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Anno 12 - N° 132
Oltrepò Pavese: Una terrA DOVE IL VINO VALE TROPPO POCO PER QUANTO è BUONO
LUGLIO 2018
20.000 copie in Oltrepò Pavese
pagina 13
Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - 70% - LO/PV
VOGHERA Una Vita per il Gallini: «I giovani devono tornare ad amarlo»
pagina 8 e 9
CASTEGGIO «L’assessore Mussi sembra aver difeso solo una cosa: l’inquinamento»
Prima un blog, poi una pagina facebook, tutto per lanciare un unico messaggio: “Casteggio è più viva che mai”. L’idea è del comitato... pagina 47
VARZI Gli agricoltori chiamano, la regione risponde: sarà caccia libera Importanti novità giungono da Milano a proposito di cinghiali. Regione Lombardia, infatti, ha aperto ad agricoltori e guardie la possibilità... pagina 44
mENCONICO
«In Oltrepò la maggior parte dei ristoranti sono gestiti come 30 anni fa, non c’è ricerca non c’è innovazione, siamo rimasti fermi agli anni ’80...
BRESSANA BOTTARONE I genitori del Comitato sul piede di guerra: «Siamo sconfortati» È attivo, in Bressana Bottarone, un sodalizio formatosi spontaneamente fra alcuni genitori, i quali si dedicano a osservare e segnalare...
CASEI GEROLA Parco le Folaghe, futuro incerto «Servono fondi e nuovi volontari»
Il futuro del Parco le Folaghe di Casei Gerola, dopo i fasti del primo decennio del nuovo millennio, è oggi incerto: servono nuovi... pagina 19
pagina 11
news
pagina 3
Nuovo Hotel Terme: perchè è stato “sfilato” alle Terme di Salice, senza che nessuno dicesse nulla?
pagina 40
pagina 51
Presidenti di Stato. Resca è laureato in Economia e Commercio all’Università Bocconi di Milano, ha nel corso degli anni unito il ruolo di amministratore in Eni, Mondadori, Rizzoli, Gianni Versace...
Non si può andare avanti così. Non si può criticare sempre l’Oltrepò. Non è giusto, ma soprattutto non è vero! Non è vero che le strade dell’Oltrepò hanno le buche, non è vero che in Oltrepò ci sono le frane, non è vero, perché le varie amministrazioni competenti appena c’è una buca o una crepa la mettono a posto! Non fa in tempo a cadere una zolla di terra che tempestivamente vengono effettuate tutte le opere di consolidamento per evitare che nello stesso punto ci sia una frana in futuro. Non è vero che le buche vengono rattoppate alla bene e meglio: quando c’è una buca si asfaltano km di strade con l’asfalto migliore e con uno spessore d’asfalto più che adeguato, ed i tecnici degli enti competenti, con grande diligenza e spirito di sacrificio, controllano che tutti i lavori vengano ...
oltre
Chiusa la trattoria storica. Chef e proprietaria ad Ibiza
Top Manager d’azienda riconosciuto a livello intercontinentale, dal curriculum ricostruibile non senza difficoltà data l’infinita catena di ruoli assunti e gestiti, tutti ai massimi livelli, ha stretto la mano a molti
Non si può criticare sempre l’Oltrepò. Non è giusto, ma soprattutto non è vero!
il Periodico
Teresio Nardi: «è indubbio che il Gallini sia una scuola che lega e che appassiona. A distanza di 50 anni da quando ero studente...
Mario Resca: «Non sono mai stato un presidente taglia - nastri»
«Spero emerga una voglia di fare maggiore e più coraggio nelle scelte» Stefano Alberici è uno sportivo, e come tutti gli sportivi non ce la fa a stare fermo. Superato “lo shock” di molti, di un “comunista”... pagina 24
Qualche domanda bisogna porsela! Va beh… Le Terme sono fallite e il perché e il per come è chiaro: un mix tra incapacità, affari personali e interessi privati… così dicono le cronache e le accuse formulate per iscritto da diverse persone. A quanto ci risulta ci sono alcuni gruppi interessati ad acquisire le Terme sia in blocco sia a singoli lotti, ma alcuni di questi gruppi, che forse meglio di altri hanno... pagina 21
Editore
XXXXXXXX ANTONIO LA TRIPPA
il Periodico News
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Non si può criticare sempre l’Oltrepò. Non è giusto, ma soprattutto non è vero! Non si può andare avanti così. Non si può criticare sempre l’Oltrepò. Non è giusto, ma soprattutto non è vero! Non è vero che le strade dell’Oltrepò hanno le buche e non è vero che in Oltrepò ci sono le frane. Non è vero, perché le varie amministrazioni competenti appena c’è una buca o una crepa la mettono a posto! Non fa in tempo a cadere una zolla di terra che tempestivamente vengono effettuate tutte le opere di consolidamento per evitare che nello stesso punto possa verificarsi una frana in futuro. Non è vero che le buche vengono rattoppate alla bene e meglio: quando c’è una buca si asfaltano km di strade con l’asfalto migliore e con uno spessore d’asfalto più che adeguato ed i tecnici degli enti competenti, con grande diligenza e spirito di sacrificio, controllano che tutti i lavori vengano fatti con il buon senso del padre di famiglia... come se li facessero a casa loro. Non è vero che i fossi sono sporchi e nessuno li pulisce. Non è vero perché i sindaci e i vari amministratori comunali hanno fatto delle delibere affinchè tutti i proprietari dei fossi provvedano alla pulizia degli stessi. Queste delibere una volta fatte, non rimangono lì come lettere morte, ma i sindaci ed i vari assessori le fanno rispettare, queste delibere, mandando i loro uomini dell’ufficio tecnico a controllare. Pazienza se devono rompere le scatole a qualcuno che li ha votati e questo deve fare i lavori che magari non aveva voglia di fare. Pazienza. I nostro sindaci ed i nostri assessori, incuranti del pericolo elettorale, vanno avanti perché sanno che i fossi vanno puliti. Non è vero che gli alberi lungo le strade e nelle zone interessate alla viabilità non vengono potati: quando è venuto il gelicidio è stato una congiura mondiale contro l’Oltrepò, peggio delle scie chimiche! E comunque i sindaci avevano già predisposto per tempo, con diligenza e lungimiranza, un piano d’intervento nel caso succedesse il gelicidio! Dopo il complottista gelicidio hanno emanato prontamente una delibera in cui obbligavano tutti i proprietari interessati a potare gli alberi, ed hanno immediatamente e dico immediatamente e diligentemente, fatto controllare che il lavoro venisse effettuato. Infatti, se girate per le strade dell’Oltrepò vedrete alberi perfettamente potati e nel caso dovesse venire un altro gelicidio per un’altra congiura mondiale, non cadrebbe neanche una foglia sulle strade. È ora di dirlo: l’Oltrepò è perfetto, e questo grazie ai suoi amministratori. Non è vero che i quasi 30 milioni che arrivano alla Comunità Montana, al Gal ed enti affini, sono destinati a progetti intangibili e impalpabili: sono tutti bellissimi progetti, progetti concreti, progetti che tutti possono e potranno toccare con mano, e se proprio vogliamo parlare dei costi per questi progetti, i costi sono da vero affare.
I soldi per questi concreti e bellissimi progetti, non diciamoci bugie, sono non spesi, ma investiti proprio bene e questo ci dovrebbe tranquillizzare perché sono i soldi di noi cittadini. Dove trovate un’altra zona d’Italia che ha così tanti, ma proprio tanti, sentieri ben fatti e ben indicati, con aree di sosta e parcheggi… come da noi! Siamo seri, non siete mai contenti! Non è vero che la raccolta differenziata in Oltrepò non viene fatta: al contrario viene fatta e fatta molto bene! Non ho le statistiche esatte, ma sembra che la nostra differenziata è invidiata anche dalla Svezia. Non è vero che in Oltrepò ci sono gli scandali del vino: gli organi competenti, che ogni 3 per 2 sono lì a controllare, lo fanno per far perdere tempo a chi lavora e in realtà vogliono distruggere il vino dell’Oltrepò. I giornali e gli organi di stampa in generale che scrivono che ci sono dei sequestri per vino adulterato o non a norma, lo fanno non per fare cronaca, ma perché ce l’hanno con i produttori di vino dell’Oltrepò. È ora di dirlo, perché la verità deve venire fuori: sono anni che l’Oltrepò non vende più neanche un litro di vino sfuso, tutto il vino dell’Oltrepò è venduto solo in bottiglia. Non è vero che il mondo del vino dell’Oltrepò è diviso: remano tutti nella stessa direzione e soprattutto sono tutti sulla stessa barca. In altre zone vitivinicole italiane ci sono anche due o tre associazioni... in Oltrepò no, o meglio, anche qui ci sono 27 o 28 associazioni del vino, ed altre stanno nascendo, ma tutte sotto la stessa bandiera! E quando la maggioranza dei viticoltori decide qualcosa, anche chi non era d’accordo capisce e dice “anch’io sono con voi, armiamoci e partiamo… scusate... partite!”. è ora di dirlo: l’Oltrepò del vino non si fa “imbottigliare” da nessuno, per-
ché l’Oltrepò ne sa una più del diavolo. E poi i risultati sono lì da vedere: non si può criticare quello che è sotto gli occhi di tutti, tutto è perfetto, no? Quindi stop alle critiche, è ora di finirla. Non è vero che le Terme di Salice sono fallite, è un’operazione imprenditoriale e di marketing per far parlare di Salice e delle Terme. Solamente gli sprovveduti non hanno capito, ma i nostri politici che hanno l’occhio lungo, l’avevano capito da anni ed è per questo che i vari proprietari e manager delle Terme, che negli ultimi anni si sono succeduti, sono stati accolti sempre con il tappeto rosso e ringraziati con genuflessioni sulla stampa locale. Non è vero che in Oltrepò i politici regionali e nazionali quando arrivano non devono essere accolti dai sindaci festanti perché questi politici, come potete ben vedere, hanno portato tanto benessere in Oltrepò e quindi giustamente, i nostri sindaci ed i nostri assessori, quando arriva un politico da fuori si fanno in quattro per riceverlo e con ossequiante cerimonialità fanno la doverosa foto di rito, per farla vedere a casa ed anche agli amici. L’Oltrepò ha tante bellezze, ma ha soprattutto ha un’economia florida ed è invidiata in tutta Italia ed anche, lo dico con una punta di orgoglio, in Europa ed in alcuni paesi del sud America, in Venezuela ed in Perù in particolar modo, questo per essere precisi. L’Oltrepò è invidiato perché i politici locali e nazionali ci hanno sempre aiutato e tanto, e tutti gli aiuti arrivati sono stati spesi bene per opere concrete che tutti possono vedere ogni giorno. Pertanto, confermo che è giusto e sacrosanto che i nostri sindaci, con la loro bella fascia tricolore, si diano da fare per farsi fotografare al fianco dei politici in visita in Oltrepò, ma attenzione: ogni sindaco di ogni paese dell’Oltrepò non ha
nessun capo politico e fa e disfa e pensa, mi permetto di dire pensa molto bene e con la sua testa e senza nessuna indicazione o consiglio da nessuno... tanto meno da politici a lui superiori di grado. Giustamente i sindaci e gli assessori dell’Oltrepò più intelligenti e di larghe vedute, quando qualcuno li critica, fanno bene ad offendersi e, giustamente, parlano solo con quei giornali che scrivono la realtà... e la realtà è una sola: in Oltrepò va tutto bene! Però anche l’Oltrepò ha qualche piccolo problema, uno ad esempio è che non tutti i sindaci e non tutti gli assessori, come non tutti gli imprenditori e presidenti o dirigenti di enti pubblici, sono come quelli descritti poc’anzi: ce n’è qualcuno che si ostina nel voler migliorare le cose, che si ostina nel voler far le cose meglio... ecco, questo è un problema, perché vuol dire che queste persone non hanno capito nulla. O benedetti ragazzi, l’Oltrepò è perfetto così! Un altro problema sono alcuni giornalai, non giornalisti, che a volte si permettono di prendere in giro alcuni politici locali, senza rendersi conto che questi politici potrebbero sedere tranquillamente all’Onu a New York e non fare il sindaco in un paese di 20 o 20 mila abitanti... A questi giornalisti, o meglio, a questi giornalai bisogna dire di smetterla: si rileggano tutte le cose che funzionano in Oltrepò e quindi la smettano di prendere in giro criticando, perché un sindaco è un sindaco, un assessore è un assessore e non si prende mai e dico mai in giro, neanche nei suoi momenti più intimi, neanche quando sta facendo i suoi bisognini nel suo vasetto. Viva L’Oltrepò perfetto… o no? Dite che così può andar bene cari sindaci permalosi? A presto con i nomi. Con affetto. di Antonio La Trippa
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VOGHERA
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«Continuerò a suonare i campanelli nei quartieri» Pier Ezio Ghezzi nonostante l’aria che tira a livello nazionale, rimane sul pezzo girando nei quartieri vogheresi e parlando con i vogheresi, consapevole del fatto che da qui a 2 anni molto potrebbe cambiare anche a livello politico nazionale e soprattutto consapevole del fatto che le elezioni amministrative hanno una loro storia e che forse dopo 20 anni anche a Voghera, poterebbe prevalere la volontà di un cambiamento. Ghezzi un giugno fresco per la temperatura ma caldo per la politica locale. Iniziamo dalla vostra azione nei quartieri vogheresi. Carlo Barbieri si irrigidisce sulla sua firma nel protocollare la richiesta di incontro con il sindaco di 310 cittadini del Ponte Rosso... «In verità dovrebbero essere gli abitanti del Ponte Rosso ad irrigidirsi, dopo le promesse elettorali di Barbieri non mantenute». In che senso? «Nel senso che Barbieri e la sua giunta hanno redatto un programma di legislatura concentrato sui quartieri: sicurezza, manutenzione strade, illuminazione, viabilità, parchi, raccolta differenziata. Dopo il ballottaggio sono scomparsi rifugiandosi a Palazzo Gounela. Desaparecidos, come al solito, dimenticandosi che lì abitano migliaia di vogheresi». Quale è il vostro giudizio sul quartiere? «Il Ponte Rosso è un bel quartiere, decoroso, abitato da persone con senso civico e di appartenenza alla città. Le famiglie “ci tengono” al loro quartiere, come si dice in gergo. Ma questo non significa che debba essere abbandonato dalla amministrazione. Sono anni che non si vede un assessore, neanche in fotografia». Quale è stata la vostra azione, cosa avete fatto concretamente? «Abbiamo mantenuto gli impegni, a differenza del centro-destra. Lo avevamo dichiarato: anche se non governeremo la città, saremo al fianco dei cittadini, e così è stato. I promotori abitano da anni nel quar-
Pier Ezio Ghezzi tiere, ne cito alcuni: Renato Ciccocioppo, già consigliere di quartiere a suo tempo, Gianni Pesci, la cui famiglia costruì la prima casa un secolo fa in strada Ferretta, Patrizia Longo, il medico ben conosciuto in città, e parecchi altri». Come è stato gestito il progetto? «Gli abitanti hanno fatto l’elenco dei problemi da risolvere e hanno deciso di raccogliere le firme per sollecitare il Comune. In due mesi abbiamo suonato molti campanelli, bevuto tanti caffè, e parlato con… mezzo mondo. Sono stati poi nominati due portavoce (i signori Ciccocioppo e Pesci), che hanno incontrato il Sindaco con l’obiettivo di concordare, per il mese di settembre, un’assemblea degli abitanti del quartiere con la Giunta. Un’importante azione corale, voluta dal basso». Sono stati nominati due portavoce: Ciccocioppo e Pesci, che hanno incontrato il sindaco e si sono accordati per incontrare la gente a settembre. A settembre che succederà? «Mi auguro quello che in ogni città ben gestita avviene naturalmente: cittadini e assessori si confronteranno sulle problematiche del Ponte Rosso e insieme decideranno come e in che tempi intervenire. Sarà una discussione civile». Siete ottimisti?
«Il sindaco ha già in mano l’elenco delle richieste, può già mettersi al lavoro. I cittadini non chiedono la luna, ma di garantire i servizi essenziali per vivere bene: sicurezza sociale e stradale per evitare incidenti (in strada Grippina ci fu un morto), a partire dall’illuminazione fino alla segnaletica stradale». Qualche esempio? «Ne faccio due. Da qualche mese gli abitanti devono fronteggiare la presenza di cinghiali nelle strade, con pericolo per le madri, i bimbi e gli anziani. Barbieri ha sbandierato ai quattro venti che Comune e Regione (cui spetta la responsabilità) sono come “mamma e figlio”. Bene, si dia da fare prima che sia troppo tardi. Poi il vigile di quartiere: un fiore all’occhiello elettorale, ma subito appassito».
«Vigile di quartiere: un fiore all’occhiello elettorale, ma subito appassito» Avete più volte dichiarato che la vostra strategia territoriale passa dai quartieri. E negli altri rioni come state operando? «È così. Giugno ci ha anche visto attivi a San Vittore, prima con una interpellanza in consiglio comunale, poi in un incontro nel quartiere. Qui la situazione è davvero seria: campo di calcio in disuso, topi nelle strade, tombini divelti, vigile di quartiere inesistente. In consiglio la Giunta ha negato ogni responsabilità ma il giorno dopo vicensindaco e assessori sono corsi ai ripari in tutta fretta a ispezionare “le magagne”. San Vittore è un quartiere popolare,
storico e poco curato. Se ne sono accorti anche i giovani che hanno dato vita all’ associazione “Volontà San Vittore” con cui lavoriamo. La città si sta svegliando e noi la aiutiamo in ogni azione». Passiamo ora alle prospettive politiche. Le elezioni regionali del 4 marzo, ad esempio, hanno portato alla ribalta, per la prima volta, una serie di forze politiche a fianco del PD. Radicali, socialisti, ambientalisti. Possono costituire un alleato anche nel futuro a livello locale? «La questione è sul tappeto. Le formazioni che lei cita raccolgono in città centinaia di consensi, e sono voti progressisti, attenti ai diritti civili e all’ambiente. Sono fasce di elettorato che abbiamo sempre valutato con rispetto per la qualità dei loro valori. Costruire progetti comuni anche in Voghera, definire il profilo della città negli anni a venire è una sfida stimolante e necessaria». Veniamo a lei. Tra due anni si vota, il 2015 è già un ricordo lontano e anche il ballottaggio. Il centro-destra pare essere già in movimento per le elezioni comunali del 2020… «Le elezioni sono, oggi, l’ultimo pensiero dell’azione del PD e personale. Voghera e i problemi dei vogheresi sono la nostra preoccupazione. Forza Italia e gli alleati, invece di scervellarsi sulle elezioni, dovrebbero smettere di raccontare frottole e aiutare i loro concittadini. Abbiamo sotto gli occhi il disastro di ASM Vendita e Servizi, con migliaia di bollette fuori controllo e l’organico raddoppiato con assunzioni clientelari. Personalmente continuerò a “suonare i campanelli” in ogni via e a farmi tramite delle necessità della gente, e posso affermare che così facendo il nostro consenso aumenta di giorno in giorno». La carne al fuoco è molta, dai quartieri al caos ASM con le pesanti accuse di Ghezzi. Staremo a vedere se l’estate porterà consiglio. di Giacomo Lorenzo Botteri
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«è veramente difficile fare il sindaco, ancor più di una città come Voghera» Da pochi giorni è entrata come Assessore nella giunta Barbieri, in quota Udc, in sostituzione della collega Alida Battistella. Le sue deleghe sono: ambiente, ecologia, pari-opportunià, politiche giovanili, turismo, marketing e prodotti tipici, musei. Agente immobiliare di lunga esperienza, sposata, un figlio al quale tenta d’infondere il sapere politico come si faceva una volta. Sempre elegante, solare e simpatica, ma dal carattere forte, abbiamo incontrato l’assessore Simona Panigazzi. Quando nasce in lei la passione politica? «Il mio amore per la politica credo risalga a quando avevo 8-9 anni. Vede, a casa mia si è respirato politica da sempre, con mio zio Gigino, storico socialista... una famiglia di partigiani. Lui aveva iniziato la carriera politica come sindaco di Val di Nizza. Era Medico condotto ed è stato per me un maestro di vita, al di là della condivisione del credo socialista, per carità... ognuno poi ha le proprie idee... è stato per me bello esserci e poterlo raccontare, io testimone di un’epoca meravigliosa, che in qualche modo cerco di trasmettere a mio figlio. Un’epoca di divenire, di scalata, di volere e potere. è stato un momento bellissimo della mia vita, dalla fanciullezza all’adolescenza, e poi alla maturità: le tante campagne elettorali, i successi in Provincia, in Regione, e poi la vittoria al Senato nel collegio dell’Otrepò! Mio zio era uno che prendeva tantissimi voti. Purtroppo eravamo collegati a Lodi e Milano, quindi diventava molto difficile riuscire sempre ad eguagliare certi numeri... Ricordo il boato di gioia, quando abbiamo avuto i risultati definitivi, quando mio zio è arrivato al Senato dopo una vita dedicata alla politica. Lui era sì medico condotto, però la politica era la nostra malattia». Per quanto riguarda la sua esperienza personale, diretta? «Arriviamo agli anni 2000: dopo tangentopoli ci siamo un po’ tutti riciclati, e quindi io sono confluita nel gruppo dei Laburisti di Valdospini, diventando consigliere comunale con i DS con il sindaco Carlo Scotti, dal ‘96 al 2000. È stata una bella esperienza, che però non ho goduto appieno perchè avevo un figlio piccolo, un lavoro, l’agenzia immobiliare, pesante... Oltretutto c’è da dire che il consiglio comunale veniva chiamato spesso a lavorare, le commissioni si riunivano ed erano attivissime, insomma... eravamo un gruppo coeso e laborioso, ma non era semplice far quadrare la vita e la politica! Esperienza bellissima ma molto, per quei tempi, impegnativa per me. Penso che sarebbe bello che i giovani partecipassero alla politica come in passato, perchè nella vita di ‘sezione’ eravamo tutti come una famiglia
aperta al confronto... Comunque, dopo quell’esperienza, ho lasciato perdere la politica attiva, perchè mi sono resa conto che una persona è fatta di tante priorità e una politica attiva occupa un ampio spazio quotidiano, anche a livello mentale. L’ho abbandonata fino al 2013, anno in cui ho ripreso attivamente ad impegnarmi». Il suo rientro in politica attiva, quindi, quando avviene? «Nel 2015, in campagna elettorale. Ho rincontrato politicamente Paolo Affronti, guardando il panorama politico generale ho scelto di schierarmi al suo fianco nella lista dei centristi dell’Udc, ed ho deciso di ripresentarmi, dopo tanti anni... ed ho preso pochi voti! (ride di gusto). Però questo non mi ha demotivato, anzi ha ancor più accellerato il desiderio di crescita, e con un mentore come Paolo (Affronti n.d.r.) i risultati non si sono fatti attendere molto. Infatti sono arrivata poi alla candidatura regionale dove, seppur non riuscendo ad entrare in Consiglio, ho avuto la soddisfazione di essere la prima in città, in ordine di preferenze, tra tutte le liste in lizza. Ero candidata nella lista “Noi con l’italia - Udc”. Ho avuto quindi uno di quei risutati che ti porta ad investire sulla crescita futura».
«Paolo Affronti vuole che si lavori, molto, bene e con serietà, come anche lui ha sempre fatto!» Da questa campagna regionale è scaturito il desiderio, o è capitata l’occasione, di impegnarsi a livello di assessorato? Desiderava questo ruolo? «Sinceramente no, ma quando fai parte di un Partito, quando cresci all’interno dello stesso, sei obbligatoriamente “a disposizione”: l’impegno è davvero importante, ma appassionante devo dire! Un gruppo che investe molto sull’impegno e sulla presenza! Ho deleghe ad ambiente, ecologia e pari opportunità, politiche giovanili, turismo, marketing, prodotti tipici e musei, tante belle cose, ma molto impegnative. Alida (Battistella n.d.r.) è stato un ottimo Assessore, di grande capacità e volontà, che ha operato molto bene in tutte le direzioni, in tutte le deleghe, ma ora io
Simona Panigazzi
la sostituisco in corso d’opera, e non è facile “farsi una cultura” all’istante, riprendendo, ovviamente studiandole, iniziative precedenti da portare a termine...». Tra i suoi impegni imminenti? «Ad esempio in estate, cioè adesso, abbiamo il problema delle zanzare, così mi sono confontata con alcuni comuni dell’Emilia Romagna. è vero che l’ASM si occupa della disinfestazione, ma opera, per legge, con prodotti biologici, che sono meno efficaci di quelli chimici: quindi diventa centrale il ruolo del cittadino nelle proprie abitudini quotidiane... è stata fatta un’ordinanza di prevenzione che va da Aprile a Ottobre. Se ci sono case incustodite, va fatto un richiamo all’ufficio ambiente, ad esempio per tagliare l’erba, cosicchè le zanzare non prolifichino... Dev’essere fatta una prevenzione anche a livello pubblicitario, con i cartelloni nelle scuole, coinvolgendo il singolo cittadino. Abbiamo predisposto due incontri con i cittadini nei giorni di mercato, martedì e venerdì, per sensibilizzare le persone, soprattutto chi ha giardini, sul da farsi per contenere il fenomeno». Per le sue deleghe di assessorato, il Comune di Voghera ha a disposizione fondi? Qual è l’attuale situazione economica? «In questo momento siamo molto sofferenti. Allora, per le cose importanti i soldi ci sono sempre; in altri casi la somma prelevata va giustificata a livello di forma e sostanza, perchè sono soldi pubblici. A livello di promozione territoriale si può fare qualcosa, ma il progetto va inserito all’interno del bilancio». Se lei come assessore dovesse progetta-
re qualcosa, diciamo fra un anno, il suo unico strumento è il bilancio comunale? Non ha un “canale diretto” per richiedere, ad esempio, un finanziamento pubblico? «La spesa va sempre inserita a bilancio. è sempre un lavoro di Giunta con il sindaco. Molto importanti sono i bandi regionali ed europei, ai quali puoi partecipare come Assessorato». Quanto parla con Paolo Affronti a riguardo delle varie situazioni del suo Assessorato? «Paolo vuole che si lavori, molto, bene e con serietà, come anche lui ha sempre fatto! Ad oggi non mi sono mai sentita “tirare per la giacca”, nè prima nè ora tantomeno. Io gli esprimo talvolta il mio pensiero, cercando nel confronto di meglio capire, e lui mi consiglia, in totale libertà, senza nessuna imposizione “di Partito”, diciamo così, senza volermi dirigere sulla sua soluzione, e senza “obbligarmi” in alcuna decisione. Siamo comunque una squadra, non solo a livello di partito ma sopratutto a livello di gruppo consigliare e assessorile a palazzo Gounela. Non posso non ricordare l’impegno e la visibilità del presidente del consiglio Nicola Affronti e dei consiglieri Daniela Galloni ed Elisa Piombini, impegnate sia nel dibattito consigliare sia a livello di commissioni permanenti che attivamente lavorano sui vari problemi da sottoporre all’aula. Non posso poi dimenticare di avere in giuta un fratello maggiore: Gianfranco Geremondia. Ed insieme a lui cerchiamo di rappresentare degnamente il nostro gruppo di centro nell’esecutivo. La linea politica, però devo ricordarlo, me la dà il sindaco, nel rispetto delle indicazioni della coalizione politica che governa la città. Qualora ci dovesse essere in futuro una situazione a me eccessivamente ostica da dipanare, certamente mi affiderò all’esperienza del mio capo-partito e del gruppo consigliare!». Progetti per il 2020? «Guardi, per la prima volta nella mia vita mi è già impegnativo pensare al mese successivo! Chiaramente ci saranno dei cambiamenti perchè il sindaco Barbieri non sarà più candidabile, essendo arrivato al secondo mandato. Tutto assumerà una luce diversa, bisognerà riconsiderare il tutto...». Se dovessero chiederle di fare in futuro il candidato sindaco? «Ad oggi è veramente difficile fare il sindaco, ancor più di una città come Voghera, complessa, estesa ed importante... è un’operazione molto impegnativa, ti è necessario tanto tempo... è una risposta che ad oggi non saprei dare». di Lele Baiardi
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VOGHERA
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Canevari al centro sinistra: «Fissare al più presto le primarie» Riccardo Canevari, 46 anni, sposato e padre di una bimba di 10 anni, dopo il diploma al liceo Galilei si è laureato in filosofia con tesi sulla giustizia sociale. Dal 2010 prova ad applicare quanto appreso e sperimentato, nella gestione dell’azienda del padre artigiano, è inoltre amministratore di condomini. «Sono radicale da sempre». Precisa Canevari. A vent’anni rimane folgorato dall’ascolto di Radio Radicale e dal motto “Conoscere per Deliberare”; da allora è militante della Lista Marco Pannella, poi della Lista Emma Bonino, della Rosa nel Pugno, della Lista Amnistia Giustizia Libertà, della Lista +Europa, e infine di qualsiasi altra forma vorrà o potrà assumere il radicalismo laico e libertario italiano. Il suo auspicio è che +Europa evolva da lista elettorale in partito politico strutturato. Nel 2009-2010 iscritto anche al Partito Democratico ed ha collaborato con la segreteria Garofoli. Sul territorio è membro attivo dell’Associazione Radicali Pavia, della quale è stato anche prima tesoriere nel 2012 e poi segretario nel 2013. Canevari ad un radicale, data la situazione politica nazionale, non si può non chiedere di dirci, con un flash, qual è la sua opinione... «A proposito dello stato della politica nazionale penso si possa dire che se grande è la confusione sotto il cielo, di certo la situazione non è eccellente, anzi è molto preoccupante. Sembra quasi di assistere ad una escalation di dichiarazioni ed azioni irresponsabili della quale non si intravvede la fine, se non con sbocco in moti turbolenti e rabbiosi. Qualsiasi persona ragionevole deve impegnarsi per favorire il ritorno della politica pensata, nella quale chi ambisce ad avere un ruolo direttivo si applichi studiando con zelo e a lungo». A Voghera, dopo 20 anni di centro destra quale potrebbe essere l’alternativa e quale sarà la vostra posizione? «In ambito locale credo che la collocazio-
Riccardo Canevari, radicale “da sempre”, iscritto al Partito Democratico nel 2009-2010
ne naturale di chi in qualunque modo si identifica nella “galassia radicale” sia nel campo del centrosinistra, purché questo si riattivi rapidamente. Io credo, per esempio, che si dovrebbe decidere al più presto di fissare le primarie per nominare il candidato a sindaco di Voghera alle prossime elezioni: le primarie si dovrebbero tenere con circa un anno di anticipo sulla scadenza elettorale, così da dare tempo al candidato di centrosinistra di organizzare un gruppo di lavoro che dia vita agli “stati generali dei cittadini vogheresi”. C’è assoluto bisogno di coinvolgimento e credo che il compito di promuoverlo debba partire da chi si propone per amministrare la città. In questo senso valuto molto positivamente l’iniziativa di Ghezzi dei “questionari di quartiere». Cosa bisognerà fare da qui a 2 anni per prepararsi alle elezioni? «Studiando in modo matto e disperatis-
simo, il centrosinistra dovrebbe dotarsi di un ambizioso progetto Voghera 20202030, spiegando agli elettori quale idea di città immagina per il futuro. In generale si potrebbe dire che la città va riqualificata recuperando aree in dismissione, favorendo interventi di recupero edilizio dell’esistente e fermando lo spreco di territorio per opere di urbanizzazione dall’incerto destino. A solo titolo esemplificativo e non certo esaustivo: a chi non fa rabbia passare davanti allo splendido parco dell’ex manicomio e vederlo sottratto all’uso della cittadinanza? Perché Voghera non può avere un luogo dove la gioventù possa organizzare eventi musicali (e intanto l’ex macello è stato lasciato deperire...)? Anche il trasporto pubblico potrebbe essere oggetto di ripensamento, con il coinvolgimento dei cittadini».
«La città va riqualificata recuperando aree in dismissione, favorendo interventi di recupero edilizio dell’esistente e fermando lo spreco di territorio per opere di urbanizzazione dall’incerto destino» Vuole spiegarci meglio l’aspetto relativo allo sviluppo edilizio della città? «è stato uno sviluppo poco organico, e rimane il dubbio che la continua costruzione di edifici abbia contribuito non poco ad acuire gli effetti della crisi immobiliare. A Voghera abitano attualmente 39mila persone, lo stesso numero del 1982, ma con un numero di alloggi forse raddoppiato. Se aumenta l’offerta mentre la domanda rimane invariata il valore dell’immobile usato è destinato a scendere inesorabilmente...». Appurato che anche a Voghera esiste un’area radicale (alle recenti politiche ha preso 562 voti pari al 2,72%), e considerando la rosa che fa parte del loro simbolo storico non ci resta che congedarci con un salomonico. “Se son rose fioriranno...”. di Giacomo Lorenzo Botteri
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«Bisognerebbe essere uniti come commercianti e organizzare eventi dislocati nelle varie vie» «Arteca è la storia di un grande amore: l’amore per la manualità come espressione di se stessi, l’amore per la materia prima da scoprire e trasformare, l’amore per il design, l’eleganza e la femminilità». Così viene definito il concept di Arteca gioielli dalla sua creatrice e “deus ex machina” Claudia Costa, una giovane artista imprenditrice vogherese. Le tre parole che identificano il suo laboratorio sono Amore, Arte e Passione. L’abbiamo incontrata nel suo laboratorio, un ambiente da lei definito “intimo e caldo, intriso di colori, profumi e suoni”. Quando è nato il suo interesse per l’arte e tutto ciò che la riguarda? «La mia passione è nata quando ero ancora piccola, mi è sempre piaciuto disegnare e sono sempre stata attirata dalle diverse forme d’arte. Ho poi frequentato il Liceo Artistico a Pavia per tre anni e mi sono specializzata per altri due anni all’Hayec a Milano. Dopi la maturità mi sono iscritta alla Nuova Accademia di Belle Arti sempre a Milano dove ho studiato Interior design». Quando ha deciso di aprire questo showroom con annesso laboratorio a Voghera? «A settembre del 2008. Terminati gli studi ho avuto la possibilità di fare uno stage di sei mesi in una azienda a Milano che mi è molto servito perché mi ha insegnato un lavoro, ma d’altro canto mi è costato molti sacrifici in quanto percepivo 200 euro al mese e dovevo sostenere tutte le spese di trasporto e vitto. L’azienda creava gioielli in oro e argento utilizzando resine e pietre dure, mi sono molto appassionata a questa tecnica e, grazie alla mia creatività, ho iniziato a creare un campionario di gioielli. Finito lo stage mi hanno proposto un contratto a tempo determinato con clausole non molto chiare... non ho accettato ed ho iniziato a creare una mia linea di gioielli e a diventare un po’ l’imprenditrice di me stessa, girando per i negozi e proponendo le mie creazioni. In coppia con un’altra ragazza abbiamo creato il brand “la roche d’or” e abbiamo iniziato ad organizzare degli eventi serali a Milano con presentazioni dei nostri gioielli per poter vendere i nostri prodotti. In seguito ci siamo lasciate per divergenze di idee e io ho avviato una collaborazione con questo negozio che non era il mio ma mi dava la possibilità di incontrare le clienti il fine settimana e proporre le mie creazioni. Quando la titolare ha dovuto lasciare per problemi personali, mi ha chiesto di ritirare il negozio e così è stato. Dopo mille dubbi perché comunque ho dovuto fare un investimento molto grande, un anno di mensilità, l’assicurazione, l’affitto, insomma avevo molte paure. Devo essere veramente grata a mia mamma che ha creduto in me è stata di grande aiuto
Claudia Costa, giovane artista e imprenditrice vogherese
e sostegno economico. Così sono partita con “Arteca gioielli” che sta per compiere 10 anni». Che tipo di gioielli crea e con quali materiali? «Io prevalentemente uso pietre semipreziose, l’argento come metallo di base ma su richiesta anche oro e metalli meno pregiati come l’ottone e il rame e le resine che ho imparato ad utilizzare a Milano. Le resine fanno da cornice alla pietra e vengono poi strofinate con una polvere dorata o argentata che le rende preziose. Su questa cornice si possono inserire anche una serie di piccole pietre che possono essere swarovski, rubini, zaffiri, gocce di metallo semiprezioso. Tutte le mie creazioni sono pezzi unici fatti a mano senza stampi e sono pensati e prodotti anche secondo il gusto della clientela». Quindi se una cliente viene con una sua idea particolare o un disegno lei può creare il gioiello personalizzato?
«Assolutamente sì, anzi ,le dirò, sto lavorando tantissimo dando nuova vita ai gioielli che si hanno in casa, per esempio la collana della nonna o della mamma strutturata molto semplicemente e fuori moda, può diventare un gioiello nuovo e di tendenza aggiungendo delle pietre o cambiando la chiusura». Quali sono le sue clienti più assidue? «La mia cliente tipo è una signora di età che va dai 35 anni in su che ama il gioiello particolare. Sono un po’ un negozio di nicchia perché il mio non è un marchio. Bisogna distinguere tra la persona che vuole essere alla moda e vuole il gioiello che va per la maggiore e quella che ama distinguersi e vuole il pezzo unico, che nessuno ha. Posso dire che molte clienti sono passate dalla prima tipologia alla seconda, affinando il gusto per la creazione artistica ed esclusiva». Parliamo di prezzi: i suoi gioielli esclusivi sono alla portata di tutti?
«Abbiamo tutte le fasce prezzo, a seconda della preziosità dei materiali e quindi posso dire che tutti possono permettersi un paio di orecchini, un bracciale o una collana di creazione artigianale». Mi diceva prima che ha dovuto fare tanti sacrifici ma sicuramente si è guadagnata tante soddisfazioni... «Devo dire che sono stata fortunata perché rilevando il negozio, mi sono trovata già un portafoglio clienti di tutto rispetto. Diciamo poi che ho lavorato bene e sono riuscita ad incrementarlo». Lei è partita da Milano e poi è, come dire, ritornata a casa. è contenta di aver fatto questa scelta di rimanere qui in provincia, in Oltrepò? «Sì, è stato un po’ il destino perché trovando questo negozio già avviato a Voghera mi sono fermata qui e sono riuscita a lavorare bene finora. Inoltre ho anche molti clienti che vengono da fuori, da Milano, Vigevano, Pavia, Tortona. Certo mi piacerebbe che Voghera fosse una città più viva». Che cosa farebbe lei per risvegliare questa città anche dal punto di vista commerciale? «Bisognerebbe essere molto uniti come commercianti e cercare di organizzare degli eventi dislocati nelle varie vie della città in modo che le persone possano essere favorite a comprare nei negozi locali invece che nei vari mercatini che vediamo sulla via Emilia nei fine settimana. Sarebbe anche interessante fare dei percorsi enogastronomici nei quartieri facendo riscoprire certe vie della città che non sono sempre così frequentate. Io penso che se in centro si aprisse qualche attività di ristorazione tipo fast food o qualche centro ricreativo per i giovani, le strade sarebbero più movimentate e la gente non si riverserebbe nei centri commerciali». Ha un sogno nel cassetto o un progetto che vorrebbe realizzare? «Io vivo molto alla giornata ma visto che si sta avvicinando il traguardo dei 10 anni di attività, mi piacerebbe fare un evento allestendo una mostra d’arte con tutte le mie creazioni e trovare uno spazio abbastanza grande dove mettere delle teche e chiedere alle mie clienti di tutti questi anni di poter esporre i gioielli che ho creato per loro. Alcuni molto particolari mi sono rimasti nel cuore e mi piacerebbe proprio poterli rivedere esposti tutti insieme». Consiglierebbe ad un ragazzo o ragazza molto creativi di fare il suo percorso? «Sicuramente sì, perché l’arte è una cosa talmente soggettiva che può certamente far emergere delle grandi professionalità nel settore». di Gabriella Draghi
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VOGHERA
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Una vita per il Gallini «I giovani devono tornare ad amarlo» Sono 45.566 i ragazzi degli Istituti Agrari d’Italia. Un vero e proprio esercito del ritorno all’agricoltura che ha visto negli ultimi cinque anni un aumento del 36%. I dati sono quelli diffusi da Coldiretti ed evidenziano un rinnovato interesse verso il connubio tra libri di scuola e lavoro nei campi, nelle stalle, nelle vigne o nei laboratori. Se a questo si aggiunge che, sempre secondo i dati Coldiretti, a un anno dal diploma il 73% degli studenti risulta già occupato, s può capire meglio la ragione di questa nuova tendenza. Voghera non rappresenta eccezione e vanta un istituto d’eccellenza come il ”Carlo Gallini”, che da oltre 120 anni “restituisce” al mondo agricolo e vitivinicolo oltrepadano (ma non solo) tecnici competenti. Il Gallini è stato per intere generazioni un elemento distintivo e di profonda aggregazione. «Queilì ien cui ad l’agraria» ( in dialetto, «Quelli lì sono quelli dell’agraria»), dice Teresio Nardi, ex studente galliniano diplomato nel 1968, quando ricorda come venivano chiamati e facilmente identificati gli studenti del Gallini. Nardi oltre che studente è stato professore di estimo ed economia fino al 2007, preside nell’anno
2003/2004, vice preside per un ventennio, sotto lo storico preside Carli prime e con il professor Toscani poi. Ha pure sposato un’insegnate del Gallini e oggi è presidente dell’associazione “Insieme per il Gallini”. Insomma, la sua vita e la storia dell’Istituto Agrario iriense sono intrecciate a doppio filo. Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata, in vena di ricordi e riflessioni su quello che è stato e sulle potenzialità che questa scuola, unica per il territorio, ha. Nardi cosa rende così speciale e per molti versi unico il Gallini per essere ancora oggi dopo oltre 120 dalla sua nascita una scuola che rimane nel cuore di chi l’ha frequentata come fosse una sorta di “congregazione” universitaria? «è indubbio che il Gallini sia una scuola che lega e che appassiona. A distanza di 50 anni da quando ero studente conservo di quella scuola un bellissimo ricordo che ancora oggi condivido con i miei ex compagni con i quali sono rimasto in contatto. Il perché? Probabilmente perché all’epoca eravamo in pochi, credo non arrivassimo a 100 in tutto l’istituto, una sorta di famiglia allargata e si creava anche con gli in-
segnanti e la dirigenza un rapporto molto stretto. Eravamo una scuola piccola e “relegata” in mezzo alla campagna dove facevamo tantissime esercitazioni pratiche: dal mungere le vacche al falciare il fieno, il lavoro senza dubbio è andato a cementare il rapporto umano. Pensi che le scuole finivano il 28 maggio e a giugno tutti noi studenti tornavamo a scuola a lavorare per tutto il mese, questo aspetto della scuola ha contribuito ad allungare la lista degli aneddoti e dei ricordi che oggi a distanza di tempo amiamo rivangare per riderci su». Da dove è nata l’idea di creare un’associazione come “Insieme per il Gallini”? «L’associazione è nata nel 2004 con lo scopo di non perdere questo cameratismo tipico degli ex studenti. Abbiamo sino ad ora organizzato tre revival, il prossimo credo lo faremo a novembre e l’affluenza è stata sorprendente: al primo eravamo in 300, al secondo organizzato al Palaoltre in 480, al terzo in 320. Pensi che durante queste cene trovo anche diplomati degli anni ’30… il che è tutto dire… e in tutti la scuola ha lasciato un buon ricordo». Quali sono gli aneddoti che amate ri-
«La prima donna studente arrivò da Broni negli anni ’70. Per il Gallini fu una rivoluzione» vangare a queste cene? «Sono tanti, dalla merenda di metà mattina a base di pane e tre noci che ci davano nel mese di giugno, quando finita la scuola tornavamo per il lavoro, a quando si vendeva ai vogheresi il latte in bottiglia, infatti all’epoca avevamo l’unica stalla del territorio certificata esente tubercolosi e ancora oggi c’è il locale latteria con tutti gli accessori…Oppure quando arrivavano gli stalloni, dato che eravamo una stazione di monta equina… Tante cose di un passato per noi glorioso».
XXXXXXXX VOGHERA Trova la stessa partecipazione nelle nuove leve? «Purtroppo no, per questo vorrei che un giovane prendesse il mio posto alla presidenza dell’associazione, per coinvolgere le nuove generazione che dal mio punto di vista non hanno quell’attaccamento che rende unico il Gallini. Il perché innanzitutto va ricercato nei numeri, oggi sono in 600 e non in 100 ed in più è venuta a mancare tutta la parte dedicata al lavoro, che univa». Dichiarata scuola d’eccellenza nel 2006, per l’Oltrepò che è territorio a vocazione agricola e vitivinicola è stata certamente un punto di riferimento importante. Qual è stata nel corso degli anni l’utilità della scuola nel settore agricolo e vitivinicolo oltrepadano? «Prima di tutto va detto che ha diplomato persone preparate e competenti tra cui qualche nome illustre. Io ricordo quelli delle “vecchie” generazioni, come l’enologo Mario Maffi, il professor Fogliani ultra novantenne docente di fitopatologia all’ università di Milano e Piacenza, presidente del vecchio Pio Istituto Gallini e fondatore dell’associazione La Strada dei Vini e dei Sapori, Gianluigi Stringa che ha rivestito incarichi importanti nel mondo agricolo e nel campo dello zucchero. Credo poi che l’innovazione agricola sia passata anche dal Gallini: fino agli anni 80/85 un buon numero di diplomati lavoravano nel settore agricolo e vitivinicolo, pertanto attraverso le loro idee e la loro competenza hanno certamente contribuito all’innovazione agricola, come ad esempio è stato per la rivoluzione verde negli anni 70 o per l’agricoltura sostenibile oggi». Com’è cambiata la tipologia dello studente nel corso di questi anni? «Intanto ai miei tempi eravamo solo maschi. La prima ragazza che si iscrisse arrivava da Broni ed erano gli inizi degli anni ’70, quando si aprì un importante capitolo per il Gallini: l’avvento delle donne nella scuola ingentilì la scuola stessa, la rese meno “agricola” se possiamo così definirla e addirittura ci furono anni in cui il numero delle iscritte superava quello dei maschi. Oggi gli studenti non arrivano solo dal mondo agricolo che ha sempre la sua fetta, ma arrivano anche da altre realtà che con il vino e i campi nulla c’entrano. Troviamo sempre i figli di proprietari agricoli o produttori di vino e questi arrivano in particolar modo dalla Val Versa e dalla Valle Scuropasso, ma troviamo anche studenti che vedono nel Gallini una scuola di alto livello che li può preparare al mondo universitario qualunque esso sia, un’opportunità per approfondire percorsi diversificati e non più strettamente legati al mondo agricolo. Ai miei tempi una percentuale bassissima andava all’università, nel mio anno di studi eravamo in 4, generalmente una volta diplomati si andava a lavorare nelle aziende del territorio». Il Gallini a suo giudizio è ancora una scuola attrattiva? «è una scuola che dà una formazione di una certa sostanza e permette l’accesso all’università ed in diverse facoltà, ma non
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Teresio Nardi, diplomato al Gallini nel 1968
attira più come un tempo. Dà una formazione generale di alto livello, ma dal mio punto di vista ha perso quella connotazione prettamente agricola che la contraddistingueva. Non solo il fruitore è cambiato, anche la scuola ha perso alcune delle sue peculiarità: prima tanta agricoltura, tanta zootecnia e tutto l’insegnamento in generale era legato al mondo agricolo. Ora l’istituto paga lo scotto delle numerose riforme della scuola che in questi anni si sono susseguite e che hanno penalizzato tutti gli istituti tecnici in generale. Ora assomiglia di più ad un liceo agricolo che ad un istituto tecnico, ridotte le materie professionali si è perso in competenza pratica». Non solo oltrepadani ma anche studenti che vengono da fuori e che hanno la possibilità di soggiornare nel convitto. Come funziona? Quanti sono i giovani non dell’Oltrepò che scelgono di diplomarsi al Gallini? «Anche in questo aspetto si denotano le differenze tra la scuola ieri e oggi: ai mie tempi arrivavano studenti da province lontane: da Genova, Como, Varese, Torino, in certe regioni non c’era l’istituto agrario con collegio annesso, era una peculiarità di Voghera. I ragazzi, quasi la metà nel periodo in cui io ero studente, restavano nel convitto per un tempo prolungato, anche il sabato e la domenica, loro forse ancora più di noi sono la memoria storica e il collante di questa scuola, loro l’hanno veramente vissuta a 360 gradi, la scuola e la città di Voghera. Oggi da lontano non arrivano più e i giovani non amano stare in collegio. Da quel che sento dire i 40 posti del convitto sono sempre occupati, ma sono ragazzi della zona, non arrivano mai da troppo lontano, non più di 70-80 km. Poi è un collegio
maschile ed i maschi si sa… preferiscono stare vicini alla mamma!». è stato introdotto da quest’anno il sesto anno con indirizzo enotecnico, lo vede come un valore aggiunto sia per la scuola che per il territorio? «La possibilità di un approfondimento enologico è un valore aggiunto sia per l’Oltrepò che per i territori limitrofi, penso all’alessandrino che produce ottimi vini. In Italia nelle zone a vocazione vitivinicola esiste da sempre questa specializzazione, penso ad Alba, Conegliano Veneto, San Michele all’Adige e poi se non ricordo male Puglia e Marche, da noi in Oltrepò c’è voluto un po’ più di tempo». Sviluppi futuri. Come vede le nuove professioni agricole e come la scuola dovrà adeguarsi? «La prima cosa che mi viene in mente è l’uso dei droni in campo agricolo ma onestamente non so che futuro ci riserva l’agricoltura e di conseguenza quali potrebbero essere le nuove professioni ad essa legate. L’agricoltura è cambiata moltissimo, si è passati dall’ agricoltura “del nonno” con le rotazioni, il rispetto della natura e delle fasi lunari ad una agricoltura che di queste cose non tiene più conto e che non vede più la stagionalità. Vedo l’agricoltura aperta ad ogni tipo di innovazione e con tanti scenari possibili ma rimango fermamente convinto di una cosa: l’agricoltura deve continuare a produrre cibo, il cibo deve venire dalla terra e vedere oggi che l’agricoltura genera prodotti utilizzati per produrre biogas mi piange il cuore. è questo aspetto che non si deve perdere di vista, in più il nuovo agricoltore deve sapere vendere i suoi prodotti per cui è indispensabile che abbia una certa capacità di fare marketing, con una preparazione
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tecnologica e informatica di livello. Deve poi puntare sulle produzioni di nicchia che soprattutto sulle nostre colline sono l’unica chance possibile. In collina non si possono trapiantare 3mila ettari di mais o di frumento, in collina devono essere valorizzate le diverse produzioni». E per il mondo del vino? «I continui scontri, ogni tanto uno scandalo, poi la lotta tra produttori, non aiutano. Serve un uomo di riferimento, un elemento trainante e penso agli anni in cui la cantina La Versa guidata da uno forte si è resa credibile e si è imposta. Ci vorrebbe forse un altro uomo così, perché i tecnici si formano e il Gallini ne forma di bravissimi e preparatissimi, ma una guida che possa dire in che direzione andare ai nostri viticoltori e alle tante piccole cantine che fanno qualità manca». Lei perchè ha scelto il Gallini? «Per passione. Mio padre era un muratore di Oriolo e sperava io facessi il geometra, ma io mai mi sarei visto in quel ruolo. Mio nonno aveva “un fazzoletto” di terra e sono cresciuto andando a raccogliere le cipolle, a seguire la trebbiatrice… Un’ atmosfera che mi è rimasta dentro». Una parte dell’istituto è stata restaurata ma ci sono ancora spazi enormi inutilizzati e fatiscenti. Quale sarebbe il suo auspicio per il futuro? «Premesso che le idee ci sono e ci sono sempre state, quello che manca alla fine sono i soldi per realizzarle, sarebbe a mio giudizio buona cosa poter trovare i fondi per edificare un collegio femminile che oggi manca, oppure realizzare un laboratorio di scienze naturali di un certo livello, portare a Voghera una sede staccata dell’Università di Piacenza e Milano. Parlando di progetti più raggiungibili in termini economici, mi piacerebbe che si riuscisse a ristabilire il sistema di irrigazione che oggi la scuola non ha più. Da quando furono espropriati i terreni che appartenevano al Gallini da parte del Comune per costruire il parcheggio della piscina, il Palaoltre e il Maserati il pozzo di irrigazione non è stato più ripristinato». di Silvia Colombini
L’ex preside Teresio Nardi: «Ridotte le materie professionali rispetto a un tempo, oggi la scuola ha una connotazione meno pratica»
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IL PERSONAGGIO
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«Non sono mai stato un presidente taglia - nastri» Ferrarese di nascita, milanese d’adozione anche se, in verità, già in gioventù diventa “cittadino del mondo”, alcuni anni or sono ha spostato la residenza di campagna dalla Toscana all’Oltrepò Pavese, e per la precisione a Retorbido, dove l’abbiamo incontrato. Qui si ritira, in alcuni week-end, per rilassarsi e distaccarsi, qualche ora, dagli infiniti impegni professionali. Top Manager d’azienda riconosciuto a livello intercontinentale, dal curriculum ricostruibile non senza difficoltà data l’infinita catena di ruoli assunti e gestiti, tutti ai massimi livelli, ha stretto la mano a molti Presidenti di Stato. Resca è laureato in Economia e Commercio all’Università Bocconi di Milano, ha nel corso degli anni unito il ruolo di amministratore in Eni, Mondadori, Rizzoli, Gianni Versace, l’Oréal a quello di specialista di turn-around aziendali. Nel 1974 è nominato direttore della Biondi Finanziaria (gruppo Fiat) e dal 1976 al ‘91 è partner di Egon Zehnder. Dal 1995 al 2007 è stato Presidente e amministratore delegato di McDonald’s Italia. Nel 2002 è stato nominato Cavaliere del lavoro e dal maggio di quell’anno viene nominato consigliere indipendente dell’Eni. È Presidente di Confimprese, Presidente di Italia Zuccheri, membro del Consiglio di Amministrazione del Gruppo Mondadori. È stato presidente di Finance Leasing e di Arfin, membro dell’Advisory Board of British Telecom Italia, Senior advisor di Oaktree Private Equity Fund. Negli anni passati ha ricoperto inoltre altri incarichi di rilievo, tra cui: Commissario straordinario del gruppo Cirio-Del Monte; Presidente della American Chamber of Commerce in Italy; Membro di Aspen Italia; Presidente di Kenwood Electronics; Membro del Consiglio di Amministrazione di L’Oréal, Gianni Versace SpA, Rizzoli RCS, membro del Consiglio di Amministrazione dell’ENI.Nel giugno 2002 Mario Resca ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere del Lavori L’incarico di presidente è anche a lui familiare ma, ironicamente sottolineandolo con l’intelligenza e la cultura che lo contraddistinguono, di se stesso tiene a precisare «Non sono mai stato un Presidente taglia-nastri: sono sempre stato combattente ed esecutivo sul campo!». Cerchiamo quindi di meglio conoscere il Mario Resca, ringraziandolo per la squisita ospitalità. Ritengo che lei sia la persona più titolata, a livello di straordinaria carriera professionale, che, seppur vivendo l’Oltrepò come residenza di campagna, conosce questo territorio da anni... «Sono arrivato anni or sono in Oltrepò grazie al fraterno amico, dal 1980, Avvocato Agostino Guardamagna, allorché mi propose l’acquisizione della proprietà ove siamo ora, il mio “buen retiro” che negli anni ho trasformato, ingrandito e, spero, abbellito. Ma conosco l’Otrepò non solo da turista! Anni fa mi impegnai duramen-
te nella rivalutazione dello zuccherificio di Casei Gerola! Feci un progetto che portò alla creazione di un nuovo impianto, che non ebbe futuro per la ahimè scelleratezza del sistema-Italia e la sua burocrazia, quella burocrazia che considero da sempre una zavorra da rimuovere e che ho sempre combattuto! E guarda caso sono diventato il direttore generale del Ministero più rappresentativo, a mio parere, della leadership italiana: il Ministero dei Beni Culturali. Ho girato tantissimo per il mondo quale responsabile della valorizzazione del patrimonio culturale italiano, obbligato a farlo anche perché l’allora ministro Bondi non viaggiava in aereo (sorride)... Anche se tempo dopo risposi di no all’invito del Premier Silvio Berlusconi, anche in virtù del fatto che parlo 4 lingue, a ricoprire la carica di ministro degli Esteri, nel ruolo di direttore generale della valorizzazione del nostro patrimonio culturale in realtà, un pò, lo feci in automatico. Questo nostro patrimonio, dal valore inestimabile, è davvero la più importante e rispettata risorsa che abbiamo nei confronti del resto del Mondo! Ho incontrato: dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese all’ex Presidente Americano Bill Clinton, ho portato le Opere di Caravaggio a Cuba, ho fatto accordi culturali in Iran e Siria, ed ancora in Cina, paese con cui ho grandi rapporti per via del G8 ove conobbi il Presidente Hu Jintao. Poi sono stato 12 anni a Roma, e lì ho conosciuto e mi sono scontrato con la macchina dello Stato! Il mio impegno ai Beni Culturali è iniziato nel periodo in cui avevo lasciato Mc Donald’s ed avevo un po’ di tempo libero, per cui pensai bene di dedicarlo al mio Paese, ed ancor oggi mi ritengo un privilegiato per aver avuto la possibilità di farlo! Però, il mio nome venne osteggiato inizialmente tantissimo, perché un direttore generale, massima carica tecnica raggiungibile con cui anche il Ministro si deve confrontare, non uomo dello Stato ma Tecnico esterno, ovviamente spaventava! In più, da indipendente, cioè senza “padrino” politico, il mio incarico arrivò con l’approvazione, sostenuta dalla lungimiranza del Presidente Giorgio Napolitano che oltretutto mi stimava, di una nuova legge che toglieva potere ai Sovrintendenti! Le lascio immaginare! I miei detrattori dicevano che avrei resistito 3 mesi: si sbagliavano!». Per un incarico così prestigioso, dalle alte responsabilità, quanto guadagnava all’anno? «170 mila euro lordi, comprensivi di tutte le mie spese, personali e non... ed era un incarico pregno di costi altissimi! Ma, lo ripeto sempre, sento di averli spesi per il bene del mio Paese!». Ho visto tempo fa in tv una sua intervista molto divertente, perché lei oltretutto è molto intelligentemente ironico, dove ad un certo punto raccontava che quan-
Mario Resca, Top Manager do ha aperto un Mc Donald’s a Milano era sia gestore che dipendente, ed alcuni suoi colleghi di lavoro, dell’alta finanza, a turno la chiamavano, stupiti di questo. Com’è iniziata quest’avventura? «All’epoca facevo il consulente, quindi seguivo le aziende che avevano problemi aiutandole a svilupparsi: ricordo la Kenwood, che portammo da 4 a 200 miliardi di fatturato. Mi chiamò Mc Donald’s Italia – che all’epoca aveva solo 8 ristoranti in tutta Italia – chiedendo la mia disponibilità per una consulenza. In Francia c’erano già 250 ristoranti, ma in Italia la situazione non decollava... Così iniziai a cercare dei possibili interlocutori che prendessero in mano il marchio. Mi chiesero se ero disponibile a prendere in mano la Lombardia, in cui all’epoca vi erano solo due ristoranti, cedendomeli per una gestione in franchising. Presi il ristorante di Corso Vercelli e iniziai a gestirlo, facendo aumentare la produttività. Vedendo il progresso, chiesi un prestito alle banche e aprii altri due franchising. Accadde che... alla fine ne aprii 350!». Quale, nel suo percorso lavorativo, considera più importante: Mc Donald’s o la Direzione Generale del Ministero dei Beni Culturali? «Beh... il primo, perchè è stata un’epopea! Riuscimmo a creare, dal nulla, 15.000 posti di lavoro, ed è sotto gli occhi di tutti!». Mi permetta una considerazione, che non vuol essere classista, lungi da me, ma realista: lei hai una visione del mondo che non è una visione comune, per via delle sue grandi esperienze professionali. Come vede il territorio dell’Oltrepò? «Penso sinceramente che questo territorio abbia delle potenzialità... Vengo dalle campagne ferraresi e dalla vita contadina, dall’aia con le galline, dall’orto, e quindi ho un po’ l’occhio. Questo territorio è vicinissimo a Milano, non è lottizzato come la Brianza ed ha tutto quello che vogliamo. Da ciclista appassionato, qui ho fatto escursioni fantastiche con i miei amici Moser e Gianni Bugno.
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è comodo anche per gli spostamenti nelle località di mare e di montagna. Rispetto, ad esempio, alla Toscana, altra terra a me cara, penso che l’Oltrepò sia, più che abbia, un potenziale inespresso: qui sono molto individualisti, ognuno fa per sè... Ci sono state personalità della Politica, anche a livello nazionale, che hanno “dato” a e per questo territorio, ma mi pare che ora tutto sia sparito, insieme, ad esempio, al famoso Concorso Ippico salicese, appuntamento europeo importante... qui rimangono pace e tranquillità». Da fortissimo manager d’azienda, da dove partirebbe al potenziamento dell’Oltrepò Pavese? «Dagli uomini. Dalla squadra che gestisce il territorio. Mi spiego meglio: nelle aziende ove riscontro ed affronto problemi, pur non essendo specializzato nel settore operante, io sono quello che mette insieme la squadra di persone e trova le soluzioni. Ad esempio, visto che qui siamo in terra di ottimi vini, io ho gestito una Società, non oltrepadana che ho lasciato qualche anno fa, portandola a vendere milioni di bottiglie all’anno in tutta Europa. E, contestualmente, ho aiutato la Mondadori a superare il problema della crisi editoriale, gestendo le 600 librerie che oggi funzionano bene... anche con lo zuccherificio di Casei Gerola, da una situazione di perdita, andammo rapidamente in profitto. Bisogna strutturare “la squadra vincente” e, liberi, da uomini liberi, senza vincoli, ad esempio, con la politica, attuare una o più strategie studiate con professionisti. Per il vino oltrepadano, ad esempio, penso che bisognerebbe restringere la produzione, perchè se vuoi vendere non puoi proporre troppi prodotti ponendoti in un contesto competitivo troppo vasto! Non 27 etichette: bonarda e barbera, ad esempio! Due, ma nostre! Riunirsi, tutti insieme, senza campanilismi. E mai dimenticare che chi comanda è il cliente! Soprattutto, il prodotto deve essere riconoscibile, sul territorio Nazionale e/o dove si vuole andare. Serve un’azione ampia di marketing, che qui non c’è mai stato... Vede, proprio tramite una perfetta adozione di strategia di marketing, negli anni, la birra ha soppiantato il vino, perchè il settore enologico non ha un ruolo cosi alto sul mercato!». Avrebbe un nome di un marketing manager da consigliare ai produttori di prodotti tipici locali? «Non è tanto questo il problema. Non bisogna partire da un’attività consorziale, ma definire cosa si rappresenta ed il ruolo sul mercato: qui non è solo una questione di gestione del prodotto, di produrre quello che piace a me, ma è soprattutto questione di capire il destinatario. Il prodotto deve essere riconoscibile e bisogna indagare il mercato di riferimento, rispettando lo standard qualitativo ed il rapporto qualità-prezzo. Questo è un territorio in cui fin dai tempi più remoti non è stato il produttore a cercare il cliente, ma viceversa. Il cliente va studiato e il prodotto va adattato al consumatore, potenziando il territorio. E bisogna farlo! Perché se non lo fai tu... lo fa un altro!». di Lele Baiardi
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LETTERE AL DIRETTORE
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«Cartelli e manifesti abusivi... Polizia stradale, Polizie Municipali, Carabinieri e autorità comunali competenti non li vedono?» Signor Direttore, capisco che una lettera che denuncia inadempienze da parte delle autorità competenti quali Polizia Stradale, Polizia Municipale, Carabinieri e uffici comunali preposti, è una lettera scomoda... ma confido nel fatto che Il Periodico da lei diretto, abbia il coraggio e dimostri trasparenza, pubblicando questa mia missiva. Il problema è molto semplice: con l’arrivo della bella stagione, ma anche in misura minore durante gli altri mesi dell’anno, sulle strade, negli incroci, nelle innumerevoli rotonde, dove ci sono semafori, dove ci sono viali alberati etc. etc. compaiono, messi alla “bella e meglio”, cartelli e manifesti che pubblicizzano le sagre, gli spettacoli ed anche le feste di partito, organizzate da associazioni, pro loco, locali notturni e chi più ne ha più ne metta... Chiedo con forza alle autorità competenti di intervenire e porre fine a questo scandalo che mette
a rischio il decoro e la sicurezza stradale. La mia denuncia è solo l’extrema ratio, ma ci sono momenti in cui non esistono alternative. Penso che ci sia del malaffare e chiedo che vengano verificati i rapporti tra le varie associazioni e società ed anche partiti politici che organizzano gli eventi e gli uffici pubblici che dovrebbero impedire questo scempio. Chiedo trasparenza e a chi di dovere di controllare che qualcuno non abbia ceduto ad altri interessi sacrificando la sicurezza e il decoro. Nel territorio oltrepadano si verificano molti incidenti stradali e tutti questi cartelloni pubblicitari sono pericolosi per motociclisti, automobilisti e pedoni, per questo, chiedo alle autorità competenti di agire anche per il reato relativo al collocamento pericoloso di cose. La collocazione di impianti pubblicitari lungo le strade o in vista di esse è regolamentata da una normativa che ha la finalità di tutelare la
sicurezza della circolazione stradale, evitare cioè che i mezzi pubblicitari installati provochino confusione con la segnaletica stradale riducendone la visibilità o distraendo l’attenzione dell’automobilista. La norma stabilisce per ogni tipologia di mezzo pubblicitario: “cartello”, “preinsegna”, “insegna di esercizio” etc. etc. dimensioni, caratteristiche, posizionamento lungo le strade e le fasce di pertinenza. I cartelli pubblicitari, molti dei quali attaccati con il nastro adesivo, che “abbelliscono” l’Oltrepò, sono fuorilegge. Allora mi chiedo la Polizia Stradale, i Carabinieri i Vigili Urbani, i sindaci, gli assessori... non li vedono questi cartelli? Mi viene un dubbio, che alla luce dei fatti si rafforza sempre di più: vedono solo quello che vogliono vedere e questo non va bene. Perchè se chi deve far rispettare la legge non lo fa, compie un reato! Marco Perduca - Voghera
Perchè l’asfalto delle strade dell’Oltrepò si rovina subito? Egregio Direttore, vorrei sapere per quale motivo basta un po’ di pioggia e gelo o neve per rovinare l’asfalto delle strade dell’Oltrepò. Non c’è strada che non sia devastata da buche, per altro spesso non segnalate, anche se aperte da giorni o settimane. Vorrei anche capire perchè questo strano fenomeno avviene solo nelle strade dell’Oltrepò, mentre in provincia di Alessandria o Piacenza avviene in misura molto minore, ed infatti hanno strade migliori. Io una ipotesi la avrei:
1- asfaltatura fatta in maniera pessima 2- asfalto di qualità scadente 3- pessima manutenzione delle strade e per manutenzione intendo la sigillatura delle crepe, dove poi si insidia l’acqua e si aprono le voragini. In altre province se notate, le crepe delle strade vengono sigillate e la completa riasfaltatura la si fa di rado, ma le strade sono sempre perfettamente
percorribili. Mi piacerebbe sapere se spendiamo più noi fra continue riasfaltature e rimborsi agli automobilisti danneggiati o spendono di più gli altri. Non sarebbe il caso che qualche magistrato faccia una bella inchiesta su questi appalti per vedere se il tipo e la quantità d’asfalto usata è corretta? Luca Albertini - Casteggio
È una vergogna rubare i fiori al cimitero
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Caro direttore, le scrivo per condividere con lei e con gli altri lettori quello che mi succede da un po’ di tempo a questa parte. Sono «episodi» di vita che non meriterebbero l’attenzione che le chiedo, ma che purtroppo suscitano in me un’infinita tristezza per l’insensibilità che certe persone dimostrano perfino per i defunti. Mi succede, infatti, molto spesso, quando mi reco al cimitero di Broni a far visita ai miei cari, di trovare che qualcuno o qualcuna ha portato via i miei fiori. Devo dire che non capita solo a me, parlando con altre signore che frequentano il camposanto, mi è stato confermato che siamo in tanti
LETTERE AL DIRETTORE
a subire questo «affronto». Ora, vorrei rivolgermi a chi, senza un minimo rispetto, né per i vivi, né per i morti, compie un gesto così vile. Vorrei dire a queste persone che si dovrebbero vergognare, ma penso che serva a poco, perché se una persona entra in un cimitero, si china su una tomba per portare via un vaso di fiori, immagino che non sappia cosa sia la vergogna. Se dunque non susciterà vergogna, spero almeno che questo mio sfogo induca queste persone a riflettere e magari a pentirsi. Chiedo ai nostri defunti che li perdonino e ci benedicano tutti. Lettera Firmata Broni
Questa pagina è a disposizione dei lettori per lettere, suggerimenti o per fornire il proprio contributo su argomenti riguardanti l’Oltrepò Scrivete una email a: direttore@ilperiodiconews.it Le lettere non devono superare le 3000 battute. Devono contenere nome, cognome, indirizzo e numero di telefono che ci permetteranno di riconoscere la veridicità del mittente Le lettere con oltre 3000 battute non verranno pubblicate
«Io vittima di bullismo: insegnanti, aiutate i ragazzi» Signor Direttore, le scrivo in riferimento alle notizie sempre più frequenti in merito alle vittime di atti di bullismo durante la scuola. Queste notizie hanno riaperto in me una ferita difficile da dimenticare, nonostante ormai siano passati più di 20 anni. Anch’io sono stato vittima di bullismo, quando frequentavo la scuola superiore. Sono stati gli anni peggiori della mia vita: i miei compagni di classe mi prendevano in giro, mi insultavano, dicendo che ero un handicappato, e me ne facevano di tutti i colori. Venivo dai monti, era fose sì, anzi certamente un po’ imbranato e loro mi consederivano un ignorante, uno scemo... Mi ricordo di un episodio che può sembrare insignificante, ma aggiunto a tanti altri è sufficiente a rendere la vita di un ragazzino un vero inferno. L’insegnante di lettere aveva chiesto alla classe, compreso me, se eravamo d’accordo a programmare le interrogazioni. Avremmo semplicemente dovuto sorteggiare qualche cognome. E il risultato? Usciva sempre il mio per primo! Una volta, due e tre … Avevo capito che c’era qualcosa di strano. Senza contare che quando sorteggiavano il mio cognome, mi ridevano sempre in faccia. Un giorno, nel quale per l’ennesima volta avrei dovuto affrontare per primo l’interrogazione programmata, sono stato a casa, anche su consiglio dei miei genitori. Quando sono rientrato a scuola, ho spiegato alla docente il motivo della mia assenza. I miei compagni si sono arrabbiati e vi lascio immaginare cosa è successo dopo… Un vero putiferio! Una volta, mi hanno pure messo un uccellino morto nell’astuccio. Tra questi compagni, ce n’era uno che mi metteva le mani addosso. Diceva che lo faceva per scherzo, ma io sapevo benissimo che non era vero. Qualche volta mi picchiava nei bagni della scuola, qualche volta all’uscita. Non so perché non ne ho parlato subito con gli insegnanti o con i miei genitori. Probabilmente temevo ripercussioni ancora peggiori. Uno, due, tre e quattro, non ce la facevo a tenere tutto dentro e un giorno mi sono messo a piangere come una fontana, mentre tornavo a casa in macchina con mio padre. Devo ringraziare i miei genitori che a quel punto sono intervenuti in mio aiuto, parlando con il dirigente scolastico e gli insegnanti. Sicuramente ho sbagliato a non confidarmi subito con i miei genitori e a non dirlo agli insegnanti, che per primi devono adoperarsi per contrastare qualsiasi forma di bullismo. In cinque anni i miei docenti non si sono mai accorti di nulla. Mi chiedo ancora come sia stato possibile. Forse hanno visto ma non sono stati in grado di intervenire in modo giusto. Parlatene subito a qualcuno, alle vostre famiglie, ma soprattutto ai vostri insegnanti che devono assolutamente intervenire. Laddove la famiglia non arriva, credo che la scuola abbia un compito fondamentale: insegnare il rispetto per gli altri, anche se considerati «diversi». Lettera firmata - Varzi
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Una terra dove il vino vale troppo poco per quanto è buono
Si chiama “enoturismo” ed è un tema di cui tutti parlano sebbene nessuno lo pratichi con metodo, coinvolgimento e rete. Nel recente passato abbiamo visto vari guru ergersi a paladini dell’argomento in Oltrepò, tuttavia i clienti li hanno portati forse solamente a casa loro. Sbagliatissimo! Per essere veri registi gli eventi, la promozione e la valorizzazione bisogna portarli a casa degli altri. Sulle colline del vino e del Salame di Varzi gli argomenti ci sarebbero tutti per fare una bella promozione a pacchetto. Ci sta provando il Touring Club, ingaggiato nell’ambito del progetto AttivAree, perché fino ad oggi qualunque tentativo non ha portato a soluzioni credibili e durature. Eppure è un settore in buona salute, quello dell’enoturismo, che vanta in Italia 14 milioni di potenziali interessati e un fatturato
di almeno 2,5 miliardi di euro. Il settore stenta però a decollare e non sfrutta tutto il suo potenziale economico e occupazionale per la mancanza di forti strategie pubblico-private che mettano in rete le risorse di un’Italia in cui il vino e il buon cibo sarebbero facilmente collegabili alle bellezze artistiche e paesaggistiche di tanti territori, come l’Oltrepò. Una terra dove il vino vale troppo poco per quanto è buono, storico e identitario ma dove anche ristorazione e accoglienza non vengono valorizzate a dovere da chi amministra. Una terra in cui i sindaci ergono al cielo i loro auditorium, le loro innumerevoli sale polivalenti e i cartelloni di una marea di eventi “bevi gratis” sperando che tutto ciò si dimostri un’efficace viatico a un marketing territoriale che qui da noi non si sa neanche lontanamente cosa sia.
Pochi giorni fa è stata sul territorio l’assessora al Turismo di Regione Lombardia, Lara Magoni, cui hanno fatto venire il “magone” portandola a Salice Terme, località nota del tempo che fu, oggi una vera ghost town, in cui la politica locale guarda al futuro aspettando il miracolo che non arriverà mai, senza progettualità tangibili per un rilancio che andrebbe inseguito a suon d’idee e non trastullandosi nel solito lasciarsi vivere. A fare il paio con il vuoto pneumatico di Salice è la città di Voghera, grande nei numeri ma piccola nella proposta e nella visione futura. La Magoni da Voghera non è nemmeno passata, pur essendo la città crocevia di due autostrade importanti e della stazione ferroviaria con maggior traffico dell’Oltrepò: una città in cui si passa ma non ci si ferma più, perché ormai mancano
le ragioni. Le uniche voci fuori dal coro, in questa fase storica, sono Broni, con la sua Enoteca Regionale che punta a essere piazza dell’enoturismo locale e non, insieme a Stradella, la cui movida sfida la crisi e le difficoltà socioeconomiche generali dimostrando comunque che la cittadina è forte di una certa vitalità, anche imprenditoriale. Bisognerebbe che un gruppo di comuni, uniti, condividessero un piano di sviluppo pluriennale ma qui in Oltrepò si sta sempre e solo all’ombra del proprio campanile, della propria torre, del proprio castello o del proprio centro che magari langue al di là dei soliti fiumi di parole sui giornali. Ma non importa a nessuno... di Cyrano de Bergerac
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ATTUALITà
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Dissesto idrogeologico: «L’Oltrepò Pavese potrebbe essere il giardino d’Italia» Siamo abituati a parlare di dissesto idrogeologico con cadenza meramente episodica; quando, cioè, ci ritroviamo a dover fare i conti con una strada chiusa, con qualche abitazione allagata o, peggio, quando succede una tragedia. Fatti conditi, puntualmente, dalla solita, fatidica frase: ‘‘si poteva evitare’’. Cosa stiamo facendo, in Oltrepò, per scongiurare questi rischi? O meglio: cosa dovremo fare? E qual è lo stato di salute del nostro territorio? Affrontiamo questo tema con il geologo Alberto Maccabruni. Il dissesto idrogeologico in Oltrepò è un’emergenza o un fenomeno strutturale? «Il territorio dell’Oltrepò è suscettibile di dissesti idrogeologici sia nella zona collinare e montana che di pianura. La situazione non è molto diversa rispetto ad altre zone appenniniche e di pianura. Le situazioni emergenziali rappresentano l’effetto di eventi piovosi eccezionali perché particolarmente intensi e improvvisi o per periodi prolungati molto piovosi che saturano in profondità il terreno fino al punto in cui non è più in grado di assorbire acqua».
Fenomeni eccezionali. Come reagire? «È necessario saper convivere con questi fenomeni assumendo comportamenti conseguenziali: bisogna evitare di realizzare nuovi interventi e investimenti nelle zone per le quali sono individuate limitazioni geologiche all’uso; bisogna monitorare le zone soggette a tali rischi ed attuare opere di prevenzione per salvaguardare l’incolumità delle persone; bisogna effettuare la manutenzione del territorio, in particolare del reticolo di scolo naturale e artificiale (fossetti di sgrondo lungo i versanti agricoli, cunette e tombinature stradali)». Esistono aree di criticità particolare, che secondo lei rischiano di trasformarsi in vere e proprie tragedie, se non opportunamente trattate? Non dimentichiamo l’episodio del 2009 a Broni, quando un pensionato fu travolto da uno smottamento e ucciso nella sua abitazione… «Tutti i comuni dovrebbero oggi essere dotati di uno specifico studio geologico e sismico che classifica tutto il territorio comunale in diverse classi di fattibilità che esprimono le diverse condizioni di rischio sia per gli urbanizzati esistenti che per le eventuali zone di espansione. Bisogna in-
nanzitutto rispettare le prescrizioni di tale strumento che è parte integrante dei Piani di Governo (PGT)». Ci si può difendere dalle ormai celebri “bombe d’acqua”, o si tratta di un fenomeno ineluttabile? «I nubifragi ai quali assistiamo a volte increduli, a volte spaventati, sono eventi locali, improvvisi e potenzialmente devastanti causati dai mutamenti climatici. Dobbiamo considerarlo un dato di fatto, tanto che i criteri per la definizione delle sezioni deflusso dei corsi d’acqua e delle tubazioni di drenaggio delle aree impermeabilizzate sono stati rivisti, in quanto i valori utilizzati in passato non sono sufficienti per evitare allagamenti ed esondazioni in occasione di tali eventi». Occorre superare certi vecchi retaggi del passato… «Il primo passo è culturale, in quanto esistono forme arroccate di pensiero che negano le conseguenze dell’azione umana sui mutamenti climatici. Bisogna applicare il principio dell’invarianza idraulica. Bisogna attuare la manutenzione del territorio, limitando le aree edificabili a quelle porzioni di territorio che non presentano
forme di pericolosità per dissesto e alluvione». Lei si occupa di dissesto idrogeologico da circa quarant’anni. Come è cambiato il territorio dell’Oltrepò Pavese in questo periodo? «Nella seconda metà degli anni ’70 l’Oltrepò Pavese è stato interessato da frane diffuse su tutta l’area collinare: moltissime abitazioni hanno subito danni tali da dover essere abbattute, le strade sono state interrotte perché coinvolte direttamente dalle frane o per essere state invase dalle colate fangose. In molte località le reti acquedottistiche sono state letteralmente strappate dai movimenti franosi e l’acqua fuoruscita ha ampliato i fenomeni di dissesto». Quali cause? «L’elemento scatenante delle frane è stata la piovosità oltre le medie protrattasi consecutivamente per alcuni anni: il terreno superficiale era come una spugna inzuppata che scivolava verso valle in certi casi con una velocità di alcune decine di metri al giorno. Le criticità che hanno costituito la condizione perché i dissesti si sviluppassero sono: carenza nella manutenzione
XXXXXXXX ATTUALITà del reticolo di drenaggio delle acque superficiali, edificazioni in luoghi inidonei, scassi profondi del terreno per particolari destinazioni agricole». In anni più recenti? «Nei decenni seguenti, fino ai giorni nostri, nulla è evidentemente cambiato nella natura geologica dei terreni e purtroppo, pur con l’aumentata consapevolezza della necessità di manutenzione del territorio e dei corsi d’acqua, poco o nulla è stato fatto per prevenire i dissesti. Sicuramente complice del ripetersi di tali fenomeni è il continuo e progressivo abbandono dei territori collinari e montani». Fenomeni naturali spingono le colline d’Oltrepò a scivolare verso valle; ciò non significa che il processo sia inevitabile. Chi non sta facendo la propria parte? «Non esiste un responsabile di ogni male. Per manutenere un territorio è necessario che ognuno faccia la propria parte: i proprietari dei terreni non devono abbandonarli ma li mantengano adeguatamente drenati e impediscano la crescita incontrollata della boscaglia, piuttosto li vendano, li affittino o li cedano in uso perché qualcun altro se ne occupi». E la Pubblica Amministrazione? «Le amministrazioni locali facciano eseguire gli studi geologici necessari ad una corretta pianificazione dei PGT; si smetta di lasciar costruire o modificare l’assetto del suolo in zone soggette a rischio di frana o in zone di espansione delle piene di torrenti e fiumi; le amministrazioni di rango superiore coordinino la pianificazione affinché si tenga conto delle criticità e al tempo stesso incentivino il ritorno dei giovani all’agricoltura». Con riferimento agli enti pubblici, esiste una suddivisione nella gestione dei corsi d’acqua fra i comuni e la regione. Funziona questa ripartizione? In cosa consiste? «La competenza sui corsi d’acqua fino al gennaio 2002 era della Regione; successivamente la gestione dei corsi d’acqua appartenenti al reticolo principale (ad esempio Staffora, Coppa, Versa) è rimasta in capo alla Regione, mentre quella dei corsi d’acqua appartenenti al reticolo idrico minore è stata delegata ai Comuni. Questa delega ai comuni di fatto ha conferito un impegno gravoso agli enti locali, con le note carenze di personale e risorse finanziarie. I Comuni hanno dovuto individuare il reticolo minore di competenza nell’ambito dei Piani di Governo, devono applicare le norme di polizia idraulica, effettuare le manutenzioni, irrogare sanzioni, rilasciare concessioni per attraversamento, eccetera». A Voghera la Protezione Civile è intervenuta di recente per ripulire il letto dello Staffora. È probabile che questo intervento torni a essere necessario nel giro di breve tempo, come lo è stato in passato: non sarebbe, secondo il suo parere di tecnico, più opportuna una regolare pulizia a monte? «Qualsiasi intervento per risultare efficace deve essere programmato ed attuato alla scala di bacino e non basta concentrarsi sull’alveo principale dei corsi d’acqua
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o solo su parte dello stesso. Si dovrebbe partire da valle e risalire interessando tutti i principali affluenti, fino alle sorgenti. Tengo però a sottolineare che gli alvei dei torrenti non devono diventare un’autostrada per l’acqua, è necessario mantenere zone di divagazione, zone di eventuale esondazione controllata in caso di eventi eccezionali, zone vegetate per contrastare l’erosione e più in generale un assetto che consenta la biodiversità. Qualsiasi intervento dovrebbe essere progettato e diretto da professionisti/tecnici competenti nelle varie discipline». Il Regolamento di Polizia Rurale che la Provincia di Pavia ha messo a disposizione dei Comuni è uno strumento valido? «È positivo il fatto che la Provincia abbia voluto stimolare i comuni nell’affrontare il tema della regolamentazione delle attività di manutenzione dei fondi rurali, laddove le negligenze di chi non osserva le buone pratiche possono determinare forme di degrado territoriale. Si tratta di uno schema da modificare adattandolo alle peculiarità di ogni comune. Non ritengo che debba essere adottato tal quale e l’evoluzione normativa, delle tecnologie produttive, i risultati ottenuti col passare del tempo e gli accadimenti impongono periodiche revisioni di questo importante strumento di governo del territorio». L’incuria per il territorio, unito all’assenza di infrastrutture, ne arresta ogni velleità di sviluppo. La sua cura, al contrario, potrebbe fare da volano alla crescita? «La valorizzazione di un territorio si attua attraverso azioni che ne promuovano le peculiarità, lo rendano fruibile e accogliente. Non basta introdurre elementi positivi, ma occorre evitare che si realizzino interventi negativi, anche solo per questioni d’immagine. Ad esempio si potrebbe citare il caso dell’impianto di pirolisi di Retorbido: se quell’inceneritore fosse stato autorizzato e
«Le amministrazioni locali facciano eseguire gli studi geologici necessari ad una corretta pianificazione dei PGT; si smetta di lasciar costruire o modificare l’assetto del suolo in zone soggette a rischio di frana o in zone di espansione delle piene di torrenti e fiumi»
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realizzato avrebbe distrutto le potenzialità turistiche e il valore dell’enogastronomia di quell’area. Ma lo stesso vale, purtroppo in modo diffuso, per il disordinato proliferare di urbanizzazioni che deturpano il paesaggio». In Oltrepò ne abbiamo parecchi esempi… «L’Oltrepò Pavese potrebbe essere il “giardino” d’Italia, la parte più settentrionale dell’Appennino, incuneata nella Pianura fino a raggiungere il Po e collegata attraverso dorsali naturali al mare.
Tornando all’incuria e al degrado territoriale, come già detto, si dovrebbe favorire il ritorno all’agricoltura e sviluppare le attività di trasformazione dei prodotti di qualità che si possono ottenere. L’agricoltura determinerebbe una cura ed un presidio territoriale basilare ad ogni forma di sviluppo. Bisognerebbe che l’Oltrepò si ‘‘aprisse’’ all’esterno recependo anche forme innovative di produzione e di fruizione». di Pier Luigi Feltri
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Umanizzare gli animali oltre certi limiti può diventare pericoloso Vivono con noi, mangiano con noi, dormono nel nostro letto, sui nostri divani. Parliamo con loro e a volte persino li vestiamo alla moda. I nostri amici a quattro zampe stanno diventando sempre più umani, ammettiamolo. Soprattutto il cane che, da miglior amico dell’uomo, stiamo trasformando in fratello o figlio. A tutti gli effetti un famigliare. Siamo sicuri di non stare esagerando? Siamo sicuri di non stare confondendo l’affetto e la devozione per un essere vivente con la necessità di colmare un vuoto dentro di noi? Ma, soprattutto, siamo sicuri che questo affetto e devozione che a noi sembrano tratti nobilitanti non possano in qualche modo nuocere in primis a colui cui sono dedicati? L’umanizzazione eccessiva di animali da compagnia può diventare un problema nella misura in cui si finisce per perdere di vista certe prerogative. Abbiamo approfondito l’argomento con tre figure professionali che indagano aspetti sia sociali che medici del comportamento umano e animale: una psicologa, uno psichiatra e un educatore cinofilo. Quello che chiarisce Micaela Loconte, psicologa attualmente in forze alla clinica San Giorgio di Voghera, è che «il
processo di umanizzazione degli animali, quando rimane all’interno di una dinamica relazionale sana ed equilibrata, risponde ad un bisogno di accudimento delle proprie parti più infantili e vulnerabili naturalmente presenti in ognuno di noi e suscettibili di meccanismi proiettivi all’esterno. In sostanza l’accudire un animale, tendenzialmente morbido e a sangue caldo (più difficile sarebbe proiettare le proprie parti infantili bisognose di accudimento ed affetto su un pesce o una lucertola, ad esempio) significa accudire in lui di noi quelle parti infantili che ci rappresentano». Quali dinamiche nel rapporto uomo animale può celare questo bisogno di nutrire il “fanciullino” che è in noi? «Questo atteggiamento può corrispondere ad una logica affettiva di piacere provato nella fisicità di un prendersi cura, ma risponde anche ad altri significati, primo fra tutti le paure di solitudine e rifiuto che, a livelli di differente intensità, popolano ognuno di noi, rendendo il rapporto con l’animale piacevole non solo perché ci consente di dare affetto, ma anche perché ci permette di riceverne gratuitamente da qualcuno che è lì per noi, non ci abbando-
nerà e non ci rifiuterà mai. Tendenzialmente questi atteggiamenti, ovviamente in un discorso generale che non può tener conto delle diverse variabili che esistono in ogni situazione, si associano a situazioni di profonda solitudine e angoscia di perdita, al punto da sostituire l’altro della relazione con un animale che, per definizione, dipende da noi e dalle nostre cure garantendoci una presenza costante». Quando da simpatica consuetudine certi atteggiamenti dell’uomo nei confronti dell’animale possono diventare “preoccupanti”? «Credo che si possa dire che da simpatica consuetudine, probabile e possibile con qualsiasi amico a 4 zampe, si passa al gesto preoccupante nel momento in cui l’animale diviene l’unico interlocutore e soprattutto quando si tende ad interpretarne atteggiamenti e “versi” come probabili risposte o si decide della propria vita in base a presunte preferenze del proprio animale ipotizzate da improbabili discorsi con esso». Trattare il proprio animale domestico come un figlio o un fratello minore può in sostanza considerarsi una pratica
La psicologa: «Preoccupante quando l’animale diventa l’unico interlocutore» sana e ormai normale nel contesto sociale odierno, oppure secondo lei si tratta di una spia che dovrebbe allarmare in qualche modo? «Si tratta, anche a seconda della situazione, di una spia non tanto della patologia della persona (che potrebbe anche non esserci) quanto della patologica disfunzionalita’ di un tessuto sociale in cui sempre meno si educa all’interazione e sempre più si promuovono solitudine e isolamento relazionale. Credo che il rapporto con l’animale si possa definire malsano quando non sono salvaguardati i normali limiti di realtà in
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L’educatore cinofilo: «Certe abitudini sbagliate possono portare il cane ad atteggiamenti aggressivi»
Micaela Loconte, psicologa cui esso si concretizza, fino al capitolo delle perversioni». Gli animalisti più “convinti” spesso sono vegetariani o vegani. Lei crede che sia possibile definirsi amanti degli animali pur nutrendosi della loro carne? Qual è la sua opinione sull’animalismo “estremista”? «Un rapporto sano ed equilibrato si fonda sul rispetto. Siamo esseri onnivori e non è negando la nostra natura che mostriamo rispetto verso gli animali, ma nel modo in cui li trattiamo. Sopprimere il mio cane che soffre per il quale non c’è alcuna speranza (facendogli un favore perché non dimentichiamoci che il concetto di morte come aspetto negativo da evitare è solo dell’uomo, non degli animali) o sopprimere ciò che mangio (le aragoste ne sarebbero grate se si cominciasse a farlo) è diverso da sopprimere per dimostrare la propria forza o per il piacere di farlo. Rimane comunque un discorso talmente carico di variabili che qualsiasi risposta meriterebbe un confronto fra opinioni diverse». Se umanizzare eccessivamente può rispondere a una necessità di maggiore sicurezza o stabilità emotiva, occorre ricordare che l’”oggetto” di questa stessa umanizzazione è un essere vivente che appartiene a una specie diversa da quella umana, con delle caratteristiche etologiche ben precise. In parole povere, un cane che non viene trattato da cane soffrirà le conseguenze del nostro comportamento. Se umanizzare può essere per certi versi sgradevole, per altri può diventare anche pericoloso. Ne è convinto Matteo Castiglioni, educatore cinofilo e collaboratore dell’Enpa di Voghera.
«Un’eccessiva umanizzazione può portare a derive comportamentali nel cane: ad esempio una troppa tutela può incrementare delle insicurezze e dei deficit di autoefficacia, oppure può alimentare comportamenti reattivi fino a sfociare in aggressività verso cani o persone. Un errato posizionamento sociale, cioè un cane che non ha trovato la sua identità all’interno del gruppo di appartenenza, può portare a incomprensioni o frizioni relazionali uomo-cane». Quali sono gli errori più frequenti e dannosi per il cane stesso che si possono compiere in questo processo di “antropomorfizzazione”? «Le situazioni più frequenti e dannose per un cane, legate alla sua umanizzazione, prescindono dall’età, dalla taglia e dalla razza. Per me è fondamentale evitare di portare in giro il cane in braccio o nella borsetta, senza mai farlo camminare e vivere esperienze fuori di casa, anche con altri cani; sottoporlo a eccessive cure di toelettatura, se non necessarie per il suo benessere, vedere il proprio cane come sostituto ad una figura umana affettiva, privandolo così della sua identità. Anche sovraesporlo a situazioni per lui troppo stressanti e non compatibili con le sue necessità etologiche come portarlo il cane al centro commerciale o in luoghi caotici e affollati è sbagliato. Come, in generale, privare il cane della sua dignitosa e speciale “vita da cane” ».
Lo psichiatra: «Tanti pazienti traggono giovamento da un rapporto “umano” con l’animale» Far dormire Fido nel letto, parlare con lui, perfino vestirlo… sono comportamenti “eccessivi” o accettabili per l’animale? «Personalmente credo che non ci sia una regola basilare sul far dormire il cane nel letto o parlarci, ma devono sempre essere
Matteo Castiglioni, educatore cinofilo prese in considerazione le necessità e il carattere del soggetto; anche i miei cani possono dormire nel letto, ma sono altrettanto consapevoli che il loro luogo di privacy si trova da un’altra parte, e allo stesso tempo io sono consapevole che non a tutti loro fa piacere condividere degli spazi così stretti come un letto. Stesso ragionamento vale per il parlarci: credo che non ci sia nulla di male anzi, che sia importante parlare con i nostri cani ma allo stesso tempo è fondamentale avere la consapevolezza che la loro comunicazione è differente e quindi tocca a noi metterci in gioco e in discussione per farci capire al meglio, usando il nostro corpo, le nostre posture e una comunicazione semplice e non solo verbale. Questa è una forma di rispetto verso un essere vivente che comunica in maniera differente dalla nostra. Altro discorso è, invece, il vestire o “abbellire” il cane, fatto prettamente per canoni estetici e a volte egoistici della persona. Il cane non ama essere vestito, lavato eccessivamente né profumato, tutte queste sono solo forzature provocate da un desiderio umano non compatibile con l’etologia del cane. A parte necessità fisiche (ad esempio vecchiaia o malattia) tutto quello che rientra nell’abbigliamento per cani rischia di arrivare a dare fastidio al cane e a volte a ridicolizzarlo. Un cane avrebbe altri desideri per la testa, che con un po’ di tempo e passione possono essere soddisfatti, come una bella passeggiata insieme al proprietario in campagna, una nuotata in un fiume, il frequentare un gruppo di amici fisso (cani e persone) con cui giocare e divertirsi». Esistono i cosiddetti “cani pericolosi”? «Un cane ritenuto pericoloso è un cane che non è stato ascoltato, capito e gestito nella maniera corretta, portandolo ad esasperare ed esibire comportamenti (escludendo problemi neurologici o fisici) che possono risultare “antisociali”. Troppo spesso la mancanza di consapevolezza e conoscenza del proprio cane, della razza e delle sue attitudini, sono le motivazioni principali per le quali si sviluppano nel cane dei problemi comportamentali. Credo che non esista il cane “cattivo” ma che si tratti sempre di conseguenze di errori umani, a volte causati anche da un’eccessiva umanizzazione». Umanizzare, ovviamente entro certi limiti come spiegato dagli addetti ai lavori, non
significa necessariamente compiere un atto che porta con sé connotazioni negative. Secondo Walter Furlano, psichiatra formatosi all’università di Pisa con il dottor Giovanni Battista Cassano, uno dei massimi esperti nel campo dei disturbi d’ansia e depressione, il rapporto con gli animali ha un’importanza che può risultare fondamentale nel processo di cura di alcune malattie. «è provato che gli animali abbiano un effetto ansiolitico e antidepressivo, ci sono degli esperti che stanno portando avanti studi su questo e anche la neurobiologia si sta occupando di chiarire le ragioni alla base di certi processi. Gli animali in determinati contesti agiscono sulle aree cerebrali che controllano la nostra emotività e i pazienti molte volte giovano di un certo rapporto, che dona autostima ed aiuta a ri-
Walter Furlano, psichiatra trovare la fiducia». C’è però un confine tra una umanizzazione “positiva” e l’eccesso? «Il confine c’è ma è spesso difficile da individuare tanto quanto quello tra tristezza e depressione. Io credo che una eccessiva attenzione all’aspetto dell’animale, al suo abbigliamento, magari curato in modo ossessivo possano essere indice del fatto che si è in qualche modo andati oltre alla linea del buon senso. In ogni modo posso dire che nella mia esperienza ho visto molte più persone giovarsi del rapporto con un animale di quante ne abbia viste ricavare problemi da esso. Umanizzare, finché non si perdono di vista certi valori, non lo ritengo sbagliato». di Christian Draghi
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CASEI GEROLA
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Parco le Folaghe, futuro incerto «Servono fondi e nuovi volontari» Il futuro del Parco le Folaghe di Casei Gerola, dopo i fasti del primo decennio del nuovo millennio, è oggi incerto: servono nuovi appassionati che portino impegno, passione, idee e competenze e servono i fondi che permettano di realizzare le opere necessarie a mantenere e far progredire il parco. «Negli ultimi anni ci siamo limitati all’ordinaria amministrazione e questo è davvero un peccato» spiega Francesco Gatti, naturalista e membro dell’associazione “Amici del Parco le Folaghe” che dà supporto al Comune nella gestione della struttura, dal 1999 riconosciuta come Plis (Parco Locale di Interesse Sovracomunale). Gatti qual è il problema principale? «Fondamentalmente la mancanza totale di fondi che il parco riceve da parte delle istituzioni. Il Comune di Casei Gerola, grazie alla passione del sindaco Stella, riesce a dedicare delle risorse apprezzatissime, ma si tratta di fondi insufficienti per migliorare le condizioni del parco, che bastano solo per provvedere alla gestione ordinaria. Inoltre le annate siccitose pongono seri problemi per la conservazione degli ambienti acquatici». La vostra associazione come si sta muovendo? «Negli ultimi anni abbiamo diminuito molto le iniziative, in quanto non vi è stato un rinnovo delle presenze, un ricambio generazionale che avrebbe dovuto portare nuovo entusiasmo e forze... purtroppo i discorsi naturalistici non interessano che una minima parte della popolazione, per cui vivendo noi soprattutto di volontariato, siamo in grave difficoltà per questo motivo. D’altronde date un’occhiata ai media in generale, chi parla di natura? Al di là di qualche sporadica notizia curiosa l’argomento natura, animali e conservazione della biodiversità non sono nell’agenda degli italiani, che difatti sono tra i meni consapevoli in Europa di tali argomenti».
Allarme furti nelle auto: «Parcheggiate vicino alla baracca dei pescatori oppure in paese» Recentemente sembra essersi aggiunto un altro problema: sul vostro sito c’è un avviso di attenzione per via di furti alle auto. Può raccontarci cosa sta accadendo? «Abbiamo preferito segnalare in modo evidente il fatto che sono avvenuti dei furti, sperando che questo non allontani i visitatori ma li renda solo più attenti a non lasciare oggetti in auto. Purtroppo è una cosa che accade in tutta Italia, cioè dove ci sono birdwatcher e fotografi, i ladri hanno imparato che ci sono anche attrezzature costose da rubare. Una buona prassi è quella di parcheggiare l’auto presso la “baracca” dei pescatori (qualora fossero presenti) in quanto essi rappresentano in tal senso un ottimo presidio. Oppure lasciare l’auto in paese e recarsi al parco a piedi o in bicicletta». Ci parli della struttura. Cosa la rende unica? «Il grande potere attrattivo nei confronti dell’avifauna migratrice; fungendo infatti da oasi, da isola di natura all’interno del deserto (agricolo) circostante, sono moltissime le specie che hanno sostato al par-
Francesco Gatti lancia l’appello: «Una struttura dal potenziale enorme, serve passione e nuova linfa per tenerla viva»
Francesco Gatti, naturalista e membro dell’associazione “Amici del Parco le Folaghe”
co durante i loro viaggi, alcune delle quali rarissime anche per l’Italia intera. Anche gli uccelli nidificanti e quelli che passano qui l’inverno sono numerosi e molto interessanti. Le tante specie osservate nel parco hanno nel corso dei decenni portato alla compilazione di una lista pazzesca, con quasi 300 specie». Dal punto di vista naturalistico quali sono le peculiarità? Vivono delle specie rare, magari uniche? «Tra gli uccelli nidificano specie rare quali Sterna comune, Cavaliere d’Italia e in alcune annate anche Moretta tabaccata, Mignattino piombato.... Come detto gli uccelli sono appunto numerosissimi, ma non sono il solo pregio naturalistico dell’area, che infatti ospita moltissime libellule e tra gli insetti anche una farfalla protetta in ambito europeo: la Licena delle paludi. Anche gli anfibi (con due specie di tritoni) e i rettili (è presente il Saettone, rarissimo altrove in pianura) sono interessanti. La flora inoltre ospita piante acquatiche rare se non addirittura uniche in tutto l’Oltrepò! ». Nel corso degli anni l’attrattività del Parco è cresciuta o diminuita? «In generale è aumentata per via dell’accresciuta naturalità dell’area, tuttavia gli ambienti del parco sono mutevoli per via dell’andamento delle precipitazioni che condizionano la quantità di acqua a disposizione della falda e di conseguenza quella presente entro i bacini di cava. In annate siccitose le falde non alimentano le cave e alcune rimangono asciutte, ridicendo il numero e l’estensione degli ambienti umidi, ovvero quelli più interessanti
e caratteristici del parco». Chi sono i visitatori tipo e che flusso turistico c’è? «Il pubblico che visita il parco è eterogeneo, andando da semplici curiosi ad appassionati di birdwatching che vengono da tutto il nord Italia e talvolta anche dall’estero, gente del posto per fare una passeggiata e fotografi naturalistici “a caccia” di scatti, appassionati di corsa e bicicletta e pescatori, dato che in una parte del parco è consentita la pesca (incruenta)». Il Parco è “popolare” tra la gente del territorio oppure la maggior parte dei visitatori viene da fuori? «Negli anni, “a suon” di iniziative è divenuto popolare anche a Casei Gerola e dintorni, ma la sua fama, anche se per una nicchia di persone, travalica ampiamente i confini provinciali». Il Parco sta riutilizzando alcune vasche dell’ex zuccherificio. Si può dire che alla fine si tratti dell’unica vera “riconversione” avvenuta della ex grande struttura industriale. Può spiegarci in che cosa consiste e che utilizzo di tali strumenti si fa? «In realtà le vasche dell’ex zuccherificio non ricadono entro i confini del parco e pertanto non sono gestite da esso. La gestione con scopi naturalistici di alcune aree dedicato allo smaltimento dei fanghi, appunto esterne al parco, si devono ad Eugenio Tiso, ornitologo locale che negli anni si è impegnato a favore del parco ma non solo, prodigandosi appunto anche in questo argomento». di Christian Draghi
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Nuovo Hotel Terme: perchè è stato “sfilato” alle Terme di Salice, senza che nessuno dicesse nulla? Qualche domanda bisogna porsela! Va beh… Le Terme sono fallite e il perché e il per come è chiaro: un mix tra incapacità, affari personali e interessi privati… così dicono le cronache e le accuse formulate per iscritto da diverse persone. A quanto ci risulta ci sono alcuni gruppi interessati ad acquisire le Terme sia in blocco sia a singoli lotti, ma alcuni di questi gruppi, che forse meglio di altri hanno fatto una valutazione delle Terme, si sono trovati davanti ad una sorpresa: una delle parti più interessanti dal punto di vista economico, immobiliare e di sviluppo futuro delle Terme, il Nuovo Hotel Terme ed il terreno che lo circonda, non è di più di proprietà della fallita Terme di Salice, ma di un’altra società, sempre di Roma. Il Nuovo Hotel Terme, da pochi anni chiuso, con il suo grande giardino di competenza e con le volumetrie costruttive possibili in tale area, il 5 luglio del 2016 è stato “sfilato” dalla proprietà delle Terme di Salice S.r.l. e conferito alla AD RSA – Resort per anziani S.r.l., società costituita a Roma due mesi prima con un capitale sociale di 10 mila euro. I soci di questa AD RSA – Resort per anziani S.r.l. sono al 100% le Terme di Salice ora fallite. Facciamo un passo indietro: due mesi dopo la sua costituzione l’AD RSA – Resort per anziani S.r.l. , società costituita il 4 Maggio 2016 e in quel momento ancora società inattiva, dice che per svolgere la sua attività (e a questo punto uno si domanda quale?) ha bisogno di aumentare il capitale sociale. Bene… e uno dirà: “Lo aumenteranno del doppio o del triplo”. No, l’hanno aumentato di 600 volte passando da 10 mila a 6 milioni d’euro di capitale sociale. Uno si domanda: “Ma questa AD RSA – Resort per anziani S.r.l. aveva un padrone ricco?”. Non esattamente perché il padrone di questa società romana erano e sono le Terme di Salice S.r.l. che a distanza di un anno e mezzo da questa operazione di ingegneria immobiliare e finanziaria, sono fallite! A dire il vero già nel 2016 gli stipendi e i fornitori o non venivano pagati o pagati a singhiozzi, a dire il vero già nel 2016 i clienti erano pochi e tutti sapevano, anche per ammissione degli amministratori, che le Terme di Salice non avevano una lira, pardon un euro, ma avevano proprietà immobiliari che hanno ceduto a questa società romana affinchè riuscisse ad avere un capitale sociale di 6 milioni d’euro per svolgere la sua attività! A questo punto uno si chiede: “Cosa volevano fare? La denominazione di questa società parla di residenza per anziani…”. Volevano forse fare una residenza per anziani dentro il Nuovo Hotel Terme? Difficile, a meno che non avessero avuto le assicurazioni dagli amministrazioni locali per il cambio di destinazione d’uso del Nuovo Hotel da albergo a casa di riposo. È vero anche che il Nuovo Hotel Terme era
Nuovo Hotel Terme gravato da mutui verso banche e da debiti nei confronti dell’Agenzia delle Entrate per 5milioni e 120 mila euro, salvo errori ed omissioni. Avendo il Nuovo Hotel un valore, come da perizia fatta e certificata, di oltre 6 milioni di euro, c’era spazio quindi per chiedere alle banche altra liquidità, ma non per pagare gli stipendi dei dipendenti delle Terme di Salice S.r.l., ma per incrementare il grande affare che AD RSA – Resort per anziani S.r.l. aveva in progetto di intraprendere. I tempi nello sport, nella vita, come negli affari… in buona sostanza “il tempismo” è fondamentale: le Terme di Salice S.r.l. sono fallite esattamente 18 mesi dopo questa strana operazione e per invalidare l’atto di conferimento del Nuovo Hotel, il liquidatore delle fallite Terme di Salice S.r.l aveva tempo 12 mesi, ne sono passati sei di più. Ora le Terme di Salice S.r.l senza il Nuovo Hotel Terme e senza la sua area di competenza valgono meno della metà. Perché il Nuovo Hotel Terme era la parte più grossa di polpa attaccata all’osso delle Terme di Salice. Tutta l’operazione puzza di bruciato, di marcio con due società collegate fra loro, cioè AD RSA – Resort per anziani S.r.l di proprietà di Terme di Salice S.r.l. ora in fallimento. Entrambe le due società hanno lo stesso amministratore, Ruggeri Fabrizio. Quante cose, come dire ”strane” in questa operazione, perchè il Nuovo Hotel Terme escluso dal fallimento Terme di Salice porterà ad un abbattimento dell’intero valore perché se e chi comprerà le Terme ne comprerà una parte, ma non potrà accedere all’intero pacchetto. Altra cosa strana è la perizia fatta sul Nuovo Hotel Terme da Maresca Raffaele, Dottore Commercialista in Roma, che il 18 Maggio 2016, indicava un valore del Nuovo Hotel pari a 6 milioni e 166.889mila euro. Perché cosa strana? Perchè il 14 Maggio 2004, lo Studio del Professor Luigi Guatri e Associati di Milano, su incarico di “qualcuno”, nel bel mezzo della prepa-
razione alla svendita delle Terme di Salice, aveva indicato un valore per il Nuovo Hotel Terme di 3 milioni e 440mila euro. Il giorno 7 Agosto 2012, Marco Falcone, Commercialista e Revisore dei Conti a Legnano, in vista della vendita delle ultime azione detenute dal Comune delle Terme di Salice, nella sua relazione di stima indicava per il Nuovo Hotel Terme un valore di 2 milioni di euro. Qualcosa non quadra o forse quadra “tutto”: nel 2004 con le Terme che avevano il loro storico record di clienti con oltre 24.000 persone, al Nuovo Hotel Terme, aperto e funzionante, veniva dato un valore di 3milioni e 440mila euro; nel 2012 con le Terme oramai in crisi e con sempre meno clienti, il valore che veniva dato al Nuovo Hotel era di 2 milioni di euro; nel 2016 al Nuovo Hotel chiuso da diversi mesi, svuotato e derubato in molte parti, con le Terme che stavano fallendo e con la crisi immobiliare, viene dato un valore di 6 milioni e 166.889mila euro. Qualcuno... qualche perito, si è sbagliato nel dare il valore al Nuovo Hotel, chi? Troppo poco nel 2004, pochissimo nel 2012 o tantissimo nel 2016? C’è da meravigliarsi che nessuno abbia detto nulla, che nessuno si sia ribellato e anche che i dipendenti locali, non dirigenti, dipendenti, perchè di dirigenti locali non ce ne erano, a conoscenza di questa operazione, e abbiamo la ragionevole certezza che non potessero non sapere, non abbiano detto nulla invece di credere alle panzane che raccontava “Il Patron” Dionisi. Panzane risultati alla mano, a cui loro hanno creduto e che hanno raccontano ai loro colleghi… dicendo “Bisogna tener duro, questi nuovi padroni mi hanno garantito che ce la faranno”. Chi diceva queste cose non aveva capito nulla, risultati alla mano, non aveva capito nulla alcuni anni fa quando nel 2004 è stata fatta la “svendita” delle Terme. Questi dipendenti che oggi, sempre meno a dir il vero, hanno la presunzione di voler ancora dire la loro opinione sulla vicenda Terme, già ai
tempi avrebbero dovuto dire di fronte allo scempio che si stava consumando: “Ma cosa stanno facendo?”. Invece no! Silenzio! I romani che sono venuti alle Terme hanno fatto e stanno facendo il loro lavoro: guadagnarci. Giusto o ingiusto che sia. Sarebbe giusto che i dipendenti e gli amministratori che in questi ultimi anni hanno seguito, addirittura da prima del 2004, per lavoro, per politica, per un mix di lavoro e politica la vicenda Terme dicesse: “Ragazzi non ci abbiamo capito niente, abbiamo sbagliato tutto! Proprio perché non ci abbiamo capito niente, lasciamo lavorare il liquidatore senza più dire nemmeno A sulla vicenda Terme”. Invece no, ogni tanto, se pur con paura, perché sanno che stanno facendo la figura dei “pistola”, provano a dir la loro e peggio ancora partecipano a ridicole e patetiche riunioni con fantomatici gruppi cinesi facendo foto di gruppo. Perché un gruppo cinese interessato c’è, ma non è quello con cui loro hanno fatto foto e selfie. Ma foto e selfie per immortalare cosa? Avrebbero dovuto dire a questo gruppo cinese che in maniera “avventurosa” è arrivato a Salice dicendo di essere interessato alle Terme, “Andate da soli a vedere la situazione delle Terme che noi non abbiamo capito niente di quello che stava succedendo e non stiamo capendo niente di quello che sta succedendo ora, ma soprattutto non siamo preparati né abbiamo le conoscenze tecniche per sapere qual è la miglior cosa da fare oggi per un domani forse migliore delle Terme di Salice”. Stessa cosa avrebbero dovuto fare questi politici locali da paese quando è venuta in visita il neo Assessore regionale Lara Magoni, “Vada lei da sola a vedere le Terme che noi di figuracce per le Terme ne abbiamo fatte fin troppe e se andiamo avanti così ci prendono in giro anche i cani”. Al liquidatore Dottor Nannoni dico solo una cosa: prima che il Nuovo Hotel Terme vada all’asta, visto il pignoramento che le banche hanno effettuato, se io fossi stato al suo posto avrei già chiesto da mesi un intervento della magistratura e nel caso in cui la magistratura non fosse intervenuta, mi sarei chiesto già da mesi il perché. Nella vicenda Nuovo Hotel Terme c’è una piccola differenza rispetto alle altre due società fallite: per le Terme di Salice S.r.l. e per AD Terme di Salice S.r.l., il Tribunale competente era ed è Pavia, per l’AD RSA – Resort per anziani S.r.l. il Tribunale competente potrebbe essere a Roma. I padroni sono romani e le cronache di come vanno le cose nella pubblica amministrazione a Roma sono chiare e ogni giorno sempre di più. Se il Tribunale competente sarà a Roma e se la magistratura non indagherà, il colpaccio per chi ha fatto l’operazione di sfilare il Nuovo Hotel alle Terme di Salice potrebbe riuscire con “i fiocchi e i controfiocchi”. di Nilo Combi
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«L’Assessore regionale Magoni e il Ministro Centinaio hanno un occhio di riguardo per la nostra situazione» Simona Merli è fresca di nomina a presidente dell’Associazione Operatori Turistici di Salice Terme. Lei in paese ci lavora a tempo pieno dal 2014, da quando la madre le ha ceduto il celebre negozio che vendeva souvenirs e articoli regalo. Messa in tasca la sua laurea in Dietologia e conclusa un’esperienza nel campo della ristorazione, Merli si occupa del negozio di famiglia e di moda: amante e collezionista di abiti vintage, collabora con il concorso “Stella della Moda” per il quale gestisce le aspiranti modelle. La stagione estiva è appena iniziata, Salice anche senza le Terme è tornata a vivere, pur con la consapevolezza che questi pochi mesi saranno una piccola boccata d’ossigeno in vista di una stagione invernale che si annuncia lunga e preoccupante per i commercianti. Le Terme hanno fatto una brutta fine, e per capire quanto sia stata determinante la loro presenza nel lanciare l’economia del paese lo si capisce semplicemente ascoltando la storia relativa alla nascita del negozio di cui Simona è oggi titolare: «Mia mamma avrebbe voluto aprire un negozio di fiori ma era un’attività che già esisteva a Salice e che aveva un ottimo successo per cui ha creato un negozio che vendesse souvenirs e articoli regalo. Fu una scelta azzeccata allora, perché i turisti termali molto numerosi non mancavano di comperare un ricordo del loro soggiorno da portare ad amici e parenti». Oggi tocca fare i conti con la realtà e iniziare a pensare al futuro di Salice senza le Terme. Com’è l’umore degli operatori turistici? Quali sono le idee, i progetti? L’associazione Operatori turistici di Salice Terme si è rinnovata con un nuovo direttivo ed uno statuto aggiornato. Da dove nasce l’esigenza di questo cambiamento? «Trattandosi di un gruppo di volontari che ha un lavoro impegnativo e famiglie da gestire, la “rotazione” degli incarichi e della partecipazione è un evento naturale. Nessuna rottura ma solo un naturale evolversi delle cose dovuto alle esigenze lavorative e familiari dei singoli. Inoltre esiste sempre la continuità con il precedente gruppo di lavoro, io faccio parte dell’associazione da sempre, da quando è nata nel 2014 a sostegno della “campagna” per la riapertura del ponte sullo Staffora. Noi commercianti devastati da quella situazione di profondo disagio che ha visto Salice sprofondare nel totale isolamento, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo dato una connotazione legale al nostro profondo disagio. Inizialmente quindi ero una dei tanti commercianti incavolati e preoccupati, non avevo nessun ruolo nel direttivo. Successivamente ho affiancato Paola Maggi come consigliere e poi eccomi qui…». Lei faceva riferimento alla chiusura del ponte sullo Staffora all’ingresso di Salice Terme… è stato l’inizio della fine?
Simona Merli, commerciante e presidente dell’Associazione Operatori Turistici di Salice Terme
«Diciamo che buona parte della responsabilità per il declino di Salice è dovuta anche a quei 9 mesi di “isolamento”. In 9 mesi le abitudini delle persone cambiano e chi prima veniva a Salice a bere un caffe, a comperare il giornale, piuttosto che le sigarette o altro, ha trovato in quei mesi un’alternativa e si è abituato ad andare altrove, a Rivanazzano ad esempio. Se in più il cliente abituale cambiando si è anche trovato bene… è un cliente che hai perso e che non recuperi più». Chi fa parte oggi dell’associazione? «Il direttivo ha dato a tutti la possibilità di entrare, non abbiamo escluso nessuna categoria anzi abbiamo allargato la fetta anche agli artigiani che prima non potevano farne parte. Siamo ancora nella fase embrionale di raccolta adesioni e devo dire che al momento nessuno ci ha chiuso a priori la porta in faccia». Il direttivo è composto da 7 persone, andate tutti d’accordo? «Mai avuto problemi con nessuno, nè con i membri del direttivo nè con gli associati. Credo di essere sempre molto disponibile nell’ascoltare, nel capire e nel motivare una scelta piuttosto che un’altra. Credo che le persone di questo direttivo siano persone di buon senso, che pensano al paese come lo farebbe un padre di famiglia». Per associarsi è necessario pagare una quota di adesione. Cambiamenti in tal senso? «La quota è sempre stata di 50 euro ad at-
tività, da quest’anno abbiamo deciso di abbassarla a 20 euro più 10 euro addizionali per ogni dipendente presente nell’attività. Questo per far fronte alle esigenze espresse da diverse piccole attività per le quali i 50 euro diventavano un impegno troppo gravoso. Credo che 20 euro sia una cifra più che accettabile e accessibile a tutti. C’è poi chi decide in coscienza di dare un contributo maggiore e ovviamente ben venga». Facendo i conti della serva: 20 euro ad attività… Diciamo che non siete un’associazione “ricca”… «Per niente, i soldi raccolti con la quota associativa serviranno solamente per coprire i costi della gestione dell’associazione, tolti quelli le nostre casse rimarranno vuote e chiedere ai soci un ulteriore contributo sarebbe impensabile, per questo dobbiamo inventarci manifestazioni che abbiano costo zero e non è facile. Fondamentale quindi è: iniziare un dialogo costruttivo con l’amministrazione locale, la regione e la provincia per ottenere sostegno magari con bandi regionali, incontrando figure politiche che potrebbero aiutarci e sostenerci, lavorare con il personale del Info Point di Salice perchè diventi anche uno strumento di promozione del territorio e non solo un fornitore di informazioni, creare dei gruppi di acquisto per poter ridurre quei costi che tutti noi operatori dobbiamo affrontare, sostenere e facilitare tutti coloro che vorranno organizzare manifestazioni a Salice
Terme». Le chiederei che idee avete per rilanciare Salice Terme, ma se è vero che le idee camminano con le gambe degli uomini… senza soldi… diventa tutto più complicato se non impossibile. Che fare? «Trovare uno sponsor forte o più sponsor disposti ad investire a Salice Terme e nelle sue manifestazioni non è una strada percorribile in questo momento. Salice non ha uno storico da poter proporre e “vendere” ad eventuali partner pubblicitari. Va creato da zero e va creato a costo zero. è questa la grossa sfida dell’Associazione. Al momento l’unica nostra chance è la possibilità di aderire a bandi regionali, è importante quindi lavorare in questa direzione e allacciare una serie di rapporti con le istituzioni proprio per accedere a questi finanziamenti. Devo dire che da questo punto di vista siamo “fortunati” in quanto sia l’Assessore regionale Magoni sia il Ministro Centinaio hanno un occhio di riguardo per la nostra situazione». Siamo positivi e facciamo finta che Salice riesca ad accedere a questi bandi e a portare a casa un po’ di soldini… che fare? «Investire in pubblicità intelligente che possa attirare attenzione positiva, perché di quella negativa purtroppo ne abbiamo già a sufficienza…Un piccolo passo lo stiamo già facendo in questa direzione, abbiamo commissionato al regista Rosson di Voghera un video promozionale che racconti Salice in modo innovativo e giovane, un video promozionale professionale da poter utilizzare per attrarre organizzatori di eventi importanti che nessuno di noi è in grado di organizzare e che cerca di mettere in luce tutte gli aspetti del paese decontestualizzandoli dal discorso Terme. Le terme ora non ci sono. Cerchiamo di andare oltre». Salice senza Terme può sopravvivere dal suo punto di vista? «Salice senza Terme... non voglio neanche pensarci. Abbiamo le Terme President che stanno sopperendo alla mancanza ma purtroppo la notizia “Terme di Salice chiuse” ha creato un grosso problema. Io voglio essere fiduciosa! Fortunatamente l’amministrazione è riuscita ad avere in gestione la manutenzione del parco perché Salice non esiste senza il Parco». Quali sono le criticità o le battaglie che l’Associazione intende portare avanti? Discorso parcheggi in primis. A Salice abbiamo solo parcheggi a pagamento e alcuni posti a sosta oraria e questo a mio giudizio è un deterrente per chi vuole venire a Salice. Le faccio un esempio concreto e vissuto: se un espositore del mercatino del Mercoledì, che oltre ad aver fatto 100 km, magari non ha venduto un granchè ed a fine serata si ritrova anche una multa, a Salice non ci torna.
GODIASCO SALICE TERME XXXXXXXX Avere almeno presso la piazza del mercato il parcheggio libero potrebbe essere anche un motivo per spingere le persone a parcheggiare lì e a fare una “vasca” lungo viale Delle Terme che è la via dove sono concentrate molte attività commerciali. Seconda cosa sicurezza e pulizia: noi commercianti diurni viviamo un forte disagio soprattutto nel week end quando al mattino troviamo un paese devastato, da scarpe dentro la fontana a vetrine imbrattate di schifezze varie, a vasi di fiori che immancabilmente vengono o distrutti o rubati… Non so quale sia la ricetta ma una certa regolamentazione va data, deve arrivare un segnale forte che a Salice si viene, ci si diverte, si trova pulito e si lascia pulito. Si era pensato tempo fa di istituire le ronde proprio per far fronte a questa che in alcuni periodi diventa una vera e propria emergenza, ma non credo sia la soluzione». Spesso sono state rivolte critiche al mercatino del Mercoledì, tradizionale appuntamento estivo a Salice Terme e riproposto anche quest’anno. Cosa si sente di rispondere in merito? «I mercatini serali hanno tutti più o meno quel target, il vero problema è che a Salice gli espositori di un certo livello non ci vogliono venire perché si è sparsa la voce
BY TATO
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Operatori turistici a caccia di fondi: «Un video promozionale per rilanciare Salice» che a Salice non si vende e che non c’è abbastanza movimento. Per quanto riguarda le critiche spesso arrivano da persone che a Salice vengono solo per dormire, che non vivono il paese e non spendono qui i loro soldi. Magari da chi dopo una giornata di lavoro a Milano magari preferisce che Salice sia morta, con un bel silenzio tombale che accompagni i loro sonni». Torniamo ad una vecchia diatriba, a Salice esistono due vocazioni: una verde e tranquilla e una dei locali e della movi-
da. Lei cosa crede sia meglio? «In questo momento non ci può essere l’uno senza l’altro. Come tutte le località turistiche a Salice possono convivere entrambe le cose se ben regolamentate». Mercatini del mercoledì, Mercato di Forte dei Marmi… Lei crede che per Salice siano meglio tante piccole manifestazioni o sarebbe auspicabile una sola grande manifestazione ma di un certo calibro? «Vorrei farne poche ma di un certo livello, ma per arrivare a questo obbiettivo dobbiamo avere un minimo di budget. Tutto quello che facciamo ora, bello o brutto che sia, è a costo zero e realizzabile solo grazie al volontariato di noi operati». Come membro della passata associazione quali sono state le più grandi difficoltà incontrate e come pensa di superarle? «La scarsa partecipazione degli operatori durante le riunioni è una “cattiva” abitudine. Capisco gli impegni ma una volta ogni tanto farsi vedere è fondamentale per confrontarsi, bisogna parlare e mettere insieme le idee per migliorarsi. Partiamo già con l’handicap di non avere soldi e di non poterci permettere investimenti, di non essere del mestiere perché nella vita facciamo altro, avessimo i soldi per pagare
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un professionista del settore saremmo tutti più sereni… almeno la partecipazione sì, quella è doverosa per tutti». Il fatto di essere stata nelle scorse elezioni membro della lista opposta all’attuale sindaco Riva le ha causato dei “problemi” nel svolgere il suo ruolo di presidente degli operatori turistici? «Nessun problema anzi c’è molta collaborazione con l’amministrazione comunale tant’è che il sindaco Riva mi ha “promesso” un bel contributo per la realizzazione del video promozionale su Salice». Prossime idee? «Intanto manifestazioni a costo zero ma che nello stesso tempo possano risollevare un po’ l’immagine del paese, sono idee per ora in fase embrionale ma per esempio abbiamo proposto in collaborazione con la Pro loco di Godiasco una “Notte Colorata” che possa partire dal pomeriggio per non darle solo una connotazione notturna e per cercare di agganciare anche quella fetta di gente che non ama la movida serale, ho condiviso con il Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese l’idea di fare a Salice una sorta di Wine Festival con degustazione presso tutti i locali, di vini oltrepadani… Vedremo». di Silvia Colombini
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«Spero che dopo un anno di rodaggio emerga una voglia di fare maggiore e più coraggio nelle scelte» Stefano Alberici è uno sportivo, e come tutti gli sportivi non ce la fa a stare fermo. Superato “lo shock” di molti, di un “comunista” nella maggioranza di Rivanazzano Terme, Alberici, si è messo al lavoro con i nuovi, “compagni” o “amici” dell’amministrazione rivanazzanese. Così come nello sport, anche in politica, ha cercato di portare un po’ di “movimento” in un gruppo amministrativo che sotto certi aspetti è “poco dinamico” come spiegherà nell’intervista. Alberici in una sua intervista “a caldo” dopo la sua elezione a consigliere dichiarò “Sarei a disagio se non riuscissimo a realizzare la raccolta differenziata…” Partiamo da qui, raccolta differenziata: diverse criticità esistono e sono a gran voce espresse da diversi cittadini attenti al tema. Cosa può dire a tal proposito? «Il tema raccolta differenziata è un tema caro a Stefano Alberici uomo in primis e poi, da membro di questa amministrazione, ho avuto modo di stimolare il consigliere con delega al ciclo delle acque e dei rifiuti Francesco Di Giovanni in questa direzione. Da circa un mese ho assunto io tale incarico pertanto ancora più di prima sento questa grande responsabilità. In questo anno ci sono stati un paio d’incontri con Asm ed è stato definito il piano finanziario e avviata la procedura per implementare la raccolta differenziata in un passaggio fondamentale che farà fare, a detta dei tecnici, il salto di qualità, vale a dire la raccolta dell’organico. Partirà con il posizionare sul territorio comunale dei cassonetti stradali per la raccolta dell’umido. Questi nuovi cassonetti che verranno introdotti a partire dal primo ottobre, affiancheranno i cassonetti già in uso per la raccolta indifferenziata. Ogni nucleo familiare intestatario di utenza tari verrà dotato di una chiave e di un kit apposito per la raccolta dell’umido e questo presenterà tre principali vantaggi: l’utilizzo esclusivo da parte dei residenti e non di altri fruitori occasionali, scavalca il concetto del porta a porta che crea soprattutto nei periodi estivi il disagio di doversi tenere la spazzatura in casa e l’introduzione del pagamento in base al consumo. Tutto questo verrà attuato in concomitanza con il comune di Godiasco che come noi dal primo ottobre attuerà questo sistema». Vogliamo fare i guasta feste… Non crede che ci possa essere chi per pagare meno possa abbandonare altrove i rifiuti o continuare ad utilizzare i cassonetti dell’indifferenziata? «Purtroppo può accadere e in questo senso sarà fondamentale la campagna di informazione e di sensibilizzazione sull’importanza del fare la differenziata, questo anche alla luce del fatto che rimarranno i cassonetti dell’indifferenziata, con una diminuzione del servizio di raccolta perché si auspica una sua diminuzione con un aumento della raccolta dell’umido, della plastica, del vetro… Stimolare il senso ci-
vico ma anche informare: spesso a monte di un atteggiamento “maleducato” c’è disinformazione, ad esempio perché abbandonare i rifiuti pesanti vicino ai cassonetti quando il Comune di Rivanazzano ha una convenzione con Asm per il ritiro gratuito? Perché spesso la gente non lo sa che non si paga nulla e basta una telefonata. A fine mese ci sarà il primo di una serie di incontri pubblici per informare la cittadinanza: verranno distribuiti volantini informativi e in occasione della festa del paese verrà presentato il nuovo cassonetto. Andremo poi e soprattutto nelle scuole. Certo è che se si continuerà a far finta di niente ci saranno da parte degli organi preposti dei controlli molto serrati nei punti sensibili fatti attraverso video camere e con delle foto trappole e poi applicate le relative sanzioni. Personalmente poi come espressione di questa amministrazione intendo dare il buon esempio con una serie di accorgimenti, quali ad esempio l’utilizzo durante le feste al parco Brugnatelli di vettovaglie in materiale biodegradabile». Cosa ne pensa e cosa intende rispondere a quegli operatori che chi più espressamente e chi a “mezza bocca” sono critici nei confronti di alcune manifestazioni che vengono organizzate in paese e da loro considerate un po’ sorpassate e un po’ troppo decentrate rispetto alle loro attività? «Le critiche sono tutte da prendere in considerazione poi non tutto può essere condiviso o risolto. Si può anche considerare che magari vengono fatte troppe feste o organizzate manifestazioni con un’attrazione troppo di nicchia… Può essere… come è vero che se non si organizzasse nulla c’è chi griderebbe che “Rivanazzano è un paese morto”. L’introduzione ad esempio da quest’anno di una festa fatta nel Borgo di Nazzano, la trovo una buona idea, una diversificazione positiva e spero verrà riproposta il prossimo anno. Poi onestamente non mi occupo in prima persona delle manifestazioni, io ho certamente le mie idee che non ho nessuna remora ad esprimere ed a condividere e a lottare per esse, ma esiste un gruppo che decide e spesso là dove non è il settore di mia stretta competenza, mi devo adeguare. Dipendesse da me la prima cosa che farei è il cambiamento del posizionamento del Luna Park nei giorni della festa del paese che a mio avviso penalizza i commercianti, così come controllerei maggiormente i parcheggi a disco orario, se non viene fatto rispettare è penalizzante per i commercianti. Sarebbe utile a mio avviso che i commercianti si unissero in un’associazione di categoria per dare voce alle loro esigenze e per proporre». È vero che lei ha proposto un regolamento per l’utilizzo del Parco Brugnatelli? «Sì è vero, ho proposto al mio gruppo di stilare un regolamento sull’utilizzo del parco
Stefano Alberici Brugnatelli con tanti punti da affrontare e domande alle quali insieme rispondere. Ad esempio dare l’utilizzo del parco solo alle associazioni di Rivanazzano? Darlo solo alle associazioni senza fini di lucro? L’utilizzo con che cadenza, per non saturare troppo? Imporre l’acquisto dei prodotti utilizzati, nel territorio? Queste potrebbero essere ipotesi e spunti di riflessione da poter condividere con l’amministrazione e con gli operatori economici». Parlando di regolamenti lei è stato il fautore di quello per contrastare la ludopatia... «Esatto, insieme al comune di Godiasco che l’ha condiviso, abbiamo limitato gli orari di utilizzo delle “macchinette” ed individuato i luoghi sensibili dove non possono essere istallate. È stato portato in consiglio comunale un mese fa, approvato e dopo l’ordinanza sindacale diverrà operativo. Non solo una riduzione delle fasce orarie per cercare di allontanare le fasce più deboli da questa piaga, ma anche un “premio” a chi decide di togliere le “macchinette” o a chi non le ha mai avute all’interno della propria attività, un premio che potrebbe essere ad esempio riduzione della tari». Pista ciclabile che dal paese arriva al cimitero. A che punto è questo progetto di cui lei è promotore? «Progetto fermo. è uscito recentemente un nuovo bando a cui noi come Comune singolo non possiamo partecipare in quanto è riservato ai Comuni con popolazione superiore ai 20mila abitanti, per cui chiederemo a Voghera di essere capofila di questo progetto per cercare di realizzare ulteriori piste ciclabili. Un lavoro in programma ma non di immediata realizzazione è il completamento della ciclabile in via Colombo». Come consigliere comunale e soprattutto come segretario del circolo Pd di Rivanazzano Terme, Godiasco Salice Terme e Retorbido sta portando avanti il discorso della fusione tra comuni. Le tre amministrazioni sono favorevoli senza se e senza ma alla fusione? «Non lo so se sono favorevoli o contrari, so che sono ben disposti a parlarne. Nell’ambito della festa dei circoli Pd della Valle Staffora fatta a Rivanazzano abbiamo parlato di fusione. Mi conceda una breve digressione: in un momento difficile per il Pd
essere riusciti dopo 2 anni di stop a riorganizzare la “nostra” festa è motivo di grande orgoglio, non solo, abbiamo avuto in questo ambito tante nuove iscrizione al partito quindi un segnale positivo. Un ringraziamento doveroso a tutti gli iscritti e soprattutto a Paolo Gramigna; chiusa parentesi. Torniamo alla fusione… In questo contesto un consulente della lega dei comuni ha spiegato esattamente come funziona la fusione e quali sono gli step necessari per una fusione fattibile e seria e non improvvisata. Noi del Pd abbiamo lanciato la proposta credendo che sia ingiusto non prenderla sul serio, convinti che sia un’opportunità giusta e necessaria. La fusione con Godiasco Salice Terme è il primo pensiero vista la condivisione di Salice e visto che esiste già una condivisione di intenti e di progetti». Sarebbero secondo lei favorevoli i cittadini soprattutto alla luce di quella “storica contrapposizione” tra rivanazzanesi doc e godiaschesi doc? «Se spiegata bene i cittadini potranno mettere da parte vecchi campanilismi e capire che per avere un miglioramento dei servizi la fusione è necessaria. Dai miei scambi sul tema con la gente, trovo risposte positive, la fusione porterebbe anche ad una diminuzione di consiglieri comunali, assessori, sindaci e in un momento dove tanto si parla dei costi della politica dovrebbe già essere vista positivamente dalla gente. Mi auguro che questo messaggio positivo possa passare anche agli amministratori». Ha già in mente un nome per questo ipotetico Comune che dovrebbe nascere dalla fusione? «Butto lì: Valle Staffora Terme nel caso di una fusione con Godiasco e Retorbido, o semplicemente Salice Terme nel caso di una fusione con il solo Comune di Godiasco». Ad un anno dalla sua elezione a consigliere come valuta l’esperienza? «Sicuramente lo rifarei e sicuramente reputo la scelta fatta un anno fa una scelta giusta, impegnativa, difficile ma di buon senso. Trovo che sia un vero peccato che non ci sia una minoranza che potrebbe stimolare maggiormente il lavoro della maggioranza che spesso è poco dinamica. Spero che dopo un anno di rodaggio emerga una voglia di fare maggiore e più coraggio nelle scelte. Siamo stati eletti per un programma e di quel programma ci sono ancora tanti punti che andrebbero affrontati, presi di petto, non credo che siamo stati eletti per restare immobili, lamento questo… troppa tranquillità che se si dovesse protrarre per gli altri prossimi 5 anni sarebbe devastante. Abbiamo avuto un decennio di amministrazione “gloriosa” alla guida di Romano Ferrari, Ferrari è ancora presidente della squadra e credo che possa dare ancora molto in questo senso». di Silvia Colombini
agierre
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A Tutta Varzi: «Il pubblico è uno spettacolo che non vogliamo farci mancare»
Edizione 2017 della Festa Medievale di Varzi L’Associazione “A Tutta Varzi” è nata alcuni anni fa da un gruppo di ragazzi desiderosi di veder rinascere il turismo e la vitalità di un paese che è sempre stato uno dei borghi più importanti dell’oltrepò Pavese. L’associazione mira alla creazione di eventi ludico-culturali atti a far risaltare la bellezza del nostro paese in tutte le sue sfaccettature. Da ormai quattro anni, i ragazzi di “A Tutta Varzi” con la fondamentale collaborazione delle altre associazioni varzesi e di alcune persone che svolgono un lavoro molto importante (Verba Volant, Varzi Viva, Arte & Musica, la nuova pro loco Varzi, i Cavalieri Medievali di Varzi, Don Gianluca Vernetti, Giorgio Rizzotto e l’Oratotio Don Bosco con i suoi cuochi),
hanno dato inizio a quella che speriamo diventi un punto fisso degli eventi annuali dell’Oltrepò, ovvero la “Festa Medievale di Varzi”. Essa nasce dall’idea di voler valorizzare le origini antiche del nostro paese e le peculiarità storiche che gli appartengono. Festa che ogni anno si rinnova nel suo tema principale; e si compone in una serie di spettacoli tra i quali: sbandieratori, teatro itinerante, mangiafuoco, duelli in armatura, falconieri, fattucchiere e cartomanti, illusionisti ecc. Durante la giornata rievocativa, centinaia di figuranti vestiti a tema si aggirano per le vie dell’antico borgo varzese. Attraverso l’apertura delle antiche cantine, si possono gustare i prodotti tipici del nostro territorio, tra i quali spicca il
protagonista principale, il salame di Varzi. La festa si svolge nell’arco di due giorni. Il primo sarà caratterizzato dall’introduzione del “Palio della sposa”. Una gara tra contradaioli rivali che a coppie avranno il compito di correre per un percorso all’interno del centro storico, trasportando la “Sposa” (una ragazza) su una portantina in legno. Parteciperanno al Palio le diverse contrade locali, alcune del paese altre delle frazioni limitrofe, tutte abbigliate secondo i colori della propria provenienza contradaiola. Sposa e lettiga verranno sorteggiate, benedette come da usanza durante la cerimonia di apertura del Palio. Mentre la giornata successiva, vedrà il susseguirsi di spettacoli (falconieri, arcieri, duellanti in
armatura, uno spettacolo a tema di bambini, una recita itinerante da parte della compagnia teatrale, figuranti in ogni dove, bancarelle dell’epoca con dimostrazioni pratiche di attività medievali quali tessitura, lavorazione del legno, ecc.) e si concluderà con un grande spettacolo finale in Piazza del Municipio. «Come ogni anno l’impegno sarà massimo per fare in modo che le numerose persone che da anni partecipano all’evento rimangano ancora una volta piacevolmente soddisfatte - dichiara il presidente dell’associazione Luca Bergamini - vi aspettano numerosi il 28 e il 29 Luglio, perché anche il pubblico è uno spettacolo che non vogliamo farci mancare».
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Il Palio della Sposa le Contrade si scontrano Per il quarto anno consecutivo la Festa Medievale è caratterizzata dalla ormai tradizionale gara del “Palio della sposa”, una gara che a Varzi è sempre più sentita dalla popolazione perché mette in competizione le diverse contrade storiche del paese e dintorni. La corsa del Palio è preceduta dalla sfilata di un Corteo Storico, che costituisce una rievocazione figurata degli ordinamenti, dei costumi e della grandezza Medioevale del Borgo Varzese. Le Contrade che partecipano al “IV Palio della Sposa” sono: Torre, Oramala, DiDentro, Cappuccini, Bognassi Val Reganzo Gabarda, Pietragavina, Bosmenso, Mercato e Cella. Ogni contrada è composta da almeno quattro lettighieri e un capitano di contrada e da un priore. Agli ultimi due spettano i compiti di rappresentanza e istituzionali del Palio. Ogni contrada deve portare una Dama che parteciperà al sorteggio. Il sorteggio delle Dame e delle lettighe avverrà prima dell’inizio della competizione. Ogni contrada è inoltre contraddistinta da due colori che i lettighieri e il capitano indosseranno con orgoglio durante la gara. Il capitano o il priore dovranno portare lo stendardo durante il corteo storico, presenziare durante estrazione di lettighe e dame, partecipare in seconda fila alla consegna del Palio. Al termine del suddetto corteo, tutti gli anni avviene la riconsegna del Palio da parte della contrada vincitrice, direttamente al Sindaco del paese che a sua volta metterà nelle mani del Magistrato del Palio alla presenza di tutti i Notabili. Il palio verrà custodito del Magistrato fino al ter-
mine del della corsa stessa, quando verrà consegnato al capitano/priore di contrada che vincerà la manifestazione. La semifinale, primo atto della corsa, andrà in scena sabato 28 luglio e inizierà alle ore 18 circa. Il secondo e decisivo atto, è quello della finale, che si svolgerà domenica 29 Luglio alle ore 17 e vedrà impegnate le due prime classificate per ogni semifinale. La composizione della griglia di partenza nella finale, vedrà in prima fila le due contrade prime classificate in semifinale e in prima posizione quella che ha realizzato il miglior tempo in semifinale, in seconda file le contrade seconde classificate con in terza posizione quella che ha realizzato il miglior tempo in semifinale. Il percorso della corsa parte da Via del Rosino prosegue per Via Del Mercato, Via Roma, Via Porta Nuova, (ove avverrà il cambio della “Muta”) Largo Paolo Savini, Via di Dentro, Via Lombardia e arriva in Piazza del Municipio. Un regolamento molto puntiglioso, sarà un ostacolo in più per i letteghieri che oltre alle difficoltà di percorso avranno a che fare con la severità dei giudici del Palio che con estrema attenzione parteciperanno attentamente alla corsa facendone rispettare tutte le sue regole. Al termine della gara, la giuria nelle vesti del Magistrato del Palio, premierà la contrada vincitrice con l’ambito stendardo del “Palio della Sposa” e da quel moneto in poi la contrada vincitrice darà inizio ai festeggiamenti. Si riportano per curiosità alcuni cenni di regolamento: sarà punito con squalifica della contrada qualsiasi contatto volontario tra lettighieri. Inoltre la Contrada colpevole non potrà partecipare al Palio
Il Palio della Sposa
dell’anno successivo. Sarà inoltre punito con uno stop immediato qualsiasi cambio di traiettoria atto a pregiudicare la corsa di altro equipaggio. è fatto altresì divieto procedere a in modo parallelo tra i lettighieri della stessa muta per impedire il sorpasso. Il cambio dei lettighieri è obbligatorio ed avverrà in Via Porta Nuova nell’apposita zona di cambio delimitata. La zona di
cambio verrà assegnata in base all’ordine di partenza. Se tale fase non viene eseguita correttamente la contrada verrà immediatamente squalificata. La “Muta” che esce dal Box deve dare la precedenza alle eventuali “Mute” che si trovano sul percorso. Durante la gara (ed anche nel cambio) la lettiga e la dama non potranno mai toccare il suolo pena la squalifica della contrada.
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Il giallo - verde della Contrada di Bognassi
La contrada di Bognassi prende il nome da una frazione del comune di Varzi. Tale frazione dista circa 5 chilometri dal medesimo comune di Varzi di cui essa fa parte e sorge a 563 metri sul livello del mare. Lungo la strada che porta a Pietragavina si trova la Chiesa Parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo che risale al XVI secolo. Essa, è senza alcun dubbio il monumento storico di maggior spicco della piccola contrada varzese. La chiesa sorge su una collinetta nei pressi di altre abitazioni e domina il resto della frazione. Venne ricostruita quasi interamente dal XIX secolo. In particolare, nel 1893 venne realizzato il presbiterio, nel 1897 il campanile la restante parte dell’opera fu ultimata nel 1908. Negli anni successivi si sono susseguiti tutta una serie di piccoli interventi di restauro per fare in modo che la chiesa non perdesse mai il suo valore, non ultimo l’intervento del 1998. Parlando un po’ di architettura, esternamente la facciata è
suddivisa in tre parti da quattro lesene in mattoni a vista, l’ingresso è rettangolare e, sotto il timpano anch’esso in pietra a vista, fu utilizzata la pietra monfora. L’ab-
side della struttura ha perimetro poligonale e all’interno sono presenti decorazioni molto minimali. All’esterno della chiesa spicca la torre campanaria caratterizzata
da una struttura in blocchi lapidei alla base e in mattoni a vista nel restante sviluppo verticale. La cuspide della cella campanaria è in cotto.
Il viola - marrone della Contrada di Bosmenso Bosmenso, anticamente Besemenci, prende il nome dal modesto corso d’acqua che lo lambisce, già nominato in atti del secoloX, quale Besemuntio. In quest’ultima estrinsicazione del toponimo si puo’ intravedere il latino “montis” ossia monte, riflettendo così pienamente l’orografia del territorio. Per quanto riguarda il prefisso, è basato sulla parola Boso che corrisponde al ligure Bugium o Busum…. Che corrisponde in italiano a Mirtillo. In realtà, questo frutto è molto simile alla bacca blunera del ginepro, pianta spontanea di cui è ricca la plaga che circonda il borgo. Adiacente al torrente Staffora sorge l’oratorio di San Giorgio del IX sec., all’interno
del quale è possibile ammirare una lapide in arenaria grigia, in ricordo della sepoltura di una fanciulla di “regia schiatta” di nome Rothilda, probabilmente di sangue reale longobardo, venuta a Bosmenso per respirare l’aria delle pinete che crescevano allora in quei monti.. Al centro del paese superiore, all’interno della cappelletta dedicata alla Madonna del Carmine, si può vedere un affresco particolare, riscoperto da pochi anni, in quanto oscurato ai tempi della Controriforma, che rappresenta una Madonna a seno nudo. Potrebbe far pensare ad una rappresentazione dell’eros mistico che risalirebbe ad un sogno di San Bernardo.
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Il verde - nero della Contrada dei Cappuccini
La Contrada dei Cappuccini è la prima che si incontra arrivando dalla strada provinciale Voghera – Varzi ed ha come punto di riferimento l’omonima Chiesa dei Cappuccini. La prima Pieve della valle Staffora fu senz’altro quella di Varzi, costruita non molto tempo dopo la morte di S. Germano, vescovo di Auxerre, avvenuta nel 448 d.C. a Ravenna.
La leggenda vuole che il corpo del santo, durante la traslazione nella località d’origine, sia transitato per Varzi. L’emozione creata da questo passaggio indusse gli abitanti, qualche tempo dopo, a dedicargli la pieve. Al di là di quello che può essere avvenuto, la certezza che nel 702 d.C. una pieve esisteva già in Varzi ci proviene dal cronista dell’epoca Marciano Ambrogio, il quale,
tra le altre pievi della diocesi di Tortona, cita Ecclesia Sancti Germani oppidi Vartii. Verso la fine del XII sec. la chiesa primitiva venne sostituita dall’attuale, dedicata a S. Germano e costruita sul luogo dell’antica pieve. La chiesa che vediamo ai nostri giorni fu iniziata tra la fine del 1100 e l’inizio del 1200, in stile romanico. La chiesa fu per quattro secoli parrocchia di Varzi e pieve dell’alta Valle Staffora
e cioè fino al 1594, quando fu inaugurata l’attuale chiesa parrocchiale. Lasciata nell’abbandono e nel deperimento, riprese vita nel 1623, quando vi si stabilirono per la prima volta i Cappuccini. Essi vi edificarono a fianco il convento, incorporandovi la vecchia canonica esistente dove sono meritevoli il chiostro e il refettorio. Nel 1971, gli attuali Cappuccini decisero di riportare la chiesa al primitivo carattere romanico e, col proprio lavoro personale, demolirono il voltone secentesco della navata centrale, rimettendo in luce le antiche capriate a vista e riaprirono le originarie finestre a doppia strombatura, esterna ed interna. Analogo rifacimento della copertura è stato fatto di recente nelle due navate laterali. Degni di nota sono i capitelli in pietra, sulle colonne semicircolari all’angolo del presbiterio, scolpiti a foglie arricciate con cordonatura tortile alla sommità.
Il giallo - bianco della Contrada di Cella
Cella è una frazione del comune di Varzi posta in altura a sud del comune stesso di appartenenza. Col nome di “celle” si intendevano piccoli monasteri, pur detti obbedienze, dove secondo un decreto del concilio di Acquisgrana del 817 non potevano abitare meno di sei persone. La nostra era una Cella dipendente dal Monastero di S. Colombano infatti, il suo primo nome era legato alle valli piacentine, “Cella di Bobbio” e solo successivamente prese il nome di Cella di Varzi. Fondata nel IX secolo come insediamento monastico, intorno al quale si era formato il paese, rappresentò in epoca Malaspiniana un’importante rocca difensiva. I signori Lunigianesi vi edificarono un munito castello, cui era annesso l’oratorio di San Rocco. L’importanza attuale di Cella deriva in massima parte dal Tempio della Fraternità, che è dedicato ai caduti di tutte le guerre e custodisce cimeli e ricordi provenienti da campi di battaglia di tutto il mondo.
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Il blu - giallo della Contrada Di Dentro
La contrada è senza dubbio una delle più suggestive in quanto, come dice il nome stesso, si trova proprio nel cuore del borgo varzese. Essa è delimitata, ad ovest, dalla Torre di Porta Sottana e, ad est, dalla Torre di Porta Soprana le cosiddette “torri di difesa”. Questo tratto di via, fra le due torri, prima della costruzione della strada VogheraBobbio, è sempre stato il centro propulsore del borgo, in quanto, nel suo interno vi si affacciavano gli uffici principali, vi abitavano le famiglie più importanti, vi si leggevano le “grida” delle disposizioni comunali o del feudatario e vi si svolgevano le aste pubbliche. La costruzione delle torri di Porta Sottana e di Porta Soprana iniziò contemporaneamente alle mura di cinta, ma la loro ultimazione deve essere avvenuta più tardi. In proposito ci sembra opportuno citare che l’abate Fabrizio, in una delle sue innumerevoli note, afferma che i muri di difesa dell’abitato ed il torrione di protezione, inserito nell’angolo sud ovest del muro di cinta, furono ultimati nel 1467. È probabile che si sia riferito all’espansione del
borgo verso est avvenuta nel xv secolo compresa fra via della Maiolica e via Porta Nuova. L’esistenza del torrione, è provata ulteriormente dalla planimetria del XVI sec. esistente nell’Archivio di Stato di Milano, nella quale si nota chiaramente la forma circolare indicante la posizione del torrione. Inoltre, anche l’abate Fabrizio, afferma che quella struttura fu demolita nella seconda metà del 1700 dai Mangini, quando venne costruita l’attuale loro casa. Era detta torre dei Ratti. Non si sa il motivo di questa denominazione: potrebbe derivare dal fatto che nel 1700 non fosse più dei Malaspina, ma appartenesse alla famiglia Ratti, notai del luogo. Le due torri, Sottana e Soprana, fecero parte per diversi secoli della giurisdizione feudale ma in seguito furono cedute: la Soprana fu ceduta all’amministrazione comunale già nel XVI secolo, infatti è allora che vi fu installato l’orologio pubblico e la campana che, oltre a scandire le ore, veniva suonata in occasione di pubblici incanti e di convocazione dei consigli comunali. La cessione di Porta Sottana può essere avvenuta durante il periodo dell’invasione francese quando il governo d’allora abolì il feudalesimo e vendette i beni feudali per fare cassa. In quell’occasione la torre e l’edificio del corpo di guardia (in seguito chiamato “Il Casone”) passarono nelle mani della famiglia Mangini, probabilmente acquistati dal governo francese. Gli eredi detengono ancora il possesso della torre mentre il corpo di guardia nell’ultimo decennio fu donato al Comune. Al’interno delle torri di difesa troviamo, oltre la già citata villa Mangini, la Chiesa dei Rossi e La Chiesa dei Bianchi. La prima, detta anche, Oratorio della Santissima Trinità, Venne fondata nel 1636
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Torre di Porta Sottana
Torre di Porta Soprana
dalla confraternita della SS.Trinità (il nome della chiesa deriva dal colore della cappa che indossavano i confratelli). In fianco ad essa, vi è il secentesco ospizio per pellegrini. L’edificio risente del comune stile rinascimentale che andava diffondendosi dopo la Controriforma, senza pretesa di eleganza ed originalità come quello “dei Bianchi”. All’interno si possono ammirare: l’altare maggiore in finissimo marmo nero stile barocco e la balaustra, la statua in legno dell’Angelo Custode scolpita nel 1864 da Antonio Pericho ed indorata da Ambrogio Giussano e lo splendido coro ligneo. Alla fine dell’estate verrà riaperta al culto dopo ingenti lavori di ristrutturazione. La seconda, detta anche, Oratorio Natività di Maria, fu Fondata nel 1646 dalla Confraternita del Gonfalone (anche in
questo caso il nome della chiesa deriva dal colore della cappa che indossavano i confratelli). Quest’oratorio, recentemente restaurato, è unico nel suo genere perché, pur essendo molto piccolo, si presenta internamente con la forma di quadrifoglio (o croce greca), ad imitazione delle grandi cattedrali. Una bella cupola domina il complesso. La facciata attuale, che altera un po’ l’architettura originaria, è stata aggiunta successivamente, assieme ad altri corpi di servizio. Nell’interno vi è uno splendido altare di marmo nero lavorato, stile barocco, sormontato da un magnifico tempietto.
La Chiesa dei Bianchi
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Il verde - bianco della Contrada del Mercato
La contrada del Mercato, è un altro fiore all’occhiello del borgo medievale. Senza alcun dubbio è caratterizzata dalla sua struttura che si sviluppa su ben cinque livelli di portici e vie porticate. All’interno della contrada sorge la Chiesa Parrocchiale di S. Germano Vescovo. La via del Mercato è il vero e proprio accesso al “primo strato” di cantine; questa è molto probabilmente la parte originaria del paese che, ricostruita e modificata nei secoli, ora si presenta fiancheggiata da una doppia fila di portici costruiti dal secolo XIV al XVI. La loro funzione fu di ricoverare e proteggere, durante la notte, le carovane di muli e mercanzie che transitavano da Varzi per commerciare i prodotti che provenivano dalla riviera ligure e specialmente i prodotti orientali che arrivavano nel porto di Genova. Questo tipo di commercio, molto fiorente anche nei secoli successivi al medioevo, proseguì fino alla prima metà di questo secolo per poi ridursi con la costruzione delle linee ferroviarie e dopo la nascita e lo svi-
luppo delle automobili. Nel frattempo anche la funzione della via si modificò, diventando, come testimonia la denominazione, centro del mercato settimanale. Percorrendo la contrada, incontriamo tutta una serie di vie e vicoli molto caratteristici. Il Vicolo dietro le Mura è un vero e proprio tunnel posto sopra il muro medievale di difesa, sormontato da una serie ininterrotta d’abitazioni, le quali hanno l’accesso principale da via Porta Nuova. Le forme dei muri, i finestroni del porticato ricolti a sud, le porte in legno e gli stipiti delle porte stesse, sono vere opere d’arte povera medievale. La parte sottostante delle mura invece è via della Maiolica, via di accesso al “secondo strato” di cantine, caratteristica perché oltre a confinare con il muro di difesa è originale pure per le gobbe presenti lungo la via che non sono altro che le volte delle cantine sottostanti. Infine, percorrendo via Roma, i cui portici risalgono ai secoli XVIII-XIX, da ci si immette nella già citata via di Porta Nuova, così chiamata perché dopo il primo sviluppo del borgo avvenuto nel XV secolo, tale via è stata inserita nella parte fortificata e la porta del paese è stata spostata in questa posizione. Anche in questa zona troviamo una serie di portici inseriti lungo il lato sinistro, mentre, alla fine di questi, sulla destra, vi è un bel palazzo signorile del secolo XIX, appartenuto ai marchesi Malaspina del ramo di Pietragavina. L’ultimo livello di portici visibili tutt’oggi nel centro storico di Varzi è rappresentato da via del Voltone che, come dice già il nome, è una via in porticata per quasi tutto il suo sviluppo. Il monumento più
importante di tutta la contrada è sicuramente la Chiesa Parrocchiale di Varzi. Dedicata a San Germano di Auxerre, venne costruita dal 1584 al 1620 quando, per lo sviluppo del paese attorno al castello e ai palazzi feudatari, restò scomoda e isolata l’antica pieve ora Chiesa dei Cappuccini. La struttura fu edificata utilizzando parte dell’esistente Oratorio di S. Salvatore, che era la cappella privata della famiglia Malaspina (realizzata nella metà del secolo XIV). L’edificio e la decorazione interna settecentesca hanno subìto in questi anni una ristrutturazione per esigenze di spazio e di riforma liturgica, su disegno del prof. Carlo Frascaroli, e una nuova decorazione della Ditta Taragni di Bergamo ed affreschi del Nani. Di particolare interesse, in questa chiesa, rimane un altare di marmo bianco posto alla sinistra entrando: è un pregevo-
le documento autentico di arte neoclassica del primo Ottocento; vi sono poi tutta una serie di magnifici affreschi del XVI secolo che colpiscono non appena si varca il grande ingresso centrale. Si possono apprezzare inoltre diversi altari laterali, quadri di pregevole fattura, il coro ligneo (in noce) del 1600 in stile barocco, i pulpiti costruiti nel XVIII secolo dal falegname locale Todeschini e l’organo che, è un Guglielmo Bianchi risalente al 1860. Nella chiesa è presente inoltre il braccio-reliquiario di San Giorgio patrono di Varzi. Il parroco Don Gianluca Vernetti negli anni del suo mandato varzese non ha mai perso l’occasione di provvedere al restauro della parrocchia la dove ce ne fosse bisogno. Anche per questo motivo la Chiesa Parrocchiale di Varzi è uno dei punti più visitati del paese.
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Il blu - bianco della Contrada di Oramala
Il simbolo più importante della contrada è senza alcun dubbio, il castello di Oramala. Esso è un fortilizio situato nel comune di Val di Nizza in provincia di Pavia. È posto su uno sperone roccioso a 758 m s.l.m. affacciato sulla valle Staffora. Venne costruito nel X secolo dalla famiglia Malaspina, nel 1029 possesso del ramo Obertengo. Dopo un passaggio, nel 1157, nelle mani dei marchesi D’Este e nel 1161 del vescovo di Tortona, ritorna, nel 1164, grazie a Federico Barbarossa ad Obizzo I. Verso la fine del XII secolo, con le fortune dei Malaspina, vede il momento di maggior splendore, diviene centro di diffusione culturale ospitando trovatori provenzali. Nel 1474 la rocca viene fortificata da Manfredi Malaspina, per adeguarla alle nuove esigenze difensive dovute all’entrata in uso dell’artiglieria. Fuori dai flussi della storia il fortilizio rimane alla famiglia Malaspina sino alla fine del XVIII secolo, quando i marchesi di Oramala, trasferendosi a valle, ne decretano il de-
clino; abbandonato, cominciò ad andare in rovina. Nel 1985 gli attuali proprietari, i fratelli Panigazzi, iniziano la ristrutturazione e il ripristino delle parti crollate, che è tuttora in corso. Nel 2005 viene aperto al pubblico il Museo dell’arte contadina e degli attrezzi del ferro. Attualmente il castello è sede dell’Associazione Culturale Spino Fiorito ed è circondato dal Parco Letterario “Dante e i Trovatori nelle terre dei Malaspina”. Durante la manifestazione del “Palio della Sposa” la contrada di Oramala è senza alcun dubbio una delle più temute in quanto sono già due le inserzioni nell’albo d’oro del palio. Per due edizioni consecutive 2016 e 2017, i portantini Nicola Cifaratti, Andrea Cifaratti, Alberto Caronni e Ludovico Gullo, si sono aggiudicati la vittoria al termine di due gare ricche di colpi di scena. Il capitano Andrea Camporotondo ha avuto cosi il privilegio di sollevare per ben due volte l’ambito stendardo del “Palio della Sposa”.
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Festa Medievale di Varzi: 28 - 29 luglio
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Il giallo - rosso della Contrada di Pietragavina
ture riportano che il castello di Pietragavina divenne proprietà del comune di Varzi nel 1873. La contrada di Pietragavina grazie ai suoi portantini Federico Bertoldo, Lorenzo Canepa, Giorgio Gabusi, Giancarlo Gabusi, si aggiudicò la prima edizione del “Palio della Sposa” nel 2015. Il capitano di contrada Andrea Catenacci ebbè così l’onore di scrivere nella prima riga dell’albo d’oro, il nome della sua contrada di appartenenza. Pietragavina è una frazione del comune di Varzi posta in altura a nordest del comune. All’interno della contrada sorge, uno dei castelli più importanti dell’epoca medievale infatti venne citato in un diploma imperiale di Federico Barbarossa del 1164. Come la maggior parte delle strutture adiacenti al borgo varzese, appartenne ai Malaspina di Varzi, per poi passare nelle mani di una antica dinastia detta “di Pietragravina”, estinta nel XV secolo. Da quest’ultima casata il castello conserva ancora il suo nome. Passò successivamente nelle mani dei Dal Verme, signori di Bobbio che lo cedettero nel 1723 alla famiglia Tamburelli di Bagnaria. Le scrit-
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Il bianco - rosso della Contrada della Torre La Contrada della Torre è situata nella parte superiore del paese; via Pietro Mazza e via Lombardia segnano la linea di confine. Tale contrada è caratterizzata dai due dei simboli più importanti del paese: il Castello Malaspina e la Torre Malaspina, detta anche “Torre delle Streghe”. Sicuramente transitando per le vie del borgo non si può fare a meno di visitare i suddetti monumenti. La Torre delle Streghe è un monumento che risale al XIII secolo; ha una struttura molto imponente in quanto è alta 29 m (lato piazzetta Moro), ha un perimetro di 32,80 m, uno spessore dei muri che varia da 1,70 m alla base a 0,65 m all’estremità. La sommità si raggiunge con i primi 41 gradini esterni alla struttura e con gli 89 gradini ricavati nell’intercapedine perimetrale. La Torre fu sempre oggetto di grande contesa all’interno del borgo varzese infatti, rimase di proprietà dei Malaspina fino alla seconda metà del secolo XV, per poi passare insieme a parte del Feudo, nelle mani degli Sforza di Santa Fiora divenuti, nel XVII secolo, “Cesarini Sforza”. La torre, fu costruita per mettere in comunicazione il borgo di Varzi al castello di Oramala e, come testimoniano alcuni documenti risalenti al 1320, venne utilizzata per diversi anni come prigione. All’interno di essa sono quattro le stanze che furono utilizzate all’epoca per tale scopo. Esse sono dislocate l’una sopra all’altra e collegate da una lunga, ripida e stretta scalinata. Furono utilizzate prima durante il feudalesimo dove si narra, che nel 1460 vi furono rinchiuse 25 donne ed alcuni uomini, accusati dall’inquisizione di stregoneria e successivamente bruciati nella vicina piazza: da questo fatto deriva il nome “torre delle streghe”. Successivamente tali stanze vennero utilizzate come carcere del “Mandamento” di Varzi e successivamente per il territorio di competenza della locale stazione dei Carabinieri. Le prigioni furono dismesse negli anni Sessanta, quando i Carabinieri allestirono due “camere di sicurezza” all’interno della nuova Caserma. La torre ora è di proprietà comunale, e finalmente grazie all’odierna amministrazione è nuovamente visitabile. Durante la festa Medievale sarà possibile ammirare all’interno delle quattro prigioni l’esposizione delle opere de “L’Artista puro”, oltre che al panorama mozzafiato che presenta la torre dall’alto dei suoi 29 metri. Il Castello Malaspina, adiacente alla “Torre delle Streghe”, offre, anche grazie al suo recente restauro, un perfetto connubio tra storia e modernità. Esso è sempre stato proprietà della famiglia Malaspina che, nel 1164, lo ottenne in feudo dall’Imperatore Federico Barbarossa con i territori che vanno dalle colline di Rivanazzano fino a Oramala.
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XV e un terzo, centrale ed ancora in fase di recupero, del 1700. Nel lontano 1838, la vita della famiglia Malaspina s’intrecciò a quella della Famiglia Odetti, quando l’ultima superstite dell’antico casato – Marietta – sposò il Conte Carlo Odetti di Marcorengo e dal quel momento il castello di Varzi ospitò due grandi famiglie della storia del paese e non solo. Il Castello Malaspina, dopo un lungo abbandono, è stato protagonista di un trentennale restauro, guidato dalla passione dei proprietari, la Famiglia Odetti di Marcorengo, erede di quei Malaspina che lo ottennero in feudo nel XII secolo direttamente dall’Imperatore Federico Barbarossa. La famiglia Odetti, nel corso di un lungo restauro, ha dato nuova vita al Castello con l’obiettivo di creare attorno ad esso un progetto culturale ed economico che vuole valorizzare non solo il bene architettonico in sé ma il territorio tutto.
Torre Malaspina, detta anche Torre delle Streghe
L’edificio, sin dal Medioevo, aveva funzioni difensive e, per molto tempo, rappresentò il potere commerciale ed economico del borgo. In seguito ai vari interventi
subiti (molti soprattutto dopo la divisione del 1275) il Castello risulta costituito da tre nuclei: uno più antico risalente al XIII secolo, un secondo edificio ascrivibile al
Festa Medievale di Varzi: 28 - 29 luglio XXXXXXXX A cena nel borgo antico di Varzi, cibi e bevande della tradizione. Sabato 28 Luglio: Menu a 30$ Salame e coppa di maiale di “stabbio” Salame cotto alla contadina Battuta di lardo Antica pasta appesa con legumi infranti Selvaggina in salmì con foglie minute Formaggi della tradizione con prezioso miele “Fugazza di Armandole” Acqua, vino La cena sarà arricchita dagli spettacoli della compagnia “Flos et Leo”.
Sabato 28 Luglio 16:00 Benedizione dei cavalli e partenza del Corteo Storico dal Sagrato della Chiesa dei Cappuccini di Varzi. 17:30 Arrivo del corteo in piazza del municipio, inizio della giornata Medievale, apertura delle cantine, banchetti e mestieri Medievali in via del mercato e via Roma. Presentazione Contrade di Varzi, visite guidate Torre Malaspina “Torre delle Streghe”. 18:00 spettacolo Arceri delle Torri dell’ Oltrepò Pavese. 18:30 Semifinali Palio della Sposa. 20:00 Cena Medievale nel centro storico con intrattenimento della compagnia “Flos et Leo”. 22:30 Spettacolo Funambolo “Stefano Franzini” in Piazza del Municipio (Umberto Primo). A seguire Concerto in Piazza del Municipio (Umberto Primo) dei Sonagli di Tagatam. Domenica 29 luglio 10:00 Inizio visite guidate Torre Malaspina “Torre delle Streghe” e Centro Storico. 10:30 Inizio giornata medievale apertura cantine del centro storico, banchetti e mestieri Medievali in via Del Mercato e via Roma. Dalle 11:30 dimostrazione l’Archeo Falegname “Ezio Zanini” - Archeo Fabbro “Antonio Roberto Pietrafesa”- Bottega Ponderami (la corporazione di Arti Mestieri Artigiani Medievali) “Marco Antonio Spadini” – Duelli Compagnia Le Chimere Ivrea. 12:00 Pranzo Medievale (Piazza Aldo Moro) con Past’n Furios e intrattenimento della compagnia “Flos et Leo”. 14:30 Spettacolo Arceri delle torri dell’ Oltrepò Pavese. 15:00 Balli della tradizione a cura dell’ associazione “Arte e musica” a seguire “I Tamburi del Castello”. 15:45 Spettacolo Falconieri “Il Mondo nelle Ali”. 16:30 Spettacolo Cavalieri di Varzi. 17:30 Inizio della cerimonia per la finale del palio della sposa – finale palio della posa – spettacolo degli “Sbandieratori Fornovo Taro” nel centro storico e piazza del municipio. 19:30 Cena Medievale (Piazza Aldo
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Il Programma
Moro) con Past’n Furios eintrattenimento della compagnia “Flos et Leo”. Ore 21:00 Spettacolo di Fuoco a cura di “Gaia Atmen”. 21: 0 “Sbandieratori Fornovo Taro” con bandiere Fluorescenti. Ore 21:45 Grande spettacolo conclusivo: Kroonos “viandanti nel tempo”.
Visite guidate alla Torre delle Streghe con al suo interno le opere dell’”Artista Puro”. Arte Varia, la creatività a ruota libera, suggestioni e raffigurazioni di uno spirito libero. Potete trovare tra le vie del centro storico il mercato medievale per l’intera durata della manifestazione, anche il sabato sera.
Si ringraziano per cenni storici e fotografie:Varzi Viva (http://www.varziviva.net/) e tutte le persone che per esso lavorano e hanno lavorato, la pagina Facebook A Tutta Varzi e tutte le persone che negli eventi passati hanno gentilmente caricato foto inerenti la festa, e il Castello Malaspina ( https://castellodivarzi.com/).
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NUOVE TENDENZE DEL TERRITORIO
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Il trionfo degli affitta - camere - case, un nuovo business C’era una volta l’Albergo dell’Oltrepò, struttura ricettiva in cui trovare ospitalità sia per passare la notte che per fare colazione, pranzare o cenare in base alle proprie esigenze: la sera gli ospiti godevano delle aree comuni e del servizio bar. Arrivarono poi gli Agriturismi, all’epoca nient’altro che case contadine in cui si poteva dormire e (in teoria) bere e mangiare solo materie coltivate direttamente dall’agriturismo stesso: oggi molti Agriturismi hanno strutture spesso più simili a resort che a case contadine, ma questo è un altro discorso. Nel 2000 si è consolidata anche in Italia l’ “ospitalità diffusa”, di origine anglosassone: con questo termine si intende appunto quella particolare forma di ricettività extralberghiera che si svolge in abitazioni private, abitate o meno dai proprietari. Non concentrandosi in un unico stabile come un albergo, risulta diffusa sul territorio. Pian piano gli alberghi sono scomparsi o rimasti nelle stesse condizioni degli anni in cui sorsero: la concorrenza è stata spietata soprattutto in luoghi come i nostri, in cui è sicuramente più apprezzata la pace di un borgo e il contatto con la realtà del luogo in cui si soggiorna che il caos di una cittadina, soprattutto a fronte di un contesto familiare e di calore domestico. È un modo di fare turismo economico con elevata sostenibilità ambientale: il B&B rappresenta la soluzione ricettiva ottimale laddove la costruzione di alberghi è resa impossibile dalla mancanza di spazi disponibili o è scoraggiata dalla valutazione del suo impatto territoriale o da flussi turistici di scarso rilievo quantitativo, ed in tutte quelle località caratterizzate da un turismo itinerante (basse permanenze medie) e diffuso sul territorio. Le possibilità di pernottare pagando somme piuttosto contenute da noi sono poche e, spesso, di scarsa qualità: ecco i motivi per cui gli ormai numerosi Bed and Breakfast attivi su tutto il territorio nazionale non hanno alcuna difficoltà a trovare clienti. Se si “zoomma” la mappa di un famoso portale dedito a questo tipo di “imprenditoria” o se semplicemente si cerca on line, infatti, si scopre che in Oltrepò vi sono moltissime strutture ricettive ricavate in case di privati. Contarli sarebbe impossibile perché, oltre alle piattaforme dedicate, ci sono anche annunci sparsi ovunque nel web. Un modo di fare impresa familiare ormai diffuso, così diffuso che si parlava tempo fa addirittura di tassare queste “ospitate”, spesso solo citate nella dichiarazione dei redditi: una brutta notizia per chi con i ricavi di questa prestazione poteva permettersi di mantenere i costi e la gestione di una seconda casa, se non addirittura quelli di una prima casa impegnativa. Certo, i servizi non sono gli stessi (forse), ma credete che sfogliando
determinati siti troverete case da sogno che neanche immaginavate che esistessero nei paesini sperduti delle nostre valli. Se ci pensate bene, da Salice Terme a Varzi e ancora salendo, non esistono hotel o strutture ricettive di un certo charme, se non forse qualche eccezione. Sono mosche bianche se si pensa che da decenni ormai si parla di potenziamento delle strutture in Oltrepò. Parliamoci chiaro: le imprese ricettive sono quelle che, con maggiore visibilità, definiscono l’immagine di una località turistica e che definiscono il target di turisti sui quali una località può realmente puntare; se i servizi erogati nelle strutture ricettive di una località sono scadenti, questo è causa ed espressione di un’immagine negativa per l’intero sito. Sicuramente devono coincidere con l’insieme delle risorse e dei servizi che contribuiscono alla determinazione delle aspettative e, successivamente, delle percezioni del turista: il ruolo di tutte le imprese turistiche locali è determinante nell’offerta turistica di una certa località. Nel nostro Oltrepò la domanda di alloggio dovrebbe trovare soddisfacimento mediante le più disparate forme. La varietà delle forme comporta combinazioni prodotto-prezzo assai diverse, atte a soddisfare una domanda che, a seguito del diffondersi dell’abitudine ai viaggi fra tutte le categorie di persone (siano esse distinte per età, per cultura, per reddito, per aree di residenza, ecc.), si presenta proveniente da soggetti le cui esigenze e la cui capacità di spesa sono le più varie; purtroppo non è più così e il livello del turismo si è abbassato, facendo abbassare anche gli introiti economici. Chi si prenderebbe però l’impegno di creare una struttura con camere, ristorante e wellness/spa senza avere nel contesto nessun richiamo turistico se non qualche castello o museo del cavatappi (senza nulla togliere a questo magnifico museo) piuttosto che del fossile? Nessuno. Potrebbero apprezzare questa zona a livello turistico amanti di gite in bicicletta o a piedi (se i percorsi fossero adeguati) e sicuramente troverebbero più consono al loro alloggio un casale in mezzo alle colline, che un hotel sulla statale o nel caos della movida salicese. Sulle colline, nella natura, con il paesaggio del tramonto le offerte vengono quasi ed esclusivamente solo da privati: case isolate o nei borghi antichi, arredate con gusto, giardino curato, anche piscina. In questi ambienti familiari spesso scatta anche la sinergia col proprietario che consiglia agli ospiti il ristorante dove mangiare i piatti tipici, il produttore dove comprare il vino buono o la bottega dove trovare il salame di Varzi. è vero: un B&B ha il limite della conduzione familiare, quindi non prevede progetti economici a lungo termine come posti di lavoro o turi-
Mappa di alcuni B&B in Oltrepò
smo “ricco”: tutto è fatto in famiglia e con estrema serenità, senza normative dalle burocrazie impossibili. Il tutto è appoggiato anche dalla legislatura italiana, le cui leggi parlano di strutture alberghiere ed extralberghiere, ma non di B&B: sono state le leggi regionali, in Italia, ad individuare e sancire le caratteristiche distin-
tive dell’attività di Bed & Breakfast ed i requisiti minimi necessari per il suo svolgimento: questo rende tutto ciò molto più rassicurante per il privato perché i requisiti sono davvero minimi rispetto agli obblighi normativi di una struttura alberghiera. di Rachele Sogno
Mappa di alcuni privati che offrono ospitalità diffusa in Oltrepò
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MENCONICO
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Chiusa la trattoria storica. Chef e proprietaria a Ibiza «La ristorazione in Oltrepò è ferma agli anni 80» La Frasca, trattoria storica di Menconico, ha chiuso i battenti dopo aver festeggiato 120 anni di vita l’anno scorso. Un duro colpo per il paese, ma anche una perdita per tanti appassionati di cucina. Stefania Fenaroli, proprietaria, e Luca Pellegrini, lo chef, si sono trasferiti ad Ibiza per iniziare una nuova avventura. Pellegrini poco più di un anno fa aveva raccontato al nostro giornale il suo progetto di cucina in equilibrio tra “innovazione e tradizione”. Ispirato a maestri come Ferran Adria, “giocava” a stravolgere ingredienti e piatti ordinari portando in quel di Menconico una proposta di ristorazione decisamente “atipica” per la Valle Staffora. La Frasca negli ultimi cinque anni aveva intrapreso un percorso gastronomico ambizioso che le aveva permesso di ritagliarsi una piccola nicchia di appassionati. La “scommessa” di Pellegrini sembrava vinta, soprattutto in estate, quando erano numerosi i clienti che, magari dal milanese, decidevano di godersi una cena con vista mozzafiato sulla terrazza che guarda le colline dipinte dal tramonto. Qualcosa invece è andato storto. Oggi la porta del locale è chiusa e la terrazza, sferzata dal vento, deserta. Quali sono le ragioni che hanno portato a questa scelta? «Sicuramente ha pesato l’impossibilità di programmare una evoluzione della cucina, per cui serviva poter assumere personale, mentre i costi troppo elevati che questo comporta in Italia non ce lo hanno reso possibile. Per una piccola impresa come la nostra i costi erano diventati insostenibili, nel corso degli anni i costi di gestione aumentano mentre la gente che gira da queste parti diminuisce. In estate si lavorava abbastanza, ma la situazione invernale da queste parti era ormai diventata impossibile da sostenere. Disservizi, strade in condizioni pessime, quando fa brutto quassù non girano manco i gatti e un locale non può permettersi di lavorare
5-6 mesi all’anno». La responsabilità è quindi da attribuire ai politici? «Sicuramente il declino dell’Oltrepò dipende dai politici, ma il territorio ha perso attrattiva anche per colpa degli imprenditori». In che cosa hanno sbagliato? «Io posso parlare di quello che conosco, cioè del mio settore, l’enogastronomia. Aldilà di un paio di ristoranti, la maggior parte sono gestiti come 30 anni fa, non c’è ricerca non c’è innovazione, siamo rimasti fermi agli anni ’80 con la ristorazione». La sua non era la cucina “classica” dell’Oltrepo. Nella scelta degli ingredienti spaziava e si scostava anche di molto da quella che è la tradizione culinaria delle nostre colline. Crede che questo l’abbia penalizzata alla lunga? «Può anche essere. La mia cucina era ri-
«Sicuramente il declino dell’Oltrepò dipende dai politici, ma il territorio ha perso attrattiva anche per colpa degli imprenditori» volta soprattutto ad un pubblico giovane, cosmopolita e interessato a scoprire cose nuove. Difficile trovare clienti di questo tipo in Valle Staffora. Non penso però che la mia cucina non fosse legata al territorio, per il quale pen-
so di aver fatto più io con una cucina di innovazione ma di qualità, che molti altri». Come vede il futuro della ristorazione in Oltrepò? «Me ne sono andato, non lo vedo roseo, ma non solo per la ristorazione, anche per tutte le attività in generale. Vivo a Ibiza adesso e posso dire che il mio futuro è qui». Com’è lì la ristorazione? «In crescita, finalmente si sta arrivando ai livelli della Spagna, si stanno aprendo e stanno arrivando proposte interessanti, mentre prima c’erano un sacco di cuochi ma pochi chef. Un po’ come in Oltrepo’». A Ibiza il terreno è fertile per la sua cucina? «Attualmente lavoro in un piccolo ristorante nella città vecchia e direi proprio di si, finalmente l’isola sta scoprendo i ristoranti gastronomici, solo gli italiani sono rimasti legati al binomio sangria e paella». C’è qualcosa che le manca del suo territorio d’origine? Fosse anche un solo prodotto... «Assolutamente no, qui non manca nulla e si trova di tutto. Sto scoprendo nuovi prodotti che vengono dal mare, un sacco di erbe che crescono spontanee nei campi». Si trovano ad Ibiza dei prodotti made in Oltrepò? «Sì, in casa mia: dall’Italia mi sono portato una bottiglia di Pinot di un piccolo ma bravissimo produttore locale! No, qui l’Oltrepò non si sa cosa sia. D’altra parte non lo conoscono nemmeno in Italia, non c’è da stupirsi». Mi rendo conto che proporre un paragone tra Oltrepò e Ibiza può sembrare forzato,
Luca Pellegrini, chef
dato che si tratta di due realtà molto lontane non solo geograficamente, ma anche culturalmente. C’è tuttavia qualcosa che accomuna i due luoghi? «Direi che in comune c’è qualche problema legato ai disservizi, penso ad esempio ad alcune strade, oppure a un certo disinteresse dei politici locali verso i vari esercizi pubblici. Riguardo alla cucina invece, come ho detto prima qui ci sono tantissimi cuochi ma pochissimi chef, un po’ come in Oltrepò. Ma la situazione qui è in netto miglioramento». di Christian Draghi
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«Mi alzo tutti i giorni alle 4 di notte sabato e domenica compresi» In Oltrepò, ma non solo, è tempo di crisi. Ed è difficile trovare lavoro. Ma è veramente così? Ci sono alcuni settori che offrono molte opportunità di lavoro, ma ai giovani non interessano. Lavori spesso manuali e faticosi che danno soddisfazioni molto più di quanto potrebbe avere un impiegato laureato. Ovviamente non si tratta di lavori che si possono fare così da un giorno all’altro. E serve un po’ di esperienza e manualità per diventare veramente bravi. Ma magari i giovani oltrepadani alla ricerca di un’occupazione potrebbero mettersi in gioco e decidere di diventare apprendisti, per imparare un mestiere (come si faceva una volta!) che veramente può farli guadagnare e dare loro soddisfazioni. Non ultima quella di vivere dove si è nati. Certo, non bisogna aver paura di sporcarsi le mani e di fare lavori in orari non “tradizionali”. Così accanto ad una generazione quella dei “millennials” con la valigia in mano, esiste anche un’eccezione al fenomeno, quei giovani che stanno bene dove sono nati, dove sono cresciuti, dove è sempre vissuta la loro famiglia, magari facendo un lavoro, forse anche duro, che si tramanda di generazione in generazione. Ne è un esempio Roberto Culacciati ventisettenne di Val di Nizza che senza alcun dubbio e con determinazione ha deciso di restare e di cominciare da qui, da dove per la sua famiglia tutto è iniziato. Suo nonno era il panettiere del paese e da lui ha ereditato la passione per questo antico mestiere che prosegue seguendo rigorosamente le ricette tramandategli dal padre di suo padre. Roberto i giovani oltrepadani spesso ambiscono a spostarsi nelle grandi città, Pavia, Milano o all’estero. Lei ha fatto una scelta in controtendenza. Scelta naturale o obbligata? «Dopo il diploma al liceo scientifico tecnologico di Voghera ho lavorato come agente commercio al Consorzio Agrario di Varzi, lavoro che mi piaceva molto e che mi ha dato parecchie soddisfazioni, poi però la sede di Pavia del Consorzio è fallita e di conseguenza anche il distaccamento di Varzi è stato chiuso. Così quattro anni fa mi sono ritrovato disoccupato…». Decide quindi di continuare l’attività di famiglia, fare il pane… «Esatto, era gennaio del 2014. Mio nonno aveva iniziato la sua attività nel 1959 e dopo 35 anni nel 1994 è andato in pensione. In realtà il negozio ed il suo forno non sono mai andati in pensione infatti sono sempre stati aperti e gestiti da persone esterne alla mia famiglia. Diciamo che, sia il fatto di essermi trovato senza lavora sia il fatto che i gestori della panetteria avevano deciso di lasciare l’attività, mi ha fatto prendere la decisione occuparmi io in prima persona del forno e della panetteria». 1953 - 2014 due generazioni di differenza per gestire un’attività di panetteria a Val di Nizza. La molla che è scattata e che le
ha fatto pensare “Ce la posso fare”? «Prima di tutto anche se non avevo mai operativamente lavorato nella panetteria, i racconti di mio nonno e di mio padre che mi hanno sempre accompagnato durante la mia infanzia, mi hanno sempre fatto considerare quel luogo un posto caro e familiare, inoltre soprattutto mio nonno, ha sempre cercato di coinvolgermi rendendomi partecipe del suo lavoro e anche se ero poco più che un bambino non ho mai dimenticato… I ricordi legati al forno, all’impasto dei biscotti e del pane, il profumo, la farina ovunque… mi hanno fatto appassionare». Lei ha 27 anni e ha frequentato il liceo tecnologico. Quante delle sue conoscenze scolastiche ha applicato nel panificio? «Direi nessuna, perché è un lavoro completamente differente rispetto al mio percorso di studi, il mestiere è un mestiere antico per il quale serve la conoscenza della tradizione. Con questo non voglio assolutamente dire che studiare non serve, anzi serve sempre per aprire la mente e per, lavorativamente parlando, cogliere opportunità che magari mio nonno non sarebbe stato in grado di percepire». Lei segue per i suoi prodotti da forno le ricette di suo nonno. Nulla è cambiato? «Accorgimenti e migliorie sono inevitabili, ad esempio per i nostri biscotti per i quali siamo rimasti fedeli alla ricetta del ’53 di mio nonno, abbiamo apportato alcune modifiche per rinnovare le qualità del prodotto e per variare la tipologia e renderla più attuale ampliato la gamma, ad esempio abbiamo aggiunto il cioccolato alle nostre ciambelle, oppure produciamo biscotti senza zucchero o alla farina di mais». Pane: vale la stessa filosofia, fate il pane come lo faceva suo nonno? Mi risulta difficile da credere… «Invece è così, usiamo gli stessi macchinari, le stesse materie prime, le stesse metodologie di lavorazione e la stessa ricetta. Proprio per questo motivo noi vendiamo solamente nel nostro negozio e non lo portiamo a domicilio, qualità invece di quantità». Costa di più fare il pane e i biscotti come una volta o farli come tanti li fanno oggi? «Costa di più produrre come una volta, le materie prime sono più costose, i tempi sono più lunghi e il prodotto ha una durata inferiore, i prodotti vanno consumati freschi in un ristretto lasso di tempo». Quanti tra i suoi amici o conoscenti della sua stessa età fanno un lavoro legato all’Oltrepò e alle sue tradizioni? «Molto pochi, la maggior parte studia o si è trasferita a lavorare e a vivere nelle grandi città, un vero peccato… ». Lodevole portare avanti la tradizione di famiglia, ma facendo i “conti della serva” si guadagna abbastanza? «È dura per via dei troppi costi da sostenere, comunque il mercato in Oltrepò per i prodotti tipici c’è ed è ampliabile e imple-
Roberto Culacciati, panettiere
mentabile». I numerosi centri commerciali sono concorrenti? «Non più di tanto per quanto concerne la nostra specificità di prodotti, la gente sta tornando a mangiare bene utilizzando prodotti tradizionali, a discapito di quelli industriali». A che ora si alza per fare il pane? «Tutti i giorni alle 4 di notte, sabato e domenica compresi, tranne il lunedì che è il nostro giorno di chiusura». Vita dura per un 27enne… Come riesce a far collimare il divertimento e alzarsi alle 4 di notte? «Si limitano gli orari di rientro a casa, non ci sono alternative…». Tanti sacrifici… Quanti dei suoi amici o conoscenti sarebbero disposti a farlo pur di fare un lavoro legato alle tradizioni? «Non penso in tantissimi, è vero che molto spesso è solo questione di abitudine e i ritmi li acquisisci con il tempo. A priori credo però che solo l’idea di doversi alzare alle 4 di notte spaventerebbe la maggior parte dei miei coetanei». Se dovesse spiegare ad un suo coetaneo di rimanere a vivere qui sulle nostre colline invece di andare a fare l’impiegato a Milano ad esempio, quali argomenti userebbe per convincerlo? «Difficile perché sono motivazioni molto soggettive e poco oggettive, io mi alzo contento di andare a lavorare e il fatto che oltre a piacermi il lavoro i miei clienti mi fanno i complimenti sono per me delle soddisfazioni impagabili. A questo aggiungo il fatto che a me piace proprio vivere a Val di Nizza e non sono “tagliato” per vivere in città». Lei lavora con suo padre, pur essendo lei il titolare dell’attività. Com’è il rapporto quotidiano che inizia alle 4 del mattino, lavorativamente parlando, con suo padre? «Abbiamo un ottimo rapporto e riusciamo a collaborare bene con le difficoltà che ci sono in un normale rapporto tra padre e figlio». Su cosa discutete maggiormente? «Mio padre è molto critico a cominciare dalla sistemazione dei nostri prodotti in
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negozio, ha sempre qualcosa da ridire, così come riguardo agli ordini che faccio, o è troppo o è troppo poco… Cose comunque molto banali se vogliamo». Non le è mai venuto in mente di esportare il suo sistema di lavoro in un luogo di più grande transito come Voghera o Pavia? «Ci abbiamo pensato tante volte perché trasferire l’attività in una zona di più ampio passaggio vorrebbe dire una maggior soddisfazione economica, dall’altra parte vorrebbe dire lasciare Val di Nizza e questo no, non è nelle mie corde. Abbiamo raggiunto una sorta di compromesso, lavorare costantemente sulla qualità dei nostri prodotti affichè sempre più clienti anche non di Val di Nizza vengano da noi». I clienti che ha acquisito in questi anni sono solo della zona o viene anche qualche “forestiero”? «Devo dire che sempre più clienti arrivano dalla città, sono turisti di passaggio o coloro che hanno la seconda casa in zona e ritornano periodicamente». Serve anche ristoranti della zona? «Sì diversi, e sono quei ristoranti che sono disposti a pagare un po’ di più il pane per offrire una qualità superiore ai loro clienti». “Ma chi me l ha fatto fare?”. Non se l’è mai posta questa domanda? «Sì perché comunque è un lavoro duro e faticoso ma dopo quei 10 minuti di crisi mi sono sempre “rinsavito”». Dalle associazioni che si occupano di promozione dei prodotti oltrepadani, ha mai avuto contatti per incrementare e promuovere le tipicità che produce? «Al momento no, perché in questi primi anni sono stato molto concentrato sullo sviluppo della mia attività, però in futuro non escludo di cercare collaborazioni per promuovere i miei prodotti insieme ad altri produttori locali». Il miglior modo per mangiare il suo miccone? «Con i salumi e il salame in particolare, il salame con il miccone ritengo sia il modo migliore per gustare sia uno che l’altro». Nel suo negozio vende anche salame nostrano, se la ricetta del suo miccone è quella del ’53, può affermare che anche il salame che vende è fatto come quello di una volta? «Cerchiamo di vendere il miglior salame possibile ed acquistabile in zona. Vendere salami come quelli di una volta è difficile proprio per le normative che sono cambiate, ma certamente anche in Oltrepò si trova tanto buon salame come tanto buon pane». Consiglierebbe un domani a suo figlio di fare il suo lavoro? «Lo spererei… per continuare la tradizione e poi perché è un lavoro che insegna e che appaga». Nessuno le ha mai detto “Il pane di tuo nonno era più buono” oppure “Non è come il pane di tuo nonno”? «Qualcuno me lo ha detto ma più per prendermi in giro o per stimolarmi, anche perché le materie prime e i macchinari sono come allora…». Rifarebbe questa scelta? «Assolutamente sì. Sono contento del lavoro che faccio e penso di aver vinto la mia scommessa». di Vittoria Pacci
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«Prima di arrendermi voglio provare a mettermi in proprio e a lavorare nel mio territorio» Per fare il giardiniere non basta avere il “pollice verde”. Servono anni di studi, conoscenza approfondita della materia e un’esperienza sul campo che non si acquisisce semplicemente coltivando l’orto dietro casa. Filippo Pozzi, 26enne originario di Cappelletta, piccola frazione di Borgo Priolo, ha ereditato la passione per il verde dalla nonna e ne ha fatto la sua vita e professione. Ha trasformato il vigneto dietro casa in un giardino che da anni è ormai il suo laboratorio privato, la sua tela di Penelope. «Per creare un giardino servono continui esperimenti, ripensamenti e testardaggine. Io pianto e spianto, faccio continui sopralluoghi alla ricerca del “genius loci”» spiega Filippo. Diplomatosi al Gallini di Voghera, ha optato per l’indirizzo paesaggistico agroambientale. «Ho avuto la fortuna di incontrare nel mio cammino scolastico il professor Maurizio Merlo, che mi ha fatto appassionare ancora di più alla materia e mi ha dato la motivazione necessaria per proseguire negli studi universitari seguendo quel ramo». Dopo il diploma, l’università di scienze agrarie a Milano e la successiva specializzazione magistrale in architettura del paesaggio tra Genova Torino e Milano con un corso interateneo. Qui l’incontro importante è stato con la docente Laura Gatti, che insieme a Stefano Boeri è stata progettista del Bosco Verticale di Milano. «Una professionista che non si limita alla teoria ma insegna molta pratica, che è qualcosa che ho sempre cercato e preferito perché in questo mestiere è fondamentale. Anche in questo caso la mia passione si è accresciuta ulteriormente». Tanto che, terminata la specialistica, Filippo ha optato per l’iscrizione a un corso di giardinaggio tenutosi alla Reggia di Venaria Reale, per diventare manutentore di parchi storici. Il coronamento di un sogno è stato lo stage di due mesi alla Reggia di Versailles, dove ha avuto modo di occuparsi dello sterminato (oltre 800 ettari) giardino del Re Sole. Facciamo però un passo indietro. Filippo, come è nata questa passione? «Essere nato qui in Oltrepò ed essere circondato dalla natura mi ha sicuramente influenzato. Il giardino di casa prima era un vigneto e da piccolo iniziavo quasi senza sapere cosa facevo a piantare alberi e arbusti. Uno dei miei divertimenti principali era andare al torrente Coppa a cercare piante particolari per poi metterle in giardino. Avevo anche un buon gusto per l’osservazione dei dettagli e credo che questa passione sia arrivata da mia nonna materna». Poi un lungo e non ancora terminato percorso di studi. Che ricordo ha del Gallini? «Il Gallini è una scuola di eccellenza di cui conservo un ricordo molto bello, anche se
l’ho trovato un po’ carente nella parte pratica». Architetto del paesaggio. Come si può raccontare questa figura? «Il progettista di giardini è una figura che deve racchiudere in sé molte competenze diverse. Deve essere architetto ma anche giardiniere e agronomo, perché conoscere le piante e le loro caratteristiche è fondamentale se si vuole che queste possano vivere in un determinato ambiente». Ci sono altre figure professionali come la sua in questa zona? «Gli architetti del paesaggio in Provincia di Pavia sono solo due. Io in ogni modo ho scelto di iscrivermi all’albo degli agronomi, per il semplice motivo che trovare un lavoro è più semplice in questa categoria, che pure non esclude la possibilità di essere anche progettista». Una scelta di buon senso, dunque. Come mai però un architetto del paesaggio qui ha vita più dura? La materia prima da plasmare non manca di certo… «è vero, ma rispetto ad altri paesi siamo molto indietro culturalmente su questo aspetto. La cura del verde e i progetti ad essa legati in Oltrepò, ma in un certo senso anche in Italia, sono un po’ un oggetto misterioso. Il giardiniere in Italia è solitamente qualcuno che si è improvvisato, magari guidato dalla passione, ma non c’è al momento neppure un albo dedicato a questa professione. Non avendo però tutte le competenze necessarie si fanno errori comuni, come trattare le piante tutte allo stesso modo, mentre ciascuna ha le proprie caratteristiche. è un peccato perché noi italiani siamo stati i capostipiti della cultura del giradinaggio, da cui hanno ripreso i francesi e gli inglesi. In quei paesi oggi la mia figura professionale è riconosciuta e apprezzata al pari di qualsiasi altra». Ha pensato di emigrare? «Per ora ho fatto lo stage alla Reggia di Versailles dove tornerò questo autunno per altri quattro mesi. Però prima di arrendermi voglio provare a mettermi in proprio e a lavorare nel mio territorio. Una sfida difficile ma uno dei vantaggi che potrei avere è quello di non avere molta concorrenza». L’Oltrepò come è messo dal punto di vista naturalistico? «Ha una straordinaria biodiversità di cui però non ci rendiamo conto. è un peccato che la maggior parte dei giardini siano piuttosto banali perchè si tende sempre ad utilizzare le solite varietà di piante. Una prassi dovuta appunto alla mancanza di figure professionali che potrebbero invece fare apprezzare e conoscere numerose altre specie che potrebbero tranquillamente proliferare».
Nel suo giardino di piante ne ha parecchie, alcune piuttosto insolite da queste parti. Può dirci quali sono gli errori più comuni che si fanno qui nel piantare alberi o fiori? «Solitamente sono dovuti a scarsa conoscenza delle caratteristiche biologiche delle piante stesse. Ad esempio Camelia, rododenro e azzalea da noi non cresceranno mai bene, perché hanno bisogno di un terreno acido, mentre qui è calcareo. Per questo avranno sempre carenze di ferro, che si manifesta in una colorazione pallida, giallina, del cuore della foglia». di Christian Draghi
«Uno dei miei divertimenti principali era andare al torrente Coppa a cercare piante particolari per poi metterle in giardino»
Filippo Pozzi, architetto paesaggista e manutentore di parchi storici
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Cinghiali fuori controllo. Gli agricoltori chiamano, la regione risponde: sarà caccia libera Importanti novità giungono da Milano a proposito di cinghiali. Regione Lombardia, infatti, ha aperto ad agricoltori e guardie la possibilità di cacciare questi ungulati per tutta la durata dell’anno. Un provvedimento dettato dal grande aumento numerico di esemplari sui territori regionali, non ultimo l’Oltrepò. Approfondiamo le novità con Domenico Buscone, segretario del Comitato di Gestione dell’Ambito Territoriale di Caccia n.5 di Varzi – Oltrepò sud, del quale è stato a lungo, per circa vent’anni, presidente. Caccia al cinghiale aperta tutto l’anno in Lombardia. Un provvedimento atteso da molti, lo giudicate positivamente? «È una decisione molto positiva, che va incontro alle istanze degli agricoltori, i quali da sempre si battono con questo suide che crea loro, purtroppo, parecchi problemi. Questo provvedimento è stato fortemente voluto dall’associazione Coldiretti, che si è battuta a tal fine.» Cosa lo ha reso necessario? «Il continuo lamentarsi da parte degli agricoltori per i danni subiti da questo suide, che spesso e volentieri si muove molto, anche in branco, in cerca di cibo. Anche se i problemi determinati dal cinghiale non sono i soli in agricoltura. Ritengo che il capriolo, oggi come oggi, dia più problemi del cinghiale». In che termini? «Fino a pochi anni fa questi cervidi erano pochissimi, mentre oggi, sia dal punto di vista degli incidenti stradali, sia dal punto di vista agricolo, i danni riscontrati sono sempre maggiori. Ne parlavo proprio ieri con uno dei più grossi agricoltori della zona, di Bagnaria, proprietario di ettari ed ettari di frutteto, e mi diceva che questo problema sta diventando insopportabile. Il capriolo in primavera bruca tutte le gemme, fa sì che la pianta non prolifichi e non produca frutti. Ben vengono, quindi, gli interventi di controllo sul cinghiale, ma parlerei più in generale degli ungulati». I danni sono ripartiti uniformemente nelle varie aree dell’Oltrepò? «Secondo me va fatto un distinguo territoriale. Se analizziamo i dati, infatti, vediamo che i danni sono più concentrati là dove ci sono zone protette. Al Brallo possono esserci problemi legati a un singolo esemplare, che magari si limita a frugare nella spazzatura. A Val di Nizza ci sono aziende faunistico venatorie. Dove l’animale viene protetto avviene una prolificazione maggiore. In quella zona c’è una densità agricola notevole, e dunque il danno è maggiore. Bisognerà quindi vedere di sincronizzare questi interventi sui cinghiali con questi istituti. Nelle zone protette, inoltre, l’animale è difficile da stanare». Il provvedimento adottato dalla Regione sarà risolutivo? «Nel periodo in cui ho seguito l’argomen-
Domenico Buscone, segretario del Comitato di Gestione dell’Ambito Territoriale di Caccia n.5 di Varzi
to sono stati adottati tutta una serie di interventi finalizzati al contenimento della specie, però devo dire che tutti gli anni si ripresenta lo stesso problema e ho paura che anche questa volta il provvedimento si riveli uno specchietto per le allodole, perché comunque non è così automatico che uno veda un cinghiale nel campo e gli possa sparare. È prevista una serie di procedure che porteranno molti agricoltori a rinunciare a questa possibilità». Data la finalità, perché questo provvedimento è riservato ai solo agricoltori? «È un provvedimento che va incontro a un’esigenza delle associazioni agricole, quindi è stato mirato in questo senso.» A proposito di agricoltori. Agli ATC spetta finanziare, per una quota del 30%, il risarcimento dei danni prodotti all’agricoltura dalla fauna selvatica. Quota aumentata di recente, peraltro: tocchiamo quindi un nervo scoperto. Cosa pensano i cacciatori di questa quota? È adeguata? «Fino a un anno fa la quota danni era stabilita da una normativa regionale che prevedeva il 90% del risarcimento a carico della Regione e il restante 10% a carico degli ATC. Poi la norma è stata modificata, caricando maggiormente la quota a carico degli ATC, magari pensano di attingere anche al portafoglio del cacciatore per renderlo più responsabile. Ma la legge parla chiaro: l’articolo 47 dice che i danni sono a carico dell’ente proprietario della selvaggina. Noi paghiamo già diverse tasse, 65 euro quella regionale 175 euro quella governativa. Denaro che dovrebbe essere distribuito in modo proporzionale anche nel campo del risarcimento danni». La Regione ha deciso di dividere il territorio lombardo in “aree non idonee” alla presenza del cinghiale e ‘‘aree ido-
nee’’. Come reputa questa idea? «L’idea di per sé non è sbagliata. Secondo la normativa, la Legge 157, in tutto il territorio nazionale esistono zone in cui il cinghiale viene definito ‘‘specie vocata’’ e può essere cacciato, e zone dove viene ritenuto invasivo, quindi crea rischi. In quelle aree deve essere debellato completamente, e vengono messi in essere adeguati provvedimenti». Le nostre sono zone vocate? «Effettivamente bisogna fare un distinguo molto chiaro fra zone come l’Oltrepò, e altre, come per esempio il basso Pavese, dove ci sono anche colture diverse da qui, come il riso. Il cinghiale vi si è spostato alla ricerca di cibo, ma non è certamente il suo ambito prediletto. Per quanto riguarda l’Oltrepò, dalla via Emilia verso le montagne abbiamo una zona vocata; dall’altro lato il cinghiale non può essere presente». In regione si è ripreso, dopo alcuni anni, a parlare di ‘‘caccia in deroga’’. Una terminologia che si sente pronunciare di rado dalle nostre parti. Di cosa si tratta? «È una questione sentita dai capannisti, cioè da chi fa la caccia da appostamento fisso, per tutte quelle specie migratorie che passano sul territorio dell’Oltrepò. In particolare riguarda i volatili. A livello generale, la Comunità Europea stabilisce quelle che sono le specie cacciabili e non cacciabili. Poi i vari stati possono adottare altri provvedimenti più locali che vanno in senso diverso. Siccome nel Bresciano e nel Bergamasco questo tema è molto sentito, si è sempre fatto leva perché alcune specie venisse messa in deroga, e quindi ne fosse consentita la caccia. Da noi non se ne parla molto, perché la caccia prevalente è quella tradizionale». Questo tema è stato toccato anche dal
nuovo assessore regionale, Fabio Rolfi, che sta mandando segnali di avvicinamento al mondo della caccia. Cosa suggerirebbe alla politica, relativamente alla caccia tradizionale? «Il neo assessore è insediato davvero da poco tempo, diamogli il tempo di lavorare. Sono tante le cose che si potrebbero fare. Certamente per la caccia tradizionale si possono migliorare tante cose. La caccia del futuro, lo dico da tanti anni, è la caccia di specializzazione. Esiste in molte aree limitrofe, come nella provincia di Alessandria e nel Piacentino, dove occorre scegliere la forma di caccia che si vuole praticare e dedicarsi soltanto a quella. Se uno ha una passione, un’etica, questa non può essere a trecentosessanta gradi. Comunque le novità che Regione Lombardia metterà in campo, d’intesa con le associazioni venatorie e di concerto con le realtà agricole e ambientaliste, saranno sicuramente dei passi avanti». I vostri colleghi piemontesi non se la passano molto bene, in tempi recenti. Palazzo Lascaris ha vietato la caccia di quindici specie invece consentite sul restante territorio nazionale. «Il pericolo è che, come sta avvenendo in Piemonte, anche qui si arrivino a fare anche delle restrizioni. C’è stata una manifestazione molto partecipata quindici giorni fa, perché la Regione Piemonte vorrebbe eliminare la caccia nel giorno di domenica. Per molti si tratta di un giorno di libertà, di vacanza, nel quale chiunque ha l’abitudine di coltivare la propria passione. Chi va per funghi, chi a pesca… noi cacciatori, quando possiamo e gli impegni di famiglia lo permettono, andiamo a caccia. Togliere la possibilità di andarci la domenica, per me, è completamente sbagliato. Si può al massimo limitare l’orario a mezzogiorno. Far quindi sì che la domenica pomeriggio ci sia un silenzio venatorio assoluto come avviene per il martedì e il venerdì». La caccia è anche uno strumento di regolazione dell’ecosistema e di contrasto alla fauna selvatica in eccesso. Quanto questo ruolo è importante in Oltrepò, oggi? «Secondo me la caccia è un argomento molto importante e molto sentito, non solo per chi la pratica, ma anche in relazione alla tutela dell’ambiente, al controllo del territorio e anche al turismo e alla valorizzazione dei prodotti locali. Io, come centinaia di altri cacciatori, percorro tutto l’Oltrepò, e mi fermo nei posti più tradizionali per consumare quelli che sono i prodotti tipici. Nella parte soprattutto montana mi confronto spesso con albergatori e ristoratori, i quali, spesso e volentieri, mi confessano di essere grati al movimento creato dalla caccia». C’è una sorta di ‘‘turismo’’, se vogliamo
OLTREPò definirlo così, legato a questo ambito. «Fra ottobre e dicembre, in modo particolare, si crea un notevole indotto. Molte attività ricettive sarebbero costrette a chiudere se non ci fosse questo business legato alla caccia. In moltissimi vengono in Oltrepò dal resto della provincia di Pavia e della Lombardia, e apprezzano così il territorio. Per la bellezza delle colline qualcuno decide di acquistare qui una casa; altri, nel periodo in cui la caccia è chiusa, tornano in vacanza con la famiglia». Per quanto riguarda il controllo del territorio? «Sempre più spesso, negli ultimi anni, i cacciatori si sono organizzati a livello di gruppo per portare avanti un discorso di cura per l’ambiente. Per esempio, dopo l’ultimo gelicidio di quest’inverno, moltissimi cacciatori si sono raggruppati e muniti di falcetto, motoseghe e di quanto altro necessario, e si sono occupati di ripulire i sentieri, per ricreare una rete di comunicazione e per far sì che la gente possa muoversi con una certa facilità. I fondi ai comuni mancano sempre per queste attività, che altrimenti non verrebbero svolte da nessuno». E la tutela ambientale? «Nel bilancio dell’ATC dedichiamo parecchie risorse, circa il 30% delle spese, ai miglioramenti ambientali. È un argomento stabilito dalla normativa, che permette di finanziare interventi sul territorio effettuati da parte di conduttori o proprietari dei fondi per migliorare le condizioni territoriali».
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Che tipo di interventi? «La pulizia dei pascoli, la trinciatura di terreni incolti, ma anche la semina di particolari essenze al fine del mantenimento di specie che avrebbero difficoltà a trovare cibo, e che altrimenti si sposterebbero altrove e produrrebbero danni. Si tratta ogni anno di circa 30mila euro. Sarà poco, ma si tratta pur sempre di 40/50 interventi affidati a piccoli agricoltori, utili per mantenere una cura adeguata dell’ambiente, secondo gli indirizzi che la legge prevede». Con il passaggio di competenze in materia caccia dalla Provincia di Pavia alla Regione, avvenuta nel 2016, cosa è cambiato concretamente? Volendo trarre un bilancio, dopo due anni, cosa si sente di commentare? «Sicuramente fra i dirigenti degli ATC e i rappresentanti dell’ente superiore c’è stato un decadimento di quelli che erano gli aspetti personali e relazionali. Prima si aveva un contatto diretto con l’assessore e con i funzionari. Ora tutto avviene attraverso un canale di comunicazione informatico, la posta elettronica certificata, che se da un lato lascia sempre traccia di quelli che sono gli argomenti discussi, dall’altro fa smarrire l’aspetto del rapporto umano». A livello normativo, invece? «Dal punto di vista venatorio non è cambiato molto. In questo anno e mezzo la Regione non ha fatto altro che recepire le realtà esistenti nelle varie province e iniziare ad uniformare il più possibile i regolamenti. Si spera che in futuro si possa giungere ad una programmazione adeguata in virtù
«Albergatori e ristoratori, spesso e volentieri, mi confessano di essere grati al movimento creato dalla caccia» di questa conoscenza e confronto con altre realtà, da ognuna delle quali è possibile copiare cosa funziona, e ignorare quello che non funziona». Chiudiamo con un commento sulla diffusione del lupo, che sta aumentando in misura abbastanza consistente la sua presenza sulle colline dell’Oltrepò. «Oggi, da Voghera al Pian dell’Armà, si può avvistare il lupo abbastanza facilmente. A me è capitato due volte, una fra Rivanazzano e Godiasco, e una a Menconico. Il numero è in continua crescita e se ne parla poco, in considerazione del fatto che le problematiche legate a questo canide sono molteplici». Ad esempio?
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«In primis bisogna considerare il controllo dei pascoli in alta montagna, dato che in questo periodo molti pastori portano i propri greggi o mandrie al pascolo. Proprio una settimana fa una delle più importanti aziende del territorio ha deciso di non portare la propria mandria al pascolo, dato che già lo scorso anno ha registrato la perdita di 7 vitelli. Molti contadini e agricoltori sono un po’ spaventati, in quanto se prima si trattava di qualche esemplare singolo, ora si inizia a vedere qualche branco». Cosa rispondere a questi problemi? «Non si parla a sufficienza della loro consistenza numerica, ed è sbagliato. Bisognerebbe iniziare a fare delle analisi, capire qual è l’espansione attuale di questo animale. È ora secondo me di iniziare a parlare di come gestire questa specie, cercando di coinvolgere gli agricoltori, che sono i più interessati dall’argomento». A cosa ricondurre, secondo lei, questo incremento di lupi? «Ho partecipato a un convegno tre anni fa, dove si è parlato anche di questo. Pare sia in evoluzione una migrazione dall’Appennino più a sud. La Commissione Europea ha finanziato un ‘‘progetto lupo’’ con Regione Lombardia, sicuramente c’è un interesse su questo tema. Ma non so fin quanto possa essere stata prevista l’attuale espansione, il radicarsi in un territorio che prima era più aperto, lavorato e pulito, mentre oggi offre caratteristiche forse più adatte all’ambientamento». di Pier Luigi Feltri
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«Recuperiamo lo spirito di aggregazione attraverso la scrittura»
Imparare a stare insieme passa anche attraverso la redazione di un giornalino scolastico. Ne è convinta Angela Sclavi, dirigente scolastico del complesso di Casteggio e Torrazza Coste al suo primo mandato, che ci racconta come questa attività abbia contribuito ad aggregare i ragazzi delle due scuole, insegnando loro il valore della condivisione e del fare gruppo. Preside Sclavi, come è nato questo progetto? «è nato per stimolare la creatività dei ragazzi e anche come momento di aggregazione. Noi abbiamo due sedi di scuola media, a Casteggio e a Torrazza Coste, ed è stato anche il momento di far incontrare i ragazzi delle due sedi, per condividere qualche cosa insieme. In effetti tante volte si fanno attività in un sede e non nell’altra, invece con il giornalino è stato diverso. Abbiamo stimolato la voglia di scrivere, perché noi puntiamo sull’acquisizione e il rinforzo delle competenze di base di italiano, matematica e lingue straniere e quindi per quanto riguarda l’aspetto della scrittura creativa è stata davvero una bella opportunità». I ragazzi con il giornalino hanno potuto sperimentare stili diversi? «Sì, si sono cimentati con produzioni diverse, dall’intervista al racconto, alla ricetta, fino alla cronaca di una partita… sono modi per esplorare le diverse forme di testo, di riflettere, di progettare il giornalino vero e proprio, di capire quante parole servono per un certo articolo, quante righe servono per raccontare un argomento… Abbiamo quindi raccolto le adesioni e abbiamo iniziato. Per noi la difficoltà delle attività pomeridiane è sempre quella di poter garantire il servizio di assistenza alla mensa e il trasporto, però devo dire che pur avendo lavorato nella sede di Casteggio, i ragazzi di Torrazza si sono organizzati molto bene, anche con attività online, lavorando a distanza e scambiandosi mail con gli articoli».
«I ragazzi oggi si sentono soli e non capiti. Grazie al giornalino scolastico abbiamo creato una felice collaborazione»
Angela Scavi, dirigente dell’Istituto Comprensivo di Casteggio
I docenti si sono dimostrati soddisfatti? «Sì, alcuni di loro hanno progettato le attività con i ragazzi, li hanno tutorati e accompagnati, sia come sorveglianza sia come capacità di stesura e progettazione del giornale. I docenti di Lettere hanno dato supporto sulle diverse tipologie di produzione che si potevano adottare, poi c’è stata l’Insegnante di Educazione Artistica che ha fornito un aiuto dal punto di vista grafico. Alla fine c’è stata una specie di gara dove una giuria ha conferito un premio al miglior testo e dedicheremo una pagina del nostro diario scolastico al vincitore, in modo che ci sia questa gratificazione per la miglior produzione scritta». C’è stata un’unica produzione o il giornalino è “uscito” più volte? «è uscito due volte…per quanto riguarda la versione cartacea: a dicembre e a maggio. Ne avevamo stampate un po’ di copie a gennaio in occasione degli open day scolastici. Poi è presente sul sito della scuola». Gli argomenti sono stati definiti dagli alunni stessi? «Sì. Guardando l’ultimo numero uscito si può vedere che i ragazzi hanno fatto degli articoli sulla gita a Venezia, sulla pallavolo di Casteggio, sull’associazione per la lotta alla distrofia muscolare, sull’era dei videogiochi, sulla premiazione del concorso fotografico, sulle forme di discriminazione e un’intervista alla psicologa della scuola». Il giornalino che classi ha riguardato? «Tutte le classi. Era aperto a chiunque volesse cimentarsi in questa attività. Devo dire che hanno aderito maggiormente gli alunni delle classi seconde, perchè cominciando all’inizio dell’anno scolastico le classi prime erano ancora un po’ nella fase di passaggio dalle elementari e le terze hanno anche tanti altri impegni, oltre che la preparazione agli esami. Le classi seconde hanno portato avanti molto bene l’iniziativa e hanno seguito
da raggiungere insieme. Penso, oltre alla anche i lavori del Consiglio Comunale dei scrittura, alle attività sportive, a quelle del Ragazzi: è stato un lavoro simpatico percoro e del teatro, a quella della musicoteché non è stato limitato solo al giornalino rapia… sono tutte attività che permettono in se per se, ma è stato anche un modo di di lavorare in squadra e rispettarsi reciprodocumentare le attività della scuola e ancamente». che di far sapere ai ragazzi che vivono in Come valuta la sua scuola oggi? una grande comunità di 1200 alunni di che «Diciamo che a Casteggio problemi particosa si occupa la scuola nelle sue varie inicolari, soprattutto legati alla delinquenza, ziative sul territorio e non». non ne abbiamo. Non ci sono stati episodi è stata la prima esperienza? gravi e puntiamo comunque molto sulla «Qui a Casteggio sì e, visto il risultato, legalità: per questo organizziamo anche contiamo di riproporlo». incontri con i Carabinieri. Purtroppo è I ragazzi come hanno vissuto questa crescente nei ragazzi una forma di disagio esperienza? legata alla presunta incapacità di affronta«L’adesione è stata spontanea: tutte le volre la crescita e il futuro, una forma di inate che facciamo la proposta di un’attività deguatezza. Si sentono soli e non capiti. pomeridiana chiediamo l’autorizzazione Questo può portare a situazioni di disagio alle famiglie e di conseguenza sappiamo e di difficoltà che ci sono un po’ in tutte le che nel corso dell’anno potrebbe anche esscuole: abbiamo quindi sempre un rapporserci una revoca di questa autorizzazione. to di collaborazione con esperti del settore Invece abbiamo avuto fino alla fine un e un supporto psicologico che ai ragazzi fa buon numero di ragazzi e sono stati veraun gran bene, perché riescono a confidarsi mente bravi nell’autogestione delle attivied a esprimere i loro momenti particolari». tà, con naturalmente il sostegno dei docenti che non manca mai perché un minimo di di Elisa Ajelli moderazione ci vuole, e hanno portato a termine il progetto con successo: questo a Redazione composta da: Bardone mio avviso è la cosa più importante, parGaia, Bonferoni Jacopo, Contardi tire da zero, avere un’idea e riuscire a non Celeste, Dentellini Luca, Gramegna farla naufragare direi che gratifica sopratMatteo, Marchetti Tommaso, Mariatutto a questa età». ni Carolina, Parisotto Gaia, PorcelIl piacere della scrittura è quindi molto lana Lorenzo, Rainone Giulia, Rossi sentito dai suoi studenti… Alessandra, Rovati Matteo, Steffenini «Devo proprio dire di sì. Oltre a questa atAndrea. tività del giornalino, i ragazzi hanno partecipato anche al concorso di scrittura del Foscolo, rivolto agli alunni delle scuole medie di tutta la Provincia, e alcuni hanno anche vinto la gita premio. E poi abbiamo partecipato al concorso per giovani scrittori di Portalbera e anche in questo caso molti nostri studenti sono stati premiati». Soprattutto al giorno d’oggi in cui la tecnologia ha un ruolo dominante, le sue parole su questi giovani sono molto importanti. «C’è anche il desiderio della scuola di mettere in comunicazione i ragazzi facendoli ragionare su sentimenti di aggregazione: ogni attività pomeridiana che si fa, quindi, è per noi un veicolo molto importante ed è finalizzata a creare la comunità, a dare La redazione del giornalino scolastico un obiettivo comune “Detto tra i Banchi”
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AB Mauri: «Per ora l’assessore Mussi sembra aver difeso solo una cosa: l’inquinamento» Prima un blog, poi una pagina facebook, tutto per lanciare un unico messaggio: “Casteggio è più viva che mai”. L’idea è del comitato cittadino “Casteggio Viva” e Stefano Poggi, vicesegretario della circoscrizione Oltrepò della Lega, è il principale promotore di questa iniziativa. Poggi, dato che esiste già un blog che riguarda la città casteggiana, come mai avete sentito il bisogno di aprirne un altro? «Volevamo un blog che, a differenza dell’altro, desse la possibilità di pubblicare a chiunque qualsiasi cosa, senza filtro. Si è voluta dare la possibilità di commentare senza tagli su qualsiasi argomento che naturalmente può spaziare in qualsiasi settore. In pratica è proprio l’antitesi dell’altro blog che già c’era». Oltre a lei, Stefano, chi ha partecipato? «Io ho dato la spinta: era una cosa di cui si parlava da tanto tempo e non ci si decideva mai. Poi mi sono venuti in mente i discorsi che facevo con il mio amico Marco Massone, persona scomparsa anni fa e che ha sempre combattuto per la libertà d’espressione. Era un uomo conosciutissimo e si interfacciava con qualsiasi idea: una mattina mi sono svegliato, ho guardato una sua foto e mi sono detto che dovevamo assolutamente fare qualcosa, ne avevamo parlato tanto ed era arrivato il momento di agire. Mi sono quindi mosso per vedere se c’era qualcuno intenzionato a collaborare con me». Quando siete partiti ufficialmente con questo blog? «Da inizio giugno». Anche se è visibile da pochi giorni, il mondo di internet è molto immediato. Come pensa che stia andando il blog? «È difficile parlare di un progetto come questo a distanza di pochissimo tempo dalla nascita e stiamo ancora diffondendo la sua esistenza, in modo tale che la gente possa scrivere su questo blog. In poche settimane di operatività non si può pensare che il riscontro sia così immediato. Però un minimo di coinvolgimento si sente già ed è apprezzato. C’è anche qualche attività commerciale che ha dato la propria disponibilità per esporre la locandina del nostro blog e farlo così conoscere un pò di più. Stiamo vedendo se il neonato si trasforma in cucciolo e quanto ci mette a camminare». Il blog si sta occupando anche della questione “odori sgradevoli”. Ci può dire qualcosa in merito? «L’argomento era chiaramente da affrontare. Anni di puzza, mesi di agonia per i casteggiani soffocati da aria irrespirabile e chi ci doveva tutelare è stato totalmente assente. Anzi forse più precisamente, presente a difendere l’inquinamento. Inizialmente in paese abbiamo trovato una situazione un po’ strana con parecchie lamentele, ma
“Casteggio Viva”, nato il blog senza filtri alla fine con poca gente pronta a esporsi personalmente nella protesta. La Lega ha rotto il ghiaccio e messo in campo puntuali osservazioni e grande impegno e coraggio. È stato così possibile mettere in moto la campagna di protesta e sensibilizzazione che va al di là delle appartenenze politiche». Nello specifico cosa avete fatto? «Abbiamo esposto striscioni rigorosamente apartitici con la scritta “Basta puzza” con i colori gialloblù del nostro paese senza alcun simbolo politico. Abbiamo condiviso l’esposizione con i cittadini senza obbligarli ad esporsi politicamente e dato l’opportunità di una raccolta firme per la quale non abbiamo esposto alcun simbolo così da coinvolgere la popolazione a partecipare. È stato importante incontrare i concittadini e scambiarsi informazioni e idee. Indipendentemente dai livelli di puzza è improrogabile un adeguamento ai livelli di rispetto ambientale. Ci troviamo con il Coppa trasformato in una discarica dove vengono conclamatamene riversati ammoniaca, nitrati, nitriti e fosforo, sperando che non ci sia altro. Aria e acqua dovranno essere oggetto di controlli seri, indipendenti e puntuali. Alla fabbrica dovrà finalmente essere imposto un rigoroso rispetto delle regole. Tutto questo non significa chie-
Furti in paese: «Vigo e Guerci sono andati in maniera vergognosa ad attaccare il cappello su una vicenda dove loro non hanno fatto assolutamente nulla»
Stefano Poggi, Vicesegretario di Circoscrizione Oltrepò della Lega derne la chiusura ma esclusivamente cambiare radicalmente il comportamento di chi sta sfruttando risorse e suolo senza rispetto per arrivare ad un adeguamento che tenga in forte considerazione la qualità della vita a Casteggio. È arrivato il momento in cui l’azienda deve per forza investire per rispettare il luogo dov’è ubicata e la sua gente e gli stessi lavoratori. Di fronte a questa esigenza non è più il tempo di sostenere ricatti occupazionali e di utilizzare i lavoratori come merce di scambio. I posti di lavoro non c’entrano nulla con il rispetto ambientale altrimenti si tratterebbe solo di un falso alibi per dismettere o delocalizzare. Se tutte le altre partite iva casteggiane, di qualsiasi entità, non rispettassero le prescrizioni ambientali come finiremmo?» Secondo lei l’Amministrazione ha fatto poco? «Finora l’amministrazione, in particolare nella figura dell’assessore Mussi in carica da ben nove anni, non ha mai tentato di far valere gli interessi dei cittadini, tantomeno ha vigilato sul rispetto della convenzione sottoscritta dalla ditta AB Mauri». E adesso? «Si va verso una conferenza dei Servizi dove, a seguito dell’attenzione focalizzata dal movimento di protesta “Basta puzza”, finalmente anche a livello provinciale inizierà a muoversi qualcosa. Noi vigileremo. Per ora l’assessore Mussi sembra aver difeso solo una cosa: l’inquinamento. Per l’incontro che si terrà a breve ho anche chiesto all’Onorevole Elena Lucchini, appena insediata come capogruppo Lega in commissione parlamentare Ambiente, un incontro urgente per l’emergenza ambientale di Casteggio e lei ha dato disponibilità tempestiva all’incontro. Ristabilire le condizioni ambientali migliori a Casteggio potrà essere anche un buon inizio per sviluppare iniziative di tipo intrattenitivo e turistiche, le quali potrebbero porta-
re qualche nuova opportunità di lavoro per i residenti. Ricordo inoltre che la popolazione, oltre al disagio, sta pagando pesantemente a causa della puzza la svalutazione delle case, altre aziende faticano ad operare e perdono clienti. Nel frattempo i casteggiani hanno pagato profumatamente (lo dico con sarcasmo) i contributi per la depurazione. Non ci può essere una parte che ottiene tutto e l’altra niente!» Altro argomento molto caldo a Casteggio è la questione furti e le recenti indagini che hanno portato all’arresto di parecchie persone e soprattutto al nome di un insospettabile cittadino coinvolto. «Quello che noi sosteniamo è che ci sono le indagini e sembra inutile commentare a voce ancora in movimento e tutto che si deve ancora sviluppare. Le notizie arrivano a rate da stampa e social… e forse è meglio prima capire realmente cosa è successo per non fare torti a nessuno. L’elemento sconvolgente è che ci sia una complicità all’interno del paese, però c’è anche da dire che la maggior parte delle persone che facevano parte di queste bande stavano terrorizzando non solo Casteggio ma anche altri luoghi. La cosa che più ci ha colpito però è stato il comportamento dell’amministrazione, soprattutto per quanto riguarda le dichiarazioni del Vicesindaco Vigo e dell’Assessore Guerci: sono andati in maniera vergognosa ad attaccare il cappello su una vicenda dove loro non hanno fatto assolutamente nulla, sono riusciti a mettere la vigilanza a pagamento che passa una volta ogni tanto solo nei siti di proprietà del comune e adesso mettono il cappello sull’operato delle forze dell’ordine, che è stato notevolissimo. Penso che abbiano fatto passare un messaggio scorretto». di Elisa Ajelli
“C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò” DI GIULIANO CEREGHINI
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Il giorno della festa patronale: gigantesche tavolate erano governate dal buon umore e dall’amicizia Giuliano Cereghini, ha passato una vita “suo malgrado” tra i numeri, laureato in Economia e Commercio ha svolto il ruolo di segretario comunale per 42 anni in molti comuni dell’Oltrepò concludendo la sua carriera in quel di Casteggio. Originario di Sant’Eusebio, frazione di Fortunago, con la pensione come spesso accade, si è potuto dedicare alla sua passione: la scrittura. La sua prima pubblicazione nel 2005, “La Campana d’oro di Monte Pico”, una favo-
la rivisitata ripresa poi l’anno scorso con la pubblicazione de “Il Signore di Monte Pico”, libro in cui la favola diventa realtà e dove racconta di Luciano Tamini, imprenditore milanese recentemente scomparso e proprietario dell’intera collina di Monte Pico nel comune di Fortunago. Cereghini non è nuovo a studi e approfondimenti incentrati sui costumi e le tradizioni del territorio oltrepadano, nel 2011 con “L’ Avventura del Salame” consacra questa sua
IL GIORNO DELLA FESTA PATRONALE
Sessanta anni or sono, gli anni del primo dopoguerra erano poverissimi, da un punto di vista economico ma eccezionalmente produttivi, esuberanti e briosi per giovani ed anziani che, in modi diversi, avevano vissuto momenti tragici e difficilissimi. Ad onor del vero anche in tempo di guerra la festa patronale aveva mantenuto un certo fascino ma i tempi grami e l’indigenza avevano soffocato entusiasmi e voglia di divertirsi. La guerra, con l’aiuto di Dio e i cannoni americani, era ormai un triste ricordo sempre più sfumato dal tempo e dalla voglia di vivere che lasciavano spazio, ad una normalità inconsueta ma piacevolissima. La festa patronale iniziava la settimana prima e terminava diversi giorni dopo la data fatidica; si cominciava con il parlarne e quindi, secondo le diverse responsabilità, ad attuare programmi e strategie per realizzare avvenimenti e manifestazioni uniche e sempre più coinvolgenti per i compaesani, per gli amici e per gli invitati. Oggi aderiamo con sufficienza o addirittura con fastidio ad eventuali inviti a ricorrenze o feste, allora si faceva a gara per essere scelti tra i familiari che avrebbero goduto del privilegio. Se l’invito proveniva da parenti stretti, sicuramente coinvolgeva un adulto rappresentativo della famiglia ed i giovani che per età e desiderio di ballare, erano i più pronti ad accoglierlo con entusiasmo; difficilmente riguardava donne e bambini, immancabilmente presenti in famiglia in numero tale da costituire un indubbio impedimento ad una serena e spensierata partecipazione. Raramente l’arrivo dei parenti avveniva il sabato antecedente i festeggiamenti, era invece immancabile nella mattinata della domenica. Per la verità nelle prime ore della mattinata, per evitare le ore calde della giornata che, per gente che si spostava quasi esclusivamente a piedi, rappresentavano un ulteriore sofferenza da sommersi alla fatica. A S.Eusebio di Montepico si festeggiava e si festeggia ancora la patrona il ventisei del mese di luglio, S.Anna. è una delle prime feste patronali estive di paesi eminentemente agricoli che tendevano a scegliere santi in periodi dell’anno privi di lavori urgenti ed indifferibili. I primi parenti arrivavano a piedi verso le otto del mattino; con la giacca sull’avambraccio e passo spedito, gli invitati giungevano in vista del paese dalle colline a sud e a nord dell’abitato e con il sorriso sulle labbra, cercavano da lontano la casa del parente e, se fortunati, lo stesso intento a governare le bestie o ad assestare gli ultimi colpi di saggina ad un cortile già tirato a lucido nei giorni precedenti. Successivamente lo sguardo correva a scrutare il tendone sotto il quale nelle serate di domenica e di lunedì, si sarebbe danzato sino a tarda ora. “Al baracön”, così era denominato in dialetto quel complesso di assi, pali, tende, tendoni, corde, cavicchi ed un altissimo pennone o antenna sul quale si sarebbe issato il tendone che avrebbe protetto dall’umidità e da altre eventuali intemperie i ballerini e i curiosi. L’avventura del baracön iniziava diverso tempo prima con una visita al signor Caramella di Casa Inveriaghi per trattare l’affitto del bene ed i giorni d’impiego; il venerdì precedente, con un carro, meglio ancora un rimorchietto trainato da buoi, ci si recava a Casa Inveriaghi o nell’ultimo paese d’impiego, per prelevare quello che Caramella definiva “al mé mòbil”. Si caricava il tutto e, inseguiti dalle raccomandazioni del proprietario che ricordava di non usare accette o chiodi nel montaggio del mobile, lentamente, al passo cadenzato dei buoi, ci si avvicinava al paese accolti dai ragazzi festanti e dagli sguardi e dai commenti bonari dei paesani. Già il venerdì pomeriggio si iniziava a spianare il terreno dove era prevista la posa della struttura nel terreno prospiciente il bar, di proprietà ad Giòl ad Gèpp, si ordinava metodicamente tutto il materiale a disposizione e si iniziavano i primi lavori sospesi ad ora tarda per essere ripresi il mattino seguente. Il sabato attorno alla struttura del ballo pubblico era tutto un fervore di giovani intenti a lavorare, di sfaticati curiosi e prodighi di consigli spesso mal accolti, di bambini e ragazzi eccitati e festosi, di offerte disinteressate di bottiglie di buon vino e di sguardi furtivi delle ragazze di passaggio sorprese a sognar su quelle tavole, incontri galanti tenerissimi. Nel tardo pomeriggio la struttura era ultimata e veniva attinta da abbondanti annaffi d’acqua ripetuti e metodici, per permettere alle tavole di legno di aderire l’una all’altra; ormai mancava solo l’orchestra o per meglio dire mancavano solo i suonatori: due o tre personaggi, raramente professionisti, che per due serate avrebbero allietato giovani ed anziani, con valzer, tanghi, mazurche, gighe e monferrine, danzate con una grazia e con una perizia
voglia di parlare di Oltrepò, per non perdere le tradizioni e i ricordi ad essa legati, con un occhio di riguardo al dialetto. “C’era una volta l’Oltrepò” è una raccolta inedita di vita vissuta di un Cereghini ragazzo, intorno agli anni ‘50, in cui l’autore fotografa gli aspetti più evocativi di un Oltrepò che non c’è più, 24 racconti che proponiamo ai nostri lettori una volta al mese, per le “vecchie” generazioni per ricordare e sorridere e per quelle “nuove”, per stupirsi.
Giuliano Cereghini
che le odierne scuole di ballo non riescono più a trasferire agli apprendisti. La domenica mattina era febbrilmente vissuta dalle giovani intente a sistemare e ad indossare l’abito nuovo, spesso unico nell’anno. Le donne di casa, affannate tra la cucina e la preparazione della tavola che sfoggiava la tovaglia ricamata e la miglior posateria, non perdevano occasione per richiamare all’ordine i più giovani che spesso, erano pervasi da una inspiegabile euforia che li accompagnava a comportamenti sciocchi ed ingiustificati non disdegnando, all’occasione, di usare metodi che questa dotta ed evoluta società condanna con sussiego. Giungeva l’ora della messa e delle velate rampogne del parroco che durante l’ omelia, non perdeva occasione, davanti a una platea traboccante di gente, di dubitare della fede disinteressata dei numerosissimi presenti insinuando oscure volontà esibizionistiche da parte delle donne, che sfoggiavano il vestito nuovo e perfide volontà concupiscenti da parti dei maschietti ; in tal modo perdendo eventuali future potenziali pecorelle. Alla fine della messa il reverendo padre si soffermava volentieri con parrocchiani e non che, anche per i motivi sopra richiamati, non vedeva spesso. Il ritorno a casa era lesto e puntuale: era il momento per grandi e piccini del vero inizio della festa con pantagrueliche e numerosissime portate vanto delle donne di casa che esibivano tutta loro maestria ed abilità. Coppe, salami, risotti, ravioli, brasati e monumentali polli arrosto, si sacrificavano a palati e stomaci non ancora inquinati dalle diavolerie degli anni a seguire e da ossessive diete o ipotesi di diete. Ed ancora frutta di stagione, pasticcini e torte annaffiate con moscati o cortesi di produzione propria che, con il salame, erano orgogliosamente esibiti dal padrone di casa che si scherniva ai complimenti della parentela. Si mangiava con sano appetito, si beveva senza preoccuparsi di perdere punti di una patente che ancora pochissimi avevano o per guidare autovetture che nessuno aveva; queste gigantesche tavolate erano governate dal buonumore, dall’amicizia e da una compressione umana che il tempo ha provveduto mutare e a sfumare nei comportamenti odierni. Il pranzo non si ultimava prima delle sedici ora in cui, i più giovani, lasciavano il desco per una passeggiata in paese dove spesso, erano presenti povere bancarelle di dolciumi, angurie affettate o gelatai con il classico mezzo a tre ruote a pedali, gioia segreta di tutti i bimbi. Raramente paesi così piccoli erano scelti da giostre o bancarelle più impegnative anche se a volte si verificava; sempre presente era invece un tavolinetto dove si giocava a soldi con dadi speciali. In dialetto si definiva il gioco dell’ “ancüla” forse perché una faccia dei dadi riportava un’ancora o forse per altri motivi: quello che invece e’ certo che i pochi che potevano permettersi qualche giocata regolarmente perdevano maledicendo la sfortuna e non la propria dabbenaggine. Il pomeriggio scorreva in allegria spesso progettando la serata di balli e incontri favolosi sino alle venti ora prevista per la cena che, a parole avrebbe dovuto esser un brodino, un frutto e una fetta di torta, nei fatti era simile al pranzo. L’unica nota di novità era rappresentata dalla fretta dei giovani che non intendevano perdere neppure un ballo. Verso le ventuno partivano a razzo destinazione baracön. Confusione enorme per gente non avvezza a gestire avvenimenti di tale portata ma finalmente luci, suoni, belle ragazze, balli scatenati, qualche delusione o rifiuto di danzare ma complessivamente divertimento assicurato. A casa le donne anziane rassettavano e gli uomini bevevano. Ho assistito personalmente al rifiuto di scendere in cantina per l’ennesima volta, da parte di una povera donna che faceva notare ad una balda tavolata di una decina di persone, che sul tavolo davanti a loro erano allineate una trentina di bottiglie desolatamente vuote. Ci si ritirava a tarda ora dopo aver sistemato, a volte anche sul fienile, parenti e amici, che in parte si trattenevano anche il lunedì . Qualche ragazza o qualche ragazzo rimaneva anche settimane presso i parenti con soddisfazione di tutti e la possibilità di coltivare conoscenze ed amicizie nate nella ricordata “sala da ballo”. I riti del lunedì della festa iniziavano con una Santa Messa a suffragio di tutti i deceduti del paese, continuava con abbuffi e libagioni e si concludeva con il ballo della serata. I commiati da parenti e amici erano lunghi, affettuosi e suggellati da squillanti bacioni che si udivano a distanza. Questo era il mondo contadino di tanti anni orsono: semplice, ingenuo e sincero ma genuinamente vero e fatalista. “Al baracön” il tendone sotto il quale si danzava “Al mé mòbil” il mio mobile “Ancüla” gioco d’azzardo
di Giuliano Cereghini
BRESSANA XXXXXXXX BOTTARONE
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Bressana: i genitori del Comitato sul piede di guerra È attivo, in Bressana Bottarone, un sodalizio formatosi spontaneamente fra alcuni genitori, i quali si dedicano a osservare e segnalare alle autorità competenti le criticità che, quotidianamente, osservano negli ambienti vissuti ed utilizzati dai loro figli. Si tratta del Comitato Benessere Bimbi e Giovani, presieduto da Monica Sacco, in passato consigliera comunale e assessore a San Martino Siccomario. Di cosa si occupa il Comitato? «Il Comitato Benessere Bimbi e Giovani esiste sul territorio da un anno e mezzo, ed è riferito a Bressana Bottarone. Si occupa delle problematiche vigenti sul nostro territorio, partendo da un discorso prettamente scolastico, quindi dai problemi legati ai giovani e alla scuola, ma ci stiamo allargando un po’ a quanto riguarda il disordine generale del nostro paese». Chi ne fa parte? «Da alcuni genitori di ragazzi frequentanti le scuole a Bressana». Qual è stata la ragione che vi ha portato a fondare questo comitato? «Il primo problema che ci ha visti impegnati è stato un caso di scabbia registrato, nel 2017, all’interno del plesso scolastico. Non ci ha infastiditi tanto la scabbia in sé, quanto la non comunicazione e il non intervento degli organi preposti per trovare una soluzione. Siamo venuti a conoscenza di questo problema per puro caso». Cosa è stato fatto per affrontare questo problema? «È stata realizzata una pseudo-disinfezione a distanza di un mese da quando il problema si è presentato, quindi con un forte ritardo. Il caso, in realtà, è stato superato solo grazie alla fine dell’anno scolastico, sopraggiunta nel frattempo». Con quali temi avete proseguito il vostro impegno? «In seguito abbiamo affrontato il problema del parco di via Cinque Martiri, della pista da skateboard realizzata dall’Amministrazione comunale». Che problema avete riscontrato? «Innanzi tutto questa struttura è obsoleta. È stata realizzata soltanto lo scorso anno, ma senza ascoltare le esigenze dei ragazzi, che avevano richiesto una pista per skate e bike. La pista però è stata resa adatta solo per lo skate, anche perché è veramente piccola. In più, è stata posizionata all’interno di un parchetto frequentato anche da bimbi piccoli, e senza alcuna divisione degli spazi. Così, gli skater non possono farne uso nel pomeriggio perché i bambini si avvicinano incuriositi, mettendosi in pericolo. E finiscono per utilizzarla nelle ore serali, creando tuttavia disturbo ai residenti. Si trova infatti in una zona residenziale». Cosa avete proposto? «Una persona residente in loco ha promosso una raccolta firme per promuovere la chiusura del parco nelle ore serali e, a tal
fine, ha chiesto anche il nostro aiuto.» Ha funzionato? «Ora il parco viene chiuso nelle ore serali. È stato messo un cancello con apertura regolata elettronicamente. Questa è stata, in pratica, l’unica volta in cui ci è stata dedicata attenzione.» Il problema però non è risolto, se si è soltanto limitato l’orario di accesso. Qual è la soluzione? «Bisognerebbe realizzarla altrove. Hanno detto verrà spostata nel parco urbano di prossima apertura. Stiamo quindi aspettando ancora una soluzione». Parliamo invece dei problemi più generali della scuola. C’è stato qualche altro episodio, oltre alla scabbia, degno di menzione? «Nella primavera 2017, durante una mattinata di lezioni, è stata avvertita una scossa all’interno della scuola elementare. Subito si è gridato al terremoto. Si è poi scoperta essere una semplice vibrazione causata da un grosso mezzo transitato sul dosso artificiale situato sulla strada al fianco della struttura. Sono stati evacuati i bimbi, con un grande spavento per tutti, ma si è creato un grande clamore per nulla. La colpa dell’Amministrazione sta nell’aver creato questi dossi poco conformi alle reali necessità viabilistiche». Avete segnalato, inoltre, alcuni problemi relativi alla palestra scolastica… «La palestra è stata data in gestione a una società, quindi si svolgono attività sportive private nel pomeriggio; mentre viene utilizzata dalla scuola al mattino. È sporca e mal tenuta. I problemi sono tantissimi. Ci sono griglie sollevate, pericolosissime se qualcuno dovesse inciampare; due macchinari per la pulizia sono rotti; il sistema di aerazione è ostruito dalle polveri».
«Noi abbiamo incontrato più volte gli assessori preposti, Naso e Mangiarotti. Ci danno ragione, ci dicono che si impegneranno, ma non si riesce mai a trovare delle soluzioni. Siamo sconfortati, amareggiati»
Avete portato, anche in questo caso, qualche proposta? «L’anno scorso, come comitato, avevamo suggerito di far eseguire da un’impresa specializzata una pulizia generale almeno due volte all’anno. Di procedere quindi con una disinfezione, e di dotare il personale addetto alla pulizia ordinaria delle strumentazioni necessarie, facendo almeno riparare uno dei due macchinari rotti. L’operatrice addetta alle pulizie è dotata soltanto di scopa e paletta: i miracoli non li può fare. Anche la pavimentazione è rotta a tratti ed è molto sporca, e presenta una certa varietà di detriti anche piccolo volume che possono creare problemi respiratori». C’è stato qualche caso? «Un bimbo è stato male: ha avuto una forte crisi allergica. L’episodio si è ripetuto in una seconda occasione. Entrambe le volte è stato portato al Pronto Soccorso; il problema riscontrato è dipeso proprio dall’esposizione a una grande quantità di polveri. Dopo il primo evento l’assessore preposto aveva promesso che si sarebbe interessata per aumentare le ore al personale preposto alla pulizia, e che stava facendo fare i preventivi per un macchinario nuovo. È passato un anno e non se ne è più saputo niente. E non dimentichiamo i problemi relativi alla struttura». A quali criticità fa riferimento? «Griglie di scolo sollevate e fuori sede all’interno dei bagni; porte rotte; impianto elettrico da rivedere, per esempio una presa è fissata alla parete con del nastro adesivo e quindi è pericolosa; termosifoni arrugginiti. È la stessa incuria che si registra anche nel resto del paese. Basti pensare che invece di tagliare l’erba lungo le strade si preferisce dare il diserbante: i residui non vengono tolti e così resta l’erba tagliata, secca, sulla strada. Dopo aver utilizzato un prodotto magari anche tossico». Esiste un dialogo con gli enti competenti? «Noi abbiamo incontrato più volte gli assessori preposti, Naso e Mangiarotti. Ci danno ragione, ci dicono che si impegneranno, ma non si riesce mai a trovare delle soluzioni. Siamo sconfortati, amareggiati». A proposito di strutture di interesse anche (ma non solo) del mondo giovanile, cosa può dire a proposito della pista ciclopedonale? Un anno fa, sulle nostre pagine, il consigliere di opposizione Filippo Droschi aveva segnalato un errore di progettazione, ed erano state necessarie modifiche importanti… «La pista ciclabile doveva essere il fiore all’occhiello dell’Amministrazione. All’inizio era stata pensata e realizzata come ciclopedonale, poi dopo un parere del Ministero relativo al Codice Stradale, e date le misure della stessa, si è scoperto che poteva essere o solo pedonale, o solo ciclabile. Un investimento fatto con legge-
Monica Sacco, del Comitato Benessere Bimbi e Giovani
rezza, quindi. Adesso la pista è solo ciclabile, ma moltissime persone continuano a percorrerla anche a piedi. Come Comitato potremmo proporre di consultare con più attenzione i cittadini affinché siano essi a determinarne l’uso finale. Una buona Amministrazione dovrebbe ascoltare e confrontarsi con la popolazione, cercando di lavorare con il buon senso». I temi che le stanno a cuore riguardano anche temi non propriamente riferiti all’ambiente giovanile. Cos’altro richiederebbe, secondo lei, un maggiore coinvolgimento della popolazione nei processi decisionali? «C’è malcontento per quanto riguarda la raccolta differenziata: andrebbe gestita diversamente. Siamo d’accordo sulla necessità di incrementare le percentuali di raccolta, ma con criterio. Prendendo esempio o confrontandosi con altri paesi virtuosi. Un’ipotesi potrebbe essere quella che sta vagliando Voghera. Andrebbe rivista anche la raccolta del ‘‘verde’’». In che termini? «Il martedì passa la raccolta porta a porta, e ci sono regole che richiedono molta attenzione. Durante l’autunno la situazione è insostenibile, con le foglie da smaltire. Le quantità sono troppo elevate. Almeno la raccolta del verde dovrebbe prevedere dei cassonetti dove poter sversare secondo necessità. Si risparmierebbe anche un giro di raccolta, e quindi si avrebbe una spesa minore». La raccolta delle restanti frazioni avviene in modo soddisfacente? «Tutto quello che non si può differenziare, penso a piccoli oggetti come una sedia, deve essere caricato in macchina e portato in discarica. In un paese piccolo come Sommo, non distante da qui, una volta al mese passa una raccolta straordinaria per questi rifiuti. Qui ciò avviene solo per i rifiuti ingombranti. È troppo limitante». Ha pensato di candidarsi alle prossime elezioni, e di mettere quindi al servizio di Bressana, suo comune di residenza, data anche la sua esperienza amministrativa? «Non ho ricevuto proposte in merito, ma in linea generale potrei essere ben disposta a mettermi in gioco per il paese dove vivo, purché il fine ultimo del gruppo di candidati sia orientato al bene collettivo ed al buon senso». di Pier Luigi Feltri
LA “NOSTRA” CUCINA
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Cheap but chic: piatti golosi e d’immagine al costo massimo di 3 euro!
Le ciliegie sono il frutto tipico della primavera avanzata e della prima parte dell’estate: le troviamo infatti sui banchi del fruttivendolo già a partire da fine maggio e alcune varietà arrivano anche fino a metà luglio. Sulla bontà delle ciliegie c’è ben poco da questionare, in più si tratta di un frutto super salutare, povero di zuccheri e con tante proprietà benefiche. Per cominciare, le ciliegie sono ricche di vitamina C e A che aiutano a proteggere la vista e contribuiscono al buon funzionamento delle difese immunitarie. Contengono inoltre acido folico, calcio, potassio, magnesio, fosforo e flavonoidi, sostanze importanti per la lotta ai radicali liberi. Depurative, disintossicanti, diuretiche e antireumatiche, oltre a divorarle in stile una tira l’altra, le ciliegie si prestano a una serie di preparazioni super golose. Soprattutto se ne avete molte, o se magari avete la gran fortuna di avere un albero di ciliegie in giardino, potete sfruttarle facendone una marmellata oppure mettendole sotto sciroppo, o ancora sotto zucchero, per poi consumarle con comodo durante il resto dell’anno. Le ciliegie poi, si prestano ovviamen-
te a una marea di ricette di dolci e - chi l’avrebbe mai detto? - anche ad alcune ricette salate come quella semplicissima e golosa che vi propongo questo mese, in abbinamento alla crescenza, un formaggio fresco e leggero. Potete utilizzare questa ricetta per una colazione chic, per un fine pasto al posto dei soliti formaggi oppure per una merenda in giardino. Come si preparano Prima di tutto laviamo le ciliegie, togliamo il picciolo e, con l’apposito strumento o utilizzando un coltellino, le denoccioliamo. Finita l’operazione, le tagliamo a metà e le mettiamo in una ciotolina. Prendiamo la crescenza, la mettiamo in un piatto e la mescoliamo bene con una forchetta. Prepariamo ora una sac à poche e la riempiamo con la crescenza ben amalgamata. Utilizzando un coltello, tritiamo finemente alcune foglioline di basilico e origano ed in fine sbricioliamo grossolanamente i nostri taralli che formeranno la parte croccante della ricetta. Siamo pronti per assemblare gli ingredienti. Prendiamo due bicchieri larghi e bassi, mettiamo alla base i taralli sbriciolati e, utilizzando la sac à poche, una buona dose di crescenza.
BICCHIERI DI CILIEGIE E CRESCENZA
Gabriella Draghi
Spolverizziamo con il basilico e l’origano tritati e irroriamo con un filo d’olio extravergine d’oliva. A questo punto aggiungiamo le ciliegie che abbiamo preparato. I nostri bicchieri sono pronti per la fresca tavola dell’estate! Buon appetito! YouTube Channel: Cheap but Chic – Facebook Page: Tutte le Tentazioni. di Gabriella Draghi
Ingredienti per 2 persone: 150 g di crescenza o stracchino 20 ciliegie duroni 4 taralli alcune foglioline di basilico e origano freschi olio extravergine d’oliva
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BRONI
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Terre d’Oltrepò: «Portare il fatturato ad un 75% di vino sfuso e ad un 25% di bottiglie» LinkedIn è un servizio web di rete sociale, impiegato principalmente nello sviluppo di contatti professionali, tramite pubblicazione e diffusione del proprio curriculum vitae e nella diffusione di contenuti specifici relativi il mercato del lavoro. La rete di LinkedIn è presente in oltre 200 paesi, si può dire che la stragrande maggioranza dei professionisti e dei manager del mondo ha una propria pagina sul portale di LinkedIn. Anche Marco Stenico, direttore presso Terre d’Oltrepó ha la sua pagina: laureato in Economia all’Università degli Studi di Trento nel 1994, è stato all’inizio della sua carriera responsabile acquisti e gestione magazzino di AICAD di Trento che si occupa di calzature sportive. Dal 1996 al 1998 responsabile vendite ed import sempre di AICAD, poi dal 1998 al 2003 amministratore delegato della società Idea, sempre di Trento, società di comunicazione pubblicitaria, contemporaneamente si è dedicato all’alimentare, e dal 2003 al 2008 è stato direttore commerciale del Salumificio Marsilli di Rovereto, società del Gruppo Arena. Quindi dal 2008 al 2010, un ritorno alle origini, e questo vuol dire che aveva lasciato un buon ricordo professionale, alla società AICAD con Responsabilità Commerciale Italia ed Estero, poi l’approdo professionale nel mondo del vino, come direttore commerciale Italia, dal 2010 al 2017, della Cantina di Soave, una delle più importanti realtà nel settore vitivinicolo italiano presente sia sul mercato nazionale che estero. Nella Cantina di Soave, Stenico era responsabile del mercato italiano sia per il canale moderno che per il canale tradizionale. Nel
gennaio 2017 questo manager trentino, dal curriculum professionale corposo ed invidiabile, arriva in Oltrepò come direttore di Terre d’Oltrepó, società che nasce dall’atto di fusione tra la Cantina Sociale Intercomunale di Broni e la Cantina di Casteggio, diventando così la più importante realtà vitivinicola di tutto l’Oltrepò Pavese e dell’Italia Nord-Occidentale Abbiamo voluto intervistarlo, perchè dopo 18 mesi di permanenza in Oltrepò, ha certamente avuto il modo ed il tempo di conoscere e capire da “trentino” cos’è e com’è il mondo del vino oltrepadano. Direttore, lei ha avuto un’importante esperienza alla Cantina di Soave, com’è l’Oltrepò visto con i suoi occhi? «Ho visto l’Oltrepò alla fine del 2016, i primi approcci mi hanno mostrato un territorio con moltissime opportunità ma sviluppato poco sotto il profilo commerciale. Ad oggi è ancora così, non vedo grossi cambiamenti, ma vedo ancora e fortunatamente quelle grandi opportunità di allora. Speravo onestamente che dopo un anno e mezzo ci fosse più compartecipazione e collaborazione da parte delle varie aziende, capisco che ogni piccola o grande realtà ha le sue esigenze, ma se riuscissimo a trovare quelle esigenze comuni e trasversali a tutto il territorio Oltrepò, potremmo sviluppare molto meglio il mercato e fare tutti insieme una strada importante. Ribadisco, deve essere un obiettivo di tutti, non solo dell’azienda che rappresento». è questo il suo primo obiettivo? «Il mio primo obiettivo è aumentare il valore delle uve e dei prodotti che vendiamo. Dare valore alle bottiglie vendute ma an-
che al vino sfuso». Sotto la sua guida Terre d’Oltrepò sta puntando sulle bottiglie e un po’ meno sullo sfuso. Quali sono i primi risultati
«L’importante è che tutte le cantine vendano con redditività, altrimenti si falsa il mercato» in termini economici? «Diciamo innanzitutto che un’azienda come la Cantina Sociale, che lavora 450mila quintali di uva e produce circa 350mila ettolitri di vino che, se trasformati tutti in bottiglie sarebbero circa 40milioni, non può pensare di abbandonare il vino sfuso. Per noi sono numeri troppo alti per farli in breve tempo e con redditività, per cui il nostro obiettivo è mantenere lo sfu-
so aumentando gradualmente la forbice, bottiglie/sfuso. In termini di fatturato la mission dell’azienda è portare il fatturato ad un 75% di vino sfuso e ad un 25% di bottiglie, in questo modo si aumenterebbe la redditività e si amplierebbe il mercato». In quanto tempo conta di raggiungere questo obiettivo? «Ragionevolmente pensiamo che in 4 o 5 anni possiamo arrivare a vendere 4 o 5 milioni di bottiglie». Si sta anche occupando del brand La Versa, che avete acquisito nel febbraio dell’anno scorso. Quali sono le novità e a che mercati puntate? «Ricalcare in sostanza lo storico della produzione della Cantina, pinot nero, riesling e moscato più un metodo classico. Quello che abbiamo rivisto è un po’ lo stile delle tre tipologie, in particolare puntando a svecchiare le etichette per renderle più attuali e accattivanti. Il nostro obiettivo commerciale è ridare immediatamente valore al marchio La Versa, per cui, in attesa di avere pronto il nuovo prodotto di punta, il “Testa Rossa” metodo classico Docg a base di Pinot Nero, abbiamo deciso di uscire con una linea del 2007, con bottiglie accuratamente selezionate tra le 900mila che abbiamo trovato nel caveau di La Versa dopo l’acquisizione». Come mai avete ritenuto di non creare a La Versa una cantina cooperativa con una sua identità ma avete preferito farne un’unità aziendale di Terre d’Oltrepò? «è stata una scelta strategica per essere più veloci e poter controbattere all’offerta che arrivò da Cantine di Soave».
BRONI XXXXXXXX Quali sono le prospettive del Metodo Classico Oltrepò Pavese DOCG? «Oggi il metodo classico è molto ridotto in Oltrepò pavese, il mio auspicio è che le aziende del territorio decidano di produrlo di più puntando su di esso come prodotto Docg. Oggi vedo più separazione, le strategie commerciali sono più individualiste, mentre la direzione giusta a mio avviso sarebbe quella di puntare sulla denominazione, in modo che il marchio Oltrepò pavese possa farsi conoscere meglio, sul modello del Franciacorta. Ne guadagneremmo tutti». Il bestseller del territorio è ancora il Bonarda. Avete strategie per elevarne il prezzo di mercato? «Il Bonarda è un prodotto ostico per diversi aspetti ed è un vino “da tutti i giorni”, elevarne il prezzo oggi è molto difficile: ci sono circa 9 milioni di bottiglie vendute in grande distribuzione e circa 8 di questi milioni sono venduti sul territorio come vino quotidiano. Non ha attrattiva in altre aree geografiche. Per risollevare il prodotto serve un lungo lavoro di squadra e si può arrivare all’aumento della redditività attraverso una strategia comune nei prossimi 5 o 10 anni, oggi aumentare il prezzo equivarrebbe alla perdita dei consumatori già esistenti. Si può iniziare intanto lavorando sulla qualità del prodotto o quantomeno non scendere sotto un certo livello, ci sono in giro oggi troppe Bonarda che non suono buone». Come fanno i grandi imbottigliatori a uscire anche dopo un’annata scarsa a partire da 2 euro? «Innanzitutto diciamo che la grande distribuzione oggi fa un po’ il bello e cattivo tempo, aiutata da una legge che impedisce ad un’azienda di imporre il prezzo di vendita del proprio prodotto, si può consigliare ma non pretendere che il nostro vino sia venduto ad una determinata cifra. Questo è il primo problema. Secondo aspetto da considerare: possono esserci aziende che, ed è una prassi assolutamente legale, “tagliano” le rimanenze del vino vecchio con il nuovo o che utilizzano le annate vecchie dichiarandole in etichetta quindi già “pagate” in precedenza e a prezzo ridotto. Ci sono molti fattori che regolano il prezzo finale, inoltre spesso le promozioni attuate della grande distribuzione non tengono conto del prezzo d’ acquisto ma del prezzo più appetibile per il consumatore». Ritiene che i piccoli produttori che hanno ritrosie nei confronti di Terre d’Oltrepò sbaglino? «Ritengo che ognuno deve fare il proprio lavoro al meglio e nel modo più redditivo per la propria azienda, è assolutamente normale che cantine differenti abbiano strategie commerciali differenti, l’importante è che tutte le cantine vendano con redditività, altrimenti si falsa il mercato. Terre d’Oltrepò non può permettersi di fare solo bottiglie e venderle a prezzi alti, ma dobbiamo, visti i nostri numeri, soddisfare più livelli di prezzo presenti sul mercato. Dobbiamo offrire una qualità adeguata alla nostra fetta di mercato, che sicuramente non è quella di chi produce 20mila bottiglie l’anno e le può vendere a 10 euro
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Marco Stenico, direttore di Terre d’Oltrepò
l’una, quindi certamente vini di alta qualità ma non solo». La Cantina cosa fa per aiutare il territorio a vendere a valore? «L’investimento che abbiamo fatto per acquisire La Versa e ricominciare a vendere al meglio le sue bottiglie credo sia il miglior sforzo in questa direzione». Il rapporto tra Terre e Cavit è sempre più forte: non c’è il rischio di dipendere troppo dalle scelte trentine? «No, perché intanto la gestione di La Versa è fatta dalla nostra maggioranza che ha il 70%. Abbiamo un rapporto parificato e non riceviamo alcuna pressione. Cavit per Terre Oltrepò è un cliente, importante, ma come tale viene gestito». I soci sono contenti del nuovo corso di Terre in termini di reddito garantito dalle politiche poste in essere? «Oggi paghiamo ancora una vendemmia che non ha giovato delle politiche aziendali attuate. I risultati delle quali si vedranno dopo la prossima vendemmia, quella 2018. Posso però dire che già oggi Terre d’Oltrepò paga le uve ai suoi soci al pari o sopra il valore di mercato». Quali sono le strategie di marketing che
avete programmato per il futuro? «Intensificheremo le attività di comunicazione per renderle più impattanti: eventi in cantina per farla conoscere di più, a clienti ma anche ai soci stessi. Poi spingeremo il brand, con pubblicità sui media del settore per far diffondere i nostri punti vendita. Saremo presenti alle fiere più importanti, sempre spingendo La Versa come premium brand delle bollicine made in Oltrepò». Siete stati criticati per i prezzi bassi a scaffale delle vostre bottiglie con i marchi di Terre d’Oltrepò: obiezioni ingiuste o un fondo di verità c’è ? «Quelle critiche si basano su una promozione del Bonarda che risale all’anno scorso ma che esiste da sempre, e che si ripeteva ogni anno. Chi ci ha criticato è un cliente legato alla vecchia gestione dell’azienda che non aveva mai polemizzato in precedenza, strano». In merito allo scisma territoriale animato da chi pensa che siate ingombranti e portiate avanti politiche per vuotare la cantina a basso prezzo, cosa si sente di dire? «Che non è vero, senza ombra di smentita.
Nel 2017 siamo stati tra quelli che hanno più lottato per vendere il più caro possibile il vino sfuso. Abbiamo rivisto tutti i contratti con i nostri clienti per diminuire le quantità e aumentare i prezzi. Su questo non temo smentita. Chiaro che se ci si aspetta che in quattro e quattr’otto si possano raddoppiare i prezzi non è possibile. Il miglioramento, la crescita, richiede gradualità. Cantina Sociale ha una storia e un posizionamento sul mercato di 40 anni, non si può pretendere di azzerarla e ripartire il giorno dopo. La nostra strategia è di aumentare la redditività dei vini per il bene dei nostri soci, ma ci vuole tempo». Se avesse la bacchetta magica e un desiderio da veder esaudito quale esprimerebbe? «Vorrei un unico Consorzio ben rappresentato, vorrei trovare nel calderone di esigenze che ogni azienda ha individualmente dei punti di accordo trasversali, cercando di colpire il mercato insieme invece di colpirci a vicenda. Insomma “quel vogliamoci più bene “ di cui tanto si dice». di Silvia Colombini
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«Mi piacerebbe fare qualcosa a Broni e insegnare quel poco che so…» Andrea Giorgi, quarantaseienne bronese, è un elettrotecnico che opera nel settore industriale e ha un grandissima passione da sempre: fare piccole e grandi creazioni con il legno. Quando è nata questa sua passione? «Ce l’ho sin da bambino. Ricordo che preferivo giocare con martello e chiodi piuttosto che con altre cose…». Quando ha iniziato a fare le prime opere? «Sono circa cinque anni che mi sono dedicato in modo serio a questa passione che nasce per dare sfogo alle tensioni che si accumulano durante la settimana e poi con la scultura ho trovato il modo di esprimere i miei stati d’animo, i miei sentimenti e quello che a parole non riesco a dire». Le sue prime creazioni cosa rappresentavano? «Ho iniziato facendo delle scatolette di legno. E poi altra cosa che mi piace molto sono i cartoni animati… forse sono rimasto un po’ bambino nell’animo… e da lì sono partite le sculture dedicate agli orologi, nello stile de “La Bella e la Bestia”. Riesco così a sfogare la fantasia, quella non mi manca». Quanto tempo impiega per creare le sue opere? «Dipende… non c’è una tempistica fissa. In base alla complessità e alla finitura che si vuole ottenere i tempi si dilatano. Per fare l’orologio grande, che si vede anche sulla pagina Facebook che ho, ci ho messo quasi un anno. è molto particolareggiato e poi posso dedicare alle mie opere solo il fine settimana in pratica, nei ritagli di tempo…». Per le opere più piccole invece? «Per quelle ho anche creato un’altra pagina social completamente dedicata… si tratta delle pipe artistiche. Ho iniziato a crearle quando ho conosciuto una persona, diventato poi un amico, che le faceva. è nato tutto da quella amicizia. è sempre stato un oggetto che mi appassionava, che viene apprezzato anche da chi non fuma. Faccio pipe artistiche, perché quelle classiche non mi danno soddisfazione: per farne una mi può bastare anche una giornata sola, se non è troppo particolareggiata. Per una particolare, invece, ricordo di averci messo sei mesi…». Diceva che ha aperto due pagine social: l’hanno aiutata a diffondere le sue creazioni? «Sicuramente danno un po’ di visibilità alla passione. Poi devo dire che i social aiutano nel fatto che ci si trova in tanti con la stessa passione e si può condividerla, questo è molto bello. è forse l’unico aspetto positivo dei social! Sono iscritto a tanti gruppi che riguardano sempre questo settore del legno e anche a qualcuno del ferro, perché mi era capitato di fare qualche cosa con quel materiale…Oltre che
sformo un pezzo di legno per trasmettere qualcosa: l’obiettivo è quello di far ragionare e pensare, poi non è importante che la gente veda quello che vedo io in quello che ho fatto… l’opera viene interpretata dalle persone in base alle proprie esperienze». Quando le viene un’idea parte subito con la creazione o fa prima dei bozzetti? «Di solito parto subito con la lavorazione, sono piuttosto istintivo… difficilmente abbozzo un disegno. Sembrerà strano, ma ho tutto in mente». Ha già in mente qualcosa di particolare da fare? «Adesso no…però non si sa mai…l’idea potrebbe venirmi all’improvviso». Quante opere ha creato nella sua vita?
«Non le saprei dire, perché ho perso il conto!» Riesce a vendere qualche sua creazione? «Qualcuna sì… è stata apprezzata talmente tanto da poterla vendere… le altre le ho tutte a casa». La più grande opera che ha realizzato che grandezza ha? «Per esempio l’orologio di cui parlavo prima è alto due metri. Poi ci sono cose più piccole, dipende molto dal pezzo di legno che mi viene in mano. Posso fare sculture di venti centimetri, oppure di ottanta o novanta, dipende… Naturalmente più l’opera è piccola e più è difficile realizzare i particolari…e ci si impiega più tempo». di Elisa Ajelli
Andrea Giorgi, con la sua scultura: l’orologio in stile “La Bella e la Bestia”
per condividere una passione, è anche un modo per trasmetterla e imparare, perché davvero non si finisce mai di apprendere. Si possono trovare particolari in comune e dare e prendere consigli… e infine, come dicevo prima, certe amicizie nate sui social possono anche diventare reali». Fa esposizioni delle sue opere? «Ho fatto qualche mercatino. Mi piacerebbe fare qualcosa, magari anche a Broni. Non per mettermi in mostra, ma per trasmettere questa mia passione e, se fosse possibile, insegnare quel poco che so… Ho la fortuna di avere mio papà che si è sempre arrangiato a fare tutto e io ho sempre cercato di carpire questi lavoretti manuali ed è nata poi la passione. Ormai quando ho un attimo libero ho in mano un pezzo di legno!» Potrebbe quindi insegnare le tecniche del mestiere ai giovani… «Sarebbe un’ambizione… mi piacerebbe non lasciare morire questa passione in me e basta. Se ci fossero dei ragazzi propensi ad imparare qualcosina sarebbe per me molto bello. Il legno è un materiale unico e vivo, che trasmette calore e serenità: sarebbe bello riunire dei ragazzi giovani che oggi non hanno forse nulla per socializzare… hanno i social è vero, ma non è un vero socializzare». Sulla sua pagina Facebook “Andrea magie in legno” si vede la sua ultima creazione, “L’innocenza di Eva”: come le vengono le idee su cosa produrre? «L’unica cosa a cui mi ispiro è quello che vedo intorno, quello che vivo giorno per giorno. Anche il telegiornale molto semplicemente può essere uno spunto. Tra-
“Inno alla vita” in fase di creazione
«Il legno è un materiale unico e vivo, che trasmette calore e serenità: sarebbe bello riunire dei ragazzi giovani che oggi non hanno forse nulla per socializzare… hanno i social è vero, ma non è un vero socializzare». “Inno alla vita”, ultimata
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Stradella: nel mirino l’Università della Musica Un’Accademia pronta a sfornare talenti musicali. L’Accademia del Ridotto di Stradella, infatti, è un centro permanente di alta formazione artistica e musicale. Livio Bollani, direttore dell’Accademia, si è diplomato a pieni voti in composizione presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano sotto la guida di Sonia Bo e Giuseppe Colardo, ha conseguito il diploma in violino presso il Conservatorio “G. Nicolini” di Piacenza con Giovanni Gorgni e studiato fisarmonica con il padre, oltre che aver conseguito la laurea presso la facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pavia. Premiato in concorsi nazionali ed internazionali di composizione ed esecuzione musicale, ha collaborato con il Master in Management dello Spettacolo della SDA dell’Università Bocconi e scritto recensioni per quotidiani e riviste specializzate. A lui abbiamo chiesto notizie sull’Accademia che gestisce e su qualche progetto futuro. «L’Accademia del Ridotto non è solo un’accademia di alto perfezionamento musicale ma è un vero e proprio importante progetto, che prevede nei prossimi mesi la costituzione di un ente autonomo di gestione delle attività, che al momento invece sono gestite dall’associazione Tetracordo di cui sono Direttore, che sarà la “Fondazione Accademia del Ridotto”. Conformandoci a determinati parametri stabiliti dal Ministero, se la normativa nel frattempo non cambierà, noi al termine di un percorso abbastanza impegnativo della durata di cinque anni potremo chiedere il riconoscimento del triennio accademico e di master di secondo livello. In questo momento siamo un’accademia privata che fa formazione di livello universitario, ma non siamo un’università. Nel momento in cui avremo questo riconoscimento, resteremo un’accademia che fa formazione di livello universitario in ambito musicale e che rilascia un diploma che è riconosciuto dal ministero se ci sono i presupposti». Come è l’organizzazione del percorso di studi? «Noi adesso non abbiamo l’obbligo di far fare agli studenti un piano di studi come quello dell’università, però abbiamo l’obbligo di fare 5 anni di attività in questa struttura. Dobbiamo fornire la lista degli studenti che per tre anni hanno studiato in accademia e che hanno conseguito il diploma. Già adesso sul nostro sito c’è il piano di studi integrato che è stato fatto nel pieno rispetto delle griglie ministeriali. Poi ci sono le masterclass che non concorrono in alcun modo al raggiungimento del diploma, ma che creano un certo business e un certo indotto economico». Durante il primo anno scolastico quanti allievi ci sono stati? «Cinquanta, di cui 46/47 a un livello accademico, gli altri un pochino sotto. Un
numero davvero elevato, un 350% in più di quello che mi aspettavo…io pensavo ad una partenza con una quindicina di persone. Un’istituzione storica come il Conservatorio di Piacenza, che rilascia un titolo di studio, non arriva a 200 accademici tra bienni e trienni. Già il prossimo anno, potenzialmente, è un numero che è destinato a crescere. Poi naturalmente avremo un assestamento l’anno dopo, perché ci saranno gli allievi in uscita dal corso biennale. Io avevo previsto che la crescita nel triennio arrivasse a 40/50 e che si assestasse poi sui 40, invece da come siamo partiti posso dedurre che si può arrivare a 70/80 allievi e poi assestarsi sui 60…». Gli allievi che età hanno? «Un po’ tutte le età. La più piccola ha 11 anni ed è bravissima con il violino. I più anziani sono i cantanti che hanno intorno a quarant’anni. Sui 14/15 ci sono una decina di allievi, per il resto sono tutti più grandi, dai 18 ai 40 anni». Che corsi fate? Quali vanno per la maggiore? «Quelli che sono partiti e che sono molto seguiti sono pianoforte, canto, violino e fisarmonica. Sono tutti corsi individuali e solo qualcuno con piccolissimi gruppi». Per il prossimo anno accademico ci saranno novità? «Sì, l’OperaStudio. Si tratta di audizioni per ruolo d’opera per gente che è già pronta a interpretare un determinato personaggio ma che non ha magari un’agenzia… consiste in un percorso di studi breve che dura circa un mese. Gli si prepara un ruolo e li si fa debuttare. Lo faremo nella prossima stagione per gli spettacoli “Il rigoletto” e “La madama Butterfly”. È la prima volta che viene fatto, è una scommessa. Il primo giro di audizioni partirà il 27 luglio».
«Quando si passa in strada si sente suonare, si sentono gli allievi che fanno lezione, ragazzi che arrivano da tutto il mondo ed è meraviglioso»
Livio Bollani, direttore dell’Accademia del Ridotto
A breve invece, riceverà la Benemerenza della Torre Civica, un importante riconoscimento dato tutti gli anni dall’Amministrazione comunale stradellina. «Un riconoscimento inaspettato che mi fa molto piacere. Penso di essere uno dei giovani che hanno ricevuto la benemerenza…non so quanti altri quarantenni l’hanno avuta. Mi fa piacere il fatto che mi sia stata data all’unanimità e non solo da una forza politica. È anche uno stimolo per il futuro. Sono contento per Stradella che ha la fortuna di avere questa Accademia e per tutto l’Oltrepò. Devo dire che secondo me l’Oltrepò ha colmato il gap con il piacentino per qualità della vita e offerta di spettacoli. Al di là di tutti i problemi che possono esserci e sono innegabili, posso dire che l’Oltrepò è risalito». Pierangelo Lombardi, storico sindaco di Stradella e attualmente consigliere comunale, è da sempre un uomo di cultura e dimostra molta soddisfazione per il progetto dell’Accademia del Ridotto. «Non sono un grande esperto di musica, ma il progetto è molto affascinante anche per il rapporto che si viene a creare con questi Maestri di prestigio assoluto, che hanno una disponibilità pazzesca anche nel rapporto umano con l’allievo. Quando si passa in strada si sente suonare, si sentono gli allievi che fanno lezione, ragazzi che arrivano da tutto il mondo ed è meraviglioso. Tutto questo è molto importante per una realtà di provincia da 11mila abitanti. Gli allievi arrivano da Milano, Messina, Ascoli Piceno, Roma, Parma, Ravenna… e tanti docenti hanno anche allievi che arrivano dall’estero, da Vienna e addirittura da Singapore». Ci racconta la storia che c’è dietro questo progetto? «Ero ancora Sindaco e con la Fondazione per lo sviluppo dell’Oltrepò, l’ex Gal, Stradella era entrata come partner nel progetto Oltrecultura, finanziato dalla Fondazione Cariplo che si proponeva di avviare un progetto culturale nella nostra zona. In questo progetto noi abbiamo ritagliato un segmento: progettare un sistema culturale
Pierangelo Lombardi, ex sindaco
locale, che partisse dalla disponibilità di tanti luoghi e location in cui fare cultura. Abbiamo subito pensato alla fisarmonica come elemento connettivo e poi c’è stato l’incontro con l’idea di Livio Bollani, che ha proposto di fare in Teatro una cosa assolutamente originale». Qual è l’originalità? «Il fatto che non ci fosse da nessun’altra parte un’Accademia con sede in un teatro, in un luogo deputato a fare spettacolo. Per esempio l’Accademia della Scala non ha sede nel teatro, ma in un posto adiacente. A questo punto quindi abbiamo fatto così: l’Accademia è gestita dall’associazione Tetracordo e il comune è la parte che mette a disposizione la struttura. Il tema è una scuola di alta formazione musicale che proietta una cittadina in una certa dimensione e che fa anche economia. Basti pensare alla gente che, grazie all’Accademia, viene a Stradella: gente che sta qui per settimane, a volte con accompagnatori, che usufruisce di alberghi, bar e ristoranti. Su 50 persone che frequentano l’Accademia, coloro che alloggiano, se stiamo scarsi, sono sulle 25/30. Significa almeno 700/800 posti letti all’anno, i pasti sono il doppio». In occasione della Festa della città di Stradella, verrà consegnata la benemerenza civica a Livio Bollani. «Sono molto contento che vada a lui, perché valorizza una professionalità e strumentalmente serve all’amministrazione per gettare un sasso nello stagno. Questa immagine di questo bel progetto è già proiettata all’esterno, ma bisogna che venga proiettata anche in casa, perché forse non si è ancora capita la potenzialità e l’importanza della cosa». di Elisa Ajelli
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Franca Poggi: «è la mia città, cosa posso dire? A me piace così com’è» Franca Poggi è una veterana dell’amministrazione comunale di Stradella, fin dagli anni ‘90 è infatti impegnata nella vita politica stradellina. Dal 2014 assessore con deleghe al commercio, mercati, fiere, turismo, affari generali, servizi anagrafici ed elettorali, semplificazione, Urp, attuazione del programma. Assessore Poggi, un assessorato complesso il suo. «In effetti ho una delega abbastanza importante che raggruppa tante cose, in particolare il commercio e il turismo che sono quelli più evidenti, che hanno più lustro e che la gente conosce di più». Per quanto riguarda gli affari generali invece? «è un assessorato di nicchia, nel senso che tante cose le svolgo all’interno del Comune e non sono visibili dall’esterno». Parlando di commercio e turismo, cosa ci racconta? «Si deve considerare che le manifestazioni che facciamo durante l’anno sono sempre patrocinate dal Comune e “utilizziamo” l’Ascom, associazione commercianti, e la Proloco. Sono due soggetti con cui collaboriamo davvero sempre: attraverso di loro e con associazioni e persone di buona volontà, riusciamo sempre a creare cose abbastanza interessanti. Eventi che finora sono sempre piaciuti e per cui abbiamo il riscontro di tanta gente». Il vostro evento di maggior rilievo è solitamente il Vinuva… «Stiamo mettendo a punto l’ultimo Vinuva di questa legislatura e sarà un po’ sulla falsa riga della precedente edizione. Abbiamo mantenuto la stessa linea così da non stravolgere la manifestazione.
Avremo sempre Ascom e Proloco che ci daranno una mano. Quest’anno si comincerà giovedì 30 agosto e durerà fino al 2 settembre, che è la domenica». Come mai avete scelto questa data? «Siamo sempre d’accordo con le altre amministrazioni di Broni, Casteggio e Voghera: facciamo un weekend al mese ciascuno. Cerchiamo sempre di non accavallarci con le manifestazioni. Quest’anno noi faremo questo periodo». Stradella è una città che vive? «Stradella è una città molto viva. Leggo commenti sui social e posso assolutamente affermare che, rispetto ad altre zone, Stradella è ancora una città che vive. E laddove una città vive ci sono i pro e i contro. Capisco che possa dar fastidio il casino che certi ragazzi fanno nelle serate del venerdì e del sabato, che ci sia del movimento, che ci sia qualche azione non propriamente lecita, tutte cose che però competono ad altri e non all’amministrazione comunale. Però dico anche che è un bel vedere che i giovani si fermino da noi e non facciano centinaia di chilometri per andare in altri posti: credo che questo sia un bene. Ce la dobbiamo mettere tutti un po’ di più: tollerare maggiormente da una parte e dall’altra parte fare reazioni di “repressione” per far capire che certe cose non si fanno. Credo che la nostra sia una città in cui faccia ancora piacere uscire, fare un giro tra i negozi, che sono tanti e sempre belli. Non voglio confrontarmi con altri luoghi, però dico che in tante altre zone quello che c’è a Stradella non c’è. Poi, c’è chi dice che Stradella non vive e io posso solo dire che si tratta dell’opinione di una certa fetta di popolazione che comunque è critica nei
Franca Poggi confronti di questa amministrazione, il che ci può stare». Lei ha alle spalle tanti anni di assessorato e di esperienza nell’amministrazione comunale. «Sì, sono stata eletta nel 1990 e sono diventata assessore per la prima volta nel 1993. Poi ho fatto per quasi tutte le legislature l’assessore, tranne che la precedente legislatura in cui ero consigliere comunale. E nell’ultima sono di nuovo assessore». In tutti questi anni come ha visto cambiare il mondo amministrativo? «Bisogna dire che le nuove leggi sulla finanza locale non hanno migliorato l’andamento delle amministrazioni, soprattutto dei piccoli comuni e non hanno aiutato il rapporto che c’è tra l’amministrazione comunale, i cittadini, le imprese e chi deve lavorare. Faccio un esempio per il nostro Comune, così come può essere in tanti altri: quan-
do andiamo ad applicare il codice degli appalti è un disastro, con tempi lunghissimi, normative difficili… A questo punto è ovvio che la gente si stufa, il Comune non può fare determinate cose che gli vengono chieste e i cittadini non capiscono. Non credo che sia un problema di colore dell’amministrazione, perché tutte sono in difficoltà per queste ragioni». E Stradella com’è cambiata? «è la mia città, cosa posso dire? A me piace così com’è. Ma si è diventati tutti quanti intolleranti a tante cose e, di conseguenza, non c’è più quella bella armonia di un tempo. Una volta il cittadino veniva in comune e chiedeva quello che aveva bisogno: se si era in grado lo si accontentava, altrimenti no. Adesso come adesso, il cittadino che arriva agli sportelli “aggredisce” e questo porta poi a situazioni spiacevoli. Rispetto agli anni passati, gestire la cosa pubblica è decisamente più difficile». di Elisa Ajelli
«Stradella è ancora una città che vive. E laddove una città vive ci sono i pro e i contro»
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«Il polo logistico ha portato tanto traffico, più che lavoro per il nostro Comune» Nella Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta a Portalbera, si è svolta la cerimonia per il “rientro” dei tre dipinti di San Fedele Martire, uno di grandi dimensioni e due ovali laterali. Lo studio Gabbantichità di Voghera si è preso la responsabilità del restauro degli stessi. Maurizio Gramegna, assessore del Comune di Portalbera, promotore del restauro, ha coordinato gli interventi che si sono succeduti nel pomeriggio di sabato a cominciare dal padrone di casa Don Pietro Lanati che ha sottolineato il valore dei dipinti e la soddisfazione per un fermento che vede la Chiesa al centro di nuove e stimolanti attenzioni. Carlo Bassani, Capo Delegazione Oltrepò Pavese del FAI, rende noto agli intervenuti di essere rimasto molto colpito dalla ricchezza della Chiesa e dalla disponibilità ed attenzione dei portalberesi alle loro opere anticipando che Portalbera sarà con ogni probabilità inserita nelle “Giornate Aperte” del FAI nei prossimi 13 e 14 ottobre. Sindaco Bruni ci racconti di questo restauro... «Premetto che la Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta è stata ricostruita, perché ormai di dimensioni insufficienti negli anni 1739-1745 su una esistente Chiesa molto antica (Portalbera era definita “Pieve antica” già nel 900, non 1900). La ragione della ricchezza della Chiesa stessa risiede nel fatto che Portalbera è stata feudo del vescovo fin dal 1200. Era anche sede estiva del vescovo, il quale soggiornava per periodi anche molto lunghi a Portalbera. Le tre opere che la nostra Chiesa custodisce, sono dipinti di grande valore. L’autore delle opere non è conosciuto, ma sono coeve alla ricostruzione della Chiesa, cioè intorno al 1750. Sono senza dubbio di grande qualità artistica e attribuibili alla scuola pavese/lombarda. La Chiesa contiene opere di Federico Ferrario e dei pittori Biella, il primo molto famoso all’epoca ed i secondi riconosciuti tra i migliori quadraturisti e conosciuti per avere affrescato la cupola del Santuario di Vicoforte. Tutto è stato seguito dall’Assessore Maurizio Gramegna, che tra l’altro è uno storico ed ha scritto anche diversi libri sul nostro Comune, e finanziato da Fondazione Cariplo e da Lions Club Stradella-Broni Host (Presidente Roberto Bonacina). All’interno della Chiesa ci sono anche altre opere che necessitano di un restauro e faremo di tutto, nei prossimi anni, affinché questo avvenga». I cittadini come hanno risposto a questa iniziativa? «Direi bene. Abbiamo anche fatto una raccolta fondi grazie ai quali siamo riusciti a rifare la facciata della Chiesa. Ovviamente anche la Parrocchia e il Comune hanno
contribuito. Siamo nel complesso molto soddisfatti...». Sindaco Bruni quanti abitanti conta attualmente Portalbera? «Circa 1600 abitanti. C’è stato un lieve incremento dovuto sia ai costi degli immobili che risultano inferiori alle città vicine, sia perché Portalbera è un paese tutto sommato ancora tranquillo». La scelta di venire a vivere a Portalbera rispetto alla città, secondo lei, dipende anche dalla continua espansione del polo logistico di Stradella? «Direi di no. Queste logistiche non sembrano dare tanto lavoro alla gente del posto... di Portalbera saranno una decina le persone che ci lavorano. Più che altro direi che il polo logistico ha portato tanto traffico, più che lavoro per il nostro Comune». Cosa intende con questa sua ultima affermazione? «Mi spiego meglio. A mio parere, chi ha pensato di creare questo polo logistico, avrebbe dovuto anche pensare alla situazione della viabilità e, soprattutto, della scarsa accessibilità del Ponte della Becca... il traffico pesante è costretto a concentrarsi tutto sul ponte di Spessa (l’unico ponte in 60 km da Casei Gerola a Pieve Porto Morone). È necessario pensare ad una soluzione! La via Emilia è sempre intasata nelle ore di punta. Le amministrazioni devono rivedere il sistema della viabilità, visto che i mezzi pesanti si trovano a dover passare su strade fatiscenti e soldi per asfaltarle o allargarle non ce ne sono.
Gronda Nord: «Se questo progetto non andrà in porto, sicuramente mi attiverò per far mettere il divieto di passaggio di mezzi pesanti all’interno del Comune di Portalbera!»
Pierluigi Bruni, 7 anni da sindaco e 10 da vice sindaco
Personalmente mi sto fortemente interessando a questo problema e sto cercando con Stradella un confronto per far sì che questa “Gronda Nord” venga realizzata in breve tempo per l’intero tratto, perchè altrimenti i mezzi pesanti passeranno tutti da Portalbera». A che punto è il progetto “Gronda Nord”? «Pare che due parti del progetto siano già finanziati, il terzo ancora no, e questa sarebbe conveniente non solo per Portalbera, ma anche per Stradella e le logistiche stesse. Se questo progetto non andrà in porto, sicuramente mi attiverò per far mettere il divieto di passaggio di mezzi pesanti all’interno del Comune di Portalbera!». Per quanto riguarda la raccolta differenziata “porta a porta” di Stradella, sappiamo che sta causando alcuni disagi nei Comuni adiacenti. Com’è la situazione per Portalbera? «Dopo l’istituzione del “porta a porta” a Stradella, il mio Comune e altri adiacenti alla città hanno dovuto intensificare la raccolta dei rifiuti. Tante persone incivili vengono “appositamente” a Portalbera, piuttosto che a Canneto, Arena Po, Broni, San Cipriano... a gettare i loro rifiuti! È una situazione assurda... posso capire che il servizio offerto da Stradella sia ancora in una fase di test, ma così non va bene». La situazione è stata fatta presente al sindaco di Stradella? «C’è stato recentemente un approccio...». A Portalbera come avviene la raccolta differenziata? «Abbiamo i cassonetti per la raccolta dei vari tipi di rifiuti, però non tutti rispettano l’indifferenziata, troviamo di tutto. Il cantoniere al mattino perde un sacco di tempo per raccogliere la spazzatura che le persone lasciano vicino ai cassonetti. Ho comunicato la situazione alla Broni-Stradella e abbiamo intensificato il passaggio di recu-
pero. Inoltre, abbiamo aumentato anche il numero di cassonetti... manca solo un po’ più di senso civico». Secondo lei non avrebbe più senso (e successo) fare come hanno fatto alcuni altri Comuni, ovvero introdurre i cassonetti con riconoscimento del codice fiscale? «È una bellissima idea, però è costosa... e chi lo sopporterebbe tale costo?! I costi della raccolta differenziata sono già alti così (il mio Comune spende circa 200mila euro all’anno). Anche la mia amministrazione, come Stradella, ha intenzione di attivare in futuro il servizio “porta a porta”... siamo in attesa di un preventivo». Avete introdotto delle sanzioni per arginare il fenomeno? «Nessuna multa, anche perchè Portalbera non ha un vigile sempre presente. Abbiamo una convenzione con San Cipriano e con Broni, i quali in giornate prestabilite ci “prestano” la loro vigilanza a supportare il nostro Comune. Personalmente mi è capitato di riprendere gente che stava abbandonando rifiuti ingombranti vicino ai cassonetti. Portalbera dispone di un’isola ecologica, aperta due volte a settimana (al martedì e al sabato dalle 10 alle 12), ma pochi ne usufruiscono... è un servizio gratuito! Se ogni cittadino facesse la sua parte, ogni Comune potrebbe risparmiare tanti soldi per la raccolta differenziata». Come si può trasmettere un po’ di senso civico? «Da quando sono sindaco (da sette anni e precedentemente dieci anni da Vice Sindaco) mi sono sempre impegnato a trasmettere nelle scuole il senso civico legato alla tematica della raccolta differenziata. Tutti gli anni vengono fatti corsi con le guardie ecologiche, sperando di trasmettere qualcosa per il futuro». di Silvia Cipriano
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«L’obiettivo è quello di avere un ospedale totalmente rinnovato nella parte alberghiera» L’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico ‘‘Maugeri’’ di Montescano è uno dei punti nevralgici del sistema sanitario in Oltrepò Pavese, e soddisfa le esigenze di pazienti che provengono da tutto il territorio nazionale. Un vero punto di riferimento per tutto il territorio. Ogni abitante dell’Oltrepò ha almeno un amico, un parente o un conoscente che, grazie alle cure lì prestate, ha ritrovato salute e serenità. Perché l’istituto di Montescano è riconosciuto, fin dagli anni ’70, come struttura di grande qualità e prestigio. Tuttavia, pochi anni fa la nota crisi del Gruppo Maugeri ha fatto temere il peggio per la struttura della Val Versa, che però ha saputo risollevarsi, e senza rinunciare alle proprie peculiarità. È il direttore dell’Istituto, il professor Claudio Fracchia, a ‘‘fotografare’’ per noi il momento vissuto dall’organizzazione. Un momento, l’ennesimo, di crescita. Tutti conoscono la località di Montescano per la presenza del vostro centro di riabilitazione. Ma ci presenti lei la vostra struttura. «Montescano rappresenta uno dei centri di riferimento a livello nazionale per quan-
to riguarda la riabilitazione. Nell’ambito della galassia Maugeri, insieme al centro di Veruno, è stato tra i primi centri aperti, negli anni ’70; con proposte di programmi riabilitativi che allora erano uniche e che adesso sono consolidate. L’esperienza degli operatori sanitari e di chi deve creare e mantenere rapporti con le istituzioni e comunque con la sanità a livello generale ci permette di avere un ospedale efficiente, di rilievo nazionale». Quali pensa siano i punti di forza di Montescano? «Uno dei punti di forza è legato al knowhow che l’Istituto è stato in grado di attivare in questi anni. Abbiamo optato per l’attivazione, in ogni settore, di programmi di riabilitazione mirati a patologie complesse: trapianti di polmone e di cuore, scompenso cardiaco, insufficienza respiratoria di qualsiasi natura, bronconeuropatia cronica ostruttiva, e poi tutta la galassia delle patologie neuromuscolari e degenerative. Un altro punto di forza è anche la posizione geografica, perché pur essendo situati in una posizione decentrata, siamo comunque incuneati in mezzo a quattro regioni».
Quanti sono gli utenti che accedono ai servizi ogni anno? «Il nostro istituto viaggia mediamente intorno ai 3400/3500 ricoveri all’anno. Ad oggi abbiamo una saturazione dell’istituto pari al 100%. Sono disponibili 208 posti letto». Come è organizzata questa disponibilità? «I posti letto sono suddivisi in tre Unità Operative: U.O. di Cardiologia riabilitativa con 56 posti letto, U.O. di Pneumologia Riabilitativa con 51 posti letto e U.O. di Riabilitazione Neuromotoria con 101 posti letto. Sono poi aggregati i servizi: Fisiopatologia respiratoria, Neurofisiopatologia, Ergonomia e Terapia occupazionale, Radiologia, Psicologia e Bioingegneria. Nel contesto della riabilitazione è un’offerta a tutto campo». Quale la provenienza geografica degli utenti? «Abbiamo pazienti che provengono da tutta Italia. Il fatto di portare avanti l’impegno in tutti e tre i settori, con alta competenza ed esperienza, ha permesso di raggiungere un indice di attrazione che si è stabilizzato, nel corso degli anni, fra il 29
«Il nostro istituto viaggia mediamente intorno ai 3400/3500 ricoveri all’anno. Ad oggi abbiamo una saturazione dell’istituto pari al 100%» e il 31%. Questo valore indica la percentuale di pazienti che provengono da fuori regione. È il più alto indice di attrazione fra i centri Maugeri, che sono 18 in tutta Italia».
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Come avviene l’accesso dei pazienti alla struttura? «La provenienza dei pazienti si divide in due settori: quelli che provengono dagli ospedali per acuti, e quelli che giungono direttamente dal territorio, attraverso i medici di famiglia, o i nostri ambulatori interni. Mediamente noi abbiamo un 35/40% di pazienti che provengono dagli ospedali e un 60/65% dal territorio. I rapporti con gli ospedali acuti della zona è un rapporto privilegiato». Con quali enti sanitari sono attualmente attive convenzioni o rapporti di collaborazione? «Lavoriamo moltissimo con il Policlinico San Matteo di Pavia, ma anche con gli ospedali dell’ASST: Stradella, Voghera, Vigevano. Abbiamo un rapporto privilegiato con gli ospedali della Provincia di Pavia, ma anche con molti altri della Regione Lombardia e in modo particolare con quelli milanesi. A questo proposito, abbiamo accordi con l’Istituto Clinico Humanitas e con l’Ospedale San Raffaele».
«L’ottimo rapporto con il Comune di Montescano sicuramente facilita molti passaggi» Che rapporto ha la Fondazione Maugeri con il territorio dell’Oltrepò Pavese e, in particolare, con le istituzioni locali (comune in particolare)? «Abbiamo ovviamente ottimi rapporti con i comuni della zona, anche perché l’ospedale ha circa 420 dipendenti e quindi crea un indotto. Molte persone, in particolare infermieri e OSS, risiedono qui. Teniamo buon rapporti, anche alla luce del fatto che si sta portando avanti una fase molto importante e delicata per l’Istituto Scientifico di Montescano. L’ottimo rapporto con il Comune di Montescano sicuramente facilita molti passaggi». Di cosa si tratta? «Ci sono importanti lavori di ristrutturazione in corso, iniziati nel 2016. Porteranno la nostra struttura ad avere un rinnovamento totale prima del 31/12/2020, conformemente alla scadenza fissata, in seguito al terremoto in Emilia, per l’adeguamento degli ospedali ai criteri strutturali e antisismici. Contestualmente stiamo adeguando e ristrutturando tutto l’ospedale. Cosa che comporta un importante impegno sia dal punto di vista economico, sia da quello organizzativo. Perché l’ospedale va avanti a pieno regime nella sua attività».
Il professor Claudio Fracchia, direttore dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico ‘‘Maugeri’’ di Montescano
Come viene gestita la quotidianità di questo periodo con un doppio status, ovvero di una struttura che è allo stesso tempo un ospedale e un cantiere in fermento? «Una grossa ristrutturazione, con il prosieguo a pieno regime dell’attività ospedaliera, è possibile grazie a un’organizzazione adeguata e alla grande collaborazione di tutto il nostro personale, che ha capito l’importanza di questo investimento, e che ringrazio». Perché è importante la localizzazione in un luogo, periferico ma allo stesso tempo pregevole sotto il punto di vista ambientale, come le colline dell’Oltrepò? «La struttura dedicata alla riabilitazione richiede un’ubicazione decentrata rispetto ai grandi centro urbani. Occorre un ambiente adeguato, anche perché le degenze possono durare mesi. Ad esempio noi abbiamo un bellissimo parco, che verrà ingrandito. Abbiamo un bar e strutture ricreative, importanti per mettere il paziente nelle condizioni più agiate possibili. Un aspetto negativo è che la posizione decentrata può creare qualche problema agli utenti e ai loro parenti per raggiungere la struttura. Devo dire che, però, siamo riusciti a improntare anche ottimi rapporti con le aziende di autotrasporti: abbiamo un ottimo collegamento con la stazione Stradella». Quante persone lavorano quotidianamente nella struttura? «Come detto, abbiamo a disposizione 208 posti letto. Osservando la turnazione giornaliera, suddivisa in tre segmenti da 8 ore, contiamo quotidianamente circa 220 dipendenti al lavoro. C’è quindi un rapporto maggiore di 1 a
1 fra lavoratori e pazienti. Tant’è vero che non abbiamo mai avuto bisogno di chiudere reparti durante il periodo delle ferie». Esiste un turnover elevato fra i lavoratori dell’Istituto? «Abbiamo un’alta percentuale, intorno all’80%, di dipendenti che lavorano con noi per molti anni. Solo un 20% si ferma qui per poco tempo, qualche anno». L’Istituto fornisce anche un servizio a disposizione dei degenti e dei famigliari per assisterli nel disbrigo delle pratiche burocratiche richieste dalle istituzioni esterne. Come opera? «Abbiamo un’Assistente Sociale, figura fondamentale, che si interessa di varie
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questioni, come l’assistenza agli utenti nel disbrigo delle pratiche burocratiche, i rapporti con i vari comuni, con le associazioni di ammalati. Si interessa a quei pazienti che vanno trasferiti in RSA, soprattutto per quelle persone che non hanno la possibilità di ricevere un aiuto dai parenti. Bisogna interessarsi sempre più anche degli aspetti sociali, soprattutto delle situazioni che si creano in seguito alle dimissioni». Tre anni fa la Fondazione Maugeri ha vissuto un grave momento di crisi. Cosa è cambiato da quel momento, sotto il punto di vista sanitario? Qual è il clima, oggi, nei corridoi dell’Istituto? «La Maugeri negli anni 2012 e 2013 ha vissuto, indubbiamente, dei momenti di grossissima difficoltà. Adesso la situazione dell’azienda è notevolmente migliorata, ed è uscita completamente dal momento di crisi. La nuova governance è riuscita a ideare e a mettere in essere un piano industriale tale per cui, sia a livello locale, sia a livello nazionale, si è arrivati ad una situazione ottimale, tanto che sono partiti anche nuovi, importanti investimenti. Quello che sta avvenendo a Montescano ne è la dimostrazione. Certamente qualche problema c’è sempre, però devo dire che ci sono anche idee molto chiare sui piani per il futuro». Quali sono gli obiettivi in programma per i prossimi anni, relativamente al centro di Montescano? «Obiettivo è quello di avere un ospedale totalmente rinnovato nella parte alberghiera, per poter proporre all’utente il mantenimento di alti e qualificati livelli assistenziali. Abbiamo anche la prospettiva di migliorare, oltre ai reparti di degenza, anche tutti i servizi aggregati, gli spazi ricreativi, che riteniamo di strategica importanza. Nel nuovo progetto intendiamo realizzare anche due negozi, sempre per favorire i bisogni di prima necessità degli ammalati che soggiornano qui per lunghi periodi». di Pier Luigi Feltri
SANTA MARIA DELLA VERSA XXXXXXXX
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Classe 1937: «Quando c’era la festa dei coscritti si diceva “agli än tirà sü”» Per Santa Maria della Versa, luglio è sempre stato un periodo molto importante poiché negli ultimi trent’anni in questo mese tradizionalmente si festeggiavano i coscritti. Si trattava di una festa particolarmente sentita non solo dai festeggiati diciottenni, ma anche dalle famiglie, dai commercianti, dagli abitanti del paese e da chiunque vivesse a Santa Maria e dintorni. A questa festa partecipavano i giovani di tutte le colline adiacenti alla Valle Versa, ma sfortunatamente negli anni questo “rito di passaggio” verso la maggiore età si sta perdendo sempre di più e i giovani della valle che ancora tengono a festeggiare i coscritti si uniscono a Stradella e Broni. La festa dei coscritti ha rappresentato per molti ragazzi una “tappa obbligata” che originariamente era legata al servizio di leva, come ricorda Ezio Fugazza, classe 1937: «La mia classe ha festeggiato in primavera nell’ex cinema di Santa Maria, per l’occasione adibito a sala da ballo e avevamo invitato l’orchestra dei fratelli Maggi. Eravamo una decina, non tantissimi. È stata una giornata molto bella e festosa, durante la quale abbiamo scorrazzato per il paese con le macchine, quelle che c’erano. Quando c’era la festa dei coscritti si diceva “agli än tirà sü” perchè c’era il sorteggio, infatti non tutti quelli che avevano l’età, pur essendo abili per fare il militare, partivano per il servizio di leva. Estraevano a sorte chi doveva andare a fare il militare, ma ai miei tempi questa “prassi” era già stata superata». Vent’anni dopo è stata la volta di Enrica Maini, classe 1952 che dice la sua sul perché questo tradizionale appuntamento si sta perdendo: «Secondo me la cosa era molto degenerata negli anni scorsi. Imbrattavano il paese, causavano incidenti per il troppo bere! Penso che, invece, sia una bella tradizione che crea un gruppo per tutta la vita, un po’ come il militare... infatti una volta i maschi partivano per la leva! Ricordo che allora era molto importante la serata danzante e il vestito delle coscritte. Noi della classe 1952 eravamo pochissimi, ora a Santa Maria siamo rimasti in sei. Noi abbiamo festeggiato al dancing del Carmine, locale allora molto di moda. Venivano cantanti famosi e i Nomadi erano di casa». Dai “pochissimi” del 1952 passiamo ai “moltissimi” degli anni ’80, Elisa Rattotti che di anni ne compie 36 ricorda: «Nella mia classe eravamo in 38! Per me e la mia generazione la festa dei coscritti rappresentava un rito, una tradizione da rispettare. Quando ero minorenne non vedevo l’ora di compiere diciotto anni per due cose: prendere la patente e fare la festa dei coscritti! La pensavano quasi tutti così, eravamo affezionati a questa festa che si tramandava di generazione in generazione e poi per noi di Santa Maria della Versa è sempre stata un motivo di vanto e d’orgoglio, infatti eravamo gli unici a festeggiare i coscritti all’inizio dell’estate. La festa dei coscritti è
Santa Maria della Versa - I Coscritti del 1983 stata ed è un simbolo del nostro territorio, qualcosa che ci caratterizza da sempre!». Resta il fatto che il sentire degli anni ’80 non è stato trasmesso alle generazioni successive, infatti è un’usanza che è andata scemando nel tempo. «Credo che, al di là dei costi troppo alti per organizzare l’evento, la ragione principale sia la mancanza di volere fare qualcosa tutti insieme, di aggregarsi tra ragazzi della stessa età. Forse il fatto che oggi ci siano tanti ragazzi che non sono originari di questi posti porta a disunirsi e perdere di vista, senza volerlo, questa tradizione. Suggerirei ai ragazzi che sono nati qui di essere più intraprendenti e di farsi promotori dell’iniziativa cercando di farla conoscere anche ai propri coetanei e di provare a portarla avanti per il bene di tutta la comunità» continua Elisa Rattotti. A tal proposito anche Sofia Achilli, classe 1986 ha qualcosa da dire: «Questa festa si sta perdendo probabilmente perchè ora i giovanissimi pensano che la vita sia sui social e non in quella reale e, forse, anche perchè hanno molte più cose che noi non avevamo...». La festa dei coscritti è unica e irripetibile, ma c’è chi con la scusa di avere tutti la stessa età si ritrova per bere, mangiare e fare due chiacchere, come Nicola Maini, classe 1979: «Se non ricordo male, sarà capitato solo una volta di rincontrarsi tutti insieme, forse l’anno successivo; purtroppo non c’è mai stato un seguito. Tuttavia, mi piacerebbe ritrovare tutti i miei coscritti anche solo per una cena... una bella occasione sarebbe quella per festeggiare i 40 anni! I coscritti erano un’occasione unica per festeggiare due giorni interi tutti insieme e ogni coscritto era al centro della festa, al di là dei vantaggi anagrafici». Esperienza che si tingeva di verde, bianco e rosso, come ci spiega Davide Maggi, classe 1983: «Era l’estate del 2001 ed eravamo in 14 coscritti (saremmo stati il doppio, ma alcuni non hanno partecipato). La giornata è iniziata presto: ci siamo trovati nella piazza della chiesa per “addobbare” le auto con
fiocchi, bandiere e scritte, rigorosamente tricolore. Dopo la messa e aperitivi nei bar di Santa Maria, il corteo di auto è partito verso Stradella e Broni. Il pranzo quell’anno diversamente è stato organizzato da “Colombi” in Vallescuropasso e il veglione al “Siglo de la Reina” a Sarmato». Anche le istituzioni del paese partecipavano, il prete dava la sua benedizione ai ragazzi come ricorda Enrico Giorgi, classe 1986: «Per me è stata una bella esperienza, a partire dai preparativi fino alla giornata stessa della festa; sono convinto che, indipendentemente dalla data in cui si diventava maggiorenni, questo evento abbia segnato il passaggio effettivo verso la maggiore età! Della mia classe eravamo una trentina e la festa è iniziata la sera prima per andare “a fare le scritte sulle strade” in giro per il paese. Il giorno della festa si iniziava con la messa e annessa benedizione del prete, per poi girare in macchina per il paese, ogni coscritto aveva un autista, suonando clacson e fischietti... arrivati a sera eravamo sordi! Dopodiché si faceva il tradizionale pranzo e a metà pomeriggio, tutti a casa a prepararsi (soprattutto le ragazze) per la serata. Alla sera ci siamo ritrovati insieme alle famiglie e agli amici come da tradizione alla discoteca “Lido Po”, dove si partiva con la sfilata di tutti i coscritti: in fondo alla scalinata, il ragazzo aspettava con una rosa la sua coscritta; lì l’accoglieva con un bacio sulla guancia e insieme si dirigevano verso il resto del gruppo per le foto di rito. La serata danzante si concludeva a tarda notte e chi voleva, poteva continuare la festa andando a fare colazione al mare». I racconti delle ultime annate degli anni ’80 parlano ancora di una festa sentita per il paese. Samantha Fulgosi, classe 1989: «Per la mia generazione, i coscritti hanno rappresentato una sorta di “debutto in società”. Finalmente anche noi appartenevamo al mondo dei grandi! Noi eravamo poco più di una ventina. Abbiamo iniziato a festeggiare il giorno prima; cenato tutti insieme,
abbiamo fatto il “giro dei bar” di Santa Maria e Stradella e, a tarda notte, siamo andati a scrivere per le strade... era bellissimo vedere le nostre dediche, i nostri nomi, i nostri desideri e amori impressi sulle strade del paese (le scritte duravano un mesetto). Il giorno dei coscritti, dopo la messa, giravamo con le auto per Santa Maria e i paesi vicini, ognuno con il proprio “autista”, il migliore amico/a, il fidanzato/a, il fratello/ sorella. Al pomeriggio iniziavano i preparativi per la sera: trucco, parrucco e abito. Ci siamo ritrovati alla discoteca “Lido Po” a Pieve Porto Morone, accogliendo gli invitati e aspettando il “grande momento”: la sfilata! Abbiamo ballato, fatto foto, festeggiato fino a notte fonda; al terminata della festa, c’è chi è andato al mare o, semplicemente, a fare colazione». Una favola da come ce la descrive Samantha Fulgosi, ma che cosa è andato storto? Andrea Valle, classe 1990: «La mia classe, circa una ventina, è stata una delle ultime ad aver rispettato la tradizionale “scaletta” dei festeggiamenti. Questa festa ha rappresentato molto, non solo il raggiungimento dei 18 anni. È un peccato vedere i diciottenni che non tengono più alla tradizione del loro paese ed è una festa a cui i paesi più piccoli tengono ancora. Vedere che a Santa Maria della Versa i coscritti non vengono più organizzati è abbastanza triste. È vero, forse ci sono meno giovani e sono cambiati gli interessi, ma i 18 anni si vivono una volta sola nella vita e il ricordo di festeggiarli tutti insieme è unico». Stefano Riccardi, classe 1992: «Negli ultimi anni la festa dei coscritti è praticamente scomparsa, secondo me perché i giovani non vivono più il paese e fin da piccoli si spostano nei centri più grandi, perdendo di fatto le compagnie e facendo nuove conoscenze. Non so come possa tramandarsi questa festa e come si possano mantenere negli anni i rapporti con quei ragazzi con cui sei cresciuto e che insieme a te sono diventati grandi». C’è chi fa i “conti” sul perché i coscritti a Santa Maria non si fanno più, Carlotta Cempini, classe 1987: «Questa festa si sta perdendo perchè i ragazzi del paese frequentano sempre di più Stradella, si spostano verso i paesi più grandi. Inoltre, se dovessero farli a Santa Maria, essendo in pochi, anche gli sponsor non sarebbero sufficienti a coprire i costi e, nell’attuale situazione economica, le famiglie dovrebbero accollarsi una spesa non indifferente». È vero i giovani non sono più quelli di una volta, non si accontentano più della favolosa serata danzante di Ezio Fugazza e non gli interessa più scrivere la loro data di nascita sulle strade del paese insieme agli amici. I tempi cambiano, ma anche le tradizioni potrebbero evolversi di conseguenza. di Silvia Cipriano
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VOLPARA
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«Non mi ricandiderò, sempre più complicato conciliare il lavoro e l’impegno da sindaco» Il progetto di fusione tra il comune di Volpara e quello di Santa Maria della Versa è naufragato. Lo conferma il sindaco Matteo Bossi: «A mio parere, tutte le amministrazioni coinvolte nel progetto avrebbero dovuto dare la possibilità ai propri cittadini di esprimersi su un tema cosi importante, ma ahimè - come già detto dal mio collega Ordali di Santa Maria della Versa - per molti motivi così non è stato. Allo stato attuale, credo che difficilmente riusciremo a riparlarne». Sindaco, che cosa perde Volpara dalla mancata fusione? «Il progetto di Fusione dei Comuni sarebbe stato un ottimo trampolino di rilancio per tutti i comuni interessati e non solo per il mio. Sicuramente ci avrebbe consentito di creare una struttura amministrativa importante, che avrebbe permesso di gestire al meglio tutto il territorio, avendo avuto a disposizione risorse importanti». Qual è l’alternativa per il suo Comune? «L’alternativa per quanto riguarda il mio Comune è andare avanti come abbiamo sempre fatto e cercare di gestire (e migliorare) con il poco che abbiamo a disposizione... siamo poco più di 100 persone, facciamo quello che possiamo». Avete un meraviglioso anfiteatro in stile romano che dal 2011 allieta le calde serate estive, coinvolgendo gli abitanti del piccolo borgo con numerose iniziative culturali. Puntate molto sugli eventi estivi? «Sicuramente. L’anfiteatro è una struttura che abbiamo fortemente voluto e realizzato. Può ospitare fino a 500 persone e da quest’anno viene gestito dall’Associazione Volpara Viva, che intende promuovere
Matteo Bossi
le attività culturali del comune occupandosi attivamente dell’organizzazione di numerosi eventi estivi e, allo stesso tempo, di valorizzare le strutture comunali». Da chi è composta? «È un’organizzazione senza scopo di lucro creata e gestita dai ragazzi di Volpara che, con tanto impegno e tanta volontà, hanno deciso di mettersi in gioco ed aiutare il paese a mantenersi sempre “vivo” e ad offrire intrattenimento culturale nelle calde serate estive». L’anfiteatro è a disposizione esclusivamente del Comune di Volpara? «Certo che no; è a disposizione di chiunque fosse interessato per eventi, mostre, sfilate e molto altro. Basta contattare l’associazione via web e fare proposte». Quando ha iniziato il suo mandato si era posto un obiettivo particolare da re-
alizzare? «Soltanto quello di poter far qualcosa per il mio paese e la mia gente; quelli ormai erano altri momenti per le amministrazioni, c’erano molti più fondi disponibili ed era più facile riuscire a portare a termine idee e progetti, anche complessi, per un piccolo comune come Volpara». Volpara è un piccolo borgo che durante il periodo estivo si anima particolarmente. Quali eventi avete in programma per l’estate 2018? «Gli eventi in programma per quest’estate sono sette (i primi due hanno già avuto un grande successo), le date dei prossimi sono sulla nostra pagina Facebook o sul sito web. Sono eventi finalizzati a soddisfare vari gusti e varie fasce d’età. Spettacoli teatrali, concerti, spettacoli comici». Sindaco Bossi questi eventi sono molto apprezzati dalla gente del posto, ma servono anche ad attirare turisti? «Direi che quest’anno, più degli altri anni, l’Associazione Volpara Viva ha puntato proprio su cercare il più possibile di attirare turisti; hanno puntato su una massiccia campagna pubblicitaria sia cartacea, distribuendo brochure nei vari info point e ovunque possibile, ma soprattutto sui social». Volpara è una realtà che ha molto da offrire, ma occorre una maggiore valorizzazione... a riguardo quali progetti ha la sua amministrazione? Quali difficoltà dovete affrontare? «Negli ultimi anni sta diventando sempre più complicato cercare di riuscire a realizzare qualcosa per il proprio paese, soprattutto per la totale mancanza di fondi; i trasferimenti pubblici sono sempre
Fusione: «Allo stato attuale, credo che difficilmente riusciremo a riparlarne» più vicini allo zero e diventa sempre più difficile rilanciare piccoli borghi come Volpara. Il mio comune deve affrontare (come altri) le diverse problematiche di un territorio molto bello, ma allo stesso tempo difficile da gestire». Sindaco Bossi pensa di ricandidarsi per le prossime elezioni? «No. Non mi ricandiderò, purtroppo per me sta diventando sempre più complicato conciliare il lavoro e l’impegno da sindaco». di Silvia Cipriano
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ARTE E CULTURA Stazione di Voghera: “Allontanarsi dalla linea gialla”, l’annuncio che anticipa l’arrivo del treno. I pendolari sperano di riuscire ad accaparrarsi un posto, già li aspetta un’impegnativa giornata di lavoro; gli studenti estraggono dagli zaini appunti e libri e c’è chi spera di incontrare un’anima gentile che lo aiuti a trascinare il bagaglio per l’impervia scaletta di accesso al treno. La folla della banchina si riversa all’interno dei vagoni e durante il viaggio, breve o lungo che sia, i passeggeri si rilassano ascoltando musica o fanno conversazione con perfetti sconosciuti oppure incontrano amici che non vedevano da tanto tempo; il treno non è un mero mezzo di trasporto, ma una macchina complessa fatta di persone e messa in moto da professionisti come Salvatore Cicciò ex macchinista dei famosi Pendolini e oggi presidente del Museo Ferroviario di Voghera intitolato a Enrico Pessina. Cicciò si occupa di catalogare vecchi e “nuovi” cimeli che sono nient’altro che la testimonianza di viaggi e di ricordi legati anche al nostro territorio, ricordi resi vividi dalla piccola sezione del museo dedicata all’ex Voghera – Varzi. La collezione del museo è in continua crescita e c’è proprio di tutto… «Sì, dai classici fanali dei treni, alle cappelliere; fino a tutti i vari allestimenti interni delle vecchie carrozze. Multe, permessini rilasciati ai ferrovieri… e cimeli risalenti addirittura al 1915. Ricordiamo l’Associazione “Chemin de Fer” di Milano, che ci porta la documentazione relativa alla storia ferroviaria milanese». Il presidente del museo Salvatore Cicciò
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Museo ferroviario Enrico Pessina... sul binario giusto non è solo e può contare sull’aiuto del direttore Fulvio Petrella, dell’assistente tecnico Stefano Verdi e degli oltre cento membri dell’associazione “Amici della Rotaia”, quest’ultima si occupa di organizzare escursioni a carattere storico e Cicciò ci anticipa un’interessante progetto in collaborazione con il Dopo Lavoro Ferroviario iriense: «Il DLF di Voghera ci ha dato la possibilità di creare un percorso che permetterebbe di accedere ai treni storici che partono da Milano Centrale. Stiamo cercando di organizzare dei tour a bordo dei treni a vapore, riservando una vettura alle scolaresche di Voghera, così da aggiungere valore al Museo. Queste escursioni seguirebbero le tratte Milano-Pavia e Cremona, Alessandria». Attenzione per le scolaresche e per i giovani «Ci rivolgiamo ad un pubblico variegato, che comprende anche i giovani. A prova di ciò posso dire che sono venute tantissime scolaresche in vista al Museo. All’inizio dell’anno ho lasciato ai Dirigenti Scolastici l’invito a venire a trovarci, invito che è stato ben accolto». Pensa che la Greenway, che ripercorre la vecchia ferrovia Voghera – Varzi, possa migliorare l’afflusso di pubblico? «Si, abbia-
Salvatore Cicciò, Stefano Verdi e Fulvio Petrella mo avuto vari visitatori dal milanese che si sono fermati in museo arrivando dalla Greenway». Ci giungono voci su un eventuale ampliamento del museo e Cicciò “mettendo le mani avanti” ci spiega «È un po’ presto per parlarne, comunque le posso dire che è un’iniziativa che stiamo portando avanti con l’Amministratore delegato di ASM. Vorremmo utilizzare la vecchia biglietteria della linea Voghera – Varzi per aggiungere spazio al museo, con l’obbiettivo di riqua-
lificare gli spazi. Inoltre stiamo pensando alla sistemazione della vecchia locomotiva all’interno dei giardini della stazione». Come vi sostenete? «Per quanto riguarda gli sponsor, il Cowboy’s Guest Ranch Voghera ci ha donato la targa e il Signor Foresta ci ha donato una somma di denaro utilizzata anche per la realizzazione dei concorsi di poesia». di Federica Croce
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ARTE E CULTURA
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Circolo fotografico “Sulle Rive del Po” un passatempo che dura da quasi 40 anni... “Sulle Rive del Po” è un circolo fotografico nato ormai da qualche tempo e fondato da Roberto Maggi, abitante di Bressana Bottarone. Da subito, Roberto, testimonia un grande entusiasmo e una grande determinazione nello spiegare il motivo per cui è nato il gruppo e per cui ha investito personalmente nella strumentazione che serve alla realizzazione pratica delle lezioni. La passione per la fotografia è la parola chiave di questa intervista, anche quando è “solo” un passatempo che dura da quasi 40 anni... Roberto, quando nasce il circolo fotografico “Sulle Rive del Po”? «Il nostro circolo è stato fondato da me, circa 2 anni fa a Pinarolo Po. In un primo momento ci siamo aggregati io ed alcuni amici appassionati ad una associazione fotografica privata già esistente a Pinarolo. Dopo una breve collaborazione ci siamo però accorti di trovarci nettamente divisi ideologicamente e abbiamo deciso di abbandonare il gruppo fondandone uno tutto nostro, sempre nel comune di Pinarolo. L’esperienza dell’associazione è quindi molto recente, ma io sono un appassionato di fotografia da oltre 40 anni». Siete stati “aiutati” nel creare questa associazione? «Fortunatamente il Comune si è dimostrato davvero generoso nell’offrirci alcune sale dove poter svolgere le lezioni teoriche, poi io personalmente ho provveduto all’acquisto di tutta l’attrezzatura necessaria allo svolgimento delle varie lezioni sia pratiche che teoriche, come l’acquisto di un proiettore e di un treppiedi». Perché il nome “Sulle Rive del Po”? «L’ho chiamato così perché essendo io nato a Rea, comune che si affaccia sul fiume Po, ho sempre subito un certo fascino da parte di questo grande fiume e degli aspetti ad esso legati e sto cercando da sempre di raccogliere fotografie che rappresentino la vita sul fiume: la transumanza, i vigneti, i castelli, i mercati domenicali... Ho già raccolto parecchio materiale e non nego che mi piacerebbe tenere una mostra tutta dedicata ad alcuni di questi soggetti». Quali sono i soggetti che preferisce immortalare? «Non esiste un paese (o quasi) che non possegga un castello e molti di essi vengono lasciati completamente all’abbandono, privati o pubblici che siano... io mi reco alla ricerca di questi luoghi “dimenticati” per fotografarli. Altro soggetto che amo sono le fornaci di cui il nostro Oltrepò soprattutto nella “bassa” era pieno, sono anni che cerco di ritrarle in tutta la loro unicità». La finalità del vostro circolo, oltre a quella di insegnare la fotografia è anche quella di organizzare delle esposizioni che raccontino l’Oltrepò... «La nostra idea è stata da subito quella di non limitarci al territorio di Pinarolo Po, ma di espanderci e di essere sempre molto attivi in tutto l’Oltrepò.
Siamo quindi partiti con tantissime iniziative: una mostra al centro commerciale Iper di Montebello della Battaglia, nella galleria fotografica del centro; una mostra permanente presente tutt’ora alla Trattoria Quaglini di Borgo Priolo, che ha avuto un grande successo e lo stesso proprietario del ristorante ci ha chiesto di non cambiare le foto che avevamo esposto nella varie sale, visto che la clientela si era molto interessata; una mostra presso uno spazio adibito durante il “Bevi a Montù” che c’è stato poco tempo fa, in cui tutti le persone presenti per l’occasione hanno potuto vedere i nostri lavori. Inoltre ogni ultimo venerdì del mese teniamo delle lezioni specifiche presso Castelletto, dove alcune personalità di spicco della fotografia, come Marcella Milani tengono delle lezioni specifiche su alcuni argomenti interessanti e fondamentali; la stessa collaborazione funziona molto bene anche per quanto riguarda le mostre». Quanti iscritti contate? «Inizialmente, quando il nostro circolo non si era ancora scisso dall’associazione privata alla quale ci eravamo inizialmente appoggiati, eravamo un bel numero, circa trentacinque iscritti; siamo rimasti ora in 12 fra fotoamatori d’esperienza e principianti alle prime armi, ma il nostro progetto sta proseguendo e devo dire con parecchi successi e tanto entusiasmo. La sindaca di Pinarolo Po è stata davvero molto disponibile e anche in futuro ci ha promesso che ci verrà incontro in tutti i modi possibili; l’assessore di Bressana Bottarone ci ha chiesto di organizzare qualcosa anche nel suo Comune… insomma, ci sentiamo totalmente appoggiati nel nostro lavoro!». I giovani rispondono a questo tipo di attività? «L’età media varia fra i 30 e i 40 anni. Non abbiamo notato una grande partecipazione giovanile o studentesca… forse perché i giovani non si vogliono prendere l’impegno di mantenere la frequenza del corso, non capisco per quale altro motivo non dovrebbero interessarsi a un’attività del genere». Come è strutturato il corso: esistono lezioni sia teoriche che pratiche? Dove avvengono? «Abbiamo organizzato sin da subito un corso di fotografia di base, con due lezioni alla settimana presso la biblioteca di Castelletto e subito dopo, il Comune ci ha chiesto se potevamo ripeterlo, essendoci nuova richiesta di iscrizioni. Alle lezioni teoriche, seguono ovviamente degli incontri pratici che avvengono all’esterno dell’aula e in diversi luoghi con diversi soggetti; a settembre 2018 prenderà il via un corso più specialistico, leggermente più avanzato del precedente, magari dedicato all’astrofotografia e ad altri argomenti molto interessanti e non
Roberto Maggi, referente del gruppo Fotografico “Sulle rive del Po” scontati. Siamo comunque sempre aperti a nuove proposte… anzi, se qualcuno fosse interessato ad argomenti particolari saremo contenti di poterli aiutare e organizzare qualcosa a riguardo». Per partecipare si paga una quota associativa? «No, il nostro corso è totalmente gratuito. Le sale in cui si tengono le lezioni sono totalmente offerte dal comune e la strumentazione da me, quindi per questi non sono previsti costi. L’unica spesa subentra quando magari si organizzano delle mostre, per il resto non sono previste spese». Avete mai lavorato per qualche comune dell’Oltrepò, realizzando dei progetti o scattando delle foto ai paesi per i vari archivi o siti? «Sì, il Comune di Bressana ha voluto rinnovare il sito web, con delle foto del territorio: mi sono occupato personalmente delle fotografie panoramiche del paese. Il Comune di Pinarolo Po ci ha chiesto la stessa cosa, ma avendo più tempo per tutta l’organizzazione, ho deciso in quest’occasione di allestire due diversi concorsi fotografici aperti a tutti e con diversi soggetti “Pinarolo 2019” dedicato a Pinarolo Po e ai suoi cittadini, l’altro “l’Oltrepò” e come dice il nome permette di fotografare qualsiasi luogo della nostra zona. Le fotografie verranno selezionate da un gruppo di esperti e i partecipanti hanno tempo per inviare i loro scatti fino al 31 agosto. Sono previsti per i vincitori dei due concorsi premi e la pubblicazione delle foto sia sul sito del Comune sia per la realizzazione di un calendario che verrà distribuito a fine anno». La fotografia è da sempre non solo un’arte ma anche un passatempo molto apprezzato. Lei non pensa però che lo schiacciante incalzare dei social network e dei cellulari stia in qualche modo soffocando il concetto di scatto fotografico? «Assolutamente sì. La fotografia nasce per essere stampata: non si può pensare che un cellulare con un sensore così piccolo, possa scattare una foto destinata alla stampa, è
ovvio che l’immagine si sgrani. Uno dei più importanti fotografi d’Italia, Gianni Berengo Gardin, sostiene che la fotografia sia solo quella fatta attraverso pellicola, e che quelle digitali non siano vere fotografie. Io credo che nella fotografia ci debba essere posto per tutti… nei limiti della decenza, senza esagerare nella modifica delle foto attraverso i vari programmi come Photoshop ad esempio, deve esserci un certo equilibrio. La fotografia analogica sta in qualche modo, comunque, tornando in voga… più che altro per moda, ma molti appassionati stanno cercando di tornare agli albori dell’arte del fotografo». è possibile trasformare questo hobby in un lavoro? «Sicuramente è possibile, come per tutte le cose se si vuole farle in un certo modo è necessario accompagnare alla grande passione anche tanto studio e lavoro. Per quel che riguarda il nostro circolo possiamo portare la testimonianza ad esempio il Comune di Pinarolo Po ci ha commissionato di immortalare tutte le varie manifestazioni che avverranno durante l’anno, in modo da poterle archiviare... Questo è un primo lavoro nato proprio dalla nostra attività di corso». Per iscriversi al vostro corso è necessario possedere una macchina professionale? «Assolutamente no. Per partecipare sia al corso che ai concorsi, non serve una macchina professionale, ma io cerco di scoraggiare l’uso del telefono cellulare Basta avere una macchina fotografica qualsiasi ecco». Avete in programma eventi per l’estate? «Assolutamente e diversi. A luglio faremo una mostra fotografica all’aperto a Castelletto e una mostra fotografica a Pinarolo Po con immagini subacquee registrate nella baia di Portofino, immagini dell’ amico Michele De Gregorio. In agosto sempre a Castelletto in occasione della sagra del paese allestiremo e a metà settembre terremo una mostra a Canneto Pavese». di Elisabetta Gallarati
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«Siamo come i calciatori che rappresentano la Nazionale. Portiamo in giro il nome Oltrepò» Un riferimento alla vodka, bevanda tipica dei paesi dell’est come Russia e Ucraina, e un altro alla musica folk. Così nasce il nome della band stradellina Fodka. Nata per volontà del batterista Tommaso Tedeschi, la band vanta ora sei elementi oltre a lui: la cantante Matilde Pasquini, la seconda voce e chitarrista Lorenzo Tizzoni, al violino Chiara Lessi, al basso Andrea Massara, alla chitarra Luca Cignoli e Christian Achilli che suona sia fisarmonica che keytar. Un bel gruppo di amici che racconta questa entusiasmante esperienza. Quando è nata l’idea di formare una band? «Circa quattro anni fa. Appassionati di musica gypsy, un po’ folk, ci è venuta voglia di provare a creare qualcosa… prima eravamo in pochi, poi la formazione si è completata e abbiamo iniziato a suonare anche in giro. Prima c’è stato un periodo di prove, per avere qualcosa da proporre durante le esibizioni live, che è durato un bel po’ di tempo». Che genere di musica fate? «Gypsy Punk, Raggae, Indie Rock e Shusha. Proponiamo principalmente cover, di gruppi a volte sconosciuti per tante perso-
ne, ma che poi vengono apprezzati». A chi vi ispirate? «Principalmente ai Gogol Bordello. Poi a Dropkick Murphys, Duo Bucolico, The Rumjacks e Alestorm». Scrivete canzoni? «Abbiamo iniziato a scrivere qualcosa e presto le proporremo. Ognuno di noi ascolta musica differente abitualmente, chi più sul metal, chi sul pop. Contiamo molto su questa nostra varietà di gusti quando scriviamo». La formazione del gruppo è cambiata rispetto all’inizio? «Un pochino sì… all’inizio eravamo di più, ma poi due persone, un chitarrista e una cantante sono usciti dal gruppo per motivi personali, legati soprattutto a distanza e studio. E quindi siamo rimasti in sette». è comunque un bel numero per una band… «Sì, perché oltre agli strumenti della band diciamo normale, quindi basso, chitarra, batteria, noi abbiamo anche violino e fisarmonica, che sono gli strumenti fulcro del nostro genere». L’utilizzo della fisarmonica vi lega a
doppio filo con Stradella… «Christian è davvero bravissimo nel suonare questo strumento e in più lavora in una fabbrica stradellina della fisarmonica, quindi è a contatto diretto tutti i giorni. è davvero perfetto in questo ruolo, ed è un po’ “il Beppe Vessicchio” della band! Il legame con il territorio poi è indiscutibile e infatti noi teniamo molto a questo strumento…» Avete iniziato a conoscervi con la band o vi conoscevate già prima? «Qualcuno di noi si conosceva già bene, altri solo di vista, ma essendo tutti della zona tra Stradella e Broni sapevamo più o meno tutti chi eravamo…» Avete interessi comuni al di fuori della band? «Sì, ci piace andare fuori insieme, assistere ad altri concerti, poi ci piace il calcio… però la musica è il filo conduttore della nostra amicizia. Il rapporto è molto bello, ci supportiamo molto e ci confrontiamo sempre in maniera costruttiva. Qualche discussione è normale, ma in generale andiamo molto d’accordo. Il range di età varia molto, alcuni di noi già lavorano, mentre altri sono nell’anno della maturità scolastica:
quindi i problemi possono essere diversi, ma ci veniamo molto incontro». Dove avete la sala prove? «Utilizziamo la taverna della casa di Matilde: l’abbiamo adibita e insonorizzata e proviamo lì. Da quando siamo lì siamo migliorati tantissimo, perché abbiamo molto più tempo per provare». Invece i live dove li fate? «Abbiamo girato molti locali della zona, da Torricella Verzate a Pavia…» Avete in programma delle serate? «Abbiamo appena ripreso, perché da gennaio a maggio ci siamo dedicati alla scrittura de nostri pezzi». Quando fate le vostre serate, grazie alla vostra provenienza e all’uso della fisarmonica, rappresentate il territorio Oltrepò. Cosa significa per voi? «è bello. Se si può fare un esempio, siamo come i calciatori che rappresentano la Nazionale. Portiamo in giro il nome Oltrepò, e il fatto della fisarmonica ci contraddistingue maggiormente e ci permette di rappresentare la nostra zona che è davvero unica. Siamo molto legati al nostro territorio». Tommaso, essere sul palco deve essere emozionante…
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I sette componenti della band stradellina “Fodka” «Molto, davvero. Fin da piccolo sono sempre stato dall’altra parte del palco, ho visto tanti concerti e adesso farli è una bella soddisfazione. Anche se suoniamo nelle sagre del paese o in piccoli locali c’è sempre una grande emozione». Un bilancio fino ad ora… «Direi benissimo… sono molto contento e spero di andare avanti con questa band per tanto tanto tempo, finchè si potrà… diventando grandi cambieranno anche gli impegni di ognuno di noi, ma cercheremo sempre di tirare fuori qualcosa di bello». Dopo il fondatore della band, hanno preso la parola anche gli altri componenti. Lorenzo Tizzoni, cantante e chitarrista «Ho scoperto per caso che stavano formando una band e ho deciso di provare anche perché conosco Tommaso da quando siamo piccoli. Io avevo già provato con altre band prima, ma qui è tutta un’altra cosa, siamo davvero una famiglia! Per me la musica è la più grande passione e il mio sogno è quello di farla diventare un lavoro, quando sono sul palco c’è un’ansia positiva che mi permette di avere la grinta giusta: a me personalmente, poi, piace muovermi mentre canto e andare in mezzo al pubblico, peccato che il tempo vola! Essere parte di Fokda per me è importantissimo, vuol dire avere un gruppo di amici e di persone su cui contare sempre, al di fuori della famiglia. Amici che condividono con te la passione per la musica, ma che sono amici veri, siamo una squadra infallibile. La nostra unione e complicità si può vedere anche sul palco: magari lo spettatore non nota l’errore tecnico che a volte può esserci, ma capisce la chimica che c’è tra di noi». Matilde Pasquini, cantante «Far parte della band significa per me riuscire ad acquisire, attraverso l’ambito musicale, dei valori a cui tengo tantissimo… come per esempio l’umiltà di riuscire a collaborare con gli altri, cercando di porsi sempre sullo stesso piano, ma anche il fat-
tore della concentrazione che è molto importante, considerando che siamo in sette. E poi ancora il fatto di riuscire ad affrontare le cose con lo spirito giusto, rispettandosi e riuscendo anche a capire quando è il momento di scherzare e di conseguenza riuscire ad accettare le critiche e a migliorarsi. Un altro aspetto fondamentale è la sincerità perché oltre ad essere “colleghi di musica” se così ci possiamo chiamare, siamo prima di tutto amici: una critica se è fatta in modo sincero e costruttivo può aiutare tantissimo. Sono tanto felice di far parte di una band che va d’accordo… i momenti di lite ci possono essere, ma nella maggior parte del tempo riusciamo ad andare d’accordo e ci veniamo incontro quando le idee sono divergenti. Un motivo di orgoglio per me è riuscire a fare qualcosa, nello specifico capire qual è il mio punto di forza e nel mio caso penso che sia quello di mantenere la presenza scenica, che cerco sempre di mettere a disposizione come fattore determinante per migliorare me stessa e la band e riuscire a stabilire un buon contatto tra noi e il nostro pubblico. Nonostante si faccia un genere che non è molto conosciuto e che all’inizio si fa forse fatica a capire, alla fine tutti ne rimangono entusiasti perché la nostra musica è decisamente ballabile e rappresenta un momento di sfogo. è un genere diverso da quello che si sente in giro o nelle radio, però è un genere che non cerchiamo di imitare ma soltanto di prendere come spunto per poi ricamarci sopra tutto il nostro profilo personale di band, con una personalità spiccata: la libertà di espressione è massima e riusciamo a fare anche dei nostri pezzi, che stiamo proprio scrivendo in questi mesi, nei quali cerchiamo di riversare il nostro lato più strano, più matto ed artistico. Sono contenta che ci siano più maschi che femmine nella band, perché solitamente con le donne diventa difficile parlare, vogliono tutte primeggiare e i rapporti sareb-
bero più difficili. I maschi sono esuberanti però alla fine sono “innocui” rispetto alle donne! Se fossi in una band di sole donne probabilmente impazzirei! Con Chiara, invece, ci compensiamo molto bene». Christian Achilli, fisarmonica «Io sono uno dei primi componenti del gruppo. Ho sempre suonato nel mondo della musica da ballo liscio e cambiare genere è stata un’esperienza unica, così come lo è stato portare avanti il progetto di una band. I miei compagni d’avventura sono per me come fratelli, so che è difficile mettere insieme sette teste, ma abbiamo una bellissima sintonia, sia sul palco che fuori. I miei famigliari mi hanno trasmesso la passione per la fisarmonica e grazie poi alla scuola media di Stradella ho potuto suonare questo strumento. Uno strumento completo, che viene visto soprattutto nelle balere, ma ciò non toglie che possa essere suonato in qualsiasi altro contesto. Cercherò di portare avanti questa passione il più possibile». Luca Cignoli, chitarra «Per me suonare in questa band è molto importante. Agli inizi non era così e mancavo spesso alle prove…poi parlando con Tommaso ho deciso di prendere seriamente questo impegno ed ora ne sono felice. Vorrei quindi ringraziarlo pubblicamente per avermi spronato a dare il massimo. Le prove che facciamo sono un momento di svago, perché alla fine suonare è bello e mi diverte, ma sono anche un momento che richiede serietà e concentrazione per riuscire a migliorare sempre di più nell’esecuzione dei brani, ma soprattutto a creare e incrementare la sintonia di un gruppo…che è un elemento fondamentale e noi, a mio avviso, ne abbiamo da vendere. Abbiamo avuto i nostri periodi bui, sia come singoli che come gruppo, ma ne siamo sempre usciti e ora siamo più affiatati che mai. I momenti più belli sono le serate live, soprattutto quando vediamo che il pubblico canta e balla insieme
a noi, perché vuol dire che siamo riusciti a trasmettere la nostra stessa passione per un genere musicale non troppo conosciuto nelle nostre zone». Chiara Lessi, violino «Per me è stato l’avverarsi di un sogno, dato che fin da piccola ho sempre sperato di far parte di una band. Suonando però uno strumento più adatto alla musica classica, mi ero quasi rassegnata all’idea che non sarebbe mai successo. Alla fine si è rivelato ancora meglio di quello che pensavo, perché il genere che facciamo è unico e fa venire voglia a chiunque di saltare e vedere che siamo noi, con le note che escono dai nostri strumenti e voci, a far ballare il pubblico intorno non può che renderci felici. All’inizio io, essendo un po’ introversa di carattere, sembravo uno stoccafisso, ma suonando in pubblico ho imparato anche io a muovermi sul palco e soprattutto ad aprirmi di più con le altre persone, a superare un po’ la mia grande timidezza. Quindi posso dire che questa esperienza mi ha arricchito, non soltanto dal punto di vista musicale. Inoltre posso dire di aver trovato degli amici, perché il legame e l’intesa che si creano quando si suona insieme è qualcosa di fantastico». Andrea Massara, basso «Quando sono entrato a far parte dei Fodka non mi sarei mai aspettato di provare certe emozioni. Essere in questa band significa condividere la passione per la musica con altre sei persone che sono diventate i miei compagni di viaggio. Sicuramente le emozioni più forti le ho provate durante il primo spettacolo live che ha ripagato una grande mole di lavoro che è stata fatta in sala prove per essere poi pronti a suonare di fronte ad un pubblico numeroso. Mi auguro che questi momenti possano proseguire ancora per tanto tempo, perché ho tanti progetti da realizzare insieme agli altri e poi non c’è cosa più divertente che condividere il palco con dei “pazzi scatenati”! di Elisa Ajelli
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I vogheresi Sacher Quartet a Parigi
Incontriamo il Sacher Quartet per una chiacchierata dopo la loro esibizione alla Festa Nazionale del 2 Giugno, tenutasi presso l’Istituto Italiano di Cultura, all’interno dell’ambasciata Ocse in Parigi. Com’è nata l’opportunità di cantare a Parigi? «L’opportunità nasce grazie a Mariella Amisani, da sempre nostra affezionata sostenitrice. Questa nostra cara amica, seguendo la destinazione professionale del marito, l’ambasciatore Alessandro Busacca, un anno fa si è stabilita a Parigi. Ecco che, dovendo organizzare il Gran Galà previsto per la Festa Nazionale della Repubblica Italiana, con nostra grande sorpresa ma con altrettanta soddisfazione, ha deciso di affidare al nostro quartetto l’intrattenimento musicale». Che effetto vi ha fatto esibirvi in un contesto così prestigioso e internazionale? «Dobbiamo dire che ci siamo trovati perfettamente a nostro agio, grazie anche alla splendida ospitalità e accoglienza ricevute, che ci hanno messo nelle migliori condizioni per poter dare il massimo». Avete dovuto preparare un repertorio specifico? «Il repertorio, preventivamente concordato con lo staff organizzativo, ha annoverato brani prevalentemente italiani per rende-
re omaggio alla nostra nazione come ad esempio “Che sarà” e “Quando quando quando”, ma ha toccato anche brani classici internazionali come “On the sunny side of the street” per onorare la presenza degli ambasciatori e diplomatici provenienti da vari stati del mondo inoltre, per la prima volta in 28 anni di carriera, abbiamo aperto la nostra esisbizione cantando l’Inno nazionale italiano». Com’è stata l’accoglienza da parte del pubblico? «Pensavamo che l’accoglienza sarebbe stata molto formale e distaccata, come si conviene a ricevimenti di questo calibro. In realtà, fin dalle prime battute, abbiamo riscontrato una partecipazione calorosa e coinvolta che ha portato alcune coppie, sul finire della serata, ad azzardare anche qualche passo di danza. Tutto ciò grazie alla varietà ed esclusività del nostro repertorio e alle caratteristiche vocali e musicali che ci hanno sempre contraddistinti». C’è stato un momento particolarmente emozionante? «Sicuramente il momento in cui l’Ambasciatore e consorte ci hanno ufficialmente presentati in lingua inglese a tutti i parteciparti ringraziandoci pubblicamente per aver accettato l’invito a partecipare all’evento portando un pizzico di italianità.
Subito dopo, quando abbiamo intonato l’Inno nazionale italiano, di fianco alle autorità e alla bandiera italiana e europea, l’emozione ha toccato il suo massimo livello». Con quale formazione vi siete esibiti? «Per valorizzare al meglio l’ armonia delle nostre voci abbiamo scelto di esibirci con il solo accompagnamento al pianoforte del maestro, nonché nostro arrangiatore, Andrea Girbaudo. Scelta che si è rivelata particolarmente azzeccata vista la presenza del preziosissimo pianoforte a coda di marca Fazioli, in assoluto il più pregiato al mondo. La scelta dell’esibizione piano e voce si è rivelata la carta vincente della serata in quanto molto differente dai soliti cliché previsti in queste solenni occasioni». Cosa vi ha lasciato questa esperienza? «Un’enorme soddisfazione, l’orgoglio di essere stati all’altezza della situazione e, una volta tornati, l’aver riscoperto una volta di più l’affezione dei nostri sostenitori che, a distanza di un paio di settimane, continuano a dimostrarci il loro affetto e la loro stima. Inoltre, con nostra sorpresa, proprio in queste ore abbiamo ricevuto una lettera manoscritta a firma dell’Ambasciatore e consorte, che ci ringraziano della partecipazione e si augurano di poterci nuovamente ospitare in futuro».
Sacher con Andrea Girbaudo a Parigi con Ambasciatore e Consorte Sappiamo della recente uscita della vostra biografia. Che effetto vi ha fatto ritrovarvi sulle pagine di un libro? «Il libro, scritto con infinita pazienza dal caro amico Angelo Vicini, è stato l’occasione per fissare sulla carta i nostri primi 28 anni di carriera. Un lavoro di ricerca molto lungo e meticoloso data la vastità del nostro archivio, ma che ci ha permesso di ripercorrere piacevolmente la nostra vita artistica ripescando dalla memoria anche fatti magari parzialmente dimenticati o accantonati. A compendio del lavoro editoriale abbiamo fortemente voluto includere un CD con tre brani in dialetto vogherese, realizzato in collaborazione con alcuni dei musicisti con cui abbiamo avuto il privilegio di esibirci durante tutti questi anni. Il libro è tuttora nelle librerie vogheresi e sta avendo un buon riscontro di vendita». Prossimi progetti e concerti? «Passata la sbornia da champagne parigino continuamo la nostra consueta attività live. Saremo in veste di coristi a Montebello della Battaglia con un concerto omaggio a Fabrizio De André a supporto dell’ensemble». di Paola Fabri
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Dal pallone alla pallina: Massimiliano Incisa Massimiliano Incisa, oltrepadano d’adozione, è nato a Roma 45 anni fa e conserva della capitale la fede giallorossa, che condivide con il fratello. La sua grande passione per il calcio lo ha portato dal sedere in panchina al giocare in campo. Un vecchio adagio dice che tutti i portieri sono un po’ matti, perché non hanno paura di mettere la faccia dove gli altri mettono i piedi. Ma nel caso di Incisa non lasciatevi ingannare dalla sua aria sbarazzina: per ottenere certi risultati sportivi sono necessari rigore e disciplina, e che questi ti accompagnino anche fuori dal campo. Due qualità che “anche se di palloni non ne tiri più’’, come dice lui, “diventano parte di te, della tua vita e del tuo lavoro”. Vive a Salice Terme, luogo che lo ha visto esordire nel mondo del calcio e non solo. Oggi, infatti, Massimiliano è membro del Golf Country Club di Salice e da circa cinque anni lo vediamo impegnato sul green. La sua pregressa formazione calcistica e sportiva lo ha agevolato, consentendogli di raggiungere risultati importanti. Lei ha esordito calcisticamente nello stadio di Salice Terme. Cosa ricorda di quel periodo? «Ero un ragazzino, avevo più o meno 10, 12 anni. Erano i tempi del mitico Lino Baldo e dell’altrettanto mitico Torneo Gazzebo». Dopo Salice è approdato a Varese. Com’è andata? «Mi hanno notato alcuni osservatori del Varese durante il torneo Gazzebo. All’epoca la prima squadra del Varese militava in C1. Avevo 13 anni e con la mia valigia in mano sono partito! Collegio e allenamenti sono stati la mia vita per quei cinque anni in cui ho militato nel Varese, partendo dagli Allievi per arrivare alla Prima Squadra. Ho debuttato in C1 con la Prima Squadra a 17 anni». L’esperienza nel Varese la considera positiva? «Assolutamente, ho avuto modo di giocare con calciatori del calibro di Pessotto, Ambrosetti, Vanoli e devo dire che anche l’esperienza del collegio la considero positiva perché mi ha dato quel rigore e quella serietà che mi sono rimaste tutt’ora». Dopo come sono andate le cose? «È successo che la società è fallita. E così, padrone del mio cartellino, sono andato in diverse altre squadre: il Pro Patria che militava in C2, il Derthona nel campionato Interregionale, poi Vogherese, Varzi e Bastida». Quando ha iniziato a giocare a golf? «Cinque anni fa. Anche se smetti di fare sport ti rimane la voglia di muoverti e ti rimane lo spirito di competizione. E quando vedi tutto quel verde ti scatta la scintilla.» Lei ha giocato come professionista in uno sport di squadra, ma il portiere è un uomo solo, come il giocatore di golf. Dal pallone alla pallina: quale il più adrena-
Massimiliano Incisa con il figlio sul green di Salice Terme
linico? «Per quanto mi riguarda il calcio, anche se le emozioni delle gare importanti nel golf sono una buona prova adrenalinica». Da calciatore, la partita che più le ha fatto aumentare i battiti cardiaci? «Direi due: la partita in cui da secondo portiere sono entrato per sostituire il titolare che aveva subito un grave infortunio e poi quella nel settore giovanile del Varese contro la Nazionale italiana. Andare in porta e passare la palla a giocatori di un altro pianeta come Baggio, Crippa, Baresi… è stato indimenticabile!». Da golfista? «La prima gara è quella che in assoluto ho sentito di più. L’ho disputata cinque anni fa a Salice, dopo sei mesi di allenamento con il maestro. Appoggiare la pallina sul legnetto, tirare e non sbagliare, le persone che ti guardano… nel golf il difficile è rompere il ghiaccio, poi ti abitui a gestire le emozioni». Quante ore di allenamento dedicava al calcio e quante ne dedica al golf? «Da portiere circa due ore e mezza tutti i giorni e un doppio allenamento due volte alla settimana. Nelle squadre minori quattro volte alla settimana. Il bello del golf è che lo puoi prendere ‘‘così come viene’’, oppure farlo seriamente. E io, che ho uno spirito competitivo, l’ho preso sul serio: cinque ore di allenamento alla settimana di pratica». Per un portiere il preparatore è fondamentale per migliorare la tecnica. Nel golf quanto è importante il maestro? «Il maestro di golf è più simile al maestro di tennis; una decina di lezioni servono per imparare il movimento che è alla base della disciplina. Direi che preparatore e maestro sono alla pari per importanza, al fine di apprendere meglio la tecnica. Il maestro bravo, poi, lavora anche sull’emotività dell’allievo». Se le dovessero offrire una carriera da professionista nel mondo del calcio o nel mondo del golf, quale sceglierebbe? «Il calcio, perché sei parte di una squadra che gioca per un obbiettivo comune. Il golfista gira il mondo da solo!».
Com’è il ‘‘terzo tempo’’ nel golf? «Nel golf non giochi contro altri giocatori, ma contro il campo. Il controllo del monitor è il momento in cui ti trovi con gli altri giocatori che magari sono stati con te sei ore, ma con cui non hai parlato. Nel calcio diventi quasi fratello del tuo compagno di squadra. Nel golf, invece, tra cento persone leghi con quattro o cinque». Lei vive a Salice, località che ha la fortuna di avere un campo da golf; inoltre frequenta, in giro per l’Italia e all’estero, diversi green. Dal punto di vista dell’atleta, che cos’ha in più o di diverso il Golf di Salice? «Più libertà di movimento. Possiamo decidere come allenarci rispetto ad altri circoli dove devi mantenere un’etichetta, un certo rigore e silenzio. È un resort, non è solo un campo da golf, offre qualsiasi genere di attività per adulti e bambini, è come essere in un villaggio turistico di lusso». Come cura l’alimentazione? Il ristorante del Golf Club offre anche la possibilità di seguire una dieta da atleta? «Sto molto attento e il ristorante offre la possibilità di mangiare da atleta oppure di gustare la cucina tradizionale». Si è soliti pensare che il golf sia uno sport praticato e seguito dall’élite, magari con la puzza sotto il naso. Ha riscontrato questo atteggiamento ‘‘ostile’’ nei confronti di chi si avvicina a questo sport esclusivo, oppure è un mito da sfatare? «Io avevo timore di entrare in questo ambiente e in effetti capita che in alcuni circoli la gente addirittura smetta di parlare per squadrarti. A Salice Terme questo non accade: varcata la soglia ho trovato un mio ex compagno di calcio, e ho proseguito con lui». Il golf è uno sport particolarmente costoso, come si è soliti pensare, o è uno sport accessibile? «Mio figlio, il più piccolo, gioca sia a calcio che a golf. Nell’arco di un anno mi costa meno il golf, meno della metà rispetto al calcio. A Salice, ad esempio, fino ai 14 anni non si deve versare la quota associativa, si paga solo l’iscrizione al club dei giovani». Non per farmi gli affari suoi, ma lei che quattordicenne non è più e gioca tutte le settimane… quanto spende all’incirca in un anno? «A me costa circa 1350 euro all’anno, comprensivi di: armadietti, spogliatoi, asciugamani e della possibilità di andare in campo quando voglio. Se andassi in palestra a seguire un paio di corsi mi costerebbe la stessa cifra». Suo figlio minore gioca sia a calcio che a golf: una sua scelta? «È stata una scelta del bambino, mi emula molto e vuole provare a fare tutto quello che faccio… senza forzature!». Da genitore, a suo giudizio è più educativo uno sport di squadra come il calcio, o uno sport più riflessivo come il golf?
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«Sono entrambi educativi. Il calcio ti insegna a confrontarti con gli altri e ad accettare anche coloro che senti meno affini. Il golf invece ti insegna a gestire te stesso, perché sei solo sul green. E il rispetto… che nel calcio ultimamente manca, soprattutto tra gli spalti». Genitori in tribuna: sì, o meglio di no? C’è la stessa affluenza da parte dei genitori durante le gare di golf? «Nel golf ci sono genitori che tengono a vedere il figlio giocare, ma a Salice esiste una regola per la quale, nelle gare giovanili, il genitore non può stare in campo, quindi il disturbo che potrebbe comportare è ridotto. Il golf per i giovani è un gioco; nel calcio, alla stessa età, devi già vincere e ci sono dinamiche diverse… magari devi stare in panchina, ad esempio». La sua carriera calcistica l’ha vista approdare alla C1. Nel golf che livello ha raggiunto? «Ho raggiunto un buon livello, ma amatoriale, paragonabile alla Promozione nel calcio. Per arrivare a questo livello ci sono voluti cinque anni. Nel golf la qualità agonistica è misurata da 54 a 0: più ti avvicini allo 0 e più significa che sei forte. Ora sono a 8». Pensa di riuscire a raggiungere lo 0? «No, è un impegno arduo. Devi fare solo quello tutto il giorno e avere la testa libera, quindi non ti è concesso nemmeno pensare al lavoro. Arrivare a 0 vuol dire essere un vero professionista». Talento e allenamento nel golf. «Fino a 7, 8 handicap puoi ancora arrivarci con il solo allenamento, anche se ti manca il colpo in più. Per arrivare allo 0 devi avere un talento innato, che migliori con l’allenamento». Nel calcio una delle figure più contestate è l’arbitro, nel golf come viene gestita la gara? «I giocatori che fanno parte del tuo gruppo di partenza segnano i punti del compagno a fianco. Possono esserci discussioni, ma nel caso accada, una palla la giochi come vuoi tu, e una come ti ha suggerito il tuo marcatore. Alla fine è il giudice che decide. Nel golf si applica alla lettera il regolamento, che contempla tutti i casi e quindi non ci sono controversie o dubbi». Abbiamo parlato della sua carriera sportiva, ma lei è anche un imprenditore oltrepadano. Succede solo nei film o può capitare nei Golf Club di avere incontri d’affari? «Succede spesso, anche in circoli dove non ti conoscono, di scambiare il biglietto da visita. Da quando gioco a golf ho allargato il mio raggio d’azione. La maggior parte di quelli che giocano sono businessman, e quindi è capitato di fare affari». La sua azienda ha una grande visibilità, e il suo marchio “Tecnoserramenti” si nota in diversi eventi sportivi. Perché investire in maniera così importante a livello pubblicitario nello sport? «In un posto dove ti aggreghi e che non ha a che fare con il lavoro, liberi la mente e osservi quello che vedi intorno. In un campo da golf poi dove per una gara percorri circa 6 chilometri ed hai 6 ore di tempo per vedere e rivedere la stessa cosa, alla fine ti entra per forza in testa». di Silvia Colombini
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Broni: «Campionato sostenuto di tasca nostra, ora andremo alla ricerca di sponsor» La squadra maschile di Broni, guidata dall’allenatore Matteo Filippo, ha vinto il campionato di Prima Divisione Pavese presso il palazzetto di Codogno (Pc). La squadra passa quindi, per diritto, al campionato di Promozione. Un traguardo da tanto sperato dai giocatori, che tentano il colpo da qualche anno e finalmente reso possibile dal loro fattore chiave: “il gruppo”. L’anno prossimo le spese però saranno notevolmente maggiori e non sarà facile riuscire a realizzare davvero il campionato senza qualche aiuto, stavolta, da qualche sponsor. Ragazzi a inizio campionato pensavate di poter arrivare a questa vittoria? «No, non pensavamo assolutamente che la vittoria fosse alla nostra portata. L’idea ha incominciato a farsi sentire quando abbiamo vinto la prima partita contro il Codogno in semifinale ed è stata davvero una partita super: a metà partita eravamo a più 20 punti per noi… e anche il nostro pubblico ha cominciato a sperare». Quali sono stati i punti di forza della vostra squadra? «Il nostro punto di forza è assolutamente il “nostro gruppo”, noi prima di essere una squadra siamo da sempre un gruppo di amici e nonostante spesso qualcuno salti degli allenamenti, o si faccia fatica ad esserci tutti, alla fine si trova il modo di tirare avanti la carretta. Senza gruppo, questo non sarebbe possibile. A gennaio abbiamo acquisito qualche giocatore nuovo che si è incastrato benissimo nel “nostro sistema” squadra». Quali gli ostacoli maggiori? «L’ostacolo maggiore è stato sicuramente la frequenza scarsa agli allenamenti: ci siamo allenati davvero poco, non ci eravamo quasi mai tutti, a volte in 6 a volte in 7, chi per un motivo chi per l’altro… e questo ci ha danneggiato in qualche modo creando un alone di malcontento che è rimasto per buona parte dell’anno. Alla fine però ci siamo rialzati senza troppi problemi, proprio grazie al nostro gruppo».
«La nostra vittoria è la prima dopo 25 anni per Eurobasket Broni, quindi vale doppio»
Eurobasket Broni: i ragazzi allenati da Matteo Filippo vincono il campionato di Prima Divisione Pavese
Quanto è importante una vittoria del genere e come è stata accolta da Giuseppe Zucconi, il vostro presidente? «La nostra vittoria nel campionato di Prima Divisione Pavese non va certamente sottovalutata. Nonostante non sia uno dei più alti livelli, non è stato per niente facile: si trovano comunque squadre forti con giocatori molto bravi e allenati. Inoltre, è la prima vittoria per Eurobasket Broni dopo forse 25 anni, e quindi vale doppio. Ora ci possiamo permettere di festeggiare tutta l’estate e con noi anche il presidente». I costi per sostenere un campionato di pallacanestro sono piuttosto elevati e variano a seconda della categoria. Quest’anno chi ha sostenuto i vostri costi? «Quest’anno il nostro campionato è stato sostenuto completamente di tasca nostra, dai giocatori. Non avevamo neanche uno sponsor e nessun altro ha partecipato alle spese». L’anno prossimo si alzerà il prezzo di partecipazione, in che modo riuscirete a coprire il budget necessario per partecipare alla Promozione? «Inseguiamo da diversi anni il sogno di salire in Promozione certo è che le spese, in un salto di categoria dalla Prima Divisione alla Promozione, cambieranno di circa 1000 euro in più rispetto a quest’anno e la cosa diventerà quindi più difficile: ognuna delle circa 10/12 gare tenute in casa (cioè nel nostro palazzetto) costerà 50 euro in più; ogni tesseramento singolo di giocatore costerà circa 10 euro in più (che moltiplicato per il numero totale non è poco) e poi le spese dell’affitto del campo che sono fra le più alte che prevediamo. Andremo alla ricerca di sponsor. Per for-
za». Quanto è importante la ricerca di sponsor per l’economia di una quadra? «Per una squadra come la nostra, che fino ad ora si è sempre autofinanziata, è davvero fondamentale a questo punto». Vi siete già messi ala lavoro per trovare possibili finanziatori? «Intanto noi non possiamo vendere qualsiasi tipo pubblicità agli esercizi commerciali e alle aziende, purtroppo non avendo la libertà di poter esporre cartelloni e striscioni pubblicitari nella palestra “Palaverde di Broni” dove giochiamo, in quanto non è di nostra gestione, una grossa parte di potenziali sponsor “ce la giochiamo”... Possiamo solamente far stampare delle nuove sopramaglie per le partite con i loghi delle varie attività che ci appoggeranno. L’unico altro modo per ottenere qualche soldo da bar e ristoranti (di cui è sicuramente ricca la nostra zona) è quello di prendere accordi con i vari proprietari per recarci nei loro locali post-partite e allenamenti a bere e mangiare qualcosa tutti assieme e “restituire” in questo modo i soldi che ci hanno dato… funziona così insomma». è una parte dello sport, quella di ricercare sponsor che vi piace? «Nella nostra categoria non si può sperare di portare a casa grosse cifre e chiudere contratti pubblicitari importanti, si fa una sorta di porta a porta e si chiede... e sembra quasi di chiedere l’elemosina. In altre realtà più grandi invece, non è così strano chiedere un aiuto economico in supporto a una squadra di basket nella nostra categoria. Solitamente quelli che poi ci aiutano maggiormente sono persone vicine a noi, con cui alcuni di noi hanno avuto rapporti lavorativi o altro».
Quanto e che genere di pubblico si reca a vedere le vostre partite? «Il pubblico che ci viene a sostenere alle partite è solitamente composto da persone di Broni-Stradella e comuni limitrofi, i nostri amici e parenti, appassionati di basket che ci conoscono e hanno piacere a vedere la squadra maschile giocare. Sicuramente abbiamo avuto molto pubblico durante gli ultimi gironi e soprattutto nei week end, in cui vedere una partita di pallacanestro può diventare un buon passatempo in alternativa alle solite cose». Quanto è importante essere presenti sui vari social network? Sono utili per diffondere la conoscenza della vostra squadra? «Molto utile sicuramente, noi lo usiamo molto in occasione delle partite per invitare il pubblico a sostenerci. Può essere utile anche per la ricerca di sponsor anche se ripeto in una realtà piccola come la nostra è difficile ricevere aiuti da chi non ti conosce». Quali cambiamenti avete in mente per il prossimo anno? «La frequenza degli allenamenti non cambieranno, saranno un allenamento e una partita, come sempre per rispettare gli impegni lavorativi di tutti; per la palestra dovremo accordarci con la società della squadra femminile bronese per vedere se riconfermeranno la disponibilità della palestra a seconda dei loro allenamenti; per quanto riguarda la squadra invece, si pensa a un paio di giocatori da inserire per evitare soprattutto di essere sempre al limite minimo di giocatori per gli allenamenti e le partite». di Elisabetta Gallarati
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Panathlon International: un poker d’assi si racconta al Golf Club di Salice Terme Un incontro speciale quello tenutosi nella serata di mercoledì 20 giugno al Golf Club di Salice Terme, promosso dal Panathlon Club International - Club di Pavia in cui, i mattatori della serata sono stati un pugno di campioni dai nomi importanti, affiliati al Club del capoluogo provinciale quali: Maurizio Losi, Massimo Lana e Paolo Marostica per il canottaggio e Alessandro Carvani Minetti per il paraciclismo, chiamati a fare rivivere ai numerosi intervenuti i momenti salienti delle loro carriere pluri medagliate. Dopo il saluto della presidente del Panathlon Club Pavia, Marisa Arpesella, la parte sportiva della serata é stata aperta dall’intervento di Angelo Porcaro, che prima di presentare gli atleti del canottaggio, ha dato spazio a Francesca Postiglione, figlia di Giovanni, grande allenatore di canottaggio, per la lettura di un passo del libro: “Il Cus Pavia nell’Università e nella città”, scritto dallo stesso Porcaro. Un brano toccante di sport vero, di grande impatto emozionale, tanto da accendere qualche luccichio negli occhi dei presenti. Ex canottiere dagli eccellenti risultati sia in Yole a 4 che in K2 e trainer di successo, Angelo Porcaro ha rappresentato una figura unica nel panorama remiero nazionale. Con il suo arrivo al Centro Universitario Sportivo di Pavia, i risultati iniziano a giungere con gradualità e continuità e dai Campionati Nazionali Universitari vinti fin dal primo anno di permanenza al CUS, in cui é approdato nel 1971. Nello spazio di due anni arriva alla partecipazione ai mondiali junior del 1973. Fiero “inventore” nel 1982, sempre a Pavia, della scuola del remo più famosa d’Italia, per la quale, la Federazione Italiana Canottaggio, in convenzione con l’Universitàdi Pavia ed il CUS, mise a disposizione di atleti di buone qualità fisiche la possibilità di continuare gli studi e nello stesso tempo continuare a remare ad alto livello. Fu subito boom e già nel primo anno Paolo Martinelli si fregiò dell’oro ai Mondiali e Piero Poli fu secondo nel 4 di coppia. Il 9 dicembre 1986, con i suoi due pupilli, Paolo Marostica e Andrea Re, riceve la benemerenza di San Siro, per l’alloro mondiale. Ma la ciliegina sulla torta fu posta nel 1988 quando a Seul, Piero Poli si fregiò del massimo alloro olimpico. Innumerevoli sono stati gli studenti del College che hanno ottenuto i massimi risultati e tra questi occorre ricordare appunto Maurizio Losi, Massimo Lana e Paolo Marostica presenti a Salice per la serata conviviale “Parliamo di noi”, i soci raccontano. I racconti dei campioni iniziano da Lana, che coinvolge i presenti trasmettendo la sua grande passione: canottiere, sempre e solo canottiere per vent’anni dal 1975 fino al 1995. Nella sua carriera, Massimo Lana, è stato per ben 6 volte Campione Mondiale sui campi di regata d’Europa,
dell’America del Nord e dell’Australia. In Campo Nazionale conta 2 titoli di Campione Italiano Assoluto (1993 ,1994) e 2 titoli da Vice Campione Italiano (1992 e 1995). Nella categoria Pesi Leggeri vanta 2 Campionati Italiani (1994-1995) ed un secondo posto (1993). Meritevoli di ricordo i numerosi titoli Italiani Universitari nelle specialità dell’otto con, quattro senza timoniere. Numerosi i riconoscimenti, tanto per citarne alcuni ricordiamo: Una medaglia d’oro al valore atletico Coni, due medaglie di bronzo, sempre al valore atletico Coni e due medaglie d’oro di benemerenza Coni. Dopo una lunga “pausa di riflessione” durata fino al 2016, torna al C.U.S. Pavia dove ricomincia da “master “ e con il compagno di viaggio di sempre Maurizio Losi, a giugno del 2017 sono Campioni Italiani di “master” e a settembre: “Campioni del mondo”. A differenza di Lana, Maurizio Losi, oltre al canottaggio, ha praticato basket, tennis, ping pong e corsa. Nel 2004 ha partecipato alla maratona di New York, finita in poco più di 4 ore nonostante uno strappo ad un polpaccio, ma é nel canottaggio che con Lana fa man bassa di allori: 4 mondiali, 6 campionati italiani e tante gare nazionali ed una quindicina di gare internazionali vinte negli anni. Dopo il titolo italiano Master, l’11 settembre 2017, come detto, Losi e Lana si fregiano anche del titolo iridato della categoria. Un titolo fermamente voluto e sfuggito malamente quasi trent’anni prima. «Erano 28 anni che aspettavamo di rifarci – ha raccontato Losi -. Nella nostra carriera agonistica, quello di Bled in Slovenia, è stato l’unico mondiale che non avevamo centrato. Quel mancato podio ha sempre bruciato dentro di noi come una brace lenta ma inesorabile. Quando qualche anno fa abbiamo ripreso a remare, nessuno di noi due era tornato sull’argomento. Tuttavia entrambi sapevamo che era ai Mondiali di Bled che volevamo andare. E a questo obiettivo, consapevole ma inconfessato sino a qualche mese fa, che abbiamo condizionato le nostre remate da master». Infine, ma non ultimo, Paolo Marostica che racconta come, dopo aver praticato corsa campestre, salto in alto e ciclismo, convinto da un amico, si iscrive al corso di Canottaggio del CUS Pavia trovando subito con l’allenatore Angelo Porcaro un intesa particolare. Quest’ultimo, con il suo modo di fare duro ma leale, gli trasmette la voglia di trasformare i sogni in realtà. Nel 1982 Trova in Andrea Re il suo compagno ideale per allenarsi, incitarsi, aiutarsi nelle gare. L’inizio é bruciante, sono secondi ai campionati italiani dietro ai mitici fratelli Abbagnale. Nel 1983 sono campioni italiani nell’ 8 con timoniere, a Ratzeburg sono secondi nella Regata Internazionale (8 con), a Lucerna colgono
Francesca Postiglione e Massimo Lana, canottiere per vent’anni dal 1975 fino al 1995.
Francesca Postiglione e Angelo Porcaro, “inventore” della scuola del remo più famosa d’Italia
il bronzo nella Regata Premondiale nel 4 senza, a Copenaghen vincono la regata Regata internazionale nel 4 senza e a Duisburg giungono sesti ai Campionati Mondiali di 4 senza. Sintetizzando altri risultati, Marostica lo troviamo 2° ai mondiali di Montreal del 1984; Campione Italiano e Campione del Mondo nel 1985 a Hazewinkel, medaglia d’oro alle Universiadi di Zagabria nel 1987, inoltre a messo a segno numerosi titoli nazionali universitari, tante vittorie alle regate internazionali fino al 1988, quando lascia i remi per tornare da dove era partito: bicicletta e atletica. A chiudere il poker, l’altro asso della serata, Alessandro Carvani Minetti, la cui presentazione é stata curata da un altro grande panathleta, Aldo Pollini, ex schermitore di livello internazionale, alpinista, discesista, tennista, ciclista canottiere e velista. Quella di Carvani Minetti, nato a Pavia nel 1978, é una storia lunga fatta di tanti sacrifici e tanta caparbietà in cui lo sport ha rappresentato e rappresenta tutt’ora
un’importante forza motrice di vita. Fin da giovanissimo ha praticato molti sport, tra cui il canottaggio a livello agonistico dal 1992 al 2002 presso il CUS Pavia. Nel 2003, un incidente in moto gli provoca lesioni al plesso brachiale, causandogli una grave invalidità agli arti superiori. Dal 2010 è paratleta e dal 2011 è paratleta della Nazionale Italiana praticando: paraduathlon, paraciclismo e sci paralimpico di fondo. Nel 2015 è Argento agli Europei di paraduathlon ad Alcobendas (Spagna) e Oro ai Mondiali in Australia. Il 28 novembre 2015 stabilisce il Record dell’Ora di paraciclismo su pista nella categoria C3. Nel 2016 è Campione Italiano di paraduathlon, Argento europeo in Germania e Argento mondiale in Spagna. Nel marzo 2017 vince il titolo italiano di paraduathlon categoria PT2. Ora punta con immutata caparbietà a nuovi traguardi. di Piero Ventura
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Rally Day Valleversa: la corsa degli oltrepadani
La gara che ha segnato il ritorno agli onori rallystici di Stradella e della Valle Versa, si é decisa sugli ultimi 5 chilometri e 150 metri della Martinasca, che ha proclamato in Caffoni-Genini i vincitori di questo Rally Day Valleversa 2018. è stato su questo tratto che l’equipaggio ossolano ha compito l’impresa di annullare l’esiguo svantaggio che pagava ai leader Tosini-Perogllio e mettere un secondo ed un decimo sui forti avversari bresciani. Al terzo posto si sono classificati i piemontesi Gianluca Quaderno e Lara Zanolo che per un battito di ciglia hanno mantenuto i piedi sul gradino più basso del podio, ai danni del corregionale Franco e del Sammarinese Vagnini, per una top five tutta “straniera”. Senza ombra di dubbio, tra piloti provenienti dalle Langhe alla Val d’Arda, dal Friuli, al Polesine, da San Marino e la Romagna, Liguria e Toscana compresi giunti in buon numero, in questo rally Valleversa, la comunità più popolosa é stata quella dell’Oltrepo Pavese, che tra gli 88 equipaggi iscritti é stata presente con 30 piloti e quasi altrettanti navigatori. Vediamo, ora, a grandi linee (per ovvi ragioni di spazio), com’é stata la loro gara. Alcuni come, Brega, Musti e Martinotti sono subito usciti di scena. Altri, come Ghia e Salviotti, lo hanno fatto strada facendo, mentre Maggi si é fermato proprio in vista del traguardo. Iniziamo dall’alto. Il migliore risultato in assoluto lo hanno ottenuto il rivanazzanese Mattia Barberis in coppia con Giulia Risso di Montalto Pavese, i quali hanno portato a termine la gara con un buon 6° posto assoluto e 4° nella classe R3C, con la Clio, in cui si sono dovuti misurare con dei mostri sacri della categoria come Tosini, Vallino, Quaderno, Bettoni, Vagnini ecc. Appena alle loro spalle sono giunti lo stradellino acquisito, Pietro Tronconi, con la bronese Claudia Riboldi, i quali, a bordo della sempre verde Clio Williams oltre al 7° posto assoluto, hanno ottenuto il successo nella combattutissima classe A7 in cui, il driver di Romagnese Roberto Tedeschi navigato sulla Williams dall’omonimo piacentino é giunto al secondo posto e 12° assoluto. Sempre in questa classe é da segnalare il 5° posto dei vogheresi Francesco Fiori e Gabriele Brandolini, il 6° di Andrea Ercole di Broni in coppia con Santino Naliato, anch’essi su Williams e il 7° del vogherese Stefano Maroni in coppia con Partelli sull’Astra Vauxhall i quali, più che alla classifica, hanno badato a divertirsi e divertire. Buono il 9° posto finale dello stradellino Davide Nicelli, ben supportato alle note dall’esperto Matteo Nobili da Casatisma, i quali hanno dominato alla grande la classe R2B precedendo nell’ordine altri tre equipaggi oltrepadani composti
da Fugazza-Fugazza, Buscone-Maggi e Frassone-Albertazzi (tutti si Peugeot 208 R2B). Tredicesimo posto assoluto e quarto di Classe Super 1600 del driver di San Damiano al Colle, Andrea Zucconi in gara con il piemontese Rossello, mentre al 14° posto assoluto e secondo di classe N4, si sono piazzati i pavesi Pier Sangermani e l’oltrepadano Lorenzo Paganin con la Mitsubishi Evo IX. In questa classe, il driver di Broni Rosario Corallo con alle note il piemontese Bosco, é 4° e 29° assoluto. Con la Clio RS, é da considerare molto buono il 21° posto assoluto e 2° di classe N3 dell’equipaggio di Romagnese portacolori dell’Efferre Motorsport formato da Marco Stefanone e Riccardo Filippini. Nella stessa classe, al 3° posto si sono collocati il pavese Alberto Moroni con Susy Ghisoni di Oliva Gessi, poi gli equipaggi completamente oltrepadani composti da Avogadri-Bariani (5°), Guidi-Uberti (6°) e Pastorelli-Pastorelli (7°). Al 25° posto assoluto e primi di classe RSTB+1.6 con la Cooper, i portacolori del Road Runner Team di Casteggio Stefano Sangermani e Paolo Lovati. Con la Mitsubishi Lancer Evo IX, Denny Crevani ed Emiliano Tinaburri si sono collocati al 34° posto assoluto e primi di S4. Buono il 38° posto per l’albanese di Zavattarello, Florenc Caushi navigato sulla piccola Fiat 600 dall’esperto co-driver di Menconico Sergio Rossi i quali si aggiudicano la vittoria nella classe E0. Alle loro spalle (39°) nell’assoluta, lo stradellino Nicola Conti navigato sulla Peugeot 106 da Ivan Lovagnini di Godiasco agguantano il terzo gradino del podio in N2, classe in cui gli altri oltrepadani Michele ed Enrico Giorgi hanno chiuso al 4° posto e il debuttante al volante Paolo Burgazzoli con la debuttante alle note Giorgia Pertosa, hanno egregiamente portato a termine la loro gara al 6° posto. Con un buon 40° posto assoluto, Fabio Azzaretti e Claudia
L’Equipaggio Barberis - Tronconi
Spagnolo portano a termine la gara premiata con la coppa della classe RS1.6 al volante della Citroen Saxo. Infine, segnaliamo il 50° poso del cremonese Andrea Compagnoni navigato dall’esperto co-
pilota di Verreto, Paolo Maggi, secondi in RSTB 1.6 con la Cooper S. è stato il ritorno alla grande di Stradella al centro della scena rallystica. La cittadina oltrepadana, mettendo a disposizione della
L’Equipaggio Tronconi - Reboldi
manifestazione tutta se stessa, e la stupenda disponibilità del primo cittadino Pier Giorgio Maggi, impegnato sia in veste di mossiere alla partenza che nel compito di premiare i vincitori a fine gara, ha di fatto ospitato in pompa magna il Rally Day Valleversa, gara promossa ed egregiamente gestita dalla Scuderia Piloti Oltrepo in stretta collaborazione con Aci Pavia. è stato un lavoro, minuzioso e intenso quello profuso dagli organizzatori, alla fine premiato da tutti: piloti e addetti ai lavori, con il massimo dei voti. Ha vinto dunque lo sport, chi lo ama e chi lo rispetta, ha vinto la competenza e la serietà, ha vinto chi crede in se stesso, nelle proprie capacità e nella voglia di riscatto del territorio. L’Equipaggio Nicelli - Nobili
di Piero Ventura
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Il Rally Valleversa ricorda Antonio Contento con il trofeo “Per Sempre ConTe” Il recente rally Valleversa é stato prodigo di premi, alcuni alquanto curiosi e invitanti come, ad esempio, il Trofeo “Per Sempre ConTe”, fermamente voluto da Anna Sabadin in memoria del marito Vito Antonio Contento, pilota rally, veloce e spettacolare, tragicamente scomparso lo scorso anno. Il “Conte”, come tutti lo chiamavano, é stato un grande appassionato, un rallysta con oltre 20 anni di esperienza alle spalle, allegro, generoso, goliardico, a volte pronto a sacrificare il risultato a favore dello spettacolo. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile in tutto l’ambiente delle corse su strada e specialmente in tutto l’Oltrepo Pavese, dov’era conosciutissimo. Per celebrarlo, nel recente Rally Valleversa, i promotori del suddetto trofeo, hanno individuato una formula che più di ogni altra gli si adducesse, cioé: la spettacolarità.
Una formula in cui, tutti i partecipanti, indipendentemente dalle singole tipologie di vetture condotte in gara, potessero lottare ad armi pari per la conquista del suddetto trofeo. Individuata una inversione sul primo passaggio della PS Martinasca, un’apposita giuria composta da una quarantina di elementi tra piloti, navigatori e semplici appassionati tra cui, ovviamente Anna Sabadin, coadiuvata da Barbara Braga, Silvia Gallotti, Simone Bugatto, Pier Paolo Contardi, Ennio Venturini, Katia Tagliani, Emilia Zanocco, Nadia Gorini, Stefania Pini, Chiara Rotili, Nadia Ghia, Cristina Pambianchi, Adriano Scupelli ecc, ha valutato con attenzione la spettacolarità del transito di ogni concorrente premiando alla fine Rosario Corallo con alle note sulla Subaru impreza Stefano Bosco. I vincitori e parte della giuria del trofeo “Per sempre ConTe”
di Piero Ventura
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Da Montecalvo Versiggia a Casteggio il Giro Notturno dell’Oltrepò
L’Alfa Romeo Giulietta Spider di Oriano e Cecilia Crosignani
La Fiat 1100-103 di Guerrini-Sboarina
è andato alla coppia Bonfante-Bruno su Fiat 1100-103 del 1956, l’edizione n° 11 del Giro Notturno dell’Oltrepo, organizzato dal Veteran Car Club Carducci di Casteggio e valido per il Trofeo Nord Ovest auto storiche, oltre che per il campionato
sociale Vccc 2018. Una sessantina gli equipaggi al via a bordo di vetture di rara bellezza e ricche di storia. Scattato da Montecalvo Versiggia sabato 26 maggio e concluso a Casteggio domenica 27, il Giro Notturno dell’Ol-
trepò Pavese, frutto di un minuzioso lavoro da parte di una triade ampiamente collaudata, composta da Andrea Guerrini, Giuseppe Sboarina e Fulvio Negrini supportati da validi collaboratori, ha presentato un percorso rinnovato, tecnico ed impegnativo nella parte sportiva, ma anche turistico e rilassante attraverso paesaggi stupendi lungo l’Appennino fino a Salsomaggiore Terme, con un ritorno pianeggiante passando per la Valle del Po, con prove classiche e a media, soste degustative e suggestivi passaggi in centri e borghi di rara bellezza. Su tutti, la rocca di Castell’Arquato e le “Terre Verdiane”. Detto della vittoria di Bonfante-Bruno, già al comando al termine della prima tappa, il podio é stato completato da BoraccoBossi (A 112 Abarth del 1982) e MagnoniVanoni (Porsche 356 del 1962). Tra i portacolori del club organizzatore, il migliore risultato lo hanno ottenuto Oriano e Cecilia Crosignani su Alfa Romeo Giulietta Spider del 1964 che agguantano la top ten assoluta precedendo gli sportivamente, acerrimi rivali, Zinco-Ruggeri con la VW Maggiolino del 1963, undicesimi. Al 16° posto troviamo Cantarini-Buttafava con la Sumbeam Alpine del 1967, 19° posto per Cavanna-Curone (Alfa Romeo 75 del 1987) e 22° posto per Bulgarini-Arlenghi
(Lancia Fulvia Coupe del 1971. TOP TEN ASSOLUTA: 1° BonfanteBruno Fiat 1100/103 CLAS C 1956 1,56 C 185,00 0 288,60 0,00 2° Boracco Bossi Autobianchi A112 Abarth 70Hp VAMS M 1982 1,82 M 193,00 0 351,26 62,66 3° Magnoni Vanoni Porsche 356 VAMS P 1962 1,62 P 306,00 0 495,72 207,12 4° Cacioli Giammarino Autobianchi A112 Abarth 58HP VAMS M 1974 1,74 M 295,00 0 513,30 224,70 5° Bisi Cattivelli Porsche 356 pre A S90 CVSP-GMT P 1963 1,63 P 325,00 0 529,75 241,15 6° Garilli Garilli Alfa Romeo Alfetta GTV 2000 GMT-CVSP M 1977 1,77 M 309,00 0 546,93 258,33 7° Fiorentini Cappellini Triumph TR3 Cavec Cremona C 1960 1,60 C 355,00 0 568,00 279,40 8° De Bellis Stella Lancia Fulvia Zagato Ruote Epoca Pavia C 1972 1,72 C 332,00 0 571,04 282,44 9° Torti Torti Innocenti Mini Minor MK1 Cpae GMT P 1966 1,66 P 403,00 0 668,98 380,38 10° Crosignani Crosignani Alfa Romeo Giulietta Spider VCCC P 1964 1,54 P 445,00 0 685,30 396,70. di Piero Ventura