OLTREPÒ PAVESE E TURISMO OLIMPIADI INVERNALI MILANO - CORTINA… BUONA NOTTE SUONATORI
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Anno 13 - N° 144 LUGLIO 2019
20.000 copie in Oltrepò Pavese
Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - 70% - LO/PV
BRESSANA BOTTARONE
pagine 36 e 37
varzi GODIASCO SALICE TERME
Quale futuro per Palazzo Pedemonti-Malaspina? C’è chi dice che l’Oltrepò sia la regione più ricca di castelli d’Italia. Difficile fare un conto preciso, poiché difficile è anche definire quale sia...
news
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ZAVATTARELLO «Aiuto l’Africa con Zavattarello nel cuore» Medico, originaria di Zavattarello, di madre italiana e padre inglese, Giovanna Cowley si è laureata in Inghilterra dove ha lavorato per 6 anni..
pagine 18 e 19
ROMAGNESE «Il paese è in declino: bisogna riunirsi nel capoluogo ...» Senso civico e tanta forza di volontà. A Romagnese un gruppo di volontari ha deciso di rimboccarsi le maniche e sistemare marciapiedi... pagina 23
LUNGO IL PO «Il Po una meraviglia snobbata dagli oltrepadani»
il Periodico
L’associazione U.R.C.A. promuove la caccia di selezione A Bressana Bottarone si trova la sede della sezione provinciale dell’associazione U.R.C.A.; sodalizio di cacciatori, ma non solo...
Voghera: la spazzatura non è l’unico problema
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«Cosa ha lasciato Nuova Comunità montana alla comunità Callegari?» «Palli una speranza e una risorsa»
La similitudine tra Po e Mississipi ha più volte stimolato l’immaginario di artisti che nella bassa Padana hanno vissuto o sono passati... pagina 14
OLTREPò PAVESE 55 “Nuovi” eletti in Oltrepò cambierà qualcosa? Poco più di un mese fa sono stati eletti 55 nuovi e/o riconfermati sindaci in 55 dei 76 paesi dell’Oltrepò. è facile capire dai numeri che è ...
In seguito alle dichiarazioni rilasciate a questo giornale dall’ex sindaco di Casteggio Lorenzo Callegari, gli ex consiglieri comunali di minoranza Ettore Albani e Francesco Arnese ci hanno fatto pervenire una replica...
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pagine 26 e 27
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Editore
ANTONIO LA TRIPPA
il Periodico News
LUGLIO 2019
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OLTREPÒ PAVESE E TURISMO, OLIMPIADI INVERNALI MILANO - CORTINA… BUONA NOTTE SUONATORI A scuola, durante le ore di insegnamento, viene spiegata una materia e i bambini, in base alle loro capacità intellettuali, le attitudini e l’impegno profuso imparano quanto l’insegnante spiega loro. Per alcune materie alla parte teorica se ne affianca una pratica, dove attraverso prove empiriche si dimostra concretamente quanto appreso dai libri o spiegato dall’insegnante. Quando un alunno non recepisce né la parte teorica né la parte pratica può essere perché ha capacità intellettive limitate, oppure una scarsa attitudine per quella materia oppure anche perché non ci mette abbastanza impegno e applicazione. Quel bambino è esattamente come l’Oltrepò. Sono rimasto spassosamente perplesso di fronte alle dichiarazioni di alcuni politici locali, di alcuni blogger ma anche di alcuni pseudo esperti del settore turistico oltrepadano, che hanno accolto con grida di giubilo l’assegnazione dei giochi olimpici invernali a Milano - Cortina che si terranno nel febbraio del 2026. Molti politici, sindaci, assessori e vari “barlafüs” hanno immediatamente rispolverato la stantia frase: “È un’occasione per il nostro territorio, è un’occasione per il nostro Oltrepò” . Ecco, questi sono come quegli scolari che non hanno imparato la teoria né sui libri né dopo le lezioni pratiche. Eh sì… perché l’esperienza di Expo non ha insegnato nulla se non che più o meno tutti adesso mestamente dicono: “Non siamo riusciti a cogliere l’occassione Expo 2015, non dobbiamo fare lo stesso errore con le Olimpiadi del 2026” . Eccolo l’errore!!!! Negli anni precedenti Expo, quindi in tempi non sospetti, avevo scritto proprio su queste pagine, che la ricaduta di Expo sull’Oltrepò sarebbe stata pressochè zero e non per incapacità del sistema turistico oltrepadano, se esiste… ma proprio perché tutte le Expo, da Siviglia ad Hannover ad Aichi a Shanghai, per rimanere alle ultime edizioni ..… hanno sempre concentrato la stragrande maggioranza del turismo che vi partecipava là dove si svolgeva l’evento, tant’è che la località padrona di casa non è mai stata scelta a caso, ma doveva avere un’ottima capacità alberghiera, sia a livello numerico per i posti letto che qualitativo al fine di fagocitare la stragrande maggioranza dei visitatori-turisti. A Milano è successo esattamente così: la stragrande maggioranza dei visitatori-turisti si sono fermati a Milano, il 20/25% è andato nelle strutture alberghiere di Monza e della Brianza, quindi a pochi Km da Rho, area dove si è svolta Expo 2015 e una minima parte è andata sul lago di Como che dista mezz’ora di autostrada dalla fiera Expo. Un’infinitesima parte si è distribuita nell’interland milanese, sconfinando anche in maniera
sempre più irrisoria nella provincia di Pavia, mentre quella parte della nostra provincia che è limitrofa a Milano e al nostro Oltrepò sono rimaste poche ed insignificanti briciole. Non bisognava essere degli scienziati per capire che sarebbe andata così: bastava aver visitato qualche Expo con l’occhio interessato di chi vuol valutare anche l’impatto economico di un evento, osservando il flusso dei visitatori se e dove c’è stato. Expo è stato, al di là dei costi su cui ognuno ha la sua opinione, un’eccellente biglietto da visita ed un eccellente volano per il turismo di Milano, ma le ricadute sull’Oltrepò sono state praticamente zero e non poteva che essere così. Vi ricordate cosa dicevano trasversalmente sindaci, politici e non, appartenenti a vari partiti e soloni vari? Negli anni precedenti Expo tutti ripetevano come un mantra esattamente questo: “Non dobbiamo perdere il treno di Expo, che passa una volta sola”. Premesso che, vista la situazione ferroviaria dell’Oltrepò ed in particolare i collegamenti con Milano, dire che non si voleva “perdere il treno” è una metafora piuttosto infelice (quasi una presa in giro, ed i pendolari oltrepadani ne sono ben consci), questa gente che prima di Expo ha fatto certe affermazioni, di turismo e di dinamiche del turismo, capisce poco e niente e nonostante i risultati siano alla mano, parla ancora! Torniamo a ragionare di dati: l’Expo, che si è svolto a soli 70 km dall’Oltrepò non ha avuto alcuna ricaduta sul territorio, questo è ormai cosa certa. Nel 2026 le Olimpiadi invernali si svolgeranno in minima parte a Milano, e per il resto a Livigno ed a Cortina, quindi il baricentro dell’evento sportivo, rispetto ad Expo, sarà ancora più distante dall’ Oltrepò. Eppure, incuranti di quanto espresso, a livello teorico prima
e a livello pratico dopo l’esperienza di Expo, molti politici oltrepadani ripetono, anche se a bassa voce, (forse si vergognano un po’….), il motivetto del “In Oltrepò non possiamo perdere il treno delle Olimpiadi”, con le argomentazioni più varie e pittoresche, alcune anche patetiche…. Proviamo a immaginare il turista tipo delle prossime Olimpiadi invernali che va a vedere le gare olimpiche a Cortina, che si trova a ben 455 km di distanza da Voghera, tanto per citare una città dell’Oltrepò, oppure a Livigno, che sempre da Voghera ne dista 310. Qualche espertone avrà pensato: “Perchè poi non dovrebbe venire in Oltrepò a percorrere i nostri sentieri o a visitare la nostra vallate con i “calabroni blu” o altri insetti vari…? Perchè no?”. “Perché non li convogliamo qua e – aggiungo io - con le “belle” strade che abbiamo non li portiamo da noi a bere un bel bicchiere del vino oltrepadano o a mangiare una fetta del nostro salame… Perché no?”. Ecco ai politici che ancora oggi, dopo non aver capito nulla di Expo, esprimono queste idee sul coinvolgimento dell’Oltrepò a giochi olimpici Milano - Cortina, bisognerebbe stracciare loro la patente da politico”. Ripeto: non è come direbbe qualcuno “l’incapacità di fare sistema dell’Oltrepò” il motivo per cui chi assisterà alle Olimpiadi non verrà in Oltrepò. Chi assisterà alle Olimpiadi, che si svolgeranno dal 6 al 26 Febbraio 2026, (ed è noto che in Oltrepò febbraio è uno dei mesi più belli ed accoglienti dell’anno!) arriverà da tutto il mondo per le gare sportive e poi trascorrerà alcuni giorni di vacanza nelle aree limitrofe, assaggiando i vini, le birre ed i prodotti tipici di quella zona. Nel caso in questione, la stragrande maggioranza a Cortina e Livigno, in molti a Milano. Qualcuno potrebbe obiettare che, con tutti i giornalisti e le televisioni di tutto il mondo presenti, potrebbe essere anche se piccola un’occasione per offrire una buona vetrina all’Oltrepò. Ecco chi dice ciò, l’unica vetrina che ha visto è quella del ciabattino, ed ho molto più rispetto dei ciabattini che dei politici… per un motivo semplice: i giornalisti non si dedicheranno all’Oltrepò, in primis la stragrande maggioranza di loro sono giornalisti sportivi che si occupano dei risultati e della
parte tecnica delle gare, vale la pena ricordare che le gare alle Olimpiadi si susseguono ad un ritmo serrato, e quindi tempo per parlare d’altro per questa categoria di giornalisti ce ne sarà poco. In secondo luogo la parte dei giornalisti che si occupa di costume si occuperà, in primis, delle località che saranno interessate dalle Olimpiadi: parleranno quindi in via prioritaria di Livigno, di Cortina o di Milano e non certo di uno dei nostri ridenti borghi. Oltre a questo c’è una considerazione logistica non secondaria: il press center sarà nell’area dell’Expo, quindi una grande parte dei giornalisti sarà a Rho, dall’altra parte di Milano rispetto all’Oltrepò. Il che mi dà la ragionevole certezza che se qualche giornalista vorrà fare un pezzo di colore su una zona non direttamente coinvolta nella manifestazione sportiva, lo farà parlando del lago di Como ad esempio, che si trova sulla strada per andare alle gare a Livigno, oppure del lago di Garda, di Verona etc, che si trovano sulla strada per andare a Cortina. Dubito fortemente, essendo tutte le gare dislocate a nord, che un qualsiasi giornalista (a meno che non si perda) prenda la macchina e vada verso sud per venire in Oltrepò. Premesso questo, comunque, forse … qualcosa l’Oltrepò potrebbe ottenere: nelle pieghe dei vari appalti che ci saranno per organizzare le Olimpiadi, qualche azienda oltrepadana potrebbe lavorare, così come dalle pieghe o dai più nascosti meandri dei decreti speciali che verranno emanati, magari, salterà fuori qualche soldo per mettere a posto qualche km di strada in Oltrepò. Magari verrà dato un “contentino politico” alle zone lombarde ed anche italiane non toccate o coinvolte dalle Olimpiadi, ed a Milano verrà adibita un’area espositiva con dei gazebo o roba simile, per esporre e …”promuovere”….i prodotti italiani ed oltrepadani. Utilità? Per qualche politico fare selfie al momento dell’inaugurazione di quest’area “espositiva”. Poi, dopo alcune ore, il “memorabile evento promozionale” verrà dimenticato e….buona notte ai suonatori! Ecco…così come per Expo avevo espresso l’opinione, poi confermata dai fatti, che nulla sarebbe arrivato e servito all’Oltrepò, anche per le Olimpiadi invernali 2026 mi sbilancio pronosticando che non porteranno un bell’accidente all’Oltrepò. Non per incapacità dell’Oltrepò stesso, ma per tipologia di manifestazione e per ubicazione. Dopo Expo 2015 “ag va no tant a capil” ( non ci vuole tanto a capirlo). di Antonio La Trippa
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OLTREPò PAVESE
LUGLIO 2019
55 “Nuovi” eletti in Oltrepò cambierà qualcosa? L’Oltrepò spera...
Poco più di un mese fa sono stati eletti 55 nuovi e/o riconfermati sindaci in 55 dei 76 paesi dell’Oltrepò. è facile capire dai numeri che è stato un voto importante. Molti sindaci correvano da soli mentre, in alcuni paesi, nonostante il basso numero di elettori, c’era più di una lista. Un Oltrepò variegato! Nei comuni a lista unica, anche con un numero di votanti alto, la scelta della popolazione è stata comunque quella di premiare il candidato raggiungendo il quorum. In altri, che invece contavano più liste, è stato confermato il sindaco uscente. In altri ancora c’è stata una sorta di… “ribaltone”. Il punto è che ci sono 55 sindaci, 55 “nuovi” eletti. Val la pena di sottolineare l’aggettivo “nuovi”, siano essi sindaci riconfermati, perché la “novità” porta con sé la speranza. La speranza che sia i riconfermati che quelli nuovi di fatto, pur non “buttando a mare” tutto quello che di buono è stato fatto, capiscano che… l’Oltrepò avanti così non può andare. L’Oltrepò non può andare avanti così perché al di là dei proclami, delle enunciazioni, dei contributi che arrivano e dei selfie costanti che stanno “colpendo” anche molti nuovi sindaci oltrepadani, la realtà è che l’Oltrepò è in ginocchio. In ginocchio perché abbiamo delle strade che fanno “pietà”; in ginocchio perché abbiamo ponti che son peggio delle strade; in ginocchio perché tante aziende hanno chiuso o stanno chiudendo; in ginocchio perché il mondo del vino non ha ancora imboccato una strada univoca, qualunque essa sia, della quantità o della qualità. L’Oltrepò è in ginocchio perché il turismo non decolla. E… non decolla perché? Pur con tutta la buona volontà di molti imprenditori, a livello strutturale e politico, i fondi che arrivano in Oltrepò , nella stragrande maggioranza dei casi ,non vengono sempre destinati a progetti che portano ad una valorizzazione del territorio dal punto di vista turistico. Ecco: i nuovi sindaci hanno davanti 5 anni di lavoro! Alla luce dei problemi sopracitati, si spera in molti meno selfie, meno cene per spartirsi qualche poltrona, meno cabine di regia o tavole rotonde o quadrate, che esse siano. Al contrario si spera che questi sindaci in questi 5 anni, ognuno per conto loro e se possibile per macro aree, diano un’indicazione precisa. Indicazione precisa vuol dire: non andiamo a prendere contributi statali, regionali o para pubblici per fare delle cose di scarsa utilità per il territorio, ma prima di fare una rotonda in più mettiamo a posto le strade e mettia-
mole a posto come si comanda! Quando arrivano i finanziamenti ai vari enti, dalla montagna alla pianura, ci si augura che non avvenga la solita spartizione… un po’ a ciascuno! Perché con la teoria dell’accontentare un po’ tutti, alla fine, si gode “così così”. Bisognerebbe investire meglio su quei pochi capi saldi che potrebbero essere fondamentali per il rilancio turistico. Capi saldi veri, non idee buttate lì della durata di un battito d’ali e/o di ciglia, e poca valenza tattico - strategica dal punto di vista turistico. Per quanto riguarda il lavoro, i sindaci possono far ben poco, perlomeno in rife-
rimento al comparto industriale, mentre invece potrebbero fare qualcosa in più per quella che è l’incentivazione dell’artigianato; ed ancor di più affinché si arresti lo spopolamento della parte alta dell’Oltrepò. Spopolamento dovuto in parte ai normali ricorsi economici storici ma anche ad una politica assistenzialistica che ha trovato e garantito posti fissi, anche a chi lavorava tutto il giorno nelle campagne che poi ha smesso… avendo la pensione…. Ecco i nuovi sindaci dovrebbero perlomeno cercare di fare qualcosa di concreto e tangibile in tal senso: sarebbe un bel segnale per l’Oltrepò.
Come fare? I modi sono tanti e in tante parti del mondo e dell’Italia ce l‘hanno fatta, in zone meno avvantaggiate e più impervie della nostra. Ripeto, i modi sono tanti e un sindaco potrebbe dire: dimmelo tu. Eh no caro sindaco! io potrei ribadire che nel momento in cui hai deciso di metterti in lista, sei tu che hai fatto delle promesse elettorali, dovresti avere tu la ricetta e soprattutto dovresti essere in grado di capire che le ricette usate sino ad ora non hanno funzionato e sono risultate anche un po’ indigeste. L’Oltrepò è lì da vedere! di Nilo Com
VOGHERA
il Periodico News
LUGLIO 2019
Voghera: la spazzatura non è l’unico problema Ci sono alcuni temi che storicamente colonizzano l’opinione pubblica. In Italia, da qualche anno, uno dei più dibattuti è certamente l’immigrazione, ad esempio. Se poi questo tema sia il più importante è tutto da discutere… e solo il futuro ci dirà… In Oltrepò invece il tema più diffuso sui social, come notizia, è certamente la spazzatura: e qui Voghera, la Capitale dell’Oltrepò , può rivendicare la primogenitura di questo problema. Per carità: la raccolta differenziata è certamente un passo avanti del vivere civile, e Voghera sembra che di passi avanti ne abbia fatti, almeno a livello di popolazione; non passa giorno che non ci sia una foto di “un bidone di rudo” con vicino una borsa di plastica, e non passa settimana che appaiano articoli sulla raccolta differenziata, sul funziona, non funziona, andrà bene… Questo rispettabilissimo virus sulla raccolta differenziata, essendo un virus e non avendo Voghera torvato un antidoto, si è largamente diffuso in tutto l’Oltrepò: Casteggio, Broni, Stradella, tanto per citare i paesi più grandi colpiti. E così, come a Voghera si discute del diametro degli orifizi dove inserire le varie borse del “rudo”, a ruota anche negli altri paesi si sprecano le discussioni ed i post sui vari social. Se venisse paracadutato un extra-terrestre in Oltrepò e dovesse farsi un’idea del pianeta Terra, guardando Voghera, penserebbe che una volta risolto il problema della spazzatura tutti gli altri problemi fossero finiti. La realtà è ben diversa: Voghera ha ben altri problemi. Tra questi certamente anche quello della spezzatura, intesa in senso più ampio. Non posso non definire spezzatura, ad esempio, la scelta scellerata di aver decentrato i centri commerciali nelle aree esterne, svuotando il centro. Il nome di politici che negli anni scorsi hanno fatto questa scelta sono sulla bocca di tutti, così come i nomi dei proprietari di quei terreni che in fretta e furia hanno venduto ai vari centri commerciali… Non sempre è andata così, ma basta andare al catasto per vedere che talvolta c’è stato un passaggio intermedio: il proprietario del terreno, “non sapendo” che sul suo terreno in futuro sarebbe sorto un centro commerciale, ha accettato l’offerta non del politico, ma del parente del politico! Che dopo poco tempo ha rivenduto l’acquisto alla società immobiliare che poi ha costruito il centro commerciale, con il suo… giusto guadagno... Questa scelta ha portato allo svuotamento del centro cittadino, #checchesenedica, ed ha condotto alla morte la maggior parte dei negozi; e non c’è stata neanche alter-
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nativa perché, dopo la scelta di decentrare i centri commerciali e far uscire dal centro la gente per fare acquisti, non si è pensato a quale destinazione riservare il centro storico. “Ma lasciamolo così”: ed a furia di “lasciamolo così” ora il centro storico boccheggia: La colpa, se colpa c’è, (e secondo me sì, c’è)… non è dell’ultima, penultima o terzultima amministrazione, ma è una colpa trasversale che supera il ventennio; oggi qualsiasi politico arrivi, si trova di fronte ad una situazione ben difficilmente raddrizzabile, se non con azioni drastiche e coraggiose, e comunque dal risultato incerto, per rivitalizzare il centro. Il problema di Voghera è anche la tangenziale: quella sì che è spazzatura! In tangenziale non è necessario discutere sugli orifizi dove buttare le buste della spazzatura, ops… scusate… le gomme, perchè le buche sono così larghe che ci si può buttare dentro la ruota di un trattore! Pare la stiano o la debbano rimettere a posto a breve: i vogheresi ansiosi vedranno non solo come e quan do verrà messa a posto, ma soprattutto quanto durerà! E la durata dipenderà da come verrà fatto il lavoro, se bene o male. Un altro problema vogherese, al di là delle ronde, delle telecamere, delle associazioni più o meno di volontariato che encomiabilmente si attivano per risolverlo, è il degrado dovuto a dei poveri esseri umani, per qualcuno, o delinquenti, per altri… ma non è questo il punto. Il punto è il degrado di alcune zone di Voghera che, guarda caso, sono sempre le solite da anni… A cambiare sono solo le facce dei politici che qualche volta vanno a vedere, se hanno tempo e voglia: altre volte, si limitano a dire “abbiamo avvertito e/o allertato gli organi e le autorità competenti”… Il problema intanto è sempre lì, e sempre nei soliti posti! Ecco: la soluzione di questi problemi, ad oggi, è spazzatura! Certo che il problema della tangenziale, del degrado di alcune zone della città , di riutilizzare il centro, sono problemi di ben più difficile soluzione rispetto al problema della spazzatura, del diametro dell’orifizio dove devo buttare la spazzatura e della tessera magnetica che mi permette di aprire il bidone del rudo… Si, sono problemi più difficili: speriamo che dopo 2 anni che si parla di spazzatura, il problema venga risolto; e che poi si passi ai problemi più difficili, altrimenti, differenziata o no, Voghera avrà un avvenire vicino ai cassonetti… di Stefano Cresci
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L’AZIENDA
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Cifarelli S.p.A., Voghera: 90% di export, 80 Nazioni nel Mondo Classe 1960, grande appassionato di musica rock, blues e jazz, ma tra tutti “in testa” c’è da sempre “The Boss” Bruce Springsteen, è da tanti anni Amministratore Delegato dell’Azienda di famiglia, la Cifarelli S.p.A. con sede in Voghera, azienda che ha festeggiato i 50 anni di attività nell’estate 2017 con, ovviamente, una “tre giorni” densa di concerti dall’appeal internazionale nel grande spiazzo interno. Oltre alla passione per le Harley Davidson, coltiva anche quelle per la radiofonia e la fotografia, quest’ultima passione condivisa con il fratello minore, Roberto, che è negli anni diventato fotografo tra i primissimi a livello mondiale del settore Jazzistico. Abbiamo incontrato Renato Cifarelli. Le chiedo per iniziare, tra i tanti argomenti che toccheremo, professionali e passionali, la composizione societaria della sua azienda: lei è Ceo, Amministratore Delegato, dell’Azienda fondata da suo padre. Anche suo fratello ricopre un ruolo aziendale? «Siamo tutti in azienda: mio padre Raffaele, classe 1931, è sempre Presidente e lavora incessantemente tutti i giorni da mattina a sera! E così mio fratello Roberto, responsabile del settore Ricerca & Sviluppo. Mio padre ha fondato la nostra Azienda nel 1967 e ha coinvolto molto presto mio fratello ed il sottoscritto nell’attività, molti anni or sono». Fondazione avvenuta nel 1967 e 50ennale di attività festeggiato due anni or sono, nel 2017, con un week-end di grande musica... «Rock, Blues e Jazz! Ci siamo divisi equamente la scelta di Artisti stimati tra mio fratello ed io: sono intervenuti, ad esempio, i Mandolin Brothers, eccellenza Blues locale ed amici che da anni seguiamo, ed ancora i Cheap Wine, storica band rock italiana di Pesaro, e poi Abbiati e Cacavas, Chris Cacavas tastierista fondatore dei leggendari Green or Red, ed ancora Daniele Tenca, bravissimo musicista Blues, per finire con il Jazz e la tromba di Paolo Fresu, Artista che ritengo non abbia bisogno di presentazioni». Lei e suo fratello Roberto, oltre alla passione per la musica, condividete anche quella per la fotografia... «Beh, diciamo che io lavoro un po’ con gli amici, e sinceramente, in quest’ultimo periodo, anche poco ahimè, mentre Roberto è ormai uno dei fotografi Jazz più accreditati nel mondo! Ad esempio, la sala d’ingresso del Blue Note di Milano, senza andar troppo distanti, è un Concept di mio fratello interamente realizzato con suoi scatti ai massimi jazzisti mondiali!». Da sempre, lei è grande ammiratore del rocker mondiale per eccellenza, “The
Renato Cifarelli, Ceo della Cifarelli S.p.A.
Boss” Bruce Springsteen: quanti concerti ha visto? L’ha mai conosciuto personalmente? «Da sempre io ritengo che la musica aiuti la mente a distendersi, ed è mia compagna da tanti anni. Nel caso del “Boss”, si, ho girato molte Capitali Europee al seguito dei vari Tour nei decenni, non l’ho mai visto negli U.S.A., ed ho partecipato a praticamente tutti, forse tranne uno o due, i concerti su territorio nazionale. Direi, in totale, un numero approssimativo di un centinaio di concerti, che, tra i fans più appassionati, è un numero nella media. Purtroppo, sarà destino o tradizione (sorride...), non sono mai riuscito ad incontrarlo di persona...».
E nella lista delle passioni, arriviamo alla Radio... «è il mio passatempo del sabato mattina! Partecipo ad una trasmissione con Oscar Giannino, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Mario Seminerio, su Radio24 dalle 9,00 alle 11,00, che s’intitola “I conti della Belva”, ove ci occupiamo principalmente di economia, trattando in modo scherzoso temi anche complessi». Economia a che livello? Macro-numeri, Finanza... «A seconda delle notizie della settimana, anche perché Radio24 è una radio d’informazione. Quindi trattiamo dall’economia americana alla nuova moneta di Facebook, a cose più vicine, anche libri. Di tutto
un po’, in buona sostanza». Nella sua percezione ed analisi imprenditoriale, allora, come sta andando la nostra economia? «Proprio a riguardo del programma suddetto, noi abbiamo ad esempio iniziato a parlare di un rallentamento economico nazionale proprio un anno fa circa, quando ancora tutti, o quasi, sostenevano che l’economia stesse per esplodere, in senso positivo. Noi vedevamo, sia analizzando i dati sia, diciamo, “annusando l’aria”, che invece si stava imboccando la via del rallentamento, appunto, principalmente con riferimenti al settore Automotive, che oggi è infatti in forte rallentamento! Parliamo, ad esempio, delle difficoltà di settore imputabili all’incertezza, in parte dovuta alla crisi di fiducia del consumatore, periodo nel quale si tende a non investire, in parte per ulteriori incertezze di regole, ad esempio non si sa esattamente come finirà il motore diesel, le automobili elettriche, ibride, ad idrogeno e via dicendo, e quindi i consumatori stanno un po’... “alla finestra”. Questo settore, su base economica europea, incide tantissimo, quindi non è difficile da capire, come concetto. Aggiungendo a ciò, al di là della produzione automobilistica industriale, tutte le azienda accessorie collegate. Ecco perché, quando va in crisi questo settore, tutti i Governi, nessuno escluso, mettono mano al portafogli per sostenerlo: è davvero importante per la struttura industriale di un Paese! è, ad esempio, un grave problema per gli inglesi soggetti alla prossima Brexit: molte case produttrici, specialmente dall’estremo oriente, hanno da anni scelto l’Inghilterra come Hub europeo, ma non lo potranno mantenere quando si ristrutturerà una dogana». Ed in riferimento diretto alla sua Azienda? «La nostra realtà produttiva si salva perché noi esportiamo molto, circa il 90% è in export in più di 80 Paesi nel mondo». Qual è stato il primo prodotto della Cifarelli S.p.A. nel 1967? «Gli atomizzatori “a spalla” a motore. Mio padre ha iniziato con questo prodotto per l’agricoltura, che serve per trattare le piante, le vigne, etc. è l’evoluzione dell’atomizzatore ad acqua, quello, per intenderci, dove c’era una manovella da continuare ad azionare: il nostro, con motore a due tempi, rende migliore il risultato riuscendo, utilizzando l’aria e non l’acqua, a smuovere il fogliame migliorandone il trattamento finale. In seguito all’evoluzione poi del mercato europeo, dove questi trattamenti si fanno con macchine trattorizzate e non più a spalla, noi abbiamo sondato molti altri Paesi, meno ricchi, diciamo, dove ancora non ci sono le possibilità di effettuare
L’AZIENDA questi trattamenti con trattori, oppure dove gli appezzamenti sono medi e/o piccoli, o relativamente piccoli». Quali altre tipologie di prodotti fornite? «Negli anni abbiamo aggiunto e dismesso alcuni prodotti: il primo che mi sovviene è il decespugliatore, per la produzione e vendita del quale serviva un’azienda più grossa della nostra per riuscire a competere su larga scala nel settore giardinaggio. Oppure anche gli atomizzatori da trattore, settore iniziato ma poi abbandonato. Attualmente la nostra Linea è composta da 4 prodotti: il suddetto atomizzatore, ovviamente a sua volta evoluto rispetto al 1967 (sorride), del quale, a differenza di quegli anni, produciamo anche il motore qui in azienda, mentre allora era prodotto esternamente; e poi ancora i soffiatori, le macchine per il fogliame, ed una particolare macchina che si chiama “Scuotitore per Olive”. è sempre una macchina piccola, leggera con motore a due tempi, che “aggancia” il ramo e fa cadere, scuotendolo, le olive nelle reti sottostanti, ed è tra i metodi più veloci di raccolta esistenti! Ed infine, proprio per una super nicchia di clienti, produciamo un aspiratore per castagne e nocciole da terra, utile per chi non ha grossi appezzamenti. Certamente più utile per le castagne, coltivazioni normalmente collinari quindi difficili da lavorare con grandi mezzi, ed utile anche per le nocciole, che si coltivano in piano, come rifinitura finale alle grosse quantità precedentemente raccolte con mezzi più pesanti».
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«Iniziammo ad esportare nel 1968, ed a mio zio Gianfranco capitò, in Sud America; di essere il primo uomo di carnagione bianca che i residenti di quella zona avessero mai visto!»
Il nucleo produttivo è interno, quindi, con quanti dipendenti nel reparto Produttivo? «Sì. Noi produciamo tutto nello stabilimento di Voghera, anche le componenti in plastica “a iniezione”, quelle cosiddette “piene”, per le quali abbiamo acquistato stampi e macchine, ed al momento contiamo, su un totale di 56 dipendenti, 38 addetti produttivi e 18 negli uffici, conteggiando nei 38 produttivi anche i cosiddetti “indiretti”, ad esempio i servizi di manutenzione. Alcuni dipendenti lavorano su doppio turno, come gli addetti alle parti in plastica o meccaniche». Ricordo però, nei decenni, che la parte commerciale dell’azienda era affidata a suo zio, Gianfranco Cifarelli... «L’ha creata e sempre seguita infatti mio
zio Gianfranco, fino al “buen ritiro” di tre anni fa, affrontando un’impresa direi titanica! Oggi, con internet, sembra facilissimo avere il polso di una nazione, di un potenziale acquirente, di una metodologia distributiva: quando mio zio Gianfranco iniziò c’era, invece, solo un modo di esplorare, nel vero senso della parola, il mercato: prendere la borsa ed un aereo, o automobile, e far visita di persona alle nuove realtà! Alla metà degli anni ‘70, iniziando dal 1968, esportavamo in Paesi come San Salvador, Perù, Thailandia, etc. All’epoca non era ancora stato inventato manco il fax! Avevamo il Telex, la tele-scrivente, che era praticamente un telegramma veloce. Talvolta i voli aerei costavano spropositatamente, direi in alcune occasioni 15 volte più cari dei prezzi attuali: proprio per
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questo motivo, ricordo viaggi di mio zio Gianfranco in auto alla volta del Portogallo, contenendo i costi. Ricordo anche che gli capitò di visitare posti, in Sud America, ove era il primo uomo di carnagione chiara che i residenti avessero mai visto! Oggi lo dobbiamo certamente ringraziare profondamente, anche per gli 80 distributori che ci rappresentano nei Paesi ove vendiamo!». Avete molti concorrenti nel mondo? «Abbiamo oggi, nel mondo, solamente 2 o 3 competitors diretti: un’azienda tedesca ed un paio di aziende giapponesi. Negli anni ce ne sono stati alcuni, per svariate ragioni poi spariti dal mercato». Qual è stata la forza della Cifarelli S.p.A. in tutti questi decenni? «A livello societario ed imprenditoriale, certamente l’accordo e l’armonia mai mancate tra tutti noi familiari, a partire da mio padre e mio zio Gianfranco, successivamente mio fratello Roberto ed io, che ci siamo aggiunti in corso d’opera, e la presenza costante di nostra madre in qualità di responsabile amministrativo, nonché fondatrice insieme a nostro padre di tutto ciò!». Cosa progetta per i prossimi anni? «Ritengo che il prossimo decennio sarà portatore di enormi cambiamenti! A breve, ad esempio, usciremo con un nuovo prodotto a batteria, il nostro primo prodotto elettrico, che sarà un soffiatore di fogliame dal nome “E-wind”: 40 minuti d’autonomia ed un costo al di sotto dei 300 euro». di Lele Baiardi
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«I commercianti? Alle riunioni solo bei discorsi» La crisi della vendita al dettaglio è un problema reale e particolarmente sentito dai centri storici delle nostre città che, negli ultimi anni, hanno registrato una significativa diminuzione delle presenze. E anche un conseguente rallentamento delle vendite Un allarme che sbaglieremmo a considerare affare solo dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade che diventano semplici luoghi di passaggio. Non solo: i negozi sono un presidio che assicura la cura e la pulizia delle vie. Sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro. Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine. A Voghera la Boutique Paradiso è da ritenersi negozio storico della via Emilia con una licenza per l’esercizio del commercio datata 26 Giugno 1944, 75 anni di attività, un record. Abbiamo intervistato la signora Anna Gabba che, in società con il figlio Giovanni Troielli , tiene saldo il timone della sua attività, per farci raccontare come è cambiato il lavoro del commerciante di abbigliamento dal dopoguerra ad oggi. Signora Anna, come mai ha deciso di intraprendere questa attività in un periodo difficile , durante la seconda guerra mondiale? «Veramente fu mia suocera Enrica Bolgiani che nel 1939 aprì una bottega come artigiana che ai tempi trattava tutto quanto serviva alle sartorie, una sorta di merceria, diciamo. Il negozio si chiamava “Il paradiso delle sarte” ed era sito qui di fronte all’attuale sede. Allora erano in voga le sartorie, non c’era ancora il pret a porter. Nel 1944 poi sempre lei ottenne la licenza per il commercio di “gonne, cinture, ricami, borsette e bottoni” ed io ,che ai tempi avevo 15 anni, sono venuta a lavorare in negozio come commessa durante l’estate, finita la scuola. Avevamo i primi capi di abbigliamento, biancheria fine per signora e capi pregiati per il corredo della sposa». Era quindi una ragazzina che si avvicinava per la prima volta al mondo del lavoro, come è stata questa prima esperienza? «Devo dirle che mi piacque tantissimo, mi appassionai talmente tanto che, finite le scuole, decisi di rimanere in negozio e di svolgere questa attività che è diventata poi la mia vita». Che tipo di clientela avevate ai tempi? «in quel periodo c’erano pochissimi negozi di abbigliamento e soprattutto di ab-
Anna Gabba con il figlio Giovanni Troielli ed una collaboratrice
bigliamento di un certo tipo, perché mia suocera aveva molto buon gusto ed era estrosa e quindi avevamo molti clienti che venivano anche da fuori, dai paesi delle colline e della lomellina. Il nostro era un abbigliamento per signora ma con un’attenzione per le giovani tanto che le ragazze del vicino collegio delle Suore Benedettine venivano a farsi comprare dalle mamme i primi capi di moda. Non c’era così tanta differenza tra la moda per signora e la moda giovane come oggi, tutto era più classico e duraturo nel tempo, non avevamo i cambi repentini di stile che abbiamo oggi. Si compravano gli abiti per le feste come Natale e Pasqua e per le occasioni importanti, si cercavano abiti di stile realizzati con tessuti di pregio». In che anno avete cambiato sede e vi siete trasformati in Boutique Paradiso? «Nel 1978. Era un po’ il periodo dell’esplosione della moda. I clienti avevano disponibilità finanziarie e compravano con facilità molti capi di abbigliamento, potevano cambiare e amavano farlo sovente. Avevamo una clientela fidelizzata che tornava a comprare capi di qualità e di tendenza che si distinguevano per il taglio e lo stile ed il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo ancora oggi tra i nostri clienti figli e nipoti delle famiglie che frequentavano il nostro negozio in quegli anni e questo ci ha permesso di andare avanti nonostante le difficoltà che sono poi sopraggiunte per il commercio». Giovanni voi trattate da sempre marchi italiani di fascia medio-alta, quali sono le difficoltà che incontrate in questi anni? «Abbiamo da 40 anni il marchio Les Copain, abbiamo portato Iceberg e molti altri brand a Voghera, ora tendiamo ad affianca-
re a questi marchi anche altri nuovi perché la moda oggi cambia molto rapidamente e preferiamo offrire un assortimento di capi che il cliente può mixare a suo piacimento ottenendo un outfit di moda senza dover spendere per forza grandissime cifre». In via Emilia si vedono sempre meno negozi, passeggiando per il centro storico non si incontrano persone per strada, Voghera sembra un po’ una città morta. Secondo voi che cosa sta succedendo al nostro centro? «Tanti negozi hanno chiuso perché non riescono più a sostenere i costi di affitto, gestione e tasse sempre più alti. Il periodo storico non è molto felice, si fanno meno incassi perché la gente compra meno avendo meno disponibilità finanziaria e di conseguenza il commercio sta tuttora attraversando un momento difficile. Inoltre l’amministrazione comunale ha fatto la scelta di avallare l’apertura di centri commerciali situati in periferia che attirano le persone svuotando così il centro storico. Nella città son presenti tante aree che potevano essere riqualificate e adibite a centro commerciale con un ritorno positivo per la vivacità del nostro centro. Mi viene in mente la ex-caserma di cavalleria che ha una struttura che, ristrutturata nel modo adeguato, poteva diventare già 30 anni fa un piccolo outlet cittadino». Giovanni cosa fanno le associazioni commercianti per difendere la categoria e mantenere vivo il commercio? «Devo dirle che io per un periodo di 4 forse 5 anni ho partecipato, ma visto che non si combinava nulla di positivo, ho deciso di non perdere più il mio tempo in riunioni dove si facevano solo dei bei discorsi. Siamo la categoria meno tutelata e mi vien da dire che forse fa gioco il fatto di non avere
un gruppo aggregato». Il Comune di Voghera sta per ripartire proprio in questo mese di Luglio con le manifestazioni che si svolgono in centro il giovedì sera, voi pensate che il commercio possa trarre dei benefici da questa iniziativa? «Devo dire che i primi anni queste manifestazioni funzionavano, aprivamo anche il negozio perché c’era molta gente in giro che poteva diventare potenziale cliente perché in quelle sere difficilmente si riusciva a vendere qualcosa. Poi il Comune ha cominciato a dire che non ha più disponibilità economica e ha invitato i commercianti a prendere in mano la situazione e ad organizzare manifestazioni. Per quel che ci riguarda, abbiam fatto qualche degustazione nel nostro giardino interno per vedere di offrire ai nostri clienti un’ulteriore opportunità di visitarci. C’è anche da dire che ora tutti i paesi limitrofi fanno nel loro piccolo degli eventi per cui è diminuito il flusso delle persone presenti in città. Abbiamo in progetto per il futuro di fare qualche evento in più in questo nostro cortile-giardino e speriamo sempre che le prossime amministrazioni comunali siano disponibili a darci una mano per rendere ancora vivace la nostra città». Gli italiani preferiscono ancora i negozi, siamo tra gli ultimi in Europa per acquisti online, dobbiamo però dire che è un fenomeno in espansione, soprattutto fra i più giovani, voi cosa ne pensate? «Quello italiano è un popolo legato alle tradizioni, e questo fatto non cambia neanche quando si tratta di fare acquisti. L’italiano di mezz’età è ancora abituato ad andare in un negozio come si è sempre fatto e gli acquisti online non sembrano attirarlo più di tanto. Però il problema esiste e soprattutto i ragazzi sono ormai abituati a scegliere comodamente da casa con un clic anche l’abbigliamento. Alcune realtà grandi si sono organizzate anche con la vendita online ma noi non possiamo pensare a questo tipo di commercio, diventerebbe troppo impegnativo. Speriamo sempre in una controtendenza. Pare che negli Stati Uniti le persone stiano abbandonando i centri commerciali e alcuni grandi marchi stiano tornando ad aprire dei piccoli punti vendita nei centri storici con la possibilità poi di ordinare la merce online e riceverla lì. Penso comunque che il pubblico abbia bisogno, forse oggi più che mai, di vivere un’esperienza unica e personalizzata, sentirsi speciale e credo quindi che il negozio con la sua professionalità ed il calore umano, possa essere ancora un punto di riferimento e di aggregazione per le persone». di Gabriella Draghi
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VOGHERA
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Antea, dal 1998 la solidarietà al servizio degli anziani Dietro l’acronimo di Antea si riconosce l’Associazione Nazionale Tutte le Età attive per la Solidarietà, nata nel 1996 traendo spunto da diverse esperienze locali promosse e sostenute dalla Federazione Nazionale Pensionati Cisl. Con gli anni l’associazione è cresciuta e si è consolidata fino ad essere oggi presente su tutto il territorio nazionale con circa 500 associazioni di volontariato e di promozione sociale che contano oltre 80.000 soci aderenti. Promossa originariamente dagli anziani e a questi prevalentemente rivolta, ai giorni nostri l’associazione, nel prediligere logiche intergenerazionali, amplia il proprio pubblico di riferimento e si rivolge a tutti coloro che condividono l’impegno della so-lidarietà civile e sociale, favorendo l’instaurarsi di relazioni autentiche fra le persone, promuovendo esperienze di cittadinanza attiva e combattendo le solitudini involonta-rie. Adriano Gavazzo è il vicepresidente Anteas Servizi Pavia e coordinatore del gruppo di Voghera, nato nel 1998, con sede al civico 6 di via Emilia. Attualmente la sede vogherese dell’associazione conta più di 120 membri oltre ad una quindicina di volontari. Tra i servizi erogati ci sono quelli di salute e assistenza, cultura e animazione e promozione sociale. Gavazzo, che iniziative organizzate? Qual è il progetto o l’iniziativa che più vi rende orgogliosi? «Prestiamo servizi di salute e assistenza (accompagnamento sociale, farmaci a domi-cilio, sostegno psicologico in caso di patologie croniche e degenerative, promozione della salute), servizi di cultura e animazione, servizi di promozione sociale come lo sportello donne e famiglie, telefono solidale anziani, banco alimentare, orientamento al volontariato, percorsi di cittadinanza». Per chi volesse diventare un membro della vostra associazione: che requisiti sono ri-chiesti e cosa si deve fare? «è richiesta la patente e la volontà di fare volontariato. È previsto un rimborso spese dietro documentazione di scontrini pagati per fare attività e in caso di uso del proprio automezzo». Organizzate iniziative di sensibilizzazione sul tema della violenza femminile? «Non direttamente, ma collaboriamo con l’associazione C.H.I.A.R.A. Onlus e con il CIF (centro italiano femminile)». Quali sono i progetti che avete all’attivo? «Recentemente, abbiamo avviato una convenzione con il Comune di Voghera e l’Asm per poter accedere al servizio pasti self-service del centro natatorio Dagradi,
Adriano Gavazzo, vicepresidente Anteas Servizi Pavia e coordinatore del gruppo di Voghera
destinato ai soci, a un prezzo convenzionato per un pasto completo in locale climatizzato. Inoltre, abbiamo partecipato a una raccolta materiali destinati al Centro Maison Laura in Congo. Tra i progetti che abbiamo organizzato in passato: Antenne Sociali (cittadinanza attiva contro il disagio e le solitudini nei territori), Famiglie Sandwich, Capacitazione (un progetto di formazione e informazione sulla riforma del terzo settore), Long Life Welfare ( volontariato a supporto della tutela e dell’autotutela)». Avete in programma degli eventi? «Tra i prossimi eventi, ci sarà la festa dei nonni, organizzata in collaborazione con il Centro anziani di Via Gramsci. Non avendo un locale preposto all’aggregazione, non abbiamo la possibilità di orga-nizzare
tanti eventi». Avete già promosso iniziative in collaborazione con le scuole vogheresi? «Sì, abbiamo collaborato con gli istituti Maragliano e Baratta, con i quali abbiamo avviato il progetto ‘Volti’, finalizzato alla conoscenza del volontariato, insieme a ISCOS ( Istituto per la coesione sociale) e altre associazioni a livello regionale». Vi occupate anche di turismo sociale. In cosa consiste? «Abbiamo in mente di organizzare delle gite culturali, ci stiamo lavorando». Organizzate dei corsi? «Sì, finora abbiamo organizzato corsi di informatica base e di fotografia digitale all’Istituto Maragliano, che saranno rinnovati a Settembre, anche per i non iscritti alle scuole».
«Più di 120 membri e 15 volontari: il nostro aiuto conto la solitudine» Com’è il rapporto con l’amministrazione comunale? «Ottimo, partecipiamo a tutte le attività organizzate dalla Consulta Volontariato». di Federica Croce
CYRANO DE BERGERAC
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Turismo e enoturismo in Oltrepò? Non c’è neanche il barlume di una strategia Nell’era dell’enoturismo dotato di relativa legge nazionale che inizia a dare i suoi effetti positivi in tutta Italia, ogni territorio vitivinicolo è concentrato sul marketing locale. Solo in Oltrepò Pavese accadono cose sempre più strane, nel proliferare senza controllo di associazioni di una sola persona, pagine Facebook per il rilancio territoriale portate avanti a tempo perso, blog personali e siti Internet per hobby che promettono il miracolo a una manica di allocchi che ci credono e disperdono così le loro energie: tempo e denaro. A ciò ciò si aggiungono i programmi ubriachi di alcune Pro Loco (non tutte per fortuna) che anziché parlare di vini locali, Salame di Varzi DOP e tipicità vere creano sagre con quanto di più esotico si possa pensare. In Oltrepò, insomma, l’effetto Babele contagia proprio tutti. Sul territorio, dopo la morte di Salice Terme rimasta senza soluzione e avvolta dal menefreghismo assoluto di politici, consiglieri, assessori e tutta la compagnia cantante, non c’è più neanche il barlume di una strategia comune ed efficace per generare turismo in una terra baciata dalle sue bellezze e dalla posizione geografica ma non così fortunata sotto il profilo delle intelligenze e delle alleanze. Soltanto pochi mesi fa il Touring Club ha dedicato una guida turistica all’Oltrepò Pavese, Appennino di Lombardia. Iniziativa bellissima, ma dopo la presentazione in cerchio nei soliti salotti, cosa rimane? Forse aveva dato più stimolo l’iniziativa “Guidando Con Gusto” della Strada del Vino e dei Sapori dell’Oltrepò Pavese, associazione nel frattempo scomparsa e messa in ghiaccio dai soliti noti, in attesa del rinnovo cariche. L’Oltrepò Pavese ha in sintesi due guide, quella del Touring molto più classica e quella della Strada del Vino molto più centrata sulle imprese locali e sulle persone che danno loro identità, tuttavia nessun turista arriva perché ognuno pensa alla sua estemporanea sagra, alla sua enoteca, al suo auditorium, al suo castello e alla sua piazzetta. Nei giorni scorsi ho parlato con un tour operator di Milano che mi ha spiegato che per i professionisti del settore l’Oltrepò non esiste sulla cartina. Perché? Pronta la risposta: «In tanti anni non si è trovata la sintesi nemmeno per arrivare a una locandina comune degli eventi stagionali da promuovere a sistema. A noi dall’Oltrepò non arriva un’email se non quella, periodica, di un longevo portale privato. è una terra che ha tutto e che non è niente». Tradotto per i non addetti
ai lavori significa che la miscellanea di eventi, spesso sovrapposti e contradditori, disorientano e non creano attenzione costante su ciò che invece potrebbe rendere unico l’Oltrepò. Non solo. Ultimamente nel pavese si dice che la promozione turistica vada fatta da una regia unica per tutto il contesto provinciale, sebbene siano miseramente fallite da Expo 2015 in poi (il territorio ha sepolto un sacco di soldi sottoterra) tutte le iniziative in que-
sto senso messe in campo da Camera di Commercio e Provincia di Pavia che dovevano cambiare il mondo ma che invece non hanno dato agli imprenditori nessun risultato misurabile in termini di massicce presenze che sarebbero state auspicabili dopo tutto il denaro che è stato investito. La Rassegna dei Vini di Casteggio è morta, il nuovo Autunno Pavese è diventato solo il falò delle vanità, con la sortita per qualche anno nel Castello Visconteo di
Pavia sciupata da una tensostruttura che non ha mai consentito di immergersi nel contesto storico ed ammirare la magnificenza del maniero e poi il ritorno mesto mesto nel tristissimo Palazzo Esposizioni, con i soliti espositori convocati e le truppe cammellate d’invitati per la foto di gruppo. A completare il desolante quadro che spiega l’impossibilità di fare turismo a un certo livello in Oltrepò ci sono le strade colabrodo, la segnaletica stradale turistica pressoché inesistente, le rotatorie all’abbandono e davvero anti estetiche nelle vicinanze dei caselli autostradali insieme al verde pubblico di cui si cura solo Madre Natura. Manca anche l’attenzione ai bambini, come dimostrano i parchi giochi rimasti nel migliore dei casi nello stato di vent’anni fa, quando invece zone sulla carta molto meno fortunate dell’Oltrepò hanno puntato molto sul turismo “formato famiglia”, dedicando ai più piccoli investimenti e strategie a breve, medio e lungo termine. A fronte di questo si continua a produrre guide di carta, a replicare ciò che è stato già fatto, a vivere e lasciar vivere senza mai redarguire nessuno degli ubriachi che gestiscono una terra splendida con metodi medievali. In Oltrepò Pavese l’epoca è ancora quella dei convegni, dei seminari, dei corsi di formazione con le platee vuote, del talk show con il politico amico di turno o con il guru milanese che invita all’evento e porta a casa il contratto, salvo poi non rispondere del risultato sottozero in termini di economia restituita agli operatori. Bastano le foto su Facebook per fare bilancio. Non è colpa di nessuno, si va avanti volendosi bene ognuno con un testimonial diverso. Di casa sua, però, non di una territorialità che boccheggia. Leggendo le dotte lezioni di opinionisti e giornalisti contrattualizzati e pagati per dire che tutto è cambiato straordinariamente in meglio ad opera di chi fa il bonifico, all’Oltrepò Pavese non rimane che accontentarsi di un fritto misto e di una birra ghiacciata. Tanto di Pinot nero e Metodo Classico di alta gamma il territorio ne produce poco, per di più non rivendicando la denominazione in etichetta nella maggior parte dei casi per paura di confondersi con i colleghi del “tutto a 1 euro”. I vini buoni e di valore? Ma che enoturismo si vuole fare se persino le Pro Loco non li trovano in carta... di Cyrano de Bergerac
LETTERE AL DIRETTORE
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A voghera chi abbandona i rifiuti non chiamiamoli «furbetti», sono dei profittatori» Signor Direttore, dalla grammatica, ricordo che, nomi e aggettivi vezzeggiativi, assumono un valore «affettuoso». Non mi tornano i conti quando sento e leggo sui giornali la parola «furbetti». Il riferimento vale per persone che, con sfacciataggine e disinteresse, abbandonano rifiuti, sporcano le strade, non raccolgono le cacche dei loro animali, non hanno alcun rispetto dell’ambiente in cui vivono. In questa ottica, qualificandoli come «furbetti», attribuiamo loro colpa «veniale», un male minore, una metaforica tirata di orecchie. No! Nessun valore affettuoso da attribuire loro, anzi... Sarebbe buona cosa, invece, definire tali individui, con espressioni di inciviltà, di maleducazione, di insensibilità al bene comune. Non sono «furbetti», sono profittatori degli impegni e dei costi che le comunità devono sostenere. Nelle strade di città e paesi, nelle campagne, nei boschi, sulle montagne, nei fiumi e ruscelli, nei laghi, questi incivili individui, spesso di nascosto e lontano da occhi indiscreti, abbandonano ogni tipo di rifiu-
to e recano danni all’ambiente (pensano, i meschini, che, prima o poi, qualcuno farà pulizia). A tutti è capitato constatare, e con amarezza, i disastri risultanti: rifiuti abbandonati, muri imbrattati con schifezze indicibili, cartacce e mozziconi di sigarette abbandonati su strade e marciapiedi, e l’elenco potrebbe continuare. Questo maleducato comportamento non è classificabile in età o categorie: persino i bambini, se non educati al rispetto del bene comune (non solo quello personale e familiare), ben presto imparano comportamenti egoistici. Da sempre, negli ambienti della nostra vita quotidiana, apprezziamo ordine e pulizia: sappiamo però, che, per ottenere ordine e pulizia, occorrono lavoro, buona educazione, impegno e rispetto verso gli altri. Purtroppo, in tanti nostri comportamenti, con uso e abuso consumistico, creiamo abbondanza di rifiuti... a noi il compito di selezionare gli scarti per il riciclo. Non facendo ciò, non possiamo definirci dei... «furbetti». Gorgio Ferrari - Voghera
Quando un cliente non ti paga, e nessuno ti tutela... Egregio direttore potremmo intitolare la mia lettera “quando ti trovi davanti ad un cliente che non ti paga, e nessuno ti tutela”. Gestisco un negozio, ho avuto la pessima idea di fornire un servizio ad una società sportiva, di completare il lavoro e consegnarlo; da qua in avanti è iniziata la mia disavventura. È da luglio 2018 che cerco in tutti i modi di avere un contatto con il Presidente: messaggi, email, sms… nulla di nulla con la beffa di leggere le spunte dell’avvenuta lettura ma nulla, niente risposte.
Le vane telefonate si sono risolte con «non si sente nulla, non sento» e si riattacca bloccando poi il numero e ignorando il mittente. Ti affidi al tuo legale ma nulla, non si riesce nemmeno a recapitare una raccomandata. Peggio poi scoprire che chi ti dovrebbe quanto meno pagare, è persona integerrima, socialmente impegnata, insomma “in vista”. A questo punto che fai, come ti comporti? Vai avanti o mestamente abbassi il capo in segno di resa? Lettera firmata - Voghera
LETTERE AL DIRETTORE Questa pagina è a disposizione dei lettori per lettere, suggerimenti o per fornire il proprio contributo su argomenti riguardanti l’Oltrepò Scrivete una email a: direttore@ilperiodiconews.it Le lettere non devono superare le 3000 battute. Devono contenere nome, cognome, indirizzo e numero di telefono che ci permetteranno di riconoscere la veridicità del mittente Le lettere con oltre 3000 battute non verranno pubblicate
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«Nelle coppie separate i bimbi non siano strumentalizzati» Gentile Direttore, sono un’insegnante che quotidianamente è a contatto con i bambini. Purtroppo negli ultimi anni sono aumentati il numero di separazioni e di conseguenza il numero di minori che vivono in situazioni familiari difficili. Attraverso questa lettera, vorrei sensibilizzare la tutela di quei bambini strumentalizzati dai genitori al fine di vincere una battaglia contro l’ex coniuge. In particolare vorrei soffermarmi su coloro che utilizzano la PAS ovvero, Sindrome di alienazione parentale, con il supporto di psichiatri, consulenti dei tribunali che avrebbero il compito di valutare la situazione familiare ed essere di aiuto per il minore ed invece minacciano il minore di essere portato via se non sta anche con l’altro genitore ed esercitano continue pressioni psicologiche. La Pas in Italia è stata più volte oggetto di pronunce e prese di posizione da parte della giurisprudenza, dal Ministero della Salute e dall’Istituto superiore tanto da prendere le dovute distanze. Tra le più clamorose una sentenza, nel 2013, della Cassazione che aveva sconfessato la dignità scientifica della sindrome. Nonostante tutto, purtroppo negli anni la Pas si è fatta strada nei tribunali italiani prendendo piede nei casi di separazione conflittuale. Molti genitori fanno credere di essere disponibili al confronto e al dialogo ed invece annebbiati dalla vendetta, perdono di vista la salvaguardia e la tutela del minore. Ci sono casi di madri/padri che fanno di tutto per riavvicinare il proprio figlio all’altro genitore nonostante quest’ultimo abbia maltrattato, trascurato il figlio e
quindi lo abbia visto per anni in forma protetta, ma in cambio ricevono denigrazione e accanimento. Spesso il genitore vendicativo appare gentile, disponibile, affabile, simpatico ma con la tendenza a mostrarsi afflitto perché gli è stata negata la genitorialità e nel frattempo colpisce alle spalle, strumentalizza la sofferenza del figlio e in alcuni casi arriva perfino a chiedere l’allontanamento dell’altro genitore o ancor di più grave e sconcertante fa richiesta ai giudici di mettere in una casa-famiglia il proprio figlio assumendo quindi una condotta finalizzata alla cancellazione, rimozione, demolizione dell’altro genitore e perfino dei discendenti. Un genitore che soffre non vuole apparire in qualsiasi modo ma riflette, si mette in discussione, chiede aiuto o accoglie quello che gli viene offerto. È doveroso, a mio avviso denunciare queste forme di condotte ed è importante ricordare che il minore ha il diritto di vivere la propria infanzia con entrambi i genitori anche se separati, ma sono quest’ultimi ad avere il dovere di proteggere lo stato psicofisico del figlio. Questi genitori solo attraverso un reale, sincero e costruttivo dialogo possono contribuire ad una serena crescita. Smettiamola di fare la guerra, aiutiamo i bambini, non piangiamo quando ormai è troppo tardi, non parliamone solo quando accadono fatti incresciosi. La sensibilizzazione è doverosa. Citando una frase di una grande donna: «I genitori devono essere affidabili, non perfetti... i figli devono essere felici, non farci felici». Lettera firmata - Stradella
Imu e Tasi a Silvano Pietra Egr. Direttore, leggo sempre il suo giornale con molto piacere, perché posso conoscere i vari problemi dei comuni pavesi. In questo contesto si inserisce il Comune di Silvano Pietra dove io abito e risiedo. Il punto dolente del Comune si riferisce all’Imu e Tasi appena pagate. Il Comune appalta il servizio ad una azienda esterna, pagata con soldi pubblici, quindi anche con i miei. Qualche giorno prima della scadenza, mi viene recapitata la lettera con scritto: “Comune di Silvano Pietra ufficio tributi”. Mi viene da dire: “Bene”. Non è così: all’interno ci sono numeri e numeri che scorrendo attentamente mi fanno quasi trasalire. Non c’è nulla o poco che rispecchia la situazione della mia famiglia. Interpello il Comune e nessuno mi sa dare spiegazioni. Dicono di sentire l’azienda incaricata. L’incarico a questa azienda non l’ho dato io e allora perché devo interpellarla io? Ma non contento interpello l’azienda e, dopo
una lunga parlata non sapevano cosa dire o spiegare, alla fine dicono che i dati li attingono dal Comune, ma non sono quelli che io ho in mie mani e al catasto. Si rimpallano il problema. Quindi, la cittadinanza silvanese che deve avvalersi di questo servizio già pagato, ha dovuto pagare il conto cosi come è arrivato, pagando in fiducia, oppure ricorrere a qualcuno del mestiere per far controllare e pagare ancora, nella indifferenza della pubblica amministrazione e dell’azienda incaricata. Tanto i soldi non sono i loro e Pantalone sborsa. Ma questa confusione continua chi può averla creata, se non loro? Oppure c’è qualcuno sopra di loro che crea confusione per non far comprendere nulla al popolo che paga le tasse? Intanto seduti sulla loro poltrona calda che nessuno riesce a scalzare se la ridono di gusto, e il popolo è sempre più solo. Grazie per il lavoro che fa il suo Periodico. Martin Otello - Silvano Pietra
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lungo il po
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«Il Po una meraviglia snobbata dagli oltrepadani» La similitudine tra Po e Mississipi ha più volte stimolato l’immaginario di artisti che nella bassa Padana hanno vissuto o sono passati. Il fiume, isolato e selvaggio, scorre fra le insenature del terreno disegnando un percorso e scavando solchi che tracciano una mappa. Da poco anche le istituzioni internazionali si sono accorte dell’unicità di questo fiume e del suo ecosistema dichiarando l’area denominata Grande Po, che attraversa la pianura e l’Oltrepò pavese, patrimonio dell’Unesco. Chi il fiume lo vive quotidianamente, come un amore ma anche una missione, si augura che questo atto possa segnare l’inizio di un nuovo percorso, non solo idrico, per il Grande Fiume. Antonio Sardano sulle rive del Po ci vive da 30 anni e lo naviga con la sua barca da sempre. Vive a Vaccarizza, frazione di Linarolo, a pochi passi dal Ponte della Becca. Rispetto all’Oltrepò sta sull’altra sponda, posizione vantaggiosa per un osservatore. Da anni sulla sua casa galleggiante ospita eventi culturali e promuove, in maniera rigorosamente privata, un’area che lui stesso definisce «ancora incontaminata». Sono passati in tanti dalla sua chiatta, artisti illustri e giornalisti: Lino Banfi con la famiglia, Ellade Bandini, Gigi Cifarelli, Paolo Rumiz. Recentemente persino Ian Anderson, il leader dello storico gruppo rock inglese Jethro Tull, ha inviato un video messaggio in cui si complimenta per il suo operato. Sardano, per non essere un ente turistico si può dire che di movimento intorno a questa parte di fiume ne ha portato… «Non conto più i concerti o le gite in barca. Le dico che io da solo ho navigato la Pavia-Venezia 9 volte. Si è creato negli anni, per lo più con il passaparola, un vero e proprio giro di interesse. Mi chiamano da Brescia, Bergamo, perfino da Roma per venire a fare un giro sul fiume sulla mia barca». E dall’Oltrepò? «Pochissimi. Attira più quelli da fuori. Le citerò lo scrittore Paolo Rumiz, che mi disse una volta che “questo fiume è un lusso che pochi sul territorio si rendono conto di avere”». Che appeal ha il Po dal punto di vista turistico? «A livello teorico è una miniera d’oro: dal punto di vista naturalistico è una riserva eccezionale di biodiversità, la natura è pressoché incontaminata e offre alla vista scorci selvaggi e bellissimi che pochissime persone di queste parti hanno visto». Anche perché non esistono canali “ufficiali” per le visite. O si ha una barca, come lei, o…bisogna diventare amici di qualcuno che ce l’ha… «Questa è una grave pecca del nostro territorio. Non aver mai seriamente valoriz-
Antonio Sardano sulla sua casa galleggiante al Ponte della Becca
zato questo fiume, anzi. Non solo lo si è a lungo snobbato, ma anche abbandonato a se stesso. Una precisa responsabilità della politica questa, che mai ha seriamente investito per promuoverlo. Basti pensare che dietro casa mia, a 30 metri dal fiume, c’è una piscina…». Il Po sarebbe un’alternativa per la balneazione? Non c’è pericolo? «Io ci faccio il bagno da sempre, e non ho mai avuto problemi, mentre nelle piscine ho preso dei funghi! Riguardo al rischio, se intende per la sicurezza per chi nuota credo che le morti che si sono verificate è stato perché nessuno ha mai messo in sicurezza o attrezzato per la balneazione alcuna area e in troppi andavano allo sbaraglio». E dell’inquinamento che dice? «Non ho le analisi in mano, posso dire però che sicuramente la deindustrializzazione dell’Oltrepò negli ultimi anni ha sicuramente contribuito a ripulire il fiume. Ma aggiungo una cosa: se qualcuno nelle istituzioni avesse mai voluto credere nel Po come risorsa, si sarebbe potuto intervenire in molti modi su tutti i fronti». Ad esempio? «Creando servizi, sistemando dei tratti per renderli accoglienti, facendo controlli regolari dello stato delle acque e, soprattutto, salvaguardando il fiume dal punto di vista ambientale». Che cosa intende? «Mettere innanzitutto al riparo il fiume dalla siccità utilizzando i numerosi bacini
Il Grande Po patrimonio Unesco: «servono investimenti per valorizzarlo» idrografici che giacciono invece inutilizzati lungo il suo corso ad esempio. Lei non lo sa, ma questo fiume parla». E cosa dice? «Ultimamente lancia segnali di allarme. Se non facciamo niente rischiamo di perderlo. I fiumi sono lo specchio del territorio. In Francia riescono a fare business anche con un ruscello, qui abbiamo un patrimonio ignorato, che negli ultimi otto giorni è calato di oltre un metro e mezzo e continua a veleggiare verso la secca». Anche se a livello privato, lei fa molto per promuovere il Po. Le istituzioni non le hanno mai riconosciuto un aiuto? «Direi se mai che a volte mi hanno osteggiato perché facevo musica e temevano per il rumore o l’impatto sull’ambiente». Recentemente però ha ospitato a casa sua in riva al fiume gli Stati Generali del Po, una riunione di rappresentanti delle istituzioni e di studiosi di varia natura. Di cosa si è parlato? «Il focus era l’ambiente, si è parlato della assoluta necessità di salvaguardarlo. Ci si
è soffermati anche sul Ponte della Becca e il suo stato». Che cosa è emerso? «Che è tempo di mandarlo in pensione e realizzare un nuovo ponte». è un po’ che se ne parla. Crede che sia arriverà al dunque? «Un progetto per il nuovo ponte 300metri a monte di quello attuale esiste da tempo, ma si sa che quando nelle questioni c’entra la politica non si può mai sapere realmente cosa succederà». Lei ci guadagna qualcosa da questa sua attività di ”promotore privato”? «No, per le gite in barca sono le persone che mi chiedono di portarle a offrire un piccolo contributo per la benzina. Allo stesso modo i concerti privati sulla casa galleggiante, che sono ad offerta libera. La mia unica gratificazione è vedere le persone restare senza fiato e innamorarsi di questi luoghi». di Christian Draghi
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GODIASCO SALICE TERME
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Quale futuro per Palazzo Pedemonti-Malaspina? C’è chi dice che l’Oltrepò sia la regione più ricca di castelli d’Italia. Difficile fare un conto preciso, poiché difficile è anche definire quale sia effettivamente un castello e quale no. Nei nostri paesi, nelle nostre valli, qualunque palazzo nobiliare è definito ‘‘castello’’; qualunque area denominata ‘‘castello’’ rimanda alla presenza di un antico edificio fortificato del quale oggi magari non permangono che poche, incerte tracce. Sul ‘‘Periodico’’ dello scorso mese è stato pubblicato un censimento di queste strutture; perché il tema è certamente interessante, non soltanto per una qualche ipotesi turistica tutta da dimostrare, ma soprattutto perché tutti noi abbiamo almeno un po’ di interesse per le bellezze di casa nostra. Bellezze che molto spesso non sono mai visitabili, né le sono mai state. Capita perfino di imbattersi, gozzovigliando fra gli annunci immobiliari, in castelli che si vendono al migliore offerente. Quello di Pietra de’ Giorgi, pochissimi mesi fa. Quello di Pietragavina, nel 2015. Quello di Montebello (Beccaria), che ora sta affrontando un lungo e difficile percorso di rinascita grazie ai suoi attuali proprietari. Capita anche di trovare in vendita prestigiose dimore nobiliari, che forse non sono propriamente ascrivibili alla categoria castellana, ma che per prestigio e storia meriterebbero, quantomeno, un pubblico interesse che non si arresti ai futuri prossimi più utilizzati – e meno credibili – d’Italia: ‘‘vedremo’’, ‘‘faremo’’, ‘‘proveremo’’. La verità è che immaginare un futuro per questi monumenti – perché tali sono – è veramente difficile. Abitarli, oggi, sarebbe impensabile; almeno nella loro completezza. Trasformarli in altro – alberghi, qui? In Oltrepò? O forse dividerli in appartamenti, come accaduto a parte del castello di Castana? Cui bono? In altri tempi, dove non arrivava la mano invisibile del mercato, arrivava quella ben più lunga dei pubblici poteri. Un museo, un ente pubblico, un ufficio di rappresentanza sarebbe giunto a occupare chissà quali bellissimi saloni affrescati, portando in dote un cospicuo finanziamento per il restauro collegato. Ma questi son tempi di vacche magre; si fatica perfino a trovare il modo per occupare una vecchia pesa pubblica. E quando lo si fa, la soluzione difficilmente risulta credibile. Volendo continuare ad affrontare questo tema, abbiamo chiesto alla proprietaria di un antico palazzo dell’Oltrepò, palazzo Pedemonti-Malaspina di Godiasco, di raccontarci qualcosa della sua struttura. Una di quelle che, non a caso, risulta essere in vendita. Anni or sono (nel 2011) era in ipotesi il suo recupero e trasformazione in spazio
Anna Parini Maiola: «Vorrei venderlo. Una fondazione potrebbe essere il soggetto giusto per gestirlo»
Palazzo Pedemonti-Malaspina di Godiasco
museale, ed era sorto un comitato a questo scopo specifico. Ma una serie di curiose circostanze portò invece a valutare la cessione del palazzo prima ad un sedicente rappresentante dei Cavalieri di Malta – che, si seppe poi, lo disconoscevano; poi ad un lodigiano che decantava un meraviglioso museo di ceramiche. La classe politica dell’epoca – che non ha mai avuto il possesso del palazzo, ma di fatto ha brigato per cercare di catalizzare una soluzione altrimenti difficilissima – evidentemente sperava in quel ‘‘papa straniero’’ che di fatto non è arrivato mai. Chi vive sperando… Passate le chimere, il palazzo è ancora lì. Insieme alla sua fatalista proprietaria: Anna Parini Maiola. Che dopo una vita passata ad insegnare nelle scuole pubbliche, aspetta. Un papa locale o straniero che sia, purché capace di restituire dignità ad un edificio che, ed è innegabile, ha una parte importante nella storia dell’Oltrepò, anche recente. Un papa, qui a Godiasco, manca dal ‘500. Era Leone X, ma all’epoca del suo passaggio si chiamava ancora Giovanni de’ Medici. A Palazzo Pedemonti Malaspina soggiornò, fra gli altri, il cardinale Alberoni, noto come il Richelieau spagnolo, durante il suo avventuroso passaggio dalla penisola iberica verso Piacenza. Insomma: chi non vorrebbe vivere un palazzo così… Signora Anna, vogliamo tracciare a grandi linee la storia di questo palazzo? «La parte storica di Godiasco era circondata da mura, e doveva avere lungo queste mura un castello che in qualche modo difendeva il centro medievale. Un castello abbastanza importante, perché chiudeva e apriva la valle sulla Via del Sale, Riva-
nazzano all’epoca era solamente un centro minore. Passando gli anni e con essi l’esigenza di castelli di difesa, e probabilmente con il castello di Godiasco che risultava divenuto ormai fatiscente, nel ‘500 fu eretto questo palazzo signorile che era sede del marchese Malaspina del Ramo Fiorito, signore di Godiasco e delle terre circostanti.» Cosa rimane del castello? «Quello che rimane come testimonianza di quel periodo precedente è la via Castello, situata di lato rispetto all’area dove sorge il palazzo attuale. Quindi Palazzo Pedemonti-Malaspina si trova dove c’era questo castello, che è stato sostituito quindi dal palazzo signorile. È stato abitato quindi dal ‘500 in poi dalla famiglia Malaspina che erano signori di Godiasco.» E come divenne Pedemonti-Malaspina? «A fine ‘800 morì l’ultima, Malaspina, Antonietta, figlia del senatore Faustino Malaspina, che essendo donna non era in grado di tramandare il casato. Si sposò con un borghese di alto lignaggio, Lorenzo Pedemonti, che fu fra l’altro finanziatore di molte imprese garibaldine. Il palazzo arrivò così a chiamarsi Pedemonti-Malaspina.» Quali personaggi illustri vissero questo luogo? «Nella famiglia emersero due personalità di spicco. Il primo era, appunto, Lorenzo Pedemonti. Di lui ci rimane una corrispondenza ben tutelata con Mazzini, Garibaldi e gli ambienti garibaldini. Il secondo personaggio fu il colonnello Alessandro, poi nominato generale, decorato con l’Ordine Militare di Savoia, che guidò le truppe italiane nella presa di Gorizia. Anche il senatore Faustino fu personaggio illustre:
fu senatore del Regno d’Italia nello stesso periodo in cui lo fu Giuseppe Verdi». Ha subito ulteriori modifiche nel tempo? «Il palazzo aveva anche una chiesetta nei suoi pressi, fatta erigere da un Malaspina intorno al ‘600 in onore della morte del figlio premorto rispetto al genitore. La chiesa di S. Maria dei Defunti adesso è diventata, storpiata dal tempo, locale dove lavora un fabbro.» Poi, circa 10 anni fa, lei diventa proprietaria del Palazzo. Ora come si presenta? «Potrebbe essere in condizioni migliori. Problemi di staticità particolari non ce ne sono. Il tetto è quasi in buono stato… certo che gli antichi splendori sono passati. Del salone delle feste damascato non rimane quasi niente, nel resto del palazzo qualche affresco… un bellissimo ingresso, con lo scalone di pietra.» Vuole descriverci gli ambienti principali? «C’è una parte storica, il palazzo vero e proprio, e poi una parte rustica, dove un tempo sorgevano le case dei dipendenti, le scuderie e i granai. Per quanto riguarda il palazzo, la parte padronale è strutturata su due piani, più un piano ammezzato. Il Piano Nobile presenta volte affrescate ed un’altezza media interna superiore ai cinque metri. L’accesso al palazzo consiste in un grande atrio dal quale diparte lo scalone monumentale che conduce al piano nobile.» È visitabile? «Su richiesta telefonica o cartacea. È interessante fare un giro della Godiasco medievale, per poi entrare nel palazzo e visitarlo.» Ipotesi sul futuro? «Vorrei venderlo, per trovare una destinazione giusta per il palazzo. La soluzione più plausibile mi sembra però quella di trasformarlo in un museo. Un museo di proprietà pubblica nel senso più lato del termine. Una fondazione potrebbe essere il soggetto giusto per gestirlo.» di Pier Luigi Feltri
VAL DI NIZZA
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Nuova Comunità montana «Palli una speranza e una risorsa» Il caldo torrido di questi giorni ha asciugato l’acqua, ma con i danni causati dal nubifragio del 25 maggio scorso il comune di Val Di Nizza dovrà fare i conti ancora per un po’. Il sindaco Franco Campetti è a caccia di fondi per riparare i danni: alcuni li ha ottenuti, altri li sta cercando. Intanto, in vista dell’elezione del nuovo direttivo della Comunità montana, il suo comune si schiera con Palli, “homo novus” che potrebbe chiudere i conti con il passato e rilanciare l’Ente. Campetti, iniziamo dal nubifragio che vi ha colpito. La conta definitiva dei danni a quanto ammonta? «I danni provocati dal nubifragio sono quantificabili in circa 500.000 euro, di cui almeno 50.000 subiti dai privati. In particolare preoccupa la situazione del torrente Nizza, che è esondato in molti punti e la furia delle acque ha rimosso alcune difese spondali creando pericolo per l’incolumità pubblica. La Regione Lombardia, che ha la competenza sul torrente, è intervenuta prontamente per ripristinare le difese spondali compromesse, ma rimane ancora molto da fare. Nell’immediato la Regione è intervenuta con circa 40.000 euro ma occorrerebbero almeno 200.000 per sistemare il torrente dalla foce sino alla confluenza con lo Staffora, in opere di prevenzione per evitare danni in occasione delle prossime piogge». Come Comune siete intervenuti? «Come comune siamo intervenuti sulla strada Poggio Ferrato Molino, chiusa al traffico per una frana e l’esondazione del fosso a Molino Cassano, inoltre sono previsti lavori sul fosso di Serzego, dove una abitazione è stata allagata, con una spesa prevista di circa 48.000 euro. Anche in questo caso si tratta di lavori di somma urgenza per la messa in sicurezza della strada e della abitazione. Per ripristinare i danni complessivi subiti è stata inoltrata una richiesta di fondi a regione Lombardia per ulteriori 300.000, in particolare per rimuovere e consolidare i numerosi smottamenti riscontrati sia sulla strada di Poggio Ferrato, Molino Cassano, che sulla strada di Cassano Superiore, di Marnago e sui fossi del reticolo idrico minore. Purtroppo il nubifragio ha allagato anche una decina di case private ed una attività artigianale che ha subito ingenti danni: come Comune oltre ad aver attivato la protezione civile, abbiamo segnalato il fatto alla Regione per l’eventuale risarcimento dei danni subiti». I danni alle colture sono stati ingenti? «Anche il settore agricolo ha subito molti danni, la violenta grandinata che ha accompagnato il nubifragio del 25 maggio ha provocato ingenti danni sia al frumento che alle coltivazioni frutticole in particolar modo visibili in questo periodo di raccolta
Paese in ginocchio dopo il nubifragio del 25 maggio scorso: «Danni per mezzo milione di euro»
Franco Campetti
ben visibili sulle albicocche». Passare da un nubifragio a parlare di siccità può sembrare un paradosso, ma visto il caldo di questi giorni val la pena fare la domanda: il suo comune ha più volte in passato avuto problemi legati alla mancanza d’acqua. Com’è la situazione al momento? «Effettivamente passiamo da nubifragi a periodi di siccità intensa e quindi in un modo o nell’altro siamo spesso in emergenza. In collaborazione con pavia Acque e ASM Voghera abbiamo predisposto alcune migliorie all’acquedotto, nell’ottica di migliorare il servizio e garantire una omogeneità di distribuzione. In questi giorni si sono conclusi i lavori di collegamento del pozzo a Casa Schiavo con il serbatoio del Monte, che dovrebbe garantire omogeneità di distribuzione, evitando interruzioni di erogazione durante l’arco della giornata nella bassa valle. Mentre a Sant’Albano sono stati assegnati e dovrebbero partire a giorni i lavori di una nuova linea con il posizionamento di un torbimetro per risolvere il problema dell’erogazione dell’acqua sporca di fango soprattutto dopo i forti temporali. è un problema che si ripete da tempo e che ho più volte segnalato ai vertici degli enti preposti (Pavia Acque e ASM) sollecitando una soluzione risolutiva, mi auguro che con questo intervento sia la volta buona per evitare spiacevoli e fastidiose erogazioni di acqua torbida, considerato che dalle analisi effettuate regolarmente l’acqua risulta potabile». Parliamo della situazione dello sportello Poste, di cui mesi fa si era ventilata la chiusura. Com’è la situazione oggi? «Come ho avuto modo di dire anche in altre occasioni, ho percepito una inversione di tendenza nel rapporto tra i piccoli comuni e sia l’attuale Governo che Poste Italiane al convegno del 26 novembre 2018
organizzato da Poste italiane a Roma e al quale ho partecipato. In quella occasione L’amministratore di Poste ci ha rassicurato che non avrebbe chiuso nessun ufficio postale, ma non solo, ho avuto conferma che in questi giorni sarà installato nei pressi del Municipio uno sportello Postamat per fornire un ulteriore servizio ai cittadini del nostro Comune e non solo, in quanto lo sportello sarà posto in prossimità della strada provinciale 7 e quindi fruibile anche agli utenti di passaggio, avendo a disposizione anche il parcheggio pubblico». Presto si eleggerà il nuovo direttivo della Comunità montana. è sfida a due, così si dice, tra Palli e Ferrari per la carica di presidente. Chi appoggerete? «Il rappresentante del Comune di Val di Nizza nell’assemblea della Comunità Montana è Paolo Culacciati, attuale vice sindaco, che in passato è stato più volte Assessore dell’Ente. Paolo si è schierato a sostegno della candidatura di Palli, ritenendolo, in discontinuità con il passato, una speranza e una risorsa per la montagna, anche per il suo rapporto diretto che ha con il Governo Nazionale e la Regione Lombardia». Secondo lei quali dovranno essere le priorità del nuovo presidente? «Sicuramente la sfida è restituire quel ruolo politico che un Ente come il nostro merita, per la rappresentanza che le spetta nella difesa e valorizzazione della montagna e dei suoi abitanti. La Comunità Montana è di fatto una unione di comuni, quindi dovrò verificare e potenziare una serie di funzioni e servizi sovracomunali, verificare il rapporto con il GAL Oltrepo e capire ciò che in questo momento non sta funzionando». Greenway. La statale del Penice è una strada a percorrenza molto lenta e difficoltosa... qualcuno potrebbe pensare: “prima di investire in una ciclabile non
era il caso di mettere a posto la strada normale?”. Lei come la pensa? Crede che la greenway sia davvero quella irrinunciabile opportunità di sviluppo che molti dipingono? «Non condivido la logica secondo cui non bisogna fare una iniziativa in quanto ci sono cose più importanti. Occorre ricordare che gli Enti pubblici fanno programmazione su più anni, pensare che con i fondi della Greenway si potrebbe migliorare la viabilità della ex statale è un ragionamento sbagliato. La Grenway ha una sua importanza per lo sviluppo di una parte del turismo, sono anni che è stata programmata, si sta realizzando a lotti, reperendo di volta in volta fondi provenienti da Enti diversi e con finalità proprie e destinate a questo tipo di struttura». Il problema della viabilità però rimane… «Le problematiche sono note: una strada Voghera Varzi vecchia e insufficiente, la mancanza di una tangenziale Sud a Voghera, collegamenti con l’autostrada difficoltosi, le strade provinciali che si diramano dalla direttrice Voghera Varzi in condizioni pietose. Utilizzare i pochi fondi della Greenway per la viabilità ordinaria avrebbe come risultato di non risolvere i problemi di viabilità e soprattutto di non avere la greenway. Molti comuni stanno investendo in strutture e percorsi sia per le bici da strada che quelle di Montanbike, e su questo filone di turismo dobbiamo puntare, così come territorio dovremo fare squadra e programmare una serie di interventi da sottoporre agli enti competenti (Provincia Regione) per riqualificare la viabilità del nostro territorio, non solo in chiave locale, ma soprattutto di collegamento con la rete autostradale». di Christian Draghi
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ZAVATTARELLO
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«Aiuto l’Africa con Zavattarello nel cuore» Medico, originaria di Zavattarello, di madre italiana e padre inglese, Giovanna Cowley si è laureata in Inghilterra dove ha lavorato per 6 anni prima di prendere la via dell’Africa. Lì ha proseguito gli studi in vari paesi, lavorando al contempo a diversi progetti di ricerca. Quello più recente era nella zona di Yanfolila, regione Sikasso, nel Mali, dove gestiva progetti di sviluppo di sanità comunitaria per 10 paesi attorno a una miniera d’oro. Ora è tornata in Italia e sta cercando fondi per portare avanti un nuovo progetto già ideato e per cui i fondi le sono stati sospesi dalla ditta per cui lavorava. Lo presenterà a Zavattarello sabato 6 luglio, durante la festa che animerà il borgo. Dottoressa Cowley, che cosa sta cercando di finanziare? «Si tratta del rinnovamento dell’arredamento e delle attrezzature di una delle quattro cliniche che sostenevo (la clinica di Kabaya). Le altre sono in uno stato decente ma in questa clinica mancano persino i materassi per i lettini per non parlare di un frigorifero o uno sterilizzatore». Chi ci lavora? «Ci sono un’ostetrica e un infermiere che sono fantastici. Non si stancano mai nonostante il fatto che hanno tantissimi pazienti che devono curare in condizioni molto difficili. Queste persone fanno molto più del necessario: facevano un’ora di moto su strade penose per seguire i nostri corsi di formazione e organizzano tantissimi incontri con la gente del paese per insegnare l’importanza dell’allattamento, dell’giene e delle consultazioni prenatali». Quanti soldi servono per partire? «Si parla di 7.014 euro per l’esattezza». In che modo contate di raccoglierli? «Al momento abbiamo creato una pagina facebook e cercheremo di presentarlo il più possibile in giro. Una nuova presentazione del lavoro svolto e del progetto si terrà alla biblioteca di Zavattarello il 26 luglio. Sto informandomi arrivare anche ad altri eventi locali e cercherò di organizzare un evento più specifico per raccogliere fondi (forse una cena ma non è ancora definitivo)». Di che cosa si occupava in Africa? «Gestivo progetti di sviluppo. In particolare l’apertura di un ‘CSCOM’, ovvero un Centro di sanità comunitario, uno studio sui bisogni sanitari nella zona e per capire bene quello che ci voleva per migliorare lo stato di salute della popolazione. C’era poi un progetto per la prevenzione della malnutrizione, formazione e sostegno per la clinica (CSCOM) che noi abbiamo aperto ma anche per altre tre cliniche della zona. Abbiamo elaborato poi un progetto per combattere la malaria e altri progetti più
La dottoressa Giovanna Cowley con i lavoratori della clinica di Kabaya
piccoli, come giornate di ‘screening’ e consigli medici per la pressione alta, un progetto d’informatica per le cliniche locali e dei “shadowing programmes” dove invitavamo infermiere locali a visitare la nostra clinica come stage, fornendo insegnamento di primo soccorso per gli abitanti dei paesi locali». Lei è originaria di Zavattarello, ma ha un cognome inglese. Come è composta la sua famiglia? «Mia mamma è nata a Crociglia ed è un’insegnante in pensione. Mio padre è britannico sud africano. Io sono nata a Voghera ma abbiamo sempre avuto la casa a Casale, frazione di Zavattarello». Quando avete lasciato l’Oltrepò? «Quando avevo due anni la famiglia si è trasferita a Cambridge, Inghilterra. Abbiamo vissuto poi in Sud Africa e sono tornata in Inghilterra per gli studi. Mi sono laureata a Cambridge e a University College London e ho un diploma in medicina tropicale dal London School of Hygiene and Tropical Medicine». Fare il medico è una missione, nel suo caso in senso letterale. Quando e cosa l’ha spinta ad andare fin là? «La mia passione per l’Africa è nata quando siamo andati a vivere in Sud Africa (all’eta di 8 anni). Finito il primo anno di medicina sono andata a fare la volontaria in Mbale, Uganda (in un hospice, clinica generale, e una clinica di ostetricia e
«Torno a Zavattarello tre o quattro volte l’anno. L’Oltrepò per me è una terra ospitale»
Campagna per la prevenzione della malaria
ZAVATTARELLO pediatria). Una volta laureata, sono andata a fare il diploma in medicina tropicale in Uganda e Tanzania (2015). Poi sono andata in Guinea Bissau (2016) per gestire due progetti di ricerca - uno sul trachoma e l’altro sulle infezioni sessualmente trasmesse. Sono tornata a Londra per lavoro e in Agosto dell’anno scorso (2018) sono partita per il Mali». Come è finita in una miniera d’oro? «Lavoravo per una ditta che recluta medici per ditte in zone remote. Cosi sono andata a lavorare per una miniera d’oro. Inizialmente nella clinica per i lavoratori e poi gestendo progetti sanitari per la communita locale». C’erano altri italiani con lei? «No. I progetti di sviluppo erano gestiti da me e una mia collega olandese aiutati da infermiere e agenti sanitari Maliani». Come vedono l’Italia da là? Come il paese che può dar loro una vita migliore? «Sono stata molto bene accolta da tutti ed erano soprattutto contenti di conoscere un’italiana perché là sono tutti appassionati di calcio e ci sono tanti tifosi azzurri. La qualità di vita nella zona è molto bassa - per esempio il livello di analfabetismo dove lavoravo io era all’88% per le donne. La maggior parte delle persone abitano in costruzioni fatte di fango e una percentuale alta non ha neanche accesso a servizi igienici. Ovviamente, date queste condizioni, l’Europa e l’Italia sono visti come posti dove la gente vive meglio».
il Periodico News
LUGLIO 2019
Il ritorno in Italia. Forzato o le mancava il suo paese? «Una combinazione di motivi. Sono tornata in Europa per fare un master in ‘sanità publica per lo sviluppo’ che comincerò a Londra a settembre. Inoltre, il progetto comunitario stava arrivando alla fine per esaurimento dei fondi e poi avevo anche un po’ di nostalgia e voglia di tornare in Italia per passare del tempo con la mia famiglia e amici di Zavattarello e mangiare il salame». Il “Mal d’Africa” esiste? «Certo che esiste. Non vedo l’ora di tornarci: amo la gente, la cultura e il paesaggio. Pero è il lavoro che mi attira di più. Lì si può davvero fare la differenza e migliorare la vita di gente che ne ha proprio bisogno». Torna spesso a Zavattarello? Ha un legame con il paese? «Sono legatissima. Torno quando posso, di solito 3 o 4 volte all’anno, e mi ritengo Zavattarellese - le mie radici sono qui!». L’Oltrepò le sembra un territorio sensibile ed ospitale? «Per me sì: io, la mia famiglia internazionale e i miei amici siamo sempre stati molto bene accolti. Trovo la gente aperta, generosa e sempre disponibile ad aiutare». di Silvia Colombini
Riunione nel paese di Tiemba per iniziare il progetto di prevenzione della malnutrizione
Giovanna Cowley a caccia di fondi per una clinica nel Mali
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ROMAGNESE
il Periodico News
Luglio 2019
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«Il paese è in declino: bisogna riunirsi nel capoluogo per mantenere i servizi» Senso civico e tanta forza di volontà. A Romagnese un gruppo di volontari ha deciso di rimboccarsi le maniche e sistemare marciapiedi, verniciare ringhiere, tagliare l’erba e persino ripulire i sentieri. Tutti lavori che una volta avrebbero fatto i cantonieri, figure che oggi i Comuni, salassati dai tagli ai fondi statali, sempre più difficilmente possono permettersi. Per Virginio Castagnetti, che risiede in una delle numerosissime frazioni, è diventata una sorta di missione. è lui a farsi portavoce del gruppo volontari, buona parte dei quali collabora anche con la Pro Loco: «Il paese si sta svuotando di anno in anno e continua ad invecchiare. Ogni piccola iniziativa che può mantenerlo vivo e renderlo attrattivo val la pena di metterla in atto». Come è nata questa idea?
La pulizia dei sentieri è un’altra priorità del gruppo di volontari di Romagnese
«Era un’iniziativa che ci tenevo a mettere in atto e di cui avevo parlato mettendola anche in programma dopo le elezioni. Tutti dobbiamo dare una mano perché la situazione per chi vive qui diventa sempre più complicata. Ci sono 45 frazioni nel Comune e quasi tutte sono abitate da persone molto anziane, alcune delle quali nemmeno guidano più. Già da prima ci adopravamo per aiutarle, magari con la spesa o portando medicine. Il passo successivo era fare volontariato non solo per le persone fisiche, ma anche per il paese stesso». Che tipo di lavori avete fatto o state facendo? «Diversi. A Casa Matti hanno sistemato il parco giochi, adesso iniziamo a mettere a posto quello del capoluogo che non è messo bene.
Nella frazione Villa Casa abbiamo sgomberato dei fossi e i tombini occlusi dalla terra e fogliame, abbiamo contribuito a sistemare una piccola frana che si era verificata tra Casale e Casa Pilla». Nel capoluogo invece? «Abbiamo sistemato la pavimentazione nella via centrale sostituendo le mattonelle della pavimentazione della piazza che saltavano via e completando una ventina di metri di un tratto di strada che era rimasto scoperto dopo che erano stati effettuati dei lavori per le tubature dell’acqua. Adesso è la volta della ringhiera che fa da parapetto alla strada che gira intorno al paese: in alcuni punti è stata saldata ed è in fase di riverniciatura». Quanti siete in tutto? «Abbiamo cominciato in tre e adesso saremo circa una decina, ma c’è sempre gente che si aggiunge dando una mano o il cambio a qualcun altro». Si aspettava tanta collaborazione? «Sinceramente no, mi ha fatto davvero tanto piacere. In particolare ci tengo a spezzare una lancia in favore dei giovani. Spesso si dice che non hanno voglia e non si interessano a fare certi mestieri, invece non è vero. Qui stanno dando una bella mano anche loro». E l’Amministrazione? Vi sostiene? «Sì, l’iniziativa è partita in accordo con il nuovo sindaco. Pagano loro i materiali». All’ingresso del paese, venendo dal Penice, si nota una panchina rosso fuoco. è opera vostra anche quella? «Sì, abbiamo pensato di riverniciarla di quel colore come segnale contro la violenza sulle donne». Avete in programma anche dei lavori ai sentieri? «Sì, è nostra intenzione ripulirli il più possibile, soprattutto adesso che stanno per così dire diventando di moda e potrebbero dare una mano a incentivare il turismo».
«Abbiamo cominciato in tre e adesso saremo circa una decina, ma c’è sempre gente che si aggiunge dando una mano o il cambio a qualcun altro».
Virginio Castagnetti e uno dei volontari al lavoro
Gruppo di volontari “tuttofare”: in accordo con il Comune sistemano strade e sentieri In che condizioni versano? «Ci sono le segnalazioni ma sono sporchi e necessitano di essere ripuliti, tagliando erba e rami». Lei vive il paese da moltissimi anni. Come lo ha visto cambiare? «Il paese è invecchiato, mancano giovani e bambini, perché non ci sono posti di lavoro qui. Non abbiamo molti servizi. La scuola elementare non si sa fino a quando avrà i numeri per restare aperta, la posta ha ridotto le aperture da 6 a tre giorni la settimana, la banca che prima faceva cinque giornate adesso fa mezze giornate con soli due dipendenti. Da otto mesi è chiuso anche il distributore di carburante e per rifornirsi bisogna andare a Zavattarello. La
situazione sta crollando lentamente». Zavattarello che ha appena citato dista solo sei chilometri, ma sembra un altro mondo. C’è pressoché ogni tipo di servizio. Come mai tanta differenza in così poca distanza? «Secondo me loro sono avvantaggiati dal fatto di essere riusciti a riunire il cuore del paese nel capoluogo. Accentrando tutto è stato più facile creare una specie di piccola città. Romagnese invece ha poco più di 600 abitanti, molti dei quali sparsi nelle 45 frazioni disperse in giro. Sarebbe importante riuscire a riunire la popolazione nel capoluogo». di Christian Draghi
colli verdi
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Luigi e Donesca da 50 anni i toscani dell’Oltrepò Nella piccola frazione di Carmine, Colli Verdi, lo storico Ristorante Belvedere ha raggiunto un traguardo degno di festeggiamenti: i 50 anni di attività. Dal 1969 la famiglia Giunti gestisce questa realtà e, grazie a squisiti piatti tipici e ad un ambiente famigliare, che sono i principali punti di forza del locale, offre un assaggio – letteralmente – di Toscana a noi Oltrepadani. Abbiamo incontrato la proprietaria Donesca Bologni che, insieme al marito Luigi Giunti, lavora nel mondo della ristorazione da ben 52 anni. L’avventura culinaria di Donesca comincia quando, all’età di 19 anni, lascia la provincia di Firenze per aprire la prima attività a Milano; dopo un paio d’anni la decisione di trasferirsi in Oltrepò e dar vita al Ristorante Belvedere. Cosa vi ha spinti a cambiare? Milano e Carmine sono due realtà molto diverse, l’una una grande metropoli e l’altra un piccolo paese oltrepadano. «Mio marito ed i suoi amici frequentavano spesso la zona e la conoscevano bene perché è sempre stato uno dei loro luoghi preferiti per andare a caccia. All’improvviso si è presentata l’occasione di acquisire il ristorante; l’abbiamo colta senza pensarci due volte e il 15 giugno 1969 abbiamo aperto la nostra attività qui in Oltrepò». Lei e suo marito Luigi negli anni avete fatto della cucina toscana, in particolare della carne alla griglia, il cavallo di battaglia del Ristorante Belvedere. «Tagliata, Costata, Fiorentina sono i piatti che la gente cerca e si aspetta di trovare in un ristorante tipico toscano, ed è soprattutto grazie a questi che siamo conosciuti. Negli anni, per soddisfare anche i gusti locali, abbiamo integrato piatti della tradizione del posto come il brasato e i ravioli ma, buoni che siano, personalmente non li baratterei mai con una ribollita o una panzanella (ride)». Per le materie prime vi affidate ai prodotti locali? «Per la maggiorparte sì, dalla carne ai vini. Abbiamo avuto modo di collaborare con importanti produttori del territorio e organizzare cene che accompagnassero la degustazione di ottimi vini nati e lavorati proprio qui. La nostra cantina però offre specialità da tutta Italia». La vostra struttura è davvero molto grande, oltre al ristorante gestite anche il bar e l’albergo. «I nostri 150 posti a sedere vengono ancora occupati e fino a dieci anni fa anche l’albergo era attivo; ma, si sa, di tempo ne è passato e il turismo, purtroppo, è andato quasi scomparendo. Ricordo che avevo clienti che affittavano le camere per lunghissimi periodi, da maggio a settembre; in una giornata è capitato di servire addirittura 600 persone, ma oggi queste
«Proviamo una certa amarezza, perché nonostante l’amore che mettiamo ogni giorno, ci sentiamo trascurati»
Donesca Bologni con il marito Luigi Giunti
cose non accadono più! Erano situazioni comuni prima della crisi e della forte contrazione del turismo che, ahimè, non ha penalizzato solo Carmine, ma l’Oltrepò in generale». Parlando di turismo: spesso si associa il paesaggio toscano a quello oltrepadano, ma un paragone in termini di turismo non è possibile. Quali sono le differenze? «è vero, da questo punto di vista si as-
«I ravioli son buoni, ma non li scambierei mai con ribollita o panzanella
somigliano soltanto: la Toscana funziona molto meglio ed il territorio viene di gran lunga più valorizzato. Qui i turisti e i vacanzieri sono praticamente del tutto scomparsi, non si è fatto abbastanza negli anni per mantenere vivi i nostri paesi. Le strade, ad esempio, versano in condizioni pietose, disagevoli, e ciò di certo non aiuta! Per tanto tempo i miei clienti di Milano si sono macinati parecchi chilometri per venire a trovarci qui in collina, ma oggi diventa quasi impossibile per un milanese farsi un giro fuori porta di domenica per le “strade” dell’Oltrepò. Proviamo una certa amarezza, perché nonostante l’amore che mettiamo ogni giorno nell’offrire il meglio ai nostri clienti, noi come di sicuro altri ristoratori, ci sentiamo trascurati. La sensazione è che siamo stati un po’ dimenticati dalle autorità competenti». è trascorso parecchio tempo dall’apertura del locale: l’afflusso di clienti è diminuito? Tornano ancora da voi quelli di vecchia data? «Siamo riusciti a mantenere la nostra clientela, che nel ’69 ci chiamava “i Toscani” e ancora oggi i nostri affezionati ci riconoscono per le nostre origini e apprezzano la nostra cucina. Nonostante tutto, la crisi e tutti gli altri problemi che attanagliano noi ristoratori, siamo riusciti a raggiungere un traguardo importante e il lavoro non è mai mancato; è sempre stato tanto, troppo… infatti sono 52 anni che
“fò” questo mestiere, che rimane sempre un’enorme soddisfazione». Mezzo secolo trascorso nel campo della ristorazione, di certo non deve essere stata una passeggiata: ci racconti di questi 50 anni. «Non sono pochi e sono costati vari sacrifici: sai quando cominci, ma non sai mai quando finisci! Mi sono quasi sempre occupata della cucina, al fianco di mio marito, ma ci sono stati momenti in cui la frenesia era tale da dovermi prendere carico anche del servizio in sala… È dura! Io e mio marito abbiamo festeggiato il nostro anniversario di matrimonio – anche in questo caso, 50 anni – lavorando; i miei figli, che pure lavorano con noi, così presi dal servizio, non sono riusciti a pensare ad altro e ci hanno fatto gli auguri il giorno dopo (ride)». Insomma, siete sempre stati più che disposti a sacrificarvi per il vostro ristorante. è anche e soprattutto grazie a questo se oggi celebrate questo traguardo. «Traguardo importantissimo che abbiamo voluto festeggiare con gli amici; colgo infatti l’occasione per ringraziare, ancora una volta, Giorgio Remuzzi e Gianni Andrini per la splendida targa che ci hanno regalato… segno tangibile che riassume questi 50 anni e gratifica tutta la fatica fatta per arrivare fino a qui». Se lei potesse tornare indietro nel tempo al 1969, ricomincerebbe tutto da capo? «Sinceramente non saprei dare una risposta certa. Essendo molto legata alla mia terra d’origine, forse sarei tornata in Toscana. Ma è anche vero che qui ho visto crescere i miei figli e i miei nipoti e realizzarsi l’attività che portiamo avanti da così tanto tempo». Ci lasciamo con un buon auspicio per il futuro. «Aspettiamo di rivederci e festeggiare di nuovo il Ristorante Belvedere: la prossima tappa sono i 60 anni». di Cecilia Bardoni
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CASTEGGIO
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Albani e Arnese: «Cosa ha lasciato alla comunità Callegari?» In seguito alle dichiarazioni rilasciate a questo giornale dall’ex sindaco di Casteggio Lorenzo Callegari, gli ex consiglieri comunali di minoranza Ettore Albani e Francesco Arnese ci hanno fatto pervenire una replica. Li abbiamo così incontrati per sentire dalla loro viva voce, e per trasmettere ai nostri lettori, i loro pensieri. Qual è l’argomento del contendere? Albani: «Io e gli altri consiglieri di opposizione abbiamo fatto battaglie solo per difendere i soldi pubblici – la ‘‘res publica’’ di Casteggio. Sono stato denunciato per diffamazione da Callegari per aver affermato nel 2011 in un’intervista al Periodico: ‘‘Casteggio è governato secondo una logica di malaffare’’. Sono stato assolto. D’altronde, come facevano a condannarmi, alla luce anche della Delibera della Corte dei Conti del febbraio 2018 in cui la Corte richiama pesantemente il comune per tante irregolarità gestionali? Cose note, a noi consiglieri di opposizione.» Arnese: «Il mio diritto di replica scaturisce dalle sue accuse avanzate nei confronti dei consiglieri d’opposizione della sua ultima legislatura per i quali ha espresso le seguenti espressioni: ‘‘tre personaggi che hanno semplicemente dato fastidio in consiglio comunale con improperi, ingiurie, insulti. Comunque non avevamo nulla da nascondere e i risultati sono lì da vedere’’. Non è la prima volta che intervengo a correggere i falsi meriti che il soggetto si attribuisce e sono ancora una volta ad affermare quanti e quali siano stati gli illeciti a lui attribuiti e quali siano stati i danni patrimoniali da lui creati alcuni dei quali non operati negli interessi dei cittadini e, comunque, tantissimi conseguiti senza rispettare le procedure che il Regolamento Comunale sancisce.» Entriamo nel merito… Albani: «Alcuni esempi: anticipazioni di tesoreria, debiti fuori bilancio, fondo crediti di dubbia esigibilità, rapporti con organismi partecipati, accollo del mutuo e delle perdite di Casteggio Servizi (presidente: Bonferoni, compagno di lista di Callegari), affidamenti alla cooperativa sociale Clastidium Lavora… uno scandalo. Praticamente la giunta Callegari ha passato circa 1 milione e 200mila euro in assegnamenti diretti con tranche tutte sotto i 40mila euro dal 2009 al 2014 circa, poi la società è andata in liquidazione. Per farla breve, è stata costituita a dicembre 2009 dopo che la giunta aveva appena vinto le elezioni del maggio 2009, e tra gli amministratori c’erano i suoi amici: il solito Bonferoni, suo compagno di lista, e Balestrero, marito della consigliera di maggioranza Brandolini.» Arnese: «È vero. Alla maggioranza abbiamo reso la vita difficile perché ci eravamo accorti che il Callegari per conseguire i
Francesco Arnese ed Ettore Albani
suoi obiettivi procedeva con il subdolo sistema di mettere sempre il carro davanti ai buoi… In altre parole non dava mai notizia di ciò che intendeva conseguire e per fare ciò evitava di seguire le norme previste dal regolamento comunale. Detta in breve: non si premuniva dalla prescritta e pubblica delibera di consiglio comunale, ma solo di delibera di giunta che è tutt’altra cosa perché discussa ed approvata dagli assessori che costituiscono la sua giunta.» Per esempio? Arnese: «Mi limito a citare solo alcuni casi. L’alienazione di una bellissima palazzina edificata su tre livelli (piano terra, primo e secondo piano) che è stata venduta all’asta pubblica ed aggiudicata dalla moglie del sindaco Callegari per la misera somma di € 10.000. In seno a detta palazzina il Callegari ha ricavato il suo personale ambulatorio medico. Poi: la trasformazione di parte della piazza Martiri della Libertà, già utilizzata come area mercatale, ad area pubblica con la collocazione di grossi teloni denominati poi ‘‘vele’’. Le relative spese per la trasformazione superavano i 40mila erano ed erano, quindi, decisioni di competenza del Consiglio Comunale. Ancora: la realizzazione di un chiosco per una spesa superiore ai 50 mila euro acquistato da una cittadina olandese, amica del sindaco Callegari, tramite il fabbro, Signor Giachero di Casteggio, che si è prestato alla transazione. Per tale episodio esiste ampia ed indiscutibile documentazione agli atti del Comando della Guardia di Finanza di Voghera da me sollecitata ad intervenire.» Albani: «Io rimango basito per come proprio lui voglia dare una morale ai cittadini, quando ha indebitato il paese in modo pazzesco. Cosa ha lasciato alla comunità il signor Callegari? Ok, è normale che un comune possa avere dei debiti; mutui accesi a fronte di investimenti per la collettività. Ma non di queste proporzioni. Ricordo che il comune di Casteggio ha circa 6 milioni e mezzo di euro di esposizione bancaria, di
cui un terzo si poteva evitare.» Ad esempio? Albani: «Ad esempio il mutuo per la piscina coperta; circa un milione di euro che finiamo di pagare nel 2038. Perché il sindaco non ha vigilato attentamente i lavori? Il risultato è che è costata tre volte di più, e si è conclusa dopo un decennio invece di essere finita in due o tre anni. Oltretutto dopo aver persa la causa con una cooperativa. Venne addirittura il Gabibbo… in Comune allora c’era Manfra che però non c’entrava nulla. Il responsabile, come tutti sanno, era il precedente sindaco, cioè Callegari. Altro esempio: la giunta Callegari quando si è insediata di nuovo nel 2014 doveva denunciare subito alla Procura della Repubblica il grave danno erariale causato dalla precedente giunta Manfra per il caso del plesso di via Montebello. Ma come poteva farlo, se nella sua maggioranza c’erano, come adesso, consiglieri ed assessori che erano presenti anche nella gestione precedente? Risultato: poco fa il Comune di Casteggio ha comprato la palestra, circa metà del plesso per circa 900mila euro. Si finisce di pagare nel 2031. A chi serve? Il Comune ha già le scuole materne e le medie.» Contestate anche la questione relativa a Palazzo Battanoli… Arnese: «Il sindaco Callegari, subentrato alla gestione del dottor Manfra, scopre che nelle casse comunali è iscritta, in passivo, una spesa di 450.000 euro per lavori commissionati dal citato dottor Manfra. Accertato che detti lavori non erano ancora eseguiti, decideva autonomamente di non farli più eseguire e, sempre autonomamente, si appropriava dell’importo, barattandolo con l’impresa edile in cambio di palazzo Battanoli. L’arroganza del Callegari non ha previsto scuse ed ammissione di trasgressioni. Egli si è permesso di sostenere che aveva riacquistato l’immobile per una somma inferiore a quella utilizzata da chi l’aveva venduto per una differenza in positivo di 300mila euro, non curandosi del fatto che la vendita era stata legittima-
ta a seguito di delibera comunale e la sua operazione di riacquisto si è basata solo ed unicamente su una decisione di giunta; viziata dal comportamento dell’assessore Antoniazzi.» A cosa si riferisce? Arnese: «In seno all’amministrazione Manfra, quindi nel corso del consiglio comunale, Antoniazzi aveva vivamente sostenuto che palazzo Battanoli doveva essere venduto perché non esisteva un futuro che prevedesse il suo recupero. Il medesimo, divenuto poi assessore nella successiva legislatura condotta dal Callegari, ha smentito sé stesso allorquando in Giunta ha affermato il contrario di tutto e di tutti.» Sulle pagine dei giornali era finita anche una vostra denuncia relativa ad un camino, situato presso Palazzo Battanoli… Arnese: «A seguito di esposto anonimo pervenuto in Comune con lettera indirizzata a nome dei tre consiglieri d’opposizione Arnese, Giovanetti e Albani, si apprendeva che il sindaco Callegari si era appropriato di un pregiato rivestimento marmoreo di camino a muro conservato in palazzo Battanoli e, quindi, di proprietà dell’Amministrazione Comunale, avvalendosi degli operai di una ditta di costruzioni edili impegnata in lavori di restauro a Palazzo Carena. L’opposizione ha accertato che il manufatto è stato effettivamente trafugato e che oltre a non essere stata eseguita alcuna indagine idonea al ritrovamento e che anzi non era stata eseguita da parte del Sindaco la prescritta denuncia per attivare le indagini del caso e per informare l’Autorità Giudiziaria. Ma lui si permetteva di affermare falsamente che la denuncia era stata eseguita al Comando Stazione dei Carabinieri di Casteggio tramite il locale Comando dei Vigili Urbani. La giustificazione addotta appariva solo un pretesto, infatti il Comando dei Vigili ha smentito categoricamente il sindaco Callegari.»
«Al buon dottor Vigo rammento le ottanta famiglie che non hanno possibilità di essere collegate alla rete fognaria…»
CASTEGGIO Come è finita la querelle? Arnese: «Nel corso di uno degli ultimi consigli Comunali il sottoscritto, sostenendo che il Comando aveva affermato di non aver eseguito alcuna denuncia di furto ai Carabinieri di Casteggio e di non aver neanche avuto notizia di tale evento, chiedeva al sindaco Callegari che provvedesse, ora per allora, ad eseguire la prevista denuncia. A tale esortazione il Sindaco si è opposto, come risulta agli atti del Comune e come risulterà ai due sottufficiali del Comando Stazione Carabinieri di Casteggio presenti a quel Consiglio Comunale, al pari di tutti gli altri Consigli Comunali.» Non è l’unico manufatto sul quale vi siete concentrati… Arnese: «No, oltretutto su quella palazzina era situato un bassorilievo del ‘500 rappresentante la Madonna delle nevi, oggetto di una devozione popolare. Anche questa era scomparsa. Dopo un’interpellanza dell’allora consigliere di opposizione Filippo Dezza fu rimessa al suo posto. Fu il popolo a volerlo.» Se dipendesse da voi che cosa ne fareste del palazzo? Albani: «Il Comune non ha soldi in tasca. In questo momento non c’è un soldo, nuovi mutui non ce ne danno, la situazione è drammatica. Non parliamo di progetti quando non ci sarebbero i soldi per realizzarli.» Le acque che dividevano voi dall’Amministrazione Callegari sono sempre state agitate. Nel corso della legislatura si è assistito anche ad una denuncia… Arnese: «Il Consigliere Ettore Albani nel corso di una intervista per Il Periodico News affermava che l’Amministrazione Callegari corrispondeva ad un ‘‘Comitato d’affari’’. Il Callegari, letta la citata affermazione, denunciava il consigliere di minoranza per Diffamazione a mezzo stampa. L’esito del procedimento penale è stato favorevole al consigliere Albani, sia per le sue giustificazione che per la testimonianza eseguita da altri consiglieri dell’opposizione.» Albani: «Mi ha accusato di diffamazione per le mie dichiarazioni, ma sono stato assolto. È lui che non è degno di amministrare, e invece ci ha governati dal 1994, ad eccezione dei cinque anni in cui è stato sindaco Manfra.» Insomma, non siete mai riusciti a trovare un punto di dialogo… Arnese: «I tre consiglieri della minoranza che gli hanno reso ‘‘difficile’’ durante l’ultimo quinquennio di quel periodo da lui definito: ‘‘periodo in cui ha regnato’’ e non in cui ha amministrato (vedasi penultima vostra intervista a lui), hanno un nome ed un cognome. Tutti e tre, comunque, sono orgogliosissimi di aver espletato al meglio il loro mandato e puntualmente la vostra redazione ha colto le opportunità per renderli pubblici.» Come mai non vi siete ricandidati? Arnese: «Mi sia consentito fare una premessa. Non è detto che io mi sia volutamente escludere dall’onere di perseguire gli interessi dei concittadini non comparendo in alcuna delle quattro liste elettorali dell’ultima competizione elettorale. Qui ha ragione l’ex sindaco Callegari. Qual-
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«Un buon medico può anche non essere un buon amministratore comunale…» cuno della Lega, non autorizzato dal locale segretario del partito cioè il professor Giuseppe La Torre, ha compilato la lista elettorale escludendomi (non so ancora se volutamente o per sbadataggine) e, cosa ancora più grave, escludendo il suo superiore, ovvero il professor La Torre, dalla candidatura a sindaco.» E lei che conclusioni ne ha tratto? Arnese: «L’occasione per me era propizia per abbandonare definitivamente le lotte intraprese per combattere il malaffare, le ingiustizie e quant’altro generava danno economico all’erario e, quindi, alla popolazione casteggiana. Riflettendo, però, tornando ad essere quello che sono sempre stato, ovvero un semplice cittadino apartitico ed apolitico, mi è sembrato essere nella condizione ideale per sciorinare tutti i panni sporchi dell’Amministrazione Comunale senza essere condizionato da veti imposti.» Albani: «Si sarebbe dovuta fare una lista sola: legalità conto illegalità. Questo non ci è stato possibile. Qui è tutto un guardia e ladri, ci vuole qualcuno che vada alla Finanza e denunci quello che succede. I soldi pubblici sono sacri: non mi devi portare ad esempio Abelli, mi devi portare Aristotele…». Che messaggio mandate al nuovo sindaco Vigo? Albani: «Vigo non può fare niente, perché ci sono sei milioni e mezza di euro di debiti. Deve soltanto cercare di limitare i debiti: cinque anni di immobilismo e risparmio massimo, per cercare di limitare i danni. Fare il normale è l’unica cosa che può fare. L’unica cosa che gli suggerisco è di pubblicare un bando ed affittare l’Area Truffi. Dargli risalto su giornale nazionale.» Arnese: «Non mi rimane che augurargli un operato scevro dagli esempi del sindaco Callegari e di seguire solo ed unicamente la sua buona coscienza al di fuori degli insegnamenti dei ‘‘tal dei tali’’ menzionati da altri, quali il dottor Abelli o il dottor Alpeggiani che abbiamo sentito indicare quali ‘‘maestri delle attività politiche e d’amministrazione comunale’’. Al buon dottor Lorenzo Vigo, nuovo sindaco, rammento che vi sono circa ottanta famiglie in Strada Carretta di Casteggio che non hanno la possibilità di essere collegate alla rete fognaria pubblica e che alcune di esse sono costrette a scaricare i liquami domestici nei fossi, ovvero a cielo aperto, mentre altri si avvalgono di fosse biologiche. Trattasi di situazione vergognosa che il Callegari doveva sanare anche in funzione del fatto di essere stato medico e garante della salute dei concittadini. L’opportunità l’ha avuta anche quando disponeva dei soldi utilizzati per riacquistare palazzo Battanoli. Al dottor Vigo rivolgo un’ulteriore esortazione riferita al proble-
ma dell’acqua potabile.» Si spieghi. Arnese: «Il Comune di Casteggio viene approvvigionato da un pozzo sito in contrada Fogliarina. Tale pozzo provvede al fabbisogno di innumerevoli comuni, come Torrazza Coste, Montebello della Battaglia, Casteggio, Corvino San Quirico, Santa Giuletta ed altri comuni ancora; oltre allo stabilimento dell’AB Mauri S.p.A. che da sola consuma quanto consumano gli altri comuni messi insieme. A me non interessa se l’AB Mauri non paghi, e in effetti non paga una lira di tutta l’acqua che preleva. A me allarma la ventilata ipotesi che l’AB Mauri possa procedere alla purificazione delle acque salmastre che si trovano nel sottosuolo per destinarla ai comuni citati onde utilizzare da sola l’acqua della Fogliarina, unica per la lavorazione ottimale del lievito di birra.» Ha mai posto il problema al Comune di Casteggio? Arnese: «Di tutto ciò ho fatto richiesta di chiarimenti all’Amministrazione Comunale di Casteggio ricevendo dall’Ingegner Zucchini un qualcosa come: ‘‘Non saprei cosa risponderle – Non saprei quali possano essere i rimedi ad una eventuale crisi idrica derivante da una penuria di acqua nella falda acquifera attualmente utilizzata’’.» Albani: «Ma poi, ci rendiamo conto che il Coppa è uno dei tre fiumi di Lombardia ridotti in questo stato? Se tutti i fiumi di Lombardia fossero ridotti in questo stato, cosa faremmo?» Quanto alla presenza delle Guardia di Finanza in Comune per oltre due anni e mezzo? Arnese: «La presenza dei Finanzieri di Voghera all’interno del Comune di Casteggio, per oltre due anni e mezzo, non è il frutto di un dispetto voluto dai consiglieri di opposizione citati dal Callegari, ma un necessario ricorso al recupero di quei valori di giustizia venuti a mancare allorquando si è manifestato l’enorme danno all’erario del comune per la questione della scuola e della palestra di Viale Montebello. A conforto di questa affermazione posso dire che lo stesso Callegari ha inteso conseguire i medesimi obiettivi. Forse sbagliando nell’indirizzare le investigazioni alla Corte dei Conti anziché alla Procura della Repubblica di Voghera. Questi intenti, comunque, oltre a voler dimostrare che sono necessari se non proprio obbligatori, possono sempre essere conseguiti se si ha la voglia e la capacità.» Il nocciolo della questione: dove sta? Arnese: «Da ex investigatore posso solo dire che il bandolo della matassa lo si può trovare analizzando quella ‘‘convenzione” Urbanistica per programma integrato d’intervento a rogito del Dott. Mario Ac-
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quaroni notaio che veniva sottoscritta l’8 maggio 2009 dall’ex responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Casteggio per conto del sindaco in carica. Trattasi di quell’architetto che per tale operato ha perso la responsabilità dell’Ufficio che reggeva, venendo demansionato ad altro lavoro non altrettanto qualificato. Da detta situazione è scaturita una ‘‘querelle’’ alla quale servirebbe ‘‘sintonizzarsi’’ per conoscere, sicuramente in fase dibattimentale, quello che ora è considerato ‘’segreto istruttorio’’. Rimane, comunque, indiscutibile che anche il citato notaio fa riferimento, nei suoi atti, al fatto che la costruzione della scuola e della palestra siano stati eseguiti a scomputo degli oneri di urbanizzazione e che, conseguentemente, gli immobili dovevano essere di proprietà del Comune di Casteggio (articolo 45 della Legge Regionale 12/2005), ragion per cui se ha stabilito diversamente bisogna soffermarsi sulla causa e sull’effetto di quel qualcosa e se il ‘‘qualcosa’’ corrisponde all’azione di qualcuno, costoro sono i responsabili del danno all’erario.» Volete aggiungere altro? Arnese: «Per finire mi sia consentito apprezzare il dottor Lorenzo Callegari per la sua esperienza e capacità dimostrata nel curare i cittadini affidati alle sue cure, ma mi sia anche consentito affermare che un buon medico può anche non essere un buon amministratore comunale. In particolare mi preme far sapere che in regime democratico le opposizioni sono previste e garantite e disconoscendo la loro utilità si può incorrere nel sospetto di prediligere l’anarchia, la dittatura se non solo arroganza e ignoranza.»
Arnese: «Qualcuno della Lega, non autorizzato dal locale segretario del partito, il professor Giuseppe La Torre, ha compilato la lista elettorale escludendomi» Albani: «Visti i risultati della gestione Callegari 1995-2004 e poi 2009-2019 e considerando: primo, ciò che ho visto con i miei occhi; secondo, ciò che il Tribunale di Pavia ha sentenziato riguardo al fatto che il comune di Casteggio è governato secondo una logica di affari; terzo, ciò che dice la delibera della Corte dei Conti, cioè un forte richiamo alla gestione finanziaria del comune di Casteggio; posso affermare che il sindaco di Casteggio è stato inadeguato, indegno per gestire il Comune. Oltretutto la smetta di inneggiare a personaggi come Abelli e prenda esempio da Socrate e da Platone e da chi insegnava che i soldi pubblici sono sacri. Invece, a Casteggio, tutto l’opposto.» di Pier Luigi Feltri
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Una app per capire se siamo “assumibili”: l’ha inventata un casteggiano “L’abito non fa il monaco”, si diceva una volta. Con l’avvento dell’era digitale, però, la messa in piazza delle singole identità attraverso i social network ha reso l’immagine più “reale” ed importante che mai. Ed è così che la foto del nostro profilo facebook o instagram può diventare un biglietto da visita, spesso involontario, del nostro curriculum vitae. Ne consegue che, se state cercando lavoro, un selfie con il cocktail in mano e la bocca a sedere di gallina per le donne o una foto macia con la “siga” in bocca e l’aria stravolta per i maschietti potrebbero risultare fatali. Chi deve decidere del vostro futuro lavorativo nella maggior parte dei casi prima ancora del CV valuterà il vostro profilo facebook. “Sad but true (triste ma vero)” come cantavano i metallica? Forse, ma si parla di dati di fatto. è noto che chi deve assumere qualcuno prenderà una decisione probabilmente entro i primi 90 secondi di colloquio, mentre secondo i dati riportati dal sito cerca-lavoro Monster, l’85% dei recruiter decide se a quel colloquio ci si arriverà dopo avere dato un’occhiatina ai risultati Google e ai profili dei social network. Lo sa bene Umberto Callegari, casteggiano doc trapiantato a Londra, dove è diventato un manager di successo prestando le sue consulenze alle migliori ditte che si occupano di marketing. Pochi anni fa ha creato un’app che consente di misurare l’abilità alla guida. Oggi si è inventato Hireable, una società che ha sviluppato una nuova app, chiamata appunto “hireable analytics”, in grado di calcolare il livello di “assumibilità” (“hireability”, appunto, in inglese) di ciascuno. Lo scopo? «Migliorare vita, carriera e comprensione di sé». Callegari, come è possibile misurare il tasso di “assumibilità” attraverso le immagini dei profili social? «Lo strumento si basa sulla teoria della “saggezza della folla”, vincitrice del premio Nobel per l’economia nel 2013, secondo cui una massa di persone è in grado di fornire risposte più adeguate e più vicine alla realtà dei fatti, nel predire eventi complessi, rispetto a qualsiasi esperto. Con Hireable Analytics l’utente valuta ed è valutato dalla community in maniera anonima: si arriva così all’individuazione delle immagini profilo con maggiore possibilità di successo rispetto a un ruolo specifico in un determinato settore lavorativo». In sostanza, gli altri ti dicono cosa pensano della tua immagine e viceversa. è corretto? «Più o meno. Noi abbiamo tutti un’immagine che pensiamo essere la migliore o la più professionale di noi stessi, ma non esi-
«L’Oltrepò? Il rilancio deve partire dall’analisi e la conoscenza di dati reali»
Umberto Callegari, ideatore di Hireable Analytics
Umberto Callegari: «Prima dei curricula le aziende guardano i profili social»
ste modo di misurare, fino ad oggi, se questa sia anche la realtà percepita dagli altri e quali siano le variazioni, ad esempio, nelle diverse industry e nei diversi contesti. Un altro elemento molto apprezzato dell’app è la possibilità di contribuire, con i propri giudizi, a dare alle altre persone una visione reale di se stesse nell’ambito professionale». Non è un po’ limitante determinare se qualcuno è più o meno assumibile in base a delle foto? «Qui si tratta di fare i conti su dati concreti. Piaccia o meno, le aziende decidono se assumere o anche solo prendere in considerazione qualcuno innanzitutto facendosi una idea di lui dai profili social. Viviamo in un momento storico in cui i dati rappresentano (o dovrebbero rappre-
sentare) la via verso un costante miglioramento, personale e collettivo, ma, in modo incredibile anche oggi questi non sembrano considerati quando si sceglie la propria carriera o ci si trova a gestirla. Tutto è lasciato a processi molto poco scientifici ed in cui la prima impressione è fondamentale. Questo è vero sia quando siamo noi a dover decidere il nostro percorso professionale, sia in relazione al modo in cui le aziende gestiscono la loro variabile più importante: il people e talent management». In sostanza, sta dicendo che un ottimo curriculum vitae non basta per fare impressione… «Non più. Siamo vittima di preconcetti e idee disfunzionali (spesso inconsci) che tradizionalmente portano le aziende a valutare i candidati rifuggendo la diversità e ricercando conformismo ed il cultural fit come variabile per garantire stabilità. Siamo in un momento di transizione e la misurazione ed il possesso dei dati relativi a noi stessi in quanto professionisti è l’unica via per riuscire a tracciare e gestire un percorso professionale che ci porti successo e soprattutto soddisfazione personale». Come funziona però, a livello pratico questa app? «Si basa su un algoritmo in grado di determinare la qualità delle immagini profilo al
fine di essere assunti da un’azienda. Riesce a farlo combinando il livello di warmth (dimensione personale) e quello di skill (competenza). Basta creare il profilo (ex novo oppure utilizzando Linkedin), si sceglie il nome, il job title, il settore e l’azienda per cui si lavora (nel caso stiate già lavorando e siate alla ricerca di un nuovo posto), data di nascita e gender (con la possibilità di selezionare non-binary). Si possono caricare fino a quattro foto da fare valutare, guardando i tutorial per sapere come muoversi e poi via, si inizia. Il primo step è fare rating degli altri profili. Ogni foto riceve un “Hireability score”, un punteggio dell’assumibilità fondato sulla triangolazione di foto, job title e settore». Crede che questa app possa avere impatto anche sull’Oltrepò oppure siamo troppo “indietro”? «Il tasso di “assumibilità”, che è solo il primo passo per noi in questo percorso, ti dice essenzialmente come sei percepito da chi ti vede ma non ti conosce, e questa è una variabile fondamentale qualsiasi cosa tu faccia: idraulico, salumiere, professionista, lavoratore dipendente o indipendente. Come vieni percepito determina il buon o il cattivo esito del tuo percorso, soprattutto a mio avviso in una zona che dovrebbe essere focalizzata ad accoglienza, turismo e servizi». Come vede la situazione in Oltrepò da “lassù”? «L’Oltrepò vive un momento di flessione da lungo periodo, ma esiste anche una prospettiva positiva e cioè che il rilancio della zona dipende da noi. Ed il modo più corretto di farlo è proprio attraverso la ricerca ed il possesso dei dati. Ci sono essenzialmente due strade: continuare a vagare in una stanza buia prendendo testate alla ricerca di un interruttore, o accendere la luce e trovare la porta». di Christian Draghi
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C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò
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Mestieri ambulanti: “Al mulìta, el cadreghè , al mägnän” Continua il nostro viaggio tra i mestieri ambulanti di una volta. In Oltrepò, anche nel più sperduto villaggio, periodicamente “spuntavano” diverse figure che con il loro arrivo portavano “scompiglio”: alla loro vista iniziava il passa parola da una porta all’altra, come per assicurarsi che al vicino non fosse sfuggito il loro arrivo. Erano altri tempi e certamente, se non tutti, quasi, avevano un coltello da affilare, una sedia da mettere a nuovo o una pentola da “rattoppare”. L’arrotino, giungeva in paese di buon mattino su una sgangherata bicicletta munita di strane appendici, ruote, cinghie e manovelle, autopromuovendosi al grido “mulìta, è rivà al mulìta!”, - arrotino, è arrivato l’arrotino -. Dopo aver percorso due o tre volte la via principale del paese, si stabiliva in un piccolo spiazzo adiacente all’unica osteria, montava due cavalletti che, di fatto, sospendevano la bicicletta dal terreno, collegava la pedaliera con una catena alla ruota abrasiva, riempiva d’acqua una piccola scatola sospesa sopra la ruota medesima e cominciava a pedalare canticchiando in attesa di clienti che non tardavano ad arrivare. Ed erano uomini con accette, cesoie, scuri da affilare, cunei usati per spaccare la legna, ma anche donne o ragazzi con forbici e coltelli di ogni forma e dimensioni. Il mulìta concentrato sul proprio lavoro non prestava molta attenzione alla piccola moltitudine che ammirava il metodico e ritmico lavoro di affilatura dei vari attrezzi a lui affidati; scorreva sulla ruota abrasiva, in un nugolo di scintille che non lo preoccupavano affatto, forbici e coltelli saggiando di tanto in tanto, il filo delle varie lame. Il loro rumore a contatto con la ruota abrasiva pareva il lamento di un gattino maltrattato. Al termine di ogni affilatura, puliva con cura l’oggetto, lo incartava in un foglio di giornale, lo riconsegnava al proprietario ricevendone pochi centesimi di mercede. Lavorava sino a tarda ora e comunque, sino ad aver soddisfatto tutti i clienti, rimontava la bicicletta pronta per il viaggio verso un paese poco lontano. Se i clienti erano stati numerosi, cenava all’osteria spesso uscendone brillo, se di contro gli affari erano stati poco remunerativi, si accontentava di pane e formaggio offerto in pagamento da uno dei clienti più poveri accettando senza lamentele, una povertà dignitosa e fiera. L’impagliatore di sedie, era un bergamasco di antico pelo, duro come le pietre della sua terra; aveva due mani nodose ed ispessite dai calli che diventavano svelte ed agilissime durante il lavoro. “L’e’ chè el cadreghè pòta” gridava poche volte e quindi si metteva al lavoro. Scaricava dal-
Giuliano Cereghini
Lo stagnino
le robuste spalle scheletri di seggiole di legno, fasci di bionda lisca, erba palustre lunga e molto resistente, una borsettina di ferri che aveva visto tempi migliori, si accomodava su un basso sgabellino, e cominciava silenziosamente a lavorare. Come d’incanto le sue nodose mani divenivano rapidi ceselli che arrotolavano una manciatina di lisca, roteavano velocemente la sedia affidata alle sue cure per una pulitura e riliscatura, pescavano dal grande fascio di erba palustre altri fili da aggiungere ai precedenti, arrotolavano più volte la paglia, la ripassavano sul pianale della sedia in riparazione componendo a poco a poco un mosaico bello e resistente. Non si schiodava dal suo lavoro, rispondendo con sordi grugniti a nuovi clienti, se non dopo aver ultimato il suo quadro: si rigirava tra le mani la sedia impagliata a nuovo, la guardava e la riguardava in ogni suo particolare, batteva con la mano il piano d’appoggio, per sciogliersi in un sorriso che gli illuminava per pochi istanti un viso stanco, ma che ancora aveva guizzi dell’antica grazia giovanile. Quindi rivolto ai presenti, con lessico che scendeva direttamente dalle sue valli, bofonchiava parole incomprensibili ma facilmente traducibili in mal celati complimenti alla sua arte. Continuava sino ad aver esaurito tutti i clienti o, in qualche caso, tutto il materiale da lavoro che aveva al seguito; a volte si fermava in paese anche due giorni comportandosi benissimo per tutto il tempo. Ultimate le operazioni di responsabilità, spesso si concedeva qualche bicchiere di vino generoso e genuino che gli agricoltori e l’osteria offrivano: purtroppo il bicchiere più in uso per il vino era il pêcar, boccale il vetro della capacità di mezzo litro circa, che finiva per confon-
dere il pover’uomo sino a renderlo ubriaco a livello patologico. Fortunatamente in quel tempo non esisteva la prova dell’etilometro in caso contrario avrebbe avuto guai veramente seri. Lasciava il paese, a ciuca smaltita, silenziosamente come era arrivato, salutando i bambini che lo accompagnavano per il primo tratto di strada vociando e ridendo come solo i bambini sanno fare. Lo stagnino, si chiamava Francesco Moro, per tutti Cècu al mägnän, era
originario della lontana Romagna che il padre mägnän, aveva raggiunto dal lontano Piemonte: aveva sposato una bella figliola romagnola e si era definitivamente colà accasato. Il figlio, dopo aver appreso il mestiere dal padre, si era trasferito nel pavese da dove partiva per i suoi periodici giretti; delle origini mai dimenticate e spesso decantate, conservava la parlata cantilenante e la battuta sempre pronta e salace. Con una sgangherata bicicletta trascinava un malandato rimorchietto carico all’inverosimile di pentolini, coperchi, padelle e
L’arrotino
C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò pentole di rame che avevano vissuto tempi migliori, oltre a un’attrezzatura completa per il lavoro di stagnino: tenaglie di foggia e dimensioni diverse, martelli, forbici, bombole e bombolette, barrette di stagno, bottigliette di acido, spazzole, carbone ed altre diavolerie non facilmente descrivibili. Tutti lo conoscevano e tutti profittavano della sua opera di esperto restauratore, riparatore e solo in pochi casi, venditore di pentolame di rame; per tale motivo evitava la pubblicità, si sistemava nel solito piazzalino davanti all’osteria, accendeva un piccolo braciere, preparava tutti gli attrezzi e canticchiando sottovoce, iniziava a lavorare non disdegnando una battutina salace, mai volgare, alle belle signore e signorine che lo avvicinavano per lavoro. Per ogni cliente che esibiva una pentola malandata, la sua risposta era invariabilmente improntata all’impossibilità di riparare l’utensile proposto, al tentativo di vendere un sua pentola di seconda mano e, al rifiuto della proposta commerciale, alla perfetta riparazione del malconcio utensile iniziale dimenticando che, pochi istanti prima, era stato definito irriparabile: Cècu ne deduceva meraviglie sulle sue capacità in particolare sull’estrema abilità delle sue mani e....non solo per lavorare, come diceva alle giovani clienti che si schernivano sorridendo. Un acre odore di acidi, di aceto, di sali e di stagno fuso ammorbava l’aria tutt’intorno all’angolo di lavoro: l’artigiano prima puliva a secco, martellava, raschiava e strofinava la padella di turno, quindi la deter-
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L’impagliatore di sedie
geva con gli acidi e, da ultimo, ricopriva la parte interna della stessa con lo stagno che fondeva al momento avvicinando la barretta di metallo ad un martelletto arroventato. Con pazienza e precisione l’artigiano ultimava la stagnatura, poggiava la padella sul terreno per farla riposare come Lui stesso diceva ed infine la passava delicatamente con uno straccetto di lana; al termine dei lavori la sua faccia era nera come la pece o per meglio dire, “négra mé la fàcia d’un mägnän” nera come la faccia di uno stagnino. Il lavoro era fini-
to, pronto per la consegna, per una salace battuta e per un arrivederci alla prossima. Soddisfatti tutti i clienti Cècu dopo un frugale pasto annaffiato con la sola acqua di fonte, - a suo dire non poteva bere alcolici che potevano reagire con i fumi degli acidi che inalava durante il lavoro provocando gravi malattie - ripartiva con il suo rimorchietto carico al’ inverosimile del materiale precedentemente scaricato per lavoro. Si raccontava che il materiale che l’uomo rivendeva o per meglio dire, tentava di rivendere, provenisse da poveracci in con-
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dizioni disperate o, peggio ancora, passati a miglior vita. Naturalmente l’interessato smentiva sdegnato. Sorridente com’era arrivato, felice per aver rivisto gli amici del paese, con un piccolo gruzzolo raccolto col sudore della sua fronte, se ne andava, raramente per tornare a casa, spesso per raggiungere il paese vicino e ripetere l’avventura della sua vita. In tempi recenti ho rivisto un moderno mägnän ambulante: con un vecchio camioncino si ferma in piccoli spiazzi nei mercati di paese o nelle fiere, espone la sua mercanzia, vende pentole di rame veramente belle ed altre di scarso pregio in quanto leggere e sottili come la carta. Scaltro come una vecchia volpe, il bobbiese, da lì arriva, se t’azzardi a richiedere uno sconto agli esosi prezzi richiesti, prima tenta di affibbiarti materiale diverso da quello scelto e di scarsa qualità , poi dice che ci rimette e conclude raccontando che a casa l’aspetta una sorella manesca che lo percuote se non spunta il prezzo stabilito. È una vera sagoma. Conoscendolo un poco, mi sorge il dubbio che non segua la stessa scuola di pensiero del suo collega sopra ricordato in merito alla pericolosità di bere vino dopo aver lavorato con gli acidi. Sarà che attualmente il suo lavoro è più commerciale che artigianale, ma ho la netta sensazione che tra il saggio mägnän di Bobbio e il frutto della vite e del lavoro dell’uomo, vi sia qualcosa più che un’infatuazione: trattasi di amore vero, duraturo e indissolubile. di Giuliano Cereghini
OLTREPò PAVESE
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«Portiamo consumatori ed appassionati nei luoghi di produzione del vino» Il turismo legato al vino rappresenta per l’Italia una ingente risorsa: un movimento che annualmente impegna 14 milioni di persone, generando un fatturato pari a 2,5 miliardi di euro. Per l’Oltrepò, che sull’enogastronomia vorrebbe puntare per cercare di farsi un look più simile a quello del Chianti (almeno sotto il profilo della promozione turistica), dal 13 marzo scorso c’è un’occasione in più: un decreto legge firmato dal Ministro pavese Gianmarco Centinaio, che detta le linee guida per chi con l’enoturismo vuole fare business. Obbligo di apertura di almeno tre giorni a settimana, requisiti minimi di ospitalità, regolamenti riguardanti le metodologie di prenotazione informatica e standard minimi per le strutture coinvolte. Nella speranza che il maggior numero di strutture possibili voglia adeguarsi e cogliere l’occasione, a livello locale, esiste già da diversi anni un’associazione che l’enoturismo lo propone. Non ha caso a il nome Enocuriosi, e da più di un decennio coinvolge pavesi e oltrepadani alla scoperta delle specialità locali. Abbiamo incontrato alcuni associati e coordinatori, capitanati dalla presidente Gabriella Vottero Fin, presso la sede sociale di Pavia. La vostra associazione in che anno è nata? «Ufficialmente Enocuriosi è nata a Montebello della Battaglia nel gennaio 2008, ma già nel 2007 eravamo di fatto un gruppo di amici che partecipa ad iniziative enogastronomiche per la valorizzazione del territorio. Inizialmente eravamo sedici soci fondatori. Dal primo anno, si sono aggiunti inizialmente parenti e amici. Abbiamo dato il via alle prime iniziative, fino ad arrivare ai trecento attuali». Principalmente di cosa vi occupate? «Cerchiamo di portare i consumatori e gli appassionati nelle zone di produzione. Praticamente stiamo visitando le varie aziende dell’Oltrepò, che producono di tutto, non solo vino, ma gastronomia in generale: formaggio, cioccolato, zafferano e tutto ciò che si coltiva in Oltrepò. La nostra associazione cerca di impegnarsi sul territorio per far si che il consumatore possa avvicinarsi al mondo del vino oltrepadano senza per forza dover seguire corsi didattici specifici». Quali sono i vostri eventi principali? «Le domeniche pomeriggio organizziamo gli incontri con il produttore, portando i nostri associati direttamente presso l’azienda. Con gli anni abbiamo constatato che parlare direttamente con chi fa i suoi vini e chi conosce bene la sua terra non ha eguali. Una volta conosciuto il produttore, il vino viene assaggiato con
L’Associazione culturale “Enocuriosi”
un altro approccio e un’altra capacità di conoscenza. L’accoglienza del produttore è essenziale, perché il consumatore sa chi c’è dietro il prodotto. Ogni sabato mattina presso l’enoteca “I Crespi” di Pavia, che è anche la nostra sede sociale, facciamo le degustazioni dei prodotti delle aziende dell’Oltrepò, ma chiaramente anche di altre zone. Inoltre organizziamo cene a tema con il produttore, sia di vino che di altri prodotti, non solo oltrepadani. Per esempio abbiamo organizzato cene a tema pesca sostenibile: la serata non si limitava ai piatti a base di pesce, ma c’era presente chi lo pescava che ne raccontava le caratteristiche.
L’associazione Enocuriosi è nata nel 2008. Oggi è arrivata a contare 300 iscritti
Insomma, non solo mangiare, ma andare a casa sapendo cosa si è mangiato». Collaborate con altre associazioni? «In passato, ma solo per singoli eventi particolari. Abbiamo iniziato un progetto solidale con Universitiamo di vino-argento, che riguarda la produzione di nano particelle d’argento con l’uso delle vinacce esauste». La vostra associazione in dieci anni ha praticamente visitato tutto l’Oltrepò. A vostro parere, il territorio a livello di ospitalità come si è evoluto? «Certamente sta crescendo. Sono tante le aziende che si sono attrezzate con sale degustazioni e che finalmente hanno iniziato a tenere aperto anche la domenica, cosa molto difficile in passato. Ci siamo resi conto che le aziende finalmente si sono strutturate ad accogliere non solo italiani ma anche stranieri. Inoltre sono in aumento i giovani che si occupano delle loro aziende, ampliando le strutture ricettive anche per visite numerose. Sembra che finalmente le aziende abbiano iniziato a parlarsi, facendo gruppo e collaborando tra di loro». Enocuriosi si occupa anche di solidarietà… «Certo. Una volta coperti i costi degli eventi qualcosa va in cassa, ma appena è possibile facciamo beneficenza. Ogni anno devolviamo gli incassi per qualche progetto. Per esempio abbiamo donato due defibrillatori, uno al Collegio Volta
«L’Oltrepò si sta evolvendo anche sotto il profilo dell’accoglienza turistica» e uno al CUS. Inoltre abbiamo fatto una donazione alla scuola di Norcia, colpita dal terremoto negli anni scorsi». Ultimi eventi organizzati? «A maggio abbiamo organizzato la seconda edizione, visto il successo dell’anno scorso, della serata “Donne di Gusto” a Casteggio, con una decina di donne titolari di aziende vitivinicole, e non solo. In quel contesto oltre a degustare i loro prodotti, abbiamo ascoltato le loro storie. . A giugno, poi, presso l’azienda Bisi di San Damiano, è andata in scena la nostra festa annuale a cui hanno partecipato la maggior parte dei nostri associati». di Manuele Riccardi
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BRESSANA BOTTARONE
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L’associazione U.R.C.A. promuove la caccia di selezione A Bressana Bottarone si trova la sede della sezione provinciale dell’associazione ‘’U.R.C.A.’’; sodalizio di cacciatori, ma non solo. Presidente ne è il bressanese Maurizio Rebaschio. Da circa due mesi, invece, è stato eletto come presidente regionale Stefano Merli, di Cervesina, che succede ad uno dei fondatori dell’associazione, il dottor Colli. Merli, nella sede di Bressana, svolge anche la funzione di segretario. È lui che abbiamo incontrato, con il proposito di scoprire – e raccontare ai nostri lettori – qualcosa di più su questa realtà venatoria, e sul mondo faunistico che involge il nostro Oltrepò Pavese. Presidente, ci presenti l’associazione di cui fa parte. «La nostra associazione si chiama ‘’U.R.C.A. Gestione Fauna e Ambiente’’. ‘’U.R.C.A.’’ sta per ‘’Unione Regionale Cacciatori Appennino’’: quindi siamo cacciatori, ma ci sono con noi anche persone che non vanno a caccia, le quali tuttavia hanno a cuore il discorso ambientale. L’associazione nasce, a livello nazionale, nel 1991 a Bologna.» Perché a Bologna? «Perché in quei luoghi c’erano persone, quelle che hanno fondato questa associazione, che avevano un interesse, cioè quello di sviluppare e gestire il prelievo degli ungulati. L’associazione cura di più quella che è la caccia di selezione. E si è sviluppata sulla dorsale appenninica perché lì già insisteva una percentuale di cacciatori che svolgevano questa tipologia di attività. Già allora animali come cinghiale, capriolo, cervo e daino erano largamente presenti, mentre qui da noi sono arrivati qualche anno dopo, intorno al 2000.» Poi? «Poi l’associazione si è espansa anche in altre aree appenniniche. Non nelle aree alpine, dove la caccia agli ungulati era già presente e esisteva un’altra associazione, la U.N.C.Z.A (Unione Nazionale Cacciatori Zona Alpi). Nel 2004 U.R.C.A. è stata riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente anche come associazione ambientalista.» Perché? «Perché nello statuto dell’ U.R.C.A. non si parla semplicemente di caccia, come avviene per altre associazioni. Quello che si prefigge U.R.C.A. è di arrivare ad avere un prelievo sostenibile, rivolta alla conservazione e al miglioramento dell’ambiente e quindi degli animali. I cacciatori di selezione non hanno l’obiettivo di sparare a tutto quello che gli passa davanti; la parola stessa ‘’selezione’’ fa capire lo scopo, la ragione di quello che è a tutti gli effetti un ‘’prelievo’’.» Perché si parla di prelievo? «Si parla di prelievo perché la fauna è un bene rinnovabile dello Stato. Noi questo bene rinnovabile cerchiamo di prelevar-
Stefano Merli, Presidente dell’Associazione “U.R.C.A.”, Unione Regionale Cacciatori Appennino lo in modo corretto, con dei ‘’piani di prelievo’’ che sono stilati dall’I.S.P.R.A. (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), sulla scorta dei censimenti che vengono fatti dai vari cacciatori abilitati e i cui risultati vengo analizzati e sviluppati dai Tecnici Faunistici i quali inviano all’I.S.P.R.A. un piano di prelievo suddiviso per specie, classe di età, sesso per l’approvazione definitiva. Io non posso sparare ad un animale a caso. Posso prelevare un maschio di una determinata categoria ed età. È sotto gli occhi di tutti che la fauna sulle nostre colline è sicuramente in aumento. Vuol dire che la gestione è fatta in modo oculato e corretto. Questo può andare a vantaggio di tutti: per me che vado a caccia, ma anche per chi con macchina fotografica o binocolo vuole approcciarsi a conoscere animali che prima non erano presenti.» Dover trovare ogni volta un capo specifico... Sembra quasi una specie di caccia al tesoro. «Non è così: il cacciatore di selezione è presente sul territorio tutto l’anno. Sa benissimo come muoversi, cosa cercare e dove. Il selecontrollore passa molto tempo ad osservare gli animali; io stesso vado fuori a fotografarli, a osservarli, a capire se ci sono animali malati, se nell’ambiente ci sono dei danni, magari incendi o eventuali sversamenti di rifiuti. Lo faccio perché a me piacciono gli animali e perché mi piace
andare a caccia. Lo scopo del cacciatore di selezione è un po’ quello di preservare territorio e fauna, perché alla fine è utile anche a lui che l’ambiente sia gestito nel modo corretto.» Giustamente lei osserva come la fauna selvatica si sia molto incrementata numericamente negli ultimi anni. Se sotto un certo punto di vista questo è indice di una gestione corretta del territorio, d’altro canto un numero molto alto di animali può causare pericoli (agli automobilisti) e danni (agli agricoltori). Come trovare un equilibrio? «Se sono gestiti non sono un pericolo. Se ci sono troppi animali ovviamente questi creano dei danni, alle culture o provocando incidenti. Se gli animali invece sono tenuti sotto controllo, non dico che non ci saranno danni, ma certamente questi potranno essere mantenuti in una quantità sopportabile, sia per gli agricoltori, sia per quanto riguarda eventuali problemi per gli automobilisti. È logico che se, come vorrebbe qualcuno, non si sparasse più, quindi se venisse meno ogni controllo, probabilmente ci sarebbero più animali e più problemi... Manca però la controprova, dato che fino a questo momento non ci si è trovati in questa situazione. Però sappiamo come sia già capitato, in posti non molto lontani da qui, che gli animali siano stati prelevati con modalità scorrette, in modo troppo leggero. La troppa densità di animali fa sì
«In Oltrepò siamo nati nel 2012, quindi si tratta di una realtà relativamente giovane. Abbiamo un centinaio di soci» questi siano più soggetti a malattie e che il loro numero diminuisca drasticamente. Un esempio di quanto appena detto è accaduto in provincia di Reggio Emilia e Parma. Non sono stati prelevati correttamente e le malattie, quindi la natura, hanno fatto quello che non ha fatto l’uomo.» Vogliamo parlare della realtà di U.R.C.A. in Oltrepò? Quanti sono gli associati? «In Oltrepò noi siamo nati nel 2012, quindi si tratta di una realtà relativamente giovane. Abbiamo un centinaio di soci, e ci stiamo muovendo per proporre un po’ di attività connesse alla caccia. Per esempio c’è stata una mostra trofeistica, sabato e
BRESSANA BOTTARONE domenica scorsi a Bressana, L’anno prossimo pensiamo di introdurre gare per cani da traccia. La nostra speranza sarebbe anche quella di potere andare in ambienti come quelli scolastici a spiegare ai giovani che il cacciatore non deve essere presentato come quello che distrugge la natura, ma come il primo difensore della stessa. Ci piacerebbe promuovere poi anche il frutto del prelievo venatorio, la carne della selvaggina, che a detta di tutti, studiosi e persone titolate, è probabilmente la carne migliore che ci sia.» Non forse come nel centro Italia, ma anche in Oltrepò c’è una certa tradizione per l’utilizzo della selvaggina in cucina. «C’è, certo. Però ci piacerebbe che venisse realizzato, come accaduto di recente a Brescia, un centro di raccolta, trasformazione e commercializzazione della caccia proveniente dagli ungulati. Come ce ne sono diversi anche in Emilia. Luoghi dove la cultura di questo tipo di caccia è arrivata prima che da noi.» Quale processo subisce la carne destinata a questi centri di raccolta? «Prima di tutto una premessa: noi abbiamo la possibilità di prelevare gli animali senza alcuno stress per loro. L’animale prelevato con la caccia di selezione non si accorge di niente. Non è come un animale che porti vivo al macello e capisce quello che gli sta succedendo. Dopo il prelievo, il cacciatore deve trattare correttamente la spoglia, quindi eviscerarla, nel minor tempo possibile. Poi viene portata ai centri di controllo, dove si verifica che l’animale prelevato sia quello corretto, secondo il piano di abbattimento. Solo a questo punto l’animale è tuo. A questo punto interverrebbe il centro di raccolta, dove prendono il tuo animale, e lo mettono in cella frigorifera per seguire un periodo di frollatura. In seguito la carne viene lavorata correttamente, piuttosto che utilizzata per fare insaccati o essere venduta al dettaglio.» Venduta a chi? «Al ristoratore, o anche alla persona comune. Si avrebbe a quel punto una carne di cui si conosce provenienza, abbattimento; controllata da un veterinario. Si avrebbe una conoscenza totale della filiera, per una carne a chilometro zero.» Ci parli delle varie attività che U.R.C.A. propone nel nostro territorio. Poco fa ha fatto cenno all’esposizione di trofei a Bressana. Com’è andata la partecipazione? «Tanti appassionati sono venuti a trovarci, gente comune non tantissima. Visto il successo avuto quest’anno, il prossimo faremo più pubblicità, daremo molto più risalto. I trofei erano frutto del prelievo effettuato dai nostri soci.» Qual è l’interesse che porta a realizzare questi trofei? «Mettono in evidenza una popolazione di ungulati in buono o cattivo stato. Se i dettagli sono belli, rilevanti, vuol dire che l’animale sta bene, mangia bene, che la popolazione è in salute. Quando io prelevo un animale e lo porto al centro di controllo, non solo si verifica se l’animale è consono o no, ma si prendono le misure (anche di elementi particolari, come la mandibola),
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il peso. Queste informazioni servono per definire se la struttura della popolazione è in crescita, in buono o cattivo stato di salute. Se io porto un animale di quindici chilogrammi, che però dovrebbe pesarne ventidue, vuol dire che magari non ha trovato abbastanza da mangiare, che ci sono comunque problemi nella popolazione. Un altro problema può verificarsi se incontro un esemplare malato, il quale viene abbattuto - si chiama prelievo sanitario.
«Il cacciatore di selezione è presente sul territorio tutto l’anno. Sa benissimo come muoversi, cosa cercare e dove» Per esempio un animale zoppo, uno che magari è stato colpito da un automobile, oppure uno che evidenzia problemi all’osservazione del mantello. Bisogna occuparsene. Certo, se non ci arriva prima il lupo...» Ecco, il lupo. Voi che opinione avete sulla presenza di questo animale sulle nostre colline? «Per adesso è un nostro... competitor. Secondo noi si tratta di un animale che va trattato come tutti altri animali, Bisogna studiare la popolazione, capire se è effettivamente in aumento e di quanto, oppure se si è stabilizzata. Per adesso non è un problema. Non posso certo parlare per quelli che hanno allevamenti: per loro potrebbe esserlo, un problema. Mi riferisco all’uomo, alle persone comuni, che vanno per funghi o che camminano nel bosco. Per me, noi dobbiamo abituarci a convivere con il lupo, perché ormai penso sia una realtà anche nostra. Ormai è qui, e tutto sommato bisogna che lo seguiamo e cerchiamo di capire come si comporta e come si sviluppa.» Non è l’unico animale che si è affacciato di recente sulle colline dell’Oltrepò. L’istrice, per esempio... ne ha visti? «Ne ho visto una volta un esemplare, ma a Pontecurone. Ho chiamato le guardie provinciali che lo hanno preso e rilasciato in collina. Il fatto che ci siano i cervi, i lupi, gli istrici, i tassi, vuol dire magari qualcosa di negativo, ovvero che ci sia un po’ di abbandono di quello che è il territorio collinare; ma vuole anche dire che dal punto di vista faunistico e ambientale il territorio sta bene.» Anche il decremento nel numero di cacciatori spiega questi fenomeni, in parte. Se tralasciassimo chi si avvicina alla caccia perché erede di una passione di famiglia, non sarebbero molti coloro
che inizierebbero a praticarla... «Sicuramente il fattore ereditario è la prima motivazione che spinge un ragazzo ad approcciarsi al mondo della caccia. Secondo me, adesso, un’altra motivazione che dovrebbe e potrebbe spingere un ragazzo ad avvicinarsi a questo mondo è per approcciarsi alla natura; vista la rinascita del nostro ambiente collinare, con tutti questi animali, che quanto ero bambino io non c’erano. Il primo capriolo l’ho visto nel 2001, me lo sono trovato davanti e mi sono chiesto: che cos’è?» Andare per boschi costa fatica... «Si possono vedere tutti gli animali anche in fotografia, ma dal vivo è una cosa diversa. Sfido chiunque a portare un bambino a vedere un animale al mattino presto o la sera tardi. Vedrete se quel bambino non si innamorerà della natura, e anche della sua gestione.» Il cervo, invece? Accolto con interesse, poi scomparso un po’ dai radar... qualche episodio di bracconaggio, e non moltissimi avvistamenti. Ma c’è. «Da diversi anni è censito, tenuto sotto controllo; ma secondo alcuni non è ancora il momento di fare caccia al cervo. Il dato di fatto è che in provincia di Piacenza ce ne sono tanti e vorrebbero incominciare ad aprire la caccia; ad Alessandria vengono già cacciati... L’Oltrepò è in mezzo, dunque la situazione non dovrebbe essere affrontata molto diversamente. Il cervo, poi, alle colture che siano frutteti o campi - arreca parecchi danni. Immagini un branco di 10/15 cervi che passa su un prato zuppo d’acqua: lo ara. Come i cinghiali. Tutti gli animali, alla fine, se aumentano troppo di numero possono creare danni.» Torniamo a parlare di U.R.C.A.; la sede in provincia di Pavia si trova a Bressana... qual è il suo ruolo? «Sono presidente di U.R.C.A. Lombardia e segretario di U.R.C.A. Pavia. Il presidente provinciale è Maurizio Rebaschio, di Bressana.» Qual è la funzione della sede sociale? «Fa da sede per le riunioni fra i soci, anche per le riunioni del consiglio provinciale che sono aperte a tutti i soci.» Prima ha fatto cenno all’idea di una gara per cani da traccia. Vuole spiegare anche ai non esperti di che cosa si tratta? «Il cane da traccia è quello che viene utilizzato per il recupero dell’animale ferito. ‘’Gestione’’ vuol dire anche che se l’animale viene ferito non deve essere abbandonato al suo destino; cerchiamo di non lasciar morire l’animale in mezzo al bosco senza poterlo recuperare. Si vorrebbe sviluppare anche questo tipo di attività. Durante la gara, questi cani vengono portati in mezzo a un bosco. Lì viene creata artificialmente una traccia che il cane deve seguire, tenendo quelli che sono considerati comportamenti corretti; per arrivare poi al punto finale, dove è collocata una spoglia animale, che starebbe a simboleggiare l’animale ferito.» Altre attività? «Noi, come associazione, effettuiamo e contribuiamo ad effettuare corsi per i nostri associati e per chiunque voglia parte-
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cipare. Non solo dal punto di vista della caccia di selezione. Organizzeremo a breve un corso per il ‘’cacciatore formato’’; per il trattamento delle spoglie animali. Un corso che spiega come trattare nel modo migliore possibile la spoglia animale, subito dopo aver sparato.» In che rapporti siete con la Regione? «Ci piacerebbe essere più coinvolti dalla Regione Lombardia. In altre regioni, dove la nostra associazione è presenta da più anni, esistono canali di comunicazione più diretti, assidui, cosa che vorremmo possa arrivare a succedere anche qui da noi. Il nostro scopo è farci conoscere, poter dire anche noi la nostra. Ma senza la pretesa di comandare.» L’assessore titolare della delega sulle materie di caccia e pesca, Fabio Rolfi, sembra essere molto ben visto nei vostri ambienti. Diverse sono le novità in materia di caccia poste da un anno a questa parte. Pensa che il governo regionale stia lavorando bene? «La nostra speranza è che le persone che governano la regione siano sempre vicine al mondo della caccia. In passato non è sempre stato così. Adesso forse c’è un nuovo inizio, potrebbe esserci la possibilità di vedere qualcosa di nuovo.» Fra le novità introdotte da Regione Lombardia, anche la caccia con arco. Molti avevano sorriso a questa innovazione; ai più disattenti sarà sembrato un passo indietro. In U.R.C.A. militano alcuni appassionati di questa disciplina. Anche nel sodalizio sezione Pavese? «Abbiamo qualche socio arciere, ma al momento sono ancora pochi. Alcune sezioni provinciali hanno già nelle loro fila dei gruppi di arcieri; vorremmo crearne uno anche qui. In certe parti del mondo questo tipo di caccia incontra molti apprezzamenti. Negli Stati Uniti, all’interno delle armerie, c’è parità di numero fra armi da caccia e archi. Noi non l’abbiamo come tradizione; è un qualcosa che si sta formando adesso. Certo, tutto è relativo: fino a 20 anni fa non avevamo qui da noi neanche la cultura di cacciare ungulati, o di fare la caccia di selezione. Io mi sono avvicinato a questo mondo partecipando a un corso, a cavallo fra 2006 e 2007. E quasi mi sentivo un extraterrestre... Il mondo venatorio si sviluppa, sempre.» di Pier Luigi Feltri
««Il lupo? Per adesso è un nostro... competitor»
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BRONI
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Villa Nuova Italia diventa proprietà del Comune: al via il restauro Dopo 65 anni di attesa, Villa Nuova Italia diventa proprietà del comune di Broni. Lo storico edificio, simbolo della città, è stato acquisito dall’Ente con la sottoscrizione dell’accordo di valorizzazione che ne programma il rilancio. Sindaco Riviezzi, durante l’ultimo Consiglio Comunale dello scorso 21 giugno, è stata approvata la bozza dell’accordo di valorizzazione di Villa Nuova Italia: cosa rappresenta questo atto per la Città di Broni ? «L’accordo di valorizzazione di Villa Nuova Italia rappresenta un traguardo storico per la nostra Città: è infatti dal 1954 che l’Amministrazione comunale cercava invano di acquisire la proprietà dell’edificio storico simbolo di Broni. Finalmente, dopo 65 anni la Villa entrerà a far parte del patrimonio culturale del Comune». Cosa prevede l’accordo? «Una volta sottoscritto, l’accordo prevede che la storica Villa dei Giardini di Villa Nuova Italia passerà di proprietà dal Demanio al Comune di Broni a titolo gratuito, in cambio degli investimenti necessari alla sua riqualificazione. Finalmente la situazione di stallo si è sbloccata ed il Comune potrà procedere alla valorizzazione di questo importante edificio storico, come richiesto a più riprese negli anni da cittadini ed Associazioni culturali». Di che interventi necessiterà l’edificio per poter tornare ad essere fruibile? «L’intervento di sistemazione e riqualificazione dell’edificio, che riguarderà anche il completo rifacimento del tetto e delle
coperture, avrà un costo complessivo stimato in circa 600 mila Euro, importo inserito nel programma triennale delle opere pubbliche 2019-2021, approvato dal Consiglio comunale lo scorso 29 aprile». Quando saranno completati gli interventi di riqualificazione, quale sarà la destinazione di utilizzo della villa? «Il Comune, grazie all’acquisizione della Villa, potrà accrescere il proprio patrimonio storico artistico favorendo lo sviluppo culturale del territorio: all’interno dell’edificio, infatti, verrà realizzato un vero e proprio polo per la produzione culturale ed artistica, adibito anche alla formazione professionale di questi ambiti». Della storia di Villa Nova Italia, invece, ci parla il consigliere comunale con delega alla Cultura, Ernesto Bongiorni. Professor Bongiorni, quando fu edificato l’edificio ? «Villa Nuova Italia, sita in Via Togni, nella zona centrale della Città, è un importante edificio storico realizzato da Rinaldo Maccabruni alla fine dell’Ottocento per scopi residenziali. Nei primi anni venti del ventesimo secolo il monumento ospitò una struttura alberghiera, l’Albergo Nuova Italia, gestito da Carlo Gialdroni dal 1920». Cosa successe successivamente all’Albergo Nuova Italia? «Come riportato nell’opera di Mino Baldi “Broni Re di pais”, l’albergo venne venduto nel 1924 all’Avvocato Siro Gallotti, che aggiunse un ampio garage, sostituì in giardino lo chalet con un vasto palcoscenico coperto per spettacoli di varietà dotato di camerini, costruì un campo da tennis, tra-
Antonio Riviezzi
sformando la serra in comodi spogliatoi, e realizzò anche una sala da ballo esterna. Fu probabilmente in quella occasione che l’edificio cambiò nome in Albergo Savoia, struttura dotata anche di un rinomato ristorante». Cosa successe alla Villa dopo l’avvio della seconda guerra mondiale? «Nel corso del secondo conflitto mondiale, il monumento divenne di proprietà dello Stato e fu occupato dalla Sichereit Abteilung, reparto speciale di polizia alle dipendenze della centosessantaduesima divisione germanica, che ne fece il proprio centro di comando locale e vi istituì anche una prigione». Successivamente, che utilizzo ebbe l’edificio? «Nel secondo dopoguerra, Villa Nuova Italia è stata anche sede provvisoria del Comune di Broni. Fino a qualche anno fa veniva utilizzata dall’Amministrazione
Ernesto Bongiorni
«Il sindaco Riviezzi: «Al suo interno un polo per la produzione culturale ed artistica» per ospitare mostre e varie attività a sfondo culturale, in attesa della sua riqualificazione che finalmente, con il cambio di proprietà, potrà venire realizzata dall’Amministrazione comunale». di Elisa Ajelli
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Pronto il campo da basket h24 «Videosorvegliato e aperto a tutti» Broni sempre più città del basket. Da poco è stato inaugurato, proprio di fronte alla palestra che ospita la squadra femminile di serie A, il nuovo campetto di pallacanestro all’aperto. Per la sua costruzione è stata sfruttata la “gabbia”, un ex spiazzo di cemento da tempo inutilizzato che era ormai diventato terreno fertile per vandali e disturbatori notturni. A dirigere i lavori, finanziati dal Lions Club, è Gregory Marakis, che con la sua azienda si è fatto carico della manodopera. Appassionato di questo sport, è anche membro effettivo dei Viking Broni, gli “Ultras” della squadra di basket femminile. Marakis da chi è nata l’idea di trasformare “la gabbia” in un campetto da basket? «L’idea non è nuova. Prima di me altri avevano provato a trasformare la “gabbia” in qualcosa di diverso, o meglio a renderla sfruttabile in qualche modo e non un mero spiazzo di cemento. Comunque nessuno aveva mai impiegato tempo ed energie sufficienti affinché ciò avvenisse fino ad oggi, quando l’iniziativa è stata presa dal Lions Club - sezione Broni Stradella Montalino sotto la mia gestione dei lavori». Con che fondi è stata recuperata la piattaforma di cemento? È stato un lavoro comunale o una iniziativa sponsorizzata da privati? «L’opera è stata finanziata dal Lions Club sezione Broni-Stradella Montalino e più specificatamente sotto iniziativa dalla presidentessa Rosanna Muselli. Sono stato contattato e mi è stato chiesto di occuparmi dei lavori di trasformazione del campetto, essendo io esperto di pallacanestro, e quindi insieme all’architetto Arianna Ghisleri ci siamo messi all’opera. L’architetto ha realizzato il progetto che è stato poi approvato dal comune di Broni. La mia azienda, la Elen Parati, si è presa in carico i costi di manodopera mentre il materiale è stato interamente finanziato dal Lions Club». Perchè secondo lei e Broni, città del basket, mancava ancora un campetto di pallacanestro? «In realtà un campetto all’aperto esisteva, quello del Liceo scientifico Golgi di Broni, purtroppo non rispecchiava le nostre esigenze e quindi non è stato possibile ristrutturarlo: non aveva misure regolamentari; il fondo era completamente rovinato e bisognava completamente rifarlo; si trova all’interno del cortile di edifici scolastici che devono chiudere nel pomeriggio e quindi il campetto non sarebbe stato sfruttabile nelle ore serali; i canestri non erano più comunque regolamentari e avremmo dovuto sostituirli. Il campetto che abbiamo fatto ha il fondo e le misure adatti anche a tornei federali ed è utilizzabile anche nelle
ore serali». Quale sarà il problema principale per il suo mantenimento? «Il problema di queste realtà è come sempre la manutenzione ed il far fronte alla maleducazione di chi non ha rispetto per il bene pubblico che viene continuamente bistrattato, cosa che generalmente scoraggia molto chi lo deve mantenere pulito e in ordine». Come si spiega il fatto che nella maggior parte dei comuni dell’Oltrepò i campetti da basket all’aperto siano quasi tutti lasciati a se stessi e spesso in mancanza proprio degli stessi canestri o totalmente inagibili? «Come detto alla risposta precedente, la maleducazione delle persone è figlia del malessere sociale che sfocia in una serie di atti, all’apparenza, inspiegabili come il vandalismo non solo dei campetti ma anche di qualsiasi altra cosa pubblica, questo credo sia il motivo principale della mancanza di strutture e zone pubbliche». L’inaugurazione è già avvenuta? «Sì, o meglio, l’inaugurazione è avvenuta durante il ritiro della Nazionale femminile di pallacanestro a Broni, giorno in cui abbiamo dedicato il campetto al compianto maestro Igino Montagna». Ci sono iniziative in ballo? «Sicuramente abbiamo intenzione di organizzare un torneo, ma non entro l’estate». I lavori al campetto sono ricominciati e si sta fornendo la zona di una rete di protezione e di un cancello. Verrà anche regolamentato da un orario? Se sì, quale sarà? «Ci tengo a chiarire che era già tutto incluso nel progetto iniziale, ma le tempistiche si sono poi allungate a causa di impegni inderogabili dei fornitori, non appena ter-
«Il problema è la manutenzione: la maleducazione di chi non ha rispetto per il bene pubblico può danneggiarci»
contenuti e i fruitori del campetto devono avere coscienza di quello che stanno facendo e dove si trovano. Detto questo, abbiamo fatto delle prove con un fonometro, e non siamo neanche lontanamente vicini alle cifre di soglia per il quale il rumore del pallone possa essere fastidioso o fuori norma». Broni è famosa per il basket, ma anche per la tifoseria della squadra femminile. Qual è il suo ruolo nel Viking Broni? «Si tratta di una questione un po’ particolare. Io mi occupo, insieme a tutto lo zoccolo duro del gruppo, di organizzare i cori, l’allestimento striscioni, le trasferte, le feste... Insomma, tutto quello che bisogna fare insieme agli altri del gruppo di tifoseria, che ormai è come una famiglia». Gregory Marakis, membro dei Viking Broni
minato il cordolo verrà posizionata una rete per evitare che il pallone scappi fuori dal rettangolo di gioco. Nessun cancello, il campetto sarà rigorosamente videosorvegliato ma accessibile h24 perché sarebbe assurdo non poter giocare in ogni momento della giornata a questo fantastico sport. Grazie al comune di Broni, che si sta occupando della faccenda, sarà anche illuminato meglio per le ore notturne». Al campetto della vicina Stradella gli schiamazzi erano diventati un problema per molti, che si sono lamentati. Non temete di condividere la stessa sorte? «No, siamo tranquilli: conosco bene il problema e molti ragazzi si sono preoccupati della cosa. Gli schiamazzi devono essere
Cosa pensa che si possa fare in più, a livello comunale, per rendere più semplice l’organizzazione di eventi e manifestazioni sportive? «Difficile da dire, sono conscio del fatto che, negli ultimi anni, le varie leggi hanno tolto molta autonomia alle casse dei comuni e che quindi è difficile chiedere loro aiuti economici. Il comune si è sempre mostrato favorevole alla realizzazione di manifestazioni sportive, cercando di aiutare con personale o servizi; magari una collaborazione più stretta tra tutte le società ed il comune potrebbe portare a idee nuove o migliori e alla realizzazione di manifestazioni più all’avanguardia. Ma la mia è solo un’ipotesi». di Elisabetta Gallarati
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Come essere un perfetto “Griller” Finalmente l’estate: il sole rovente, lunghe giornate interminabili, tempo di vacanze e di griglia. Non c’è nulla di più aggregante e divertente che ritrovarsi a casa di amici per condividere, come un vero branco, ottima carne alla griglia. Il maschio alfa? “Il griller”. Un modo alternativo per trascorrere le calde domeniche estive in compagnia di amici o parenti, quelli simpatici. Il Dress Code è chic e alla moda infradito, calzoncini e la peggiore maglietta del nostro armadio, le macchie d’unto sono assicurate e un vero osso duro anche per la lavatrice. Tenete sempre conto dell’aroma di fumo che avrete assunto una volta finita la festa. In genere il premio eleganza viene assegnato al “maestro”, colui che si assume la responsabilità del buon andamento dell’intera giornata e che carico di pressione e grondante di sudore non accetta consigli da nessuno. Stando alla larga, senza invadere lo spazio sacro delimitato dai tizzoni ardenti della griglia, aiutiamo questa versione maschile della perfetta padrona di casa con 10 errori da evitare assolutamente. Che sia carne, pesce o verdure quando si organizza una grigliata all’aria aperta bisogna tenere sempre in considerazione alcuni accorgimenti, a partire dal posto; si sconsiglia il tinello di casa: ventilato che sia, è comunque predisposto ad accogliere e custodire per molto tempo fumo, macchie e ogni tipo di odore. Esperti griller non si nasce, si diventa, e non senza una lunga esperienza, che non si può considerare tale se non si hanno più di un paio di grigliate alle spalle. Altrimenti è facile incappare in insidie, spesso ignorate, che potrebbero compromettere il
risultato delle nostre preparazioni e l’esito finale della serata. Ecco alcuni suggerimenti affinché non vada tutto “in fumo”. Carbonella e Brace, istruzioni per l’uso! Attenzione! L’uso della cara, vecchia carbonella potrebbe rivelarsi fatale, benché la tradizione ne prediliga l’utilizzo. Diavolina o qualche liquido infiammabile è vero che facilitano l’accensione, ma potrebbero “insaporire” eccessivamente la vostra carne o verdura con un retrogusto non troppo piacevole. Insomma, meglio accendere il
fuoco con della semplice legna secca e poi aggiungere la carbonella qb per mantenere vivo il braciere. Evitate i legni resinosi e prima di cuocere aspettate la comparsa della cenere bianca. Infatti è la brace che cuoce; per questo è necessario distribuirla in modo uniforme su tutta la superficie. Ricordate: utilizzate guanti e strumenti appositi, le mani dello chef non sono pietanza gradita, anche se cotte meglio delle vostre pietanze. Stop al Chicago fire! Ribadiamo questo concetto: è la brace che cuoce. Il divampare delle fiamme non accelererà la cottura della vostra carne. Evitate temperature troppo elevate e aspettate che la temperatura della brace diminuisca, ma assicurandovi che sia sufficiente a far chiudere i pori della carne così da non far fuoriuscire i succhi. “Si aprono le danze…” Chi si occupa della griglia è solito accennare a movimenti inconsulti, dovuti al tentativo di celare le ripetute ustioni in punti anche improbabili del corpo senza perdere di credibilità. Meno male che c’è la musica (non ve ne vorrete dimenticare, vero?! Se non avete chitarristi da spiaggia tra i commensali, affidatevi ad una playlist rock ’n roll)) a incrementare il clima festoso e a mascherare da passi di danza gli spasmi del griller, che sussulta ad ogni schizzo bollente. Ricordate però che la musica, però, non è una scusa valida anche per i vostri alimenti! Salvo alcune eccezioni (cosce e alette di pollo, carrè di agnello, Fiorentine alte più di 4
dita) tagli come le bistecche, braciole, filetti o tranci di pesce, spiedini, verdura e frutta non devono essere fatti ballare sulla griglia, ma vanno girati una sola volta a metà cottura. Tempistiche, a ciascuno la sua. La carne, il pesce o le verdure, vanno messi sulla griglia considerando i diversi tempi di cottura. Consiglio: non lasciate che le insistenti richieste dei commensali vi facciano buttare tutto e subito sul fuoco! Meglio farli attendere del buon cibo un po’ più a lungo che non propinare schifezze a tempo di record: in questo modo, una volta riempite le fauci e gli stomaci, potranno elogiare le vostre abilità da griller. No al forchettone Al classico forchettone è bene preferire una pinza o una paletta, che rende più facile il delicato compito di rigirare le pietanze ed evita di bucare la carne, lasciando così fuoriuscire il prezioso succo. Questo vale anche per la verdura grigliata, che perde sapore quando viene punta. Divieto di transito Non lasciate che i molestatori seriali, per quanto insistenti e affamati, vi infastidiscano: ricordate che il luogo in cui grigliate è un luogo sacro e inviolabile, e avrete tutto il tempo di soddisfare le loro richieste una volta seduti a tavola. La disattenzione porta a spiacevoli incidenti, per voi, i vostri commensali, il vostro cibo o la vostra preziosissima postazione di cottura! Insomma, portate pazienza: c’è troppo in ballo. Il sale, prima o dopo? Ripetete questa frase come un mantra (ma soprattutto mettetela in pratica) e non avrete più dubbi: il sale va sempre messo a fine cottura! Arrivati qui, dopo tutte queste istruzioni per l’uso, vi starete chiedendo perché mai, allora, complicarsi la vita organizzando una grigliata. è vero, sono a rischio la vostra reputazione di anima della festa; qualche amico simpaticone potrebbe far finire su internet un vostro video mentre improvvisate un balletto, quando invece state soffrendo per ogni gocciolina bollente che vi finisce addosso, consapevoli che dovrete offrire le pietanze preparate con tanta fatica anche a quell’amico. Dovrete prepararvi a possibili ustioni, e ricordate che il numero dei vigili del fuoco è il 115. Ma si sa, la grigliata estiva è un must. Ricordate che cibo untissimo e buonissimo, birra e bibite, conversazioni e gag esilaranti, parenti e amici simpatici potrebbero non reggere il confronto con tutti i possibili inconvenienti cui si può andare incontro. Voi però li potrete evitare con un po’ di attenzione e l’aiuto di questo semplice manuale per la grigliata perfetta. Ultima regola, forse la più importante, è: Divertitevi!
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Tutti i piaceri della carne... alla brace Tutto ha inizio in macelleria, la scelta errata del tipo di carne da proporre ai vostri invitati potrebbe costarvi caro. Dovete selezionare accuratamente l’ingrediente principale e capire quale pezzo sia più adatto allo scopo. Per non sbagliare manzo o maiale, la carne da griglia per eccellenza, Il pollo è indicato per chi tiene alla linea senza necessariamente rinunciare al gusto; se volete “fare gli originali” allora la vostra scelta dovrebbe ricadere sull’agnello, il suo sapore pungente si sposa a meraviglia con l’aroma delle braci. Manzo I tagli consigliati sono: Filetto, controfiletto, costata, scamone, lombata, noce e fesa. La carne bovina è particolarmente indicata perché sopporta meglio la cottura ad alte temperature. Immancabili gli hamburger, la carne utilizzata deve avere una buona percentuale di grasso per evitare che si secchi o che bruci all’esterno, risultando cruda all’interno. Vitello è forse la carne meno usata, a differenza del manzo, essendo più tenera, predilige una cottura più veloce. Se per voi dovesse
risultare irrinunciabile, indirizzatevi su un taglio ricco di grasso così dà aggiungere umidità e sapore; risultato garantito! Maiale Braciole, lonza, capocollo, puntine, costine… mai senza! Questi risultano essere i tagli migliori del maiale, si sconsiglia l’utilizzo di tagli magri, dopo la cottura alla brace risulteranno duri e poco saporiti, se non sottoposti a sapiente marinatura. Fate attenzione che i vostri spiedini siano fatti dallo stesso tipo di carne e che i vari pezzetti risultino delle stesse dimensioni, per favorire una cottura più uniforme. Salsicce, immancabili, lunghe o arrotolate, aperte o bucherellate che siano. Pollo Coscia, sovraccoscia e ali sono i più indicati per l’alta percentuale di grasso. Se si volesse usare il petto si consiglia di marinare molto bene la carne così che si mantenga tenera dopo la cottura. Agnello Costolette (che siano spesse), arrosticini, spalla, cosciotto oppure il costato. L’agnello vanta un grande aroma che verrà sprigionato dalla vostra griglia.
Ortaggi sul barbecue: non solo per vegani Il binomio griglia-carne è il più conosciuto, ma vi assicuro che è possibile preparare un’ottima grigliata vegetariana o vegana che soddisfi tutti. Quale modo migliore di omaggiare l’estate con i colori di frutta e verdura di stagione? Inoltre potrete dar libero sfogo alla vostra fantasia abbinando dal dolce al salato e dal fresco al piccante. Ecco qualche idea per una grigliata tutta vegetale. Zucca, funghi e mais il tris di stagione Sulla vostra griglia non devono mancare le classiche zucchine e melanzane, ma anche peperoni, pomodori, radicchio e finocchio da condire con olio ed erbe aromatiche, aggiungete qualche fogliolina di menta appena raccolta per quel tocco in più. Potrete sorprendere i vostri commensali con della zucca di stagione, ne esistono anche varianti estive, tagliatele a fette abbastanza spesso, circa un cm, e a fine cottura condite con aceto balsamico per esaltarne il sapore dolciastro. Da metà agosto in poi si possono trovare freschissimi funghi porcini, da scottare sulla griglia, al naturale sono ancora più buoni. In un BBQ veg. o vegan che si rispetti non può mancare una bella pannocchia. Prima di grigliare le vostre pannocchie fatele bol-
lire e ricordatevi di girarle spesso per non farle attaccare alla griglia; accompagnatele con maionese o panna acida. Ingrediente principale? Tanta fantasia Lasciatevi guidare dai colori e dai profumi degli ortaggi, allargate i vostri orizzonti che i vostri spiedini non siano tristi e mollicci, occhio ai tempi di cottura! Al posto delle solite patate provate quelle dolci e le melanzane non limitatevi a scottarle sulla griglia, al cartoccio sono meglio. Accompagnate il tofu, la griglia ne esalta il sapore, con le salse più bizzarre pomodoro piccante e lime oppure con salsa di soia, zenzero e aglio. Chiudete in dolcezza con la frutta, anche la frutta si presta molto bene alla griglia. Particolarmente indicato è l’ananas: sbucciatelo, tagliatelo a fette spesse e aspettate il manifestarsi delle strisce scure e infine un pizzico di sale o di cannella se preferite. Non solo Verdura I vegetariani potranno aggiungere al menù i formaggi, ma attenti perché non tutti i tipi di formaggio si prestano ad essere grigliati; vada per un tomino, una scamorza, un caciocavallo. Scegliete formaggi a pasta dura e lasciateli per ultimi, quando il calore della brace sarà diminuito.
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Gligliata: ecco che pesci pigliare Quando si pensa alla cottura alla griglia, è impossibile non associarla immediatamente alla carne, quasi come fossero sinonimi. Tuttavia, è possibile sorprendere gli invitati alla nostra grigliata con un inaspettato menù a base di pesce. Sarà sicuramente più difficile da cuocere rispetto alle classiche bistecche ed il rischio di ritrovarsi il pasto carbonizzato è più alto, ma non è necessario essere griller provetti per avere un risultato delizioso. I piatti a base di pesce sono più leggeri e digeribili rispetto a grossi hamburger di manzo, se ne possono servire più varietà contemporaneamente e, diciamocelo, fanno la loro figura. Inoltre parecchie specie di pescato si prestano in modo ottimale a sfrigolare sulla griglia, che ne mantiene ed esalta sapore e proprietà nutritive. In generale, basta prediligere pesci dalla carne compatta e grassa (che mantiene la polpa saporita, morbida e succosa), scegliere tagli spessi e cuocerli poco. La cottura richiede tempi piuttosto brevi – si consiglia non oltre i 10 minuti. La pietanza va salata e oliata a dovere, e poi posizionata su una griglia alta che garantisca una cottura indiretta, cioè a circa 30 cm dalla brace, che non deve essere troppo rovente. Per capire se il lato che state cuocendo è pronto, bisogna girarlo delicatamente e verificare che si stacchi facilmente dalla griglia. I pesci più consigliati, soprattutto per i griller neofiti, sono in particolare tonno, salmone (che non deve essere per forza recluso all’affumicatura), sgombri, oppure orate, le più semplici da grigliare. In generale vanno scelti i pesci di grosse dimensioni: più grandi sono, più facile sarà la cottu-
ra. Si può optare anche per pagri e dentici, a patto che questi ultimi siano pescati e non d’allevamento, poiché più saporiti. La griglia non disdegna nemmeno i crostacei: sbizzarritevi con gamberi,gamberoni, astici, scampi e addirittura aragoste; grazie all’esoscheletro che li ricopre (da lasciare intatto anche in cottura) resistono anche ai meno esperti del grill e a temperature molto elevate. Bisogna prestare più attenzione, invece, nel cuocere sarde e sardine, che potrebbe-
ro asciugarsi in men che non si dica se la brace non è tenuta sotto controllo. Se volete fare davvero colpo e avete il portafoglio piuttosto gonfio, allora via libera anche alle capesante la cui polpa, liberata dal mezzo guscio, va fatta appena appena scottare sulla griglia; lo stesso vale per altri molluschi, seppie, polpi o totani. Una spennellata d’olio, qualche secondo in cottura ed il gioco è fatto. Evitate filetti fini, granchi e pesci dalle carni delicate, che tenderebbero a rompersi se
sottoposte a questo metodo di cottura, essendo troppo friabili; mi riferisco a merluzzi, baccalà, cefali e gallinelle, per esempio. Insomma, il pesce alla griglia non è prerogativa di chef stellati o di amici che vivono con la piastra sempre accesa. Anche chi è alle prime armi può assicurarsi un figurone: è sufficiente seguire qualche accorgimento in più e porre la giusta attenzione in pescheria (non trascurate mai l’opinione del vostro pescivendolo di fiducia) per assaporare piatti degni di un Carlo Cracco del grill.
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Come grigliare al meglio cottura e il tipo di carne che state cucinando: carni bianche, di vitello e agnello vanno cotte “a punto”; pollo, maiale, tacchino e coniglio devono essere “ben cotte” ma non carbonizzate; carni rosse (manzo, cavallo, anatra…) prediligono cotture “al sangue” e “a punto”. Esistono poi sei diversi gradi di cottura, che si differenziano tra loro in base alla temperatura (massimo 70°, oltre i quali le proteine si denaturano) raggiunta dal cuore, ovvero la porzione di carne più lontana dalla superficie: la prima è la cottura al bleu, in cui la pietanza rimane sulla piastra soltanto un minuto per lato – per i veri carnivori; un minuto in più per lato e si ha la cottura al sangue; segue la cottura media al sangue, che prevede 3-4 minuti per lato e rende l’esterno della carne croccante e l’interno tenero; per una cottura media vera e propria, basteranno 4 minuti abbondanti; a 5 minuti si entra nella fascia media ben cotta, che esalta i sapori della brace; infine, a 6 minuti, la carne risulterà ben cotta, con esterno e cuore uniformi, sempre cedevoli e morbidi. Il procedimento e le marinature di
Fin’ora abbiamo chiarito quali sono le pietanze più adatte alla griglia: tra carni, pesci e verdure, ce n’è davvero per tutti i gusti, per i palati più sopraffini, per gli schizzinosi e gli esigenti. Ma adagiare la nostra costina sulla griglia e aspettare che faccia tutto da sola, non basta. Addentriamoci nel vasto mondo delle preparazioni alla griglia. Il pesce è piuttosto comodo: non va sfilettato, né privato di lische e pelle. Se non l’avete acquistato già pulito, basta levare le interiora e il filettino nero di carne, dove si trova l’accumulo di sangue che renderebbe amaro il nostro piatto. Via libera anche al pesce surgelato, che però va fatto scongelare naturalmente, sotto l’acqua tiepida, prima di cucinarlo. Prima di essere posto in cottura va ricoperto di olio extravergine di oliva, ma senza esagerare, perché l’olio in eccesso potrebbe creare fiammate troppo alte e rischiare di bruciarlo. Un’opzione più sfiziosa – valida anche per la carne – è la marinatura, utile anche per proteggere i cibi dagli agenti dannosi del fumo. Quella classica consiste in un mix di olio extravergine d’oliva, limone, sale, pepe, aglio, prezzemolo o timo, in quantità che variano a seconda dei gusti. I più audaci possono optare per qualcosa dal sapore orientale: salsa di soia, sakè, succo di zenzero, olio di semi, olio di arachidi, cipolla e pepe. In ogni caso, il composto va spennellato sulla pietanza più volte un’ora prima della cottura e subito dopo. Potete creare la vo-
stra personalissima marinatura seguendo questa regola generale: una componente grassa, una acida, un elemento sapido e uno aromatico. Mentre la marinatura agisce ponete il piatto in frigo, e riportatelo a temperatura ambiente prima di cucinarlo. Se preferite gustare i vostro pesce al naturale (scelta preferibile per i filetti pregiati), ossia condito con soli olio e sale, seguite le istruzioni fornite in precedenza, quando si è trattato delle varietà migliori per la griglia. Anche le verdure possono essere grigliate in diversi modi: scondite, spennellate di olio extravergine di oliva nei casi più basici (ma comunque gustosi), accompagnate da limone o lime per sapori esotici, aceto balsamico se si desidera maggiore intensità di sapore. Se cipolle, peperoni, pomodori, melanzane e funghi, una volta puliti, sono subito pronti per la griglia, carote e zucchine richiedono una breve bollitura di 3-4 minuti, in modo da conservare la loro morbidezza. In generale, la temperatura del grill deve essere di circa 200° . Ricoprire le verdure con un foglio di alluminio tratterrà il vapore e accorcerà i tempi di cottura, che si aggirano intorno agli 8-10 minuti. Per quanto riguarda la carne, il discorso si fa più complicato. E’ fondamentale sapere che la temperatura del grill non deve superare i 600°, altrimenti la pietanza brucerà all’esterno e rimarrà cruda all’interno. Tenete presente lo spessore del pezzo in
pesce e carne sono pressoché identici, ma in questo caso possiamo osare di più con spezie ed erbe: fiumi di timo, rosmarino, peperoncino, salvia, menta, origano, basilico, aglio, e dragoncello. Classico contorno della carne sono le patate, fritte o al forno, ma anche le verdure, magari grigliate sulla stessa piastra, si sposano bene con una bella bistecca. La scelta più spontanea ricade spesso e volentieri sulle salse. Le più comuni sono quelle da fast food: salsa barbecue (la prediletta), ketchup, maionese, senape, tabasco e chi più ne ha più ne metta. Sono un felice abbinamento anche condimenti più inusuali come la salsa tartara, la bernese, la salsa alla menta (ricetta veloce: tre cucchiai di aceto di mele, tre di olio, un cucchiaino di zucchero e un mazzetto di menta fresca) o il bagnèt vert piemontese. Infine, per una grigliata davvero memorabile, se preferite un buon vino alla birra consigliamo, tra i bianchi, Riesling, Cortese e Pinot Grigio, o ancora, se amate i rossi, Bonarda e Barbera, tutti rigorosamente… Oltrepò Pavese
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A ciascuno la sua griglia L’idea di una griglia colma di carni succose e contorni saporiti stuzzica i palati di tutti, ma qualcuno potrebbe non possederla. In questo caso, come scegliere quella migliore per le nostre esigenze? Le griglie standard hanno una profondità fissata di 40 cm e lunghezza che varia dai 60 ai 65 cm, e possono essere pieghevoli per girare facilmente gli alimenti o dotate di piedi, che ne consentono l’uso anche in viaggio. I prezzi, a seconda del materiale, della dimensione e della forma, vanno da un minimo di 10€ a un massimo di 200€ Di fondamentale importanza è la scelta del materiale, poiché, entrando a diretto contatto con i cibi, può influenzarne la cottura. Le più economiche, ma anche meno durevoli, sono quelle in ferro battuto smaltato con vernice atossica e necessitano di pulizia frequente. La griglia in ghisa è il miglior compromesso tra longevità, qualità (rilascia lentamente calore ai cibi, permettendo cotture uniformi), e prezzo, che oscilla tra i 25€ e 50€. Deve però essere pulita a fondo e con molta cura. La griglia in acciaio inox cromato è molto diffusa grazie al costo parecchio contenuto, ma la cromatura, nel tempo tende a staccarsi e quindi a contaminare il cibo. Qualitativamente, la migliore è senza dubbio quella in acciaio inox naturale: facile da pulire, non richiede manutenzione ed è pressoché eterna, ma non trattiene il calore come la
ghisa ed è la più costosa tra tutte. Se avete la passione del grill, l’ultima è la più adatta. Non vi costerà di sicuro pochi spiccioli, ma sopporterà senza problemi tutte le vostre serate all’insegna di cibi unti e braci roventi. Per chi, invece, organizza grigliate di rado, è consigliabile quella in ghisa. Potreste puntare anche su quella in ferro battuto, ma ricordate che vi poggerete sopra il vostro cibo: in questo caso è meglio sacrificare qualche banconota in più per avere un prodotto soddisfacente e sicuro. Una volta scelta la vostra fedele compagna di grigliate, è indispensabile procurarsi un kit del perfetto griller. Questi set sono facilmente reperibili online – diversi siti ne vendono una vasta gamma, composta in genere da una ventina di pezzi che variano dai 20€ ai 30€. I pezzi fondamentali sono una spatola (che solitamente dispone di più accessori insieme, come ad esempio l’apribottiglie), una forchetta da barbecue, una pinza per carne, un pennello con setole di silicone per oliare le pietanze e una spazzola per pulire la superficie di cottura. Alcuni sfizi utili possono essere gli spiedi o i supporti per pannocchie. Assicuratevi che i vostri utensili siano in acciaio inox, con manici in legno che non conducono calore e lunghi circa 30cm, in modo da tenere lontani mani e braccia da eventuali fiamme alte e temperature troppo elevate.
Grigliare senza ingrassare Immagino che ora, a furia di parlare di cibi tendenzialmente grassi e squisiti, che sfrigolano e sprigionano un odore intenso e sfizioso, in attesa di essere conditi con salse, salsine e altri stuzzichini, vi sia venuto un certo languorino, per non dire una fame da lupi. Se siete arrivati a leggere fino a questo punto, potete smettere di masticarvi le mani e andare a preparare il grill: la teoria c’è, adesso bisogna metterla in pratica. Prima, però, abbiamo ancora un consiglio da darvi. L’estate, si sa, è anche la stagione della famigerata prova costume. Volete forse rinunciare ad una fantastica grigliata per qualche chilo di troppo? E’ davvero necessario non invitare quell’amico a dieta o amante del fitness? La risposta è piuttosto scontata. Allora ecco alcuni trucchetti per organizzare una grigliata adatta anche a chi tiene alla linea. Carni bianche, pesci e verdure sono, senza dubbio, gli alimenti prediletti, ma anche bistecche di vitello e
manzo sono una buona alternativa a salsicce e salamelle. La griglia ha di per sé il vantaggio di ridurre i grassi in eccesso, quindi dovete fare attenzione soltanto alle guarnizioni. Ketchup e maionese rigorosamente nella loro versione light, oppure proponete salsa tzatziki, bernese o alla menta. Inoltre, non esagerate con l’olio d’oliva, soprattutto nelle cotture. Ricordate che erbe aromatiche e spezie non aggiungono grassi e insaporiscono a meraviglia. Se non potete rinunciare a un po’ d’alcol, meglio il vino piuttosto che la birra, e optate per bibite light. La soluzione migliore rimangono i succhi di frutta senza zuccheri aggiunti e, ovviamente, l’acqua. Nell’attesa che i piatti principali siano pronti, offrite, al posto di patatine fritte e nachos, stuzzichini altrettanto appetitosi, originali e meno calorici: il pinzimonio, per esempio, irresistibile e facile da preparare.
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Grigliare con fantasia, carne, pesce... Con la bella stagione arriva il tempo delle grigliate, un buon pretesto per passare una giornata di sole all’aria aperta in buona compagnia gustando carne, pesce e verdure, tutto ovviamente grigliato. Non devono mancare le pannocchie e le salse. Ma, attenzione, non è così facile fare una buona grigliata, anche perché quando si è in tanti tutto diventa più complicato se non si è molto esperti. Quando si mangia all’aperto, inoltre, è bene pensare in anticipo a tutto ciò che serve, dagli ingredienti alle bibite e fare la spesa per una grigliata è impegnativo: dovrai decidere in base agli ospiti come se fosse una qualsiasi cena a casa, chiedendo loro di intolleranze e limiti di natura religiosa o ideologica. Per i bambini considera sempre una maggiore quantità di hamburger... e non dimenticare che il barbecue può dare tante soddisfazione anche ai vegetariani e ai vegani, la varietà degli ingredienti sarà fondamentale! Ora passiamo alla parte più divertente, la scelta del menù e dei piatti da far gustare ai tuoi invitati. Per organizzare la grigliata perfetta, la parola d’ordine è varietà, perché i gusti diversi da soddisfare sono tanti, tra carne, verdure, formaggi e altri ingredienti. Si può iniziare con una panzanella, oppure un’insalata di pasta o di riso, servite in piccole porzioni. Poi carne o pesce vrdure e frutta a volontà. Ecco di seguito alcune ricette sfiziose che vi permetteranno dio stupire i vostri ospiti e di rendere la grigliata un momento un po’ diverso dal solito Spiedini di carne di maiale speziato e ananas Ingredienti per 4 persone : 700 g carne di maiale 1 ananas 2 spicchi d’aglio 2 cucchiai di salsa di soia 1 cucchiaino di miele 1 cucchiaino di semi di sesamo 2 cucchiai di olio di semi di arachide 1 cucchiaino di zenzero 4 gocce di tabasco sale e pepe Preparazione Preparate una marinata mescolando in una ciotola l’aglio tritato, la salsa di soia, il miele, l’olio, il Tabasco, lo zenzero, i semi di sesamo, sale e pepe. Tagliate la carne di maiale a dadi di circa 2 cm e mettetela nella ciotola, poi lasciate riposare in frigo per un’ora. Sbucciate l’ananas, eliminate il torsolo e tagliate la polpa a dadi delle stesse dimensioni della carne. Alternate i cubetti di carne di maiale e quelli di ananas sugli spiedini, poi cuoceteli sul barbecue o sulla piastra per circa 5 minuti per lato. Servite subito, con una salsa agrodolce a
Spiedini di carne di maiale speziato e ananas piacere. Calamari con ripieno mediterraneo Ingredienti: 4 calamari 30 g di pane grattugiato 1 cucchiaio di capperi sotto sale 4 spicchi d’aglio 1 limone 20 g di prezzemolo olio extravergine d’oliva sale e pepe q.b. Svuotate i calamari, lavateli bene e asciugateli con carta da cucina. Spennellateli con 2 cucchiai di olio e fateli riposare per un’ora al fresco. Tagliate i tentacoli e metteteli in un recipiente. Tritate l’aglio, il prezzemolo, i capperi sciacquati e un pezzo di scorza di limone e unite ai tentacoli. Incorporate il pangrattato, condite con 2 cucchiai di olio, regolate di sale e pepate. Farcite i calamari con il composto ottenuto e chiudete l’apertura con uno stecchino. Preparate un intingolo con olio, sale, pepe e 2 cucchiai di succo di limone, e spennellate bene i calamari. Metteteli sulla griglia già calda e cuoceteli per 15 minuti circa, girandoli spesso e spennellandoli con l’intingolo al limone in modo da mantenerli morbidi. Serviteli caldi con una spolverizzata di pepe.
Calamari con ripieno mediterraneo
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L’OLTREPò che... griglia
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... verdura e frutta Hamburger con melanzane grigliate, crema di pecorino e cipolle caramellate 2 panini Hamburger Piaceri Mediterranei 1 melanzana nera 50 g pecorino grattugiato 300 g latte intero 20 g burro 10 g amido di mais 2 cipolle rosse di tropea zucchero di canna 60 g Olio extra vergine d’oliva 20 g acqua Sale fino aceto di vino bianco pepe nero semi di sesamo Procedimento Lavate ed asciugate la melanzana, poi tagliatela a fettine di circa 1 cm di spessore e grigliatela sull’apposita piastra. Terminata la cottura, disponete le fettine in una ciotola e condite con olio, sale e aceto e lasciate insaporire. Prendete le cipolle, pulitele dalla buccia e dalle pellicine ed eliminate le estremità. Lavatele e tagliatele a fettine sottili in una capiente pentola insieme allo zucchero e ad un bicchiere d’acqua. Accendete il fuoco e mescolate in modo da amalgamare tutti gli ingredienti e far sciogliere lo zucchero. Cuocete per circa 15 minuti facendo attenzione che le cipolle non si sfaldino, ma che siano ben caramellate e il liquido quasi tutto asciugato. Nel frattempo scaldate il latte in un pentolino; in una terrina riponete il burro e fatelo sciogliere al microonde. Aggiungete al burro l’amido e mescolate il tutto con una frusta; unite il tutto al latte e continuate a mescolare con una frusta fino a quando
Hamburger con melanzane grigliate, crema di pecorino e cipolle caramellate non risulterà sufficientemente denso. A questo punto aggiungete il formaggio pecorino al latte, mescolate a fuoco basso, pepate e fate addensare. In una ciotola versate l’olio e l’acqua e con una frusta iniziate a sbattete il tutto fino a quando non ri-
sulterà sufficientemente denso. Aggiustate di sale e pepe. Prendete i panini e spennellateli con olio sbattuto. Ripassate la parte superiore del panino nei semi di sesamo, dopodiché scaldate il forno a 170° e fateli cuocere in forno per circa 5 minuti fino a
quando i semi non si saranno ben attaccati. Terminata la preparazione di tutti gli ingredienti, passate alla composizione dei panini tagliandoli per metà in senso orizzontale e farciteli a strati alternando salsa di pecorino, melanzane e cipolla.
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L’OLTREPò CHE... GRIGLIA Pomodori e peperoni alla piastra Ingredienti 1 spicchio d’aglio 1 mazzetto di origano 2 peperoni gialli 2 peperoni verdi pepe .olio di oliva extravergine pane grattugiato 4 pomodori sale Preparazione Lavate i 4 pomodori e i 2 peperoni gialli e i 2 peperoni verdi e asciugateli. Tagliate i primi a fette spesse e privatele dei semi; eliminate il picciolo e i semini dei peperoni e tagliateli a falde. Sbucciate lo spicchio d’aglio e tritatelo; lavate il mazzetto di origano fresco e sforbiciatelo. Riunite le verdure preparate in una ciotola, cospargetele con l’aglio tritato, una macinata abbondante di pepe e un cucchiaio di origano sforbiciato. Irroratele con l’olio extravergine di oliva e fatele insaporire per un’ora mescolandole ogni tanto. Scaldate una piastra finché diventa molto calda; intanto riempite una tazza con il pangrattato e insaporitelo con 2 pizzichi di sale. Sgocciolate gli ortaggi dalla marinata con un mestolo forato e passateli nel pangrattato. Cuoceteli sulla piastra per pochi istanti su ogni lato, poi guarniteli con l’origano sforbiciato rimasto. Serviteli con la marinata a parte. Pesche grigliate con gelato ingredienti per 8 persone pesche mature 4 burro 30 g zucchero di canna 5 g gelato alla panna 4 palline da circa 50 g l’una Per la coulis frutti di bosco (lamponi, mirtilli, fragole) 400 g zucchero di canna 50 g procedimento Per fare le pesche grigliate con gelato, puoi iniziare dalla coulis di frutti di bosco. Per la coulis
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Pomodori e peperoni alla piastra Realizzare la coulis è molto semplice. Lava e asciuga le fragole, poi rimuovi il picciolo e tagliale a tocchetti. Lava e asciuga anche lamponi e mirtilli. Trasferisci tutto in una padella antiaderente. Aggiungi lo zucchero di canna Lascia cuocere a fuoco dolce per 10-15 minuti. La frutta dovrà appassire e rilasciare tutto il suo succo. Travasa la coulis in una ciotola e frullala con un frullatore a immersione. Filtrala poi in un colino a maglie strette, pressando con un cucchiaio o una spatola per raccogliere i semini e non perdere la polpa. La tua coulis ai frutti di bosco è pronta. Occupati ora delle pesche. Lavale e asciugale. Tagliale a metà e, con l’aiuto di un coltellino o di uno scavino, rimuovi il nocciolo In un pentolino sciogli il burro a fuoco dolce e spennella con questo la polpa di ogni pesca. Scalda la griglia e posiziona le pesche con la parte imburrata sulla fonte di calore.
Lasciale grigliare un paio di minuti, giusto il tempo di rigarne la superficie Trasferiscile ora sul piatto da portata e, ora che sono ancora calde, spolverizza sulla superficie di ciascuna lo zucchero di canna. Al centro di ogni pesca adagia una porzione di gelato e irrora le pesche con la coulis di frutti di bosco. Le tue pesche grigliate con gelato sono pronte!
Pesche grigliate con gelato
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Pizza... non poteva mancare La pizza prospera e domina con il calore: ci voglio vagonate di fiamme roventi per trasformare quella crosta in una confine croccante del nostro formaggio filante e fondente, e per riuscire in tutti i trucchi alchemici di cui abbiamo bisogno per trasformare un disco di impasto nel cibo più buono del mondo (e su questo punto immagino saremo tutti d’accordo). È per questo motivo che la griglia è la migliore amica della pizza, in particolare della pizza casalinga: genera più calore di quanto ne potrebbe mai generare un forno di casa, vi porta molto vicini alle condizioni che si creano in un forno per pizze professionale. Se volete salire di livello mettete anche una pietra di ceramica per pizza sulla griglia, lasciandola diventare terribilmente calda. Rilascerà un calore senza pari come quello della base di un forno professionale. Potete semplicemente mettere l’impasto sulla ceramica, chiudere il coperchio e lasciare che la combinazione di calore diretto e calore ambientale faccia il suo corso. Non c’è bisogno di girarla naturalmente. Non fraintendetemi, non sto dicendo che non potete cuocere la pizza direttamente sulla gratella, in qualsiasi modo vogliate farlo sarà un successo e l’estate con le birre fredde e il sole che splende è il momento migliore per sperimentare. La pizza è un arte non una scienza, il metodo che vogliamo illustrarvi qui è molto semplice ma non è l’unico. Questo significa che avrete bisogno di provare e sbagliare prima di trovare la giusta combinazione che vi porterà alla pizza perfetta. Sulla griglia a gas. Per fare la pizza sulla griglia, la griglia a gas è la scelta migliore
(lo so, non lo avreste mai detto). Il calore uniforme elimina molte grosse variabili. Mettete una pietra per pizza sulla gratella e settate il fuoco perchè sia medio-alto. Lasciate che la griglia si scaldi, coperta, con la pietra al suo interno. Quando la griglia sarà rovente, un termometro dovrebbe registrare la temperatura interna di 500°C e ci vorranno circa 10 minuti, poi togliete il coperchio e mettete sulla pietra una pallina di impasto di circa 25g stesa in un ovale di circa 30cm. Aggiungete i vostri condimenti preferiti (che siano datterini gialli della piana del Sele, cipolle di Tropea, peperoni, insomma quello che volete compresa la mozzarella di bufala) e spen-
nellate la crosta con un po’ di olio extra vergine d’oliva. Rimettete il coperchio con i buchi della ventilazione aperti e cuocete per 7-9 minuti fino a quando la parte sotto della base non sarà cotta e il formaggio non comincerà a “sobbollire”. Con un paio di spatole di metallo trasferite la pizza su un tagliere, lasciatela raffreddare per un paio di minuti e poi godetevi l’assalto. Sulla griglia a carbonella Il metodo è più o meno lo stesso, ma la preparazione è differente. Una volta che la vostra griglia sarà piena di carbonella rovente, distribuite la carbonella intorno al perimetro della griglia e mettete sopra la gratella. Quando la carbonella sarà lucen-
te ma non sarà più in fiamme, mettete la pietra sulla gratella, coprite e preriscaldate per 20 minuti circa, dovrebbe raggiungere la temperatura di 500°C. Poi procedete come vi abbiamo già descritto. Una griglia dovrebbe essere abbastanza per cuocere 2 o 3 pizze. Se siete a corto di idee per farcire la vostra pizza... Noi ve ne diamo alcune partendo sempre dal presupposto che non ci sono limiti alla fantasia: la pizza accoglierà a braccia aperte qualsiasi condimento vogliate aggiungere. E senza giudicarvi. Sicuramente noi non lo faremo. Se siete nel dubbio la risposta è sempre quella di ritornare alle origini, di abbracciare la semplicità magari facendo attenzione alla qualità degli ingredienti che utilizzate, che, non ci stancheremo mai di dire, sono la chiave per trasformare un piatto mediocre in un piatto stellare. Pomodori pelati, zucchine, melanzane e peperoni per la pizza vegana con verdure Mozzarella di bufala campana, scarola e alici per la pizza gourmet con mozzarella di bufala e scarola Cipolle rosse di Tropea, salsa di pomodoro, alici e peperoncino per la pizza con cipolle di Tropea Mozzarella fior di latte, gorgonzola e fiori di zucca per la pizza ai fiori di zucca e gorgonzola Mozzarella fior di latte, scalogno, funghi, parmigiano e panna per la pizza bianca con funghi di bosco e mozzarella Mozzarella senza lattosio, peperoncino, peperoni rossi e gialli, origano essiccato, filetti d’acciuga e zucchine per la pizza al peperone con verdure e mozzarella
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Matrimonio... con griglia Avete mai pensato di organizzare un barbecue per il giorno delle vostre nozze? Quest’idea può rendere il vostro matrimonio molto originale e divertente, ma prima di realizzarla bisogna valutare alcune cose Da sempre i barbecue in stile americano vi affascinano e vorreste realizzarne uno proprio in occasione delle vostre nozze? Questo non solo vi toglierà l’incombenza di scegliere segnaposto di matrimonio per tavoli tradizionali, ma solleverà i vostri ospiti da indossare abiti da cerimonia formali. Attenzione però a valutare tutti i pro e contro, dall’abito della sposa alla location. La location Il pezzo forte di un barbecue di nozze è sicuramente la location: rigorosamente all’aperto e possibilmente in un grande prato. Trovare il luogo ideale non è semplice, per questo potrete affidarvi ai numerosi siti specializzati. Quando valuterete la soluzione migliore per voi, oltre alla vicinanza, dovrete considerare la possibilità di pioggia ed eventuali alternative come una tettoia o delle tensostrutture sotto cui ripararsi (ottimi anche per proteggersi dal caldo sole estivo) L’allestimento Il bello di questo tipo di matrimonio è che prevede un allestimento totalmente originale: niente tavoli tradizionali (potete tirare un sospiro di sollievo, non dovrete realizzare nessun segnaposto di matrimonio fai da te) anzi certe volte niente tavoli del tutto! Un vero barbecue si svolge in piedi, le persone girano con il piatto in mano e di volta in volta si fanno servire la carne dall’addetto alla griglia, chiacchierando
con il vicino e magari sedendosi su una tovaglia direttamente sul prato… in perfetto stile country! Gli abiti Se opterete per la scelta del barbecue, lo stile country sarà probabilmente quello che adotterete anche per i vostri abiti di nozze. La sposa difficilmente vorrà indossare un abito da sposa a sirena, ma probabilmente sceglierà un vestito più adatto a delle nozze rurali, magari con un’acconciatura da sposa semiraccolta adornata da fiori di campagna... cosa ne pensate?
Il dress code Ricordatevi di specificare sugli inviti di matrimonio che avete organizzato un barbecue all’aperto, sempre che non vogliate stupire i vostri ospiti con l’effetto sorpresa. In tal caso sarà comunque buona cosa segnalare il dress code sulle partecipazioni, per evitare che alcuni ospiti si pentano di aver indossato scarpe eleganti che potrebbero rovinarsi se usate in un prato. Il catering Per questo tipo di nozze la scelta del catering è molto importante: avrete bisogno
di esperti della carne alla griglia, che sappiano destreggiarsi con le tempistiche di cottura dei vari tagli e tipi di carne e coordinarsi tra loro: non vi serviranno molti camerieri, ma allo stesso tempo un unico cuoco non vi basterà. Il suggerimento è infatti quello di considerare l’installazione di diversi punti in cui cuocere la carne, piuttosto che concentrare tutto in un unico angolo. Questo da un lato eviterà di produrre una nube di fumo eccessivamente grande, dall’altro diminuirà i tempi di attesa dei vostri ospiti. Un altro suggerimento è quello di prevedere anche la preparazione di pesce alla grigia, per chi non mangia carne. Una soluzione Se vedete l’organizzazione di un barbecue troppo complicata e avete quell’idea di segnaposti di matrimonio che vi ronza in testa da mesi e che vorreste relizzare su bellissimi tavoli rotondi, non è detto che dobbiate per forza rinunciare alla carne alla griglia. Perché non adibite un angolo del buffet proprio ad un barbecue di aperitivo? Vi basterà una griglia piccola, di cui saranno facilmente in possesso la maggior parte dei ristoranti a cui vi rivolgerete. Se la lettura di questo articolo vi ha aiutato a capire che desiderate tantissimo un grande barbecue al vostro matrimonio, probabilmente state già pensando al bouquet da sposa più adatto. Se invece avete deciso che un matrimonio rurale non fa per voi, perché non rimanete sullo stile classico? Sicuramente anche i vostri ospiti non disdegneranno la possibilità di indossare abiti eleganti da cerimonia per l’occasione
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«Mercato in via Vittorio Veneto? Ci penseremo magari il prossimo anno» L’assessore al commercio e attività produttive del Comune di Stradella, Andrea Frustagli, tornato in sella dopo diversi anni dall’ultimo mandato, frena sullo spostamento del mercato in via Vittorio Veneto, di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, in città e sui social. «È un progetto che bisogna valutare sotto tanti aspetti» spiega il neo assessore. «È ancora sul ‘tavolo’ e bisogna confrontarsi con gli addetti ai lavori. Non si è ancora parlato di nulla. Ci sono da valutare un sacco di aspetti prima di fare uno spostamento o anche solo di proporlo». Eppure era parte del vostro programma elettorale, giusto? «È nel nostro programma elettorale dei cinque anni: lo prenderemo in esame magari dal prossimo anno e ne valuteremo pro e contro. Bisogna fare verifiche e confronti con tutti: noi prenderemo sempre decisioni insieme ai cittadini e ai commercianti. Ci sono cinque anni di tempo, non dobbiamo fare tutto adesso. La notizia che si fa adesso non è vera, sono quelle questioni che vengono subito portate alla ribalta, ma per il momento è ancora tutto da vedere». Così facendo però si rivalorizzerebbe la parte alta di Stradella. «Certo, ma vogliamo valorizzare anche il collegamento tra parte bassa e alta della città. Il nostro è un progetto di completa valorizzazione della città in generale». è passato un mese dalle elezioni. Cosa si sente di dire? Vi aspettavate tutto questo? «Io posso dire che, con tanto di prova, avevo previsto questo risultato. Quindici giorni prima delle elezioni avevo stilato la mia previsione e ho indovinato. Certo, prevederlo non è come realizzarlo. Ma sono contentissimo che sia successo e della squadra che abbiamo, che è stata molto brava a lavorare».
«Sposteremo la fiera di settembre con le giostre in piazza Reduci di Russia»
L’assessore al commercio frena: «Servono prima confronti e verifiche» è un risultato storico per il centrodestra a Stradella. Quale pensa che sia stata la chiave per ottenerlo? «La chiave è stata la non conoscenza del candidato sindaco che non è mai stato amministratore e la squadra all’altezza. È un mix di tante cose. Posso dire che è dovuto anche alla mala gestione della vecchia amministrazione». Dopo tanti anni è tornato nel ruolo di assessore. Si aspettava questo incarico, se le cose fossero andate bene? «Ci speravo. Perché sono l’unico che ha avuto esperienza diretta nell’amministrare il Comune. Adesso tutto quello che posso fare è dare il mio contributo, visto quello che ho già realizzato in passato. So come si muove la macchina amministrativa e questo è molto, molto importante e sto già dando consigli a chi me li chiede». Pochi giorni fa c’è stato l’evento “Le vie del gusto”, che ha riscosso un grande successo di critica e pubblico. Pensa che possa essere il punto giusto da cui far ripartire la città e mostrarne il potenziale? «Esatto, è proprio il punto di partenza. Tutta l’amministrazione ed io in primis, in quanto assessore al commercio e sviluppo del territorio, partiamo da questa base, da questa idea, da questi giovani. È stato un evento molto elegante e ringrazio tutti gli organizzatori che si sono adoperati per la realizzazione. Certo, con qualche piccolo accorgimento e ritocco l’anno prossimo sarà il top. Il gruppo delle vie del gusto sarà fondamentale per la continuazione dei prossimi cinque anni e avranno un ruolo chiave, li voglio al mio fianco e faremo grandi cose». Il Vinuva invece si farà? «Certo, ma in un’altra veste e in un’altra data, 20, 21, 22 settembre. Verranno eliminati o valorizzati in un altro momento determinati eventi che facevano parte del Vinuva fino all’anno scorso e cambierà molto. Più avanti daremo il programma dettagliato. Stiamo anche valutando il cambio del nome, anche se, all’epoca l’avevo inventato io». Altri progetti? «L’intenzione è di spostare la fiera di settembre (7 e 8 settembre) con le giostre in
Andrea Frustagli
piazza Reduci Caduti di Russia: i giostrai non sono molto d’accordo, ma stiamo studiando un modo per valorizzare questa manifestazione. Facendo, magari, anche un mercatino in via Dellagiovanna. In tutte le iniziative avremo sempre la preziosa collaborazione di Proloco, Associazione Commercianti e i ragazzi delle Vie del Gusto: con loro si sta valutando di fare un evento sempre ad inizio settembre per quanto riguarda questa fiera e poi molte altre manifestazioni in futuro». Lei è in giro spesso per la città: cosa si sente dire dai cittadini? «Io sono contentissimo della risposta che ho dai cittadini. Sono contento dei commercianti: loro si aspettano molto da me e io da loro come collaborazione. C’è tanto da lavorare e da migliorare. Ovviamente non si può fare tutto in un mese di amministrazione: la gente chiede tanto, ma vorrei chiedere io a loro di avere un po’ di pazienza. Io conosco la macchina amministrativa, ma sono cambiate tante cose da quando facevo l’assessore anni fa. Il programma non è tutto realizzabile in un attimo, non è possibile. Vorrei dire ai cittadini di avere pazienza e tutto si farà».
«Un grande sogno: far diventare Stradella come il Collisioni Festival, che si fa a Barolo, in Piemonte» Un suo sogno per questo suo mandato da assessore? «Di fare tutto quello che con la squadra abbiamo in mente. E poi ho un grande sogno: far diventare Stradella come il Collisioni Festival, che si fa a Barolo, in Piemonte. Io ci vado tutti gli anni: è un evento meraviglioso. E poi ancora, portare qui la tappa del Giro d’Italia nel 2020». di Elisa Ajelli
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«Più movimento in città con il mercato “doppio”» Mercato in piazza della Torre sì o no? Può portare benefici spostare i banchetti che da tanti anni ormai non sono più presenti in piazza Vittorio Veneto? Lo spostamento del mercato da piazza Trieste alla parte alta della città, è uno dei temi caldi per il commercio di Stradella. L’idea è parte del programma dell’amministrazione comunale appena eletta e fa discutere i commercianti stessi in primis, divisi tra quelli che per ragioni di opportunità preferirebbero mantenerlo dov’è e quelli della parte alta che invece si augurano che l’iniziativa venga attuata al più presto. L’amministrazione, che per voce dell’assessore al commercio Andrea Frustagli ha fatto sapere che il progetto è sì in programma ma ancora lungi dall’essere attuato. E non si sa in quale formula: ovvero, se il mercato sarà spostato interamente ai piedi della Torre Civica, oppure se sarà per così dire scorporato e diviso in due, con una parte destinata a rimanere dov’è e l’altra a traslocare. Nel frattempo abbiamo sentito alcuni commercianti con esercizi collocati nelle zone interessate. Il Bar Garibaldi si trova in piazza Trieste, dove oggi si tiene il mercato. Caterina D’Urso, la titolare, non dice no a priori allo spostamento, ma invita alla prudenza. «Come tutte le cose vanno provate e dopo si tirano le somme. Bisogna trovare banchi disposti a spostarsi (e non tutti lo sono per una questione di ‘abitudinarietà’ della clientela) e le persone devono metabolizzare la novità con il tempo. Credo che i banchi in piazza alta avrebbero sicuramente maggiore difficoltà a lavorare. Sui giovamenti alle vie di collegamento, probabilmente Via XXV aprile ne avrebbe un minimo. Su via Trento sono dubbiosa, andrebbe valorizzata con eventi ad hoc, anche perché la parte alta ha numerose vetrine sfitte e non incentiva quindi il passaggio. Il mercato storicamente è sempre stato in Piazza Trieste. Forse bisognerebbe creare qualcosa di alternativo, un altro tipo di appuntamento fisso in piazza della Torre per catalizzare le persone, ad esempio un mercatino dell’antiquariato nei sabati in cui non si fa nel viale alberato e nei giardini o di altro tipo. Sul ‘dividere’ il mercato non sono così convinta, ma si vedrà. Non dico no a priori». Chi lavora nella parte alta della città, come Erald Danaj del Bar Teatro, vede invece l’iniziativa di buon occhio, con l’auspicio che lo “sdoppiamento” del mercato si verifichi, in modo da avere un evento che, “spalmato” in due luoghi strategici del paese, possa dare maggiore visibilità alle attività che si trovano nel passaggio. «Secondo me può essere una cosa giusta - spiega Danj - Non so a livello tecnico,
Caterina D’Urso
«Il mercato sia in Piazza Trieste che sotto la Torre Civica aumenterebbe il passaggio in città»
Erald Danaj
I commercianti di Stradella e il mercato da spostare: piace la soluzione con lo split tra via Veneto e piazza Trieste
con parcheggi e cose simili, come possa essere e se possano sorgere problemi. Ma per quanto riguarda l’aspetto di impatto è sicuramente positivo, perché darebbe alle persone la possibilità di passare per tutta Stradella e di fare un giro completo della città. Poi, fare il mercato dove c’è la Torre, simbolo della città, mi sembrerebbe davvero la cosa più giusta da fare, ma indipendentemente da questo andrà verificata la fattibilità della cosa: magari non sarà semplice da realizzare, ma avere il mercato esteso su tutta la città sarebbe proprio bello». Anche per Federica Barbieri, del negozio di abbigliamento La Femme Boutique, l’idea del mercato doppio sarebbe vincente. La sua attività si trova su via XXV aprile, e ricorda come i suoi colleghi che in passato avevano sperimentato il mercato “sdoppiato” ne avessero avuto beneficio. «Io non ho avuto il piacere di avere il negozio negli anni in cui il mercato era diviso in due parti. I miei colleghi però sono anni che insistono sul fatto che prima c’era più passaggio. In effetti per come si presenta il nostro paese, anche secondo me la divisione dovrebbe portare una distribuzione più omogenea della gente creando un percorso obbligato nelle due vie “commerciali”. Penso che ne valga la pena fare un tentativo». Giulio Magrassi del Caffè Angelini, che dà su piazza Vittorio Veneto, ha sperimentato sulla sua pelle il danno di non avere
Federica Barbieri
più il mercato vicino e si augura un suo pronto ritorno, auspicando anche un ampliamento. «Qui da un giorno all’altro hanno tolto il mercato e la fermata delle corriere - spiega - e il danno economico è stato elevato: si pensi al fatto che il martedì, giorno di mercato, facevamo 200 caffè in più. Poi qui c’è il centro storico, dovrebbero esserci più eventi, anche il mercatino dell’antiquariato per esempio. Bisogna innovare le manifestazioni, anche il caffè concerto che ha ovviamente esigenze diverso rispetto a quando è nato. Tornando al mercato, dirò di più: oltre a riportarlo dovrebbero anche ampliarlo». di Elisa Ajelli
Giulio Magrassi
Piazza Vittorio Veneto: «Qui da un giorno all’altro hanno tolto il mercato e la fermata delle corriere, il danno economico è stato elevato»
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«Non solo fisarmoniche, Stradella era anche la città delle moto» Stradella è conosciuta nel mondo come la “Città della Fisarmonica” per la nota produzione di questo strumento musicale. Ma il nome di questa città è stato reso famoso in Italia e nel mondo da un’altra attività: il motociclismo. Nel 1886 vi nacque Gino Magnani, il quale dopo un’esperienza al Touring Club di Milano decise di fondare nel 1914 “Motociclismo”, la prima storica rivista di settore della quale mantenne la direzione per ben 50 anni. Nel 1924 il ventisettenne stradellino Pietro Trespidi, dopo aver acquisito preziose competenze presso la Gilera, assemblò in una piccola e improvvisata officina di Via de Amicis il suo primo prototipo di moto 250cc. Già l’anno successivo le sue moto iniziarono ad ottenere i primi successi sportivi, guidate dai piloti locali Pernetta e Brega. La produzione stradellina di motociclette durò all’incirca 38 anni, dal 1924 al 1962. In questo periodo vennero commercializzate in tutto il mondo modelli a marchio Moto Trespidi, Alpino e Ardito. Moto e storie che rimangono impressi nella memoria degli appassionati. Grazie al lavoro e alla loro passione è stato possibile mantenere vivo il ricordo di questi gloriosi marchi nostrani. Abbiamo intervistato Angelo Fiori, 69 anni, pensionato e presidente del Motoclub Città di Stradella da circa quattro anni, che si è posto l’obiettivo di ricostruire in modo minuzioso il passato motociclistico stradellino. Nel 2013 ha curato la pubblicazione di “Alpino e Ardito – Le Moto di Stradella”, un vero e proprio catalogo dei modelli stradellini. Fiori, quando avete fondato il Motoclub Città di Stradella? «è stato fondato dieci anni fa, nel dicembre 2009. Quest’anno è il decimo anniversario della fondazione. Le finalità erano quelle di riscoprire le tradizioni motociclistiche di Stradella, in particolare quelle legate alla produzione locale dell’Ardito e dell’Alpino». Stradella è stata una città importante per il motociclismo italiano: Gino Magnani fu il fondatore di Motociclismo, Pietro Trespidi un innovatore nella progettazione di moto. Secondo lei la Città di Stradella ha dato il giusto riconoscimento ha questi personaggi? «Gino Magnani fu pioniere della moto e sponsorizzò il Circuito di Stradella nel migliore dei modi. Pietro Trespidi fu un genio della tecnica motociclistica che fondò nella nostra città ben tre marchi di moto: la Moto Trespidi nel 1924, l’Alpino nel 1945 e l’Ardito nel 1951. Sarebbe bello che entrambi questi personaggi fossero ricordati in modo opportuno. Nel 1925 Ignazio Pernetta vinse il Campionato Italiano Gentlemen, riservato ai
dilettanti, in sella ad una Moto Trespidi 250, davanti al compagno di squadra Brega. L’anno successivo, per mantenere vivo l’interesse suscitato dalle vittorie sportive, Trespidi aveva bisogno di una fabbrica più grande. Venne promossa quindi una sottoscrizione popolare per azioni da 100 lire l’una, che gli permise di ampliare l’attività. Nonostante ciò la crisi fu sempre forte e nel 1927 Trespidi fu costretto a chiudere la fabbrica. Dopo anni, nel 1944, presentò un motore ausiliario laterale, dal peso di 9 kg, che si applicava direttamente sul mozzo della bicicletta. Questa “invenzione” fu essenziale per la ricostruzione postbellica, in quanto permetteva a chi possedeva già una bicicletta di potersi “motorizzare” e poter lavorare. Fu la fortuna di molti che avviarono un’attività commerciale\ artigianale nel dopoguerra dato che tale motore venne applicato anche a tricicli da trasporto cassonati. Quindi i commercianti e gli artigiani potevano muoversi in un raggio d’azione molto più ampio per svolgere le loro attività. Certo, la velocità non era un granché, ma la fatica di certo era parecchio ridotta… Anche il Senatore Sclavi raccontava di aver iniziato la sua attività imprenditoriale acquistando un “laterale” Trespidi, per poter recarsi da Stradella al Carmine e occuparsi della costruzione di un ponte sul Tidone». Quindi possiamo dire che i motori di Trespidi hanno dato un grande aiuto al boom economico? «Certo, c’erano anche altri motori, come il Cucciolo e il Mosquito che avevano alle spalle aziende come Ducati e Garelli, ma l’Alpino era certamente competitivo. Queste moto nel dopoguerra partecipavano alle gare nei “circuiti cittadini”, dedicati a motori di piccola cilindrata, facendosi non poca pubblicità. C’erano determinate regole da rispettare in queste gare, come il limite di pedalate all’uscita della curva. L’Alpino, 48cc si imponeva in queste gare proprio perché aveva parecchia ripresa. Queste vittorie contribuirono alla crescita delle nostre fabbriche e di riflesso allo sviluppo economico della nostra città: si pensi che nel periodo d’oro, nella prima metà degli anni ’50, l’Alpino occupava direttamente ben 130 dipendenti e l’Ardito circa 30, generando un consistente indotto». I vostri soci vantano una grande collezione di moto stradelline? «Complessivamente i soci del motoclub sono in possesso di oltre una ventina di modelli. Io ho un Alpino, ma c’è anche chi ne ha due, tre o più. La “collezione”, se così si può definire, non è ancora completa.
Angelo Fiori, presidente del Motoclub Città di Stradella
Tra il 1924 e il 1962 prodotte a Stradella circa 60mila moto
Ci sono però diversi appassionati non stradellini che vantano grandi collezioni. Per esempio c’è Juan Santos, un collezionista portoghese appassionatissimo dell’Alpino, che tutte le volte che trova qualcosa in vendita lo acquista e mi tiene sempre informato sul materiale che recupera. Ha una collezione molto vasta, di cui va molto orgoglioso. Un altro grande appassionato, Luciano Battisti, si trova a Pesaro, dove ha realizzato un’esposizione privata di circa 45 modelli: è un industriale, figlio di un concessionario Alpino della zona, il quale è rimasto molto legato al marchio». Siete riusciti a censire l’intera produzione? «Più o meno sì. Ci sono stati oltre una trentina di modelli tra ciclomotori, motoleggere, motociclette, scooter e motocarri.
Insieme al direttore Perelli di Motociclismo d’Epoca, abbiamo ipotizzato che siano state prodotte a Stradella circa sessantamila moto, molte delle quali esportate all’estero». Quindi possiamo trovare alcuni modelli anche in giro per il Mondo? «In Sud America c’èra un importatore in gamba, il quale aveva fatto parecchia pubblicità stabilendo diversi record di velocità.L’Alpino è stato anche esportato in tutta Europa, ma abbiamo documentazioni di esportazioni, non quantificate, in Siam, Giappone, Indonesia e sud est asiatico. Proprio per quest’ultimo mercato Trespidi aveva parecchia attenzione, producendo appositamente un modello chiamato “Indo” un “tubone”, piccolo, leggero, dalle forme morbide ed eleganti». Prima ha parlato di record di velocità. Quanti primati detiene l’Alpino? «La produzione è iniziata con il 48cc “laterale”, a cui si sono aggiunti nel corso degli anni modelli di cilindrata superiore: un 63cc, un 75cc, un 125cc fino a 200/250cc: queste cilindrate venivano commercializzate soprattutto in Argentina. Per farsi pubblicità c’erano due modi: stabilire record di velocità oppure partecipare ai “Circuiti cittadini” e vincerli. Per quanto riguarda i primati di velocità va segnalato che il primo record mondiale è stato segnato il 16 gennaio 1952 sulla
stradella tratta “Castel San Giovanni – Borgonovo - Castel San Giovanni” da Andrea Bottigelli su un 75cc, con una velocità media di 129 Km\h. Era un Alpino con carenatura “a uovo” aerodinamico e per farlo partire ed arrivare i meccanici dovevano prenderlo al volo, in quanto il pilota non aveva la possibilità di appoggiare i piedi. Era un siluro. Il 1 febbraio dello stesso anno l’importatore argentino Perales aveva preparato un 49cc, pilotato da Vaifro Meo, il quale raggiunse una velocità di 90km\h nella categoria <50cc. Due anni dopo a Monza l’Alpino stabilì ben 7 record di velocità sulle grandi distanze. Le moto di Stradella hanno vinto in tutt’Italia, partecipando anche a gare di durata come la “Sei giorni di Milano”, “Giro d’Italia Motociclistico” e la “Milano-Taranto”. Riguardo la “MilanoTaranto” del 1953 c’è un aneddoto particolare…». Di cosa si tratta? «Un postino, tale Ledda, prese il via in piena notte da Milano a bordo del suo Ardito 48cc non preparato, con il quale solitamente svolgeva il suo lavoro, con l’obbiettivo di raggiungere Taranto in giornata. Dopo aver affrontato pioggia e freddo sui vari passi dell’Appennino ed aver forato ben due volte, raggiunse finalmente la Puglia. Qui sfortunatamente sforò di nuovo, non avendopiù nessuna camera d’aria di ricambio. Essendo già tarda serai gommisti avevano già chiuso le officine. Girando per il paese si informò e ne trovò uno al cinema: senza demoralizzarsi si diresse dentro la sala e, disturbando tutti gli spettatori, riuscì a trovarlo. Lo convinse a riparargli la gomma e ripartì verso Taranto. Qui però non trovò più nessuno al traguardo, in quanto la gara era terminata ore prima. Riuscì però a scoprire dove alloggiava un commissario di gara: lo buttò giù dal letto e si fece timbrare il foglio d’arrivo, unico 48cc a concludere la mas-
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2017 - Raduno a Stradella sacrante gara.Quest’impresa fu talmente sulla Allea Dallapè, in modo che la genparticolare che venne utilizzata parecchio te potesse avere l’occasione di ammirare buona parte della produzione stradellina. come pubblicità per il marchio Ardito». Sul mercato collezionistico che valore L’esposizione ha suscitato molta curiosità hanno queste moto? Quali sono i pezzi e ha riscosso l’interesse di numerosissimi visitatori. Inoltre nel maggio 2013 abbiapiù pregiati? «Sono moto che valgono tra gli 800 e i mo pubblicato un libro intitolato “Alpino 1500 euro. Ci sono modelli che pratica- e Ardito – Le Moto di Stradella”in cui è mente sono rarissimi, come i primi mo- stata ricostruita l’intera storia motociclitori laterali. Di listino valgono dai 2000 stica con foto e schede tecniche». ai 4000 euro, ma il valore lo si decide Tutte le documentazioni in vostro posdall’incontro tra i venditore e l’acqui- sesso dove le avete trovate? rente. L’interesse di quest’ultimo non ha «Molto materiale arriva dagli articoli un valore prestabilito da un listino.Per di Motociclismo. Purtroppo gli archivi esempio un collezionista della zona pos- dell’editore non sono completi, quinsedevadiversi motori “laterale” che non di altre ricerche sono state fatte presso era interessato a vendere: un collezionista la biblioteca Sormani di Milano in cui è svizzero gli ha fatto la tipica offerta “che conservata un’intera collezione. Altri dati non si poteva rifiutare” e quindi ha cedu- li abbiamo poi grazie alle documentate to. Poi certo dipende dalla conservazione monografie che Piero Inglardi ha dedicato rispettivamente all’Alpino e all’Ardito». e dall’originalità dei pezzi». Cos’avete fatto come Motoclub per Torniamo al Circuito di Stradella. Di cosa si trattava? mantenere vivi questi marchi? «Organizziamo manifestazioni aperte a «Il Circuito di Stradella era una gara tutti, esponendo i nostri modelli.Per di- molto famosa ed importante per l’epoca. versi anni, nel mese di settembre, abbia- La prima edizione venne vinta da Ignamo esposto una cinquantina di modelli zio Pernetta su una Moto Trespidi , nella
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classe 250cc, mentre nella classe 500cc si impose Achille Varzi. Nel 1927 vi partecipò anche Tazio Nuvolari, il quale riuscì a segnare il giro più veloce ma fu costretto al ritiro. Cosa che non accadde nel 1930, edizione in cui si impose nella classe regina. Il Circuito di Stradella era valido per il Campionato Italiano, alla stessa stregua di Monza. La partenza era ai giardini, poi si proseguiva in Via Garibaldi e via fino all’incrocio di Montescano per poi raggiungere Montù Beccaria. Successivamente si scendeva fino in località Braccio e si proseguiva fino al Cardazzo, per poi rientrare a Stradella lungo la Via Emilia. Le strade non erano tutte asfaltate, quindi era un’impresa ardua. La gara era sponsorizzata da Motociclismo, diretto e fondato dallo stradellino Magnani, il quale teneva molto ad organizzare un evento motociclistico di spessore nella sua città e riteneva il circuito stradellino tra i migliori d’Italia a livello tecnico. Si corsero sei edizioni dal 1926 al 1933». Secondo Lei a Stradella non sarebbe opportuno avere un museo dedicato al Motociclismo? «Questo è il mio obbiettivo. Bisognerebbe avere a disposizione uno spazio di un centinaio di metri quadrati dove esporre i modelli che sono già a Stradella, tenendo conto che ci sono anche collezionisti non del luogo disposti a metterci a disposizione i loro modelli. Servirebbe una struttura non troppo decentrata, relativamente in centro. In periferia non avrebbe senso. Singoli esemplari di Alpino e Ardito sono esposti in diversi musei e collezioni in giro per l’Italia e nel mondo: per esempio ho trovato per caso un Alpino Piuma esposto al Musèe de la Moto di Entrevaux, in Provenza. Sarebbe opportuno valorizzare adeguatamente una pagina di storia sportiva ed economica che ha dato lustro alla nostra città». di Manuele Riccardi
Cheap but chic
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Piatti golosi e d’immagine al costo massimo di 3 euro! MOUSSE DI YOGURT CON PESCHE E AMARETTI Ingredienti per 3 persone: 150 g. di yogurt greco alla vaniglia 100 g di panna da montare 3 pesche non molto mature qualche cucchiaio di rhum 1 cucchiaino di zucchero di canna 12 amaretti 10 fave di cacao
Luglio e l’estate portano sulle nostre tavole tanta frutta e verdura dai brillanti colori e dai deliziosi sapori e in particolare arriva la regina dell’estate: la pesca. Gustosa, profumata e ricca di sostanze nutritive giunge in Europa dalla Cina (da dove ha origine) passando per la Persia (l’attuale Iran) da cui deriva il nome della specie di appartenenza (Prunus Persica). Le pesche sono frutti con numerose proprietà, al punto da essere considerate nella mitologia cinese il simbolo dell’immortalità, proprio ad indicare come il loro consumo facesse bene al corpo. Esistono numerose varietà di pesche: pesca gialla, bianca, noce, dalla buccia liscia o vellutata, dalla forma tondeggiante o più schiacciata e in linea generale si caratterizzano per essere frutti molto succosi e quindi anche idratanti, ideali proprio per la stagione calda. Le pesche hanno un buon contenuto in zuccheri, soprattutto fruttosio, lo zucchero naturale della frutta, mentre sono povere in grassi e proteine e il contenuto calorico è di circa 39kcal su 100g, perciò sono un frutto magro e alleato della nostra linea, considerando anche che l’alto contenuto in potassio presente favorisce la diuresi ed elimina i liquidi in eccesso, dando al frutto un potere diuretico. Sono anche ricche in magnesio, calcio
e fosforo e contengono molte fibre. Le pesche sono anche un elisir di bellezza per la nostra pelle, tanto da essere usate molto spesso in cosmetica. Questa loro proprietà deriva dall’alta concentrazione di Vitamina A e Vitamina C che migliorano la struttura cutanea e combattono i danni sulla pelle causati dal sole e dall’inquinamento. Inoltre la Vitamina C è un potente antiossidante che, oltre a combattere i radicali liberi che causano l’invecchiamento cutaneo, ha un ruolo vitale nella formazione del collagene. Le pesche sono poi un frutto dissetante, diuretico; purificano ed aiutano ad avere una pelle giovane e tonica. Inoltre, si digeriscono facilmente e sono adatte non solo ai più anziani, ma anche ai bambini. Sono una fonte di vitamine e sali minerali e il loro impiego in cucina è così ampio e versatile che non ci si stanca mai di mangiarle. Le possiamo mangiare da sole, in macedonia, come frullato fresco per le nostre meren-
de estive e ancora come ingrediente per marmellate e dolci. Questo mese le utilizziamo per una ricetta fresca e leggera, un dolce che può essere gustato a fine pasto o per una colazione o una merenda adatta anche ai bambini. Come si prepara: Sbucciamo tre pesche, le tagliamo a cubetti e le mettiamo in una ciotola con lo zucchero di canna e il rhum. Mescoliamo bene e lasciamo riposare. Montiamo ora la panna e la amalgamiamo con lo yogurt. Prendiamo le fave di cacao e, dopo aver tolto l’involucro, le tritiamo finemente con un coltello. Infine sbricioliamo gli amaretti. Siamo pronti ora ad impiattare. Ci servono dei semplici bicchieri o , se più vi piace, potete usare anche delle coppe. Mettiamo sul fondo di ogni bicchiere 2 cucchiai di amaretti sbriciolati. Aiutandoci con una sac a poche mettiamo un ciuffo di mousse di yogurt, la pesca tagliata a dadini e ancora un ciuffo di
Gabriella Draghi
mousse. Finiamo con la granella di fave di cacao. Buon appetito!!! You Tube Channel “Cheap but chic”. Facebook page “Tutte le tentazioni”. di Gabriella Draghi
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arena po
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Torre Beccaria a caccia del rilancio «Serve una rete dei castelli» Le prime notizie riguardanti Arena Po si hanno in un atto del 964 rogato da Giselberto, figlio di Adaverto e Giudice del Sacro Palazzo, con il quale il Vescovo di Piacenza, Sigolfo, scambia un terreno nelle vicinanze di Vicobarone con un altro terreno posto in riva al Po, di proprietà della Pieve di Arena. Questo probabilmente dimostra che prima di tale data non era presente alcuna fortificazione sul territorio. Per avere notizie del castello occorre invece attendere il XII secolo, sebbene si ritenga che l’edificazione avvenne nel corso del X secolo, a difesa contro gli Ungheri. Non è ben chiara l’originale proprietà della struttura: si ritiene che essa possa essere stata del Monastero di San Pietro in Ciel d’Oro o di San Maiolo. Nonostante Arena Po appartenesse all’ecclesiastico piacentino, l’Imperatore Federico I “Il Barbarossa” assegnò nel 1145 questi luoghi a Pavia, facendone una specie di enclave. Questo causò continui scontri bellici tra i guelfi piacentini e i ghibellini pavesi, che portarono ad una prima distruzione già nel 1175. Nel corso del 1216 i piacentini alleati con i milanesi nella Lega Lombarda effettuarono diversi assedi sul confine oltrepadano, causando la distruzione della quasi totalità dei castelli della Valversa. Gli alleati cercarono di assediare il castello di Arena Po, considerato da sempre in posizione strategica per il controllo del commercio e dei rifornimenti militari via fiume. Tale tentativo fu vano, in quanto il castello era collegato da un fitto sistema di fossati che gli permetteva di rimanere sempre rifornito dall’esterno e difeso dalle navi pavesi. Fu uno dei pochi insuccessi della Lega lombarda nel corso di tale operazione offensiva: secondo alcune fonti “i
A inizio ‘900 il castello Torre Beccaria divenne sede industriale «Si producevano detersivi e soda»
Il castello di Arena Po ristrutturato dalla famiglia Roveda milanesi con i piacentini presero Parpanese ma dovettero abbandonare l’assedio di Arena per la sua estrema resistenza”. Il castello infatti era difeso da circa 150 cannoni, posti su tutti i lati. Nel 1263 il castello fu occupato da Otto Visconti, vescovo di Milano e nel 1290, venne infeudato a Manfredino Beccaria. Da qui la denominazione attuale di “Torre Beccaria”. Questa famiglia si stabilì nella torre in pianta stabile per diverse generazioni, tant’è che un ramo della discendenza venne riconosciuto con il nome di “Beccaria di Arena”. Essi mantennero la signoria fino ai primi del ‘400, quando i Visconti ne confiscarono il feudo e lo inglobarono nella Signoria di Milano. La continua contesa tra pavesi e piacentini portò il castello ad essere sottomesso per un breve periodo ad Alberto Scoto, signore di Piacenza, nel 1304. Nel 1441 Arena Po divenne feudo della famiglia Sanseverino, successivamente dei milanesi Maggi e poi ancora della famiglia Speciani. Nel 1655 il castello fu teatro dell’occupazione militare dell’esercito francese, supportati dal Duca di Modena, durante la guerra franco spagnola. Il generale spagnolo Don Luis de Benavides Marchese di Caracena con astuzia riuscì ad espugnarlo e l’anno successivo il nuovo Governatore di Milano, Cardinale Trivulzio, ordinò l’abbattimento della struttura, per evitarne una seconda occupazione francese. Nel ‘700 la proprietà passo al marchese Bernardino Mandelli: noto filantropo, alla sua morte avvenuta nel 1827 lasciò il castello agli Ospizi Civili di Piacenza, i quali per anni lo destinarono come “magazzino del sale” che veniva inviato con molta probabilità al Ducato di Milano. Nel 1877 venne messo all’asta, in quanto gli Ospizi non erano intenzionati a mantenimento oneroso dello stabile. Il castello venne così salvato dalla demolizione da Fulgenzio Delfitto, che se lo aggiudico per una cifra irrisoria. Pochi anni dopo la proprietà passò al Cav. Domenico Rossignoli e successivamente al figlio, i qua-
Angelo Roveda, proprietario della Torre Beccaria
li lo destinarono come fabbricato rurale. Venne classificato come “edificio di interesse storico” e rinominato “Torrione dei Beccaria di Arena Po” nel 1909. Dal 1918 la proprietà è della famiglia Roveda, la quale negli anni ’40 gestiva anche i “Bagni Eridano” posti di fronte al castello, su un isolotto del Po. Nel corso dei primi anni del ‘900 lo stanzone inferiore della torre era stato riqualificato come fabbrica di detersivi e soda e nei decenni successivi una fabbrica di calzature. Di quel passato “industriale” rimane ben poco, se non alcune particolari vasche fissate nel pavimento, che comunque ricordano una parentesi particolare della storia dell’immobile, senza risultare decontestualizzate. Abbiamo intervistato Angelo Roveda, classe 1932, nato e domiciliato ad Arena Po. Ora pensionato, per quasi 50 anni ha svolto attività imprenditoriale a Milano, nel settore dei trasporti. Da vent’anni è il proprietario della Torre Beccaria ed a lui è toccata l’ardua impresa di recuperare la parte storica, ripulendola da ogni opera posticcia, causata dal riadattamento industriale della struttura avvenuta nel corso dell’800. Roveda, quando e come è diventato proprietario della Torre Beccaria? «Il castello era di proprietà della nostra
famiglia già agli inizi del secolo scorso. Mio padre vi svolgeva attività di produzione di detersivi e mia sorella maggiore è nata proprio tra queste mura. Successivamente la proprietà è passata al fratello di mia mamma ed in seguito ad un mio cugino. Ed è proprio da lui che l’ho riacquistata nel 1999». Che tipi di visite organizzate presso la struttura? Visite singole o gruppi programmati? «In questi anni abbiamo organizzato svariati tipi di visite: da quello per singoli turisti casuali di passaggio a visite programmate da enti specializzati. Bisogna anche ringraziare il Comune che, dotando il paese di cartellonistica storica informativa, ha permesso anche a chi si trovava qui di passaggio di potersi gustare appieno la bellezza dei monumenti presenti conoscendone le caratteristiche storiche e architettoniche. Sicuramente se ci si affida ad un gruppo organizzato, coordinato da guide turistiche esperte, è sempre un valore aggiunto alla visita». Come struttura partecipate alle Giornate FAI? «Abbiamo avuto ennesima riprova di quanto appena detto proprio durante le Giornate FAI, organizzate a marzo di quest’anno. L’evento ha avuto un ottimo seguito. Arena Po ed i suoi monumenti
arena po sono stati investiti dalla curiosità di parecchi appassionati che, sotto la guida di esperti, si aggiravano tra le strade del nostro paese con orecchie attente e occhi curiosi. Proprio come siamo abituati a vederli nelle grandi città d’arte». Come è avvenuto il recupero della struttura? è stato molto impegnativo? «Direi proprio di sì! Dall’acquisto dell’immobile, nel 1999, alla sua “inaugurazione” fatta con il matrimonio della mia figlia minore nel 2006, sono passati ben 7 anni. Abbiamo avuto solo un contributo minimo da parte delle Belle Arti di Milano. E solo a lavori ultimati. Abbiamo dovuto affrontare la ristrutturazione con le solo nostre forze economiche e i lavori si sono prolungati parecchio. Abbiamo prima dovuto abbattere tutte le strutture che nel corso dei secoli avevano significantemente mutato l’aspetto originale del castello, faticando parecchio prima di poter rendere visibile l’imponente struttura che potete ammirare oggi». Dovete sopportare costi di gestione elevati per mantenere la struttura attiva? «Anche questi sono decisamente impegnativi. Se consideriamo i costi dei manutenzione ordinaria e straordinaria, le tasse di proprietà, la gestione delle utenze, gli obblighi relativi alla messa in sicurezza e i costi per la cura, per la pulizia e la per la difesa dell’immobile, le cifre lievitano». Che rapporti avete con gli enti pubblici e le associazioni? «Per i primi anni devo dire che ho avuto veramente pochi aiuti a mio sostegno. Solo le Belle Arti di Milano mi hanno supportato dal punto di vista tecnico e architettonico, con consigli importanti e professionali. Altre associazioni o enti non hanno mai bussato alla nostra porta. Fortunatamente il Comune negli ultimi anni ha mostrato un vivo interesse per la promozione culturale e storica del paese, dando grande spicco anche a questo monumento. Questo lavoro è stato possibile anche grazie al
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«Costi di gestione e manutenzione elevati. Servono iniziative promozionali»
grande aiuto da parte dell’Accademia di Brera che ha visto nel nostro piccolo paese un fiore da far sbocciare. Direi che ci stiamo riuscendo appieno. Certo, il risvolto economico stenta ad arrivare, ma come si dice “non di solo pane vive l’uomo…». Come vedreste un circuito di promozione dei castelli e residenze storiche oltrepadane? «A mio modesto parere sarebbe un’ottima iniziativa da parte degli enti di promozione a sostegno sia del turista, interessato a visitare il territorio godendone appieno di tutti gli aspetti che esso può offrire, sia dei proprietari, dandone un sostegno e facendo da cassa di risonanza. Un’iniziativa del genere è sicuramente da sostenere e incentivare. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di far conoscere la nostra realtà, ma nel mare del web, da singoli, è sempre molto difficile». di Manuele Riccardi
2001 - Il castello prima del recupero
Torre Beccaria oggi
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Nuovo oratorio: «Pensiamo di riuscirci entro il 2020» A fine mese scorso si è svolta a Santa Maria della Versa l’edizione 2019 di Mondoratori. Le delegazioni di una trentina di oratori, composti da più di mille bambini e accompagnatori, hanno animato per un’intera giornata le vie di Santa Maria della Versa. Linda Vegezzi, 21 anni è una studentessa di lettere presso l’Università di Pavia e volontaria presso l’oratorio di Stradella. Insieme a Don Cristiano Orezzi è stata una delle coordinatrici dell’evento. Linda, che cos’è Mondoratori? «Mondoratori è un raduno di tutti gli oratori della Diocesi di Tortona, organizzato dall’ANSPI in collaborazione con il Servizio Diocesano per la Pastorale Giovanile. In questa giornata tutti gli oratori della diocesi si incontrano per festeggiare i Grest che ognuno di essi sta organizzando durante il mese di giugno e per trascorrere insieme al Vescovo di Tortona, Monsignor Vittoria Viola, una giornata di festa con canti, balli, giochi nel segno dell’amicizia e della condivisione. Si svolge ogni anno e l’organizzazione viene attribuita in modo alterno: un anno ad un oratorio della zona lombarda e un anno ad uno della zona piemontese della Diocesi». Com’è stata organizzata la giornata a Santa Maria della Versa? «Quest’anno a Santa Maria della Versa hanno partecipato circa milletrecento bambini, appartenenti a circa trenta oratori. La giornata è iniziata con il raduno di tutte le delegazioni in Piazza Vittorio Emanuele II, nella quale sono avvenute le registrazioni e ogni gruppo si è esibito in balli e canti, intonando l’inno del Grest. Successivamente il sindaco Riccardi e il Parroco don Bruno hanno dato il benvenuto a tutti i partecipanti, dando il via al corteo per le strade del paese, fino ad arrivare al Parco Autieri, dove si è svolto un momento di preghiera e riflessione guidato dal nostro vescovo Vittorio. All’ombra delle piante del parco si è consumato il pranzo al sacco, poi nel pomeriggio ci sono stati giochi e attività di gruppo in piazza e più tardi, presso il campo sportivo, si sono svolte le attività finali, con la merenda, le premiazioni e i ringraziamenti. è stata una giornata bellissima e ricca di emozioni non solo per i ragazzi, gli animatori, gli educatori e i sacerdoti che accompagnavano i vari oratori, ma per l’intero paese che ha visto le strade e le piazze gremite di gioiosi e festosi bambini e ragazzi. Un grande e concreto aiuto lo hanno dato le associazioni di volontariato locali, gli Autieri, la Protezione Civile, la Proloco, la croce Rossa, mettendosi a disposizione per coordinare la viabilità e i vari spostamenti e garantire la buona riuscita della
Riapertura dell’oratorio «Potrei occuparmene io insieme ad altri ragazzi di Santa Maria che hanno vissuto come me l’esperienza dell’oratorio di Stradella». giornata. Ma anche mamme e papà si sono resi disponibili per il buon andamento dell’evento. Anche questa efficiente collaborazione è stata , secondo me, motivo di gioia: è bello e fa bene anche a noi giovani vedere tante persone che si danno da fare insieme per una finalità condivisa, da l’idea di un paese unito e vivo». Come mai si è deciso di organizzare un evento del genere a Santa Maria della Versa, dove l’oratorio manca da più di 20 anni? «L’idea di far ospitare Mondoratori 2019 a Santa Maria della Versa è stata di Don Cristiano Orezzi dell’Oratorio di Stradella e responsabile della Pastorale giovanile della diocesi. I primi contatti sono stati presi nell’autunno scorso con il parroco don Bruno Scanarotti e con il sindaco Ordali che hanno accolto con gioia l’iniziativa dando la loro piena disponibilità. Manca l’oratorio, ma non mancano i bambini e i ragazzi con la voglia di stare insieme e di fare esperienza di cose belle e buone. Un esempio è la partecipazione ai campi estivi a Brusson presso la Casa Alpina della diocesi che la parrocchia di S. Maria della Versa organizza da diversi anni. La partecipazione a questa iniziativa è molto sentita, numerosissimi, infatti, sono i bambini e i ragazzi del paese e della Valle Versa che con entusiasmo e gioia trascorrono e vivono un’esperienza formativa significativa. è una vacanza che i ragazzi aspettano da un anno all’altro, è una settimana ricca di giochi, di svaghi, di passeggiate sulle bellissime montagne della Val D’Aosta, di lavori di gruppo, di condivisione, di amicizia e di crescita umana e spirituale, ogni anno abbiamo sempre la visita di don Bruno che, fin dal mattino presto, condivide con noi un’intera giornata, felice di vedere tanti bambini e ragazzi contenti per la bella esperienza che stanno vivendo. Il campo estivo di Brusson viene sempre condiviso con i ragazzi di Stradella e con don Cristiano, e questo fa da collante per la partecipazione, una volta tornati a casa, all’oratorio di Stradella, specialmente per i ragazzi adolescenti. Io stessa ho trovato nell’oratorio tutto quello che una ragazzi-
na di quindici anni poteva cercare, amici, affetto e risposte a tante domande. Lì sono cresciuta e forse un po’ cambiata e maturata. Ecco perchè sarebbe molto bello e utile avviare in paese un oratorio parrocchiale, centro di aggregazione, di gioco, di formazione educativa e di prevenzione al disagio giovanile, dove tanti bambini e ragazzi, non solo del paese, ma dalle colline limitrofe, possano trovare uno spazio educativo per stare insieme e sperimentare, con la guida di educatori, occasioni di svago e di crescita». Quando Don Bruno è arrivato l’oratorio non era più funzionante. Il suo appello iniziale per la riapertura era finito nel nulla: cosa vi fa pensare che sia il momento giusto? «Pensiamo che sia il momento giusto perché oggi c’è un gruppo di ragazzi che è interessato alla riapertura e alla gestione della struttura. In passato, sebbene ci sia stata la volontà del Parroco, non si è realizzato. Ora i tempi potrebbero essere favorevoli, gli anni che io e altri ragazzi del paese abbiamo trascorso e trascorriamo presso l’oratorio di Stradella ci hanno fatto vivere sulla pelle l’importanza di avere un riferimento dove crescere, fare esperienza dello stare insieme in un contesto formativo che ha a cuore la crescita integrale di ogni ragazzo. Don Cristiano ne ha parlato a don Bruno che ha favorevolmente accolto la proposta. Anche il Vescovo, quando è stato in paese per la visita pastorale e ha incontrato noi giovani che facciamo parte anche della Proloco locale, ci ha fatto riflettere sull’importanza dello stare insieme con finalità mirate a creare comunità e a contrastare le tante solitudini sempre più presenti anche nelle nostre realtà locali». Chi si occuperà della gestione? «Potrei occuparmene io insieme ad altri ragazzi di Santa Maria che hanno vissuto come me l’esperienza dell’oratorio di Stradella». La popolazione come ha appreso questa decisione? «Siamo ancora in una fase di progettazione, quando questo nostro desiderio di rida-
Linda Vegezzi, volontaria dell’oratorio di Stradella
re vita all’oratorio potrà concretizzarsi lo comunicheremo a tutte le famiglie. Penso che l’iniziativa possa essere accolta bene da tutti, soprattutto dalle famiglie che potranno trovare nell’oratorio un ambiente educativo e formativo dove i loro figli potranno soddisfare l’esigenza dello stare tra pari e dove potranno trascorrere il tempo libero». E l’amministrazione comunale? «La nuova amministrazione, guidata dal giovane e neo sindaco Stefano Riccardi, è favorevole alla riapertura e speriamo che possa darci una grossa mano per poter portare avanti il nostro progetto». In questi vent’anni molti giovani di Santa Maria si sono rivolti all’oratorio di Stradella. Pensate di poter avere un buon bacino per garantirne un funzionamento costante? «Sì, i numeri ci sono. Dobbiamo tener conto che Santa Maria della Versa ha un bacino di utenza giovanile piuttosto grande, tra scuola primaria e secondaria di primo grado ogni giorno più di 200 ragazzi vivono il paese. Anche per i Sacramenti dell’iniziazione cristiana la Parrocchia accoglie e accompagna numerosi bambini e ragazzi non solo del paese, ma anche di parrocchie limitrofe il cui parroco è sempre don Bruno». Qual è il vostro progetto iniziale? E che tempistica vi siete imposti? «Innanzitutto bisogna sistemare gli spazi abbandonati da anni. Successivamente l’idea è di dividere i ragazzi in gruppi in base all’età in modo da poter calibrare le attività e le proposte formative che verranno presentate. Pensiamo di riuscirci entro il 2020. L’evento di Mondoratori è stato per me fantastico, vedere tanti oratori, più di mille bambini e ragazzi sfilare e giocare nel mio paese è stato più che emozionante, indescrivibile! E lo sarà ancora di più quando vedrò ragazzi e bambini in oratorio a Santa Maria...». di Manuele Riccardi
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MONTECALVO VERSIGGIA
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Mrs Patty, il nuovo centro toelettatura porta a porta Ormai chiunque abbia un animale domestico, si sa, farebbe qualsiasi cosa per coccolarlo, e la toelettatura è una di queste cose. In Oltrepò sono molti i centri di lavaggio per animali, innumerevoli negozi che offrono tutti lo stesso servizio, ma quello che fanno Debora e Morena Marzani è diverso: grazie al loro furgone, partendo dalla Michelazza, frazione di Montecalvo Versiggia, possono recarsi direttamente a casa dei clienti per offrire le migliori tecnologie per la pulizia dei vostri amici a quattro zampe. Cos’è Mrs. Patty? «Mrs Patty è un servizio innovativo di toelettatura per animali che da la possibilità a tutti i nostri amici a quattro zampe di essere raggiunti direttamente a casa loro. Il nostro tecnologico furgone, munito di ogni attrezzatura necessaria alla più moderna toelettatura, ci permette di raggiungere chiunque direttamente nella propria abitazione, per poter fornire i nostri servizi nella maniera più comoda per il cliente». Quando nasce e come l’idea di creare una toelettatura per animali a domicilio? «L’idea di Mrs. Patty nasce ovviamente dal nostro amore per gli animali (siamo infatti cresciute con la presenza costante di animali in casa, che ancora oggi condividono con noi lo spazio domestico), ma anche dal fatto che ogni volta che dovevamo portarli al negozio di toelettatura dovevamo assentarci da lavoro per mezza giornata e ci ritenevamo fortunate al pensiero che non tutti possono permettersi di gestire in maniera autonoma il proprio tempo. L’idea è nata da sé: creare un mezzo in grado di fornire la professionalità di una toelettatura standard, fornendo in più servizio a domicilio, in maniera da non dover nemmeno caricare l’animale in macchina e portarlo fino al negozio. Abbiamo allora iniziato a informarci su come realizzare quella che fino ad allora era soltanto un’idea». Voi avete anche un altro lavoro, come farete a mantenere entrambi? «Sì, siamo due assicuratrici, ma per fortuna il nostro lavoro ci permette di poter gestire in maniera autonoma gli impegni e quindi portare avanti entrambe le cose. Ci basterà organizzare al meglio il nostro tempo e le nostre attività». Il mondo della toelettatura per animali è nato abbastanza recentemente e forse non si conosce bene il percorso da dover intraprendere per poter ottenere gli attestati necessari: avete seguito un corso? Come era strutturato? «Assolutamente sì, noi abbiamo fatto un corso, anche se non è in realtà obbligatorio. In Italia infatti, purtroppo, la figura del toelettatore non è ancora riconosciuta
e questo a volte rischia di “rovinare” la figura, che come noi anche altri ricoprono, del toelettatore professionista. Il corso che abbiamo svolto era suddiviso in due parti, base e avanzato, e ha una durata minima di tre mesi; poi esistono specializzazioni sulle varie razze canine. Noi abbiamo entrambe conseguito anche il corso avanzato e ci stiamo specializzando su alcune razze». Esistono enti che promuovono questo genere di formazione? «No, noi personalmente abbiamo avuto molta difficoltà a trovare il corso che soddisfacesse le nostre esigenze e per trovarlo siamo dovute andare a Lodi, dove offrivano una fascia oraria che ci permettesse di rispettare i nostri impegni lavorativi». Quali servizi fornite voi e che possono mancare in una normale toelettatura? «Sicuramente il servizio a domicilio. Il nostro furgone è completo di qualsiasi cosa sia necessaria al nostro lavoro; in più pensiamo aggiungere anche altre attrezzature strada facendo, a seconda delle esigenze dei vari clienti che si affideranno a noi. Inoltre non ci occupiamo solo di toelettatura, ma anche di dog-sitting». Il vostro coloratissimo camioncino sembra essere fornito di ogni genere di strumento necessario alla toelettatura, come siete riuscite ad ottenerlo? Esistono ditte specializzate? «Abbiamo dovuto fare delle ricerche molto ampie per trovare un allestitore che riuscisse a realizzare un furgone esattamente come lo sognavamo. L’azienda alla quale ci siamo affidate è piuttosto dislocata rispetto alla nostra zona, ma non ne esistono altre nei dintorni. Sono riusciti a realizzare, in base alle nostre esigenze, un allestimento che è risultato essere innovativo anche per loro, che operano in questo settore da tanti anni». In che zona pensate di concentrare il vostro lavoro? Pensate che l’Oltrepò sia una zona adatta in cui lavorare? «Per il momento abbiamo iniziato a lavorare proprio qui in Oltrepò, dove abbiamo ricevuto le prime richieste. Inizialmente pensavamo che avremmo dovuto quasi sempre spostarci nelle città limitrofe (Pavia e Piacenza), che è comunque una cosa che intendiamo fare, ampliando il nostro range, ma siamo felici soprattutto di lavorare qui fra le persone che ci conoscono. In ogni caso, non ci poniamo limiti». Avete detto che col tempo cercherete di aggiungere altri servizi alla vostra attività, a cosa vi riferite? «La nostra idea è quella di cercare con-
tinuamente di aggiornarci, sia dal punto di vista teorico che pratico. La prima cosa che faremo sarà quella di fornirci di un macchinario adibito all’ablazione del tartaro per gli animali, senza che sia necessaria l’anestesia; in questo modo potremo fare direttamente noi la pulizia dei denti al vostro animale, senza dover andare da un veterinario e ovviamente a un costo diffe-
«Ogni
volta che dovevamo andare al negozio per lavare i cani, ci assentavamo dal lavoro per mezza giornata, da qui l’idea»
rente. Lo avremo nei prossimi mesi. Un altro dei nostri impegni sarà ad ottobre, quando ci recheremo ad un corso specifico inerente il wedding dog sitter: saremo liete di accompagnare i vostri amici a 4 zampe nel giorno più importante della vostra vita». di Elisabetta Gallarati
SPORT
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«In questo territorio manca il senso del sacrificio»
Roberto Garbin, con alcuni allievi del suo circolo tennis
Roberto Garbin, classe 1944, ha la passione per il Tennis nel sangue. Milanese di nascita, madre di professione custode dei campi da Tennis, ha imparato a giocare in tenera età. A 14 anni ha iniziato a disputare i primi tornei e a 20 ha acquisito la qualifica di maestro. Ha disputato tornei contro Adriano Panatta, Paolo Bertolucci e ha allenato la campionessa nazionale Annamaria Nasuelli. Il Tennis Club Garbin, inaugurato nel 2009 nel comune di Voghera vicino al
confine con Rivanazzano Terme, propone scuola di avviamento Tennis (SAT) per bambini dai 4 ai 12 anni, lezioni di gruppo per bambini (principianti), lezioni di gruppo per bambini ( principianti e non), lezioni individuali per adulti e bambini. La struttura offre anche la possibilità di partecipare a tornei individuali e di squadra. Maestro, quando è nato il Tennis Club Garbin? «Il Tennis Club Garbin è stato fondato 10 anni fa, dalla mia grande passione per que-
sto sport». Com’è composto l’organico? «A livello amministrativo siamo io, la mia compagna e Jacopo Pasturenzi. A livello operativo: io, Andrea Lirio e Patrizia Cogo». Come si sviluppano le lezioni, a livello di contenuti e frequenza? «La frequenza dipende dalla singola persona, il contenuto delle lezioni varia in base al livello iniziale posseduto». Il Tennis ha una percentuale di iscritti a prevalenza maschile o femminile? «Abbiamo un numero maggiore di giocatori uomini». è uno sport adatto anche ai bambini? Se sì, qual è l’età migliore per iniziare? «Sì. L’età migliore per iniziare è attorno ai 4 anni». Come si riconosce un talento? Secondo lei, nella scuola, ci sono allievi che potrebbero emergere? «La bravura del Maestro risiede nella capacità di riconoscere nel bambino ciò che non si insegna, cioè la predisposizione di base. Al momento non abbiamo ancora raggiunto una cerchia di allievi emergenti, in quanto abbiamo inaugurato la scuola SAT da poco». C’è qualcuno tra i suoi allievi passati, che ha poi raggiunto alti livelli? «Sì. Ad esempio Luca Bottazzi, arrivato in prima categoria». Lei ha cresciuto due generazioni di tennisti oltrepadani ed è conosciuto per la disciplina ferrea. A che modelli si ispira e perché? «Non mi ispiro ad alcun modello particolare. Il bambino deve imparare la disciplina, che è il requisito base richiesto per ogni sport». Come vede proiettata in futuro questa
disciplina, sia a livello locale che nazionale? «A livello nazionale bene. A livello locale no, in questa zona manca il senso del sacrificio. Io ho scoperto e allenato degli allievi di seconda categoria, che a Milano sarebbero stati da Prima». Avete rapporti con l’amministrazione comunale? «No, il Comune non ci aiuta…». In che modo vi finanziate? Sponsor? «Non abbiamo sponsor, per questo facciamo molta fatica a finanziarci, anche a causa dell’alta concorrenza sul territorio». Organizzate delle attività collaterali all’interno del Circolo? «Sì, collaboriamo con un centro benessere, proponendo trattamenti per gli sportivi». Organizzate iniziative di promozione presso gli istituti scolastici vogheresi? «Sì, vorremmo. Per ora, abbiamo collaborato con l’Istituto Paritario Suore Benedettine. Vedremo in futuro…». di Federica Croce
Roberto Garbin ha insegnato tennis a due enerazioni: «La disciplina è fondamentale nello sport»
SPORT
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«Io, campione di body building grazie all’incredibile Hulk» Continua la carrellata di sportivi oltrepadani illustri: Diego Martines, 53 anni di Rivanazzano Terme, è campione mondiale di body building 2018. Quattro volte Mister Universo, nel suo curriculum vanta la vittoria ai campionati regionali e nazionali ita-lidani e Europei. Nei progetti futuri, la partecipazione a Ottobre a un’importante gara che si terrà in Inghilterra, una finale alla quale prenderanno parte 700 atleti: dopodiché, sarà il turno dei Mondiali. Il rivanazzanese, che ha iniziato a praticare questo sport dall’età di sedici anni, ripone il segreto del suo successo nell’alimentazione, che «dev’essere bilanciata nel modo corretto, privilegiando l’apporto proteico a discapito degli zuccheri». Al momento fa parte di una Federazione inglese e disputa gare a livello internazionale. Martines, a che età ha iniziato a praticare body building e cosa l’ha spinta ad avvicinarsi a questo sport? «Ho iniziato a sedici anni, affascinato dal telefilm dell’Incredibile Hulk. Purtroppo ai tempi non vi erano palestre come oggi, quindi mi adattavo ad allenarmi con l’ausilio di due spranghe di ferro, in un locale gentilmente concesso da amici. La prima gara la disputai a diciotto anni, fu un campionato regionale a Milano. Da quel momento iniziai seriamente a praticare questo sport». Fa parte di una federazione? Se sì, quanti iscritti conta? «Ho fatto parte di varie federazioni. Attualmente sono iscritto a una federazione in-glese, che conta 600 atleti a gara. In Italia è uno sport molto costoso». A che età è consigliabile avvicinarsi al body building? «Anche da piccoli, in quanto la ginnastica che viene praticata è adatta ad ogni età, so-litamente consiglio di iniziare verso i 10-11 anni; ovviamente il livello di esercizio va rapportato a seconda della fase di sviluppo. Per questo è consigliabile farsi seguire da un personal trainer». È una disciplina costosa? «Sì, diventa costosa se praticata ad alti livelli. L’alimentazione e l’uso degli integratori alimentari è a carico dell’atleta». Quante ore è necessario dedicare all’allenamento? «Io non mi alleno più di un’ora al giorno, 4/5 volte a settimana». Esistono dei prerequisiti fisici richiesti? «Diciamo che la genetica aiuta tanto.. se hai una certa predisposizione, parti avvantaggiato». Bisogna seguire una dieta particolare per poter arrivare in alto? «Direi di sì. La dieta è il 70% del risultato finale. è necessaria una strategia alimentare personalizzata. è consigliabile ridurre gli zuccheri e apportare una certa quantità di proteine, che variano a seconda del
Due volte campione mondiale. Quattro volte Mister Universo. Il suo idolo è Lou Ferrigno: «La soddisfazione è battere i trentenni» peso». Quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato? «Mi ritengo abbastanza fortunato perché rispondo ancora bene agli sforzi fisici. Spesso è necessario un periodo di riposo che aiuti a far riprendere l’organismo». Il body building ha una percentuale di iscritti a prevalenza maschile o femminile? «Circa 50 e 50… le percentuali si equivalgono». Che gare ha disputato, a livello nazionale e internazionale? Qual è il ricordo al quale tiene di più? «Le gare nazionali le ho vinte 7-8 volte. Attualmente disputo solo gare internazionali, da professionista. Le posso dire che tutte le gare mi hanno lasciato qualcosa di bello, ma la mia già grande soddisfazione è riuscire a vincere a 50 anni contro i trentenni». Che titoli ha vinto? «Ho vinto campionati regionali e nazionali italiani, fino agli Europei; i Mondiali due volte, Mister Universo quattro volte. Ora sto partecipando a gare internazionali che racchiudono i migliori atleti provenienti da varie federazioni. Ci sono due categorie: under e over 90 kg. Io mi ritrovo a gareggiare con gli under 90; anche se peso 77 kg, riesco ancora a raggiungere buoni risultati». A quali prossime gare parteciperà? «A Ottobre parteciperò alla gara più importante in Inghilterra, una finale alla quale prenderanno parte 700 atleti.. dopo ci saranno i Mondiali..». Ha mai avuto occasione di incontrare Arnold Schwarzenegger? «No, non l’ho mai incontrato. Però ho conosciuto Lou Ferrigno (protagonista del telefilm L’Incredibile Hulk ndr), che per me è un grande idolo». Qual è la media degli spettatori che segue questo Sport? «Ogni atleta ha il suo pubblico famigliare. Diciamo che questo Sport è molto seguito negli USA, in Italia prevale l’interesse economico». Cosa consiglierebbe a un giovane ra-
Diego Martines, 53 anni di Rivanazzano Terme
gazzo che vorrebbe avvicinarsi al body building? «Gli consiglierei di prestare attenzione alle scelte che fa e di allenarsi nel modo corretto, perché è uno Sport che dà grandi soddisfazioni, se svolto ad alti livelli». Sponsor? «Ho avuto vari sponsor, ad esempio Panatta Sport e un’azienda di integratori alimentari». Chi, secondo lei, rappresenta un modello da seguire? «Io potrei dire di essere uno di questi, perché pratico body building da tantissimi anni, ho ancora una buona forma fisica e raggiungo degli ottimi risultati». Come vede proiettato il body building a livello locale e nazionale? «Molto male. In Italia questo sport non è molto sentito e non c’è meritocrazia, sono privilegiati coloro che hanno grandi pos-
sibilità economiche: sono tante, infatti, le gare a cui è possibile partecipare e vincere semplicemente versando grandi somme di denaro alle Federazioni. Questo non succede in Inghilterra o negli USA». di Federica Croce
«In Italia poca meritocrazia. Per vincere basta versare grandi somme alle Federazioni»
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Broni, la scultura “morfosonora” di Aris Marakis Un giovane artista originario dell’Oltrepò, Aris Marakis, si sta facendo notare in tutta Italia per le sue originali opere scultoree, definite dall’artista “primitiviste”, brutaliste e sperimentali”. Dopo alcune mostre ospitate fra alcuni dei più importanti eventi artistici di Milano, esce il “Catalogo Ragionato delle Opere”, un volume che racchiude tutte le sue esperienze, accompagnate e descritte da alcuni saggi sull’artista. Chi è Aris Marakis? Qual è stato il suo percorso? «Sono nato a Broni nel 1989 da madre italiana e padre greco. Mi sono diplomato in Disegno di architettura e arredamento a Pavia e ho conseguito la laurea specialistica in Scultura, magna cum laude, all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, con l’opera Icoglipto. Nel 2015 candidai Icoglipto al concorso di arti visive Milano Città Mondo, vincendo il primo premio. Esposi alla mostra collettiva Arte da Mangiare al Palazzo delle Stelline di Milano. In occasione di Expo2015 partecipai al contest: Who Art You? e al progetto: Artisti in Opera a Milano. Ho lavorato col gruppo Cold Discussions. Nel 2016 sono stato selezionato da NOLAB per esporre alla WE Gallery di Berlino. A giugno dello stesso anno realizzai un’installazione nel parco di sculture di Milano-Nosedo per Depurart Lab Gallery. Partecipai anche alla mostra internazionale del Premio Arte Laguna 2017, all’Arsenale di Venezia. Durante l’estate del 2017 ho esposto in diverse mostre». Quali sono state le mostre più recenti? «Le ultime esposizioni collettive a cui ho partecipato sono state la mostra Contempora Langobardorum, ospitata nelle sale dei Musei Civici del Castello Visconteo di Pavia e la mostra Around & About, tenutasi presso la torre di Bazeos sull’isola di Nasso. Nel mese di luglio del 2018 ho esposto diverse opere allo Studio Museo Francesco Messina. La casa Museo Boschi Di Stefano ha accolto infine una performance di Icoglipto il 26 luglio 2018. Alla continua ricerca dell’unione tra scul-
Aris Marakis
tura e suono, i miei lavori sono fortemente influenzati dalle mie radici italo-greche. Le mie opere interattive e partecipative producono un suono che è inverato dall’indissolubile rapporto tra forma e vibrazione acustica (arte morfosonora). Questi lavori sono stati definiti vasofoni, ovvero: vasi sonori. Attualmente vivo e lavoro tra Pavia, Milano e l’isola di Naxos (Grecia)». Quando ha capito che l’arte era la sua strada? Quando comincia a cimentarsi? «Ho capito che da grande avrei voluto fare lo scultore all’età di sei anni, quando per la prima volta, nell’isola di Naxos scolpii, nella bottega di un vasaio, un gattino in
«Affidare agli artisti i vecchi edifici dismessi, per farne studi d’arte e laboratori»
argilla. Nello stesso laboratorio, venivano realizzati dei fischietti ad acqua in terracotta che catturarono la mia attenzione. La passione e l’abilità di questo artigiano lasciarono in me un segno indelebile, riempiendomi di ammirazione». Come definirebbe la sua arte? Cos’è la scultura morfosonora? «Definirei le mie opere con tre parole chiave: primitiviste, brutaliste e sperimentali. La caratteristica fondamentale delle mie sculture “morfosonore” in terracotta è l’essere a un tempo statue e strumenti sonori. Con questo termine, da me coniato, (dal greco morphè, forma, e sonoro aggettivo che si usa per indicare un corpo capace di vibrare, producendo un suono), ho deciso di indicare un tipo di scultura che, oltre all’aspetto plastico, integri una componente sonora; ciò significa che la forma della scultura racchiude una cassa di risonanza, che produce la sua tonalità e a seconda della forma dell’incavo si genera un suono differente». Scultura morfosonora, ha da poco realizzato una mostra presso il Museo Boschi di Stefano di Milano, come è stata? Come sono articolate le sue mostre? «La mostra svoltasi l’anno scorso presso la Casa Museo Boschi Di Stefano consisteva
in una performance, ovvero un’esibizione con una delle mie opere dal titolo Icoglipto. Si tratta di una sorta di organo a mantice azionato dall’artista, che premendo sui pedali convoglia l’aria entro un complesso sistema di valvole e tubi, azionati dalla tastiera di una fisarmonica. L’aria è spinta nelle fistule che vanno ad azionare delle testine in terracotta sistemate su pilastri di legno. Ogni testa ha la forma di un animale e produce un suono diverso, l’intero meccanismo si ispira alle teorie di un medievista, Marius Schneider».
«In Oltrepò le poche emergenze di interesse artistico giacciono nell’oblio e per nulla valorizzate»
ARTE & CULTURA Cos’è il “Catalogo Ragionato delle Opere” che ha presentato il mese scorso? Non sembra essere un semplice catalogo di presentazione delle sue sculture. «Il catalogo ragionato delle mie opere è nato dall’esigenza di documentare la mia ricerca sperimentale sulla scultura morfosonora, ormai decennale. È stato curato da Mauro Di Vito e contiene saggi di diversi autori che approfondiscono aspetti delle mie sculture, mettendoli in relazione con usi e pensiero di altre popolazioni (i vasi cinesi Xun, l’abitudine giapponese di ricongiungere con lacca dorata i frammenti di una ceramica rotta, il kintsugi, la filosofia dello spirito nell’arte di Pavel Florenskij, il Paradiso di Dante, ecc…). Si tratta di un libro d’artista, pubblicato in cento copie numerate, rilegato e decorato a mano da me, con l’antica tecnica della carta marmorizzata». Ha mai realizzato mostre in Oltrepò? «L’Oltrepò è la mia terra materna e il forte legame che ho con essa non è solo simbolico, ma anche materiale: infatti molta dell’argilla che uso per le mie sculture la raccolgo proprio in Oltrepò, dove un tempo le fornaci erano un importante cardine dell’economia nazionale. Ho partecipato a quattro mostre, di cui tre personali: all’associazione Culturale Costa del Rile a Retorbido, a Villa Racagni, a Torrazza Coste, al Castello Beccaria e al Centro Artistico Culturale Contardo Barbieri a Broni. Sto lavorando all’organizzazione di una quinta mostra, sulla quale però non posso anticipare ancora nulla». Ultimamente si sente sempre più parla-
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«Molta dell’argilla che uso per le mie sculture la raccolgo proprio in Oltrepò, dove un tempo le fornaci erano un importante cardine dell’economia nazionale re di arte nella nostra zona, pensa che ci sia una specie di risveglio artistico in atto o che si tratti di rare eccezioni? «L’Oltrepò è una terra che, culturalmente, soffre della magnetica vicinanza con Milano. Potrebbe essere in atto un risveglio dal punto di vista artistico, ma a mio avviso questa presa di coscienza è ancora esigua rispetto a quanto si potrebbe fare e andrebbe fatto. Vorrei ricordare che diversi paesi, grazie agli artisti, sono divenuti famosi e hanno beneficiato di un turismo colto e raffinato. Anche se in realtà il nostro territorio non è artisticamente ricco come la famigerata Toscana, almeno paesaggisticamente, non ha nulla da invidiare al Chianti, inoltre
non soffre di invasioni turistiche di massa. Le poche emergenze d’interesse storico artistico giacciono nell’oblio e non sono per nulla valorizzate, si pensi alle Muse affrescate dal Bramantino nel Castello di Voghera: un capolavoro pressoché sconosciuto. Per questa ragione l’intervento dei privati, in alcuni casi, è fondamentale per la rinascita, penso ad esempio al caso virtuoso del Castello Beccaria a Montebello della Battaglia, che si configura come un cantiere di restauro d’eccellenza, nella zona. Vi sono invece casi di degrado e semi abbandono come quello di Palazzo Nocca, a Barbianello: nell’Ottocento fu acquistato da un alchimista, parente del direttore dell’Orto Botanico di Pavia e amico di artisti come Tranquillo Cremona e Carlo Dossi, e fu trasformato in un Palazzo Signorile con un giardino romantico: parco all’inglese, grotte, lago e torri. Oggi, benché l’Università di Firenze abbia pubblicato una proposta di restauro, l’intero complesso, una vera e propria perla sia per il palazzo che per la storia dei giardini, giace quasi in uno stato di fatiscenza. L’attitudine nei confronti dell’arte in Oltrepò soffre sia di un mancato campanilismo, sia dell’incuria in cui spesso versano i pochi monumenti presenti sul territorio. Soprattutto nelle generazioni più giovani, che dovrebbero invece essere state educate all’amore per la propria terra, manca questo sentimento per la patria, ed è assai difficile che gli animi trovino una sensibilità per l’arte contemporanea, che, essendo ancora viva e parte di un contesto ben più
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dinamico rispetto a quello dei monumenti storici, è ancora più difficile da apprezzare». Cosa ne pensa delle amministrazioni comunali dell’Oltrepò, pensa che si potrebbe fare di più per aiutare giovani e meno giovani artisti della nostra zona ad emergere? Pensa che manchi qualcosa? «Il panorama degli eventi culturali in Oltrepò, soprattutto per ciò che riguarda la pittura e la scultura è abbastanza povero di eventi. Questo non dipende soltanto dalla mancanza di occasioni per gli artisti, ma anche e soprattutto dall’impermeabilità delle istituzioni a collaborare e mostrare apertura alle proposte degli artisti stessi. La crisi non aiuta. Le poche iniziative che si riescono a organizzare sono spesso comunicate male. Un vero peccato poiché la vicinanza con Milano potrebbe portare numerosi turisti. È necessario investire, ma i fondi sono sempre meno. Eppure non mancano le intelligenze e i tentativi di creare qualcosa che superi la sagra o la rievocazione. Da un altro punto di vista però il bello della provincia è il suo isolamento, il suo essere in ritardo, perché conserva più gelosamente le sue tradizioni. Forse si potrebbe fare in modo di concedere più spazi agli artisti, per esempio affidandogli vecchi edifici dismessi del nostro territorio, che poco a poco si potrebbero ristrutturare e trasformare in studi d’arte, laboratori fino a creare veri e propri sistemi di botteghe». di Elisabetta Gallarati
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«Ho inventato un omicidio per raccontare i miei ricordi» Un giallo per riportare a galla ricordi e storie di una Salice che non c’è più. Mirella “Lella” Ferrari, vogherese che per 15 anni è stata receptionist dell’Hotel Terme di Salice, ha appena dato alle stampe il suo primo libro che proprio della ex struttura porta il nome: “Omicidio al Nuovo Hotel Terme”. Oggi vive sul Lago di Como con la famiglia, ma Salice non l’ha mai dimenticata. E la notizia della chiusura delle Terme le ha dato il la… Ferrari, quando e come le è venuta l’idea di scrivere questo libro? «L’idea è nata nel momento in cui, sfogliando le pagine di facebook, mi colpì un post riguardante la chiusura delle “Terme di Salice”. Fui molto dispiaciuta, è una grande perdita per il nostro territorio!» Perché inventarsi un omicidio? «Mi sono immedesimata nel lettore ed ho pensato che potesse essere più interessante rendere la lettura intrigante attraverso il “mistero” e un po’ di “suspance” che non semplicemente proponendo un libro di ricordi…poi adoro i Gialli e, come ho detto in modo scherzoso alla presentazione del libro, da ragazzina guardavo le Charlie’s Angels!». Che ricordi ha di Salice? «La ricordo in “fibrillazione”. Io ho cominciato al Nuovo Hotel Terme quando ancora era gestito dal signor Arancio (proprietario anche del Park Hotel, del Salus, del Genova e di Villa Luisa) e ricordo che tra le tante mutue, la più importante, quella con l’Inps, muoveva flotte di persone aventi diritto non solo ad un ciclo di cure termali (6+6) ma anche ad un soggiorno di due settimane presso hotels e addirittura al rimborso delle “spese di viaggio”». Poi l’antifona è cambiata, però. Lei da dentro se ne era accorta? «Man mano l’Inps cominciò a stringere la corda prima annullando le spese di viaggio e successivamente mandando sempre meno gente. Già allora avevo pensato bisognasse fare qualcosa per il futuro, magari investendo in strutture per attirare il Privato (coloro cioè che pagavano per questi servizi) ma si sa, un conto è pensarlo ed un conto è farlo (pensare non costa niente)». Cosa le ha insegnato quella esperienza lavorativa? «è un lavoro pesante perché sei a contatto con ogni tipo di persona ognuna con personalità, carattere ed esigenze diverse, ma se sei un attento osservatore e lo fai con passione, hai la possibilità di crescere molto ed anche divertirti. è un peccato che i giovani d’ oggi non abbiano più voglia di fare questi mestieri, solo perché lavorano durante i giorni di festa o magari alla sera. Dovrebbero ricominciare a considerare il lavoro non solo come mezzo di sopravvivenza ma anche come occasione di cre-
Lella Ferrari, ex receptionist del Nuovo Hotel Terme, rievoca la sua esperienza in un libro scita, non hanno idea di quanto si possa imparare. Questo purtroppo è diventato un settore (e lo dico con cognizione di causa dato che con mio marito ho dei locali a contatto col pubblico) dove nessuno vuole più lavorare e dove le persone diventano sempre più esigenti non accorgendosi che magari c’è solo un cameriere che sta servendo 40 tavoli per volta semplicemente perché non si trova personale. Vorrei approfittare di questa occasione per dire che la barzelletta che non si trova lavoro la lasciamo raccontare a chi vuole crederci. Il lavoro c’è soprattutto in questo settore. Io ho sempre lavorato il sabato, la domenica, Pasqua, Pasquetta, Ferragosto… e sono ancora viva». Ritorna spesso a Salice? «Appena posso torno a Voghera dove vivono mamma, papà, mia sorella e mio nipote. A Salice manco da quasi 20 anni a parte qualche sporadica scappata per salutare i miei amici». Come l’ha trovata? «Come dicevo, manco da quasi 20 anni e non ho davvero idea di cosa possa essere successo nel frattempo o le dinamiche che hanno contribuito alla chiusura delle Terme. Ci sono passata il weekend scorso e non posso dire di aver trovato una Salice decadente, sarei bugiarda. Sì, l’indotto termale è finito, quindi immagino che non sia di sicuro facile gestire gli Hotels per esempio. Quelli che sono ancora aperti dimostrano di saper lavorare, perché sopravvivere senza le Terme, ma immagino non sia per niente facile». Del Parco e dei locali che ci dice? «Ho visto che il Parco è tenuto bene ed è pulito e che le strutture per i giovani esistono e sono davvero belle. Prendo l’esempio del Lido (dove ho immaginato il cadavere del cuoco del libro che ricordavo con cespugli e con la classica piscina rettangolare con sdraio intorno) diventato un posto meraviglioso degno dei migliori villaggi turistici, ma di questo non me ne sono stupita dato che la struttura è gestita da una famiglia che ha sempre lavorato nel settore e che ha sempre saputo essere all’avanguardia. Immagino che la “movi-
Mirella “Lella” Ferrari
da” possa creare qualche disagio, ma se non ci fosse cosa ne sarebbe di Salice? Poi si sa, in tutte le cose, per qualcuno che è contento c’è n’è sempre un’altro che non lo è, non si può accontentare tutti. Sono comunque locali che fanno lavorare tanta gente e servono a far divertire tante persone». Ha nostalgia del Nuovo Hotel Terme? «Sì, certo che ne ho e credo si possa dedurre dalle cose che ho scritto nel libro. Ho parcheggiato davanti ad esso e, mentre descrivevo a mio figlio com’era, avevo le lacrime agli occhi. Fa male vederlo ridotto così». Ha avuto dei feedback dopo la presentazione del suo libro? «Ho avuto riscontri inaspettati. Si, ci speravo, ma mai avrei pensato di ricevere tanti complimenti e dimostrazioni di affetto dai miei colleghi, amici, conoscenti o persone che prima non conoscevo. Il libro ha avuto un consenso inaspettato tanto che stiamo pensando ad una ristampa, magari in settembre, perché, a parte alcuni ancora presenti in alcune edicole, l’abbiamo esaurito. Lei nel libro ha utilizzato degli pseudonimi per nascondere la vera identità di personaggi reali che ha consociuto all’epoca in cui lavorava all’hotel. Qualcuno si è riconosciuto lo stesso e l’ha presa male. Conferma? «Sì, mi sembra di aver scritto solo un aneddoto poco carino e, onestamente, lo ricordo con un sorriso, ma un piccolo sassolino me lo dovevo togliere, mi dava troppo fastidio e lo dovevo a me stessa. Dopo l’uscita del libro ci siamo confrontati con la persona in questione ed ho capito
le scuse soprattutto per il fatto che quando si è giovani è possibile inciampare, anzi si deve, l’importante è accorgersene e cercare di migliorare. Questa persona lo sta facendo, sta lavorando tanto su se stessa e le auguro il meglio dalla vita». Sta lavorando ad altri libri? «Sì, sto già lavorando su un’altra idea. Adesso mi sono presa una pausa, con sto’ caldo! Non so quale strada prenderà, il giallo è andato bene, potrei anche fare uccidere qualcun’altro! (sorride)… ma quando mi metto davanti alla tastiera, mi succede una cosa strana, le mani vanno da sole e non so, dove mi porteranno questa volta!». Il lavoro in reception le avrà sicuramente lasciato in eredità una quantità incredibile di aneddoti. Può raccontarcene qualcuno che ricorda con simpatia? «Ne ho davvero tanti, alcuni li ho descritti nel paragrafo “Salice Ridente”. Il primo che mi viene in mente adesso è quello dell’investigatore privato soprannominato da noi “Cluseau”, che leggeva nella hall il giornale al contrario ed io che vado verso di lui, glielo giro e gli dico “Stia più attento! Facendo così abbiamo già capito tutti cosa sta facendo!”. Oppure della vecchietta trasportata nella hall su di una sedia a mo’ di “Papa” perché i figli stavano parlando con noi alla reception e se l’erano dimenticata in macchina sotto il sole. Oppure ancora la volta che una vecchietta che arriva alla reception mi guarda, apre la bocca e, sotto il mio sguardo incredulo e sbigottito, si toglie la dentiera, me la porge e mi dice con le sue labbra raggrinzite: “Me la può tenere?”». di Silvia Colombini
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MUSICA
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Il “resistente” della musica varzese: «Mi piace raccontare le storie degli ultimi» Classe 1983, nato a Voghera e varzese per parte di madre, Camillo “Camo” Moroni è uno dei “resistenti” del panorama musicale indipendente oltrepadano. Ha iniziato come batterista negli Skavallo, poi dal 2007 è diventato voce e autore della band ska-punk-folk AshPipe. Da poco ha esordito con un nuovo progetto, “Bataquaerch”, che porta in scena racconti musicati della lotta partigiana in Valle Staffora. Il minimo comune denominatore è sempre quello dell’impegno politico, perché, come racconta, «mi piace dare voce alle storie degli ultimi, dei più deboli». Ha scelto di vivere e lavorare a Varzi «con orgoglio», ha scritto l’inno della squadra di calcio locale e rivendica come la sua terra non sia «solo per pifferi e fisarmoniche». “Camo”, come si avvicinavano alla musica quelli della sua generazione? «Sono cresciuto a pane e vinili fin dalla più tenera età. Alla sera mio padre mi faceva ascoltare un po’ di tutto. Di quel periodo ricordo in particolare i dischi dei Beatles e di Bruce Springsteen. Ho poi attraversato l’epoca delle musicassette e dei cd rimanendo folgorato dalla musica punk e ska». A suonare quando ha iniziato? «Sullo strumento ci sono arrivato un po’ tardi, a 17 anni. Ho iniziato suonando la batteria negli Skavallo. Ora mi sono dato al canto e negli anni ho imparato a suonare la chitarra diventando compositore della maggior parte delle musiche e dei testi degli Ashpipe e dei Bataquaerch. Mi è poi capitato di scrivere l’inno ufficiale del Varzi Calcio, “Varzi Olè”, cosa di cui vado molto fiero». Quando è nato il progetto AshPipe? «Con gli Ashpipe ci siamo formati nell’estate del 2007. L’idea venne a Jarno e Fabio che mi contattarono perché gli serviva un batterista. Di suonare la batteria però non ne avevo più voglia e così chiamammo Marco Binda alle pelli. Io mi misi a cantare con Fabio, Jarno al basso e David alla chitarra. Da lì partì un po’ tutto perché poco dopo pubblicammo il nostro primo disco». Quanti ne avete registarti ad oggi? «Abbiamo all’attivo 3 Lp e 1 Ep. Il primo disco “Waiting for wave”, uscì nel 2008 interamente autoprodotto per poi essere ristampato in Germania da una piccola etichetta tedesca con nome italiano: la “Diffidati Records”. Poi pubblicammo nel 2011 “Born Bad” per l’italiana Kob Records e la tedesca Mad Butcher. Nel 2013 l’ep, dal titolo lunghissimo: “Too Much Focused About the Current Political and Economical Situation So Let’s Talk About Ironic and Thoughtful Matters” sempre per Kob e Mad Butcher. Fino ad arrivare al 2015 con l’ultima nostra fatica che
Camillo “Camo” Moroni, sul palco con gli Ashpipe
è “Ancorati”, uscito per IndieBox. Siamo poi presenti su numerose compilation». Il vostro genere mescola ska, punk e folk. Sulla vostra pagina facebook dichiarate di fare “musica antifascista”. Qual è per voi la connessione tra musica e politica? «La musica è un potentissimo mezzo di comunicazione e spesso e volentieri ha dato voce agli ultimi e alle fasce della popolazione più deboli. è uno strumento che permette di sensibilizzare, di far sognare interi popoli e generazioni e contribuisce
ad alimentare il dibattito su grandi temi come: l’ingiustizia sociale, la lotte alle disuguaglianze, l’amore e la resistenza. Le radici del genere blues sono da ricercare tra i canti delle comunità di schiavi afroamericane. Il punk in Europa nasce da un conflitto sociale, un atto di ribellione. La musica reggae è diventata patrimonio dell’Unesco proprio per le ragioni che dicevo prima. La connessione tra politica e musica c’è sempre stata, poi possiamo discutere se un’artista o una band vuole farla in maniera più o meno esplicita. Ma
Ha scelto di vivere e lavorare a Varzi «con orgoglio», ha scritto l’inno della squadra di calcio locale e rivendica come la sua terra non sia «solo per pifferi e fisarmoniche»
quelle sono poi scelte di ognuno». Avete suonato spesso in Germania. Com’è la scena là e in che modo si differenzia da quella locale oltrepadana? «In Germania c’è fermento. Tutte le band europee vorrebbero suonare in Germania, gli Americani stessi, nei loro tour, non saltano mai la Germania. è l’approccio che è diverso. Innanzitutto la parola meritocrazia è una parola piena e la musica è presente nell’agenda di un paese che la considera come un’espressione culturale irrinunciabile. Il pubblico tedesco esce alla sera per gustarsi tutte le band in cartellone, non solo l’ultima, quella diciamo sulla carta “di più impatto”. A fine concerto vendiamo dischi, non magliette come ci capita in Italia. Accade quindi che la “casalinga di Bielefeld” abbia una cultura musicale maggiore della “casalinga di Voghera”». Italia e Germania sono state tristemente accomunate dai regimi nazifascisti. Come è vissuto l’antifascismo (in musica) dal pubblico tedesco? «Credo che in Germania sia stato fatto prima un lavoro di presa di coscienza su quello che è stato il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale. Quindi oggi l’antifascismo in musica è vissuto bene dal pubbli-
MUSICA co tedesco, con passione. C’è grande attenzione per le band italiane che trattano questi temi e per i loro testi. Faccio un esempio: molto spesso chiudiamo i nostri concerti con “Bella Ciao” perché il pubblico impazzisce cantandola assieme a noi in Italiano. Questa cosa l’abbiamo riscontrata anche in altri paesi in giro per l’Europa dove ci è capitato di suonare: Svizzera, Repubblica Ceca, Polonia, Finlandia, Croazia, etc, etc, etc. Si percepisce che all’estero Bella Ciao venga recepita in maniera corretta, come canto della libertà. In Italia purtroppo è etichettata come canzone “dei comunisti”, relegata nella nicchia, dimostrando che non abbiamo ancora capito il vero significato della parola antifascismo. Peccato». Parliamo del suo nuovo progetto, i “Bataquaerch”. Anche questo è connotato politicamente, dato che avete registrato un disco di canzoni ispirate ai racconti della Resistenza. Come è nata l’idea? «Ricordo da ragazzino le storie che mi raccontava Luigi “Gigi” Boveri, orafo di Varzi, sulla Resistenza. Il suo modo di raccontarle semplice ma al tempo stesso appassionato fecero molta presa sul sotto-
«In Oltrepò mancano cultura e intraprendenza»
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«“Bella Ciao” la cantano con noi in tutta Europa. Qui invece è solo una canzone “da comunisti”» scritto. Erano tutti racconti legati al nostro territorio, al nostro Oltrepò e all’Alta Valle Staffora. L’idea è quindi nata allo scopo di salvare quei racconti e di dar modo ad altri bambini e non di approcciarsi alla nostra storia in modo diverso: con i testi, le musiche dei Bataquaerch e le illustrazione presenti nel libretto a cura di Andrea Franzosi». Perché il nome “Bataquaerch”? «Il tutto è nato al Castello di Oramala. Ogni anno suoniamo in occasione della festa “Aspettando la Liberazione”. Carlo Schiavi, che è uno degli organizzatori, per presentarci invece che dire:”Ecco a voi gli Ashpipe”, soleva dire “Ecco a voi i Bataquaerch”. Diciamo che gli veniva più facile. Da qual momento mi sono ripromesso che se mai un domani avessi creato un nuovo progetto lo avrei chiamato Bataquerch, e così è stato. Bataquerch è un’espressione dialettale che vuol dire letteralmente “battitori di coperchi”». Che giudizio esprime sulla scena musicale d’Oltrepò?
«In Oltrepò la scena musicale ristagna. Dopo l’epopea del Thunder Road il tempo si è fermato. Non esistono spazi, locali e luoghi dedicati alla musica. Solo piccole “riserve” dove noi musicisti ogni tanto ci troviamo. In più mi sono imbattuto spesso e volentieri in gestori e impresari locali certi di conoscere i gusti musicali della gente senza la voglia di andare oltre la solita proposta fatta di cover band e piano bar. Manca cultura, intraprendenza, voglia di rompere i soliti schemi. Recentemente abbiamo suonato alla “sensia” di Schwabisch Gmund, vicino a Stoccarda. Questa cittadina può contare su circa 60mila abitanti, un po’ come Vigevano. Ebbene c’erano 5 palchi, in 5 piazze diverse e si suonava musica dal vivo di ogni tipo con band locali e estere. Nessuna delle 5 piazze era vuota. Il loro coraggio è stato premiato». A Varzi esistono diversi gruppi musicali oltre a voi che suonano o hanno suonato regolarmente in giro per l’Italia e l’Europa. Una ricchezza di cui però il ter-
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ritorio non sembra andare fiero tanto che quasi mai vi si vede esibirvi nel vostro paese natio o nei dintorni. La Valle Staffora è dunque solo terra da pifferi e fisarmoniche? «No non siamo un territorio solo di pifferi e fisarmoniche. L’Oltrepò però è una terra di confine, di contaminazioni ed è un territorio che ha sfornato e ha ottime band che vengono valorizzate all’estero. Penso ai Retarded nel punk rock, i Radio Days nel power pop, i Doctor Cyclops nel rock di matrice seventies, i Mandolin’ Brothers per il blues/country e i The Legendary Kid Combo per il rockabilly. Nemo profeta in patria?» Un paese da 3.000 anime senza neppure un bar che faccia musica dal vivo, neanche di tanto in tanto. Avete mai pensato di organizzare qualcosa voi del posto? «L’associazione “A tutta Varzi” assieme ad “Arte Musica” avevano creato il “Meridiana Music Fest”. Per due anni (2014 e 2015) si è cercato di aprire una finestra sulla musica indipendente a Varzi portando nomi come i Giuradei e il vogherese Massaroni Pianoforti. Suonammo anche noi come Ashpipe e la risposta del pubblico fu molto buona. Serve però continuità ma soprattutto la musica deve ritornare ad essere un tema centrale per fare cultura ed abbattere barriere e, al tempo stesso, rappresentare un’alternativa per giovani del territorio». di Christian Draghi