Qualsiasi cosa è meglio del vuoto di Michael Uras Illustrazione di copertina di Vincenzo Sanapo
La casa a destra di quella di mia nonna è rossa, quella di sinistra è blu. Quella che si trova di fronte alla porta d'ingresso è gialla. La nostra è verde. Niente è più colorato del nostro spazio vitale, niente sembra più gioioso del nostro paesello. A parte il fatto che la gente ha i capelli tagliati male, i denti mal disposti e gli abiti usati. Il Capitano aveva delle camice a immagine delle case. I più giovani, dei quali facevo parte, non lo avevano mai visto conciato diversamente. Sembrava un gruccione, quel piccolo uccello multicolore che ama nidificare sui pali elettrici. Alla guerra, si diceva, aveva compiuto la sua più grande prodezza, come testimoniavano le immense placche di ferro che coprivano il suo petto. Aveva combattuto il nemico, salvato delle vite, fatto esplodere dei ponti, distrutto degli aerei, strangolato un capo avversario a mani nudi e molte altre cose ancora. Ma la guerra era finita. Si arriva sempre alla fine di una buona torta, anche se si rallenta il ritmo tra un boccone e l’altro. Il Capitano voleva senza dubbio una guerra infinita, una sorta di guerra dei cent’anni moderna. Gli uomini avevano deciso diversamente, facendo di lui un eroe – poiché gli eroi esistono solo alla fine dei combattimenti – dalle camice colorate ma dallo sguardo nostalgico. Ai musi rotti che ritornarono dal fronte portatori di una gloria effimera, si voleva far credere che li avremmo integrati nella società, sposati, maritati, trasformati in padri. Illusioni. Bevevano da soli, col loro bicchiere, attorno a un tavolo. Il Capitano aveva la faccia intatta ma non si sapeva bene cosa farne di lui. Le cerimonie passate, i fiori offerti e le felici donne restituite, si era ritrovato davanti al suo specchio, senza nessuno. Per diverse settimane, era andato avanti e indietro per le strade del villaggio col suo magnifico abito da combattente, come se temesse che i tedeschi o gli americani ritornassero a finire il lavoro. Perché i nemici erano stati gli alleati e viceversa. Difficile capirne qualcosa in quella situazione. In gennaio il Capitano chiedeva ai suoi uomini di attaccare gli inglesi, in febbraio le cose si erano evolute così tanto che bisognava, ora, mirare ai tedeschi. Se a questo si aggiungeva l’insularità e l’odio degli italiani del continente, i soldati dovevano tenere ben di conto per non sbagliare avversario. Schizofrenia italiana.
Il Capitano raccontava a chi non era ancora stanco delle sue storie che ci metteva due minuti, al risveglio, per « fare il punto della situazione », che voleva dire per non sprofondare nella follia. Ma la guerra era finita. A forza di non fare nulla tranne marciare, pensò che il suo abito ufficiale fosse di troppo. Così, giorno dopo giorno, un elemento della divisa spariva, sostituito da un altro più colorato. Nessuno si rendeva conto di nulla perché nessuno faceva davvero attenzione a lui. Ingratitudine dei popoli liberati nei confronti del liberatore. “Finiranno sicuramente col notarlo” si diceva. “Ero l’unico soldato del villaggio, sarò ben presto il solo abitante coperto di colori”. Un uomo come le case. Nel giro di una settimana, non restava più niente della sua uniforme. Rosso. Blu. Giallo. Verde. Dalla testa ai piedi. Il Capitano voleva mostrare a tutti che aveva finalmente voltato pagina dai suoi anni al fronte. Ma una pagina non era abbastanza, non aveva capito che i suoi vecchi camerati avevano chiuso il libro nel quale era intrappolato. Il sindaco del villaggio, ben cosciente dello sconcerto del suo amministrato più ricompensato, decise di convocarlo per proporgli una soluzione. “Caro Capitano”, gli disse “la situazione non è più sostenibile. Lei è impiegato nel nostro borgo. Devo, come primo magistrato, onorarvi.” Il Capitano pensò quindi: “Ancora una medaglia! Il mio petto è troppo stretto per riceverne un’altra. E quale medaglia? Le ho tutte: medaglia al merito, della gloria militare, del coraggio, della famiglia (anche se sono celibe e i miei genitori sono morti da così tanto tempo che mi ricordo appena di loro), nazionale, della città, del villaggio, della mia via. Medaglia della mia casa! Consegnata da me stesso, « noi siamo oggi riuniti in questa dimora per salutare le capacità culinarie della mia persona”. No, deve essere qualcos’altro. Il sindaco proseguì : « Sto per proporvi un posto degno di della vostra sublimissima
carriera”.
Dicendo questo, il suo grosso capo rosso sembrava contenere dieci cuori che battevano all’impazzata. “Lei accompagnerà, per ogni giorno delle vacanze scolastiche, i bambini del villaggio alla spiaggia. Il tragitto si farà in bus municipale. I bambini saranno sotto la vostra responsabilità totale e rispettosa. Lei ha la missione di formare i nostri giovani, di forgiarli come uomini, lei che è un vero esempio ai loro occhi”. Il Capitano non aveva mai sentito niente di così idiota. Neanche quando al fronte gli domandavano di andare a cercare dell’acqua per un soldato completamente devastato da un’esplosione e del quale si sapeva sarebbe morto presto – prima che fosse ritornato con la sua borraccia – lui eseguiva e ritornava carico d’acqua. Era stupido, lo sapeva. Ma sentire il sindaco proporgli di giocare alla maestra di scuola… gli avrebbe conferito la medaglia della stupidaggine! Comunque, poteva rifiutare? Il mattino era solo, a mezzogiorno pure, la sera anche. Nessuno bussava mai alla sua porta, se non per errore. Nessuno batteva mai alla sua finestra per chiedergli di venire il prima possibile. A casa sua non c’erano movimenti, nessuno spostamento d’aria provocato da un altro essere umano che non fosse lui. Come doveva essere bello sentire l’aria portata da una gamba femminile mentre lui leggeva il giornale, tranquillamente installato sulla sua poltrona. Una prova della sua esistenza. E i bambini? Non conosceva niente dei bambini, i bambini non fanno la guerra, ecco tutto quello che sapeva su di loro. Eppure, qualsiasi cosa era meglio del vuoto. Qualsiasi cosa era meglio del vuoto. Qualsiasi cosa era meglio del vuoto… « Signor Sindaco, lei mi fa un grande onore. Accetto questa missione con molto piacere.”
E’ così che, bambino, ho passato numerose giornate d’estate al suo fianco. Dal villaggio, è impensabile raggiungere la spiaggia del Lido a piedi. Alle due di pomeriggio, noi ci ritrovavamo sotto la pensilina bruciante. Il capitano
colorato ci calmava. La franca stretta di mano che ci accordava ci trasformava per un istante in adulti. Avevo paura di non essere più un bambino. Ma lo ridiventavo immediatamente appena alzava la voce. La paura e l’attrazione. Il colore e l’oscurità. Quando lo vedevo lentamente avvicinarsi a noi, la sua grande carcassa muscolosa all’orizzonte, la sua pelle bruna, i suoi denti bianchi, guardavo a destra e a sinistra per trovare tutte le uscite possibili. Un amico mi diceva allora “Non spaventarti, comunque, se ha deciso di ucciderti, nessun rifugio sarà abbastanza sicuro per salvarti da lui”. Il piacere di essere perso, offerto al più forte. Sorridevo. Arrivati alla spiaggia, il Capitano restava sul promontorio a guardarci. I suoi occhi non ci lasciavano un solo istante. Li sentivo su di me quando mi toglievo i vestiti. Su di me e ovunque, d’altronde. “Capitano, pensavo, i nemici sono partiti, la nostra misera terra non interessa più a nessuno, rilassatevi, venite a fare il bagno con noi”. Non venne mai. Un vero Drogo a contare le gocce, centrato sulla sua miserabile missione. “Chiamatemi Capitano” ci aveva buttato lì al momento del nostro primo incontro sotto la pensilina. Qualche anno più tardi, per testimoniare la mia riconoscenza, gli offrii un esemplare di Moby Dick. Era steso sul suo letto, sfinito da un inizio di vita troppo movimentato. Trent’anni a correre da per tutto. Poi, altri trent’anni ad attendere sul ciglio dell’abisso. In attesa della morte. Prendendo il romanzo di Melville, afferrò la mia mano e la strinse come ai tempi della pensilina. Le mie ossa scricchiolarono e i ricordi riaffiorarono in superficie. Il calore, gli amici, i colori e la paura. “Giacomo, mi disse, sono nel corridoio della morte, e non è più così lungo”.
Tout vaut mieux que le vide
La maison à droite de celle de ma grand-mère est rouge, celle de gauche est bleue. Celle qui se trouve en face de la porte d’entrée est jaune. La nôtre est verte. Traverser la rue c’est passer par toutes les nuances du spectre. Une plongé dans l’arc en ciel. Rien n’est plus coloré que notre espace vital, rien ne semble plus joyeux que notre village. Sauf que les gens ont les cheveux mal coiffés, les dents mal disposées et les habits usés. Le Capitaine avait des chemises à l’image des maisons. Les plus jeunes, dont je faisais partie, ne l’avaient jamais vu accoutré autrement.
Il
ressemblait à un guêpier d'Europe, ce petit oiseau multicolore qui aime se nicher sur les poteaux électriques. A la guerre, disait-on, il avait accompli les plus grands exploits, comme en témoignaient les immenses plaques de fer qui couvraient son poitrail. Il avait combattu l’ennemi, sauvé des vies, fait exploser des ponts, détruit des avions, étranglé un chef adverse à mains nus et beaucoup d’autres choses encore. Mais la guerre était finie. On arrive toujours au bout d’un bon gâteau, quand bien même on ralentit le rythme entre chaque bouchée. Le Capitaine voulait sans doute une guerre interminable, une sorte de guerre de cent ans moderne. Les hommes en avaient décidé autrement, faisant de lui un héros – car le héros n’existe qu’à la fin des combats- aux chemises colorées mais au regard nostalgique. Les gueules cassées revinrent du front porteur d’une gloire éphémère, on voulait leur faire croire qu’on allait les intégrer à la société, les épouser, les marier, les muer en pères. Illusion. Ils buvaient seuls, leur verre, autour d’une table. Le Capitaine avait la face intacte mais on ne savait pas trop quoi faire de lui. Les cérémonies passées, les fleurs offertes et les femmes joyeuses rentrées, il s’était retrouvé devant son miroir, sans personne. Durant plusieurs semaines, il avait arpenté les rues du village avec son magnifique costume de combattant, comme s’il redoutait que les Allemands ou les Américains ne reviennent finir le travail. Car les ennemis avaient été les alliés et vice versa. Difficile de comprendre quelque chose à cette situation. En janvier le Capitaine demandait à ses hommes d’attaquer les Anglais, en février, les choses avaient évolué si bien qu’il fallait à présent tirer sur les Allemands. Si l’on ajoutait à cela, l’insularité et la haine des
Italiens du continent, les soldats devaient tenir des comptes serrés pour ne pas se tromper d’adversaire. Schizophrénie italienne. Le capitaine racontait à ceux qui n’étaient pas encore lassés de ses récits qu’il prenait deux minutes au réveil pour « faire le point sur la situation », c’est-à-dire pour ne pas sombrer dans la folie. Mais la guerre était finie. A force de ne rien faire sinon marcher, il pensa que son habit officiel était de trop. Ainsi, jour après jour, un élément du costume disparaissait, remplacé par un autre plus coloré. Personne ne se rendait compte de rien car personne ne faisait vraiment attention à lui. Ingratitude des peuples libérés à l’égard du libérateur. « Ils vont bien finir par le remarquer » se disait-il. « J’étais le seul soldat du village, je serai bientôt le seul habitant couvert de couleurs ». Un homme comme les maisons. Au bout d’une semaine, il ne restait plus rien de son uniforme. Rouge. Bleu. Jaune. Vert. De la tête aux pieds. Le Capitaine voulait montrer à tout le monde qu’il avait enfin tourné la page de ses années au front. Mais une page ne suffisait pas, il n’avait pas saisi que ses anciens camarades de classe avaient refermé le livre dans lequel il était pris au piège. Le maire du village, bien conscient du désarroi de son administré le plus récompensé, décida de le convoquer afin de lui proposer une issue. « Cher Capitaine, lui dit-il, la situation’ est plus tenable. Vous êtes sousemployé dans notre bourg. Je me dois, en tant que premier magistrat, de vous honorer ». Le Capitaine pensa alors : « Encore une médaille ! Ma poitrine est trop étroite pour en accueillir une autre. Et quelle médaille ? Je les ai toutes : médaille du mérite, de la gloire militaire, du courage, de la famille (pourtant je suis célibataire et mes parents sont morts depuis si longtemps que je me souviens à peine d’eux), nationale, de la ville, du village, de ma rue. Médaille de ma maison ! Remise par moi-même, « Nous sommes réunis aujourd’hui en cette demeure pour saluer les capacités culinaires de ma personne ». Non, ce doit être autre chose.
Le maire poursuivit : « Je vais vous proposer un poste digne de votre sublimissime carrière ». Tout en disant cela, son gros coup rouge semblait contenir dix cœurs battant la chamade. « Vous accompagnerez chaque jour des vacances scolaires, les enfants du village, à la plage. Le trajet se fera en bus municipal. Les enfants seront sous votre responsabilité totale et respectueuse. Vous avez vocation à former nos plus jeunes, à les façonner comme des hommes, vous qui êtes un véritable exemple à leurs yeux ». Le Capitaine n’avait jamais rien entendu de si idiot. Même lorsqu’au front on lui demandait d’aller chercher de l’eau pour un soldat complètement ravagé par une explosion et dont on savait la mort imminente –avant qu’il ne soit revenu avec sa gourde-, il s’exécutait et revenait chargé d’eau. C’était idiot, il le savait. Mais entendre le maire lui proposer de jouer à la maitresse d’école…Il lui aurait décerné la médaille de la bêtise ! Cependant, pouvait-il refuser ?
Le matin il était seul, le midi également, le soir aussi. Jamais
personne ne frappait à sa porte, sauf par erreur. Jamais personne ne toquait à sa fenêtre pour l’inciter à rappliquer au plus vite. Chez lui, il n’y avait pas de mouvement, aucun déplacement d’air provoqué par un autre être humain que lui-même. Comme ce devait être bon de sentir l’air emporté par une jambe féminine pendant qu’il lirait le journal, paisiblement installé dans son fauteuil. Une preuve de sa propre existence. Et les enfants ? Il ne connaissait rien aux enfants, les enfants ne font pas la guerre, voilà tout ce qu’il savait d’eux. Pourtant, tout valait mieux que le vide. Tout valait mieux que le vide. Tout valait mieux que le vide…
« Monsieur le maire, vous me faites-là un grand honneur. J’accepte avec grand plaisir cette mission. » C’est ainsi qu’enfant, j’ai passé de très nombreuses journées d’été à ses côtés. Depuis le village, il était impensable de rejoindre la plage du Lido à pied. A 14 heures, nous nous retrouvions sous l’abribus brulant. Le capitaine coloré nous apprivoisait. La franche poignée de mains qu’il nous accordait nous transformait pour un instant en adultes. J’avais peur de
n’être plus un enfant. Mais je le redevenais instantanément quand il haussait la voix. La peur et l’attraction. La couleur et l’obscurité. Quand je le voyais approcher lentement vers nous, sa grande carcasse musculeuse à l’horizon, sa peau brune, ses dents blanches, je regardais à droite et à gauche pour voir les issues possibles. Un ami me disait alors « Ne t’inquiète pas, de toute façon, s’il a décidé de te tuer, aucune tanière ne sera jamais assez sûre pour te préserver de lui ». Le plaisir d’être perdu, offert à plus fort que soi. Je souriais. Arrivés sur la plage, le Capitaine restait sur le promontoire à nous regarder. Ses yeux ne nous quittaient pas un seul instant. Je les sentais sur moi quand j’ôtais mes vêtements. Sur moi et partout ailleurs. « Capitaine, pensais-je, les ennemis sont partis, notre terre minable n’intéresse plus personne, détendez-vous, venez vous baigner avec nous ». Il ne vint jamais. Un véritable Drogo à compter les gouttes, centré sur sa mission minable. « Appelez-moi Capitaine »
nous
avait-il
lancé
lors
de
notre
première
rencontre sous l’abribus. Quelques années plus tard, pour témoigner de ma reconnaissance, je lui offris un exemplaire de Moby Dick. Il était allongé sur son lit, épuisé par un début de vie trop mouvementé. Trente années à courir partout. Puis, trente autres années à attendre au bord du gouffre. Attente de la mort. En prenant le roman de Melville, il saisit ma main et la serra comme au temps de l’abribus. Mes os craquèrent et les souvenirs refirent surface. La chaleur, les amis, les couleurs et la peur. « Giacomo, me dit-il, je suis dans le couloir de la mort, et il n’est plus si long »