art philosophy visual culture
n.13 maggio-giugno 2018 freepress
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IL MURO Art, Philosophy and Visual culture
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rivista bimestrale
N. 13 maggio - giugno 2018 Direttore responsabile Luisa Guarino Direttore creativo Jamila Campagna Caporedattore Gaia Palombo Team grafico Ramona Moretto Francesca Busatto Foto editor e ricerca iconografica Jamila Campagna Gaia Palombo Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Silvia Arduino Francesca Attiani Francesca Busatto Jamila Campagna Valeria Martella Daniele Sartini Vera Viselli Redazione IL MURO via Veio 2 04100 Latina (Italy)
Museo del Cinema di Torino, a cura di Vera Viselli
8 CONTEMPORARY Gillo Dorfles, di Francesca Attiani
Napoli Comicon 2018, di Francesca Busatto
12 EXTRA Titoli di coda, un racconto di Daniele Sartini
14 MZK Intravista Daév. Messaggi in bottiglia dallo spazio, di Silvia Arduino
Mirkoeilcane. Il mondo Secondo Me, di Jamila Campagna
18 EXHIBIT Monet. Capolavori dal Musée Marmottan, di Vera Viselli
20 LA RECHERCHE Todd Hido. Ho visto cose che un ragazzo non dovrebbe vedere, di Valeria Martella
22 EXHIBIT I 70 anni della Magnum Photos a Roma, di Vera Viselli
Editore e Proprietario IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Contatti infoilmuro@gmail.com www.facebook.com/ILMUROmagazine www.ilmuromagazine.com Stampa Grafica Sabina di Urbanetti Francesco e C. Via Maglianello, 02046 Magliano Sabina (RI) Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) In copertina: Museo Nazionale del Cinema - Chapelle, Cinema sperimentale, dettaglio (Foto: Sabrina Gazzola)
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MUSEO DEL CINEMA DI TORINO
Museo Nazionale del Cinema - Archeologia del Cinema, Manifesto Cinématographe Lumière
di Vera Viselli
Era il 1941 quando Maria Adriana Prolo ebbe la primissima idea di costituire un museo che fosse interamente dedicato al cinema. Lei, nata nel 1908 a Torino e laureata in Storia e Letteratura, si avvicinò al cinema grazie ad un articolo, “Torino cinematografica prima e durante la guerra”, pubblicato nel 1938 sulla rivista «Bianco e Nero» - articolo del quale si può leggere qui un estratto alle pagine successive, ma che è comunque interamente consultabile sul sito del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma all'indirizzo http://www. fondazionecsc.it/UploadDocs/6228_BN_1938_10.pdf - e dedicato alle case di produzioni torinesi ed ai periodici di cinema dell’epoca. La Prolo iniziò così la raccolta e la conservazione di documenti e materiali riguardanti il cinema torinese. Nel 1953 venne anche fondata l’Associazione Culturale Museo del cinema con l’intento di “raccogliere, conservare ed esporre al pubblico tutto il materiale che si riferisce alla documentazione e alla storia delle attività artistiche, culturali, tecniche e industriali della cinematografia e della fotografia”. Il Museo venne aperto cinque anni dopo, nel settembre 1958, a Palazzo Chiablese. È a partire dal luglio del 2000 che il Museo è ospitato all’interno della Mole Antonelliana di Torino, e da allora i visitatori sono stati più di sette milioni. L’unicità che lo caratterizza è dovuta principalmente al ricco patrimonio delle sue collezioni ed alla particolarità dell’allestimento; quest’ultimo è articolato su molteplici livelli espositivi che mostrano la storia del cinema alternando manifesti, oggetti di scena, sequenze di film e scenografie - il tutto organizzato su una superficie di circa 3.200 mq. L’allestimento, curato da François Confino, è stato studiato tenendo conto dell’edificio ospitante e del crescendo, a vortice, della Mole, sovrapponendo i diversi livelli di lettura e cercando il giusto compromesso tra rigore scientifico e spettacolarità. Per quanto riguarda le opere conservate nel Museo, queste sono più di un milione e 700 mila, ed in molti casi si tratta di pezzi unici al mondo. Si contano: 950.000 fotografie, 530.000 manifesti e materiali pubblicitari, 8.900 memorabilia cinematografiche, 8.950 apparecchi, 10.850 manufatti artistici, 37.000 film (muti e sonori), 42.000 volumi, 138.000 riviste e fascicoli, 250.000 ritagli stampa, 1.350 partiture musicali, 4.800 registrazioni sonore cinematografiche. Da qualche anno, inoltre, il Museo è impegnato nel recupero e nel restauro delle pellicole andate perdute, con una particolare attenzione per il cinema muto italiano (soprattutto torinese), in collaborazione con la Cineteca del Comune di Bologna. Tornando alle collezioni presenti nel Museo, esse documentano due grandi filoni tematici: il PRE-CINEMA E FOTOGRAFIA STORICA e la STORIA DEL CINEMA. Per quanto concerne la prima, il patrimonio dei manufatti e delle testimonianze del pre-cinema è uno dei più importanti a livello internazionale: il panorama dei percorsi tecnici e spettacolari che contribui-
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rono alla nascita del cinema è molto ampio, ed al contempo è presente una collezione di testimonianze sulla nascita della fotografia. Il secondo filone, invece, nacque per restituire la complessità del “fatto-cinema”, e si caratterizza per essere onnicomprensivo ed enciclopedico. Oltre ai film, è stata raccolta ogni testimonianza utile a documentare la storia e lo sviluppo dell’industria cinematografica: documenti d’archivio, riviste, accessori, materiali di scena, manifesti. Tra questi ultimi, il Museo ne ospita alcuni molto importanti, dedicati alla fotografia e agli spettacoli antesignani del cinema: tra i 40 esemplari litografici non possono non essere citati “Blanc et Noir” e “Pantomimes Luminenses” di Jules Chéret, così come quelli nati per pubblicizzare la nascita del cinema (le due versioni del Cinématographe Lumière realizzate da Brispot e Auzolle). La quantità maggiore di manifesti è ovviamente riservata al cinema sonoro: si trovano documentate pittoricamente le grandi pellicole di Hollywood come Viale del tramonto e Quarto potere di Brini, Ombre rosse e La signora di Shanghai di Ballester, ma anche quelle italiane: da Roma città aperta ad Umberto D, da Riso amaro a La strada, da Blow up a Il Conformista, da Senso ad Accattone. Particolare attenzione, inoltre, è dedicata ai manifesti stranieri in edizione originale: La Grande Illusion e la Bête Humaine di Renoir, Jour de Fête di Tati, The Lady from Shanghai di Welles, While the City Sleeps di Lang e Spellbound di Hitchcock - questi ultimi due raggiungono i cinque metri di larghezza ed i due di altezza. Gli apparecchi e gli accessori si dividono anch’essi in due collezioni: la Collezione Prolo e la Collezione Barnes. La prima nacque nel 1942; i primi materiali ospitati furono due lanterne magiche, una pagata 15 lire al mercato delle pulci di Torino e l’altra 1.300 lire, comprensiva dei relativi vetri da proiezione. Un’altra lanterna magica risale alla seconda metà del ‘700, ed è corredata da 46 vetri coevi dipinti ad olio. Tra i pezzi più importanti di questa collezione c’è il mondo nuovo che Maria
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Adriana Prolo acquistò a Venezia nel 1950 per 257.000 lire (e per il quale dovette chiedere un prestito alla Banca d’Italia). Nel 1994 venne acquistata, dal Museo, la prestigiosa collezione dei fratelli inglesi John e William Barnes, che comprende una serie di lanterne Bull’s eye di fine ‘700, alcuni modelli appartenuti al costruttore Philiph Carpenter e l’importante serie di vetri dedicata all’esplorazione dell’Artico dipinta da C. W. Collins.
qua e là, in quanto non è possibile far riferimento ad una documentata storia della cinematografia italiana. Nel primo capitolo, I Produttori, la Prolo ricostruisce cronologicamente, partendo dal 1904, la storia dei tecnici (per lo più fotografi) che pensarono di iniziare a sviluppare le prime pellicole girate in Italia, senza mancare di evidenziare come fino a 30 anni prima il centro della cinematografia italiana fosse proprio Torino, grazie ai suoi innumerevoli teatri di posa.
Al di là dell’enorme documento storico che il Museo del Cinema di Torino è in sé, il fascino - devastante - che possono provare i visitatori ed amanti del cinema non è descrivibile in alcun modo: bisogna solo provare a sedersi in una delle sue sale e vedersi arrivare addosso un treno, senza provare però a scansarsi.
Ne I Periodici, segue la stessa linea cronologica di cui sopra, certificando in questo caso la storia dei primi periodici cinematografici italiani a partire dalla nascita del quindicinale «La cinematografia Italiana ed Estera» fondato da Gualtiero I. Fabbri nel 1908; in più, si chiede quale potesse essere il destino della cinematografia italiana se non ci fosse stata la guerra e la conseguente ‘invasione’ della produzione straniera. A suo avviso, Torino sarebbe potuta diventare la Hollywood europea per via dell’elevato numero dei suoi teatri di posa e degli artisti che vi si raccoglievano attorno.
Prefazione all'articolo Torino cinematografica prima e dopo la guerra di Maria Adriana Prolo L’articolo, di ben 29 pagine, affronta la situazione del cinema torinese durante e dopo la guerra, ed è suddiviso in piccoli capitoli: I Produttori, I Periodici, Guido Gozzano e la cinematografia ed infine viene riportato un elenco di film prodotti a Torino fino a tutto il 1913. Al titolo, che secondo la Prolo potrebbe sembrare pretenzioso, l’autrice ha pensato di aggiungere una parentesi, “(Appunti)” perché, come lei stessa afferma, si tratta di note prese
Nel capitolo dedicato a Gozzano, sottolinea come compaia per la prima volta, nel V volume delle Opere del poeta (ed. Traves), la sceneggiatura della vita di San Francesco d’Assisi (tra l’altro uno degli ultimi scritti di Gozzano) e come egli soffrì molto nel vedere che il cinema, la ‘decima musa’, non tentasse affatto di innalzarsi ad arte ma preferisse invece seguire il gusto della massa. Infine, l’articolo termina con l’elenco dei film prodotti a Torino fino a tutto il 1913.
Museo del Cinema di Torino. Foto: Vera Viselli
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* Estratto dell'articolo “Torino cinematografica prima e durante la guerra”, di Maria Adriana Prolo, pubblicato sulla rivista Bianco e Nero, numero 10, anno 1938. Si ringrazia il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma per la gentile concessione alla pubblicazione. © Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia. Tutti i diritti riservati.
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G CONTEMPORARY
GILLO DORFLES L'estetica del non ritorno di Francesca Attiani
Non si può vivere un’epoca senza assorbirla. Ma per trarne il succo senza ammalarsi, si deve essere in possesso di un antidoto, di una difesa che immunizzi contro il rischio di farsi cambiare, di perdere se stessi in cambio della novità di quel momento. Questa medicina è la critica. Quando si guarda agli eventi del proprio tempo – storici, politici, culturali – senza una razionalità critica, si rischia di farsi inghiottire dal tempo. Gillo Dorfles sfruttò la critica ad uso vitale, poiché essa esiste in quanto esiste chi la pensa, il formularla attribuisce valore ai fatti e ai gesti, e come tale non è una mera riflessione ma uno scudo per vivere meglio, per Dorfles fu esattamente questo. Gillo Dorfles è stato se stesso per 107 anni (109 dato che gli sbagliarono il certificato di nascita): un elegante triestino aristocratico, che dello stile non si privò neanche per un istante. Lo stile, di un uomo nato sotto l’impero asburgico, gli fu tramandato, e non si può non riconoscere che ebbe in questo notevole fortuna. Sì, perché raramente si può acquisire con il crescere lo stile e dunque la capacità critica; si tratta di valori formali che non possono esprimersi senza contenuti. Dunque l’educazione e il clima di fervore culturale dove si formò Gillo furono tali da dotarlo dello scudo con cui affronterà tutta la sua lunga vita. La bisnonna di Gillo era stata amica di Giosuè Carducci, la nonna gli raccontava le imprese delle “cinque giornate” di Milano, il suocero era un caro amico di Giuseppe Verdi, la moglie fu portata all’altare da Arturo Toscanini – che lui chiamava Artù – e l’infanzia trascorsa a Trieste lo vide nella libreria di Umberto Saba amico di sua figlia. Poi l’amicizia con Italo Svevo e Leonor Fini, Leo Castelli, Dino Buzzati che gli propose per primo di scrivere per il Corriere della Sera. Insomma tante le figure incredibili che conobbe fin dalla giovinezza, una élite culturale che stimolò la sua indole curiosa e testarda, e lo sollecitò a intraprendere più percorsi paralleli: infatti, se da un lato volle fin da subito interessarsi di arte, dall’altro scelse di prendere una laurea “seria”, per quei tempi, come quella in medicina. La strada artistica però si diramò in altre due strade: alla prima attività critica che lo vide collaborare fin dagli anni trenta del Novecento con le maggiori riviste di settore (La Rassegna d’Italia, Le Arti Plastiche, La Fiera Letteraria, Il Mondo, Domus, Aut Aut, The Studio, The Journal of Aesthetics), si affiancò l’espressione della pratica artistica che cul-
minò con la fondazione di un movimento. Nel 1948 fonda, per l’appunto, MAC o Movimento per un’arte concreta – insieme a Bruno Munari, Galliano Mazzon, Atanasio Soldati e Gianni Monnet – riconoscendo a se stesso un’esigenza alla creatività che non volle mai soffocare. La scelta coraggiosa di portare avanti sia la carriera teorica che quella pratica dell’arte, ha posto Gillo Dorfles spesso in conflitto con i suoi colleghi critici, ed in particolar modo con numerosi storici dell’arte che possedevano un’idea pura del conoscitore storico-artistico. Gillo non si è mai sottratto a questi scontri intellettuali, famose restano le diatribe avute con Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, ma allo stesso tempo ha privilegiato anch’esso il ruolo di critico per sé, descrivendosi come un “dilettante della pittura” che sperimentava, che si divertiva giocando senza possedere un’educazione ai colori specifica. Ammetteva di non aver, suo malgrado, raggiunto l’apice che sperava nella sua forma di espressione artistica. Tornando alla sua laurea in medicina, con specializzazione in psichiatria, non si può dire che non abbia esercitato questi strumenti. Molti definiscono Dorfles uno psicologo della cultura e, a ben vedere, affondò lo sguardo nel gusto sociale, anche in quello che non gli apparteneva, addirittura menzionando quella mancanza di stile e di decoro che molti si vergognavano solo a pensare: il kitsch. Nel 1968 uscì il famoso volume che attribuì a certa comunicazione di massa, agli oggetti prodotti in serie, il riconoscimento artistico. Da quel momento il cattivo gusto, o meglio il brutto, entrava nei musei, nei luoghi di cultura e cominciava a riguardare anche chi lo aveva snobbato, facendo capire a tutti che l’arte non sarebbe stata mai più come prima. Che a fare questa azione di svelamento sia stato Gillo Dorfles pare obbligato, intuendo la sua vena raffinata. La moda lo interessava tantissimo, si faceva cucire gli abiti dai migliori sarti e mai e poi mai si sarebbe vestito di blu, un colore che reputava troppo formale. E della moda prese il lato neoclassico, quel rigore di canoni algidi e precisi che fecero il suo carattere. Gillo Dorfles seppe indossare il Novecento, anche avendo vissuto in pieno l’era digitale, rimase un figlio del secolo scorso, che odiava il fascismo e amava le disarmonie sociali, con un’unica paura: la noia, quella che per Dorfles coincideva con il non-leggere.
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NAPOLI COMIC [ Vent'anni del Salone Internaz
Quello di quest’anno è stato un Comicon che ha ripercorso gli anni della sua vita con nostalgia e soddisfazione, onorandoci e onorandosi con la presenza di autori internazionali del calibro di Frank Miller, una vera pietra miliare del mondo fumetFRANK tistico, e Milo Manara, autore italiano coMIL- nosciuto in tutto il mondo per le sue tavole erotiche. Ma non solo: inLER caratteristiche sieme a loro tanti altri artisti internazionali ed italiani, come Tanino Liberatore, Brian Azzarello e Kim Jung Gi, che hanno contribuito e contribuiscono ad alimentare e far crescere un mondo meraviglioso come quello dei fumetti e della letteratura. La mostra si apre, difatti, con un excursus sulla storia della Fiera mostrando, attraverso un percorso multimediale, la crescita che v’è stata dalla prima edizione del 1998,
con sede a Castel Sant’Elmo, fino a quella attuale alla Mostra d’Oltremare che ha reso la manifestazione uno tra i saloni più importanti in Europa dedicati alla Nona Arte. Il percorso continua con esposizio-MOSTRA ni d’opere di Lorenzo Mattotti, Winsor McCay, Miguel Angel Martin, Joe Sacco,D’OLTREClaudio Chiaverotti e Laura Scarpa. MARE Nella grande cornice della Mostra si ha la possibilità di visitare padiglioni che toccano ogni punto d’interesse: fumetti, videogiochi, gadget, spazi per bambini, aree verdi in cui provare giochi di ruolo e attività d’ogni sorta, l’Arena Flegrea come spazio per le esibizioni di cosplayer e band internazionali, uno spicchio dedicato anche alle arti del cinema e della musica. Alcune sezioni presentano le scenografie di alcune famose serie tv come Il trono di
1998
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me se il { Co te m p o s i fe r m a ss e p e r d i l a t a r s i , f ra quegli stand, e q u e l l e o p e re . L’a r te , d ’a l t ra p a r te, re n d e e te r n o i l te m p o.
}
CON 2018 ionale del fumetto ]
di Francesca Busatto
ARENA FLEGREA spade o di film nel caso di Harry Potter. Quest’anno anche un’area dedicata alla Panini e alla storia delle sue famosissime figurine che accoglie al suo interno le diverse etichette della nota casa editrice: Panini Disney, Panini Comics, Marvel, Panini 9L, Planet Manga, Panini Magazines e PAN Distribuzione. Il Comicon è un’opportunità per chiunque PANINIsia amante del mondo del fumetto, un microcosmo in cui si respira amore reale e concreto per queste arti che, fortunatamente, non smettono di attirare l’attenzione, generando artisti di ogni genere e per ogni gusto. Ciò che attrae e che si nota, percorrendo i numerosi padiglioni, è di certo la gran quantità di colori, l’odore della carta misto a quello dell’inchiostro, la possibilità di os-
servare, dal vivo, gli artisti nella creazione di un’opera unica ed irripetibile. E l’amore, da parte di ogni persona presente, per ciò che vi è attorno. I sorrisi e la gioia nel godere di quattro giorni immersi in un mondo avulso dal quotidiano. Come se il tempo si fermasse per dilatarsi, fra quegli stand, e quelle opere. L’arte, d’altra parte, rende eterno il tempo. Non si può nascondere che molto sia fatto dalla città di Napoli, dove è nata e tutt’oNA ra si svolge la manifestazione. Il suo calore e la sua viscerale passione per l’arte, che POLI da sempre la contraddistinguono, sono di certo linfa vitale per apprezzare al meglio quest’esperienza che consiglio di fare a tutti, almeno una volta.
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TITOLI DI CODA di Daniele Sartini
Io al mistero della televisione credo, e ho creduto. Non mi pento e tantomeno vergogno. Una fede incondizionata, la mia. Una devozione spartita in egual misura tra il ricevitore e il trasduttore. La Tv come un vangelo apocrifo, interpretabile da pochi e condannato da molti. Questo era per me quella scatola che, nei primi anni Novanta, aveva una coda chiamata tubo catodico, era ancora senza schermo piatto, pesantissima – quasi a voler rivendicare la propria presenza – nuova protagonista del salotto, con colori irreali, luminosi al limite della sopportazione. La Tv ha rappresentato la mia prima forma di evasione, quella più completa, la possibilità di portare dentro casa mondi lontani, persone e personaggi che altrimenti non avrei mai conosciuto. Ho fantasticato davanti ai telefilm che arrivavano dall’altra parte dell’oceano, ho creduto di poter emulare le gesta di presentatori e le capacità seduttive dei tele-imbonitori. Per anni ho pensato che quella dentro il piccolo schermo fosse una realtà parallela, dove la vita scorreva in modo indipendente, inattaccabile dalle brutture di quella reale, capace di avverare l’irrealizzabile, anche dopo averla spenta puntandoci contro il telecomando. Ho associato tutte le cose che accadevano in famiglia agli eventi televisivi, come se le volessi imprimere nel tempo marchiandole con il sacro sigillo della Tv. E allora nonna è morta la sera in cui è finito TeleMike, la vicina si è sposata il giorno in cui trasmisero la miglior puntata di Happy Days, papà è stato licenziato quando Iva Zanicchi iniziò a condurre Ok il prezzo è giusto. Poi tutto questo non mi è più bastato. Fame chiama fame. Non si è mai sazi di delirare. Io, il telespettatore onnivoro, cresciuto in fretta, stanco di fermarmi al confine tracciato dallo schermo, ero pronto per oltrepassare il limite e entrare a far parte di quel mondo. Erano gli anni in cui internet non era uno strumento di massa, in cui nessuno immaginava un futuro con YouTube e il protagonismo in forma di videoclip, ed io avevo spostato la mia attenzione sulle emittenti private, un amore più ruspante, forse perché mi davano l’impressione di essere a portata di mano. Il mago, la venditrice di creme, la telenovela locale, il sacerdote che leggeva e commentava la Bibbia. C’era di tutto e per tutti i gusti. Provavo una particolare attrazione per un’emittente che trasmetteva ogni pomeriggio un programma di circa tre ore, ricco di giochi, di ospiti, di rubriche, ma soprattutto di telefonate da casa. Lo seguii per giorni, forse settimane. Una forma di studio delle abitudini, la mia. Una persuasione che alimentava la consapevolezza che dentro quella piccola comunità di telespettatori, composta più o meno dalle solite cinquanta persone che telefonavano, ci fosse posto anche per qualcosa di mio. Capii da solo quando fosse arrivato il momento, in modo spontaneo, come il processo di fermentazione che avviene in natura. Mano alla cornetta del telefono, il vecchio fisso con la tastiera color avorio – la SIP gli aveva pure dato un nome, Sirio - e l’indice a comporre il numero che luccicava in sovrimpressione. Era in corso la rubrica degli auguri, quella dove chiunque avesse telefonato avrebbe potuto lasciare un pensiero a qualcuno, per una qualsiasi festività, in una data precisa che la conduttrice avrebbe appuntato sulle pagine di una grande agenda. Faccio uno scherzo, pensai, forse per esorcizzare l’improvvisa ansia da prestazione, mentre il segnale libero si ripeteva dentro la cornetta. Erano gli anni delle telefonate anonime a casa della gente. Gli anni del puerile Scusi signora lei ha l’acqua? Come dice, sì? E allora ci si lavi… (Chi non lo ha mai
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fatto?) Ma quello davanti a me era il televisore, il cubo luccicante, armato del mitico tubo catodico che risucchiava i desideri e li sparava in diretta come sogni realizzati. Avrebbe avuto senso sprecare un’opportunità così grande? «Pronto,» disse la presentatrice, una ricciola priva di dizione, spudoratamente con accento toscano. Poi sorrise al silenzio, e di nuovo: «Pronto, chi sei? Sei in diretta.» E la sua voce echeggiò tra il mio orecchio e lo schermo. Era il momento, il mio momento. Contrassi la gola, per modificare la voce. Un gesto istintivo. «Pronto.» Uscì qualcosa simile a un rantolo gutturale, un timbro anziano, sofferto, rallentato. E con una sola parola caratterizzai subito il mio personaggio. «Ciao caro, come ti chiami?» Adesso la ragazza era più sollevata da quella voce nuova, ma rassicurante. Il bello della diretta, deve aver pensato. «Sono Luigi,» dissi, ricordandomi del vicino di casa, ridotto su una carrozzina da un ictus. Una specie di omaggio, il mio. «È la prima volta che chiami?» «Sì.» A ogni risposta mi sentivo più adeguato a quel contesto. La mia voce, o meglio quella di Luigi, si diffondeva finalmente nell’etere. Ero dentro quel Nuovo Mondo, un nonluogo che mi riempiva d’orgoglio quanto la terra dinnanzi alle prue delle caravelle aveva reso fiero Cristoforo Colombo. «Da dove telefoni, Luigi?» «Da Pisa.» Non so perché scelsi proprio questa città, forse perché il miracolo che si stava compiendo era pari alla maestosità dell’omonima piazza pisana. «Bene. A chi volevi fare gli auguri?» «Ai miei nipotini.» L’accenno di una risata si spense nella mia gola e, magia della televisione, si tramutò in un singhiozzo di pianto. «Ma allora sei nonno, Luigi. Ti stai commovendo? Che dolce.» Dolce, sì. Perché la televisione va dritta all’esaltazione della caratteristica umana, è una chiave della sua forza. Che sia dolcezza o acidità non importa, conta solo estremizzare. «Ho due nipotini. Scusate se mi sono emozionato, ma non li vedo da tanto tempo perché vivono lontano, in Canada con mio figlio, e io sono qui da solo.» Il sorriso della presentatrice divenne prima di compassione, e subito dopo di affetto. Fu in quel preciso momento che la trasmissione adottò nonno Luigi e che io entrai nei cuori di tutti i telespettatori. Con poche parole scardinai le loro fisiologiche forme di difesa. Seguirono telefonate di benvenuto e la puntata si trasformò in un’adozione collettiva, un plebiscito di solidarietà. Ecco, fu così che tutto cominciò. Da quel momento, seduto sul divano di casa, nemmeno maggiorenne, entrai in televisione per mesi, con le sembianze di un anziano nonno, solitario, attaccato alla vita e alle poesie che scriveva e che solo la magnanimità di un’emittente locale gli dava l’opportunità di leggere. Poesie sconclusionate, prive di una metrica, ma accettate da tutti. Perché, in questi casi, la televisione è inclusione e mai esclusione. Li sto ingannando, pensavo ogni tanto con i dovuti dubbi dell’adolescenza. In realtà li stavo facendo vivere, e sognare, concimavo la loro solidarietà. Li rendevo immortali grazie al filtro televisivo, che trasformava i miei assurdi racconti in delicati spaccati di vita solitaria. Una volta volli spingermi oltre. Coinvolsi un amico. Lo feci telefonare e attaccare Luigi, accusando la trasmissione di concedere troppo spazio a quel patetico anziano. Si scatenò il finimondo. Decine di telefonate a protezione del nonno pisano, del suo diritto di far parte di quella eterea famiglia. Passavano i giorni, le dirette, le telefonate e io mi svuotavo dell’entusiasmo. Venne il momento in cui Luigi non mi bastò più, in cui la gola si rifiutò di contrarsi e dar vita alla sua voce. Mi ero annoiato, semplicemente perché potevo tutto. Niente più traguardi da conquistare. Nessun nuovo telespettatore da commuovere. Avevo già fatto piangere più volte anche la conduttrice. E così smisi di telefonare, senza riflettere sulle conseguenze. Non pensai che con il silenzio avrei decretato la morte di Luigi. I telespettatori, invece, impiegarono poco a trarre le loro conclusioni. Alcuni provarono perfino a fare ricerche, per tentare di rintracciarlo. Appelli a qualcuno che avrebbe potuto conoscerlo di persona. Fino a perdere del tutto le speranze. Era comunque il miglior epitaffio che avessi potuto desiderare per il mio personaggio. Sono passati molti anni, più di venti. Lo schermo è diventato piatto, i colori più reali, i contenuti sono cambiati. Ma spesso sto ancora seduto sul divano, guardo il cellulare, e mi domando se potrà esserci mai un nuovo Luigi da spedire aldilà del confine. Me lo chiedo perché, in fin dei conti, la televisione è sempre la stessa: pronta a dare vita a chiunque ci finisca dentro.
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Daév M e s s a g g i
in bottiglia dallo spazio
di Silvia Arduino Daév, al secolo Davide Fusaro, è un cantautore romano che si sta facendo notare per il suo talento innegabile, sia per quanto riguarda la composizione, che per la sua voce, calda, pulita e avvolgente. Da anni è voce e chitarra dei Muscle Museum, cover band ufficiale dei Muse, con i quali ha affrontato tour che lo hanno portato sino in Turchia. Ha partecipato alla terza stagione di The Voice Italia, dove ha conquistato i giudici e, come ci racconta, una grande consapevolezza di sé. Lo incontriamo dopo la pubblicazione del suo primo album, intitolato News From the Universe, avvenuta a dicembre con l’etichetta romana Twilight Music: un lavoro carico di significato, solenne e al contempo fresco, che trae ispirazione dalla necessità del cantautore di creare una connessione tra il suo mondo interiore e la realtà esterna.
Puoi raccontarci qualcosa del processo creativo dietro il tuo lavoro? Inizio sempre da un sound strumentale, una melodia che affino pian piano, accostandole un suono vocale in fake english, uno strumento a me congeniale per l’espressione delle emozioni. La maggiore ispirazione dietro questo album, però, è nel titolo stesso, che ne fa da filo conduttore. Sono stato molto colpito dalla morte di David Bowie, ed ho ragionato sulla natura immortale dell’artista, ho voluto tributarlo proprio con la scelta del titolo e di alcune liriche del brano Dear John. Il pezzo racconta la scomparsa di una persona a me cara, e voleva essere una lettera indirizzata ad un mittente non raggiungibile, inghiottito dall’universo. L’associazione con Bowie è stata spontanea, immediata.
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Foto: Luisa Galdo
MKZ INTRAVISTA
Oltre Bowie, quali sono gli artisti che hanno creato il tuo gusto personale per la musica e cambiato il modo di concepire il tuo lavoro? La verità è che le influenze possono arrivare dalle parti più disparate, bisogna saperle cogliere. Penso che anche ascoltare Baglioni quando ero piccolo, in auto con i miei genitori, mi abbia lasciato qualcosa dentro. Crescendo ho sperimentato varie fasi, arrivando a definire il mio gusto personale e riconoscendo come mie ispirazioni e maestri Jeff Buckley, Björk, Sting e i Radiohead. Quali sono le esperienze che ritieni più importanti nella tua formazione artistica? Sicuramente lo studio, che mi ha permesso di passare da un modo di intendere la musica più adolescenziale ad una conoscenza più completa, partendo dal corso presso la Sonus Factory, che mi ha aiutato a plasmare le mie capacità di interprete ed avvicinarmi a sonorità diverse da quelle che conoscevo o su cui già lavoravo. Assieme all’arrangiatore dell’album, Damiano Bianchi, ho frequentato il corso di composizione tenuto dal maestro Giuseppe Barbera, presso il C.E.T di Mogol. Barbera è stato fondamentale per farmi aprire alla scrittura, rivelandosi una figura per me decisiva sia a livello professionale che umano.
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Qual è il brano del tuo album che ritieni più significativo, con cui hai un legame più profondo? Probabilmente la terza traccia, Fog O, su cui ho iniziato a lavorare a 17 anni e che ho più volte rimodellato fino alla pubblicazione. L’ispirazione è nata dallo studio tra i banchi di scuola dell’Orlando Furioso di Ariosto, dalle suggestioni dell’ascolto di musica rock e metal, e da quel concetto di rabbia dato dalla perdita dell’amore. Assieme a Ray Sperlonga, che mi ha aiutato ad adattare i testi del disco in inglese, abbiamo definito tutto questo utilizzando come metafora la nebbia che ti avvolge e trasporta nel senso di vuoto, di nulla cosmico, di una relazione finita. Quali sono i prossimi appuntamenti promozionali in cui potremo scoprire News From the Universe? Stiamo definendo le date del tour e di una presentazione ufficiale. Per ora posso dirvi che il 9 marzo alle ore 19 sarò alla RED Feltrinelli di via Tomacelli a Roma, con un set live acustico, e che il primo singolo estratto dall’album, Boxes, è stato inserito come Just Discovered nella piattaforma di Mtv New Generation.
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MIRKOEILCANE
IL MONDO SECONDO ME di Jamila Campagna Abbiamo incontrato Mirkoeilcane lo scorso febbraio al Mondadori Book Store di Roma, dove presentava il suo nuovo album Secondo Me. Qualche domanda per un discorso vivido e scorrevole, tra social media, immigrazione e responsabilità, nel pensiero di un giovane talento del cantautorato italiano.
Mirkoeilcane. Da giugno del 2017 vinci il premio Musicultura e inizia una nuova fase del tuo percorso che arriva fino al successo di Sanremo. Ce ne vuoi parlare? Quella di Musicultura è stata una bella scintilla, l’occasione per riconoscere a me stesso che tutto l’impegno che ci ho messo sin da bambino è servito a qualcosa, perché se hanno deciso di farmi vincere significa che stavo lavorando bene. Da lì ho preso fiducia e ho deciso di provare a fare Sanremo. Sanremo può sembrare un mondo molto lontano da quello di un cantautore, ma poi ho preso Stiamo tutti bene una canzone che avevo già pronta nel mio nuovo album e ho pensato che era il giusto compromesso tra Sanremo e il mio modo di essere. E così ci ho provato!
Sicuramente stiamo tutti bene è una canzone complessa che inizialmente non ha trovato l’apprezzamento della cosìdetta giuria demoscopica, però alla fine hai raggiunto il secondo posto e hai ricevuto molti premi: il premio Bardotti per il Miglior Testo, il premio della critica Mia Martini, il premio Enzo Jannacci, la targa PMI.
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Ti aspettavi questo ribaltamento? No, non me lo aspettavo. Ero certo che Stiamo tutti bene non è una canzone da primo ascolto. Aveva bisogno sicuramente di un secondo ascolto che poi le ha consentito di essere vincitrice di tutti quei premi. La mia paura era che la canzone venisse fraintesa... Ma alla fine tante persone sia per strada che nei social, anche bambini, mi raccontano che la canzone è arrivata dove io volevo che arrivasse, consentendomi di portare un tema scomodo su quel palco.
In seno alla tradizione della canzone cantautoriale italiana ti sei fatto portatore di un racconto di dolore, una canzone complessa, ma anche molto diretta, parla dell’immigrazione utilizzando la situazione del barcone per raccontare un po’ tutte le migrazioni. Perché hai scelto di condurre la narrazzione attraverso le parole di un bambino? Sai io non credo di averlo scelto. E’ stata la prima cosa che mi è venuta in mente quando è arrivata l’idea di questa canzone, nella mia testa era raccontata da questo
bambino. La prima frase che ho scritto era “Ciao mi chiamo Mario e ho sette anni”, da lì è venuto il resto. Forse la cosa ha aiutato a rendere la canzone più ingenua, più pulita, più diretta. Volevo parlare di umanità... chi può farlo meglio di un bambino? Ad un bambino si dà ascolto in ogni caso e ci si riesce ad immedesimare nelle sue parole.
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Pensi che nel 2018 ci sia ancora una responsabilità cantautoriale? Certo! Un cantautore deve avere il coraggio di parlare di tutte quelle cose di cui nessuno vuole parlare, altrimenti, se scriviamo tutti solo le canzoni dell’amore e dell’estate, il gioco non vale la candela.
Ci vuoi parlare del tuo ultimo disco Secondo Me? Secondo me è il mio secondo disco, è una raccolta dei miei punti di vista. Faccio parte dei problemi che canto. Ci sono alcune canzoni che parlano dei social e di smartphone come spunto per parlare di superficialità ma io sono il primo che sta lì a scrivere sui social, non mi metto sul piedistallo del professore. Ogni tanto mi sposto un po’ e vedo le cose da un altro punto di vista, ci ironizzo sopra. Sicuramente il filo conduttore dell’album è l’ironia, il sarcasmo, il fatto che per parlare di cose serie ci si scherzi su, con una risata che in effetti è una risata amara, che secondo me è quella che più di tutto insegna e fa capire qual è il senso del discorso.
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MONET di Vera Viselli
Capolavori dal Musée Marmottan Monet
Claude Monet è arrivato a Roma, al Complesso del Vittoriano, con una sessantina di opere, quelle che il grande artista amava di più – le teneva nella sua ultima dimora di Giverny – e che il Musée Marmottan Monet di Parigi (organizzatore della mostra insieme al Gruppo Arthemisia) ha prestato per l’occasione. La mostra pone l’accento sull’intero percorso artistico del maestro impressionista, dai primi ritratti e caricature fatti a metà dell’Ottocento, con cui divenne presto celebre a Le Havre, passando peri tanti luoghi in cui dimorò, compreso il nostro Paese, con un dipinto del castello di Dolceacqua. Si possono ammirare poi anche i ritratti dei figli, come anche le tele con protagonisti i fiori del suo giardino, fino ai salici piangenti, al viale delle rose o al ponticello giapponese, per arrivare infine alle monumentali Ninfee, il tutto reso con l’inquietante modernità dei colori sfumati, capaci di cogliere ogni fase della natura e della campagna francese. Monet aveva questa grande capacità di eliminare ogni tramite tra se stesso e l’oggetto della sua impressione, facendoci vedere nell’acqua completamente celeste anche dei rossi e dei verdi, inserendovi il bianco delle facciate delle case; usava il colore a 360 gradi, senza preoccuparsi a quale cosa ogni nota di esso appartenesse, risolvendo così la profondità spaziale in un solo piano. Così scriveva Maupassant di lui: “L’ho visto cogliere così un barbaglio di luce su una roccia bianca e registrarlo con un fiotto di pennellate gialle che, stranamente, rendevano l’effetto improvviso e fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore.
Claude Monet (1840-1926) Ninfee, 1916-1919 Olio su tela, 130x152 cm Parigi, Musée Marmottan Monet © Musée Marmottan Monet, paris c Bridgeman-Giraudon / presse
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Un’altra volta ha preso a piene mani uno scroscio d’acqua abbattutosi sul mare e lo ha gettato rapidamente sulla tela. Ed era proprio la pioggia che era riuscito a dipingere, nient’altro che della pioggia che velava le onde, le rocce e il cielo, appena distinguibili sotto quel diluvio”. E sì, aveva ragione il poeta francese a definirlo più un ‘cacciatore’ che un pittore, perché era continuamente intento a cercare le impressioni, vere tanto quanto la realtà, le sensazioni di una visione - quella del pittore, certamente – che strutturano un nuovo tipo di spazio nella realizzazione di un quadro. All’interno della mostra è esposta anche la ri-materializzazione di una delle celebri Ninfee di Claude Monet, quella serie di capolavori che ha cambiato il futuro della pittura; nel 1958 un incendio all’interno del Museum of Modern Art di New York danneggiò gravemente diverse opere, tra cui alcuni dipinti del maestro impressionista, andati perduti per sempre. Con un progetto unico e con l’aiuto delle più recenti tecnologie, Sky Arte HD ha riportato alla luce uno dei capolavori distrutti nel rogo, Water Lilies (1914-26), esposto per la prima volta al pubblico. Un progetto unico, denominato Il Mistero dei Capolavori Perduti, che continua con ben sette documentari diretti da Giovanni Troilo e co-prodotti da Ballandi Arts, ognuno dei quali dedicato a un dipinto andato perduto: alcuni rubati, altri distrutti accidentalmente o di proposito, i dipinti scomparsi e gli artisti che li realizzarono possono tornare in vita e a disposizione del loro pubblico, sempre grazie a Sky Arte HD.
Claude Monet (1840-1926) Il castello di Dolceacqua, 1884 Olio su tela, 92x73 cm Parigi, Musée Marmottan Monet © Musée Marmottan Monet, paris c Bridgeman-Giraudon / presse
MONET Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi ROMA, COMPLESSO DEL VITTORIANO – ALA BRASINI 19 ottobre 2017 – 11 febbraio 2018 prorogata fino al 3 giugno 2018 Catalogo edito da Arthemisia Books
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TODD HIDO
HO VISTO COSE CHE UN RAGAZZO NON DOVREBBE VEDERE 1
di Valeria Martella
C’è un postulato, una restrizione della contemporaneità che si fa largo tra le opinioni di artisti e di critici, che sembra voler limitare la bellezza; un comune accordo per cui non deve essere presente in alcun dove. Un motivo – ovviamente – c’è. Nel passato i canoni estetici avevano sempre in qualche modo assicurato la riuscita di un’opera, o se non la assicuravano ne erano le fondamenta. Questo ha permesso l’instaurazione anche nei fruitori dell’arte della necessità di vedere qualcosa di bello, che spesso e volentieri ha a che fare con l’idea di rassicurante. L’arte contemporanea e quella moderna ancor prima hanno cercato di stravolgere questa condizione e di portare alla luce problematiche e tematiche diverse senza l’ausilio della bellezza, usufruendo spesso del suo contrario. Tutto ciò è storia, tuttavia come in ogni casistica esistono delle eccezioni. Todd Hido (25 agosto 1968) è un autore contemporaneo che non teme la bellezza. Fotografo molto apprezzato a livello internazionale, rappresenta una parte di quella fotografia che fa da ponte tra la ricerca progettuale tipica dell’arte contemporanea e la metodologia del passato. I suoi scatti prediligono una certa desolazione, che sia essa manifesta in luoghi esterni/interni o negli occhi dei soggetti. House Hunting, primo macro progetto dell’autore, consiste in una serie di fotografie in cui sono contenuti scatti realizzati in una ricerca notturna di storie. Le storie che vuole raccontare Hido non sono immediatamente visibili, si nascondo sempre dietro qualcosa che – nel caso di House Hunting – si trova dietro le luci accese di case abitate da sconosciuti. La ricerca è psicologica, l’autore evidenzia la corrispondenza tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto, mediante il sensibile indaga ciò che non conosce. La fascinazione della possibilità che nascondono le finestre di Hido è tutto ciò che ci viene materialmente concesso. Una storia qualsiasi, un racconto già letto o immaginato. Non a caso l’artista appare nella copertina di una delle edizioni di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver, una celebre raccolta di racconti dell’autore. La ricerca procede quindi per Hido in una direzione leggermente diversa. Si appassiona alla bellezza – non che non fosse già contenuta negli scatti passati – ma questa volta vuole distaccarsi dal minimalismo delle fotografie di House Hunting per cercare qualcosa di ancor più potente.
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«Non volevo essere conosciuto come quello che fotografava le case di notte. Era giunto il momento di voltare pagina; avevo già scattato alcune foto di paesaggi quando fotografavo le case e decisi di avventurarmi per quella strada. Le mie foto notturne avevano sempre un’atmosfera desolata ed è molto difficile fotografare paesaggi allo stesso modo, per questo il mio lavoro è cambiato. Non mi sforzavo di compiere una transizione da un tipo di immagine ad un altro, semplicemente scattavo, e le foto che venivano fuori rivelavano una bellezza più classica. Quando fotografavo paesaggi non temevo la bellezza. Mi concedevo di contemplarla, nonostante il mondo della fotografia di allora non la vedesse di buon occhio. La guardai dritto negli occhi e le dissi: “Buongiorno bellezza”. Con il passare del tempo, la bellezza è diventata l’elemento caratterizzante delle mie fotografie ed ho iniziato ad apprezzare il potenziale estetico del paesaggio. Prima non avrei mai fotografato un tramonto, sarebbe stato troppo facile.» 2 Il trauma di un passato complicato ha accompagnato tutto il lavoro dell’artista ma è manifesto specialmente nei ritratti. “Ho visto cose che un ragazzo non dovrebbe vedere”. Di cosa si tratta, esattamente? Spazio all’interpretazione: una donna sdraiata in un’auto vintage, occhi lucidi, volti tagliati. Fa tutto parte di una ricostruzione della memoria blurryed, imprecisa ma estremamente efficace. Todd Hido mostra in questi ultimi scatti ciò che accadde all’inizio, prima di tutto. La messa in scena si trasforma in una fenomenizzazione del trascorso dell’artista tramite lo scatto.
LA RECHERCHE
Foto di Valeria Martella
Foto di Valeria Martella
1 Originariamente pubblicato su Aura Magazine, rivista nata nel 2018, ideata e curata da Valeria Martella, con lo scopo di diffondere la cultura della fotografia contemporanea con uno sguardo all’estetica. Nomi internazionali e news da tutto il mondo, per un’informazione completa sulla scena artistico-fotografica di oggi. 2 Todd Hido, Paesaggi, Interni e Nudi. Postcart Edizioni, 2015.
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il muro
I 70 ANNI DELLA MAGNUM PHOTOS A ROMA
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“Magnum è una comunità di pensiero, una qualità umana condivisa, una curiosità su ciò che sta accadendo nel mondo, un rispetto per ciò che sta succedendo e il desiderio di trascriverlo visivamente". Henri Cartier-Bresson
di Vera Viselli
La Magnum Photo è una delle maggiori agenzie fotografiche moderne e contemporanee: nel 1947, appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, quattro fotografi (Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e David Seymour) decisero di dar vita a un’alleanza artistica leggendaria, che riuniva in sé una gamma variegata di stili individuali che, collaborando tra loro, finì per dar vita a una cooperativa di artisti mai vista prima di allora. La visione doveva essere comune: la cronaca degli eventi, delle persone, dei luoghi e della cultura del mondo, che facesse al contempo uso di una narrativa potente, pronta a sfidare le convenzioni, frantumare lo status quo, ridefinire la storia e trasformare le vite. Eccolo qua il mix perfetto, quello di artista/giornalista/narratore, che ha documentato la maggior parte degli eventi e dei personaggi più importanti del mondo, che ha coperto - e copre tuttora - l'industria, la società e le persone, i luoghi di interesse, la politica e gli eventi di cronaca, così come i disastri e i conflitti.
documenti rari e inediti, immagini di grande valore storico e nuove realizzazioni, per illustrare come Magnum Photos debba la sua eccellenza alla capacità dei fotografi di fondere arte e giornalismo, creazione personale e testimonianza del reale, verificando come il “fattore Magnum” continui a esistere e a rinnovare continuamente il proprio stile. Tutte queste opere sono state suddivise in tre sezioni/periodi:
Questa esposizione, presente a Roma nella sua prima data europea (e unica italiana), ospitata dal Museo dell’Ara Pacis dal 7 febbraio al 3 giugno 2018 e promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale –Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, proposta da Contrasto e Magnum Photos 70 e organizzata in collaborazione con Zètema Progetto Cultura, ha proprio lo scopo di celebrare l’operato di questa straordinaria agenzia, divenuta con il passare del tempo una delle più importanti per la documentazione e il fotogiornalismo. Il curatore, Clément Chéroux, ha selezionato una serie di
PARTE TERZA 1990-2017: Storie della fine, in cui si seguono le diverse forme espressive grazie alle quali i fotografi Magnum hanno colto i mutamenti del mondo e i pericoli che lo minacciano.
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PARTE PRIMA 1947-1968: Diritti e rovesci umani, che, con un occhio umanista, si concentra sugli ideali di libertà, uguaglianza, partecipazione e universalismo che emersero dopo la seconda guerra mondiale. PARTE SECONDA 1969-1989: Un inventario di differenze, in cui si mostra la frammentazione del mondo tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento, con uno sguardo particolare rivolto alle minoranze e agli esclusi.
La sezione finale, Magnum è..., accompagnata da una selezione della corrispondenza epistolare tra i membri dell'agenzia, dà voce ai fotografi e al personale dell'agenzia per tentare di definire il multiforme "Spirito Magnum", plasmato dalle parole tanto quanto dalle immagini.
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1 Bruno Barbey: Un gruppo di studenti forma una catena per passare i ciottoli di una barricata a rue Gay-Lussac. Parigi, 10 maggio 1968. ©Bruno Barbey /Magnum Photos/Contrasto 2 Marc Riboud: Jan Rose Kasmir affronta la Guardia nazionale americana davanti al Pentagono durante una manifestazione contro la guerra del Vietnam, Washington DC, 1967. © Marc Riboud/Magnum Photos/Contrasto 3 Paul Fusco: Il “Funeral Train” di RFK. USA, giugno 1968. © Paul Fusco/Magnum Photos/Contrasto
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