art philosophy visual culture
anno 1, n.2 maggio-giugno 2015 freepress
il muro
IL MURO Art, Philosophy and Visual culture rivista bimestrale / bimonthly magazine Anno 1, n.2, maggio - giugno 2015 Direttore responsabile / Director general Luisa Guarino Direttore creativo / Creative director Jamila Campagna Caporedattore / Editor-in-chief Gaia Palombo Multimedia manager Alessandro Tomei Art Director Progetto grafico / Graphic project Valentino Finocchito (grafica e impaginazione) Photo Editor Jamila Campagna Iconography research Jamila Campagna Gaia Palombo Redazione / Editorial address IL MURO via Veio 2, 04100, Latina Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Contributors (in alphabetical order): Fabio Appetito Gabriele Camelo Jamila Campagna Fabrizio Coscia Arianna Forte Giuseppina Lavalle E.M. Rossana Macaluso Elide Massolari Gaia Palombo Giulia Pergola Nick Testa Vera Viselli
Editore e Proprietario / Publisher and Owner IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Sito web www.ilmuromag.it Contatti / Contacts infoilmuro@gmail.com Stampa / Print Tipografia PressUp Roma Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online)
Cover: Giulia Marchi, Multiforms N.3
Per la consulenza in lingua inglese, si ringraziano: For the English consulting, thanks to: Gabriella Campagna Marco De Cave Serena Maccotta Ilaria Palombo
indice
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CONTEMPORARY Guida critica alla 56th Biennale di Venezia (All the World’s Futures) di Rossana Macaluso Critical guide for the 56th Biennale di Venezia (All the World’s Futures), Rossana Macaluso
EQUIVALENTS Michele Pergola. Il giardino di pietra di Giulia Pergola Michele Pergola. The stone garden, Giulia Pergola David LaChapelle. Dopo il Diluvio di Vera Viselli David LaChapelle, After the Deluge, Vera Viselli
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Giulia Marchi, Multiforms di Gaia Palombo Giulia Marchi, Multiforms, Gaia Palombo
LA RECHERCHE Scuola d’arte e dei mestieri Ettore Rolli. Un percorso nel tempo e nella cultura di Jamila Campagna School of art and crafts Ettore Rolli. A path through time and culture, Jamila Campagna
INTRAVISTA MZK Paola Turci. Canto quindi Io sono di Jamila Campagna Paola Turci. I sing therefore I am, Jamila Campagna
ARTIST’S WORD Viaggio contro la solitudine di Gabriele Camelo Travel against solitude, Gabriele Camelo
FLOPPY Virtual heritage e l’orizzonte delle nuove tecnologie per i musei italiani di Arianna Forte Virtual heritage and new technologies in italian museum Arianna Forte
WHAT’S HAPP Il gioco del silenzio di E. M. Silent game, E.M.
LEGÊRE Fabrizio Coscia, Soli eravamo, recensione di Fabio Appetito Fabrizio Coscia, Soli eravamo, review by Fabio Appetito
LA RUOTA PANORAMICA THE BIG WHEEL Così furono presenti all’amore. Due scritti inediti di Fabrizio Coscia So they were present to love. Two Fabrizio Coscia’s unreleased writings
LA CAVERNA DI PLATONE Il segno sul muro a cura di Elide Massolari e Nick Testa The mark on the wall curated by Elide Massolari e Nick Testa
BACKLOOK Fisiognomica. Una disciplina in apparente trasformazione nel corso dei secoli? di Giuseppina Lavalle Physiognomy. Is it a discipline in apparent transformation through the ages? Giuseppina Lavalle
MICROCULTURE WARIOS WRS ° TOKYO ELEMENT STORE WARIOS WRS ° TOKYO ELEMENT STORE
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ENDING TITLES Alessandro Reale, Differenza
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Guida critica alla 56. Biennale di Venezia (All the World’s Futures) di Rossana Macaluso È interessante la lettura dell’intervento del Presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta, che definisce «Curigier, Gioni, Enwezor, quasi una trilogia: tre capitoli di una ricerca della Biennale di Venezia sui riferimenti utili per formulare giudizi estetici sull’arte contemporanea, questione critica dopo la fine delle avanguardie e dell’arte non arte»1 . Ci pensa Okwui Enwezor a creare uno stacco critico netto rispetto al passato. La 56. Esposizione Internazionale d’Arte è una Biennale impegnata. La dichiarazione di intenti è esplicitata dal punto di vista istituzionale ancora prima che espositivo: «Sono stati chiamati 136 artisti dei quali 89 presenti per la prima volta, provenienti da 53 paesi, molti da varie aree geografiche che ci ostiniamo a chiamare periferiche»2 . Il rischio, nell’uso dell’aggettivo periferiche, è di rimandare ad immaginari più che altro esotici, che puntualmente Enwezor tradisce in tutti i modi in cui è possibile farlo. Non è un caso che il Padiglione centrale dei Giardini si apra con Il Muro del Pianto di Fabio Mauri 3 , omaggio alla codificata (termine che pare andare molto di moda) arte italiana, ma sottilmente in riferimento ad un preciso artista che ha lavorato non sulla politica ma sulla coscienza. «Ho iniziato dalla mia biografia. C’era stato il fascismo, la guerra, lo sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri, il freddo, la fame, la paura, i bombardamenti. Impresso nella memoria trovai un raduno, i Ludi Juveniles a Firenze, nei giardini di Boboli. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto politico e storico del destino, a come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza di una vita.» 4 Ricominciare dunque dalla forza concettuale della storia e sulla potenza traspositiva che l’arte contemporanea ha nel momento in cui sceglie una narrazione attraverso la presa di posizione. All the World’s Futures. La prospettiva del futuro è affidata alla coscienza del passato. Ancora nel Padiglione centrale dei Giardini, All the World’s Futures presenta ARENA, uno spazio attivo dedicato ad una programmazione interdisciplinare dal vivo. Il cuore di questo programma è la lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx, diretta dall’artista e filmaker inglese Isaac Julien. La lettura dal vivo sarà un appuntamento che si svolge senza soluzione di continuità per tutti i mesi di apertura della Biennale La scelta curatoriale ha un taglio documentativo e di approfondimento antropologico ed etnografico. Oscar Murillo appende sulla facciata del Padiglione Centrale dei Giardini tele che sovvertono la maestosità della facciata neoclassica, ma ancora più interessante appare l’opera Frequencies (an archive, yet possibilities), (2013-in corso), che è consistita nel coprire in maniera temporanea de banchi di scuola di studenti di diverse zone del mondo con dei teli per registrare le loro attività attraverso i segni e disegni, così evidentemente differenti da zona a zona per contenuti e messaggi. Christian Boltanski presenta per il Padiglione Centrale un film da molti definito oppressivo dal titolo l’Homme qui tousse, (1969) e per l’Arsenale un evocativo monumento alla memoria Anima1
La Biennale di Venezia. 56. Esposizione Internazionale d’Arte. Intervento di Paolo Baratta. Presidente della Biennale di Venezia.
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Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.
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“Senza paura del buio”. Intervista realizzata da Stefano Chiodi a Fabio Mauri, Flash Art n. 277 agosto-settempre 09.
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tes, (2014) composto da una veduta di campane di piccole dimensioni che oscillano in lunghi steli metallici come gli altari dedicati ai defunti collocati in alcune zone del Cile. Con un atteggiamento rivolto alle problematiche globali, è presente Robert Smithson con l’earth-work, Dead Tree (1969/2015) in cui la land art trova una distillata sintesi nella scultura solo ad un prima superficiale battuta indifferente alle problematiche sociali. L’installazione di Tiravanija, Demonstration Drawings, (2015), affida ad alcuni artisti thailandesi la traduzione in disegni di fotografie giornalistiche che immortalano ribellioni nei confronti del potere istituzionale (pubblicati sull’International Herald Tribune) rielaborando dunque un’estetica alla quale siamo ormai anestetizzati. Al Padiglione centrale sono presenti Walker Evans con la famosa serie fotografica di lavoratori immortalati nel loro contesto quotidiano nelle campagne dell’America negli anni della Grande Depressione e Andreas Gursky con May Day IV, (2000/2004), con le riconoscibili fotografie di grande formato che per la Biennale hanno per oggetto emblematici centri dell’economia globale come Singapore, Hong Kong e Kuwait. Il tema del lavoro è sviluppato da Jeremy Deller attraverso la raccolta e presentazione di diversi oggetti che rappresentano vita quotidiana e protesta dei lavoratori, e da Sergej Ejzenštejn di cui viene trasmesso Sciopero! (1925), che documenta la soppressione da parte della polizia zarista di uno sciopero dei lavoratori di una fabbrica di inizio ‘900. Vale la pena soffermarsi a visionare l’esteticamente accattivante film a tre canali dell’artista John Akomfrah, dal titolo Vertigo Sea, (2015) il cui il montaggio alterna materiale d’archivio con filmati contemporanei, il tutto caratterizzato da emotivamente frustanti rimandi ad immaginari coloniali e al mancato rispetto della natura e dell’uomo. Continuando il percorso curatoriale, il principio dell’Arsenale è affidato a Bruce Nauman, che apre la strada ad una controversa riflessione sulla questione del restauro e quindi conservazione delle tecnologie in uso nell’arte contemporanea. Le opere esposte sono realizzate da una serie di tubi di neon, comunemente utilizzati negli anni ‘70. è l’artista Melvin Edwards a dare seguito, attraverso numerose sculture saldate in acciaio, alle principali tematiche affrontate nelle Corderie, le diaspore (non solo africane), le controversie raziali e le problematiche post-coloniali, le rivendicazioni dei diritti civili. Il massacro della guerra civile in Sierra Leone è affrontata da Abu Bakarr Mansaray nell’opera THE MASSAKA, (1997) attraverso una serie di disegni che riproducono forme meccanizzate di fantasiose armi che vengono inserite accanto a Cannone Semovente (1965) di Pino Pascali, un monumentale cannone, ma paradossalmente in realtà un giocattolo in quanto privato della sua funzione, non può sparare. Molto interessante risulta il linguaggio figurativo affettivo 5 dell’artista Nidhal Chamekh che, con l’opera De quoi revenet les martyrs 2, (2012), criticizza il concetto di monumento sociale pubblico come espressione di potere e di narrazione controllata. Chiude il cerchio un interessante lavoro, a mio avviso il più interessante, di Hiwa K, The Bell, (2015) in cui lo spettatore può ammirare una campana realizzata dalla fusione di residui bellici che l’artista ha 5
Questa definizione è data dal testo presente nella guida alla Biennale che mi ha permesso di recuperare numerose informazioni rispetto alle opere in mostra. Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura di: 56. Esposizione Internazionale d’Arte. All the World’s Futures, Marsilio Editori, Venezia, maggio 2015.
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Isaac Julien DAS KAPITAL Oratorio Padiglione Centrale – Central Pavilion ARENA 56. Esposizione Internazionale d’Arte - la Biennale di Venezia, All the World’s Futures 56th International Art Exhibition - la Biennale di Venezia, All the World’s Futures Photo by Andrea Avezzù Courtesy: la Biennale di Venezia
cercato e trovato sul suolo iracheno facendo parallelamente una ricerca per identificare da quale paese provenisse ciascuna arma trovata, sottolineando la responsabilità che molti Stati hanno rispetto alla guerra in Iraq. Partecipazioni nazionali (Giardini). Molto interessante il Padiglione del Belgio che riflette sulla storia dello stesso padiglione nel contesto della Biennale, sottolineando come essa abbia origine nelle Esposizioni Universali e Coloniali. Il Padiglione dell’Australia è affidato all’artista Fiona Hall che sceglie di esporre numerosi oggetti: una Wunderkammer nella quale lo spettatore entra in uno stato di continua ricerca di nuove possibilità di senso attraverso le connessioni tra cose storiche e attuali. Il Padiglione della Russia permette ancora una volta grandi riflessioni sulla propria cultura e storia a partire del restyling del prospetto del padiglione che torna alle origini con un intenso verde. Il lavoro dell’artista Irina Nakhova destabilizza e crea un viaggio nell’arte russa del XX secolo, attraverso una grande ricerca estetica e filosofica. Il Padiglione del Giappone raccoglie grandi consensi con l’opera di forte effetto scenografico dell’artista Chiharu Shiota dal titolo The Key in the Hand, (2015). L’installazione che riempie l’intero spazio del padiglione, presenta numerose chiavi che l’artista ha in precedenza chiesto via internet a volontari donatori come metafora di un oggetto transizionale verso ciò che più si desidera. Canadissimo segue la moda di riprodurre fette di realtà riproponendo un classico market di cui sono piene le grandi
città dello Stato, elementare metafora dell’iper produttività contemporanea. Lo stesso approccio è visibile nel Padiglione della Grecia con l’installazione di Maria Papadimitriou che trasferisce in Biennale un negozio di pellami e cuoio e negli spazi dell’Arsenale nel Padiglione della Lettonia nel quale viene ricostruito uno dei numerosi garage presenti nella periferia di alcune città trasformate in residenze o piccoli laboratori. Alle Partecipazioni nazionali in città va il grande merito di rendere fruibili al pubblico, come spesso è già accaduto, numerosi palazzi storici altrimenti chiusi o difficilmente visitabili. Da non perdere il Padiglione del Portogallo presso Palazzo Loredan affidato all’artista concettuale Joao Louro che, attraverso non poca ironia, sviluppa un lavoro semantico tra installazioni visive e fotografiche. Il Padiglione Islandese merita la popolarità che ha ricevuto. L’artista Christoph Büchel affitta l’inutilizzata e privata ma ancora consacrata Chiesa Santa Maria della Misericordia di Venezia e la trasforma in una perfetta moschea. Lo spazio espositivo diviene immediatamente luogo di culto. La gestione della moschea viene affidata alla comunità musulmana veneziana che raccoglie circa venti mila fedeli, che abitualmente praticano il culto in un capannone nei pressi di Marghera. A Palazzo Malipiero troviamo il Padiglione del Montenegro, che grazie alla memoria dell’artista Aleksandar Duravcevic, permette allo spettatore di respirare in maniera intelligente aria montenegrina, nella sua dimensione più controversa del passato ma in una prospettiva di futura apertura.
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Critical guide for the 56th Biennale di Venezia (All the World’s Futures) Rossana Macaluso Biennale di Venezia‘s President Paolo Baratta wrote an interesting text where he defines «Curiger, Gioni, Enwezor, a trilogy in a sense: three chapters in a research process engaged by la Biennale di Venezia to explore the benchmarks that can help us formulate aesthetic judgments on contemporary art, a critical question following the demise of the avant-gardes and non-art.»1 Okwui Enwezor creates a critical break from the past. The 56th International Art Exhibition is a Bienniale involved in a cause. The institutional statement is clear before the exhibition point of view: «136 artists have been summoned, of these 88 for the first time. They come from 53 countries, and many of them from geographical areas that we paradoxically insist on defining as peripheral.»2 Using the word peripheral we face the risk to think about exotic imaginaries which Enwezor always eludes in every way. It's no coincidence that the Central Pavilion (Giardini) is opened by Il Muro del Pianto di Fabio Mauri3, homage to the coded (definition trendly in use) Italian art, but finely related to a specific artist who worked not just on politic but especially on conscience. «I started from my biography. There have been fascism, war, Jews extermination. I had to start again from there, analyzing disasters, cold, hunger, fear, bombing. Marked in my memory I found a meeting, Ludi Juveniles in Firenze, in Boboli's garden. Thinking about those days, I focused on political and historical aspect of destiny, on the way one's personal life is influenced by history. It looks like an incident but actually it's the substance of a life.» 4 So, restarting from the conceptual power of history, basing on contemporary art power of transposition, when it comes taking the stance through a narration. All the World’s Futures. The conscience of past owns the perspective on future. Also in the Central Pavilion (Giardini), All the World’s Futures presents ARENA, an active space with a live interdisciplinary program. ARENA's main feature is the reading of Karl Marx's Das Kapital directed by the English artist and film maker Isaac Julien, a live reading which will go on continuously for the whole duration of la Biennale. The curatorial cut is documentative with an anthropologic and ethnographic focus. Oscar Murillo hangs canvas on the facade of the Central Pavilion (Giardini) to subvert the magnificence of the neoclassical style; also very interesting is the work Frequencies (an archive, yet possibilities), (2013-currently): benches of worldwide schools have been temporary covered with canvas to capture students activities by signs and drawings, noticing a various kind of contents and messages from zone to zone. In the Central Pavilion (Giardini), we'll also find the movie Homme qui tousse, (1969), presented by Christian Boltanski, a film often defined oppressive; in the Arsenale, Boltanski also presents an evocative memorial titled Animates, (2014): a perspective of small bells oscillating on metal beams which recalls the altars dedicated to the dead that can be found in some zones of Chile. Robert Smithson presents his earth-work, Dead Tree (1969/2015) where sculpture recaps land art; it seems not to care about social problems at the first look, but it's actually involved questioning 1
La Biennale di Venezia, 56th International Art Exhibition. Introduction by the President of la Biennale di Venezia, Paolo Baratta.
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Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.
4 “ Senza Paura del buio”. Interview at Fabio Mauri by Stefano Chiodi, Flash Art n. 277 agosto-settembre 09.
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about global warnings. Tiravanija's installation, Demonstration Drawings, (2015), shows the works of a group of Thai artists: journalistic photographs which portrays act of rebellion against institutional power (published on the International Herald Tribune) are turned into drawings renewing a kind of aesthetic we got anesthetized to. In the Central Pavilion there are also Walker Evans, with the famous photographic series about workers in everyday life in USA country during the Great Depression, and Andreas Gursky's May Day IV, (2000/2004), a series of huge format photographs about the symbolic global economy centers as Singapore, Hong Kong and Kuwait. The theme of working class recurs in Jeremy Deller's work, who collects and presents everyday life and protest of several workers, and in the projection of Sergej Ejzenštejn's Strike! (1925) a movie about the zarist police suppression of workers strike in an early '900 factory. It's worth to take the time to watch John Akomfrah's Vertigo Sea, (2015), a three channel movie with a charming aesthetic: a mix of archive frames and contemporary clips, characterized by the evocation of colonial imaginaries and disrespectful acts against humans and nature: images emotionally frustrating. Going on through the curatorial path, the beginning of the Arsenale is given to Bruce Nauman who starts the matter of conservation and restoring of contemporary art technologies. His works at the Arsenale are made of neon lights used in 70's. Melvin Edwards' series of iron sculptures focuses on the main topics we can find in the Corderie: diasporas (not only the Africans), racial and post-colonial matters, civil rights claim. THE MASSAKA, (1997), of Abu Bakarr Mansaray is a work about Sierra Leone civil war represented through a series of drawings of mechanical and imaginary weapons exhibited next to Pino Pascali's Cannone Semovente (1965) a monumental cannon reduced as a toy: it cannot work, it cannot fire. The figurative affective language 5 of the artist Nidhal Chamekh is quite interesting: De quoi revenet les martyrs 2, (2012), focuses on the idea of the public social monument as an expression of power and controlled narration. At the end of this path, there's an interesting work, probably the most interesting, The Bell, (2015), of Hiwa K: a bell realized with remnants of war fused together; the artist found the remnants on the Iraq territory and also tried to identify the origin Country of each weapon, to highlight the involvement in the Iraq war of many Countries. National Participations (Giardini). Quite interesting the Belgium Pavilion which talks about the story of the Pavilion itself in the Biennale context, underlining how it originates from the Universal and Colonial Exhibitions. Australian Pavilion is organized by the artist Fiona Hall who chooses to exhibit several items: a Wunderkammer where the visitor comes to search meanings through the connections between contemporary and historical things. Russian Pavilion gives way to an open thought about oneself culture and story since the restyling of the Pavilion itself that goes back to its roots also by a deep green. Irina Nakhova's artwork destabilizes making a journey in the Russian art of the 20th Century with a deep aesthetic and philosophic research. Japan Pavilion reached a big suc5
The definition is taken from the text of the Biennale guide who offered me many informations about the works exhibited. For an in-depth research look at 56. Esposizione Internazionale d’Arte. All the World’s Futures, Marsilio Editori, Venezia, maggio 2015.
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Hiwa K The Bell, 2015 Installazione con video a due canali, suono, colore, scultura. Dimensioni variabili. 56. Esposizione Internazionale d’Arte - la Biennale di Venezia, All the World’s Futures 56th International Art Exhibition - la Biennale di Venezia, All the World’s Futures Photo by Alessandra Chemollo Courtesy by la Biennale di Venezia
cess with the scenographic work The Key in the Hand, (2015) of the artist Chiharu Shiota. The installation fills up the whole space in the pavilion and presents several keys donated to the artist from a huge number of online users; each key is a metaphor, a transitional object towards the most desidered thing. Canadissimo follows the trend of reproducing slices of reality presenting a classic big city market, a basic metaphor of the contemporary hyper production. The same approach can be found in the Greek Pavilion, where the artist Maria Papadimitriou presents an installation which rebuilt a leather shop inside the Biennale, and in the Latvia Pavilion, where a big garage converted in a small house or laboratory, as it happens in peripheral zones of many cities, is rebuilt in the Arsenale. Thanks to the National Participations is possible to visit several historical buildings usually closed or hard to get the ac-
cess in. It's not to be missed the Portugal Pavilion at Palazzo Loredan, committed to the conceptual artist Joao Louro who develops a semantic project among visual and photographic installations, using a good amount of irony. Iceland Pavilion deserves the fame it got: the artist Christoph Büchel takes for rent the Church of Santa Maria della Misericordia di Venezia, private and unused but still consecrated, and turns it in a real mosque. The exhibition space quickly becomes a place of worship. The mosque management is led by the Muslim community of Venezia with its 20000 believer who usually worship in a common building near Marghera. Montenegro Pavilion at Palazzo Malipiero offers the chance to breath montenegrian air in a smart way, thanks to the memory of the artist Aleksandar Duravcevic, in its conflictual past but looking at a new future aperture.
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Michele Pergola
Il giardino di pietra di Giulia Pergola
Ciò che voi chiamate Italia è, ai miei occhi, un giardino di pietra. Questa è la sua forza, la sua bellezza e la sua tragedia. Questo è il suo incanto, la sua immutevole sostanza, la struggente forma del suo destino. In questa Storia che ci sovrasta e ci supera, indifferente alle nostre storie, alle nostre piccole urgenze, alle nostre contingenze che, proprio nella loro caducità, sono la più autentica e sincera immagine della nostra vita, io non ho trovato mai il mio posto. Il progetto fotografico di Michele Pergola Il giardino di pietra è la tragica presa d’atto di una condizione esistenziale divenuta ormai insostenibile. La dissoluzione di quel fecondo legame tra uomo e Storia ha inaridito il giardino nel quale vaghiamo silenziosi, e che da rigoglioso quale era, si è trasformato in un algido non-luogo nel quale l’alienazione cristallizza ogni slancio vitale. Secondo un progressivo scollamento tra forma e sostanza, Michele Pergola ci introduce in una realtà e in una Storia nelle quali l’uomo riusciva ad essere perfettamente integrato; le figure mostruose del Sacro Bosco di Bomarzo accolgono e si lasciano accogliere in un’intricata rete di rimandi, in cui il dialogo con la Storia rimane vivido in un’allegra confusione di colori e di consistenze. La scintilla rinascimentale brilla ancora di luce propria e ci riporta ad un passato meraviglioso e monumentale in cui ogni immagine era aperta. L’umanità di quei mostri di pietra si manifesta nella loro alchemica fusione con il rigoglioso giardino in cui sono immersi. Decisamente più solitari e goffi sono i busti che invadono gli spazi del Gianicolo; la loro autorevolezza sembra essere paradossalmente contraddetta dalla miriade di medaglie che ne affollano le uniformi, ma anche da baffi e barbe che a breve ritorneranno di moda. Queste figure sono sole in un paesaggio che si allontana silenzioso, e che diviene una scenografia astratta capace però di imprigionare questi ridicoli uomini baffuti in un’atmosfera sospesa e straniante. La pietra comincia ad emergere nella propria natura mortifera. Ma è nella deformità degli atleti dello Stadio dei Marmi, che si manifesta l’eleganza della tragedia, l’interruzione di un dialogo salvifico. Questi muscolosi uomini di pietra vivono insieme
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la loro condizione materica e il loro slancio (interrotto) verso la trascendenza. Non hanno bisogno di alcuna scenografia, il loro spazio è bianco, ovattato, privo di qualsiasi consistenza; la piattezza che li circonda è violentemente spezzata dalla loro decadenza fisica che emerge attraverso quei corpi brutali ricoperti di muschio e muffa. L’indagine attenta condotta dall’obiettivo fotografico evidenzia da un lato una mancanza ontica, l’inadeguatezza di quell’esser-ci a cui invece anelano i nostri figli negletti; dall’altro la concretezza del dramma che qui diviene laconica catastrofe. Le atmosfere sospese attraverso cui queste foto ci conducono, sono il segno tangibile di un malessere pregresso, di un disagio latente nei confronti di una Storia che non è stata capace di riscattarsi. Questi nervi tesi, questi rettili dalle barocche spine dorsali, non sono altro che disperata incomunicabilità. Il metafisico giardino di pietra descritto da Michele Pergola è un territorio astratto e poco rassicurante nel quale inoltrarsi. È la casa in cui non ci sentiamo a casa, la casa che abbiamo abbandonato e che a sua volta non vuole più accoglierci; è l’Unheimlich che ritorna. Un legame di sangue troncato disumanamente. Un giardino fatto di fiori, arbusti e alberi se lasciato all’incuria del tempo può trasformarsi in un ambiente decrepito, in alcuni casi anche orrorifico; i fiori lasciano posto ai rovi, il verde alla cupezza dei marroni, la tenerezza alla rugosità del marcio. Ma è pur sempre un moto evolutivo, un progredire sbagliato forse, ma che denuncia la propria esistenza. Un giardino di pietra invece, se non viene curato, se non scorge traccia di abitanti compassionevoli che ne attraversano gli spazi, rimane isolato e contratto nel suo rigor mortis. Immobile ed eterno assume lentamente le sembianze di un deserto di rocce; la desolazione che lo attraversa è priva di qualsiasi vitalità, ma anche di qualsiasi tensione verso la morte. Non c’è dinamismo perché non c’è alcun turbamento. Un giardino di pietra va necessariamente abitato affinché se ne possa cogliere lo splendore; va amato, accudito e rispettato nella sua materialità apparentemente ostile eppure così elegante. Ancora una volta c’è bisogno di amore. Le foto sono tratte dal progetto fotografico Il giardino di pietra di Michele Pergola. Il progetto fotografico Il giardino di pietra è stato il tema di una recente mostra personale di Michele Pergola presso l’Associazione culturale Canova22 a Roma, nei mesi di febbraio e marzo 2015. In occasione della mostra sono stati stampati cataloghi in tiratura limitata. Attualmente il progetto continua ad ampliarsi, dopo aver incluso la serie relativa al Sacro Bosco di Bomarzo e al Gianicolo. Contatti www.michelepergola.com/ www.facebook.com/michelepergola975
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Michele Pergola
The stone garden Giulia Pergola
What you call Italy is a stone garden to my eyes. This is its strength, its beauty, and its tragedy. This is its fascination, its unchanging essence, the heart-wrenching form of its destiny. In this history, which dominates and exceed us, emotionless to our stories, to our little urgencies, which are the most authentic and sincere image of our life exactly because of  their transience, I’ve never found my place. The photographic project by Michele Pergola The stone garden is the tragic acknowledgment of an existential condition that has become unsustainable. The dissolution of that fertile relationship between man and History has dried up the garden in which we silently wander, and which from flourishing , as it was, has turned into an icy non-place where the alienation crystallizes every vital impulse. According to a progressive disconnection between form and substance, Michele Pergola leads us into a reality and a History in which men were able to be fully integrated; the outrageous figures of the Sacro Bosco (Sacred Wood) of Bomarzo welcome and let themselves welcome into an intricate web of references, in which dialogue with History remains vivid in a cheerful confusion of colors and textures. The Renaissance spark still shines of its own light and brings us back to a wonderful and monumental past in which each image was open. The humanity of those stone monsters is manifested through their alchemical fusion with the flourishing garden where they are immersed. The busts that invade the spaces of the Gianicolo are definitely more solitary and clumsy; their authority seems to be paradoxically contradicted by the myriad of medals that crowd their uniforms, but also by mustaches and beards that soon will return to fashion. These figures are lonely in a landscape that silently runs away and becomes an abstract scenery yet able to imprison these ridiculous men with mustaches in a suspended and alienating atmosphere. The stone begins to emerge in its deadly nature. The elegance of the tragedy, the interruption of a salvific dialogue manifest themselves in the deformity of the athletes of the Stadio dei Marmi . These muscular stone men live together their material condition and their (interrupted) rush towards transcendence. They don’t need
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any setting, their space is white, muted, deprived of any substance; the flatness around them is violently broken by their physical decline that emerges through those brutal bodies covered with moss and mold. The careful investigation conducted by the photographic lens shows on one hand an ontic deficiency, the inadequacy of Dasein which our neglected children yearn to; on the other hand the reality of drama which here becomes a laconic catastrophe. The suspended atmospheres through which these photos lead us, are a tangible sign of a previous illness, a latent discomfort against a History which has not been able to redeem itself. These stretched nerves, these reptiles with baroque spines, are nothing more than a desperate lack of communication. The metaphysical stone garden described by Michele Pergola is an abstract and little reassuring area in which to advance. It is the house where we do not feel at home, the house we have abandoned and, in turn, doesn’t want to receive us anymore; it’s the Unheimlich that comes back. A blood bond inhumanly truncated. A garden (made) of flowers, shrubs and trees if left to time carelessness can turn in a decrepit and in some cases, horror space; flowers give way to brambles, green to the brown gloom, tenderness to roughness of the rotten. But it’s still an evolutionary movement, a wrong progress, maybe, but denouncing its own existence.
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A stone garden instead, if not looked after, if doesn’t see traces of compassionate inhabitants walking through its spaces, remains isolated and contract in its rigor mortis. Eternal and still, it slowly takes on the appearance of a stone desert; the desolation that crosses it is deprived of any vitality, but also of any tension towards death. There’s no dynamism because there’s no perturbation. A stone garden must be necessarily inhabited in order to capture its splendor; it must be loved, cared for and respected in its seemingly hostile yet so elegant materiality. Once again, love is needed. Photographs belong to the photographic project The stone garden, by Michele Pergola. The photographic project The stone garden was the theme of a recent personal exhibition by Michele Pergola at Associazione Culturale Canova22 in Rome, in February and March 2015. For the exhibition catalogs have been printed in limited edition. Currently, the project continues to grow, after including the series of Sacro Bosco of Bomarzo and the Gianicolo. CONTACTS www.michelepergola.com/ www.facebook.com/michelepergola975
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david lachapelle
DOPO IL DILUVIO di Vera Viselli
Se l’arte americana contemporanea può essere racchiusa in un nome, è quello di David LaChapelle. Fotografo iniziato e scoperto da Warhol, regista premiato al Sundance, nel 2006 presta i suoi occhi e la sua attenzione alla pittura e alla scultura italiane, grazie alle opere di Michelangelo, arrivando a concepire The Deluge, una serie monumentale finalizzata ad un’esposizione non più prettamente mediatica ma decisamente museale. Una sorta di ritorno alle origini (le sue opere sono state protagoniste di esposizioni presso il Musée D’Orsay di Parigi, il Brooklyn Museum di New York, il Museum of Contemporary Art di Taipei, il Tel Aviv Museum of Art a Tel Aviv, il Los Angeles County Museum of Art a Los Angeles, la National Portrait Gallery di Londra, il Fotographfiska Museet di Stoccolma e la National Portrait Gallery a Washington DC) attraverso l’incontro tra il suo surrealismo post-Pop e la classicità artistica michelangiolesca, così potente e dirompente da imprimere una decisa svolta artistica alla sua produzione. Fino ad allora, LaChapelle aveva voluto inglobare in sé lo spirito del tempo: quello altamente, eccessivamente pop degli anni Ottanta, con l’idea di fotografare un decennio che arrivava a cavallo del nuovo millennio, basandosi sempre e comunque sull’osservazione e la rappresentazione della realtà, pur con alcune deviazioni surrealiste-astrattiste. Debord vedeva nello spettacolo l’essenza di una società dedita alle immagini, ennesima forma di rappresentazione in cui tutto ciò che si era vissuto tendeva ad allontanarsi, staccandosi da ogni aspetto della vita e fondendosi in un unicum1. 1
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G. Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, Bolsena,
In LaChapelle quest’unicum combina la scena teatrale ed il fermo-immagine cinematografico, creando un sogno forse inverosimile, aggrappato a scenari strabilianti; ma, come egli stesso ha dichiarato «anche se si trattava di fantasie esagerate, quello era quanto accadeva nel mondo». La narrazione postmoderna2 si inserisce prepotentemente nella sua fotografia, creando combinazioni inedite prive di logica temporale; i segmenti narrativi arrivano ad intrecciarsi per andare a sfociare in cortocircuiti visivi e significati in conflitto, tutte conseguenze di una società che risulta ormai pervasa, impregnata e bombardata dalle immagini. Prendendo in prestito le parole del curatore Gianni Mercurio, «LaChapelle, che guarda alla cronaca del costume e del sociale, attinge alla storia delle immagini per penetrare le pieghe della cultura popolare»: la volontà del suo sguardo - critica, estetica e spesso onirica - è rivolta al presente e agli esseri umani che lo vivono, alla realtà fluttuante, confusionaria che, invece di certezze, fa scaturire paure e fantasmi partoriti dalla fine delle utopie, dalla crisi della fede e del pensiero razionale. È in questo contesto che egli inserisce ed affronta temi come la catastrofe e la decadenza, la malattia, la morte e la pietà: inglobandosi con il consumismo e le nevrosi compulsive, con feticismi e ossessioni narcisiste, essi creano un insieme di potenza primordiale. È The Deluge: il sublime che viene messo in 2002. 2 «La narrativa postmodernista si caratterizza per il disordine temporale, il disprezzo della narrazione lineare, la commistione delle forme e la sperimentazione nel linguaggio», B.Lewis, Kazuo Ishiguro, Manchester University Press, 2000.
equivalents
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Opposite: David LaChapelle, Museum, 2007 Chromogenic Print, ©David LaChapelle
David LaChapelle, Aristocracy #3, 2015, Chromogenic Print, ©David LaChapelle
scena attraverso lo strumento-carne, riprendendo quell’idea propria della pittura sacra rinascimentale, il sublime che, per divulgare temi e messaggi spirituali e renderli comprensibili a tutti, adotta i codici della comunicazione visiva di massa. «Sin da bambino sono stato affascinato da Michelangelo», spiega LaChapelle, «guardando la sua opera si guarda il mondo. Non è il mondo dell’arte, è il mondo, è l’umanità». Un’umanità che subito dopo, però, scompare, come l’artista stesso: egli si ritira dalla scena, voltando le spalle a quella mondanità consumata per abbracciare un diverso stile di vita, quello di un’isola selvaggia situata nel bel mezzo del Pacifico. Aveva detto tutto quello che voleva dire, parole sue. Elimina il corpo. Un corpo plasmabile, soggetto a esasperate pratiche estetiche e consumistiche, metafora di un’identità sfaldata, non più protagonista ma oggetto d’indagine, che tuttavia manteneva un contatto con il reale. Ne troviamo soltanto un simulacro orrorifico nei frammenti di cera della serie Still Life. Già in After the Deluge: Museum, l’immagine è la sala di un museo allagato: non è rimasto nessuno a contemplare quel patrimonio artistico che, a un tratto, perde ogni valore e lentamente affonda in uno specchio d’acqua che ne riflette l’immagine in un doppio ribaltato. Anche i soggetti di Awakened sono persone che fluttuano sott’acqua, sospesi in un’apnea che è una soglia, una fase che prevede l’abbandono del corpo e il risveglio in un’altra dimensione. Il ciclo Still Life, emblematico, non ritrae più personaggi dello star system ma le loro effigi inanimate. Le riproduzioni in cera di Ronald Reagan, Cameron Diaz, Michael Jackson, Lady Diana, Theodore Roosevelt, Bono Vox e di molte altre celebrità, risultano scomposte in più pezzi riassemblati su cartoni da imballaggio dopo che un pesante atto di vandalismo ha deturpato l'aspetto già macabro delle statue di cera. Una rappresentazione inquietante e iperreale del disfacimento e della corruttibilità dei corpi che si estende anche alle icone e alla loro celebrazione, più inquietante se si pensa che molti di questi personaggi sono stati ritratti da LaChapelle in passato. Tra i lavori più recenti spiccano la serie Land Scape e Gas Stations. Land Scape mostra delle centrali industriali che svetta-
no come miraggi luminosi sullo sfondo di orizzonti desertici, con cieli sfumati e variopinti. Si tratta di agglomerati luccicanti e bellissimi, emblemi di una metropoli futuribile, frutto di un incredibile lavoro di ricostruzione realizzato dall'artista insieme a una squadra di modellisti cinematografici assemblando oggetti e materiali di riciclo di piccolo formato. Sono modelli che LaChapelle ha fotografato sullo sfondo di paesaggi veri. Il micromondo e l’ambiente a scala umana sono due verità a confronto che intersecandosi danno forma a una realtà aumentata: nel fondere due livelli di realtà in un’unica immagine, la realtà risulta un’astrazione. Per quanto concerne invece Gas Stations, la serie verte sull’effetto straniante di alcuni scorci paesaggistici con delle stazioni per il rifornimento di carburante che si stagliano isolate nel mezzo di una fitta vegetazione tropicale. Templi di quella che fu la nuova religione americana (il mito dell’automobile) che continuano a emettere energia con le loro insegne al neon, ma sembrano impianti sopravvissuti in un pianeta non più abitato: uno scenario da film postapocalittico in cui l’uomo non è più protagonista, in cui nessun corpo risulta essere presente. A definire il passaggio di LaChapelle, dopo The Deluge fino a oggi, - afferma Mercurio - è l'idea che «la via della verità è quella indicata dalla ragione e non dai sensi. Se leggiamo l’immagine attraverso i sensi abbiamo una visione onirica, costruita peraltro con i metodi tipici del surrealismo (decontestualizzazione e ricontestualizzazione dei dettagli), se la leggiamo filtrandola attraverso la griglia della ragione abbiamo un immagine che si fa carico di denunciare la realtà.» INFORMAZIONI Titolo: David LaChapelle, dopo il Diluvio Sede: Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 - Roma Curatore: Gianni Mercurio Periodo: 30 aprile – 13 settembre 2015 Orari: domenica, martedì, mercoledì e giovedì: dalle 10.00 alle 20.00; venerdì e sabato: dalle 10.00 alle 22.30; lunedì chiuso (Dal 13 luglio al 30 agosto: dalle 16.00 alle 24.00)
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sezioni mostra IL DILUVIO In questa sezione sono raccolte le opere che hanno segnato il punto di svolta della produzione artistica di LaChapelle: The Deluge, 2006, che descrive la distruzione di una società basata sul consumismo, ma con una speranza di redenzione. Museum, 2007, Statue, 2007, in cui l’arte, massima espressione della creatività dell’uomo, rimane solitaria a monito di una perfezione perduta e Cathedral, 2007, dove, tra lo sgomento dei fedeli in preghiera, il viso di una bambina ci colpisce nella sua inespressività. Nella stessa sezione gli Awakened si risvegliano nell’acqua.
IL MIO GESù PRIVATO L’inclinazione di LaChapelle verso i temi trascendentali trova la sua più esplicita espressione nella presenza del divino tra gli spazi del quotidiano ed è rappresentata dal ciclo fotografico Jesus is My Homeboy, ma anche da opere come Pietas e The Beatification series. Emblematica di questa sezione è American Jesus dove LaChapelle ripropone l’immagine – già rivisitata in Pieta with Courtney Love – della Pietà rinascimentale, con Gesù che giace esanime sulle ginocchia della Madonna, sostituendo alla figura materna quella di Cristo stesso nei panni di un giovane hippie che regge il corpo senza vita di Michael Jackson.
VALUTE AL NEGATIVO/INCIDENTI Negative Currency e The Crash sono due serie complementari realizzate nel 2008, anno nevralgico che segna l’esplosione di quella che è stata una delle peggiori crisi finanziarie della storia. Negative Currency richiama l’attenzione sugli effetti negativi, quando non devastanti, del denaro e risulta profetico degli eventi disastrosi che hanno precipitato nella recessione il sistema economico mondiale, in seguito allo scoppio della bolla immobiliare in USA (crisi dei subprime) e al crack della Lehman Brothers. Il richiamo ad Andy Warhol è evidente in entrambe le serie (One Dollar Bills e Death and Disaster); per LaChapelle, al contrario di Warhol, le banconote subiscono un vero e proprio oscuramento e sono presentate come un negativo fotografico che sottolinea l’inversione al ribasso di tutte le borse, innescata dalla moneta statunitense. Gli Incidenti, invece, svuotati del tema originale – la censura della morte da parte di una società edonista e indifferente – e caricati di significato metaforico, acquisiscono un nuovo valore plastico-estetico.
LA TERRA RIDE NEI FIORI La sezione celebra il tema della vanitas, un motivo sotteso a molte opere di LaChapelle ma qui enfatizzato dal riferimento alla tradizione iconografica barocca con il trionfo della natura morta floreale. Il titolo della serie, che è una citazione letteraria tratta dalla poesia Hamatreya di Ralph Waldo Emerson (scrittore e filosofo americano vissuto nel XIX secolo), offre una chiave di lettura che riposiziona il concetto stesso di caducità: i fiori recisi, simbolo della condizione effimera dell’esistenza, diventano un’espressione eccessiva, sfacciata come uno sberleffo della natura.
STAZIONI DI RIFORNIMENTO Le stazioni di rifornimento viste da un luogo e da un tempo futuro saranno scoperte come resti architettonici di un mondo perduto, come i templi aztechi o l’Isola di Pasqua. Le culture future, con altre preoccupazioni, si interrogheranno sul loro significato. Fotografate nelle foreste pluviali di Maui, le stazioni esemplificano un isolamento che prolifera ed è profondamente radicato nella nostra cultura. I modelli analogici in scala rivelano le imperfezioni della mano dell’uomo, nello stesso modo in cui il nostro sistema artificiale per creare energia è imperfetto. Queste immagini tuttavia non sono didattiche, non condannano e non giustificano. Semplicemente esistono, sono ciò che ha reso possibile il nostro mondo. Sarà l’approccio che sceglieremo adesso a decidere il nostro destino.
ARISTOCRACY Aristocracy rappresenta la serie di lavori più recenti di David LaChapelle. Fa riferimento a una classe vip, a un gioco d’alta società sospeso tra noia e autodistruzione e rappresenta la parabola esibizionista di uno snobismo che sfocia nella performance acrobatica e nella perdita di senso. Qui, come in molti lavori di LaChapelle, il caos si tinge di rosa e il contrasto tra il dramma e la sua patina iperreale rimane sospeso in una metafora seducente e caustica. Le evoluzioni e gli avvitamenti disegnati dai soggetti suggeriscono un richiamo all’aeropittura di tradizione futurista; allo stesso tempo le atmosfere dense e turbinose evocano le tempeste sublimi di Turner.
NATURA MORTA Natura Morta è il titolo di questa insolita serie fotografica attraverso la quale LaChapelle offre un’inquietante quanto macabra galleria di ritratti di personaggi famosi. Dopo aver appreso che il Museo Nazionale delle Cere di Dublino è stato teatro di un violento atto di vandalismo con danni all’intera collezione di statue, il fotografo ottiene il permesso di effettuare gli scatti che compongono questo ciclo. Le effigi inanimate di personaggi noti giacciono smembrate e orribilmente ricomposte sullo sfondo di cartoni per l’imballaggio. A questi ritratti è correlato il ciclo Last Supper, dove l’aspetto macabro cede il passo a un effetto decantato, in un certo senso sublimato dalla rievocazione di un capolavoro del passato: l’Ultima cena di Leonardo è ricostruita attraverso la successione di tredici fotografie dedicate ai protagonisti del racconto evangelico, riprodotti in cera limitatamente ai dettagli delle teste e delle mani.
LAND SCAPE Land Scape segna un nuovo approdo della ricerca poetica di David LaChapelle, che disegna orizzonti futuri dove l’umanità è scomparsa e le metropoli sono isole nel deserto, trasformate in complessi industriali incessantemente attivi. Il backstage di questo progetto fotografico, documentato in un video, svela che il processo tecnico con cui sono stati resi i paesaggi spettacolari qui rappresentati non ha implicato nessuna manipolazione digitale o effetto di postproduzione: il set è un modello realizzato da professionisti di Hollywood specializzati nelle scenografie. Un lavoro artigianale ad alta precisione, condotto mediante l’assemblaggio di prodotti industriali e piccoli oggetti riciclati come bicchieri di plastica, bigodini, cartoni per le uova, caricabatterie, cannucce, lattine e contenitori di vario tipo. I plastici sono stati poi collocati nel panorama reale delle colline californiane e ripresi durante diverse ore del giorno, quando l’atmosfera vira nelle tinte dell’alba o della notte.
DAVID LACHAPELLE DOPO IL DILUVIO / AFTER THE DELUGE a cura di Gianni Mercurio, in collaborazione con Ida Parlavecchio Catalogo della mostra di Roma, Palazzo delle Esposizioni, 30 aprile-13 settembre 2015 EDITORE Giunti Arte mostre musei PAGINE 240 PREZZO DI COPERTINA ¤42
David LaChapelle American Jesus, 2009 Chromogenic Print ŠDavid LaChapelle
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il muro
david lachapelle
AFTER THE DELUGE Vera Viselli
If the American contemporary art can be summed up in a name, that name is David LaChapelle: a photographer discovered and introduced to the world of art by Andy Warhol; a director awarded at Sundance Festival; in 2006, David LaChapelle offers his eyes and pays attention at Italian historical painting and sculpture, Michelangelo's works above all, and gains the concept of The Deluge, a monumental series settled for a kind of exhibition conceived not only for media but especially for museums. A sort of return to the origin (his works have been exhibited at: The Musée D’Orsay of Paris, The Brooklyn Museum of New York, The Museum of Contemporary Art of Taipei, The Tel Aviv Museum of Art, The Los Angeles County Museum of Art, The National Portrait Gallery of London, The Fotographfiska Museet of Stockholm and The National Portrait Gallery of Washington DC) made by the fusion of his post-Pop surrealism and the classical feature of Michelangelo's works, a kind of art so tough and massive to bring LaChapelle to a decisive turning point in his production. Till that moment, LaChapelle wanted to absorb in himself the spirit of the time: the spirit of the high-camp and exaggerated 80's pop culture, trying to portray a decade which came between the past and the new millennium, always focusing on the observation and the representation of reality, sometimes going through surrealist-abstractist directions. Guy Debord considered the spectacle as the essence of a society devoted to images, a form of representation where the experience went on and on further, disconnecting from
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each element of life and merging in a unicum1. In LaChapelle's works, this unicum matches the theatrical set and the movie frame, creating an absurd dream grabbed at astonishing sceneries; even if ,as the artist said: «although they were exaggerated fantasies, that was what happened in the world». Postmodern fiction2 strongly appears in his photography, giving place to innovative combinations out of a linear temporal logic; narrative fragments intersect to result in visual short circuits and conflict of meanings: consequences of a society filled, saturated and bombarded with images. According with the exhibition curator Gianni Mercurio, «LaChapelle, who looks at the news relevant to the way of living and social issues, draws on the history of images for understanding the trends of people's culture»: the will of his gaze - critical, aesthetical and often oneiric - is directed to the present and to the humans who live in it, to the fluctuating and confusing reality, which brings no certainty but only fears and phantoms, those generated from the end of utopias, the crisis of faith and of the rational thought. This is the context where he puts and faces themes such as catastrophe and decay, illness, death and compassion: these themes cre1
G. Debord, Society of the Spectacle, Soul Bay press, Eastbourne, East Sussex, UK, 2009.
2 «[...] postmodernist fiction is defined by its temporal disorder, its disregard of linear narrative, its mingling of fictional forms and its experiments with languages», B. Lewis, Kazuo Ishiguro, Manchester University Press, 2000.
equivalents
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Opposite: David LaChapelle, Riverside, 2013 Chromogenic Print ©David LaChapelle
David LaChapelle, Anonimous Politicians, 2012 Chromogenic Print ©David LaChapelle
ates a primordial force together with consumism and compulsive neurosis, absorbed in fetishisms and narcissistic obsessions. That's The Deluge: the sublime which sets up through the flesh-instrument, borrowing the idea proper of the sacred painting of the Renaissance, the sublime which uses massive visual communication codes to spread spiritual themes and messages and makes them clear to everyone. «Since I was a child Michelangelo has fascinated me», LaChapelle says, «looking at his works, one looks at the world. It's not the world of art, it's just the world, it is humankind». A kind of humanity that soon disappears as the artist himself: he pulls out of the show-business, turning his back on the consumed high society, choosing a different way of life on a savage island in the middle of Pacific. In his own words: he had already said everything he wanted to say. The body is removed. There was a malleable body which got used to the heightened cosmetic and consumistic practices, a body which was symbol of a shattered identity, not a subject anymore but just an object of analysis, nevertheless still anchored in reality. Now we only find a horrific simulacrum of it in the wax fragments of the Still Life series. In After the Deluge: Museum, the image displays an empty hall of an overflowed museum: no one contemplates art masterpieces anymore, the heritage suddenly loses its value and slowly sinks in a stretch of water which reflects its image and gives it back as an overturned double. Also the main characters of Awakened, linked to The Deluge series, are persons who float in the water: the apnea as a gateway, a transition which requires them to leave the body and then wake up in another dimension. The Still Life series, with its emblematic title, presents inanimate effigies instead of the real star system characters. Wax reproductions of Ronald Reagan, Cameron Diaz, Michael Jackson, Lady Diana, Theodore Roosevelt, Bono Vox and other celebrities (living and not) are broken down in pieces and then put together on cardboards, after an act of vandalism destroyed the already macabre simulacrum of each wax statue. A disturbing and hyperreal representation of bodies' decay and frailty that reaches icons and their celebration; it's way more unsettling if we think that several celebrities appearing in the series as wax pieces have been portrayed by LaChapelle in the past. Among the latest works, the series Land Scape and Gas Stations stand out. Land Scape shows industrial plants towering as bright mirages in desert horizons, with soft and colourful skies. Shining and stunning complexes, signs of a future metropolis, made by a team of cinematographic pattern makers who worked together with the artist to realize an incredible project assembling small items and recycled materials. pla-
stic cups, curlers, egg boxes, battery chargers, straws, cans and containers of different kinds. Models have been photographed by LaChapelle in the context of real landscapes such the Californian desert. The micro-world and the human-scale environment are two context compared with each other, which intersecting shape an augmented reality: when two levels of reality merge into one image, reality becomes abstraction. About Gas Stations, the idea focuses on the estranged effect of landscapes views where gas stations pop up alone among an overgrown tropical vegetation. Temples of the so called new american religion (the car myth), gas stations keep on emitting energy by neon signs, but they look like plants survived in a deserted planet, a set in a post-apocaliptic movie, where the man (mankind) doesn't have a leading role and no body appears. After The Deluge series till today, according to Mercurio, LaChapelle came accross different steps in his works, following the idea that «the truth is the one shown by the reason and not by the senses. If one reads the image through senses, has a dreamlike vision, which is moreover built up by the typical methods of Surrealism (decontextualisation and recontextualisation of details); if it is read by filtering it through the reason, one gets a picture that charges of reporting reality.» Informations Exhibition title: David LaChapelle, dopo il Diluvio Location: Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 - Roma Curator: Gianni Mercurio Calendar: April 30th – September 13th 2015 Hours: sunday, tuesday, wednesday, thursday: 10.00 am - 8.00 pm; friday - saturday: 10.00 am - 10.30 pm; monday: closed (July 13th - August 30th 4.00 pm - 00.00)
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exhibition’s sections THE DELUGE
EARTH LAUGHS IN FLOWERS
In this section, there are works that define a turning point in LaChapelle’s artistic production: The Deluge (2006) describes the ruin of a society based on (consume) consumism but that still owns a chance of redemption; Museum (2007) and Statue (2007) where art is considered the higher expression of human creativity and is the last word about a lost perfection; Cathedral (2007) where we are hidden by the inexpressive face of a young girl among a group of praying and shocked believers. In the same section, the Awakeneds wake up in water.
The vanitas theme is celebrated in this section; vanitas is a leit motiv behind several LaChapelle’s artworks and here it’s highlighted referring to the Baroque iconography especially in the floral still life. The section title is a quotation from Hamatreya, a poem written by Ralph Waldo Emerson (American writer and philosopher lived in XIX century); the line gives an interpretation that redefines the concept of caducity: cut flowers, transience symbols, become an excessive and loud expression such as prank of nature.
MY PERSONAL JESUS Transcendental themes are explicit in the divine presence among everyday spaces; they are represented in the photographic series Jesus is My Homeboy, in works like Pietas and The Beatification series. American Jesus is emblematic of this section: LaChapelle proposes the image of the Renaissance Pietà - already recreated in Pieta with Courtney Love - with Virgin Marie holding Jesus, but replaces the mother figure with a young hippie Christ with an expired Michael Jackson in his arms.
NEGATIVE CURRENCY/THE CRASH Negative Currency and The Crash are two complementary series realized in 2008, the year of the worst economic crisis of the whole history. Negative Currency points out the destroying effects of money; it had foreseen the disastrous events who brought to recession the world economic system after the subprime crisis and the Lehman Brothers bankruptcy in USA. Both series (One Dollar Bills and Death and Disaster) recall Andy Warhol; differing from Warhol, LaChapelle’s banknotes undergo an effective blackout: they appear as a photograph negative that draws attention to the stock market’s downward trend, started from the USA currency. On the other hand, The Crashes are deprived of their original meaning - the censorship about death in a careless and hedonistic society - and now they get metaphorical significance and acquire a new plasticaesthetic value.
GAS STATION In a future place and time, gas stations will be discovered as architectonical ruins of a lost world, like Aztec temples or the Easter Island. Future cultures with different worries will wander about those ruins meaning. Shot in the pluvial forests of Maui, the stations exemplify a kind of isolation that increases and is deeply rooted in our culture. Analog models in scale show human artefact’s imperfections, in the same way the artificial system to produce energy is defective. These photographs are not meant to teach anything, they don’t disapprove and don’t excuse. Gas stations just exist, they are what made our world possible. The new approach will make our destiny.
ARISTOCRACY Aristocracy is the latest series of LaChapelle’s works. It relates to a vip class, a joke of the high society hanging between boredom and self-destruction; it represents the exhibitionist parabola of a snobbery that flows into an acrobatic performance and into a loss of meaning. Here, as in many LaChapelle’s works, chaos gets pink coloured and the conflict between the drama and its hyperreal gloss stuckaaz in a seductive and caustic metaphor. Subjects’ movements and barrel rolls remind Italian Futurism aeropainting; at the same time, a dense and whirling atmosphere remembers Turner’s sublime tempests.
STILL LIFE Still life is the title of an unconventional photographic series LaChapelle realized to present an unsettling and macabre celebrities’ portraits gallery. The National Wax Museum of Dublin came under a devastating act of vandalism; after it, the photographer had the chance to shoot this series: celebrities’ effigies lie dismembered on a cardboard background with a horrific effect. Last Supper is a work linked to these kind of portraits; here the macabre feature gives way to a decanted effect, sublimated through the reenactment of a masterpiece from the past: Leonardo’s Last Supper is recreated by a sequence of thirteen photographs. Each photo shows the head and the hands of each evangelical event character reproduced in wax.
LAND SCAPE Land Scape defines a new step in LaChapelle’s artistic research, drawing future horizons where the humanity disappears and metropolis are islands in the desert, cities converted into industrial plants in a non-stop activity. A video documents the backstage of this photographic project showing that there is no digital manipulation or postproduction realizing these amazing landscapes: each set is a model created by a team of professionals specialized in scenic design, from Hollywood industry. A handcrafted work made with high precision assembling small recycled items and industrial products: plastic cups, curlers, egg boxes, battery chargers, straws, cans and various containers. The models have been placed in the Californian hills context and then have been shot at different time of the day, when the sky changes colour following the dawn or the night.
DAVID LACHAPELLE DOPO IL DILUVIO / AFTER THE DELUGE Curated by Gianni Mercurio, in collaboration with Ida Parlavecchio Exhibition catalogue, Rome, Palazzo delle Esposizioni, 30 april-13 september 2015 EDITOR Giunti Arte mostre musei PAGES 240 PRICE ¤42
WILD STYLE TATTOO Via Saffi 48, Latina 0773.1714209
il muro
GIULIA MARCHI
Multiforms di Gaia Palombo «La sua presenza aveva la semplicità intelligibile di una pietra: in piena città, mi sembrava di essere di notte in montagna, tra solitudini senza vita». (Georges Bataile in Pierre Angélique, Madame Edwarda, Éditions du Solitaire, 1937)
Giulio Carlo Argan sosteneva che nessuno, prima di Marc Rothko, si era interrogato «nella psicologia del profondo 1 » sul concetto di parete, o meglio sulla pluralità di concetti che questa reca in sé. Il critico li riassumeva con la triade limite, protezione, diaframma, frapposti tra due dimensioni: «un di qua, dove siamo, e un di là che è il mondo 2 ». Tale insenatura è luogo di una ricerca incessante: spogliata dalle dure sembianze di confinatrice, essa diviene membrana, ambiente esperibile. È nel titolo della serie fotografica di Giulia Marchi, dall’indubbia eloquenza, che risiede un chiaro manifesto d’intenti, più profondo di un vago richiamo alla lontana. Il gesto di Rothko, in pittura, ha edificato strutture, plasmato spazi attraverso la compenetrazione superficie – colore; l’obiettivo fotografico di Marchi, nella serie Multiforms, genera un campo di forze empirico sull’esempio di quell’impressionismo astratto 3 proprio dell’artista statunitense. I materiali stagliati nelle fotografie dell’artista - lana, sabbia, pietre, detriti - si costituiscono come continuum tra il di qua e il di là, nuovi varchi per lo sguardo. L’irregolarità delle superfici, l’asprezza che le connota, sono dei percorsi visivi mediante i quali la distanza che intercorre tra immagine e osservatore diventa un ponte, una forza in tensione. Affine a una modalità tipicamente processuale sta la concezione di materia, punto di coesistenza tra proprietà formali, puramente esteriori nella pienezza visiva, e ontologiche, pregne di sostanza. Le immagini che ne derivano risultano autosufficienti, il legame che instaurano con chi guarda non è relegato al piano visivo ma a quello corporale nella sua interezza, dove per corporale si vuole intendere tutto ciò che riguarda il corpo esternamente ma, prima di tutto, internamente. Questo tipo di processo scaturito dalle immagini di Marchi è in uno stato di continuo divenire; esse si mostrano come inesauribile fonte di significati e, dun1
Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna,1770-1970. L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze, 2002, p.296. (Ed. Or. G. C. Argan, L’Arte moderna, Sansoni, Firenze, 1970).
2
ibidem.
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ivi, p. 262
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Giulia Marchi, Multiforms N 17
que, di sguardi possibili. In tal senso la congerie materica di Marchi si dà come manifestazione metafisica di paesaggi ancestrali, ambienti lunari, formazioni geologiche che riecheggiano il sublime matematico di matrice kantiana. L’opera non è oggetto estraneo di visione ma è il codice stesso secondo cui la visione è regolata e avviene. Sorge spontanea una riflessione per la quale è necessario chimare in causa Michelangelo Antonioni.
Antonioni e Rothko, due maestri dell’astrazione tra i quali è noto intercorresse una profonda stima, sono stati spesso accostati dalla critica a proposito della comune attitudine al dissolvimento informe di figure – nei film di Antonioni è quasi una costante4 –, questa tendenza 4
Alberto Giorgio Cassani, La visione del vuoto - in memoria di Michelangelo Antonioni, http://www.accademiavenezia. it/upload/docs/docenti/file/28/Antonioni_La_visione_del_vuoto.pdf.
equivalents
distingueva la cifra stilistica di Rothko e sembra tornare indirettamente nella serie fotografica in esame. Più precisamente è interessante porre l’attenzione sul termine temps mort che, ancora a proposito di Antonioni, Jeff Weiss chiarifica come segue: «consiste [...] nello svuotamento dello spazio rappresentato, contenuto o tagliato dall’inquadratura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rivela allo sguardo dello spettatore 5 ». Una pienezza astratta, direi pregnante, è riscontrabile nel lavoro di Giulia Marchi, un lavoro che fonda la propria ragion d’essere su una riflessione ben precisa: la consistenza viva delle immagini e dello sguardo, forse mai del tutto rivelatore e assoluto ma pur sempre dinamico nella sua natura indagatoria. «Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà». (M. Antonioni, Prefazione, cit. p. 14).
La serie Multiforms è composta da 19 scatti fotografici ed è accompagnata da un libro d’artista, in edizione limitata, edito da Danilo Montanari Editore. Si trova attualmente in collezione presso il bookshop di Matèria, una galleria dedicata alla fotografia contemporanea situata nel cuore del quartiere storico di San lorenzo; una realtà dinamica e aperta, attenta agli sviluppi di artisti affermati ed emergenti. L’ampio respiro internazionale identifica lo spirito della galleria e si coniuga con iniziative che confermano, al contempo, uno spiccato interesse nei confronti delle realtà territoriali. Dall’11 giugno, fino al 31 luglio, gli spazi di Matèria ospiteranno una mostra personale di Giulia Marchi dal titolo Rokovoko. I lavori inediti in mostra, spaziando tra fotografia e installazione, denotano un approccio analogo a quello di Multiforms; in questa affinità è rintracciabile il mantenimento di una linea coerente, nonché una solida consapevolezza di ricerca. A sancire l’affinità di cui sopra 5
J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, in Rothko, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007‑6 gennaio 2008), a cura di O. Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44‑55: 52.
Giulia Marchi, Multiforms N 4
sono il rapporto parola-immagine e una ricerca spaziale ben esplicata nel comunicato stampa della mostra: «Matrici di polaroid alterate al servizio di una chimica del paesaggio; confini irrisolti tracciati da fili bianchi, da funamboliche funi sulle quali camminare, geometrie aliene in dialogo con scenari terrenamente eseguiti. La memoria non è lineare e localizzare è fondamentale per ricordare; luoghi destinati al vuoto, lasciato, perché fosse occupato dalla memoria dive-
nuta selettiva e adagiata in cassetti che ne divengono dimora. La rotta appare incompleta, costretti ad avanzare al buio scandagliamo la spazio in apnea, direzionati dalla bacchetta del rabdomante che dà il ritmo al viaggio». MATÈRIA Via Tiburtina 149 00185 Roma www.materiagallery.com www.facebook.com/materiarome contact@materiagallery.com
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GIULIA MARCHI
Multiforms Gaia Palombo «Her presence had the unintelligible simplicity of a stone: in the middle of that city, I had the feeling of being in the mountains at night, lost in the midst of lifeless solitude». (Georges Bataile in Pierre Angélique, Madame Edwarda, Éditions du Solitaire, 1937)
Giulio Carlo Argan wrote about Marc Rothko, saying that none before him focused on the depth psychology 1 of the concept of screen, on the plurality of concepts that it owns in itself. The art critic resumed these concept in a triad: limit, preservation, diaphragm between two dimensions, «here where we are, there where the world is 2 ». This gap is the place of a continual research, not a border but a membrane, an experience environment. In the symbolic title of Giulia Marchi’s photography series we find a her aim, deeper than a simple recalling. Rothko gesture built structures, shaped spaces, thanks to the merging of surface and colour in painting; in the Multiform series, Marchi’s photographic lens creates an empirical field strength after the Rothko abstract impressionism 3 . Material displayed in Marchi’s photos wool, sand, stones, rubbles - are a continuum from here and there, new gateways for the gaze. Surfaces’ irregularity and their roughness feature are visual paths through which the distance becomes a bridge between the image and the observer, a tension strength. Her idea about the matter is related to a processual method, the zone where formal characteristics, purely visual and exterior, and ontological features, full of contents, meet. Images obtained are self-contained; who looks at them gets bodily involved, not only externally but especially on the inner side of their body. It’s an ongoing process; these images display themselves as an unlimited source of meanings and possible views. The materic heap is the metaphysical expression of ancestral landscapes, lunar environments, geological formations which echoes Kant’s mathematical sublime. The work is not the object of vision but it’s the code of the vision itself. A thought spontaneously comes along with Michelangelo Antonioni’s figure. 1
Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’Arte moderna, 1770-1970. L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Firenze, 2002, p.296. (first ed. G. C. Argan, L’Arte moderna, Sansoni, Firenze, 1970).
2
ibidem.
3
ivi, p. 262.
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Giulia Marchi, Multiforms N 12
Antonioni and Rothko, two masters about abstraction linked to each other by respect and gratitude, have often been considered together by the critic because of their use of the fade-out technic. In Antonioni’s movies it is a permanent feature4 and it was a characteristic style in Rothko works: it also appears in the photographic series Multiforms. It’s worth to pay attention to the concept of temps mort which Jeff Weiss defines about Antonioni: «it’s [...] in the emptying of the represented space,
a space included or cut by the view, a place occupied till the moment it reaches a formal presence - an abstracted fullness, pictorial in some way, after a narrative absence which is revealed to the spectator gaze» 5 . A weighty abstracted fullness can be found in Giulia Marchi’s work with a main reflection about the live matter of images and gaze, a kind of gaze never completely revealing and absolute but always dynamic in its search.
5 4
Alberto Giorgio Cassani, La visione del vuoto - in memoria di Michelangelo Antonioni, http://www.accademiavenezia. it/upload/docs/docenti/file/28/Antonioni_La_visione_del_vuoto.pdf.
J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, in Rothko, exhibition catalogue (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007‑6 gennaio 2008), a cura di O. Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44‑55, 52. Editor translation.
equivalents
Giulia Marchi, Multiforms N 9
«We know that under the image revealed there is another which is truer to reality and under this image still another and yet again still another under this last one, right down to the true image of that reality, absolute, mysterious, which no one will ever see or perhaps right down to the decomposition of any image, of any reality». (M. Antonioni, Preface, cit. p. 14) Multiforms series is composed by 19 photos and comes with an artist’s book in a limited edition, from Danilo Montanari Editore. The book is in collection
at the bookshop of Matèria, a gallery dedicated to contemporary photography, located in the San Lorenzo zone in Rome; an open and active context which follows famous and emerging artists. The gallery aims an international view together with a territorial focus. Rokovoko is the personal exhibition of Giulia Marchi’s work that will take place at Matèria from 11th June to 31st July. Inedited works, among photography and installations, shows a kind of approach similar to the Multiforms one, signs of a self-conscious research based on the connection between word and image and defined by the space dimension, as said in the exhibition press kit: «Polaroid matrixes altered to serve a landscape
chemistry; unsolved border traced by white strings, tightropes to walk on, alien geometries which dialogs with earthly sets. Memory is not linear, to localize is crucial to remember; places destined to the vacuum, an emptiness abandoned to be replaced by a selective memory which lays down in home-like closets. The route is uncompleted, forced to go on in darkness, we scan the space in apnea, directed by the rod dowser which rhythms the travel». MATÈRIA Via Tiburtina 149 00185 Roma www.materiagallery.com www.facebook.com/materiarome contact@materiagallery.com
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Scuola d’Arte e dei Mestieri Ettore Rolli. Un percorso nel tempo e nella cultura di Jamila Campagna
Nel panorama formativo italiano, in particolare nel settore dell’istruzione del Comune di Roma, esite un’interessante tipologia di scuole serali, che sono state ideate e strutturate per studenti lavoratori in tempi non sospetti, molto lontani dalla corsa alla specializzazione che è andata crescendo dopo il boom economico degli anni 50 e persino antecedenti le riforme culturali avviatesi con i primi del Novecento. Le Scuole d’Arte e dei Mestieri del Comune di Roma, originariamente chiamate Scuole per Artieri, sono state infatti fondate nella città capitolina nel 1871, con l’intenzione di offrire corsi pratici e storico-teorici che potessero ampliare la preparazione culturale di varie tipologie di artigiani (falegnami, fabbri, scalpellini, intagliatori, ceramisti, disegnatori, mastri vetrai, etc). Per la prima volta le Scuole per Artieri assurgevano le arti applicate alla cultura storico-artistica e mettevano le basi per una formazione interdisciplinare: i programmi prevedevano la combinazione di un approccio storico-umanistico accanto all’insegnamento scientifico di materie come l’aritmetica, la geometria, la fisica, la chimica, oltre ai laboratori pratici come quelli di disegno, arti meccaniche, arti del legno, arte muraria, impiantistica elettrica, per citarne alcuni. Le prime tre Scuole per Artieri fondate a Roma furono la Scuola Centrale (Rione Trevi), la Scuola Nicola Zabaglia (Rione Regola) e la Scuola Ettore Rolli (originariamente nel Rione Castro Pretorio), cui seguì, nel 1884, l’istituzione dei corsi della Scuola Preparatoria del MAI - Museo Artistico Industriale di Roma (fondato nel 1874). L’impostazione dei programmi e gli intenti formativi di queste scuole andavano ad anticipare di quasi cinquanta anni le innovazioni portate su scala europea dall’istituto di arte e mestieri Bauhaus, fondato a Weimer da Walter Gropius nel 1919. Dall’atto costitutivo del 1871 delle Scuole per Artieri di Roma, si legge che lo scopo istituzionale delle scuole era, sin dal principio, quello di «provvedere all’istruzione tecnico-professionale, alla cultura artistica, nonché all’elevamento dell’educazione morale» degli allievi: proprio come nel Bauhaus, l’intento era superare il distacco tra arte e artigianato e quello tra cultura umanistica e dimensione industriale; si intendeva conciliare l’aspetto tecnologico con l’acquisizione di un linguaggio formale simbolico, veicolo di contenuti, di fronte a una maggiore consapevolezza degli aspetti etici e sociali della figura umana. Un’eccellenza, dunque, nel panoramo italiano, su cui non si pone la dovuta attenzione nonostante quattro di queste scuole siano ancora attive nella città di Roma, cariche di storia e con un’offerta formativa rinnovata a seguire le esigenze contemporanee. Una di queste è la Scuola Ettore Rolli: attualmente sita in via Macedonia 120 di fronte allo splendido Parco della Caffarella, prende il nome dal Professor Rolli che partecipò alla fondazione e fece una donazione annua di 500 lire per il sostegno della scuola. Come le altre scuole di Arte e dei Mestieri di Roma, la Ettore Rolli è comunale ma mantiene un’indipendenza rispetto ai programmi ministeriali; ai suoi corsi si accede con il versamento di una quota e l’unico requisito di accesso è l’aver superato l’età della scuola dell’obbligo. Nei suoi archivi racchiude ancora le tavole degli studenti più meritevoli, raccolte e portate alle esposizioni internazionali a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento: documenti storici che ci guidano fino al presente, con i corsi attuali, adeguati alle nuove esigenze dei cittadini.
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Si tratta di una tipologia di scuola che è stata postmoderna ante litteram, già in origine proiettata verso una tipologia di formazione oggi definita longlife learning, in cui l’adulto è un apprendente in continua acquisizione di nuove competenze. Nel suo peculiare approccio, la Scuola Ettore Rolli insegna non solo a capire e a sapere ma, soprattutto, a saper fare: oggi la scuola propone corsi di informatica, fotografia analogica, fotografia digitale, grafica pubblicitaria, grafica editoriale, photoshop, web design, storia dell’arte, storia dell’illustrazione e del manifesto, storia del design e laboratori di stampa fotografica, pittura, trompe l’oeil e vetrate artistiche. All’interno della riflessione sul senso della Bildung, la scuola mira allo sviluppo a 360 gradi dell’individuo, affinché esso possa definire il suo ruolo nella società 1 . La mission della Scuola, partendo storicamente da quella necessità di un’educazione estetica indicata da Goethe e poi definita da Schiller - secondo cui «[l]e attività dello spirito qualificano la persona umana in modo permanente»2 - arriva a costruire una consapevolezza
1 «Ogni formazione (Bildung) è formazione politica [...] un’introduzione continua e graduale nella polis.» e «[...] Ciò che per un popolo è la cultura - il vivere secondo principi riflettuti e voluti e la creazione di regolamenti consoni - è per il singolo la formazione (Bildung). Essa gli permette di vivere nella sua civitas, in cui gli assegna il suo posto.», H. von Henting, Bildung, Henser, Munchen-Wien 1996 p. 12 e p. 205, in S. Baur, La pedagogia e le sfide della pluralità, Edizioni Erickson, Gardolo (TN) 2008, p. 84 2
M. Gennari, Storia della Bildung, editrice La Scuola, Brescia 1997, p. 77.
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School of Art and Crafts Ettore Rolli. A path through time and culture Jamila Campagna In the Italian educational field, especially in the city of Rome, there is a kind of evening schools which have been set up for student-workers back in times when no one would have imagined, long time before the sectorial education growth after the economic boom of the 50’s, previously than the cultural reforms started at the beginning of the 20th century. The Scuole d’Arte e dei Mestieri 1 of Rome, originally called Scuole per Artieri, have been established in 1871 to offer practical, historical and theoretical classes to enrich artisans knowledge and competences. For the first time, this kind of school dignified handcraft as historical-artistic culture and put the basis for an multidisciplinary education: a historicalhumanistic approach was set together with scientific teaching of subjects like arithmetic, geometry, physics, chemistry; also there were laboratories about drawing, mechanical arts, wood arts, building arts, electric plant design, to mention some. The first three Schools for Artieri established in Rome were the Scuola Centrale (in Rione Trevi), the Scuola Nicola Zabaglia (in Rione Regola) and the Scuola Ettore Rolli (originally in Rione Castro Pretorio); after them, the Preparatory School of MAI - Museo Artistico Industriale of Rome has been established in 1884. Schools program setting outs and educational aims came 50 years ahead of the innovations brought in Europe by Walter Gropious’ Bauhaus (established in 1919). From the 1871 Scuole per Artieri’s deed, the institutional deed was, since the beginning, «to provide for a professional and technical education, for an artistic culture, to raise the moral consciousness» of the learners. Exactly as in the Bauhaus, the intent was to bridge over the distance between art and handcraft and the gap among humanistic culture and industrial dimension; the school was meant to match technic matters with the learning of a formal and symbolic language, a content media, along with the knowledge of the individual ethic and social aspects. An excellence in the Italian education field not well known although four of the original schools are still opened in the city of Rome, they’re full of history and updated to meet contemporary demands. One of them is the Scuola Ettore Rolli: now located in via Macedonia 120, near to Caffarella park, is named after Professor Ettore Rolli who took part in the school (foundation) constitution also donating 500 lire every year for supporting. As the other schools of art and handcraft of Rome, Ettore Rolli’s is council-runned but indipendent from ministerial directive; being an adult learner is the only requirement to take part of its classes. Late 1800’s worthy students’ drawings are collected in the school archive: plates exhibited at various international exhibitions accross the end of 1800’s and the beginning of 1900’s, historical documents which bring us to the present, with new classes fitting the contemporary citizen request. A postmodern school ante litteram, established to gain a kind of education which is now defined longlife learning . A kind of learning not only to know a matter but also to know how to make it: now school’s classes embrace computer, analog photography, digital photography, graphic, photoshop, web design, history of art, history of design, history of illustration; there are also several laboratories of photographic print, painting, trompe l’oeil, artistic glass wall. 1
Schools of Art and Crafts.
Reflecting on the Building meaning, the school aims to reach a constant development of the learner, so he/she can find his/her role in the society2 . The school mission starts from the necessity of an aesthetic education, the one pointed out by Goethe and then defined by Schiller - on the basis of which «the activities of the spirit qualify human being permanently 3» -, and intends to create a knowledge about the visual culture necessary to get a correct understanding of the contemporary western society, a context where the visual channel is the main way to communicate each kind of content, from commercial to political.
2
See: H. von Henting, Bildung, Henser, Munchen-Wien 1996
3
M. Gennari, Storia della Bildung, editrice La Scuola, Brescia 1997, p. 77.
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ph. Ilaria Magliocchetti Lombi
temi ben posizionati su questo aspetto; nella selezione di Io sono, tuttavia, troviamo soprattutto canzoni d’amore. Sarà che poi alla fine è sempre «l’amor che move il sole e le altre stelle«? L’amore, in ogni sua forma, anche se io prediligo quella sociale, cosmica - la mia Bambini ne è un esempio - è il tema più potente ed efficace di questo mondo. E la musica è lo strumento per diffonderlo. 4 Dicevamo che le canzoni sono state reincise; ora hanno una dimensione più intimistica e avvolgente rispetto alle originali, un tono più delicato, sussurrato, vicinissimo a chi è in ascolto. Un dialogo: nell’incontro con l’altro si definisce se stessi, nella relazione sta l›identità. Come è avvenuto questo processo di trasformazione delle canzoni?
paola turci Canto quindi io sono di Jamila Campagna Il nuovo album di Paola Turci, Io sono (Warner Music), pubblicato lo scorso 21 aprile, è subito entrato nella top 10 dei dischi più venduti in Italia, mentre il primo estratto, dal titolo omonimo, proprio in questi giorni è nella Top 40 dei singoli più ascoltati su Spotify. Un esordio brillante per un disco che raccoglie canzoni storiche, reincise per l’occasione, e inediti, tra onde sonore elettroniche e strumentazione acustica. Il tour promozionale ha visto la sua prima tappa il 5 giugno scorso e attraverserà l’Italia per tutto il periodo estivo. 1 La voce, pura e distinta, l’arrangiamento minimalista, il ritmo quasi biologico delle percussioni; tutto tende all’essenzialità, a metà tra un’elevazione trascendente e il recupero di un’energia viscerale, viscosa. Io sono è un album tra cielo e terra? Se parliamo di elevazione trascendente ed energia viscerale allora mi permetto di dire che Io sono è nel centro della mia anima, esattamente tra cielo e terra, dove l’inconscio è vivo e vitale. 2 È anche un album antologico, un percorso attraverso la tua carriera e la tua vita; hai scelto di reincidere anche dei brani degli esordi, come Quel fondo di
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luce buona e Lettera d’amore d’inverno. Possiamo considerarle un regalo che hai voluto fare al pubblico che ti segue dagli esordi e, al contempo, ai tuoi follower più giovani che così hanno occasione di apprezzare i tuoi classici? Ho voluto un disco antologico essenziale ma che non trascurasse episodi per me significativi dal punto di vista artistico e sentimentale. Ho sempre avuto un debole per quei due brani - Lettera d’amore d’inverno e Quel fondo di luce buona - a partire dal titolo. Sono densi, profondi, eleganti e, secondo me, senza tempo. 3 L’essere umano è un animale politico e spesso nei tuoi testi hai affrontato
Con l’aiuto di Federico Dragogna, che ha prodotto il disco, sono riuscita a dare alle canzoni del passato tutta la leggerezza e la leggibilità di cui erano - sono - capaci. È stato un lavoro maturato durante la scrittura della mia autobiografia. In pratica ho fatto sul disco lo stesso lavoro che ho fatto su di me: mostrarsi per quello che si è, alleggerendo, liberando la propria natura da inutili impalcature. 5 Possiamo dire che questo album è il tuo vestito. In Quante vite viviamo, canti «Dovrei provare a dire cosa non sono più, mettere da parte tutti i malintesi, tutte le ferite, le notti appese»; questa frase e l’intero testo di Io sono suggeriscono che tu stia misurando la tua persona tra presente e passato, come fossi un fiume, che è sempre lo stesso, seppur mai lo stesso. Nelle tue domande ci sono già le risposte, che sono bellissime come la metafora del fiume. Grazie. 6 Sono io a ringraziarti, la tua figura è di grande ispirazione. A questo punto, per salutarci, ti chiederei di cantare un pezzo per noi, ma siamo su carta! Ti chiedo, allora, una strofa della canzone che canteresti se ora fossimo in video o in radio. Me l’hai appena fatta venire in mente: Noi siamo ancora qui, in quest’attesa che sa di infinito siamo ancora qui, in questa stanza che è il nostro vestito, siamo ancora qui, tra la vita che aspetta impaziente siamo ancora qui... Felici, sia pure un istante!
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paola turci i sing thereFore i AM Jamila Campagna The new album of the italian singer-songwriter Paola Turci Io sono 1 (Warner Music) is out from the 21st of April and has soon reached the Top 10 of the best selling albums in Italy. The first single, same titled, is currently in the Top 40 of the most listened songs on Spotify. A bright debut for an album which embraces hits from the past, now re-recorded, and unreleased songs, among electronic sound vibes and acustic instruments. The first step of the italian tour was last 5th of June and it will cross Italy for the whole summer.
1 The voice, clear and neat, the minimal arrangement, the biological rhythm of percussions; everything tends to be essential, between a transcendent elevation and a visceral, viscous energy. Is Io sono a record between sky and earth? If we talk about transcendent elevation and visceral energy, then I say that Io sono is in the middle of my soul, exactly between sky and earth, where the subconscious is alive and active. 2 It’s also an anthological album, a path through your career and your life; you decided to record again some songs from your beginning, as Quel fondo di luce buona and Lettera d’amore d’inverno. Can we consider them as a gift you made for the audience that’s always followed you and, at the same time, for the younger followers so they can get to know your classics? I wanted an anthological and essential album that also could look at some periods of my life which own a deep meaning both in the artistic and sentimental side. I’ve always loved those two songs Lettera d’amore d’inverno and Quel fondo di luce buona - beginning from their titles. They are dense, deep, elegant and, in my opinion, timeless. 3 The individual is a politic animal and you often faced this kind of topics in your lyrics; in Io sono tracklist, however,
we find a lot of love songs. Is it because, at last, it’s always «the Love which moves the sun and the other stars»? Love, in all shapes, - even if I prefer the social and cosmic one, my song Bambini is an example of it - is the most powerful and incisive theme of the world. Music is the instrument to spread it. 4 Your famous hits newly recorded have now got an intimate and embracing dimension. Their tone is gentle and whispered, so close to whom is listening to. A dialog: we define ourselves meeting the other, identity is in the relationship. How has this transformation process developed? With the help of Federico Dragogna, the producer, I’ve been able to render my past songs through the lightness and legibility that they hold – and still held. The work developed during the writing of my autobiography. Actually I worked on the album in the same way I worked on myself: knowing ourselves as we are, lighten and liberating our own nature from useless structures. 5 We can say this album is your dress. In Quante vite viviamo, you sing «Dovrei provare a dire cosa non sono più, mettere da parte tutti i malintesi, tutte le ferite, le notti appese»12 ; these lines 1
The English translation of Io sono is I am.
and the whole lyrics of Io sono evoke that you are measuring yourself between past and present, as you’d be a river, which is always the same but never the same. In your questions, there are the answers, which are so beautiful as the river metaphora. Thank you. 6 It’s me to thank you, your figure is very inspirational. Now, to say goodbye, I’d ask you to sing something for us, but we are on paper! So I ask you a line from a song you would sing now if we were on video or on air. You just brought it to my mind: Noi siamo ancora qui, in quest’attesa che sa di infinito, siamo ancora qui, in questa stanza che è il nostro vestito, siamo ancora qui, tra la vita che aspetta impaziente siamo ancora qui... Felici, sia pure un istante! 23
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«I should try to say what I am no more, lay away all the misunderstandings, all the wounds, the hanging nights»
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We are still here, in this wait that tastes of infinity, we are still here, in this room that is our dress, we are still here, among life which awaits impatient we are still here... Happy, even just for an instant!
Tour dates 13 giugno 19 giugno 20 giugno 27 giugno 2 luglio 9 luglio 12 luglio 15 luglio 27 luglio 30 luglio 7 agosto 13 agosto 14 agosto 15 agosto 19 agosto 22 agosto
ARPINO (Frosinone) RIVERGARO (Piacenza) VASCON (Treviso) BOLOGNA RIMINI ROMA COCUZZO (Cosenza) PADOVA MONTALBANO DI FASANO (Brindisi) RECANATI (Macerata) MIGLIONCINO (Matera) BELLUNO SPINAZZOLA (Bari) TORTORETO LIDO (Teramo) BRESCIA ARZANA (Nuoro)
www.paolaturci.it www.facebook.com/PaolaTurci www.warnermusic.it www.gibilterra.org
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VIAGGIO CONTRO LA SOLITUDINE una viaggio, da solo senza soldi, senza meta con la telecamera di Gabriele Camelo Solitudine. Strano che una parola così possa iniziare con tre lettere ad indicare una nota musicale. Io ho iniziato a sentire quanto fosse stonata, quella nota, ultimamente. Prima la solitudine era inquietudine, poi ho avuto tutto chiaro quando mi sono ritrovato una tavola con un minestrone preconfezionato davanti: ero io e quel minestrone, nessuno accanto a me. Era il giorno di Pasqua. Pur cercando di evitare che la cosa si ripetesse, anche a pasquetta ho avuto la stessa sorte. Quella tavola vuota mi ha fatto capire quanto io non appartenga a nessuno – una famiglia un po’ disgregata alle spalle e l’inquietudine che mi ha condotto a far sì che la mia vita fosse animata continuamente da qualcosa di nuovo al quale non legarsi ma da poter assaporare. Così i tramonti le colline le ragazze le energie le vibrazioni il sesso i libri i film i cibi sono diventati la mia vita. Viaggio. Bello il viaggio, ti anima e ti fa capire quanto la vita sia bella, quanto la vita possa regalare e quanto valga la pena di essere vissuta. Arriva un momento in cui entri in crisi esistenziale. Quel momento è stato il giorno in cui Cristo è uscito dalla morte. Io, povero Cristo, ci sono entrato dentro alla morte. Il vuoto. Non voglio più tornare a casa e trovare il vuoto. Voglio svegliarmi ogni giorno per qualcosa o qualcuno. Non ho un passato dove mettere radici, ma vorrei quantomeno un futuro dove radicarmi. Come? Non lo so. Mi sono disperato a Pasqua e pasquetta. E, poi, preso da un impulso, ho fatto l’unica cosa di cui sono capace di fare: ho preso la mia telecamera, le chiavi della macchina e mi sono messo in viaggio, sorteggiando la provincia verso la quale dirigermi (in quel momento ero a Palermo, ed è uscita “Enna”), senza sapere dove dormire e dove mangiare, con l’idea di viaggiare a caso, senza meta, senza soldi. Ed affidandomi alla gente, perlomeno con l’idea di sentirmi meno solo. Chiedendo ospitalità, raccontando il viaggio con i video su facebook e ponendo la domanda che mi assilla: cos’è per te la solitudine? Dire ai quattro venti che mi sento solo, per giunta in un luogo pubblico come facebook, ha intercettato forse venti più grandi ed interiori di altri singoli individui che mi hanno scritto, e mi hanno dato disponibilità ad ospitarmi. La solitudine diventa meno solitudine quando la urli. Mettermi in viaggio mi ha fatto bene: la sera mi sono ritrovato in un paesino sperduto (Valguarnera) ospite di una combriccola di ragazzi, vino e spaghetti fra noi. L’indomani sono andato a tagliarmi i capelli da un barbiere di paese che mi ha raccontato del suo amore per sua moglie, poi una ragazza mi ha mostrato con i suoi occhi i posti più belli per lei di Vittoria, incluso il mare, poi un aereo per motivi lavorativi mi ha condotto a Roma ma non sentivo concluso il mio viaggio e ho continuato a dormire nelle case della gente, raccogliendo le vite dentro la telecamera e dando vita alla mia vita. Una ragazza che lotta per esistere ed essere indipendente dai propri genitori (a Viterbo), una donna che sarebbe capace di ammazzare se le toccassero sua figlia (a Roma), padre e figlio che vanno a pescare di notte a Fiumicino, una suora che fa accoglienza fra i monti sopra Subiaco, una ragazza che lotta contro il dolore antico della perdita di entrambi i genitori quando era diciottenne: la mia telecamera ha raccolto un inanellarsi di storie che hanno reso il piatto del mio viaggio pieno di cibo succulento - vita. Oggi mi sento meglio rispetto a qualche mese fa, e non so neanche io perché. Ci dovrei riflettere bene: forse il viaggiare ha placato il mio malessere. Nella mia pagina facebook ancora non ho posto la parola fine. Ma forse la fine del mio viaggio contro la solitudine sta arrivando, la sento. Forse perché sento vicino quel futuro in cui io possa porre radici. Un futuro che si avvicina all’idea di costruire una famiglia ed essere papà. Ho sempre avuto difficoltà di fronte ai nodi. Non li so fare e non li so sciogliere. Durante questo viaggio però qualcosa è cambiato, e sono in una condizione tale che – non so bene come e non so perché - forse sto imparando, quanto meno, a farlo, un nodo. Forse. No-do. Che strano. Anche questa parola contiene una parola musicale.
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artist’s word
TRAVEL AGAINST SOLITUDE a lonesome journey, without money, without destination with a video camera Gabriele Camelo Solitude. It's strange how a kind of word like it can begin with three letters that show a musical note. I started to feel how much that note was out of tune, lately. At first the solitude was inquietude, then it appeared so clear to me when I found myself sat at the table in front of a pre-packed vegetable soup: it was me and the soup, no one else next to me. It was Easter day. I tried not to make it happen again, but the same happened in Easter Monday. That empty table let me understand I don't belong to anyone - a broken up family behind me and my personal unrest brought me to a kind of life continuously excited by new things, good things to be tasted but not to tie at. So, sunsets, hills, girls, energies, vibration, sex, books, movies, food, have become my life. Travel. How beautiful to travel, it makes you alive and gives you the chance to know how wonderful life is, how much life offers you and how much it's worth to be lived. Then it comes a moment when you fall into an existential crisis. That moment was the day when Christ came out of death. Me, poor Christ, I came inside death. Vacuum. I don't want to come back home and find the vacuum anymore. I want to wake up each day to dedicate to something or someone. I don't have roots in my past, but at least I would like to have a future to take roots in. How? I don't know. I was frantic during Easter and Easter Monday. And, then, on impulse, I did the only thing I'm good to: I got my camera and my car key and I left my house choosing the direction by chance (I was in Palermo and I picked "Enna"), I didn't know where I would have slept and eat, following the idea of a random travel, without a destination, without money. Entrusting myself to people, trying to feel less alone, at least. Asking for hospitality, narrating my trip through videos posted on facebook and making the question that hunts me: what is solitude for you? Telling to everyone I feel alone, in a public space as facebook, catching bigger inner winds of other people who wrote me and offered me a house to stay. Solitude is less solitude when you put it out loud. To start my trip made me feel better: in the evening I found myself in a small town in the middle of nowhere (Valguarnera) and welcomed by a group of guys, wine and spaghetti among us. The next day I got a hair cut from the town's barber who told me about his love for his wife, then a young woman showed me through her eyes all the places she considers the best places of Vittoria, sea included, then an airplane brought me to Rome for a job but I didn't feel my journey was ended yet and so I kept sleeping in people's homes, collecting lives inside my camera and giving life to my life. A girl who fights to exist and to be independent from her family (in Viterbo), a woman who could kill if someone would pick on her daughter (in Roma), a father and son who go fishing by night in Fiumicino, a sister who offers shelter on mountains near Subiaco, a girl who fights against the ancient pain for her parents lost when she was eighteen: my camera collected a chain of stories which made my travel a plate full of tasteful food - life. Today I feel better compare to a few months ago, I don't know why. I should deeply think about it: maybe travelling alleviated my disquiet. I didn't say the word end on my facebook page. Probably the end of my travel against solitude is close, I can feel it. Probably because I feel close the future where I could take roots in. A future that comes closer to the idea of having a family and becoming dad. I’ve always found hard to do knots. I don't know how to do them and how to untie them. During this journey something is changed, and now I'm in such a state that - don't know how, don't know why - maybe I'm learning how to do it, a knot. Maybe. To - do - a knot. That's strange. Once again a word is also a note.
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VIRTUAL HERITAGE E L’ORIZZONTE DELLE NUOVE TECNOLOGIE PER I MUSEI ITALIANI di Arianna Forte
Dai beacons alle wearable technology, passando per l’ultima generazione di sistemi di Virtual Reality, si delinea il lato tangibile del rinnovamento che si sta avviando nei musei italiani. Le istituzioni culturali si misurano con una società in cui l’esperienza del mondo è sempre più mediata dai dispositivi terzi o meglio, come ha emblematicamente e tristemente dimostrato il recentissimo avvenimento della Marcia degli ologrammi di Madrid 1 , non è esclusivamente determinata dalla nostra presenza fisica ma dalla nostra esistenza virtuale. Il Forum TECHNOLOGYforALL di Roma è stata una finestra su gli orizzonti che il digitale può offrire per avvicinare il patrimonio dei beni culturali ad un pubblico più vasto e su come le potenzialità dell'Hi Tech possano essere rese in una dimensione accessibile all'utente. «Ora che tutti hanno uno smartphone in tasca, nessun museo può prescindere dal potenziamento del digital» 2 è stato il monito della conferenza. Molte realtà si stanno muovendo in questa direzione, sviluppando App, guide interattive, guide in realtà aumentata e altri strumenti digital e social che arricchiscono l'esperienza del 1 «La manifestazione, nata online, è stata organizzata dal coordinamento 'No Somos Delito' per protestare contro una legge che entrerà in vigore il primo luglio prossimo e permetterà al governo di sanzionare chiunque decida di manifestare pubblicamente. Sostenuta dal Partito Popolare spagnolo è stata criticata dalle opposizioni che l'hanno definita 'Ley Mordaza', ovvero Legge Bavaglio. Gli ologrammi dei partecipanti sono stati realizzati attraverso il sito www.hologramasporlalibertad.org dove gli utenti hanno potuto registrare le proprie grida di protesta o scannerizzare il proprio corpo. Le immagini digitali sono poi state proiettate di fronte al Congresso. […] Si tratta della prima manifestazione al mondo realizzata in questo modo» La Repubblica online, 12 aprile 2015. 2
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Dichiarazione di Sebatian Chan, direttore del Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum di New York, in Susanna Legranzi, Il museo diventa partecipativo in Nòva, Il Sole 24 ore, 3 maggio 2015.
visitatore con nuovi contenuti e nuovi modi per raccontarli. A partire dal Museo Civico di Palazzo Farnese a Piacenza che è il primo museo italiano e uno dei primi cinque in Europa ad aver adottato la tecnologia iBeacon. Questi piccoli emettitori Bluetooth integrati con IMApp, l’applicazione dedicata, permettono un’esperienza di visita guidata interattiva, personalizzata e con durata non circoscritta al periodo di permanenza nell’edificio. Ogni volta che uno smartphone o un tablet entra nel raggio d’azione di un beacon, posizionato in prossimità di uno dei vari punti d’interesse dell’esposizione, vengono inviate delle notifiche sul dispositivo che consentono di accedere a informazioni testuali e contenuti audiovideo, personalizzabili per ogni utente. Questa tecnologia sfrutta appieno la diffusione capillare degli smart device e consente la totale customizzazione dell’esperienza di visita. Inoltre al TECHNOLOGYforALL è emerso come alcune entità museali, soprattutto le meno visibili, si stanno impegnando a digitalizzare le loro collezioni o a scannerizzare in 3D i siti archeologici. Un esempio spettacolare è quello del progetto del laboratorio Visit di Cineca che ha superato la barriera dello spazio-tempo trasportando virtualmente due monumenti-simbolo della civiltà Etrusca. Il Sarcofago degli Sposi, esposto permanentemente all'interno del Museo di Villa Giulia, è stato oggetto di una minuziosa ricostruzione digitale che è maestosamente proiettata in olografia al Museo della Storia di Bologna. Alla stessa maniera anche la Situla della Certosa si muove solo virtualmente da Bologna a Roma nella sua versione olografica. Ad essere esposte sono delle repliche, degli avatar, dei fantasmi o delle nuove anime dell’opera originale, che le conferiscono però una nuova vita. Attraverso il linguaggio delle nuove tecnologie, l’opera d’arte, pur mantenendo il suo valore di bene culturale unico, è moltiplicata e reiterata in un
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sistema di comunicazione multilayer che non solo la rende accessibile in diversi tempi e modi (fuori e dentro il museo), ma la decontestualizza permettendone l’esistenza in diverse dimensioni 3 avvicinandola a nuovi tipi di pubblico. Accanto le digital technologies un altro caposaldo del Forum sono state le pratiche di gamification e storytelling, sempre più nominate e diffuse, che sottintendono ai nuovi progetti museali. Come nel caso della ricostruzione multimediale del Museo della Valle del Tevere, realizzata con la collaborazione dell’artista digitale di fama internazionale Franz Fischnaller. Il progetto consiste in un’installazione di Realtà Virtuale, costituita da tre enormi schermi di fronte i quali il visitatore usa solo i movimenti del proprio corpo per avviare i contenuti ed esplorare gli scenari 3D. L’opera diventa una macchina del tempo che trasporta lo spettatore tra i villaggi di capanne dell’VIII secolo, tra le abitazioni della colonia romana di Lucus Feroniae o nelle stanze della bella Villa dei Volusii di epoca augustea. «L’idea – ha spiegato Eva Pietroni, ricercatrice del CNR e responsabile scientifico del progetto – è nata quasi tre anni fa per far conoscere quella zona dell’antica Roma, ricca di risorse ma poco frequentata. Per farlo abbiamo pensato a una modalità nuova, puntando su una chiave di lettura evocativa ed emozionale, dove la tecnologia ha un ruolo fondamentale per veicolare importanti messaggi». Il Museo diventa un ambiente immersivo crossmediale dove le nozioni archeologiche e storiografiche vengono acquisite attraverso il linguaggio del cinema e del videogames proprio facendo leva sulla dinamica ludica e quella della preponderanza della narrazione. 3
Davide Spallazzo, Alessandra Spagnoli, Raffaella Trocchianesi, Il museo come organismo sensibile. Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented, Dipartimento INDACO - Politecnico di Milano, 5 maggio 2010.
La progettualità che è dietro l’utilizzo di questi strumenti digitali, è in linea con il cambiamento di paradigma che ha visto il trasformarsi della tradizionale esperienza di fruizione passiva in un’esperienza performativa e col rilievo via via crescente che la teoria delle arti moderne ha dato al ruolo dello spettatore 4. Il museo quindi da tempio delle arti e luogo di contemplazione è concepito come organismo sensibile che trova nell’interazione tra opera d’arte e visitatore la sua logica più evidente 5 . Superando il principio del vietato toccare, ora anche il pubblico entra in gioco, diventando – come dice Georges Dyens – spett-attore, figura ibrida di spettatore attore e creativo 6 . È in questo passaggio che l’esperienza ludica si coniuga con lo stimolo cognitivo, se lo spettatore è messo nella condizione di articolare la sua relazione con l’opera, avrà sia la motivazione di una migliore conoscenza della stessa sia il desiderio di cooperare creativamente alla sua evoluzione 7. Finora si è trattato tuttavia di un’interattività quasi sempre molto elementare, le tecnologie elettroniche, e la rete in primo luogo, hanno cominciato a rendere praticabili forme di interattività molto più radicali che ora possono veramente esaltare e arricchire l’esperienza del visitatore 8 .
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Marie Rebecchi, Sull’interattività. Conversazione con Pietro Montani in Alfabeta2, dicembre 2014.
5
op. cit. Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented.
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Andrea Balzola, Per un uso politico, pedagogico ed estetico dell’interattività. Breve nota sulle relazioni attuali e possibili tra nuovi media nella società e nell’arte in Ateatro n.115, 2 febbraio 2008.
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ibidem.
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Cfr. Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, edizioni Cortina, 2014.
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il muro
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Virtual Heritage and new technologies in Italian museums Arianna Forte
From the beacons to the wearable technologies, going through the next-generation Virtual Reality Systems, there is a renovation starting in the Italian museum. Cultural institutions face with a society where life experience is more and more filtered by technological disposal, a kind of experience not only determined by our physical presence but also by our virtual existence (as it's been demonstrated with the hologram march of Madrid 1 , a symbolic and unsettling event). TECHNOLOGYforALL Forum in Rome presented the new paths offered by the digital technologies about artistic and cultural heritage with the intent to involve a bigger audience in cultural contexts; at the same time the conference pointed out how High Tech can be more accessible to users. Conference statement was: Now that everyone got a smartphone in the pocket, a museum cannot forget about digital 2 . Several contexts are moving through this direction developing Apps, interactive guides, augmented reality guides and other digital and social tools made to enrich visitor experience with new contents and new way to narrate them. Museo Civico di Palazzo Farnese in Piacenza is the first italian museum which started using the iBeacon technology and 1 «The event, started online, was organized by the group No Somos Delito to protest against a regulation which will be active from the 1st of the next July: after it, it wont' be permitted to take part to public demonstrations. Promoted by the Spanish Popular party, the regulation has been criticized by oppositions which defined it as Ley Mordaza: Gag Law. The holograms have been realized thanks to the website www.hologramasporlalibertad.org where users recorded their own protest screams and they scanned their bodies. Digital images have been projected in front of the Congress. […] It's been the first public demonstration realized through this method in the whole world», La Repubblica online, 12 aprile 2015. 2
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Sebatian Chan, Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum (NY) director, in Susanna Legranzi, Il museo diventa partecipativo in Nòva, Il Sole 24 ore, 3 maggio 2015.
it's also listed in the top five european museums using this tool. These small Bluetooth emitters integrated with IMApp, a dedicated App, give the experience of an interactive visit, customized and not delimited at the period spent in the building. Each time a smartphone or a tablet comes in the beacon signal zone, near to an interesting point of the exhibition, the disposal receives notifications to access text information and audio-video contents, customizable by each user. This technology is powered by the smart devices' wide spread and gives the chance to get a customized experience of guided visit. TECHNOLOGYforALL pointed out the digitalizing process that museums are making of their collections and also the 3D scans of archeological sites. An amazing example is offered by the project led by the Visit lab of Cineca, which comes through the wall of space-time virtually exhibiting two symbolic works from the Etruscan culture. The Sarcophagus of the Spouses, permanently exhibited in Villa Giulia Museum (Rome), has been digitally recreated and projected as an hologram at the History Museum of Bologna. In the same way, Certosa Situla comes from Bologna to Rome in its holographic version. Avatars, reproductions, phantoms or new souls of the original works are exhibited giving each work a new life. Through the new technology language, the art work, still holding its unique cultural value, is duplicated in a multilayered communication system that lets people coming in touch with the work in various ways and times (inside and outside the museum); the art work is decontextualized and exhibited in different dimensions, available for new kinds of audience 3 . 3
Davide Spallazzo, Alessandra Spagnoli, Raffaella Trocchianesi, Il museo come organismo sensibile. Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented, Dipartimento INDACO - Politecnico di Milano, 5 maggio 2010.
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Next to the digital technologies, we got the gamification and storytelling practices, increasing in museum projects. One of them is the multimedial project of the Museo della Valle del Tevere (Rome) realized in cooperation with the famous digital artist Franz Fischnaller: a Vitual Reality installation with three huge screens where the visitor explores 3D views and activates contents just by moving his body. The work is a time travel machine which brings the visitor in small towns of VIII century, among buildings of the Roman colony of Lucus Feroniae or in the rooms of the wonderful Villa dei Volusii of Augustan age. Eva Petroni - CNR researcher and scientific manager of the project - explains that «The idea has been defined to get noticed an Ancient Rome zone full of sources but not enough visited. To make it possible we decided to choose a new method, which would involve emotional spheres, using technology to spread important messages». The museum becomes an immersive crossmedial environment where archeological and historical information are presented through cinematographic and videogame languages, using game and narrative methods. The project behind these digital tools is linked to the change from a kind of classic museum experience toward a perfomative experience with a visitor involved as contemporary art often required 4 . The museum is not just a temple of arts anymore, it's not only a contemplation space, it's conceived as a sensitive organism which finds its logic matter in the interaction between visitor and artwork 5 . Going beyond the don't touch statement, now the audience get an active role and become spect-actor - as defined by Georges Dyens - an hybrid figure half spectator 4
Marie Rebecchi, Sull’interattività. Conversazione con Pietro Montani in Alfabeta2, dicembre 2014.
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ibidem, Tecnologie, linguaggi, fruizione verso una trasformazione design-oriented.
and half actor-creative 6 . Ludic experience and cognitive input come together: if visitors can get actively in touch with the artwork, they'll be motivated to reach a complete knowledge about it and to collaborate creatively to increase the knowledge 7. Till now we often found just a basic kind of interactivity; electric technologies and the web started a form of interactivity more intense that now can actually develop and enrich visitor's experience 8 .
6
7 8
Andrea Balzola, Per un uso politico, pedagogico ed estetico dell’interattività. Breve nota sulle relazioni attuali e possibili tra nuovi media nella società e nell’arte in Ateatro n.115, 2 febbraio 2008. ibidem. Cfr. Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, edizioni Cortina, 2014.
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il muro
Il gioco del silenzio di E.M. Il gioco si svolge un teatro buio e immerso nel silenzio (se si fa eccezione per il solito brusio degli spettatori) quando il sipario si apre e compare una grande mano guantata che prende posizione sul palcoscenico. Passa qualche istante ed arriva in sala l’altra mano che interagisce con il pubblico prima raggiungere anch’essa la scena. Inizia così lo spettacolo dei Mummenschanz. Nascono nel 1972 a Parigi dall’incontro di tre giovani, Bernie Schürch, Floriana Frassetto e Andres Bossard (scomparso nel 1992) che si sono formati negli anni sessanta nella pratica sperimentale in diverse discipline. Il significato del loro nome è ballo in maschera; in realtà mummen descrive una maschera indossata nel medioevo dai mercenari svizzeri mentre giocavano a carte o ai dadi, per impedire che la mimica facciale li tradisse mentre schanz significa sorte, fortuna. Per circa due ore, senza subire il trauma del tornado di Dorothy, si entra in un mondo immerso nel silenzio dove i più disparati oggetti di uso comune – rotoli di carta igienica, tubi, sacchetti di plastica, scampoli di stoffa, bidoni, etc - prendono vita, si trasformano. Senza l’ausilio di scenografie o musica di sottofondo, queste bizzarre creature dialogano, s’innamorano, ci raccontano episodi di vita quotidiana.
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Siamo rapiti ed incantati dal silenzio in una realtà parallela dove tutto può accadere ed accade, in un luogo come il teatro dove spesso la parola è sopravvalutata – scelta decisamente coraggiosa in un mondo bombardato da starnazzi vari ed eventuali. In questa straordinaria realtà, ci si accorge della presenza degli attori solo quando il gioco finisce e sono sulla scena per salutare il pubblico. E a malapena ci si accorge di aver trascorso le ultime ore nel più assoluto silenzio. «Words are trivial. […] Words are very unnecessary 1 ».
Mummenschanz – Les musiciens du silence 8-17 maggio 2015 Teatro Olimpico, Piazza Gentile da Fabriano 17 Roma www.mummenschanz.com www.teatroolimpico.it
Immagini: courtesy of © MUMMENSCHANZ 1
Martin Gore – Enjoy the silence; from Violator, Mute Records, 1990.
what’s happ
Silent game E.M. The game takes place in a dark theater surrounded by silence (with the exception of the viewers usual buzz) when the curtain opens and a big gloved hand shows up and takes place on the stage. A few moments pass and here it appears the other hand that starts interacting with the public before reaching the scene too. Thus began the Mummenschanz show. Mummenschanz were founded in 1972 in Paris by Bernie Schürch, Floriana Frassetto and Andres Bossard (died in 1992), three young artists formed in the 1960s in experimental practice in different disciplines. The meaning of their name is masquerade; though actually mummen describes a mask worn in the middle ages by Swiss mercenaries while playing cards or dice, to prevent them to betray facial expressions while schanz means fate, luck. For about two hours, without suffering the trauma of Dorothy’s tornado, you enter a silent world where the most diverse everyday objects – rolls of toilet paper, tubes, plastic bags, scraps of cloth, bins, etc.-come to life and morph in something else. Without scenery or background music, these bizarre creatures interact, fall in love, recount episodes of our daily life. We are captured and enchanted by the silence in a parallel reality where anything can - and does - happen, in a place like the theater where often word is overrated. Surely a brave choice that makes a statement in a world bombarded by all possible and various noises. In this extraordinary reality, we notice the presence of the players only when the game is over and they are on the scene to greet us. And we barely notice that we have spent the last few hours in the most absolute silence. «Words are trivial. […] Words are very unnecessary 1 ».
Mummenschanz – Les musiciens du silence 8-17 maggio 2015 Teatro Olimpico, Piazza Gentile da Fabriano 17 Roma www.mummenschanz.com www.teatroolimpico.it
All images courtesy of © MUMMENSCHANZ
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Martin Gore – Enjoy the silence; from Violator, Mute Records, 1990.
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il muro
Fabrizio coscia
Soli eravamo e altre storie su Rimbaud, Kafka, Joyce, Leopardi, Proust, Dante, Woolf, Hopper, Tolstoj, Caravaggio, Keats, Evans, Vermeer, Radiohead, Mozart Ad est dell’equatore (Collana Extras), Pollena Trocchia (NA), 2014.
Tutte le vite straordinarie sono vite comuni. Non è vero il contrario. E questo precetto – fondamentale, giacché lo straordinario ci riguarda sempre –, basterebbe a racchiudere il senso di questo libro. In un’intervista Louise Ferdinand Céline 1 dichiara di aver «messo la pelle in gioco, perché non dimenticate una cosa: la grande ispiratrice è la morte. Se non mettete la vostra pelle sul tavolo, non avete nulla. Uno deve pagare. Quello che è fatto senza pagare sa di gratuito. Allora avrete scrittori gratuiti». In Soli Eravamo, il presagio céliniano è un fil rouge, un’enfasi dai contorni quasi paradossali 2 che a tratti ci fa sorridere, altri commuovere ma puntualmente ci restituisce l’umanità celata dietro le esistenze di coloro che, grazie a quella pelle sacrificata, ci parlano delle manie, delle fughe e dei deliri, dell’imprevedibile che è di tutti. La prosa nitida ed esatta di Coscia ci riporta alla bellezza del dato biografico, nesso imprescindibile per la comprensione della micro e della macro historìa di un’opera. Ma l’operazione giunge ancora più a fondo e i dati biografici degli artisti si miscelano con quelli dell’autore, permettendoci in tal modo di annientare le distanze esperienziali e sensoriali. Quante volte ci siamo ritrovati, come Coscia, a sentirci vicini al vissuto fazioso o lucente, in una fusione emotiva con quelli che sono stati i nostri idoli? Quante volte abbiamo preso esperienze non nostre per attuare una consolazione inconscia? Io stesso, nei momenti più bui, ho attuato quello che ho definito come schieramento: alla stregua di una squadra calcistica, schieravo alla giornata diversi scrittori dalla vita malandata e dalle esperienze oscene; artisti alcolizzati dal destino infame che giocavano al mio fianco la partita contro la vita. Nella quarta di copertina, difatti, si specifica: «c’è stato un periodo in cui l’arte, la musica, la letteratura erano un tutt’uno con la mia vita; […], un periodo in cui anche la biografia degli artisti – spesso inquieta, tribolata, sofferta – mi sembrava capace, allo stesso modo della vita dei santi per un credente, di illuminare la mia esistenza di nuove intuizioni». Questo processo d’immedesimazione affonda le radici innanzitutto nella psicoanalisi. Secondo lo psicoanalista francese Jacques Lacan, «il bambino – e quindi l’uomo in perenne crescita – costituisce la propria soggettività riconoscendo allo specchio l’immagine di un altro accanto a quella che, intuisce, essere la propria 3 ». Per tale ragione il titolo non poteva essere dissimile. Il Soli eravamo4 di Coscia è da intendersi innanzitutto come una negazione. Eravamo: ora, attraverso una simulazione immaginifica, abbiamo cessato di esserlo. L’altro sguardo di Giano, altresì, ha la premura di specificare quella solitudine necessaria, obbligata; un mandala al quale si è costretti per trarre quell’arte che è dura sostanza 5 da percorrere in silenzio. Una solitudine, questa, generalista. Una solitudine che non permette vie di fuga e che ci condanna tutti. Condanna perfino i due personaggi trattati nel primo capitolo, Tolstoj e Rimbaud: accomunati da un espediente comune, in questo caso la fuga 6 , entrambi avranno la consapevolezza che il deserto interiore da cui si fugge è un deserto che ci insegue. È interessante individuare nella narrazione anche delle attinenze e dei rimandi metaletterari che possono fruttarci da spunto, da approfondimento o da scoperta. Leggendo il capitolo su Kafka, ad esempio, in cui l’autore racconta di quando lo scrittore cominciò a scrivere lettere per una bambina che aveva smarrito la sua bambola, ho scoperto dell’esistenza di un altro libro sull’argomento: Kafka e la
1
Louise Pauwels, Intervista a Louise Ferdinand Céline, in En francais dans le texte, Meudon, 1959.
2
Un esempio di paradossalità è il capitolo su James Joyce in cui l’autore scopre, casualmente, un suo omonimo accanto alla tomba dell’uomo che in giovane età amò la moglie e verso cui provava una gelosia ossessiva.
3
Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, (ed. Or. 1969), in Paolo Bertetto, La macchina del cinema, Laterza, Roma/Bari, 2010, p. 8. Lo specchio si riferisce a immagine o percezione in grado di generare simulazione e/o identificazione.
4
Specificato dall’autore stesso, il titolo è ispirato da un passo del V canto dell’Inferno di Dante: «[…] noi leggiavamo un giorno per diletto/di Lancialotto come amor lo strinse; /soli eravamo e sanza alcun sospetto».
5
Alda Merini, Delirio Amoroso, Frassinelli, Milano, 2011, p. 13.
6
Tecnicamente il libro si focalizza, per la maggior parte della struttura, sul vissuto di due artisti o per meglio dire due vicende accostate per analogie esperienziali; attuando una sorta di flashback o flashforward, l’autore dirige la struttura narrativa con un io narrante onnisciente tendente alla diaristica.
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bambola viaggiatrice 7. Il capitolo dedicato ai suicidi imperfetti si è accostato nella mia mente, invece, a un romanzo sconcertante qual è Suicidio di Edouard Levé. Come non accostare la sorte di Levé – che, tre giorni dopo aver consegnato il manoscritto all’editore, si toglie la vita nella stessa modalità presente nella finzione letteraria –, a Virginia Woolf o Cesare Pavese? Facile è stato anche il rimando alla rubrica Mai Morti curata da Terranullius 8 , un gruppo di autori giovanissimi che, attraverso una sorta di epitaffi fulminei d’esistenza, riesumano quelli che furono i vivi di ieri e perdurano nell’esserlo oggi, perché mai morti nella loro eredità. Esattamente come gli artisti trattati da Coscia. Soli eravamo è un libro che meriterebbe di finire nelle scuole sia per la sua funzione educatrice, sia per la passione – non solo verso l’arte, bensì per la vita – che stimola nei lettori. Quando si termina ci si sente affranti. La forza centrifuga delle parole porta quasi a prendersela con l’autore per aver escluso alcuni personaggi. È come se si sentisse il bisogno di un ulteriore aneddoto, di un altro assaggio del tutto inedito; è come se si provasse il desiderio di un focolaio e di porsi in cerchio, di alternarsi nel racconto di storie lontanissime e sconosciute. Per fortuna questo è un libro che non finisce e che in alcune notti può dar voce a chi non ne ha. Ognuno con la sua storia di solitudine. Fabio Appetito 7
Jordi Sierra i Fabra, Kafka e la bambola viaggiatrice, Salani, Milano, 2010, p. 121.
8 www.terranullius.it
legêre Fabrizio coscia
Soli eravamo e altre storie su Rimbaud, Kafka, Joyce, Leopardi, Proust, Dante, Woolf, Hopper, Tolstoj, Caravaggio, Keats, Evans, Vermeer, Radiohead, Mozart Ad est dell’equatore (Collana Extras), Pollena Trocchia (NA), 2014.
All extraordinary lives are common lives. The contrary is not true. This precept – which is fundamental, as the extraordinary always concerns us – would be enough to summarize the whole essence of this book. In an interview, Louise Ferdinand Céline 1 declared to have «put my skin on the table, because there is a thing you must never forget: the great enlightenment is death. I had to leave my skin on the table. If you don’t leave your skin on the table you have nothing. You’ve got to pay. Things done without paying seem to be for free. So, you’ll have free writers». In Soli Eravamo, the prophesy of Céline is the fil rouge, emphasising almost paradoxical 2 dimensions which at some points makes us laugh, at other points moves us, but continually evidences its humanity which, thanks to that sacrificed skin, talks to us about the manias, the escapes and the delirium – about the unforeseeable, which is part of everyone. The precision and clarity of Coscia’s prose repeatedly brings us back to the beauty of the biographical data, an element which is fundamental to understand the micro- and macro-history of his literary work. However, the artist’s attempt goes further, as the biographical data of the artists described in the book becomes mixed with the ones of the author, enabling us to annihilate any experiential and sensorial distances. How many times have we found ourselves, as Coscia has, close to our past idols in an emotional fusion, living an imagined, shining past? How many times have we used experiences not our own to provide an unconscious solace? In my darkest moments I used the strategy of what I called a line-up: like a football club, I lined up different writers in a single day, who were ramshackle and with obscene experiences, or alcohol artists with an infamous destiny, to play next to me in the match against life. In the back cover, it is specified: «There was a time in which art, music, literature were the same as my life; […], a time in which also artists’ biography – often troubled, unsettled, suffering – seemed to me able, in the same way of saints’ life for a believer, to enlighten my existence with new intuitions». This process of identification traces back to psychoanalysis. According to the French psychoanalyst Jacques Lacan, «A child– therefore the ever-growing man – constitutes his own subjectivity and recognizes in the mirror the image of another next to the one he realizes as his own one 3 ». For this reason, the title could not be different. Coscia’s book Soli eravamo 4 is first of all to be understood as a negation. We were (Eravamo): now, through an imaginative simulation, we have hence ceased to be. What is more, We were is connected to a needed solitude (Soli) which is obliged, being a pathway to be walked on silently, in order to obtain that kind of art which is hard substance 5 . Hence, it is generalist solitude. It is a solitude which does not allow escape and which condemns everyone. It even condemns the first two characters appearing in the first chapter, such as Tolstoj and Rimbaud, both sharing a common solution, in this case the escape 6 , both bearing the consciousness that escaping from the inner desert means that a desert is chasing us. It is also interesting to detect nexuses and meta-literature connections throughout the narration which could be the basis for a new starting point, further reflections or discoveries. For example, after reading the chapter about Kafka, in which the author talks about how he began writing letters for a young girl who had lost her doll, I became passionate about such a situation, getting to know another book on the topic: Kafka e la 1
Louise Pauwels, Interview to Louise Ferdinand Céline, in En francais dans le texte, Meudon, 1959.
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An example of paradox is the chapter about James Joyce, in which the author discovers, by chance, a namesake next to a tomb of a man that in youth loved his wife, toward he feels an obsessive jeaulosy.
3
Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, (Or. ed. 1969), in Paolo Bertetto, La macchina del cinema, Laterza, Roma/Bari, 2010, p. 8. Mirror is related by an image or perception able to produce simulation and/ or identification.
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Specified by author, the title is inspired by a passage of Dante’s Inferno (Hell), V poem: «[…] One day we reading were for our delight/Of Launcelot, how Love did him enthral; /Alone we were and without any fear ».
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Alda Merini, Delirio Amoroso, Frassinelli, Milano, 2011, p. 13.
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Technically the book focuses, for the most part of the structure, on two artists’s life or even two events related to the experience; author makes a kind of flashback or flashforward and direct the narrative structure with an omniscient narrator that seems to be a diarist.
bambola viaggiatrice 7. The chapter of the book dedicated to imperfect suicides made me think of another baffling novel that I read quite a few years ago –Suicidio by Edouard Levé. How could one not compare Levé’s destiny – he committed suicide three days after giving his manuscript to the publisher in the same way described in his novel – with the fates of Virginia Woolf or Cesare Pavese? It was also obvious to cross-reference it with the online column of short existential epitaphs called Mai Morti, supervised by Terranullius 8 , in which a group of young Italian authors aim to resurrect those who were living yesterday and who keep on living today, as they have never been forgotten for their heritage. This is exactly what Coscia tries to do with the artists he deals with. Soli eravamo is a book which would deserve to be studied at school for its educational value and for the passion which he stimulates amongst readers, not only for the arts, but also for the life. Once ending the book, one can feel heartbroken. The centrifugal force of words almost brings the reader to accuse the author of having excluded other characters. There is that kind of need for more anecdotes, of another unprecedented try which one could desire around a big fireplace exchanging ancient and strange stories. Fortunately, this is a book which does not end, and during certain nights it can give voice to those who do not have one. Each one (of them) with a story of solitude. Fabio Appetito 7
Jordi Sierra i Fabra, Kafka e la bambola viaggiatrice, Salani, Milano, 2010, p. 121.
8 www.terranullius.it
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il muro
TRITTICO DI BACON In una notte del 1960 a Londra, un giovane ladro entra in un appartamento nel West Land, ma fa troppo rumore e sveglia il proprietario della casa, un celebre e ricco pittore irlandese. Il ladro farfuglia qualcosa, non sa come giustificare la sua presenza, ma l’uomo, per tutta risposta, lo invita a spogliarsi e a infilarsi nel letto con lui. Da quella notte i due diventeranno amanti e resteranno insieme per undici anni, dando vita a una delle relazioni più burrascose e chiacchierate della storia dell’arte. Quella tra Francis Bacon e George Dyer fu, più che una storia d’amore, un caso clinico di sadomasochismo, che forse potrebbe interessare più gli psichiatri che gli storici dell’arte, se non fosse che il corpo di George Dyer – ladruncolo maldestro dell’East Land, alcolizzato, ansioso e balbuziente – fu ritratto ossessivamente da Bacon, ispirando alcuni dei suoi quadri più celebri. Dyer aveva un fisico atletico e virile, e inoltre il suo lato naïf e la sua natura di perdente lo rendevano il tipo della vittima perfetto per uno come Bacon, che amava circondarsi di parassiti, debosciati e perditempo. Lui stesso lo prendeva spesso in giro, anche in pubblico, per la sua inadeguatezza e la sua ignoranza. Eppure, lo dipinse con tenerezza e pietà, con una cura affettuosa per il suo corpo muscoloso. Ma il prezzo che Dyer dovette pagare per quell’amore fu altissimo. Nell’ottobre del 1971 accompagnò Bacon a Parigi, per l’inaugurazione della sua mostra al Grand Palais, e morì, probabilmente suicida, per una miscela letale di psicofarmaci e alcol, la sera prima del vernissage. Bacon lo trovò senza vita, seduto sulla tazza del bagno. In quella stessa posizione lo ritrasse, due anni dopo, nel Trittico, Maggio-giugno 1973: nel pannello di destra l’uomo è intento a vomitare nel lavandino, in quello di sinistra è sulla tazza del bagno, già morto, e in quello centrale c’è solo la testa di Dyer, con davanti un’ombra di ali di pipistrello. «Una delle cose terribili del cosiddetto amore – ha detto una volta l’artista irlandese – è la distruzione». Ne portano tracce tutti i suoi quadri, dove i suoi modelli-amanti vengono letteralmente vivisezionati. Per questo, benché abbia sempre sognato di dipingere un sorriso, come lui stesso ammise, non c’è mai riuscito. Nella sua pittura, che non era interessata ai sentimenti, né alla mente, ma a quello che lui chiamava il sistema nervoso, c’era spazio solo per le smorfie spastiche, per i contorcimenti e la decomposizione dei corpi.
UN AMORE PER JEANNE Una notte verso le due, dopo che aveva come al solito rovesciato sedie e rotto bicchieri in un bar, e fu cacciato in malo modo, Modigliani si ritrovò su una panchina, esausto. Jeanne lo raggiunse, sedendogli accanto in silenzio, e lui le cinse le spalle. Restarono così per ore, senza dire una parola, paghi di quell’abbraccio protettivo. Una scena che mi pare suggelli alla perfezione il senso di questo legame d’amore. Jeanne Hébuterne era una studentessa d’arte dal volto serio e intenso, e dalla meravigliosa chioma castana, che portava legata in lunghe trecce con la scriminatura al centro e una fascia intorno alla fronte. Era minuta, spesso silenziosa, ma aveva fascino, spirito creativo ed era molto sicura di sé. Conobbe Amedeo Modigliani nella primavera del 1917 e divennero amanti una sera di maggio, all’Hotel Dieu. Da allora lei gli fu accanto fino alla morte, sfidando il parere contrario dei genitori, e consacrandosi completamente a quest’uomo difficile e geniale, dalla salute cagionevole e dal temperamento imprevedibile. I due si amarono senza riserve, e si ritrassero a vicenda per tutto il tempo che vissero insieme. Lei divenne la sua principale modella, raffigurata in tutti i modi – con cappello, scialle, in maglione giallo a girocollo o in abiti scuri, in camice bianco, di profilo o di fronte, coi capelli sciolti, legati a crocchia o intrecciati, e infine incinta, col ventre rigonfio, davanti a una porta – ma mai nuda, tranne che nel disegno sulla locandina della prima personale di Modigliani alla galleria di Berthe Weill, il 3 dicembre 1917. Lui divenne tutto per la giovane artista: padre, amante, marito, fratello, figlio. Spesso litigavano furiosamente, soprattutto quando Modigliani si ubriacava, al punto che molti proprietari di locali si rifiutavano di farli entrare, sapendo già come sarebbe finita. Ma Jeanne Hébuterne non avrebbe potuto concepire la sua vita senza di lui. Gli diede una figlia – che chiamarono Jeanne – e portava un altro bambino in grembo quando, due giorni dopo la morte di Modigliani, la donna, distrutta dal dolore, decise di togliersi la vita, gettandosi dalla finestra del quinto piano della casa dei suoi genitori. 42
la ruota panoramica the Big Wheel
BACON’S TRIPTYCH During a night on 1960 in London, a young thief sneaks in a flat in West Land but, making too much noise he wakes up the house's owner, a famous and rich Irish painter. The thief stutters something, he doesn't know how to justify its presence there, but the man invited him to undress and go to bed with him. Starting from that night the two men become lovers and remain together for eleven years, creating one of the most stormy and chatted relationship for art history. That between Francis Bacon and George Dyer was, more than a love story, a case of sadomasochism which probably could affect more psychiatrists that art historians. Except that the body of George Dyer - petty and clumsy thief of East Land: alcoholic, anxious and stammering – was obsessively painted from Bacon, inspiring some of his most famous paintings. Dyer was athletic and virile, and his naive side and his nature of loser made him the perfect victim for someone like Bacon, who liked to surround himself by parasites, degenerates and time wasters. He himself often mock him even in public for its inadequacy and ignorance. Nevertheless, he painted him with affection and pity, with a loving care for his strapping body. But the price that Dyer had to pay for this love was the highest. On October 1971 he gone with Bacon to Paris for his exhibition opening at the Grand Palais, and died, probably suicidal, for a lethal mixture of drugs and alcohol, the night before the preview. Bacon found him dead, sitting on the toilet bowl. He painted him in this same position, two years later, in the Triptych, May-June 1973: in the right panel the man is throwing up in the sink, in the left one he's on the toilet bowl, dead, and in the middle one is the Dyer's head only, with a shadow of bat wings in front of. «One of the terrible things in this supposed love - once said the Irish artist - is the destruction». All his paintings are a proof of that: his models-lovers are totally dissected. Therefore, although Bacon has always desired to paint a smile, as himself admitted, he has never succeeded. In his painting, not interested in feelings, to the mind, but to what he called the nervous system, there was only place for spastic grimaces, contortions and for bodies decomposition.
A LOVE FOR JEANNE One night about two o'clock after having, as usual, overturned chairs and broken glasses in a bar, and badly kicked out, Modigliani found himself exhausted on a bench. Jeanne joined him, sitting near him silently, and he put his arm around her shoulders. They stayed like that for hours without saying a word in this protective hug. This is the scene that perfectly seals the sense of this love bond. Jeanne Hebuterne was an art student serious and intense faced, with wonderful brown hair, tied in long braids parted in the middle and a band around her forehead. She was small, often silent but charming from creative spirit and was very confident. She met Amedeo Modigliani in the spring of 1917 and they became lovers on a May evening in the Hotel Dieu. Since then she was close to him until death, defying also her parents advice and dedicating herself completely to this man hard and brilliant, from poor health and unpredictable behaviuor. The two loved each other unconditionally, and painted each other for all the time that they lived together. Jeanne became his main model, represented in all ways - with hat, shawl, in yellow sweater crew neck or in dark suits, white-coated, half face or front, with down hair tied in a bun or twisted, and finally pregnant: the swollen belly in front of a door - but never naked, except for the drawing on the poster for the first Modigliani exhibition to Berthe Weill gallery on December 3, 1917. He became everything for the young artist: father, lover, husband, brother, son. They often discussed furiously, especially when Modigliani got drunk. Many local owners refused to let them come in, already knowing how it would be in the end. But Jeanne Hebuterne could not imagine her life without him. She gave him a daughter - they named Jeanne - and Jeanne brought another child in her womb when, two days after Modigliani's death, the woman destroyed by pain, decided to kill herself jumping from the fifth floor window of her parents' house .
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il muro
Il segno sul muro a cura di Elide Massolari e Nick Testa
P.P. Pasolini, Teorema, Italia (1968) P.P. Pasolini, Teorema, Italy (1968) Michelangelo Antonioni, L’eclisse, Italia-Francia, (1962) Michelangelo Antonioni, Eclipse, Italy-France, (1962)
Luis Buñuel, Il Fantasma della Libertà, Italia-Francia, (1974) Luis Buñuel, The Phantom of Liberty, Italy-France, (1974)
Marco Risi, L’ultimo capodanno, Italia, (1998) Marco Risi, Kaputt Mundi, Italy, (1998)
«[...] basta osservare quando i borghesi parlano di esagerazione, isterismo, follia, per sapere che proprio là dove è più pronto il richiamo alla ragione, si tratta sempre, in realtà, dell'apologia del suo contrario. Hegel ha messo l'accento sul sano spirito di contraddizione con la testardaggine del contadino che ha appreso per secoli a resistere alla caccia e ai tributi dei potenti feudatari. Il compito della dialettica è di dare lo sgambetto alle sane opinioni circa l'immodificabilità del mondo, coltivate dai potenti che hanno preso il loro posto, e di decifrare nelle loro proportions l'immagine fedele e ridotta delle disparità cresciute oltre ogni proporzione. La ragione dialettica è l'irragionevolezza di fronte alla ragione dominante: solo in quanto la confuta e la supera. diventa essa stessa razionale. [...] La dialettica non può arrestarsi davanti ai concetti di sano e malato, e neppure davanti a quelli, strettamente affini, di ragionevole e irragionevole. Una volta che ha riconosciuto per malato l'universale dominante e le sue proporzioni, - e nel senso più letterale, definito dalla paranoia, dalla proiezione morbosa, - vede la sola cellula di guarigione in ciò che, commisurato a quell'ordine, appare malato, eccentrico, paranoide o addirittura folle; ed è vero oggi, come nel Medioevo, che solo i pazzi dicono la verità al dominio. Sotto questo aspetto, il compito del dialettico sarebbe quello di consentire alla verità del pazzo di pervenire alla coscienza della propria ragione, senza la quale - del resto - perirebbe nell'abisso di quella malattia che il sano buon senso degli altri impone senza pietà». (T. Adorno, Minima Moralia, 45. E par malato tutto ciò che esiste, 1951)
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la caverna di platone
The mark on the wall curated by Elide Massolari and Nick Testa
David Lynch, Velluto Blu, USA, (1986) David Lynch, Blue Velvet, USA, (1986)
Luchino Visconti, Gruppo di famiglia in un interno, Italia (1974) Luchino Visconti, Conversation Piece, Italy, (1974)
Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore, Italia (1972) Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore, Italy (1972)
Bernardo Bertolucci, Il conformista, Italia (1970) Bernardo Bertolucci, The conformist, Italy (1970)
«[...] one need only observe at what times the bourgeoisie speaks of exaggeration, hysteria, and foolishness, to know that it is precisely where the appeal to reason emerges most promptly, that the issue unavoidably concerns an apology for unreason. Hegel emphasized the healthy spirit of contradiction with the hardheadedness of the peasant, who has learned over the centuries to withstand the hunts and tithes of the mighty feudal lords. It is the special concern of philosophy to knock the healthy viewpoints held by later power-brokers regarding the immutability of the course of the world for a loop, and to decode in their proportions [in English in original] the true and reduced mirror-image of immeasurably enlarged disproportions. Dialectical reason [Vernunft: reason] is, against the ruling one, unreason [Unvernunft]: only by carrying over and sublating the latter, does it become rational [vernünftig: reasonable, rational]. [...] Dialectics may not stop before the concepts of the healthy and the sick, nor indeed before the latters’ family relations, the rational and the irrational. Once it recognizes the ruling generality and its proportions as sick – and marked in the most literal sense with paranoia, with pathic projection – then it finds the cells of healing solely in what the standards of that social order portray as sick, absurd, paranoid – indeed, insane, and it is true as today as in the medieval era, that only fools speak the truth to power. In this respect it is the duty of the dialectician to help this truth of the fool to attain the consciousness of its own reason [Vernunft], without which it would indeed perish in the abyss of that sickness, pitilessly dictated by the common sense of others». (T. Adorno, Minima Moralia, 45. Yet how ill does everything growing seem, 1951)* * This translation was created in 2005 by Dennis Redmond and is reproduced for non-commercial, educational purposes only.
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Fisiognomica. Una disciplina in apparente trasformazione nel corso dei secoli? di Giuseppina Lavalle
«Ogni volto umano è un geroglifico che, per la verità, si lascia decifrare, e l’alfabeto del quale ognuno porta in sé già pronto. Anzi il viso di un essere umano, di regola, dice cose più interessanti di quelle che dice la sua bocca poiché il viso è il compendio di tutto ciò che la bocca non possa mai dire [...]. La bocca esprime soltanto pensieri dell’uomo, il viso invece, esprime un pensiero della natura». (A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, 1851) Schopenhauer non intende racchiudere la fisiognomica all’interno di una specifica definizione: non è arte né scienza, ma semplicemente natura, la visione stessa dell’uomo. Prima di arrivare ad una tale riflessione, per secoli, la disciplina definita Fisiognomica ha viaggiato incessantemente da un ambito all’altro del sapere. Tra il XII e XIII secolo filosofi e intellettuali hanno cercato di definire la sua posizione epistemologica, i suoi fini e le metodologie. Senza esitazione è stata inserita nell’insegnamento universitario, in base ad una visione naturalistica e biologica: secondo lo scritto di Alberto Magno (1206 – 1280) De animalibus, la fisiognomica affianca l’anatomia nello studio morfo-
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logico e costitutivo delle parti del corpo. Le caratteristiche fisiche, morali ed intellettuali dell’uomo sono condizionate dall’equilibrio degli umori, secondo le recuperate teorie di Ippocrate e Galeno. Molto interessanti sono le inusuali concatenazioni della fisiognomica con altri campi di riflessione. Da una parte, l’idea che il corpo possa essere il mezzo principale per sondare l’interiorità dell’uomo crea una connessione con la vita spirituale e religiosa: Ugo di Foulloy (1100 – 1174) nel suo Medicina animae giunge ad usare fisiopatologia e psicopatologia umorali per spiegare il corretto andamento o la corruzione della comunità cristiana. D’altra parte la fisiognomica acquisisce una valenza etico-politica: Guglielmo di Mirica, nel suo commento alla Fisiognomica dello Pseudo Aristotele, afferma che lo spazio politico è il luogo dove l’uomo deve valersi delle sue virtù, dunque è necessario individuare coloro che non possono farne parte. Gli uomini che somigliano alle bestie hanno perso il loro posto primario nell’ordine delle intelligenze in natura, dunque riconoscerli è fondamentale. La fisiognomica ha questo valore conoscitivo (o ri-conoscitivo) in funzione del mantenimento dell’assetto sociale e civile. Quando l’arte figurativa stabilisce il suo rapporto con la fisiognomica? Superata la tendenza quattrocentesca di analizzare
backlook
Opposite: William Hogarth, Caratteri e caricature/ Characters and caricaturas, 1743
il mondo circostante che condusse all’elaborazione del metodo prospettico quale affermazione della più elevata comprensione dell’esterno, lo sguardo dell’uomo si volge all’interiorità. Non è un caso che sia stato Leonardo da Vinci (1452 – 1519), un artista, a teorizzare in maniera sistematica come l’arte possa indagare nel profondo lo studio dell’ animo, e come la fisiognomica possa essere un valido strumento per tale scopo. Egli era anche uomo di scienza e mostra il rapporto tra le due discipline in maniera empirica, con dimostrazioni pratiche e una grande varietà di disegni. Si è ipotizzata l’esistenza di un trattato sulla fisiognomica, ma attualmente le idee a riguardo sono desunte dal suo Trattato della Pittura. Egli scrive: «Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura). Il fine ultimo è quello di rendere, attraverso l’immagine, il breve attimo in cui un sentimento si palesa su un volto e provoca un riflesso nel movimento del corpo. Le emozioni scaturite dall’interiorità dell’uomo, ciò che Leonardo chiama “i moti dell’animo”, emergono visivamente all’esterno e non sono controllabili, poiché fluiscono dall’inconscio. Tale terminologia nacque alla luce delle scoperte della psicologia moderna, ma siamo comunque di fronte ad una sua elaborazione embrionale. D’altronde all’epoca si cominciò a parlare di follia, o meglio “dell’oscuro psichico”. Fino ad allora la questione era relegata al magico e all’occulto, ma Leonardo guardò ad essa con occhio analitico attraverso la sua arte. Lo studio per la Battaglia di Anghiari , Testa di uomo urlante (Budapest, Szépmüvészeti Múzeum, 1503 – 1504) esalta la furia di cui l’uomo è capace, le sue passioni represse che in qualche modo devono essere manifestate. La forza del disegno è ancor più apprezzabile leggendo la descrizione del pittore stesso: «Alla figura irata farai tenere uno per i capelli con capo storto a terra, [...] abbia i capelli elevati, le ciglia basse e strette, e i denti stretti e i due estremi daccanto della bocca arcati, il collo grosso, e dinanzi, per il chinarsi al nemico, sia pieno di grinze» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura). Il seme gettato da Leonardo verrà recuperato, e definitivamente sconnesso dalla cinquecentesca cultura del magico, da Leibniz (1646 – 17169), quando nel 1705 scrive i Nuovi saggi sull’intelletto umano. È il primo filosofo a parlare di inconscio, teorizzando l’esistenza di percezioni insensibili o piccole percezioni prive di qualsiasi consapevolezza da parte dell’uomo. La fisiognomica progressivamente viene assimilata dalla psicologia in fase di formazione, e comincia ad entrare nel mondo del reale e del vissuto. Allo stesso periodo risalgono le riflessioni di William Hoghart (1697 – 1764). Con l’incisione Caratteri e caricature (1743) si dimostrò un perfetto conoscitore degli studi della fisiognomica: inserì nel foglio un centinaio di teste di sua creazione, ma nell’ultima fila incise esempi da Leonardo, Annibale Carracci, Ghezzi, ma anche dai cartoni di Raffaello. Egli volle affermare che le sue creazioni non erano frutto di un’esagerazione umoristica, ma derivavano da una nobile discendenza di conoscitori di caratteri. Peraltro gli intenti della sua produzione pittorica erano satirici e moraleggianti nel rappresentare i costumi inglesi del XVIII secolo, e il suo successo dipese anche dalla precisa descrizione dei tipi. Realizzò diverse serie di dipinti, che ruotavano
intorno ad un tema, in cui ciascun quadro è inteso come un atto teatrale. Osserviamo ad esempio la scena La mattina della serie Il matrimonio alla moda (Londra, National Gallery, 1744). Il marito si abbandona sulla sedia con lo sguardo vuoto di chi ha gozzovigliato tutta la notte, mentre la moglie si stira prima di cominciare la colazione e con uno sguardo compiaciuto, ma di sottecchi osserva il coniuge. Sulla sinistra compare un servo con in mano i conti da pagare e gli occhi rivolti al cielo in estremo turbamento. Hoghart segna un punto di svolta nella possibilità di usare delle tipologie umane ed espressive come mezzo per identificare comportamenti dell’uomo sul piano etico e sociale. Così, progressivamente, la fisiognomica verrà sempre più legata a teorie antropologiche con attributi criminologici. Con l’avvento del Positivismo ottocentesco lo studio dell’uomo diventa più analitico e scientifico, tanto da determinare la nascita della Frenologia. Non è più il volto a determinare le caratteristiche dell’individuo, ma la sua attività celebrale che può essere dedotta dalla forma del cranio. Viene avviato uno studio nella storia dell’arte secondo il quale anche le statue scolpite nell’antichità, quando non esistevano queste nozioni frenologiche, presentano una precisa corrispondenza tra topografia celebrale e le caratteristiche del personaggio rappresentato. La produzione artistica si vincola ad una crescente necessità di documentazione. La rappresentazione dei tipi non è più relegata a speculazioni artistico - filosofiche, né a mera caricatura. La follia non è rappresentata in scene d’invenzione o per soddisfare velleità grafiche, diventa realtà, soprattutto realtà clinica. Lo psichiatra Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1772 – 1840) sosteneva che l’alterazione degli stati mentali si manifesta a livello esteriore con variazioni significative dei tratti fisiognomici. In pittura questo si traduce nella misteriosa serie dei ritratti di alienati di Théodore Géricault (1791 – 1824). Non è ancora stata spiegata la genesi di questi dipinti: si ipotizza che possano essere una documentazione scientifica, forse per lo stesso Esquirol, o addirittura una sorta di terapia cui si è sottoposto il pittore per affrontare i propri disturbi psichici. Osservando l’Alienata con la monomania dell’invidia (Lione, Musée des Beaux-Arts, 1822 – 1823) si nota l’abbandono delle distorsioni dei volti della pittura precedente a favore di una descrizione veritiera della patologia: gli occhi piccoli e sanguigni della donna rivelano la sua malizia, così come la fissità dello sguardo la sua ossessione. In questo ritratto di un’invidiosa patologica sembra, però, risuonare l’eco della descrizione allegorica dell’Invidia di Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1593. Dunque, le elaborazioni fisiognomiche del passato sono state realmente abbandonate?
Bibliografia Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, a cura di Ettore Camesasca, N. Pozza, Vicenza 2000. A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi Ed., Milano 2003. F. Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Mondadori Electa, Milano 2012.
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il muro
Physiognomy. Is it a discipline in apparent transformation through the ages? Giuseppina Lavalle
«[...] On the contrary, each human face is a hieroglyphic, and a hieroglyphic, too, which admits of being deciphered, too the alphabet of which we carry about with us already perfected. As a matter of facts, the face of a man gives us fuller and more interesting information than his tongue [...]. And moreover, the tongue tells the thought of one man only, whereas the face expresses a thought of nature itself». (A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, 1851) Schopenhauer does not intend to include Physiognomy into a specific definition: it is not art or science, but simply nature, that is how humans see themselves. Before getting to this consideration, for many centuries, the discipline known as Physiognomy had wandered ceaselessly from a branch of knowledge to another. Between the XII and XIII century, philosopher and intellectuals had tried to figure out what Physiognomy’s meanings, aims and methods were. Without any hesitation, it was taken in by the academic teachings due to a naturalistic and biological point of view: according to Albert the Great (1206 – 1280) and his De animalibus, Physiognomy can be placed side by side with Anatomy in the morphological studies of human body. According to the retrieved theories of Hippocrates and Galen of Pergamon, physical, ethical and intellectual human features are influenced by humour’s balance. The unusual link of Physiognomy with other kinds of thinking fields is very interesting. In fact, on one hand, the idea that the body is the first medium used to investigate human inner nature makes a connection with religious belief and spiritual life. Let’s take as example Hugh of Fouilloy (1100 – 1174) and his Medicina animae: the author uses humoral physiopathology and psychopathology as an explanation of the Christian community’s behavior,
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whether it is good or bad. On the other hand, Physiognomic gains an ethical – political value: William of Mirica, in his comment about the Pseudo-Aristotele’s Physiognomy, says that the political space is a place where humans have to make a good use of their virtues. Therefore, it is necessary to identify those who can’t be part of the political system: men who look like animals have lost their right to be among the intelligent beings, so, for this reason, it’s important to be able to recognize them. It follows that Physiognomy has this kind of cognitive worth that is related to the protection of social and civil system. When does the figurative art establish its bond with the Physiognomy? Once the tendence of analysing the reality (typical of the XV century, which brought to the birth of perspective as the most complete way of understanding the outside world) was overcome, mankind started to look at it’s own inner nature. It is not by chance that Leonardo da Vinci, an artist, theorised systematically how art can look deeply into the studies about human spirit, and how Physiognomy could be a means for such purpose. Moreover he was also a scientist, through demonstrations and a large quantity of drawings, he was able to show empirically what kind of link there is between art and science. The existence of a work about Physiognomy has been supposed, but currently speculations about this discipline are deducted from Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura. He wrote: «Represent your figures in such action as may be fitted to express what purpose is in the mind of each; otherwise your art will not be admirable» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura). The final aim shows through images the brief moment in which feelings reveal themselves on one’s face and thus how the body moves by reflex. Emotions, that come out from human depth ,called by Leonardo da Vinci movement of the spirit ,show up clearly outside, and they are not manageable because they flow from
backlook
Opposite: William Hogarth, Masquerade Party at Somerset House in 18th Century England, early 1800
the subconscious. This kind of terms was born after the new discoveries of the modern psychology, but it is still in its early stages. However at those times they talked about madness, or rather the psychic dark side. Even if until then this issue was relegated to magic and occultism, Leonardo da Vinci looked at it with an analytic look through his art. The Study of two warriors’ heads for the Battle of Anghiari (1504 – 1505) displays the fury which the mankind is capable of, and its suppressed passions that in a way have to be shown. The power of the drawing is even more remarkable if we read its description written by Leonardo «The angry figure thou shall keep someone by the hair, his head turned to the ground […] having raised hair , low and narrow eyelashes and clenched teeth, and both ends of the mouth arched, the front of the thick neck full of wrinkles for leaning toward the enemy 1» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura). When Leibniz (1646 – 17169), wrote New Essays on Human Understanding (1705), he remembered the seed sowed by Leonardo but he set it free from the culture of magic typical of the XVI century. He was the first philosopher who talked about subconscious while theorizing the existence of insensitive perceptions and small perceptions that lack of any kind of awareness. Slowly Physiognomic started to be assimilated by the newborn psychology, and it began getting into reality and real life. Furthermore, William Hogarth ‘s theories (1697 – 1764) are dated from the same period. Through his engraving Characters and Caricaturas (1743) he proved to be a perfect connoisseur of the studies about Physiognomic: he drew on the sheet a hundred of heads made up by him, but in the last line we can see examples from Leonardo, Annibale Carracci, Ghezzi, and also from works by Raffaello. In this way he claimed that his creation did not arise from a mere humoristic exaggeration, but instead from a noble chain of characters’ connoisseurs. Moreover the aims of Hogarth’s figurative production were satirical and moralistic while he described English habits of the XVIII century. He was very successful because of his care in showing exactly different kinds of characters. In fact, he made many series of paintings, related to a specific topic, in which each image looks like a theatrical act. Let’s take as example The Tête à Tête, the second canvas of the series called Marriage à-la-mode (1743): the husband is laying down on a chair with a vague look in the eyes due to a night party, in the meantime his wife is stretching before having breakfast and, with a pleased look, she is furtively glaring 1
at him. On the left a servant stands still in an unsettled state, with a bunch of bills in his hands and his eyes turned to the sky. Hogarth’s art is a turning point for the possibility to use humans’ expressions and characteristics as means to identify the ethical and social behaviour of mankind. Therefore, slowly, Physiognomy will be linked to anthropologic theories with criminological features. With the birth of the Positivism in the XIX century, studies about mankind became more and more scientific and analythic, so much to cause the origin of Phrenology: the face does not determine anymore one’s characteristic, but the brain activity, which can be deduced from the head’s shape, will be able to do that. From this point of view it starts a new kind of studies in the field of History of Art in which it has been observed that even ancient sculptures show a specific connection between topographic brain and the characteristic of the sculpted subject, but in a time when Phrenology did not exist. Consequently artistic production links itself to an increasing necessity of scientific documentation. Types’ representations are no longer bound to artistic and philosophical speculations, or to mere caricature. Madness is not showed through scenes made from imagination or in order to satisfy graphic ambitions, but it becomes reality, and above all clinical reality. The psychiatrist Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1772 – 1840) claimed that mental states’ alteration shows itself outwardly through meaningful variations of physiognomic features. In the artistic field all of this is translated in the mysterious series of the insane portraits by Théodore Géricault (1791 – 1824). An explanation about the origin of these paintings has not been found yet: it has been supposed that they could be a scientific documentation, maybe made for Esquirol himself, or even a sort of psychological therapy under which Gericault went, due to mental disorders. While observing Insane Woman (La Monomane de l’envie) (Lyon, Musée des Beaux-Arts, 1822 – 1823), it can be seen the distance from the facial distortions typical of the previous paintings on behalf of the pathology’s truthful description: the woman’s small and bloody eyes show her wickedness, so as her mania is visible from her fixed gaze However, in this portrait of a pathologic envious person it seems to resound the allegoric description written in Iconologia by Cesare Ripa in the 1593. Therefore, have the past physiognomic elaborations been truly abandoned?
translation by the author.
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WARIOS WRS TOKYO ELEMENT STORE Nata come attività commerciale online, Tokyo Element Store ha di recente allargato i suoi orizzonti divenendo un punto vendita fisico di sneakers e abbigliamento situato nel cuore di Roma, in via delle Medaglie d’Oro 251. La sede ospita una ricercata collezione delle firme più svariate: Nike, adidas, Reebok, Asics, Ewing; accompagnata da brand più classici come Gourmet e Clae e abbigliamento di griffe streetwear come BBC, Stussy e Undefeated. Una realtà interessante, frutto dell’intraprendenza di giovani uniti dalla passione per la cultura urban. La ricercatezza dei modelli proposti, spesso introvabili, ben si coniuga a un’attenzione particolare alle ultime tendenze, alle esigenze della clientela e dunque all’accoglienza, conferita dalla professionalità del personale e dall’arredamento efficace e accurato. La qualità è la cifra immancabile dello store, così come il variegato assortimento: si spazia dalle riproduzioni di modelli vintage più lontani nel tempo a quelli d’avanguardia per i materiali impiegati e le tecniche di realizzazione. Consapevoli della considerevole influenza delle forme artistiche contemporanee sulla moda, in particolare quella urban, lo staff di Tokyo Element incentra il proprio interesse sulla cultura visiva attraverso l’interazione con artisti, puntando così alla creazione di una rete dinamica di condivisione in cui porre la contaminazione a fondamento. È stato questo spirito a guidare l’iniziativa dello scorso 12 aprile, lo Spring Party - Food - Music - Art – Sneakers: un evento in cui musica, street food, moda e arte si sono integrati. Per l’occasione è stato chiamato Warios Wrs, lo street artist romano, illustratore e specializzato nell’arte della calligrafia – di recente nominato Calligraffiti Ambassador dalla Community Calligraffiti –, che già il 4 aprile era intervenuto con una scritta su una parete dello
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store in compagnia di un numeroso pubblico. Ancora più numerosi sono stati i partecipanti della serata del 12 aprile, quando l’artista, armato di vernici spray, ha realizzato un’opera sul retro di un’edicola di fronte lo store. Ad accompagnare la performance sono state le sonorità delle dj Sere Na [RNY] ed Eli Glam. L’arte applicata a a un tipo di moda accessibile, come quella street, è un fenomeno da sempre diffuso, radicata nel concetto stesso di visual art; la scarpa è un oggetto che acquisisce un valore aggiunto, un prodotto unico nella sua manifattura.
WARIOS CONTACTS Official website www.warios1.com Behance www.behance.net/wrsgraphic Facebook www.facebook.com/wariosvt Instagram https://instagram.com/warios1 Tumblr warios1.tumblr.com TOKYO ELEMENT STORE Viale delle Medaglie D'Oro, 251 00136, Roma Tel. 06 3540 1264 Official Website www.tokyoelement.com/it Blog factory.tokyoelement.com Facebook www.facebook.com/TokyoElementStore
micro-culture
Born as an e-commerce, Tokyo Element Store has only recently broadened its horizons, becoming a physical shop located in the very heart of Rome (Via delle Medaglie d’Oro, 251), marketing sneakers and clothes. This shop stocks a selection of various brands, such as Nike, Adidas, Reebok, Asics, Ewing, including the more classical Gourmet and Clae, and griffe streetwear style clothes like BBC, Stussy and Undefeated. Young people’s enthusiasm, along with their common passion for urban culture, resulted in this interesting outcome. The models offered are of the most refined, often not to be found elsewhere; this goes together with a particular care for the latest trends, clients’ needs and a welcoming shop environment, where every assistant acts very professionally and the interior design is second to none. Quality is the keyword of the store, like the variety of items you can find here, from old reproduction vintage patterns to the most updated ones for material and techniques involved. Aware of the fact that fashion, especially urban fashion, can be very effectively influenced by contemporary art, Tokyo Element staff are focused on the visual culture, giving importance to the interaction with artists and aiming at the creation of a dynamic network in order to share ideas and keep an inter-disciplinary base. It was in this guise that the 12th of April event was born. The Spring Party – Food – Music – Art – Sneakers: an occasion where music, street food, fashion and art were put together to interact. On the occasion, Warios Wrs, roman street artist, books designer, and expert in calligraphy – recently nominated Calligraffiti Ambassador by the Calligraffiti Community – was invited to take part. He had already been there on the 4th of April last, writing a quote on one of the store’s walls, joined by a great audience, which on April the 12th was
even greater, when the artist, armed with spray cans, made one of his works of art on the back of a news agents located in front of the shop. Music played by dj’s Sere Na (RNY) and Eli Glam accompanied. Using art, such as street art, as an affordable kind of fashion, is not a new approach. On the contrary, is a fundament of the visual art concept. Shoes as unique products can only add value to that.
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Alessandro Reale, Differenza, 2015
Alessandro Reale, nato a Roma, vive e lavora tra Roma e Latina. Una riflessione sull’estetica contemporanea, condizionata dal dominio massmediatico, e il conseguente concetto di tempo fondano la ricerca artistica di Reale. L’originario medium espressivo risulta essere la fotografia, veicolo attraverso cui l’immagine viene rielaborata, destrutturata. La sopravvivenza di immagini ataviche perdura nell’indagine di Reale senza tuttavia celarne le stratificazioni sedimentate, palesandone la natura dialettica.
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Alessandro Reale (Rome) lives and works between Rome and Latina. His work is a reflection on contemporary aesthetic, influenced by the mass media power, and its idea of time. Photography is the base and the medium through which the image is destructured and elaborated. Primordial images’ survive in Reale‘s research: they don’t hide stratifications left as sediments but display images dialectic nature.
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