IL MURO 4/2015

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art philosophy visual culture

anno 1, n.4 settembre-ottobre 2015 freepress


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Contemporary Eterotopia. Ex Dogana - Roma Il Festivalfilosofia scongela i pensieri, di Martina Becchimanzi Festivalfilosofia defreezes thoughts, Martina Becchimanzi Russia on the Road // Una Dolce vita? // Impressionisti e Moderni,

di Vera Viselli Russia on the Road // A Dolce vita? // Impressionists and Moderns,

IL MURO Art, Philosophy and Visual culture rivista bimestrale / bimonthly magazine Anno 1, n.4, settembre - ottobre 2015

Vera Viselli

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Alex Webb. Il colore del tempo, di Jamila Campagna Alex Webb. The color of time, Jamila Campagna

Direttore responsabile / Director general Luisa Guarino Direttore creativo / Creative director Jamila Campagna

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Caporedattore / Editor-in-chief Gaia Palombo Progetto grafico / Graphic project Valentino Finocchito

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Hanno scritto su questo numero (in ordine alfabetico): Contributors (in alphabetical order): Martina Becchimanzi Jamila Campagna Francesco Ciavaglioli Arianna Forte Valeria Martella E.M. Gaia Palombo Teresa Rizzoli Vera Viselli

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Stampa / Print Tipografia PressUp Roma Registrazione al Tribunale di Latina n.1 del 9 febbraio 2015 ISSN 2421-2504 (edizione cartacea) ISSN 2421-2261 (edizione online) Cover: Edoardo Tresoldi, Ricordi, scultura, presso Eterotopia - Ex Dogana di San Lorenzo, Roma (ph. Jamila Campagna)

La ruota panoramica The big wheel The happiest days of our lives // Another brick in the wall part II, Roger Waters

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La Recherche Nostalgia, di Valeria Martella Nostalgia, Valeria Martella

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MZK Sziget Festival. Il cuore dell’Europa, a cura della redazione Sziget Festival. The heart of Europe, by the editorial team Festival Ethnos. Musica, tradizione e territorio, di Jamila Campagna Ethnos Festival. Music, tradition and territory, Jamila Campagna

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Backlook Charles Jameson Grant, The five plauges of the Country

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Floppy Lo spazio aumentato della città capitolina, di Arianna Forte The augmented space of the capital city, Arianna Forte

Web www.ilmuromag.it Contatti / Contacts infoilmuro@gmail.com www.facebook.com/ILMUROmagazine

Artist’s Word Il riscatto dei resti, di Francesco Ciavaglioli The reevaluation of remains, Francesco Ciavaglioli

Per la consulenza in lingua inglese, si ringraziano: For the English consulting, thanks to: Gabriella Campagna Editore e Proprietario / Publisher and Owner IL MURO associazione culturale via Veio 2 04100 Latina

La Caverna di Platone Plato’s Cave 72a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Review, di Teresa Rizzoli 72nd Venice International Film Festival. Reviews, Teresa Rizzoli

Ricerca iconografica / Iconographic research Jamila Campagna Gaia Palombo

Redazione / Editorial address IL MURO via Veio 2, 04100, Latina

What’s Happ Intravista What’s Happ Intraview Magnus Hastings. Drag Magnitude, di E.M. Magnus Hastings. Drag Magnitude, E.M.

Photo Editor Jamila Campagna

Assistente di redazione / Editorial assistant Alessandro Tomei

Equivalents

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LegÊre Il muro, J.P. Sartre, recensione di Gaia Palombo Il muro, J.P. Sartre, review by Gaia Palombo

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Ending Titles Alessandra De Cristofaro, Safe


Edoardo Tresoldi, Oltre, scultura. Eterotopia, Ex Dogana di San Lorenzo, Roma (ph. Jamila Campagna)


Sassuolo, pubblico foto Ivan Bosi

Modena, Il Cavallo di Modena foto Valentino Finocchito

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Il Festivalfilosofia scongela i pensieri di Martina Becchimanzi XV edizione promossa dal Consorzio per il festivalfilosofia, di cui sono soci i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia, la Fondazione Collegio San Carlo, la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e di Carpi. Dal 18 al 20 Settembre si sono svolti 200 eventi, in 40 luoghi tra piazze e cortili delle tre città. Ogni anno, si alternano lezioni magistrali a performance creative, conversazioni e mostre, in una stimolante tre giorni a metà Settembre. Con più di 200.000 presenze, 90.000 soltanto per le Lezioni Magistrali, l’evento rivela una notevole e costante crescita dell’affluenza a fronte delle 30.000 del 2001. Ereditare la parola chiave del programma di quest’anno, connessa alla necessità di segnalare quanto il ricambio generazionale non implichi un semplice ricevere, ma attivi un processo di trasmissione culturale e di rapporto fra le generazioni - ha spiegato il presidente del Comitato Scientifico Bodei. Oggi viviamo in un tempo spezzato: «Il passato ha perso di peso, il futuro è avvolto nell’incertezza, il presente sembra dominare». Durante la lezione magistrale intitolata Diventare Maggiorenni, Curi, professore emerito di Storia della Filosofia, ha analizzato quell’aspetto del ‘diventare maggiorenni’ che esula dal dato anagrafico e che è risultato di «un combattimento a cui siamo chiamati quotidianamente per uscire dalla subalternità», ponendo come esempio le storie di alcuni personaggi e del modo in cui questi hanno affrontato il processo di emancipazione. Edipo, che arriva ad un inconsapevole parricidio come mezzo di transizione. Gesù, che imbocca la strada opposta, disponendosi alla totale obbedienza, spinta al limite dello svuotamento. Curi scioglie l’interrogativo posto dalla contrapposizione tra

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parricidio edipico e obbedienza cristiana, introducendo una terza figura, quella di Bartleby - lo scrivano di Melville, il quale, alla richiesta di svolgere una mansione leggermente diversa dalla usuale copiatura, risponde naturalmente, ma con fermezza: «I would prefer not to». Potremmo rispondere semplicemente no a chi ci chiede di diventare maggiorenni? La lezione magistrale di Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale della Repubblica Italiana, intitolata Patto Generazionale è iniziata citando Bobbio: «nelle società evolute, il mutamento rapido ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa». «Oggi si vive una quotidiana gara nichilistica all’insegna della velocità, dell’efficienza e dell’innovazione, verso una meta che si allontana in misura proporzionale all’accelerazione». Chi non produce non esiste; chi è vecchio, lento, stanco non può accampare diritti. Ma i diritti umani in sé non dovrebbero dipendere dalle età dell’uomo; cita Accabadora di Michela Murgia e Le canzoni di Narayama di Shichiro Fukazawa, esempi nei quali le persone ‘socialmente inefficienti’ vengono asportate dalla società


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Modena, Torre Ghirlandina

Carpi, piazza Martiri foto Elisabetta Baracchi

e con questo presupposto dimostra come, seppur oggi non si possano riproporre simili teorie, la pratica ne riproponga, comunque, gli esiti, scivolando verso una particolare forma di antropofagia. La cieca convenienza immediata, dunque, ci fa perdere di vista i diritti delle generazioni future, che sono e restano i nostri stessi diritti umani. Adolescenza il tema della lezione di Galimberti, già Professore di filosofia della storia e psicanalista di formazione junghiana. Durante l’adolescenza compare la sessualità che sconvolge la visione del mondo, chiedendone una riformulazione radicale. Ma prima dei 20 anni di età i lobi frontali, sede della razionalità, non compiono la completa maturazione. Gli adolescenti sono, quindi, costretti a cambiare la propria visione del mondo senza il supporto della razionalità. Galimberti fa riferimento ai primi tre anni di vita del bambino, durante i quali si formano le mappe cognitive ed emotive che filtreranno la conoscenza del mondo, si comincia a formare l’identità, che è soprattutto riconoscimento. Il bambino si fa domande, comprende e interiorizza il principio di causalità, incontra altri adulti significativi (le maestre) che è bene che i genitori difendano sempre, anche perché, precisa «La scuola elementare italiana è tra le migliori al mondo, poi peggiora progressivamente, fino ad arrivare all’Università che è disastrosa». Durante la Scuola Media comincia la rivisualizzazione del proprio corpo, il confronto sociale, si passa facilmente dalla gioia al dolore fino a provare situazioni di disagio e insofferenza. L’adolescente è stravolto a sua insaputa. Proprio per questo dovrebbe essere fondamentale educare ai sentimenti, evitando così di incorrere in situazioni di psicoapatia nelle quali non si riesce a riconoscere il bene e non si registrano le differenze con il male. Il migliore strumento di educazione, in tal senso, è la letteratura, tramite la quale si apprendono gioia, dolore, amore, disperazione e aggiunge: «Riempire le scuole di computer è un disastro; per specializzarsi c’è tempo. Prima di tutto la scuola deve formare gli uomini e le donne. Gli adolescenti si spaventerebbero meno se conoscessero l’evoluzione delle loro sofferenze attraverso la letteratura». La società in cui siamo oggi, non promette futuro e il futuro non retroagisce come motivazione; il giovane si assopisce,

cerca l’anestesia, non vuole provare ogni giorno la sua insignificanza sociale. Ma se è vero che il futuro non attende i giovani, devono essere loro stessi a prenderselo «perché una società che riesce a fare a meno dei giovani, è una società destinata al fallimento». Appuntamento fisso quello rappresentato dalla lezione dei classici, con lezioni dedicate all’opera di Platone e di Aristotele, di Nietzsche e di Primo Levi. Ricchissimo il programma di mostre e di eventi collaterali. Al Palazzo Ducale di Sassuolo, la retrospettiva Riprese, dedicata a Carlo Mattioli, grande artista di origini modenesi, alla Manifattura Tabacchi di Modena Il manichino della storia, con opere di firme internazionali, provenienti da collezioni private dell’area emiliana che vanno dall’arte formale a quella rappresentativa. Di grande curiosità anche la mostra sui Testamenti dei grandi italiani, da Cavour a Pirandello. Fondamentale l’ambito creativo, tra i nomi che si sono susseguiti sui palchi di Modena, Carpi e Sassuolo Bottura e Niola, Lella Costa, Chiara Gamberale e Paolo Di Paolo, Valerio Massimo Manfredi, Neri Marcorè, Ovadia, Arrigo Sacchi, Niccolò Fabi, Danilo Rea. Il tutto assolutamente gratuito e costellato da mercatini di Libri filosofici e stand di gadget. In un mondo in cui i mezzi di comunicazione di massa offrono fast-food intellettuali, i festival culturali soddisfano il bisogno di senso. Il Festivalfilosofia non ha pretesa di ottenere un carattere educativo, rappresenta un supplemento d’anima. Secondo Plutarco, esiste un luogo immaginario in cui le parole pronunciate in inverno, si scongelano in estate con il caldo. Il Festivalfilosofia scongela i pensieri. L’appuntamento è con il Festivalfilosofia 2016 Agonismo. «Discuteremo le declinazioni dell’agonismo contemporaneo – sottolinea Michelina Borsari, direttrice scientifica - le forme dell’atletica interiore e sociale, dalla ricerca del costante miglioramento del proprio corpo, fino alla dimensione sportiva e di squadra. Ma punteremo anche l’attenzione su come sia proprio la democrazia un agone che trasforma l’antagonista in avversario, integrandolo nel gioco politico».

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Festivalfilosofia defreezes thoughts Martina Becchimanzi The Festivalfilosofia’s XV edition has been promoted by the Consorzio per il Festival/filosofia, whose associates are the town of Modena, Carpi and Sassuolo, Provincia di Modena, Collegio San Carlo Foundation, Cassa di Risparmio di Modena e di Carpi. From the 18th to the 20th of September 200 events took place, in 40 different places between squares and courtyards of the three towns. Every year, masterful lessons alternate to creative performances, conversations and exhibitions, in three stimulating days at half September. With more than 200.000 presences, of which 90.000 were for the Masterful Lessons, the event reveals a remarkable and constant growth of the turnout compare to the 30.000 presences of 2001.

Bodei, the Scientific Committee president explained that Ereditare (To inherit) is the key word of this year program, connected to the need to point out how much the generational turnover is not just about receiving, but would start a process of cultural transmission and relationships between the generations. We’re living today in a broken time: «the past has lost its consequences, the future is wrapped up in uncertainty, the present seems to dominate». During the masterful lesson titled Becoming Adults, History of Philosophy professor emeritus Curi, analyzed that aspect of becoming adults which is the result of a «daily fight we do to get out of being subordinate», giving as example some characters’ stories and the way they faced the process of emancipation. Oedipus, comes to kill his father as a way of transition. Jesus takes the opposite road and put himself to the total obedience, pushed to the border of emptying. Curi unties the question given by the contrast between Oedipus’ patricide and Christian obedience, by introducing a third character, Bartleby – the Melville scribe, who answered «I would prefer not to» when was asked to do a different work from the usual. Could we simply answer no when we’re asked to become adults? Zagrebelsky, president of the Italian Republic Constitutional Court, whose masterful lesson titled Generational Pact started mentioning Bobbio: «in civilized societies, the fast mutation has overturned the relationship between who knows and who doesn’t». «We’re living today a daily nihilistic race in search of velocity, efficiency, and innovation, towards a destination that gets further away proportionally to the acceleration». Who doesn’t produce doesn’t exist; who is old, slow and tired cannot have rights. But human rights as whole shouldn’t depend on man’s age; he mentioned Michela Murgia’s Accabadora and The songs of Narayama by Shichiro Fukazawa, examples where socially inefficient people are taken away from society, with it shows how, even if today we cannot propose such theories, practice proposes the same results, sliding towards a particular form of antropofagia. The blind current convenience makes us lose sight of the future generations rights, that are our human rights as well. Adolescence, theme of Galimberti’s lesson, yet Philosophy of the history professor and psychanalyst of Jung training. During adolescence sexuality appears and subverts the world vision, asking for a radical reformulation. But before the 20 years of age the frontal lobes, place of rationality, are not completely ripe. Adolescents are forced to change their own vision of the world without rationality support. Galimberti refers to the child’s first three years of life, during which the cognitive and emotional maps form up, they‘ll filter the world knowledge, identity starts to form, which is above all acknowledgement. The child questions himself, understands and internalizes the principle of randomness, he meets significant adults (teachers) who the parents would better defend always, also because, «the Italian primary school is

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one of the best in the world, then progressively gets worse, till reaching University which is a disaster». During Junior Secondary School begins the own body revisualization, the social comparison, one goes from joy to pain till feeling situations of discomfort and intolerance. The adolescent is subverted without knowing it. It would be essential bring up to feelings, so to avoid psycho-apathy situations where it’s not possible recognize the right and record differences with the wrong. About it, the best education instrument is literature, through which we can learn joy, pain, desperation and, Galimberti adds: «To fill up schools with computers is a disaster; there’s still time to specialize. School should train men and women first of all. Adolescents would be less scared if they knew their pains evolution through literature». Nowadays society doesn’t promise a future and the future doesn’t act back as incentive; the young doze off, look for anesthesia, they don’t want to feel their social insignificance every day. But if it’s true that the future doesn’t await the young, they must take it «because a society that can work without the young is destined to fail». The lesson about the classics is a regular appointment, with lessons dedicated to Plato and Aristotle’s work, Nietzsche and Primo Levi. The program is rich of exhibitions and collateral events: the retrospective Riprese, dedicated to the famous artist from Modena Carlo Mattioli at Palazzo Ducale of Sassuolo; The history mannequin at Manifattura Tabacchi di Modena, with international works which go from formal art to representative art, they belong to private collections in the Emilia area. Interesting is also the exhibition about Testaments of the great Italians, from Cavour to Pirandello. Essential is the creative field. Among the people who came on the stages of Modena, Carpi and Sassuolo, we can mention: Bottura e Niola, Lella Costa, Chiara Gamberale e Paolo Di Paolo, Valerio Massimo Manfredi, Neri Marcorè, Moni Ovadia, Arrigo Sacchi, Niccolò Fabi, Danilo Rea. It all absolutely free and studded with a little philosophical books markets and stalls offering gadgets. Cultural festivals satisfy the need of sense in a world where media offer intellectual fast-food. The Festivalfilosofia does not mean to have educational purpose, it represents a soul supplement. According to Plutarch, there’s a place where words said in winter will defreeze in summer with the heat. The festivalfilosofia defreezes the thoughts. The appointment is with the Festivalfilosofia 2016 Agonismo (Competitiveness). The scientific director Michelina Borsari points out: «We’ll discuss about the contemporary competitiveness conjugation, the forms of internal and social athletic, from the research of the body’s constant improvement, till the team and sport dimension. We’ll point the attention on how it is just democracy to turn the antagonist into the adversary, assimilating it in the political game».


Palazzo delle Esposizioni - Roma

RUSSIA ON THE ROAD // UNA DOLCE VITA? // IMPRESSIONISTI E MODERNI

Aleksandr Dejneka, I versi di Majakovskij, 1955, olio su tela, 130 x 200 cm. Galleria Nazionale Armena

a cura di Vera Viselli Il Palazzo delle Esposizioni di Roma fa tris: partendo dall’Italia, arriva in Francia e Russia attraverso tre mostre che riguardano il cosiddetto secolo breve. A partire da un minimo comun denominatore tecnologico - l’idea del nuovo, nell’arte, parte dall’Impressionismo francese per arrivare poi alle teorizzazioni futuriste e all’avvento della tecnologia stessa nei mezzi di trasporto - la storia artistica del ‘900 intreccia arte, design e tecnologia in modi e rappresentazioni certamente diversi, ma in qualche modo similari. RUSSIA ON THE ROAD. 1920 - 1990 Pittura e grafica dalle collezioni dell’Istituto dell’Arte Realista Russa, dei musei statali russi e da altre collezioni private Dal 16 ottobre al 15 dicembre 2015 La rassegna Russia on the Road prende in esame quasi un secolo di storia dell’arte russa, in gran parte coincidente con l’esperienza sovietica: un’epoca in cui si tentò di trasformare le utopie in realtà e la realtà in mito. Attraverso un approccio tematico, la mostra racconta l’improvviso protagonismo dei nuovi mezzi di trasporto nell’ambiente russo. Centocinquant’anni fa, la sola idea di poter coprire la superficie del nostro paese con una rete autostradale sarebbe sembrata un’utopia. Oggi, invece, qualsiasi persona che abiti in un Paese civilizzato trova inconcepibile l’idea che si possa vivere senza prendere treni, aerei, automobili o metropolitane: il mondo senza mezzi di trasporto verrebbe percepito come una distopia. L’ultimo secolo e mezzo è stato un periodo della storia dell’uomo in cui si è assistito alla realizzazione di fantasie, a invenzioni tecnologiche (basti pensare al cinema: tecnologia e fantasia in un unico mezzo), al prendere forma di miti, manie, fobie, nuovi stili di vita e correnti artistiche. I mezzi di trasporto hanno riempito in fretta gli spazi della vita e quelli dell’arte, sono divenuti simboli del progresso e di un inedito dominio dell’uomo sull’enorme vastità del continente russo, invadendo anche l’immaginario degli artisti, divenendo soggetti nobili quanto la figura umana o il paesaggio naturale, tra ideologia e sguardo intimistico. La ferrovia, ad esempio, non è solo il simbolo del progres-

so, ma un’allegoria della vita umana nell’opera Le poesie di Majakovskij (1955) di Aleksandr Dejneka, che rappresenta lo spaccato sociale del tempo e prende il nome dall’argomento di discussione dei giovani studenti ritratti: uno di loro tiene in mano un libro di poesie di Majakovskij, poeta spesso omaggiato nelle opere di Dejneka. Nell’opera Metro (1935), Aleksandr Labas restituisce una visione attiva ed emozionale del mezzo di trasporto, all’inteerno di una serie che di lavori realizzata dagli anni ‘20 alla metà degli anni ‘30, periodo che coincide con la costruzione della prima linea della metropolitana di Mosca. Viktor Kudel’kin colloca al centro del suo lavoro le diverse professioni operaie e ritrae i lavoratori della fabbrica di automobili e camion Kamaz nel contesto industriale, rappresentando al contempo l’individuo e la collettività; l’autista Mar’jam Vasil’kova è ritratta al volante del sollevatore e la sicurezza dei suoi gesti parlano di un partecipazione paritaria della donna ad un tipo di lavoro considerato prettamente maschile fino a poco tempo prima. Accanto a celebri capolavori di Aleksandr Deineka, Juri Pimenov, Aleksandr Samokhvalov, Georgj Nisskij, corrispondenti al periodo più noto della storia artistica sovietica (dagli anni ‘20 agli anni ‘50), si possono trovare opere sorprendenti degli anni dai ‘60 ai ‘90, in cui entrano in gioco corrispondenze con le contemporanee correnti culturali europee, come il Neorealismo italiano o la Nouvelle Vague francese. Rimasta a lungo nascosta dietro la cortina di ferro, questa pittura consente di pensare una rinnovata visione della storia dell’arte russa.

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il muro IMPRESSIONISTI E MODERNI. CAPOLAVORI DALLA PHILLIPS COLLECTION DI WASHINGTON Dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio 2016 La Phillips Collection, il primo museo di arte moderna fondato sul suolo americano, venne creata verso la fine degli anni ‘10 da Duncan Phillips, il quale decise di trasformare la raccolta di famiglia in un museo pubblico, il primo negli Stati Uniti a concentrarsi sul lavoro dei contemporanei. La Phillips Memorial Gallery (oggi Phillips Collection) aprì i battenti nel 1921 a Washington: si tratta di un’istituzione sostanzialmente diversa dalle altre nate tra le due guerre poiché il suo fondatore, interessato al rapporto tra l’arte del passato e del presente, decise di sostenere giovani artisti e acquistò le opere giudicandone il valore intrinseco, senza seguire la moda o la fama degli autori. Nel 1954, Phillips scrisse: «Nelle nostre sale si mescolano epoche e nazionalità diverse, dipinti antichi e moderni che, accostati, acquistano senso e rilevanza in nuovi contesti, per contrasto o per analogia».

Leopoldo Metlicovitz, Cabiria, 1914, stampa litografica a colori su carta, 205,1 x 145,2 cm. Fondazione Massimo e Sonia Cirulli

UNA DOLCE VITA? DAL LIBERTY AL DESIGN ITALIANO. 1900-1940 Dal 16 ottobre 2015 al 17 gennaio 2016 Nell’Italia di inizio Novecento, le arti decorative, eredi di un’importante tradizione artigianale e artistica, si fanno interpreti del desiderio di progresso di una Nazione che ha da poco conosciuto l’unità. Ebanisti, ceramisti e maestri vetrai lavorano spesso in collaborazione con i maggiori artisti del tempo, definendo uno stile italiano destinato a influenzare la nascita stessa del design moderno. La mostra procede attraverso un percorso cronologico composto da più di cento opere e basato su un dialogo continuo tra arti decorative e arti plastiche. L’inizio del Novecento è caratterizzato dall’affermazione dell’Art Nouveau, noto in Italia come stile Liberty o floreale. A partire dall’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Torino nel 1902, lo stile Liberty acquista una particolare originalità nelle opere di artisti come Carlo Bugatti, Galileo Chini, Eugenio Quarti, Ernesto Basile, Carlo Zen. Divenuto lo stile dominante della nuova classe borghese, vi si opporrà con la sua volontà antipassatista il Futurismo, movimento che, tuttavia, si estenderà alle arti decorative solo dopo la Prima Guerra Mondiale, durante il cosiddetto Secondo Futurismo. Nel 1915, Giacomo Balla e Fortunato Depero firmano un manifesto intitolato Ricostruzione futurista dell’universo, in cui si annuncia l’intento di estendere l’estetica futurista a tutti gli aspetti dell’arte e della vita. Questi due artisti progetteranno e realizzeranno numerosi oggetti di arte decorativa e di uso quotidiano, dai mobili ai vestiti, dagli arazzi ai giocattoli. Durante gli anni del Ritorno all’ordine - che seguono la stagione delle Avanguardie - il recupero della cultura classica assume in Italia diverse declinazioni. Tra le versioni più interessanti ricordiamo la Metafisica di De Chirico e di Savinio, e il Realismo magico di Felice Casorati. Una visione incantata, sospesa tra ispirazione classica e gusto déco, caratterizza le ceramiche di Gio Ponti e le prime creazioni in vetro di Carlo Scarpa. Per quanto riguarda la produzione architettonica e l’arredo, il ritorno al classicismo è presente nello stile monumentale di Giovanni Muzio e Piero Portaluppi.

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La mostra (che conta sessantadue dipinti di oltre cinquanta artisti) riunisce le opere dei più grandi maestri moderni e dimostra che «l’arte è un linguaggio universale», destinato a essere condiviso e apprezzato dal pubblico di tutto il mondo. É organizzata cronologicamente, riflettendo in forma di macro-sezioni le grandi correnti culturali che hanno attraversato l’Ottocento e il Novecento fino al secondo dopoguerra: Classicismo, Realismo e Romanticismo; Impressionismo e Postimpressionismo; Parigi e il Cubismo; Intimismo e Modernismo; l’Espressionismo e la Natura; Espressionismo Astratto. Si esordisce con le opere dei grandi artisti che all’inizio del XIX secolo hanno rivoluzionato la pittura europea, da Goya a Ingres, da Delacroix a Courbet e Manet, messe in dialogo con quelle dei maestri dell’Impressionismo francese come Cézanne, Monet e Sisley. Un posto di spicco spetta ai maestri moderni che hanno plasmato la visione artistica del Novecento, tra cui Bonnard (artista prediletto da Phillips), Braque, Gris, Kandinskij, Kokoschka, Matisse, Modigliani, Picasso, Soutine e Vuillard, accanto agli americani Arthur Dove e Georgia O’Keeffe, arrivando fino alle opere fondamentali di grandi artisti americani ed europei del secondo dopoguerra come De Staël, Diebenkorn, Gottlieb, Guston e Rothko.

Pablo Picasso, La camera blu, 1901, olio su tela, 50,5 x 61,6 cm. The Phillips Collection, Washington, D.C. acquisto 1927


contemporary

Paul Cézanne, La montagna Sainte-Victoire, 1886-1887, olio su tela, 59,7 x 72,4 cm. The Phillips Collection, Washington, D.C. acquisto 1925

V. ictor I. Kudelkin, Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz, 1979, olio su tela, 99 x 139,5 cm. Istituto dell’Arte Realista Russa

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Palazzo delle Esposizioni - Rome

RUSSIA ON THE ROAD // A DOLCE VITA? // IMPRESSIONISTS AND MODERNS cured by Vera Viselli The Palazzo delle Esposizioni of Rome triplicates: starting from Italy, arrives in France and Russia through three exhibitions about the so-called short century. Starting from a technological least common denominator – the idea of new, in the art, starts from the French Impressionism to reach then the futurist theory and the developing of technology in transportation - the ‘900s art history intertwines art, design and technology in different ways and representations, although similar in some ways.

RUSSIA ON THE ROAD. 1920 – 1990 Painting and graphics from collections of the Russian Realist Art Institute, Russian State museums and from private collections. 16 October - 15 December 2015 Russia on the Road overviews almost a century of Russian art history, mainly coinciding with the soviet experience: a period where they tried to turn utopias into reality and reality into myth. Through a thematic approach, the exhibition tells the sudden protagonist role of the new means of transport in the Russian environment. Hundred-fifty years ago, the idea to be able to cover the surface of our country with a motorway network would have seemed like utopia. Today, on the contrary, anybody who lives in a civilized Country finds inconceivable the idea of being able to live without catching trains, planes, cars or tubes: the world without trasportation would be perceived like a dystopia. Last hundred-fifty years have been a period in humankind’s history where we assisted to the realization of dreams, technological inventions (just think about the cinema: technology and imagination in only one means), myths taking shape, manias, phobias, new life styles and artistic trends. Lines of transport have quickly filled up the art and life spaces, becoming symbols of the progress and of an unprecedented man supremacy on the Russian continent enormous vastness, invading also the artists imaginary, becoming noble subjects as much as the human figure or natural scenario, between ideology and individual gaze. Railway, for instance, is not only symbol of progress, but also an allegory of human life in the work Poems of Majakovskij (1955) by Aleksandr Dejneka, that represents social life of that time and takes the name after the discussion topic of the portrayed young students: one of them holds a book of Majakovskij’s poems, a poet often honored in Dejneka’s works. In the work Metro, Aleksandr Labas gives back an active and emotional vision about means of transport, within a series of works realized from 20’s to half 30’s, period that coincides with the making of the first tube line in Moscow. Viktor Kudel’kin puts at the center of his work the different working class jobs and portrays workers of the cars and lorries factory Kamaz in their industry context, representing at the same time individual and collectivity: the driver Mar’jam Vasil’kova is portrayed while driving the weight lifter and the self-confidence of her moves shows how women can do a job considered before typical for men only. Next to famous masterpieces of Aleksandr Dejneka, Jury Pimenov, Aleksandr Samokhvalov, Georgi Nisskij, corresponding to the most famous period of the Soviet art (from 20’s to 50’s), it’s possible to find surprising works from the 60’s to 90’s, that show correspondences with European contemporary cultural trends, like the Italian Neorealism or the French Nouvelle Vague. This painting, left hided for long behind the iron curtain, allows to think about a new vision of the Russian art history.

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Aleksandr Labas, Metro, 1935, olio su tela, 83 x 63,5 cm. Galleria Tret’jakov

Giorgio De Chirico, Mobili nella valle, olio su tela, Rovereto, MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione L.F. © Rovereto, MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto


A DOLCE VITA? FROM LIBERTY TO ITALIAN DESIGN. 1900-1940 16 October 2015 - 17 January 2016 In Italy, at the beginning of the twentieth century, ornamental arts, successors of an important artistic and handcraft tradition, become exponents of a new Nation progress desire. Ebony carpenters, potters and master glaziers often work in cooperation with the major artists of the time, defining an Italian style destined to influence the origin itself of modern design. The exhibition goes on through a chronological path made of more than hundred works and based on a continuing dialogue between ornamental, plastic and visual arts. The twentieth century beginning is characterized by the Art Nouveau assertion which is known in Italy as Liberty style or floral. Since the Esposizione Internazionale delle Arti Decorative of Turin in 1902, the Liberty style gets a particular originality in artists’ works like Carlo Bugatti, Galileo Chini, Eugenio Quarti, Ernesto Basile, Carlo Zen and becomes the dominant style of a new middle class. The Futurism strongly anti-past attitude will oppose to it, a movement that will extend to ornamental arts only after the First World War, during the so called Second Futurism. In 1915, Giacomo Balla and Fortunato Depero writes a manifesto called Futurist reconstruction of universe, where is announced the intent to extend the futurist aesthetic to all life and art aspects. These two artists will project and realize many ornamental art and everyday usage objects, from furniture to clothes, from tapestries to toys. During the years of Return to order – that follow the season of Avant-gardes – recovery of classical culture assumes in Italy several declinations. Among the most interesting versions we recall the Metaphysics of De Chirico and Savinio, the Magical Realism of Felice Casorati. An enchanted vision, suspended between classical inspiration and deco taste, distinguishes Gio Ponti’s pottery and Carlo Scarpa’s first glass creations. About furniture and architectural production, return to classicism is present in Giovanni Muzio and Piero Portaluppi’s monumental style.

Antonio Donghi, Piccoli saltimbanchi,1938, olio su tela. Collezione Elena e Claudio Cerasi

Hilaire-Germain-Edgar Degas, Ballerine alla sbarra, circa 1900, olio su tela, 130,2 x 97,8 cm. The Phillips Collection, Washington, D.C. acquisto 1944

IMPRESSIONISTS AND MODERNS. MASTERPIECES FROM PHILLIPS COLLECTION OF WASHINGTON 16 October 2015 - 14 February 2016 The Phillips Collection, first museum of modern art on the USA ground, was created around the end of the ‘10s by Duncan Phillips, who decided to turn the family collection into a public museum, first in the United States to concentrate on the contemporaries’ work. The Phillips Modern Gallery (now Phillips Collection) opened to the public in 1921 in Washington: it’s basically an institution that differs from the others born in between the wars as its founder, interested to the relationship between the past and the present art, decided to support young artists and he bought the artworks only for their intrinsic value, without following the trend or the authors’ fame. In 1954, Phillips wrote: «Centuries and nationalities are mixed in our Gallery so that old and modern paintings can be brought together to be relevant and significant in some new context, some new contrast or analogy». The exhibition (counts sixty-two paintings of more than fifty artists) reunites the artworks of the greatest modern masters and shows «that art is a universal language», destined to be shared and appreciated from the audience all over the world. It’s chronologically organized, by reflecting in a macro-sections form the big cultural trends which crossed the 19th and 20th century up to the World War II: Classicism, Realism and Romanticism; Impressionism and Postimpressionism; Paris and the Cubism; Intimism and Modernism, Expressionism and Nature; Abstract Expressionism. It begins with the great artists‘works who revolutionized European painting at the beginning of the 19th century, from Goya to Ingres, Delacroix to Courbet and Manet, combined with the artworks of the French Impressionism masters like Cezanne, Monet and Sisley. A prominent place is reserved to the modern masters who molded the artistic vision of the 1900s, including Bonnard (Phillips favorite artist), Braque, Gries, Kandinskij, Kokoschka, Matisse, Modigliani, Picasso, Soutine and Vuillard, next to the American Arthur Dove and Georgia O’Keeffe, till reaching the fundamental works of great American and European artists like De Staël, Diebenkorn, Gottlieb, Guston and Rothko.

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Alex Webb.

Alex Webb, FortKochi, 2014. ©Alex Webb/courtesy Contrasto Galleria, Milano

Il colore del tempo di Jamila Campagna

Il 23 settembre scorso, la Contrasto Galleria di Milano ha inaugurato l’esposizione Where Tomorrow is Yesterday, una selezione di scatti realizzati da Alex Webb sul territorio dell’India, un progetto carico di valenze simboliche e culturali, dove lo sguardo cosmopolita del fotografo di strada si è dilatato a raccogliere il vissuto di una particolare porzione di mondo. Le fotografie di Alex Webb sono delle strutture livellari, pronte a restituire la complessità dello spazio urbano; la scansione costruttiva delle sue immagini offre un approccio dove il soggetto raffigurato viene scoperto in più fasi: edifici e pareti come quinte sceniche da cui le figure entrano ed escono, stanze che si aprono sul fondo a compiere prospettive multiple e decentrate, finestre come tagli narrativi. Fotografo della Magnum dal 1976, Webb sceglie il colore come fosse un vocabolario fatto di aggettivi imprescindibili per documentare le culture che incontra. Il colore, nei suoi scatti, è la pulsazione vitale con cui la luce rivela le forme del mondo. La luce è colore, mentre la composizione serve ad attivare una dinamica dello sguardo dove gli elementi, dislocati su diverse profondità, aderiscono alla superficie dell’inquadratura e si combinano tra racconto e interpretazione; l’occhio dell’osservatore salta da un dettaglio all’altro nell’immagine, come fossero punti di riferimento, e segue le direttive di una rete di senso. è così che Webb racchiude la dimensione del tempo.

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«Un popolo che usa la stessa parola per dire ieri e domani non si può dire che abbia un solido controllo sul tempo», dice Salman Rushdie, nel suo romanzo d’esordio I figli della mezzanotte, riferendosi al popolo dell’India. A questo si riferisce il titolo della mostra, Where Tomorrow is Yesterday: i piani di realtà si sommano, si scalzano e si sorreggono giustapponendosi; lo spazio è esperienza del tempo, non nel suo farsi cronologico ma nella sua manifestazione subitanea, in quell’eterno presente che è l’«è stato» di ogni foto.

Alex Webb Where Tomorrow is Yesterday Fotografie dall’India 24 settembre - 21 novembre 2015 Contrasto Galleria Via Ascanio Sforza 29, Milano. Per informazioni: Alessia Paladini, contrastogalleria@contrasto.it, 0289075420, www.contrastogalleria.com


equivalents

Alex Webb, Bombay, India, 1981. ©Alex Webb/courtesy Contrasto Galleria, Milano

Alex Webb ha il sorriso cordiale e disponibile di chi ha una grande esperienza e i piedi delicatamente poggiati a terra; davanti allo scaffale grande quanto una parete, pieno di libri fotografici, della Galleria Contrasto, poi nella sala espositiva, Webb parla con entusiasmo della sua fotografia e del suo modo di essere fotografo. 1 La fotografia è un modo per raccogliere e analizzare la realtà su una superficie. Cosa puoi dire relativamente alla struttura delle tue fotografie e sugli elementi che la compongono? Ho sempre creduto che ci fosse un certo livello di complessità nella fotografia. Tendo a essere assorbito dalle cose complesse e dagli elementi stratificati. Dipende molto dal fatto che sostanzialmente vedo il mondo come un luogo multiforme, difficile da definire, difficile da comprendere integralmente. Potrei dire che le mie fotografie sono un modo per cercare di raggiungere una comprensione visiva di quella che è la mia esperienza del mondo. Non so cosa troverò quando esco di casa, è un processo di scoperta. 2 Circa la complessità del mondo, il progetto Where Tomorrow is Yesterday è una ricerca sull’India. Come sei riuscito a creare una serie uniforme e omogenea documentando un Paese stratificato qual è l’India? Questa è una domanda interessante; questa selezione di foto, effettivamente, proviene da tre differenti viaggi in India, realizzati in un lungo periodo di tempo. Il primo viaggio che ho fatto in India è stato nel 1981, mentre i successivi sono stati nel 2013 e nel 2014. Dunque, è molto interessante vedere che le fotografie mantengono una continuità, perché nonostante il lungo periodo di tempo in cui si è protratta la realizzazione del progetto, ho continuato a vedere il mondo nello stesso modo e a reagire nella stessa modalità attraverso il passare degli anni.

3 La maggior parte dei tuoi lavori sono realizzati a colori. Qual è il ruolo del colore nella tua fotografia? Il modo in cui sono arrivato al colore è interessante; ho iniziato con la fotografia in bianco e nero e ho lavorato quasi completamente in pellicola bianco e nero fino al 1978 circa. Ma dal 1975 al 1978 ho iniziato a lavorare su luoghi come Haiti, lungo il confine americano con il Messico, e poi più giù ai Caraibi e in America Latina. Nel farlo ho realizzato che mi stava sfuggendo qualcosa, che non stavo affrontando l’intensità della luce e i colori vibranti di quei luoghi; ho sentito che quei territori erano luoghi dove il colore è integrato nella cultura e penso che sia certamente così anche per l’India. Sicuramente esistono molte splendide foto in bianco e nero scattate in India, ma la mia esperienza in India è stata come essere assalito da una totale intensità di colore mentre camminavo giù per le strade. 4 Scattando per le strade, quanto è importante essere nel posto giusto al momento giusto? è molto importante, ma non sai mai quali siano il posto e il momento giusto. Ci sono volte in cui percepisci la possibilità di fotografare e scatti molte foto procedendo in una direzione ma, per qualche motivo, non funziona; allora ti giri e vai nell’altra direzione, scatti due immagini e lì trovi la foto. A volte devi attraversare la frustrazione e la pena di scattare molte foto senza successo per poi raggiungere quelle giuste attraverso un altro percorso. Per me, fotografare sulla strada è un processo molto misterioso, non hai mai il controllo. Il mondo è il tuo partner ma tu sei in balia del mondo. Non ha niente a che vedere con il controllo: si tratta di raccogliere una risposta.

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Alex Webb.

The color of time Jamila Campagna

Last 23rd of September, The Contrasto Gallery in Milan presented the exhibition Where Tomorrow is Yesterday, a selection of shots made by Alex Webb in India, a project full of cultural and symbolic values, where the street photographer’s cosmopolitan gaze has dilated to gather the living of a particular world portion. Alex Webb’s photographs are levelling structures, ready to give back the complexity of urban space; the constructive scanning of his images offers an approach where the subject is discovered in several phases: buildings and walls are like stage curtains from which the figures come in and go out, rooms open to make multiple and decentralized perspectives, windows are like narratives cut. Photographer for the Magnum since 1976, Webb chooses the color as a dictionary made of essential adjectives to document the cultures he encounters. Color, in his shots, is the vital pulsating through which light reveals the world shapes. Light is color, while composition helps to activate a dynamic gaze where the elements, deployed on different depths, join the surface of the framing and they combine between tale and interpretation; the observer’s eye jumps from one of the image’s detail to another, as they were reference points, and follows the path of a meanings’ network.

That’s how Webb encloses the time dimension. «No people whose word for ‘yesterday’ is the same as their word for ‘tomorrow’ can be said to have a firm grip on the time.», says Salman Rushdie, in his debut novel Midnight’s Children, referring to India population. To this refers the exhibition title, Where Tomorrow is Yesterday: the reality levels sum up, undermine and support juxtaposing each other; space is the experience of time, not in its becoming chronological but in its abrupt expression, in that eternal present which is the that-has-been of every photograph.

Alex Webb Where Tomorrow is Yesterday Fotografie dall’India 24 settembre - 21 novembre 2015 Contrasto Galleria Via Ascanio Sforza 29, Milano. Info: Alessia Paladini, contrastogalleria@contrasto.it, 0289075420, www.contrastogalleria.com

Alex Webb, Delhi, India 2014. ©Alex Webb/courtesy Contrasto Galleria, Milano

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Alex Webb, Aranmula, India, 2014. ©Alex Webb/courtesy Contrasto Galleria, Milano

Alex Webb’s smile is kind and warm, it’s the smile of someone who’s got a big experience and feet gently rested on the floor. Against the Contrasto Gallery’s shelf - as big as a wall and full of photograph books - and then in the exhibition room, Webb talks with enthusiasm about his photography and his way of being a photographer. 1 Photography is a way to analize and collect reality on a surface. What would you say about the structure of your photos and the composition elements? I always believed in a certain level of complexity in photographs. I tend to be drawned to things that are complicated and multilayered elements. It has a lot to do with the fact that I simply see the world as a very complex place that is difficult to define, difficult to fully understand. On some level, my photographs are a way to try to understand visually what is that I experienced out there in the world. I don’t know what I’m going to find when I walk out of the door but I find things and, in that process, discover things. 2 About the complexity of the world, the project Where Tomorrow is Yesterday is a research about India. How did you manage to create a uniform and homogeneous series documenting a Country multilayered as is India? That is an interesting question. This particular selection of pictures actually comes from three trips in India, over a long period of time; the first trip I made in India was in 1981 and the next trips that appear exhibited here were from 2013 and 2014. So in some way is kind of interesting that the pictures do hold together because it’s been a long period of time that I photographed and clearly I continue to see the world in the same way all this many years, I response in certain kind of ways consistently through the years.

3 The most of your works are in color. What’s the role of colors in your photographs? My way of coming to color was interesting; I started out as a black and white photographer and I worked pretty consistently in black and white until 1978 about. But from 1975 to 1978 I started working initially in Haiti, then along on the US Mexican border, and deeper in the Caribbean and deeper in the Latin America. As I did so I realized something was missing, that I was dealing with the intense light, the vibrant colors of these places, because I felt that these places are places where colors are embedded in the culture. I certainly think that is true also of India. You know, there are obviously a lot of wonderful black and white pictures taken of India but my experience in India is of being assoulted by a kind of intensity of color as I walked down the street. 4 Shooting on the street, how much is important to be in the right place at the right moment? It’s very important but one never knows what the right place or the right moment is. I mean, there are times when you sense the possibility to photograph and you take a bunch of photographs in the same direction and somehow it’s not working. So you turn the other direction, take two frames and that’s the picture. Sometime you have to go through the frustration and pain of taking all those photographs that were unsuccessful in one direction to be able to get the others in the other direction. For me, photographing in the street it’s a really misterious process, because you’re never in control, you know, the world is your partner but you are at the mercy of the world. It’s not about control, it’s about response.

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Magnus Hastings Drag Magnitude di E.M.

Nell’agosto scorso, ho avuto il piacere di chiacchierare con il fotografo Magnus Hastings. Questo è il risultato di un’interessante conversazione 1 Buongiorno Magnus, prima di tutto grazie per aver accettato il nostro invito. Raccontaci un po’ del tuo background. Sono cresciuto pensando che sarei diventato un attore; da bambino recitavo e poi ho frequentato la Guildhall School of Music and Drama... ma, durante l’adolescenza, ho imparato i rudimenti della fotografia. Mio padre era un fotografo semi-professionista e avevo l’abitudine di osservarlo nella camera oscura, mentre sviluppava in bianco e nero immagini di bellissime donne. Ora che ci penso, torno con la mente a quei ricordi quando dirigo una seduta fotografica con drag queen. C’è un’estetica simile nel glamour degli anni Settanta: capelli voluminosi, occhi con pesanti ciglia finte… tutte cose che amo ancora. Comunque sto divagando. Come detto, mi sono formato come attore, ma, con il passare del tempo mi sono stancato della recitazione e un giorno ho smesso. Sono poi passato alla fotografia (avevo già fatto dei lavori, usando uno pseudonimo) e molto rapidamente ho iniziato a guadagnarmi da vivere. Sai, c’è quella teoria per cui quello che dovresti fare, in realtà accade facilmente e al momento giusto.

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2 Nel 2011 ti sei trasferito da Londra a Los Angeles. Dopo aver lavorato con molte celebrità, hai concentrato il tuo lavoro sulle drag queen. Da dove proviene il tuo interesse per la scena drag? Beh mi piace pensare che da bambino ero una specie di drag queen... Amavo travestirmi rubando le scarpe a mia sorella, i cappelli di mia madre, etc. Quando sono arrivato a Sydney, in Australia, nel 2003, è stato come trovarsi a casa... C’era una meravigliosa e vibrante scena drag in cui mi sono perso, fotografando le drag queen più illustri, innamorandomi di quel mondo e divertendomi contemporaneamente. Quando mi sono trasferito a Los Angeles, contemporaneamente uno dei miei amici – la mia musa drag Courtney Act - ha fatto lo stesso e abbiamo iniziato a fare delle sessioni fotografiche. Tramite Courtney sono entrato in contatto con alcune delle drag queen più famose e sono stato colto da una vera e propria dragmania. Ad ogni modo, molte delle persone in quel mondo conoscevano già i miei lavori, dal momento che sono stato molto prolifico nella comunità gay. Quindi sono stato abbastanza fortunato; quando contattavo qualcuno

erano sempre entusiasti di lavorare con me. 3 Il tuo lavoro all’interno della comunità drag ha portato ad una mostra 1 e un libro, Why drag?. Potresti dirci che cosa ha ispirato questo progetto? Da quando ho iniziato a fotografare drag queen a Los Angeles, mi sono reso conto di avere un hard disk pieno zeppo di immagini e ho deciso di creare una pagina facebook DraggedAroundTheWorld 2 che è diventata popolare in pochissimo tempo. È stata un’ulteriore conferma su quello che amo e quello che amo fare. Ero a New York e alloggiavo presso l’Out Hotel, che ha un fantastico spazio espositivo di circa 3000 mq, e ho deciso che dovevo fare una mostra. Avevo già fotografato molte drag queen emergenti, incluse le quattro finaliste della nuova stagione di RuPaul’s Drag Race 3 , così 1

Presso l’OUT Hotel New York City, 26 Maggio – 31 Agosto 2014

2 www.facebook.com/ DraggedAroudTheWorld 3

RuPaul’s Drag Race è un reality statunitense che si basa sulla sfida tra drag queen. Il presentatore dello show è RuPaul Charles, il quale è anche giudice e mentore. I concorrenti devono


what’s happ

ho pensato ad una mostra a New York in coincidenza con la finale dello show. L’hotel era il posto perfetto. Ho avvicinato il curatore ed ho appreso che lo spazio espositivo era già stato prenotato per i due anni successivi. In compenso, avrei potuto avere a disposizione una piccola sala conferenze durante la settimana del Gay Pride. Dopo aver visto la sala, ho declinato gentilmente l’offerta. Beh, successivamente, il curatore ha visionato il mio lavoro e mi ha comunicato che avrebbe voluto la mia mostra lì, durante il periodo da me desiderato. La mostra è stata poi prolungata. Colui che adesso è diventato il mio agente letterario, al tempo lesse una recensione dell’evento e mi contattò, chiedendomi se fossi interessato a farne un libro. Nel frattempo, io avevo già ventilato l’ipotesi di un libro autopubblicato. Ho incontrato Dan Lazar presso la Writers House a New York e, successivamente ho stretto un contratto con il Chronicle di San Francisco, dove hanno compreso appieno il mio progetto e si sono adoperati per restare fedeli alla mia idea originale. Posso dire, quindi, che è accaduto tutto in maniera piuttosto organica, da quando ho stretto questo accordo ho viaggiato instancabilmente negli Stati Uniti facendo sessioni fotografiche. E’ stato un processo piuttosto lungo, per cui il risultato deve essere assolutamente impeccabile!!! 4 Inoltre, il progetto è diventato un documentario, che - confesso - attendo con trepidazione. Personalmente, credo che questo lavoro sia particolarmente necessario; da Paris is burning (1990) ricordo a malapena qualsiasi documentario sul mondo delle Drag Queen. Cosa ne pensi a riguardo? Beh… stiamo girando. Comparivo in parte in un altro documentario sulle drag queen e il regista, Dmitry Zhitov, avendo già alle spalle un documentario pluripremiato sul mondo drag, ha chiesto se poteva fare un film su di me e il mio libro. Ho accettato, a patto che si trattasse di una collaborazione al 50/50. Dal momento che sarà basato sul mio libro, sarò estremamente concentrato sulla mia visione del mondo drag. Sono in contatto con le più interessanti e celebri drag queen e in teoria dovrebbe fornire una buona idea del who’s who della scena corrente... I miei servizi fotografici sono divertenti e un po’ folli... tuttavia non credo di essere un argomento ideale, visto che sono un vecchio nevrotico fotografo scontroso!! (ride). Per quanto riguarda i documentari/film sulle drag queen, credo che a breve ne saremo invasi. Nel mostrare le loro doti di intrattenitori attraverso in varie sfide. Ogni settimana un concorrente viene eliminato; l’ultimo verrà incoronato America’s next drag superstar .

complesso questo è un momento molto emozionante per me e sto cercando di godermelo appieno; nonostante – come tutte le persone creative – non sia mai pienamente soddisfatto. 5 Considero essere drag come una forma d’arte. Pensi che, in questo particolare momento, ha - o potrebbe avere - una sorta di impatto sociale? È assolutamente una forma d’arte... Questo è il mio lavoro. È una forma d’arte emozionante ed estremamente fluida. Entrare in un drag club a San Francisco è come trovarsi nel Paese delle meraviglie: un posto dove nessuno ha soldi, eppure dove si mettono insieme costumi, scenografie, assolutamente dal niente. Sono così ispirato da queste persone e dal loro amore per l’arte... l’arte è ciò che conta... ed è divertente! Penso che l’ossessione per la comunità trans ha temporaneamente confuso, agli occhi della persona media, il mondo delle drag queen. Mi spiego; una drag queen è un clown/ un artista. È un alter ego che è messo e tolto a proprio piacimento. Esistono drag queen transessuali, ma nelle loro performance assumono una dramatis persona ben distinta dalla loro identità sessuale. Spesso, socialmente la gente non vede la differenza, eppure sono completamente diverse. 6 Scorrendo alcuni dei tuoi lavori, ho colto un accenno a uno miei fotografi preferiti, Robert Mapplethorpe. Quali sono le tue influenze - se ne hai? Ebbene sì, amo Robert Mapplethorpe e penso che le mie influenze sono dolorosamente convenzionali... Annie Leibowitz, David Bailey negli anni 60 e primi anni 70, David LaChapelle, Nan Goldin, che rappresenta l’opposto del mio lavoro, ma resta una grande fonte di ispirazione, e il mio eroe Helmut Newton. Ma la mia insicurezza come artista mi ha portato a realizzare ciò che è nella mia testa; ho un’idea o una visione di qualcosa che cerco di realizzare, anche se naturalmente l’obiettivo più semplice è sempre quello più difficile da raggiungere. 7 Con quale fotografo ti piacerebbe collaborare? Penso che vorrei guardare e imparare, più che collaborare. Sono piuttosto egocentrico, e quando ho un’idea, mi piace esplorarla a modo mio. Come, quando durante un servizio fotografico, chi è intorno a te inizia bombardarti con suggerimenti, o peggio a dare direzioni ai modelli. È abbastanza fastidioso per me, mentre scatto fotografie intraprendo un viaggio e sono sempre tre passi avanti, per cui venire interrot-

to rovina il flusso/la musica/il viaggio - chiamalo come preferisci - mi distrae e mi indispone. Sono noto per aver chiesto spesso alle persone di lasciare il set fotografico. Avrei voluto osservare Helmut Newton a lavoro. Era un artista straordinario. Forse il mio più grande difetto è lavorare velocemente, preoccupandomi del fatto che la persona che sto fotografando potrebbe annoiarsi, quindi sento il bisogno di non fermarmi. Sì, mi sarebbe piaciuto poter collaborare con Helmut Newton; lo avrei guardato creare arte, mentre preparavo il tè. 8 Quali sono le prospettive per Magnus Hastings? Beh, ho in mente un altro libro, la cui realizzazione però potrebbe essere un po’ più complicata di Why drag?. Lavoro meglio quando non devo rispondere a nessuno, concentrandomi solo sulla concretizzazione delle mie idee, il mio prossimo progetto segue questa linea, pur non concentrandosi solo sulle drag queen. Tuttavia, ho in programma il seguito di Why drag?. In più ora sono uno dei più grandi fotografi internazionali di drag queen e questo richiede alcuni interventi di manutenzione! 9 In conclusione, che libro stai leggendo e che musica stai ascoltando ultimamente? Che cosa ci consigli? Stranamente sono riuscito a spegnere il mio computer portatile e il telefono e comprarmi un libro per leggere, un paio di settimane fa. Ero arrivato ad un punto di rottura e i social media mi stavano trasformando in una persona nervosa, con una carente capacità di concentrazione, così mi sono fermato ed è stato meraviglioso. Il libro è un thriller chiamato La ragazza sul treno. Non esattamente una lettura impegnata, ma al momento va bene così. Leggere ha fatto in modo che mi prendessi una pausa, che smettessi per un po’ di portare sempre con me il mio portatile e il mio cane! Visto che il libro è di prossima uscita e che non sono mai soddisfatto, non posso fare a meno di analizzare costantemente il mio lavoro. Musica… Da vecchio gayboy amo la buona musica pop. Il mio album preferito è Rumors dei Fleetwood Mac: mi mette di buon umore e mi fa tornare alla mente ricordi dell’adolescenza... Mi piacciono molto le armonie ed i ritmi funky (ride). Penso che se una canzone è bella, non c’è alcun bisogno di essere snob... Proprio come l’arte, se ti piace, è tutto ciò che conta. www.magnushastingsphotography. com

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il muro

Magnus Hastings Drag Magnitude E.M.

Last August, I had the pleasure to chat with the amazing photographer Magnus Hastings. This is our fascinating conversation. 1 Good Morning Magnus, first of all thank you for accepting our invitation. Tell us a little bit of your background, when/how did you realize that photography was your weapon of choice, the perfect medium through which express yourself? I grew up thinking I was going to be an actor. As a child I acted and then attended the Guildhall School of Music and Drama, but in my teens I taught myself the basics of photography. My father was semi-professional and I used to watch him in the dark room developing incredible black and white images of beautiful women. Now I think about it, I draw from that in my head when I am directing drag queens, there was a similar aesthetic a 70’s glamour, big hair and heavy lashed eyes, that I still love. It is just so instantly glamorous. Anyway I digress. So as said, I trained as an actor but grew tired of it as I got older, and one day I just stopped. Then I switched to photography properly (I had been doing bits and pieces under another name) and very quickly I was earning a living. There is a theory that if it is what you are meant to be doing, it is actually easy and just falls into place. 2 In 2011 you have relocated from London to Los Angeles. After working with many celebrities, you focused your work on drag queens. Where does your interest in the drag scene come from? Well, I like to say I was a child of drag.

I would cross dress, stealing my sister shoes, my mum’s hairpieces etc. Then, when I arrived in Sydney Australia in 2003, it felt like I had found my way home. There was a wonderful vibrant drag scene and I just got lost in it, photographing the best queens, falling in love and generally having a blast. So I was still shooting drag all the time, I was shooting celebrities, in fact I kind have shelved drag for a bit because I got so busy in London, but after moving to LA and dabbling in celebrity shoots, I felt like my hands were tied dealing with publicists and managers, everything totally safe and unthreatening. At the same time one of my friends, now my great drag muse, Courtney Act had moved to LA as well and we started to shoot some new things together. She then put me in touch with some of the big drag stars here and very quickly I was switching into dragmania. Most people in that world kind of knew of me anyway as I have been quite prolific in gay world for a while. So I was lucky enough that when I contacted anyone they would both respond and be happy to work with me. 3 Your work within the drag community is resulted in an exhibition1 and a book Why Drag?. Could you tell us, please, what inspired this project? So once I started to shoot the queens again in LA, I thought I had a hard drive full of drag images just sitting there and 1

At the OUT New York City, from May 26th – 31st August 2014

decided to create a facebook page; so I quickly put together DraggedAroundTheWorld2 and it became popular very quickly, making me realize that this is what I love so this is what I should be doing. From this I was in NYC at the Out Hotel, which has the most incredible 3000 sq ft gallery space and I decided I needed to do a show. I had already photographed a lot of new queens, including the upcoming top four from the next season of Drag Race3, so I decided I wanted a show, in New York, to coincide with the crowning of season six and I decided the Out was the perfect spot. I approached the curator, who said that the exhibition space was booked out for two years but I could have small conference room through pride week. I looked at the space the next day and declined the offer saying I needed it all or nothing. Well, he took a good look at my work and then told me he wanted it there and would clear the time I requested as he loved it. So I got what I wanted: a huge space right on the tail end of drag race when everyone was in a frenzy about it. He then extended my show, so it was up for three months all in all. My literary agent actually read a feature in a magazine about the show and contacted me asking if I would consider making a book. Well I had already started mapping out a book which I would self publish if I had to, but this was perfect so I met Dan Lazar at Writers House in New York and he signed me to the agency so we finally locked down a deal with Chronicle in San Francisco, who I have to say have been fantastic and totally seem to get my vision, doing their best to be faithful to my original book concept. Since the deal I have been flying around the USA, shooting tirelessly. It has been a long time coming so it had better be perfect!! 4 It also has become a documentary, which I - have to say - just can’t wait to see. Personally, I do think that this work, in particular, is so much needed; since Paris is burning (1990) I can 2 www.facebook.com/ DraggedAroudTheWorld 3

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RuPaul’s Drag Race is an American reality series, based on competition between drag queen. The host of the show is RuPaul Charles, who is also a judge and mentor. Contestants must show their skills as performers play various challenges. Every week a contestant is eliminated; the last one will be crowned America’s next drag superstar.


what’s happ

barely recall any documentary about world of Drag Queens and art of Drag. What are your thoughts about it? Well we are just shooting as much as we can, I was filmed for part of a different drag documentary and the filmmaker, Dmitry Zhitov asked if he could make a film about me and my book. He already has a multi award winning drag documentary making the rounds, so I said yes if it is a total 50/50 collaboration and we do this together. Because if it is going to be about my book, I am very specific in what I want to say about the drag world. The good thing is I have access to the biggest queens around at the moment so, in theory, it should be, at the very least, a good who’s who of current drag and my photoshoots are fun and a bit insane...I just worry that I am not the best focal point as I am a grumpy old neurotic photographer!! (laughs)… But as far as not enough drag documentaries coming out, I think it is about to be flooded with them. All in all, this is a pretty exciting time for me and I am trying to enjoy it, though like most creative people I am never happy with my work… always thinking “why didn’t I do that/ move that / say that”! 5 I do view Drag as a form of art. Do you reckon that, in this particular moment, it has - or could have - a sort of social impact?

curity as an artist has meant that I basically do what is in my head, if I have an idea or a vision of something I try and do it. And of course the simplest idea is always the most impossible to achieve. 7 Is there any photographer you would like to work with? I think I would want to watch and learn from, but I don’t know about work “with”, I have way too much ego and when I get an idea then I want to explore that in my own way. It’s like, when you are on a shoot and people start chiming in with ideas, or even worse giving the model direction from the side, it is the most horrifying thing to me because taking photographs is a journey and I am always thinking three steps ahead so if someone interrupts it completely ruins the natural flow, music, journey whatever you want to call it. It is jarring and can totally throw me out of the moment. I have been known to ask people to leave. My ultimate fantasy would be just to observe Helmut Newton: he was such an extraordinary artist and a total inspiration. And his precision - my biggest downfall is working too fast, worrying that the subject will get bored so I need to get cracking. Actually maybe a collaboration with Helmut Newton... He could create art and I would make the tea. 8 What’s next for Magnus Hastings?

It is absolutely an art form, this is what my work is about. It is an incredible exciting fluid art form. Set a foot into a drag club in San Francisco and you are entering Wonderland. This vibrant exciting world where no one has money yet they pull together all sorts of incredible looks that are bubbling in their heads from absolutely nothing... I am so inspired by these people and their love for the art… Art is what matters... and fun! I think the obsession with the trans community has temporarily confused the drag issue for the average person, socially people don’t see the difference, but it is so completely different. A drag queen is a clown/ an artist. It is an alter ego that is put on and taken off at will. You can have transexual drag queens but they also take on a character - separate from their transexual identity

Well I have another book that I want to start, but it is possibly going to be even more difficult to pull together than Why Drag?. I think - I work best when I am not answering to anyone, just creating my own art and being my own

boss. So my next thing is more of the same, though this project is not all drag queens. However, I do have a “why drag the sequel” planned! Plus I am now one of the biggest Drag Photographers in the world and that takes some maintenance! 9 In the end, which book are you reading and what music are you listening to nowadays? What would you recommend us? Well, fun enough I managed to switch off my laptop, turn off my phone and buy myself a book to read a couple of weeks ago. I had hit a wall and social media had turned me into a twitching, attention span lacking, crazy person so I just stopped and it has been really wonderful. It is a thriller called The Girl on the train, not exactly hard reading, but it was perfect. It got me to take some down time, as I literally carried my laptop everywhere with me and my dog! With the book coming up, I am never satisfied so go over bits and pieces. Music… I am a big old gayboy and I like soulful pop music, my favorite album ever is Rumors by Fleetwood Mac: it just makes everything better and reminds me of being really really young in the british summertime. I am all about harmonies and funky rhythm (laughs) and mostly a female vocal. I have always said if the song is a great song, then I won’t be a snob about it... It’s like art, if you like it , it’s all that really matters. www.magnushastingsphotography.com

6 Going through your works, I do see a hint of one of my favourite photographers, Robert Mapplethorpe. Which are your influences - if you do have any? Well, yes, I love Robert Mapplethorpe and I think my influences are painfully mainsteam: Annie Leibowitz is a big one as is David Bailey in the 60’s and early 70’s, David LaChapelle, Nan Goldin who is kind of the total opposite of my work, but is so inspirational. And, my hero, Helmut Newton. But my inse-

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il muro

VENEZIA 72° RASSEGNA

Review a cura di Teresa Rizzoli

RABIN, THE LAST DAY

EVEREST

Amos Gitai

B. Kormákur

Amos Gitai, Rabin, the Last Day, Francia, Israele (2015)

Baltasar Kormákur, Everest, Stati Uniti d’America, Regno Unito, Islanda (2015)

4 novembre 1995. Il Primo Ministro di Israele Yitzhak Rabin organizzò una manifestazione per la pace - primo segno tangibile di una nuova ideologia di incontro e dialogo con i palestinesi - in seguito agli accordi di Oslo. Il 4 Novembre 1995 Rabin venne assassinato da 3 colpi di pallottole per mano di uno studente di legge, Yigal Amir, un fanatico dell’estrema destra la cui mano venne ideologicamente armata dai rabbini che professavano il tradimento di Rabin nei confronti del sionismo e lanciarono su di lui la maledizione di Pulsa Danura. Il regista Amos Gitai, attraverso spezzoni d’epoca, telegiornali e fiction, racconta magistralmente l’ultimo giorno di vita del Primo Ministro e l’inchiesta che seguì la sua morte. Tale inchiesta, volutamente spuria di qualsiasi spettacolarizzazione e polemica , è costituita da una serie di testimonianze volte a ricostruire e indagare le possibili falle nel sistema di sicurezza di quel tragico giorno. Tra le inchieste vi è anche la sconcertante parte dell’interrogatorio rivolto all’assassino, che lungi dal mostrare alcun segno di pentimento, mantenne un sorriso sprezzante a cammeo della sua personale vittoria. L’assassinio di Rabin non fu solo un gesto di enorme gravità per il governo di allora ma, come disse Gitai, segnò il destino di un popolo: «Il destino del paese è cambiato con quelle tre pallottole, Dobbiamo preservare la memoria di un gesto che non è stato sentimentale, ma di odio, l’opposto di quanto auspicava Rabin, che sosteneva l’impossibilità di un ritiro unilaterale da Gaza alla Cisgiordania. Rabin ha ribadito come Israele fosse nato da un progetto politico, preservare gli ebrei dalle persecuzioni, ma anche trovare un modo per rispettare gli altri e Israele è anche la terra dei Palestinesi. I progetti religiosi portano solo alla megalomania e al delirio». Un film profondo e potente, applauditissimo da critica e pubblico, che con un lungo uso di piani sequenza in crescente tensione, pennella la drammaticità di quei momenti e si fa profezia del futuro; tra le ultime immagini infatti, girate prima delle recenti elezioni, spicca un manifesto di Netanyahu dipinto come despote e acclamatore di popolo lontano dalla pace tanto agognata da Rabin. Come afferma lo stesso regista «La sfida era grande. Il carisma era la sua semplicità, io non volevo trasformarlo in un mito o peggio in un personaggio da fiction. Lui è il buco nero del film Cioè sta dentro ma non si vede».

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Si è aperta sul tetto del mondo, a 8.848 metri , la 72a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. La pellicola di apertura, ormai di tradizione spettacolare , è assegnata al regista Islandese Baltazar Kormákur che, ispirandosi al racconto Aria Sottile di Jon Krakauer, racconta la storia della spedizione sull’Everest avvenuta nel 1996 in cui persero la vita 8 scalatori. Il film, sebbene senza gran successo di critica ma bensì di pubblico, intreccia intimismo e senso epico in un connubio di immagini 3d che rimandano all’ancestrale tema dell’uomo e della natura in una dicotomica relazione di amore e morte, libertà e paura, grandezza ed impotenza. La grandezza della natura è – o vorrebbe - essere alla base del film e tale grandezza è posta in contrasto con la piccolezza dell’essere umano ,della sua condizione esistenziale: l’uomo come un minuscolo puntino circoscritto immerso in un universo infinito e maestoso capace di suscitare per questo sensazioni sublimi e contrastanti, come il momento dell’arrivo sulla vetta estrema e la paura di essere andati troppo oltre nella sfida . «La montagna ha sempre l’ultima parola» dice uno degli stellari protagonisti di Everest – nel cast Jason Clarke, Jake Gyllenhaal , Keira Knightley, Josh Brolin, Emily Watson e molti altri – e proprio la montagna farà emergere il senso di fratellanza , di cameratismo e comunione all’interno dei due gruppi di scalatori la cui nota competizione viene messa da parte per il raggiungimento dell’obiettivo comune: la vetta. La pellicola, costata la bellezza di 85 milioni di dollari, ha avuto come scenario l’Himalaya, le Dolomiti (Val Senales) , gli studi di Cinecittà e quelli di Pinewood; per le riprese dirette sulle cime dell’Everest è stata impiegata una massiccia quantità di droni. Everest apre la Kermesse non senza vena polemica, all’origine stessa del film, ossia lo sfruttamento della montagna il cui inizio simbolico fu proprio la spedizione del 1996 ed in cui le compagnie di scalatori Adventures Consultant e Mountain Madness si contesero il primato della vetta portando con loro anche scalatori non esperti che si rivelarono fatali per le sorti della spedizione. Tecnicamente ben strutturato il film rende perfettamente il ruolo centrale dei campi base, l’importanza dell’acclimatamento ed i rischi di quell’altitudine , in primis l’ipossia. Il film è nelle sale dal 24 settembre.


la caverna di platone

FRANCOFONIA Aleksandr Sokurov Aleksandr Sokurov, Francofonia, Francia, Germania, Paesi Bassi (2015)

REMEMBER Atom Egoyan Atom Egoyan, Remember, Canada (2015)

Remember, ultimo capolavoro di A. Egoyan, è una pellicola che parla di vendetta, di verità, di paradosso, di denuncia , ma soprattutto di memoria. La memoria annientata del protagonista Zev – uno stupefacente Christopher Plummer - affetto da demenza senile ed il cui nome in ebraico significa Lupo. Zev è ricoverato in una lussuosa casa di riposo e insieme alla sua famiglia celebra la settimana di veglia ebraica per la morte della sua adorata moglie Ruth. Zev ogni mattina si sveglia e chiama Ruth. Ogni mattina si sveglia e non ricorda chi sia, la sua storia, la guerra, la deportazione, Auschwitz. Il numero 98814 che ha marchiato sul braccio – che ha in comune con il suo amico Max, anch’egli ricoverato - è tutto ciò che ha per ricordare. Dopo la morte di Ruth, Max induce Zev a compiere la sua promessa di vendetta ed uccidere il caporale nazista Otto Wallish, chiamato da decenni Rudy Kurlander, responsabile dello sterminio delle loro famiglie ad Auschwitz. Accompagnato solo da una lettera di istruzioni di Max, il novantenne Lev inizia il suo lungo viaggio alla ricerca di Rudy Kurlander. La voce della storia e quella della memoria personale si intrecciano in una melodia suonata al pianoforte, una melodia di Wagner. Un ebreo, Zev, che suona Wagner. E ancora tra treni, taxi e autobus si snoda un altro paradosso dipinto magistralmente da Agoyan: un uomo affetto da demenza senile che non riconosce neppure sé stesso ha il compito di riconoscere il volto assassino della sua storia. I Kurlander ancora in vita sono quattro, omonimi. Lev li troverà tutti ma solo l’ultimo si rivelerà essere il suo uomo. «Non avrei mai riconosciuto il tuo volto ma non posso dimenticare la tua voce» gli dice «adesso ricordo». Qui il magistrale colpo di scena, svolta epocale del film e della memoria collettiva che non possiamo svelare. La musica a collante di tutto - perché no, quella di Wagner che va oltre la memoria personale e parla in un luogo che la scienza non conosce, un luogo in cui ogni vendetta assume le tinte della redenzione.

Europa , Parigi , Louvre. Alexsandr Sokurov, già protagonista a Venezia’68 con quel Faust che incantò la giuria tanto da conquistare l’ambito Leone d’oro, torna a stupire con il visionario docufilm Francofonia. Un inno all’Europa, un inno alla cultura. Un’ analisi acuta dei perversi rapporti tra il potere e l’arte, di come quest’ ultima rappresenti non solo la storia delle nazioni ma anche quella individuale, riflettendosi tra le tele del Louvre. «Cosa sarebbe la Francia senza il Louvre? Cosa sarebbe la Russia senza l’Hermitage?» Queste le domande che si pone la voce narrante fuori campo di Francofonia, voce che conduce lo spettatore in un viaggio alla ricerca delle origini del palazzo, quasi alle origini della cultura stessa; una focale sulla complessa relazione tra il potere e la conservazione del patrimonio storico - artistico di un popolo in occasione del secondo conflitto mondiale. La pellicola inizia con la descrizione del palazzo in un collage di immagini storiche di repertorio e filmati di finzione in cui si alternano le più diverse tecniche narrative e cinematografiche. Le riprese dell’occupazione nazista si combinano a scene attuali che vedono una nave alla deriva trasportare in un qualche mare Europeo – che non è dato sapere - una serie di conteiner di opere d’arte. La metafora del regista è chiara e sottolinea ancora una volta la scarsa cura riservata alla cultura, lo stato di degrado e abbandono delle opere d’arte la cui importanza storica è pressoché ignorata. «Le idee più belle e quelle più orribili vengono dall’Europa che ormai è alla deriva. E questa civiltà ha accumulato errori su errori- basti pensare oggi alla Crimea e all’Ucraina- che hanno portato una catastrofe morale, un vera tragedia» ribadisce Sokurov. Prime protagoniste di Francofonia sono dunque le opere d’arte, dai leoni assiri alle tele di Botticelli, alternate da personaggi di rilievo come il direttore del Louvre Jacques Jaujard e il conte Franziskus Wolf- Metternich, incaricato di saccheggiare i depositi per Hitler che rinviò la deportazione e fu rimosso nel 1942 . E ancora la voce ed il volto di una Marianna dal cappello frigio che si aggira tra le sale ripetendo la triade Libertè, Ѐgalitè, Fraternitè, intervallata da un buffo Napoleone I che ribadisce bofonchiando la sua centralità nella realizzazione della collezione del Louvre. «Come si può fare una scelta tra vita e arte, quale cosa è più sacra? Voi che cosa scegliereste? Si può fare davvero questa scelta?»

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il muro

VENEZIA 72° RASSEGNA

Reviews cured by Teresa Rizzoli

RABIN, THE LAST DAY

EVEREST

Amos Gitai

B. Kormákur

Amos Gitai, Rabin, the Last Day, France, Israel (2015)

Baltasar Kormákur, Everest, U.S.A., United Kingdom, Iceland (2015)

4th November 1995. Israel Prime Minister Yitzhak Rabin organized a peace demonstration – first tangible sign of a new ideology of communication towards Palestinians – after Oslo agreement. On the 4th November 1995 Rabin is murdered with three shots of gun by Yigal Amir, a laws student and fanatic from the extreme right wing whose hand was ideologically armed by the Rabbis who professed Rabin betrayal towards Zionism and so they casted upon him the Pulsa Danura malediction. The director Amos Gitai, through clips of that time, news and fictions, skillfully tells the Prime Minister’s last day of life and the inquest that followed his death. Such inquest, intentionally spurious from any form of show or controversy, is made of several statements directed to reconstruct and investigate the possible failures in the security system of that tragic day. Among the inquests there is also the disconcerting part about the killer interrogation, who far from showing any sign of regret, kept a prideful smile as cameo for his personal victory. Rabin assassination was an action of enormous seriousness not only for the government of that time but, as Gitai said, it signed a population’s destiny: «The Country destiny has changed with those three bullets. We must preserve the memory of an action that wasn’t of love but of hate, the opposite of what Rabin wished for, who asserted the impossibility of a unilateral retreat from Gaza to West Bank. Rabin has reaffirmed how Israel was born from a political project, preserve the Jews from persecutions, but also find a way to respect the others and Israel is the Palestinians country too. Religious projects lead only to megalomania and frenzy». An intense and powerful film, very much applauded by the critics and audience, that through a long usage of level sequences in rising tension, paints those moments of dramatic nature and becomes prophecy for the future; in fact among the last images, shot before the recent elections, a poster of Netanyahu sticks out painted like a dictator who acclaims the population far from Rabin’ so longed peace. How the same director states «The challenge was big. Simplicity was his charism, I didn’t mean to turn him into a myth or worse into a fiction character. He is the movie black hole. That is he’s in but can’t be seen».

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The 72nd Venice International Film Festival inaugurated on the world roof, at 8.848 meters. The opening film, of spectacular tradition by now, is assigned to the islandic director Baltazar Kkormàkur who tells the story of the Everest expedition happened in 1996 where 8 climbers died, inspired by the story Light Air of Jon Krakauer. The movie, although hasn’t got a big success from the critics but from the audience, intertwines individualism and epic sense in a bond of 3d images that recall the ancestral theme of man and nature in a dichotomy relationship of love and death, freedom and angst, magnitude and helplessness. The nature magnitude is – or would- be at the base of the film and such magnitude is put in contrast with the human being’s littleness, existential condition: the man like a tiny circumscribed spot immersed in a majestic and never ending universe capable to generate sublime and contrasting sensations, like the moment of the arrival on the extreme top and the angst of being gone too much beyond in the challenge. «The mountain has always got the last word» says one of the extraordinary protagonists of Everest – in the cast Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Keira Knightley Josh Brolin, Emily Watson and many others – and it’s just the mountain that will make emerge feeling of fraternity, friendship and communion within the two groups of climbers whose renown competition is put apart to reach their communal target: the mountain peak. The film, costed 85 million dollars, has had for scenery the Himalaya, Dolomites (Val Senales), Pinewood and Cinecittà studios; a massive numbers of drones were used for the direct action shots on the Everest peaks. Everest opens the Kermesse mildly argumentative, for the origin of the film itself, that is the mountain exploitation which symbolically began with the 1996 expedition where the climber companies Adventures Consultant and Mountain Madness competed for the record in reaching the peak taking with them also inexpert climbers who revealed lethal for the expedition chances. The film technically well structured, gives perfectly the central role of the base camps, the importance of acclimation and the risks for that elevation, first of all hypoxia. The movie is at the cinemas from 24th of September.


plato's cave

FRANCOFONIA Aleksandr Sokurov Aleksandr Sokurov, Francofonia, France, Germany, Netherlands (2015).

REMEMBER Atom Egoyan Atom Egoyan, Remember, Canada (2015)

Remember, A. Egoyan’s last masterpiece, is a film that talks about revenge, truth, paradox, report, but first of all about memory. The destroyed memory of the protagonist Zev, - an amazing Christopher Plummer- suffering from senile dementia and whose name in Hebrew means Wolf. Zev is in a luxury nursing home and, together with his family celebrates the Hebrew wake week for the death of his beloved wife Ruth. Every morning Zev wakes up and calls Ruth. Every morning he wakes up and doesn’t remember who he is, his story, the war, deportation, Auschwitz. The number 98814 that he has stamped on his arm- in common with his friend Max, who is in the nursing home too- is all he’s got to remember. After Ruth’s death, Max persuades Zev to carry out his promise of revenge and kill the Nazi corporal Otto Wallish, named Rudy Kurlander for decades, who is responsible for the extermination of their families in Auschwitz. The ninety year old Zev starts his long journey in search of Rudy Kurlander accompanied only by Max’ instructions letter. The voice of history and that of personal memory intertwine in a melody played by piano, one of Wagner’s melodies. A Jew, Zev, that plays Wagner. And once again between trains, taxies and buses loses another paradox skillfully pictured by Agoyan: a senile dementia affected man who doesn’t recognize himself has the task to recognize the face of his story assassin. There are four Kurlander still alive, namesakes. Zev will find all of them but only the last one will be the man he’d been looking for. «I’d have never recognized your face but I can’t forget your voice» he says «I remember now». Here comes the masterful plot twist, film and collective memory epochal turning point which we cannot reveal. Music is the glue in all- why not, Wagner’s music- that goes beyond personal memory and talks in a place the science doesn’t know, a place where every revenge takes the colors of redemption.

Europe, Paris, Louvre, Aleksandr Sokurov,already protagonist in Venice ’68 with the Faust that enchanted the jury so much to achieve the yearned Golden Lion price, comes back to amaze with the visionary docufilm Francofonia. A hymn to Europe, a hymn to culture. An acute analysis of the perverse relationships between power and art, and about how art represents not only the nations history but also the individual history, reflecting among the paintings in the Louvre. «What would France be without the Louvre? What would Russia be without the Hermitage?» These are the questions the narrating voice over of Francofonia asks, voice that leads the audience through a journey in search of the palace origins, almost to the roots of the culture itself; a focal point about a population’s complex relationship between power and preservation of the historic-artistic heritage on the occasion of the second world war. The film starts with the palace description through a collage of archive historical images and fiction clips where the most different cinematographic and narrative techniques alternate. The shots of the Nazi occupation combine with today scenes that show a ship adrift while carrying a series of containers full of artworks, in some European sea which is not possible to know. The director’s metaphor is clear and once again highlights the insufficient care about culture, the state of neglect of the artworks whose historic importance is almost ignored. «The most beautiful and the most horrid ideas come from Europe that is, by now, adrift. And this civilization has accumulated mistakes over mistakes which have brought a moral catastrophe, a real tragedy, we only have to think about Crimea and Ukraine today» Sokurov restates. First protagonists of Francofonia are therefore artworks, from the Assyrian lions to Botticelli’s paintings, alternated by important characters like the Louvre director Jacques Jaujard and the count Franziskus Wolf- Mettermich who was appointed by Hitler to sack the depots, who pushed back deportation and so was removed in 1942. And more the voice and face of a Marianne, wearing a hat, wandering among the rooms while repeating the triad Libertè,Egalitè, Fraternitè, spaced out by a funny Napoleon I who restates his centrality in realizing the Louvre collection, while grumbling. «How can we make a choice between life and art, which is more sacred? What would you choose? Can we really make this choice?»

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Il riscatto dei resti di Francesco Ciavaglioli Se c’è un aspetto interessante nel nostro attuale rapporto con le immagini è certamente quello della loro iperproduzione, ma anche della loro durata infinitamente breve; la vita delle immagini che ci circondano costantemente dura molto spesso solo pochi istanti. Basti pensare ad applicazioni come Snapchat che dopo solo dieci secondi cancella automaticamente le foto condivise. Questa valanga di immagini comuni senza una vera e propria qualità artistica sono in fondo una forma di consumo che finisce per costituire un immaginario-junk: la narrazione in tempo reale di un’esistenza frammentaria, esplosa nel caleidoscopio dei mass media, dove gli individui si perdono in una sostanziale omologazione collettiva. Tutto ciò non deve necessariamente essere visto come un dato negativo, questo accumulo compulsivo delle immagini pubbliche e private lascia emergere i lati forse più autentici della nostra società, la sua appartenenza a un immaginario collettivo molto più vasto. Questa omologazione potrebbe essere in ultima analisi il sintomo dell’emersione di un’identità ancestrale, particelle di un patrimonio culturale e spirituale che l’arte può e deve in qualche modo mostrare. Non è certo attraverso gli strumenti del critico o dello storico che questi resti rivelano la loro potenza: un nuovo atteggiamento dovrà essere adottato, un’archeologia o antropologia

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delle immagini sarà lo spirito di riscatto e la guida di un rinnovato approccio artistico. Se l’attualità delle immagini ci sfugge perchè assuefatti al quotidiano, non resta che interrogare la loro eternità, la loro capacità di conservare la memoria di tempi storici eterogenei, in una parola sopravvivenze. Sarà forse per questo che un esempio di quest’arte archeologica e accumulatoria, che colleziona e riattiva gli stracci del nostro tempo, non sia opera di un vero artista, ma di un cosiddetto outsider: lo statunitense Henry Darger (Chicago, 12 aprile 1892 – 13 aprile 1973). Quest’uomo comune, affetto da diverse sindromi psichiche, che conduceva una vita piatta casa e lavoro, nascondeva nella sua modesta stanza opere di una poetica lacerante. Darger non faceva altro che selezionare e ritagliare immagini da giornali e riviste per poi ricalcarle in lunghe strisce di carta. Questa ri-composizione di immagini e sfondi illustrava il suo In the realms of the unreal, delirante romanzo di oltre 13.000 pagine, ma soprattutto dava vita ed esorcizzava al suo turbolento universo psichico. È riflettendo su questo potere di riscatto di immagini comuni che è stata concepita l’opera collettiva Adunanza, realizzata per la residenza artistica Kilow’Art 2015 a cura di Saverio Verini per la sezione arti visive di Kilowatt festival di Sansepolcro (AR). Adunanza è un’opera collettiva e partecipata che si presenta


artist's word Opposite: Francesco Ciavaglioli, Adunanza, 2015. Drawing on transaparent paper applied on light box 150x200 cm Francesco Ciavaglioli, Adunanza, 2015. Ricalco su carta trasparente applicata su light box, 150x200 cm

Francesco Ciavaglioli, Adunanza (dettaglio), 2015. Drawing on transaparent paper applied on light box 150x200 cm. Francesco Ciavaglioli, Adunanza (detail), 2015. Ricalco su carta trasparente applicata su light box, 150x200 cm.

come un grande ritratto di gruppo applicato su un supporto luminoso. Durante alcune giornate di residenza sono stati raccolti 368 ritratti degli abitanti di Sansepolcro, la maggior parte di queste foto sono state scattate presso strade, piazze e scuole; altre sono arrivate via mail. I ritratti sono stati infine assemblati in un grande collage che, durante un laboratorio, è stato ricalcato volto per volto su un unico foglio trasparente. La realizzazione ha coinvolto oltre cento persone tra adulti, bambini e anziani, senza che fossero richieste particolari attitudini artistiche. L’opera prende spunto dalla Madonna della Misericordia di cui Sansepolcro conserva il significativo esempio di Piero della Francesca. Nella tradizione medievale questo tipo di iconografia vedeva una ressa dalle proporzioni sterminate assiepata sotto il mantello protettivo della Vergine dove, talvolta, erano riportate intere città. Il tema della folla lega questa rappresentazione alla nascita delle confraternite: una prima forma di associazione laica volta all’impegno sociale.

nografico si trasforma in atto collettivo di auto affermazione. L’opera non mostra una comunità idealizzata o rielaborata dalla coscienza di un singolo artista, ma da una stratificazione dei diversi volti e delle diverse grafie. Ciò che resta sulla carta illuminata sono tracce che non trovano la loro bellezza nell’estetica formale tradizionalmente intesa ma dall’operazione di riscatto di queste immagini e di questi gesti che senza una partecipazione orizzontale e indiscriminata non sarebbe potuta esistere. Il ricalco non rappresenta semplicemente una tecnica di realizzazione, ma uno strumento che detona la partecipazione e sonda l’immaginario collettivo.

www.francescociavaglioli.it www.kilowattfestival.it

È dunque per rileggere questa immagine alla luce di un contemporaneo senso del sociale che in Adunanza il tema ico-

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il muro Francesco Ciavaglioli, Adunanza (work in progress), 2015. Drawing on transaparent paper applied on light box 150x200 cm Francesco Ciavaglioli, Adunanza (work in progress), 2015. Ricalco su carta trasparente applicata su light box, 150x200 cm

The reevaluation of remains Francesco Ciavaglioli A very interesting aspect of our contemporary approach to images is about their hyper-production, but also about their short-term duration; the life of the images that surround us often lasts just a few moments. We can think about apps like Snapchat which automatically deletes images after 10 seconds from the sharing. This flood of common images with no artistic value is a way of consumerism that builds up a junk-imagination: the real time narration of a fragmentary existence in the mass media kaleidoscope, where individuals get lost in a collective homogenization. It’s not an absolute negative; the compulsive stockpile of public and private images shows the most authentic faces of our society as it belongs to a huger collective imagination. This kind of homogenization could be the symptom of an ancestral identity, pieces of a cultural and spiritual heritage that art can - and has to - present. Critics and historians don’t catch the power of this kind of remains: a new path has to be chosen, an archeology or an anthropology of images will lead a reevaluation for a renewed artistic approach. If we can’t get the newness of images because we are used to them, we have to question on their eternity, their way to preserve the memory of heterogeneous periods, in a word: survivals. That’s probably the reason why the most known representative of this archeological and accumulative art - which makes active the rags of our time - is not an artist, but he’s a socalled outsider: Henry Darger (Chicago, 12 April 1892 – 13 April 1973). A common man affected by several psychic syndromes, with a monotonous life from home to work, who hided in his humble room a series of artworks full of a tearing poetry. Darger used to select and cut images from newspapers and magazines and then retrace them on a long paper strips. The re-composition of figures and backgrounds illustrated his In the realms of the unreal - a delirious novel of more than

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13.000 pages - and also gave life and dispel his troubled psychic universe. Reflecting on the common images power of reevaluation, the collective work Adunanza has been conceived and realized for the artistic residence Kilow’Art 2015 cured by Saverio Verini for the visual art section of Kilowatt festival - Sansepolcro (Arezzo, Italy). Adunanza is a collective and participated artwork, a huge group portrait realized on a light surface. During the residence period, an amount of 368 portraits of Sansepolcro inhabitants has been collected; the most of the photos have been taken on the streets, squares and schools, others came by emails. The pictures have been assembled in a big collage which has been retraced face by face on a transparent sheet during the laboratory session. The work involved more than 100 persons among adults, children and elderlies, with no artistic ability required. The work is inspired by the iconography of Piero Della Francesca’s Madonna della Misericordia owned in Sansepolcro. In the Medieval tradition this iconographic subject shows a multitude of people - sometimes whole cities - sheltered under the protective Virgin Mary cloak. The crowd links this kind of representation to the beginning of confraternities: the first kind of laic association dedicated to social matters. The theme is renewed in Adunanza to read this kind of image after a contemporary sense of social: the iconography becomes a collective action of self- affirmation. Adunanza doesn’t present the town community as an idealized representation made by some artists; it shows a multilevel of several faces and many hand-signs. The aesthetical beauty of the traces is not the traditional one but it’s reached by the operation of reevaluating of images and gestures possible thanks to the collective involvement. Retracing is not just an artist technique, it’s a tool that opens up the involvement and analyzes the collective imagination.


la ruota panoramica

The Happiest Days of Our Lives

[ Roger waters - © WARNER/CHAPPELL MUSIC, INC. ]

You! Yes, you! Stand still laddy When we grew up and went to school There were certain teachers who would Hurt the children any way they could By pouring their derision Upon anything we did Exposing every weakness However carefully hidden by the kids But in the town it was well known When they got home at night, their fat and Psychopathic wives would thrash them Within inches of their lives

Another Brick In The Wall (Part II)

[ Roger Waters - Copyright: Roger Waters Music Overseas Ltd., Warner, TAMERLANE PUBLISHING CORP., Artemis Muziekuitgeverij B.V. ]

We don’t need no education We don’t need no thought control No dark sarcasm in the classroom Teachers leave them kids alone Hey teacher leave them kids alone All in all it’s just another brick in the wall All in all you’re just another brick in the wal We don’t need no education We don’t need no thought control No dark sarcasm in the classroom Teachers leave them kids alone Hey teacher leave us kids alone All in all you’re just another brick in the wall All in all you’re just another brick in the wall


il muro

NOSTALGIA. di Valeria Martella

Ad inizio ‘900 non era così, c’erano delle aspettative. Tutto ferveva: guerra imminente, arte che passava da struggente a distruttiva, letteratura decadente. La stanchezza che attanagliava i cittadini del mondo era mista ad una fiducia cieca verso un qualcosa di meglio,un futuro che ripagasse i tanti sacrifici patiti. I decenni passavano ma la delusione aumentava. Effettivamente l’economia mondiale progrediva e i cittadini lavoravano producendo e intascando ricchezza, ma tutto si svuotava di ogni significato. L’utilitarismo si era sostituito al bello già con il Bauhaus di inizio secolo ma con la Pop Art l’arte si stava vendendo alla società del consumo. Certo le esigenze erano cambiate, non si poteva più fare Arte per l’Arte e il boom economico necessitava di un veicolo funzionale, ma la bellezza che fine aveva fatto? La ricerca all’utile ha fatto pian piano dimenticare cosa fosse il bello. I ritmi incessanti della massa non lasciavano spazio alle lamentele poetiche, alla pittura stancante e minuziosa come quella preraffaellita, all’arredamento liberty. Tutto era diventato disposable e replaceable come quelle macchinette fotografiche analogiche di cui Andrew Warhola faceva largo uso. Dove è finito l’estetismo? Oggi più che mai, della bellezza Neoclassica non rimangono che freddi marmi vuoti di tutto l’ardore che li animava ai tempi in cui Winckelmann ne cercava di capire il segreto, delle parole dannunziane non permea nelle persone altro se non la sua ideologia politica. Tutto si è svuotato. Siamo nei primi decenni del 2000 e le aspettative non ci sono più, niente più ferve, siamo pressochè spenti. Siamo limitati a vivere un presente che non lascia spazio alla contemplazione o alla speranza in un futuro più brillante e tutto l’interesse è vòlto al proseguimento di questa situazione di apparente agiatezza che nasconde un lato di deboli sentimenti. Chi ha un istante per riflettere, per fermarsi a cercare di capire cosa stia succedendo realmente viene assalito dallo sconforto. I valori che avevano messo in moto questa macchina di produzione nello scorso secolo ora non ci sono e si prosegue per inerzia, senza capire, senza provare niente. Agli sfortunati, allora, che hanno ancora un minimo di sensibilità verso le cose non resta che nostalgia, la nostalgia di tempi che furono animati da paure, incertezze, speranze, vittorie, celebrazioni testimoniate dai grandi artisti, dai grandi letterati. Mai dimenticare, però, che questo sentimento di tristezza ha dato sin dai tempi antichi spunto per nuova arte.

Sublime armonia di mistici accordi sfumati colori di antichi ricordi atavico soffio su polvere nera svanisce in un lampo la magica sfera. -Saffo-

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la recherche

NOSTALGIA. Valeria Martella

At the beginning of 1900 it wasn’t so, there were some expectations. There was a lot of fervor: the war was imminent, the art turned from being poignant to destructive, decadent literature. The tiredness that hit the world citizens was mixed to a blind trust towards something better, a future which could pay back all the pains. Decades went by while disappointment grew. As a matter of fact the world economy was growing and people were working making and earning richness, but everything was losing its meaning. Already with Bauhaus, at the beginning of the century, utilitarianism took the place of beautiful, but with Pop Art the art was being sold to consumption society. Obviously the needs had changed, it wasn’t possible anymore to make Art for the Art and the economic boom needed a functional way, but where ended up beauty? The search for utility made slowly forget what the beauty was. The mass fast rhythms didn’t let space to poetical complaints, to the weary and scrupulous painting like that preraffaellita, to the liberty fittings. Everything became disposable and replaceable like those analogic cameras used by Andy Warhol. Where is aestheticism gone? Of the neoclassic beauty are left only cold marbles empty of the ardor they had at the time when Winkelmann tried to understand their secret, what mattered to people about D’Annunzio’s words was his political ideology. Everything is empty. We’re in the first decades of 2000 and there are no more expectations, no more fervor, we’re almost switched off. We’re living a present that doesn’t leave space to contemplation or hope for a better future and all the interest is for continuing this situation of apparent wealth that hides a side of weak feelings. If someone has a moment to think over, to stop and try to understand what’s really going on gets assaulted by discouragement. The values that last century started this production machine now there aren’t anymore and we keep going without understanding, without feelings. To the unlucky ones, who still have a little sensibility towards things, is only left nostalgia, nostalgia of times that were animated by fears, doubts, hopes, victories, celebrations testified by great artists, great men of letters. But, never forget, this feeling of sadness has given ideas for new art since ancient times.

Sublime harmony of mystical chords pale colours ancient memories ancestral breath on black dust vanish in a flash the magical sphere. -Sapphos, Nostalgia, tr. from the Italian version by J.C.-

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Sziget Festival, il cuore giovane dell’Europa a cura della redazione

Era la metà di agosto e c’era un ragazzo che parlava ad alta voce, seduto su un asciugamano, sull’erba, in uno dei mucchietti di ragazzi che occupavano sconfinatamente il prato di fronte al palco del Sziget Festival; era un momento di pausa, chiacchieravano e lui ha detto, in un inglese un po’ stentato, “Ci vorrebbe uno come Gorbacëv ora, per l’Europa, per il mondo”. A colpo d’occhio il ragazzo è giovanissimo, probabilmente nato dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo l’intervento di Gorbacëv, che per lui forse è più leggenda che storia, simbolo di rinconciliazione, anche se molti altri muri sono ancora eretti sul confine di troppi luoghi, di troppe Nazioni. Siamo a Budapest, sull’Isola di Óbuda, in Ungheria, e proprio in quel momento, altrove, sempre in Ungheria, il governo locale sta costruendo un muro lungo il confine con la Serbia, per bloccare il flusso di immigrati. Presto l’Europa avrebbe aperto gli occhi su un problema mondiale e il resto è cronaca dei giorni nostri. Ma è proprio così, nei discorsi conviviali di una moltitudine di ragazzi che si confrontano nell’attesa tra un evento e l’altro, che si costruisce un nuovo senso di comunità. L’Isola della libertà dello Sziget Festival, vincitore del premio EFA come Miglior Festival Europeo nel 2014, raccogliendo una partecipazione di ragazzi immensa - i cosìdetti Szitizens, più di 415.000 da tutto il mondo - con un’offerta musicale e artistica che abbraccia tutti i generi (anche con grandi partecipazioni: Robbie Williams, Florence + The Machine, Limp Bizkit, Alt-J, Martin Garrix, Dixon, Avicii, Knife Party, Foals, Interpol, Gogol Bordello, Babylon Circus, Jungle) descrive un nuovo modo di pensare la collettività, l’incontro tra culture, la condivisione.

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Tra musica, arte circense e di strada, visual art, zone dedicate allo sport e alla queer culture, il Sziget Festival sembra dire che ci sono luoghi dove si può essere giovani per sempre, sospinti da un flusso energetico che sa di élan vital. E ci ricorda che ci sono luoghi utopici che sono reali, dove tutti i muri sono caduti, non solo quelli di cemento.


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Sziget Festival, the young heart of Europe the editorial team It was the middle of August and, among a bunch of youngs who occupied infinitely the field opposite the Sziget Festival stage, there was a young boy that talked loud, sat on a towel, on the grass; it was during a break, they were talking and he said, in a struggled English, ”One like Gorbacëv would do now, for Europe and for the world”. At a glance he looks very young, he was probably born after the fall of the Berlin Wall, after Gorbacëv ’s speech who is for him probably more a legend than history, symbol of reconciliation, there are still many walls on the borders of too many places, too many Nations. We are in Budapest, on the isle of Obuda, in Hungary and, at the same time, somewhere else, the local government is building a wall along the border with Serbia, to block the flow of immigrants. Soon Europe would open the eyes over a world problem and the rest is today news. But it’s just this way, In the convivial talking of a multitude of young who compare each other in the wait between an event and the other, that one makes a new sense of community. The Sziget Festival Island of Freedom, winner of the EFA price as Better European Festival 2014, gathering an immense young participation – the so-called Szitizens, more than 415.000 from all over the world – with an artistic and musical offer that embraces all genres (with great participations too: Robbie Williams, Florence + The Machine, Limp Bizkit, Alt-J, Martin Garrix, Dixon, Avicii, Knife Party, Foals, Interpol, Gogol Bordello, Babylon Circus, Jungle) describes a new way of thinking the collectivity, the encounter between cultures, the sharing. Between music, street and circus art, visual art, places dedicated to sport and queer culture, the Sziget Festival seems to say that there are places where one can feel young forever, pushed by an energetic flux that tastes of élan vital. And it reminds us that there are utopian places which are real, where all the walls have fallen, not only the concrete ones.

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Festival Ethnos.

Musica, cultura e territorio di Jamila Campagna

Il Festival Ethnos, giunto alla sua ventesima edizione, sotto la direzione artistica di Gigi Di Luca, ha dato vita a un interessante percorso musicale e culturale attraverso otto Comuni del territorio vesuviano: inaugurato il 10 settembre al Teatro Mercadante di Napoli, con l’esibizione della Bollywood Masala Orchestra (India), il Festival, finanziato dall’Assessorato al Turismo della Regione Campania, si è dislocato tra San Giorgio a Cremano, Ercolano, Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Boscoreale, Boscotrecase, Somma Vesuviana, San Sebastiano al Vesuvio e San Giorgio a Cremano, che ha ospitato la tappa conclusiva del 27 settembre, con il concerto dei Tartit (Mali) e di Bombino (Niger). Originariamente ideato per promuovere e divulgare le tradizioni dell’area vesuviana, il Festival ha con il tempo assunto carattere internazionale creando una rete tra la musica folkloristica e le culture arcaiche di tutto il mondo, diventando momento di integrazione e confronto attraverso il fare artistico. Nell’edizione 2015, accanto a una selezione di musicisti d’eccellenza (tra cui: Bombino, Evi Evan, Moni Ovadia, Tartit, Bassekou Kouyate & Ngoni Ba, Huun Huur Tu, Teresa De Sio, Söndörgo), il programma del Festival ha offerto una serie di itinerari storico artistici e naturalistici che hanno creato un legame con le risorse del territorio, con un taglio fortemente interdisciplinare: visite guidate sui sentieri del Parco Nazionale del Vesuvio, nei siti archeologici e presso musei, oltre a visite teatralizzate nelle ville vesuviane settecentesche, degustazioni di prodotti tipici, convegni, seminari sulle danze popolari. Il 19 settembre abbiamo preso il Vesuvio come punto di riferimento lungo la strada e siamo andati a scoprire da vicino lo spirito del Festival Ethnos; nel pomeriggio, i Synaulia si sono esibiti in una performance musicale e didattica presso l’Anti-

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quarium di Boscoreale, a seguito di una visita guidata del museo curata dalla Pro Loco La Ginestra di Boscoreale. La sera, dopo la visita guidata negli spazi di Villa Favorita a Ercolano, il Festival si è spostato nella residenza estiva di Villa Favorita, sempre a Ercolano, il cui parco raggiunge il mare. è qui che si sono esibiti gli Söndörgo (pronuncia: Sciöndörgò), band ungherese a conduzione familiare. I membri del gruppo sono tre fratelli Áron Eredics, Benjamin Eredics e Salamon Eredics, un cugino, Dávid Eredics, e il migliore amico dei quattro, Attila Buzás. Provenienti da Szentendre, città ungherese vicina a Budapest, i cinque ragazzi propongono una musica folklorista che esce dai ranghi della tradizione ungherese più conosciuta, per dare spazio a quella tradizione sonora minoritaria della musica slava del sud, che nasce dalla commistione della cultura serba e croata ed è conservata e divulgata in alcune zone dell’Ungheria. Tutti polistrumentisti e diplomati in musica classica, gli Söndörgo, portano sul palco una quantità incredibile di strumenti: fisarmoniche, percussioni, strumenti a fiato e strumenti a corde. Tra questi ultimi si notano le caratteristiche Tambura, piccoli strumenti a corde molto simili a mandolini, che producono sonorità terse e acute, modulabili a seguire il respiro di ogni canzone. Questo strumento è quasi il simbolo della band, rappresenta la loro idea di rendere contemporanea la tradizione e ad esso si ispira il titolo del loro ultimo album, Tamburocket (pubblicato nel 2014, è il secondo distribuito su scala internazionale). Intensi, virtuosi e professionali, gli Söndörgo sul palco si divertono moltissimo e si vede; le loro buone energie sono travolgenti e si diffondo sia nelle canzoni più ritmate che in quelle più lente, fatte di vibrazioni corpose, meditative. Questa gioia del fare musica mi viene confermata da Áron Eredics a


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«la forza di Ethnos sta anche nel raccontare l’attualità e in particolare le problematiche dell’immigrazione e il bisogno umanitario di accogliere chi emigra. Facendo musica incrociamo gli sguardi, i segni di un linguaggio che non è altro che la lingua universale della pace e dell’arte». Gigi Di Luca Direttore artistico Ethnos Festival fine concerto: contro la bellissima parete a mosaico celestevitreo dell’ingresso della dependance marina di Villa Favorita, Áron sorride, ancora pieno di forze nonostante l’ora tarda e la stanchezza post-concerto, e parla a ruota libera; mi dice “Sembra incredibile perché siamo così giovani, ma sono venti anni che suoniamo insieme! Nostro padre era un musicista e la casa era piena di strumenti. Era impossibile non imparare a suonare!” e poi aggiunge “è bello suonare tra fratelli e amici stretti, si crea una sorta di alchimia. Sul palco, basta uno sguardo tra noi e sappiamo già esattamente cosa fare”. Poi mi parla dell’emozione di suonare in un luogo storico, della gioia di essere stati presenti in Italia al Festival Ethnos, del loro ultimo disco, di come hanno studiato musica classica per poi tornare a suonare musica folk. Perché è una questione di radici, di vissuto personale e collettivo, di passato che incotra il presente e si apre al futuro. è una questione di divulgazione della conoscenza e della cultura, perché una tradizione è viva solo quando è tramandata.

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Ethnos festival.

Music, culture and territory Jamila Campagna

The Ethnos Festival, with its twentieth edition, under the stage- managing of Gigi Di Luca, has created an interesting musical and cultural path through eight towns of the Vesuvius territory (Naples): it was inaugurated last 10th of September at Mercadante Theatre of Naples, with the Bollywood Masala Orchestra show (India), the Festival, sponsored by the Campania Region Tourism Department, occurred in between San Giorgio a Cremano, Ercolano, Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Boscoreale, Boscotrecase, Somma Vesuviana, San Sebastiano al Vesuvio e San Giorgio a Cremano that hosted the festival last stop on the 27th of September, with the concert of Tartit (Mali) and Bombino (Niger).

culture that is kept and popularized in some areas of Hungary. The Söndörgo are all graduated in classical music and play various instruments, they bring on stage a lot of instruments: accordions, percussion instruments, wind instruments and string instruments. Among these we can notice the typical Tambura, small string instruments much alike mandolin, that make terse and acute sonorities which can be modulated following every song breath. This instrument is almost the band symbol, it represents their idea of making contemporary the tradition and to it is inspired the title of their last album, Tamburocket (published in 2014, it’s the second one published on international scale).

Originally the Festival was an idea to promote and spread the Vesuvius area traditions, with time it’s got international character creating connections between folk music and archaic cultures from all over the world, becoming a moment of integration and comparison through the music. In the 2015 edition, beside a selection of excellent musicians (among them: Bombino, Evi Evan, Moni ovadia, Tartit, Bassekou Kouyate & Ngoni Ba, Huun Huur Tu, Teresa De Sio, Söndörgo), the Festival program offered a sequence of naturalistic and historical artistic itineraries that have created a link with the territory resources, of a strongly interdisciplinary approach: guided tours through the Vesuvius National Park tracks, in archeological sites and museums, besides theater tours in the 18th hundred villas, traditional products tasting, conferences, workshops about traditional dances.

“Ethnos strenght lies also in telling current events as immigration problems and the humanitarian needs to receive who emigrates. Playing music we cross gazes, the signs of a language that is nothing else but peace and art universal language”

Last 19th of September we took the Vesuvius as reference point along the road and we went to discover closely the Ethnos Festival spirit; in the afternoon, after a guided tour in the museum curated by the Pro Loco La Ginestra of Boscoreale, the Synaulia performed an educational and musical show at the Antiquarium of Boscoreale (Naples, Italy), In the evening, after the guided tour of Villa Favorita in Ercolano (Naples), the Festival moved to the summer residence of Villa Favorita, always in Ercolano, whose park reaches the sea. It’s here that the Söndörgo (pronounced Shondorgo), a family run Hungarian band, performed. The group members are three brothers: Áron Eredics, Benjamin Eredics and Salamon Eredics, one cousin David Eredics and, their best friend Attila Buzàs. The five young men come from Szentendre, a Hungarian town near Budapest, they propose a kind of folk music which lies outside the most popular Hungarian tradition, just to give space to that minority sound tradition of southern Slavic music, born from the blend of Serbian and Croatian

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Gigi Di Luca Ethnos Festival Artistic director Intense, expert, and professional, the Söndörgo enjoy themselves a lot on stage and it shows; their good energies are overwhelming and spread in the more rhythmical songs as in the slower ones, made of meditative and substantial vibrations. This joy of music doing is confirmed to me by Aron Eredics at the end of the concert: with background the gorgeous vitreous light blue mosaic wall at the entrance of Villa Favorita extension, Aron smiles, still full of strength although the late hour and tiredness after the concert, he speaks freely; he tells me “It might look incredible because we’re so young, but it’s been twenty years that we play together! Our father was a musician and the house was full of instruments. It was impossible not to learn to play!” Then he adds “It’s nice to play with brothers and close friends, it creates some kind of alchemy. We only need to look each other to know exactly what to do on the stage”. Then he tells me about the emotion of playing in a historical place, the joy of taking part at the Ethnos Festival in Italy, about their last record, how they studied classical music in order to come back then to play folk music. Because it’s a matter of roots, of personal and collective lived, past that meets the present and opens to the future. It’s a matter of culture and knowledge divulgation, because a tradition is alive only when is passed down.


backlook

The five plagues of the Country Charles Jameson Grant, The Political drama. [A series of caricatures.] Printed and published by G. Drake, 12, Houghton Street, Clare Market, London [1834-1835.] British Library found


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Agli sgoccioli di quest’Estate Romana, fin troppo quieta o potremmo dire assonnata, il panorama notturno della città eterna è stato momentaneamente risvegliato e riacceso da giocose installazioni luminose e grandiose proiezioni colorate. Dulcis in fundo, il festival RO_map #15, organizzato dalla Lazy Film, è stato un’occasione fugace per dare nuova vita ai monumenti simbolo del centro storico attraverso le arti digitali, che così poco hanno spazio nella capitale. L’antico e il contemporaneo, la memoria e il contingente si sono coniugati all’insegna del meraviglioso, dello stupefacente e dell’effimero. Circo Massimo è stato invaso da una suggestiva e ipnotica distesa di sfere luminose, Globoscope, l’opera del collettivo francese Coin. La coreografia intermittente delle sfere ha trasformato per qualche ora l’antica arena romana in una superficie digitale, un enorme carillon minimale e hi­tech a cielo aperto. Questa atmosfera onirica e futuristica, ha stregato la folla di cittadini e turisti, che il giorno seguente ha assistito all’attrazione principale del festival: il video- mapping stereoscopico del rinomato team di creativi bolognesi Apparati effimeri. Le proiezioni, forzando le restrizioni del formato cinematografico, si sono librate nello spazio urbano, facendo della facciata della Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore il proprio schermo. Piazza Navona è diventata un cinema di ultima generazione in cui il pubblico indossa i tipici occhialini 3D verdi e rossi per godere dello spettacolo. Gli elementi architettonici della chiesa si disgregano e vengono arricchiti da luci, colori e geometrie. I frammenti immateriali investono gli spettatori, mentre l’ambiente si modifica a ritmo di musica. In un gioco di prospettive e sovrapposizioni, l’esterno diventa l’interno. Gli affreschi di Nostra Signora del Sacro Cuore si affacciano per pochi istanti sulla piazza per poi tornare definitivamente ad essere custoditi tra le mura della chiesa. In questa maniera il

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projection mapping ridisegna l’architettura attraverso la luce. Porta in evidenza alcune linee rispetto ad altre, amplifica e riduce i volumi, altera e decontestualizza le forme, rende manifeste relazioni, suggerisce assonanze e contrasti 1 . La tecnica stereoscopica amplifica l’effetto di magnificenza e soprattutto di immersione. La proiezione diventa un evento festoso e sbalorditivo che induce la folla a vedere con altri occhi la staticità dei monumenti e degli edifici che incontra quotidianamente. Questo modus operandi riprende quello tipico dell’epoca barocca in cui l’intero arredo urbano diventava un grande teatro delle meraviglie. Difatti il nome del gruppo di artisti apparati effimeri fa riferimento esplicito a quelle scenografie urbane momentanee in cartapesta e agli addobbi provvisori che si applicavano a palazzi e chiese per celebrare gli eventi cittadini. Decorazioni effimere trasformavano gli esterni di sontuose dimore che in aggiunta a suoni e effetti di luce creavano un gioco di inganni e disinganni ottici. 2

L’interazione ardita tra la solidità dell’architettura e la fluidità delle immagini in movimento potrebbe essere il prototipo di un nuovo modo di interpretare lo spazio urbano, uno spazio costituito da più layer, da più strati informativi, alcuni invisibili, alcuni accessibili. «Per la prima volta, lo spazio diventa un media. Proprio come gli altri media – audio, video, immagine e testo – oggi lo spazio può essere trasmesso, immagazzinato e recuperato all’istante; si può comprimere, riformattare, trasformare in un flusso, filtrare, computerizzare, programmare e gestire interattivamente4 ». Per qualche ora l’immagine di Roma muta, come la nostra presenza nello spazio urbano e la qualità stessa dello spazio, che diventa uno spazio sempre più tecnologico e ibrido 5 .

La dinamica della festa barocca è riproposta attraverso le tecnologie digitali in una nuova forma di arte pubblica in cui lo spazio cittadino non è più di sfondo, ma è il centro dell’opera. La città diventa un Augmented Space 3 , uno spazio fisico aumentato con informazioni aggiuntive, come per i sistemi di Realtà Aumentata, in cui reale e virtuale si incontrano. 1

Andrea Nardi, “Projection mapping: riscrivere l’architettura” in Digital Writing Lab.

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Pietro Leonardi “L’ultima frontiera dell’estetica barocca” in Architetti notizie, 4°trimestre 2012.

3 «Il termine, coniato da Lev Manovich è un derivato di un altro campo molto specifico, l’Augmented Reality (AR) che, come spiega l’autore, si oppone alla Virtual Reality (VR). In un tipico sistema VR tutto il lavoro è fatto in uno spazio virtuale, lo spazio fisico diventa inutile e la sua visione è completamente bloccata. Al contrario, i sistemi AR aiutano l’utente a fare il lavoro in uno spazio fisico aumentandolo con informazioni aggiuntive.» In Andrea Nardi, Projection Mapping: riscrivere l’architettura in “Digital Writing Lab” 13/10/2015.

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Lev Manovich in E. Pandolfini, “Architettura e spazio urbano”, in Communication Strategies Lab, Realtà Aumentate. Esperienze, strategie e contenuti per l’Augmented Reality, Apogeo, Milano, 2012 p.92.

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Simone Arcagni Urban Aesthetics in Technonews.it.

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At the end of this Roman Summer, which was even too quiet or almost sleepy, the Eternal city night panorama has been temporarily waken up and rekindled by ludic lights installations and great colorful projections. Dulcis in fundo, the RO_ map#15 Festival, organized by Lazy Film, has been a fleeting chance to give new life to those symbolic monuments of the historic city center which are given so little space in Rome. Ancient and contemporary, memory and contingency combined to get to the wonderful, the amazing and the ephemeral. Circo Massimo has been invaded by a suggestive and hypnotic multitude of bright globes, Globoscope work of the French collective Coin. The globes intermittent choreography turned the ancient roman arena in a digital surface for a few hours, an open air huge minimal and hi-tech music box. This dreamlike and futuristic atmosphere has enchanted the crowd that, the following day, watched the Festival main attraction: the stereoscopic mapping-video by the renowned team of creatives Apparati Effimeri from Bologna. The projections, beyond the cinematographic format, glided in the urban space using as screen the Church of Nostra Signora del Sacro Cuore façade. Navona Square has become a last generation cinema where the audience wears typical red and green 3D glasses to enjoy the show. The church architectural elements crumble and are enriched by lights, colors and geometry. The intangible fragments hit the spectators while the surrounding changes on music rhythm. In a game of perspectives and overlapping, the outside becomes the inside. Frescoes of Nostra Signora del Sacro Cuore face out a few moments on the square and then go definitively back to be enshrined in the church. In this way the mapping projection re-draws architecture through lights, points out some lines compare to others, amplifies and reduces volumes, changes the forms, creates relations, suggests assonances and contrasts.1 The stereoscopic technique amplifies the effect of magnificence and more of immersion. The projection becomes an amazing event that brings the crowd to look at the static nature of monuments and buildings, they see every day, with 1

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Andrea Nardi, “Projection mapping: riscrivere l’architettura” in Digital Writing Lab.

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different eyes. This modus operandi takes after that, typical of the Baroque age, where the entire urban décor became a big theatre of wonders. In fact the artists group’s name Apparati Effimeri refers to those temporary urban scenic design of paper mache and the provisional decors used to hang on buildings and churches to celebrate town events. Ephemeral decorations added to sounds e lights effect made a game of optical illusion and disillusion. 2 The baroque feast dynamic is proposed again through digital technologies in a new form of public art where the town space isn’t a background anymore, but it’s the core of the work. The city becomes an Augmented Space 3 , a physical space enlarged with added information, as for the Augmented Reality systems, where real and virtual meet. The vivid interaction between architecture solidity and moving images fluidity could be the prototype of a new way to perform the urban space, a space made of layers, informative layers, some invisible, some accessible. «For the first time, the space becomes a media. Just like other medias – audio, video, image and text – nowadays space can be texted, saved and recovered instantly; it can be compressed, formatted, transformed into a flow, filtered, computerized, programmed and interactively managed»4 . For a few hours Rome image changes, like our presence in the urban space and the space quality itself, that becomes a more technological and hybrid space. 5

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Pietro Leonardi “Last frontier of the baroque aesthetic” in Architetti notizie, 4°trimestre 2012.

3 «The word coined by Lev Monovich comes from another very specific field, the Augmented Reality (AR) that, as the author explains, opposes to Virtual Reality (VR). In a typical VR system all the work is made in a virtual space, physical space becomes useless and its vision is completely stuck. On the contrary, AR systems help the user to do his work in a physical space, enlarging it with added information». In Andrea Nardi, Mapping Projection: re-write the architecture in ”Digital Writing Lab” 13/10/2015. 4

5

Lev Manovich in E. Pandolfini, “Architecture and urban space”, in Communication Strategies Lab, Realtà Aumentate. Esperienze, strategie e contenuti per l’Augmented Reality, Apogeo, Milan, 2012 p.92. Simone Arcagni Urban Aesthetics in Technonews.it.

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il muro

JEAN PAUL SARTRE

IL MURO Einaudi, Torino 2015

Era il gennaio del 1947 quando Il muro (Le Mur, Éditions Gallimard, Paris 1939), proposto da Giulio Einaudi, approdava nel circuito italiano bersagliato da pesanti condanne e grida allo scandalo. L’opera, pubblicata per la prima volta in Francia nel febbraio del 1939, aveva aperto il cosiddetto affare Sartre, di fronte al quale la critica, così come l’opinione pubblica, si trovavano ferite da una profonda spaccatura. Ognuna delle cinque novelle di cui si compone la raccolta – Il muro, La camera, Erostrato, Intimità, Infanzia di un capo – si sviluppano su sfondi perturbanti di follia, morte, perversioni, inganni, claustrazione, assassinio, frigidità e impotenza. Il muro seguiva di pochi mesi La Nausea, romanzo d’esordio dell’allora trentatreenne Sartre, con il quale si era imposto all’attenzione della critica aggiudicandosi entusiasmati consensi. Ne La nausea, sotto forma di diario filosofico, Sartre aveva affidato al flusso di coscienza di Antoine Roquentin la disamina su vacuità e incoerenza del vivere. Le stesse riflessioni tornano nelle storie de Il muro, sotto una veste ancora più spregiudicata e violenta. La nausea e Il muro si collocano dunque, nella produzione sartriana, come prose romanzesco – filosofiche le cui tematiche avrebbero trovato, nel saggio del 1943 L’essere e il nulla, una più sistematica articolazione sul piano teorico. Così si esprime Sartre: «Nessuno vuole guardare in faccia l’Esistenza. Ecco, poste di fronte, cinque piccole disfatte – tragiche o comiche – cinque vite. Ogni tentativo di fuga è impedito da un Muro. Fuggire dall’Esistenza è ancora esistere. L’Esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare» (J. P. Sartre, Œuvres romanesques, cit. p. 158, 1807). Il pieno a cui il filosofo fa riferimento per definire l’Esistenza, è assimilabile al concetto stesso di nausea, ossia il senso di oppressione, di sazietà rispetto a un vuoto e a un’insensatezza di cui la vita è riempita e da cui l’uomo è toccato e schiacciato. Alla luce di tali considerazioni si può dedurre che la pietra dello scandalo di quell’affare Sartre non risiedeva tanto nel contenuto triviale della raccolta de Il muro, quanto nella crudezza, soprattutto lessicale, con cui venivano designati vizi e debolezze dei cosiddetti salauds, appellativo utile a identificare i borghesi più deplorevoli. Il muro è dunque un’indagine spietata sulle dinamiche del fallimento. Occorre specificare, tuttavia, che il termine indagine non comprende, nel caso in esame, una volontà di analisi psicologiche dei personaggi; Sartre tralascia di proposito la sfera strettamente intima per fissare l’attenzione su gesti in superficie. Le ragioni dello scarso interesse nei confronti dell’approfondimento interiore sono da ravvisare nello scetticismo del filosofo per la diffusa accezione attribuita all’inconscio e, più in generale, nel radicalismo surrealista di cui era fermo oppositore. Focalizzato più su un approccio esistenziale alla psicoanalisi, Sartre centra l’attenzione sulle dinamiche comportamentali dei soggetti. A tal proposito è interessante notare come i racconti de Il muro presentino, in negativo, i temi cari ai surrealisti (erotismo e follia, per citarne alcuni). Secondo tale lettura, la figura di Erostrato può addirittura essere interpretata come corrispettiva caricatura del Breton teorico de L’amour fou, romanzo del 1937. Non solo è da escludere l’introspezione, ma anche un intento politico da parte di Sartre; negli anni in cui si dedica a Il muro infatti, l’autore è quasi esclusivamente concentrato su tematiche nichiliste che lo vedranno concepire, ancora nel 1945, un dramma teatrale come A porte chiuse, di cui la celebre frase «l’enfer, c’est les autres».

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La dimensione claustrofobica, affine in A porte chiuse, si conferma l’espediente prediletto da Sartre; il muro è una costante, elemento che si interpone nelle vite miserabili con la sua aspra materialità facendosi metafora tragica dell’immobilità umana. Il culto dell’individuo, che dal Rinascimento ha indirizzato verso una coscienza sempre più autoreferenziale, ha paradossalmente inciso sulla disgregazione sociale generando una serie di individui non comunicanti. Questo tipo di dinamica antisociale è tra i fondamenti delle vicende de Il muro. Nello specifico, il racconto La camera può essere un utile caso di riflessione. Le quattro mura in cui Eva si reclude con il marito Pietro e in cui tenta disperatamente di amalgamarsi alla sua follia delirante, non l’accoglieranno mai del tutto: ella non appartiene alla camera in cui Pietro vaneggia così come non può tornare al mondo esterno in cui i genitori cercano di attirarla, invano. Un gioco perverso di osmosi morbosa e miseramente fallita che – parlando per suggestione - fa di Eva un’antenata di Alma, la Liv Ullmann del film di Ingmar Bergman L’ora del lupo (Svezia, 1968), con la quale condivide non pochi aspetti psicologici. Non ci sono fonti che attestano un volontario rimando di Bergman all’opera di Sartre ma è noto che la poetica del regista sia debitrice, per non dire pregna, dell’esistenzialismo sartriano. L’aggettivo che Sartre attribuisce alle storie, piccole, ne chiarifica profondamente il carattere irrisorio: la gratuità assolutamente disturbante delle dinamiche quotidiane, l’assenza di un fine, si fa insostenibile; gli uomini, disperati Sisifo, restano bloccati in tentativi mancati, nudi e frustrati di fronte a irrealizzabili proiezioni di riscatto.

di Gaia Palombo


legêre

JEAN PAUL SARTRE

IL MURO*

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Einaudi, Torino 2015 Gaia Palombo In January 1947, The Wall (Le Mur, Éditions Gallimard, Paris 1939) reached the Italian editorial field, thanks to Giulio Einaudi, receiveng such an amount of negative critics pointing it out as scandalous. The literary work, published in France for the first time in the 1939, opened the so-called Sartre affaire and splitted in half the opinion both of the audience and the critic. Each one of the collection five short stories - The Wall, The Room, Erostratus, Intimacy, Childhood of a Leader – develop on uncanny backgrounds of madness, death, perversion, deceit, reclusion, murder, frigidity and impotence. The Wall followed Nausea (1938), Sartre’s first novel through which he received attention by the critics and reached a great approval. In Nausea, written as a philosophic diary, Sartre chose the character of Antoine Roquentin to get a close examination of life emptiness and contradictions through the stream of consciousness. The same reflections appear in The Wall, in a way even more shameless and extreme. In the Sartre’s production, Nausea and The Wall are philosophical romance novels whose themes would have been theoretically analyzed in the essay Being and Nothingness (1943). Sartre said: Nobody wants to face up to Existence. Here are five little routs in the face of Existence - some tragic, some comic - five little lives. All these attempts to escape were blocked by a Wall. To flee Existence was still to exist. Existence is a plenum that people cannot leave

dividuals. This antisocial dynamic is at the base of The Wall sequence of events. Specifically, the short story The Room can be an interesting example. The four walls in which Eve impound herself with her husband Pierre, where she desperately tries to blend herself in his delirious madness, won’t ever embrace her completely: she does not belong to the room where Pierre goes insane but she can’t go outside where her parents attempt in vain to draw her. A perverse game, an obsessive and failed osmosis that - by affinity - make Eve as an ancestor of Alma, Liv Ulman’s character in Bergman’s Hour of the Wolf (Sweden, 1968), with whom Eve shares several psychological aspects. There are no sources which defines an actual connection between Bergman and Sartre’s work but it’s known that the director view is inspired - not to say filled - by Sartre existentialism. Sartre refers to the stories with the adjective little, that points out their paltry nature: a totally disturbing gratuitous of everyday events, the absence of a purpose, everything is unbearable; men, desperate Sysiphos, are stuck in missing attempts, naked and frustrated facing an unobtainable leap of redemption.

Gaia Palombo

The full the philosopher points out to define the Existence can be assimilated to the concept of nausea, the feeling of oppression and satiety toward the empty and the meaningless that fulfills life, that presses and touches each individual. So, the scandal was not caused by the indecent content of The Wall collection but it was provoked by the language bluntness which describes the vices and the weaknesses of the so-called salauds, word referred to the most deplorable bourgeois. The Wall is a cruel investigation on the dynamic of failure. It’s needed to specify that, in this case, the investigation is not about characters’ psychological sphere; Sartre overlooks the intimacy level to focus on the surface gestures. The reasons of his low interest for the inner insight are linked to the philosopher skepticism about the common meaning attributed to the subconscious and to his opposition to the radical Surrealism. Focusing on an existential approach to psychoanalysis, Sartre concentrates on the dynamics of human behavior. About this matter, it’s interesting how The Wall short stories show in a negative view the themes special to surrealists (erotism and madness, to name some). From this perspective, the Erostratos figure can be read as the caricature of Breton, in his theory of L’amour fou, 1937 novel. There’s no introspection, there’s no political intent; while working on The Wall, Sartre is almost completely focused on the nihilist themes which brought him to realize, in 1945, the play No Exit, from where comes the quote «l’enfer, c’est les autres». The claustrophobic dimension, close to No Exit, is Sartre favourite expedient; the wall is a constant, the element interposed among miserable lives with its rough matter, tragic symbol of the human immobility. The cult of the individual, that brought to a self consciousness since the Reinassence, has paradoxically determined a social fragmentation that generates non-communicating in*

The Wall

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Alessandra De Cristofaro, Safe, 2014 Alessandra De Cristofaro è un’illustratrice di origine pugliese. Ha studiato fumetto e illustrazione all’Università di Scienze Applicate di Amburgo e all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove si è laureata nel 2009. Collabora con riviste, agenzie di comunicazione e case editrici. Tra i suoi clienti ci sono il New York Times, Vice, Granta, edizioni EL e Armando Curcio Editore. Alcune sue storie a fumetti sono state pubblicate in Italia da Delebile edizioni e all’estero dalle riviste inglesi Off Life e Tiny Pencils. Ispirata dai vecchi film in bianco e nero e dalla musica dei Joy Divison, ama curare i dettagli e le atmosfere dei suoi lavori, prediligendo nei soggetti le case e i loro interni. La tecnica usata è prevalentemente matita, spesso unita alla colorazione digitale.

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Alessandra De Cristofaro is an Italian illustrator; she attended courses of comics and illustration at the Hamburg University of Applied Sciences and at the Fine Arts Academy of Bologna. She worked for The New York Times, Vice, Granta, edizioni EL and Armando Curcio Editore. Her comic strips have been published by Delebile edizioni, in Italy, and by the English magazines Off Life and Tiny Pencils. She takes inspiration from old black and white movies and from Joy Division music, pays attention to details and atmospheres in her artworks, preferring homes and rooms as subjects. She mainly works with pencil, often digitally coloured.




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