (la gemellina iOn) e al partner Mitsubishi (la capostipite iMiev). Dieci C Zero andranno a sostituire le macchine più vecchie e inquinanti del parco della polizia municipale, quattro sono state messe a disposizione dell’Osservatorio per i cambiamenti climatici del Dipartimento ambiente. La C Zero ha bisogno di colonnine di ricarica per poter circolare; a Roma ce ne sono 40, nate in collaborazione tra comune, Acea ed Enel, altre 60 sono promesse entro la fine dell’anno, altre 100 nel futuro prossimo. La collaborazione è la chiave di volta per la diffusione dell’auto elettrica, ancora costosa perché i consumatori puntino decisi all’acquisto. La Renault, il costruttore mondiale che insieme alla controllata Nissan è oggi più avanti nel settore, si muove da tempo su questa strada , stringendo accordi direttamente con i comuni (Firenze, per esempio), o più facilmente con le utilities come A2A, Enel, Hera ed Eni per gettare basi concrete a favore di una mobilità più sostenibile. La Renault ha appena presentato i primi due modelli elettrici che venderà dall’inizio del 2012: la Kangoo, in versione commerciale destinata per le sue dimensioni al trasporto merci nei centri urbani, e la Fluence, berlina di segmento C con cui occhieggia alle flotte aziendali. Per gli utenti privati, a seguire ci sarà la Twizy, un incrocio tra auto e moto dal prezzo molto accessibile, e la berlina compatta Zoe. L’Italia è il paese europeo più indietro sui progetti di mobilità elettrica. Non solo perché la Fiat, unico attore nazionale, ha continuato a puntare dritto sulla riduzione di consumi ed emissioni dei motori termici, accantonando soluzioni ibride ed elettriche. L’assenza della politica ha fatto la sua parte: da tempo giace
in parlamento una proposta di legge, diventata nel frattempo bipartisan (firmatari gli onorevoli Ghiglia, Lulli e Scalera) a favore di un piano di sviluppo di auto a zero emissioni. La proposta, che continua a essere emendata, dovrebbe andare in discussione in novembre, ma allo stato attuale sembra una batteria scarica e lontana da una colonnina di ricarica: mancano infatti i soldi per sostanziarla e, in tempi di tagli e politiche di bilancio sempre più restrittive, rischia di restare ferma. Contiene certamente belle intenzioni, cose già diventate legge e finanziamenti in quasi tutta Europa. Nella proposta si prevede un incentivo statale all’acquisto di auto a zero emissioni di 5.000 euro, a scalare negli anni; finanziamenti pubblici per la diffusione di colonnine di ricarica; obbligo di dotarsi all’origine di sistemi di ricarica per le nuove costruzioni; agevolazioni per gli adeguamenti degli edifici preesistenti, lì dove è possibile. La proposta esclude per ora incentivi alle auto ibride tipo Prius o Peugeot 3008 Hybrid 4 (la prima ibrida diesel-elettrica del mercato, in vendita da dicembre), ma gli emendamenti non finiscono mai e potrebbero esserci sorprese. Il mondo va in questa direzione, se è vero che entro il 2020 si prevede che il 15% del mercato dell’auto sia composto da elettriche ed ibride. Dipende molto dalla curva che prenderà il prezzo del petrolio, ma anche dalle proposte dei costruttori, oggi finalmente tutti o quasi impegnati nella nuova gara. Carlos Ghosn, numero uno del gruppo Renault-Nissan (4 miliardi di euro investiti sullo sviluppo dell’auto elettrica), presenziando al recente lancio della Kangoo e della Fluence Z.E., insiste nel sostenere che entro il 2020 sarà il 10% del mercato mondiale a essere Ev. Anche perché, dice, la Cina sta per dare il suo contributo massimo alla causa comune, investendo miliardi su un settore che ha bisogno di grandi numeri per abbattere i costi e trasmettere una cultura diversa. Nel frattempo, si accontenta del primato della Nissan Leaf, l’auto elettrica oggi più venduta del mondo con le sue 15.000 unità (in Italia arriverà nel gennaio del 2012). Insomma, assenza della politica italiana a parte, ci sono molto certezze in più che questa volta non finisca come per la prima elettrica della Gm. Era il 5 dicembre del 1996, quando in soli 24 dealer della California e dell’Arizona il costruttore americano offrì in leasing (non in vendita) per 34.000 dollari la Saturn EV1, due posti, velocità massima 120 chilometri all’ora, autonomia di 140 chilometri (100 in città) garantita da ben 26 batterie, tempo stimato per ogni ricarica 3 ore. L’esperimento di mercato finì poco dopo, troppo piccolo per non fallire. Ma tre lustri dovrebbero bastare per cambiare pagina sul serio.
Gioie e dolori dei veicoli a zero emissioni, il nostro domani. In Italia c’è una proposta di legge che ha bisogno di essere ricaricata
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gli ecoprofughi sono da salvare [Geraldina Colotti]
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3.400 km a nord est dell’Australia, c’è un piccolo arcipelago nell’oceano Pacifico in cui abitano oltre 11.000 persone: la monarchia parlamentare di Tuvalu, il terzo paese meno popolato al mondo. Uno stato che comprende otto atolli corallini e si estende per 26 chilometri quadrati, membro dell’Onu dal 2000. Per effetto del cambiamento climatico, il livello dell’acqua si alza ogni anno almeno di 6 millimetri, mettendo a rischio i 10.000 abitanti che vivono sulle isolette, a non più di due metri sopra il livello del mare. Nel maggio 2004 – ricorda Valerio Calzolaio nel volume Ecoprofughi (Nda press) – circa 3.000 donne e uomini di Tuvalu sono ufficialmente diventati dei potenziali profughi climatici. Una situazione comune agli abitanti di altri piccoli arcipelaghi-stato i quali, all’interno dell’Alleanza degli stati insulari (che oggi ne conta 42) chiedono passi concreti durante le Conferenze sul clima. Dall’approvazione del Protocollo di Kyoto (1997), i governi di Tuvalu e delle Maldive hanno prodotto ricerche e suggerimenti utili a livello generale. All’ultimo vertice di Copenhagen hanno chiesto con forza misure globali contro il riscaldamento climatico, in buona parte imputabile – secondo molti scienziati - ai gas a effetto serra immessi nell’atmosfera dalle attività umane. In quella occasione, la questione dei “rifugiati climatici” è apparsa in tutta la sua drammaticità. Nel 1995, si calcolava che i profughi ambientali fossero 25 milioni e che, nel 2050, sarebbero diventati da un minimo di 50 a un massimo di 200 milioni. Ora sono già 50 milioni. Nelle aree del mondo particolarmente esposte al degrado dell’ambiente e degli ecosistemi, nelle zone devastate dai conflitti neocoloniali per il controllo delle risorse, le popolazioni sono indotte a migrazioni forzate in numero sempre crescente. La Convenzione di Ginevra del 1951, che definisce lo statuto di rifugiato nel diritto internazionale, non prevede ancora la nozione di “rifugiato climatico”: un quadro giuridico che invece permetterebbe misure coordinate a livello internazionale basate su un principio di giustizia climatica. Una discussione aperta su un problema di ampia portata, che Calzolaio – ex sottosegretario al Ministero dell’Ambiente nei passati governi di centrosinistra – analizza nei suoi passaggi storici. Dentro e fuori le sedi Onu, si discute anche la bozza di una Dichiarazione universale dei beni comuni, della terra e dell’umanità, “della terra come madre sempre fertile della biodiversità e dell’umani-
tà”, dice Calzolaio. Basi per un “nuovo patto di sopravvivenza della specie” che non può più aspettare. Altri due ex esponenti di governo, Fausto Bertinotti e Patrizia Sentinelli, firmano la prefazione al libro La guerra dell’acqua e del petrolio, a cura di Gianni Tarquini, edito da Edilet. Un libro di saggi e interviste su un nuovo modo di gestire le risorse naturali messo in campo dai governi progressisti in America latina: nello specifico in Bolivia e in Ecuador, paesi a forte componente indigena. La nuova costituzione dell’Ecuador – approvata dal governo di Rafael Correa il 28 settembre 2008, attraverso un referendum con il 65% dei voti a favore – contiene ben 440 articoli, molti dei quali dedicati alla Madre Terra (la Pacha Mama). La Magna Carta tutela un nuovo patto per il governo delle risorse basato su un cambio di paradigma: sovranità e ripartizione sociale, ricerca di un nuovo modello energetico sostenibile e condiviso. Prima di intervenire per lo sfruttamento delle risorse naturali, lo Stato e le imprese private devono consultare gli amministratori dei territori. E i destini del pianeta vengono prima del profitto. Per indicare la strada, l’Ecuador ha lanciato il progetto per la salvaguardia del parco naturale Yasuni. Situato nell’est del paese, nella regione amazzonica, il parco è un gioiello ambientale protetto dall’Unesco, che si estende per quasi 10.000 km quadrati e contiene oltre 1.500 specie di alberi, 567 di uccelli, 173 di mammiferi, più di 100.000 specie di insetti. In un solo ettaro sono state catalogate più specie di alberi di quanti non se ne contino negli Stati uniti. Un territorio che, però, custodisce nel sottosuolo anche una riserva di petrolio pari a oltre 800 milioni di barili. Una scoperta tutt’altro che trascurabile per un paese che basa la sua economia soprattutto sull’esportazione di crudo. Eppure, nel 2007, Correa ha fatto al mondo una
proposta importante: quel petrolio – ha detto – lo lasciamo dov’è, a condizione che gli altri stati risarciscano in parte e progressivamente la nostra perdita economica: 3,5 miliardi di dollari nei prossimi 13 anni, la metà del valore del petrolio. Un progetto per salvare la biosfera (l’estrazione di greggio causerebbe l’emissione di oltre 400 milioni di tonnellate di Co2) che sta lentamente trovando ascolto. Il volume ricostruisce anche la battaglia per il controllo delle risorse idriche che ha infiammato la regione di Cochabamba, in Bolivia, nel 2000. Prove di nuova società che porteranno alla vittoria di Evo Morales, nel 2005. Una vittoria temuta e avversata dai grandi decisori internazionali, come ha appurato il Tribunale permanente dei popoli (Tpp) in una sessione sull’Unione europea e le imprese transnazionali in America latina, realizzata a Madrid nel 2010. Nella dichiarazione finale – di cui il volume dà conto – il Tpp riconosce “l’esistenza di gravi violazioni di diritti umani quali il diritto all’accesso ai servizi essenziali (acqua, energia), alla terra, alla sovranità alimentare, ai diritti dei lavoratori, dei popoli indigeni, dell’ambiente e ai diritti civili e politici. Le responsabilità – dice – sono plurime: grandi im-
prese dell’energia, dell’acqua, delle miniere, e poi governi europei, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, fautori di accordi bilaterali asimmetrici… Sopravviverà la specie umana alla fine del petrolio, s’interrogava qualche anno fa il geologo Jeremy Leggete? Una domanda che percorre un importante lavoro di riflessione condotto dal semestrale dell’Istituto storico di Modena, “900”. Il N. 88 della rivista s’intitola La fine del petrolio. Risorse energetiche e democrazia nell’età contemporanea, a cura di Elisabetta Bini e Simone Selva (L’Ancora del Mediterraneo). Un insieme di saggi che affronta grandi questioni storiografiche quali il passaggio epocale dal carbone al petrolio; l’affermarsi in Medioriente degli interessi petroliferi statunitensi; l’importanza dei paesi produttori di petrolio nel contesto della decolonizzazione; le ricadute sociali che ha avuto la cosiddetta “età del petrolio”; le relazioni internazionali… Un saggio di David Webster presenta un interessante caso di pianificazione economica nella provincia canadese del Saskatchewan. Lì, fra gli anni ’40 e ’60, durante la Guerra fredda, il governo mise in discussione le attività di alcune grandi corporations cercando di favorire il controllo dello stato sulle proprie risorse energetiche e il costituirsi di compagnie petrolifere nazionali. E funzionò. Michel Watts analizza invece le problematiche sociali, politiche e ambientali legate all’estrazione del petrolio nel delta del Niger, e offre un quadro storico della Nigeria: un paese dipendente dalle risorse petrolifere che però non hanno prodotto sviluppo, ma aumento del divario economico fra le classi sociali. L’oil assemblage nigeriano – dice Watts – è un mondo di illusione, alienazione umana e disastro ambientale. Un universo “di frode e inganno a danno di ambiente ed esseri umani”, potenzialmente esplosivo “sotto tutti i punti di vista”.
L’ecoconsumatore Come può il consumatore riconoscere un prodotto realmente sostenibile da uno che non lo è? Nei punti vendita Coop, una mostra fotografica in tredici pannelli – sulla base di un progetto europeo sull’ambiente, chiamato “Promise”, in collaborazione con la regione Liguria , la regione Lazio, la Confindustria Ligure, Ervet Emilia Romagna e altri - informa e prova a sensibilizzare il consumatore sulla validità di scelte di consumo sostenibili. “Promise” è il progetto cofinanziato dall’Unione europea con l’idea di promuovere una maggiore diffusione dei prodotti sostenibili, attraverso una comunicazione ambientale più trasparente. Il progetto ha l’obiettivo di coinvolgere consumatori, produttori, pubblica amministrazione e distribuzione per attivare un ciclo virtuoso verso un’economia ecocompatibile. Informazione che accompagna iniziative concrete e chiare per i consumatori, come trovare sugli scaffali etichette energetiche, marchi di certificazione ambientale e sociale, scritte e simboli sulle confezioni dei prodotti che segnalano che è “riciclabile” o “degradabile”.
Libri: da Tuvalu a Copenaghen, la questione dei rifugiati climatici. E le ragioni delle guerra del petrolio e dell’acqua
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