ART PHILOSOPHY VISUAL CULTURE
N.7 MARZO-APRILE 2016 FREEPRESS
INDICE 4 CONTEMPORARY
rivista bimestrale / bimonthly magazine n. 7, marzo-aprile 2016 Direttore responsabile / Director general Luisa Guarino Direttore creativo / Creative director Jamila Campagna Caporedattore / Editor-in-chief Gaia Palombo Progetto grafico / Graphic project Valentino Finocchito Ricerca iconografica / Iconographic research Jamila Campagna Gaia Palombo Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Contributors (in alphabetical order): Jamila Campagna Lidia Decandia Arianna Forte Federico Grandicelli Gaia Palombo Giulia Pergola Vera Viselli Sezione inglese / english section: Gabriella Campagna Jamila Campagna Redazione / Editorial address IL MURO via Veio 2, 04100, Latina Editore e Proprietario / Publisher and Owner IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina Web www.ilmuromagazine.com Contatti / Contacts infoilmuro@gmail.com www.facebook.comILMUROmagazine Stampa / Print Tipografia PressUp Roma Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) In copertina: Christopher Bauder, Robert Henke, Deep Web - CTM Festival, Berlin 2016
Caravaggio Experience, di Vera Viselli Caravaggio Experience, Vera Viselli
BNL Media Art Festival, di Arianna Forte BNL Media Art Festival, Arianna Forte
1 0 LA RUOTA PANORAMICA THE BIG WHEEL Ripensare il territorio come laboratorio di fermentazione creativa,
di Lidia Decandia Think over the territory as a creative fermentation, Lidia Decandia
14 LA RECHERCHE Venezia, a cura di Giulia Pergola
Venice, curated by Giulia Pergola
20 WHAT'S HAPP
Core/Demetra 2.0, recensione di Arianna Forte Core/Demetra 2.0, review by Arianna Forte
22 MZK INTRAVISTA / MZK INTRAVIEW Aruán Ortiz. Il racconto delle Hidden Voices, di Jamila Campagna
Aruán Ortiz. Hidden Voices’ speech, Jamila Campagna
26 ARTIST’S WORD
! (in matematica significa uno e uno solo), di Federico Grandicelli ! (in mathematics means one and only one), Federico Grandicelli
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IL MURO Art, Philosophy and Visual culture
28 DROMOSCOPIA / DROMOSCOPY a cura di / curated by Vera Viselli Black Sails Room
30 BACKLOOK Dalle Pomptinae Paludes all’Ager Pomptinus, di Gaia Palombo From Pomptinae Paludes to the Ager Pomptinus, Gaia Palombo
32 LEGÊRE
L’assassinio come una delle belle arti - Thomas De Quincey, di Vera Viselli On Murder Considered as one of the Fine Arts - Thomas De Quincey, Vera Viselli
34 FLOPPY Deep Web. Rete di luci, di Arianna Forte Deep Web. Lights net, Arianna Forte
40 ENDING TITLES Zerocalcare, Kobane Calling
IL MURO
CARAVAGGIO EXPERIENCE di Vera Viselli
Caravaggio non è stato semplicemente un grande pittore, ma un precursore della messa in scena teatrale e cinematografica, grazie ai suoi personali utilizzi della luce radente che sperimentava in studio, posizionando le lanterne in determinati spazi per lasciare in ombra le parti che meno lo interessavano. Caravaggio Experience, quindi, non può essere semplicemente una mostra: si tratta di una full immersion che coinvolge lo spettatore/visitatore a 360 gradi nei 57 capolavori del pittore della luce, attraverso la tecnologia immersiva. Le opere vengono riprodotte in un video di 50 minuti visibile su un sistema di pannelli a cristalli liquidi LCOS, con un sistema di proiezione assolutamente avanguardistico (INFINITY DIMENSION®) e grazie ai 33 proiettori Canon XEED in Alta Definizione, con l’apporto delle musiche originali composte ad hoc da Stefano Saletti e delle percezioni olfattive scelte dai maestri profumieri dell’Officina Profumo – Farmaceutica di Santa Maria Novella. Saletti ha composto delle musiche originali perché la luce, in Caravaggio ha un suono. Ed è una luce talmente grande che arriva a raccontare la vita come a rendersi assente, rimanendo nell’ombra. La scelta è caduta su suoni duri ed acidi, ma il compositore ha lavorato su due diversi piani: l’accentuazione della drammaticità con le corde, gli archi, le percussioni e le distorsioni; la rarefazione degli spazi musicali con grandi riverberazioni dei suoni. Questa dicotomia musicale rappresenta quella scenica di Caravaggio, perché in lui c’è la vita e la morte, il bene ed il male, e la musica asservisce a questa sorta di spaesamento, risultando essere prima dura e spigolosa, poi tornando a dar voce a luce e colori, rassicurando per un attimo e rimettendo subito tutto in discussione.
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Un’esposizione di tali dimensioni aveva certamente bisogno di una regia, quella di Stefano Fomasi, che ha lavorato insieme ai video artisti di The Fake Factory - e vorrei sottolineare l’idea stessa di regia: pensare di inserire le opere di Caravaggio in un progetto di arte immersiva (immersiva perché si fa ricorso all’uso di tecnologie digitali, musiche, suoni, video proiezioni e profumi - in questo caso non del 3D perché se potenzialmente era alla base dell’idea iniziale poi concretamente mal si sposava con la fruizione museale - per cercare di ottenere il massimo coinvolgimento dello spettatore, per portarlo non idealmente ma fisicamente all’interno dello spazio creato dall’artista) nasce per via della tridimensionalità dello stesso Caravaggio. L’uso della luce nella definizione dei corpi e nella composizione degli spazi lo avvicina direttamente alla figura del regista e dello scenografo, rendendolo artefice e creatore di veri e propri racconti, nella misura stessa in cui lo fa il cinema. Fomasi ha quindi pensato di suddividere questo suo grande racconto in momenti ben distinti: LA LUCE: ne La Vocazione di Matteo si avverte una nuova percezione emotiva dello spazio, perché la luce divina - proveniente dalle spalle di Cristo – che illumina tutti gli astanti viene avvertita solo da Matteo, il quale indica se stesso proprio perché è lui ad essere stato chiamato/illuminato. IL NATURALISMO: convergono qui opere come Il Bacco, Il suonatore di liuto, L’amore vincitore, San Giovanni, I musici, ossia tutti quei personaggi - protagonisti di scene di vita vissuta - che il pittore incontra per le strade di Roma, come pure nelle botteghe e nei palazzi. TEATRALITÀ: vengono mostrati gli elementi strutturali e compositivi delle opere, prive di luce e colori, per coglierne l’essenzialità grazie alla posizione dei corpi ed ai loro equi-
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libri, alla scelta dell’illuminazione, alle forme geometriche, alla profondità tridimensionale secondo una scomposizione e ricomposizione digitale di linee e dettagli. Una menzione particolare, in questo caso, per Medusa: l’atto drammatico di Perseo che taglia la testa di Medusa viene trasformato in una ‘sequenza splatter’, con i serpenti che prendono vita - come fossero dei veri capelli mossi da folate di vento – ed il sangue che si fa largo fino a prendere completamente possesso dello schermo, trasformando il buio pesto in un profondo rosso. VIOLENZA: è parte integrante della vita di Caravaggio: l’omicidio commesso durante una rissa, la conseguente condanna a morte, la fuga per non essere giustiziato. È una violenza di cui si è reso protagonista e spettatore per i vicoli romani e le osterie, e che non poteva non interferire con la sua creazione artistica. Infine, il percorso si chiude seguendo la cronologia della vita e dell’arte del pittore, con una galleria virtuale dove poter ammirare tutte le opere nel loro insieme. Caravaggio Experience Palazzo delle Esposizioni Via Nazionale. 194, Roma 24 marzo - 3 luglio 2016 Promossa da Roma Capitale. Produzione: Azienda Speciale Palaexpo e Medialart in collaborazione con Roma&Roma. Sponsor tecnico: Officina Profumo - Farmaceutica di Santa Maria Novella Consulenza scientifica di Claudio Strinati. Realizzazione: Stefano Fomasi - The Fake Factory. Musiche: Stefano Saletti Digital Image partner Canon With the support of Invest Banca S.p.a. Info: tel. 06 39967500 www.palazzoesposizioni.it
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IL MURO
CARAVAGGIO EXPERIENCE Vera Viselli
Caravaggio hasn’t been just a great painter; he has been the precursor of the theatrical and cinematographic representation, through his peculiar use of the oblique lightning, experimented in his atelier putting lanterns to leave in the darkness the zones he didn’t mean to show. So Caravaggio Experience cannot just be considered an exhibition: it’s a full immersion that completely captivates the spectator/visitor into the 57 light painter’s masterpieces, by an immersive technology. Artworks are reproduced in a 50 minutes video displayed through a liquid crystal panels system (LCOS) with an advanced projection system (INFINITY DIMENSION®) by 33 Canon XEED HD projectors, with the original soundtrack composed ad hoc by Stefano Saletti and the olfactory perceptions chosen by master perfumers from Officina Profumo – Farmaceutica di Santa Maria Novella. Saletti has composed an original soundtrack because Caravaggio’s light owns a sound. And it’s a light so huge that can tell a life and be completely absent, staying in the shadow. The composer chose harsh and acid sounds and worked on two different levels: he emphasizes the dramatic side with string instruments, percussions, distortions and then he rarefies musical spaces through sound reverberations. This kind of musical dichotomy represents Caravaggio’s set dichotomy where you can find life and death, good and evil, and music serves this sort of confusion, being tough and rough-edged at first and then coming back to give voice to light and colors, reassuring for a moment and questioning everything again a moment later. A huge exhibition like Caravaggio Experience needed a
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director, Stefano Fomasi, who worked together with the video artists of The Fake Factory - I want to point out the direction idea: creating a gallery of Caravaggio’s artworks through a project of immersive art (we can define it immersive because it uses digital technologies, music, sounds, video projections and perfumes - not using 3D technologies because it was at the base of the initial project but then it didn’t properly fit the museum fruition in this case - to really get the spectators involved, to bring them inside the space created by the artist, not only ideally but physically) is an idea developed from the threedimensional attitude of his art itself. The use of light defining bodies and composing the set brings him straightly closer to the director and the setdesigner figures, making him a creator of tales, as cinema does. So Fomasi divided his tale in different chapters: THE LIGHT: in The Calling of Saint Matthew the space can
be perceived through an emotive attitude because the divine light - coming behind Christ and enlightening all the observers - can be perceived only by Matthew, who points at himself because he has been called/lighten up. NATURALISM: we find here artworks like Saint John the
Baptist, Bacchus, The Lute Player, The Musicians, Amor Vincit Omnia, characters of everyday life that he met in Rome walking on the streets, in palaces and workshops. THEATRICALITY: in this section are presented the structu-
ral and compositional elements of Caravaggio’s artworks, without light and colors, to reach their essence thanks to the positions and the balance of bodies, through the light, the geometrical forms, the three-dimensional deep, by a digital composition and decomposition of lines and details. A special mention for his Medusa: the dramatic act of Perseus cutting Medusa’s head is transformed into a
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splatter sequence where snakes become alive - as they were real hair moved by a blast of wind - and the blood swells covering the whole screen, transforming the pitch dark in deep red. VIOLENCE: it’s an essential part of Caravaggio’s life. The
murder committed during a scuffle, the resulting sentence of death and the escape to avoid the execution. It’s a violence where he was character and spectator in Roman alleys and taverns, that surely influenced his creative production. The exhibition ends following a chronological path through the life and art of Caravaggio with a virtual gallery that shows the totality of his work.
Caravaggio Experience Palazzo delle Esposizioni Via Nazionale. 194, Roma 24th March - 3rd July 2016 Sunday, Tuesday, Wednesday and Thursday: from 10,00 to 20,00 Friday and Saturday from 10,00 to 22,30; Monday closed Promoted byRoma Capitale. Production Azienda Speciale Palaexpo and Medialart in cooperation with Roma&Roma Scientific advice Claudio Strinati Realization Stefano Fomasi – The Fake Factory Music - Stefano Saletti Technical Sponsor - Officina Profumo – Farmaceutica di Santa Maria Novella
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Digital Image partner Canon With the support of Invest Banca S.p.a. Info: tel. 06 39967500 www.palazzoesposizioni.it
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IL MURO
Scenocosme, Metamorphy
BNL Media Art Festival - Roma di Arianna Forte Dopo la versione pilota dell’anno scorso, dal 13 al 17 aprile Roma ha accolto l’edizione scintillante e superaffollata del BNL Media Art Festival. Grandi numeri, tantissimi artisti e ospiti coinvolti e una fitta rete di eventi e collaborazioni con illustri enti come il MiBACT, il Google Art Institute, la Rufa e molti altri, tutto ciò in nome del connubio tra arte e tecnologia. I veri protagonisti e i diretti interessati del festival, però, sono stati i giovani e il loro futuro. Mai come in questi giorni la complessità dei volumi e le pareti curvilinee del museo MAXXI avevano visto i suoi ambienti gremiti di adolescenti e bambini. Dirette a loro, infatti, erano gran parte delle iniziative promosse; tra le più lodevoli ci sono stati i 12 laboratori per altrettante scuole condotti da 13 artisti, finalizzati a produrre, in sinergia con gli alunni, dei progetti artistici digitali, a cui poi è stato dedicato un concorso, il quale è stato vinto infine dagli studenti seguiti dal sound artist Simone Pappalardo con l’installazione sonora Murmur L.C. Librans: una sorta di Intonarumori1 strampalato costituito da strutture tubolari recuperate dagli scarti della scuola, intrecciate con piccole trombe. Questa assurda orchestrina ha poi preso vita ed è stata suonata il 16 aprile da Pappalardo stesso accompagnato dal flautista Giovanni Trovalusci. Guardando al concorso ufficiale invece, si rimane un po’ frastornati nell’aggirarsi tra le opere affastellate nella semioscurità dello spazio museale, interrogandosi su quale fosse difatti il comune denominatore che le definisse media art, mettendo in conto che oramai video, installazioni e realtà aumentata sono da tempo in ogni museo. Superato questo piccolo disorientamento si sono potuti apprezzare i lavori più interessanti. Tra questi,Tapebook di Cesar Escudero Andaluz è un’operazione di digitalizzazione al contrario, una sorta di analogizzazione del web. Le informazioni prese dai profili Facebook dedicati a pensatori e filosofi (come Lacan, Barthes, McLuhan o Foucault) vengono trasformate in tracce audio riversate sul nastro delle audiocassette. 1
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L’intonarumori è un’opera del 1913 del futurista Luigi Russolo.
Gli utenti ne devono fruire attraverso un piccolo registratore e si scoprono impacciati nell’uso di questa tecnologia da poco abbandonata ma già obsoleta. Tapebook diventa una sorta di social network analogico, in cui per sapere “cosa pensa” un determinato autore bisogna scegliere la relativa cassetta. Di grande attrattiva era Metamorphy, il velo che si anima appena lo si tocca con la mano, opera del duo Scenocosme, mentre meno d’impatto ma frutto di una complessa ricerca scientifica era l’enigmatica Twisted Light. Freddy Paul Grunert, socio fondatore del ZKM Centro per l’arte e Media di Karlsruhe, assieme allo scienziato Fabrizio Tamburini hanno lavorato sulla visualizzazione di ciò che non è percepibile ai sensi umani come i campi magnetici. Facendo un bilancio di questa edizione scoppiettante del festival si può affermare che sicuramente il suo pregio principale è stato quello di aprirsi alle nuove generazione e di introdurle ad un uso creativo della tecnologia, proseguendo la mission del suo principale ente promotore la Fondazione Mondo Digitale. Non si può negare che il direttore artistico Valentino Catricalà abbia cercato di dare un respiro internazionale alla manifestazione, coinvolgendo specialisti dei nuovi media, artisti e ricercatori: primi tra tutti Gerfried Stocker, il direttore del Ars Electronica di Linz il più grande centro di ricerca multimediali europeo assieme aSiegfried Zielinski, studioso tedesco di archeologia dei nuovi media e a Piotr Krajewski, direttore del WRO Art Center di Breslavia. Ci si augura quindi che attraverso questa fitta rete di contatti e relazioni possa nascere anche in Italia un vero centro di ricerca e di riferimento per l’arte e la tecnologia. Intanto ilBNL Media Art Festival si affianca agli eventi consolidati che nella Capitale si occupano da anni di arti digitali, come Digitalife e il LivePerformersMeeting, differenziandosi da questi per la sua veste più istituzionale e ufficiale e per il suo piglio educativo.
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BNL Media Art Festival Roma Arianna Forte
P. Grunert, F. Tamburini, Twisted light
Cesar Escudero Andaluz, Tapebook
After the pilot version of last year, Rome hosted the sparkling and overcrowded BNL Media Art Festival edition, from the 13th to 17th of April. Big talents, a lot of artists and guests involved in it and a packed network of events and cooperation with prestigious corporations like MiBACT, Google Art institute, Rufa and many others, all this to highlight the bond between art and technology. Young people and their future have been the Festival real protagonists and persons concerned. The MAXXI museum volumes complexity and curvilinear walls had never seen, before, their spaces so full of adolescents and children. A big part of the promoted initiatives were aimed for them, among the most praiseworthy ones there were the 12 laboratories, for just as many schools, lead by 13 artists and finalized to produce digital artistic projects in synergy with the pupils, to which a contest was dedicated. The contest winners were the students coached by the sound artist Simone Pappalardo who realized with them the sound installation Murmur L.C. Librans: a sort of odd Intonarumori¹ made of tubular structures recovered from the school scraps, intertwined with small trumpets. This absurd little orchestra then came to life and was played by Pappalardo himself, together with the flutist Giovanni Trovalusci, on the 16th of April. Looking at the official contest, one’s left a bit dazed wandering among the works bundled up in the semidarkness of the space. At first glance one could doubt about which was the common denominator that described them as media art bearing in mind that videos, installations and augmented reality are since long in every museum. Exceeded this little disorientation the most interesting works could be appreciated. Among these, Tapebook by Cesar Escudero Andaluz, which is a reverse digital operation, a sort of web analogized. The information taken from Facebook profiles dedicated to intellectuals and philosophers (like Lacan, Barthes, Mc Luhan or Foucault) are turned into audio tracks and transferred on audiocassettes. The visitors have to enjoy them through a small cassette player and they find themselves clumsy using this technology since short abandoned but obsolete already. Tapebook becomes a sort of analogic social network where, to know what a certain author “thinks”, one needs to choose the related cassette. A big attraction was Metamorphy, the veil that becomes alive as soon as it’s touched by a hand, a work realized by the duo Scenocosme, while of less impact but result of a complex scientific research was the enigmatic Twisted Light. Freddy Paul Grunert, founding member of the ZKM Centre for Art and Media of Karlsruhe, together with the scientist Fabrizio Tamburini have worked on the visualization of what is not perceptible to human senses, like the magnetic fields. Making a budget of this sparkling festival edition we can assert that its main value has surely been its aperture to new generations, introducing them to a creative use of technology, carrying on the mission of its main promoter the Fondazione Mondo Digitale. We cannot deny that the artistic director Valentino Catricalà has tried to give the contest an international breath, by involving new media specialists, artists and researchers: first of all Gerfried Stocker, director of Linz Ars Electronica, the biggest European center of multimedia research, together with Siegfried Zielinski, German academic of new media archeology, and Piotr Krajewski, director of WRO Art Center of Breslavia. We wish that through this extensive network of contacts and relations, a real research and reference center for art and technology could arise in Italy too. In the meanwhile the BNL Media Art Festival pulls up alongside the well-established events that deal with digital arts since many years, like Digitalife and the LivePerformersMeeting, diversifying itself from these for its more institutional role and for its attitude of education.
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IL MURO
di Lidia Decandia
Nell’ambito di ARTE e TERRITORIO. Riflessioni sul Terzo Paradiso con Michelangelo Pistoletto, l’incontro COLTIVARE LA CITTÀ. ARTE COME TRASFORMAZIONE URBANA E SOCIALE, IDEATO DA SITI SOCIAL INNOVATION THROUGH IMAGINATION E CURATO DA STEFANIA CROBE PRESSO L’ISSIS TEODOSIO ROSSI DI PRIVERNO, È STATO L’OCCASIONE PER RIPENSARE CRITICAMENTE L’URBANISTICA E LA SUA LETTURA DELLA REALTÀ. NELLA RIFLESSIONE COLLETTIVA E DAL RACCONTO DI LIDIA DECANDIA DELL’UNIVERSITÀ DI SASSARI, EMERGE UN MODO ALTRO DI FARE RICERCA URBANA E DI GUARDARE AL TERRITORIO, NON ATTRAVERSO LA SUA RAPPRESENTAZIONE MA INNESCANDO NUOVI SGUARDI, NUOVE RELAZIONI, NUOVE INTERPRETAZIONI. UN PROCESSO CHE SI SERVE DI UNA RAZIONALITÀ SENSIBILE, DI UNA CONOSCENZA ESPERIENZIALE E IN CUI L’ARTE ASSUME UN RUOLO CENTRALE IN QUANTO DISPOSITIVO IMMAGINIFICO E AGENTE DI CAMBIAMENTO. Sono un’urbanista sui generis, ho lavorato tutta la vita per capire perché l’urbanistica, così come oggi viene praticata, non serve e non funziona: la mia ricerca si è mossa indietro nel tempo per cercare di comprendere quali fossero le premesse “infondate ma fondanti” che stanno dietro a questa forma di sapere. Risalendo indietro nel tempo e arrivando, attraverso diversi passaggi, a ricostruire la genealogia di questo pensiero, ho capito che gli urbanisti, nel confondere la realtà con la sua rappresentazione, hanno molto spesso confuso la città con la carta che rappresenta la città e hanno immaginato che possa essere pensata non più come un insieme di luoghi prodotti dalle relazioni, visibili e invisibili, stabilite dinamicamente tra gli uomini e i propri ambienti di vita, ma piuttosto come una combinazione di segni e di forme, da collocare in uno spazio continuo e omogeneo. In questo senso, nel separare la forma dalla vita, essi hanno dunque cominciato a immaginare che la stessa città, in quanto tale, potesse essere concepita non come un processo - esito di pratiche e relazioni sociali molto complesse, in cui l’arte, i riti, i miti, e tutti i beni simbolici avevano un ruolo fondamentale - ma piuttosto come un disegno, un prodotto di una
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mente, elaborato in un laboratorio, in uno studio chiuso, separato dalla vita e successivamente trasferito in un unico tempo, con un atto d’imperio, su un territorio immaginato come una superficie vuota, senza vita e senza storia. A partire dal disagio che ho provato nei confronti di questo sapere, ho cominciato un altro percorso che mi ha portato, sulla scia di alcuni grandi maestri, a ripensare molte delle premesse su cui si fonda l’urbanistica. Per questo ho fondato un piccolo laboratorio che già nel nome traccia le prime orme di un pensiero diverso. Il laboratorio si chiama Matrica laboratorio di fermentazione urbana. Ho scelto questo nome perché, già nel suo significato profondo, contiene una maniera altra di intendere il progetto urbano. La matrica, infatti, nel dialetto gallurese, che è il dialetto della mia terra (la Gallura, una micro regione della Sardegna) è “la mamma”, la matrice da cui si sviluppa e prende forma il “miciuratu”: così noi chiamiamo lo yogurt. La matrica dunque è un po’ di yogurt che viene prelevato ogni volta dal latte appena quagliato per essere messo da parte e conservato per preparare, una volta finito quello vecchio, il nuovo miciuratu per il giorno dopo. Si tratta in poche parole di un piccolo nucleo
LA RUOTA PANORAMICA
di fermenti che, nel mettere in moto un processo di trasformazione, permette al latte di solidificarsi e diventare yogurt. E’ proprio facendomi alimentare da questa immagine che, anziché continuare a fare i piani urbanistici, ho cominciato a pensare fosse più proficuo, per produrre città, lavorare per mettere in moto dei fermenti creativi sul territorio. Ho messo in piedi, dunque, questo laboratorio che invece di produrre oggetti, o progetti finiti, vuole configurarsi come una sorta di agente lievitante – una matrica appunto – che lavora per innescare processi di produzione creativa. L’ho immaginato come un luogo in cui raccogliere e condensare, in un ambiente caldo e accogliente, i fermenti presenti sul territorio e dar loro forza; in cui prendersi cura delle piccole piante e dei germogli più fragili, costruire ambiti di sperimentazione e contesti perché tutte queste virtualità latenti possano attualizzarsi e fiorire in forme non precostituite. Un luogo capace di utilizzare il tempo come principale materiale da costruzione, di produrre eventi, attivare potenze creatrici, creare concatenamenti e risonanze attraverso cui far lievitare, circolare e socializzare la produzione di una nuova cultura urbana. L’idea che è alla base di questo laboratorio è quella di agire “dove la vita già agisce” per contribuire a far emergere qualcosa di nuovo. Un nuovo che non nasce dal niente, ma che si sviluppa a partire da una memoria generatrice, che alimenta e nutre radici che affondano nel profondo, facendo germinare, crescere e sviluppare cose che prima non c’erano, che aiuta a far prender forma ai barlumi che stavano nell’ombra senza riuscire a venire alla luce. In questo senso il laboratorio non si configura come luogo impaziente e frettoloso dove cercare soluzioni facili, ma piuttosto vuole diventare un contesto fecondo e rassicurante, avvolgente, come una coperta, dove chi lo pratica sa che ci vuole del tempo perché una creazione si sviluppi. Una sorta di placenta d’ombra in cui prendersi cura con pazienza del pensiero fragile, in cui coltivare le diversità e le singolarità dei luoghi e delle persone. L’ho immaginato come un luogo in cui lavorare lontano dalle luci accecanti della visibilità che corrode e semplifica, in quegli spazi intermedi, in quelle radure del pensiero, in quelle pieghe che la luce dei riflettori non illumina e in cui si produce la vita. Un luogo in cui lavorare per disincagliare le abitudini percettive e individuare strade, per riaprire un dialogo con la profondità del mondo, assecondare la “confessione creativa della forma in fieri”, costruire dispositivi di esistenza attraverso cui alimentare la potenza di quelle minuscole forme di vita che, proprio perché abituate a svilupparsi nei territori difficili, sanno riprodursi in forme minute e capillari, aprire crepe e non lasciarsi soffocare da quella terra resa arsa dalla luce troppo forte del pensiero omologante. So che con le piccole azioni che Matrica può mettere in atto sicuramente non si cambierà subito il mondo, ma siccome ho molta fiducia e molta speranza nella vita, credo che sia importante oggi più che mai gettare sementi, diffondere fermenti nelle comunità e sui territori, perché possano contribuire a far emergere, domani, delle creazioni nuove che non ripetano ciò che abbiamo già conosciuto. Ne abbiamo un grande bisogno: dobbiamo immaginare forme nuove di urbanità che superino i tradizionali concetti di città e campagna con cui abbiamo pensato di dividere il territorio. Ormai non possiamo più parlare di città in termini tradizionali. Le città che conosciamo non sono altro che dei simulacri di città: chi di voi va in Piazza Navona, a Roma, non vede più la vita sociale che ha prodotto la piazza, vede solo una quinta, uno sfondo usato da turisti distratti. La stessa cosa succede a
Firenze in Piazza della Signoria, che era il luogo dello scambio vitale della vita urbana. Queste piazze sono anch’esse delle forme che ormai si sono separate dalla vita. Forse allora la città non è più dove pensiamo che sia, ma questo non ci deve far dire che la città è morta. Ci sono, spesso lontano dai centri delle città antiche, nuovi embrioni di città in formazione che probabilmente daranno vita a nuove forme di urbanità che si genereranno grazie a tutti i fermenti creativi che sono già al lavoro. Come dice Stefania Crobe nella sua tesi di dottorato, il mondo non è solo un mondo in rovina, è un mondo in cantiere. D’altronde, come la Storia ci insegna, non esiste un’unica idea di città: ogni epoca ha avuto il suo modo di pensare la città. Quando per esempio, dopo la caduta dell’Impero Romano, la città si sgretola, gli embrioni di una nuova vita urbana, vengono ricreati nei monasteri sparsi sul territorio. Oggi come allora la città si evolve nel tempo: prende sembianze nuove. A questo proposito l’idea di Terzo Paradiso è particolarmente interessante. Proprio perché apre una nuova prospettiva di urbano che supera le stesse tradizionali dicotomie fra città e campagna, lavora per generare nuovi nuclei di urbanità. Anzi, come vediamo in questa esperienza in corso promossa da SITI, i fermenti lanciati da questa idea sono già all’opera e stanno producendo processi sociali diffusi, che mostrano come un’inedita città sia già in formazione. E’ interessante osservare che questi nuclei di urbanità molto spesso non sono nelle roccaforti delle città antiche, ma nascono proprio nei luoghi marginali, lì dove si lavora per produrre forme nuove dello stare insieme, beni simbolici e immaginari alternativi al pensiero dominante, a quella società del consumo che ci ha insegnato solo a desiderare degli oggetti e delle cose e a non coltivare più la facoltà desiderante. In un momento in cui questa società del consumo mostra sempre di più le sue crepe, infatti, in tutti questi luoghi, dove l’idea di Terzo Paradiso viene praticata, è proprio questa facoltà desiderante ad essere riattivata. Nel riprendere l’antica funzione dell’arte che non riduceva mai il desiderio al semplice godimento di oggetti, questa idea, con la sua carica e la sua forza immaginativa, rimette in moto il desiderio di qualcosa di importante e di grande: ci spinge ad immaginare un mondo nuovo verso cui tendere. Nel rimettere in moto quei germi che alimenteranno i processi da cui emergeranno le nuove città, ci spinge a tornare a “guardare le stelle”. Nel costruire beni simbolici alimenta, infatti, la speranza, proponendoci un percorso nuovo. Dove qualcuno si fa ambasciatore del Terzo Paradiso, li sta nascendo la città nuova. Questa città, proprio grazie alle possibilità che oggi offrono le nuove tecnologie, non è più una città concentrata, ma è una città diffusa, interconnessa, fatta di embrioni sparsi per il mondo che interagiscono e collaborano in rete per produrre pensieri vitali e inattesi. Questa città non ha un centro ma molteplici centri. In ognuno di essi si lavora attivamente, febbrilmente, così come avveniva negli antichi monasteri, per produrre qualcosa di nuovo. In ognuno di questi centri, proprio nel rimettere al centro l’arte e la sua capacità di essere “attivatrice di novità”, si producono pensieri e idee che già stanno contribuendo a costruire un mondo migliore. Forse allora il Terzo Paradiso, non dobbiamo attenderlo, ma è già qui. Dobbiamo solo cominciare a riconoscerlo e contribuire a farlo attecchire, crescere e sviluppare. © Riproduzione riservata Lidia Decandia è docente di Storia della città e del territorio e Progetto nel contesto sociale presso l’Università degli Studi di Sassari
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IL MURO
Lidia Decandia
DURING ARTE E TERRITORIO. RIFLESSIONI SUL TERZO PARADISO CON MICHELANGELO PISTOLETTO, THE MEETING COLTIVARE LA CITTÀ. ARTE COME TRASFORMAZIONE URBANA E SOCIALE - CURATED BY SITI SOCIAL INNOVATION THROUGH IMAGINATION UNDER THE GUIDE OF STEFANIA CROBE, AT THE ISSIS TEODOSIO ROSSI IN PRIVERNO (ITALY) HAS BEEN THE OCCASION TO, CRITICALLY, THINK OVER URBAN PLANNING AND ITS INTERPRETATION OF REALITY. IN THE COLLECTIVE THOUGHT AND FROM THE REPORT OF LIDIA DECANDIA OF SASSARI UNIVERSITY, EMERGES A DIFFERENT WAY TO DO URBAN RESEARCH AND TO LOOK AT THE TERRITORY, NOT THROUGH ITS REPRESENTATION BUT TRIGGERING NEW LOOKS, NEW RELATIONS, NEW INTERPRETATIONS. A PROCESS THAT USES A SENSITIVE RATIONALITY, AN EXPERIENCE KNOWLEDGE AND WHERE ART ASSUMES A CENTRAL ROLE BECAUSE IT’S AN IMAGINATIVE DEVICE AND CHANGE AGENT.
I’m an atypical urban planner, I’ve worked all my life to see why city planning doesn’t work in the way it’s done today: my research moved back in time trying to comprehend which were the unfounded but founding preconditions behind this form of knowledge. Coming from back in time and getting, through several steps, to rebuild the genealogy of this thought, I’ve understood that urban planners - while confusing reality with its representation - have very often mistaken the city with the paper that represents the city, imagining that it might be thought no longer as a set of places produced by the visible and invisible dynamic relations established between people and their life environments, but more like a combination of signs and forms instead, to put in a continuous and homogenous space. Separating the form from the life, they have started to imagine that the city could be conceived not like a process - result of complex procedures and social relations, where art, rituals, myths and all the symbolic goods had a fundamental role but rather like a project, a mind product, made in laboratory, in a closed study, separated from life and then transferred in a
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moment on a territory imagined like an empty surface, lifeless and without a story. Starting from the discomfort I’ve felt about this knowledge, I’ve started another path which took me, following some great masters, to think over many of the preconditions on which city planning is based. For this reason I’ve founded a little laboratory that already in its name traces the first vestiges of a different thought: Matrica - laboratory of urban fermentation. I’ve chosen this name because, already in its deep meaning, it has a different way to concive the urban project. The matrica, in my homeland Gallura dialect (a micro region of Sardinia) is “ the mother”, the starter from which develops and take form the miciuratu: that’s how we call the yogurt. So the matrica is a small amount of yogurt which is kept to make new yogurt when the old one has finished. It’s a little nucleus of ferments that starts a transformation process and allows the milk to solidify and become yogurt. It’s just feeding myself from this image that, instead of continuing to do urban plans, I started to think it would be more
THE BIG WHEEL
profitable, to produce cities, work in order to start creative ferments on the territory. I’ve developed this laboratory that instead of producing objects wants to constitute itself as a sort of rising agent – a matrica – that works to start processes of creative production. I’ve imagined it as a place where it’s possible to gather and condense the ferments on the territory and strengthen them, in a warm and comfortable environment; where take care of the small plants and more delicate sprouts, create experimentation areas and contexts so that all the latent potentialities could actualize and flower in not precast forms. A place able to use time as main building material, to produce events, activate creative powers, create connections and resonances through which a new urban culture production could rise, circulate and become social. The idea at the base of this laboratory is to act “where life is already acting” contributing to make something new that develops starting from a generating memory that feeds and nourishes roots sinking in the deep, that germinates, grows and develops things that didn’t exist before, helping to shape the glimmers that were in the shadows and couldn’t come to light. In this sense the laboratory doesn’t come up as an impatient and rushed place where to look for easy solutions, but it wants rather become a reassuring and rich context, enveloping like a blanket; who attends it, knows it takes time before a creation develops. A sort of placenta shadow where patiently taking care of the fragile thought, growing places and people’s dissimilarities and singularities. I’ve imagined it as a place where to work far from the blinding lights of mainstream that corrodes and simplifies, in those intermediate spaces, in those thought clearings, in those creases not lighted by the spotlights and where life is produced. A place where to work to refloat the perceptual habits and find ways to open a communication with the world deepness, comply the “creative confession of the form in fieri”, build existence devices through which fuel the power of those tiny forms of life that are used to develop in hard territories and so they can reproduce themselves in widespread and tiny forms, open cracks and don’t let themselves suffocate from that land dried out by the light of the homologating thought. I know that Matrica can actualize just small actions so the world won’t change soon, but as I’ve got a lot of faith and hope in life, I think today is more important than ever to sow the seeds, spread ferments among communities and territories, so that they can contribute tomorrow to make emerge new creations which don’t repeat what we have aknowledged already. There’s a big need of them: we have to imagine new urban forms that would go beyond the traditional concepts of city and countryside with which we part the territory. We cannot speak anymore about cities in traditional terms. The cities we know are only simulacra of cities: going to Piazza Navona, in Rome, one doesn’t see anymore the social life the square has produced, but only a wing, a set for distracted tourists. The same thing happens in Firenze at Piazza della Signoria, which used to be a vital place of urban life. Also these squares are by now forms that have been separated from life.
Maybe the city isn’t anymore where we think it is, but this shouldn’t make us say that the city is dead. There are, often far from the old city centers, new growing embryos of cities that will probably give life to new urban forms, which will generate thanks to all the creative ferments that are already in progress. As Stefania Crobe says in her Ph.D. thesis, the world is not just a decadent world, it’s a world in construction. Besides, as History tells us, it doesn’t exist only one idea of city: each era had its way to think the city. After the fall of the Roman Empire the city crumbles and the embryos of a new urban life are recreated in the monasteries situated on the territory. Today as then, the city evolves with time and gets new features. The idea of Third Paradise is interesting. It opens a new perspective of city that goes beyond the same traditional dichotomies between city and countryside, it works to generate new centers of urbanity. As we see in this experience promoted by SITI, the ferments launched by this idea are already at work and are producing social processes, which show how an innovative city is in formation already. It’s interesting to observe that very often these units of urbanity are not in the old cities fortresses, but originate in marginal places, where to work to produce new forms of being together, imaginary and symbolic goods alternative to the dominant thought, to the consumer society that’s taught us only to want objects and things but not to cultivate the desiring will. Now that the consumer society shows always more its cracks, in all the places where the idea of Third Paradise is put into practice, the desiring is reactivated. Taking back the old art function which didn’t ever limit the desire to the simple enjoyment of goods, this idea, with its imaginative strength, starts again the desire of something important and big: it pushes us to imagine a new world. Restarting the seed that will feed the process from which will emerge the new cities, it pushes us “to look at the stars” again. Creating symbolic goods, it feeds the hope, proposing a new path. Where somebody is messenger of the Third Paradise, there is going to be born a new city. This city, just thanks to the possibilities that new technologies offer today, isn’t a concentrated city anymore, it’s an interconnected spread city instead, made of embryos that interact and cooperate in a net to produce unexpected and vital thoughts. This city hasn’t got one center but more centers. Each of them works actively to produce something new like it used to happen in old monasteries. In each one of this centers art is the main “news activator” which contributes to build a better world. Maybe we don’t have to wait for the Third Paradise, maybe it’s here already. We should only start to recognize it and help it to take root, grow and develop. © All Rights reserved. Lidia Decandia, Ph.D., Associate Professor of Urban Planning at the Faculty of Architecture, University of Sassari (Alghero), where she coordinates the didactic unit “Planning in the Social Context” and teaches Territorial Planning and History of the City and Territory.
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Venezia. di Giulia Pergola
LA RECHERCHE
S
e si percorre Calle del Forno in direzione della Laguna ci si ritrova catapultati in un mare di luce sulla Riva degli Schiavoni. Questo punto esatto può essere considerato lo spartiacque tra il fastidioso fragore di un turismo sfrenato e superficiale e la quiete luminosa che avvolge quest’ultimo spicchio di città in un’atmosfera ovattata e surreale. Di giorno Venezia è un enorme parco giochi affollato da turisti grassi e da americani che indossano infradito anche quando imperversano i temporali di metà gennaio. Sono assorti, confusi, estasiati e ti chiedono: “A che ora chiude Venezia?” Venezia chiude generalmente tra le 20 e le 21, quando i turisti si rintanano nei loro rifugi e gli unici, pochi rumori che si avvertono sono i passi svelti di qualche impavido ritardatario. L’accecante riflesso azzurrato che nelle ore diurne pervade campi e calli lascia spazio alle fioche luci giallognole di qualche lampione che emerge timidamente dal buio. Venezia muore ogni notte. Avvolge con la sua nebbia impenetrabile ogni nostra paura; ci culla con il ritmo delle piccole onde che si infrangono sotto i nostri passi. Venezia muore e ci vuole portare con sé, seducendoci con la sua apparente immobilità, con i suoi cieli stellati e una precaria promessa di silenzio. Maschere terrificanti aspettano il loro riscatto dietro le basse vetrine.
Venezia muore ogni notte, ma il mattino seguente fatica a ridestarsi sotto il passo ossessivo di questo fiume di carne. Solo la luce metafisica della domenica mattina le ridona il meritato splendore. Da Sant’Elena si gode in pace di una vista struggente sui piccoli accidenti cittadini. Poi su, verso la bellezza virile dell’Arsenale, immersi nella superstite autenticità di Castello. I più coraggiosi percorreranno il perimetro esterno dove ad eclissare l’anonima Murano ci pensa il Cimitero di San Michele: protetto da una cortina di mattoni e cipressi, galleggia sull’acqua anche lui, specchiandosi con gli altri inquilini della sponda opposta. Chi sono i vivi? Dove sono? Qui si diventa nebbia e umidità, o in alternativa, se non si cede ad alcun patto, si rimane carne da macello. Vivere (a) Venezia è una sfida; sopravviverle una ancora più grande. Così come Piazza San Marco sfida la Laguna quando annega silenziosamente nel riflesso delle sue stesse luci durante l’alta marea. O come i merletti di Palazzo Ducale e il campanile di San Giorgio dei Greci sono lì a ricordarci che sono costruiti sul fango e che sul fango galleggiano e nel fango sprofondano. Precari, sospesi, irreali.
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Venice. Giulia Pergola
I
f you walk through Calle del Forno towards the Laguna you will end in a flood of light on the Riva degli Schiavoni. This point, exactly, can be considered a watershed between the unbridled and superficial tourism bothering noise and the bright quietness that envelops this last part of the city into a muffled and surreal atmosphere. Venice is a big playground during daytime; it’s crowded with fat tourists and Americans who wear thongs even during January thunderstorms. They are absorbed, confused, captivated; and they ask to you: “What time does Venice close?” Venice usually closes between 8 p.m. and 9 p.m. when tourists are going to hide into their shelters and the only few sounds come from the fast steps of some fearless latecomer. The dazzling bluish glare that invades fields and allies leaves now space to the weak yellowish light of some street lamp that shyly emerges from darkness. Venice dies every night. It encloses our fears with its impenetrable fog; it lulls us with the rhythm of the waves that shatter under our feet. Venice dies and wants to take us with it, seducing us with its apparent stillness, with its starry sky and a precarious promise of silence. Frightening masks wait for their redemption behind the shop windows. Venice dies every night, but the morning after it struggles
to awaken under the unrelenting steps of this flesh stream. Only the metaphysical Sunday light gives back the city its deserved magnificence. From Sant’Elena you can enjoy a heart wrenching view over the city mishaps. Then, going on immersed into the surviving genuineness of Castello, towards the masculine beauty of the Arsenal. The bravest will walk the outer perimeter where San Michele Cemetery eclipses the featureless Murano. The cemetery, floating on the water too, is protected by a brick and cypresses curtain, mirroring with the other tenants of the opposite bank. Who are the living? Where are they? Here you become fog and humidity, or alternatively, if you don’t yield any pact, you remain cannon fodder. Living in Venice is a challenge; surviving to it is an even greater one. As well as Piazza San Marco defies the sea when it silently drowns in the reflection of its own lights, during high tide. Or as the Palazzo Ducale laces and the bell tower of San Giorgio dei Greci are there to remind us they are built on the mud and on the mud they float and in the mud they sink. Precarious, suspended, unreal.
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IL MURO
CORE/DEMETRA 2.0 di Arianna Forte
Tra una taranta siciliana e una proiezione digitale si leva la danza furente della coreografa palermitana Giovanna Velardi, in scena sul palco del Teatro Palladium di Roma all’interno dell’iniziativa AprileInDanza. In Core/ Demetra 2.0 il mito diventa mezzo per liberare un grido rabbioso e disgustato, un grido ringhioso del tutto femminile. Demetra e sua figlia Persefone (Core) diventano il paradigma della Donna/ Madre/ Terra violata e disastrata dalle logiche degli uomini che continua a generare e nutrire. La sessualità feconda della dea eleusina è connotata dal moltiplicarsi esponeziale dei suoi seni che offre generosamente nella sua nudità primordiale, così rappresentata ricorda la prosperità della statua dell’Artemide efesia 1 . Mentre lei e le sue vestali si librano in gioiosi riti dionisiaci scanditi dai tamburelli e dai canti popolari della Balistreri, sullo sfondo capeggia un uomo vitruviano in fiamme, inquietante monito di quanto non sia l’uomo la misura effettiva di tutte le cose. Difatti l’equilibrio e la solidarietà matrilineare sono interrotti nell’irromprere nella scena dell’unico personaggio maschile, Ade, che con la sua concupiscenza mortifera trascina Core nel marasma infernale della società odierna. Qui, tra movimenti inorganici e nevrotici e sonorità elettroniche disturbanti, la donna è diventata una Barbie scattosa e 1
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( ) Sempre in tema di fecondità e di nutrimento attraverso il latte una silloge perfetta può essere considerata l'Artemide Efesia conservata nel museo Archeologico di Napoli, una replica romana in alabastro della statua del santuario di Efeso, simbolo di fertilità e di forza vitale, ben espresse dalle numerose file di mammelle pendule, alle quali fanno da contraltare i poderosi scroti dei tori sacrificati. La dea dai molti seni ha un grande ascendente sugli uomini e sugli dei, infatti sia gli uni che gli altri la cercano e la desiderano e lei può ottenere tutto ciò che vuole. Le donne la guardano viceversa con stupore ed invidia per l'autorità ed il potere che possiede. Al suo cospetto le mani vogliose dell'uomo rimangono incerte su quale seno afferrare e finisce per stringerli tutti assieme appassionatamente, rischiando di soffocarne qualcuno. http://www.guidecampania.com/;
inerme; l’unica a ribellarsi è una macellaia che lanciando polli di plastica, in uno strettissimo dialetto palerimitano, da voce all’accorato e centrale sfogo contro il potere patriarcale. Alla scenografia digitale di Dominik Barbier e Anne Van Den Steen è affidato il ruolo di compiere la trasfigurazione da mito ad accusa e funesto presagio. Come nelle sue Sculptures animées, cifra stilistica di Barbier, l’enorme testa della statua che presidia sul palco si anima tramite un sorprendente video mapping e cita tuonante i passi conclusivi dell’Hamletmachine. Le figure mitologiche di Demetra e Cora si fondono con il personaggio dell’Ofelia di Heiner Muller, la donna (madre-terra) che finalmente si ribella al ruolo teatrale-sociale a cui è storicamente condannata: smette di uccidersi e si arroga il diritto estremo di negare la dote biologica del procreare per invece inneggiare alla distruzione della comunità malata che ha generato. “Trasformo il latte dei miei seni in veleno mortale. Mi riprendo indietro il mondo che ho dato alla luce. Soffoco tra le mie cosce il mondo che ho partorito. Lo seppellisco nella mia vagina. Abbasso la gioia della sottomissione. Viva l’odio, il disprezzo, la rivolta, la morte 2 . Quando verrà nelle vostre camere da letto con un coltello da macellaio, saprete la verità. Via gli uomini 3 .” È un paesaggio nefasto quello descritto dai gesti spasmodici e stizziti della Velardi al quale propone un recupero irruento e violento della femminilità ancestrale imbrigliata e censurata nel mondo contemporaneo.
2 HEINER MÜLLER, Die Hamletmaschine (1977), traduzione di Karl Menschengen, Maldoror Press, gennaio 2012; 3 Solo quest’ultima frase è citata in francese dalla statua.
WHAT'S HAPP
CORE/DEMETRA 2.0 Arianna Forte
1 “[…] About fecundity and nourishing through milk, a perfect anthology can be considered Artemis Ephesia kept in the Archeological museum of Naples, an alabaster Roman copy of the statue in the sanctuary of Ephesus, symbol of fertility and vital strength, well represented by the several pendulum breasts, to which the sacrificed bulls’ powerful scrotums act as a counterpart. The goddess with many breasts has a big influence upon men and gods, as a matter of fact they all look for and want her so she can get all that she wants. Women look at her amazed and with envy for the authority an power she’s got. Before her the man’s eager hands don’t know which breast to grab so he ends up squeezing them all together passionately, risking to suffocate someone.” http://www.guidecampania.com/;
tro sounds, the woman has become a jerky and helpless Barbie; the only woman to revolt is a butcher who throws plastic chickens around and, with a strong dialect from Palermo, give voice to the heartfelt vent against the patriarchal power. The digital settings of Dominik Barbier and Anne Van Den Steen had the role to fulfill the transfiguration from myth to accusation and baleful omen. Like in his Sculptures animèes, Barbier’s stylistic figures, the huge head that guards on stage animates through a surprising video mapping and quotes thundering the final steps of the Hamletmachine. The mythological figures of Demetra and Core blend with Heiner Müller character of Ofelia, the woman (mother – earth) that finally rebels to the social-theatrical role to which she is historically convicted: she stops killing herself and claims the extreme right to deny the biological gift to procreate and praise the destruction of the sick community she has generated. “ I turn my breast milk into deadly poison. I take back the world I’ve generated. I suffocate between my thighs the world I gave birth. I bury it in my vagina. Down with the joy of submission. Long live the hatred, contempt, insurrection, death 2 . When he’ll come in your bedrooms with a butcher knife, you’ll know the truth. Away the men 3 .” Velardi’s angry and spasmodic gestures describe a baleful landscape to which she proposes an impetuous and violent recovery of the ancestral femininity trapped and censored in contemporary world.
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HEINER MÜLLER, Die Hamletmaschine (1977), Maldoror Press, January 2012. Traslation by the editor;
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Only this last sentence has been mentioned in French by the statue.
ph. Lorenzo gatto
Giovanna Velardi - Italian choreographer from Palermo created a dance that arises between a Sicilian taranta and a digital projection, on stage at Palladium Theatre in Rome, within the initiative AprileInDanza. In Core/Demetra 2.0 the myth becomes a way to release an angry and disgusted cry, a snarly feminine cry. Demetra and her daughter Persefone (Core) become the paradigm of the Woman/ Mother/ Land, violated and devastated by men logics, who she keeps generating and feeding. The fecund sexuality of Eleusis goddess is characterized by the staggering multiply of her breasts that she generously offers in her primordial nudity - reminding the prosperity of Artemis Ephesia statue 1 . While she and her vestals hover in joyful Dionysian rites scanned by drums and Balistreri’s popular songs, in the background heads up a Vitruvian man in flames, threatening warning about how the man is not the real measure of all things. In facts the matrilineal solidarity and balance are interrupted by the burst on the scene of the only one male character, Pluto that uses his deadly concupiscence to drag Core in the hell-like chaos of today’s society. Between inorganic, neurotic movements and disturbing elec-
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IL MURO
ARUÁN ORTIZ
Il racconto delle Hidden Voices recensione e intervista di Jamila Campagna
Può un suono essere portatore di un’esperienza personale e al contempo di una memoria collettiva? Può la musica essere espressione di dell’intero campo dell’estetica? Hidden Voices è il concept album del pianista jazz cubano Aruán Ortiz - realizzato in trio con Eric Revis e Gerald Cleaver - un album che riassume una ricerca che va, passo dopo passo, dall’esperienza di vita del pianista fino al significato del cultural heritage, passando per lo studio della forma. Hidden Voices non è solo un album di avant-garde jazz che rappresenta l’attitudine cosmopolita e sperimentale di Aruán Ortiz; Hidden Voices è un narrazione. La narrazione gira attorno a un doppio legame: l’impatto della musica contemporanea sulle sonorità caraibiche è il punto da cui il musicista parte per incorporare la musica tradizionale cubana e haitiana nella sua produzione. Qui costruisce una sorta di campo magnetico di cui la cultura cubana è il centro, il nucleo dove avviene un processo attraverso l’integrazione di influenze differenti. Un percorso di 10 tracce per scoprire che Geometria e Storia sono argomenti dello stesso discorso. La combinazione di elementi ha carattere ideologico e, allo stesso tempo, è l’approccio ad una ricerca profonda che mira alla creazione di un sound nuovo e autentico. Fractal Sketches apre l’album con un ritmo energico ed esplosivo, Uno, Dos y Tres, Que Paso Más Chevere è il brano tradizionale cubano che chiude la serie. Nel mezzo, strutture naturali trovano continuità nelle stagioni in Arabesques of a Geometrical Rose, divisa in due tracce - Spring e Summer -; gli standard Open&Close e The Sphynx trovano l’interpretazione di Ortiz; Joyful Noises possiede la brillantezza dell’inventiva; ma è la terza, Hidden Voices - Caribbean Vortex a dare la chiave di accesso a tutto: la base ritmica è usata come uno strumento e ci conduce sulla strada dell’avanguardia artistica, dove la musica è la condensazione dell’universo e l’improvvisazione è il modo per attraversarlo.
Ho incontrato Aruán Ortiz a Milano lo scorso 20 marzo, il giorno prima del suo concerto in città. Non ho semplicemente incontrato il pianista, violista, compositore e produttore, nato a Cuba, attivo a New York e acclamato in tutto il mondo; ho incontrato una persona affabile e generosa, felice di di condividere il suo punto di vista sull’arte e di spiegarmi qual è la sua missione nella musica. Ho incontrato un ricercatore, ho incontrato un Maestro del jazz. 1 Vuoi raccontarci il tuo percorso musicale da Cuba a New York? Studiavo e suonavo a Cuba, da cui sono andato via nel 1996 quando ho avuto l’opportunità di trasferirmi in Spagna per studiare pianoforte classico sotto la guida di un grande insegnante, il pianista cubano Cecilio Tieles; successivamente, ho studiato presso l’Aula de Musica Moderna y Jazz di Barcellona, guidato dal bassista Oratio Fomero. Grazie a questa scuola ho avuto l’opportunità di fare un’audizione e ottenere una borsa di studio presso il Berklee College di Boston. Giunto a Boston ho iniziato a suonare con molti musicisti, molti dei quali provenienti d New York, finché non ho avuto l’opportunità di suonare piano e tastiere con Wallace Roney. Lui mi ha incoraggiato a trasferirmi a New York. La scena jazz di New York ha rappresentato la mia crescita come
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persona e come artista ed è stata per me l’occasione di avere una visibilità internazionale. 2 Sei d’accordo con me nel dire che la tua musica è una ricerca? La mia musica è frutto di molte influenze; dire che, provenendo da Cuba, vivendo e studiando in Spagna ed essendomi poi trasferito negli Stati Uniti, dove ho studiato e condiviso il palco con quelli che considero i più grandi musicisti jazz di oggi, ho avuto modo di assorbire molte idee e materiali da loro e poi ho ridisegnato la mia musica con un taglio molto personale. Provo ad assorbire idee da una varietà di fonti artistiche ed estetiche non necessariamente legate alla musica. Quindi il mio lavoro è quello di trasferire tutti i parametri e i principi fondamentali delle altre forme d’arte nella composizione musicale, nell’improvvisazione, nella musica creativa. Mi affascina dialogare con gli artisti, parlare di forme, come le vedono e le concepiscono, cosa significano per loro. Nel mio ultimo album Hidden Voices sono molto interessato all’architettura, come posso vedere le forme architettoniche e come posso tradurle in musica, come posso usare un elemento che posso trovare nel design, nell’architettura della natura, come i frattali, i riflessi, come posso portare la simme-
tria, lo specchio, le immagini distorte, nella musica. Il mio processo creativo nell’ultimo album è questo: combinare elementi e influenze differenti e filtrarli attraverso il mio processo creativo per farli convergere in una unica voce, in un unico sound. Allo stesso tempo, ho un ritmo che definisce il mio essere cubano, come accade, per esempio, in titoli come Caribbean Vortex - Hidden Voices: ho provato a visualizzare come si muove un vortice, a dare l’idea di come si muove un vortice nei Caraibi dunque, ho usato molti ritmi caraibici e allo stesso tempo ho lavorato su come un mulinello possa muoversi in modi differenti per creare soluzioni ingannevoli; è molto interessante per me realizzare una sorta di trapianto di cellule. 3 Qual è l’importanza dell’improvvisazione nella tua musica? L’improvvisazione è un aspetto molto importante nel creare musica; sono solito combinare materiale scritto con materiale improvvisato in modo tale che non si possa dire in che momento la parte scritta finisca e dove inizi l’improvvisazione. Provo a incorporare l’improvvisazione all’interno della struttura, senza nessuna separazione dalla parte scritta. Così ho un approccio differente verso la musica stessa, è come se fosse sem-
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pre generata in quell’esatto momento; la chiamo musica viva. Non si riesce a vedere che c’è una melodia e l’improvvisazione e poi un’altra melodia, perché posso riorganizzare tutte queste informazioni in modi differenti, non c’è un ordine preferenziale. Improvvisazione e materiale scritto hanno lo stesso valore nel disegno della composizione. È tutto parte dello stesso collage 4 Qual è il concept principale alla base di Hidden Voices? Uno dei concetti fondamentali dietro l’album è nato dal mio interesse per la produzione del compositore grecofrancesce Iannis Xenakis. Xenakis ha scritto un libro intitolato Music and Architecture: ho usato questo titolo per una serie di concerti che ho curato a New York nel 2013. Non appena ho avuto modo di realizzare questo album, ho lavorato per strutturarlo e arrangiarlo per un trio format. Ad esempio, titoli come Fractal Sketches, Analytical Simmetry, Arabesque of Geometrical Rose erano parte della mia serie Music and Architecture. Inoltre, sono tornato a Cuba nel 2014 per studiare la musica e i ritmi di Cuba e Haiti con le comunità locali e conoscere l’impatto di quelle sonorità nella vita sociale e culturale di Santiago de Cuba, la mia città natale; lì ho trascoro un periodo fantastico lavorando con
loro, seguendo lezioni, ascoltandoli suonare. Ho acquisito moltissime informazioni da queste comunità. Una delle mie missioni principali è restituire i ritmi afro-cubani e haitiani in un vocabolario più contemporaneo, permutandoli ed espandendoli. Ho provato ad usare quel materiale grezzo filtrandolo nel mio processo creativo. Tra i miei punti di riferimento musicali negli ultimi anni c’è Muhal Richard Abrams della AACM (Association for Advancement of Creative Musicians); nomi come Henry Threadgill, Roscoe Mitchell, George Lewis, persone con una voce assoluta e senza compromessi, devoti al loro processo creativo. Questa è un’altra angolazione che si riflette nella mia musica: Music and Architecture, influenze cubano-haitiane e avant-garde jazz. 5 Hidden Voices. Cosa puoi dirci di questo titoli affascinante e misterioso? Hidden Voices, le voci nascoste, non hanno segreti. È possibile interpretare questo titolo da vari punti di vista. Il principale è legato alla prima traccia del mio album che si intitola Carribean Vortex - Hidden Voices. Si tratta di un vortice caraibico perché ho usato, come dicevo, un pattern di ritmi cubani e haitiani permutando percussioni e claves. C’è questa permutazione nella base e poi il trio
vi suona sopra, permutando ciò che era già permutato. Le voci nascoste sono riferite al fatto che la base ha una melodia ma tu non riesci a comprenderla realmente, perché è nascosta dentro tutto ciò che accade sopra di essa. Hidden Voices è anche un tributo verso tutte le persone che sono state figure chiave nella nostra carriera e nella nostra vita ma restano sconosciute, nascoste, ma la loro guida e i loro consigli hanno dato un grande apporto alla nostra crescita come persone e come professionisti. Allo stesso tempo, le voci nascoste sono tutte quelle culture da cui proveniamo, ma che non conosciamo direttamente, i nostri antenati, che attraverso la trasmissione orale hanno definito il nostro heritage culturale, chi siamo ora, perché parliamo nel modo in cui parliamo, perché possediamo determinate influenze. Tutto questo è il concept alla base di Hidden Voices. GUARDA L'INTERVISTA WATCH INTERVIEW
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IL MURO
ARUÁN ORTIZ
Hidden Voices’ speech review and interview by Jamila Campagna
Can a sound bring the signs of a private experience and of a collective memory too? Can music be the expression of the whole aesthetic field? Cuban pianist Aruán Ortiz’s Hidden Voices is a concept album - realized in trio format with Eric Revis and Gerald Cleaver - that sums up a kind of musical research, which goes step by step from his personal life experience to the meaning of cultural heritage, passing through the study of form. Hidden Voices is not only an avant-garde jazz album that represents Aruán Ortiz’s cosmopolitan and experimental attitude; Hidden Voices is a narration. The narration comes around a double bond: the impact of contemporary music in Caribbean sounds becomes the start to incorporate traditional Cuba-Haitian music into his music production. And here he makes a sort of magnetic field where Cubanism is the center, the spot where a process is shaped by integrating different influences. A journey of 10 tracks to discover how geometry and history are topics of the same speech. The combination of elements is both an ideological fact and the approach to a deep research, looking for the creation of a new authentic sound. Fractal Sketches is the explosive opening and Uno, Dos y Tres, Que Paso Más Chevere is the traditional Cuban tune that closes the series. In the middle, natural structures find their contiguity with seasons in Arabesques of a Geometrical Rose, split in two tracks - Spring and Summer -; the standards Open&Close and The Sphynx find Ortiz’s interpretation; Joyful Noises owns the brightness of inventiveness; the third track Hidden Voices - Caribbean Vortex is the key: the rhythmic base is used as an instrument and leads us through the route of avant-garde art, where music is the condensation of the universe and improvisation is the way to walk through it.
I met Aruán Ortiz in Milan the last 20th March, the day before his concert in the city. I didn’t just meet the pianist, violist, composer, producer, born in Cuba, Brooklyn-based and internationally acclaimed; I met a generous and friendly person who purely enjoyed to talk about his point of view about art, to show me which is his musical mission. I met a researcher, I met a jazz Master.
Once in Boston I started to play with so many people, also from New York, until the moment I had the opportunity to play piano and keyboards with Wallace Roney. He encouraged me to move to New York. The New York jazz scene represents my growth as human being so as an artist and also my exposure to the international jazz scene.
1 Can you tell us about your musical path from Cuba to New York? I left Cuba in 1996; I was playing and studying in Cuba and I had the opportunity to go to Spain to study classical piano under the tutelage of a great teacher, the Cuban pianist Cecilio Tieles; after studying with Cecilio, I studied in Barcelona, under the bassist Oratio Fomero at the Aula de Musica Moderna y Jazz; through this school I had the opportunity to make an audition and so I got a scholarship for Berklee College of Music in Boston.
2 Would you agree with me if I say that your music is a research? My music has a lot of influences, I would say that coming from Cuba, living and studying in Spain and also moving to United States, studying there and sharing the stage with those I consider the greatest alive jazz musicians nowadays, I’ve been absorbing a lot of ideas and material from them and then I re-shaped my music in a very personal way. I try to absorb ideas from an array of different artistic and aesthetic not necessarily music relate sources.
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So my work is to translate into music composition, into improvisation, in creative music, all the parameters and principal fundaments that I could find in other art forms. I’m fascinated to talk with other artists, to talk about forms, how they see and conceive and think, what forms mean for them. In my latest album Hidden Voices, I was very interested in architecture, how could you translate that into music composition, how could you use an element that you could find in design, in the nature architecture - like fractals, reflections - how could you bring symmetry, how could you bring a mirror and distorted images into music. My creative process is about that: combining different elements and filter them through my creative process and make them converge in one unique voice, in one unique sound. At the same time I have a pulse that define my Cubanism, like, for example, the piece Caribbean Vortex - Hidden
MZK
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Voices: I was trying to visualize how a vortex moves in the Caribbean, so I used a lot of Caribbean rhythms and at the same time I studied how the wheel wind could move in different ways to create a deceptive resolution; it was very attractive for me to be able to do a kind of cell transplant. 3 What’s the importance of improvisation in your music? Improvisation is a very important aspect of creating music; I combine written material with improvised material in the way that you don’t know where the written material finishes and where the improvised material starts. I try to incorporate improvisation within the structure itself, without any separation from the written part. So it gives a different approach to the music itself: you’re always generating music at the moment for the moment. That’s what I call alive music. You don’t see that there is a melody and then improvisation and then another melody because I could re-organize all those information till there is no order of preference and no order of importance. Improvisation and written material have the same priority into the design of the composition. It’s all part of the same collage. 4 Which is the main concept at the base of your new album Hidden Voices? I would say that one of the Hidden Voices main concept behind the al-
bum comes from my inspiration and fascination for the work of the French - Greek composer Iannis Xenakis. He wrote a book called Music and Architecture, I curated a series of concerts in New York in 2013 and entitled it Music and Architecture after it. Most of the tunes that appear in my last album were sketched in 2013: titles like Fractal Sketches, Analytical Symmetry, Arabesque of Geometrical Rose were part of that series. So, when I had the opportunity to put this album together, I orchestrated and re-arranged that series for a trio format. Also, in 2014, I got a grant to go to Cuba to study rhythm and culture with Cuban-Haitian communities, to study their music and its impact on cultural life, in Santiago de Cuba, my hometown; when I was there I had an amazing time working with them, taking lessons, watching them playing and rehearsing. I got a lot of information from those communities. One of my main mission is expanding and bringing Cuban-Haitian or AfroHaitian rhythm into a more contemporary vocabulary. I’m trying to use that raw material and filter it into my creative process. I would also say that one of my main musical references of the last few years is Muhal Richard Abrams and names like Henry Threadgill, Roscoe Mitchell, George Lewis, all from AACM (Association for Advancement of Creative Musicians). People with a very uncom-
promised voice and very committed to their creative process. This is another angle that is reflected into my music: Music and Architecture, Cuban Haitian influences and avant-garde jazz. 5 What about this charming and mysterious title: Hidden Voices. Well, Hidden Voices have no secret. You could interpret that title from different points of view. The main one is, I guess, the first piece in my record that is entitled Caribbean Vortex - Hidden Voices. It’s about a Caribbean vortex because I was using, as I said, a CubanHaitian rhythm pattern, using percussions and claves. They were permutated and then the trio comes on top permutating again what was already a permutation. So Hidden Voices is referred to the base which brings the melody but you could not really understand it because it’s hidden into everything that was happening in top of that. Hidden Voices is also a tribute to those individuals that have been a key figure in our carriers or in our lives and they remain unknown, hidden, but their guidance and their advices had a huge impact on our develop as human being or as a professional. Hidden Voices are also all those cultures we come from, our ancestors that through orally transmission have been defining our heritage and also who we are right now, why we speak the way we speak, why we have those influences that we have. So that’s the main concept of Hidden Voices.
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IL MURO
(IN MATEMATICA SIGNIFICA “ESISTE UNO ED UN SOLO”) di Federico Grandicelli
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Per il progetto Equivalenze ho deciso di lavorare con carta fotografica bianco e nero, utilizzando la camera oscura come atelier. Ciascun fotogramma è il risultato dell’esposizione alla luce dell’ingranditore di fogli di carta fotosensibile piegati in forme differenti. Forme che allo stesso tempo ho registrato con delle Polaroid istantanee bianco e nero per banco ottico. Il mio obiettivo era di ottenere una ed una sola unica foto dell’oggetto rappresentato, comparabile con l’unicità del fotogramma che avrebbe preso forma subito dopo. Trovo affascinante la corrispondenza biunivoca tra le due immagini, si crea un dialogo tra l`immagine generatrice e quella generata. Con questa ricerca ho anche soddisfatto il desiderio di manipolare la carta fotografica a mio piacimento, giocandoci, piegandola, curvandola, forzandone i limiti materiali e cercando di oltrepassarli, senza preoccuparmi dell`effetto invasivo di queste procedure e manipolazioni, ma allo stesso tempo riuscendo anche a ottenere un’immagine che rispondesse a dei canoni, “corretta”. Il desiderio di rompere le regole si bilancia perfettamente con il formalismo che è alla base del mio lavoro artistico: mi baso su un processo rigoroso, diretto e relativamente semplice, che ha sempre a che fare con il produrre qualcosa di inusuale. Quando mi dedico a un nuovo processo o a un nuovo materiale, mi confronto con una gamma di limiti ogni volta differente: spesso il lavoro sta tutto nel forzare i materiali fino all’estremo delle loro possibilità. Credo che le cose interessanti comincino ad accadere a partire da una vera e propria relazione fisica fra le immagini, quando si oltrepassano le limitazioni della carta fotografica e si inizia ad avere un rapporto fisico con il materiale.
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Equivalenze di Federico Grandicelli, a cura di 3/3, è stato presentato da Honos Art - Contemporary Art Gallery Via dei Delini, 35 - Roma www.honosart.com +39 06 31058440 info@honosart.com
ARTIST'S WORD
(IN MATHEMATICS MEANS “ONE AND ONLY ONE”) Federico Grandicelli
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For the project Equivalenze I decided to work with black and white photographic paper, using the dark room as atelier. Each frame is the result of exposition to light of photosensitive paper sheets, sheets folded in different shapes. Shapes that I have recorded at the same time with black and white instant Polaroid for optical bench. My target was to get one and only one picture of the represented object, comparable with the uniqueness of the frame which would take form soon after. I find fascinating the double correspondence between the two images, a dialog happens between the generating image and the generated one. Through this research I ‘ve satisfied the desire to manipulate photographic paper as I wish, playing, folding, bending it, forcing the material limits and trying to go beyond, without worrying about the invasive effect of these procedures and manipulations, but getting at the same time an image that would respond to certain standards, a “correct” image. The wish to break the rules balances perfectly with the formalism that’s at the base of my artistic work: I base on a rigorous process, direct and relatively simple, which has always to do with producing something unusual. Whenever I devote myself to a new process or a new material, I come up against a range of limitations that is different every time: often my work is to push the materials as far as they can go. I believe that interesting things begin to happen, starting from a genuine physical relationship between the images, when we go beyond the limitations of photographic paper and start to have a physical relationship with the material.
Equivalenze by Federico Grandicelli, curated by 3/3, presented by Honos Art - Contemporary Art Gallery Via dei Delfini, 35 – Roma www.honosart.com +39 06 31058440 info@honosart.com
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IL MURO
DROMOSCOPIA a cura di
vera viselli
BLACK SAILS
JON STEINBERG - ROBERT LEVINE, Usa, 2014 - 2016
BLACK SAILS
JON STEINBERG - ROBERT LEVINE, Usa, 2014 - 2016 Che i pirati siano una miniera d’oro lo avevamo appurato grazie ai Caraibi di Jack Sparrow. Black Sails, la serie creata da Jon Steinberg e Robert Levine in onda su Starz da due anni (ed arrivata alla sua terza stagione) decide di darci - e di dirci - qualcosa di più: i bucanieri del romanzo di Stevenson non sono qui solo violenza ed azione, ma anche e soprattutto leader strategici e politici, così come l’isola del tesoro si trasforma in un’altra isola, Nassau, dove i tesori conquistati dalle ciurme vi vengono portati non per essere sepolti ma per essere smerciati ed amministrati da una donna. Ecco una delle più importanti novità introdotte dalla serie: le donne non sono soltanto dei divertissement per i pirati, ma sono protagoniste tanto quanto i loro ‘colleghi’ maschili, governando l’isola, amministrando gli affari, decidendo sulle missioni da compiere e tentando di mantenere un certo ordine e rispetto tra i vari capitani. Uno su tutti, il famoso Flint (interpretato da un eccellente Toby Stephen), più stratega, malinconico e riflessivo rispetto a quello di cui leggevamo nell’isola stevensoniana. Ed, inaspettatamente, omosessuale. Perché un altro grande merito della serie è, attraverso l’uso di personaggi già noti, quello di attualizzare la riflessione su concetti come politica e sessualità, immergendoli in un contesto che si potrebbe immaginare selvaggio e privo di qualsivoglia regola, ma che invece risulta essere tremendamente simile al nostro.
http://www.starz.com/originals/blacksails/ Black Sails è andato in onda in prima visione assoluta per l'Italia su AXN (canale Sky 122).
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Pirates are a treasure trove and we already knew it since Jack Sparrow’s Carribean. Black Sails, the series created by Jon Steinberg and Robert Levine, aired on Starz and now at its third season - it gives and says something more: here the buccanneers of Stevenson’s novel aren’t just violence and action but strategical and political leaders above all; the treasure island is transformed into another island, Nassau, where pirates’ booty doesn’t just get buried but becomes goods in a trade market managed by a woman. That’s one of the main news brought by the series: women aren’t simple divertissement for pirates, they have a leading role as much as their male “colleagues”, governing the island, managing business, settling missions, holding a certain kind of order and respect among the various captains. One for all, the famous Captain Flint (an eccellent Toby Stephen) - the Captain we read in the Stevenson’s island here is way more strategist, mournful and contemplative. And, surprisingly, he’s omosexual. Another great quality of the series is the use of well known characters to face current matters like politic and sexuality, assimilating them in a context that could be considered savage and without rules but actually is tremendously similar to ours.
DROMOSCOPIA
ROOM
LENNY ABRAHAMSON, Canada - Ireland - UK, 2015
ROOM
LENNY ABRAHAMSON, Canada - Irlanda - UK, 2015 Joy (Brie Larson, premio Oscar 2016 come Miglior Attrice Protagonista) viene rapita mentre andava a scuola dal ‘vecchio Nick’, che la tiene prigioniera in una stanza sette anni, abusando ripetutamente di lei. Da questi abusi nasce Jack non so quanti abbiano capito il nome dall’inizio: io ero convinta si trattasse di una bambina fino quasi a metà film, per via della bellezza di quei lineamenti così femminili incorniciati dai capelli lunghi -, un bambino che nasce e vive nella ‘Stanza’. Il film di Abrahamson non si focalizza tanto sui crimini subìti dalla giovane madre, quanto sulla naturale adesione di Jack alla ‘Stanza’, che gli offre la sua unica esperienza di vita, attraverso le cose che contiene e le persone che ospita, tanto da farlo sentire fuori posto quando si trova in una vera stanza, in una vera casa. Quello di Abrahamson è quindi un film sulle sembianze: come succede al bambino, ci sembra reale e naturale quello che viviamo e che siamo abituati a conoscere, nient’altro. Ma quando Jack vede per la prima volta il cielo, con quella soggettiva così intensa da essere stupore e bellezza allo stato puro, che lascia spazio solo ai rumori di sottofondo, ecco, ognuno di noi se la ricorda quella primissima volta? Forse la sensazione di Jack non dev’essere stata così dissimile da chi ha visto arrivarsi addosso un treno in una sala cinematografica, nel 1896.
Joy (Brie Larson, Best Actress at the Academy Awards 2016) has been kidnapped by the “old Nick” while she was going to school; she’s trapped in a room for seven years, getting raped by him over and over again. From the abuse, Jack is born - I’m not sure how many spectators noticed the name from the beginning: till half of the movie I was sure Joy’s child was a girl, because of those beautiful feminine lineaments framed by long hair - a boy who is born and lives in the Room. Abrahamson’s movie doesn’t focus on the crimes against the young mother, it focuses on Jack’s natural adhesion to the Room that offers him the only possible life experience, through the things it stores and the persons that it hosts, to the point that he feels uncomfortable when he’s in a real room, in a real home. Room is a movie about resemblance: as it happens to the kid, we consider real and natural what we live and know and get used to, nothing else. But when Jack looks at the sky for the first time, with that subjective camera angle so intense to be pure beauty and astonishment, which gives place just to background noises, well, does each one of us remember that very first time? Probably Jack’s feelings shouldn’t have been so different from the feelings of those who have seen a train running to them in a Cinema, back in 1896. http://www.roomthemovie.com http://cinema.universalpictures.it/film/room
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IL MURO
DALLE POMPTINAE PALUDES ALL’AGER POMPTINUS. ARCHEOLOGIA E STORIA DELLA PIANURA PONTINA di Gaia Palombo Dalle Pomptinae Paludes all’Ager Pomptinus. Archeologia e storia della Pianura Pontina è il progetto che rinconferma il MAP Museo Agro Pontino di Pontinia come prezioso centro per la valorizzazione e la conoscenza del territorio. Un evento dal respiro internazionale inauguratosi lo scorso 19 marzo, che ha illustrato i risultati dei recenti studi dei ricercatori olandesi Gijs Tol e Timon De Haas del Groningen Institute of Archeology, ponendosi come ulteriore passo avanti delle accurate indagini sulla pianura pontina (Pontine Region Project) che ormai l’università olandese porta avanti dagli anni Ottanta. Tali ricerche sono confluite dal 2012 su due luoghi precisi della Via Appia: Forum Appii (Foro Appio) e Ad Medias (tra le Migliare 51 e 52 intorno al casale settecentesco di Mesa di Pontinia), nell’ambito del progetto Fori, stazioni e santuari: il ruolo dei centri minori nell’economia romana. I due siti in esame, stazioni di sosta d’epoca romana lungo il tratto pontino della Via Appia e Astura, erano infatti “centri minori” da considerare al pari degli odierni borghi e dunque collocati a distanza dalle città; realtà pulsanti in cui si svolgevano attività produttive, mercantili, amministrative e cultuali. Su Forum Appii e Ad Medias, entrambi fondati alla fine del IV secolo a.C., è stata rilevata la presenza di bagni pubblici, santuari, aree produttive, tracce di attività artigianali e di uso pubblico che testimoniano un’influenza determinante sul piano economico; nei territori circostanti sono stati individuati sessanta siti archeologici. I metodi di analisi adottati sono stati due: le ricognizioni di superficie, eseguite a piedi sui terreni alla ricerca di resti emersi dalle arature, e le prospezioni geofisiche effettuate mediante l’uso del magnetometro, strumento che consente di rilevare la presenza di resti sepolti (mura, fornaci, strade) fino a circa un metro di profondità. Molti dei dati geologici e pedologici sono stati acquisiti attraverso piccoli carotaggi a mano. Il progetto rappresenta decisamente un apporto fondamentale per una ricostruzione storica sempre più particolareggiata at-
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traverso segni e testimonianze tuttora visibili sul territorio. Gli studi hanno contribuito a un più preciso inquadramento cronologico, dimostrando quanto la storia locale sia molto più complessa e antica di ciò che comunemente si è portati a pensare. L’importanza di un intervento di tale portata, rende finalmente giustizia a territori che per molto tempo sono stati scarsamente considerati a causa delle cattive condizioni precedenti alla bonifica integrale della palude negli anni ’30, ritenute inadatte all’insediamento. La mostra fa perno sull’occupazione romana della pianura, periodo a cui risale il primo riuscito intervento di bonifica della palude. L’allestimento, a cura di Alessandro Cocchieri (Direttore del museo) e Lorenza Lorenzon (curatrice) con l’affiancamento dall’archeologa pontina Carmela Anastasia, è stato realizzato all’interno del Padiglione 1 del MAP, accanto alla collezione permanente. Il progetto espositivo Dalle Pomptinae Paludes all’Ager Pomptinus. Archeologia e storia della Pianura Pontinia ha visto il prezioso contributo di studiosi di università italiane ed europee ed è stato co-finanziato dalla Netherlands Organization for Scientific Research (NWO), in collaborazione con il MAP e con il patrocinio del Comune di Pontinia. A supporto della mostra è stato realizzato un catalogo disponibile gratuitamente negli spazi museali e presto scaricabile dal sito www. museoagropontino.it Fino al 15 giugno 2016 Testi e immagini: Gijs Tol e Tymon de Haas Progetto grafico: Siebe Boersma Traduzione testi: Carmela Anastasia Allestimento museografico: Alessandro Cocchieri,Lorenza Lorenzon Coordinamento e segreteria organizzativa: MAP Museo Agro Pontino Sezione Didattica: Carmela Anastasia,Lorenza Lorenzon
BACKLOOK
FROM POMPTINAE PALUDES TO THE AGER POMPTINUS. ARCHEOLOGY AND HISTORY OF THE PONTINE PLAIN Gaia Palombo From Pomptinae Paludes to the Ager Pomptinus. Archeology and history of the Pontine Plain is the project that reconfirm the MAP Museo Agro Pontino as valuable center for the valorization and knowledge of the territory. An event of international scope inaugurate last 19th march, which illustrated the recent studies results of the Groningen Institute of Archeology Dutch researchers Gijs Tol and Timon De Haas, putting itself as additional step further about the thorough investigation of the Pontine plain (Pontine Region Project) which the Dutch university carries on since the 80s. Since 2012 these researches have flowed together onto two precise places of Via Appia: Forum Appii (Foro Appio) and Ad Medias (between Migliara 51 and 52 around the 18th century rural home of Mesa di Pontinia), with the project Fori, stazioni e santuari: il ruolo dei centri minori nell’economia romana. The two examined sites, Roman age rest houses along the Pontine part of the Via Appia and Astura, were smaller villages and so located far from towns; pulsating centers where productive, commercial, administrative and cultural activities happened. At Forum Appii and Ad Medias, both founded at the end of the 4th century b.C., has been detected the presence of public toilets, sanctuaries, productive areas, traces of craft and public usage activities that proves an important influence on the economic side; sixty archeological sites have been identified in the surrounding territories. Two analysis systems have been adopted: surface surveys, done walking on the land looking for the ruins emerged with plowing and, geophysical prospecting done using a magnetometer, tool that allows to detect the presence of buried ruins (walls, furnaces, roads) till to a meter depth. Many of the geological and soil data have been acquired through small probing by hand. The project definitively represents a fundamental contribution for an even more detailed historical reconstruction through signs and evidences still visible on the territory. The surveys have contributed to a more precise chronologi-
cal placement, proving how the local history is more complex and ancient than one usually thinks. The importance of such intervention, gives justice to territories that for long time have been considered unsuitable for land settlements because of the bad conditions, before the complete reclaimation of the marsh in the 30’s. The exhibition points on the Roman occupation of the plain, period of the first successful reclaim of the swamp. The exhibition, curated by Alessandro Cocchieri (museum Director) and Lorenza Lorenzon (curator) with the cooperation of the archeologist Carmela Anastasia, has been realized in the Pavilion 1 of the MAP, next to the permanent collection. The exhibition project From the Pomptinae Paludes to the Ager Pomptinus. Archeology and history of the Pontine Plain has seen the precious contribution of researchers from Italian and European universities and has been co-financed by the Netherlands Organization for Scientific Research (NWO), in cooperation with the MAP and the Borough of Pontinia sponsorship. A catalogue has been realized to support the exhibition; it’s available for free in the museum and soon for downloading from the website www.museoagropontino.it Till 15th of June 2016 Texts and images: Gijs Tol and Tymon de Haas Graphic project: Siebe Boersma Texts translation: Carmela Anastasia Curated by: Alessandro Cocchieri, Lorenza Lorenzon Coordination: MAP Museo Agro Pontino Didactic section: Carmela Anastasia, Lorenza Lorenzon
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IL MURO
THOMAS DE QUINCEY
L'ASSASSINIO COME UNA DELLE BELLE ARTI SE Editore, Milano 2006. L’assassinio come una delle belle arti è un saggio scritto da Thomas De Quincey nel 1827. Per l’esattezza, il testo si compone di due parti e solamente la prima è stata scritta nel 1827; la seconda, invece, 12 anni più tardi, ossia nel 1839, cui fa seguito anche un post scriptum del 1854. L’intento dell’autore è quello di tentare di argomentare il possibile senso artistico ed estetico insito nell’omicidio, attraverso degli esempi che partono dall’antichità per arrivare fino ai suoi giorni (Caino in primis, ma soffermandosi anche sulle vite di famosi filosofi come Kant, Hobbes, Cartesio; uomini politici quali Enrico IV di Francia fino ai più noti e popolari fatti di cronaca nera). Il tutto, ovviamente, secondo un umorismo nero e disincantato, ironico e british, evidente sin dalla prima pagina in cui De Quincey presenta il racconto come frutto della redazione di una conferenza organizzata da una fantomatica ‘Società degli Intenditori dell’Assassinio’. La base della sua riflessione parte da questo concetto: “Supponete che il povero uomo assassinato sia ormai fuori d’ogni pena, e il miserabile che ha effettuato la cosa scomparso d’un tratto, nessuno sa dove; supponete finalmente che noi abbiamo fatto del nostro meglio rompendoci le gambe per far inciampare l’amico nella sua fuga, ma tutto invano. […] Perché allora, io dico, di quale utilità, l’uso di un altro po’ di virtù? […] È stata una cosa triste, senza dubbio, molto triste; ma noi non ci possiamo niente. Per ciò, dobbiamo ricavare il miglior partito possibile da una cosa cattiva”. Traduzione: il dado è tratto, cerchiamo di cavare qualcosa di utile da questo fatto, pur brutto che sia. Ed essendo noto il morboso interesse di De Quincey per i processi criminali, chissà se questa sua analisi è stata di una qualche utilità per il personaggio di Joe Caroll, protagonista della serie tv The Following: un professore di letteratura inglese al college, fervente sostenitore della “follia dell’arte”, proprio come Edgar Allan Poe. L’unica cosa certa è che fu Poe ad essere ispirato dai toni pre-decadentisti di De Quincey.
Vera Viselli
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Legêre THOMAS DE QUINCEY
ON MURDER CONSIDERED AS ONE OF THE FINE ARTS L'ASSASSINIO COME UNA DELLE BELLE ARTI
SE Editore, Milano 2006. Thomas De Quincey’s On Murder Considered as one of the Fine Arts is an essay written in 1827. Exactly, the piece is composed by two parts: the first one was written in 1827; the second one was written 12 years later, in 1839, followed by a 1854 post-scriptum. Author’s intent is to try to discuss the possibility of an artistic and aesthetic meaning in the act of the murder and he does it through a series of examples from the ancient times to reach his contemporaneity (Caine in primis, pointing out also on famous philosophers lives -Kant, Hobbes and Cartesium - and on politic figures as Henry IV of France, till the well-known and popular crime news). Everything - obviously - with a disillusioned, ironic, British black humor, that shows up from the beginning: De Quincey presents the novel as the report of a meeting organized from the fictional Society for the Promotion of Vice. This is the idea at the base of his book: “suppose the poor murdered man to be out of his pain, and the rascal that did it off like a shot, nobody knows whither; suppose, lastly, that we have done our best, by putting out our legs to trip up the fellow in his flight, but all to no purpose [...] why, then, I say, what’s the use of any more virtue? [...] A sad thing it was, no doubt, very sad; but we can’t mend it. Therefore let us make the best of a bad matter [...].” Translation: the die is cast, let’s try to get something good from the fact, even if it’s bad. De Quincey’s obsessive interest for crime trials is well known, so maybe the analysis he made in On Murder Considered as one of the Fine Arts gave some input for Joe Caroll figure, main character of the series The Following: an English Literature teacher, strong supporter of the “insanity of art”, just like Edgar Allan Poe. The only certain thing is that Poe was inspired by the pre-Decadent tone of De Quincey.
Vera Viselli
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Deep Web. Rete di luci di Arianna Forte
Lampi iridescenti tagliano l’oscurità cavernosa dell’ex centrale elettrica di Berlino est, mentre un tuonare elettronico e schiocchi metallici li accompagnano; con freccianti pennellate luminose colpiscono, accendendole per qualche secondo alla volta, una moltitudine di sfere fluttuanti che disegnano scie e percorsi intermittenti, ora dai colori freddi poi da quelli caldi. Muovendosi in configurazioni sempre nuove danno luogo ad abbaglianti e arzigogolate coreografie. Le sfere danzanti si congiungono tra loro in scintillanti connessioni effimere e diventano, agli occhi di chi guarda, reti neurali, costellazioni astrali, circuiti elettrici o più che altro, come suggerisce il titolo dell’opera, reti cibernetiche. Deep Web è l’installazione audiovisiva-cinetica del light artist Christopher Bauder e del musicista e compositore Robert Henke, presentata in occasione del CTM Festival dal 2 al 7 febbraio 2016. La suggestiva architettura industriale di Kraftwerk Berlin ha ospitato questa mastodontica struttura di 25 metri di ampiezza e 10 metri di altezza. Muovendosi in alto e in basso, sincronizzate sul ritmo lento e profondo della traccia multicanale originale composta da Henke, le 175 sfere motorizzate vengono illuminate da 12 potenti impianti laser, che creano disegni di luce scultorei e tridimensionali. Come in un enorme carillon meccanico, la messa in scena si ripete in loop per 30 minuti, grazie al Kinetic Light System, un complicato sistema di argani controllato digitalmente, ideato da Bauder stesso. Tutto l’apparato tecnico di Deep Web è volto a creare un’opera oltremodo immersiva e monumentale. Lo spettatore, infatti, è totalmente abbacinato dalle composizioni di luci scintillanti come di fronte a dei fuochi d’artificio digitali. Allo stesso tempo la ripetitività delle coreografie geometriche di linee e punti sortiscono su di lui un effetto ipnotico.
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Così nell’atmosfera buia dell’edificio, lo spettatore si ritrova in uno stato di semi-trance e di meraviglia simile a quello del neonato che ammira le giostrine mobili sospese sulla culla: sprofonda in fantasie astratte mentre si abbandona agli stimoli sonori e visivi dell’installazione. Da questo punto di vista in Deep Web sembrano riecheggiare le sperimentazioni sul ritmo visivo degli Optical Poem, i film astratti animati degli anni 30’/40’del cineasta Oscar Fishinger. Così come l’estetica dell’installazione ricorda le spettacolari opere di pura luce di James Turrell e i suoi studi sulla percezione umana. Deep web può essere considerata il risultato finale delle ricerche decennali di entrambi gli autori, sia nelle loro carriere separate che nelle loro collaborazioni. Bauder, con il suo studio WHITEvoid, dal 2004 porta avanti progetti interattivi, di design multidisciplinare e ingegneria elettronica, con il quale ha brevettato il Kinetic Light System. Henke, invece, è un rifermento nel campo della musica elettronica sia per il progetto di techno sperimentale Monolake, e ancora di più per aver sviluppato software e hardware determinanti per la composizione di musica digitale e per la sua attuazione performativa, ad esempio l’onnipresente Ableton Live. Insieme avevano già sperimentato performance e installazioni cinetiche, sempre interrogandosi sul rapporto tra suono, luce e movimento: Atom, del 2007, consiste in una matrice di 64 palloncini a gas che si muovono a ritmo della traccia sonora e Grid, che dal 2013 a oggi ha avuto molte release, le cui strutture di triangoli di led emergono dal soffitto dell’edificio ospitante, muovendosi in corrispondenza degli impulsi sonori che vengono forniti. Deep web è l’evoluzione di questi due progetti in una
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versione grandiosa e più matura tecnicamente, in cui si coniugano gli elementi che potremmo considerare caratteristici e ricorrenti nella ricerca rispettivamente di Bauder e Henke. Il primo utilizza frequentemente le sfere illuminate per i suoi progetti - in Lichtgrenze del 2014 ne ha usate ben 8000 sistemandole lungo l’intero perimetro dove una volta sorgeva il muro di Berlino, in occasione del venticinquesimo anniversario della sua caduta. Mentre il secondo basa la sua fruttuosa sperimentazione artistico-visiva sull’uso del laser programmato in sincronicità con i suoni come in Lumiere e Lumiere II. Deep web è il loro ultimo ambizioso progetto di cui non si deve solo ammirare la spettacolarità, ma in cui si possono cogliere diversi spunti che danno luogo a infinite interpretazioni. Tornando al titolo dell’opera, questo letteralmente si riferisce al web sommerso, ossia al lato nascosto di internet, invece la struttura dell’installazione pare alludere al concetto di interconnettività in toto, ai link tra lontanissimi punti in movimento e ci si potrebbe rintracciare il modello del pensiero rizomatico di Deleuze e Guattari. Le sfere che si connettono tra di loro attraverso effimeri fili luminosi possono essere intese come nodi e punti nevralgici di una rete e diventano la rappresentazione di un sistema randomico di relazioni, acentrico, non gerarchico e non significante in cui “(si) connette un punto qualunque con un altro punto qualunque 1 ” e “ non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento 2 ”.
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G.Deleuze e F.Guattari, , trad. it. di S. Di Riccio, Rizoma, Pratiche editrice, Parma-Lucca, 1977. “Il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque ed ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura (...) Il rizoma non si lascia riportare né all’uno né al molteplice. Non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento, non ha inizio né fine ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa”;
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ibidem.
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Deep Web. Lights Net Arianna Forte
Iridescent flashes cut cavernous darkness of east Berlin ex power station, while electric thunders and metal pops follow them; like bright and darting brush strokes, they hit, lighting up for few seconds, a multitude of fluctuating spheres that draw contrails and intermittent paths, with cold colors or warm colors. Moving in always new figures, they give place to dazzling and elaborated choreographies. The dancing spheres connect between themselves through shining ephemeral connections becoming, for who’s watching, neural webs, astral constellations, electric circuits or, as the work title suggests, cybernetic webs. Deep Web is the kinetic-audiovisual installation of the light artist Christopher Bauder and the musician and compositor Robert Henke, it was exhibited in occasion of the CTM Festival from the 2nd to the 7th of February 2016. The suggestive industrial architecture of Kraftwerk Berlin hosted this massive structure 25 meters wide and 10 meters high. The 175 motorized spheres, moving up and down synchronized on the slow and deep rhythm of the original multichannel track composed by Henke, are lighted up by 12 powerful laser systems that create tridimensional and sculptural light drawings. Like in a huge mechanical music box, the act repeats in loop for 30 minutes thanks to the Kinetic Light System, a complicated winch system digitally controlled, designed by the same Bauder. All the technical mechanism of Deep Web aims to create a work extremely immersive and monumental. The spectator is totally dazzled by the shining light compositions as if he’d been watching digital fire-works. At the same time the repeating of geometrical choreographies of lines and dots make on him a hypnotic effect. So in the building dark atmosphere, the spectator finds himself in a semi trance state of wonder like a baby who watches the crib mobile over baby’s cot: he falls into abstract phantasies while let himself go to the visual and sound incites of the installation. From this point of view in Deep Web seem to reecho the experimentations about visual rhythm of the Optical Poem, the moviemaker Oscar Fishinger’s animated abstract films of the ‘30s - ’40s . The installation aesthetic also recalls James Turrell’s spectacular works of pure light and his studies about human perception. Deep Web can be considered as the final result of the decennial researches of both authors, in their separate careers and in their collaborations. Bauder, with his Studio WHITEvoid, since 2004, carries on interactive projects of multidisciplinary design and electronic engineering, through which paten-
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ted the Kinetic Light System. While Henke is a reference in the electronic music field, both for the experimental techno project Monolake and the developing of software and hardware determinant for digital music and its performative actualization, for instance the Ableton Live. The two authors together had already experienced kinetic installations and performances, always questioning themselves on the relationship between sound, light and movement: 2007 Atom is about a matrix of 64 small gas balloons that move on the rhythm of the sound track; Grid, which since 2013 has got many releases, where structures of led triangles emerge from the hosting build ceiling, moving on the sound impulses given. Deep Web is the evolution of these two projects into a greatest and technically advanced version, where the features and recurring elements in Bauder and Henke’s research combine. The first one frequently uses lighted spheres for his projects - in 2014 Lichtgrenze, in occasion of the twenty-fifth anniversary of the Berlin Wall fall, he used 8000 spheres placed along the entire perimeter where the wall used to be. The second author bases his profitable visual artistic experimentation on the use of laser set in synchrony with sounds like in Lumiere and Lumiere II. Deep Web is their last ambitious project where one should not just admire its spectacular nature but also pick the different tips that give place to unlimited interpretations. Going back to the work title, it literally refers to the submerged web, that is the hidden side of Internet, while the installation structure seems allude to the concept of interconnectivity in toto, to the link between very far moving points, where it’s possible to retrace the rhizomatic thought of Deleuze and Guattari. The spheres connecting through ephemeral bright wires can be considered as nodes and focal points of a web and become the representation of a random system of relations, acentric, not hierarchical and not significant where “any point of a rhizome can be connected to any other 1 ” and ”it’s not made of unity but of dimensions or rather of moving directions 2 ”.
1
G. Deleuze e F. Guattari, trad. it. di S. Di Riccio, Rizoma, Pratiche editrice, Parma-Lucca, 1977 ”The rhizome connects a whatever point with another whatever point and each one of its features doesn’t necessarily remand to features of the same nature (…) The rhizome doesn’t let bring itself back to the one or to the pluralistic. It’s not made of unity but of dimensions or rather of moving directions, it’s got no beginning or end but always a mean, therefore grows and overflows”;
2
ibidem.
FLOPPY
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ENDING TITLES
Questo cuore ingombrante è a pagina 42 di Kobane Calling, albo edito dalla Bao Publishing, un pezzo di graphic journalism in cui Zerocalcare racconta un altro aspetto di quell’immaginario collettivo fatto di cartoni animati, videogiochi e serie tv di cui sono intrisi i suoi personaggi. Parla della guerra che, dalla caduta del Muro di Berlino a oggi, ha continuato a riempire gli occhi di chi ora ha 30 anni, attraverso lo schermo televisivo. L’autore spinge la sua arguta ironia oltre il confine della quotidianità romana e lo fa a seguito di tre viaggi, in Turchia, Iraq e Siria, nel Kurdistan raccontato dopo averlo visto con i propri occhi, senza nessuno schermo a fare mediazione. Kobane Calling è una storia di resistenza, di lotta per i diritti civili, per proteggere un territorio che non è segnato sulle mappe, è l’instancabile battaglia del popolo curdo. E’ una storia di identità, delle cose che danno forma al cuore e che dentro al cuore ciascuno porta. Da Roma a Kobane. - JC
This bulky heart is on the page 42 of Kobane Calling, book of more than 200 pages published by Bao Publishing, a piece of graphic journalism where Zerocalcare tells another side of the collective imagination where his characters live, an imagination made of cartoons, videogames and tv series. Here he tells about the war that, from the fall of the Berlin Wall till today, has kept to fill the eyes of who’s now 30 years old, through the television screen. The author pushes his witty humor beyond the border of daily reality of Rome and does it after three trips, in Turkey, Iraq and Syria, in the Kurdistan zone here described after seen it without any screen to mediate the vision. Kobane Calling is a story of resistance, a story of fight for civil rights, to safeguard a territory that’s not marked on maps, it’s the endless battle of Kurdish people. It’s a story of identity, about things that give shape to the heart and which everybody keeps inside of it. From Rome to Kobane. - JC
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