Il Periodico News - LUGLIO 2020 N°155

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La temperatura nell’Oltrepò del vino è rovente e non è il caldo meteorologico il problema

Anno 14 - N° 155 LUGLIO 2020

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Voghera, elezioni comunali “Chi sta a poppa vada a prua, chi sta sul ponte vada sottocoperta”

stradella «C’è rammarico per non aver portato a termine tutti i progetti» Primo luglio, trenta giugno. Un anno esatto è il periodo di permanenza del presidente di zona dei Lions. A parlare è stavolta Elisabetta Vercesi... Pagina 35

varzi varzi Il Piano del GAL A che punto siamo?

Negli scorsi mesi abbiamo parlato su questo giornale del Gal Oltrepò e della pioggia di contributi che si preparava ad invadere il nostro territorio. pagine 18 e 19

mezzanino Ponte Becca, il sindaco: «Non rendere Mezzanino un paese fantasma»

Il sindaco di Mezzanino, Adriano Piras ribadisce il suo impegno e quello di tutta l’amministrazione per la costruzione del Ponte.

Salice Terme, si chiama “Mezzo”, ma non è una mezza idea, è una bella idea Daniela Canepa, figlia di Romana, “mitica” padrona di casa della storica gelateria di Varzi che porta il suo nome, moglie di Fabio gestore del ristorante “Guado” a Salice Terme, da poche settimane “è arrivata” a Salice ed ha aperto un locale, proprio di fianco al ristorante del marito pagina 13

Il famoso Ammiraglio Caracciolo del Regno delle Due Sicilie, quando Re Ferdinando di Borbone andava ad ispezionare una delle navi della marina borbonica era solito dare quest’ordine ai marinai: “Chi sta a poppa vada a prua, chi sta sul ponte vada sottocoperta”. Con questo ordine voleva dimostrare, creando una confusione più o meno ordinata, il gran movimento ed il grande lavoro dei marinai del Regno delle Due Sicilie. Era un escamotage agli occhi del Re, per far vedere efficienza e lavoro. Dopo una pausa più o meno “armata” dovuta al lockdown, hanno ripreso, aumentando di giorno in giorno, le notizie, le affermazioni ed i proclami dei vari candidati aspiranti sindaci, consiglieri comunali affini e “congiunti” per la carica di primo cittadino. pagine 6 e 7

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santa Maria della versa «Un’azienda piccola dei macro-numeri non se ne fa nulla...»

Con la riapertura delle attività produttive, il mese di maggio ha fatto registrare una netta crescita delle esportazioni dal nostro pagine 36 e 37

zavattarello «Merito anche dell’azienda se il territorio non si è del tutto spopolato» A Zavattarello uno dei borghi più belli d’Italia situato a seicento metri di altezza nell’alta val Tidone, sessanta anni fa Gianesi Edilio pagina 23

COLLI VERDI “La Quercia”, compie 50 anni, terza generazione della famiglia Cardanini Il Ristorante “La Quercia” è una delle attività più longeve dell’Alta Val Tidone, località Torre degli Alberi, nel Comune di Colli Verdi. pagina 24 e 25

Se arrivano più turisti in Oltrepò è solo grazie al Covid-19 Questi mesi di lockdown, pensavo e speravo, portassero idee nuove ai vari amministratori locali, pubblici o para pubblici che si occupano di turismo o promozione del territorio, non dico idee vincenti, per carità, ma almeno idee nuove per cercare di animare e rilanciare l’Oltrepò. L’Oltrepò in questo momento ha una grande opportunità: essere veramente il “fuori porta” di Milano. I segnali sono molto incoraggianti: nelle nostre vallate, tutti, politici, pseudo tali ed addetti ai lavori, confermano che c’è una grande richiesta di seconde case da affittare e in taluni casi da acquistare... pagina 3

Pistornile tra «luci ed ombre» Il Comitato lancia l’appello Il Pistornile, il cuore di Casteggio, sta lentamente tornando agli antichi splendori. Mesi fa ci eravamo occupati della situazione drammatica in cui versava questo quartiere casteggiano. Adesso abbiamo chiesto a Pierfrancesco Fasano, presidente del Comitato del Pistornile, com’è la situazione e cosa è stato fatto. pagina 29

Broni: biometano, Teatro e Università dei Sapori, la minoranza attacca Sono giorni caldi a Broni. E no, le temperature estive non c’entrano. Si tratta, invece, di argomenti decisamente importanti che hanno fatto insorgere la minoranza del gruppo “Broni in Testa”. Abbiamo scambiato qualche chiacchiera con Giusy Vinzoni, portavoce del gruppo, che ci ha spiegato il proprio punto di vista e che dichiara: «L’ho detto che sarei stata “una spina nel fianco”...» pagina 34

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ANTONIO LA TRIPPA

LUGLIO 2020

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Se arrivano più turisti in Oltrepò è solo grazie al Covid-19 Questi mesi di lockdown, pensavo e speravo, portassero idee nuove ai vari amministratori locali, pubblici o para pubblici che si occupano di turismo o promozione del territorio, non dico idee vincenti, per carità, ma almeno idee nuove per cercare di animare e rilanciare l’Oltrepò. L’Oltrepò in questo momento ha una grande opportunità: essere veramente il “fuori porta” di Milano. I segnali sono molto incoraggianti: nelle nostre vallate, tutti, politici, pseudo tali ed addetti ai lavori, confermano che c’è una grande richiesta di seconde case da affittare e in taluni casi da acquistare, da parte di persone che vorrebbero passare il periodo estivo o più mesi dell’anno in Oltrepò. Il merito di questo non è certamente per strategie turistiche passate o presenti fatte da politici o manager del settore, “colui” che ha il merito di aver portato gente in Oltrepò, con l’auspicio che di persone ne arrivino ancora e sempre di più, è il Covid-19. Sì, il merito va ad un virus, ad una pandemia e già questo dovrebbe far riflettere, ma andiamo oltre e vediamoci “la parte buona”. Mi aspetto nelle prossime settimane e mesi, dichiarazioni roboanti (che alla luce dei fatti risultano essere senza senso e fuori luogo) di assessori o amenicoli vari che diranno: «Il nostro Comune è pieno di turisti, il turismo è uno dei motori della nostra amena e ridente località…». Sciocchezze, la realtà è un’altra: per portare gente non è stato fatto nulla prima e non si sta facendo nulla ora, la gente è arrivata causa virus. Bene… non disperiamo, ora la gente c’è, è qui, cerchiamo di farla restare e perché no di farla ritornare. Pur capendo che il momento è difficile per tutti e che le perdite economiche sono state ingenti per molte attività, mi auguro solo che questi turisti, questi nuovi arrivi, per lo più milanesi, molti dei quali potrebbero divenire stabili, non vengano trattati, come molto spesso è successo negli anni, con scarso spirito di accoglienza per usare un eufemismo. Mi auguro venga dato loro vino e salame buono a prezzi ragionevoli e soprattutto che non venga ripresa la filosofia di molti nostri vecchi che in dialetto dicevano: “I mangian ed i bevan ad tut, in capisan nient ad ven e ad salam” (mangiano e bevono di tutto, non capiscono nulla di vino e di salame). Perché se forse una volta era vero, forse… oggi è molto meno vero e quindi, se si vuole capitalizzare quello che il Covid ha donato a livello turistico all’Oltrepò, non bisogna esagerare con il vino scadente e con il salame o altri prodotti locali camuffati, bisogna dar loro vino, salame e

prodotti tipici locali buoni e ce ne sono, e tanti… e a prezzi normali, giusti. Questo se si vuole sperare che questa gente che quest’anno arriva, l’anno prossimo ritorni, al di là delle strade da Terzo Mondo che abbiamo, non aggiungiamo anche la cattiva fama di pessimi padroni di casa. Tornando alle sagre e manifestazioni di paese, mi aspettavo qualche idea nuova ed invece, se pur vero che una rondine non fa primavera, è anche vero che il buongiorno di vede dal mattino e molte amministrazioni locali sono ripartite da “fantozziani” mercatini, i famosi e tragici mercatini oltrepadani, accozzaglia di chincagliere e suppellettili spacciate per qualcosa che in realtà non sono, più o meno frequentati, sempre meno a dire il vero, (forse quest’anno di più per la voglia della gente di uscire) da gente che li percorre in lungo ed in largo guardando e comperando pochissimo. Mercatini dove si vende di tutto un po’ e niente di tutto, nulla da togliere anzi, a chi fa il proprio lavoro di ambulante e lo fa con spirito di sacrificio e anche di illusione, ma se si vuole provare a fare qualcosa di turistico con i mercatini bisognerebbe che chi li organizza scegliesse in base alla tematica che dovrebbe essere quella di promuovere i prodotti alimentari (e non solo) del territorio o di aziende dell’Oltrepò e zone attigue. Solo in questo caso i milanesi che sono arrivati qui grazie al Covid, rimarrebbero piacevolmente sorpresi e vedrebbero un mercatino diverso da quello che il mercoledì mattina (per citare un giorno qualsiasi della settimana) vedono sotto il loro condominio in un qualsiasi quartiere della periferia milanese.

Così dovrebbe essere anche per le varie feste o sagre, che pur tra mille difficoltà, dovute alle norme post covid, probabilmente verranno organizzate e che da sempre animano i paesi dell’Oltrepò. Personalmente non conosco nessuna fabbrica di wurstel o crauti in Oltrepò, pertanto perché proporli come must in ogni qualsiasi festa di paese? In Oltrepò non c’è un piatto veramente tipico ma abbiamo un mix di piatti delle 4 Regioni confinanti, proponiamo quelli, proponiamo i nostri formaggi, il nostro miele, i nostri vini, le nostre birre, perché sarà pur vero che l’Oltrepò è patria del vino ma ci sono anche diversi birrifici artigianali che producono ottimi prodotti. Non è facile, in molti dicono, molti produttori locali non sono interessati, altri affermano che le associazioni delle varie categorie guardano più fuori dall’Oltrepò che in Oltrepò, in realtà queste appaiono come scuse. Certamente i problemi ci sono e sono concreti, ma almeno nelle feste da paese, e speriamo che quest’anno qualcuna venga organizzata, bisognerebbe provare a dare una svolta e visto che la materia prima va comunque comperata, comperare e proporre solo prodotti dell’Oltrepò o prodotti fatti e/o coltivati in Oltrepò, a maggior ragione se queste manifestazioni godono di qualche contributo pubblico o para pubblico dalle varie fondazioni, sarebbe scelta coscienziosa da parte di chi eroga, anzi dovrebbe a mio giudizio erogare fondi solo ed esclusivamente se tutti i cibi offerti e nel caso dei mercatini tutti i prodotti esposti sono espressione del territorio e prodotti da aziende dell’Oltrepò. Per espressione del territorio includo an-

che quei prodotti che pur non essendo tipicamente oltrepadani vengono prodotti da aziende oltrepadane e che danno lavoro agli oltrepadani. Non è un’idea sovranista, anzi, in un mondo sempre più globale, lungi da me credere nei muri e nelle barricate, ma al contrario, a livello commerciale credo che per vendere i propri prodotti fuori zona è necessario essere molto forti in casa propria, è inutile andare a promuovere i propri prodotti in un hotel o in un mercato di Milano se poi a Santa Maria della Versa (per citare uno dei 76 Comuni dell’Oltrepò), si beve più prosecco che spumante di casa nostra. Quest’anno sarà un anno particolare per chi, associazioni o enti locali, vorranno organizzare sagre e manifestazioni, ci saranno regole che limiteranno gli afflussi e allora perché non provare, avendo meno pubblico da esaudire, a fare il salto di qualità: se non dobbiamo dare da mangiare a 2mila persone, per cui crauti e wurstel sono veloci e poco costosi, ma ad una percentuale ridotta, tagliamo un salame, cuciniamo un nostro piatto tipico, diamo da bere “bene” con un nostro vino o una nostra birra. Il Covid ci ha lasciato tanti lutti e sofferenze, ma grazie a questo “brutto” virus, in Oltrepò c’è e ci sarà più gente e più turismo. Venga sfruttata l’occasione, soprattutto da chi organizza eventi che in tutti questi anni sono stati promossi e pubblicizzati in maniera disorganizzata e confusionaria, di tutto un po’ e di questo di tutto un po’, c’era poco di Oltrepò, ma con molti soldi pubblici dell’Oltrepò. di Antonio La Trippa


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LETTERE AL DIRETTORE

LUGLIO 2020

Atti di inciviltà e vandalismo «Servono più controlli al parco di Salice» Gentile Direttore, a Salice Terme c’è un bel parco apprezzato e frequentato dalla cittadinanza e non solo. Peccato che, portandovi spesso i miei figli, vista l’inciviltà di alcuni frequentanti, si vedono in terra lattine, carte, bottiglie, ecc ... Atti di inciviltà e di vandalismo nei parchi pubblici (e non solo) sono purtroppo notizie presenti troppo spesso nelle cronache dell’Oltrepò. Mettere al bando del tutto l’inciviltà, che è segno di stupidità, è impossibile. Gli stupidi causano un danno ad altri senza trarne alcun vantaggio. La vigilanza della comunità, con qualche esemplare «ca-

stigo» pubblico per chi viene pescato, e la perseveranza nella cura degli spazi comuni da parte di tutti e in particolare di chi ne è titolare, sono alcuni dei possibili antidoti. E un parco come quello di Salice in questo senso merita ancor più cura e vigilanza. Chiederei all’amministrazione comunale di aumentare il servizio di pulizia e contestualmente prendere i giusti provvedimenti verso chi, sporcando, crea una situazione dannosa per tutti i frequentanti. Carla Mangiarotti - Broni

Enduro, «Più controlli e meno tolleranza» Egregio Direttore, nonostante il giornale da Lei diretto abbia sempre dato ampio spazio agli amanti dell’enduro, le scrivo sperando che il tema di cui parlerò sia preso in considerazione, visto che pochi ascoltano. C’è un fenomeno che in Oltrepò sta dilagando e che viene preso sottogamba: mi riferisco alla pratica dell’enduro nelle nostre colline, nei nostri boschi e nei nostri sentieri. Le nostre colline sono invase dalle moto, in particolar modo i monti dell’Alta Valle Staffora: squadriglie di motociclisti si vedono passare su per i sentieri, in barba ai divieti. Al Brallo si sentono le moto che passano, sembrano apparentemente motoseghe che tagliano

alberi, ma le motoseghe non continuano ad allontanarsi ed avvicinarsi in brevi lassi di tempo. Siamo alla frutta! Questo fenomeno è irrispettoso sia per le le nostre colline, sia per i poveri animali, sia per le persone che cercano un po’ di pace, sia per chi mantiene i sentieri. Per non parlare della pericolosità della cosa! Bisogna essere pronti a scansarsi velocemente per non essere investiti! Chiedo quindi più controlli e meno tolleranza riguardo a questo fenomeno che nel corso degli anni non ha fatto altro che aumentare sempre più. Grazie dell’attenzione. Claudio Masanta - Voghera

Assembramenti, «Sarei cauto nel puntare il dito contro i giovani, additandoli come i nuovi untori del virus...» Caro direttore, girando con mia moglie in questi ultimi fine settimana ho potuto notare assembramenti in molti locali frequentati da giovani e giovanissimi. Che i ragazzi e i giovani, soprattutto dopo alcuni mesi di confinamento, abbiamo voglia di divertirsi, di stare insieme e che, in questa loro gioia di ritrovarsi, siano pervasi da una certa dose di incoscienza e di irresponsabilità, è abbastanza normale. È sempre stato così, anche se forse, noi che giovani e ragazzi non lo siamo più da qualche tempo, tendiamo a dimenticarcelo. Non dico questo per giustificare comportamenti che sono ingiustificabili e inaccettabili. Ma perché è un dato di fatto, con cui bisogna misurarsi e fare i conti. Questo significa che se alcuni, disinvolti comportamenti non cesseranno di manifestarsi, se si continuerà a far finta che non esiste più un pericolo, sarà inevitabile introdurre ulteriori o nuove misure restrittive.

Non per volontà punitiva nei confronti di qualcuno, ma perché in gioco c’è la salute di tutti, giovani e meno giovani. Il virus, non è morto né scomparso. La sua aggressività si è certamente attenuata, ma resta un nemico temibile, pronto a ripresentarsi e a colpire, non va sottovalutato. Dopodiché, anche alla luce delle cronache di questi giorni, sarei cauto nel puntare il dito contro i giovani, additandoli come i nuovi untori del virus. Il manager dell’azienda vicentina che pur contagiato, si è rifiutato di farsi ricoverare e ha continuato come se nulla fosse, a fare vita sociale, partecipando a feste e funerali, non era un ragazzino né un adolescente. Eppure, da uomo maturo, con il suo comportamento scriteriato e criminale, ha messo a rischio la vita di altre persone. L’incoscienza e l’irresponsabilità non hanno età. Giacomo Barbieri - Voghera

«Sul Ponte della Becca dovrebbero impedire il transito ai ciclisti» Caro Direttore, da oltre 30 anni giro per lavoro tutto l’Oltrepò, conosco pressochè tutte le strade, dalle meno disastrate, poche a dir il vero, alle più disastrate, la stragrande maggioranza. Ora un punto cruciale per la viabilità è il super disastrato Ponte della Becca. Semafori, code interminabili e ciclisti... Proprio l’altro ieri una decina di ciclisti, tutti in gruppo, ignorando il semaforo hanno proseguito belli tranquilli... In altri giorni mi è capitato di vedere ciclisti che passano contromano, in alcuni casi sono al centro del Ponte a coppie o gruppetti, e non permettono alle macchine di sorpassare. Se qualche automobilista suona diventano delle iene e ti mandano a quel paese.

Contro questa mentalità, come è possibile combattere? Poi ci si meraviglia se di tanto in tanto succede un patatrac con coinvolgimento di ciclisti… Molti sono i ciclisti disciplinati, ma molti di più gli indisciplinati. è sotto gli occhi di tutti. Forse qualche sanzione reale da parte di chi sovrintende al traffico potrebbe essere educativa allo scopo... Sul Ponte della Becca dovrebbero impedire il transito ai ciclisti. Io temo sempre che capiti qualcosa di brutto e la vita ti si rovina in un attimo, perché alla fine la colpa é sempre di chi guida la macchina, questo è certo. Fabio Bolognesi - Stradella

«Il mio “grazie” a tutti i gestori di negozi del Comune di Godiasco Salice Gentile Direttore, attraverso il vostro giornale mi piace esprimere il mio “grazie” a tutti i gestori di negozi del Comune di Godiasco Salice Terme i quali, in occasione della pandemia che ha colpito anche la nostra zona, hanno messo a disposizione della popolazione la loro professionalità e la loro umanità. Avendo superato i settantacinque anni, faccio parte di quella parte della popolazione che, più di ogni altra, deve attenersi con scrupolo e attenzione alle normative imposte per evitare la diffusione del contagio e per cautelare le proprie condizioni di salute. In questo frangente che ci ha accolto impreparati e sprovveduti, rivolgo il più sentito ringraziamento a chi, altrettanto impreparato all’emergenza, ha supplito alle difficoltà con intelligenza e disponibilità, venendo incontro brillantemente alle esigenza della nostra popolazione. Ciò ha modificato radicalmente i loro ritmi di lavoro permettendo di attuare un servizio domiciliare che ha la-

sciato tutti soddisfatti. Agli esercenti, di cui sono fiera compaesana acquisita, seppur naturalizzata nel tempo, va la mia stima ed un affettuoso ringraziamento. Allo stesso modo desidero rivolgere un riconoscimento a quanti sono occupati nella grande distribuzione che, pur oberati, hanno dato il massimo di se stessi, muovendosi tuttavia all’interno di un’organizzazione con regole e ritmi più spiccatamente aziendali, non sempre vicine alle esigenze del singolo. Con la speranza che il graduale ritorno alla “normalità” possa conservare in tutti il ricordo di questa speciale unione collaborativa perpetuandola anche nei tempi futuri, porgo i miei più cordiali saluti al direttore ed ai collaboratori del giornale che mi hanno concesso lo spazio per esprimere con più ampia voce il mio sentire. Anna Parini Maiola Godiasco Salice Terme

LETTERE AL DIRETTORE

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CYRANO DE BERGERAC

LUGLIO 2020

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La temperatura nell’Oltrepò del vino è rovente e non è il caldo meteorologico il problema Il defenestrato ex presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, Luigi Gatti, il «super manager» come amava definirsi, quello che pretendeva di conciliare il suo impegno professionale in Francia con l’impegno al vertice di un consorzio diviso tra discorsi in stile franciacortino e realtà da Scampia, ha dichiarato alla stampa che sarebbero state irregolari le modalità seguite per attuare sia la mozione di sfiducia nei suoi riguardi (fatto senza precedenti nella storia dell’ente) che la contestuale elezione da parte del Cda dei suoi ex amici della neo presidentessa, Gilda Fugazza. Nessuno ha risposto. Nessuno sul territorio ha preso le difese di Gatti, al quale, nonostante tutto, non hanno nemmeno accordato la possibilità di essere guardato nelle palle degli occhi per dirgli cosa non andava nella sua azione, per chiedergli di farsi da parte, per licenziarlo da uomini e non con un colpo alle spalle. Dal canto suo Regione Lombardia, che dal 2018 ad oggi ha di fatto avuto in mano il timone del Consorzio tramite Ersaf, l’ha risolta con assoluta risolutezza: pare ci sia stata una telefonata tra l’assessore all’Agricoltura, Fabio Rolfi, e l’ex Gatti per esprimergli rincrescimento sulle modalità adottate per cacciarlo, a quanto si è capito, per assenza e inconcludenza. Alla faccia della politica forte… una telefonata di condoglianze che al pietismo non aggiunge niente. Forse bisognava aspettarsi da parte di Regione una responsabilizzazione degli azionisti forti del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, in particolare quelli che intendono il loro ruolo come un continuo brandire il bastone anziché prevalere con l’autorevolezza (per loro è tutta questione di volumi, di numeri e solo per qualcuno di centimetri). Di fronte a quanto accaduto, che è molto grave, la politica onnipresente in Oltrepò ha manifestato la sua inconsistenza. Nel frattempo cosa succede sul territorio l’ha spiegato Pierangelo Boatti di Monsupello in una recente intervista: «Siamo alla fine di giugno, alla vigilia della vendemmia 2020 che si preannuncia con prezzi in caduta libera, sotto al minimo storico. Negli ultimi anni non c’è stato limite al peggio, ma ora la situazione è da allarme rosso. È già scattata la corsa allo scaricabarile, si dà la colpa al Covid; prima era colpa di Tizio, di Caio e di Sempronio. Il virus è un altro: non è cambiato niente in Oltrepò, se non in peggio. Nessun nuovo disciplinare in linea con la realtà produttiva, nessun calo delle rese, nessun dispositivo coraggioso a tutela e salvaguardia dei mercati. Dal 2018 i produttori hanno solo visto tavoli e tavolini di confronto della Regione,

che ha di fatto assecondato chi non vuole cambiare, pur avendo cura di prodigarsi in un “porta a porta” nelle altre aziende, senza dar prova di conoscere la differenza tra “sentire” e “ascoltare”. Il piglio deciso dell’ex assessore all’Agricoltura Gianni Fava è solo un ricordo sbiadito. Pochi gruppetti hanno tratto giovamento da qualche finanziamento». E poi ancora: «La verità è brusca come l’aceto in cui rischia di trasformarsi il vino dell’Oltrepò che non si vende, che non ha canali, che non garantisce sostenibilità economica al duro lavoro della viticoltura di collina dei nostri agricoltori. Nell’Oltrepò del vino il potere è polarizzato nelle mani di chi viene votato per ordini di scuderia, con sindacati agricoli che puntano il dito contro Coldiretti ma che in generale hanno perso la parola. La politica del nuovo che avanza ha consegnato ancora di più vini sfusi nelle mani d’imbottigliatori e grandi gruppi nazionali che hanno spremuto il territorio non come un grappolo d’uva, ma come un limone». A far paura sono le anticipazioni sulle quotazioni 2020 del Pinot nero, uva re-

gina del territorio che rischia di essere pagata poco più di 40 euro al quintale; vini sfusi a 60/70 centesimi al litro nella migliore delle ipotesi; il Pinot grigio a 60 centesimi al litro. «Per i vitivinicoltori non c’è niente da mordere: sono stati usati in passato e continuano ad essere usati adesso – ha concluso Boatti -. Chi ha preso la strada della qualità e ottenuto successo con metodo e umiltà per costoro è un pazzo scatenato. Mi piacerebbe che l’Oltrepò spezzasse le catene, che il mondo cooperativo oltrepadano si federasse a partire da un parlamento vero di persone competenti e con consulenti esterni capaci. Sono convinto che all’Oltrepò serva una nuova governance consortile, cooperativa e imprenditoriale. Un ente non può nulla senza precise scelte d’impresa. A ispirare il futuro dovrebbero essere persone capaci di legare a sé il territorio su principi importanti. Bisogna produrre meno e immettere sul mercato, contingentandolo, solo il vino a denominazione che il mercato è in grado di assorbire a prezzi decenti.

È finito il tempo del produciamo tanto, vendiamo tanto. Con l’aiuto di Camera di Commercio e altri enti occorre creare una borsa del vino, che spetta alle cooperative normare per non scendere sotto la linea rossa di prezzi che rendono insostenibile fare vitivinicoltura. Con certe quotazioni non ci si pagano nemmeno le spese». A fronte di tutto questo, al momento, solo silenzio, da terra dei fuochi. Nel frattempo in Italia qualcuno che si è mosso con tempestività c’è. Su tutti i consorzi di Valpolicella, Soave, Prosecco di Valdobbiadene, Pinot Grigio delle Venezie, Brunello di Montalcino e Chianti. In Oltrepò c’è sempre tempo. Dopo scandali, falso vino, falsa uva, falsi produttori di filiera, falsa modestia e falsi mediatori che hanno fatto scomparire il golden boy da quiz… c’è da fidarsi della lungimiranza dei singoli in una zona di produzione così. In fondo meglio avere le mani libere, sempre, fino alla terza maxi inchiesta. di Cyrano De Bergerac


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POLITICA A VOGHERA

LUGLIO 2020

Elezioni comunali : “Chi sta a poppa vada a prua, chi sta sul ponte vada sottocoperta” Il famoso Ammiraglio Caracciolo del Regno delle Due Sicilie, quando Re Ferdinando di Borbone andava ad ispezionare una delle navi della marina borbonica era solito dare quest’ordine ai marinai: “Chi sta a poppa vada a prua, chi sta sul ponte vada sottocoperta”. Con questo ordine voleva dimostrare, creando una confusione più o meno ordinata, il gran movimento ed il grande lavoro dei marinai del Regno delle Due Sicilie. Era un escamotage agli occhi del Re, per far vedere efficienza e lavoro. Dopo una pausa più o meno “armata” dovuta al lockdown, hanno ripreso, aumentando di giorno in giorno, le notizie, le affermazioni ed i proclami dei vari candidati aspiranti sindaci, consiglieri comunali affini e “congiunti” per la carica di primo cittadino nel Comune di Voghera, e molti che erano a poppa sono adesso a prua e molti che erano sul ponte sono ora sottocoperta. Purtroppo il tempo è tiranno, e lo smartworking politico non sembra aver aiutato le varie fazioni a trovare un’intesa comune. Il tempo stringe, ognuno di riffa o di raffa vuole portare acqua al proprio mulino, portare avanti le proprie idee e tutti stanno cercando “un posto al sole” tra tradimenti, cambi di bandiera e come i marinai borbonici, molti di quelli che stavano

a poppa ora stanno a prua, e non è detto che tra qualche giorno o settimana si ritrovino nuovamente a poppa… Insomma, come diceva il mitico Lino Banfi nel film “Un allenatore nel pallone”, in questo momento nella politica vogherese o perlomeno quella che appare al comune cittadino c’è un “un caos organizzato”. Durante i mesi di pandemia, sui social, alcuni, anche se non tutti, politici vogheresi, attraverso frasi fatte che tanto piacciono, esprimevano la voglia di essere tutti uniti, di volersi bene, di abbracciarsi per il bene comune… ho detto comune e non del Comune (di Voghera). Tutti auspicavano (a parole) una comunione di intenti per il bene futuro della Città. Finito il lockdown, vale la frase che dicono le escort ai loro amanti: “Finito soldi, finito amore” e così sta succedendo anche a Voghera. Personalmente non so se è giusto o è meglio per Voghera un accordo di larghe intese che con ben altro spessore ed a ben altro livello, la Merkel ha portato avanti in Germania, oppure è preferibile una competizione tutti contro tutti, dove ognuno presenta la propria lista e poi si vedrà chi saranno i finalisti ed infine i vincitori. Lo spirito sportivo direbbe che la seconda ipotesi, quella del tutti contro tutti fino alla finale è forse la migliore, perché fa-

rebbe emergere chi è il più forte o meglio chi è il più votato o ancora meglio, chi è il meno peggio. La prima ipotesi invece, quella delle larghe intese è più “papalina” ed anche l’attuale Pontefice, non sulla situazione di Voghera, chiaramente, ma in generale, esorta i politici nazionali a trovare convergenze e a marciare tutti insieme per il bene comune. Qualunque sia la soluzione che le fazioni in campo si auto – troveranno, si spera sia la migliore per Voghera. Qualche “larga intesa” a dire il vero c’è, alcuni politici del centro destra si proclamano uniti, ma tanti personaggi di quest’area, al momento non fanno parte di questa “intesa”, così anche il centro sinistra, che appare, al momento, più diviso, ma che comunque nell’ambito della “divisione” qualche “intesa” ha trovato. Non entro del merito se Voghera sia stata ben o mal amministrata in questi anni, ma certamente per cause anche esterne alla volontà ed al potere di chi l’ha amministrata, di grossi passi avanti non ne sono stati fatti rispetto a 5 anni fa. La situazione non si può dire sia migliorata, almeno globalmente, poi certamente ogni politico (in carica) in questa tornata elencherà tutte le belle cose che sono state fatte e l’elenco sarà proclamato in modo continuo ed incessante, prima di tutto per convincere se stesso e poi forse per convincere la gente

a votarlo, di contro ogni politico (non in carica) farà lo stesso, al contrario, ma con la medesima cantilena. Migliorare radicalmente le cose a Voghera ritengo sia cosa impossibile, il potere di un sindaco o di un consiglio comunale è condizionato dalle scelte fatte da amministrazioni precedenti anche di 20/25 anni orsono, basti pensare alla scelta di concedere licenze ed autorizzazioni per la costruzione di centri commerciali nella cintura di Voghera, scelta che ha svuotato il centro città e decretato la morte di moltissime attività e negozi di prossimità. Il prossimo sindaco cosa potrebbe fare? Nulla, e paga lo scotto di una scelta fatta da altri, e 20/25 anni fa. I soldi che lo Stato, le Regioni, la Provincia lasciano ai comuni sono sempre meno, l’autonomia di manovra di un sindaco e di un consiglio comunale è sempre meno e visto che l’ultimo che ha moltiplicano il pane ed i pesci, è morto, la capacità di incidenza del prossimo sindaco e della sua amministrazione sarà oggettivamente limitata. Ma quali sono le più urgenti necessità di Voghera o almeno quali sono quelle necessità che emergono dalle rimostranze e dagli appelli del “popolo” sui giornali e sui vari social? Sono essenzialmente 3.


POLITICA A VOGHERA 1. Maggior ordine pubblico, che al di là di qualsiasi forma di becero razzismo, e senza abusare come molti fanno del termine “risorse”, vuol dire un costante e continuo controllo delle aree critiche della città, che al momento palesemente manca. Le due o tre piazze, i due o tre giardini frequentati da gente di ogni nazione (Italia inclusa) che hanno reso queste aree sporche e invivibili per ogni nonna che vuole accompagnare il nipotino a sedersi su di una panchina, sono difficilmente tollerabili per ogni città civile; 2. Rimettere a posto le strade, almeno quelle di competenza del Comune, e sistemarle affinchè i lavori fatti durino almeno un tempo ragionevole, fare e rifare lavori continuamente, perché essenzialmente fatti male non serve a nulla se non a far “incarognire” la gente; 3. Rivitalizzare il centro storico ed altre zone della città. Qui l’impresa è veramente titanica, non è vero che non ci ha provato nessuno, i due assessori alla partita che si sono succeduti anche in modo rocambolesco, ma questa è un’altra storia… hanno organizzato eventi e/o manifestazioni, ma per rivitalizzare il centro non basta l’evento spot, è necessario che ci siano negozi e bar aperti, è indispensabile che ci sia gente e purtroppo, soprattutto nella fascia serale ma anche di giorno, di gente tra le vie di Voghera se ne vede sempre meno. Come dicevo prima, la scelta di decentrare all’esterno i centri commerciali ha di fatto, e questo non solo a Voghera, svuotato via Emilia e le piazze adiacenti. Ecco perché l’impresa è da “mission impossible”. Chiaramente se il prossimo sindaco riuscirà a riportare attività commerciali e a rivitalizzare il centro anche quando non ci sarà un evento o una manifestazione di richiamo, questo sindaco a mio giudizio sarà un fenomeno e seppur ancora in vita bisognerebbe dedicargli una via, anche se la legge lo vieta, o comunque fargli erigere una statua, ma dubito ciò accada.

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Che vinca il migliore o il meno peggio, a Voi la giusta interpretazione Poi ci sono le varie ed eventuali che sono: rilanciare, rivedere, riformulare… la festa top di Voghera – La Sensia – che ha compiuto quest’anno 638 anni, purtroppo causa Ccovid-19 non è “andata in onda” ma sono certo che il prossimo anno sempre bella ed attraente non mancherà di salire di nuovo sul palcoscenico. Sulla Sensia negli anni passati, presenti e futuri ci sono state e ci saranno le idee e le proposte più disparate e fantasiose, gli esperimenti che si possono attuare sono i più diversi, molti progetti o pseudo tali che ho letto e sentito, mi risultano idee scopiazzate qua e là senza molto costrutto, tant’è che ho la ragionevole speranza che la “vecchia” Sensia che ha sopportato guerre e pandemie riuscirà a sopportare ed a superare anche qualcuna, non tutte perché qualcuna a mio modesto avviso è valida, di queste “nuove” idee….; “vogliamo che Voghera sia la capitale dell’Oltrepò”. Questo slogan è trito e ritrito. Premesso che essere la capitale dell’Oltrepò non è motivo di vanto vista la condizione attuale del territorio, ma concretamente cosa vuol dire? Ve lo dico io. Niente, non vuol dire assolutamente nulla. Voghera come ogni altro comune dell’Oltrepò deve pensare a risolvere i propri problemi perché se tutti i comuni dell’Ol-

trepò pensassero, in modo sinergico, ma questa è utopia, alla luce dei fatti e dei risultati, di risolvere i problemi di casa propria, e non sono pochi, l’Oltrepò sarebbe la capitale, senza bisogno di garçonnière che vogliono assumere il ruolo di “prima donna”; ASM Voghera, un po’ come il prezzemolo non può non essere citata nelle varie ed eventuali. Va bene così? Gestita bene? Gestita male? Fa bene il suo lavoro? Lo fa male? Lo fa bene sempre? Lo fa bene ad intermittenza? La venderanno? La svenderanno? La venderanno a pezzi? La venderanno tutt’intera? E se la vendono chi ci guadagna? Tutte domande e spesso insinuazioni che con cadenza regolare le varie fazioni politiche locali pongono e cavalcano a loro piacimento. La realtà è che ASM Voghera il suo lavoro lo sta facendo, bene? Non saprei… Male? Direi di no… È migliorabile ciò che fa ASM Voghera? Certamente sì, tutto è migliorabile, ma da lì a voler fare rivoluzioni copernicane su ASM Voghera, che è un po’ “la mucca da latte” della città iriense, perché dà lavoro a molti, offre con buoni standard servizi a molti e comunque pochi o tanti che siano, distribuisce dividendi al Comune, ce ne passa. Ecco dicevo… fare rivoluzioni copernicane su

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ASM Voghera lo trovo fuori luogo, forse basterebbe vedere ASM Voghera non solo come un’azienda di servizi, ma vederla ancora di più come un’Azienda, pertanto renderla sempre più efficiente e più redditizia per la città; ultimo ma non ultimo c’è la ciliegina sulla torta: il Teatro. I lavori sono partiti, un po’ di soldi sono arrivati, molti di questi soldi sono arrivati grazie all’ex assessore alla partita e su questo, piaccia o non piaccia nessuno può smentire. Prima o poi il Teatro verrà finito, finito bene? Finito male? Quando aprirà ci si potrà rendere conto. Certamente, quando verrà aperto non ci si troverà sulla cima della collina pronti ad affrontare la discesa, ma ci si troverà ai piedi della montagna, una montagna ripida, perché la gestione di un teatro e questo in ogni luogo del mondo, è un gestione onerosa e molti esperti ed essendo tali bisognerebbe fidarsi ed ascoltarli, dicono che in base al numero dei posti disponibili e al bacino d’utenza, sarà dura che il Teatro possa essere autosufficiente, dovrà per forza di cose essere supportato, così come avviene per la stragrande maggioranza dei teatri, dalle risorse pubbliche o pseudo tali. Ecco bisogna sperare che i contributi necessari non siano troppi e che non vadano a intaccare le risorse per altre necessità, magari primarie per la Città. Vedremo nelle prossime settimane che piega prenderà la corsa alla carica di primo cittadino di Voghera e cariche affini. Per ora enunciazioni tante, gente che da poppa è andata a prua e viceversa tanta, uno che è uno che abbia detto “certamente risolverò questo problema in questi tempi”, io non l’ho ancora sentito. Per ora non ci rimane che augurare buona corsa alla poltrona o alle poltrone a tutti! E che vinca il migliore o il meno peggio, a voi la giusta interpretazione. di Nilo Combi


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«è il momento di dimostrare alla città che non ci siamo arresi ai centri commerciali e all’e-commerce» Il loro video ha totalizzato qualcosa come quarantatremila visualizzazioni, un migliaio di likes su Facebook e centinaia e centinaia di commenti. Non si aspettavano un successo del genere i commercianti di “Voghera da scoprire”, associazione vogherese che raccoglie una settantina di esercenti locali, cinquanta dei quali hanno prestato la voce e il volto per una cover di “Ma il cielo è sempre più blu” apprezzatissima dal popolo di Facebook. Armati di grande autoironia e intonazione altalenante hanno conquistato colleghi e clienti, contagiandoli con la loro voglia di ricominciare dopo le difficoltà dei mesi scorsi. Ne abbiamo parlato con Mariateresa Figini, presidente del gruppo il cui nome ufficiale all’anagrafe è “Valorizziamo Voghera”, per farci raccontare non solo come è nato il video (realizzato in collaborazione con il comune) ma anche e soprattutto quali sono i progetti futuri. Cominciamo dall’inizio. Come nasce “Valorizziamo Voghera”? «Nasce con i proverbiali quattro amici al bar, in una sera d’agosto dell’anno scorso. Si parlava di ciò che si sarebbe potuto fare in città, di trovare modi per renderla più vivace e accattivante agli occhi delle persone. Buttavamo giù idee casualmente quando ci siamo detti “scusate, ma perché non ci proviamo sul serio?”» E così è cominciata l’avventura. Quali sono stati i primi passi? «Ufficialmente ci siamo costituiti come associazione alla fine dell’estate, e subito siamo partiti con le iniziative natalizie. C’è stata una grande affluenza, i commercianti hanno partecipato con entusiasmo, collaborando tra di loro. Le cose sono andate talmente bene che abbiamo continuato a pensare ad attività e iniziative che avremmo dovuto proporre questa primavera. Sappiamo tutti com’è andata, ed è stato un duro colpo» Eppure non vi siete fermati. «No, anzi. Alla fine del lockdown, quando ci hanno permesso di riaprire le nostre attività, morivamo dalla voglia di dire alle persone che nonostante tutto noi c’eravamo. Eravamo lì, pronti a ricominciare con le nostre vite, pronti a portare avanti il lavoro che abbiamo scelto e che amiamo. Non solo, volevamo far sentire la nostra vicinanza ai vogheresi, ai clienti e ai colleghi, mandando loro un messaggio forte di speranza, allegria e solidarietà. Il commercio, come tanti altri settori, è stato duramente colpito dal punto di vista umano, affettivo ed economico, ma noi volevamo smettere di pensare a quello che è stato e guardare con fiducia a quello che potrà essere»

Mariateresa Figini, presidente di “Voghera da scoprire” durante le riprese del video “Ma il cielo è sempre più blu”

«Stiamo lavorando in un’ottica di coesione: è l’unica arma che abbiamo, a mio avviso, per rilanciare il commercio vogherese» Un messaggio che arriva meglio con la musica. «Esatto, soprattutto se si sceglie una canzone come “Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano, e soprattutto se si chiede l’aiuto di un videomaker e intrattenitore come Nicola Imbres, la voce maschile del duo “Nico & Franz”. Abbiamo scelto questo brano non solo perché è un pilastro del cantautorato italiano, ma anche e soprattutto perché parla dell’italiano medio e della sua capacità di affrontare le difficoltà con animo leggero. Modificando un po’ il testo a beneficio degli esercenti l’abbiamo resa nostra, e dal riscontro ottenuto online direi che abbiamo fatto centro: le persone nei commenti ci hanno confermato di essersi divertite molto a guardarlo, e qualcuna ha persino ammesso di essersi emozionata»

Qualcuno era a suo agio, qualcun altro era in imbarazzo. Eppure hanno partecipato in tantissimi. «è vero, alcuni colleghi hanno sfoggiato una disinvoltura da star del cinema, mentre qualcun altro ha faticato un po’ ad andare a tempo o a prendere le note giuste. Ma questa è stata la forza del video: ci ha mostrato per come siamo, forse non intonatissimi o particolarmente telegenici ma comunque appassionati e pieni di ironia. Quando abbiamo proposto agli associati di partecipare a questo esperimento la maggior parte si è lanciata a capofitto nell’idea, e sono felicissima che abbiano conservato questa energia positiva. Come associazione stiamo lavorando in un’ottica di coesione: è l’unica arma che abbiamo, a mio avviso, per rilanciare il commercio vogherese.

Non ci sono alternative, dobbiamo essere uniti adesso più che mai» Uniti e sorridenti: lo smile era il leitmotiv che ha percorso tutto il video. «Assolutamente sì, il sorriso è da sempre fondamentale nel nostro mestiere, ma oggi lo è ancora di più. La gente ha passato dei mesi terribili, e non ha bisogno di entrare in un negozio e vedere facce scure. Il sorriso lo abbiamo adottato come una sorta di logo, e per la verità speriamo che presto diventi ufficialmente il simbolo della nostra attività. Siamo in attesa di scoprire se un progetto che abbiamo ideato nelle scorse settimane andrà in porto: se dovessero concederci i fondi, sentirete ancora parlare di noi». Qualche anticipazione? «Non voglio sbilanciarmi troppo per scaramanzia, ma posso dire che si tratta di un progetto che mira a costruire una rete solida di commercianti vogheresi che credano tutti nella necessità di fare squadra per rilanciare la nostra città e le nostre attività. Non parlo di un’idea astratta: quelle che abbiamo in mente sono iniziative molto concrete, una serie di azioni che, se messe in pratica, potrebbero davvero contribuire a risollevare l’immagine e l’economia cittadina. Il piano ha dei costi che da soli non potremmo sostenere, dunque abbiamo chiesto l’aiuto del Comune: abbiamo presentato le nostre proposte al sindaco Barbieri e all’assessore al commercio Martina Fariseo, i quali si sono detti favorevolmente colpiti. In questi giorni dovremmo ricevere una risposta, e speriamo vivamente che sia positiva: questo è il momento di dimostrare alla città che non ci siamo arresi ai centri commerciali e all’e-commerce, e che c’è la volontà di investire per evitare che altre serrande debbano abbassarsi» Potrebbe essere il momento giusto per recuperare consenso, date le imminenti elezioni. «Guardi, le logiche politiche a noi non interessano. Nella nostra associazione ognuno ha le sue idee da questo punto di vista, ma è giusto che rimangano fuori dalla porta quando ci incontriamo. Lavoreremo con qualunque partito governi la città e con qualunque amministrazione dovesse insediarsi. Approfitto anche per specificare che non siamo un’associazione di categoria e che non intendiamo ostacolarne le attività, anzi speriamo di collaborare. Noi vogliamo solo il bene di Voghera, e vorremmo un giorno di vederla florida e vivace com’era qualche decennio fa. Se la politica e le altre associazioni ci aiuteranno a raggiungere l’obiettivo, noi potremo solo esserne felici». di Serena Simula


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City Angels: la prima sede dell’Oltrepò è nata a Voghera I City Angels sono una associazione Onlus tutta italiana, nata a Milano ad opera di Mario Furlan. Il 29 febbraio scorso si sono presentati alla città di Voghera insieme all’associazione C.H.I.A.R.A. tramite una conferenza. Gli sviluppi sono stati positivi: è stata creata la sede City Angels di Voghera, la ventiduesima in Italia, e la prima in Oltrepò e nella provincia di Pavia. Ce ne parla il suo coordinatore, che nelle vesti di Angelo, per motivi di sicurezza, preferisce farsi chiamare con lo pseudonimo “GG”. Qual è la sede attuale dei City Angels di Voghera e quanti membri conta al momento? «Il Dopo Lavoro Ferroviario ci ha messo gentilmente a disposizione un locale. Più che una sede per ora è un pied-à-terre che utilizziamo anche per stipare tutti i materiali che ci servono per far fronte ai nostri interventi sul territorio. Per ora siamo in sette: io, che sono coordinatore, tre ausiliari e tre Angeli, cioè membri effettivi dell’associazione». Qual è il vostro ruolo nella comunità? «Interveniamo in tutta la città con opere di assistenza e solidarietà, concentrandoci nei luoghi più fragili, dove è maggiormente necessaria un’opera di salvaguardia. Preciso che noi non sostituiamo in alcun modo le forze dell’ordine; i nostri sono interventi che qualunque buon cittadino potrebbe e dovrebbe fare – noi siamo solo facilitati dal fatto di essere organizzati in un’associazione. La formula che governa il nostro agire è “sicurezza e aiuto dei più deboli” e svolgiamo un’attività di supporto solidale. Siamo in contatto con il Commissariato, che ha tutti i nominativi dei membri City Angels Voghera e ci ha dato pieno appoggio qualora dovessimo segnalare una situazione critica. Abbiamo effettuato una prima ricognizione insieme al responsabile della POLFER di Voghera, che ci ha segnalato i siti ai quali c’è da prestare maggior attenzione, vale a dire la stazione e il transito stazione-Esselunga». “Sicurezza e aiuto dei più deboli”: chi sono, con precisione, i “più deboli” che l’associazione City Angels si impegna ad assistere? «Tutte le categorie sociali; chiunque si trovi in difficoltà o abbia bisogno di un primo soccorso; forniamo assistenza a chiunque: anziani, disabili, tossicodipendenti – anche se, in quest’ultimo caso, è fondamentale la collaborazione dell’assistito, data la situazione delicata in cui si trova; distribuiamo cibi o vestiti in caso di necessità; aiutiamo animali feriti che si trovano per strada. L’unico caso in cui interveniamo direttamente (ma anche questo può farlo qualunque cittadino), per poi contattare quanto prima le forze dell’ordine di riferimento, è se ci troviamo di fronte ad un’aggressione».

I City Angels di Voghera: il coordinatore, tre ausiliari e tre “Angeli”

Qualche esempio del vostro intervento sul territorio? «Recentemente, nella prima settimana di luglio, abbiamo procurato a una ragazza che dorme sulle carrozze dismesse, le lenzuola per coprire il materasso e i vestiti che ci aveva chiesto. A brevissimo interverremo a supportare, in termini di beni di prima necessità, un pensionato le cui finanze non gli consentono più di arrivare a fine mese. Ci rechiamo spesso con intenzione deterrente nella zona autoporto-Esselunga, poiché alcune persone percepiscono un certo disagio nell’attraversarla; questo disagio sarebbe dovuto ad alcuni individui che sostano nelle vicinanze e creano una certa tensione. Nel presidiare la zona, cerchiamo di parlare con questi soggetti. Dal momento che, personalmente, gestisco bene diverse lingue – Inglese, Francese, Arabo, cerco di instaurare un dialogo propedeutico alla creazione di un rapporto pacifico». L’associazione è famosa anche per la tecnica di autodifesa denominata “Wilding” e ideata dal fondatore stesso. I City Angels di Voghera sono già abilitati a questa tecnica? «No, non ancora, soprattutto per la questione Covid, poiché essendo una tecnica di difesa personale, durante le dimostrazioni e il training, il contatto fisico sarebbe necessario e inevitabile. Per il momento quest’aspetto è sospeso». A proposito di Covid: avete avuto la sfortuna di nascere in concomitanza con lo scoppio della pandemia. Come vi siete organizzati in questo periodo? «Le riporto l’esempio dei City Angels di Bergamo, che sono stati coinvolti in prima linea. Si sono resi disponibili a sostituire personale di altri enti benefici che, purtroppo, per aver contratto il virus, non hanno potuto proseguire il volontariato e, nono-

stante la situazione, ogni giorno si sono recati dove vi fosse necessità per fornire il loro supporto. Ci tengo ad essere testimone del loro intervento perché hanno fatto davvero un lavoro grandioso. Qui, a Voghera, al momento dello scoppio della pandemia eravamo in pochi e ancora agli inizi, quindi ci siamo soffermati sull’organizzazione della sede e, una volta pronta, ci siamo resi operativi nel rispetto delle norme sanitarie – che, ovviamente, manteniamo ancora adesso». Inoltre, siete facilmente distinguibili per la vostra divisa: ha una funzione particolare? «Il numero di persone della squadra e la divisa sono fondamentali perché agiscono da deterrente per l’eventuale microcriminalità che può interessare determinate zone. L’uniforme, in particolare, ricorda nell’aspetto quelle militari – ma il nostro approccio è totalmente diverso: aperto, accogliente e umanitario. La dobbiamo indossare obbligatoriamente perché è un elemento che va a rendere ancor più compatto il gruppo e ci rende facilmente riconoscibili, sia da chi avesse bisogno di aiuto, sia dai malintenzionati». Una persona, per diventare “Angelo”, deve avere requisiti particolari? «è fondamentale che non sia un guerrafondaio, che sia predisposto ad agire con intento solidale e che sia pronto a dialogare con chiunque, indipendentemente dal credo religioso, dall’etnia, dallo schieramento politico, dal sesso. è necessario inoltre aver raggiunto la maggiore età ed è richiesto uno stato di buona salute. Una volta accertati questi requisiti, il candidato si iscrive all’associazione City Angels Italia e comincia come ausiliario. In questo primo periodo si fa esperienza uscendo sul territorio con la propria squadra, nel pieno rispetto delle regole dettate dallo statuto dell’associazione,

ed è fondamentale per rendersi conto se il volontariato presso i City Angels sia adatto a noi e viceversa. Nel caso la risposta sia affermativa, seguono un corso di venti ore (o, in alternativa, un weekend di full immersion) e un esame. Dopo averlo passato, il volontario è diventato un Angelo a tutti gli effetti; da lì può decidere se rimanere tale, oppure crescere diventando vice caposquadra, caposquadra e così via. è necessario verificare l’idoneità di una persona a far parte della nostra associazione, perché qualunque tipo di volontariato è utile e qualunque intento solidale è più che nobile, ma i City Angels devono assumersi grosse responsabilità, tra cui la tutela dei singoli membri e della squadra anche in situazioni critiche». Ci sono ulteriori metodi con cui è possibile supportarvi? «Il canale primario attraverso cui sosteniamo il nostro operato sono le donazioni, quindi un contributo è sempre ben accetto; nel caso in cui si volesse effettuare una donazione tramite il 5 per Mille, essa verrà gestita dalla sede madre. Tuttavia abbiamo già preso i contatti con alcune associazioni benefiche locali, come l’associazione Chiara o mense per i bisognosi, e alcuni negozi di abbigliamento che hanno promesso di fornirci i capi invenduti in modo tale da distribuirli a chi ne avesse necessità. Perciò ringraziamo infinitamente anche chiunque avesse un’attività e volesse collaborare con noi. A settembre apriremo la pagina Facebook ufficiale della sede City Angels Voghera. Per il momento, è possibile contattarci telefonicamente o via mail». di Cecilia Bardoni

Un intervento dei City Angels



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Leo Club: «Abbiamo dato un forte segnale della nostra presenza sul territorio» Lo scorso 30 giugno è stata una data importante per Leo Club di Voghera, poiché la conclusione del loro anno sociale ha previsto, come ogni anno, l’elezione di un nuovo presidente dell’associazione benefica cittadina. Il passaggio di testimone è avvenuto tra Giacomo Matti, che di seguito traccia un resoconto dell’azione dei Leo durante il periodo più critico dell’epidemia di COVID, e Riccardo Garavani, il quale illustra i contesti ipotizzabili nei quali i membri dell’associazione si muoveranno in futuro. Giacomo, lei è stato presidente dei Leo Club di Voghera durante questo anno che ha messo tutti a dura prova. Tuttavia, voi siete tra le associazioni che sono riuscite a non fermarsi nemmeno durante il lockdown. A chi siete riusciti a fornire il vostro aiuto e in che modi? «In febbraio, a causa appunto del Coronavirus, il nostro sistema sanitario si è ritrovato in una situazione estremamente grave, sulla soglia del collasso. La quarantena ci ha impedito di organizzare eventi e di conseguenza siamo stati molto limitati nelle raccolte fondi. Per offrire comunque un contributo, abbiamo deciso di effettuare una donazione noi stessi: dalle donazioni dei soci, appartenenti sia ai Leo Club che ai Lions Club della 2^ e della 5^ circoscrizione (vale a dire della provincia di Pavia) - noi compresi, abbiamo ricavato un totale di euro 74.000. La quota è stata in un primo momento depositata in una cassa comune. In accordo con i vari primari e a seconda delle esigenze, è stata utilizzata per acquistare i presidi richiesti (come, ad esempio, le mascherine chirurgiche, le tute protettive…) che sono stati tempestivamente consegnati agli ospedali di Voghera, Vigevano e Stradella. Inoltre, sempre grazie a questi fondi, ad ognuna di queste tre strutture ospedaliere è stato donato un ecografo. Dopo un marzo in cui abbiamo provveduto a consegnare il materiale e ad organizzarci tra di noi, ad aprile siamo stati contattati dai membri dell’associazione benefica Free Spirit. Erano già in possesso di una stampante 3D, che era stata totalmente convertita alla produzione di visiere protettive; tuttavia la richiesta è aumentata esponenzialmente, e si è presentata la necessità di una seconda stampante. Noi siamo riusciti ad acquistarla secondo le loro indicazioni e a donargliela, così da raddoppiare il numero di visiere prodotte. Quelle fabbricate con la stampante procurata da noi, che è tutt’ora in funzione, vengono fornite all’Ospedale di Voghera. Abbiamo infine concluso l’anno sociale (che va da settembre a giugno) con la donazione di tre tablet, dotati di rispet-

Leo Club di Voghera

tive cover, alla casa di riposo “Zanaboni” di Voghera, che era stata individuata come service di quest’anno. Un service è un’associazione che gli stessi Leo e Lions individuano all’inizio di ogni anno come beneficiaria; viene proposta dal presidente del club e decisa insieme agli altri membri. Inizialmente avevamo concordato di fornire un altro tipo di materiale, ma poi il COVID ha completamente cambiato le carte in tavola e quello che mancava veramente era il contatto con le famiglie. Dopo esserci accordati con la direttrice, abbiamo quindi acquistato i tre tablet e un impianto stereo, in sostituzione di quello vecchio, e li abbiamo forniti alla casa di riposo, in modo da far trascorrere ai suoi ospiti giornate quanto possibile migliori. Il materiale tecnologico è ancora utilizzato a pieno regime». Secondo lei il lavoro dei Leo e dei Lions Club, durante la pandemia, ha avuto un ruolo significativo, almeno per quanto riguarda il nostro territorio? «Io penso che sia stato importante soprattutto il modo in cui abbiamo agito. L’epidemia di COVID ha colpito all’improvviso qualunque tipo di attività e di ente e, soprattutto per un’associazione no-profit come la nostra, è stato molto difficile portare avanti le donazioni senza poter organizzare iniziative o eventi, perché non abbiamo altri introiti ovviamente. Tuttavia sono molto contento del fatto che, nonostante ciò, siamo riusciti a rimanere uniti e in contatto, a organizzarci bene e tempestivamente, e a raccogliere comunque cifre considerevoli che hanno garantito l’acquisto del materiale indispensabile. Secondo me, l’importanza delle associazioni benefiche emerge soprattutto nei

Leo Club Voghera Passaggio di testimone tra Giacomo Matti e Riccardo Garavani momenti straordinari. Chiaramente non possiamo risolvere problemi troppo più grandi di noi, ma, nelle nostre possibilità, trovo che abbiamo dato un forte segnale della nostra presenza sul territorio». L’anno sociale da poco iniziato per i Leo Club di Voghera, vede lei, Riccardo, in qualità di nuovo presidente. La situazione futura è incerta, ma ha già in mente dei progetti futuri? «Abbiamo di fronte a noi due possibili scenari: uno, quello che tutti ci auguriamo, che prevede la fine dell’emergenza sanitaria; l’altro, che per quanto negativo è da tenere in considerazione, in cui l’epidemia non sarà ancora debellata o quantomeno contenuta a livelli che si possono considerare sicuri. Nel primo caso, ci muoveremo verso la tutela di quelle persone che sono state più colpite dall’emergenza; penso ad esempio ai poveri, ai più indigenti ma anche ai nostri coetanei, ai giovani, che sono stati privati di molte opportunità e, talvolta, anche dei propri cari – situazione che potrebbe averli segnati dal punto di vista

psicologico. Se invece, ahimè, la situazione non dovesse migliorare, continueremo ad agire come abbiamo fatto finora, cercando quindi di attenuarne le conseguenze con il nostro contributo, mettendo però in atto metodi diversi di seguire i nostri services; potremmo anche portare avanti delle campagne di sensibilizzazione, ad esempio, sul vaccino, quando e se – speriamo – verrà trovato. Queste, per adesso, sono solo ipotesi che devono anche essere condivise con i soci, e a livello pratico bisogna stare a vedere come si evolveranno le cose. In ogni caso, nell’immediato, organizzeremo un meeting con gli altri club Leo e Lions della zona, e se emergeranno delle opportunità di service daremo il nostro contributo operativo senza alcun dubbio. Siamo pronti a metterci in gioco, perché abbiamo tra di noi dei soci veramente in gamba, persone eccezionali, grazie alle quali possiamo raggiungere degli ottimi risultati in qualsiasi situazione». di Cecilia Bardoni


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Parte dei proventi di un video gioco aiuta il progetto “Adotta un’arnia” Le api sono in difficoltà: minacciate dai cambiamenti climatici e dall’utilizzo indiscriminato di pesticidi, sono ogni anno di meno, e combattono una lotta impari per continuare a sopravvivere. La loro salvezza è nelle mani degli apicoltori, che ne difendono le delicate esistenze scegliendo per loro i luoghi adatti all’impollinazione, e monitorando costantemente lo stato di salute delle industriose comunità. Dell’importante ruolo rivestito da questa categoria di lavoratori nei confronti dell’ambiente se n’è accorta l’azienda Big Ben Interactive, che con l’acquisto del suo “Bee Simulator” (un videogioco ispirato al funzionamento degli alveari) ha stanziato una percentuale a sostegno proprio di un apicoltore. Ma non di uno qualunque, del pavese Alberto Reale, titolare di una piccola azienda agricola di Corana, scelto per il suo impeccabile metodo di lavoro e per la sua grande passione nei confronti di questi piccoli e preziosi animali. Un gioco che diventa realtà, e consente alle api finte di aiutare quelle vere. «Questo è proprio il senso della campagna di marketing utilizzata dalla Big Ben Interactive, che è arrivata a me attraverso la “3bee”, azienda internazionale specializzata nella produzione di macchinari per apicultura che nel nostro paese rifornisce circa duemila apicoltori. Mi servo dei loro strumenti da quando ho cominciato e insieme collaboriamo da anni: ci conosciamo bene, ed è proprio in virtù della stima che nutrono nei miei confronti che hanno proposto il mio nome». Ma come ha funzionato esattamente? «In pratica, quando è stato introdotto sul mercato il “Bee Simulator”, l’azienda produttrice ha fatto in modo che per ogni copia acquistata, una piccola percentuale fosse destinata alla tutela delle api, che sono di fatto le protagoniste del gioco. Hanno raccolto la cifra in un salvadanaio e hanno donato il ricavato al progetto “Adotta un’arnia” di 3bee: si tratta di un’iniziativa a cui possono partecipare anche i singoli, e a cui hanno aderito diversi apicoltori italiani. Chi adotta un’arnia aiuta una famiglia di api sostenendo i costi delle attrezzature necessarie a monitorare i parametri che regolano la loro vita, e che ci servono per capire se tutto all’interno dell’alveare sta andando per il verso giusto. Ecco, potendo scegliere tra i diversi partner che fanno parte del progetto, 3bee ha fatto il mio nome, ed è così che le donazioni degli utenti del videogame sono arrivate direttamente a Corana, dove per un anno sosterranno una delle mie arnie» Lo ha provato il videogioco? «Sì sì, me lo hanno fatto testare in anteprima!

Alberto Reale, titolare di una piccola azienda agricola di Corana

«Einsten disse che il giorno in cui scompariranno le api agli uomini rimarranno solo quattro anni di vita» Molto divertente e accurato, l’ho trovato assolutamente piacevole. Ovvio, quella della donazione era un’operazione pensata per il lancio e dunque non vale più, ma in ogni caso resta un prodotto molto istruttivo, ideale per i bambini che vogliono approfondire le tematiche legate al mondo naturale. La società delle api è complessa e interessante, e il videogioco ne spiega molto bene le dinamiche» Tornando alla possibilità di adottare un’arnia: quante gliene hanno adottate attraverso questo sistema? «Questa non è la prima arnia che le persone mi adottano attraverso 3bee: ho aderito da qualche mese al progetto “Adotta un alveare” e ora sono cinque le famiglie di api che vengono sostenute dall’esterno grazie a coloro che hanno deciso di prendersene cura. Su centosessanta non sono molte, ma è comunque uno splendido segnale che arriva da parte delle persone. Ci sono diversi tipi di abbonamento, ovviamente, ma tutti prevedono che chi adotta possa

avere notizie costanti sul proprio alveare. Ma non solo, differenti piani prevedono anche una fornitura più o meno grande di miele. Si tratta di un progetto valido anche e soprattutto dal punto di vista ambientale: Einsten disse che il giorno in cui scompariranno le api agli uomini rimarranno solo quattro anni di vita, e questo perché le api sono insetti fondamentali per il mantenimento della biodiversità, e perché grazie al loro lavoro si produce circa il 50% del cibo che troviamo sulle nostre tavole. Hanno una vitale importanza per la preservazione dell’ambiente, della produzione alimentare e della vita stessa dell’uomo, ma purtroppo oggigiorno sono sempre più rare, minacciate soprattutto dalle nostre attività. Per questo motivo invito chi fosse interessato ad adottare (non per forza da me, ma anche dagli altri apicoltori che fanno parte del progetto) a farsi un’idea più precisa di come funziona il programma “Adotta un’alveare” visitando il sito dedicato». Tra le motivazioni indicate da “3bee” c’è il grande entusiasmo con cui lavora, ma anche la passione e l’etica con cui si dedica alle sue arnie. Erano sicuri, insomma, che con lei le api sarebbero state in buone mani. Com’è nata questa avventura? «Nella mia vita ho fatto tanti lavori, e dopo trentanove anni mi sembrava il momento di realizzare finalmente ciò che ho sempre voluto fare: realizzare qualcosa di mio. Era una vita, in particolare, che volevo avere a casa le api e a un certo punto, sei anni fa, ho messo insieme i pensieri, i desideri, un po’ di conti e ho deciso di farlo. Ne ho parlato con la mia famiglia e gli ho detto “sentite, voglio fare questa

cosa”: non “ci provo”, ma “voglio farla”, e loro mi hanno appoggiato subito. Si erano accorti del fatto che non riuscivo più ad andare avanti facendo un lavoro che non mi piaceva, e mi hanno immediatamente dimostrato il loro supporto. è anche per merito loro che sono riuscito a mettere in piedi questa nuova attività» Dev’essere stato bel salto nel vuoto. «Sono stato fortunato, devo ammetterlo, perchè ho trovato sempre persone che hanno creduto in me, e che soprattutto hanno compreso la profondità e la natura del mio desiderio di cambiamento. Quando un’azienda parte gli investimenti sono sempre più dei guadagni, e ovviamente ciò sta succedendo anche a me: bisognerà aspettare ancora per poter dire che sto guadagnando qualcosina, ma al momento anche la prospettiva di quel qualcosina mi basta per stare bene. D’altronde ho scelto questo lavoro anche per avere più tempo da passare con i miei figli, e le ore che trascorro con loro valgono senz’altro di più di tutti i soldi del mondo». Un cambiamento di vita, oltre che di lavoro. Si sente meglio adesso? «Assolutamente sì, e per tanti motivi diversi. Pensare di fare un mestiere che ti piace e che oltretutto fa bene all’ambiente ti fa rendere il doppio, non ti fa sentire la fatica, e spesso ti aiuta a mandare giù tante cose che normalmente non digeriresti. Certo non è sempre tutto rose e fiori, ci sono anche i momenti brutti, però sono molti meno rispetto a quelli belli. Guardando le cose nell’insieme non solo non mi pento della scelta che ho fatto, ma assolutamente non tornerei mai indietro». di Serena Simula


SALICE TERME

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Il locale si chiama “Mezzo”, ma non è una mezza idea, è una bella idea Figlia di Romana, “mitica” padrona di casa della storica gelateria di Varzi che porta il suo nome, dove si poteva gustare uno dei migliori gelati dell’Oltrepò, moglie di Fabio gestore del ristorante “Guado” a Salice Terme, locale nato nel 1911, una “pietra miliare” della ristorazione oltrepadana. Lei è Daniela Canepa, da anni nel settore della ristorazione e pluripremiata barman dell’Aibes. Da poche settimane “è arrivata” a Salice ed ha aperto un locale, proprio di fianco al ristorante del marito. La cosa che ci ha incuriosito è che “Mezzo Food Case”, questo è il nome del nuovo locale, ha portato in Oltrepò ed in provincia di Pavia, un’idea nuova, ed in questo momento, difficile per tutti, la forza delle idee può essere d’aiuto per rilanciare Salice Terme ed i prodotti dell’Oltrepò. Daniela con un marito che guida uno dei ristoranti storici di Salice, con una mamma che è una pietra miliare dei locali pubblici a Varzi, lei ha avuto un’idea nuova. «L’ho avuta soprattutto viaggiando; ho attinto dalla storia delle tapas in Spagna, dalla richiesta che c’è adesso delle mezze porzioni e da qui mi è venuta l’idea di portare un format un po’più particolare: porzioni piccole, un menù pressoché fisso e la possibilità di smezzare». Qui si viene soprattutto per l’aperitivo: uno che vuole stuzzicare cosa fa? «Può scegliere tra una formula aperitivo di default, come se ne trova in qualunque locale, una formula a pagamento che comprende 7-8 miniporzioni diverse dall’aperitivo standard, oppure può anche scegliere di condividere una porzione di food per una cena. Anche per questo il mio locale ha una cucina molto veloce, leggera e informale. Inoltre cucino tutto io!». Una coppia che viene a cena e si trova davanti una proposta nuova, cosa ordina? «Un drink o un vino dalla nostra selezione, a cui poi noi aggiungiamo la food box con undici caselle: dieci contengono una varietà di cibi che possono essere qualunque tipo di alimento – carne, pesce, verdure… – di qualunque portata – antipasto, primo o secondo; l’ultima casella contiene il dolce». Il prezzo che voi applicate, rispetto agli standard di mercato, è molto accessibile: cosa motiva questa scelta? «Volevo rendere il mio locale adatto anche ad esempio alle coppie più giovani, che si sentirebbero sicuramente più a loro agio: in pratica non bisogna scegliere nulla, ti si presenta tutto davanti e la spesa è abbordabile. Poi si può anche decidere di spendere di più, magari prendendo una bottiglia di vino pregiato, ma le soluzioni per spendere il giusto di sicuro non mancano».

Daniela Canepa, titolare del “Mezzo Food Case” Sua l’idea di proporre porzioni piccole, un menù pressoché fisso e la possibilità di smezzare

In quanti lavorate al “Mezzo Food Case”? «Nel locale ci siamo io, una ragazza e un ragazzo che mi dà una mano nella preparazione. Il cucinato viene fatto tutto durante il giorno, poi non resta che impiattare e servire. Di questo ci occupiamo principalmente io e la ragazza, inoltre io curo anche tutta la parte bar». è un locale prettamente estivo o anche invernale? «è adatto a qualsiasi stagione: all’interno ho 25 posti». L’emergenza Covid-19 ha spinto i titolari di tutta Italia a comprare italiano. Nella sua cucina sono presenti prodotti dell’Oltrepò? «Sì, soprattutto frutta e verdura, ma anche tante altre materie prime, in larga misura sono prodotti dell’Oltrepò; poi essendo io “varzese” chiaramente servo salame di Varzi». “Guado”, che è proprio accanto, ha una carta dei vini molto importante, che contempla tutta l’Italia, tutto il mondo e ovviamente anche l’Oltrepò. “Mezzo” è più improntato verso l’Oltrepò oppure no? «“Mezzo Food Case” usufruisce di una curata selezione della carta dei vini del ristorante “Guado”.

Sono due locali con atmosfere diverse ma attigui, per cui condividiamo la cantina. Chiaramente con un occhio di riguardo per i vini oltrepadani». Il vino è uno dei principali motori economici dell’Oltrepò; Salice era (è) la principale località turistica. Rispetto a quella che è la sua clientela, i vini dell’Oltrepò vanno o non vanno? «In realtà, purtroppo, non tantissimo. Ad esempio ho venduto molto bene lo Champagne – è una cosa strana anche rispetto all’impostazione del locale. Credevo di vendere anche tanto Prosecco, visto il trend del momento, invece no. Optano spesso per vini “famosi”; forse perché hanno più appeal, o forse – e credo sia per quello – non conoscono l’Oltrepò a livello di qualità dei prodotti e questo è un vero peccato, perchè in Oltrepò ci sono ottimi vini». Suo marito ha una visione ultradecennale di Salice Terme, come imprenditore. Per lei, invece, è la prima volta come imprenditrice a Salice. Che impressione-riscontro ha avuto? «Secondo me l’inizio non fa testo più di tanto, quindi per adesso non saprei, anche se il locale ha avuto subito successo. Tant’è vero che ho proposto un format per spendere poco, e invece ho una clientela di

livello medio-alto, cioè una clientela che arriva a spendere tanto per scelta: magari acquistando vini importanti, facendo più giri di drink, selezionando Gin di qualità… Insomma, mi aspettavo un’utenza più informale». Vanno per la maggiore i vini o i cocktail? «Sono più o meno sullo stesso livello. Vendo tanti cocktail all’aperitivo e nel dopocena; durante la cena, invece, il vino la fa da padrone». Lei è varzese, ha sempre lavorato a Varzi. Lo stesso locale, a Varzi, avrebbe lo stesso successo secondo lei? «Avrebbe una clientela diversa, secondo me. Perché Salice raccoglie, ad esempio, anche il bacino d’utenza di altre zone extraprovinciali confinanti. Credo che Varzi ospiterebbe una clientela più informale che inizialmente mi aspettavo anche qui, e probabilmente venderebbe anche più vino oltrepadano, data la presenza di molti più turisti. Ho avuto a Varzi un Bed & Breakfast per dieci anni dove facevo anche piccola cucina: il novanta per cento dei vini che vendevo era dell’Oltrepò. Alla fine è l’oltrepadano a non bere i vini del proprio territorio». di Nilo Combi


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GODIASCO salice terme

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Sommelier a Londra: «L’Oltrepò non è una causa persa, si può ancora valorizzare» Una sera per caso incontri in un bar di Salice Terme dei ragazzi, alcuni sono amici, tra questi conosci un “expat”, un espatriato, si parla di Oltrepò e come ovvio che sia si parla di vino. Quella di Simone Poppi, ventisettenne di Godiasco, è la storia di un giovane oltrepadano che ha trasformato la sua passione, tramandatagli dal padre sommelier, in lavoro. Diplomato all’Istituto Gallini di Voghera, ha frequentato l’Ais (Associazione Italiana Sommelier) conseguendo il terzo livello di formazione, da lì non si è più fermato, o meglio ha deciso di non fermarsi in Oltrepò: Milano, Portorico e Londra. Ora Londra è la sua casa e qui svolge la professione di whine advisor presso una catena di whine shop, la “Vagabond Whines” unica nel suo genere, in quanto dà la possibilità di degustare vini anche in modo del tutto autonomo e automatizzato attraverso un sistema di macchine che erogano vino inserendo una carta prepagata. Simone lei è un whine advisor. Ci spiega in che cosa consiste questa figura? «Sono una sorta di consulente che aiuta la clientela, indirizzandola, nella scelta del vino. All’interno del whine shop in cui lavoro ci sono circa 250 tipologie diverse di vino, che cambiano e ruotano ogni settimana, per cui è necessaria una figura professionale che conosca e sappia spiegare ogni singolo vino». Lei lavora in una grande ed innovativa catena di vini la “Vagabond Whines” creata da un imprenditore inglese che da un’idea è partito con questo progetto che si è rivelato vincente. Come funziona esattamente? «La “Vagabond Wines” è nata nel 2012 da un’idea di un lungimirante imprenditore inglese. Ora abbiamo 7 punti di food &beverage in tutta Londra e contiamo entro fine anno di aprirne altri due. Il motto della “Vagabond Wines” è: “Great wine at great prices, to be experienced by all” ottimo vino a prezzi ottimi, per essere vissuto da tutti - in questo motto è espressa la filosofia e l’idea vincente del fondatore». Quante persone sono impiegate in questa catena? «Nel punto vendita dove lavoro io siamo in 20 tra sala e cucina, per tutti e 7 i punti esistenti direi che siamo un centinaio o forse anche di più». Oltre a lei altri italiani? «La maggior parte dei whine advisors arriva dalla Nuova Zelanda, nel mio store oltre a me c’è un ragazzo di Napoli, quindi siamo in 2 su 10 in questo ruolo». Una volta terminati gli studi e la formazione, qual è stato il suo primo lavoro nel settore?

«Ho iniziato lavorando nell’enoteca Eataly Milano Smeraldo per circa 6 mesi, dopodichè sono partito per Portorico dove sono rimasto alcuni mesi, lavorando in un ristorante italiano. Tornato a Milano ho trovato impiego in un ristorante giapponese di livello dove curavo tutta la parte della Cantina, qui sono rimasto 3 anni. Infine Londra dall’estate scorsa e dove ritornerò non appena la situazione di emergenza sanitaria sarà rientrata, a Londra infatti tutti i punti vendita della “Vagabond Whines” sono al momento chiusi, solamente 1 su 7 è aperto al pubblico ma come delivery». Quante etichette di vini avete in ogni store? «In quello in cui lavoro io, che è il più grande circa 200 etichette di tutto il mondo che ruotano ogni settimana, non tutte le 200 ovviamente ma a blocchi». La presenza di etichette italiane sulle 200 da voi proposte ha una buona incidenza? «Assolutamente no, si tratta di una “presenza” molto bassa, su 200 etichette solamente 10 sono italiane, circa il 5%» Questo scarso 5% da che tipologia di vini è composto? «Si tratta di vini della fascia Premium: Barolo, Barbaresco, Amarone qualche Vermentino di Sardegna». E gli spumanti? «Lo spumante non funziona nelle macchine automatizzate per cui lo proponiamo solamente alla carta. Abbiamo 7/8 tipologie di Champagne e una di Prosecco. Nessuno spumante italiano metodo classico». Temo nel farle questa domanda…Etichette oltrepadane? «Nessuna e mai avuta, né da quando lavoro lì né consultando lo storico degli ordini». Lavora e vive a Londra. Girando per la città e tra i ristoranti, la presenza dei vini italiani è significativa? «Direi non molto e comunque non come dovrebbe e potrebbe, la presenza importante è data dai vini francesi e spagnoli, quelli italiani sono conosciuti ma poco e la maggior parte di quelli riconosciuti dalla clientela londinese sono della fascia Premium. Le anticipo già la risposta alla domanda che mi farà… Mai visti vini dell’Oltrepò a Londra, ci saranno forse, ma penso sia una presenza talmente minima che io non li ho mai notati». Constatata la realtà, ragionando su come potrebbe essere, esistono vini oltrepadani che per caratteristiche organolettiche e di prezzo potrebbero essere presenti e competitivi sul mercato londinese? «Essere competitivi nel mercato londinese è estremamente difficile.

Il sistema di macchine che erogano vino inserendo una carta prepagata nel whine shop “Vagabond Whines” di Londra

«Scandali del vino? A mio giudizio sono un falso problema per l’Oltrepò, il cliente li percepisce di sfuggita e se ne dimentica» L’Inghilterra infatti è il terzo paese importatore, dopo Stati Uniti e Cina, per quanto riguarda invece le caratteristiche del prodotto e la qualità, io penso che lo spumante metodo classico potrebbe affiancarsi tranquillamente ad uno spumante francese o ad un Franciacorta. Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare e vale a dire che il cliente inglese, quando parla di spumante “vuole” bere Champagne. Uscendo dalla spumantistica, penso anche al pinot nero fermo vinificato in rosso, che potrebbe fare una buona figura». A livello di spumanti quante aziende oltrepadane potrebbero esportare a Londra nella fascia Premium ed essere competitive? «Secondo me, e mi riferisco a quelle che ovviamente piacciono a me e che conosco per la grande qualità, sono 3, e potrebbero stare assolutamente sul mercato sia per le qualità sia per il prezzo, anche se a Londra il prezzo non è un problema, Londra non produce vini per cui la clientela è preparata al fatto che è un prodotto che costa».

Un vino “nostro” e che caratterizza l’Oltrepò Pavese è senza dubbio la Bonarda, ferma o frizzante. Secondo lei è una tipologia di vino che potrebbe avere a Londra un certo appeal? «Se penso alla Bonarda ferma risponderei sì, senza ombra di dubbio perché incontra il gusto dell’inglese medio e dell’europeo medio che a differenza dell’americano che ha gusti più decisi anche con passaggi in barrique o in legno, all’europeo piace il vino fruttato, morbido e semplice, nel senso di facile beva, beverino. Detto questo non ho mai visto a Londra nessuna bottiglia di Bonarda». C’è a livello di caratteristiche organolettiche un competitor della Bonarda in Inghilterra? «A livello di stile ci sono vini simili, ma a livello organolettico se entriamo nel dettaglio no, è unica ed ha ottime potenzialità». Un altro vino oltrepadano che potrebbe stare nella fascia Premium? «Uno Chardonnay di struttura, oltre a quelli già menzionati».


GODIASCO salice terme Scendiamo nella fascia Media, qui quali vini inserirebbe? «Nella fascia media c’è posto un po’ per tutti, sono vini che a Londra costano 20/30 pound (22/33 Euro), Barbera o Resling potrebbero rientrare tranquillamente». Com’è visto dai suoi colleghi italiani o stranieri l’Oltrepò ed il vino? «è semplice, dei mie colleghi stranieri non lo conosce nessuno. Dei miei amici e colleghi italiani (milanesi) invece è conosciuto… è a due passi da Milano… Se parliamo invece di vino l’immagine è quella di un vino commerciale da 2/3 euro alla bottiglia e quando io mi ostino a dire che c’è anche altro in Oltrepò e meglio, in pochissimi mi credono, non lo sanno». Scandali del vino conosciuti e percepiti? «Sicuramente dagli addetti ai lavori ma dal consumatore poco o nulla, pertanto ritengo che il “problema” dell’Oltrepò non sia quello. Gli scandali del e nel vino ci sono in tutto il mondo con cadenza regolare, ma sono percepiti dagli addetti ai lavori, al cliente poco interessa e lo percepisce di sfuggita e se ne dimentica. A mio giudizio è un falso problema, ogni zona di produzione ha avuto, chi più chi meno, degli scandali, eppure ci sono zone che continuano a vendere ed altre che fanno fatica, l’Oltrepò, purtroppo fa molta fatica». Qual è il problema secondo lei? «L’Oltrepò punta sul prodotto sbagliato, sulla Barbera o sul Resling e su un sacco di vitigni che costano poco, invece dovrebbe fare esattamente l’opposto e puntare sulla qualità. Una Bonarda fatta bene, senza buttare dentro di tutto, oppure sulla spumantistica, troppo sacrificata per le potenzialità del territorio». Il nome Oltrepò abbinato ad un vino qualsiasi del territorio è motivo di riconoscimento e valore aggiunto? «La realtà è che se nel nome c’è Franciacorta conta, se c’è Oltrepò conta poco o niente.

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Non credono al valore del “marchio” Oltrepò neppure alcune nostre cantine, cantine che producono vini e spumanti di qualità, cantine che vendono e vendono bene, soprattutto nella fascia medio alta e lo fanno senza il marchio Oltrepò». Perché in Oltrepò i giovani come lei bevono poco vino del territorio e se devono scegliere scelgono altro? «Un po’ è il frutto della moda del momento, si usa sciabolare spumanti “famosi”, pratica che io non condivido ma che tra i giovani va per la maggiore. Spesso dico beviamo il tal spumante dell’Oltrepò, mi guardano straniti, perchè non lo conoscono». Tra tutti i vini dell’Oltrepò che ha bevuto qual è rispetto alla produzione la percentuale dei vini buoni? «Sono severo, percentuale bassa dal 5% al 10%. Chiaramente gusto e valutazione personale». Non sarebbe opportuno per i vini oltrepadani prima di farsi conoscere nel Mondo, radicarsi e rafforzarsi in casa propria? «Concordo in pieno. Prima investire nel territorio, poi forse nel mondo. Mi è venuto in mente qualcuno che lo sta facendo molto bene, un neo ristorante stellato di Stradella ad esempio, ha un’ ottima carta con una predilezione per i vini della zona. A mio parere dovrebbe essere da esempio. Anche perché è una vetrina importante e prova che i vini dell’Oltrepò, quelli fatti bene, possono stare in ristoranti eccellenti». Quanti produttori di vino locali sanno che lei lavora a Londra? «Penso zero, ma credo sia più per colpa mia che per colpa loro. Io ho sempre bevuto e apprezzato il vino oltrepadano ma non sono mai andato a farmi conoscere in nessuna azienda o cantina dell’Oltrepò» Se lei fosse un produttore di livello dell’Oltrepò, per provare ad imporsi a Londra con una presenza di nicchia sottolineabile, cosa farebbe?

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Simone Poppi, whine advisor presso una catena di whine shop a Londra

«Primo step manderei un agente capace che parli del mio vino, ma non so se farei riferimenti alla zona, dire Italia è già più che sufficiente, perchè a meno che non ci sia una particolarità o una caratteristica specifica del territorio, ad esempio penso ai vini di Pantelleria o a quelli delle Cinque Terre, ecco in questo caso sottolinierei anche la provenienza territoriale, nel caso dell’Oltrepò, punterei solo sul prodotto e sull’immagine del prodotto, una bella bottiglia e un’etichetta accattivante. Facendo qualche volo pindarico si potrebbe vendere il territorio Oltrepò in quanto

la sua conformazione geografica assomiglia ad un grappolo d’uva con le sue tantissime Cantine… Un po’ come la città di Reims che ha la forma di un tappo». Se qualche Cantina oltrepadana leggendo questa intervista la contattasse, sarebbe disposto a perorare la causa di un vino “buono” dell’Oltrepò presso i suoi buyer e colleghi londinesi? «Se il prodotto vale, certo che sì. L’Oltrepò non è una causa persa, si può ancora valorizzare». di Silvia Colombini



“Oltrepò drink twist”

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LARGO AI GIOVANI DELL’OLTREPò E ALLA LORO MENTA!

Francky Mint Fizz, il “meticcio” nato chiacchierando Di Emanuele Firpo Ottavo appuntamento legato al magico mondo della miscelazione, al quale abbiniamo la naturalezza e l’esclusività dei prodotti tipici firmati Oltrepò Pavese. Il clima è pienamente summer style, quindi prepariamoci a creare insieme un drink FRESCO, DISSETANTE e sicuramente PUNGENTE. Tutto è nato poco prima del lockdown quando Caterina e Andrea, sorseggiando un Enlighting Gin and Tonic [il gin di Bicio Zonca al quale dedicherò il prossimo articolo trattando il Gin Tonic perfetto, roba seria] al banco del mio bar, mi hanno chiesto info sulla menta che utilizzavo per preparare il mojito; le loro domande erano molto mirate, ho subito capito che avevano in mente qualcosa di importante. Infatti stavano progettando di inserire nella loro attività la produzione di menta e, caspita direi, l’hanno fatto! Ho usato l’esclamazione perché a distanza di qualche mese, proprio alle porte dell’estate, mi hanno portato questa nuova erba da provare. Che dire… un profumo così non avevo mai avuto la fortuna di sentirlo e vi assicuro che ho avuto il piacere di preparare mojito anche in paesi come Cuba e Tenerife dove utilizzano la mentha spicata, più comunemente chiamata hierba buena, considerata il top mondiale per la preparazione del dissetante cocktail che piaceva tanto allo scrittore Ernest Hemingway. Questi giovanissimi ragazzi, Caterina e Andrea, hanno azzeccato il loro progetto. Come potete immaginare a Salice Beach il numero di Mojito che quotidianamente i barman sfornano è incalcolabile. Ad oggi sono più buoni, più profumati. Ma da dove arriva questa menta? Viene prodotta dall’Azienda Agricola Bio “Tenuta Pizzone” a Rivanazzano Terme, quindi in Oltrepò Pavese! In questi articoli, come scritto sopra, unisco distillati e liquori a prodotti tipici del nostro territorio. Possiamo considerare la MENTA di Caterina e Andrea un prodotto tipico O.P.? IO DICO DI SÌ perché ogni singolo prodotto tipico ha una nascita e la mentuccia prodotta a Rivanazzano ha il primo natale nel 2020, anno che ci ricorderemo bene non solo per la menta, purtroppo. Questa menta, denominata piperita scura french style non la utilizzo solo per il mojito, sfruttando il suo profumo mi sono inventato un twist sul GIN FIZZ al quale ho aggiunto la menta e sostituito il distillato base, il gin, con un mix di whisky e whiskey che avevo in bottigliera.

Oltrepò Pavese…

i COCKTAIL d’autore con i prodotti del nostro TERRITORIO

Francesco ed il “suo” Francky Mint Fizz

è così nato il FRANCKY MINT FIZZ, una via di mezzo tra il gin fizz ed il mojito. Nel titolo ho scritto “nato chiacchierando”, sì, ho avuto questa ispirazione per merito di un amico cliente, Francesco, solito bere il mojito con il whiskey oppure il gin fizz allo zenzero. Una sera, preso da un’indecisione che lo tormentava assai, più o meno come un bambino da Toys per capirci, ho colto la palla al balzo facendogli la proposta indecente. Ovviamente gli ho detto che il drink a lui dedicato l’avevo sognato di notte, una bugia assurda che però ha dato un tocco magico alla situazione. Posso con piacere scrivere che adesso il FRANCKY MINT FIZZ è molto richiesto, del resto ha il whisk(e)y ma non sa di whisk(e)y, geniale no? Ora due parole sul GIN FIZZ, ringrazio F. Piccinino per le note storiche. Grazie Fulvio! Il cocktail semplice e dissetante nacque nei locali dove si suonava il Charlestone, la danza sfrenata inventata dagli scaricatori di porto di colore, agli inizi degli anni 20. Il ballo di derivazione jazzistica raggiungerà il suo successo massimo nel 1925. In questo periodo la gente viveva in maniera frenetica e dissoluta, facendo le cose più pazze forse presagendo che il mondo sarebbe piombato nel panico più assoluto a seguito del grande crack del 1929. Il ballo molto faticoso rispecchia il suo tempo ed è euforico, elettrizzante e molto eccitante, poiché fanno la sua comparsa paillette, gonne frastagliate e i primi seni nudi, che scandalizzano il perbenismo di allora. L’icona di questo movimento sarà Josephine Baker, la prima star afroamericana in assoluto che tanto fece per il movimento di emancipazione del suo popolo.

Sarà lei a diffondere il Charlestone in Europa, diventando una star delle Folies Bergere. Il drink serve a ristorare gli esausti ballerini, l’irruenza del gin di pessima fattura, figlio del Proibizionismo viene stemperata da zucchero, limone e soda, mantenendo un look innocente da semplice “lemonade”. Durante le cene con ballo al Waldorf Astoria di New York questo cocktail rinfrescante ed energetico era consumato in maniera esagerata dagli esausti ballerini, che ritrovavano le forze e si dissetavano grazie a zucchero e limone. Visse il suo periodo di massimo fulgore negli anni 50 all’inizio del dopoguerra quando i giovani ritornarono alle feste e al divertimento. Infine una simpatica curiosità: Gin & Fizz sono anche i due improbabili gangster interpretati dal duo Ale & Franz, i cui dialoghi surreali sono un grande esempio di comicità che unisce “noir” e stile demenziale. Un certo successo ha anche il Gin Lemon, una variante simile al gusto e più veloce in preparazioni di questo cocktail. Si può eseguire esclusivamente utilizzando una buona bibita sodata a base limone. Il Gin Lemon si esegue con una dose di gin e una bottiglietta di Lemonade a parte, seguendo la regola del Gin Tonic. Torniamo alla menta di Caterina e Andrea ed alla grande sete di Francesco. Quanti amici ti omaggia il lavoro del Barman, sono fortunato. FRANCKY MINT GIN FIZZ recipe. In un tumbler alto: 2.5 cl di succo di limone appena spremuto 2 cl di zucchero liquido 2 cl di whiskey americano (Jim Beam oppure Four Roses) 2 cl di whisky scozzese (Johnnie Walker Red Label)

3 germogli di menta fresca Tenuta Pizzone. Shakerare e successivamente aggiungere il ginger beer (soda allo zenzero) fino a colmare il bicchiere. Decorare con alcune foglie di menta Tenuta Pizzone e gustare in compagnia. Il drink è un ottimo digestivo rinfrescante ed alzando di 1 cl la dose di succo di limone può accompagnare i vostri aperitivi. In abbinamento al drink propongo del farro bollito al profumo di menta Tenuta Pizzone. Sbollentate il cereale, unite gamberetti scottati, acciughe sott’olio, pomodorini confit, sale, pepe ed alcuni germogli di menta. Invitate gli amici e… LARGO AI GIOVANI. Per reperire la menta su Facebook trovate Tenuta Pizzone di Rivanazzano Terme. Un grazie di cuore a Caterina e Andrea per la spettacolare MENTA ed all’amico Francesco, Francky, per aver dato sfogo alla mia fantasia che come sempre mi da ossigeno. Cheers! Consuma sempre i drink a stomaco pieno e non far mancare, di tanto in tanto, un sorso di acqua fresca. DEGUSTARE UN COCKTAIL È UN PIACERE… SE TI PERDI CHE PIACERE È?! DRINK RESPONSIBLY

Emanuele Firpo Barman e collaboratore presso Io&Vale, consulente per aziende del settore turismo, appassionato di merceologia e fondatore della Scuola per Barman “Upper School” di Salice Terme.


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varzi

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«Lo scenario post-covid rappresenta una nuova importante opportunità di sviluppo del turismo rurale» Il Piano del GAL A che punto siamo? Negli scorsi mesi abbiamo parlato su questo giornale del Gal Oltrepò e della pioggia di contributi che si preparava ad invadere il nostro territorio. L’accoglienza dei soggetti potenzialmente interessati, finora, non è stata delle più calde; il piano infatti è stato redatto ormai qualche anno fa, e forse le esigenze del territorio, nel frattempo, sono cambiate. Anche per questo l’organizzazione ha lavorato e sta lavorando per modificare alcuni “parametri” e far sì che la sua offerta possa meglio incontrare la domanda, ossia le esigenze territoriali. Nel frattempo è arrivato il Covid-19 a rompere ulteriormente le uova nel paniere. Insomma: questa pioggia di soldi, così come era stata definita, finora è rimasta un po’ fra le nuvole. Ma c’è ancora tempo per recuperare. GAL Srl è stato creato il 29 settembre 2016. Dal novembre 2019 il nuovo presidente del GAL Srl è Bruno Tagliani, già sindaco di Brallo e past president della Comunità Montana, ente che ha indicato il suo nome. A completare il direttivo ci sono Silvia Stringa (nominativo indicato dalla Camera di commercio), Giuseppe Bedini (Provincia), Nicola Adavastro (presidente del GAL Srl dopo la costituzione e fin a novembre, indicato da Ubi banca), Roberto Giannini (Comuni Oltrepo orientale), Andrea Deglialberti (Comuni Oltrepo occidentale), Gianluca Marchesi (Coldiretti), Gianluca Bisio (Unione artigiani varzesi), Maria Teresa Barbieri (Confagricoltura), Davide Lanati (Cia) e Roberto Moroni (Auser). A loro il compito di completare l’attuazione del Piano.

Ecco qui di seguito le risposte che Tagliani ci ha fornito in relazione allo stato di avanzamento del Piano e, più in generale, agli obiettivi perseguiti e da perseguire ai fini del rilancio territoriale. Partiamo dall’attualità. In questo momento si stanno ricevendo le domande di adesione al bando operazione 7.4.01, “Incentivi per lo sviluppo di servizi in favore della popolazione rurale”. La scadenza, inizialmente prevista per il 28 maggio, è stata posticipata al 28 luglio a causa dell’emergenza Covid-19. Quali sono gli obiettivi di questa misura e che tipi di interventi verranno finanziati? «Questa operazione contribuisce ad un nuovo welfare agricolo che, oltre al tradizionale reinserimento di soggetti svantaggiati deve prevedere prestazioni per la quotidianità del cittadino: sono ammissibili investimenti finalizzati all’offerta di servizi in ambito sanitario, socio-assistenziale, culturale ed ambientale, volti ad assicurare un’adeguata qualità della vita alle popolazioni rurali, avviare e/o potenziare servizi di utilità sociale, sviluppare attività didattiche e culturali dirette alla divulgazione ed al passaggio generazionale del patrimonio storico e civile delle popolazioni rurali; implementare i servizi offerti al fine di trattenere sul territorio soprattutto i giovani ed incrementare nuove opportunità di occupazione. Considerando le difficoltà derivanti dall’emergenza sanitaria Covid 19 e le esigenze del territorio, in relazione ai cambiamenti provocati dalla pandemia, il

Consiglio di Amministrazione GAL ha deliberato la proroga dei termini del Bando, poiché ha ritenuto che possa rappresentare un importante sostegno per la realizzazione e lo sviluppo di progetti legati alla sfera socio assistenziale di supporto alle famiglie, alle categorie più fragili e più in generale, in ambito sanitario e didatticoformativo.» Quali interventi possono essere finanziati? «Gli interventi ammessi a finanziamento sinteticamente possono riguardare ad esempio la realizzazione e/o il recupero di strutture e fabbricati, l’acquisto di strumentazione, impianti ed attrezzature anche di tipo informatico e sanitario, la realizzazione di siti multimediali e l’acquisto di mezzi di trasporto per servizi mirati agli obiettivi del Bando.» Il bando attualmente in corso è l’ultimo di una lunga serie. Vogliamo ricordare quali sono stati gli interventi principali finanziati recentemente agli enti locali del nostro territorio? «Nella precedente tranche di bandi, chiusi il 15 novembre 2019, sono stati finanziati progetti presentati da enti pubblici, privati e da singole aziende agricole. I principali investimenti riguardano interventi di tipo sovracomunale volti alla valorizzazione del turismo escursionistico, didattico ed enogastronomico, attenti alla sostenibilità ed all’accessibilità, compresa la realizzazione di portali che daranno una visione completa ed integrata dei servizi, offerti ai residenti ed ai turisti. Abbiamo sostenuto attività di informazione e promozione dei prodotti di qualità al fine di accrescere la conoscenza dei prodotti del nostro Oltrepò, sia nel consumatore europeo che italiano con l’obiettivo di trovare nuovi sbocchi commerciali per il brand “Made in Oltrepò”: ci tengo a sottolineare che sono stati finanziati anche interventi tesi a migliorare la produttività e la compe-

titività delle nostre Aziende Agricole quale importante risorsa del nostro territorio; sono stati promossi altresì progetti per il miglioramento della viabilità ed accessibilità delle strade agro-silvo-pastorali di uso collettivo.» Nonostante a finire in primo piano siano spesso e volentieri gli interventi realizzati dai comuni, Gal Srl opera per favorire anche tutti quei soggetti che possono concorrere ai fini stabiliti nel Piano di Sviluppo Locale (P.S.L.). Operatori economici, associazioni di categoria, culturali, organizzazioni di vario stampo. Le storie di tutti questi soggetti spesso sono strettamente intrecciate. I rapporti fra le persone-chiave di questi soggetti, invero, sono strettamente intrecciati. Quanto questa trama di contatti si rivela importante per lo sviluppo dell’Oltrepò, oppure in che misura lo può frenare? «La domanda mi offre lo spunto per illustrare un’altra peculiarità del nostro piano riferita ai processi di cooperazione e alla creazione di reti stabili. Il nostro Oltrepò storicamente ha sempre manifestato grandi difficoltà nell’attuare meccanismi di cooperazione tra i vari soggetti economici, e tra questi e le istituzioni del territorio. La creazione di un partenariato particolarmente rappresentativo e l’animazione territoriale svolta costantemente dal Gal contribuiscono alla definizione di un’autentica coalizione territoriale utile ad attivare nuovi programmi integrati, all’interno dei quali istituzione e soggetti economici e sociali si sostengono reciprocamente. L’attivazione di una più ampia rete regionale con altri Gal ha recentemente consentito alla nostra struttura di ottenere ulteriori importanti riconoscimenti.» Concentriamoci su una categoria ben definita: gli operatori economici privati. Quali vantaggi hanno tratto o potranno trarre questi dall’azione di GAL Srl?


varzi

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Bruno Tagliani, Presidente del GAL Srl da novembre scorso

«Il nostro Piano si articola all’interno di un più ampio scenario definito dal Piano di sviluppo rurale regionale, pertanto attenzioni particolari sono rivolte alle aziende agricole che operano sul territorio dove, considerata l’impossibilità di praticare l’agricoltura su vasta scala, si cerca di stimolare la diversificazione economica e lo sviluppo sostenibile. Il sistema economico dell’area Leader è costituito da una rete di imprese di piccole dimensioni che rivestono un ruolo centrale nel perseguimento degli obiettivi di piano dove la ruralità è intesa non solo come attività agricola in senso stretto ma anche come presidio, tutela, salvaguardia del territorio, valorizzazione della biodiversità, attenzione alle produzioni tipiche di nicchia. Attraverso i bandi di prossima pubblicazione si potranno finanziare progetti capaci di aumentare la competitività delle aziende favorendo l’ammodernamento tecnologico e l’acquisto di attrezzature innovative, la realizzazione di opere di miglioramento fondiario, ristrutturazione di fabbricati agricoli al servizio dell’azienda agricola, il recupero di strutture e fabbricati da adibire alla ricettività minore, l’acquisizione di nuove competenze attraverso percorsi di formazione specifici. Agli operatori economici del settore sociale sono riservati gli interventi previsti nella misura welfare di cui abbiamo detto, per le imprese e le associazioni che operano nel settore turistico sono previste iniziative finalizzate alla creazione di infrastrutture su piccola scala integrate con percorsi escursionistici, servizi di piccola ricettività, point informativi e piattaforme informatiche per mettere in rete gli operatori con le strutture e i relativi servizi.» La somma dei benefici realizzati a favore degli enti locali e dei soggetti privati coinvolti dovrebbe coincidere con una certa dimensione di crescita per l’intero territorio. Cosa sarà cambiato nell’Oltrepò al termine di questa tranche di finanziamenti e di azioni conseguenti? «In termini di risultati dall’attuazione del PSL ci attendiamo una serie di risultati concreti quali lo sviluppo e il consolidamento delle filiere produttive locali (vino, salame di Varzi, frutta, miele, vacca varzese) che chiedono di essere riqualificate e accompagnate nei percorsi di commercializzazione attraverso processi di aggregazione in grado di creare solide reti commerciali per la distribuzione dei prodotti della filiera corta.»

Cosa ha cambiato il coronavirus in questo? «Lo scenario post-covid rappresenta una nuova importante opportunità di sviluppo del turismo rurale, elemento economico trainante di tutti gli altri comparti produttivi. È un’occasione da cogliere attraverso la qualificazione dell’offerta turistica integrata, l’innalzamento della qualificazione degli operatori, maggiori e più incisive iniziative di promozione turistica. Attraverso il riconoscimento della risorsa bosco è possibile generare nuove forme di economia e sviluppare una nuova filiera agroforestale capace di produrre valore in campo energetico, turistico, didattico. Una corretta gestione forestale può ridurre il rischio di dissesto idrogeologico e permette di conservare il valore ambientale dell’area.» Le azioni del GAL Srl avvengono nel solco di una storia ormai ventennale: quella di “Leader”, “Liaison Entre Actions pour le Development de L’Economie Rurale” (che in italiano significa “Collegamento tra azioni di sviluppo dell’economia rurale”). In pratica, il programma comunitario di sostegno allo sviluppo nei territori rurali, fra i quali l’Oltrepò Pavese. Vuole raccontarci brevemente quali sono i capisaldi metodologici di “Leader”? «L’iniziativa Leader si può considerare la più innovativa esperienza promossa dalla Commissione Europea nell’ambito dei programmi di coesione territoriale. Riservato ai territori cosi detti svantaggiati si caratterizza per la sua specificità di esaltare la programmazione dal basso; grazie a questa nuova filosofia si incoraggiano più persone oltre gli amministratori eletti a partecipare e ad assumersi responsabilità nei processi decisionali che portano alla definizione di un Piano di sviluppo locale. I soggetti attuatori di queste politiche sono i Gruppi di Azione Locale che rappresentano un valore aggiunto alla governance territoriale in quanto espressione del partenariato locale, una equilibrata rappresentanza degli interessi economici, sociali e culturali dell’area. La filosofia di Leader si può definire come lo sviluppo della democrazia locale capace di coinvolgere tutti gli attori portatori di interesse della nostra comunità.» Lei ha ricoperto ruoli di primo piano nella politica locale, come sindaco di Brallo, come consigliere provinciale, come assessore e presidente della Comunità Montana, come Presidente del GAL Alto Oltrepò e poi di GAL Srl.

Dal suo punto di vista, che possiamo certamente definire “in prima linea”, come pensa che “Leader” abbia impattato sui nostri territori? «Come spesso avviene nel caso di innovazioni importanti l’inizio dell’attività del nostro Gal nel lontano 1997 è stata vista come un’incognita di scarsa credibilità. Nonostante questo scetticismo inziale il Gal ha saputo confermarsi per tutte le tornate di programmazione comunitarie che si sono succedute fino ad oggi, un importante risultato del quale l’intero territorio può compiacersi. Grazie alla caratteristica di strumento di collegamento con altri programmi, l’approccio Leader ha consentito di attivare iniziative importanti sul tema del miglioramento della qualità della vita dei nostri concittadini, sostenendo la competitività economica, sociale e ambientale dell’area, stimolando l’identità locale e il senso di appartenenza, spostando l’attenzione sul tema dei rapporti tra aree rurali marginali e aree urbane. Una serie di risultati importanti, considerando che per sua stessa natura il programma sostiene solamente iniziative immateriali.» Mi permetta anche una domanda piccante. Nel 2010 la Corte dei Conti europea evidenziò una “questione conflitto di interessi” nei Gruppi di Azione Locale. Anche per questo motivo Il tema del “conflitto di interessi” in riferimento allo sviluppo rurale e a Leader è stato approfondito in varie occasioni, anche con alcuni stimoli della Rete Rurale Nazionale. Devo dire che i GAL, e anche quello dell’Oltrepò Pavese, hanno preso più a cuore questi temi: effettuando qualche passo avanti sul tema della trasparenza, per esempio. Ma la strada mi sembra ancora lunga; e, diciamolo, un’atavica, italica burocrazia non facilita le cose. Qual è la sua analisi su questi temi? «Il tema del conflitto di interessi è disciplinato dal regolamento interno adottato dal CDA del Gal; all’interno del documento sono indicate le situazioni di potenziale conflitto di interesse di tutti i soggetti che operano all’interno del Gal ossia i soci, i membri del CDA, il personale dipendente, i consulenti esterni. Nel caso i soggetti sopracitati presentassero interesse diretto o indiretto in un determinato progetto non possono partecipare a nessuna delle decisioni in merito al progetto stesso. Il regolamento disciplina inoltre i criteri per l’acquisizione di forniture di beni e servizi che vengono effettuati nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica tipiche della Pubblica Amministrazione. La trasparenza dell’attività amministrativa è assicurata mediante la pubblicazione nel sito istituzionale della società delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali.» di Pier Luigi Feltri

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cosa sono i gal I GAL (gruppi di azione locale) sono i soggetti deputati ad attuare i PSL (Piani di sviluppo locale), secondo la metodologia “LEADER” (“Liaison Entre Actions pour le Development de L’Economie Rurale”, in italiano: “Collegamento tra azioni di sviluppo dell’economia rurale”). Questi piani riguardano diversi territori rurali. E per questa ragione esistono diversi Gal: uno per ogni territorio interessato. In Lombardia, per esempio, esistono dodici Gal, ognuno con un proprio piano. Ogni territorio possiede una popolazione compresa fra 40mila e 150mila abitanti. Il minimo comun denominatore fra i vari Gal è rappresentato dall’obiettivo di intervenire sui fattori che ritardano lo sviluppo delle aree, la limitata diffusione di nuove tecnologie, l’invecchiamento della popolazione, l’esodo rurale. Come? Incentivando nuove attività e fonti di occupazione, per esempio. E prevedendo che le azioni concrete da svolgersi all’uopo vengano siano caratterizzate un lavoro di squadra, fra le organizzazioni del settore pubblico, privato e della società civile. Chi finanzia i Piani di Sviluppo Locale preparati dai GAL? La Regione, attraverso i Fondi Strutturali Europei. Il PSL relativo al nostro territorio, realizzato nel 2016, è stato denominato “S.T.A.R. Oltrepò” e si concentra su tre ambiti: Sviluppo e innovazione delle filiere e dei sistemi produttivi locali, Turismo sostenibile, Accesso ai servizi pubblici essenziali. “S.T.A.R.” è l’acronimo di “Sviluppo, Territorio, Ambiente, Ruralità”. A presentarlo, come soggetto capofila di un partenariato di ampio respiro, è stata la Fondazione per lo Sviluppo dell’Oltrepò Pavese. Il decreto del Dirigente di Unità Organizzativa (DDUO) della Direzione Generale Agricoltura della Regione Lombardia del 29 luglio 2016 - n. 7509 ha pubblicato la graduatoria dei piani di sviluppo locale (PSL) ammissibili, non ammissibili e ammessi a finanziamento da parte di Regione Lombardia. Il piano del Gal Oltrepò risultava essere finanziato per oltre sei milioni di euro. Come indicato dal DDUO, il partenariato, essendo stato ammesso al finanziamento, ha dovuto costituire una nuova società con personalità giuridica (GAL Srl), dotato di uno statuto in grado di garantire il corretto funzionamento del partenariato. In questa società gli enti locali non possono detenere, complessivamente, una quota superiore al 49%. Inoltre, gli amministratori comunali in carica non possono ricoprire cariche sociali.


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Cheap but chic: PIATTI GOLOSI E D’IMMAGINE AL COSTO MASSINO DI 3 EURO

Fiori di zucca ripieni con caciotta della Valle Staffora Di Gabriella Draghi Abbiamo spesso parlato dell’uso dei fiori in cucina ed in questo periodo possiamo sbizzarrirci nella scelta per le varie preparazioni. Il mese di Luglio vede l’esplosione della fioritura dei fiori commestibili più conosciuti e apprezzati, più buoni, delicati e coreografici: i fiori di zucca. Crescono sia sulle zucchine sia sulle zucche, hanno petali allungati di un colore giallo aranciato e all’interno grossi pistilli. In cucina si usano fritti in pastella, ripieni o come farcitura per deliziose torte salate. Sono ottimi anche per preparare primi piatti delicati. Siamo abituati a chiamarli genericamente fiori di zucca ma sarebbe lecito fare una distinzione, dal momento che sia la pianta della zucca che quella delle zucchina producono fiori commestibili, molto simili. La differenza infatti è minima, i fiori di zucchina sono tendenzialmente più grossi, presentano petali appuntiti di un giallo acceso tendente all’arancio, ma hanno una profumazione quasi nulla. I fiori di zucca invece hanno dimensioni minori, petali arrotondati giallo tenue e una profumazione più accentuata. In commercio di solito troviamo i fiori di zucchina e raramente quelli di zucca. Se abbiamo la fortuna di avere un orto, i fiori vanno raccolti di prima mattina perché si aprono all’alba e dopo poche ore si richiudono. Bisogna però fare un’ulteriore distinzione tra fiori maschili e fiori femminili.

Ingredienti per 6 persone 24 fiori di zucca con lo stelo 3 uova grandi mezza caciotta della Valle Staffora pane grattugiato olio di semi di arachide sale

Questi ultimi sono quelli attaccati al frutto, ovvero alla zucca o alla zucchina, e permetto al frutto di crescere, cadendo poi quando ha raggiunto la completa maturazione . I fiori maschili invece crescono attaccati al proprio stelo, detto peduncolo, e non portano a fruttificazione, ma contribuiscono all’impollinazione della pianta, visto che il polline contenuto nello stame dei fiori maschili raggiunge il pistillo dei fiori femminili. Quindi se raccogliamo quelli femminili attaccati al frutto questo smetterà di crescere, mentre se stacchiamo quelli maschili rischiamo di arrestare la produzione della pianta stessa.

Il consiglio dunque è di fare una raccolta intelligente e ragionata, lasciando sempre almeno un fiore maschile per ogni pianta permettendo in questo modo alla pianta di proseguire nella normale produzione. Per la ricetta di questo mese utilizzerò i fiori di zucca con lo stelo come indicato dalla ricetta originale di mia mamma perché sono più profumati e più comodi da farcire ma si possono usare anche quelli di zucchina che si trovano di solito al supermercato. Come si preparano: togliamo delicatamente il pistillo e il gambo ai fiori di zucca appena colti, li laviamo e li mettiamo ad asciugare su carta assorbente.

Tagliamo ora la caciotta a bastoncini lunghi circa 4 centimetri. Inseriamo un bastoncino di caciotta all’interno di ogni fiore e chiudiamo accuratamente. In una ciotola sbattiamo bene le uova con un po’ di sale. A questo punto prendiamo ogni fiore ripieno, lo rigiriamo bene prima nell’uovo sbattuto e poi lo impaniamo nel pane grattugiato. In una padella con i bordi alti, versiamo una buona quantità di olio di semi di arachide e lo portiamo a temperatura, deve essere ben caldo. Friggiamo i nostri fiori ripieni poco alla volta rigirandoli con delicatezza e li sgoccioliamo poi su carta assorbente. Li serviamo caldissimi come antipasto sfizioso ma, accompagnati da una fresca insalata , possono diventare un secondo gourmet. Buon appetito!! You Tube Channel & Facebook page “Cheap but chic”.


SANTA MARGHERITA STAFFORA

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Grazie alle nuove misure torna il medico a Santa Margherita Staffora A causa dell’emergenza Covid-19 anche l’ambulatorio medico e l’armadio farmaceutico di Casanova Staffora sono rimasti chiusi al pubblico da oltre tre mesi. Il sindaco Andrea Gandolfi ha tenuto, tuttavia, alta l’attenzione sul tema e alla fine entrambi i servizi, da pochi giorni, hanno riaperto. Qui di seguito le parole del sindaco in merito al tema. Sindaco, alla fine l’ambulatorio e l’armadio farmaceutico hanno riaperto. Come funziona il servizio? «Siamo riusciti a far ripartire il servizio dell’ambulatorio medico e dell’armadio farmaceutico in collaborazione con il dottor Giuffrè e con la farmacia comunale di Varzi. Il servizio dal 7 luglio è attivo presso i locali della ex scuola elementare di Casanova e sarà disponibile tutti i martedì e i giovedì dalle ore 11.30 alle ore 12.30. Le persone potranno usufruire del servizio attenendosi alle disposizioni precauzionali per il contenimento del virus Covid-19, quindi saranno contingentati gli ingressi, permettendo l’accesso di una sola persona alla volta munita di mascherina». Il servizio era rimasto attivo per tutto il periodo peggiore della pandemia Come è stato possibile? «In quanto il medico di base ha mantenuto il contatto con tutti i suoi assistiti, rispondendo alle chiamate ma anche telefonando lui stesso ai pazienti. Prescriveva farmaci girando direttamente le ricette alla farmacia e per chi non poteva recarsi a ritirare i farmaci si attivavano i volontari. Tutt’ora sono a disposizione i nostri operatori della protezione civile». Cosa può dire sull’operato dei medici di base?

Andrea Gandolfi

«Che hanno lavorato sodo e li ringrazio tutti, hanno rischiato molto restando in prima linea. Hanno dato tutto il supporto necessario, nessuno tra i pazienti è stato trascurato. Proprio in questi giorni l’amministrazione comunale, in contatto con i medici di base, ha organizzato misure di sicurezza al fine di rendere idonei l’ambulatorio e l’armadio farmaceutico e garantire la normalità rispondendo efficacemente ai protocolli stabiliti. Mi sento sereno nel modo più assoluto e dico a chi temeva una mancata riapertura che le voci e i dubbi in merito erano totalmente infondate». Come hanno vissuto gli abitanti di questo territorio l’emergenza sanitaria? «Come tutti i paesi travolti dalla pandemia. Hanno sofferto molto, temendo di essere contagiati. Comunque la popolazione ha dimostrato un forte senso civico in quan-

to al rispetto delle norme. Da parte nostra c’è stata la massima collaborazione con la costituzione del Centro Operativo Comunale, 24 ore su 24. Volontari della protezione civile hanno prestato assistenza alla cittadinanza provvedendo i beni di prima necessità in modo da far rimanere in casa i più anziani». Sempre in relazione alla fase di emergenza Covid-19, quali sono state le conseguenze a livello economico? «Come in tutte le parti di Italia anche qui il lockdown ha costretto quasi tutte le attività alla chiusura, per cui c’è stata una perdita economica non indifferente. In questo lasso di tempo c’è stata quella che si può definire una compressione a livello economico tra le strutture turistiche e le aziende artigianali del nostro territorio». Quanto tempo ci vorrà per la ripresa? «Vorremmo nell’interesse di tutti una ripresa veloce, ma non sarà facile con le nuove normative da attuare. Sia il Governo che Regione Lombardia, hanno dato delle disposizioni molto precise per la tutela di tutti». Per attività intendiamo alberghi, agriturismi, falegnamerie, cooperative, etc etc etc Qualcuno ha già riaperto i battenti? «Alcuni sono già ripartiti, altri invece si stanno organizzando adeguandosi alle nuove normative per la riapertura. Mi auguro che con la stagione estiva, possano recuperare quello che hanno perso negli ultimi mesi e poter lasciare alle spalle il brutto periodo». Nel frattempo il Comune come ha provveduto alle famiglie in difficoltà? Progetti per aiutare le attività? «Grazie al contributo messo a disposizione

dallo Stato agli enti locali, il Comune ha erogato dei buoni spesa validi all’interno dei negozi presenti sul territorio comunale e li erogherà nuovamente. Preciso che sono validi anche per i farmaci. Per quanto riguarda le attività, l’amministrazione comunale sta studiando di porre in atto sgravi fiscali, che vadano a sopperire il mancato introito subito durante il look down». Da sindaco, ma innanzi tutto da cittadino, come ha vissuto personalmente l’esperienza del Covid-19? «Mi sono sentito padre di una grande famiglia e ho avuto paura, mai mi sarei aspettato una situazione del genere. Mi sono sentito ancor più responsabile e ho fatto tutto il possibile per non lasciare “indietro” nessuno, il mio cellulare è rimasto acceso giorno e notte». Durante questi mesi, secondo lei, quale spirito ha prevalso tra i suoi concittadini? «Sicuramente il coraggio seguito dalla sensibilità e dall’impegno per il bene di tutti. Qui vorrei ringraziare quelle persone che hanno trasformato il loro lavoro in un’opera sociale ed i negozi di alimentari che potevano optare per la chiusura e invece sono rimasti aperti garantendo un presidio per la prima necessità. L’amministrazione comunale ringrazia la signora Donatella Muffato che ha cucito le mascherine per tutti gli abitanti, in un momento in cui erano irreperibili sul mercato ed erano la prima misura utile per contrastare il contagio. Questi sono i gesti che dimostrano altruismo e vero amore per il proprio paese e rafforzano la comunità». di Stefania Marchetti



ZAVATTARELLO

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«Riteniamo sia merito anche dell’azienda se il territorio non si è del tutto spopolato» A Zavattarello uno dei borghi più belli d’Italia situato a seicento metri di altezza nell’alta val Tidone, sessanta anni fa Gianesi Edilio dopo essersi trasferito da Romagnese dove faceva il fabbro, fondò l’azienda che porta il suo stesso nome. Oggi è la signora Patrizia Buscaglia, moglie del primogenito del fondatore, a dirigere l’attività che produce serbatoi a pressione in acciaio al carbonio e acciaio inossidabile usati per costruire compressori d’aria, inclusi quelli stradali, e per le applicazioni negli impianti Oil and Gas. L’azienda oggi conta 35 dipendenti e svariati accreditamenti ed approvazioni tecniche, esportando oltre il 70% dei prodotti (l’azienda tra l’altro ha costruito i serbatoi per i treni che attraversano la Manica). Il fatturato supera i 6 milioni con manodopera per lo più locale ed è una delle aziende leader in Europa. Patrizia, da quanto tempo esportare il vostro prodotto e in che quantità? «Da circa sessant’anni. Mio suocero cominciò quasi subito ad esportare i serbatoi che produceva e tutt’ora il 70% del prodotto viene esportato. Noi lavoriamo molto con il Belgio e se la stessa azienda belga da decenni continua a farci richieste un motivo c’è... Acquistare serbatoi da noi che siamo in un paese sulla cima di una collina vuol dire che il nostro prodotto è più che sicuro». Potete definirvi un’azienda solida? «Assolutamente sì, anche se i momenti difficili non sono mancati, anche questo settore del resto come tutti gli altri ha fatto fronte a delle vere e proprie crisi». Quando è successo? «La prima fu a cavallo degli anni ottanta e furono anni molto difficili ma poi riuscimmo a superare tutto, dopo vent’anni la seconda la grande crisi nel 2007 e a quanto sembra ci stiamo preparando ad affrontarne un’altra in conseguenza della pandemia e lo facciamo con un bagaglio pieno di esperienza, quindi mi auguro di essere ancora qui a parlarne tra qualche anno». Date lavoro a diverse famiglie sia di Zavattarello che dei Comuni limitrofi. Quante persone oggi lavorano nella vostra azienda? «Ci sono stati tempi in cui avevamo un numero considerevole di operai e dipendenti adesso siamo rimasti in trentacinque, sono subentrate le macchine ed essendosi automatizzato anche questo lavoro, si è ridotto il bisogno di manodopera. Siamo passati dal lavoro di serie a un lavoro tra virgolette più raffinato grazie all’impiego delle macchine». Per voi quali sono state le conseguenze del Covid-19?

Voi vi trovate sulla cima di una collina e con le strade dissestate, come ve la cavate con i trasporti? «Restare qui richiede molto coraggio. Mio suocero ne ha avuto davvero tanto e io ne ho altrettanto, mi auguro ne abbiano i miei figli dopo di me. Dopo questa doverosa premessa, sul tema strade che dire... Abbiamo strade impossibili e due camion di linea da caricare tutte le settimane per il Belgio ma che non possono arrivare fin qui, per questo abbiamo dovuto aprire una sede secondaria nel piacentino dove le strade sono percorribili e migliori di quelle oltrepadane.

Patrizia Buscaglia Gianesi, presidente del Cda della Gianesi Edilio srl

La Gianesi Edilio compie 60 anni. Suoi i serbatoi dei treni che attraversano la Manica

«Siamo stati fermi per due settimane ma poi abbiamo dovuto riprendere la produzione, dato che il nostro cliente fa parte della filiera del sanitario e fa il trattamento dell’aria, ci hanno chiesto di proseguire con il lavoro. Naturalmente lo svolgiamo in sicurezza osservando i criteri imposti dalla legge». Quest’anno la vostra azienda compie 60 anni. Cosa organizzerete per l’occasione? «Sarebbe bello ritrovarsi tutti insieme per una cena e farci i complimenti ringraziandoci l’un l’altro, ma quest’anno non credo sarà possibile dato che stiamo affrontando un periodo così particolare a causa della pandemia. Rimanderemo a tempi miglio-

ri, quando saremo definitivamente in “sicurezza”». Fare la gavetta, finite le scuole, “da Gianesi” è stato per molti anni un passo quasi obbligato per i ragazzi del posto. Molti si sono fermati e sono cresciuti con voi, così come i loro figli. è anche questo il segreto del vostro successo? «Posso dire che nella nostra attività si respira un’aria familiare in quanto il lavoro è stato tramandato dai padri ai figli fino alla terza generazione, ci si conosce tutti e ci diamo tutti del tu, è un clima sereno e se abbiamo superato momenti critici lo dobbiamo alla massima collaborazione e comprensione da entrambi le parti, titolari e dipendenti».

Il Cav. Gianesi Edilio, fondò l’Azienda negli anni 60’

Con un nostro camion trasportiamo i prodotti fino alla sede del piacentino e da lì camion di linea vengono caricati senza difficoltà e ripartono per il Belgio». Cosa comporta in senso economico avere la proiduzione a Zavattarello? «Ulteriori spese. Essendo fuori dalle linee il costo è maggiore sia per ricevere le materie prime sia per la consegna a destinazione del prodotto finale. Avete mai pensato di trasferirvi? «Posso dire che restare a Zavattarello ne vale la pena. Grazie a noi qui sono rimaste tante famiglie che popolano il paese e fanno restare aperte le scuole e i negozi che sono in paese. Riteniamo sia merito dell’azienda se il territorio non si è del tutto spopolato. Mio suocero scelse di creare qui la sua azienda in quanto era molto attaccato a questo territorio e ricevette la medaglia “La fedeltà Montanara” Anche se può sembrare un luogo sperduto tra i monti, qui ci sono possibilità e pregi che non vengono sfruttati totalmente a causa delle strade rovinate. Anche internet ha problemi, abbiamo messo una parabola per avere una linea più veloce, proprio ora che viviamo una fase in cui la tecnologia si rivela assolutamente indispensabile, non è possibile restare tagliati fuori. Ci auguriamo piani concreti e non solo sulla carta per migliorare strade e linea telefonica». di Stefania Marchetti


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COLLI VERDI

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“La Quercia”, compie 50 anni Terza generazione della famiglia Cardanini Il Ristorante “La Quercia” è una delle attività più longeve dell’Alta Val Tidone, località Torre degli Alberi, nel Comune di Colli Verdi. La famiglia Cardanini l’ha fondato ed oggi è alla sua terza generazione. Quest’anno avrebbe dovuto festeggiare i 50 anni di attività, ma a causa dell’emergenza sanitaria non è stato possibile - «festeggiamenti solo rimandati!» - precisa Sonia Cardanini che insieme alla sua famiglia gestisce oggi l’attività. Sonia avete da poco compiuto i 50 anni di attività, un compleanno simbolico che non avete potuto festeggiare a causa dell’emergenza sanitaria in atto. Ora che il lockdown è concluso a quando i festeggiamenti? «Si pensava di festeggiare questa estate, ma la situazione non è ancora delle migliori. Speriamo di poterlo fare entro l’anno». Il nome “La Quercia” da che cosa nasce e chi l’ha pensato? «“La Quercia” nasce da una piccola quercia piantata da un mio avo, proprio davanti all’abitazione che poi fu trasformata in ristorante, da qui il nome». Sonia, lei è la terza generazione che porta avanti il ristorante di famiglia. Ci racconta com’è nato e per volontà di chi? «Il ristorante nasce dall’idea di mia nonna paterna che amava cucinare. Erano una famiglia di contadini, mio nonno faceva il muratore e intorno agli anni 60’ hanno cercato di sistemare la loro casa, in base alle possibilità economiche, trasformandola in una piccola trattoria. Nel corso degli anni, con tanti sacrifici e rinunce, ha preso forma l’attuale ristorante».

Sonia Cardanini con la mamma e la zia, il team tutto al femminile del ristorante “La Quercia”

Chi le ha insegnato a cucinare? «Diciamo che della cucina se ne è sempre occupata prima mia nonna, poi mia zia, la sorella di mio padre e adesso mia mamma, io mi occupo più della gestione». Cucina tipica del territorio, tradizionale in tutto e per tutto. Quali sono i piatti più apprezzati dalla vostra clientela? «Nel corso di tutti questi anni abbiamo sempre cercato di mantenere le tradizioni: dai salumi, ai ravioli ed alla pasta fresca

fatta a mano, alle tagliatelle con i funghi, malfatti con le ortiche e tanti altri piatti tipici della zona mantenendo gli antichi sapori della tradizione». Il vostro menu, nel corso degli anni, ha subito delle variazioni o sono state apportate delle innovazione? «I piatti cucinati da noi sono più o meno gli stessi, come dicevo prima il nostro intento è quello di riproporre gli antichi sapori della tradizione.

«I nostri clienti ormai fanno parte della nostra grande famiglia».


COLLI VERDI Cerchiamo comunque di adeguarci anche alle esigenze più disparate dei clienti». La vostra clientela è principalmente del posto? «La nostra clientela è vasta, comprende i lavoratori della settimana e i turisti provenienti dalle città limitrofe durante il fine settimana». Provvedete ancora voi personalmente alla macellazione dei maiali ed alla produzione degli insaccati? «I maiali li facciamo macellare come previsto dalle leggi vigenti e mio papà si occupa della stagionatura che viene fatta rigorosamente in cantina, un passaggio molto importante per ottenere un buon risultato finale». Ora al timone dell’attività siete lei, sua mamma e sua zia. Si lavora bene tra donne? «Come in tutte le migliori famiglie le discussioni sono all’ordine del giorno, però mia nonna mi diceva sempre che “l’unione fa la forza” e insieme si decide tutto». Avete dipendenti, collaboratori o fate tutto da sole? «Abbiamo una dipendente fissa e, al bisogno, abbiamo aiuti esterni». Sua madre è originaria del genovese. Nella vostra cucina c’è un po’ di Liguria? «Mia mamma è arrivata qui nel 1972 all’età di 17 anni per lavoro e poi ha trovato l’amore! Qualche piatto ligure c’è, ma ben poco, ormai è un’oltrepadana naturalizzata». Gli uomini della famiglia, mettono becco in cucina?

LUGLIO 2020

Una tradizione che si tramanda di madre in figlia «Carolina la più grande che ha 12 anni mi aiuta al bar, Giulia che ne ha 7 sparecchia i tavoli» Si occupano di qualche altro aspetto del ristorante oppure sono “banditi”? «Come già detto in precedenza, l’unione fa la forza e al bisogno ci aiutano altrimenti loro hanno altre attività». Lei è cresciuta al ristorante e con lei oggi ci sono le sue due figlie. Auspica che anche per loro la strada della ristorazione? «Ho due figlie e sono ancora troppo giovani per decidere. Carolina la più grande che ha 12 anni mi aiuta al bar, Giulia che ha 7 anni sparecchia i tavoli ma non posso esprimere nessun giudizio, mi piacerebbe che almeno una di loro continuasse con me, ma a loro la scelta». Com’è cambiato il modo di fare ristorazione in questi anni? «Fare ristorazione negli ultimi anni è diventato molto più complesso, il cliente è più esigente, sono cambiate molte normative che a volte ti ostacolano nel lavoro».

Secondo il noto chef Carlo Cracco “a salvarsi saranno soprattutto i locali che hanno sede nei piccoli borghi e attività familiari con costi di gestione contenuti”. Condivide questo pensiero? «Sicuramente i locali a gestione familiare sono più avvantaggiati sotto diversi aspetti, però non è facile neanche per noi, abbiamo dovuto ridurre di un 50%, anche di più, i posti a sedere mentre le spese di gestione sono rimaste uguali a prima». Avete notato un calo di clienti nel periodo della ripartenza? «La ripartenza è stata molto cauta, però ci siamo rifatti subito, si lavora molto il fine settimana, molti cittadini hanno riscoperto le nostre bellissime colline». A tal proposito si parla molto quest’anno di un ritorno al turismo sulle nostre colline. È tutto vero? Ci sono richieste di seconde case da affittare e/o acquistare nelle vicinanze?

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«Quest’anno ci sono molte richieste di case da affittare o addiruttura da acquistare, questo perchè comunque ci troviamo a due passi da Milano e poi credo anche che la gente abbia riscoperto la voglia di tranquillità, natura, buon cibo e semplicità, che è tutto ciò che si può trovare facilmente in Oltrepò». In che modo avete dovuto adeguare e sanificare il ristorante ed il bar annesso per rispettare il decreto sulle riaperture? «Per poter riaprire abbiamo dovuto sanificare tutti i locali, distanziare i tavoli sia al ristorante che al bar, mettere colonnine per la sanificazione delle mani, guanti, mascherine e tanti prodotti per la pulizia dell’ambiente». Ha mai pensato di gettare la spugna o ne è valsa e ne vale sempre la pena? «Ci sono sicuramente dei momenti in cui vorresti abbandonare tutto, però il nostro lavoro è come una missione, lo facciamo tutti i giorni, tutto l’anno con tanti sacrifici e rinunce, ma sempre con il sorriso, tanto amore e molta disponibilità verso le persone che ci vengono a trovare. Ringraziamo tutte le persone che ci hanno aiutato ad arrivare fino a qui, perchè senza di loro “La Quercia” non ci sarebbe. In questi 50 anni abbiamo condiviso momenti felici, ma anche momenti tristi con i nostri clienti che ormai fanno parte della nostra grande famiglia».

di Silvia Colombini



Colli verdi

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Nasce l’ASD “Altri Passi”, «Un luogo di aggregazione ed appartenenza destinato alla cittadinanza tutta» La “ASD Altri Passi” nasce al fine di creare un momento di aggregazione per una frazione, prima capoluogo dell’ex comune di Valverde, che necessitava di uno spazio dove ritrovarsi e riscoprire come una comunità possa godere di un luogo fantastico in armonia con il paesaggio facendo sport e gustando cibi e bevande autoctone. “Altri passi” vuole che giovani e diversamente giovani possano coralmente confrontarsi e raccontarsi. La sfida è stata raccolta da un gruppo di cittadini, ma l’intera comunità di Valverde saprà cogliere la grande opportunità. L’associazione ha in gestione il centro polivalente di Valverde “Stefano Bozzola” che dispone di un campo da calcetto e un campo da calcio a sette in erba, un campo da tennis e un campo da bocce. Carlo Degli Antoni è il presidente dell’associazione. La sua vice è Cristina Rebolini. Completano i quadri Sergio Cristiani, Carlo Degli Antoni, Marta Bozzola, Lella Rossotti, Piero Moro. Degli Antoni una nuova iniziativa per Valverde, cosa vi ha spinto a realizzare questo progetto? «La nostra è una associazione sportiva che gestirà un circolo e soprattutto un luogo di aggregazione ed appartenenza, destinato alla cittadinanza tutta. Valverde come capoluogo prima ed ora come frazione di Colli Verdi necessita di uno spazio comune nel quale trovarsi e anche ritrovarsi, dopo le note tristi vicende. È sempre stato piacevolissimo godere nel vedere giovani, giovanissimi e meno giovani sedere allo stesso tavolo di un bar, oppure giocare ai giochi popolari e ancora gioire alle feste della Pro Loco (sempre attiva e con grande passione nel gestire tutti gli eventi). “ASD Altri Passi” vorrebbe poter oggi, sempre con il preziosissimo aiuto della Pro Loco, poter rivivere tutti i momenti passati, recenti e meno; non è solo nostalgia, ma necessità di “rifondare” un grande senso d’appartenenza». Quali sono le attività promosse dall’associazione? «Il circolo prevede attività sportive come tennis, calcio, calcetto e bocce. Il centro sarà deputato ad una collaborazione con un’azienda del territorio, “Birrificio Oltrepò” di Sergio Cristiani, che vi trasferirà parte delle proprie attività specifiche, ad esempio merende e degustazioni. Ci piacerebbe che si potesse creare una cosiddetta “degusteria” per gli associati, dove inserire prodotti come formaggi vaccini e di capra, così come miele e confetture, nonché i salumi del territorio». Bozzola sarete attivi solo stagionalmente o durante tutto l’arco dell’anno? «La attività sarà aperta tutto l’anno, anche se in tempo di pandemia dovremo com-

Segio Cristiani, Carlo Degli Antoni, Marta Bozzola, Lella Rossotti e Piero Moro

prendere come luoghi chiusi dovranno/ potranno essere gestiti». Cristiani, Valverde conta nel proprio territorio un produttore di salumi e lei che produce birra, questo connubio crede che potrà essere vincente? «La presenza nel territorio di due eccellenze come il Salumificio Valverde (che fa parte del consorzio di Tutela del Salame di Varzi) ed il Birrificio Oltrepò sono fondamentali per la nostra attività. A parte l’aiuto, anche economico, che entrambe le aziende ci hanno dato esiste un reciproco vantaggio in quanto il centro sarà la vetrina naturale per entrambe le produzioni e saranno studiati eventi appositi per valorizzare queste due importanti realtà dell’Alto Oltrepò». Rebollini quali sono le caratteristiche che più vi contraddistinguono e più vi definiscono? «L’associazione è estremamente eterogenea e questo lo riteniamo un grandissimo vantaggio. Ognuno si esprimerà per il raggiungimento del comune obiettivo; vorremmo diventasse un punto di riferimento per l’intera e più ampia area». Questo complesso è stato ristrutturato dall’amministrazione quando Valverde era ancora comune, prima di essere fuso con Ruino e Canevino in Colli Verdi. Avete trovato nelle nuove istituzioni la stessa disponibilità delle precedenti? «La giunta attuale ha voluto aiutare nel rendere disponibile questo luogo ai cittadini, ringraziamo in particolar modo il sindaco Sergio Lodigiani ed il Vicesindaco Danilo Marini». Nell’era post-Covid si parla di un ritorno al turismo sulle nostre colline.

Valverde è località di seconde case: ha avuto sentore di questa tendenza? «Stiamo assistendo ad un ritorno delle vacanze in collina. È una fotografia che viene dal passato… ma che fa tanto bene ai nostri cuori, legati profondamente alle radici di questo territorio». Esistono a Valverde delle strutture recettive e di svago per i turisti? «Esiste un bed and breakfast così come

degli appartamenti di vacanza, il circolo vorrebbe poter sopperire alla mancanza di altre attività commerciali. Fare impresa in Oltrepò non è cosa facile! L’associazione, che non farà attività commerciale, potrà aiutare quegli imprenditori che invece hanno e avranno la capacità di cogliere questa sfida». di Silvia Colombini


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PICCOLI COMUNI E CAMMINI D’oLTREPò

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TUTTE LE STRADE PORTANO A… MONTALTO PAVESE La frase “Io resto a casa” è diventata il mantra di questi lunghi mesi di lockdown, in cui ci siamo visti privati della libertà di movimento e di attività fisica. Momenti in cui abbiamo avuto la possibilità e forse anche la necessità di rivalutare le nostre abitudini. Allentate le restrizioni, molti di noi hanno avvertito forte il desiderio di poter stare di nuovo all’aria aperta, compiere una bella passeggiata in mezzo alla natura. Quale migliore occasione per riscoprire angoli di paradiso e di storia del nostro Oltrepò Pavese? La camminata che proponiamo in questo articolo è adatta a chiunque abbia un minimo allenamento e ci porterà a raggiungere il comune di Montalto Pavese da una strada alternativa rispetto a quella principale. Il percorso è di circa 10 km. Il punto di partenza è il centro di Oliva Gessi, dove è possibile parcheggiare l’auto di fronte alla chiesa di San Martino Vescovo, che contiene la statua di San Luigi Versiglia, nato proprio nel borgo nel lontano 1873 e proclamato santo da Papa Giovanni Paolo II nel 2000. Si prosegue lungo la strada asfaltata e dopo aver attraversato il centro, con il suo caratteristico arco in mattoni, la vista si apre ad uno scenario mozzafiato, sulle colline pavesi, che ricordano molto le rinomate Langhe piemontesi. La strada scorre su un crinale dove alla nostra destra troviamo un mare verde di vigne e intravvediamo sulla cima della collina il castello di Montalto Pavese, eretto alla fine del sedicesimo secolo, per volere di Filippo Belcredi. La meta ci appare così lontana eppure in poco meno di un’ora raggiungeremo il centro del comune situato proprio alle pendici dell’antico maniero. Se chiudiamo gli occhi per alcuni istanti possiamo immaginare la vita di corte che si svolgeva all’interno dei suoi rinomati giardini. Il nitrito di un cavallo al galoppo, che ci passa accanto, ci riporta alla realtà. Alla nostra sinistra invece il paesaggio è urbanizzato. Il primo paese che si scorge è il comune di Torricella Verzate, dominato dal Santuario della Passione eretto in cima al Sacro Monte. Poco più avanti, in linea d’aria scorgiamo la torre del Castello di Mornico Losana, e la Frazione Castello di Santa Giuletta, con la sua villa un antico castello. L’Oltrepò Pavese, si sa, è una terra ricca di antichi castelli feudali. Poco dopo raggiungiamo un bivio e seguiamo l’indicazione per Montalto Pavese. Le poche piante che si incontrano ai lati della strada, ci donano una piacevole ombra. In generale non è un percorso ombroso, perciò è sconsigliato nelle prime ore del pomeriggio, nei mesi estivi. La salita è piuttosto dolce e costante, e

Oliva Gessi vista da Montalto

La mappa del percorso Oliva Gessi - Montalto

Il santuario della Passione di Torricella Verzate, visto da Oliva Gessi

Mornico Losana e la Torre del castello visto da Oliva Gessi

fa sì che non si senta la fatica. Nei campi si ode il rumore di alcuni trattori intenti alla manutenzione delle vigne. Nelle ultime settimane la pioggia è stata presente in modo costante e gli esperti dicono che sarà un’annata di ottimo vino. Di tanto in tanto incontriamo piccole frazioni e vecchie case ristrutturate, che godono di una splendida vista sulla vallata. Quando la salita si fa più accentuata capiamo che non siamo lontani dal nostro traguardo. Lungo la strada incontriamo piccoli gruppi di camminatori, che si godono il cielo azzurro di una splendida domenica di sole. Finalmente raggiungiamo il paese, e miriamo alla piazza per gustare una bibita fresca. Il ritorno è meno faticoso, in quanto tutto in discesa e ci permette di godere di uno scenario inverso. Questa volta la meta è Oliva Gessi, con il suo borgo antico circondato da campi dorati di grano. di Elisa Contardi

Il castello di Montalto Pavese visto da Oliva Gessi


CASTEGGIO

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«L’amministrazione è attenta e in ascolto, l’opposizione non pervenuta» Il Pistornile, il cuore di Casteggio, sta lentamente tornando agli antichi splendori. Mesi fa ci eravamo occupati della situazione drammatica in cui versava questo quartiere casteggiano. Adesso abbiamo chiesto a Pierfrancesco Fasano, presidente del Comitato del Pistornile, com’è la situazione e cosa è stato fatto. Presidente, aggiornamenti riguardo al Pistornile? Sono cambiate un po’ le cose? «Diciamo luci ed ombre. Le luci sono alcune nostre richieste accolte dall’amministrazione comunale o realizzate da noi stessi. Le ombre restano ancora tante: la mancata revisione di un piano traffico generale, quella della segnaletica stradale orizzontale carente, le strade transennate perché sconnesse, gli immobili fatiscenti e a rischio di rovina, quelli abbandonati dai proprietari, le poche ordinanze sindacali contigibili ed urgenti per i molti immobili a rischio». Cosa è stato fatto da quando avete iniziato a “prendervene cura’? «Una parziale revisione della segnaletica stradale verticale, il rifacimento delle panchine grazie a Franco Barbarini ed Elisa Curcio, la chiusura definitiva della zona già pedonale (mai rispettata) di Largo Alpini. E poi l’attuazione del Controllo di Vicinato con la nomina di un nostro referente, che viene supportato da tutti gli abitanti a mezzo di una chat di messaggistica istantanea. Come avevamo pensato fin dall’inizio, ci sono gruppi di lavoro suddivisi per competenze e attitudini, quindi cultura, sicurezza e ambiente, comunicazione, eventi». L’amministrazione come si è comportata a fronte delle vostre segnalazioni e richieste? «è attenta, in ascolto, dialogante, in particolare il sindaco e la Polizia Locale. Gli altri assessori, salvo una rara apparizione, non compaiono e non abbiamo mai avuto rapporti. L’opposizione poi direi “non pervenuta”, come la temperatura di Potenza nei meteo televisivi degli anni ’80. Dopo le elezioni si è dileguata. Restiamo in attesa quindi del contributo della maggioranza e dell’opposizione. In un Paese, che continua a definirsi Città, c’è bisogno del concorso di tutti». Ancora molto da fare per questa zona. Quali le misure più urgenti? «La concessione di riduzione o esenzione dei tributi comunali per le nuove attività commerciali o professionali che s’insediano, o degli oneri nel caso di manutenzione straordinaria. Revisione del traffico, della segnaletica orizzontale, dell’arredo urbano, manutenzione del verde del boschetto di Parco degli Alpini, che addirittura ostruisce la trasmissione dei dati

Pierfrancesco Fasano, presidente del Comitato del Pistornile

dalle telecamere alla Polizia Locale, rendendo inutili le telecamere stesse, le piste ciclo e pedonali. E poi ancora la chiusura del piccolo giardino dedicato sempre agli Alpini, ora in preda ai vandali e all’incuria: basterebbe un cancello e la chiusura serale, previa risistemazione, e potrebbe essere fruibile anche per eventi al belvedere, come negli anni precedenti». Atti vandalici, una spina nel fianco per questo quartiere... «Il borgo antico è soggetto a imbrattamenti delle mura, del parco sottostante, dei vialetti pedonali e della zona pedonale. Si tratta non di episodi ma di ricorrenti atti, che trovano facile terreno di coltura nello stato di semi abbandono o marginalizzazione della zona». Cosa si può fare per fermarli? «Si può fare quello che stiamo cercando di fare, e cioè rimettere al centro dell’attenzione della città di Casteggio e del territorio circostante il borgo antico, organizzando eventi e riqualificando dal punto di vista urbanistico, riducendo o azzerando le imposte locali, per attrarre nuovi residenti. Il Covid ci ha fermato. Ma da soli, senza l’aiuto dell’amministrazione comunale e di tutti i casteggiani (non solo i residenti del Pistornile), è evidente che non possiamo farcela». La zona Ztl funziona come deterrente? «Non ha mai funzionato, perché la Polizia Locale e i Carabinieri sempre chiamati dai residenti non multavano o multavano raramente. Ora la ZTL di fatto funziona grazie alla chiusura di Largo Alpini, già zona pedonale, con l’installazione di fioriere e un recinzione apribile solo dai residenti. A questo si aggiunga che l’impianto di video sorveglianza, pur funzionante, non riesce a trasmettere alla sede della Polizia Locale le immagini, a causa dell’ostacolo costituito da piante infestanti mai tagliate dall’amministrazione comunale, nonostante la nostra richiesta e quella della Polizia Locale».

È in essere una convenzione con il Comune per la vigilanza notturna. Funziona? «Ci è stato riferito dall’amministrazione e dalla Polizia Locale dell’esistenza di una convenzione con una società di vigilanza privata (guardie particolari giurate), che svolgono solo la funzione di controllo del punto di interesse pubblico sensibile, costituito dal monumento della Vittoria Alata. Pertanto le Guardie Particolari Giurate non hanno il compito e neppure i poteri di fare alcunché, se non segnalare. Il che, francamente, è già fatto dai residenti anche attraverso il controllo di vicinato. Molto più efficace in termini di ordine pubblico è l’azione assunta dal Prefetto di Pavia, Sua Eccellenza, Rosalba Scialla, che ha emesso un’ordinanza di anti-assembramento, ben coordinata dagli interventi dei Carabinieri che multano». Cosa si aspetta per questa estate 2020 un po’ particolare? «Avevamo proposto e iniziato ad organizzare il cinema al Belvedere dedicato al vino e alla vita in campagna e la mostra degli acquarellisti dedicata proprio al

Pistornile tra «luci ed ombre» Il Comitato lancia l’appello borgo antico. Tutto rinviato a causa del Covid. Abbiamo invece proposto al Museo Civico una serie di relazioni via web sui palazzi storici: Antico Monastero di Santa Clara, Palazzo Feudale e Palazzo Battanoli. A tali interventi hanno contribuito Michele Crespi, Enrico Bardone e Franco Barbarini. E sono in preparazioni altri video-incontri sull’Oratorio di San Sebastiano e sulla Certosa Cantù. Stiamo infine terminando un progetto di realizzazione di targhe didascaliche dei singoli palazzi storici». di Elisa Ajelli

Muri imbrattati dai vandali al Pistornile

Lorenzo Vigo: «Attenzione altissima per il nostro centro storico» L’amministrazione comunale guidata dal sindaco Lorenzo Vigo è vicina al Comitato e decisa anch’essa a far tornare il quartiere come una volta. «Sicuramente la zona ha ripreso vitalità - dichiara il primo cittadino - il Comune da parte sua ha aperto da un paio di anni il controllo di vicinato, che è l’esempio concreto di come avere una buona cittadinanza attiva. E poi c’è il comitato, che si pone come scopo quello di tutelare la zona storica di casteggio, zona meravigliosa ma che presenta parecchie criticità e per cui servono

sicuramente investimenti, lo sappiamo». L’amministrazione ribadisce il proprio impegno per il Pistornile: «Noi ci stiamo impegnando e ci impegneremo in futuro per questa zona. Di sicuro ci saranno sempre confronti, magari a volte anche scontri, è normale, però c’è la condivisione di un progetto di rilancio della zona, che poi significa il rilancio di tutta casteggio. Sono fiducioso. Passata questa annata terribile tornerà lo slancio per ripartire e sicuramente anche l’attenzione per il nostro centro storico sarà altissima»


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C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò

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Ricordo di un amico: Vincenzo Martinotti, il mitico “Borman” C’era una volta un menestrello padano a nome Vincent Martin, suonava, cantava, con un sorriso triste che gli segnava il viso buono; Vincenzo non c’è più. O forse no, forse è solo un sogno. Purtroppo il mitico “Borman”, Vincent Martin per gli amanti del liscio, ci ha lasciato, non è un sogno! Correva l’anno 1979, un secolo fa, Vincenzo mi avvicinò a Casteggio, mi chiamò con quella voce leggermente roca che durante le serate da ballo udivo dedicarmi qualche canzone del repertorio dei Lord, spesso la mitica “Cesarina”, mi guardò serio e mi disse: “Ho sentito che stai costruendo delle villette a Casteggio con una Cooperativa, c’è qualche possibilità?”. Fui felice di poter rispondere “Sì, si è appena ritirato un socio della Cooperativa Tre Noci e sarà mia premura accoglierti ed assegnarti un lotto di terreno”. Dopo pochi anni, ultimate le villette, ebbi il privilegio di averlo come vicino di casa, dopo averlo conosciuto come musicista componente del mitico complesso dei “Lord”. Faceva parte di questa formazione oltrepadana, e ne era parte importante. Vincenzo detto “Borman”, in un complesso senza capi, era comunque il riferimento di tutti gli orchestrali compagni d’avventura e del pubblico che a lui e a Giorgio si rivolgeva per le richieste musicali. Divenne socio della Cooperativa di cui ero presidente, fu assegnatario di un lotto di terreno prospicente la piazza di via Brodolini a Casteggio e per i successivi quarant’anni, gradito vicino di casa. Bastava che mi avviassi allo sfalcio dell’erbetta del giardino, per vederlo spuntare dal fondo della piazza, con quella sua tipica andatura lenta e dondolante, con quel sorrisetto malizioso appena accennato. Ci scambiavamo qualche notizia, correvano battute salaci ma mai volgari. Mi guardava con quegli occhi chiari, leggermente a mandorla, all’orientale per intenderci, con la perenne scriminatura nei capelli castani ben curati e con un leggerissimo sorrisetto quasi impercettibile a segnare il volto buono di un uomo vero, introverso, sincero, galantuomo e gentiluomo. Ci raccontavamo fatti di vita, spesso del nostro passato lontano (tre anni ci dividevano). Mi ricordava i suoi inizi musicali con il complesso di “Ramon e gli evasi”, mitico gruppo dei primi anni settanta. Si erano affidati a un menager locale che, dopo alcune apparizioni (lui li chiamava “servizi”) in locali secondari del pavese, procurò un’importante scrittura in un locale milanese di viale Certosa. La grande occasione! Ramon invitò i componenti del gruppo a rinnovare il guardaroba di scena, tra l’altro a loro spese.

Da sinistra Vincenzo Martinotti e Gianni Girani, al centro un fans dell’epoca

Investendo parte dei loro sudati risparmi, acquistarono un completino, giacchetta e pantaloni, a righe bianconere (gli evasi, appunto!). E venne il grande giorno, la grande serata: partenza per Milano alle prime ore del pomeriggio, con le due autovetture stipate all’inverosimile di strumenti musicali, orchestrali e speranze, tante speranze. Ridendo continuava a raccontare quell’avventura dei suoi anni giovanili: “nè sucës ät tut i culur; una ghitara lä suniva no, un ämplificatur l’era mut e, pär cumpletà l’opera, Ramon col so pas a dondolo pärchè l’era un pò sop, al sè sciäncà i calson sbäsändäs a cätà su un microfono balarê” (è successo di tutto, una chitarra elettrica non suonava, un amplificatore era muto e non amplificava e, per completare l’opera, Ramon con il suo passo dondolante data la leggera zoppia, s’era rotto i pantaloni della divisa abbassandosi improvvisamente, per raccogliere un microfono caduto dal supporto. Per colmo della sfortuna la rottura avvenne in una parte innominabile e non esistevano pantaloni di ricambio. Per tutta la serata Ramon si mosse sul palco non girandosi mai, ma volgendo la parte ammalorata ai sui orchestrali che ridevano di gusto. Fu l’unico momento di ilarità; a Dio piacendo, la serata finì e dopo aver stivato gli strumenti di lavoro sulla seicento multipla del capo orchestra, si presentarono al proprietario del locale per il compenso pattuito per il “servizio”. Questi seduto ad una scarna scrivania sul retro del palchetto, li squadrò a lungo senza parlare.

Temettero un improvviso scoppio d’ira e un congedo a pedate, ma il vecchio milanese, trasse da un cassetto le banconote, le contò lentamente e consegno il magro compenso a Vincenzo che gli era prossimo. Ramon sollevato chiese se tutto fosse andato per il meglio e l’impresario sempre calmo, rispose: “l’unica roba giusta l’è la divisa a rig da cärcerà”. Si interruppe un attimo quasi a ripigliar fiato e continuò: “èco li l’è äl post c’ä duvrisäv frequentà; di dätrà fiê, cämbì mëste”. La sintesi del signore milanese fu chiara (l’unica cosa a posto era la divisa a righe da carcerati, simbolo del luogo dove avrebbero dovuto essere rinchiusi come musicisti. Ultimo consiglio: “cambiate mestiere”. Come inizio non era male, ma ben altro occorre per fiaccare la pervicace determinazione di un baldo oltrepadano. L’occasione si ripresentò con i Lord. Il complessino era stato fondato anni prima da un cantante-batterista a nome Giorgio Saviotti da Borgoratto Mormorolo. Scarso batterista ma grandissima voce solista, decise di rifondare il complesso con elementi validi che ne elevassero il tono e le prestazioni. Giorgio dei miei anni giovanili, anche lui rapito di recente da quel maledetto Virus che ha funestato il mondo nella primavera del malefico anno bisestile 2020. L’ho sentito cantare sessanta anni or son, mentre servivo messa a Borgoratto, parroco don Ettore Cazzullo. Ragazzino di una decina d’anni, intonava elegie sacre con una potenza di voce e un’intonazione degna di un grande tenore.

Vincenzo Martinotti venne scelto tra i primi, chitarra basso e voce solista di buona impostazione. Poi Vedaschi da Pietra de Giorgi, valido fisarmonicista maniaco della sua lucida e imbrillantinata capigliatura. Seguirono Guido al sax e clarino, Roberto alla batteria e da ultimo il tastierista di Casteggio Nando “Calson”. Dopo qualche anno, il complesso si completò con l’ingresso di Gianni Girani da Voghera, reduce da una formazione di buona levatura “Il Magazzino dei Ricordi” altrimenti detti “I Funanboli”, grande chitarrista e ottima voce, portò una ventata di gioventù e di musicalità beat (tuttora sulla cresta dell’onda con lo pseudonimo di Giangi). Non ricordo la data di inizio e fine della loro avventura, forse venti, forsanche trent’anni di “servizi” a rallegrare feste patronali, balli all’aperto (al bäräcón) e sale da ballo. I mitici Lord, modesti, bravi, professionali e di una cordialità contagiosa. E Lui, Vincenzo detto “Borman”, (non ho mai saputo perchè) ad annunciare i pezzi, ad armeggiare con sintonizzatori ed attrezzi vari, a segnalare gli ultimi giri di valzer e polchettine scatenate, quasi a ridare forza e fiato a ballerini cianotici per l’impegno ma decisi a terminare la singolar tenzone, per non sfigurare con la ballerina di turno. Grande Vincenzo: “ultimi due giri, forsa Giusèp ch’ä tä glä fè”. E la voce di Giorgio, tenore naturale, con un’estensione e una potenza vocale che spaziava dalla leggera Cesarina a Granada, a O sole mio o a Lucean le Stelle. Magico e indimenticabile.


C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò E Gianni, con i ritmi modernissimi o americaneggianti e la sua particolare interpretazione di “Io Vagabondo” dei Nomadi, melodia che accarezzava l’anima ed i sogni degli astanti. Dopo gli applausi fragorosi Vincenzo, prima di annunciare il seguito diceva “questo è l’inno dei Lord, vagabondi e in bulätä!”. Martinotti era l’anima del gruppo, modesto e professionale qualche rara canzoncina (Piccolo fiore) e il coordinamento continuo di giovani esuberanti. In una formazione senza capi, di fatto lui svolgeva tale funzione: contratti, programmi, spese ed incassi. Era lui il riferimento dei compagni d’avventura anche negli atteggiamenti da assumere con il pubblico. Con il suo basso intonato, dettava i tempi e il ritmo ai fanatici del ballo liscio; serio e scrupoloso sul lavoro, quanto estroverso e sempre pronto alla battuta appena sceso dal palco. Qualche giorno dopo la sua improvvisa dipartita, una comune amica di Casteggio con le lacrime agli occhi, mi raccontò che ogni volta che si incontravano, lui con noncuranza iniziava a cantare “Piccolo fiore dove vai..”. Piangeva la Signora, lacrime sincere, quelle dovute ai migliori affetti della nostra vita, e commuoveva noi che l’ascoltavamo. Dopo i Lord, era iniziata la carriera di Vincent Martin solista. Provava nello scantinato della villetta di via Brodolini in Casteggio. Ascoltando le note delle sue ricercatissime basi, mi avvicinavo alla sua personale sala d’ascolto.

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“I Lord”: canta Giorgio Saviotti, in fondo da sinistra Gianni Girani e Vincenzo Martinotti

Mi salutava e profittava dell’occasione per farmi ascoltare in anteprima qualche nuovo pezzo. Compiaciuto dai miei complimenti si congedava invitandomi “Sabät sö ä... vem ä truâ”. Quante volte ti ho dato ascolto, Vincenzo! Nelle serate estive dei bar di Casteggio, a Sant’Eusebio il 15 Agosto per la festa della porchetta, a Pietra de’ Giorgi, patria della tua Piera Vedaschi, per la festa del salame o al centro anziani di Casteggio con la stessa passione ed entusiasmo di un ragazzo innamorato della musica. Mi sembra impossibile che non ci sia più: non è vero, non se n’è andato, è sempre tra noi con la sua musi-

ca, il suo sorriso triste, la sua voce roca. Lo vedo lassù montare gli strumenti, accordarli, provare il microfono, sorridere e dare inizio alla sua favola musicale. Le favole non muoiono mai: restano nella parte migliore del nostro cuore, nella parte bambina dell’anima. Resterai con noi Vincent, nei nostri ricordi, nei sogni migliori della nostra tribolata vita e un giorno, racconteremo ai nostri nipoti: “c’era una volta un uomo buono che suonava la tastiera, che raccontava le favole in musica per divertire grandi e piccini, che sussurrava parole dolci con la sua voce roca. Ora è lassù al quinto piano, come diceva

Corinna Ferrari quando le case di piani ne avevano solo tre, suona e canta, felice di vedere Angeli e Arcangeli, ballare rapiti da un valzerino che non finirà, non finirà mai. Come il tuo ricordo, il ricordo di un uomo buono, sorridente e sfortunato, con i capelli chiari scomposti dalla brezza che accarezza i ricordi di chi ti ha voluto bene, che sussurra al vento le note della tua musica. Che rimanda ad una speranza antica, come il tuo ricordo, il ricordo di un uomo buono”. di Giuliano Cereghini



MEZZANINO

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Ponte Becca, il sindaco: «Non rendere Mezzanino un paese fantasma» Il sindaco di Mezzanino, Adriano Piras ribadisce il suo impegno e quello di tutta l’amministrazione per la costruzione del Ponte: «Esattamente come il Comitato “Ponte della Becca”, non guardiamo colori o tifoserie politiche, ma i fatti e le persone». La frecciatina del sindaco strizza l’occhio al Movimento 5 Stelle ed in particolar modo all’onorevole Romaniello, che durante l’assemblea cittadina svoltasi il 27 giugno scorso, che aveva all’ordine del giorno l’obiettivo di informare la cittadinanza sullo stato attuale relativo alla progettazione del nuovo ponte, è intervenuto a gamba tesa criticando l’operato del Comitato accusandolo di parzialità politica. «Queste persone, ovvero i parlamentari del nostro territorio, dovrebbero unirsi e lavorare in un’unica direzione. Assieme al Comitato stiamo cercando in tutti i modi di accelerare la costruzione del ponte e di certo la confusione politica non è quello che ci aspettiamo e ci meritiamo». Nel frattempo un’altra “grana” si aggiunge alla storia infinita del ponte: code e disagi viabilistici che stanno mettendo a dura prova chi da quel ponte ci deve passare per forza. Sindaco, facciamo un passo indietro all’assemblea cittadina del 27 giugno. Il “battibecco” politico è noto a tutti. La sua versione? «Nell’assemblea cittadina, svoltasi il 27 giugno 2020 a Mezzanino, lo scopo era quello di sentire l’opinione dei vari imprenditori, agricoltori e cittadini di Albaredo, Campospinoso, Mezzanino e Linarolo sull’eventuale posizionamento del nuovo ponte. Tra il pubblico erano presenti Valentina Barzotti (deputato della Repubblica Italiana), Christian Romaniello (deputato della Repubblica Italiana) e Simone Verni (Consigliere Regionale della Lombardia), tutti del Movimento 5 Stelle, che non erano stati invitati, né dal sindaco di Mezzanino, né dal comitato del Ponte della Becca. Dopo gli interventi coerenti di Simone Verni e Valentina Barzotti ha preso la parola Cristian Romaniello, che ha incominciato a parlare inappropriatamente di Regione Lombardia, della Lega e dei nostri parlamentari del territorio, richiamando una precedente manifestazione svolta sul ponte della Becca nel dicembre scorso, uscendo completamente da quello per cui era stata convocata l’assemblea cittadina». Si è sentito offeso dalle dichiarazioni dell’Onorevole Romaniello? «Come sindaco di Mezzanino, mi sono sentito offeso dal comportamento del parlamentare e sono intervenuto spiegandogli che non era un comizio politico, bensì un’assemblea informativa.

Ipotesi di tracciato del nuovo Ponte della Becca

Il deputato si è difeso facendo intendere che si era sentito attaccato da uno striscione posto sul ponte della Becca l’anno precedente, come forma di protesta per un taglio di fondi destinati ad esso. All’ennesimo attacco ho spiegato al presidente Fabrizio Cavaldonati che ero stato invitato a questa assemblea a scopo informativo per la popolazione e non per un comizio del Movimento 5 Stelle. A quel punto solo l’intervento di un collega ha fermato la mia uscita dalla sala, insieme a me anche altri cittadini presenti all’assemblea si sono alzati e se ne sono andati via in segno di protesta verso il comportamento del deputato Romaniello». Cosa vi aspettate dalla politica? «Vorremmo avere certezze, come una definita roadmap della progettazione e della costruzione del ponte dopo lo studio di fattibilità di Regione Lombardia, studio che dalle ultime informazioni dovrebbe essere consegnato il 21 luglio». Ci eravamo lasciati qualche mese fa con delle ipotesi di tracciato dove la differenza sostanziale stava nel passaggio a monte o a valle del ponte attuale. I cittadini cosa ne pensano? «Esistono due rimostranze - e come sindaco capisco entrambe le esigenze - sia dei cittadini residenti alla Busca, che vedrebbero passare una tangenziale di fianco al proprio cortile, sia delle imprese presenti sulla ex S.S. 617, che avrebbero un flusso di gente minore rispetto a oggi, o quasi pari a zero. Per non rendere Mezzanino un paese fantasma però, anche se entrambi andrebbero a discapito di una o dell’altra situazione, noi saremmo favorevoli ai tracciati A o B, pur avendo questi un costo più elevato». A tal proposito, cosa è emerso nell’assemblea, al di là della bagarre politica? «Abbiamo circa un 40% delle persone attivamente coinvolta al nuovo progetto

inerente la costruzione del ponte. Questo 40% è per la maggior parte interessato al progetto presentato per la fattibilità a valle di Mezzanino: la linea maggiore è fatta da commercianti, trasportatori e pendolari. La rimanenza, che favorisce il progetto a monte, invece punta sull’impatto acustico, ambientale e paesaggistico. L’importante è che in base alla scelta che verrà fatta dalla Regione Lombardia, che “sponsorizza” i lavori, ci sia un piano B che possa portare, indipendentemente, alla riqualificazione e rivalutazione della stessa zona di Mezzanino, per esempio si potrebbe sfruttare la “chiusura” della strada per organizzare eventi singolari». Code, disagi… che fare? «Viste le numerose lamentele sulle code che si creano sul lato Mezzanino e a Linarolo, vorrei aggiungere delle informazioni a riguardo. Come sindaco sono a stretto contatto con l’architetto Del Gaudio, capocantiere, che mi tiene aggiornato sull’evoluzione dei lavori e sui miglioramenti, tra cui: l’assunzione di 2 operai per monitorare il traffico nelle ore di punta, l’acquisto di semafori intelligenti per regolare il traffico nelle ore in cui non sono presenti gli operai e lavori notturni, per cercare di terminare tutti i lavori nel minor tempo creando meno disagi. Spesso le code non sono dovute ai lavori in corso, ma ad incidenti quasi giornalieri di veicoli in prossimità e sul ponte; confido nel buon senso delle persone, per evitare ulteriore coda oltre quella che già c’è. E soprattutto chiedo di rispettare il personale addetto al traffico». Ora anche i ciclisti in transito sul ponte hanno scatenato le ire dei social… Possono transitare? Avete pensato di limitare il loro passaggio? «Per quanto concerne il passaggio dei ciclisti, purtroppo non è legislazione “attiva” da parte di qualsiasi amministrazione comunale sul tutto il territorio. Possono

Adriano Piras

sicuramente creare disagi, ma la limitazione alla loro circolazione non è di mia competenza. Certo che l’educazione di molti (ciclisti e automobilisti) potrebbe portare a ridurre le incomprensioni che comunque si trovano in quasi tutto il territorio nazionale». di Silvia Colombini


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BRONI

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Biometano, Università dei Sapori e Teatro, la minoranza attacca Sono giorni caldi a Broni. E no, le temperature estive non c’entrano. Si tratta, invece, di argomenti decisamente importanti che hanno fatto insorgere la minoranza del gruppo “Broni in Testa”. Abbiamo scambiato qualche chiacchiera con Giusy Vinzoni, portavoce del gruppo, che ci ha spiegato il proprio punto di vista. Vinzoni, tanta carne sul fuoco, da cosa vogliamo iniziare? «La notizia più importante è quella del biometano. Noi come minoranza, e l’abbiamo sempre detto, abbiamo l’abitudine di controllare quasi giornalmente l’albo pretorio, e ci siamo trovati davanti questa delibera, la numero 81 del 26/6/2020, alla parola biometano e all’accettazione della proposta di compensazione ambientale». Cosa significa? «Succede che, a fronte dell’installazione dell’esercizio di un impianto a biometano alimentato da rifiuti, “noi, comune di Broni accettiamo la proposta di 41.500 euro di compensazione per mantenere delle piste ciclabili”. La cosa ci ha lasciato a bocca aperta”. Perché? «Prima di tutto perchè non sapevamo nulla di questa vicenda e soprattutto stiamo parlando di una cosa importante, di un impianto che brucerà rifiuti e non è stata convocata nessuna commissione ambiente. Io stessa faccio parte della Commissione Ambiente e non ne ho saputo niente. Questo sempre per il principio della trasparenza tanto amato dal nostro signor sindaco. Sappiamo che per fare questo impianto servirà l’autorizzazione della Provincia, ma ciò che troviamo scandaloso è che il primo “no” doveva essere quello del nostro sindaco! A Broni nessuno vuole questo impianto, mi sembra di tornare indietro nel tempo quando c’era anche il gruppo facebook “Broni contro l’amianto”, quando facemmo una lotta allucinante contro un impianto che doveva nascere. Dovevamo essere tutti uniti nel dire no a questa cosa, non fare una delibera in cui si accetta una proposta di compensazione! Tra l’altro per la manutenzione di piste ciclabili… ma dove sono le piste ciclabili a Broni?! Non ha senso ed è vergognoso. Broni ha già pagato, paga e pagherà ancora con l’amianto, per rispetto il primo no doveva arrivare da Riviezzi. Ci ha fatto trovare le cose già fatte, non ne ha parlato con nessuno. La gente deve capire che il sindaco ha accettato questa cosa e in che modo l’ha fatto. Noi siamo basiti». Durante il periodo di lockdown, lei ha riportato alla luce argomenti importanti sui social. Ci parla dell’Università dei Sapori? «Posso dire che è ferma! Quante volte ci siamo sentiti dire “Siamo pronti a partire,

Giusy Vinzoni i corsi stanno partendo” e poi il nulla. Forse sono partiti un paio di corsi amatoriali, per carità, ma non è di certo lo scopo di questo progetto! Non è nato per fare finger food... l’Università dei Sapori è nata con uno scopo ben preciso e ad oggi non è mai partita e sapete il perché? Perché ci si è trovati davanti ad impianti di raffreddamento e riscaldamento che non funzionano e che non hanno mai funzionato. Anche qui: dov’è la trasparenza? Questo progetto è un buco nell’acqua clamoroso. Vogliamo dire ai cittadini di Broni quanto è costata questa opera? Vogliamo ammettere che non è mai partita? Noi abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti per questa vicenda e abbiamo potuto verificare che questa Università è anche legittimata a chiedere un danno al Comune di Broni per quanto successo». Che danno? «Un danno di immagine, perché a fronte di quanto avvenuto stanno valutando se restare o andarsene. Ricordo inoltre ai cittadini che tutti noi abbiamo pagato per questo progetto che è lì, non funzionante. E adesso rischiamo di sentirci pure “citare” perché è successa questa cosa. Oltretutto, già per sei lunghi anni il Comune cedeva i locali gratuitamente all’Università… adesso, con questo problema che è sorto, probabilmente chiederanno anche di rivedere il contratto. Quindi, abbiamo pagato questo progetto per avere che cosa? Un pugno di mosche. Con il rischio che ci facciano pure causa. Giustamente, aggiungo. Il filo comune che lega tutti gli argomenti è la trasparenza, non finirò mai di dirlo. La trasparenza tanto citata e mai rispettata. Capisco che non sia bello e facile dire “abbiamo sbagliato”, ma tanto le magagne prima o poi vengono a galla».. Ultimamente si è notata una certa tensione sui social… «Sì, molta. Questo però mi fa capire una cosa: che gli argomenti che trattiamo danno molto fastidio. E poi c’è un’attenzione pazzesca verso chi commenta i vari post, a chi mette il like… queste cose non de-

«L’ho detto che sarei stata “una spina nel fianco” e così è stato per tutti questi anni. E se adesso dovrò essere “una trave nel fianco” per il biometano, lo farò» vono servire per distogliere l’attenzione. Parliamo di argomenti importanti, parliamo di biometano, Università dei Sapori, costi di gestione del Teatro di cui ancora non abbiamo risposte dopo che le abbiamo chieste mesi fa…». Manca meno di un anno alle elezioni. Come la vive?

«Non sono assolutamente tesa, il mio atteggiamento non è mai cambiato: avevo detto all’inizio che sarei stata “una spina nel fianco” e così è stato per tutti questi anni. E se adesso dovrò essere “una trave nel fianco” per il biometano lo farò». di Elisa Ajelli


STRADELLA

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«C’è rammarico per non aver portato a termine tutti i progetti, ma ci siamo dati tanto da fare in altro modo» Primo luglio, trenta giugno. Un anno esatto è il periodo di permanenza del presidente di zona dei Lions. A parlare è stavolta Elisabetta Vercesi, oltrepadana e moglie del sindaco di Montù Beccaria, che è la presidente uscente. Un anno di presidenza partito alla grande, ma che ha dovuto fare i conti con le difficoltà derivate dall’epidemia coronavirus, che ha inevitabilmente fatto rivedere le priorità. Elisabetta, qual è il ruolo del presidente di zona dei Lions? «Coordinare tutte le l’attività dei quattro club presenti sul territorio, Stradella-Broni Host, Stradella-Broni-Montalino, le Vigne Montù Beccaria e Casteggio-Oltrepò». Il suo mandato è iniziato il primo luglio dell’anno passato, in tempi insospettabili rispetto a quanto è poi accaduto sul piano sanitario. «Assolutamente tant’è che siamo partiti con tanti progetti, in programma c’erano veramente tante iniziative e siamo riusciti, purtroppo, a farne molte meno di quanto pensavamo. Non tutti hanno aderito ai progetti che sono stati proposti». Difficile far andare tutti d’accordo? «è difficile coinvolgere tutti e quattro i club e indirizzarli in uno stesso progetto. Ognuno ha le proprie idee, che spesso sono diverse, e magari non tutti aderiscono alle proposte. Si tratta, come dice la parola stessa, di proposte e non si obbliga nessuno ad accettare progetti. Devo però sottolineare l’ottima sinergia avuta con i club Stradella-Broni Host e Stradella-Broni-Montalino che da molti anni lavorano bene insieme e riescono quindi sempre a realizzare bei progetti». In questo suo anno da presidente qual è il progetto realizzato e di cui è particolarmente fiera? «Un progetto con le scuole elementari e medie su bullismo e cyber-bullismo. Un’iniziativa partita già da gennaio con le scuole di Stradella, Portalbera e Arena Po. I dirigenti scolastici hanno apprezza-

to molto il progetto che ha previsto degli incontri con due socie del Montalino, che sono avvocati, che hanno esposto le tematiche in collaborazione con una psicoterapeuta. Dovevano poi intervenire il Capitano dei Carabinieri di Stradella, un giudici del Tribunale minorile e la Polizia Postale: gli incontri erano già programmati, sia per Broni, che per il comprensorio di Bressana e Canneto. Purtroppo con il covid si è fermato tutto e si spera davvero l’anno prossimo di poter proseguire con questo progetto molto importante». C’è un progetto a cui hanno aderito in sinergia tutti e quattro i club di zona? «Sicuramente al service per il diabete: ormai è il quarto anno che viene proposto, con la prova glicemica». Come è stata fatta? «è stata fatta il 17 novembre scorso, durante la giornata mondiale del diabete. L’Host e Montalino l’hanno fatta presso l’ambulatorio medico Civardi, Gianni e Antonella oltre ad essere medici sono anche soci Lions ed hanno messo a disposizione il locale per fare questa prova glicemica. Si è prestata anche la Dottoressa Susanna Breier che è medico all’ospedale di Stradella e è anche socia del club Montalino. Il club Le Vigne ha fatto, invece, il service a Broni e Casteggio aveva rimandato alla settimana successiva per mancanza, in quel giorno, degli ambulatori». Poi il Covid che stravolto la vita di tutti. Come avete modificato, come Lions, le vostre priorità? «Nel periodo Covid, dove non si poteva fare nulla, ci siamo messi tutti insieme e siamo riusciti a recuperare fondi per poter acquistare un elettrocardiografo per l’ospedale di Stradella. C’è rammarico per non aver portato a termine tutti i progetti. Ma è stato un anno comunque molto positivo, perché ci siamo dati tanto da fare in altro modo. Ad esempio, come club Montalino, abbiamo letteralmente cucito le mascherine che poi abbiamo donato a

Elisabetta Vercesi, presidente uscente dei 4 Lions di zona

varie associazioni, come la Croce Rossa, alla casa di riposo, al reparto di oncoematologia di Pavia… è stato bello vedere la collaborazione di tante donne che hanno assemblato le mascherine per poi donarle a chi ne aveva bisogno. Ognuna ha messo in campo le proprie capacità al servizio degli altri: il nostro scopo è sempre questo e si è visto ancora una volta». Quali iniziativa con suo rammarico non si è riusciti a portare a termine? «Un’iniziativa studiata con l’Oratorio di Stradella. Dovevamo fare un evento, in primavera: una cena per raccolta fondi per l’acquisto della cucina dell’oratorio. Stavano facendo dei lavori per l’ampliamento proprio dell’oratorio e si era presentata la necessità di acquistare la cucina: noi volevamo dare una mano in questo senso, ma anche qui il covid ha fermato i lavori ed è tutto in sospeso. A maggio, comunque, l’oratorio ha avuto la possibilità di partecipare al bando della Fondazione Comunitaria di Pavia: il bando chiedeva anche la partership di un’associa-

zione e come Lions Stradella Broni Host abbiamo partecipato». In quanto partner qual è il vostro impegno? «Versare una quota, un contributo, e aiutare l’oratorio a trovare gli altri fondi». Bilancio positivo, dunque, nonostante tutto? «Non abbiamo niente da rimpiangere, abbiamo fatto un ottimo lavoro, nonostante il periodo terribile. Anzi, abbiamo dovuto trovare soluzioni alternative, visto il momento, e quindi abbiamo lavorato ancora di più. Un’ultima cosa… abbiamo chiesto al Comune di Stradella una bacheca e ci è stata assegnata. Potremo così periodicamente affiggere le locandine con gli eventi che avremo in programma». Ha finito pochi giorni fa il suo anno di presidenza. A chi lascerà il testimone? «A Maurizio Saturno. Sarà lui il prossimo presidente di zona». di Elisa Ajelli


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Santa Maria della versa

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«Un’azienda piccola dei macro-numeri non se ne fa nulla, noi siamo piccoli, e resteremo piccoli anche quando saremo grandi» Con la riapertura delle attività produttive, il mese di maggio ha fatto registrare una netta crescita delle esportazioni dal nostro Paese rispetto al mese precedente: +37,6%, secondo le stime dell’Istat, rese note lo scorso 25 giugno. Un paio di settimane prima, l’Osservatorio Vinitaly – Nomisma, relativamente al solo mercato del vino, aveva dato notizia di un risultato positivo relativamente già al primo quadrimestre dell’anno in corso: il vino italiano, sui mercati extra-UE, sarebbe cresciuto fra gennaio e aprile del 5,1% (dati provenienti dalle dogane). Molti si sono stupidi di questi numeri; che vanno tuttavia letti alla luce di un’osservazione: i mesi più duri per i paesi extraUE non sono necessariamente gli stessi che hanno investito l’Italia; alberghi e ristoranti, in determinati paesi del mondo, a marzo e aprile risultavano aperti. Inoltre, quando il lockdown era ormai nell’aria, molti importatori di prodotti italiani potrebbero aver deciso di fare quanta più scorta possibile, nell’incertezza di quello che sarebbe accaduto. Lo hanno fatto, per esempio, anche con un altro dei prodotti di punta delle esportazioni tricolori: la pasta. Gran parte della crescita per quanto riguarda il vino si è registrata negli Stati Uniti (+40% nei primi due mesi). Gli importatori, in questo caso, potrebbero aver deciso di fare scorta anche in vista dei dazi annunciati da Trump. Volendo sentire il polso della situazione in Oltrepò, siamo andati a chiedere un’opinione a Massimiliano Brambilla, titolare insieme al fratello Andrea di Vigne Olcru, azienda di Santa Maria della Versa che, pur essendo nata solo pochissimi anni fa, si è posizionata in una nicchia di mercato che guarda con molto interesse all’estero, e può vantare rapporti ormai strutturati e profittevoli con diversi mercati, fra i quali quello cinese. Il paese dal quale tutta l’emergenza Covid-19 ha avuto inizio, ma anche quello che per lunghissimi anni ha suscitato gli appetiti di molti produttori, e che presto ricomincerà a galoppare. “Il Periodico” aveva già parlato di Vigne Olcru nel numero di Novembre 2016. Allora, Massimiliano Brambilla aveva spiegato al nostro Lele Baiardi che il business familiare, in precedenza, consisteva in una “grande industria che produceva componenti per gli impianti elettrici”. Presentatasi l’occasione favorevole per vendere l’azienda, i due fratelli hanno deciso di coglierla e di reinventarsi investendo in Oltrepò, assecondando una loro grande passione: quella per il Pinot nero. Le statistiche parlano di crescita per le esportazioni extra-UE, e anche per il vino. Come sta nel mondo reale?

Massimiliano e Matteo Brambilla

«Per quanto ci riguarda, sul fatturato dell’anno scorso l’incidenza percentuale principale era rappresentata dalla Cina, che contava per il 40% del complessivo. Quest’anno è stato il primo paese a rallentare; riteniamo che con ottobre/novembre si dovrebbe ripartire, in base ai segnali che abbiamo dai distributori. Il primo semestre, per quanto concerne la Cina, è stato molto blando; però abbiamo aperto un nuovo mercato estremamente significativo che, se continua così, ci porterà ad attestarci su circa il 70% del fatturato complessivo verso l’estero.» Di che mercato parliamo? «Abbiamo aperto il mercato del Centro America: Panama, Costa Rica, Honduras, Nicaragua, Guatemala, Belize, El Salvador. Tutti i sette paesi del Centro America, in maniera molto importante. Per fine anno abbiamo in previsione di partire anche con gli Stati Uniti in maniera massiccia, tanto che potrebbe diventare per noi il primo mercato in assoluto. Dovremmo inaugurare la presenza anche su altri mercati: il Marocco e la Nigeria.» Una bella scommessa, sono mercati piuttosto ignoti per le nostre parti. «La Nigeria, con 200 milioni di abitanti, è il secondo mercato del continente per il vino, dopo il Sudafrica. È divisa in sei aree geopolitiche; nelle parti soprattutto meridionali ci sono più spazi per lavorare. È un discorso, più che altro, di “religiosi-

tà”: in alcune aree c’è una tolleranza diversa. Il mercato più importante per noi potrebbe essere rappresentato dall’area intorno a Lagos. Ad inizio mese, inoltre, abbiamo un appuntamento molto importante: daremo il via alla certificazione Kosher per tutto il mercato di Israele e le famiglie ebree del Nord America. Insomma: ci sono tanti progetti che stiamo mandando avanti, per cui questo anno, se le cose continuano così, dovrebbe essere per noi quello più importante.» Nei momenti di crisi bisogna investire, guardare avanti, e non crogiolarsi ad aspettare che le cose migliorino da sole. Tuttavia, lei mi ha parlato di investire anche nel Nord America, e devo incrociare questa notizia con quelle che ci provengono in modo particolare dagli Stati Uniti, dove pare che il Prodotto Interno Lordo calerà nel 2019 dell’8%, e dove Trump ha annunciato nuovi dazi. Coldiretti ha lanciato pochi giorni fa un allarme in merito, anche per quanto riguarda il vino: si teme che una bottiglia che oggi viene messa sul mercato a 10 euro, con le nuove disposizioni salirà a 15. Voi non avete paura? «Quando si parla di macro-numeri, bisognerebbe parlare con macro-aziende. Un’azienda piccola dei macro-numeri non se ne fa nulla. I dati sono tutti veri, sono tutti validi; ma noi siamo piccoli, e resteremo piccoli anche quando saremo

grandi. La Cantina è stata tarata per produrre fra le 500 e le 600 mila bottiglie: anche quando arriveremo a raggiungerle saremo un granello di sabbia nel deserto. I dati lasciano per noi il tempo che trovano, sia che siano estremamente positivi, sia che siano estremamente negativi. Noi abbiamo scelto di lavorare in un mercato di nicchia, e di fare i grossi investimenti soprattutto a livello agronomico e poi enologico in second’ordine. Potevamo scegliere due filoni quando siamo nati (e siamo praticamente dei neonati, nel settore: si parla di decenni, mentre noi abbiamo poco più di un lustro). Potevamo scegliere di vendere un prodotto; ma in questo caso sarebbe forse meglio fare gli imbottigliatori. La strada più lunga, invece, era quella di vendere un brand, un sistema, una filosofia; costruire, pertanto, un’immagine a supporto di un prodotto. È una strada molto più lunga, ma molto più solida, perché il mercato di nicchia risente di meno rispetto agli scossoni relativi ai vari parametri dell’economia.» Idee chiare… «Provengo dal settore della finanza, e lo conosco molto bene. Rivolgendoci a un settore di nicchia, pertanto, queste difficoltà non le incontriamo. La strada che abbiamo scelto è anche la più divertente. All’interno di questo contesto c’è uno spazio immenso.


santa Maria della versa Non dimentichiamo che l’Italia vive sulla piccola-media impresa, che è l’ossatura di questo paese. Noi italiani abbiamo tutti la capacità di dare il meglio nei momenti di difficoltà. Abbiamo fantasia e senso pratico.» Alcuni paesi come la Germania hanno immagazzinato grossi quantitativi di sfuso alla vigilia del lockdown. Parlavamo, in premessa, degli Stati Uniti. Per quanto sia sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, pensa sia possibile che i dati positivi dei primi mesi dell’anno siano, in parte, falsati dal bisogno di taluni mercati di garantirsi l’approvvigionamento per i mesi successivi per i quali all’epoca era difficile fare previsioni? «Potrebbe essere. Teniamo presente che il mercato tedesco è un po’ particolare. Storicamente è stato molto importante per i vini italiani, ma negli ultimi anni secondo me lo è un po’ meno, perché hanno dato sempre maggior prevalenza al prezzo. Oggi sono in molti a “scannarsi” su delle briciole, in termini di marginalità. I volumi continuano a essere importanti, ma i margini si sono assottigliati. Soprattutto in termini di comunicazione, per quanto riguarda alcuni prodotti che possono caratterizzare il nostro territorio – come ad esempio il Metodo Classico – con la politica estremamente forte e vincente che è stata fatta da un’area del Veneto sul Prosecco in molti mercati (e il mercato tedesco per il Prosecco è estremamente importante), si è svilito un po’ il Metodo Classico Italiano.»

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La Cantina Vigne Olcru

Si spieghi… «Nel senso che l’accezione su questa tipologia di prodotto, all’estero, è sullo Champagne come prodotto di punta, e sul Prosecco come “base”. Questo binomio ha scalzato di fatto il Cava, che era un prodotto importante su una fascia bassa di prezzo, e ha fatto perdere un po’ di identità al Metodo Classico italiano rap-

presentato da Oltrepò, Franciacorta, Trento DOC… Ci sono tante realtà nelle quali il Metodo Classico italiano coincide col Prosecco. Ma chiaramente, essendo tutta un’altra cosa, ha costi di produzione completamente diversi.» È già tempo di previsioni per la prossima vendemmia, oppure per il momento… meglio non sbilanciarsi?

«Adesso è ancora un po’ prematuro parlarne. Giugno è stato un mese un po’ particolare, non enormemente favorevole, finora. Sole e pioggia creano i presupposti per tutta una serie di malattie della vite che per il momento non si sono ancora espresse: vedremo cosa succederà fra una decina di giorni.» di Pier Luigi Feltri



montescano

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Centro estivo al via: «Una manna dal cielo, ci dicono i genitori» Una manna dal cielo per mamme e papà e divertimento assicurato per i più piccoli. Sono i centri estivi, che ogni anno arrivano puntuali a scandire le estati dei bambini. In questo 2020 molto particolare, abbiamo provato a chiedere come sta andando a Valeria Rapalli, imprenditrice stradellina, titolare della palestra ‘La valle del fitness’ a Montescano, che da quattro anni gestisce anche il centro estivo, organizzato nella struttura dove ha sede la palestra: un luogo immerso nel verde delle colline oltrepadane, dove i bambini possono trascorrere giornate all’insegna della spensieratezza, del divertimento e delle buone regole. Valeria, come è strutturato il vostro centro estivo? «Quest’anno, naturalmente abbiamo un numero di bambini inferiore agli altri anni, per le restrizioni dovute al post pandemia… negli anni scorsi arrivavamo ad avere 35 bambini, mentre quest’anno siamo arrivati a 27. Siamo in tre istruttori e i piccoli hanno un’età compresa tra i 4 e i 9 anni. Gli altri anni arrivavamo anche a coprire la fascia dei 12 anni, ma quest’anno i bambini delle medie non ci sono». Per le varie restrizioni imposte dal covid come vi comportate? «Cerchiamo di mantenere la distanza durante le merende e il pranzo, lavaggio delle mani all’entrata e all’uscita del centro estivo, prima dei pranzi e delle merende. Si cerca sempre di tenere una certa distanza tra i bambini, per quanto si possa fare perché, ricordiamo, sono pur sempre bambini e devono giocare! Hanno passato tre lunghi mesi a casa e adesso hanno un estremo bisogno di stare con i loro coetanei: hanno sofferto tantissimo per la situazione che si

è creata e adesso non vedono l’ora di stare insieme. Tanti sono anche compagni di scuola e arrivano da Canneto, Santa Maria della Versa, Campospinoso. Noi istruttori, poi, rispettiamo sempre le distanze di sicurezza e siamo molto attenti su tutto: cerchiamo di proteggere loro e proteggiamo noi stessi». Per i genitori il centro estivo è vera e propria fortuna. Forse quest’anno ancora di più… «Esattamente! è proprio una manna dal cielo… i genitori ci dicono che i bambini non resistevano più in casa, dopo così tanti mesi e per i genitori stessi è una manna dal cielo perché in tanti hanno ricominciato a lavorare e sanno che almeno i bambini giocano e sono al sicuro. Siamo in un posto dove c’è tanto verde intorno e non passano macchine, quindi un luogo anche molto tranquillo. Ho percepito che molti genitori preferivano un posto così rispetto ad altri luoghi magari completamente al chiuso. Quest’anno poi abbiamo avuto una novità rispetto all’anno scorso…». Di che cosa si tratta? «Abbiamo avuto in gruppo un bambino disabile, accompagnato dalla sua educatrice. è un piccolo di 5 anni, che aveva molta necessità, anche lui, di stare con gli altri. è molto importante, per questi bambini, avere i giusti stimoli che scuola o in questo caso centro estivo possono dare. è la prima volta che ci succede e per noi è una spinta in più per fare bene». Una sorta di inclusione… «Proprio così. Non tutti i centri estivi lo fanno. A noi è capitata l’occasione e non ci siamo di certo tirati indietro». Come è scandita la vostra giornata tipo?

I tre istruttori del centro estivo «Alla mattina c’è l’accoglienza, dalle 7.30 fino alle 9.30, momento in cui i bambini giocano liberi tra di loro. Successivamente i bambini fanno i compiti e glieli correggiamo, poi c’è la merenda e poi ancora vari tipi di giochi, dai più classici e antichi come il ‘rubabandiera’ a giochi con la palla. Cerchiamo sempre di fare attività abbastanza semplici, in modo tale che possano partecipare i bambini di tutte le età. Per fortuna tutti interagiscono tra di loro, maschi e femmine di tutte le età. Poi ancora c’è il pranzo e una piccola siesta dopo mangiato. Alle 14.30 quest’anno c’è la novità di spagnolo, al posto dell’inglese,: stiamo facendo imparare cose semplici, come i numeri, le parentele, i colori… E infine la merenda e poi ci si avvia verso la fine delle giornata con musica, balli di gruppo e canti. Dalla scorsa settimana, poi, abbiamo introdotto

la piscina nei giorni di martedì, giovedì e venerdì: si trova sempre all’interno del nostro centro e, non essendo molto grande, dividiamo i bimbi in gruppetti. La giornata è quindi davvero lunga!». Fino a quando durerà il centro estivo? “Quest’anno andiamo avanti fino all’apertura delle scuole a settembre. Saremo aperti, quindi, anche tutto agosto, tranne qualche giorno intorno al ferragosto”. Vi è mai venuto il pensiero di non fare il centro estivo in questo anno particolare? “No, mai. Tutti gli anni l’abbiamo fatto e quest’anno, pur con mille dubbi, non ho mai pensato di lasciar perdere. Anzi, non vedevo l’ora di ricominciare, più forti di prima!». di Elisa Ajelli



MONTù BECCARIA

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Ristoranti in crisi? A Montù c’è anche chi apre Con l’inizio della fase 2 ha aperto i battenti in Oltrepò un nuovo ristorante. Fin qui, nulla di così eclatante; anche se in questo periodo sono purtroppo in numero maggiore le strutture che hanno deciso di chiudere i battenti, rispetto a quelle che partono da capo. Allora, perché ne parliamo? Perché i gestori di questa struttura, fino a pochi mesi fa, erano titolari di un piccolo bistrot a Battuda, altrettanto piccolo comune nel Pavese nordoccidentale. Questo locale aveva raggiunto già nel 2013 il “numero uno” nella classifica di TripAdvisor relativa alla provincia di Pavia; posizione mantenuta poi per tutti gli anni successivi. Per chi non lo conoscesse: Trip Advisor è una piattaforma web sulla quale gli utenti di ristoranti o di altre realtà ricreative e ricettive possono lasciare una recensione, condita da una descrizione più o meno articolata, nella quale raccontare la propria esperienza e dunque consigliare – o sconsigliare – la struttura agli altri utenti di internet. Un servizio di comprovato successo e dotato di un grandissimo seguito, anche se tutt’altro che scevro da polemiche di vario tipo. Spesso sono proprio i ristoratori a contestare questi sistemi di classificazione: infatti, può accadere che recensori fittizi contribuiscano a migliorare indebitamente il rating di taluni ristoranti, dietro pagamento di un compenso da parte dei proprietari. Oppure, altri operatori del settore potrebbero attaccare i loro competitor rilasciando finte recensioni negative. O ancora, utenti “particolari” potrebbero decidere di lasciare recensioni estremamente negative, ma non corrispondenti a verità, per puro sadismo o per motivi estranei allo stretto rapporto cliente – esercente. Insomma: come si sarà capito, il sistema, benché di successo, suscita alcune perplessità. Del resto, quale sistema di classificazione non lo fa? Perfino la celeberrima Guida Michelin, quella che assegna le “stelle” ai migliori locali del pianeta, ha avuto negli anni molti detrattori. Perfino il grande Gualtiero Marchesi: non esattamente l’ultimo arrivato. Tuttavia, nonostante le levate di scudi dei contrari, è anche vero che moltissimi altri ristoratori (la maggior parte?) sono ben felici di sfoggiare sulla porta d’ingresso del proprio locale il “Certificato d’eccellenza” che TripAdvisor rilascia ai locali migliori delle sue classifiche. E dunque, implicitamente, ammettono di riconoscersi nel sistema. Nel caso del ristorantino di Battuda non ci poteva essere alcun dubbio circa la veridicità delle recensioni. Primo, perché ognuna di esse è ben circostanziata. Secondo, perché i titolari, Roberta e Rodolfo, sono due persone genuine, chiaramente incapaci di atti contrari al buon costume e al pro-

prio buon nome. Terzo, perché - in modo particolare per quelle strutture che raggiungono posizioni altisonanti - TripAdvisor effettua controlli volti a smascherare eventuali frodi. Insomma, non c’è nessun dubbio. Ma se ce ne fossero ancora, possa allora giovare la testimonianza di chi scrive; il quale ha avuto modo di testare, apprezzare, recensire. E se non volete fidarvi nemmeno del sottoscritto, fate bene attenzione a questo dato: ultimamente, per poter mangiare in quel locale, occorreva prenotare sei mesi prima. Lo ripetiamo (perché magari qualcuno penserà ad un errore): sei mesi. Ci vuole meno tempo per prenotare una radiografia con la mutua. Quando prenoti un locale per sei mesi dopo, non lo fai perché hai fame o perché hai voglia di staccare dalla routine: lo fai perché vuoi godere. Vedremo dunque se il nuovo locale riuscirà a ripetere i fasti già raggiunti in precedenza; nel frattempo, ora che i ritmi e le prenotazioni sono ancora entro livelli accettabili, ci è sembrato il caso di telefonare a Roberta e farle qualche domanda. A beneficio di chi si starà chiedendo cosa ci possa essere di così rinomato in un ristorante da giustificare un’attesa così lunga. Il nuovo locale si chiama “Locanda Chez Nous”, che significa “Casa nostra”. Prende in parte il nome dal predecessore di Battuda, “Bistrot Chez Nous”. Partiamo dagli inizi. Fino a qualche anno fa vi occupavate di tutt’altro che di ristorazione… poi cosa è successo? «Io lavoravo part time come biologa. Mio marito è geometra, si occupava di edilizia. Abbiamo deciso di aprire il bistrot per arrotondare; volevamo fare due/tre serate alla settimana. Invece, nel giro di due mesi, ci siamo ritrovati a lavorare tutte le sere. Sempre pieni.» Quello che vi ha portati a scoprirvi “chef a domicilio” e poi ristoratori è un percorso ben ponderato, e tutt’altro che breve. Un percorso fatto di viaggi, incontri, esperienze. Vogliamo ricordarne qualcuno? «A Mougins, in Costa Azzurra, sopra Antibes, c’è un piccolo bistrot… e lì, ormai più di dieci anni fa, ci è venuto in mente che un giorno avremmo voluto aprirne uno. Poi tutti i nostri viaggi… dal quello in Sicilia ci siamo portati la ricetta delle “busiate”, il pesto alla trapanese. Andiamo spesso in Toscana, infatti abbiamo un sacco piatti di quella terra nel menu, che riproponiamo spesso e volentieri.» Come è arrivato, poi, il vostro grande successo sul web? «Iscrivendoci a TripAdvisor sono arrivate le recensioni. Poi è venuto qualche giornalista in incognito, e anche quelli della

Cercando la vigna, abbiamo trovato anche la casetta. Ci siamo trasferiti qui a vivere a ottobre; fino a poche settimane fa facevamo avanti e indietro. Questa emergenza ci ha fatto pensare che togliendo due stanze alla locanda, e lasciandone una, avremmo potuto ricostruire una specie di bistrot qui. Quindi ora ci sono quattro salette, ognuna con un massiRoberta e Rodolfo, titolari della “Locanda Chez Nous” mo di due tavoli (per guida di Repubblica, che ci hanno inserito le distanze). Adesso, con le nuove regole, sul loro volume sia due anni fa che l’anno raggiungiamo un totale di 19 posti. Sono scorso. Da lì è partito tutto. Chiaramente salette colorate, in stile un po’ provenzale. anche grazie al passaparola.» Hanno la vista sul vigneto e sono molto Quali sono i capisaldi che hanno diffetranquille.» renziato il vostro approccio rispetto a Gli ultimi mesi sono stati molto difficili quello della ristorazione “tradizionaper il vostro settore. Quali sono le vostre le”? impressioni dopo la riapertura? «Noi facciamo la spesa ogni giorno. Pro«Penso che la gente abbia molto paura poniamo ogni sera un menu diverso. Cucidi tornare nei luoghi che si ricorda come niamo al momento: non c’è nulla di prepaaffollati. Il bistrot aveva pochi tavoli, ma rato nella nostra cucina. Il “Bistrot” era un erano comunque vicini. Non so come savero bistrot, con cucina espressa: questa rebbe andata la riapertura. Qui invece ci regola l’abbiamo tenuta anche alla “Losono pochi tavoli, lontani… al massimo, canda”. Poi, le cotture sono tutte separate: in una sala, ci sono sei persone. La gente, in un sugo di tre elementi, i tre elementi secondo me, cerca i posti in cui si sente vengono cotti separati e assemblati all’ulpiù protetta.» timo momento. Così si sentono i singoli Più clientela locale, finora, o più extrasapori. Proponiamo un menu a km0, seraterritoriale? te a tema, e in più abbiamo iniziato a fare «Sono divisi: sabato e domenica arrivano il pesce, cosa che ci è stata richiesta dai persone anche da lontano, da Milano. In nostri clienti storici. Per quanto riguarda settimana abbiamo più persone che arrivai vini, serviamo quello che produciamo no da questa zona, o comunque dalla pronella vigna qui sotto, una barbera che si vincia di Pavia.» chiama “Rosso Casotti”. Poi due vini che Vi sarà capitato di visitare le altre strutfacciamo a Bolgheri, in Toscana, rossi ferture del territorio circostante. Che immi. Infine abbiamo una stanza per chi si pressione vi siete fatti, in generale, del vuole fermare a dormire.» panorama composto dai vostri “compeA proposito del vino che fate a Bolghetitor” – o “colleghi”, se preferite? Penri… mi pare di ricordare, fra l’altro, sate possa esistere una “ricetta miracoche usavate anche un olio con la stessa losa” che possa interessare tutti i player, provenienza per alcuni piatti... che cosa con l’obiettivo di crescere insieme, come vi lega a questo posto? territorio? «Noi siamo innamorati della Toscana e «Noi giriamo spesso per ristoranti, perché delle sue colline. Le colline di questa valle comunque è sempre bene imparare dagli sembrano un po’ quelle senesi: sono colaltri, vedere cosa fanno, trarne spunto, line morbide, a differenza di quelle della vedere quali sono i propri errori per poi Valle Staffora, che sono un po’ a speroni. sistemarli. Qua in Oltrepò mi sembra si Quando vogliamo fare qualche giorno di sia un pochino chiusi. Se ci si mettesse relax andiamo in Toscana: abbiamo trovad’accordo per fare dei percorsi, con anche to una locanda anche là, dove ci riposiamo all’interno la visita alle cantine, l’Oltrepò in mezzo ai vigneti e si sta benissimo.» ne guadagnerebbe un sacco. Si potrebbe Perché avete deciso di trovare una nuoanche fare un opuscoletto con i ristoranva location, e perché proprio a Montù? ti della zona, i posti dove dormire e poi Cosa avete apprezzato, in particolare, magari qualche cantina. E avere una linea di questi luoghi? comune, per quanto riguarda le visite, i «Abbiamo comprato questa casetta due percorsi da proporre alla gente.» anni fa, perché volevamo avere una piccola vigna per fare il nostro vino. di Pier Luigi Feltri


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ROVESCALA - ITINERARI TRA I CASTELLI

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Luzzano, da azienda agricola a tenuta prestigiosa della famiglia Fugazza

Luzzano, frazione di Rovescala

All’estremo confine tra Oltrepò Pavese e piacentino, su un crinale collinare situato ad est del torrente Bardonezza, si trova Luzzano, una piccola frazione del comune di Rovescala. Già noto nel XII secolo come possedimento del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, non risulta essere stato attaccato durante l’invasione piacentina del 1215-16. Nei secoli subì diversi passaggi di proprietà fra le varie famiglie nobili del panorama oltrepadano. Nel 1747 l’Oltrepò Pavese passò dall’Austria ai Savoia, in cambio di alcuni favori. Come scrive Carmelo Sciascia nel libro “Piacenza, le sue frazioni e storie”, questo passaggio non fu ben visto dagli abitanti di Luzzano, i quali anticiparono i sentimenti di antipatia che si andarono a manifestare, in vari luoghi, dopo l’Unità d’Italia. Fu proprio in quell’anno che venne costruita la dogana, ancora presente nelle proprietà del castello. Nel 1815 venne inserito come Comune indipendente nel Mandamento di Soriasco, in cui vi rimase per pochi anni fino all’accorpamento con il comune di Rovescala. Il castello rimase proprietà dei conti di Belgioioso fino ai primi del ‘900, quando venne acquistato dalla famiglia Fugazza. Oggi l’azienda è guidata da Giovannella Fugazza che nel 1980, insieme alla sorella Maria Giulia, decise di sviluppare l’im-

bottigliamento dei propri vini con il marchio “Castello di Luzzano” e di dedicare l’azienda all’enoturismo e all’ospitalità. Fugazza, la sua famiglia quando è diventata proprietaria della tenuta di Luzzano? «La mia famiglia ha acquistato la tenuta negli anni ’30 dai Belgioioso. Era un’epoca in cui stavano cambiando i tempi: i Belgioioso avevano parecchie proprietà sparse in Oltrepò di cui dovevano occuparsi, ma non erano più interessati al campo agricolo. L’azienda, conservata in ottime condizioni, tutta accorpata e con grandi potenzialità per chi volesse dedicarsi esclusivamente all’agricoltura, fu per mio zio un investimento interessante. La mia famiglia paterna fondò la Valtidonese pomodori nei primi del ‘900 ed era composta da dodici fratelli: i maschi erano tutti titolari di attività agricole, mentre le sorelle avevano sposato altri agricoltori. Questa era la tipologia di investimento sul quale si puntava all’epoca». Com’è avvenuto il restauro della tenuta? «Quando venne acquistata era un’azienda agricola pura, meno prestigiosa di oggi e venne affidata all’architetto Portalupi di Milano, il quale lavorò qui per alcuni anni. Probabilmente fu il lavoro privato più lungo a cui si dedicò. La rese un’abi-

tazione moderna e più elegante: fece spostare la stalla, costruendo al suo posto una nuova cantina; venne dotata da subito di riscaldamento, acqua corrente, linea telefonica e tutti quei accorgimenti che la rendevano piacevole da vivere». Quale era la disposizione originale del “Castrum”? «Nell’ XI e XII secolo dove ora abbiamo la cantina, vi era la torre di avvistamento, le cui fondamenta sono tutt’ora visibili. Intorno a questa venne costruita una prima parte di casaforte, non un vero e proprio castello ma un’abitazione fortificata, circondata da un fossato. Durante la ristrutturazione abbiamo trovato nel cortile le fondamenta delle vecchie abitazioni dei contadini, poste a 3,5-4 metri sotto il livello attuale del terreno. La corte venne adornata con gli archi attuali attorno al ‘700, quando venne aggiunto un ulteriore pezzo della casaforte. Leggendo i vari documenti e testamenti che parlano di Luzzano si può dedurre che si tratta di un’azienda che è sempre stata ben amata dai loro proprietari, forse perché a misura d’uomo». La tenuta non è quindi mai stata trascurata o abbandonata? «No, di certo non venne mai abbandonata. Luzzano è sempre stato un luogo vivo e abitato. Forse venne un po’ trascurato dalla famiglia Belgioioso negli ultimi

vent’anni della loro proprietà, ma solo perché stavano cambiando i tempi». Castello di Luzzano e Leonardo Da Vinci: in che modo il nome di questo grandissimo personaggio storico è collegato alla vostra azienda? «Nel 1498 il Duca di Milano, Ludovico il Moro, regalò a Leonardo Da Vinci una vigna, che oggi corrisponde al giardino della “Casa degli Atellani”, situata poco distante dalla Basilica di Santa Maria delle Grazie e dal Cenacolo. L’enologo Luca Maroni, la genetista Serena Imazio e il professor Attilio Scienza, hanno effettuato diversi studi sul DNA di alcune radici presenti nel giardino della “Casa degli Atellani”, ancora ricoperte dalle macerie della Seconda guerra mondiale: la vite in questione è risultata essere di uva Malvasia di Candia aromatica, proprio come quella presente nella mia azienda, questo perché i vecchi proprietari di Luzzano erano imparentati con i Landi di Piacenza, noti coltivatori di tali vigneti. Nel 2015 nel cortile degli Atellani sono state ripiantate viti di questa tipologia, delle quali noi vinifichiamo separatamente l’uva raccolta in un’anfora, il cui vino viene destinato in un circuito di aste di appassionati. Il Malvasia era il vino più ambito nel ‘400 e nel ‘500: i veneziani si erano arricchiti commercializzandolo e fu per questo che arrivò qui da noi».


ROVESCALA - ITINERARI TRA I CASTELLI Luzzano vantava una posizione strategica, ma non risultano scontri o battaglie… «Nel Primo secolo d.C vi fu un insediamento di un tale Lucius, probabilmente un luogotenente di Cesare che era stato premiato con pensioni e terreni sul confine gallico. Già questo faceva intuire l’importanza strategica di questa proprietà. Nonostante ciò non risultano avvenimenti bellici per il controllo del territorio, forse perché si trattava di un’abitazione nobiliare, ma con indirizzo agricolo e non adatta a poter ospitare milizie date le dimensioni ridotte e la mancanza di difese». Pochi giorni fa a Negrar, in Valpolicella, durante gli scavi in un vigneto di prosecco è stato scoperto il pavimento di una villa romana. Anni fa accadde una cosa simile anche a Luzzano, conferma? «Esatto, stavamo cercando di allargare una fonte che si trova a valle tra Luzzano e Rovescala, per avere più acqua da dare agli animali. Appena iniziammo gli scavi ci si accorse che c’era qualcosa sotto il terreno, chiamai la sovrintendenza perché sapevamo che a valle poteva trovarsi qualcosa, in quanto anni precedenti, degli inglesi, avevano svolto degli scavi dai quali affiorarono alcuni reperti. E infatti fu così, furono ritrovati resti di una villa romana, probabilmente l’insediamento originario distrutto secoli fa, che occupava circa quattro ettari. Se ne parlò per diverso tempo…». Parliamo della sua attività: oltre alla produzione di vini di cosa si occupa? «Il nostro agriturismo è gestito direttamente da noi. Sono stata la prima che ha iniziato la ristrutturazione delle case dei contadini, man mano che questi decidevano di trasferirsi, per cercar di far arrivare visitatori: io ero giovane e non volevo dedicarmi interamente all’agricoltura, ma volevo vedere un’azienda viva e stare a contatto con la gente. Successivamente ho aperto il ristorante all’interno della vecchia dogana del 1747, costruita dai Savo-

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ia quando ricevettero l’Oltrepò da Maria Teresa d’Austria, sempre con lo scopo di offrire un servizio più completo legato al mondo del vino e all’enoturismo: è aperto solo durante il weekend su prenotazione. Abbiamo inoltre case indipendenti e quattro camere singole, antiche e autentiche, da poter affittare ai turisti. In cantina abbiamo una sala degustazione, dove organizziamo visite guidate e degustazioni, una sala meeting e un piccolo museo della mia infanzia». Come vedrebbe l’istituzione di un’associazione o un circuito che colleghi tutti i castelli dell’Oltrepò Pavese, sulla falsa riga di progetti già avviati in altre zone, come ad esempio il piacentino? «Il piacentino ha la Val Trebbia, la Val Luretta e la zona di Castell’Arquato frequentate da un rilevante numero di turisti. L’Oltrepò ha meno luoghi attrattivi rispetto ad altre zone, ma ha una bellissima fama di vini e paesaggi. Io penso che un circuito di castelli non basti per poter rilanciare il turismo. La gente oggi cerca la natura, il verde, spazi aperti e autenticamente naturali: avere un paesaggio di vigneti e boschi come l’Alto Oltrepò è una carta vincente per noi. Bisogna saperla valorizzare di più, anche nei percorsi, non limitandosi solo alla cartellonistica ma investendo in progetti più concreti e non improvvisati. Il turista vuole avere una giornata piena, che gli permetta di vedere, fare e soprattutto spendere. Per creare un circuito economicamente valido che coinvolga le persone non ci vuole moltissimo, ma serve sicuramente un aiuto economico delle istituzioni che incentivi il commercio delle piccole attività. Il turismo porta buon umore, guadagno e fama dei prodotti tipici. L’enoturismo è molto importante per il nostro territorio, ma non basta fare solo degustazione dei vini, vanno proposte attività coinvolgenti ed innovative per le quali il turista ha piacere nel tornare». di Manuele Riccardi

Giovannella Fugazza

«L’Alto Oltrepò va valorizzato di più, anche nei percorsi, non limitandosi solo alla cartellonistica ma investendo in progetti più concreti e non improvvisati»

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ARTE & CULTURA

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«La mia prima opera non è che un briciolo del mio immaginario Stefano Costa, bronese classe 1982, lavora come redattore e editor libero professionista. Il 14 maggio scorso è stato pubblicato il suo romanzo d’esordio: si intitola “Il primo giorno d’autunno al mondo” ed è uscito per Il Saggiatore, storica casa editrice milanese. Stefano, come si è avvicinato al mondo dell’editoria e della scrittura? «C’è una differenza (tra le tante) di fondamentale importanza tra “editoria” e “scrittura”. L’editoria è un’attività che non solo può vivere nel tempo unicamente in funzione di un orizzonte professionale (a meno che, faccio un esempio per semplificare, una persona non voglia fondare una casa editrice per hobby, ponendosi l’obiettivo di pubblicare un paio di libri all’anno per poi chiudere dopo poco), ma che viene anche percepita come tale. La “scrittura” è un’attività che, esattamente come la precedente, può vivere nel tempo unicamente in funzione di un orizzonte professionale: ma che non è necessariamente percepita come tale. Poiché sin da piccolo la lettura è stata una costante della mia vita (compatibilmente con l’età, s’intende), sin da piccolo, appunto, sentivo che in romanzi, racconti e fiabe trovavo aspetti del mio immaginario. Di ciò che, come si dice ingenuamente in questi casi, “avevo dentro”. Sentivo che, per fare un esempio, i balenieri di una certa narrativa sudamericana non parlavano a me: parlavano di me. Ciò accade quando si percepisce la lettura come un’esperienza: per quella parte della nostra vita che sta in quella degli altri, sebbene eventualmente distanti da noi per idee, contesto, geografia e mille altri aspetti. Dunque quando ho capito, ero più o meno un ragazzino al liceo, che la professionalità di cui parlavo prima dava forma sia a scrittura che a editoria ho iniziato a coltivare il desiderio di lavorare ai libri prima che questi vedessero la luce, convincendomi (ed avendo ragione nel farlo) del fatto che spesso in quel lasso di tempo precedente la pubblicazione stesse una forma particolare di conoscenza. Da qui l’università, la filologia, il lavoro sui testi altrui e la scrittura». Come è nata l’idea di scrivere un libro? «Non è mai nata quest’idea. C’è sempre stata. È un immaginario che hai dentro e che spancia. La mia scrittura è un accidente, il romanzo è un accidente: è qualcosa che può concretizzarsi in quella precisa forma sebbene esistano altri Driano, altre Agata, altre streghe e altri diavoli; sebbene gli stessi possano avere anche altre forme e concretizzarsi, per dire, in un’opera pittorica o architettonica. Sarebbero gli stessi e diversi da se stessi allo stesso tempo: non c’è scarto tra un immaginario e il suo concretizzarsi. C’è solo l’opera. Dico una cosa a questo proposito. Tra le

migliaia di macrogruppi in cui potrei dividere (arbitrariamente ma non senza ragione) gli autori e le autrici con cui ho lavorato, nel tempo, ve n’è una che investe il loro immaginario: esistono autori che esauriscono il loro immaginario in una sola pubblicazione o in un paio di pubblicazioni; ne esistono altri che, pubblicando tanto, concepiscono ogni libro come fosse il capitolo di un libro più vasto, e che non esauriscono mai il loro immaginario. Io appartengo al secondo gruppo. Il primo giorno d’autunno al mondo non è che una briciola. Importante è una specificazione: tra questi due gruppi non esiste una distanza qualitativa (non è che un gruppo produca opere migliori dell’altro): la distanza sta nella gestione della materia narrata. E sì, credo si capisca, in questo caso “immaginario” fa rima con “ossessione».” Quando ha deciso la trama e perché proprio questa? «Anche in questo caso, mi è difficile parlare di “decisione”. Non c’è un momento (intendo un periodo) durante il quale mi sia detto che quella sarebbe stata la trama. Semplificando al massimo, posso dire che solitamente la mia scrittura attraversa diverse fasi (oggi, poi un domani magari sarà diverso): all’inizio (inizio significa dopo un lungo periodo di studio/ documentazione) mi lascio dominare dalla materia, parto con idee chiare sul cuore del discorso ma indefinite su tutto il resto. Più procedo (e più tutto si definisce), più sono io a dominare la materia. Da lì arrivo alla fine. Dopo la fine partono le stesure.Infine, ho incontrato professionisti preziosi quali Andrea Gentile, Damiano Scaramella e Lorenzo Costantini: con loro è stato naturale capire quale fosse il cuore del mio romanzo». “Il primo giorno d’autunno al mondo” è un romanzo diviso in tre parti. Ce le racconta? «La prima: un uomo di nome Driano, quand’era giovane, colto da solitudine, aveva chiesto a una talpa, un piccolo animaletto che aveva salvato dai denti di alcuni gatti, di estinguere il genere umano. La talpa si organizza, crea un suo schieramento (talpa, volpe, pipistrello, polpo ecc): osteggiato da uno schieramento avversario (gabbiano, lupo, gatto, gazza ladra ecc). La loro guerra sta terminando. Nessun essere umano, ovviamente, s’è mai accorto di nulla in tal senso. Nella seconda parte, Driano, adulto e malato da un anno, rivive la sua vita al contrario. Dal giorno in cui muore all’indietro. La consapevolezza di ciò gli dà modo di rivivere la sua vita in modo diverso. Rivive la vendita di una casa per lui molto importante, il rapporto travagliato con la moglie, la speranza nelle figlie, tutto. Infine, nella terza, Driano è morto: determinate persone che gli sono state accanto

Stefano Costa, bronese, al suo primo romanzo d’esordio

per tutta la vita (la moglie, il fratello, alcuni cugini e via dicendo) si ritrovano a casa sua, per il rosario serale e il funerale il giorno seguente. Ognuna di queste persone vive il rapporto che ha avuto con Driano, nonché la propria vita specifica. Sostanzialmente, è la stessa storia narrata da tre punti di vista differenti. L’unione delle tre, in un gioco serrato di rimandi, rende l’incomunicabilità tra tutti i personaggi. Rende, o dovrebbe rendere, la nostra incomunicabilità». La storia è ambientata in Oltrepò: un omaggio alla sua terra? «No, nessun omaggio. Anche qui, colline e casolari, filari di viti e bestie che li abitano sono il mio immaginario: sono la mia quotidianità e nello stesso tempo non la sono, poiché piegati alla mia esigenza di fuga, di creazione. A dirla tutta, comunque, se parliamo di territorio, il romanzo è non meno ambientato anche nel Levante ligure, luogo per il quale vale il medesimo discorso, sebbene qui prevalgano i toni della luce. Li accomuna il senso del confine, del silenzio e della solitudine: quella che si patisce non in senso fisico (i miei personaggi non sono soli: hanno parenti, amici, nemici, colleghi, vivono storie d’amore e non), bensì in senso emozionale. Nell’accettazione che nessuno si caricherà mai sulle spalle il nostro dolore». Come è stato accolto in questo primo periodo il suo libro? «È stato pubblicato in un periodo – mi si passi il termine, da accogliere con buonsenso – strano: era il 14 maggio, durante le fasi terminali della quarantena. È ancora molto presto per ragionare su un bilancio, anche parziale. L’editore, Il Saggiatore, è una realtà talmente solida (e ricca di professionisti veri, al suo interno) che non ho dubbi sul destino delle mie streghe. Detto questo, ho riscontrato un forte interesse da parte di molte persone che mi chiedono, che mi forzano a parlarne, che si dimostrano curiose anche dopo aver letto il romanzo. E questo è significativo, poiché

quando la curiosità rimane anche dopo la lettura significa che il romanzo ha davvero, in qualche modo, scardinato qualcosa dentro il lettore». Lavora nel campo dell’editoria. Com’è la situazione in questo settore? «È una situazione incredibilmente vitale. Contrariamente a quanto si dice (spesso per ignoranza, spesso per pigrizia nel sostituire l’informazione con lo studio), esiste un numero elevatissimo di opere (e dunque di autori, di editor, di editori, di traduttori: in una parola, di professionisti) valide, necessarie. Sto parlando, nell’avvicinarmi il più possibile al mio romanzo, di opere italiane. Certamente, vendere libri è e rimane un’attività complessa: in questo momento ho l’impressione che un periodo quale quello appena concluso abbia imposto alla filiera editoriale, e al lavoro dell’editore, di alzare ancora l’asticella qualitativa. Per fare un esempio: diverse realtà con cui lavoro (case editrici, agenzie letterarie) stanno puntando tutte indipendentemente l’una dall’altra sempre più sull’inappuntabilità del lavoro che non sulla velocità di realizzazione (mentre ci sono stati anni in cui, fatto salvo ovviamente un grado minimo di presentabilità, mi pareva si puntasse maggiormente su una certa foga editoriale e sulla rincorsa a un’originalità e a un sensazionalismo spesso fini a se stessi). E si tenga conto che sono realtà variegate. È un buon cambio di mentalità e di atteggiamento. Che non so quanto durerà». La gente ama ancora leggere il cartaceo o c’è una migrazione netta verso il digitale? «È un discorso molto più complesso di quanto possa sembrare. Servirebbe come minimo un libro intero per esaurirlo. Io invito sempre a riflettere su questo: cartaceo e ebook, fatta salva l’integrità dell’opera, non sono solo due “vie” diverse di fruizione di un’esperienza, bensì due prodotti differenti che spesso vengono considerati più parenti di quanto non siano in realtà. In quest’ottica non parlerei di migrazione: sebbene i dati parlino di un incremento di vendite di ebook, il grosso del mercato resta quello su carta. E ci sono infiniti motivi, che qui sarebbe davvero impossibile riassumere, per cui questo è considerabile normale». Cosa vede nel suo futuro? Ci saranno altri libri? «Sicuramente, per i ragionamenti fatti poco fa, posso dire che sì, la scrittura per me sarà sempre una ricerca: e quando non sai esattamente di cosa, be’, significa che ti accompagnerà a lungo ancora. Ho terminato un secondo romanzo e ne sto iniziando un terzo. L’immaginario di cui dicevo, l’ossessione, ecco, sono duri a esaurirsi». di Elisa Ajelli


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SPORT

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«A Monza c’è ancora un bar del centro che ha esposto la mia maglia e le mie scarpe» Il 22 febbraio 2020 alle ore 17.30 si è giocata Monza-Arezzo, partita della 27ma giornata di campionato di Serie C 2019/20. Inconsapevolmente nessuno poteva immaginare che quella sarebbe stata l’ultima partita di una stagione particolare, caratterizzata da una sospensione provvisoria degli incontri rivelatasi poi definitiva, con l’annullamento delle undici partite rimanenti a causa della pandemia Covid-9. Il Monza di Cristian Brocchi ha pareggiato 1-1 contro la squadra toscana, mantenendo comunque un vantaggio abissale di 16 punti sulla Carrarese, seconda in classifica. L’8 giugno 2020, con un Comunicato Ufficiale della FIGC, viene dichiarata la chiusura anticipata dei campionati di Serie C, che decreta la promozione dell’AS Monza in Serie B (l’ottava dal 1910), 19 anni dopo l’ultima partecipazione nella serie cadetta. Per il Monza è il quarto campionato di Serie C vinto, dopo quelli delle stagioni 1950-51, 1966-67 e 197576. Tra i protagonisti di quella storica prima promozione vi erano due giocatori oltrepadani: Carlo Colombetti di Broni, classe 1923 e Guido Soldani di San Cipriano Po, classe 1926. Ora residente a Stradella, Soldani ha vestito la maglia brianzola per cinque stagioni, per un totale di 150 presenze e 37 goal. Abile nel gioco aereo, veniva impiegato principalmente come mezzala con compiti di regia. Sotto la guida di mister Annibale Frossi (oro olimpico da calciatore a Berlino ’36), nella sola stagione della promozione in B andò a segno ben 16 goal, risultando il secondo miglior marcatore e giocatore trainante della squadra. Della sua carriera ricorda tutto alla perfezione, come se quei decenni non fossero mai trascorsi: dagli inizi tra le fila della Stradellina con il compagno e amico Colombetti, passando per gli anni d’oro del Monza, del suo rapporto di amicizia e stima con l’allenatore Annibale Frossi e quella mancata promozione in Serie A che ancora oggi lascia una nota di amarezza… Guido, ci racconti com’è iniziata la sua carriera calcistica? «Sono nato a San Cipriano Po, dove iniziai a fare i primi tiri con la squadra del paese con la quale vinsi un campionato di seconda divisione. Nel 1944 mi trasferii alla Stradellina che militava in Serie C, in cui giocava anche Giuseppe Chiappella, che divenne Campione d’Italia nel 195556 con la Fiorentina». Come è arrivato a giocare a Monza? Era stato notato da qualche talent scout? «Andai a giocare nel Monza grazie a San-

«Andai a giocare nel Monza grazie a Sanguinetti, un commerciante di filati e tessuti di Stradella che si forniva da una ditta brianzola» Guido Soldani, di San Cipriano Po, classe 1926, mezzala del Monza

guinetti, un commerciante di filati e tessuti di Stradella che si forniva da una ditta brianzola, della quale uno dei tre fratelli titolari era Giuseppe Borghi, il neopresidente della squadra». All’epoca si sarebbe immaginato di raggiungere la Serie B? «Ma figuriamoci! Io giocavo per passione. Ricordo ancora quella giornata: Sanguinetti mi chiese di passare in negozio perché doveva parlarmi. Arrivato da lui mi disse “Vuoi andare a giocare al Monza?” Io rimasi un po’ stupito e lui proseguì “Se vuoi puoi andare fin da subito…” e allora accettai. Successivamente Sanguinetti riuscì a portare a Monza anche Colombetti di Broni». Come fu la vostra prima stagione nella serie cadetta? «Non facile, ci salvammo all’ultima giornata con due punti di vantaggio sul Venezia, la prima delle retrocesse. Ma la stagione successiva fu diversa…». Che rapporto aveva con il presidente Borghi? «Diciamo che ero il suo beniamino. A Monza veniva spesso un osservatore da Genova, ma io non lo sapevo fino a quando un dipendente della squadra mi avvisò di essere sotto la lente di Andrea Doria (Sampdoria, n.d.r.) e che il mio trasferimento era imminente. Mi dissero di presentarmi insieme al segretario a Genova, all’Hotel Acapulco, dove avremmo aspet-

tato il presidente Borghi per firmare il trasferimento. Le carte erano tutte compilate, mancavano solo la mia firma e quella di Borghi, ma lui non si presentò. Nei giorni successici mi ritesserarono in squadra e mi aumentarono l’ingaggio, perché il presidente mi aveva preso in simpatia e non voleva che lasciassi la squadra. Era un signore: quando mi trovavo a Monza e si faceva tardi Borghi mi invitava a fermarmi a dormire a casa sua». Quindi era un presidente molto legato alla sua squadra… «Certamente, era bravo come il pane e di grande serietà. Il Monza era una squadra molto seria, non sgarrava mai con i pagamenti. Ricordo che proprio durante la stagione 1950-51 San Cipriano fu alluvionata e ci aiutò con soldi, vestiti e tutto quello che ci serviva». Parliamo del suo allenatore dell’epoca, Annibale Frossi. Lui inventò un modulo di attacco a M che venne successivamente utilizzato da Puskas nella nazionale ungherese. Di cosa si trattava? «Era un modulo innovativo in cui le due mezzale facevano i centravanti, il centravanti faceva lo stopper arretrato e davanti vi erano le due ali. In allenamento Frossi si arrabbiava spesso se non si rispettava il suo modulo, anche se si andava in rete. Questa tattica ci permise di vincere la Serie C perché gli avversari si trovavano spiazzati: ricordo ancora una partita con-

tro il Fanfulla vinta per 2-0 in cui l’allenatore e la squadra erano completamente in confusione. Frossi era una grandissima persona, anche a livello umano: a mio parere, è stato il miglior allenatore di quel periodo. Diceva sempre che le partite più belle erano quelle che finivano 0-0 perché erano quelle più equilibrate, ma noi scoppiavamo a ridere». Come vi allenavate? «Facevamo un allenamento alla settimana. Io e Colombetti raggiungevamo la stazione di Pavia a bordo della mia moto per poi proseguire in treno fino a Monza. Addirittura, avevamo le chiavi che ci permettevano di entrare allo stadio direttamente dalla ferrovia, senza uscire dalla stazione!». Qual è stata la partita che ricorda con la maglia del Monza? «Le racconto un aneddoto: un giorno, mentre dallo stadio mi recavo con Colombetti all’Hotel Falcone, ci fermammo di fronte alla vetrina di un orologiaio. C’era esposto un bellissimo orologio d’oro che mi aveva particolarmente colpito e proprio in quel momento uscì dal negozio l’orefice per chiederci se potesse esserci d’aiuto. Io domandai il prezzo dell’orologio e lui, molto gentilmente mi rispose «Non costa nulla. Domenica si gioca contro il Vicenza - che era una delle squadre più forti – e lei se riesce a segnare e a farci vincere io giovedì glielo porto al campo.


SPORT La domenica successiva vincemmo per 2-1 e segnai pure un goal, ma sinceramente non pensavo nemmeno più a quanto accaduto nei giorni prima. Invece l’orefice mantenne la promessa e, con mia grande sorpresa, si presentò all’allenamento portandomi una bella confezione contenente l’orologio in questione. Ma di partite con il Monza ne ricordo parecchie, anche quella contro il Genoa nel 1952-53...». Cosa accadde in quel giorno? «Era il maggio del 1953, mancavano quattro partite alla fine del campionato e il Genoa era in testa alla classifica. Noi seguivamo a pochi punti di distanza ed eravamo in piena lotta per la promozione. La partita era equilibrata e potevamo giocarci la vittoria. Ma al 56’ ci fu confusione nella nostra area: Lovati, il nostro portiere, chiamò la palla a Magni ma, trovandosi decentrato, finì per buttarla nella nostra rete. Perdemmo 1-0 e le tre partite successive furono due pareggi e una sconfitta. Finimmo il campionato quarti, a 3 punti dal Legnano, seconda classificata e promossa in Serie A. Se non avessimo perso in quel modo quella partita contro il Genoa avremmo certamente ottenuto la promozione». Poi andò a giocare a Piacenza... «Nel 1953-54 andai in prestito al Piacenza che militava in Serie C, in cui giocai solo otto partite. Al rientro dal Piacenza mi proposero di trasferirmi all’Empoli o al Pavia, ma rifiutai preferendo la Vogherese in IV Serie. Qui rimasi solo due stagioni per poi trasferirmi in Sardegna al Monteponi Iglesias». Come fu la sua esperienza in terra sarda? «Il Monteponi Iglesias era una polisportiva alla quale faceva capo una società di miniere del Sulcis. Firmai un contratto di due anni, al termine del quale avrei potuto scegliere se rimanere come giocatore oppure essere assunto nelle miniere. Facevamo due partite in casa e due in trasferta continentale. Anche qui trovai una squadra onesta. Ricordo che stavo per imbarcarmi per andare a giocare una partita contro il Civitavecchia e mi arrivò la comunicazione di tornare a casa perché fui colpito da un grave lutto familiare. Quando arrivai a casa mi contattarono per chiedermi se fossi interessato a tornare a giocare, ma io scelsi di rimanere a Stradella: mi spedirono tutto quello che mi spettava, fino all’ultima lira, senza alcuna mia richiesta. A quei tempi c’era una grande serietà». Quale ritiene sia il suo goal più bello? «Lo segnai contro la Pro Vercelli, mentre ero nella Vogherese nella stagione 195556. La partita era stata sospesa l’8 gennaio 1956 per nebbia al minuto ’84 e il 19 gennaio si giocò il recupero. La palla mi cadde dal cielo, la stoppai, spalle voltate, finta di corpo e tiro di piatto dritto in rete di Colombo, che negli anni successivi diventò portiere della Juventus. Quel goal a Voghera lo ricordano ancora oggi: l’anno scorso, mentre facevo gli esami per il rinnovo della patente, ho incontrato un signore che, dopo avermi salutato, come prima cosa mi disse “Guido, ti ricordi il

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Campionato di Serie B, 1951: Soldani va a segno contro il Rapallo

goal che segnasti alla Pro Vercelli?”». È mai stato vicino a giocare in Nazionale? «Venni convocato una volta sola, ma mi infortunai ad una caviglia in allenamento e non ebbi una seconda occasione». Finita la sua carriera come giocatore rimase ancora nell’ambiente calcistico? «Al mio ritorno allenai la Stradellina per un breve periodo e alcune squadre del settore giovanile, tra cui Sant’Angelo Lodigiano. Per qualche anno feci l’osservatore per il Varese, dove portai a far debuttare Ramella di Zinasco, con il quale raggiunse la Serie A nel 1973-1974. Fuori dall’ambito calcistico ero impiegato alla Robo di Stradella, dove lavorai per circa 40 anni». Oggi segue ancora il calcio? Per quale squadra tifa? «Sì, seguo ancora il calcio come appassionato. In passato ho tifato Bologna perché ci giocavano Giorcelli, mio ex compagno di squadra, e Gino Colombo. Oggi tifo Juventus e Atalanta». Cosa pensa del calcio moderno? «A me vien da ridere quando sento i commentatori delle partite che dicono: “Ha sbagliato il goal perché non ha tirato con il suo piede…”. I calciatori di oggi passano sei giorni nel campo ad allenarsi, noi facevamo una sola sessione di allenamento a settimana. Frossi sa cosa faceva? Lui ci osservava tutti, anche quando camminavamo normalmente. Se ci fosse stato qualcuno non ambidestro, lo avrebbe portato verso un muretto vicino al campo e lo avrebbe tenuto lì, a calciare con il piede più debole, finché lo riteneva opportuno. E oggi sentiamo dire che calciatori strapagati hanno sbagliato un goal perché hanno calciato con il piede sbagliato? Assurdo. In più avevamo divise di lana che con la pioggia diventavano pesantissime e palloni di cuoio che diventavano durissimi nelle partite invernali...». Ai suoi tempi, avrebbe mai pensato che in un futuro il calciatore professionista avrebbe ottenuto ingaggi faraonici e

una tale fama? «No, al Monza non si guadagnava un granché e non potevamo ancora considerarci tra i professionisti: solo dopo l’anno della promozione arrivarono alcuni industriali che investirono e iniziarono a darci qualche bonus. In Sardegna, invece, avevamo uno stipendio fisso al quale si aggiungevano premi di partita esagerati, quindi la motivazione era forte. Quando giocavo a Stradella, in Serie C, prendevo seimila lire al mese, senza premi partita: gli unici bonus erano qualche pranzo o cena in pizzeria dopo le gare. Erano altri tempi e un mondo diverso». Essere un calciatore generava già quel fascino sulle ragazze come accade oggi? «Figuriamoci! Ai miei tempi finita la partita tornavamo da Monza e verso le 11-11.30 andavamo a ballare al Sandalo Cinese. Ma non c’era tutta questa fama di oggi. Al cinema trasmettevano un riassunto settimanale delle partite giocate, di pochi minuti, in cui spesso capitava di vedermi. Ricordo che una volta allo Stradellino, entrai durante l’intervallo di un film con la caviglia fasciata in seguito ad un infortunio e tutti mi chiesero cosa mi fossi fatto, ma finì li. Ho letto nei giorni scorsi un articolo in cui si parlava di quanto ha guadagnato Cristiano Ronaldo e di tutte le sue proprietà: ora siamo all’esasperazione, è tutto troppo esagerato». Quali sono i giocatori più forti con cui, o contro cui, lei ha giocato? «Un giorno Anselmo Giorcelli, ex portiere del Monza, mi invitò a partecipare ad un torneo notturno in cui c’erano parecchi giocatori di Serie A. Qui ho avuto l’occasione di giocare insieme a Gino Capello, grande protagonista del Bologna degli anni ’50 e di vincere il torneo. Era fortissimo e anche un po’ spericolato. Per un certo periodo il Monza giocava in allenamento contro la Nazionale di calcio e per questo ho avuto modo di conoscere un po’ tutti migliori anche perché, finiti gli allenamenti, andavamo al ristorante

tutti insieme». Oltre a lei e Colombetti ricorda altri calciatori della zona che ebbero successo in quel periodo? «Sì, di Stradella ricordo Giampiero Mangiarotti che arrivò fino in serie A con la Spal mentre, della generazione precedente, Ezio Sclavi, portiere di Lazio e Juventus: un vero fenomeno che riuscì a contendersi con Giampiero Combi la porta della Nazionale». Oggi qual è il suo calciatore preferito? «Dell’Inter mi piacciono molto Stefano Sensi, che ora è infortunato e Lautaro Martinez, mentre della Juventus Paulo Dybala, Cristiano Ronaldo e Rodrigo Bentancur. Apprezzo parecchio Domenico Berardi del Sassuolo, che conosco personalmente, e penso che se fosse andato alla Juventus sarebbe diventato ancora più forte». È rimasto in contatto con i suoi ex compagni del Monza? «Certo, ci trovavamo spesso per fare delle rimpatriate. Poi col passare degli anni ci siamo un po’ persi di vista. Su una rosa di quindici, sono certo che otto o nove di loro sono già scomparsi, chi da diverso tempo e chi recentemente. Mi piacerebbe sapere chi ha avuto la fortuna di poter arrivare alla mia età e magari poterlo rincontrare…». Cosa pensa del Monza di oggi e di quest’ultima promozione? «Ad essere onesto ad inizio campionato non pensavo che Brocchi ci sarebbe riuscito, ma è anche vero che la società ha fatto una costosa campagna acquisti, mettendogli a disposizione una squadra adatta a poter raggiungere la promozione. Certo, è stato un campionato un po’ particolare, interrotto con diverse partite d’anticipo, ma la superiorità e il distacco sulla seconda era rilevante. A Monza c’è ancora un bar del centro che ha esposto la mia maglia e le mie scarpe: questo mi riempie di gioia e ne sono orgoglioso perché so di non essere stato dimenticato». di Manuele Riccardi


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SPORT

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«I settori giovanili rappresentano la parte più genuina del calcio» Mattia Giacobone, 41 anni, nato a Voghera, è docente universitario, osteopata e allenatore dal 1998, con due anni di esperienza nella Scuola Calcio Inter; ma la sua enorme passione per il calcio lo ha condotto a vestire anche i panni dello scrittore: in “Meglio di un film. Piacenza campione d’Italia – Parallelismo tra calcio e vita nella costruzione di un successo”. Giacobone racconta come lui e i suoi ragazzi under 15 del Piacenza siano riusciti a conquistare lo Scudetto nella passata stagione. L’attenzione, però, è rivolta in particolar modo all’aspetto psicologico dell’esperienza; non a caso l’allenatore ritiene che il rapporto tra sport e individuo sia in primo luogo intimamente personale ed emotivo. Infatti, la comunicazione con i propri compagni e l’attività fisica sono state un notevole supporto morale durante il periodo di quarantena che tutti abbiamo vissuto. Come mai ha scelto proprio il formato del libro per celebrare il successo della squadra e l’itinerario che l’ha preceduto? «Il 14 giugno del 2019 abbiamo vinto lo scudetto e i festeggiamenti sono proseguiti per praticamente un mese. Volevo che il ricordo di questo percorso e del trionfo finale rimanesse bene impresso. Di solito si usano foto e filmati delle partite, ma secondo me non sarebbero stati efficaci quanto le parole nero su bianco, che restano a mio giudizio il mezzo più incisivo per mantenere viva un’esperienza». è interessante la scelta del sottotitolo: “Parallelismo tra calcio e vita nella costruzione di un successo”. Ce lo può spiegare? «Durante la stesura ho inserito anche momenti di cui, in linea di massima, non si parla nel calcio: le conversazioni in spogliatoio, i discorsi pre-partita, i momenti di difficoltà. Insomma, tutta la parte introspettiva che io ritengo fondamentale soprattutto quando le forze in gioco sono simili, poiché la differenza la fa l’atteggiamento con cui ti poni verso l’allenamento e la partita. Il parallelismo tra il calcio e la vita viene messo in luce alla fine di ogni capitolo: ho paragonato ciascuna fase del nostro percorso ad una fase della vita umana. Ad esempio, la controparte del capitolo “Il ritiro” è la scuola, ossia un momento di formazione e preparazione. E così via per ogni capitolo, finché la stagione calcistica non diventa la vita intera di una persona, con i suoi successi – come è stato, fortunatamente, per noi – ma anche insuccessi e momenti di difficoltà, in cui è necessario impiegare tutte le proprie forze».

Mattia Giacobone, vogherese, allenatore,osteopeta e docente universitario

è un libro, quindi, rivolto a tutti; non solo agli appassionati dello sport e agli addetti ai lavori. «Esatto. è in prima istanza l’avventura di un gruppo di persone, di amici, che si scambiano pensieri e aneddoti anche divertenti a pranzo o sul pullman – per esempio. Il tutto sullo sfondo del calcio, la passione che ci accomuna». In Italia lo sport più praticato è il calcio e altrettanto popolare è in Oltrepò. Inoltre, prima di approdare nel Piacenza nel 2017, lei ha allenato il Pavia per sei anni ed ha cominciato la sua carriera nel ’98 con il Bressana, per cui conosce bene il calcio oltrepadano. Cosa ne pensa dei settori giovanili del nostro territorio? «è difficile dare una risposta univoca perché è un mondo parecchio ampio ed eterogeneo. In Oltrepò ci sono tante belle realtà calcistiche. Purtroppo negli anni ci sono state molte fusioni e fallimenti, ma ultimamente stanno rifiorendo alcune società che mirano ad essere dei riferimenti, tra cui anche quelle storiche come Voghera, Casteggio, Bressana, Broni. Ci tengo infatti a dire che è sempre positivo vedere ancora attive tante squadre con tanti settori giovanili, sia perché loro

Mattia Giacobone, allenatore Under 15 del Piacenza, nel suo Libro “Meglio di un film. Piacenza Campione d’Italia”, il ricordo di questo percorso e del trionfo finale sono il fondamento del calcio – come per tutti gli sport, sia perché secondo me rappresentano la parte più genuina di questo sport, dove si gioca per pura passione e non per secondi fini. è giusto voler vincere, voler arrivare a determinati livelli, ma se parti da zero è perché sei spinto da una forte passione per lo sport che pratichi. E ciò non riguarda solamente i giocatori, ma anche tutto quel mondo “sommerso” – nonostante sia fondamentale – di direttori, custodi, dirigenti… il team che non

scende in campo fa quel che fa perché desidera stare a contatto con il mondo del calcio. Opinione impopolare la mia, ne sono consapevole, ma sostengo che chiunque volesse praticare il proprio sport preferito a livello amatoriale dovrebbe farlo gratuitamente, permettendo alle proprie società di concentrare gli sforzi economici sulle strutture e le utenze per consentire agli adulti di praticare la propria passione nel migliore dei modi e, inoltre, lasciando che ulteriori investimenti siano effettuati


sport per il bene dei giovani, mettendo loro a disposizione figure tecniche, pedagogiche e sanitarie preparate e competenti. Discorso diverso, con previsione di rimborsi spese o veri e propri stipendi, dovrebbe essere affrontato nelle categorie semi-professionistiche e professionistiche. Nella mia idea bisognerebbe arrivare a un punto in cui le priorità diventino veramente la passione per lo sport e il piacere dello stare in gruppo anche per gli adulti che praticano a livello dilettantistico». Il lockdown ha avuto gravi conseguenze sociali, sanitarie ed economiche; purtroppo, ha inevitabilmente inficiato anche lo svolgimento delle attività sportive. è stato comunque possibile mantenere i contatti con la squadra e, nei limiti del possibile, continuare ad allenarsi anche a distanza? «Sì, tra messaggi e videochiamate la squadra è rimasta sempre in contatto e unita. Da soli, a casa, è impossibile allenarsi, dal punto di vista tecnico, come in campo con i compagni; perciò, durante il lockdown, gli allenamenti online non sono stati utili tanto al mantenimento della forma fisica e delle abilità, ma penso abbiano avuto un ruolo più importante: sono stati un modo per chiacchierare, vederci da lontano e impiegare il tempo dei ragazzi con attività e competizioni casalinghe che li potessero distrarre, anche per poco tempo, dalla drammatica situazione che stavamo vivendo.

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Preparavamo cose come: “gara tecnica di palleggi solo col piede destro; avete tempo fino a domani per inviare il video”. Così ognuno aveva un pretesto per concentrarsi sul pallone e ottenere un risultato gratificante alla fine della giornata. Un altro esempio di mobilitazione in questo senso è quello della MoviSport di Voghera, di cui fa parte il mio vice allenatore Francesco Bertolini: l’associazione si è attivata tempestivamente organizzando delle mini-Olimpiadi online per i ragazzi. Quindi, sebbene messo a dura prova, lo sport è stato fondamentale in un momento tanto critico, in cui, costretti in casa o comunque a spostamenti limitatissimi, eravamo costantemente bombardati da informazioni e bollettini poco rassicuranti». Per concludere, in quanto docente di Osteopatia a Torino e Scienze Motorie a Pavia: com’è stata la sua esperienza nell’ambito della Formazione a Distanza (FAD)? «La mancanza di interazione ha messo tutti in difficoltà. Stiamo andando verso una vita di smartworking e digitalizzazione, ma sono dell’idea che vivere l’aula sia fondamentale per entrambi studente e insegnante. C’è tutto un apparato di rapporti interpersonali, linguaggio non verbale e interazione domanda-risposta che solo in aula, secondo me, viene mantenuto efficacemente. Se un concetto non viene capito vengono chieste spiegazioni e spesso si ricorre ad esempi: paradossalmente, in presenza,

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«Opinione impopolare la mia, ma sostengo che chiunque volesse praticare il proprio sport preferito a livello amatoriale dovrebbe farlo gratuitamente» questi meccanismi si innescano più velocemente e facilmente che non in una video lezione, specie se è registrata e non in diretta. Chiaro che, inoltre, la capacità di rapportarsi con gli altri e la comprensione più o meno approfondita della materia di studio è discriminante nel mondo del lavoro. Il sistema scolastico universitario

è stato tempestivo nell’adattarsi all’emergenza, ma se mi chiedessero di scegliere tra la FAD e la scuola in presenza, sceglierei tutta la vita la seconda».

di Cecilia Bardoni


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AUTO STORICHE: AGGIORNATI I CALENDARI DELLE SERIE 2020 Molti dubbi e incertezze tra gli equipaggi locali. Dopo lo stop forzato a causa all’emergenza da Covid-19 e la messa a punto del Protocollo Generale per permettere la ripartenza delle attività sportive, la Giunta Sportiva dell’Automobile Club d’Italia ha quindi approvato le nuove date delle serie titolate auto storiche 2020 proposte dalla stessa Commissione. Nello specifico per il Campionato Italiano Rally Auto Storiche, Campionato Italiano Rally Terra Storico e le quattro zone che compongono il Trofeo di Zona Rally Auto Storiche. Nel dettaglio per quanto riguarda il Campionato Italiano Rally Autostoriche 2020 tre gli appuntamenti confermati. A partire dal 10° Historic Vallate Aretine, gara organizzata dalla Scuderia Etruria Sport che si correrà dal 24 al 26 luglio ad Arezzo. Il secondo round si disputerà nel weekend del 17 al 19 settembre, la gara dell’AC Livorno, il 32°Elba Storico, evento confermato proprio in queste ore anche per il Campionato Europeo. Il CIRAS chiuderà le sfide a metà ottobre con il 3° Costa Smeralda Storico, evento organizzato dall’AC Sassari. Cinque le gare che compongono il Campionato Italiano Rally Terra Storico 2020, in cui sono impegnati gli oltrepadani Domenico Mombelli e Marco Leoncini i quali hanno brillato nel Trofeo Terra Rally Storici 2019 imponendosi nel Secondo Raggruppamento Classe fino a 2000cc con la Ford Escort MKI by Paviarally curata da Marco Vecchi nella struttura CVM di Siziano. Il Campionato Terra si è avviato a febbraio con il Rally della Val D’Orcia in cui l’equipaggio pavese, con la Ford, ha ottenuto uno straordinario secondo posto assoluto alle spalle della Stratos di SipszBregoli.

L’Equipaggio Mombelli - Leoncini

Il CIRTS riprenderà le sfide su fondo sterrato con il 3° Rally Storico Arezzo Crete Senesi e Valtiberina in scena ad inizio agosto. Proseguirà con il 5° Historic San Marino organizzato alla fine di agosto e correrà il 2° Rally Storico del Medio Adriatico fine settembre. Il gran finale è programmato per il mese di novembre nel Tuscan Rewind Historic. Rimodulato anche il calendario che riguarda le varie zone del Trofeo Rally di Zona 2020. Quattro i round validi per la 1^ Zona: Città di Torino , Sanremo Storico , 2° Giro Monti Savonesi e la Grande Corsa. Tre per la 2^ Zona (Lessinia Rally Storico gara disputata a febbraio, in cui gli oltrepadani Daniele Ruggeri e Marty Marzi sono stati traditi dalla Loro Fiat 127 Sport

L’Equipaggio Ruggeri - Marzi (foto Lavagnini)

con la quale, non molto tempo fa ha permesso loro di aggiudicarsi il titolo tricolore fino a 1150 cc. Il trofeo riprenderà con il Rally Storico Bassano e Due Valli Storico. Per la 3^ Zona c’è la Coppa Ville Lucchesi, Coppa Città di Pistoia e Trofeo Maremma Storico. La 4^ Zona vede il rally Tirreno Historic, Targa Florio Historic e Historic Rally Valle Sosio. Mentre per la Finale del Trofeo Rally di Zona è stata designata La Grande Corsa, in programma il 27 e il 28 novembre. Ma questo, scombussolamento generale causato dalla pandemia, come si è ripercosso sui piloti locali? Per saperlo abbiamo contattato alcuni di loro: il varzese Marco Leoncini, navigatore del driver di Zavattarello Domenico

Mombelli sulla Ford Escort MKI, dice: «Ora riapriamo i battenti. Forse il 18 luglio riusciamo a testare la vettura in vista della ripresa del campionato che per noi riprenderà dal Rally dell’Adriatico per proseguire con il Tuscan. Nel mezzo vorremmo riprovarci al San Martino di Castrozza, c’e rimasto dentro anche se impegnativo e faticoso». Martina Marzi, navigatrice di Daniele Ruggeri sulla Fiat 127 Sport, dice: «Dopo questi mesi di forzato riposo, speriamo finalmente di riprendere. I nostri programmi avranno inizio quasi certamente con il Rally di Salsomaggiore in programma i prossimi 1 e 2 agosto. Dobbiamo rifarci dalla delusione patita ad inizio stagione quando abbiamo disputato il Lessinia a febbraio 2020, prima della chiusura totale dove, purtroppo, abbiamo percorso appena 2 chilometri prima di essere costretti al ritiro per la rottura semiasse». L’equipaggio di Ruino, attenderà quindi lo sviluppo del rally Emiliano che si svolgerà tra protocolli, sanificazioni e distanze sociali prima di stabilire il programma. Claudio Biglieri, vogherese, copilota di lungo corso e bravura, non nasconde qualche incertezza sulla ripresa; dice: «Purtroppo il momento non è dei migliori per molti aspetti e potrebbe influire negativamente sui miei programmi agonistici. Dovrei iniziare ad Arezzo con il Valle Aretine, nuovamente al fianco di Ermanno Sordi sulla Porsche, poi valuterò. Sordi, dal canto suo, è intenzionato a disputare tutte le rimanenti gare dell’italiano, per me invece, rimangono alcune incognite». Il conosciutissimo vogherese Andrea “Tigo” Salviotti, come molti altri piloti, ha dovuto rivedere i propri program-


MOTORI mi, dice: «Non conosco a fondo ciò che prevede il Protocollo generale per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19, ma da quel poco che so, è alquanto penalizzante per il mondo dei rally. Valuterò dopo averlo approfondito attentamente. Vanifcato il programma stilato ad inizio stagione, penso che mi toglierò un po’ di ruggine al Rally di Salsomaggiore Terme ad agosto. Poi, sarei intenzionato a partecipare al Rally Legend e ad un’altra a gara a fine stagione. Per me, il 2020, dovrebbe essere tutto qui». Marco Verri che fa da navigatore al padre Giorgio sulla Fiat Uno 70S, ha detto: «Di sicuro disputeremo il rally di Salsomaggiore ai primi di agosto, quindi il Giro dei Monti Savonesi a fine ottobre. Molto probabilmente saremo al via anche della Grande Corsa a novembre». Oltre ai già citati, tra i pavesi che hanno scelto il prossimo Rally di Salsomaggiore per la ripresa agonistica, ci sono anche: Andrea Botti che porterà al debutto la Mitsubishi Galant Turbo, Carlo Verri con la Fiat 125S, Rodolfo Carrera con la Fiat 124 Abarth, Germano Minotti e Fabiana Zago con la Opel Manta GT/E, Natalino Perelli e Giuseppe Roveda con la Fulvia Coupè 1600 HF e Domenico e Barbara Gregorelli con la Opel Manta C. Invece, Beniamino Lo Presti, ormai vogherese d‘adozione sportiva (gareggia infatti con la Porsche OVA Corse per i colori della Scuderia Piloti Oltrepò), reduce da un intervento ad un’ernia discale dice: «Va decisamente meglio. Non potendo però partecipare al Rally Vallate Aretine e Salsomaggiore causa convalescenza di 4 mesi, disputerò il Rally dell’Elba in settembre e il Costa Smeralda in ottobre quali prove del CIRAS». Matteo Musti, ex campione italiano rally storici con la Porsche, pensa di ricominciare a settembre: «La macchina è pronta. Avrei voluto partecipare al Valle Aretine a metà luglio per poi continuare il Ciras, ma le circostanze immediate non me lo permettono. Il blocco totale ha influito negativamente sul lavoro creando pesanti ritardi. Ora il mio impegno è tutto concentrato su quello». Serafico Alessando Ghezzi pilota Porsche che dichiara: «Corro per divertirmi, pertanto attendo che ci sia un po’ più fresco». Il vogherese Fabiano Avoga-

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L’Equipaggio Verri - Verri (foto Lavagnini)

dri afferma: «Programmi imminenti non ne ho perché con questa pandemia si è bloccato tutto con gli sponsor, devo sentire il mio noleggiatore per capire come si corre e magari riuscire a gareggiare il San Remo legenda». Stefano Maroni, pilota e presidente del Rally Club Oltrepò, ha molte perplessità sul riavvio dell’attività. Dice: «Al momento stiamo lavorando per proporre ai nostri affiliati una seduta di test. Vorremmo poterla effettuare con serenità e rispetto delle regole, anche se un po’ troppo penalizzanti. Vedremo come fare». Fabio Dealberti, navigatore di Guarnone sulla Fulvia Coupè dice: «Al momento niente di certo. Stiamo vedendo come si evolverà la situazione, magari settembre/ ottobre disputeremo qualche regolarità sport». Insomma, regna molta incertezza e altrettanti dubbi tra i piloti pavesi, A giocare contro ci sono le restrizioni previste dai protocolli per il contrasto ed il conteni-

L’Equipaggio Maroni - Partelli (foto Lavagnini)

mento della diffusione del virus Covid-19 che molti reputano eccessive per non dire assurde per il settore automobilistico che già tra tute, sottocaschi e caschi, sono di per sé molto protetti senza inventare nuove dispendiose e inutili disposizioni.

Cose che ad esempio, non si chiedono al calcio in cui contatti, abbracci, esultanze etc. etc. etc. regnano sovrane in barba a tutti i protocolli. di Piero Ventura



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PERCHè NON ABBIAMO GIOCATO A CALCIO? Nello Sport, il protocollo generale per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid - 19 ha contenuti che, a quanto pare, non valgono per tutti. Premetto, non ho nulla contro il calcio, anzi, amo il bel gioco, anche se sempre più raro da vedere, ma cito lo sport più popolare in Italia per sottolineare per l’ennesima volta la cattiva abitudine tutta italica di usare due pesi e due misure. Mentre nel calcio, gli atleti in mutande e magliette strasudate si spingono, si cinturano, si abbracciano, ed esultano addirittura con i dirigenti, sotto gli occhi di tutti, telecamere comprese, e nessuno si scandalizza, tanto meno provvede a far rispettare le normative più elementari per il contrasto e contenimento del Coronavirus. Per i rally e i rallysti invece, poter praticare il motorsport diviene molto più arduo. Costoro devono svincolarsi tra protocolli a volte assurdi che sembrano redatti dal circolo della bocciofila piuttosto che dalla collaborazione tra Federazione medico-sportiva, Federazione automobilistica e genialoidi vari. Per questi, i protagonisti del motosport parrebbero gli untori di questa pandemia (che fortunatamente, al momento sembra allentare la presa). Per farla breve, in questo sport, i Team devono assicurare la sanificazione giornaliera delle proprie vetture da gara e degli spazi di assistenza tecnica (piazzali, parcheggi, gazebo, etc.etc. etc.). Altro aspetto fondamentale e da non trascurare per l’emergenza medica Covid -19 riguarda l’abbigliamento degli atleti. I piloti, come sempre, devono indossare tute ignifughe protettive, guanti ignifughi, sotto tuta ignifugo e sotto casco ignifugo che indossato correttamente funziona come ottima mascherina e permette di utilizzare i caschi classici da rally usati da sempre da piloti e navigatori. Ciò nonostante, qualcuno ha pensato bene di rendere d’obbligo anche per i rallisti il casco integrale (forse per spaventare il virus? O per far comodo a qualcuno?). Probabilmente occorre spiegare ad alcuni di questi genialoidi che il casco integrale rimane comunque un casco con un’apertura e non è uno scafandro da palombaro. Oltretutto per tanti, il casco integrale è molto fastidioso all’interno di un abitacolo in cui la temperatura può raggiungere e superare i 50° C nei rally estivi. Dopo queste non piacevoli novità, veniamo alle note “positive” di questi protocolli in cui dicono che “fortunatamente” il partecipante, dotato di protezione individuale, come da norme sanitarie vigenti, adeguata per l’intera manifestazione, udite udite, riceverà un “importante” dépliant con le principali raccomandazioni per il contenimento del rischio da Coronavirus (“il Kit

Protezioni prima dei protocolli Covid 19

Dal “Kit Covid” al “Covid Manager” Tutti i protocolli introdotti nei rally

Sottocasco previsto dai protocolli Covid

Casco previsto dai protocolli Covid

Covid”) e, dopo controllo temperatura e “accessori” vari, sarà ammesso all’Area Protetta interdetta al pubblico. Nell’Area Protetta (e non solo) i partecipanti dovranno sempre indossare una mascherina prevista dalle vigenti normative sanitarie, mantenere la distanza interpersonale di 1 metro (anche con il proprio coequipier con il quale sei stato gomito a gomito per ore) in oltre dovranno frequentemente lavarsi le mani con acqua e sapone o disinfettarsele, evitare di portare le mani alla bocca, al naso ed agli occhi. Detto di questa “bella” novità, torniamo alle vetture e ai concorrenti. Questi ultimi, (a differenza del calcio, in cui ci si abbraccia, si salta, si festeggia “protetti” dal virus da magliette e pantaloncini sudate), giunti sul palco d’arrivo, se ne avranno diritto, scenderanno dalla vettura e andranno a prendersi il premio d’onore posto su

di un apposito pulpito. Niente Spumante, niente allori, niente interviste sul palco anche perché non ci sarà pubblico. Per le vetture invece, al termine della gara, devono essere portate in parco chiuso. La movimentazione dei piloti deve essere effettuata su disposizione dei commissari e allo stesso modo deve essere effettuato il ritiro delle vetture. Il tutto deve essere organizzato affinché ogni partecipante, dopo aver parcheggiato la propria vettura seguendo le indicazioni degli Ufficiali di Gara addetti, possa lasciare velocemente l’area mantenendo le necessarie distanze interpersonali. I piloti, quando toglieranno il casco, dovranno indossare immediatamente la mascherina. Ma ecco che non poteva certo mancare la famosa ciliegina sulla torta. Come piacevole abitudine delle italiche autorità, guai dimenticarsi di sanzionare qualcuno.

Su disposizione federale, l’Organizzatore individuerà una persona che ricoprirà il ruolo di “Covid Manager”. Il Covid Manager, provvederà durante l’evento a vigilare sulla corretta applicazione delle suddette regole e sul rispetto delle misure di sicurezza previste dal protocollo generale per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 anche avvalendosi di specifiche figure definite negli specifici protocolli. Eventuali infrazioni evidenziate dal Covid Manager saranno segnalate ai Commissari Sportivi per l’irrogazione di una sanzione fino all’esclusione dall’evento. Per dire il vero, i Covid Manager li vedremo meglio in altri contesti... ma fermiamoci qui, diciamo solamente che tutto questo ha indotto molti piloti, tra cui parecchi dei nostri gentleman driver, a temporeggiare sul rientro alle competizioni, attendendo magari tempi migliori in cui alla priorità sanitaria si aggiungerà magari anche un può di buon senso. Mi chiedo: “Perché non abbiamo giocato a calcio?”. di Piero Ventura





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