art philosophy visual culture
n.10 ANNO 2017
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indice 4 CoVER STORY IL MURO Art, Philosophy and Visual culture rivista bimestrale N. 10 settembre - ottobre 2017 Direttore responsabile Luisa Guarino Direttore creativo Jamila Campagna Caporedattore Gaia Palombo Team grafico Francesca Busatto Francesco Fazzi Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Francesca Attiani Jamila Campagna Simone Ialongo Gaia Palombo Vera Viselli Elena Visentin Marta Visentin Redazione IL MURO via Veio 2 04100 Latina (Italy) Editore e Proprietario IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Web www.ilmuromagazine.com Contatti/ infoilmuro@gmail.com www.facebook.com/ILMUROmagazine Stampa Tipografia GRAFICA SABINA DI URBANETTI FRANCESCO UMBERTO E C. SNC Via Maglianello - 02046 Magliano Sabina (RI) tel. 0744 919312 Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) In copertina: Artwork di Francesco Fazzi
Un mattoncino nell'arte, a cura della redazione
6 COVER STORY Ai Weiwei. Dissing Lego, di Jamila Campagna
8 LA CAVERNA DI PLATONE Monte Inferno, di Gaia Palombo
10 LA RECHERCHE Toulouse-Lautrec. La belle epoque, a cura di Vera Viselli
14 LA RECHERCHE INTRAVISTA ALL RAMONES POP UP - Intervista a George DuBose, a cura di
Jamila Campagna
18 CONTEMPORARY Hollywood Icons, di Vera Viselli
20 MZK intravista Gazzelle. Track Top Generation, a cura di Elena Visentini e Marta Visentin
22 MZK INTRAVISTA Brendan Fletcher. La voce del New Jersey, di Vera Viselli
25 WHAT'S HAPP Luigi Lo Cascio. Le parole di Pasolini, di Francesca Attiani
26 EQUIVALENTS La Torre, la Terra e il Futuro, a cura di Simone Ialongo
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UN MATTONCINO NELL'ARTE a cura della redazione
Seguendo passo dopo basso il libricino delle istruzioni, le costruzioni Lego hanno trasformato generazioni di bambini (e non solo) in creatori di storie e di mondi, dalle navi dei pirati ai castelli medievali, dalle città alle navicelle spaziali. I mattoncini Lego si sono confermati irresistibili decennio dopo decennio, anche nelle trasposizioni pop di elementi provenienti da molti blockbuster cinematografici, divenuti oggetti di culto per collezionisti: il Millennium Falcon di Star Wars, il vascello di Pirati dei Caraibi, l'automobile e la centrale dei Ghostbusters. E' seguendo questa scia che i Lego hanno fatto il loro ingresso tra le mani di molti artisti che lì hanno trovato l'unità perfetta che potesse sintetizzare materia e colore: il mattoncino. L'attitudine pop sottende tutta la ricerca artistica di Nathan Sawaya dove i mattoncini, nati con funzionalità di gioco, vengono trasposti come materia prima di costruzioni artistiche in cui il colore è usato in modo antinaturalistico nella gamma sgargiante che caratterizza il marchio Lego. Seguendo questa linea di pensiero, l'artista lavora con l'intenzione di insegnare l'arte e la storia dell'arte in modo giocoso, in un percorso dove l'aspetto ludico diventa la chiave educativa che consente di apprendere interattivamente, coinvolgendo la sfera della meraviglia. Dall'idea di insegnare le cose giocando nascono tutte le opere scultoree di Sawaya, un corpus che si rivolge al bambino dentro ognuno di noi e che al contempo coinvolge ed esprime concetti complessi, in un viaggio attraverso le età della vita e le sfaccettature dell'esistenza, con forti lampi di introspezione.
Star Wars, Millennium Falcon, ©Lego
Nathan Sawaya, Cracking up
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Antonio Rossi, Chiesa di Sant'Anna, Pontinia Lego Design, 2010-2015
Tra gli artisti italiani che hanno lavorato con i mattoncini Lego c'è Antonio Rossi con il suo Pontinia Lego Design, progetto acquisito nella collezione permanente del MAP Museo Agro Pontino di Pontinia (LT), realizzato tra il 2010 e il 2015: gli edifici storici di fondazione della città di Pontinia - risalenti agli anni '30 - sono stati fedelmente riprodotti con le costruzioni Lego a seguito di una vera e propria riprogettazione architettonica miniaturizzata, operata dall'artista per ciascun edificio. Accanto al valore estetico di ogni modellino - che ricalca il valore architettonico del razionalismo monumentale italiano -, il progetto è tutto un rincorrersi tra l'attaccamento dell'artista verso la propria cittadina e il desiderio dello stesso di avvicinare i cittadini ad una più approfondita conoscenza del contesto architettonico in cui vivono, attraverso la riduzione di scala e l'approccio ludico sempre presente nell'immaginario Lego. Una curiosità: Antonio Rossi ha realizzato anche la scatola in stile Lego per ogni costruzione. Il kit è completo!
Antonio Rossi, Ex Torre Idrica, Pontinia Lego Design, 2010-2015
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Ai WeiWei - Dissing Lego di Jamila Campagna
Dissing è un termine dello slang afroamericano, nato dalla contrazione della parola disrespecting, mancare di rispetto, usato dai rapper per indicare canzoni che mirano ad offendere un altro cantante. Dissing è però anche una parola foneticamente ed etimologicamente molto vicina al verbo to dissent, dissentire, contestare, ed è difficile pensare che non ne sia anche ideologicamente legata, nel ribollire della lingua viva che si trasforma in slang. E' in questa accezione che l'opera Trace di Ai Weiwei può essere definita visual dissing. Il progetto, che sarà esposto nella mostra Ai Weiwei: Trace at Hirshhorn, presso il museo Hirshhorn (Washington DC, USA) fino al primo gennaio 2018, è stato realizzato nel 2014 e presentato per la prima volta nell'ex prigione di Alcatraz a San Francisco e comprende 176 ritratti di attivisti, liberi pensatori e detenuti per reati d'opinione. Ciascun ritratto è realizzato con centinaia di mattoncini LEGO assemblati a mano (per un totale di un milione di LEGO), scelti dall'artista come materiale simbolo di libertà per la facilità con cui le costruzioni possono essere create e poi smontate, tra approccio ludico e progettualità. L'idea di realizzare questi ritratti è stata profondamente sentita da Ai Weiwei dal momento che egli stesso è stato incarcerato e messo sotto sorveglianza per ottantuno giorni dal governo cinese nel 2011 e costretto a non poter uscire dalla Cina fino al 2015, a causa della sua lotta per il rispetto dei diritti umani e del libero pensiero. Quello che salta all'occhio guardando i ritratti è una sorta di estetica a 8 bit che l'artista sembra aver attentamente seguito: i mattoncini vanno a posizionarsi come fossero pixel, squa-
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Ai Weiwei, installation view of Ai Weiwei: Trace at Hirshhorn at the Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, 2017. Photo: Cathy Carver.
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drando i lineamenti dei volti come fossero quelli di certi personaggi dei videogiochi arcade degli anni 90, effetto rinforzanto dall'uso di colori sgargianti che vanno costituirsi in zone e riprendono i colori della bandiera del Paese di appartenenza della persona ritratta. Tutte gli individui ritratti hanno subito un qualche grado di detenzione, sono stati esiliati o hanno richiesto asilo per il loro credo, i loro ideali o le loro azioni: eroi e fuorilegge. L'estetica scelta da Weiwei sembra rivolgersi non tanto ai cittadini "occidentali" o a quelli "orientali", quanto piuttosto sembra andare a cercare un target basato su alcune generazioni precise, quelli che avevano dai 10 ai 20 anni circa negli anni '90, i trentenni e i quarantenni di oggi che riconoscono quel tipo di grafica, leggono quei volti come qualcosa di familiare, e in cui forse l'artista ripone tacitamente la speranza di una presa di coscienza sociale e politica. Oltre ai ritratti in LEGO, l'esposizione comprende un wallpaper che percorre interamente le pareti del salone. L'opera grafica è apparentemente un pattern decorativo dalle forme ridondanti e ripetitive; in realtà osservando attentamente si riescono ad individuare elementi che fanno parte dell'iconografia della sorveglianza e del libero pensiero: videocamere a circuito chiuso, chiavi, uccellini di Twitter. Il wallpaper è intitolato The Plain Version of the Animal that Looks Like a Llama but is Really an Alpaca?: il cosiddetto Grass Mud Horse o caonima, animale protagonista di un meme molto diffuso su internet, un animale che somiglia ad un alpaca ed è usato come simbolo dello sprezzo verso la censura in Cina. Il titolo ci riporta all'inizio di questa riflessione, nel punto in cui le parole si incrinano e diventano giochi di parole, si caricano di significati altri e operano spaccature nella comunicazione. In Mandarino caonima è una parola usata anche come insulto; Ai Weiwei ci ricorda che l'ironia ci costringe a pensare e può essere un atto di ribellione salvifico.
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Monte inferno di Gaia Palombo
Nessuna carta geografica ne attesta la presenza, eppure Monte Inferno esiste. Il nome potrebbe essere quello di un luogo irreale, scenario di qualche storia fantastica, invece è il termine metaforico attribuito a una discarica: un accumulo di pattume che dagli anni Settanta si stratifica incontrollato a Borgo Montello (Latina), custodendo una grande quantità di rifiuti tossici illecitamente depositati. Monte Inferno dà anche il titolo al documentario di Patrizia Santangeli, un lavoro di ricerca durato quattro anni che comprende il progetto fotografico di Gabriele Rossi e una mostra allestita negli spazi del MAP – Museo Agro Pontino a Pontinia e di Album Arte a Roma. Restituire a parole la complessità di un lavoro come Monte Inferno non è semplice, specialmente perché le scelte registiche non convergono sullo svisceramento della cronaca relativa alla questione – eclatante - della discarica, ma ne indagano piuttosto le pieghe, lasciando ampio spazio alle immagini, all’evocazione più che al resoconto. Definirei Monte Inferno uno stato d’animo, uno sguardo che accoglie e consegna cristallino il senso di perdita di chi abita i luoghi prossimi alla discarica, una perdita che sconfina nella storia sociale e nella memoria, che non si riduce in termini paesaggistici e ambientali. Monte Inferno è un’opera corale che mette in relazione e a confronto generazioni diverse colte in spaccati di vita, nel quotidiano approccio al luogo. Le parole corrono libere, talvolta i racconti più specifici e puntuali relativi alla storia della
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Fotografie: Gabriele Rossi, Monte Inferno
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discarica – tra tutti l’omicidio ancora irrisolto del parroco Don Cesare Boschin nel 1995, che aveva denunciato il traffico di rifiuti tossici - si intrecciano a riflessioni più personali e intime. Corale è l’essenza stessa del progetto Monte Inferno, di cui fanno parte anche Bonifacio Pontonio e Roberto Fanfarillo, graphic designers, e Massimo Calabro, illustratore e graphic designer. Una menzione particolare tengo a farla al prezioso contributo del geologo Giancarlo Bovina, grazie al quale è stato possibile ricostruire l’antica geografia del territorio: una mappa della memoria fondata sullo studio di documenti, fotografie, racconti e sull’esplorazione di percorsi laterali in cui è ancora possibile ritrovare tracce originali di natura incorrotta. Le fotografie di Gabriele Rossi fanno eco alle immagini che vediamo scorrere durante i 60 minuti del documentario: raccontano degli spazi possibili, ricercano la bellezza di luoghi dall’identità sabotata, narrano storie attraverso limpidi ritratti di chi continua a fare i conti con l’Inferno prosperato in anni di indifferenza e impietosa violazione dei diritti umani. Monte Inferno è infine una ricerca che fa perno sul senso della meraviglia, sullo stupore inatteso d’innanzi alla riscoperta dell’ordinario; un lavoro in cui la denuncia non si manifesta attraverso l’esibizione didascalica del degrado ma nella malinconica bellezza di un territorio dalla potenzialità mutilata. La potenza delle immagini della Santangeli ci rimanda a quel famoso, ultimo passo di Calvino, nelle sue Città invisibili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» (Italo Calvino, Le città invisibili, 2014, Mondadori, p. 160). Cercare, saper riconoscere, in queste parole vedo riassunto il senso ultimo di Monte Inferno, un’opera che dà spazio e si lascia guidare da quell’essenza di sogno che esiste tra le crepe della realtà.
Fotografie: Gabriele Rossi, Monte Inferno
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CONVERSAZIONE con George DuBose
ALL RAMONES POP UP EXHIBITION ALL RAMONES POP UP EXHIBITION recensione e intervista a cura di Jamila Campagna Il 2016 ha visto il 40esimo anniversario della pubblicazione del primo album dei Ramones, la band newyorkese che ha portato la cultura punk dalla scena underground al mainstream; 40 anni di Ramones – 40 anni di Punk è stato l’evento celebrativo organizzato dall’Orion Club di Roma il 26 novembre 2016, con la partecipazione delle principali tribute band romane dei Ramones - The Romanes e The Romanez. Special guest della serata George DuBose, fotografo ufficiale dei Ramones, curatore della mostra itinerante ALL RAMONES POP UP EXHIBITION che si è tenuta nello stesso Orion. Circa 70 foto per raccontare la storia dei Ramones: George DuBose ha raccolto un incredibile archivio che comprende non solo le fotografie scattate da lui stesso, ma anche una selezione caleidoscopica di immagini realizzate da fotografi quali Bob Gruen, Jenny Lens, Mick Rock, Roberta Bayley, che documentano le performance della band sin dagli esordi. C’è un dettaglio che ha reso questa mostra molto punk: i fan presenti al concerto hanno potuto liberare le foto esposte sulle pareti dell’Orion, portandole via al termine delle esibizioni. La sera dell’evento abbiamo intervistato George DuBose e il suo racconto, estremamente motivational, ci ha restituito un punto di vista inedito sul mondo della musica, quello di un artista dell'immagine che, nel corso degli anni, ha saputo creare un ponte tra le arti.
Vuoi raccontarci come è iniziata la tua carriera nella scena Rock, Punk e New Wave di New York? Mi sono trasferito a Manhattan per imparare la professione fotografica. All'inizio avevo intenzione di diventare un fotografo ritrattista come Phillipe Halsman o Yousef Karsch di Ottawa, Canada. Mi ci è voluto un po' di tempo per trovare lavoro come assistente fotografo ma alla fine sono riuscito ad iniziare a lavorare per due fotografi che mi lasciavano a disposizione il loro studio e tutta l'attrezzatura anche fuori l'orario di lavoro. Iniziai a frequentare un jazz club in Brooklyn dove fotografavo i musicisti che si esibivano; donavo al club una grande stampa fotografica per ogni artista che mi davano la possibilità di fotografare e tutte queste cose venivano messe sulle pareti del club. Inoltre lavoravo gratuitamente per l'Interview, il magazine di Andy Warhol. L'assistente dell'art director del magazine era mio amico e lui mi diede l'opportunità di lavorare fotografando le giovani modelle che indossavano le varie t-shirt che Andy vendeva. Un giorno ricevetti la telefonata dal mio amico dell'Interview. Mi chiese se volevo andare al Max's Kansas City, un famoso bar/ristorante e luogo di ritrovo per musicisti, per vedere l'esibizione di una band della Georgia. Dissi al mio amico che non avevo soldi e lui mi rispose che sarei stato nella lista degli invitati. Cos'è una lista degli invitati?, chiesi. Lui mi rispose che potevo entrare gratis. La band veniva da Athens, Georgia e la prima canzone che suonarono quella notte era Planet Claire e la musica era una copia stretta di The Peter Gunn Theme da una serie tv a tema detective degli anni 50. Quella è stata la prima canzone che io abbia mai imparato a suonare con la chitarra: non sapevo accordare una chitarra, ma potevo suonare il Peter Gunn Theme su una corda sola. Mi innamorai dei B-52s. Chiesi loro di venire nello studio del mio capo così potevo fotografarli per Interview. Una delle ragazze della band non c'era, così chiesi alla loro manager di figurare al suo posto. Ancora nessuno sapeva che aspetto avesse la band e chi fossero i componenti! Successivamente incontrai in studio la formazione reale della band e scattammo alcune foto. Scelsi uno di questi scatti come poster con cui tappezzavo i palazzi attorno alle location dove la band si sarebbe esibita. Alla fine, quella foto divenne la loro e la mia prima copertina di un disco. In 30 anni di carriera hai accumulato una gradissima esperienza lavorativa. Puoi indicarci le differenze principali tra il lavoro come freelance e i progetti realizzato per la Island Records e per SPIN magazine?
The Ramones Live. Photo: ©Ian Dickson
Ho iniziato la mia carriera a New York lavorando in un'azienda tipografica. Ho imparato l'arte arcaica della composizione tipografoca meccanica, del menabò, preparando disegni per la pubblicità stampata o per altri lavori di stampa. Dopo il mio apprendistato di 5 anni, ho fatto varie copertine discografiche per la Island Records, la prima etichetta dei B-52s. Tony Wright era l'art director dell'ufficio newyorkese della Island Records and mi chiese se volevo organizzare un dipartimento artistico e ingaggiare alcuni designers. Questo allargò il lavoro che stavo facendo. Ora, non solo incontravo gli artisti per discutere il concept alla base delle loro copertine, scattavo la foto e realizzavo il design finale. Ero l'emporio delle copertine dei dischi. Quando lavoravo per la Island, una parte dei miei affari consisteva nel creare packaging per dischi di altre band con altre etichette discografiche purché io facessi questi lavori dopo le 18. Dunque il mio lavoro da freelance per Cold Chillin', una primissima etichetta Hip Hop, veniva fatto dopo l'orario di lavoro per la Island. Prima di avviare il dipartimento artistico alla Island, ero il photo editor presso la Image Bank, un'impresa di immagini in stock. Mi ingaggiarono per organizzare il loro archivio fotografico e selezionare foto per libri di lusso che volevano pubblicare.
George Dubose, Ramones Subterranean Jungle series. Courtesy of George Dubose
Cercavo nel loro archivio immagini relative alla Cina e sceglievo foto per libri sulla Cina, e poi facemmo libri Alaska, Hawaii, corsi di golf, libri su qualunque cosa fosse presente negli archivi di immagini di Image Bank. Poi divenni il primo direttore creativo di SPIN magazine, fondato da Bob Guccione Jr (nel 1985, n.d.r.). Tutto questo era prima dell'avvento dei computer nel design e, ad essere onesto, una rivista era un po' troppo da gestire per me, così mi offrii volontario per diventare il photo editor. Decisi che il mercoledì era il giorno dedicato ai fotografi che volevano lavorare per SPIN, erano invitati a venire e a mostrarmi i loro libri. Non volevo semplicemente che buttassero giù i loro portfolio... Dovevano mostrarmi le loro foto. Con loro discutevo spesso sul come rendere i loro scatti più interessanti per le riviste, alcuni giovani fotografi mi mostravano i loro scatti sporchi di polvere. Gli chiedevo "Chi si occuperà di ritoccare queste foto?". Non io! Spesso guardavo lo stile dei fotografi e assegnavo loro progetti che sapevo loro potevano realizzare, ma che poteva essere un po' fuori dai loro schemi. Mi piaceva spingerli oltre la loro zona di comfort. Non ho fatto molta fotografia per SPIN. Per lo più davo loro delle fotografie che avevo già scattato. Ci sono state delle occasioni in cui ho realizzato delle sessioni di scatto, specialmente se avevo un legame speciale con la band, come nel caso degli ZZ Top e dei REM. Quanto è importante la fotografia nel creare e definire l'iconicità di una band nell'immaginario collettivo? Ai tempi del vinile, la copertina mostrava un buon ritratto dell'artista, qualche tipo di gusto riconoscibile nello stile di vita dell'artista. Un fan riceve molto più di una sensazione circa le radici e la provenienza di un artista guardando la copertina e ascoltando la musica. Quanto il vinile è morto, mi sono consolato con il pensiero che... beh, il booklet di un cd può essere di 24 pagine. Questo significa un sacco di foto dell'artista. Il fotografo/art director può davvero raccontare una storia sull'artista o sulla band con 24 foto. Al giorno d'oggi le band non pensano molto ad un concept per le loro copertine. Dopo tutto, in molti casi, le loro copertine sono ridotte a un'immagine di 25mm x 25mmche le persone possono vedere con iTunes sui loro smart phone. A volte non c'è nessun packaging o prodotto fisico. Resta solo digitale. I ragazzini di oggi molto spesso non hanno MAI ascoltato una registrazione in vinile. Tutto ciò che conoscono sono gli mp3. Se compari il suono di un mp3 con un disco di vinile, beh, semplicemente non c'è paragone con la qualità e la gamma che il vinile cattura. Hai realizzato molte copertine per gli album dei Ramones e hai seguito la band per molti anni come fotografo ufficiale. Le tue foto hanno contribuito a creare quell'attitudine carica e underground che è l'anima della band, quell'energia che ci raggiunge tutt'ora e che ha reso i Ramones sempre attuali e indimenticabili allo stesso tempo. Ti va di raccontarci del tuo lavoro con il gruppo? Partiamo da Tony Wright, art director della Island Records, anche freelance. Lui disegnò il primo album dei B-52's con la mia foto. Lui mi ha dato la possibilità di fotografare Lydia Lunch, Kid Creole and the Coconuts e altre band. Il manager dei B-52's era anche il manager dei Ramones. Tony ricevette l'incarico di creare la copertina per Subterranean Jungle e mi ingaggiò come fotografo. E' una storia lunga che racconto dettagliatamente nel mio libro fotografico sui Ramones. L'anno successivo, Johnny Ramone mi chiamò e mi chiese se volevo realizzare un'altra copertina per loro, ma io conoscevo un altro art director all'infuori di Tony? "Cosa c'è che non va con Tony", chiesi. Johnny mi rispose: "I graffiti sul treno della metropolitana che è stato usato per la copertina di Subterranean Jungle sembrano finti". Gli dissi di dare a Tony un'altra possibilità, che lui avrebbe fatto qualunque cosa la band avesse
preferito. Così io e Tony realizzammo la copertina per Too Tough To Die, una delle copertine più iconiche tra quelle dei Ramones. Ancora un anno dopo, Johnny mi chiese di realizzare un'altra copertina per l'album successivo. Questa volta mi disse che volevano io disegnassi a mano... Hmmm. Tony mi diede l'occasione di realizzare la mia prima copertina per i Ramones, io diedi a Tony la possibilità di lavorare con me in Too Tough to Die, dunque nella mia testa mi dissi che lo avevo ripagato per la possibilità da lui offertami, così realizzai la copertina di Animal Boy tutta da solo. Più lavoravo con i Ramones, più venivano fuori i contenuti concettuali per le copertine. Potevo realizzare le loro idee e loro apprezzavano le mie. Tutto questo unito al fatto che i Ramones odiavano i photoshooting - o quanto Johnny li odiava - e io fotografavo rapidamente, senza trafficare con le luci per ore. A volte strutturavo cinque set in studio e in due ore la band riusciva ad avere tutte le press-photo pronte per la pubblicità dell'album di prossima uscita. Quest'anno è il 40esimo anniversario dalla pubblicazione del primo album dei Ramones e tu hai curato una mostra itinerante, 2016 All-Ramones Pop Up Photography Exhibition, che questo sabato sarà presentatò all'Orio Club di Roma. Qual è il concept della mostra? Due anni fa, Jörg Büscher ha organizzato un evento di beneficenza per raccogliere fondi per la lotta contro il cancro. L'evento si intitolava Beat on Cancer. C'erano varie tribute band dei Ramones in questo spettacolo a Düsseldorf. Organizzai una mostra fotografica con quaranta delle mie foto dei Ramones in formato A2, erano stampe con i margini strappati che tappezzavano le pareti della location. A metà evento mi accorsi che molte foto mancavano dalle pareti, così andai dal ragazzo della sicurezza e gli chiesi chi stesse rubando le mie foto. "Keine Ahnung!" rispose, "Non ne ho idea!". Così, nello stesso spirito dello Steal This Book di Abbie Hoffman - un libro scritto nel periodo hippy degli anni '60 - mi dissi "se non puoi batterli, fatteli amici". Quell'esperienza mi ha portato a questa mostra attuale: ho raccolto sei foto da vari fotografi che lavorarono con i Ramones dagli esordi, ho messo assieme settanta foto stampate su carta economica con inchiostro non-archival e bordi strappati, con cui costellare le pareti del club dove si terrà l'evento. L'idea è quella di mostrare queste immagini ai fan più giovani, che magari hanno le magliette, alcuni cd, ma non hanno mai visto in Ramones in concerto e non conosco molte delle foto esposte. Anche in questo caso, non sarei comunque in grado di impedire loro di portare via le stampe... Il tuo libro fotografico sui Ramones si intitola Parlo musica - Ramones; parlare musica suggerisce l'idea che la musica è un linguaggio ed è molto interessante la sinestesia sottointesa tra musica e fotografia. Pensi che le immagini sono più vere delle parole quando devi parlare di musica? Per me, "parlo musica" significa che riesco a capire differenti stili musicali e che mi collego sempre con gli artisti e la loro musica. Quando inizio a mettere in piedi un progeto, devo sempre prima ascoltare la musica e incontrare l'artista faccia a faccia. Non creo copertine per me stesso. Le copertine non sono per me, sono per i musicisti. Il mio obiettivo è creare una copertina che appaia esternamente come la musica suona dentro l'album. Lo stile della copertina deve calzare la musica che racchiude. Voglio che il potenziale acquirente di quella musica prenda quella copertina perché sembra cool e lo connette con il materiale musicale. Una volta che il cliente tiene in mano il tuo packaging, è a metà strada dal comprarlo... E una foto giusta dirà migliaia di parole sulla musica e sul musicista.
George Dubose, Ramones - Too Tough to Die. Courtesy of George Dubose
TOULOUSE-LAUTREC LA BELLE ÉPOQUE di Vera Viselli
Henri de Toulouse-Lautrec La Revue Blanche 1895 Color Lithography, 125,5x91,2 cm © Herakleidon Museum, Athens Greece
guarire in quanto il ragazzo soffriva di osteogenesi imperfetta, e le sue gambe non poterono quindi più svilupparsi, facendolo fermare ad un’altezza di un metro e 52 cm.
Henri-Marie-Raymond de Tolouse-Lautrec-Montfa nacque nel novembre del 1864 da una nobile famiglia, un conte ed una contessa: una stirpe che discendeva da Raimondo V conte di Tolosa e che, durante il 19.mo secolo, faceva parte della cosiddetta aristocrazia di provincia - erano grandi proprietari terrieri, possedevano vari castelli ed appartamenti nei quartieri residenziali parigini, così come una tenuta di caccia (il padre era un grande appassionato di ippica ed amava guardare le corse di cavalli). Henri non fu esattamente baciato dalla dea bellezza: nel 1878 cadde sul parquet di casa (a quanto pare, il parquet era stato malamente incerato) rompendosi il femore sinistro, mentre l’anno seguente toccò all’altra gamba, dopo una caduta in un fossato. Queste due fratture non poterono mai
Insomma, Henri si ritrovava adulto nel corpo di un bambino, pur non essendo affetto da nanismo; questa sua particolare condizione fisica non gli permise, chiaramente, di partecipare attivamente alla vita sociale che il suo rango comportava, ma ebbe da un lato la fortuna di farlo immergere totalmente nell’arte. Quando era ancora un bambino, venne a contatto con un pittore sordomuto amico del padre, René Princeteau, il quale amava le raffigurazioni canine ed equestri e lo esortò a rappresentare soggetti sportivi, dopo averlo iniziato al teatro ed al circo.
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Henri de Toulouse-Lautrec La Vache Enragée (Before Letters) 1896 Color Lithography 70x57,5 cm © Herakleidon Museum, Athens Greece
Fu così che Henri iniziò a dipingere: perlopiù scene di carattere famigliare, battute di caccia e cavalli, che firmava però con uno pseudonimo per volontà paterna - il padre temeva di veder infangato il buon nome della famiglia -, mentre sembra che la madre lo definisse come “il nostro futuro Michelangelo”. Nonostante queste scene sembrino presagire una certa attenzione naturalistica, una volta trasferitosi a Parigi, Lautrec esplorò spesso e volentieri i luoghi che lo circondavano (soprattutto il quartiere di Montmartre), ma non secondo quello spirito puramente impressionista di cattura del reale: per lui il paesaggio non contava nulla, serviva solo per far emergere la figura, che era al centro del suo interesse raffigurativo. Il suo tipo di pittura e di grafica sono state più volte paragonate alla narrativa di Maupassant per via dei suo scorci taglienti e dei colpi di luce, e sta esattamente in questa rapidità di pennello la sua principale caratteristica: era quasi come se volesse sbrigarsi a comunicare, con la sua figurazione così duttile, dedita non all’ambito estetico ma profondamente vicina a quello dell’espressione linguistica.
Se questa velocità di catturare un qualcosa lo avvicina all’idea impressionista del prendere un momento e scaraventarlo su tela, è per l’appunto solamente un’impressione, perché Tolouse-Lautrec non desiderava affatto ritrarre quello scorcio di realtà che si ritrovava davanti, quanto piuttosto andare oltre quell’impressione visiva per catturarne lo stimolo psicologico. Tanto che per ottenere questa immediatezza di reazione alla vista, preferiva il disegno alla pittura, la matita al pennello, il pastello e la litografia. Ma la sua velocità non apparteneva soltanto al gesto grafico; era un qualcosa di molto più consistente, un atto mentale di percezione del futuro. Fu infatti il primo ad intuire le potenzialità del nuovo genere artistico - tutto cittadino - che si stava per affermare, la pubblicità, tanto che nel disegnare una copertina si impegnava allo stesso modo che per dipingere un quadro.Aveva capito precocemente quanto fosse importante comunicare per sollecitare una reazione, al di là del rappresentare, perché la reazione è generata da una comunicazione che colpisce , che si insinua in qualche
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modo nella mente, mentre nella rappresentazione l’oggetto in sé viene fissato. E basta. Questa sua espansione della concezione dell’arte fa si che l’attività artistica non finisca con un quadro (con l’oggetto finito) ma si protragga nei vari disegni, schizzi, dipinti ed incisioni che ci si ritrova a sfogliare esattamente come le poesie, arrivando a definire l’arte non più come la visione dell’artista ma come la quintessenza della sua vita. Una vita che, per definizione, vuole essere animata, ed i suoi principali soggetti (le ballerine, i mimi e le prostitute) non facevano che racchiudere in tutto e per tutto questo tipo di animazione, essendo attori e protagonisti perfetti di quella che era la commedia umana del tempo. La mostra curata da Stefano Zuffi ed organizzata dai Musei Reali di Torino ed Arthemisia Group, con il patrocinio della città di Torino e sotto l’egida del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, ha raccolto ben 170 opere dell’artista francese, provenienti dall’Herakleidon Museum di Atene, e ha ripercorso in modo perfetto ed essenziale il percorso artistico, umano e psicologico di Henri de Tolouse-Lautrec attraverso la divisione in dieci sezioni, seguendo tutti quei cambiamenti che hanno caratterizzato la seconda metà dell’Ottocento parigino.
Le prime quattro sezioni hanno visto protagoniste le Notti parigine, con tre sale dedicate ai soggetti delle loro scene e la quarta che si addentra nei luoghi degli spettacoli, passando dal Moulin Rouge all’Opéra. Lautrec decide di portare questo mondo notturno alla luce sbattendo letteralmente in prima pagina (ovvero sul poster pubblicitario) nomi e cognomi degli artisti che andavano in scena - Yvette Guilbert, Aristide Bruant, Jane Avril – dando in qualche modo il via allo star-system. La quinta sezione è stata riservata a I cavalli: Henri adorava gli animali e non poteva in alcun modo consolarsi per non poter cavalcare, data la sua condizione fisica. Una delle opere più significative ed importanti di questa sezione, Il fantino (1889), venne realizzata durante il periodo di ricovero in una clinica per disintossicarsi dall’alcol e dagli attacchi di delirio. Nella sesta sezione sono stati esposti I disegni, una serie di opere realizzate a penna e a matita, che l‘artista si ritrovò a fare durante i lunghi periodi di c onvalescenza che si alternarono per tutta la sua vita e che riguardavano maggiormente le persone, quasi fossero dei ritratti fatti di sfuggita, abbozzati, caricaturali. Particolarmente interessante il ritratto del padre e l'autoritratto in cui Henri
Henri de Toulouse-Lautrec Divan Japonais 1893 Color Lithography, 80,8x60,8 cm © Herakleidon Museum, Athens Greece
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è nudo, su un semplice foglio, senza alcun tipo di schermatura o protezione, che sembra simboleggiare in sé l’intera condizione umana di fragilità ed impotenza.
La sezione 9 è quella Con gli amici intellettuali. Lautrec, grazie ai suoi lavori, intesseva rapporti anche con figure di spicco del’ambiente culturale parigino, tra le quali editori, mecenati e poeti, tutti ritratti e presenti in mostra. Rapporti che lo portarono anche a realizzare la copertina e le illustrazioni di una raccolta di racconti di Clemenceau, Au Pied du Sinai, ambientata in diverse comunità ebraiche.
Le sezioni settima e ottava sono state riservate a Le collaborazioni editoriali. Tolouse-Lautrec non amava solo le ballerine ed i palcoscenici che le ospitavano: dopo averle ammirate e, perché n o, avvicinate, si metteva a lavoro per le tante riviste umoristiche che frequentemente lo richiedevano, grazie alla sua velocità realizzativa ma anche alla sua inventiva, cui faceva seguito la sua personale passione per le tecniche di riproduzione a stampa. Escarmousche è uno dei periodici illustrati con cui era solito collaborare, realizzando vignette di satira politica e di costume. Oltre a queste, sono esposti anche libri e spartiti musicali che egli aveva curato, così come una rara pietra litografica di Pour toi…! del 1893, in cui è possibile vedere Dihau, suo cugino, in un assolo di fagotto.
La 10 sezione: L’amore è un’altra cosa. Forse è la parte più bella della mostra, questa finale: vengono raccolte tutte le donne della vita dell’artista, amanti e non, nei loro momenti più privati, fuori o prima di andare in scena, quando ormai le luci sono spente e la solitudine tende a ripiombare su di loro. Nessuno, come lui, ha saputo cogliere questi attimi fuggenti e sfuggenti, momenti in cui le donne si truccano o riposano e nei quali egli stesso non deve vergognarsi per come è e può mostrare addirittura il suo amore impossibile, una signora incontrata durante un viaggio in nave, misteriosa e delicata, ne La passeggera della cabina 54.
Henri de Toulouse-Lautrec Femme au Tub, Elles 1896 Lithography (#18/100), 40x52,5 cm © Herakleidon Museum, Athens Greece
Tolouse-Lautrec La belle époque. 22 ottobre 2016 – 5 marzo 2017 Palazzo Chiablese – Piazzetta Reale - Torino Le opere qui riprodotte sono state esposte all'interno della mostra.
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HOLLYWOOD ICONS
Fotografie dalla fondazione John Kobal di Vera Viselli Era un ragazzino appassionato di cinema come tanti, John Kobal: nato in Austria nel 1940, si trasferì con i genitori in Canada e, quando sei un bambino negli anni Cinquanta, la sola cosa che può farti sentire vicino allo sbrilluccicante mondo di Hollywood è cercare tutto quello che lo riguardi. Dopo essersi trasferito a Londra ed aver iniziato a fare l’attore nelle commedie di sera, John passava le sue mattinate in giro per i mercatini d’antiquariato, nella speranza di riuscire ad accaparrarsi qualche annuario cinematografico d’annata, foto di scena di film, vecchi cimeli rivenduti dai fan. Dopo aver smesso la carriera d’attore iniziò a collaborare con la BBC per una trasmissione radiofonica in qualità di corrispondente americano, e queste sue corrispondenze, che lo portarono a New York e a Los Angeles, coincisero fatalmente con il fallimento di alcuni dei più grandi studios hollywoodiani: mentre questi buttavano tonnellate di materiale fotografico dai loro archivi, Kobal era pronto a salvarne quanto più poteva; la sua passione accumulatrice ed il contatto diretto con editori, direttori artistici, responsabili di immagini del settore lo fece divenire ben presto una fonte
molto autorevole circa il materiale cinematografico di Hollywood, fino alla nascita della Collezione Kobal. L’idea di andare a ritrovare i più famosi ritrattisti delle major e delle star gli venne da un fortuito incontro (avvenuto nel 1969) con il fotografo George Hurrell, uno dei ritrattisti più famosi della Golden Age del cinema americano, e così John decise di cercare gli altri, ancora in vita, che avevano documentato per immagini tutta la produzione cinematografica dell’epoca. Nel 1990 decise di dar vita alla Fondazione John Kobal, per promuovere lo studio della fotografia e le rassegne di opere fotografiche. Un anno dopo, con la sua morte, la collezione di negativi originali e stampe artistiche passò alla Fondazione, che le usò per sostenere mostre e promuovere la ricerca sull’era classica di Hollywood, anche attraverso la pubblicazione di molti libri. A partire dal 24 giugno e fino al 17 settembre 2017, è possibile ammirare oltre 160 di questi ritratti originali al Palazzo delle Esposizioni, con la mostra Hollywood Icons, Fotografie della Fondazione John Kobal, curata
rt Riche e for MoMarle ne Dietrich by Eugen e Robe es © John Kobal Pictur ount Param 1930. , rocco
Director Alfred Hitchcock by Ernest Bachrach for Notorious, 1946. RKO © John Kobal Foundation
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da Simon Crocker e Robert Dance, che grazie ai ritratti degli attori e delle attrici di Hollywood - da Greta Garbo a Clark Gable, da Ingrid Bergman a Grace Kelly, da Charlie Chaplin a James Stewart, da Mary Pickford a Sophia Loren e tanti altri - permette di svelare le figure di tutti quei fotografi di scena che, all’ombra dei riflettori, riuscirono ad immortalare quelle immagini glamour che furono basilari per la creazione delle stelle del cinema e per la promozione dei film. L’iconicità di Joan Crawford, Buster Keaton, Rita Hayworth, Marilyn Monroe nacque proprio dai ritratti in mostra: la maggior parte di queste donne e uomini che si vedono appesi sulle pareti non erano davvero nessuno quando varcarono per la prima volta le porte degli studios della MGM o della Universal o della RKO, si trattava di puri e semplici comuni mortali, che divennero divi (per non dire divinità) per volontà ed esigenze delle rispettive case di produzione, che investirono sul loro divenir celebri per ottenere un cospicuo ritorno d’investimento. Le immagini che li ritraevano dovevano essere fresche e continue, pronte al consumo da parte di un pubblico che divenne sempre più dipendente da esse ed insaziabile, a partire dagli anni Trenta, perché rappresentavano il solo ed unico legame (prima dell’avvento della tv e del dvd) che il pubblico poteva avere con i suoi attori preferiti; in qualche modo, le fotografie rafforzavano e approfondivano il legame tra attori e spettatori, dopo che questi ultimi li avevano visti una, due, tre volte sul grande schermo di qualche sala cinematografica. Oggi, invece, per noi rappresentano una sensazionale possibilità di rivivere quel mondo lontano e perduto, registrato nei negativi 8x10 pollici e rivenuto alla luce con le nuovissime e brillanti stampe ai sali d’argento.
Hollywood Icons. Fotografie dalla fondazione John Kobal
Rita Hayworth by Robert Coburn for Gilda, 1946. Columbia Pictu-
a cura di
res © John Kobal Foundation
Simon Crocker e Robert Dance della Fondazione John Kobal Palazzo delle Esposizioni - Roma 24 giugno - 17 settembre 2017 www.palazzoesposizioni.it www. johnkobal.org
Allestimento mostra Hollywood Icons. Foto: Donatella Brusca
GAZZELLE //
TRACK TOP GENERATION
recensione e foto di Elena Visentin , intervista di Marta Visentin
Si è conclusa lo scorso 27 maggio, all’Officine Utopia di Ceccano (FR), la tranche di live aggiunta dopo il successo riscosso in poco tempo dal cantante romano Flavio Pardini, in arte Gazzelle, per la promozione del suo ultimo, e primo, album: SUPERBATTITO, prodotto da Maciste Dischi. Un album potente e d’impatto, mitigato a tratti da toni pacatamente malinconici e da quella poesia mnemonico-romantica che spiazza e al contempo incanta, veicolata da sonorità elettro-pop ricercate e ben miscelate sotto la supervisione d'un artista di calibro come Leo Pari. Quello di Pardini è la dimostrazione di un progetto riuscito a farsi strada dal basso, costruito giorno per giorno, live dopo live. La naturalezza e la chiarezza dei testi, fusi alla funzionalità dei suoni, rappresentano indubbiamente il vero punto di forza dell’artista che è così riuscito a riscuotere un significativo successo nel giro di pochissimi mesi, autonomamente, senza l'ausilio dei canonici canali promozionali. Una musica, la sua, che riesce a coinvolgere completamente chi l’ascolta, esattamente ciò che è successo lo scorso sabato: il locale sold out, l'entusiasmo tangibile della platea all'apertura del concerto con Balena, le emozioni che si mescolano nello stomaco come colori su una tavolozza, completamente amalgamati in un'unica nuova, irrompente, forma. E se poi, durante i live, trasportato dal sound non si fa mancare la pogata in mezzo al pubblico sulle note di Zucchero Filato, portando a livelli stratosferici l'entusiasmo dei fan, c'è anche da dire che Flavio Pardini non è certo uno di tante parole: è un ragazzo apparentemente schivo, con un'aura di naturale riservatezza, ma che sa sciogliersi e divenire quasi incontenibile nell flusso di pensieri che lascia venir fuori se si tratta di musica (lo abbiamo scoperto con grande sorpresa dopo il soundcheck, quando abbiamo avuto il piacere di intervistarlo). Sarà per le tante interviste ormai fatte dovute ad un successo tanto immediato? Probabile, ma la cosa certa è che, lui, di musica ci vive e di cosa ci fa piacere parlare se non di quello che ci tiene vivi?
L'atmosfera che Gazzelle riesce a creare con tracce come Quella te, Non sei Tu, Greta o Non mi ricordi più il mare, la parte più melancolica dell'album, è un'atmosfera satura di ricordi che riaffiorano - quasi mesta - che porta ogni ascoltatore a ritrovarsi in totale sintonia con le parole, parole che sembrano appositamente scritte per creare un legame empatico. Gazzelle si fa portavoce della spontaneità più assoluta, in modo diretto e senza troppe sovrastrutture, unisce alla semplicità delle parole un sound ben definito arrivando ad un risultato sorprendente: la creazione in chi ascolta di immagini e sensazioni immediate e viscerali, che danno vita ad un genere che lui stesso si è divertito a definire come sexy-pop. Gazzelle si piazza quindi perfettamente al centro della scena indie contemporanea - romana e nazionale - andandola a completare: tra artisti come Calcutta, Sick Tamburo, Cosmo o I Cani, costituisce il pezzo mancante di un ingranaggio di produzione garantito ed efficiente per una nuova generazione di artisti e di un pubblico fatto di giovani che alternano malinconiche paralisi sentimentali al bisogno di evadere e sfogare molteplici sensazioni dovute a ricordi (o pseudo tali) di un frammento di vita - di coppia la maggior parte delle volte - vissuto e ormai andato, di cui portano ancora i segni. Una track top generation, dove chi ascolta vive attraverso chi canta, dove l'attenzione all'immagine passa per pochi segni distintivi: giacche larghe acetate con colori sgargianti, una sigaretta tra le dita e il ritrovarsi perfettamente dentro ad una ruvida necessità di starsi addosso e sentirsi parte di un unicum. Chi è Gazzelle? Chi eri prima di Gazzelle? Quale è stato il tuo percorso musicale? Gazzelle è semplicemente Flavio Pardini, lo era prima e lo sarà sempre. Ho iniziato a scrivere da bambino perché mio padre suonava e in casa avevamo parecchi strumenti musicali. Mi sono avvicinato subito e in modo abbastanza naturale alla musica. Ho scritto la mia prima canzone in seconda ele-
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mentare, per il mio migliore amico. Da quel momento non sono più riuscito a smettere.
-nenti al mio stesso mondo anche se mi piacerebbe collaborare con Cosmo.
So che sei interessato molto anche alla musica elettronica, anche tuo fratello Igor Pardini ha collaborato al disco. Ho sempre ascoltato musica elettronica, techno e deep house. Mio fratello mi ha aiutato con la produzione del disco che è stato registrato interamente nel suo studio di registrazione (il Cubo Rosso).
Qual è la canzone a cui sei più legato? Quale canzone ami cantare di più sul palco? “Non sei tu” è la canzone a cui sono più affezionato ed è anche la canzone che sento di più sul palco. Ogni volta che la canto con il pubblico si crea una bella energia e mi emoziono molto.
Che musica ascolti ultimamente? In realtà non ascolto molta musica in questo periodo per via del tour che mi impegna tantissimo, quindi avendo poco tempo a disposizione durante il giorno ascolto poco ma di tutto. Ultimamente sto ascoltando molto musica trap in particolare quella americana e sopratutto il rap. Molte delle tue date sono state sold out, un successo inaspettato fin da subito a partire dalla prima, lo scorso 3 marzo al Monk di Roma. Ti aspettavi tutto questo seguito? Secondo te a cosa è dovuto? Perché Gazzelle piace così tanto? Sicuramente non me lo aspettavo! Penso che la mia musica piaccia perché è diretta e sincera, non è costruita, non ci sono molti filtri. Fra me e chi ascolta non ci sono dislivelli, non ci sono né messaggi veicolati, né morali, né giudizi. Mi spoglio completamente creando così un’empatia tra me e il pubblico, cosa che riscontro anche nei live. Ecco, credo sia questo ad avere seguito. Molto spesso sei stato paragonato a Calcutta. Come ti fa sentire l’essere paragonato a lui o anche ad altri artisti? I paragoni sono inevitabili, anche io ne faccio e non solo nella musica. Credo sia nella natura delle persone cercare di paragonare le cose per dargli un senso. Essere paragonato ad un altro artista non mi da fastidio. Calcutta mi piace molto, ma se mi paragonassero a Gigi D’Alessio, forse forse...
Stai scrivendo ancora anche durante il tour? Sui social network ogni tanto riveli qualche anticipazione di qualche nuovo brano… Sì, e il mio manager si arrabbia! Io scrivo tanto, sono molto produttivo. Durante il tour ho scritto due canzoni nuove che usciranno presto. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Far uscire due nuove canzoni in estate e continuare il tour. Con la data di oggi finisce la prima parte del tour che è andata da marzo a maggio, poi partirà il tour estivo in tutta Italia. Ci saranno tante nuove date e sarò molto impegnato quindi per adesso sono concentrato su questo. L’anno prossimo inizierò a lavorare a qualcosa di nuovo. Vorresti sperimentarti in qualcosa di nuovo in futuro? Sicuramente farò qualcosa di diverso. A me piacciono gli artisti che cambiano e rischiano. Sono molto camaleontico e in generale mi piace cambiare molto. A livello di sound mi piace sperimentare, difatti le due nuove canzoni che usciranno tra poco saranno differenti. Non ho idea di come sarò tra un anno, però sarò diverso. Spero di poter essere sempre libero di fare quello che voglio.
Ti piacerebbe collaborare con qualche artista italiano? A livello artistico penso che la mia musica possa sposarsi molto bene con il genere rap. Apprezzo molto Ghali. Credo non avrebbe senso combinare la mia musica con artisti apparte-
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BRENDAN FLETCHER. LA VOCE DEL NEW JERSEY di Vera Viselli
Brendan Fletcher non avrà vinto l’undicesima edizione di The Voice Usa (è arrivato fino alle semifinali), forse perché semplicemente non ne aveva bisogno. Seguendo il programma online fin dal suo esordio nel 2011, non avevo mai visto qualcuno con la musica negli occhi come lui: nel corso delle varie edizioni si sentivano bellissime voci ed esibizioni altrettanto belle, ma la musica nello sguardo di qualcuno, è la prima volta che mi capitava di vederla. La forza della sua interpretazione no, sentivo che non era la prima volta che la vedevo: è la stessa del Boss, della sua terra, qualcosa di ancestrale, a tratti quasi splendidamente brutale per come erutta da certe - rarissime - persone, e poi in un giorno di novembre arriva a performare The River live per tre minuti che fanno tremare i polsi. Non tanto per il coraggio, ma come se arrivasse un terremoto talmente intenso da far muovere il proprio corpo, e non potevamo non parlarne direttamente con il diretto interessato, grazie ad un’intervista concessaci da Brendan e dal team di The Voice ed Nbc.
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Quando ho visto la tua blind audition su youtube e prima che dicessi di essere originario del New Jersey sono rimasta estremamente colpita dalla tua voce e dall’intensità che emanava: per molti, molti secondi ho pensato di trovarmi di fronte ad un giovane Bruce Springsteen. Ed infatti più avannti, in un live dello show, hai cantato The River in un modo così passionale, emotivo e diverso – impresa difficilissima, se pensiamo al tipo di canzone ed al suo autore – che non ho solo visto del rock in te, ma proprio tutte le fondamenta musicali del New Jersey. Quindi partirei chiedendoti delle tue origini musicali e della band che hai formato con tuo fratello: che musica suonavate? Sono cresciuto ascoltando Bruce. I miei primi ricordi musicali riguardano mia madre che ascoltava Born to Run nel giradischi mentre mi cullava. Quando sono diventato più grande, ho iniziato ad analizzare anche i testi delle sue canzoni, ad esplorane i contenuti, ed ho iniziato ad apprezzare non soltanto la qualità acustica degli album, ma anche quelle bellissime storie che ne scaturivano fuori, che venivano narrate e raccontate al loro interno, ed alcune di esse potrei associarle e riferirle al modo in cui un bambino si trova a crescere in una piccola cittadina del New Jersey. o e mio fratello abbiamo suonato in molti gruppi al liceo ed al college proprio per provare a ricreare quella magia che avevamo conosciuto grazie a Bruce e a Bob Dylan, ascoltando i loro album. Ora suoniamo in una band, che si chiama Another Brother Band, e suoniamo anche dei nostri pezzi da solisti. Songs from Island Avenue, l’album di mio fratello, assomiglia a Greetings from Asbury Park (il primo album di Bruce Springsteen, n.d.r.).
Vivere di musica, oggi, è un’impresa difficilissima: sappiamo che ci hai provato e ti sei trasferito a Brooklyn proprio per questo. Hai deciso di partecipare alle audizioni di The Voice perché ormai solo la tv può offrire una certa visibilità musicale a musicisti, performer, cantanti di vario genere? Come ti sei sentito e trovato a far parte dello show? Mi è piaciuto molto quello che lo show è riuscito a sviluppare in me. Prima di entrare a far parte di The Voice, ero un vagabondo: cambiavo continuamente lavoro, lottando per cercare il mio posto nella vita. Ho sempre amato molto la musica, ma sapevo bene che qualsiasi tipo di approccio professionale alla musica, una vera e propria carriera musicale sarebbe stata inarrivabile per me, un qualcosa di intangibile, che non poteva riguardarmi. Finché non ho partecipato a The Voice. Il programma è riuscito a mettermi di più in contatto con il pubblico, a creare una connessione migliore tra me e le persone e chiaramente a farmi sentire molto più a mio agio sul palco. Ma più di ogni cosa, mi ha insegnato a sognare in grande.
Ne sono felice. Mi hanno sempre accostato a quei cantanti che suonano e cantano con una certa disperazione, come se quel preciso momento in cui si stanno esibendo fosse il loro ultimo sulla terra, e Springsteen è un esempio perfetto in tal senso. A me piace approcciarmi alla musica esattamente allo stesso modo. Mi piacerebbe suonare con una band, e al momento ne sto mettendo su una per registrare qualche canzone. Se potessi decidere adesso del tuo prossimo futuro – magari fra due anni sarai veramente pronto per un tour e con un album in uscita, e speriamo di riuscirti a vedere e sentire anche in Italia -, che tipo di album sentiresti di poter o dover fare, che strada musicale intraprenderesti? Mi piacerebbe molto venire in Italia! Andare in tour non è solo una possibilità ma qualcosa che vedo già prossimo all’orizzonte. Quello che voglio è registrare un album che sia un incrocio tra Bruce Springsteen, Joe Cocker, Bob Dylan e Tom Waits.
Torno un attimo sulla tua attitudine vocale: nel tuo futuro ti vedi meglio in una band o come singolo? Te lo chiedo perché il graffio che si avverte solo con la tua voce e la chitarra credo sia una delle cose di cui è fatta la musica stessa, ed è talmente potente da sembrare quasi imbarazzante, anche per chi ti ascolta. E’ quella stessa connessione che ha creato Springsteen e che lo fa amare dal suo pubblico ma è come se ce ne fosse un pezzo importante anche in te - non so se è per merito del New Jersey, del rock o della musica in generale...
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viale P.L. Nervi, 76 - Latina via Ezio 47 - Latina via Le Pastine, 18 - Sermoneta via Don Torello, 51 Latina
what's happ
Fotografie: Luca D'Agostino
Luigi Lo Cascio. Le parole di Pasolini di Francesca Attiani
Il lavoro che ha affrontato Luigi Lo Cascio, in una coproduzione tosco-friulana, per Il sole e gli sguardi, lo vede ricomporre un tessuto pasoliniano materiale e immateriale con cura filologica: Lo Cascio porta a teatro un diario di vita, come narratore esterno e contemporaneamente personificazione del poeta di Casarsa, tentando di rievocare nello spettatore sentimenti familiari della propria storia. Attraverso la produzione lirica di Pasolini, Lo Cascio è stato in grado di riannodare i fili di una vita che, in quanto tale, è già vaticinio di morte: quasi come in una tragedia greca, l’immagine del Pasolini trucidato allo scalo di Ostia sembra accompagnarlo come un incubo fin dalla sua nascita, premonizione funesta che rompe il gioco spensierato di Pier Paolo fanciullo, pensiero ossessivo che lo paralizza in un mondo di paure. La poesia è per il Pasolini di Luigi Lo Cascio una palestra di sentimenti, un luogo dove camminare liberamente tra angosce e passioni, è lo spazio che lo mette in contatto con l’io più intimo. Per questo motivo in scena vi è oltre all’attore un artista – Nicola Console – capace di rappresentare dal vivo ad ogni replica le immagini in grado di invocare quell’io poetico. Le immagini costruite in diretta, pennellando di nero grandi superfici bianche, sembrano esprimere l’orrore del sacrificio umano, scandiscono ritmicamente il peso delle uniche parole pasoliniane impronunciabili: quelle private, che raccontano della sua infanzia, del rapporto materno e
delle pulsioni più recondite. Essere presenti a questa epifania di morte non è per lo spettatore, però, motivo di strazio, poiché viene riconsegnato lentamente allo sguardo del mondo un uomo dalla grande forza e dal magnetico coraggio. Non scontato il parallelo cristologico: nel compianto del Pasolini morto tra la polvere, come nella colpa espiata con sfacciata vitalità; in tutta la produzione cinematografica e teatrale, Pasolini ha guardato con attenzione al cristianesimo soprattutto per immagini attraverso la storia dell’arte cinque-seicentesca, ne ha subito il fascino con incredula introspezione. L’arte è perciò l’elemento fondante di questo spettacolo: come in una performance contemporanea, i versi pasoliniani sembrano spuntare casualmente dalla voce profonda di Lo Cascio, collegandosi tra di loro in maniera sempre nuova e inaspettata: anche qualora si conosca bene l’autore, questo dialogo tra immagini e parole inconsce tesse un autoritratto credibile quanto nuovo. Le musiche futuristiche di Andrea Rocca, come le scenografie minimaliste di Alice Mangano sono studiate per sembrare spontanee, come le luci di Alberto Bevilacqua: secondo pennello dell’artista. È un esperimento in diretta, che riesce con successo perché condotto con estrema sensibilità da Lo Cascio, il quale non invade mai lo spazio personale del poeta pur camminandoci dentro, sfiora delicatamente delle pagine per riconsegnarci una puntuale stratigrafia dell’anima di Pasolini.
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LA TORRE, LA TERRA, IL FUTURO a cura di Simone Ialongo
Padiglione espositivo Ex Torre Idrica MAP Museo Agro Pontino - Pontinia (LT) 27 agosto - 27 settembre 2017
Fotografie: Marcello Scopelliti
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Nel 1987 gli agricoltori erano abbindolati da un sistema che imponeva loro determinate regole e sostanze. Decisi di cambiare rotta verso un agricoltura piĂš naturale e sostenibile.
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Lorenzo Arcangeli Azienda Agricola biologica, Via Campania 30, Sezze (LT) Produzione: ortofrutticola, cerealicola, animali da carne e prodotti da forno Distribuzione: Vendita diretta, mercato locale
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Il pesce selvatico sa di essere un pesce perché deve difendersi e procacciare il proprio cibo. Il pesce d’allevamento non sa di essere un pesce… e così per l’uomo che vive secondo le regole di questo sistema.
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Nel 1986-87, a livello generale, non c’era una conoscenza tecnica dell’agricoltura biologica. Si facevano mille prove l’anno e di queste mille prove solo quattro o cinque erano buone. Erano poche, ma davano una conoscenza pratica. Entrai in crisi, ma la crisi aprì nuove strade. Pasquale Falzarano
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Agrilatina, azienda agricola biodinamica Via Litoranea, 8128 (Località Fogliano) Latina Produzione: ortofrutticola, cerealicola e prodotti da forno Distribuzione: grande distribuzione mercato estero e locale. Vendita diretta, mercato locale
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Quando ho iniziato a lavorare la terra mio padre seguiva la luna. Io credevo non fosse importante poi, oggi, mi sono reso conto che questa influenza è molto forte
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Si deve guardare la pianta per come è collegata con tutto il Creato, lontano e vicino, perché trae energia dalla Terra e dal Cosmo
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