ART PHILOSOPHY VISUAL CULTURE
N.9 2017
FREEPRESS
INDICE
IL MURO Art, Philosophy and Visual culture rivista bimestrale magazine n. 9, gennaio - febbraio 2017 Direttore responsabile Luisa Guarino Direttore creativo Jamila Campagna
3 APERTURE
Musei e social media? #SocialMuseums di Francesca Attiani
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LA RUOTA PANORAMICA
Ex Torre Idrica di Pontinia di Luigi Caponera
8 CONTEMPORARY REVIEW
Caporedattore Gaia Palombo
Hopper. Inquietudine nascosta di Vera Viselli
Coordinamento progetto grafico Valentino Finocchito
10 MZK INTRAVISTA
Team grafico Valentino Finocchito Ramona Moretto Francesca Busatto
12 LA RECHERCHE
Ricerca iconografica Jamila Campagna Gaia Palombo Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Francesca Attiani Jamila Campagna Luigi Caponera Giulia Pergola Vera Viselli Redazione IL MURO via Veio 2, 04100, Latina Editore e Proprietarioand Owner IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Web www.ilmuromagazine.com Contatti infoilmuro@gmail.com www.facebook.comILMUROmagazine Stampa Tipografia PressUp Roma Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) In copertina: Artwork di Francesca Busatto
Federico Fiumani. Diaframma aperto di Jamila Campagna
Giuseppe Penone incontra Roma. Tradizione e innovazione
dialogano grazie a Fendi di Giulia Pergola
Giuseppe Penone alla Gagosian Gallery di Roma. Le Equivalenze tra natura e cultura di Giulia Pergola Luneur Park. Il parco delle nuove meraviglie di Vera Viselli
18 CONTEMPORARY REVIEW
Dove sono gli ultras. La società è uno stadio di Jamila Campagna
20 LEGÊRE
Antonio Pennacchi, parte prima di Vera Viselli
MUSEI E SOCIAL MEDIA? #SOCIALMUSEUMS di Francesca Attiani
Il 24 novembre 2016, l’Associazione Civita ha presentato a Roma il suo X rapporto d’indagine sull’utilizzo dei social media da parte dei musei, con una serie di interventi mirati ad analizzare la situazione comunicativa italiana, l’iniziativa ha permesso di affrontare il tema anche attraverso l’uso di un live tweeting, e ponendo dunque le basi ad un dialogo aperto: attraverso l’hashtag #socialmuseums numerosi contenuti del workshop sono stati divulgati su Twitter in tempo reale. Questa pratica, sempre più in uso durante iniziative culturali, sembra essere il vero manifesto pratico del tema affrontato. Il Volume. La prefazione e la conclusione, affidata ai curatori dello studio (De Biase – Valentino), aprono piccoli spiragli di riflessione, il più potente: “possono i social media essere considerati davvero strumenti di democratizzazione culturale o piuttosto finiscono per generare nuove gerarchie?”, da questa domanda si deve necessariamente partire nell’analisi che coinvolge le istituzioni museali e i luoghi di interesse culturale, poiché non può esistere una comunicazione social senza una strategia a monte che ne imposti l’assetto adeguandolo al digital open space. Segue una spiegazione teorica da parte di Valentino di quelli che sono i social media oggi, e del loro senso specifico, dimostrando con alcune percentuali la prevedibile supremazia degli Stati Uniti nell’uso delle piattaforme digitali, affidando alle note preziose riflessioni che illuminano la problematica della scarsa professionalità del personale museale a cui viene affidato il compito di gestire la comunicazione social. A Valeri è affidata un’ulteriore spiegazione dei social media presenti nel mercato, che muove i primi passi di focalizzazione nella sfera del marketing culturale. Misiti e Mannucci ci spiegano le metodologie utilizzate per questo studio, entrando nel merito grazie a delle grafiche molto efficaci (che forse potevano/dovevano occupare la gran parte del volume): da questo studio emerge l’uso preponderante di YouTube e Facebook – da parte del campione analizzato – ai quali seguono Google+, Instagram e Twitter; il mondo degli artisti viene prediletto rispetto a quello museale e teatrale nel seguito social (la personalizzazione è ovviamente motivo di empatia). Da sottolineare come il giudizio sulla presenza dei settori culturali sui social media sia in larga parte ritenuto “buono” o “sufficiente”, quasi mancando di fiducia nelle possibilità o meglio accontentandosi. A questo studio va unito quello (di Mannucci – Sciucchini) sull’utilizzo di alcuni musei nel confronto, distruttivo, Italia – resto del mondo. Fuggetta ci riporta al valore della cultura che, nel digitale, diventa “prodotto” e quindi ripensando a quanto le tecnologie digitali condizionino lo sviluppo culturale: non viene messa in discussione la missione culturale in sé, ma, cambiando i bisogni, emergono nuove aspettative e nuove opportunità che debbono rientrare obbligatoriamente nell’offerta che l’ente vorrà supportare. In linea con questo tema è la riflessione di Albanese che ammette come sia impossibile fare comunicazione social senza fare marketing, e che il vantaggio sta proprio nel saper sfruttare questo dualismo. Sempre in quest’ultimo saggio, 10 suggerimenti pratici per un direttore di museo che voglia capire e usare i social media: finalmente uno slancio pratico, una sveglia che può servire a tutti, una proposta attuabile in un mare di “teoricismi”.
In seguito un riferimento all’utilizzo del crowdfunding per la cultura nel testo di Pais – Valeri, una delucidazione delle modalità ma anche un monito: si tratta di un mezzo che non può essere adottato senza che vi siano le condizioni ambientalistrategiche necessarie all’applicazione del progetto per cui si fa appello, ammettendo la necessità di esperti in marketing e in comunicazione per una campagna efficace. Cassese riporta l’esempio del mondo del cinema, che ha scelto di essere presente sui social media senza stravolgere i propri assetti; Tonelli invece riporta l’esempio di Artribune, una piattaforma editoriale che deve ai social media gran parte del suo successo. I social media possono estendere il raggio d’azione di eventi e reti culturali, ci dice Pastore, sono numerosi i casi positivi, ma senza dimenticare che vanno affidati a figure formate appositamente. I casi positivi sono anche quelli che creano una rete di contenuti digitali attraverso il coinvolgimento di semplici utenti: Misiti ne cita alcuni come #invasionidigitali (il pubblico che diventa soggetto attivo, riportando talvolta all’attenzione luoghi in ombra, di cui parlano approfonditamente Bonacini – Marcucci – Todisco in un altro articolo del volume), Twitteratura (divulgazione letteraria), Se i quadri potessero parlare (un fortunato gioco a tema artistico), Amici del Museo (gruppi di utenti che valorizzano spesso siti minori), il FAI. A questi casi va aggiunto #svegliamuseo che, come dice De Gottardo, ha avuto ed ha il merito di accendere i riflettori sul mancato coinvolgimento dei luoghi della cultura nei social media, aprendo al dibattito. Di Comin la riflessione sulla necessità che i medi e piccoli musei facciamo una rete social, pensandola come risorsa. È seguito l’intervento di Spatafora che ha illustrato come il museo Salinas di Palermo sia stato “aperto per vocazione” nel periodo di chiusura al pubblico attraverso i canali social, innescando così un riavvicinamento del pubblico che si è sentito parte nella riapertura, anche grazie all’uso di un linguaggio semplice e ironico. Un altro caso interessante è quello, esposto da Anniboletti, sulla comunicazione che si sta facendo in questo anno per rilanciare Pompei: l’uso dello storytelling, del “com’era - com’è”, di contenuti creativi e virtual tour hanno fatto di questo piano editoriale un esempio promettente. Il terzo caso quello del MAXXI di Roma dove, a detta di Cupellini, i social media sono stati fondamentali per il coinvolgimento diretto del pubblico in performance. Chieffi ha riportato l’attenzione, invece, sulla sfera toccata dai social media: quella emozionale, e questa non esiste senza immagini e video che rendono possibile il coinvolgimento emotivo e quindi anche quello di mercato. Un’azienda che voglia sfruttare appieno i social dovrà tenere conto della cultura e della professionalità utile a instaurare con l’utente un rapporto di fiducia. A Mandarano l’onere di fornire i numeri dell’utilizzo social che riguardano i musei e i luoghi culturali: dati negativi oggettivi per l’Italia, motivati dalla mancanza di uno staff qualificato specifico per l’attuazione di una strategia social condivisa da tutto il personale museale; ma per fare ciò c’è bisogno di maggiori investimenti finanziari e di analizzare i target di riferimento.
IL MURO
EX TORRE IDRICA DI PONTINIA di Luigi Caponera
Il 19 dicembre 2015, è stata inaugurata la restaurata Ex -Torre Idrica nella città di Pontinia (Latina), uno tra gli esempi d’architettura di Fondazione, sita in Piazza Roma, progettata nel 1934 dall’ingegnere Alfredo Pappalardo con la consulenza artistica dell’architetto Oriolo Frezzotti. La direzione dei lavori del restauro conservativo della Torre è stata affidata all’Arch. Luigi Caponera, all’Ing. Andrea Mantuano e All’Arch. Massimo Piero Cerasoli. L’intervento di conservazione e riqualificazione ha portato a una nuova destinazione d’uso dell’edificio: cessata l’attività di acquedotto negli anni ‘70, la Torre è rimasta a lungo in disuso e ora viene inaugurata come spazio espositivo coordinato con il MAP Museo Agro Pontino, presente nella città di Pontinia. Il progetto esecutivo del restauro, redatto nel 2008-2009, era da considerars innovativo; a partire dal sistema di trattamento termico degli ambienti interni, realizzato mediante pompa geotermica (scambio termico con acqua di falda). Questo tipo di tecnologia, infatti, permette un buon risparmio energetico, evitando di utilizzare l’aria quale elemento di scambio. Inoltre, per evitare di consumare l’acqua della falda, vengono utilizzati due pozzi: uno, quello di emungimento, è stato realizzato ad hoc; per la restituzione in falda è stato invece utilizzato un pozzo preesistente. Nel progetto complessivo, erano inoltre previste la realizzazione di pannelli fotovoltaici e la piantumazione di alberi, col fine di portare le emissioni di CO2 a va-
lori prossimi allo zero; ulteriori interventi, che testimoniano un certo carattere avveniristico e ambizioso per quegli anni, non sono ancora stati attuati. Rispetto per l’esistente, l’utilizzo di fonti alternative, risparmio e innovazione sono dunque stati fattori determinanti che hanno reso finanziabile il progetto di restauro. Infatti, per quanto riguarda il restauro, si è cercato di conservare il più possibile i materiali utilizzati all’epoca della costruzione, limitando le demolizioni a quelle parti irrimediabilmente ammalorate e alle superfetazioni. Al pian terreno è stata inserita una nuova pavimentazione in acciaio - grigliato keller - al fine di ottenere un ulteriore piano utile e funzionale; a tale scopo, per creare una configurazione omogenea, nel rispetto del valore storico dell’edificio, il sistema strutturale di sostegno della nuova pavimentazione è stato realizzato con la medesima tessitura di quello originale. Attraverso la pavimentazione a griglia metallica sono visibili gli impianti di distribuzione dell’acqua, alcuni del 1935, altri inseriti successivamente negli anni ‘50, tutti accuratamente
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trattati e conservati; gli impianti originali si differenziano dai successivi per la loro caratteristica colorazione blu, colorazione che è stata mantenuta. Il sistema di segnalazione del livello dell’acqua nella vasca, posto al piano terra, è stato conservato; i caratteri numerici dipinti sulle pareti interne della torre indicavano il livello dall’acqua nella stessa vasca posta a 22 mt di altezza. Relativamente alla funzionalità dell’acquedotto, destinazione originaria della struttura: il problema più grande incontrato, già prima della Guerra, fu quello legato al processo di insabbiamento del pozzo; lo stesso, infatti, è stato portato successivamente dai 60 metri iniziali a 105 metri di profondità, con la contestuale sostituzione dei motori esistenti con una nuova coppia di motori. Successivamente – nel 1950 - al crescere della popolazione residente, si rese necessario il potenziamento dell’impianto.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 sono stati realizzati tre nuovi serbatoi di accumulo dell’acqua in un apposito stabile ubicato accanto alla torre; è stato inoltre realizzato un nuovo pozzo per il prelievo di acqua potabile. Nel 1972 - con la Cassa del Mezzogiorno – per far fronte alle nuove esigenze delle utenze cittadine, è stata realizzata una nuova torre piezometrica e la Torre Idrica di Piazza Roma ha perso la sua funzione. Il primo ambiente, al piano di ingresso, è caratterizzato dalle travi strutturali, che per diversi livelli si slanciano dai pilasti perimetrali in cemento armato, prigionieri, questi, della parete in muratura. Le travi si incontrano nel vuoto disegnando trame geometriche sovrapposte che la prospettiva rende assai inusuali per i nostri occhi; questo sistema strutturale, che appare realizzato recentemente, è stato concepito, progettato, calcolato e realizzato nel 1934-35 dall’Ing. Pappalardo, così come la struttura nel suo complesso. Nell’intervento si è resa necessaria un’accurata pulizia e risanamento delle strutture, anche con la rimozione di parti ammalorate e protezione del ferro d’armatura mediante trattamento con prodotti in grado di bloccare il fenomeno dell’ossidazione; non si è provveduto ad un successivo trattamento cromatico delle superfici a testimoniare gli interventi realizzati con l’attuale restauro. Tra gli interventi di valorizzazione funzionale, a supporto di quelle strette scale che consentivano al fontaniere di raggiungere il piano della vasca, è stato realizzato un ascensore panoramico, privo di un vano chiuso, in modo da non alterare la percezione dello spazio visivo; durante il percorso, inoltre, offre al visitatore la possibilità di osservare da vicino la struttura interna grazie alla trasparenza della cabina. La corsa dell’ascensore termina al piano denominato sottovasca: qui si può osservare da vicino la struttura portante della vasca, dove un tempo si effettuavano ispezioni e si eseguivano piccole operazioni di manutenzione e manovra sull’impianto di alimentazione e di scarico della stessa vasca. Proseguendo sulla preesistente scala di servizio, si accede al piano superiore che contiene la vasca vera e propria. Durante i primi anni di esercizio le pareti del piano della vasca sono state tinteggiate con calce bianca per motivi igienici; ora, la calce, ormai ammalorata, è stata rimossa ed è stato riportato alla luce il colore rossiccio delle pareti in mattoni; i mattoni sono un elemento caratterizzante anche la struttura esterna dell’edificio, che è interamente bicolore nell’alternanza tra mattoni, marmo e finto marmo bianco.
IL MURO
L’accesso per la manutenzione all’interno della vasca – capienza utile di 180 m3 - era consentito, in origine, solo da una “scala alla marinara”; successivamente, data la difficoltà d’uso, è stata aggiunta una più sicura scala a pioli con pianerottolo che consentiva, tramite una botola di servizio, di raggiungere anche il terrazzo esterno. Ora è stata realizzata l’apertura di un passaggio attraverso la struttura della vasca, per rendere fruibile l’ambiente all’interno della stessa; qui è ancora possibile scorgere parte del sistema composto di carrucole, cavi e galleggianti, atti a indicare al fontaniere, al piano terra, il livello dell’acqua. Nell’operazione di pulizia della vasca particolare attenzione si è posta nel conservare i segni dei livelli dell’acqua; è dunque ancora possibile osservare tutti i livelli raggiunti dall’acqua all’interno della vasca, nel corso degli anni di attività dell’acquedotto, con una variazione cromatica che va dal senape al marrone scuro, lasciando intuire dove l’acqua ha riposato per un tempo maggiore. Il varco di accesso alla vasca, ricavato tagliando e asportando parte della parete della vasca stessa, consente di osservare la sezione del cemento armato; qui si notano i ferri d’armatura e si può riscontrare anche la buona qualità del materiale adoperato. All’interno dell’ambiente della vasca si prevede la realizzazione di una piccola sala cinematografica che potrà accogliere un numero massimo di sedici spettatori; le proiezioni effettuate all’interno della vasca saranno comunque riprodotte contemporaneamente su un monitor al piano “sottovasca” consentendo così di accedere ai contenuti multimediali anche alle persone che, per difficoltà di deambulazione, non potessero raggiungere il piano della vasca. Una nuova scala in acciaio è stata aggiunta, inoltre, per consentire al visitatore di accedere al terrazzo panoramico; dal terrazzo, infatti, è possibile godere di un panorama unico, ove si vede la campagna pontina, ancora vicina per caratteristiche a quella di circa ottanta anni fa, e il centro urbano. A completamento della nuova funzione urbana della Torre, verrà realizzato anche un allestimento permanente nel terrazzo, dove saranno collocati pannelli informativi, una guida all’osservazione del panorama cittadino e naturale. Non sfugge, ad un attento visitatore, che da questa posizione privilegiata è possibile rileggere la genesi della struttura urbana della città di Pontinia, nata attorno ad una serie di assi principali, al cui termine furono collocate le strutture edilizie più importanti che simboleggiavano la presenza istituzionale; presenza istituzionale che viene enfatizzata nell’Edificio Comunale, con la torre e il tricolore; nella Chiesa, con la torre campanaria; infine, sulla confluenza di due assi stradali apparentemente secondari, la torre dell’acquedotto, a rappresentare il potere politico fascista dell’epoca. Quest’ultima, infatti, si può leggere come un simbolo politico in una triade, insieme alla Torre Amministrativa (il Comune) e alla Torre Religiosa (la Chiesa).
1. Recupero e riqualificazione dell'area all'interno del centro storico in prossimità del Fiume Sisto, Piazza Roma. Variante in corso d'opera. Restauro conservativo e riuso della Torre Serbatoio di Piazza Roma (Pontinia), 1935. Arch. Luigi Caponera, Arch. Massimo Piero Cerasoli, Ing. Andrea Mantuano. Maggio 2010. Tutte le foto: Jamila Campagna
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A conferma di questa duplice funzione, oltre ad un aspetto monumentale, suggerito allo spettatore dall’assenza di porte e finestre sul prospetto principale e da una vasca e tre fontane poste alla base della torre. Per mezzo delle tre nicchie in cui si struttura la facciata, è possibile leggere, tramite un gioco di luci e ombre in certe ore della mattina, la formazione di tre fasci littori stilizzati. Nell’ambito dell’intervento di restauro della Torre idrica, è interessante notare come il recupero strutturale e architettonico sposi perfettamente quella che è la valorizzazione, dunque una consona destinazione sia d’uso che di significato. Consapevoli dell’impossibilità di ripristinare la funzione per la quale la struttura fu concepita e realizzata, è stato necessario procedere a un restauro che permettesse alla comunità di goderne in quanto luogo storico, la cui conoscenza resta preziosa, e al contempo come contenitore di una nuova storia, quella contemporanea. La Torre Idrica di Pontinia, esemplare unico e di grande fascino nell’ambito dell’architettura razionalista di fondazione, è ora adibita a spazio espositivo la cui mostra inaugurale è stata Metamorfosi e Metafisiche, a cura di Alessandro Cocchieri, dove hanno trovato spazio i lavori dei fotografi Roberto Nistri e Mattia Panunzio.
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IL MURO
EDWARD HOPPER INQUIETUDINE SOSPESA di Vera Viselli È arrivata a Roma, al Complesso del Vittoriano (Ala Brasini, dal 01 ottobre 2016 al 12 febbraio 2017) la mostra sul grande artista americano Edward Hopper, a cura di Barbara Haskell in collaborazione con Luca Beatrice, prodotta ed organizzata da Arthemisia Group. Le 60 opere che è possibile ammirare, suddivise ed articolate nelle sei sezioni (ritratti e paesaggi, disegni preparatori, incisioni, olii, acquerelli ed immagini femminili) sono state realizzate tra il 1902 ed il 1960 e provengono tutte dal Whitney Museum di New York. Edward Hopper nacque nel luglio del 1882 in una piccola cittadina sul fiume Hudson, e già a 5 anni mostrò un certo talento per il disegno - un talento che la mostra non si è fatta mancare, con gli studi preparatori (Study for Gas, Study for Girlie Show, Study for Pennsylvania Coal Town) - tanto che i genitori (piccolo borghesi, proprietari di un negozio di tessuti) decisero di incoraggiarlo su questa strada: Hopper dipinse il suo primissimo quadro, dove mostrava il suo particolare interesse per le navi e tutto ciò che vi gravitava attorno, nel 1895 e, cinque anni dopo iniziò a frequentare la New York School of Art. Terminati gli studi, nel 1906, arrivò per la prima volta a Parigi e rimase ovviamente impressionato dagli impressionisti ma anche dalla stessa città, tanto che vi tornò altre due volte. Ed è proprio durante la sua terza - ed ultima - visita parigina che riuscì a perfezionare il suo particolare gioco di luci ed ombre , così come quella costante descrizione d’interni (presa in prestito da Degas) in cui prendevano forma i temi della solitudine e dell’attesa. Di questa sua parentesi francese si occupano proprio le prime sezioni, mostrando le opere che l’artista americano dipinse en plein air, in pienissimo stile impressionista, osservando dalle rive della Senna il paesaggio che la città gli offriva. Una città in cui, come afferma lo stesso Hopper, “tutto sembra essere stato progettato allo scopo di formare un insieme armonioso”. Tornato in patria, Hopper tentò di sviluppare un suo stile che fosse del tutto americano (pur rimanendo per sempre legato alla Francia), iniziando ad interessarsi ai soggetti inerenti la vita quotidiana: nuove costruzioni, bar notturni, strade desolate, interni di appartamenti della classe media. Ecco, è esattamente in questi appartamenti che Hopper decide di guardare, per cogliere un momento di realtà o il realismo del momento, creando quell’approccio voyeuristico tanto caro ai registi moderni, quell’occhio che spia l’erotismo a distanza così ben mostrato da Hitchcock in Rear window ed in Psycho, dove peraltro prende in prestito da Hopper anche il motel dei Bates (l’olio su tela House by the Railroad, del 1925). Queste sue istantanee sembrano scatti fotografici, tanto nell’idea quanto nella composizione, ed un regista come Antonioni, il cui cinema è pura immagine, legato strettamente a pittura e fotografia, non può non farsene abbagliare – e, come lui rimarranno abbagliati anche Hawks, Malick, Altman, Wenders, i Coen, come racconta l’ultima sezione video della mostra, analizzando le influenze ed i rapporti del pittore con il grande cinema d’autore. Nel 1920 Hopper tenne la sua prima mostra, presso il Whitney Studio Club, dove venne esposto anche Soir bleau (1914, titolo
Edward Hopper, 1 ottobre 2016 - 12 febbraio 2017 Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, Roma a cura di Barbara Haskell in collaborazione con Luca Beatrice
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ispirato dal primo verso della poesia Sensation di Rimbaud): si tratta di un lavoro che segna prepotentemente l’allontanamento dell’artista dalle spensierate atmosfere parigine di inizio secolo, che si autoritrae nell’opera stessa attraverso la figura del clown. Si possono ammirare, nella mastodontica tela, questi sette personaggi in cerca non d’autore ma di pace – una prostituta, un probabile sfruttatore, una coppia borghese, l’Hopper-clown, un uomo con barba e cappello (è possibile sia Manet) ed un altro al suo fianco, forse in uniforme – in un contesto serale, quasi notturno, estremamente malinconico. Quest’opera, così monumentale, non solo per via delle dimensioni, non venne però vista di buon occhio né dalla critica, che la considerò “troppo europea”, né dal pubblico, tanto da essere disconosciuta dal suo stesso autore, che la arrotolò e la mise da parte, e che venne ritrovata nel suo studio soltanto dopo la sua morte, avvenuta nel 1967. Il successo, però, era solo rimandato, ed infine arrivò, ma dieci anni dopo e con gli acquerelli. Hopper li realizzò durante le estati passate tra Gloucester ed il Maine, immortalando fari che sovrastano il mare e una sabbia completamente arsa dal sole: luoghi dove qualcosa può avere inizio, dove un racconto può iniziare anche se i protagonisti ancora non fanno il loro ingresso sulla scena. Per Hopper “gli acquerelli sono abbastanza aderenti al dato concreto” e gli permettono di identificarsi, come afferma Luca Beatrice, “come il cantore di quelle atmosfere, l’osservatore di quei luoghi”. Di questo suo realismo spesso metafisico si è parlato in lungo ed in largo, dicendo che era l’autore a prediligere quei momenti così solitari, quelle donne sole in attesa di qualcosa o di qualcuno; in realtà, Hopper rendeva così struggenti e poetici i suoi soggetti non perché sceglieva di farlo vedendoli, ma semplicemente perché dipingeva quello che provava. Quei colori brillanti dei nuovi edifici, urbani e non, non si mantengono nella sfera di eccitazione verso il nuovo, non trasmettono affatto calore; piuttosto, trasudano inquietudine, in quel contesto deserto e silenzioso in cui vengono posti. Se c’è la presenza di una qualche figura umana, state certi che quel silenzio non muta la sua accezione ma si espande, divenendo incomunicabilità ed estraneità, quella verso cui il mondo moderno instrada l’essere umano. Una situazione che non sembra fermarsi alla perdita di linguaggio, ma che pervade anche la sfera motoria: queste persone, come sottolinea Baigell, sembrano trovarsi quasi intrappolate nel quadro, divenendo parte stessa della sua composizione, incapaci non solo di parlarsi ma anche di muoversi. Hopper, quel silenzio, è stato capace di dipingerlo.
New York Interior (Interno a New York) 1921 circa Olio su tela, 61,8x74,6 cm New York, Whitney Museum of American Art; Lascito di Josephine N. Hopper © Heirs of Josephine N. Hopper, Licensed by Whitney Museum of American Art
CONTEMPORARY REVIEW
Soir Bleu (Sera blu) 1914 Olio su tela, 91,8x182,7 cm New York, Whitney Museum of American Art Lascito di Josephine N. Hopper © Heirs of Josephine N. Hopper, licensed by Whitney Museum, N.Y.
Light at Two Lights (Il faro a Two Lights) 1927 Acquerello e grafite su carta, foglio 35,4x50,8 cm New York, Whitney Museum of American Art; Lascito di Josephine N. Hopper © Heirs of Josephine N. Hopper, Licensed by Whitney Museum of American Art
The Balcony (La balconata) 1928 Puntasecca, foglio (irregolare), 33x43 cm New York, Whitney Museum of American Art; Lascito di Josephine N. Hopper © Heirs of Josephine N. Hopper, Licensed by Whitney Museum of American Art
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IL MURO
FEDERICO FIUMANI
DIAFRAMMA APERTO intervista e foto di Jamila Campagna
Federico Fiumani, frontman dei Diaframma, sembra uscito da un fumetto noir venato di pulp, o almeno è così che ho creduto di vederlo mentre si esibiva (sul palco del Sottoscala 9 di Latina) - e così credo di aver trovato conferma nelle foto di quella sera. Performativo, con la chitarra in braccio a nervi tesi, urlava a quel microfono che erano ancora gli anni 80, e poi 90 e poi era oggi. Prima del concerto, attorno a un tavolino, si è svelato piano piano - schivo ma gentile - come una fonte inesauribile sulla storia della musica indipendente italiana, sugli esordi e sui progetti del presente. Alla fine gliel'ho detto: "Sei un Romantico post-moderno"!
1 Nel 1984 tu hai 24 anni ed esce Siberia, il primo album dei Diaframma, un disco che può essere definito New wave, Post-punk. Subito si delinea il vostro universo pulp, fatto di immagini forti e di simbolismi. Qual era il clima dell'underground italiano in quegli anni? Il clima era un po' da carbonari, diciamo. Venivano questi suoni nuovi dall'oltremanica, ma anche dall'America oltre che dall'Inghilterra: il Punk aveva fatto un po' piazza pulita di ciò che c'era stato prima - il Prog e la musica pomposa in generale - aveva azzerato tutto; subito dopo venne fuori una stagion più cupa, introversa, con gruppi come Joy Division, The Cure, Josef K e altri, che incontravano molto i nostri gusti di ragazzi dell'epoca, un po' introversi, problematici, dark, con una sensibilità un po' cupa. Noi provammo a fare questo tipo di musica in italiano, a trasferire queste tematiche nella lingua italiana. Amavamo moltissimo l'idea di essere un gruppo, di darci un ordine perso-
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nale, di dare un senso alla nostra vita associandoci tra musicisti. Perché non eravamo in molti ad amare questa musica, ma quelli che la amavano, la amavano moltissimo. 2 In particolare, com'era la scena post-punk a Firenze? Firenze si prestava abbastanza a queste cose, c'erano una serie di situazioni positive: c'erano dei negozi di dischi che importavano musica dall'estero, album di gruppi come Joy Division, Josef K, Crispy Ambulance, New Order, Bauhaus e altri; c'era una rivista che si chiamava Rockerilla, e poi vennero fuori anche delle etichette indipendenti fiorentine - Ira, Contempo, Kindergarten - che avendo distribuzione major permettevano di fare dei dischi che avrebbero avuto una distribuzione nazionale. Inoltre c'erano dei locali che trattavano la musica Punk, New wave, Post-punk come musica da ballo - si ballava a ritmo dei Joy Division. Firenze è una città d'arte, si vive in una situazione artistica e c'è voglia di re-
plicare quello che vedi girando per la città. Da Firenze partiamo noi, partono i Litfiba, i Neon, i Pankov. Contemporaneamente si era già animata anche la scena di Bologna, sempre negli anni 80, con i Gas Nevada, gli Skiantos. 3 Vuoi parlarci di Siberia? Il primo album, per un gruppo, è sempre un momento di compimento, la fine di tutto quello che si è stati prima e un nuovo inizio. E' lasciare una traccia inde lebile. Nell'84 gli lp avevano una certa importanza: un album era un progetto preciso, sia estetico che a livello di tematiche. Comunque andava, tu avevi fatto un lp! Siberia sintetizza 5 anni di lavoro - noi esistevamo già dal 1980 - rappresentava la possibilità di uscire dai confini cittadini, di essere distribuiti nei negozi di dischi di tutta Italia e quindi di esibirci sul territorio nazionale. Ci siamo divertiti moltissimo... La musica in realtà non la fai mai per soldi, i soldi sono quasi l'ultima cosa che chiedi alla musica, sono una prospet-
MZK
tiva molto lontana quando inizi, quasi servono a giustificare una passione che hai. Ma la vera motivazione è poter suonare dal vivo e avere un pubblico. 4 In che cosa si differenzia la scena musicale indipendente attuale rispetto a quella degli anni 80 e 90? La scena si è molto ampliata oggi, cantare rock in italiano è diventata una cosa consueta, quando abbiamo iniziato noi non era così scontato cantare in italiano su queste tematiche, anzi, direi che siamo stati i primi, insieme a pochi altri, a crederci fino in fondo. Le differenze sono cospique, ad esempio, quando abbiamo iniziato noi c'erano 10 gruppi, in Italia, e 10 locali per suonare. Adesso ci sono diecimila gruppi e 100 locali; direi che forse è meglio adesso perchè comunque se vali un pubblico che può ascoltarti c'è. Ciò che di bello c'era prima era l'ingenuità degli esordi, il fatto che tutto accadeva per la prima volta. 5 Nel corso degli anni hai sempre portato avanti una ricerca che ha creato un nuovo linguaggio nella musica italiana. Nel 2014, invece, hai pubblicato
un nuovo album che si intitola Un ricordo che vale 10 lire. Si tratta di una raccolta di cover dove hai ripercorso la storia del cantautorato italiano. Come è stato fare questa reinterpretazione andando a ritroso nel tempo? Volevo istruire le nuove generazioni di persone che mi ascoltano, per far capire da dove venivo io. In italia sono molto conosciuti De André, De Gregori, Paolo Conte, però moltissimi autori, magari meno bravi ma non per questo meno amati da me, hanno lasciato delle tracce indelebili, in me ma non soltanto in me. Lorenzo Zenobi, Tenco, il primissimo Lucio Dalla, Claudio Lolli, sono nomi per me importanti. Volevo far capire quanto è composito il mondo di uno come me, che ascolta musica assiduamente da quando ha 14 anni fino ad oggi. Magari sono cantanti che hanno raccolto molto poco ma che hanno lasciato un traccia indelebile dentro me, nel mio cuore, che hanno lasciato un segno. 6 Sei sempre stato poco interessato a inserire la politica come tema nei tuoi brani; le tue canzoni hanno un nucelo profondamente affettivo. Mi viene da dire che tu sei un romantico post-mo-
derno e che loro sono proprio canzoni d'amore. Non pensi che in qualche modo essere cantori di sentimenti sia comunque un atto politico? No, non credo. Di politica non ne capisco niente... La cosa buona che ci ha permesso di conquistare generazioni, credo sia proprio il fatto che cantiamo sentimenti universali e problematiche esistenziali che si proveranno sempre. Chiunque dai 18 ai 55 anni può trovare motivi di interesse, questa è stata un po' la nostra fortuna! La politica va e viene, diventa obsoleta. Pensa a Curre Curre Uagliò, dei 99 Posse, era attuale negli anni 90, adesso non lo sarebbe più perché è cambiata molto la situazione politica mentre l'amore per una donna è qualcosa che si proverà sempre nei secoli dei secoli. Le nostre canzoni sono sempre attuali!
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IL MURO
Giuseppe Penone incontra Roma.
TRADIZIONE E INNOVAZIONE DIALOGANO GRAZIE A FENDI foto e testo di Giulia Pergola Erano anni che Roma attendeva una simile occasione, un riscatto nei confronti dell’arte contemporanea tentato ormai da tempo: l’‘autunno caldo’ inaugurato dal fantasioso allestimento della GNAM ad opera della neodirettrice Cristiana Collu, poi proseguito maldestramente con la personale di Anish Kapoor al Macro, fiorisce, anticipando la primavera di quasi due mesi, grazie al salvifico intervento di Fendi. Per la sua prima mostra di arte contemporanea negli spazi di Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, Fendi sceglie Giuseppe Penone, un artista italiano di fama internazionale purtroppo ancora poco noto al pubblico romano, nonostante le esibizioni a lui dedicate, come la mostra del 2008 a Villa Medici, o la meravigliosa stanza quasi nascosta all’interno della Galleria 4 del MAXXI, dove l’anima sanguigna di Scultura di linfa e Pelle di cuoio intaccava gli algidi spazi del museo. E poi ritorna la Collu che sistema il maestoso Spoglia d’oro su spine d’acacia nella prima sala della GNAM, in un dialogo non proprio facile con Canova e Pascali.
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Così dopo questi fuggevoli (e forse poco significativi) incontri tra i romani e l’artista piemontese, arriva Fendi ad ufficializzare questa anelata conoscenza. La scelta di uno scultore pregevole come Penone è dovuta a molteplici fattori: l’eleganza formale e la profonda raffinatezza concettuale del lavoro dell’artista, nonché la devozione di quest’ultimo nei confronti della pratica artistica intesa come complementare al fare artigianale, e non in ultimo la grande sintonia tra la Maison e lo scultore. Fendi ha voluto unire il proprio nome a quello di uno tra i più grandi artisti italiani viventi non solo nel segno di una rinnovata attenzione verso le espressioni artistiche più contemporanee, ma anche nella comune prospettiva di un dialogo fecondo tra tradizione ed innovazione, tra Storia e futuro, e infine tra l’eleganza concettuale e la pregevolezza dell’artigianalità. Un sincretismo perfetto e ben orchestrato dal curatore Massimiliano Gioni che ha saputo offrire una visione ampia e variegata del lavoro di Penone: sono diciassette le opere esposte tra sculture, installazioni e disegni. Una foresta di foglie, tronchi, rami e spine invade gli spazi metafisici di Palazzo
LA RECHERCHE
Giuseppe Penone, Foglie di pietra, 2013 (in primo piano) / Giuseppe Penone, Spine d’acacia - Contatto, 2006 (sullo sfondo)
Giuseppe Penone, Ripetere il bosco, 1969 - 2016
Giuseppe Penone, Abete, 2013, vista frontale dell’installazione a Palazzo della Civiltà Italiana
della Civiltà Italiana, disorientando positivamente il visitatore che subito si accorge del contrasto tra la fredda lucentezza dei marmi razionalisti e il vitalismo avvolgente, a tratti sensuale, delle opere esposte. Un primo indizio si ha dall’esterno dove la monumentale installazione Abete (2013), alta più di venti metri, interrompe la schematicità dell’architettura di Guerrini e Lapadula.
Opposite: Giuseppe Penone, Indistinti confini: Anio, 2012
La mostra, dal titolo Matrice, non prevede un percorso unitario, piuttosto una panoramica suggestiva di alcuni tra i momenti salienti che hanno scandito la carriera artistica di Penone. Sono presenti opere storiche come Soffio di foglie (1979) in cui un mucchio di foglie di mirto riceve letteralmente l’impronta del corpo e del soffio dell’artista, ma c’è anche Rovesciare i propri occhi, un progetto fotografico dei primi anni Settanta, declinato in diverse sfuma-
ture, in cui Penone viene ritratto con delle lenti a contatto specchianti che permettono alla realtà circostante di riflettersi negli occhi dell’artista il quale invece diviene momentaneamente cieco, amplificando però la propria percezione del reale. Ci sono anche opere più recenti presentate per la prima volta in Italia, come Foglie di pietra (2013): lunghi rami nodosi, ottenuti con un calco in bronzo, fungono da piedistallo e al contempo da gabbia per un capitello settecentesco, come a voler sottolineare il continuo rimando tra natura e cultura attraverso un percorso che tocca trasversalmente la Storia del mondo con i suoi tempi enormi e dilatati e le storie dell’uomo nella loro finitezza e caducità. Attraversando un piccolo corridoio, realizzato appositamente per ospitare alcuni disegni dell’artista, si arriva nella seconda grande sala dedicata a Matrice (2015), l’opera che dà il titolo alla mostra: l’artista
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scava un tronco di abete lungo trenta metri seguendo il perimetro di uno degli anelli di crescita; l’albero, disteso orizzontalmente per la lunghezza della sala, si appoggia sui propri stessi rami, assumendo quasi l’aspetto di una creatura fantastica che custodisce al centro del proprio ‘corpo’ il calco in bronzo del suo stesso cuore. Matrice, e in generale l’intera opera di Penone, riflette sul significato del contatto, di una pregnanza fisica ed intellettiva che si traduce in scultura. La natura è essa stessa matrice della scultura e quindi dell’Arte: questo è un concetto tanto profondo quanto immediato poiché è proprio dietro la semplicità che risiedono le cose più belle e intense. L’operazione di Fendi è importante perché a Roma e ai romani viene concessa l’opportunità di un confronto sereno ed elegante con l’arte contemporanea; priva di sensazionalismi l’arte di Penone ha una potenza comunicativa capace di coinvolgere anche chi normalmente si avvicina con diffidenza ai linguaggi più contemporanei. Seguendo la medesima poetica, Fendi ha voluto regalare alla città la sua prima vera installazione pubblica di arte contemporanea, realizzata sempre dall’artista piemontese: una scultura monumentale raffigurante due alberi i cui lunghi rami si intrecciano con un blocco di marmo levigato. È questa l’opera che dalla primavera 2017 sarà esposta in modo permanente a Largo Goldoni, di fronte allo storico palazzo della Maison, nel pieno centro storico di Roma, all’incrocio nevralgico tra Via del Corso e Via dei Condotti. Tra l’altro, per i più
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curiosi, è possibile ammirare un collage dell’opera realizzato dall’artista ed esposto insieme agli altri disegni nella mostra a Palazzo della Civiltà Italiana. Da segnalare anche l’accesso gratuito alla mostra Matrice, un’occasione unica che i romani non dovranno lasciarsi sfuggire perché potranno coniugare la conoscenza di un artista di altissimo livello come Penone all’esperienza sinestetica nata dal dialogo tra le opere esposte e le atmosfere sospese dell’architettura che le accoglie. Fendi presenta alla Capitale l’arte contemporanea nella sua forma più autentica, segnando non solo un passo importante nel rapporto tra pubblico e privato, ma anche nella prospettiva di far sì che il dialogo tra tradizione e innovazione si estenda all’intera città risvegliando la curiosità e i cuori di molte persone.
Matrice, Giuseppe Penone Palazzo della Civiltà Italiana, Roma 27 gennaio - 16 luglio 2017 Tutti i giorni dalle 10 alle 20 Ingresso gratuito
Giuseppe Penone, Matrice, 2015 (centro) / Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970 (in fondo a destra)
LA RECHERCHE Giuseppe Penone alla Gagosian Gallery di Roma.
LE ELEGANTI EQUIVALENZE TRA NATURA E CULTURA di Giulia Pergola Dopo la mostra ospitata da Fendi a Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, Giuseppe Penone è nuovamente protagonista di un’altra interessante personale, questa volta nello spazio ellittico della Gagosian Gallery nel pieno centro storico della città. Due personali dedicate ad un grandissimo scultore italiano hanno inaugurato ad un giorno di distanza l’una dall’altra, con il comune intento di presentare ufficialmente alla città una personalità fondamentale per il panorama artistico internazionale. Accade a volte che alcuni nostri grandi artisti riscontrino maggiore fortuna all’estero che non in Italia. Fortunatamente non è questo il caso di Penone che oltre ad essere acclamato in tutto il mondo, ha avuto grandissima fortuna proprio nella sua città d’adozione, Torino: basta visitare il Castello di Rivoli o il meraviglioso Giardino delle Sculture Fluide per comprendere il profondo legame che unisce l’artista alla città. Penone nasce a Garessio (Cuneo) e proprio nel paesaggio del Basso Piemonte avvia le sue prime ricerche sperimentando nuovi linguaggi artistici che, tra il 1968 e il 1969, il critico e teorico d’arte Germano Celant leggerà come una delle molteplici espressioni di quel movimento artistico da lui denominato Arte Povera. In realtà definirlo movimento non è del tutto corretto, dato che gli stessi artisti che ne facevano parte hanno sempre cercato un’emancipazione da questa etichetta, che proprio Penone ama definire un ‘cappello’, una sorta di area semantica comune a questo gruppo di artisti, tanto per usare un termine letterario. Il successo di Penone iniziato nei primi anni Settanta, grazie alla grande originalità e alla profondità di pensiero di opere raffinate come Svolgere la propria pelle o la serie dei Soffi, prosegue ancora oggi attraverso continue ricerche e declinazioni delle tematiche più care all’artista. La sintonia tra Gagosian e Penone è ormai nota, ma per quanto riguarda la sede romana della galleria, Equivalenze è la prima mostra che Gagosian dedica al maestro nella capitale. Nella primavera 2015 è stata la volta di Spazio di luce, un’installazione monumentale che celebrava i raffinati giochi luministici dell’artista, ma le opere esposte attualmente rappresentano le ricerche più recenti. Ad accogliere i visitatori c’è una videoinstallazione che racconta in pochi minuti il processo creativo di alcuni calchi che l’artista realizza stringendo la materia fluida nelle proprie mani. È una sorta di anticipazione rispetto a ciò che si potrà ammirare nelle due sale successive. Nella piccola anticamera due disegni datati al 2016 ribadiscono la devozione che l’artista nutre nei confronti della pratica scultorea e della sua derivazione fisiologica dalla natura; sotto le eteree linee a matita si legge chiaramente la frase “Scultura come gesto della mano”. Questo breve ma fondamentale enunciato è il fil rouge che accomuna tutte le opere in mostra: da un lato l’importanza della gestualità intesa come azione, volontà e vitalità, dall’altro la complementarietà tra la scultura derivata dal mondo naturale e la cultura derivata dalla mano dell’uomo. Il gesto che determina la volontà e la necessità di una sintesi è l’elemento che unisce natura e cultura. Ed è sempre il gesto
ad essere protagonista della mostra: al centro della sala principale si trovano due installazioni che ricordano, non a caso, i Gesti vegetali dei primi anni Ottanta; qui due alberi di metallo dalle forme allungate e stilizzate, trasformano le proprie radici in figure antropomorfe esprimendo la profonda relazione che lega l’uomo alla natura attraverso la gestualità della scultura. Concetto che si ritrova anche nelle serie di quattro opere installate sulla parete frontale in cui decine di calchi ottenuti dalla compressione della materia nelle mani sono sovrapposti su piastre di metallo dipinte tramite un processo di ossidazione. I toni caldi e naturali dello sfondo si esaltano grazie alla tridimensionalità dei calchi che li ricoprono e che sono stati ottenuti a loro volta utilizzando delle terre provenienti da tutto il mondo raccolte da un gruppo di collaboratori dei laboratori di Sèvres, località francese nota per la raffinata produzione di ceramiche. L’universalità del gesto che si concretizza nell’impronta del calco e quindi nella scultura, ribadisce la democraticità che è alla base della poetica di Giuseppe Penone e che permetterà al pubblico romano di apprezzare un artista che ha fatto dell’autenticità e della chiarezza due dei suoi tratti distintivi. È un piacevole binomio quello di Fendi e Gagosian promotori di un incontro tra Penone e Roma che ci si augura essere solo l’inizio di una splendida amicizia.
Giuseppe Penone, Equivalenze Gagosian Gallery Via Francesco Crispi 16, Roma Dal martedì al sabato 10.30 - 19 27 gennaio - 15 aprile 2017 Ingresso gratuito
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LuneurPark IL PARCO DELLE NUOVE MERAVIGLIE di Vera Viselli
Correva l’anno 1942 quando il Luneur venne alla luce, come giardino botanico di ben sette ettari per l’Esposizione Universale che si sarebbe tenuta a Roma 11 anni dopo. Un giardino enorme, verrebbe da pensare. Ebbene, rimasto nascosto per tutti i grandiosi decenni del vecchio Luneur, i mitici anni Ottanta e Novanta, ora quel giardino è stato riportato alla luce, nel pieno rispetto e tutela delle 340 specie del suo patrimonio arboreo, con un cuore pulsante costituito da un labirinto di piante olfattive ed un vero e proprio orto. Ma non tergiversiamo: il famosissimo parco di divertimenti romano ha avviato il suo nuovo corso, tra polemiche annali, nostalgiche, una certa paura delle persone che lo avevano frequentato e che lo rivolevano indietro, come un giocattolo rotto che doveva essere aggiustato. Il problema, cruciale, però, è che di tempo ne è passato parecchio, quei bambini affezionati degli anni ’90 sono un bel po’ cresciuti e quel tipo di giocattolo, se così vogliamo chiamarlo, doveva essere modificato secondo i tempi ed i modi di fruizione dei bambini di oggi, non
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quelli di ieri. Gianluca Falletta, il direttore creativo del nuovo corso, era uno di quei bambini innamorati di quel parco, uno di quelli che, come noi, ci ha passato l’infanzia e l’adolescenza, e che ha deciso che i bambini di oggi, non i Millennials bensì i nati ben oltre il 2000, dovessero poter avere anche loro un luogo dove forgiare dei ricordi nuovissimi, che appartengano solo ed esclusivamente a loro. Un posto in primis sicuro (ricorderete certamente le polemiche relative alla non-sicurezza del vecchio parco) ed autorevole, capace di offrir loro non semplicemente una giostra sulla quale salire e scendere ma una vera e propria esperienza: come i videogiochi ed i giochi di ruolo, il Luneur Park ha come idea di base quella di rendere i suoi ospiti parte integrante ed attiva di una storia, vestire magari i panni degli eroi e allenandosi a combattere insieme ai draghi (nella Draco Arena) o imparando ad amare e a rispettare la natura e la sua storia, attraverso percorsi che alternano realtà e leggenda (i draghi ed i dinosauri della Dinovia, ricostruiti grazie all’aiuto ed al lavoro dei ricercatori di geologia dell’Università
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La Sapienza) con attività pratiche e sociali. Se può insinuarsi un dubbio, nella mente di qualcuno, riguardo il perché inserire attività didattico-sociali all’interno di un parco giochi, basti pensare che fu Todorov il primo a teorizzare il tema del fantastico e a dargli una valenza sociale, seguito poi a ruota da Gianni Rodari, il quale affermava che bisognerebbe vedere oggettivamente, senza pregiudizi di sorta, che cos’è per un bambino l’esperienza di Goldrake, studiare un sistema per sapere la sua vera opinione e non suggerirgliela, come spesso gli adulti tendono a fare. Ecco, sta proprio qui la novità (vincente) del Luneur Park: i bambini vanno resi protagonisti di un qualcosa che possono scegliere di vivere essi stessi e non dei semplici fruitori di una giostra meccanicamente preparata ad essere usata da un adulto. Bisogna che si divertano essendo stimolati, non indotti, dando ad ogni singolo bambino la possibilità di costruirsi da solo il proprio momento nel parco, senza essere forzato a seguire itinerari prestabiliti. La generazione dei trentenni di oggi (e chi vi scrive ne fa ovviamente parte) il suo Luneur ce l’ha avuto: noi eravamo quelli di Stranger Things, impavidi scopritori di videogiochi, figli di It attratti nervosamente dalla paura e dalla mostruosità, che spesso si coniugava con il diverso, il ‘gigante’ – ecco perché ci fermavamo attoniti davanti al gufo gigante (che è ancora possibile ammirare), al ragno, a King Kong, a Nessie o al mago di Notti Orientali. Il grande per noi equivaleva a grandioso, e non ci stufavamo mai di vedere qualcosa decine e decine di volte o ripetere un quadro di un videogioco all’infinito, perché avevamo tutto il tempo del mondo. I carri armati che sono stati mandati in guerra per difendere il parco che era e che doveva continuare ad essere avevano nella loro corazza un punto debole asso-
lutamente essenziale: non avevano considerato che non erano le nuove generazioni a doversi adattare al parco, ma il Luneur Park ad offrirsi a loro. Offrirsi come, con cosa? Con quello che agognano di più oggi: essere partecipi di qualcosa, e magari con qualcuno. Di una storia, un’avventura, un’esplorazione, una trasformazione, una stagione. Noi eravamo quelli cui erano riservati fin troppe (ed ossessive) attenzioni, e forse proprio per questo volevamo scoprire da soli come sconfiggere un mostro, vedere se ET sarebbe tornato a casa, leggere della fine del capitano Nemo, scoprire il giardino segreto o finire La storia infinita sotto le coperte. Oggi invece le attenzioni non ci sono, ed i bambini sembrano dipendere esclusivamente da quelle: per questo il parco è stato pensato come luogo ad hoc per tutta la famiglia, così come per le classi scolastiche, che possono imparare a non aver paura degli insetti, a riconoscere piante ed ortaggi, a prendersi cura di loro e a coltivarli ,mentre al tempo stesso possono rivivere con i loro genitori il Brucomela, il Jumbo, la Giostra dei cavalli, la Grande Ruota Panoramica o i nuovissimi Banzai! (chi guardava Mai dire Banzai non potrà non sorriderne), il Labirinto di Oz, il Sentiero degli elfi, mentre alcune attrazioni si alterneranno a seconda delle stagioni (per le festività natalizie la Terrazza del Sole ospita una enorme pista di pattinaggio, che occupa ben 300 mq, cui segue un mercatino natalizio ed il Villaggio di Babbo Natale, dove i piccoli dovranno entrare bambini ed uscirne da elfi. Una chicca, per grandi e piccoli: la Casa Matta e l’Horror House esistono ancora, e quest’ultima risorgerà dalle sue ceneri idealmente per il prossimo Halloween, con gli ospiti di Hotel Transilvania e di tutti quelli che vorranno tentare un qualche tipo di incontro ravvicinato con loro. http://www.luneurpark.it/
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DOVE SONO GLI ULTRAS. LA SOCIETÀ È UNO STADIO di Jamila Campagna La pittura e la scultura di Cristiano Carotti arrivano dopo il ritorno del reale, dopo lo sconfinamento dell’estetica nell’urbano della street art, persino dopo il post-postmoderno; il concettuale ritorna nella forma e nella materia, ma soprattutto ritorna nella rappresentazione, in quel punto in cui la realtà scopre di non esistere senza mediazione e intepretazione, di essere inintelligibile senza un codice, senza che ci siano simboli e archetipi a fare da veicoli. Fuori da un assoluto aprioristico, la realtà ricorre all’archetipo nella sua accezione junghiana, per esistere sul piano condiviso dell’incoscio collettivo, dentro le immagini mitiche cui è ricondotta l’esperienza umana, in particolare nella sua struttura emotiva. Dove sono gli ultras, è la sua prima personale romana - curata da Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti presso la White Noise Gallery - ed è un progetto in cui Cristiano Carotti recupera questa tipologia di prototipi per addentrarsi in una sfera tanto pop quanto pulp, in quello spasimo agonistico dove una linea netta vuole fare ordine tra il Bene e il Male. L’iconografia ultras, l’immaginario della tifoseria ruggente, viene interpretata in chiave junghiana, tra figure divine, demoniache, ferine che l’artista riproduce su oggetti appartenenti alla consuetudine ultras: bandiere, sciarpe, giubbotti, caschi, tutti elementi di una divisa da combattimento, presi dalla trincea e ricontestualizzati in galleria. L’archetipo così è condensato tra pittura corposa e scultura simbolica, oltrepassa la dimensione agonistica e diventa a sua volta il mezzo per dare una lettura dell’intera società contemporanea, dove sembra che ogni gruppo sociale non abbia soluzione diversa dallo schierarsi con o contro, in una lotta
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pulsionale, cieca come la fede, impossibile da razionalizzare. La mostra è sonorizzata da Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours con una traccia appositamente ideata per Dove sono gli ultras; ogni visitatore può attraversare il percorso espositivo indossando delle cuffie wireless che diffondono una composizione per violini, un climax acustico lontano dai cori da stadio che magari ci si potrebbe aspettare, che accresce l’idea di decontestualizzare i simboli della tifoseria calcistica, continuando a rinforzare il dualismo tra un’elevazione quasi mistica e l’ardore bestiale. Il dualismo è presentato ancora nel percorso espositivo stesso, disposto su due livelli, caratterizzati da una differenza ambientale fatta di luce e di buio. Al piano inferiore, quello dedicato al buio, trova posto la rappresentazione plastica: una serie di estintori e la riproduzione miniaturizzata di un blindato della polizia incontrano le forme dell’arte classica nella figura di un ultras-putto, accanto a Finding Mephistophele, scultura densa di inquietudine, realizzata da Cristiano Carotti durante la residenza artistica presso la HALLE 14 contemporary art center di Lipsia - tra agosto e settembre 2016 - un’opera fortemente legata alla città tedesca attraverso cui l’artista ha ulteriormente approfondito la chiave filosofico-psicanalitica della sua ricerca immergendosi nel Faust di Goethe, opera letteraria di grande interesse per C.G. Jung.
Dove sono gli ultras è stata inaugurata lo scorso 19 novembre alla White Noise Gallery (via dei Marsi, 20 - Roma) e resterà visitabile fino al 14 gennaio 2017.
AMORE (ULTRAS 1981), olio su striscione da stadio 2013 (ph. IL MURO)
Oppisite: EAGLE, tecnica mista su sciarpa 2016 (ph. IL MURO)
PANTHER FLAG, olio e vernici su bandiera di cotone trattato 2016 (ph. IL MURO)
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FIRE EXTINGUISHERS installazione, gesso alabastrino e garze ortopediche 2016 (ph. IL MURO)
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ANTONIO PENNACCHI parte prima. intervista di Vera Viselli Dai, dicevano, fai un’intervista con Pennacchi, hai letto quasi tutto, ci andrai sicuramente d’accordo, sarà una cosa facile. Che? Ho pensato io. Facile un bel niente, per una che per metà ha sangue veneto da parte materna – ho pensato: e se poi va a finire come in uno dei suoi libri? O se ci finiamo tutti? Ovviamente ci sono finita dentro: ci vediamo alla libreria Storie di Arrigo e Piermario, ritrovo consueto dello scrittore, mentre la discussione già prima dell’arrivo di Antonio Pennacchi verteva sulla politica. Gli scissionisti, Sel, Fratoianni, il nuovo partito, che facciamo, chi votiamo? Io già ho perso tutte le mie certezze tempo fa con Bertinotti, figuriamoci come (non) posso darvi una mano a decidere. Arriva Pennacchi, ma ha bisogno di fumare, quindi ci sediamo un attimo fuori, mentre a Latina stava letteralmente piovendo sabbia. 1 Partiamo dalla politica italiana. Intanto ha ancora la tessera del Pd? Ho ancora la tessera del Pd. E dico già che al prossimo congresso voterò per Orlando. 2 Il suo amico e collega Carofiglio era stato ad un passo della segreteria del Pd ma ha dichiarato di aver rifiutato perché il partito non faceva spazio a tutte le diverse anime presenti. Se Renzi avesse chiesto a lei di entrare nella segreteria del Pd cosa avrebbe risposto? Avrei detto di no, ma solo perché per fare politica bisogna essere giovani ed io non lo sono più tanto.
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3 Quindi ha buona opinione di Matteo Renzi segretario e capo del governo… Riguardo ai diritti civili e alle unioni di fatto, quanti anni erano che se ne parlava in Italia? Renzi le ha fatte. Pensi che quando un cardinale, forse Bertone, non mi ricordo quale, disse che il Parlamento avrebbe dovuto votare con voto segreto, Renzi ha risposto che come avrebbe dovuto votare il Parlamento lo avrebbe deciso il Parlamento stesso, non la Cei, e questa è una risposta che non era mai stata data alla Chiesa. Quindi mi pare che Renzi un po’ di cose di sinistra le abbia fatte. Mi pare positiva anche la posizione sulla realizzazione del ponte sullo stretto: il Paese ha bisogno di ripresa. Emiliano ha votato contro al referendum sulle trivelle, ma è una posizione anti-industriale la sua, oggettivamente di destra, mentre io sono per l’uguaglianza di tutti gli individui, per l’emancipazione delle larghe masse, ossia per posizioni sostenibili solo con lo sviluppo. 4 Dunque va bene qualsiasi opera costruttiva, in termini di sviluppo, ad esempio anche lo stadio della Roma? Certo, un minimo di compatibilità va valutata. Io sono un industrialista. E perché non si dovrebbe fare lo stadio della Roma? A Tor di Valle prima c’era l’ippodromo, dove stava il rischio idrogeologico? A rischio idrogeologico c’è l’intero Paese, tutta Roma, non si può tirare fuori questo problema solo per lo stadio della Roma. Fatemi capire: gli stadi bisogna farli o no? Sono 40 anni che si parla dello stadio della Roma: lo voleva fare Dino Viola a Trigoria e gli è stato detto di no, poi
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LEGÊRE
lo voleva fare Lotito per la Lazio, sulla Tiberina, e gli è stato detto di no anche a lui, ora pure Tor di Valle non va bene. E allora non ce lo vogliono far fare. L’elitarismo dice che il calcio è solo un “magna magna”, solo speculazione edilizia, etc; certo, viviamo in un sistema liberaldemocratico, quindi oggettivamente capitalista, influenzato dall’economia del mercato, e quindi è chiaro che se una persona investe dei soldi poi si aspetta anche un certo ritorno economico. Ma non si può però dimenticare l’altro aspetto: il calcio è un fortissimo fattore di integrazione sociale, in questo Paese. Dopo la religione, l’unico altro vero fattore di coesione sociale è il calcio: la gente, quando va allo stadio, si sente ‘massa’, perché il tifo è una cosa che si fa insieme, stando fisicamente insieme. E poi, fatemi capire, l’unica squadra in Italia che può avere il suo stadio di proprietà è la Juventus? 5 In questo momento sta scrivendo la terza parte di Canale Mussolini? Ha già un’idea della data di uscita? Sì, la sto scrivendo. Poi vedremo quello che ne uscirà. L’editore vorrebbe farlo uscire il prossimo anno, io però non so se riesco a finirlo. 6 Canale Mussolini era già previsto come una trilogia o pensava inizialmente di scrivere solo un libro? Questo era un libro che sapevo di dover fare da quand’ero piccolo. Poi da ragazzo, quando ho letto Il placido Don (di Šolochov) e Il mulino del Po di Bacchelli, è iniziata a farsi man mano strada l’idea, attraverso le vicende di una famiglia italiana, di raccontare cento anni di storia. Quindi sì, c’era l’idea di realizzare tre volumi. Man mano che passavano gli anni, però, veniva meno anche la voglia di farlo, finchè poi alla fine è uscito il primo volume. Scritto il primo, mi ero quasi stufato, perché il successo mi aveva un po’ sovrastato; ero sì convinto di aver fatto un bel libro, ma non mi aspettavo tutto questo successo, anche perché ormai ero stato classificato come uno scrittore di nicchia, uno che non aveva mai sfornato best-seller. E invece questo ha sbancato: ha venduto mezzo milione di copie solo in Italia – ed ancora si vende. Però mi sono chiesto: sono capace a farne un altro? E se poi si accorgono che sono un bluff? Invece ho fatto anche il secondo, ed alcuni critici sostengono sia meglio del primo. 7 Le ha dato fastidio qualche critica in particolare dopo la vittoria dello Strega, anche in merito alla contesa a due con Acciaio di Silvia Avallone? No, assolutamente no. Va detta una cosa: quando allora ho partecipato allo Strega, venivo dato perdente ed Acciaio vincente, soprattutto perché Mondadori aveva vinto nei tre anni precedenti. Già l’editore me lo aveva detto; mi avevano fatto partecipare perché erano sicuri che non avremmo vinto, altrimenti avrebbero candidato qualcun altro, non Canale Mussolini, un libro con questo titolo. All’inizio, molte librerie non lo mettevano in vetrina. Ho vinto da outsider. Oltretutto Acciaio mi era anche piaciuto; e Silvia (Avallone) è una bellissima persona e per certi aspetti mi era anche dispiaciuto che lei avesse perso. Ricevetti alcune critiche sul Manifesto che dicevano che ero tenero nei confronti del fascismo che mi avevano fatto arrabbiare un bel po’, ma peggio per loro. 8 Ha delle preferenze tra gli scrittori italiani odierni? La scrittura che più mi piace in Italia è quella di Paolo Nori, di Antonio Pascale.
9 Cosa ne pensa de La scuola cattolica di Albinati? Io non l’ho votato. Diciamo che allo scorso Strega non c’erano grandi romanzi, comunque io ho votato per Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci, che ha fatto l’università con me. Era l’unica forza narrativa presente, con il personaggio del cinghiale. Quello di Albinati non è un romanzo. 10 Cosa ne pensa del rapporto fra letteratura e cinema, le piace leggere prima il libro e poi magari vederne l’adattamento cinematografico o viceversa? Ci sono bei film tratti da bei libri, ci sono bei film tratti da cattivi libri e ci sono brutti film tratti da brutti libri. Non mi sono mai lasciato coinvolgere dai pregiudizi: ho letto man mano i libri che mi capitavano ed ho visto man mano i film che mi capitavano. De Il maestro e margherita avevo letto prima il libro e dopo visto il film: il film non era brutto ma il libro era meglio. De Il dottor Živago ho visto prima il film e poi ho letto il libro: bellissimo film e bellissimo libro, di Via col vento ho visto prima il film e poi ho letto il libro: bellissimo film e bellissimo libro. De La valle dell’Eden ho letto prima il libro e poi ho visto il film: bellissimo libro, bel film. 11 E Gomorra? Qui interviene l’autocensura del politicamente corretto. Molto più bello il film del libro. Ho visto anche la serie: non si può
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Antonio Pennacchi con Massimiliano Lanzidei
dire che sia fatta male, è bella e coinvolgente, però ci sono gli eroi negativi. Il film e la serie sono meglio. 12 Le serie oggi risultano migliori dei film da cui sono tratte? Non sempre, ci sono alcune serie che perdono rispetto al film, come ad esempio Fargo. Ma una serie portentosa, scritta benissimo e con un grande protagonista era I Soprano, con James Gandolfini. Quando è morto Gandolfini è come se fosse morto uno di famiglia, mi ero affezionato, gli volevo proprio bene, come ad un parente, ad un amico. È finito qua questo incontro? No no, che scherziamo. È uscito fuori che sono una semi-lontana parente del suo barbiere (ma vaffallippa và - mi dice - e potevamo farla da Gastone l’intervista, no?? Mo mi devi accompagnare da lui, tanto sono le otto, non ha chiuso). E allora facciamocela questa camminata, e mentre penso al teschio nella grotta del Circeo, a Diomede e a quello che scriverà nel prossimo libro, mi dice pure che gli sarebbe piaciuto un film tratto da Canale Mussolini. Ma ci vogliono troppi soldi, mannaggia ai soldi. E puta caso poi va a finire come con Mio fratello è figlio unico? Perché è ancora arrabbiato per quel film, che vi pensate. Che col tempo le cose passano? Ma quando mai. Più passa il tempo e più le cose si ricordano, parola di Scorpione. Comunque alla fine dal barbiere ci siamo passati, quello che
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ha ancora le sedie di quando ha aperto - quattro sono, più quelle di attesa -, mentre nel negozio accanto c’era un po’ di musica live. E forse boh, ci ripasseremo quando uscirà Canale Mussolini parte terza, o magari ci faremo un’altra chiacchierata mentre fuma un’altra sigaretta - io no eh, mai fumato in vita mia, anche se mi hanno chiesto la sigaretta e da accendere talmente tante volte, in giro, che ormai mi porto dietro almeno un paio di accendini.
Si ringraziano Antonio Pennacchi, per il tempo a noi dedicato, Piermario De Dominicis e Arrigo Di Bello, della libreria Storie, per la disponibilità e l’accoglienza.
Foto: IL MURO
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