Il Periodico Oltrepò - DICEMBRE 2020 N°160

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Oltrepò del vino... Buon Natale e Felice Anno Nuovo con l’insensatezza di sempre

Anno 14 - N° 160 DICEMBRE 2020

di Cyrano De Bergerac

Pagine 16 e 17 del voto ed è scontro VOGHERA: Il PD fa l’analisi

Pagine 10 e 11

RIVANAZZANO TERME: INTERVISTA a romano ferrari

«Ricandidarmi a Primo cittadino? Sarebbe un onore. Ci può stare»

«Mai arrivati così in basso»

“A dar le carte” in Oltrepò ora è Elena Lucchini Molto spesso nello sport, nella vita come in politica, ciò che più conta è vincere e per farlo servono sicuramente molta forza e molta determinazione. Una vittoria politica è una grande soddisfazione che comporta anche il dovere di mantenere quanto si è promesso durante la campagna elettorale. Elena Lucchini è abituata alla vittoria, è stata eletta deputato della Repubblica italiana per la Lega Nord nel 2018 e in questi mesi ha partecipato con “anima e core”, mettendosui in gioco direttamente alle elezioni comunali di Voghera. Ed ha nuovamente vinto. L’Oltrepò Pavese è “orfano” da alcuni anni di un un politico di “peso” che nella “stanza dei bottoni”, a livello nazionale e regionale possa rappresentarlo al meglio. Elena Lucchini ha certamente molta forza e molta determinazione, molti in Oltrepò confidano che, al di là di ogni simpatia o partigianeria politica, possa essere la voce oltrepadana ...

BRONI BRONI

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Bonifica Amianto, 300mila di contributi per le coperture dei privati «Possono partecipare privati cittadini (persone fisiche, anche associate nei Condomini) proprietari di edifici in cui sono presenti manufatti in cementoamianto denunciate all’ATS prima della data di presentazione del bando. Non possono invece partecipare le imprese, anche individuali, ubicate su tutto il territorio comunale...

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CASTEGGIO: il STRADELLA: il sindaco sindaco ALESSANDRO LORENZO VIGOCANTù

«Commercio: c’è dialogo da quando sono stati eletti i rappresentanti delle varie sezioni»

Pagine Pagina 20 e 33 21

POLITICA salice Pagine godiasco terme 6e7

Terme di Salice: quando una clausola “ridicola” blocca un imprenditore

La profonda crisi che ha colpito le Terme di Salice, conclusasi con il fallimento - tre anni orsono - ha visto le prime tre aste andare deserte. Si è partiti da poco più di 5 milioni di euro della prima asta per arrivare, alla quarta asta, ad un prezzo minimo che si aggira sul milione e mezzo di euro. E finalmente c’è un’offerta: quella di Roberto Santinoli.

CANNETO PAVESE: la FABIANO presidente GIORGI

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«La Cantina ha ricevuto 30mila quintali di uve, il nostro obbiettivo è arrivare a circa 60mila»

commercianti, bottegai, ristoratori e baristi: c’è un Oltrepò che non si arrende di Antonio La Trippa

Editore



ANTONIO LA TRIPPA

DICEMBRE 2020

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commercianti, bottegai, ristoratori e baristi: c’è un Oltrepò che non si arrende Non so se utilizzare il francesismo “quest’anno è stato un anno di merda” sia troppo volgare, sgarbato o politicamente scorretto, ma certamente descrive alla perfezione questo 2020 per quanto ha subito dal punto di vista sociale ed economico l’Oltrepò Pavese. In tutto l’Oltrepò, salvo alcune attività legate alla pubblica amministrazione o alla pandemia in atto, l’economia è stata duramente colpita in modo trasversale. Tra i più colpiti, purtroppo, ci sono i locali pubblici: bar, ristoranti e negozi di vario genere, che però tra “cervellotiche” e contrastanti misure governative tra il “Aprite”, il “Non aprite”, il “Aprite ma..”, hanno comunque disperatamente cercato di resistere. Questo nella stragrande maggioranza dei casi: piccoli imprenditori, bottegai, ristoratori, baristi... si sono reinventati, dimostrando che c’è un Oltrepò che comunque resiste. Questa categoria non ha, a parte qualche rara eccezione, grandi conoscenze a livello di marketing, ma ha dimostrato con perseverante testardaggine, buon senso e spirito di iniziativa di saper fare qualcosa per salvaguardare la propria attività e quella dei loro colleghi. La cosa che più mi ha colpito in positivo sono le varie iniziative messe in campo in questo mese, piccole o grandi esse siano, sia a livello di associazione di categoria che a livello individuale per lanciare un messaggio semplice ma di forte impatto: “Noi ci siamo, venite da noi a comperare”. Ho visto video ed interviste a questi commercianti e nella maggior parte dei casi è emerso questo messaggio di speranza, anche se non mi è sfuggito nella loro mimica facciale e nei loro occhi una forte preoccupazione ed un velo di tristezza, ma nonostante questo, pressochè tutti, hanno proferito parole di speranza, di incoraggiamento e di forzato – visto il momento – ottimismo. Sono stati realizzati video promozionali, sono state portate avanti iniziative commerciali tutte effettuate con l’unico scopo di dire: “Noi ci siamo e non molliamo”. A loro il mio plauso e l’augurio di un grande successo. L’aspetto negativo che invece non è tardato ad arrivare, sono state le critiche – poche per fortuna – dei 4 soliti noti che invece di elogiare lo sforzo di questi uomini e donne hanno espresso perplessità sul perché, il per come ed il modo con cui sono state fatte le varie iniziative commerciali. Questi fenomeni dello pseudo marketing locale con in tasca una soluzione per tutto, hanno detto la loro sulle grafiche, sui loghi, sulle musiche, etc. etc. etc. Sono veramente allibito che nonostante il grave periodo di difficoltà c’è sempre il saputello di turno, il più delle volte un teori-

co saputello, che critica un lavoro fatto con grandi sforzi da altri ben consapevoli che il lavoro che stavano facendo non era né nelle loro competenze né nelle loro corde. Nessuno si è presentato come il Federico Fellini della situazione, nessuno si è paragonato ad un Armando Testa, tanto per citare qualche nome illustre del settore, anzi, tutti consapevoli e anche con un po’ di ironia, senza che i saputelli locali lo facessero notare, di non essere del mestiere. Pprobabilmente già sapevano che i soliti saputelli locali li avrebbero criticati, ma nonostante questo si sono “buttati” incuranti delle critiche e hanno fatto quello che a mio giudizio dovevano fare: tentare il tutto per salvare la loro attività. Vanno elogiati anche quei Comuni – molti nonostante i budget ristretti – che han-

no voluto accendere le luminarie nei loro paesi e sono davvero pochi per fortuna in Oltrepò quei sindaci che hanno preso una decisione diversa, quella di tenere al buio e non solo letteralmente parlando, i loro Comuni ed i loro concittadini. Certo le luminarie potrebbero essere considerate una spesa superflua, in realtà non lo sono perché non so esattamente in che percentuale ma le luci che addobbano un paese, almeno per un attimo allietano o perlomeno sollevano il morale della gente che ci abita o di chi passa per quel paese, diverso è se non ci passa nessuno ma questa è un’altra storia, o forse è la dimostrazione che: no luci, no gente in giro, per sintetizzare. Certo che con fredda razionalità si potrebbe dire che quei pochi soldi spesi per le

luminarie potevano essere destinati a cose più importanti... già la fredda razionalità... La realtà è che per andare avanti serve sia la fredda razionalità ma anche l’audacia di dare piccoli segnali alle persone, far capire che nonostante l’anno di merda che ha colpito l’Oltrepò, è comunque Natale, e addobbare il proprio paese, bene, male poco o tanto, è un atto che andava fatto, un atto di coraggio per dire che quel paese non è morto, ha resistito alla pandemia sanitaria, sociale ed economica ed è un paese che non si è arreso e che guarda al 2021 sperandolo migliore. Altro aspetto che stona in questo “eroismo” fatto da singoli, riguarda le varie Associazioni di Promozione dei prodotti tipici o pseudo tipici dell’Oltrepò che praticamente e concretamente non hanno fatto nulla per aiutare i loro primi clienti: i commercianti. Mi aspettavo da parte di queste Associazioni un segnale, mi aspettavo che realizzassero campagne promozionali in Oltrepò per far acquistare prodotti dell’Oltrepò in Oltrepò. Invece il nulla. Questo dovrebbe far riflettere sulla capacità commerciali e promozionali di queste Associazioni che forse sono solamente capaci di stampare qualche volantino più o meno ben fatto con soldi pubblici regionali, nazionali o europei, o di “inventarsi” eventi o fiere in luoghi spesso fantasiosi e mprobabili tanto per fare una gita fuori porta e a spese dell’Associazione. Veramente disdicevole! Ma torniamo ai “buoni”, un grande plauso ed un bravo a tutti quei baristi, ristoratori, bottegai e commercianti che nonostante le critiche, le difficoltà ed il momento di merda hanno fatto qualcosa in Oltrepò per loro e per l’Oltrepò stesso. Altro plauso a quei sindaci ed assessori oltrepadani che in un modo o nell’altro hanno acceso le luminarie del loro paese o hanno realizzato o aiutato a realizzare iniziative volte alla promozione delle attività presenti nel loro paesi. Finalmente un Oltrepò che non cede! A chi si è chiesto se tutte queste iniziative sono state fatte bene o male, io dico che non è una domanda da porsi, la vera domanda è: Era il momento di farle? La mia risposta è assolutamente sì, è il momento di farle per dimostrare che si è ancora vivi, per dimostrare coraggio ed audacia ma soprattutto per dire che c’è un Oltrepò che non molla, fatto da persone comuni, dal nostro vicino di casa che tutte le mattine pur in difficoltà economica si alza e tira su la saracinesca. I saputelli diranno: “Sì ma... Sì però...” Patetici tuttologi e molto spesso solo leoni da tastiera. di Antonio La Trippa


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LETTERE AL DIRETTORE

DICEMBRE 2020

Parcheggio Ospedale, non si poteva rendere gratuito?

Stradella, un plauso agli operatori sanitari Gentile Direttore, in tempo di polemiche e di malcontento generale, dove lo slogan il “non funziona niente” dilaga, vorrei con 3 semplici parole levare un plauso agli operatori che presso la tensostruttura apposta nel parcheggio dell’Ospedale di Stradella, hanno eseguito, eseguono e eseguiranno tamponi ai vari utenti: professionali, disponibili e con il sorriso. Troppo facile essere “incazzati” - alla fine per un motivo o per l’altro lo siamo tutti in questa situazione - ma loro no, fanno la battuta al bambino impaurito e spiegano con pazienza infinita all’anziano o allo straniero che ha difficoltà nella procedura.

Loro sono in prima linea, ma dietro c’è comunque un sistema che in base alla mia esperienza ha funzionato, in modo semplice e veloce. Richiedi il tampone via mail ed entro 24 ore ti rispondono, ti fissano l’appuntamento, arrivi ed io personalmente che ho ripetuto il tampone 3 volte, non ho mai atteso più di 10/15 minuti il mio turno. Il risultato del tampone dopo 12 ore caricato sul portale e facilmente consultabile. Credo che questo sia un esempio di buon funzionamento della macchina sanitaria. Bravi tutti. Rosanna Giusti - Stradella

Salice Terme: quando il postino si crede un rallysta Gentili concittadini, è capitato solo a me oppure anche da voi la posta arriva non con una panda bianca ma con una panda in assetto da rally? Velocità sostenuta, sgommate, partenze “incazzate” sportelli aperti in mezzo alla strada e poi con la neve degli ultimi giorni non ci siamo fatti mancare neanche l’uso del freno a mano… Questo è il postino che serve la mia zona, a cui i diversi residenti, me compreso, hanno detto gentilmente di andare piano, che ci sono bambini che potrebbero attraversare la strada, ma a quanto pare il nostro postino non vuole consegnare la posta, da grande voleva fare il rallysta.

Quello che mi lascia più basita è come in certi settori pubblici e Poste Italiane ne è un esempio, del resto anche le impiegate sul cartellino identificativo non hanno nome e cognome ma un numero – dove per esporre un problema devi chiedere al responsabile, che deve chiedere al direttore di filiale che a sua volta deve chiedere al capo area e poi forse a qualcuno tale segnalazione arriverà. Poi non cadiamo dal pero se qualche cittadino – un giorno – spiegherà di persona al promettente rallysta che ha sbagliato lavoro! Lettera Firmata - Salice Terme

Gentile Direttrice, apprendo con gioia che i parcheggi a Voghera saranno gratuiti nel periodo natalizio per incentivare il commercio locale. Una buona notizia a mio giudizio. Trasferendo il concetto al parcheggio dell’Ospedale di Voghera mi chiedo perché non si sia pensato alla medesima soluzione. Il parcheggio situato di fronte all’ingresso del nosocomio è sempre stato a pagamento, o meglio è sempre stato e lo è ancora “presidiato” da extracomunitari che in cambio di qualche monetina ti consegnavano – al ribasso – il tagliandino. Mai visto un controllo in tanti anni di frequentazione ahimè, di quel parcheggio. Ultimamente invece, e

proprio in questo periodo in cui gli utenti prendono d’assalto l’ospedale anche per pochi minuti, per poter eseguire il tampone, trovare un parcheggio è un mezzo miracolo ed ecco che altro miracolo, spariscono ( si fa per dire… giusto quei 5/10 minuti…) i parcheggiatori abusivi ed arrivano “i vigilantes” e fioccano le multe. Giusto per carità… Non è questo il punto, che mi sembra un’ovvietà, ma credo che in questi tempi sarebbe stato una buona mossa per fare bella figura rendere libero il parcheggio. “Vai a fare il tampone, capiamo il disagio, il parcheggio è free”. Paolo Scovenna - Voghera

Il ritorno del lupo sull’Appennino Una precisazione Egregio direttore, le scrivo perché sono capitato per caso su una lettera a Lei inviata lo scorso Agosto che compare ancora sulla vostra prima pagina internet inerente l’Enduro in Valle Staffora. In questa viene detto cito testuali parole:“lupi che erano stati reintrodotti sull’Appennino”... Affermazione che come vicepresidente WWF Lodigiano Pavese e membro consulta faunistico venatoria UTR Pavia Lodi voglio chiarire: si tratta di un’affermazione del tutto errata in quanto il lupo negli ultimi anni è aumentato semplicemente grazie al programma di tutela, in sostanza ne è stata vietata la caccia e questo ha permesso il suo ritorno su tutto l’Appennino. Ricordo che il lupo è un regolatore ambientale fondamentale per mantenere un’elevata biodiversità, preda eventuali animali malati tenendo sotto controllo le popolazioni di ungulati in maniera naturale. Come tutti gli animali selvatici fugge dall’uomo e non si

sono mai dimostrati reali attacchi, semmai è lui a dover avere paura visto che ogni anno più di 300 lupi vengono uccisi dai bracconieri sul territorio nazionale. Colgo l’occasione per spiegare che spesso può essere attratto, vicino ad abitazioni o allevamenti, da immondizia o carcasse di animali smaltite in maniera non corretta. Concludo dicendo che soprattutto in questo periodo dove la natura è fortemente in crisi a causa del cambiamento climatico e dell’impatto dell’uomo in termini d’inquinamento, cementificazione, bracconaggio... etc. etc. etc. dovremmo ripensare il nostro rapporto con Lei, possiamo anche non farlo ma prima o poi dobbiamo mettere in conto di ricevere un conto saltato e il Covid - 19 dovrebbe insegnare. Ferlin Riccardo Vicepresidente WWF Lodigiano Pavese Membro consulta faunistico venatoria UTR Pavia Lodi.

LETTERE AL DIRETTORE

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CYRANO DE BERGERAC

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Oltrepò del vino... Buon Natale e Felice Anno Nuovo con l’insensatezza di sempre Mentre si chiude il 2020, anno peggiore del trentennio per il vino italiano, l’Oltrepò Pavese non ha ancora trovato la quadra attorno a nessuna strategia di rilancio e continua ad assistere, passivamente, alle difficoltà delle sue aziende vitivinicole di filiera, a un livellamento dei prezzi al basso che più basso non si può e agli sterili sermoni (con foto) sulla stampa locale. I dati nazionali parlano di spedizioni estere ai minimi termini, di una crisi devastante per il settore Horeca (hotel, ristoranti, wine bar e catering) solo a fronte di una tenuta di grande distribuzione e di una crescita dell’e-commerce, discorsi che valgono solo per chi su questi canali è posizionato e può scendere a patti con buyers che comprano riconoscendo marginalità davvero risicate (da fame) ai produttori. Chi non riesce a stare dentro al cerchio magico o non fa l’imbottigliatore, cioè non deve affrontare nessun costo agricolo, è davvero in ginocchio. Dopo le esternazioni di un mese fa sui social del direttore del Consorzio Oltrepò, Carlo Veronese, che aveva spiegato che i vini locali quasi veleggiavano alla grande per effetto del posizionamento in grande distribuzione, a livello nazionale arrivano dati che dicono l’esatto contrario. I “ristori” promessi dal governo ancora non arrivano e i danni al mercato del vino di Natale superano già i

150 milioni di euro al consumo. Nel periodo dell’anno in cui tradizionalmente i produttori di spumanti realizzano un terzo del fatturato annuale (novembredicembre) in Oltrepò Pavese le imprese registrano mediamente cali di vendite del 30%, una vera e propria debacle per imprese perlopiù a conduzione familiare che a fronte d’investimenti ingenti su qualità, affinamenti e marchio si trovano a piangere lacrime amare. Ci si aspettavano segnali e un sussulto ma al Centro Riccagioia, sede operativa del Consorzio, a parte i soliti giochi politici si assiste solo al tradizionale silenzio assordante. In compenso in Oltrepò continuano a spuntare, come funghi, associazioni e siti Internet che promettono promozione e rilancio. L’ultimo nato, solo in ordine di tempo, è quello dell’associazione “Terra del Pinot Nero” (www.gianesing.com) che nasce con l’intento di raccogliere, conservare e valorizzare le testimonianze e i vari aspetti delle tradizioni vitivinicole legate al Pinot nero e diventare un punto di riferimento come centro di documentazione e produzione culturale. L’associazione, l’ennesima, persegue le seguenti finalità: promuovere il territorio, valorizzare la produzione del Pinot Nero e il patrimonio culturale e ambientale; far emergere e diffondere la conoscenza delle peculiarità paesaggistiche, artistiche

e produttive locali, incentivando il turismo culturale; sensibilizzare ed educare alla cura e al rispetto dei beni d’interesse artistico, storico, naturalistico e ambientale, rafforzando il senso di appartenenza e di consapevolezza della popolazione; migliorare la fruizione del patrimonio di cultura locale, promuovendo momenti di aggregazione sociale finalizzati a far conoscere e apprezzare le ricchezze del territorio; creare legami, collaborazioni e sinergie con enti pubblici e privati, di diversa natura e a vari livelli, al fine di far dialogare e valorizzare i molteplici attori della scena culturale locale; coinvolgere le attività produttive, economiche e imprenditoriali, mettendone in luce il ruolo fondamentale nella promozione e nella tutela del Pinot Nero, risorsa importante per lo sviluppo locale; favorire il benessere delle comunità locali attraverso la valorizzazione condivisa e partecipata dell’identità culturale, vissuta come elemento fondante di ogni attività sociale ed economica. Agli operatori del settori e a molti commentatori la nuova associazione e i suoi scopi appaiono davvero come doppioni. Doppioni rispetto alla missione del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese dormiente. Doppioni rispetto al Centro Riccagioia di Ersaf-Regione Lombardia incompiuto. Doppioni rispetto all’Enote-

ca Regionale della Lombardia a Cassino Po di Broni, sotto utilizzata e che invece doveva proprio servire per eventi e valorizzazione anche delle peculiarità locali. I maligni dicono che dietro l’associazione “Terra del Pinot nero” vi sia un pezzo grosso di Montecalvo Versiggia: Giancarlo Vitali, esponente politico di primo piano, già presidente della Fondazione Comunitaria della Provincia di Pavia, ex presidente della Cantina La Versa pre fallimento. Quello che in molti non si spiegano è il perché invece dei mille rivoli, nell’anno del lockdown e delle mille fragilità ancor più fragili, non si opti per un grande fiume, ovvero in investimenti concentrati su un unico polo per poter essere competitivi e misurare risultati oltre a loghi e convegni vari… l’Oltrepò Pavese è purtroppo ancora il regno dei boss della vallata. Nessuno parli di visibilità nazionale o di mercati internazionali da affrontare insieme, perché quello che conta è ancora un bel quarto d’ora di celebrità entro i confini provinciali. A quando un altro bel sito? Buon Natale e felice anno nuovo con sotto l’albero l’insensatezza di sempre.

di Cyrano de Bergerac


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POLITICA

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“A dar le carte” in Oltrepò ora è Elena Lucchini, sia a livello politico-istituzionale che nell’ambito del suo partito Molto spesso nello sport, nella vita come in politica, ciò che più conta è vincere e per farlo servono sicuramente molta forza e molta determinazione. Una vittoria politica è una grande soddisfazione che comporta anche il dovere di mantenere quanto si è promesso durante la campagna elettorale. Elena Lucchini è abituata alla vittoria, è stata eletta deputato della Repubblica italiana per la Lega Nord nel 2018 e in questi mesi ha partecipato con “anima e core”, mettendosui in gioco direttamente alle elezioni comunali di Voghera. Ed ha nuovamente vinto. L’Oltrepò Pavese è “orfano” da alcuni anni di un un politico di “peso” che nella “stanza dei bottoni”, a livello nazionale e regionale possa rappresentarlo al meglio. Elena Lucchini ha certamente molta forza e molta determinazione, molti in Oltrepò confidano che, al di là di ogni simpatia o partigianeria politica, possa essere la voce oltrepadana nella “stanza dei bottoni”. Dopo l’ultima vittoria vogherese, la sua già consolidata posizione politica, si è ulteriormente rafforzata anche a livello lombardo-territoriale e sembra proprio che “a dar le carte” in Oltrepò ora sia lei, sia a livello politicoistituzionale che nell’ambito del suo partito. Onorevole Lucchini lei è stata la più votata alle ultime elezioni amministrative di Voghera. Senza falsa modestia, quanto è valsa la sua candidatura per il successo finale? «I Vogheresi hanno premiato il lavoro svolto con coerenza dalla Lega negli ultimi 5 anni di opposizione all’ex Sindaco Carlo Barbieri, un’opposizione seria ed efficace visti anche alcuni risultati che siamo riusciti ad ottenere, seppur dai banchi della minoranza, uno su tutti la bonifica dell’area Recology che ho seguito in prima persona grazie ai buoni rapporti con la giunta regionale. Abbiamo avuto una presenza costante sempre tra la gente viste le numerosissime iniziative che abbiamo promosso quasi ogni settimana. Il mio è un risultato straordinario di cui vado molto orgogliosa ma sono ancor più orgogliosa del grande risultato della Lega di Voghera che con un gruppo formidabile ha ottenuto oltre 4mila preferenze, quasi il doppio rispetto ai voti delle amministrative del 2015 e che rappresentano un dato pesantissimo». Durante la campagna elettorale, una delle “accuse” che le sono state mosse è che lei, avendo un importante e impegnativo ruolo a Roma, mai avrebbe potuto impegnarsi concretamente per la città di Voghera, c’è chi l’ ha definita una portatrice di voti. Punto. Cosa si sente oggi di rispondere a tali affermazioni?

L’Onorevole Elena Lucchini

«Alle amministrative di Voghera ho investito in un progetto in cui credo moltissimo, la città dopo anni di torpore aveva bisogno di essere rilanciata e io ho sempre pensato che per cambiare le cose bisogna esserci in prima persona, senza paura di contarsi, mettendoci la faccia e le proprie competenze. Ho iniziato subito con entusiasmo a svolgere il ruolo in consiglio comunale dedicando il tempo necessario per svolgerlo nel migliore dei modi». Qual è oggi il suo ruolo nella macchina amministrativa vogherese? «Sono Capogruppo della Lega in Consiglio comunale». Non si può non parlare di ASM, soprattutto ora che sembra essere arrivata la resa dei conti. In campagna elettorale la posizione della Lega sulla questione ASM e sull’attuale management è stata più che chiara. Cosa di preciso a suo giudizio non ha funzionato e cosa è necessario fare? «Asm è la società più importante della nostra città, un gioiello che deve essere amministrata nel migliore dei modi e garantire la linea richiesta dai soci. Mi sembra chiaro che l’attuale management stia dimostrando di non poter garantire una corretta collaborazione con l’Amministrazione comunale viste le continue frizioni e l’udienza che si terrà il prossimo 17 dicembre per garantire una corretta convocazione di una semplice assemblea dei soci che il sindaco Garlaschelli chiede dal suo insediamento. Per una questione di stile e di correttezza mi sarei aspettata un passo indietro da par-

te del Consiglio di Amministrazione come dichiarato, ahimè soltanto a parole, a suo tempo dall’amministratore delegato. Credo che sia arrivato il momento di scegliere per società di questa complessità ed importanza professionisti e manager di alto livello che possano garantire una Governance adeguata per le numerose sfide che l’Azienda dovrà affrontare nei prossimi anni». Giovanni Palli sindaco di Varzi e presidente della Comunità Montana dell’Oltrepò – nonché suo compagno nella vita – ha avuto un ruolo attivo e secondo i più determinante nella campagna elettorale che ha visto il vostro candidato sindaco, Paola Garlaschelli “consacrarsi” a Primo cittadino. Cosa risponde a chi ha espresso il timore che Voghera con la vostra vittoria sarebbe stata di nuovo “in mano” alla Alta Valle Staffora? «Giovanni ha dato una mano in campagna elettorale insieme a molti Sindaci in nome di un progetto di cambiamento e rilancio dell’intero Oltrepò pavese. Solo uniti senza piccoli interessi campanilistici possiamo portare l’Oltrepò nel posto in cui merita». L’assessore alla sicurezza, l’avvocato Adriatici in quota Lega, è partito deciso con alcuni provvedimenti volti a rendere più sicura la città. A suo parere e come segretario cittadino della Lega sono stati interventi utili? E soprattutto cosa consiglia di fare al neo assessore per dare seguito ai primi provvedimenti iniziali? «L’Assessore Adriatici ha subito applicato il programma elettorale della Lega e della coalizione di centrodestra, un programma che vede la sicurezza come uno degli obiettivi principali e una delle richiesta più urgenti avanzate dai cittadini Vogheresi. Sicuramente la sua esperienza nel corpo della polizia di è immediatamente rivelato un valore aggiunto per la città; è chiaro che può utilizzare solo gli strumenti previsti oggi dalla legge che molto spesso hanno un’efficacia limitata ma credo che la sua azione sia un ottimo punto di partenza e sia già stata percepita dai cittadini vogheresi». Lei è Onorevole, per cui rappresenta l’intero Oltrepò a Roma. L’Oltrepò ha avuto in passato figure importanti che lo hanno rappresentato a livello centrale, mancate loro, ne è rimasto orfano. Elena Lucchini si sente idonea, capace e qualificata nell’essere la voce dell’Oltrepò a Roma? In che modo? «Quando ho vinto il collegio uninominale nel 2018 ho subito avvertito una grande responsabilità nel rappresentare un territorio e una provincia molto complessa e articolata. Fin dal primo giorno a Roma ho lavorato senza sosta per risolvere numerose questioni che impattavano non solo

sull’Oltrepò pavese ma sull’intera Provincia di Pavia. Tutti gli amministratori, i tecnici e gli stakeholder con cui ho collaborato sanno che metto tutta me stessa per ottenere il massimo per Il territorio che rappresento e che da lunedì a domenica sono sempre a disposizione per raccogliere istanze e dare risposte». Uno dei grandi problemi dell’Oltrepò sono le strade. La punta di diamante di questo annoso problema è certamente il Ponte della Becca, sul quale la politica ha speso parole e promesse. Ad oggi cosa sta funzionando e cosa invece non va? Tempi e metodi di costruzione del nuovo ponte, cosa c’è di assolutamente certo? «Ci tengo innanzitutto a ricordare che l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha stanziato nel 2019 ben 250 milioni di euro l’anno per le province italiane ai fini della manutenzione delle strade. La provincia di Pavia è stata la quarta in Italia ad aver ricevuto più fondi nella ripartizione: ben 6,3 milioni l’anno per 15 anni, per un totale di 95 milioni di euro. Nello stesso anno io stessa ho fatto stanziare, tramite un mio emendamento alla legge di bilancio, 250 milioni per la manutenzione e la costruzione di nuovi ponti sul bacino del Po, un emendamento che prevedeva la realizzazione di una graduatoria con criteri specifici per stabilire come assegnare queste risorse. Ho discusso personalmente con l’ex Ministro Toninelli e grazie al mio continuo interessamento il Ministero avevo previsto di assegnare 72 milioni, dei 250 totali, alla realizzazione del nuovo ponte della Becca. Dati inconfutabili in quanto riportati nero su bianco all’interno della bozza di graduatoria inviata dal ministero a 5 regioni, ad ANCI e Upi attraverso uno interscambio di mail e pubblicata anche da alcune testate giornalistiche. Mancava un’ultima riunione tra province, regioni e ministero per approvare la graduatoria ed avere finalmente le risorse necessarie per il nuovo ponte della Becca. Come ricorderete bene, nonostante qualcuno abbia cercato di offuscare il fatto e creare confusione tra i cittadini, dopo la caduta del governo Conte 1, il M5S, come suo solito, si è rimangiato la parola pensando forse di fare una ripicca alla sottoscritta e alla Lega e ha lasciato solo poco più di 1 milione dei 72 totali previsti. La differenza quindi tra ieri ed oggi è che ieri e purtroppo solo per un anno, ci sono stati parlamentari al governo che portavano risorse sul territorio, oggi ci sono parlamentari in maggioranza che, oltre a non portare nulla, si fanno togliere ciò che era già deciso e trascorrono il loro tempo a criticare quello che fanno gli altri. Io sono una persona abituata a lavorare e ad


POLITICA accettare le critiche quando queste sono costruttive, non le accetto però da parte di chi non muove un dito e non fa assolutamente nulla per il nostro territorio. Appena tornerò al governo la prima cosa che farò sarà concludere ciò che ho iniziato». Oltrepò è anche e soprattutto vino, una grande risorsa che però non riesce a decollare. Si è creata una tale sintonia che non poteva che tradursi in una proficua collaborazione lavorativa. Cosa consiglia e cosa può fare l’Onorevole Lucchini affinchè la nostra produzione arrivi alla tanto attesa e mai arrivata svolta? «Sto lavorando ad un progetto ambizioso insieme a persone qualificate volto a coinvolgere i comuni, gli enti e gli operatori privati con l’obiettivo di fondere la promozione e il marketing territoriale dei prodotti locali enogastronomici. Abbiamo un potenziale enorme e dobbiamo sfruttare questo momento di coesione territoriale per lavorare tutti insieme e rilanciare anche il settore vitivinicolo creando tavoli dove il pubblico e il privato siano coesi per scopi e finalità. #Oltrepòunito non era uno slogan da campagna elettorale, l’ho utilizzato spesso e avevo ben chiaro come e cosa portare avanti. Approfondiremo l’argomento appena saremo pronti. Il vino e l’Oltrepó dovranno trovare il giusto ruolo che ne rappresenti l’effettivo potenziale». Oltre che essere oltrepadana doc, lei è figlia di storici imprenditori nel settore

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commerciale. Le attività commerciali dell’Oltrepò sono in crisi. Cosa può fare l’Onorevole Lucchini per dare un aiuto concreto a questo settore? «Come amministrazione comunale di Voghera abbiamo aiutato le attività commerciali stanziando 100mila euro con contributi a fondo perduto. A livello nazionale come parlamentari di opposizione siamo stati al fianco dei nostri imprenditori, artigiani, commercianti, presentando centinaia di emendamenti che però nella maggior parte dei casi non sono nemmeno stati presi in considerazione da parte del governo che si è dimostrato sordo e lontano dai problemi reali della gente. Regione Lombardia anche in questi ultimi mesi ha dato dimostrazione di sopperire alle mancanze governative stanziando 250 milioni di euro interessando i codici ateco che erano stati esclusi dal governo. Ristori che sono già arrivati sul conto corrente di moltissime “partite iva” in difficoltà». In Oltrepò stanno arrivando tanti soldi che serviranno a finanziare diversi progetti, molti di questi soldi arrivano dalla Regione, guidata dal governatore leghista Fontana. Che ruolo ha avuto ed ha l’Onorevole Lucchini nel reperimento di queste risorse per l’Oltrepò? «La collaborazione ed un canale di dialogo sempre attivo tra Regione Lombardia e l’Oltrepò Pavese rappresenta la cartina tornasole del lavoro quotidiano in un territorio che, con ritrovata coesione e scacciando i fantasmi di un passato litigioso, riesce a costruire e progettare il proprio

futuro avendo ben in mente le sfide e le molte opportunità che abbiamo in Oltrepò Pavese nel breve, medio e lungo termine. Quello che si sta facendo in Oltrepò Pavese è un grande lavoro corale che mi vede in campo insieme a tantissimi amministratori, cittadini, associazioni ed imprese che, all’unisono, hanno deciso di cambiare passo e dare una svolta all’Oltrepò. Un atteggiamento aperto, proattivo e propositivo che, come mi sento spesso ripetere tante volte dai colleghi assessori regionali e dal Presidente Fontana, trova piacevoli riscontri ed una grande attenzione che ci permette, sempre di più, di essere al centro delle politiche di Regione Lombardia». Tante le donne che fanno politica in Oltrepò. Basti guardare Voghera per rendersi conto delle tanto nominate “quote rosa”. Valore aggiunto? Qual è il suo rapporto con le donne oltrepadane che fanno politica? «Non mi piace parlare di “quote rose” né tantomeno di posti riservati a qualcuno solo per una questione di genere. In politica non si fa bene o male in base al genere, il risultato di ciò che si compie con le proprie azioni sta solo alla singola persona, alle sue capacità e alla sua buona volontà, indipendentemente dal fatto che la persona in questione sia un uomo o una donna. Lo spirito di squadra che ha coinvolto tante donne nell’ultima campagna elettorale di Voghera credo che possa essere replicato altrove come modello vincente per scardinare alcuni preconcetti che ancora oggi esistono in Italia.

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Oggi in comune a Voghera ci sono donne con ruoli apicali, a partire dallo stesso Sindaco, e un gruppo di lavoro formidabile che condivide con passione la voglia di lavorare per rilanciare la città». Tralasciando la politica, ma non del tutto… Lei nella vita privata è la compagna di Giovanni Palli che come lei è in quota alla Lega e come lei ha un ruolo molto attivo nella politica oltrepadana. Quanto ha “aiutato” Elena Lucchini Giovanni Palli e quanto Giovanni Palli Elena Lucchini in ambito politico? «Siamo cresciuti insieme con le stesse passioni: politica e territorio. Questo credo sia il nostro punto di forza che ci permette di lavorare insieme con ruoli differenti creando una rete di collaborazione a più livelli e fondamentale per portare risultati concreti sul nostro territorio. Buttandola sul ridere, non credo esista un’altra persona che possa sopportami visto che dedico tutto il tempo disponibile, da lunedì a domenica, al mio lavoro. Diciamo che è una fortuna poter condividere la stessa passione». Buttiamola sul gossip ma rimanendo sempre in tema di politica locale: su quale aspetto o decisione presa o da prendere proprio non andate d’accordo? «Sulla politica locale siamo allineati al 100%. Gli unici attriti in casa si respirano la sera del derby, inevitabile visto che io sono milanista e lui interista». di Silvia Colombini



POLITICA

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«Essere un punto di riferimento politico significa avere la capacità di fare sintesi» Pavese, ingegnere elettronico, da sempre in Forza Italia, inizia il percorso politico negli anni del Liceo, il “Taramelli” di Pavia, e nella circoscrizione “Pavia ovest”. Sindaco di Pavia dal 2009 al 2014 (eletto a 29 anni), Vice-presidente vicario di A.N.C.I. con gli Onorevoli Delrio e Fassino, nel 2018 viene eletto alla Camera dei Deputati, membro della Commissione Finanze e della Commissione per l’attuazione del Federalismo Fiscale. È attualmente componente del Coordinamento di Presidenza di Forza Italia. Abbiamo incontrato l’Onorevole Alessandro Cattaneo. Onorevole Cattaneo, prima domanda secca. Com’è la “salute” del suo Partito in Oltrepò? «Se la “salute” di un partito si valuta dalla qualità delle persone che ne portano avanti valori e politiche sul territorio, direi che in Oltrepò Forza Italia può contare su una classe dirigente di amministratori preparati, sindaci in gamba che stanno fronteggiando una fase molto difficile con intraprendenza, punti di riferimento assolutamente riconosciuti e in grado di aggregare. E’ una rete di grande valore con la quale, da Deputato, lavoro in ottima sinergia. Certo, rispetto al passato viviamo un momento in cui la Lega ha raccolto tanto, ma con i suoi componenti in Oltrepò c’è un’ottima sinergia e un comune sentire: l’importante sono i valori del centrodestra, il consenso si muove oggi molto velocemente, a volte direi perfino troppo». Come valuta la nuova giunta formata a Voghera? «Mi sembra un’ottima giunta, che racchiude un giusto mix tra esperienza e novità così come tra esperienza politica e impegno civico. Paola Garlaschelli, insieme alle forze che l’hanno sostenuta, ha fatto ottime valutazioni. A Voghera la nuova giunta ha iniziato a lavorare da poco, ma la situazione di emergenza legata alla pandemia e a tutti i risvolti che ne conseguono non ha permesso temporeggiamenti: seguo da vicino l’amministrazione di Voghera e mi sembra che abbiano iniziato a lavorare tanto e bene». Prima dell’inizio della campagna elettorale, c’è stata “maretta” nelle fila di Forza Italia in città. Pensa nel futuro, se d’interesse, di riuscire a ricompattare il Partito cittadino? «Essere un punto di riferimento politico significa avere la capacità di fare sintesi, di mediare, di trovare una quadratura. Dall’altra parte, però, la politica deve anche essere capace di decidere, di indicare una direzione e di percorrerla con decisione. C’è “maretta” quando ci si confronta anche animatamente, ma quando qualcuno decide di prendere un’altra strada non è ‘maretta’, è una precisa scelta di cui Forza Italia, compatta, ha preso atto e ha prose-

guito con coerenza il proprio percorso. In futuro, chiunque voglia far parte del progetto di Forza Italia troverà porte aperte, ma sulla coerenza non transigiamo: i cittadini meritano chiarezza». Lei si è molto speso in città durante la Campagna Elettorale: il risultato elettorale del Partito l’ha soddisfatta? «Sì, è stata un’ottima affermazione con una percentuale significativamente più alta rispetto alla media nazionale e anche regionale. è stato il frutto di un grande lavoro di squadra che ha visto in campo un gruppo unito, in cui tutti hanno dato il proprio contributo. Personalmente ho voluto vivere la campagna elettorale quotidianamente, così come ha fatto il consigliere regionale Invernizzi, insieme a tutti i candidati. L’ottimo risultato di Forza Italia penso sia la miglior risposta alle scelte di cui parlavamo poco fa: i cittadini non le hanno recepite e hanno premiato invece una proposta politica coerente e chiara come quella di Forza Italia». Nel prossimo mese di Marzo si terranno le Elezioni Provinciali: quale sarà la sua strategia e la linea del Partito? Chi le piacerebbe alla Presidenza? «Innanzi tutto bisogna partire sempre dal metodo, e su questo esprimo due concetti in cui credo: il primo è che il centrodestra deve presentarsi unito e trovare una proposta politico-amministrativa forte e credibile, e dall’altro lato penso che un presidente di una provincia come pavia che conta quasi 200 comuni debba essere espressione di un centro piccolo più che di una grande città. Da qua partiamo a ragionare. Rispettiamo la Lega che ha numeri molto ampi, ma in questa partita Forza Italia ha persone di qualità che potrebbero ambire a quel ruolo. Mettiamo davanti appunto la qualità delle persone in grado di esprimere buona amministrazione: il resto verrà, con il dialogo franco e leale che da tempo abbiamo con Lega e Fratelli d’Italia». Il Ministro dell’Ambiente Costa, dichiarandosi favorevole al biodigestore , ha ritornato al mittente le rimostranze dell’On. Lucchini. In caso di contestazione popolare, come si schiererebbe? «Forza Italia si è già espressa con chiarezza a Voghera e io la penso come loro: siamo contrari al progetto». Quali le caratteristiche Oltrepadane d’impresa che ha più rappresentato, in questi anni, a Roma? «Ho provato e provo a rappresentare tutti i giorni un modo di fare impresa oltrepadano che va sostenuto e valorizzato. E’ quell’impresa che racconta storie, famiglie, tradizioni che con competenza e intraprendenza diventano marchi di qualità. Tutto questo nonostante le difficoltà moltiplicate dall’emergenza sanitaria. è un comparto che va sospinto con un piano

L’Onorevole Alessandro Cattaneo

Biodigestore di Campoferro «Forza Italia si è già espressa con chiarezza a Voghera e io la penso come loro: siamo contrari al progetto» infrastrutturale efficace e con politiche che riescano a fare dell’Oltrepò un brand compatto, forte, in grado di competere in Italia e fuori dai confini». Lei, l’On. Lucchini e l’On. Romaniello siete i nostri Rappresentanti in Parlamento: come sono i rapporti tra voi? C’è collaborazione per il territorio? «Con Elena Lucchini c’è un’ottima sintonia che si è concretizzata nella recente campagna elettorale a Voghera, nella quale abbiamo sostenuto Paola Garlaschelli. Con il M5S trovo più difficile il confronto, a Roma come sul territorio: fatichiamo a comprenderne una linea chiara. Un tempo quantomeno avevano dalla loro il grido ‘antipolitico’, disastroso e inconcludente ma perlomeno ben definibile. Oggi i 5 Stelle hanno perso anche quello, e non si capisce più chi siano e cosa vogliano». Cosa prevedere per il Nuovo Anno a livello politico, sociale e sanitario per tutti noi? Posso chiederle se ha qualche “indiscrezione”?

«Viviamo giorni e mesi difficilissimi. Commercianti, artigiani, Partite Iva cercano eroicamente di resistere nonostante un Governo che naviga a vista, che apre e chiude in modo isterico, che promette e non mantiene. Sono un ottimista di natura e credo fortemente nel carattere degli Italiani, carattere che sul nostro territorio è particolarmente forte. Il Governo ha mostrato grande debolezza da marzo ad oggi e nel 2021 è auspicabile un cambio di marcia, con un atteggiamento meno autoreferenziale, con una condivisione delle misure da intraprendere, con uno sguardo all’Italia vera che soffre e lotta per restare in piedi. Salutiamo il 2020 con la tristezza per quelle persone che, colpite dal Covid-19, non ce l’hanno fatta: nel nuovo anno, insieme, dobbiamo continuare a lottare per lasciarci alle spalle tutto questo e ripartire come abbiamo sempre saputo fare». di Lele Baiard


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VOGHERA

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Il PD fa l’analisi del voto ed è scontro totale È arrivata negli scorsi giorni l’analisi del voto da parte del Partito Democratico, uscito sconfitto nelle elezioni amministrative vogheresi, insieme alla coalizione trainata dal candidato sindaco Nicola Affronti. La fase pre-elettorale, come si ricorderà, è stata molto travagliata. In un primo momento sembrava che il centrosinistra dovesse organizzare le primarie, come già avvenuto in occasione della tornata precedente, aperte a tutto il campo progressista. All’interno del PD si era subito posta la candidatura di Ilaria Balduzzi, consigliera comunale uscente, ed era data per scontata la partecipazione in prima persona di Pier Ezio Ghezzi, già candidato sindaco della coalizione dem nel 2015. Le primarie erano state organizzate, ed era stato varato un regolamento; ma la data ha subito alcuni ritardi a causa del mutato scenario nazionale. Il Partito Democratico, infatti, nel frattempo aveva stretto un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle per mantenere Giuseppe Conte a Palazzo Chigi estromettendo al contempo la Lega dall’esecutivo. Alcuni si chiedevano se quel copione non si potesse replicare anche a livello locale. E in effetti pare ci siano stati contatti in tal senso, senza che tuttavia questi abbiano portato ad alcun accordo. Morale: i mesi sono passati, nel frattempo Pier Ezio Ghezzi è uscito dal Partito Democratico (all’interno del quale, va detto, aveva ormai più nemici che amici) e ha creato intorno a sé una coalizione composta da elementi civici e di campo progressista. Il Partito Democratico, archiviate definitivamente le primarie, nel mese di luglio si è poi accodato all’alleanza che si era formata fra UDC, alcuni fuoriusciti da Forza Italia ed elementi provenienti dal civismo, fra i quali il movimento di Fabio Aquilini. Alleanza che aveva già un candidato sindaco, nella persona del Presidente del Consiglio comunale uscente, Nicola Affronti. Che già da mesi aveva annunciato di voler correre per la fascia di primo cittadino iriense. Il resto è storia: Affronti è riuscito a raggiungere l’obiettivo del ballottaggio, ma la spinta propulsiva del Partito Democratico – che pure, certo, immaginava una certa emorragia di voti, diretta conseguenza della coraggiosa scelta di appoggiare un candidato che per molto tempo era stato distante – si è esaurita in una percentuale di elettori molto esigua e molto inferiore alle aspettative. Da qui la necessità di un’analisi approfondita, che è avvenuta durante l’assemblea degli iscritti, la scorsa settimana. Al termine della quale la segretaria del circolo, Alessandra Bazardi, ha rilasciato questa dichiarazione: “Il risultato elettorale metteva in forte discussione il mio ruolo in primis. Io da subito, prima del ballot-

Ilaria Balduzzi, consigliere di minoranza taggio, mi sono dichiarata a disposizione per ogni decisione che fosse per il bene del partito. Non nego molta emozione nel vedere il consenso, la fiducia e il supporto degli iscritti che per me sono la massima espressione del partito, coloro che mi hanno eletto e a cui devo riferire. Ma soprattutto sono il patrimonio più grande del partito”. Prosegue Bazardi: “Per questa fase si è deciso di ripartire da me e da un gruppo dirigente che sarà sicuramente rinnovato nelle persone ma soprattutto nel metodo di lavoro. Io farò di tutto per ricambiare la fiducia iniziando a lavorare, dialogare, coinvolgere chi vorrà in progetti e impegni, ricucire rapporti interrotti e soprattutto riconquistare gli elettori perduti. Sfida tutt’altro che semplice. I risultati elettorali sicuramente severi non devono però farci dimenticare che il PD è fatto di uomini e donne perbene, preparate, serie, che hanno a cuore il partito e che sono disposte a impegnarsi per la comunità politica. Il Pd deve tornare ad essere il protagonista del campo di centrosinistra senza timori, la forza trainante per essere l’alternativa. Ma per riuscirci deve essere unito e fare una proposta convincente nei contenuti e nelle persone. Come dice il segretario Zingaretti il PD deve essere il partito del “noi”, non dell’”io”, quindi massima collegialità e compattezza da parte di tutti se si vogliono ottenere risultati.” Il risultato, ma soprattutto il processo che lì ha portato, ha tuttavia lasciato parecchi strascichi. Molti, per esempio, hanno accusato Ilaria Balduzzi di presenzialismo. Di certo è stata la più mediatica fra i candi-

dati del centrosinistra; motivo ne sono, forse, i rumors che la volevano vice-sindaco in pectore, in caso di vittoria dell’alleanza Affronti. Secondo alcuni, tuttavia, i malumori erano ancora più antichi, relativi alla candidatura a sindaco poi sfumata. Balduzzi, in ogni caso, oggi siede sui banchi del Consiglio Comunale. Le abbiamo chiesto qualche informazione ulteriore sul momento che si sta vivendo. Balduzzi, negli ultimi giorni in casa PD si è aperta una crisi che in molti si aspettavano, e lei è un po’ al centro della vicenda. Qual è la sua analisi, dal voto che vi ha visti soccombere alla coalizione a trazione leghista, fino ad oggi? «È un dato di fatto che anche a Voghera la sinistra (allargata alla compagine che è attualmente al governo con noi, e cioè i Cinque Stelle e anche alla componente moderata) litiga, si divide e perde. Mi verrebbe da dire che qui ciò avviene per motivi solo apparentemente politici ma in fondo principalmente personali, cosa che non dovrebbe mai essere in politica. È altro dato di fatto che per andare d’accordo serve un progetto comune e condiviso, quindi il lasciare da parte i personalismi e soprattutto la volontà di fare un percorso assieme per il bene della città. Indipendentemente da strumenti quali possono essere le primarie. Che per altro io personalmente non ho mai rifiutato, anzi alla Festa dell’Unità 2019 a Rivanazzano ho dato la mia disponibilità proprio per quelle, pur sapendo che c’era già un’altra persona, allora ancora nel PD, che ambiva ad essere il candidato, in nome della pluralità e di coloro che me lo avevano chiesto.»

Lei crede che se il centrosinistra si fosse presentato con un’unica formazione alle elezioni avrebbe avuto chance di vittoria? «Voghera è una città solidale, democratica, antifascista, valoriale ma anche moderata, produttiva, culturale e ci chiede di fare questo sforzo comune. Non so se oggi una compagine unitaria potrebbe avere la maggioranza come era stato, ahimè per l’ultima volta, ai tempi di Scotti con il quale avevo iniziato il mio impegno politico ormai 30 anni fa. Sicuramente varrebbe la pena di provarci. Anzi, oserei dire, che anche queste recenti elezioni hanno dimostrato che non ci sono molte alternative.» E pensa esista concretamente questa possibilità, dopo gli stracci volati nella preparazione alla competizione elettorale appena conclusa? «Ci vuole la volontà di tutti per riunificare il centro sinistra. Ad oggi non la vedo. Vedo principalmente strizzate d’occhio, e anche qualcosa in più, alla maggioranza, la ricerca del sostegno della maggioranza per influenzare le tutele previste dallo Statuto per la minoranza (si veda la Commissione elettorale e per le pari opportunità), atteggiamenti molto indulgenti nei confronti di ogni atto della nuova amministrazione, astensioni nelle votazioni. Sempre con la scusa del rodaggio ma prima o poi si dovrà ben crescere.» Quale dovrebbe essere – indipendentemente da chi ne farà parte – la proposta cui lavorare nei prossimi cinque anni, in modo tale da presentarsi alla prossima scadenza elettorale con un progetto non figlio di accordi dell’ultimo minuto o delle ultime settimane? «La città ha bisogno di un progetto realmente nuovo e innovativo, audace, coraggioso. Tutti i progetti messi singolarmente in campo dalla Sinistra (anche allargata), vuoi per gli interlocutori, vuoi per i contenuti, non hanno saputo intercettare questo desiderio di novità coniugato alla conoscenza della città e dei suoi problemi e ad un approccio veloce ed immediato della loro risoluzione.» Negli ultimi giorni, dicevamo, è emersa una certa divisione di vedute fra alcune frange del Partito Democratico e lei, l’unica consigliera eletta. Ma è anche evidente che le ragioni vanno ricercate più indietro. Qual è il suo punto di vista? «La decisione con la quale il Coordinamento del PD vogherese, su proposta della Segreteria, ha preso la decisione di alleanza con UDC e parte di FI, non è avvenuta all’unanimità. Era stato però anche deciso che il PD si presentasse al tavolo dell’alleanza con la propria candidata a pari dignità con altri che fossero posti sul tavolo. Ad oggi non so se ciò è avvenuto. Mi è stato risposto che era un’alternativa non percor-


VOGHERA ribile. Io e le persone che hanno sempre creduto in me ci siamo fidati delle valutazioni di dirigenti di partito più esperti e navigati e questo è un errore che non rifarei. Ha pagato di più la coerenza mostrata dal Segretario e gli organismi direttivi di Vigevano (seppur in un panorama diverso) che non considerando le indicazioni del provinciale per forzate e tardive alleanze, ha proseguito con la propria candidatura ed, è pur vero, che non si è arrivati al ballottaggio ma, se il risultato finale è stato poi comunque quello, almeno lì il PD non ha perso tutto il consenso come da noi, con numerosi voti di preferenza personale.» Perché l’analisi della sconfitta arriva soltanto oggi? «Io, di mio, sono una persona abituata alla disciplina; quindi se si intraprende una strada la porto fino in fondo, come ho fatto, con convinzione ed entusiasmo e, devo dire, che ho trovato alcuni “compagni” di questo breve e tardivo viaggio con i quali sicuramente, se lo vorranno, una volta passata questa batosta, si potrà collaborare e concretizzare qualcosa per la città. Io non sono un’esperta di numeri (non questi), exit poll e previsioni ma, facendo la campagna elettorale, era evidente che c’era qualcosa di distorto nelle percentuali che giravano all’interno dell’alleanza in quei giorni e che ci pensavano vittoriosi al primo turno. La percezione nella città era un’altra. Per l’alleanza al primo turno non così disastrosa come poi è apparsa al ballottaggio. Per il Pd già dal primo turno.» Già, ma il primo turno si è svolto ormai tre mesi fa. Perché parlarne soltanto adesso? «Si arriva con troppo ritardo a dar voce innanzitutto agli iscritti e io avrei poi aperto il dibattito anche alla città, senza timori di esporsi al giudizio. L’unica che si è dimessa da qualche organo direttivo è stata Liliana Giampetruzzi dalla Segreteria, e la cosa è stata tenuta quasi nascosta, non per volere della diretta interessata ma, immagino, per evitare di aprire qualsiasi falla. Io, per miei impegni personali, ho potuto parte-

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cipare poco alla stesura del documento al quale si è dedicato con le migliori intenzioni il dottor Paolo Sanbartolomeo, che noi tutti dobbiamo ringraziare così come per la stesura del programma; però resta un documento vecchio, dove si dicono cose ovvie, che ci si vuole aprire ma non si sono fatti i passi conseguenti affinché queste non restino soltanto delle dichiarazioni di intenti. Come possiamo pensare che la città creda che ci vogliamo aprire alla società civile se per 3 mesi abbiamo rilasciato dei no comment?» Qual è la sua posizione all’interno del partito? «All’interno del partito si vive, ormai da mesi, in una situazione surreale aspettando che “ha da passa’ a nuttata”. Anziché essere valorizzata come unico consigliere del PD (senza le preferenze prese dalla sottoscritta probabilmente il PD non sarebbe stato nemmeno rappresentato in Consiglio) sono praticamente ignorata se non banalizzata in virtù del fatto che il partito deve essere rilanciato. In questo, devo dire, il PD non dimostra di essere molto accogliente verso chi si mette a disposizione con il proprio tempo, le proprie competenze ed impegno e ovviamente, di conseguenza, nutre anche aspirazioni di affermazione personale. In questo, seppure con spinte altamente egocentriche, è da capire ed interpretare il comportamento di chi se ne è andato sbattendo la porta e covando per questo sentimenti di rivalsa e vendetta; oppure chi si approccia per la prima volta; o chi, nel partito, consapevole delle proprie capacità, viene emarginato.» Intravede all’orizzonte la possibilità di un rilancio? «Mai si è arrivati così in basso (7 per cento) ma se le basi del rilancio consistono nell’agire come se niente sia successo, con lo status quo inalterato e arroccato, accettando che decisioni vogheresi siano prese altrove, con una politica fatta da caffè ai bar (finché si sono potuti prendere), pettegolezzi, con il togliere e ridare amicizie su Facebook e in mancanza di un dialogo, io continuerò ad essere a disposizione della

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Ilaria Balduzzi: «Mai arrivati così in basso» città e dei cittadini e fare l’opposizione in Consiglio Comunale che è poi quello che ho imparato e so fare, ad oggi quasi in totale solitudine; ma comunque non demorderò con occhio vigile e orecchie attente e all’ascolto sperando in tempi migliori.» Cosa deve restare di queste elezioni? «L’elettorato ha voluto punirci e farci capire che la scelta fatta, forse per il troppo poco tempo a disposizione per essere digerita e compresa, non è piaciuta. Per quanto ci sforzassimo di dire che il programma era innovativo, ed in effetti per certi aspetti lo era, non è stato capito o non lo era abbastanza. Non abbiamo saputo intercettare il desiderio di novità. Non siamo stati abbastanza coraggiosi. Personalmente sono molto soddisfatta del risultato raggiunto in termini di preferenze: sono la più votata del PD, della coalizione e dell’intera opposizione; una dei pochi fra chi era già stato candidato nel 2015, anche nella maggioranza, ad aver aumentato le preferenze. La città di Voghera, a parte certi casi eccezionali che però cambiano di elezione in elezione e anche su questo ci sarebbe da interrogarsi, non è una città molto abituata ad esprimere il voto di preferenza.» Come ha iniziato la nuova legislatura sugli scranni di Palazzo Gounela? «Come Consigliere Comunale ho iniziato, attraverso puntuali interrogazioni, a porre temi concreti come il superamento delle faide personali interne al centrodestra per la gestione di ASM.

Ho presentato formalmente la proposta di una Commissione Speciale Consiliare sulle tematiche riguardanti Asm: non in modo specifico per le questioni gestionali poco chiare sollevate da più parti (anche se il nostro Statuto prevede a tal fine anche le commissioni di indagine), ma anche per delineare in maniera trasparente e condivisa le future strategie della società partecipata. La risposta da parte dell’Amministrazione, per bocca della Sindaca, è stata negativa. Se riusciremo ad avere le firme di un terzo dei consiglieri, ripresenteremo la proposta come “Ordine del giorno” al voto del Consiglio. Ancora prima del primo Consiglio Comunale di insediamento avevo presentato una interrogazione al Sindaco e all’Assessore al Bilancio in cui evidenziavo le tante risorse trasferite dallo Stato che sono arrivate al Comune di Voghera (3 milioni e 100 fino a quel momento) e gli impieghi che ancora erano troppo modesti oltre naturalmente a coprire le minori entrate. Nel mese di dicembre arriveranno (anzi sono già arrivati in questi giorni) ulteriori 308.000 che potranno essere iscritti a bilancio solo con Delibera di Giunta senza bisogno di variazione in Consiglio ma proprio anche per questa straordinarietà sarà necessaria una maniera molto trasparente di utilizzo e assegnazione di tali risorse.» di Pier Luigi Feltri


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“Il lockdown della Costituzione”

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L’Avvocato Marcello Lugano spiega l’inapplicabilità delle sanzioni Nell’Italia che si tinge di rosso, arancione e giallo ci sono un gruppo di avvocati del Foro di Pavia e una psicologa che hanno voluto uno studio e un evento online «Il lockdown della Costituzione» (disponibile on demand su Facebook) per rimarcare come da un lato da marzo ad oggi non si siano rispettati precisi dettami della Carta Costituzionale e come, dall’altro, si sia anche alimentata una psicosi che ha fatto ammalare di povertà e depressione uomini e donne fino a prima perfettamente sani. Non sono negazionisti, né hanno teso minimizzare l’emergenza sanitaria, ma hanno riflettuto sulle molte insensatezze del periodo. Si tratta degli avvocati Marcello Lugano, Claudia Marenzi, Antonio Rossi e Mario Villani insieme alla psicoterapeuta Michela Parodi. In particolare Marcello Lugano ha dedicato attenzione al tema dell’autocertificazione. Avvocato Lugano, perché secondo lei le autocertificazioni sono state un esercizio privo di senso? «Parto da una premessa. Le traversie che il Governo ha dovuto affrontare in epoca di Covid-19 hanno portato ad un approdo normativo (ove per norma ci si riferisce unicamente alla decretazione d’urgenza) che porta, sotto diversi profili, a superare e quindi a violare diritti del cittadino di rango primario e costituzionale». Come si è agito a livello governativo? «Con una successione temporale di normative spesso contrastanti che scade in una tendenza ad una regolamentazione compulsiva, a singhiozzo, a scaglioni. Ferma restando quella che molti interpreti hanno definito illegittimità totale della decretazione del Presidente del Consiglio dei Ministri (atto amministrativo come tale privo di potere d’impatto sui diritti primari), lo schema generale che si è seguito nell’istituire un meccanismo sanzionatorio diretto o indiretto nei confronti del cittadino è stato ed è oggetto di serrate critiche da parte degli operatori del diritto». Cosa ha rappresentato tutto questo per i cittadini? «In pratica si è assistito e si assiste ad una decretazione a tratti non comprensibile, a tratti priva di sanzioni codificate, delegante a terzi soggetti un potere di verifica e di giudizio che appare quantomeno singolare. Se, come si è visto, si è corretto macroscopicamente il tiro con una schizofrenia normativa che ha dapprima sanzionato penalmente la violazione dei vari divieti (art. 650 c.p. Violazione di provvedimenti dell’autorità, palesemente inapplicabile per difetto di personalizzazione del provvedimento in senso tecnico), per poi operare (probabilmente per la

L’Avvocato Marcello Lugano

prima volta nella storia della Repubblica e soprattutto a distanza di così poco tempo) una depenalizzazione ad opera della stessa fonte normativa che ha tradotto la condotta illecita in violazione sanzionata amministrativamente (e quindi nell’egida della Legge 689/81), il meccanismo delle “autocertificazioni” costituisce ulteriore involuzione del sistema, scaricando ancora una volta sul cittadino oneri e responsabilità che andrebbero poste a cura ed in capo all’organo accertatore». Perché parla di “involuzione del sistema”? «Come molti sanno, i moderni sistemi giuridici e i moderni ordinamenti giudiziari sono basati e fondati su principi invalicabili che trovano fondamento nelle radici stesse del diritto, in fonti normative risalenti che costituiscono patrimonio della nostra civiltà, in fonti convenzionali che hanno recepito (con ratifica dei vari stati) detti principi, di fatto codificandoli. Per quanto riguarda il vecchio continente, fonte primaria e ratificata è certamente costituita dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, firmata in Roma il 4 novembre 1950, ratificata con legge dello Stato in data 26 ottobre 1955». Può fare un esempio per aiutare tutti noi a capire di più? «Uno dei principi in oggetto, che nella specie è direttamente attinente, violato non tanto e non solo dalla decretazione emergenziale, quanto da quel coacervo di

corollari sanzionatori che in qualche modo la assistono fungendo da gruccia che dovrebbe assisterla nella evidente zoppìa, è quella che trova espressione nella locuzione latina nemo tenetur se detegere: nessuno, in un moderno stato di diritto, può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità. Oltreoceano omologo principio è sancito dal V emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Stiamo parlando dei pilastri su cui poggia lo stato di diritto e in ultima istanza la stessa società civile». Nel nostro Paese cosa è stabilito? «In Italia la prima fonte normativa che ha espressamente riconosciuto il suddetto principio è stata la Legge n. 932/1969, che ha modificato la stessa impostazione concettuale dell’interrogatorio in sede penale, normativizzando il diritto a difendersi e a non accusarsi e finanche – con operazione concettuale e garantistica ineccepibile – il diritto a mentire. La domanda che la decretazione ci pone a partire dal D.L. 19/2020, che viene considerato in qualche modo la madre di tutti i D.P.C.M., è se sia legittimo o meno che si chieda al cittadino di garantire per sé stesso, di confessare eventualmente una condotta illegittima, di certificare lo svolgimento di condotte al di fuori di qualsiasi previsione normativa. Va da sé che il presupposto logico giuridico per rispondere alla domanda è costituito da una analisi ontologica e deontologica articolata: quando una condotta è illecita?».

Dunque si parla semplicemente di “etica”? «Evidente che il concetto di etica non ha alcun pregio giuridico nella materia in questione, potendo al più essere considerato la base, l’oggetto mediato, persino una finalità cui la norma è teleologicamente diretta. Una condotta, sul piano normativo, è illegittima se e nella misura in cui collide con la previsione di obbligo ma non solo; è sempre necessario che sia legittima la norma che definisce la condotta stessa come doverosa, e, quindi, che sanziona una condotta antitetica. Il punto, di primissima importanza, trattato dai lavori di ricerca svolti dai miei colleghi, con riferimento alla normativa emergenziale, danno una risposta drasticamente quanto completamente negativa». Cosa non funziona nel meccanismo dell’autocertificazione? «Con particolare riferimento alla tematica iniziale, ovvero la famosa autodichiarazione, nel gergo comune autocertificazione (divenuta oggetto di pubblico ludibrio per il susseguirsi nel tempo di una modulistica numerosa e mai statica anche nel tenore testuale…), la domanda è se sia corretto che si scarichi sul cittadino il dovere di autodenunciarsi. Al contempo occorre chiedersi se sia penalmente sanzionabile la condotta del cittadino che rifiuti di rispondere o che dichiari una cosa non accertata o non accertabile, o non conforme al vero. Una premessa ulteriore: per potersi parlare di “autocertificazione”, ovvero certificazione ad opera del cittadino, è necessario che egli sia chiamato a rendere una certificazione prevista da una legge. Nessuna legge dello Stato prevede alcunchè in subiecta materia». Cosa prevede il Ministero? «È nella direttiva del Ministero degli Interni del 8/03/20 la genesi del meccanismo autodichiarativo poiché, richiamando gli artt. 46/47 del DPR 28/12/2000 n. 445, si impone di fatto un’autodichiarazione del cittadino nel senso indicato. La logica seguita va ovviamente interpretata secondo un’analisi di politica legislativa: il sistema, che non riesce a creare un circolo virtuoso e ad incentivare a spiegare, a premiare il rispetto delle regole, deve sempre necessariamente sanzionare, punire, andare alla ricerca stessa delle violazioni. Ecco, allora, che a fronte di una totale depenalizzazione delle condotte “vietate”, si introduce il deterrente della fattispecie penale per condotte di giustificazione, con l’avvertimento che la violazione può integrare due tipologie diverse di falso (in realtà nel modulo di autocertificazione si fa riferimento all’art. 495 c.p.).


“Il lockdown della Costituzione” A mio parere è evidente che la patologia genetica che colpisce lo stesso meccanismo sanzionatorio e lo stesso “sistema delle regole” (ovvero il fatto che si verte in tema di materia sottoposta a riserva di legge trattandosi di beni di rango costituzionale) riverbera effetti travolgenti anche sull’autodichiarazione». Il soggetto che si rifiuta di rendere autodichiarazione è punibile? Il soggetto che rilascia dichiarazioni non conformi al vero è punibile? «Di fatto non esiste la possibilità di ricondurre il silenzio nella tipizzazione di alcuna fattispecie penalmente sanzionabile, poiché si tratterebbe di una condotta omissiva atipica, e in realtà in nessuna delle fonti normative emergenziali si prevede una sanzione per la mancata autodichiarazione, posto che tale condotta sarebbe automaticamente sussunta nella violazione amministrativa base con sanzione amministrativa. Vi è in realtà poi da chiedersi se una dichiarazione non corrispondente ad un fatto accertato sia penalmente sanzionabile sotto il profilo della condotta codificata agli artt. 483 o 495 c.p.. L’art 495 c.p. punisce la condotta di chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona. La Corte di Cassazione si è lungamente occupata della struttura oggettiva del reato, giungendo a definirne nitidi ed invalicabili confini». Esiste giurisprudenza in merito? «Con sentenza n. 7286/2015 il Supremo Collegio ha individuato la commissione del reato in parola specificando trattarsi della “condotta di colui che, privo di documenti di identificazione, fornisca ai carabinieri, nel corso di un controllo stradale, false dichiarazioni sulla propria identità, considerato che dette dichiarazioni – in assenza di altri mezzi di identificazione – rivestono carattere di attesta-

zione preordinata a garantire al pubblico ufficiale le proprie qualità personali, e, quindi, ove mendaci, ad integrare la falsa attestazione che costituisce - per antonomasia - l’elemento distintivo del reato di cui all’art. 495 cod. pen., così come previsto nel testo modificato dalla legge n. 125 del 2008”. Tale indicazione viene ripresa nella pronuncia n. 29874/2017: “integra il reato di falsa attestazione o dichiarazione a un P.U. sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 495 cod. pen.) la condotta di colui che rende molteplici dichiarazioni, tutte fra loro diverse, in ordine alle proprie generalità, non rilevando, a tal fine, il fatto che non sia stato possibile accertare le vere generalità del dichiarante e che questi, in una sola delle molteplici occasioni, possa, eventualmente, avere detto il vero». È evidente che commetterebbe il reato in parola il cittadino che, ove fermato, dichiari false generalità, una residenza diversa da quella reale, uno stato civile frutto di fantasia, ma in nessuno caso una falsa dichiarazione attestante il “perché” si è in giro per la città. L’art. 495 c.p. presiede infatti alle necessità (il c.d. oggetto giuridico del reato) che un individuo sia identificato. La conclusione non cambia ove si affrontano le tematiche connesse all’art. 483 c.p., che afferisce alla condotta di chi attesti falsamente a pubblico ufficiale in un atto pubblico fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità». Dunque l’autodichiarazione non è ammissibile? «La dottrina a mio avviso più attenta, esclude che l’autodichiarazione possa riguardare tale fattispecie, invero, è evidente che si ritornerebbe alla violazione del principio da cui si è partiti (nemo tenetur se detegere) ove si imponga al cittadino di autoaccusarsi. Sul punto si è autorevolmente rilevato che «non sempre è agevole stabilire in quali casi tale obbligo vera-

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mente sussista, una volta escluso che dallo stesso art. 483 sia ricavabile un generale dovere di veridicità nelle attestazioni che i privati fanno ai pubblici ufficiali» e che pertanto «in linea di principio il privato dovrà ritenersi tenuto a dichiarare il vero, ogni qual volta una norma giuridica ricolleghi specifici effetti a determinati fatti, allorché essi vengano da un privato attestati a un pubblico ufficiale che deve documentarne l’attestazione» (cfr. FIANDACA-MUSCO, Diritto penale pt. spec., vol. I, Zanichelli, 2008, p. 592). Il delitto in parola richiede peraltro quale elemento costitutivo integrante il c.d. “elemento oggettivo del reato” (o “tipicità della condotta”) un atto pubblico destinato a produrre effetti giuridici pubblici (gli esempi di qutidiano impatto sono l’atto notorio, la dichiarazione sostitutiva di notorietà, ecc.). Si è ritenuto, ad esempio, che nemmeno la falsa denuncia integri il reato di cui si parla. Solo per inciso si consideri che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto non sussistente il reato all’art. 495 c.p. nella condotta di chi dichiari di aver smarrito la patente in realtà mai conseguita (Cass. pen. sez. V, 3.11.2011, n. 39610). È significativo che alcune Procure della Repubblica di Tribunali italiani abbiano, all’alba del coacervo di normative nel recente passato, chiesto l’archiviazione di procedimenti afferenti false dichiarazioni in autocertificazioni ritenuto che non integrassero i reati sopra citati». Perché non si può punire chi dichiara eventualmente il falso? «Le ragioni di suddetta non punibilità risiedono nella “impossibilità di qualificare come attestazione penalmente valutabile la dichiarazione che non può ritenersi finalizzata a provare la verità dei fatti esposti”. In conclusione, parrebbe, a modesto avviso dello scrivente, che le considerazioni da affrontare siano le seguenti: la normativa emergenziale presenta ano-

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malie di ogni tipo. Si consente, di fatto, ad un atto amministrativo emanato da un singolo soggetto istituzionale e immune da qualsivoglia controllo parlamentare, di imporre condotte che sono contrarie alla libera espressione e al libero esercizio di diritti di rango costituzionale. Si impongono obblighi dichiarativi che contrastano con la Costituzione, con norme trasnazionali, con una cultura della giurisdizione che guida la nostra legislazione dai tempi dell’impero romano. Forse è ancor più grave che si imponga al cittadino un obbligo di autodenuncia, di autoaccusa, violando un principio che trova sede nell’art. 24 della Costituzione (ivi è sancito il diritto inviolabile alla difesa)». In conclusione tanti interrogativi e un sistema molto discutibile… «Al dubbio inerente alla legittimità delle richieste di autodichiarazione, si aggiunge l’oggettiva impossibilità giuridica che l’organo accertatore effettui sul momento indagini deputate ad appurare la veridicità dei fatti dichiarati. È certamente un dovere e un obbligo del cittadino quello di essere retto e sincero, non essendo eticamente e deontologicamente accettabile una condotta antitetica. Prima ancora, tuttavia, è certamente obbligo dello Stato quello di rispettare i diritti costituzionali del cittadino e di consentire ogni loro compressione, anche minima, solo per opera di una fonte normativa primaria promanata dal locus istituzionale che è espressione, in democrazia, della rappresentanza popolare, ovvero il Parlamento. Solo come annotazione sentimentale (finale e tristissima), occorre esprimere lo sconforto nell’assistere alla violazione di diritti che sono sanciti in una Costituzione che è ritenuta – a ragione – una delle migliori del mondo». di Nicolò Tucci



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«Ricandidarmi a Primo cittadino? Sarebbe un onore. Ci può stare» “Tigri asiatiche”: nome con cui si indicano, nel gergo economico, le economie di molti paesi dell’estremo oriente, che tra gli anni ‘80 e 2000 hanno promosso percorsi di cambiamento strutturale e crescita comunemente considerati di successo. Ma cosa c’entra questo con Rivanazzano Terme? Piaccia o non piaccia, sotto la “guida” di Romano Ferrari - sindaco per due madati dal 2007 al 2017 e attualmente vice sindaco - Rivanazzano Terme può essere certamente definita una “Tigre oltrepadana”. Certo i miracoli non li fa nessuno e tutto è sempre migliorabile, ma Rivanazzano Terme, complice anche l’immobilismo di molti altri paesi dell’Oltrepò e le difficoltà sempre più palesi della vicina Godiasco Salice Terme, ha vissuto una crescita che per la stragrande maggioranza degli aspetti va definita certamente positiva. Ogni crescita comporta anche dei problemi, ma i rivanazzanesi dopo due mandati dove Romano Ferrari è stato eletto come sindaco, alle ultime elezioni hanno votato come attuale Primo cittadino Marco Poggi, uomo chiaramente indicato da Ferrari. Ma c’è di più... nell’ultima tornata elettorale nessuno si è sentito in grado di sfidare Romano Ferrari. Tra due anni ci saranno nuove elezioni e se gli umori attuali della popolazione rivanazzanese, nonostante il periodo difficle che l’Italia, l’Oltrepò e Rivanazzano Terme sta vivendo per la pademia in corso, saranno confermati, e se Ferrari come tutti pensano, si ricandiderà e questa volta come sindaco, è molto probabile in una sua terza elezione. Prima domanda secca e probabilmente la più spinosa, visto che soprattutto a livello social esiste un gruppo di rivanazzanesi molto attivi e contemporaneamente mal contenti di come sta andando la raccolta differenziata in quel di Rivanazzano Terme. Cosa ci può dire al riguardo? Un mea culpa per come è stata gestita o si sente di rassicurare chi molto spesso paragona - in difetto - il vostro operato in ambito raccolta rifiuti a quello della “virtuosa” Codevilla? «Non credo che il Comune di Rivanazzano Terme debba recitare alcun mea culpa, nel campo della raccolta rifiuti. Abbiamo messo in atto interventi volti ad un incremento della raccolta differenziata ed altri sono in corso di approntamento. Inoltre non è mia abitudine parlare degli altri Comuni, dico solo che la località di Rivanazzano Terme ha sue caratteristiche che la differenziano dalle altre località, con le quali la nostra amministrazione non si sente certo in “competizione”». Alcuni cittadini hanno sollevato una problematica inerente ai parcheggi free

Elezioni provinciali, «La Valle Staffora può sicuramente far sentire la sua voce»

Romano Ferrari

a Rivanazzano Terme, che incentiverebbero gli automobilisti di passaggio, per lo più lavoratori, a “depositare” il proprio veicolo in paese per poi proseguire con altri mezzi e per altre località. Crede sia un problema reale, che toglie “qualcosa” ai rivanazzanesi e al commercio locale oppure crede fortemente nel non far pagare i parcheggi? «Sinceramente credo che la politica rivanazzanese degli ultimi 13 anni sia sempre stata rivolta a rendere attrattivo il nostro paese. Credo abbiamo ottenuto anche buoni risultati. Sicuramente i parcheggi non a pagamento favoriscono i nostri negozi. Chi transita ed è facilitato nella sosta viene anche invogliato ad entrare in qualcuno dei nostri accoglienti negozi, che fanno del loro meglio e meritano tutto il nostro plauso». Non è tempo, ma ogni anno in occasione del periodo estivo, dove Rivanazzano Terme è molto attiva sul fronte eventi, si presenta la polemica sulla collocazione degli stessi. Pensiamo al mercatino del martedì ad esempio che non coinvolgerebbe i commercianti della Piazza, piuttosto che quelli al Parco Brugnatelli che escluderebbero del tutto le attività commerciali. Ci sono cambiamenti in vista in questo ambito o andrà tutto come è sempre andato? «Credo di poter dire senza essere smentito che sia gli eventi al parco Brugnatelli, così come il mercatino, siano tra i nostri fiori all’occhiello e altrettanto sicuramente, così come concepiti, favoriscono il turismo a Rivanazzano Terme. Basti ricordarsi, soprattutto nelle stagioni preCovid all’importante afflusso di gente per le piazze del paese in occasione di questi eventi».

Nella nostra ultima chiacchierata, era l’agosto dello scorso anno, lei ha parlato di alcune problematiche da risolvere legate al Piano di Governo della Provincia (PTCP) inerenti ad aree agricole considerate strategiche. Ci sono evoluzioni in merito? «Nello specifico la Provincia ha accolto alcune nostre richieste, che si rivelavano necessarie per permettere la migliore espressione delle nostre realtà produttive. Questo ci rassicura, dopo un momento in cui ci siamo trovati in difficoltà in quanto il piano provinciale aveva inserito come ambito agricolo strategico terreni che potevano essere oggetto di ampliamenti da parte di aziende produttive nostre, essendo adiacenti alla nostra area industriale. Queste nostre preoccupazioni sono state, nello specifico di un potenziale ampliamento, comprese dalla Provincia che ha attivato l’iter per superare questo vincolo valutando pertinenti le osservazioni prodotte». Alla domanda fusione Rivanazzano Terme Godiasco Salice Terme, lei ci rispose che “Parlare di fusione mi sembra prematuro. Certo mi piacerebbe veder crescere una sinergia di intenti con la vicina località di Salice Terme. Credo che questo sarà possibile in futuro”. È ancora così? «Onestamente devo dire che in questo anni si è sviluppata un’ottima collaborazione tra le nostre due amministrazioni. Ed alla gente credo sia questo che interessa più di ogni altra cosa. Abbiamo predisposto un parcheggio insieme che si attendeva da tantissimi anni e tante altre cose utili ai cittadini di entrambi i Comuni». Emergenza sanitaria: quali sono le iniziative messe in campo da questa ammi-

nistrazione in aiuto di famiglie e attività commerciali? «Abbiamo distribuito e stiamo tutt’ora facendolo tutti gli aiuti pervenuti dallo stato a disegno delle famiglie. Abbiamo sostenuto associazioni di volontariato che operano in tal senso. Abbiamo cercato di non abbandonare le fasce fragili con aiuto di ogni tipo. Qui voglio cogliere l’occasione per ringraziare il prezioso impegno del nostro gruppo di protezione civile con a capo Carlo Sgorbini. Tutt’ora stiamo operando in tal senso. Abbiamo poi agito a sostegno della scuola per la logistica ed il trasporto scolastico, ampliando di molto il nostro impegno rispetto alle necessità che si erano manifestate negli anni precedenti. Tutt’ora continuiamo a seguire l’evoluzione della pandemia ed interveniamo dove necessario. Non bisogna dimenticare che abbiamo ridotto la Tari del 30 per cento alle attività che hanno dovuto chiudere per il lockdown ed esentato tutte le attività dal pagamento del plateatico». Mancano 2 anni alle elezioni comunali, assolutamente prematuro ma la domanda va fatta. La sua passione politica potrebbe spingerla a ricandidarsi a Primo cittadino della Comunità rivanazzanese? «Sarebbe un onore. Ci può stare. Voglio bene al mio paese, una località che mi ha dato tanto e per la quale fin che la gente vorrà mi impegnerò al massimo». Più imminenti le elezioni provinciali, che si terranno in primavera. Quali sono le sue considerazioni? «Io auspicherei un ritorno all’antico. Con i consiglieri votati direttamente dalla gente. Il sistema attuale dell’elezione indiretta a mio parere ha soprattutto indebolito la Provincia stessa ed il suo ruolo. La cosa che mi fa pensare positivo è che il nostro territorio - e parlo della valle Staffora - anche alla luce degli ottimi rapporti che si sono sviluppati in questi anni, può sicuramente far sentire la sua voce». di Silvia Colombini



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Villa Mezzacane, «L’idea è quella di riportare questo posto all’antico splendore» Più che un vino, un prodotto culturale dalla tradizione antichissima. Più che un’azienda vitivinicola, il sogno di un gruppo di imprenditori visionari, pronti a scommettere su una filosofia che viene da lontano, e su tecnica enologica ancora in uso solo nella lontana Georgia. Sono in vendita da questo mese le etichette della Cantina Mezzacane di Rivanazzano Terme, il cui prezioso contenuto è ottenuto da uno speciale processo di vinificazione in anfora. A raccontarci la scelta fatta dall’azienda è Caterina Vistarini, giovane responsabile di un’impresa coraggiosa decisa a distinguersi nel ricco panorama delle cantine oltrepadane. Caterina, cominciamo con le presentazioni. Sei giovanissima e già sei responsabile di una realtà imprenditoriale, per quanto agli inizi. Raccontaci di te. «Ho ventitrè anni, e mi sono laureata in Bicocca l’anno scorso dopo tre anni di Scienze dell’Organizzazione. Si tratta di un corso del dipartimento di sociologia e quindi in realtà aveva poco a che fare con tutto l’ambito vitivinicolo, ma il mio interesse per questo mondo è iniziato prima degli studi, da ciò che negli anni mi ha trasmesso mio papà Andrea. Tutto il progetto (di cui poi parleremo) è nato di fatto dalla passione fortissima che ha nei confronti del vino, e quando ha cominciato a lavorarci per me è stato naturale prendervi parte: anzi, ho pensato che si trattava di un’opportunità eccezionale da cogliere al volo, e così ho fatto. Poi attorno a me ho mia mamma (Loretta Rizzotti) e il mio compagno (Gilberto Neirotti) che entrambi hanno fatto Masterchef, e l’idea con cui siamo partiti era anche quella di trovare un modo per intrecciare tutte le nostre passioni» Prima di parlare del vostro vino parliamo della cantina. Il nome non è nuovo, e nemmeno la struttura. «No, tutt’altro. Entrambi hanno una storia il cui inizio risale ai primi anni del Novecento, quando alla fine di quel maestoso viale alberato che esiste ancora oggi il Cavaliere rivanazzanese Vincenzo Mezzacane fondò l’azienda agricola omonima. Cavaliere del Lavoro, di professione costruttore (era quello che edificò, per intenderci, il tribunale di Milano e la stazione Termini di Roma) qui diede vita a un’azienda all’avanguardia per l’epoca, dove tra scenografici pergolati e lussureggianti giardini all’italiana si coltivavano campi e si allevavano vacche varzesi. Oggi la proprietà non comprende più i campi intorno, ma è formata dalla cantina e da quello che presto diventerà un agriturismo con bed and breakfast. Stiamo ancora ristrutturando, e l’idea è quella di

Il progetto di Andrea Vistarini, insieme ad altri sette imprenditori del mondo dell’auto

Caterina Vistarini con il padre Andrea

riportare questo posto all’antico splendore». Una bella impresa da compiere da soli. «Decisamente sì, infatti siamo in tanti. Il vecchio cascinale è stato rilevato un paio di anni fa da mio padre, Andrea Vistarini, insieme ad altri sette imprenditori del mondo dell’auto. Insieme hanno deciso di dedicarsi a una passione che hanno in comune, affiancandola alla loro attività lavorativa . Il primo passo è stato l’acquisto di quattro ettari di vigne appartenenti all’azienda Litubium, sulle colline di Retorbido. Solo in un secondo momento, quando hanno cominciato a cercare un luogo che potesse ospitare la cantina, si sono imbattuti in questo pezzo di storia dimenticato. Se ne sono innamorati ed è cominciata l’avventura». Ed ecco quindi che arriviamo alle scelte imprenditoriali che avete fatto. Avete deciso di affidarvi a un enologo sui generis e di puntare sull’unicità. «Esatto, l’idea è quella di percorrere una strada che sia solo nostra, nonostante i rischi. Ci siamo quindi affidati all’esperienza di Eugenio Barbieri (quello del “Podere Il Santo”) e lo abbiamo coinvolto nel progetto. Lo conoscevamo già da tanto tempo e sapevamo che era la persona giusta per noi, perché avrebbe condiviso la nostra filosofia. Volevamo produrre un vino etico, emozionale, unico nel suo genere. Quando Eugenio ci ha proposto la vinificazione in anfora, mio padre non ha esitato un attimo: ha comprato due biglietti aerei per la Georgia e ci sono andati insieme.

Hanno assaggiato, osservato, imparato da chi utilizza questo metodo da millenni. Insieme hanno deciso di tentare questa strana via, e insieme si sono emozionati il giorno in cui hanno visto arrivare il tir con le nostre sei gigantesche anfore». La vinificazione in anfora è molto antica: un tempo praticata in tutto il bacino del Mediterraneo, è stata riscoperto una ventina d’anni fa dall’enologo Josko Gravner dopo un viaggio in Georgia. Utilizzate lo stesso metodo ancora in uso tra i georgiani? «Non proprio, interpretiamo la vinificazione in anfora a modo nostro, utilizzando una lunga esperienza con le fermentazioni e le macerazioni a cappello sommerso. Usiamo canne di bambù, per confinare le bucce delle uve al di sotto del pelo libero del vino, le manteniamo immerse ma separate dal liquido, per spostare il più in là possibile il momento della loro separazione definitiva. È un piccolo tradimento della tradizione georgiana. Lo sappiamo, ma tradimento e tradizione hanno etimo comune, proprio perché la tradizione cambia e si rigenera, nel tempo, attraverso tanti piccoli tradimenti che noi siamo abituati a chiamare cambiamenti». Ciò cosa produce nel vino? «La verità è che non sappiamo esattamente ciò che le anfore daranno ai nostri vini. Fa parte del loro mistero. Ci basta sapere ciò che danno a noi e siamo certi che, a nostra volta, noi lo restituiremo ai nostri vini. D’altronde per migliaia di anni, prima che la scienza soppiantasse il mito, prima che i protocolli sostituissero i ritua-

li, l’uomo ha sotterrato oggetti, affidandoli, speranzoso, alle benefiche forze telluriche, capaci di rinnovare e trasmettere energia vitale a tali oggetti. Questa pratica atavica ci ha spinto ad interrare le anfore in terracotta e ad affidare a loro la cura dei nostri vini. Il luogo in cui sono allineate è divenuto la nostra sala di aspetto. Qui, attendiamo fiduciosi i nostri vini prima di condividerli con voi: saranno gli stessi consumatori a dirci, assaggiandoli, quali siano le differenze tra lo steso vino prodotto sia in botte che in anfora. Saranno loro stessi a testare i diversi gusti, e a rimanere affascinati dal modo in cui un vitigno bistrattato come il Cortese, oppure uno inflazionato come il Barbera, possano assumere un gusto del tutto inedito. A riprova che non è tanto l’uva a fare il buon vino, ma piuttosto il tempo. E, ovviamente, la mano saggia di chi lo lavora». Di cosa sono fatte queste anfore? E come sono arrivate qui? «Alte più di due metri, le anfore georgiane sono fatte di terracotta e contengono tra i 1400 e i 2000 litri l’una. Rivestite internamente di cera d’api, sono state interrate direttamente nel pavimento della cantina dopo un viaggio lungo e pericoloso. Pericoloso perchè nonostante siano tanto grandi sono anche molto fragili, e spesso e volentieri si rompono nel tragitto. Per questo le nostre hanno fatto tappa in Croazia: lì c’è un artigiano che ripara e imballa quelle che sopravvivono alla prima fase del viaggio» Tutto ciò non sarà molto affascinante ma commercialmente poco appetibile? «Noi non vogliamo piacere per forza a tutti e non puntiamo a raggiungere nessuno standard riconosciuto. Anzi, riteniamo che siano stati proprio gli standard ad appiattire il mercato enologico, motivo per cui cerchiamo di raggiungere risultati originali con un approccio alternativo. Non ci spaventano i tempi lunghi di macerazione e non abbiamo paura di sperimentare, ma soprattutto consideriamo il vino come un prodotto culturale prima che commerciale, frutto del lavoro dell’uomo e della sua esperienza». di Serena Simula


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GODIASCO SALICE TERME

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Terme di Salice: quando una clausola “ridicola” blocca un imprenditore La profonda crisi che ha colpito le Terme di Salice, conclusasi con il fallimento - tre anni orsono - ha visto le prime tre aste andare deserte. Si è partiti da poco più di 5 milioni di euro della prima asta per arrivare, alla quarta asta, ad un prezzo minimo che si aggira sul milione e mezzo di euro. E finalmente c’è un’offerta: quella di Roberto Santinoli. Sono molti i motivi che hanno spinto diversi imprenditori a lasciare Salice Terme e a spostare le loro attenzioni in altre zone che ritengono in “ascesa”, mentre Salice Terme, volenti o nolenti è in “discesa”. Molti hanno ceduto e cedono a questa tentazione. Altri, al contrario, resistono. E lo fanno perché credono profondamente che la scelta di restare a Salice Terme, nonostante le molte difficoltà, possa fare la differenza e, nel lungo periodo, ripagare gli sforzi. Dopo aver acquisito all’asta nei mesi scorsi, l’oramai chiuso da anni, Nuovo Hotel Terme, (albergo che è sempre stato di proprietà delle Terme di Salice, fino a quando l’ultimo “gruppo romano” lo ha scippato alle Terme nel silenzio imbarazzato, prima, durante e dopo la vicenda, di molti che stupidamente non si sono resi conto di quello che i “romani” stavano facendo per ricavarne “benefici” economici) Roberto Santinoli, tangibilmente, e tangibilmente perchè per partecipare ad un’asta non servono le idee e le parole, bisogna fornire garanzie economiche concrete, ha deciso di partecipare all’ultima asta delle Terme di Salice, presentando la sua offerta. Al momento l’unica al di là delle speranzose dichiarazioni del Geometra Sindaco Fabio Riva, che dal momento del fallimento Terme, si augura e preannucia o fa preannunciare l’arrivo di imprenditori interessati all’acquisto del complesso termale. Roberto Santinoli conosceva bene, molto bene, la “strana” clausola secondo cui un imprenditore non può partecipare all’asta delle Terme di Salice se non ha prima e per x mesi, svolto attività nel settore termale, clausola che non ha nè capo nè coda, perchè sarebbe come dire che per comperare un cavallo da corsa bisogna essere stato prima fantino, quando invece basterrebbe più giustamente dire che chiunque può acquistare un cavallo da corsa purchè lo faccia correre montato da un fantino. Ma pur conoscendo la clausola, dopo aver presentato garanzie economiche concrete e vincolanti, ha rivolto comunque al curatore fallimentare la propria offerta, che è stata respinta. Di seguito potete leggere il perchè Roberto Santinoli ha presentato la propria offerta e perchè non ha intezione di demordere. di Nilo Combi

Cari lettori, ho chiesto questo spazio perché sentivo la necessità di spiegare, a tutti coloro che hanno a cuore Salice Terme, la mia visione della situazione, le ragioni che mi hanno spinto sin qui ad agire ed i miei intendimenti. Innanzitutto, mi presento. Sono Roberto Santinoli, classe 1940, ed ho dedicato la vita alla gestione di varie attività ricettive e ludico – ricreative in Salice Terme: Nuovo hotel, bar gelateria Caffè Bagni, dancing La Buca, piscina Lido, discoteca Naki, Club House, etc. Seguendo le orme di mio padre Leo e di mio nonno. Al mio fianco per quasi tutto il mio percorso lavorativo c’è stato mio fratello Franco mentre, da qualche anno, supportato dall’anagrafe favorevole, c’è Leo, mio figlio. Sono e siamo sempre stati qui, in difesa dei nostri Esercizi ma volonterosi di legare all’interesse familiare quello di una comunità, di un territorio che tanto ci ha dato ed al quale abbiamo sempre sentito di voler restituire. Tornando all’attualità, e considerando la situazione di stasi in cui le Terme S.p.A. versano da ormai tre anni, mi sono deciso a fare qualcosa per permettere una ripresa, che non può prescindere da una riattivazione sensata dell’attività termale ed alberghiera.

Con questo convincimento, ad inizio novembre ho partecipato all’asta del Nuovo Hotel Terme, aggiudicandomi una struttura alberghiera chiusa da tempo ma che in passato ha scritto la storia dell’ospitalità salicese. Venti giorni dopo ho partecipato all’asta dello Stabilimento Termale e Complesso Aziendale delle Terme di Salice. In questo caso però, in base alle imposizioni contenute nel bando predisposto dal Curatore Fallimentare, non ero in possesso del requisito previsto all’art. 4 punto 1: l’aver operato nel settore delle cure termali, o delle attività legate alla cura e benessere, negli ultimi 36 mesi. A tal riguardo è bene che renda noto il contenuto della PEC da me inviata al Curatore Dott. Nannoni in data 19/11/20, pochi giorni prima della suddetta asta. Chi volesse leggerlo integralmente lo trova pubblicato sul mio profilo Facebook “Roberto Santinoli”; chi invece si accontentasse della sintesi la trova a seguire. In sostanza, ho palesato la mia profonda delusione per come, a mio avviso, il bando articolato in quel modo limiti grandemente la possibile partecipazione, ledendo sia l’interesse dei creditori (in particolare degli ex dipendenti dello stabilimento) che di tutti coloro che hanno a cuore il bene e la ripartenza del paese. Di “comico” invece ho rilevato che se esiste una limitazione al diritto di partecipazione al bando, riser-

vandolo a pochi, non esista però alcuna clausola che imponga all’assegnatario di continuare nella gestione termale! Possibile che se per acquistare occorre obbligatoriamente essere imprenditore del settore termale, nulla vieti, dopo l’assegnazione, una conversione in bingo o in slot o in tante salette massaggi? Strano! Molto strano sapendo per giunta che nessuno di coloro che si sono alternati alla guida delle Terme di Salice, dalla privatizzazione dello stabilimento in poi, fosse in possesso del requisito richiesto in questo bando! È invece per lo meno curioso che neppure sia previsto alcun requisito per l’esercizio delle altre attività inserite nel bando, attività che in questi ultimi anni, da quando lo stabilimento termale ha chiuso, hanno mantenuto viva Salice Terme. A PEC inviata spero risulti chiaro che la mia partecipazione all’asta, avvenuta qualche giorno dopo, sia stata agita in piena coscienza che non si sarebbe mai concretizzata l’assegnazione a mio favore; il mio fine però, almeno in quella fase, era un altro: lanciare un messaggio FORTE. Un messaggio che smuova chi ormai da troppo tempo rimane inerme, fermo nel sogno dell’arrivo di fantomatici russi/cinesi/emiri o addirittura fondi internazionali d’investimento che con vagoni d’oro salverebbero la situazione.


GODIASCO SALICE TERME Se è vero che le illusioni confortano è giunto il momento di svegliarsi. E chi possiede il coraggio di d’indagare nel passato di Salice Terme scoprirà che, ad esempio, nel lontano 1955 un importante gruppo nazionale stipulò un accordo con la società delle Terme gestire le attività del comparto, e vi riuscì dichiarando di voler investire ingenti somme per molteplici rifacimenti. Al termine dei lavori detto gruppo si dileguò, e le spese finirono a carico, manco a dirlo, della Società delle Terme. Ed ancora più recentemente, gruppi come Januzzelli, Garilli (operante nel settore gas ed energia elettrica), con notevoli disponibilità finanziarie, pure loro si dileguarono. Oppure il gruppo Fabiani, che addirittura presentò un progetto per la realizzazione di un’enorme piscina dove un tempo si teneva il concorso Ippico, non considerando però che a Salice Terme non c’è acqua calda ed abbandonando quindi l’impresa. Per terminare con l’alternarsi di soggetti sia locali (ricordo Rosada con l’Avv. Vertua) sia “di fuori”, come il gruppo romano di cui si è sempre saputo poco se non che ha consegnato i libri in tribunali. Questo significa che di salvatori sul cavallo bianco Salice non ne ha mai visti. Lo dice la storia, e ci tenevo a ricordarlo soprattutto ai tanti appassionati di favolistica che imperversano su web e carta stampata. È vero, io non sono un magnate russo, certo non impersonifico il giovane ed aiutante imprenditore e sicuramente non mi lancerò in proclami dell’assurdo perché i

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Roberto Santinoli

soldi per l’acquisto, io li devo chiedere alle banche che “potrebbero anche essere d’accordo”, ma dal canto mio posso esporre sul tavolo fatti inoppugnabili. Come, per esempio, che sinora sono stato l’unico a dimostrare un interesse concreto, presentando l’offerta con annessa caparra (non chiacchiere da bar!) oppure che ho 50 anni di storia personale d’investimenti in questa località. Con la conversione in Euro, durante la mia sola gestione ho speso milioni per migliorie, permessi, concessioni, ristrutturazioni e rifacimenti, il tutto investito in strutture non di mia proprietà, ma che ho sempre trattato come se lo fossero. Quindi se la salute, le banche ed il supporto di chi la pensa nel mio stesso modo

mi sosterranno, lotterò per fare in modo che le Terme non vengano affidate a chi è solo capace di promettere e mai di dare, o a chi non avrà mai un vero, reale attaccamento a questa terra. Perché le Terme di Salice ed il parco sono un bene immenso per il nostro paese, la comunità e l’Oltrepo. Prima di concludere, vi lascio una piccola riflessione sul Grand Hotel, che nella fantasia dei più dovrebbe essere la prima struttura a ricevere l’attenzione degli investitori. Io non la penso affatto così e seppur lo reputi un simbolo, ho la fredda consapevolezza, data dai numeri, che in questa fase storica l’investimento richiesto per ripristinare un edificio del genere non avrebbe mai e poi mai sostenibilità economica.

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Non si può far altro che aspettare, con la prontezza di cogliere eventuali opportunità di sostegno Statale o della Comunità Europea, ricordandosi sempre che “se un problema non può essere risolto non è un problema”. Quindi certamente meglio non perdere tempo e risorse e dedicarsi a ciò che si può fare subito e che subito possa portare risultati concreti. Mi auguro davvero che questo messaggio abbia reso comprensibili le mie intenzioni, da non confondere con la volontà d’improvvisarsi in qualcosa in cui non sarei capace e che forse non avrei neppure il tempo biologico di portare a termine. La mia visione esperta mi fa avere la presunzione di conoscere la direzione da tenere per un progetto al riparo da insidie e nuove speculazioni. Esperienza che certo mi piacerebbe venisse integrata con altre competenze e risorse. Proprio a questo proposito, mi auguro di ricevere la telefonata di qualche imprenditore fattivamente interessato a collaborare, o di qualche politico determinato a pretendere chiarezza e tutele per un’asta determinante per le sorti di questa comunità. Al prossimo bando io ci sarò, questa volta con un partner che abbia i requisiti richiesti, e con il supporto dall’Avv. Valmori, cercherò di guidare la società neo-costituita all’aggiudicazione non solo per salvaguardere le attività già attive, ma per rilanciare l’indotto globale perché le Terme di Salice devono tornare ad esistere per il bene di tutto il territorio circostante. Roberto Santinoli


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C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò

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“Al Mäterasè”, ieri e oggi Di Giuliano Cereghini Fiera di San Martino di tanti, tanti anni fa, sessanta, sessantacinque o più. Alle sei del mattino provenienti da tre direzioni, valle Ardivestra, valle Staffora e statale per Voghera, giungeva a Godiasco l’umanità più varia che mente umana possa immaginare: carri, carretti, buoi, scarne vacchette varzesi, galline, capponi, tacchinelle e, dulcis in fundo, maialetti appena svezzati da un paio di mesi. La vera fiera del bestiame era quella di Agosto (la mitica fera d’ägust) ma anche a San Martino qualche animale era presente. L’acquisto poi dei maialetti era tradizione: in fattoria lo stazzo principale (stàbi) era occupato dai maiali sacrificabili in dicembre o gennaio, ai due piccolini spesso trasportati in una cestina agganciata al manubrio della bicicletta e protetta da un fazzolettone di tela ruvida (päntôn), era riservato un piccolo stazzo (stabië) spesso ricavato sotto il forno riscaldato una o due volte la settimana. I due maialini, coccolati da grandi e piccini, vezzeggiati con pastoni caldi, qualche mela e patate lessate con la crusca, disponevano in tal modo, di una sorta di riscaldamento centralizzato che, nelle fredde notti d’Oltrepo, li confortava assai. La varia umanità di cui sopra vociante ed allegra si riversava sui banchi e banchetti allestiti nelle due piazze del paese vendendo i loro prodotti o acquistando quelli posti in vendita. Un’altra tradizione era l’acquisto del torrone il primo, ed a volte anche l’unico, affidato alle golose bramosie dei piccoli. E il materassaio? (mäterasè o mätaräsè). Arriva anche lui. In un angolo della piazza principale un ometto buffo quasi una caricatura, montava un piccolo traliccio, sistemava assi di legno sullo stesso e sopra le assi adagiava uno troneggiante materasso grigio a righine di un pallido azzurrino. Era piccolo, sulla cinquantina, con un vestito di velluto grigio e un panciotto sul quale troneggiava una catena d’oro che sorreggeva un enorme portafoglio a fi-

L’Antico Materassificio Italiano nasce a Voghera nel lontano 1936

sarmonica. Mani nodose di un artigiano lavoratore, occhietti sfuggenti ed indagatori e due imponenti mustacchi. Neri, curatissimi, curvati prima in basso e poi in alto, a manubrio ma non di un semplice velocipide, la curva verso l’alto ricordava il manubrio di una bicicletta da corsa. Col senno di poi, ricordava Steva della commedia di Gilberto Govi, ‘manesi pe majà una figia’ (maneggi per maritare una figlia). Piccolo era, ma vociava come un ossesso magnificando i sui materassi e i sui cuscini. “Gentil signora, signorina da marito, avvicinatevi; ammirate l’opera di un modesto artigiano, toccate con mano i miei manufatti, dureranno tutta una vita e vi accoglieranno caldi ed invitanti nei vostri momenti migliori. Gli anziani si affideranno al caldo abbraccio del materasso e i giovani sogneranno altri abbracci o li metteranno in pratica se regolarmente sposati... o no!”

A queste parole alcune si ritraevano abbassando gli occhi salvo ritornare pochi istanti dopo. Altre ridevano di gusto e chiedevano informazioni tecniche sui materiali, sulla lana o la piuma (rigidamente di gallina s’intende!), sulle molle o sulla cucitura. L’imbonitore, per dimostrare la qualità e la resistenza del prodotto, chiamava un bimbetto di sette o otto anni, un nipotino paffuto e sorridente come non era il nonno. Lo istallava sul materasso e questi, prima in piedi saltellando e quindi coricato dimenandosi buffamente, testava il prodotto. Le spose guardavano soddisfatte e si ritraevano quando lo scaltro venditore, chiedeva loro di coricarsi, di provare il caldo abbraccio del suo mobile, cosi definiva il materasso. Per tutta la mattinata e per buona parte del pomeriggio il poveretto e la sua piccola vittima, si affannavano ad illustrare uno splendido materasso artigianale a donne che spesso rispondevano “m’intärèsa no, ägl’hö ä ca me cullì” (non m’interesso, a casa ne ho uno uguale) spesso mentendo spudoratamente. A casa molti dormivano su un ignobile pagliericcio di penna di gallina o addirittura di brattea della pannocchia di granoturco (scärtòs). Altri ancora disponevano di un “estate-inverno” formato da una sacca inferiore con la calda piuma di gallina e la sacca superiore ripiena di paglia di grano e scärtòs. Un altro artigiano del materasso aveva bottega a Voghera dove accoglieva clienti che trasportavano presso di lui materassi esausti, deformati dall’uso e dai lavaggi improvvisati non esistendo cerniere per togliere la prima copertura. Stivati su un carretto trascinato stancamente da un cavallino o

dal mulo, i baldi trasportatori di una volta recapitavano presso il suo laboratorio materassi, cuscini e trapunte da sistemare. Eseguiva il lavoro, riconsegnava la merce quasi irriconoscibile per colori, pulizia e rimodellatura in cambio di pochi soldi. Dai più poveri accettava pagamenti in natura: uova, capponi o qualche tacchinella d’annata. Di tanto in tanto, percorreva le contrade dei paesini dell’alto Oltrepò prestando la sua opera a domicilio. Si sistemava sul tavolo della sala (non era il minuscolo salotto delle case moderne, era una grande stanza con pochi mobili ma, al centro, troneggiava un grande tavolo usato spesso per pranzi e cene pantagrueliche annaffiate dai migliori vini del padrone di casa), sistemava il materasso, lo scuciva da un lato, estraeva la lana che ‘cardava’ così veniva definito il lavoro di un grande pettine di legno e uno più piccolo d’osso (detto sgärdinôn) rendendo la lana soffice. La lavava all’esterno in grandi tinozze, la metteva ad asciugare e quindi, ripeteva l’operazione di cardatura. Rimetteva la lana a suo posto e con aghi giganteschi e robusti filo di canapa ricuciva i bordi della tela anch’essa lavata. Si fermava tutto il giorno spesso pranzando in famiglia. Al calare delle prime ombre della sera rimontava in bicicletta, avvicinava la piccola dinamo al palmer della ruota e, alla fioca luce di un faretto tremolante, si avviava verso Voghera con un piccolo gruzzolo o un salame di suino. Questo era il mondo contadino di una volta, il mondo che appartiene ad una realtà perduta, ad un’armonia che profumava di cose semplici. Oggi per riposare le stanche membra o ci si rivolge a catene


C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò commerciali poco serie che, per pochi danari, ti inviano poco prodotto per di più scadente. Oppure campagne pubblicitarie di centinaia di migliaia di ero, fino ad un milione, leggevo giorni or sono: ti imbandiscono prodotti i cui prezzi o risentono dei costi pubblicitari o sono scadenti. Con un materasso poi, ti ammollano cuscini, federe, trapunte, lenzuola, pigiami, ciucci per i più piccoli e pipe per i nonni! In realtà ti propinano una serie di.....pippe o sole alla romana. Se poi chiedi un intervento di manutenzione o esponi un difetto emerso, ti ritrovi a colloquiare con una bulgara che in un italiano improbabile, ti dice che call center paga tariffa italiana, “se signore vuole materasso lei manda un architetto!! a prendere misure letto, se vuole solo trapunta ricevere dopo due giorni pagamento consegna. Se non piace colore, rispedire con colore richiesto. Seconda consegna in data destinarsi” (fatterello realmente accaduto). Grazie dell’informazione ma si voleva sapere a chi rivolgersi per denunciare un difetto. “Io no difetto, non capire” e riattacca. Inutile riprovare. Per fortuna nel settore esiste ancora l’artigianato puro, modernizzato ma ancora legato alla manualità, all’esperienza e alla continua ricerca di materia prima di qualità superiore e alle migliori tecniche di lavorazione. L’Antico Materassificio Italiano di Voghera nato nel lontano 1936, risponde alle caratteristiche tutte di cui sopra. Abilmente condotto da Annalisa Rolandi, artigiana prima ancora che menager dell’azienda composta da una luminosa esposizione e da un annesso laboratorio per la realizzazione di parte dei prodotti e la manutenzione degli stessi. Annalisa è fiera di essere figlia di contadini di Montesegale dove, per altro vive, in località Frascate di Montesegale. Dal padre Giulio e dalla adorata mamma Carla ha tratto i valori più profondi della civiltà contadina: l’onestà, la dedizione al proprio lavoro, la costanza e il rispetto delle persone che si parano di fronte a lei, siano clienti, amici o semplici conoscenti. Tosta poi, risoluta e decisa con il sorriso di chi non bara, non vende fumo o vuote chiacchiere. A diciannove anni, terminati gli studi, inizia quest’attività artigianale a Rivanazzano. A trentacinque apre un pro-

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prio laboratorio-esposizione a Voghera in via Piacenza. In Sicilia, a Carini, visita un antico laboratorio che tra l’altro, tratta in maniera innovativa il Talalay, lattice derivato dalla lavorazione del cauciù, da cui ottiene una schiuma vulcanizzata elastica, compatta, stabile, durevole e antiallergica. Inizia una fattiva collaborazione che dura tuttora, affiancando questi sistemi innovativi a quelli più tradizionali per la realizzazione di un prodotto d’eccellenza. Materassi di ogni tipo, su misura, manutenzione degli stessi, riparazioni di guasti accidentali ed eventuale ritiro e cambio dell’usato. Ciò che colpisce in questa giovin Signora è il tratto umano, la cordialità filtrata da una determinazione non comune. Nel suo ufficio troneggia una stampa riportante un pensiero di Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica italiana: “Migliaia, milioni di individui lavorano e risparmiano nonostante tutto quello che noi (politici) possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge: non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno”. Parole scritte nel lontano 1949, attualissime e stranamente poste in bella mostra cinquant’anni dopo, da un’imprenditrice quarantenne. Forse non a caso: i vizzi della politica si perpetuano nei secoli e così la costanza e la determinazione degli italiani più tosti. Soprattutto in periodi come questi, di tribolazioni, paure e difficoltà economiche dovremmo imparare a “comperare italiano”, a rivolgersi ai nostri artigiani, anche egoisticamente pensando al PIL (prodotto interno lordo) e certi che dagli artigiani troveremo i prodotti migliori, il made in Italy qualificato e l’assistenza più cordiale. Premiando i nostri artigiani, aiuteremo questa splendida e vituperata Italietta, aiuteremo noi stessi, i nostri figli e i nostri nipoti. Annalisa, parlando con lei emerge l’amore per la sua terra e per le sue origini contadine. Quali valori ne ha tratto? «Soprattutto l’impegno, la dedizione e l’amore per il proprio lavoro. Valori a me

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Annalisa Rolandi, artigiana e manager d’azienda

trasmessi da due splendidi genitori, come unico modo per realizzare i propri sogni». Oggi è più manager che artigiana pur trattando prodotti artigianali, che importanza attribuisce al marcketing e alla pubblicità nel suo lavoro? «Ai giorni nostri non è semplice stare sul mercato, oggi sono manager per necessità e artigiana per passione. Sfruttiamo ogni occasione per pubblicizzare un prodotto di qualità, italiano e artigianale. A 19 anni sono entrata in un laboratorio artigiano ed ho imparato le tecniche per il confezionamento di un materasso, credo che oggi oltre alle conoscenze delle strategie di vendita e di mercato, un buon manager, quale cerco di essere, debba conoscere bene il suo prodotto e le peculiarità della sua commercializzazione. Per stare sul mercato, oggi occorre essere artigiani, tecnici-imprenditori e manager. L’interazione tra tutte queste figure ed attività è il nodo indispensabile per produrre e vendere con successo». Alle spalle della sua scrivania c’è una stampa con le parole di Einaudi e una sua personale considerazione sulla “Squadra” nel lavoro. «Porto con me le sagge parole di Einaudi da almeno 15 anni: ne ho tratto la convinzione che un imprenditore debba mettere in campo, ogni giorno, il meglio di sè, non “mollando” mai. Per me il punto vendita e laboratorio

dell’Antico Materassificio Italiano che ho attivato a Voghera è un sogno che, con altri, tento di realizzare. Il successo di un imprenditore non è mai il singolo frutto del proprio impegno: a Carini sede del menzionato materassificio artigianale, ho capito che prima di scegliere un marchio o un prodotto, bisogna scegliere le persone, ho trovato competenze artigianali, imprenditoriali e manageriali d’eccellenza con le quali mi sono integrata. Con il direttore Generale Madolio, il direttore commerciale Antonio D’Acquisto, il direttore finanziario Maurizio Cuneo e tutti gli artigiani impegnati, ho trovato eccellenze di squadra che mi hanno colpito ed oggi mi rendono orgogliosa di farne parte». Per chiudere, copiando vergognosamente un noto domandologo, le chiedo “Si faccia una domanda e si dia una risposta” «I nostri materassi possono far ben riposare le persone? Sicuramente sì, riposare bene non dormire. Si dorme per stanchezza ma si riposa per sognare. I nostri prodotti sono studiati con cura e realizzati con materiali d’eccellenza e con alta professionalità artigianale». Ancora: la miglior base su cui sognare? «Sicuramente il nostro prodotto di punta il Talamedica, che come dice un inserto pubblicitario “dal 1936... sostiene i sogni degli italiani”».



SANTA MARGHERITA STAFFORA

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«Il nostro un vino eccellente che però rimane sul posto» Cignolo – piccola frazione del Comune di Santa Margherita di Staffora – sembrerebbe uno dei tanti paesini di montagna, poco abitati e difficili da raggiungere, se non fosse per un particolare che lo distingue da tutti gli altri: la coltivazione della vita e il vino. Un vino così buono al punto da dedicargli una festa. Da venti anni a questa parte infatti, nel mese di agosto la Festa delle Cantine di Cignolo richiama turisti da tutta la provincia e non solo, un evento che oltre al tradizionale giro delle cantine con punti di ristoro offerti dagli ospitali abitanti prevede la tradizionale musica delle 4 province. Ne parliamo con Mattia Masanta, consigliere comunale, che ha deciso di portare avanti la tradizionale cultura del vino di questo territorio e che ci racconta la storia di queste cantine, talvolta usate in un modo un po’ diverso dalle altre classiche disseminate in tutto l’Oltrepò. Le cantine di Cignolo rappresentano la grande particolarità di questo territorio. Qual è la loro storia? «Ho fatto una ricerca in merito e la loro storia risale al lontano 1700. Solo per questo ci sentiamo dei privilegiati, i nostri vigneti sono indubbiamente storici». Un territorio montano quello di Cignolo con caratteristiche molto diverse dall’Oltrepò del vino per eccellenza, pensiamo alla Valleversa ad esempio. Che tipologia di vite si adatta a questo territorio? «Le nostre viti sono particolarmente forti, nonostante rimangano meno ore esposte al sole dato che ci troviamo sul lato sinistro dello Staffora e questo perché ci sono fasce di terreno che conferiscono all’uva le sue caratteristiche. Coltiviamo uve Croà (Cruà nella tipica espressione dialettale), coltivazione che è stata tramandata di generazione in generazione, allo stesso modo le cantine. Il nostro è un vino IGT (indicazione geografica tipica) che grazie alla sua straordinaria bontà, è diventato nel tempo molto apprezzato». Cosa ha reso particolari le vostre cantine? «Non erano “solo” cantine, ma venivano usate un tempo come vere e proprie abitazioni. Per esempio: un contadino sorpreso dal temporale durante il lavoro nei campi, trovava rifugio in cantina, qui aveva tutto il necessario per lavorare, oltre che alla stufa per riscaldarsi ed ad una dispensa ricca di cibo. La stufa in cantina serviva anche per facilitare la fermentazione del vino che con un clima un po’ rigido come il nostro, rischiava di arrestarsi, ecco così che il calore prodotto dalla stufa gli permetteva

di fermentare. In queste cantine inoltre i nostri nonni si ritrovavano a fine giornata o durante una pausa tra un lavoro e l’altro, per chiacchierare e confrontarsi e le famiglie qui si riunivano numerose per mangiare tutti insieme». È vero che qualche tempo fa il governo erogava fondi agli agricoltori di questa zona affinchè estirpassero i vitigni per dedicarsi ad altre colture? «Sì è vero. Ma noi abbiamo preferito tenere i nostri vigneti. Questa è l’unica zona dell’Oltrepò ad avere le cantine, si dovrebbero valorizzare e non distruggere. Penso alla fascia di territorio verso Bosmenso, nel Comune di Varzi, anche lì ci sono tante cantine abbandonate, sarebbe bello poterle recuperare prima che siano coperte interamente dal bosco». Il vostro vino, riconosciuto come un ottimo vino, tuttavia non riesce a trovare posto nel mercato. Perché? «È buonissimo e non si trova da nessuna altra parte e lo testimonia il fatto che tantissimi turisti vengono da ogni parte della Provincia e non solo per la tradizionale Festa delle Cantine, il problema è che non viene prodotto in quantità tale da consentire l’ingresso sul mercato. Un vino eccellente che però rimane sul posto». Si dice che i vostri nonni lo usassero come merce di scambio… «Esatto, in tempo di guerra, come mio nonno mi raccontava, tanti partivano da Genova a dorso di un mulo e percorrendo la via del Sale, arrivavano quassù per barattare le loro merci, sale compreso, in cambio del nostro vino e anche del grano qui coltivato. L’obbiettivo dei nostri nonni era di produrlo per la propria famiglia dato che ne consumavano in gran quantità, di fatti era l’unica bevanda in quell’epoca, sia in estate che in inverno». Le nuove generazioni continueranno questa attività secondo il suo sentore? «Domanda difficile ma si spera proprio di sì. D’altronde cosa potrebbe fermare qui un giovane se non la passione per il lavoro nei campi? Oltre a questa forte motivazione che sta alla base, sarebbe però necessario che le istituzioni incentivassero i giovani a restare, ci vorrebbe qualcuno con una grande capacità imprenditoriale che attraverso l’istituzione ad esempio di una Cooperativa, unisse le forze, solo così si potrebbero ottenere maggiori risultati e si potrebbe allora parlare di un buon vino prodotto in bottiglia e messo sul mercato». È faticoso e costoso produrre vino qui in montagna? «Il problema principale è la mancanza

Mattia Masanta, consigliere comunale e viticoltore

caso si potrebbero fare tante cose… Occorre qualcuno che si interessi e che intervenga. Tra parentesi, l’agricoltura non può “essere fatta” da seduti all’Università, o meglio non solo, ma stando veramente a contatto con la terra per studiarla, il lavoro manuale e l’esperienza dei nostri vecchi sono i metodi più efficaci». Per concludere, leggendo un importante portale di vendita case, un annuncio che vi riguarda ci ha colpito “Vendesi casa con Cantina”. In un periodo come questo di emergenza sanitaria e di un ritorno ai piccoli borghi da parte di chi ora vive in città, avere una cantina è un valore aggiunto? «Assolutamente sì, significa aggiungere alla casa un valore non solo economico ma soprattutto storico e culturale». di Stefania Marchetti

«Le nostre cantine sono un valore aggiunto, non solo economico, ma soprattutto storico e culturale»

di forza lavoro. La raccolta dell’uva e la lavorazione vengono fatte manualmente perché il prodotto sia genuino. Fatti due conti, fatica più eventuali imprevisti, ecco che qualcuno sceglie di lavorare altrove». Questi vigneti necessitano di particolari trattamenti? «Purtroppo la vite di per sè può avere alcuni problemi durante l’anno, come essere attaccata da alcuni funghi ad esempio la peronospora. Qui siamo abbastanza fortunati, abbiamo un clima particolare che ci aiuta, queste viti nel loro habitat naturale sono molto resistenti e i pochi prodotti che usiamo come il rame, fanno effetto». Avete mai preso in considerazione di diversificare la cultura? «Certo, già lo facciamo. Coltiviamo anche mele (la pomella), pere, ciliegie, grano. Sul territorio ci sono ancora dei mulini, purtroppo inattivi e anche in questo

Veduta di Cignolo e delle sue cantine





BORGO PRIOLO

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Frana di Ghiaie, «Buttati via 400mila euro per un intervento faraonico e per niente risolutivo» Un problema ancora irrisolto, quello della frana. Parola della minoranza di Borgo Priolo, che, attraverso il nostro giornale, decide di fare luce su alcune criticità che riguardano il paese. Carlo Forlino, consigliere capogruppo di minoranza, inizia a parlare proprio del problema della frana, che riguarda la frazione di Ghiaie dei Risi e che minaccia le abitazioni presenti in quella zona. Forlino, questione frana. Cosa non vi quadra? «Intanto va detto che il movimento franoso non è ancora stato sistemato. è stato tamponato a febbraio dell’anno scorso, quando si era rimesso in movimento il mese precedente: in quella occasione erano state rese inagibili diverse abitazioni di quella zona. Questo aveva già dimostrato che il lavoro svolto nel 2017, da quasi 400 mila euro, era stato totalmente inutile». Come minoranza come vi siete mossi? «A febbraio di quest’anno abbiamo chiesto un consiglio comunale d’urgenza per discutere di questo problema e abbiamo fatto un’interpellanza per capire come mai l’intervento fatto sulla frana, così dispendioso sia stato così inutile. Prima di presentare quell’interpellanza naturalmente siamo andati a chiedere tutta la documentazione relativa alla vicenda: non sono un tecnico, ma sono comunque un perito agrario e non ho riscontrato particolari problemi a leggere tale documentazione, da cui si evinceva, dalla prima relazione geologica fatta dallo studio Saleri, dove era il piano di accumulo dell’acqua. Una relazione che, in fase di progetto,

sembra che non sia stata presa in considerazione». Come mai? «Hanno preferito studiare e realizzare un intervento faraonico e molto dispendioso, che però non è stato per niente risolutivo, anzi. Sono stati buttati via quasi 400 mila euro, di contributo pubblico da parte di Regione Lombardia». Si poteva quindi evitare di spendere così tanti soldi? «Di spendere così tanti soldi sì, decisamente. È stato fatto un lavoro che ha lasciato perplessi anche gli abitanti della zona, perché hanno cercato di sistemare una frana senza un drenaggio. Anche i controlli sono stati fatti in maniera molto grossolana: dovevano essere tutti segnati in un registro, ma questo documento io non l’ho mai visto. Fatto sta che, per questa frana, si sono spesi quei soldi nel 2017, poi altri 80 mila circa a febbraio di quest’anno per tamponare la situazione e adesso ci sarà un nuovo lavoro da fare. è stato infatti deliberato un ulteriore contributo di 800 mila euro, sempre da Regione Lombardia, tramite la Comunità Montana, per il dissesto idrogeologico, che pare verrà utilizzato in parte sempre per sistemare la frana di Ghiaie». È pur vero che sono soldi ottenuti da contributi esterni alle casse comunali, ma sono comunque tanti soldi... «Da una parte sì, per fortuna sono contributi e c’è stata la capacità che va riconosciuta, di ottenerli. Dall’altro pensare che vengano spesi tutti questi soldi per sistemare un problema solo spiace, anche

perchè i problemi da risolvere nel Comune sono parecchi». A quali nello specifico si riferisce? «Di cose da fare ce ne sarebbero molte! Negli ultimi anni è stato fatto veramente poco, a parte le solite strade da asfaltare. C’è il problema, sempre per il dissesto idrogeologico, di risolvere in alcuni punti critici le inondazioni dei fossi. Non bisogna sempre farsi trovare impreparati quando arriva il maltempo». Secondo lei cosa si potrebbe fare per risolvere la questione? «Sicuramente la manutenzione ordinaria. Poi bisogna prestare attenzione, sempre. Anche magari sentendo maggiormente la minoranza, anche per chiedere informazioni o consigli se la Giunta non arriva dappertutto. Ci si può aiutare. Quello che mi spiace è vedere che a volte sembra che ci sia un atteggiamento di menefreghismo da parte dell’amministrazione. Per noi della minoranza è la prima esperienza comunale, ma ci sembra che nella parte della maggioranza ci siano persone che vengono in consiglio solo per alzare la mano e fare le votazioni e che non si interessino dei punti all’ordine del giorno. Non c’è uno che parli o che faccia un’obiezione su qualcosa… Questo atteggiamento è - secondo me - quello che ha portato anche all’intervento inutile sulla frana: si è data totale fiducia ai progettisti, senza andare a verificare la situazione e questo è il risultato. In questo caso parlo sia della minoranza che della maggioranza che c’era allora». Un appello alla Giunta comunale...

Carlo Forlino, capogruppo di minoranza

«Mi aspetto di sicuro una maggiore informazione da parte della maggioranza, sia a noi consiglieri che ai cittadini, che dovrebbero essere resi partecipi di quello che succede. E poi che quando chiediamo qualcosa in consiglio non ci venga sempre risposto di andare all’ufficio tecnico o negli altri uffici competenti per avere informazioni: gradiremmo avere risposte dall’amministrazione. Sembra quasi che la Giunta non sia abituata ad avere una minoranza, ma noi ci siamo e devono tenerne conto». di Elisa Ajelli



SANTA GIULETTA

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«La mia riabilitazione? Ho cominciato nel 2016, conquistando un metro per volta i sentieri dell’Oltrepò» La tragedia sfiorata, il lunghissimo recupero, la rinascita nel segno dell’attività fisica. E poi l’impegno per incoraggiare le persone a intraprendere la sua stessa strada, senza arrendersi mai. Quella di Nicoletta Aldecca, quarantenne di Santa Giuletta, non è stata una vita facile, ma ciononostante non si è mai data per vinta, e ha da poco pubblicato il suo secondo libro dedicato alle difficili esperienze che si è trovata ad affrontare. Nicoletta, gli ultimi anni sono stati per lei una vera montagna russa. Può raccontarci quando la sua esistenza è cambiata per sempre? «Era il 2017, e sono stata colpita da un’emorragia cerebrale. Anzi, da una “emorragia subaracnoidea”, la cui particolarità sta nel fatto che la fuoriuscita di sangue “vernicia” l’intero cervello, e non soltanto una parte. Le probabilità di farcela sono poche: cinque persone su dieci che ne soffrono non arrivano neppure in ospedale, due o tre subiscono danni permanenti di varia entità, e forse un paio riescono a rimettersi in salute. Non esagero, quindi, quando dico che nel momento in cui mi hanno trasportata d’urgenza all’ospedale San Matteo di Pavia ero a un passo dalla morte. Rischiavo di non farcela o di rimanere segnata a vita in maniera imprevedibile. Invece ho superato l’operazione, e solo dopo le dimissioni mi sono resa conto che il percorso di fronte a me era tutt’altro che in discesa». Cioè? Cos’è successo una volta a casa? «Quando sono uscita dall’ospedale e sono tornata a Santa Giuletta il mio corpo era come azzerato, e non riuscivo letteralmente a stare in piedi. Compiere qualsiasi piccola azione mi stancava terribilmente. Avevo perso (e a dire il vero non ho più recuperato) la vista da un occhio, ero spesso in stato confusionale, e il fisico semplicemente sembrava avesse perso ogni energia. Ho capito dopo qualche settimana che se lo avessi assecondato, non mi sarei mai più alzata dal letto». E quindi ha reagito. «Sì, ma è stato tutt’altro che facile. Per riuscirci mi sono dovuta dare un obiettivo nuovo ogni giorno. La prima volta è stato il giro intorno alla casa, poi il raggiungimento del primo lampione della via, fino a che un paio di mesi dopo ho conquistato il primo chilometro. Tutti i giorni sfidavo il mio corpo e arrivavo fino in paese, bevevo il caffè e tornavo indietro. Poi, cinque mesi dopo, incoscientemente ho deciso di affrontare l’anello del Lesima: sono sempre stata una sportiva, ho praticato nordic walking, trail running, ho sempre corso e camminato fuori pista, e ogni anno ho immancabilmente fatto quei cinque chilometri, superando con tranquillità i 600 metri di dislivello.

«Ho raccontato la mia esperienza in un libro, “La mia via del Sale, nonostante tutto”, pubblicato per beneficenza»

Nicoletta Aldecca, colpita nel 2017 da emorragia subaracnoidea

«Il movimento mi ha letteralmente rimessa al mondo. Ecco perché ho fondato l’associazione “Walking in Oltrepò”» Quel giorno, a metà strada, sono rimasta un’ora sdraiata in un campo, convinta che andare avanti fosse impossibile». Ma nemmeno questo l’ha fermata. Si è rialzata ed è arrivata alla fine. «Non è stato tutto merito mio: l’amico che era con me mi ha fatto forza, mi ha aspettata e spronata ad andare avanti. è stato allora che ho capito che non è il corpo che comanda, ma la mente. E dunque la mente può convincere il corpo a fare qualunque cosa voglia. L’ho sperimentato la prima volta sul Lesima e l’ho dimostrato pochi mesi dopo, quando ho deciso di incamminarmi lungo la Via del Sale: era un sogno che avevo nel cassetto da tanto tempo e che, seppur con notevoli sforzi, sono riuscita a realizzare. Ho raccontato l’esperienza in un libro, “La mia via del Sale, nonostante tutto”, pubblicato per beneficenza. Il ricavato viene devoluto all’HHT Onlus, associazione che si occupa dei malati di Telangiectasia Emorragica Ereditaria. Si tratta di una patologia ereditaria che colpisce uomini e donne indistintamente, caratterizzata da malformazioni vascolari».

A questa stessa associazione sta destinando i proventi dalla vendita del suo secondo libro: è uscito in questi giorni ma lo distribuirà di persona quando si potrà di nuovo organizzare delle presentazioni. Lo ha pubblicato in un momento particolare, al termine di un anno difficilissimo per tutti, ma infernale per lei. «Si intitola “Da qui ricomincio”, e come il precedente è edito da Lina Brun. Racconta del nuovo intervento al cervello a cui ho dovuto sottopormi in questo 2020, in seguito al quale sono stata costretta a un lungo stop e alla successiva riabilitazione. Ho iniziato a scriverlo a marzo, quando come tanti ho dovuto sospendere la mia attività lavorativa. Avevo perfettamente in mente il punto di partenza, vale a dire la riabilitazione che ho cominciato nel 2016, conquistando un metro per volta i sentieri delle mie colline. L’idea era quella di raccontare la mia seconda vita, quella che avrebbe dovuto ricominciare ufficialmente in questo 2020. Volevo scrivere dell’anno della mia rinascita, ma si è rivelato un nuovo percorso a ostacoli: prima, a feb-

braio, l’arrivo del Covid-19, e poi, a luglio, un secondo delicato intervento neurochirurgico (eseguito brillantemente dal dottor Elvis Lafe del San Matteo) affrontato questa volta totalmente da sola. Nessun volto familiare ammesso in ospedale, nessuno accanto a me se non il personale di neurochirurgia: a loro che mi hanno sostenuta, consolata e coccolata vanno tutto il mio affetto e tutta la mia gratitudine. è stata una prova dura, e averli al mio fianco mi ha aiutato davvero molto». Appena uscita è stata costretta a quaranta giorni di fermo totale, ma appena trascorso quel periodo ha ripreso gli allenamenti. L’attività fisica è il suo segreto, e ha deciso di condividerlo con tutti. «Direi proprio di sì. è stato il nordic walking a permettermi di fare di nuovo ciò che facevo prima, il movimento mi ha letteralmente rimessa al mondo. Ecco perché ho fondato l’associazione “Walking in Oltrepò”, ed ecco perchè dedico tutto il mio tempo ad accompagnare le persone alla scoperta del nostro terrirorio, sensibilizzandole nei confronti dell’attività fisica all’aria aperta. Noi che viviamo in Oltrepò abbiamo anche la fortuna di avere intorno a noi un luogo meraviglioso che funge da palestra naturale: il minimo che possiamo fare è goderne, passeggiando nei suoi boschi e salendo e scendendo dalle sue colline» La sua vita finora è stata complicata, ma il messaggio che ha scelto di divulgare è semplice. Mai arrendersi, mai abbattersi, ma vivere ogni giorno con ottimismo. «Esatto. Dobbiamo avere il coraggio di trovare il lato positivo in ogni situazione, anche la più negativa. Non dobbiamo mai smettere di cercare in noi la forza per rialzarci e inseguire i nostri sogni». di Serena Simula


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Cheap but chic: PIATTI GOLOSI E D’IMMAGINE AL COSTO MASSINO DI 3 EURO

Croccante di mandorle e sarà un dolce Natale per tutti!

di Gabriella Draghi Dicembre è il mese che ci porta il Natale con la sua atmosfera magica, l’albero,il presepe, le luci nelle strade e i canti della tradizione. Il Natale ci fa anche dimenticare le calorie, e (finalmente) ci concediamo scorpacciate soprattutto di dolci: torrone, panettone, pandoro e il croccante di mandorle, quel dolce a cui non si può proprio dire di no, e se ne può mangiare anche solo un pezzetto a fine pasto, oppure una porzione più generosa per merenda. Insomma, sulle tavole imbandite delle Feste non può proprio mancare! La sua storia è molto controversa, alcuni vogliono legare la sua nascita ai pasticceri spagnoli perché questo dolce viene menzionato in un testo iberico del XV secolo. Sono in molti però a sostenere una tradizione che affonda le sue radici nel tempo e che quindi risulterebbe ancora più antica arrivando a un tipico dolce arabo, a base di frutta secca e miele, fino a dolci della cultura etrusca e romana. Certo è che nel Medio Evo europeo il croccante era già conosciuto e ben radicato nella tradizione, tanto da farne il dolce adatto a matrimoni e battesimi e da essere acquistato nelle fiere cittadine. Il croccante è così ben radicato nella tradizione culinaria italiana che Pellegrino Artusi alla fine del 1800, lo inserì fra le ricette del suo famoso libro “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar

bene”. In Appennino il croccante ha origini antiche: era il dolce più diffuso delle nostre case, preparato alla buona con le mandorle e le nocciole di stagione, quando lunghe siepi di noccioli accompagnavano le nostre carraie, e ogni casa aveva il suo mandorlo; dalle mani delle nonne e delle mamme, uscivano tante piccole mattonelle, losanghe irregolari di croccante lucido e caldo di zucchero caramellato. Prepararlo è davvero molto semplice. E per di più, se non ci aveste mai pensato, il croccante potrebbe trasformarsi in un dolce regalo natalizio, tagliato a quadretti e inserito in una scatoletta di latta con decori natalizi o più semplicemente preparato in piccoli pacchettini legati con un nastro natalizio. E sarà un dolce Natale per tutti! Come si prepara: Tritiamo grossolanamente le mandorle, le poniamo in una teglia in forno caldo a 180°

e le scaldiamo per 10 minuti, mescolandole di tanto in tanto. Mettiamo in una casseruola di acciaio lo zucchero con il succo di un limone e lo facciamo fondere a fuoco lentissimo, mescolando con un cucchiaio di legno. Non bisogna utilizzare le pentole antiaderenti perché lo zucchero non caramellerebbe nel modo adeguato. Mescoliamo fino a che non otteniamo un bel colore ambrato. Aggiungiamo ora le mandorle tritate e calde e mescoliamo finché lo zucchero non avrà assunto un bel colore biondo scuro. Togliamo dal fuoco. Tagliamo il limone a metà, stendiamo la carta da forno su un piano e versiamo il composto prestando molta attenzione perché è davvero ustionante. Con il limone spianiamo il croccante velocemente riducendolo ad uno spessore di circa un centimetro. Dobbiamo tagliarlo quando è ancora abbastanza caldo in piccoli rettangoli

CROCCANTE DI MANDORLE

Ingredienti: 500 g di zucchero 500 g di mandorle spellate un limone intero succo di un limone carta da forno con un grosso coltello. Lasciamo raffreddare. Se lo si vuole conservare, bisogna riporlo o in vasi di vetro o in scatole di latta perché teme l’umidità. You Tube Channel & Facebook page “Cheap but chic”.


BRONI

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Bonifica Amianto, stanziati 300mila di contributi per le coperture dei privati Liberare la città dall’amianto: è l’imperativo categorico che il Comune di Broni rinnova stanziando 300mila euro di risorse proprie, da destinare ai privati per la rimozione del pericoloso materiale. Sindaco Riviezzi, questa è sicuramente una decisione importante nel processo di liberazione dall’amianto. Ci spieghi come avete maturato questa decisione? «Come dico sempre, quello della salute pubblica, con particolare riferimento alla rimozione dall’amianto ancora presente in è senza dubbio l’argomento che ci sta più a cuore sul piano della sensibilità culturale, ma soprattutto una tra le nostre massime priorità amministrative. Se da un lato la bonifica dell’area ex Fibronit sta proseguendo come da crono programma, dall’altro abbiamo necessità di accelerare per quanto riguarda la bonifica delle coperture dei privati, operazione certamente onerosa che, purtroppo, spesso non ha trovato attuazione per una questione di costi. Parallelamente prosegue il nostro impegno per l’iter di riperimetrazione del Sito di Interesse Nazionale, con l’obiettivo di includervi tutto il territorio comunale e ottenere finanziamenti pubblici dal Ministero dell’Ambiente». Quali dati avete a disposizione per quanto riguarda i privati? «Il Comune di Broni dispone di una dettagliata mappatura aerea dell’amianto ancora presente in città, effettuata qualche anno fa con l’ausilio di droni: da questo studio erano emersi circa 110mila metri quadrati di coperture sparse su casolari, capannoni, case, pollai, garage, oltre ai manufatti in amianto già individuati all’interno del Sin. Inoltre, grazie ad uno studio dell’ATS di Pavia, siamo a conoscenza dei dati epidemiologici relativi a Broni ed a tutta la Provincia di Pavia. Da questo studio si evince che a Broni il numero di morti per amianto e per malattie asbesto correlate è superiore alla media nazionale». Entrando più nel dettaglio, ci spiega a quanto ammonta il bando e quali sono le modalità per richiedere i contributi? «L’importo stanziato ammonta a 300mila euro, divisi in due tranche: la prima metà dell’importo è oggetto di una variazione di bilancio, inserita tra i punti dell’ordine del giorno della seduta consiliare di venerdì 27 novembre, mentre i restanti 150mila euro verranno messi a disposizione con il prossimo bilancio di previsione 2021. In caso dovessimo trovare ulteriori risorse, il fondo in oggetto sarà sicuramente implementato. Il contributo sarà a fondo perduto fino alla concorrenza massima del 50% dell’im-

porto della spesa ammissibile per la sostituzione della copertura, ovvero fino alla concorrenza massima del 100% del costo della bonifica e smaltimento (stimato in 17 Euro al metro quadrato) e, in ogni caso, non oltre un massimo di Euro 5.000,00 per il singolo intervento. L’erogazione del 100% del contributo avverrà alla fine dei lavori una volta acquisita tutta la documentazione necessaria che attesti la regolare esecuzione degli interventi di rimozione e smaltimento dei manufatti in cemento-amianto». Chi può fare domanda per ricevere il fondo e qual è il termine per la richiesta? «Possono partecipare privati cittadini (persone fisiche, anche associate nei Condomini) proprietari di edifici in cui sono presenti manufatti in cemento-amianto denunciate all’ATS prima della data di presentazione del bando. Non possono invece partecipare le imprese, anche individuali, ubicate su tutto il territorio comunale iscritte alla Camera di Commercio, Industria, Artigianato ed Agricoltura. Le domande dovranno essere presentate a partire dalle ore 10:00 del giorno 30 dicembre 2020 e fino alle ore 12:00 del giorno 31 marzo 2021. Le domande dovranno pervenire nei termini previsti all’indirizzo di posta elettronica certificata comunebroni@pec.it. In alternativa si può inviare una raccomandata oppure consegnare i documenti a mano, per la loro protocollazione, all’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) presso il palazzo municipale. Per informazioni è possibile rivolgersi all’ingegner Paola Smeraldi, alla geometra Katia Danelli e all’ingegner Gian Marco Malattia». Sindaco Riviezzi quali saranno i canali per informare i cittadini di questa possibilità? «Dopo le festività natalizie, sarà inviata a tutte le famiglie bronesi una lettera per invitarle a cogliere la nuova opportunità. Inoltre, alcuni associazioni che si occupano di ambiente e amianto tra cui Legambiente, Sportello Ambiente Broni, Sportello Nazionale Amianto, Avani (Associazione Vittime dell’Amianto) e Aiea (Associazione Italiana Esposti Amianto), si sono rese disponibili a collaborare con l’Amministrazione per promuovere e pubblicizzare questo bando. Presto sul sito web del Comune di Broni sarà resa disponibile tutta la documentazione relativa al bando, la modulistica e una sezione di domande frequenti, così da agevolare il più possibile le persone interessate nella ricerca delle informazioni

Antonio Riviezzi

«Il Comune dispone di una dettagliata mappatura aerea dell’amianto ancora presente in città, circa 110mila metri quadrati di coperture sparse su casolari, capannoni, case, pollai e garage» necessarie. Inoltre gli uffici del Settore Pianificazione e Progettazione saranno a disposizione per ogni chiarimento sulle modalità di partecipazione». Per quanto riguarda l’area ex Fibronit, ci può fornire una panoramica generale sullo stato dell’arte della bonifica? «Finalmente l’area della ex Fibronit è libera dall’amianto. Con la conclusione del 2° lotto sono stati completati i lavori di rimozione e smaltimento di tutto l’amianto presente nel sito. L’Ats ci ha restituito l’area con questa importante certificazione ed entro la fine dell’anno sarà chiuso il cantiere. A gennaio, invece, abbiamo in programma una visita all’interno dell’area con l’assessore regionale all’Ambiente, Raffaele Cattaneo, e finalmente potremo accedervi senza l’uso dei dispositivi di sicurezza. Archiviato il secondo lotto, si pensa già all’ultima fase dell’intervento, che riguarda la demolizione delle strutture ancora esistenti. Il nostro auspicio è che si possano velocizzare i tempi per la fase di attuazione del progetto, in modo da poter partire con i lavori già entro il prossimo anno». Quali sono le partite ancora aperte al fine di rimuovere completamente l’amianto dall’intero territorio comunale?

«Come dicevo all’inizio dell’intervista, sicuramente la questione della riperimetrazione. Proprio in questi giorni mi sono recato a Roma, dove ho avuto un incontro con il Sottosegretario al Ministero dell’Ambiente, per chiedere contributi pubblici da destinare alla rimozione delle coperture private. Un’altra importante tematica riguarda la costruzione del nuovo liceo, che permetterà la dismissione dell’attuale edificio, costruito in cemento amianto ed attualmente inserito nel SIN. Lo scorso mese di maggio è stato infatti raggiunto un accordo tra il Comune di Broni e la Provincia di Pavia per l’abbattimento e la costruzione di un nuovo complesso scolastico L’edificio sorgerà nell’area attualmente occupata dall’ex scuola elementare, oggi dismessa, a sua volta destinata alla demolizione. La Provincia ha già stanziato 400mila euro per il progetto esecutivo. L’incontro con il Sottosegretario al Ministero dell’Ambiente è stata l’occasione per parlare anche di questa tematica, chiedendo un aiuto concretoper portare a termine questo progetto.

di Silvia Colombini



STRADELLA

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«Abbiamo ben presente il problema del commercio e c’è dialogo da quando sono stati eletti i rappresentanti delle varie sezioni» Un anno estremamente difficile, dove per la Giunta Cantù non sono mancate le critiche, arrivate in particolar modo dal commercio locale, ora alcuni passi avanti sono stati fatti in questa direzione, come l’annullamento della parte variabile della Tari, l’istallazione a carico del Comune delle luminarie per abbellire la città nel periodo natalizio e renderla più attrattiva, inoltre alcune iniziative portare avanti dall’assessore al Commercio - Andrea Frustagli - sembrano aver fatto tornare il “sereno” tra i commercianti e l’amministrazione comunale. Affrontati i problemi contingenti al drammatico momento legato all’emergenza sanitaria, si cerca di guardare avanti, di fare comunque qualcosa di buono e di progettare il futuro con opere concrete. Tanti gli interventi annunciati, alcuni già partiti, altri in fase di attuazione. Ne parliamo con il sindaco Cantù. Sindaco prima di guardare al futuro, per questo 2020 da “dimenticare”, si ritiene soddisfatto di come ha potuto gestire le problematiche locali? «Il 2020 sta finalmente finendo… è stato un anno difficile e complicato sotto tanti aspetti. Abbiamo comunque affrontato con determinazione e prontezza tutte le normative che ci sono arrivate, perché è stato un anno in cui bisognava essere molto attenti a tutte le disposizioni ministeriali e della Regione. Noi però abbiamo anche cercato di mantenere l’attenzione sugli obiettivi della nostra amministrazione, di aiutare e soddisfare i nostri cittadini e tutte le categorie, di prestare attenzione alle scuole. Devo dire che il bilancio che andiamo a fare è positivo, per il fatto che ci siamo molto impegnati nel risolvere tutti i problemi che quotidianamente c’erano: con tanto impegno abbiamo sempre cercato di fare del nostro meglio per aiutare gli altri e per far proseguire la vita amministrativa in un contesto di enorme difficoltà». Torniamo agli obbiettivi a lungo termine che la vostra amministrazione si era prefissata: le opere pubbliche «Non abbiamo perso di vista gli obiettivi a lungo periodo, nonostante questo anno così difficile. La città si deve comunque evolvere e quindi bisogna pensare, oltre al sociale visto il momento, anche alle opere pubbliche. Abbiamo in progetto diversi lavori, tra cui il parcheggio di vicolo Oratorio, vicino al Comune: un progetto che era fermo da tantissimo tempo, da 10 anni, che riusciremo a portare a termine. Si tratta di un qualcosa di molto qualificante per la nostra città, in centro storico. Abbiamo poi intrapreso e già terminato la pulizia di due importanti monumenti all’interno dei giardini pubblici, quello

Da Piazza Trieste allo stadio di San Zeno, Stradella si rifà il look

Il Primo cittadino Alessandro Cantù, eletto nel 2019

ai Caduti e quello dedicato a Garibaldi: non è stata solo una normale pulizia, ma un vero e proprio restauro che è stato effettuato sotto il controllo della Sovraintendenza alle Belle Arti da ditte autorizzate, che hanno riportato a nuovo i nostri monumenti. E poi ancora, sempre per lo sviluppo sostenibile, ci sarà il rifacimento dei giardini pubblici: andremo a rifare tutti i viali, mantenendo il principio dell’invarianza idraulica, quindi senza cementificare ma utilizzando materiali biodiversi e riciclati per tutti i vialetti, recuperando così l’area antistante il monumento ai Caduti. Diventerà un’area più bella e più colorata, per quanto riguarda le piante e i cespugli, più calpestabile e usufruibile per piccole manifestazioni, presentazioni di libri o ritrovi di fisarmonica. All’interno di questo progetto, andremo anche a recuperare i servizi igienici pubblici di cui al momento siamo deficitari». Ma il vero “Coup de théâtre”, riguarda Piazza Trieste, cuore di Stradella. Cosa è previsto per questa area? «Un importante restyling della zona del rondò. Andremo ad eliminare una delle due corsie di marcia, ampliando la zona di marciapiede e facendo quindi una parte pedonale che sarà piastrellata in porfido. Miglioreremo così l’ingresso e l’uscita della piazza Trieste, eliminando le problematiche di viabilità. Una peculiarità di questo progetto è che l’area, vista dall’alto, richiamerà la forma della tastiera di una fisarmonica. Ci sarà, quindi, un richiamo a questo importante strumento, simbolo della città, dato che la zona è vicina alla famosa fabbrica Dallapè: ci sarà un ‘gioco’ di pietre chiare e altre più scure, di luci e illuminazioni». Altri interventi previsti? «Sempre per il decoro urbano, stiamo

facendo gli attraversamenti pedonali in Strada Nuova e Strada Vecchia, ovvero la Via XXVI Aprile e la Via Trento: sono in pietra di porfido, sono permanenti e fanno parte di un progetto di maggiore sicurezza pedonale. E poi lo stadio di San Zeno, la cui superficie verrà completamente trasformata. Si passerà quindi da un campo inutilizzabile per buona parte dell’anno, perché non è drenante, a una superficie sintetica, all’interno della quale potrà essere ricavato un campo da calcio longitudinale oppure due campi da calcetto più ridotti. Creeremo quindi un’opera più versatile, da utilizzare in più modi». Progetti invece che al momento avete solo sulla carta? «Ci sarà un progetto che riguarda l’area a fianco della stazione ferroviaria. In particolare sarà realizzato un parcheggio, che sarà attuativo però dopo che sarà rinnovata la convenzione con Rfi, in quanto sorgerà su un terreno di proprietà delle Ferrovie dello Stato e quindi per fare un investimento di questo tipo vogliamo che la convenzione sia attiva per più anni. In conclusione, quindi, abbiamo lavori che sono partiti e già terminati, altri che sono in fase di attuazione e altri ancora che partiranno tra un po’». Per la zona di Torre Sacchetti, che ha sempre qualche problema in caso di maltempo, avete in programma interventi risolutivi? «Abbiamo avviato un lavoro di regimazione idraulica, per evitare allagamenti nella frazione. Un lavoro fatto grazie a dei cofinanziamenti regionali che siamo riusciti ad ottenere. è una strada che abbiamo deciso di intraprendere, quella legata al fatto di sfruttare il più possibile bandi regionali o nazionali per il cofinanziamento delle opere. Anche per la basilica

di Montalino faremo così: in questo caso ci sarà un finanziamento di una fondazione privata. Per quanto riguarda la copertura degli interventi strutturali arriveranno in parte da Regione Lombardia e in parte da mutuo, come nel caso del nuovo piano di marciapiedi che partirà a breve e che andrà a coprire sia zone centrali della città che altre più periferiche». Con il commercio locale qualche problema di dialogo c’è statao. Ad oggi com’è la situazione? «Stiamo dando tutto il nostro sostegno. L’iniziativa più importante è quella che ha portato all’esenzione totale della parte variabile della Tari, con un impegno di 90 mila euro a carico del Comune. E poi ancora tante iniziative per dare spazi pubblici. Abbiamo ben presente il problema del commercio e c’è collaborazione: da quando sono stati eletti i rappresentanti delle varie sezioni, riescono a partecipare a riunioni o a colloquiare maggiormente con l’amministrazione. E i frutti di questo dialogo si stanno vedendo. Quest’anno abbiamo anche deciso di pagare le luminarie». Eccoci al capitole luminarie. Ci sono pareri differenti su quanto avete realizzato per queste feste… «Abbiamo scelto di farne una parte di tipo tradizionale, con fili di luce, e in parte innovative. Tutto questo su varie zone della città. Io direi che l’impatto è stato positivo. A fianco del progetto delle luminarie, ne è stato avanzato uno per il commercio con il nome “Compriamo a Stradella”: si tratta di un progetto separato dal discorso delle luminarie e che ha visto come simbolo le borse appese per le vie stradelline». Nel complesso, è soddisfatto di quanto sta facendo la sua amministrazione? «Sì! Sono risultati dovuti alla piena collaborazione di tutta la maggioranza. Tutti hanno dato il proprio contributo, e questo è stato determinante per riuscire ad arrivare a esiti importanti». di Elisa Ajelli



LO SAPEVATE CHE...

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Il Maresciallo Pietro Bianchi, “l’Asso” di Stradella di Manuele Riccardi

Tra i militari oltrepadani più decorati e titolati della seconda guerra mondiale, una menzione d’onore la merita certamente il Maresciallo Pietro Bianchi di Stradella. Coraggioso ed infallibile, in sedici anni di carriera militare ottenne sei decorazioni al valor militare ed un encomio. Pietro nacque a Stradella, il 15 luglio 1915 da Eugenio e Maddalena Bianchi. Dopo aver conseguito il diploma di ragioniere nell’istituto tecnico della città, si arruolò il 5 maggio 1936 come volontario in Aereonautica con il grado di Aviere Allievo Sergente pilota. Fu inviato a Milano, presso l’“Aerodromo d’Italia” di Taliedo (Provincia di Milano) dove il 23 agosto 1936 fu nominato pilota d’aeroplano su apparecchio CA 100 Idro. Presso la Scuola Centrale di Portorose (all’epoca Provincia di Pola), fu nominato pilota militare e il 5 giugno 1937 conseguì la promozione a Sergente. Fu assegnato alla 162^ squadriglia dell’88° gruppo CT autonomo a Vigna di Valle, dove ottenne un encomio per il coraggioso tentativo di salvataggio dell’equipaggio di un aereo precipitato nel lago di Bracciano. L’anno successivo ottenne la promozione a sergente maggiore e nel 1940 fu trasferito ala 352^ squadriglia del 56° stormo Caccia Terrestre, con la quale entrò in guerra sul fronte occidentale al comando di un Fiat G.50. Nell’estate prese parte a diverse operazioni sui celi di Malta per poi essere trasferito il 9 settembre in Belgio, a Maldegem. Con il Corpo Aereo Italiano, comandato dal colonnello Rino Corso Fougier, affiancò la Luftwaffe nella fase centrale e finale della Battaglia d’Inghilterra. Rimpatriato in Italia, il 2 maggio 1941 fu immediatamente trasferito (insieme alla sua squadriglia) in Africa Settentrionale Italiana dove si distinse in diverse operazioni, tanto da meritare la promozione a Sergente di 3^ classe ed essere decorato con Croci di guerra al valor militare: la prima gli venne conferita sia per le azioni compiute in precedenza sulla Manica, sia per quelle compiute in Africa Settentrionale; la seconda per le azioni su Sidi el Barrani svolte nel mese di settembre. Negli ultimi mesi del 1941 fu rimpatriato in Italia ed incaricato di svolgere numerose missioni sui cieli del Mediterraneo e, ancora una volta, su Malta. Grazie alla sua tenacia e al suo coraggio nel 1942 ottenne due Medaglie d’argento al valor militare con le seguenti motivazioni: «Valoroso pilota da caccia già distintosi in precedenti azioni sull’isola di

Pietro Bianchi, tra i quindici migliori “Assi dell’Aviazione” della Regia Aereonautica nella Seconda Guerra Mondiale.

Malta partecipava col proprio reparto a due audaci missioni di guerra contro un convoglio nemico fortemente scortato. In due aspri combattimenti con la caccia avversaria, che tentava di attaccare nostre formazioni di bombardieri, dava ripetute prove di ardimento e sprezzo del pericolo, abbattendo personalmente due aerei nemici e contribuendo all’abbattimento di altri tre, consentendo in tal modo ai bombardieri di portare brillantemente a termine la loro missione. Cielo del Mediterraneo, 12-13-14 agosto 1942.» «Pilota da caccia in numerose missioni di scorta al bombardamento su munita base nemica contribuiva in maniera notevole a contenere la forte reazione avversaria. In aspri combattimenti sostenuti contribuiva validamente al conseguimento di brillanti vittorie. In ogni circostanza dava prove esemplari di perizia e valore. Cielo di Malta, 1-28 luglio 1942.» Con Regio Decreto del 28 giugno 1943 venne decorato con una Medaglia di bronzo al valor militare per le precedenti «numerose missioni di guerra svolte nel cielo dell’Africa Settentrionale Italiana, in cui diede costante prova di aggressività, perizia ed ardimento». Il 2 agosto 1943 una petroliera italiana necessitò di una scorta aerea per poter entrare in tutta sicurezza in quel che rimaneva del porto di Cagliari. A tale scopo vennero impegnati due Macchi M.C. 205 e due M.C. 202 del 51° Stormo CT: primi pilotati dal Maresciallo Ennio Tarantola e dal Sergente Mugherli, con l’incarico della protezione diretta; mentre i secon-

di, con ai comandi del Maresciallo Pietro Bianchi e dal Sergente Santuccio, vennero schierati per la scorta indiretta. Decollati da Capoterra, i cacciatori raggiunsero la petroliera a poche miglia delle coste sarde. Poco l’arrivo dei velivoli in posizione di scorta, la prua della nave prese improvvisamente fuoco. Il Sergente Santuccio si staccò dalla formazione quando vide un idrovolante nemico Consolidated PBY “Catalina” ammarare. Ma tale velivolo si trovava scortato da ben dodici P-40F del 325th Fighter Squadron. Dall’aeroporto di Capoterra decollarono i due Macchi di Bianchi e Tarantola che, dopo un primo duello in cui abbatterono due P-38, si allontanarono a volo radente per chiedere rinforzi. A questa battaglia si aggiunsero presto altri aerei alleati e i Macchi del 155° Gruppo: ne scaturì quello che viene ricordato come «un gigantesco quanto drammatico carosello di morte e di spari». Durante lo scontro con il 49th Fighter Squadron statunitense, il Macchi M.C. 202 di Bianchi venne colpito dal Lockheed P-38 Lightning pilotato dal 1\Liutenant Carrol S. Knott: l’aereo italiano precipitò e si inabissò nelle splendide acque a largo di Capo Pula. Né la carcassa del velivolo, né il corpo dell’aviatore stradellino vennero mai recuperati. La perdita di Bianchi fu l’unica subita dal 51° Stormo. La sua scomparsa fu molto sentita tra i suoi commilitoni, soprattutto dal Maresciallo Tarantola, suo grande amico. Il suo attaccamento al dovere e alla Patria venne riconosciuto con il Regio decreto

del 2 giugno 1944, con il quale gli venne conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: «Pilota da caccia di eccezionale valore. La sua ala sempre vittoriosa in tutti i cieli di battaglia affermava sempre più la sua abilità, il coraggio e l’indomabile potenza della sua anima di soldato; in 27 aspri combattimenti quattro volte piegava personalmente il nemico e collaborava all’abbattimento di 56 aerei avversari. Durante l’ultimo ciclo operativo a difesa del suolo Sardo, nella stessa giornata, dopo un aspro combattimento vittorioso, volontario si offriva per incontrare ancora una volta il nemico e, sopraffatto dal numero, cadeva in un alone di gloria imperitura. Il mare accolse la sua spoglia di puro eroe per il quale il combattimento era la vita.» La motivazione della decorazione contiene però un errore, in quanto Bianchi riuscì ad abbattere non quattro, ma cinque aerei nemici singolarmente. Questa differenza, sebbene di un solo abbattimento, ha un’importante rilevanza sulla figura del Maresciallo stradellino, tanto da poter essere ricordato tra i quindici migliori “Assi dell’Aviazione” della Regia Aereonautica nella Seconda Guerra Mondiale. Il titolo di “Asso dell’Aviazione” viene concesso all’aviatore militare al quale viene accreditato l’abbattimento di almeno cinque aerei nemici, in combattimento aereo a distanza ravvicinata. Anni fa il Comune di Stradella ha dedicato una via in suo onore, in cui tutt’ora vivono i discendenti della sua famiglia.



Canneto pavese

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«La Cantina ha ricevuto 30mila quintali di uve, il nostro obbiettivo è arrivare a circa 60mila» Inutile dirlo: il 2020 è stato un anno difficile per tutti quanti. Per la Cantina di Canneto era iniziato male ancor prima che scoppiasse la pandemia, con lo scandalo che l’ha travolta il 22 gennaio scorso. Nel mese di marzo avevamo intervistato Antonella Papalia, che coraggiosamente aveva appena assunto la presidenza della cooperativa, trovandosi di fronte ad una situazione drammatica e surreale. A distanza di mesi abbiamo voluto conoscere quali sono state le principali operazioni svolte dal nuovo consiglio, quali sono i progetti per il futuro della cooperativa, ma soprattutto quali saranno le modalità previste per il saldo delle vendemmie passate. Presidente, cos’è cambiato da allora? «In questi dieci mesi il nostro obbiettivo è stato quello di mettere la Cantina nelle condizioni di poter andare avanti. La situazione era caotica, sia a livello amministrativo, produttivo e societario. Abbiamo sistemato le posizioni dei “soci speciali”, alcuni dei quali sono passati ad “ordinari” perché credono nel rilancio della nostra Cantina. Vorrei precisare che la scrematura dei “soci ordinari” è stata una decisione ponderata, dettata dal fatto che a breve saremmo stati sottoposti alla revisione delle cooperative: data la situazione in cui si trovava la Cantina nel mese di marzo, siamo stati legalmente obbligati ad dover sistemare le posizioni di questi soggetti». Vale a dire? «Questi erano entrati in cooperativa come “soci speciali”, previsti dal nostro statuto, ma per un periodo che varia dai tre ai cinque anni. In una cooperativa, per essere tale, la quota dei “soci ordinari” deve essere superiore a quella degli “speciali”. Queste posizioni sono state precedentemente strumentalizzate e nel 2019 la Cantina aveva ricevuto 52.000 quintali di uve da “soci speciali” e 41.000 quintali da “soci straordinari”. Quindi, per poter essere in regola e poter proseguire con la ragione sociale di cooperativa, la Cantina doveva tornare nei parametri previsti dalla legge». Quante posizioni sono state regolarizzate? «Ad oggi, venticinque “speciali” sono passati ad “ordinari”. Certo, noi saremmo stati ancor più felici se il numero fosse stato maggiore, ma anche questo è un buon un segnale… Fattore positivo è che, nonostante tutte le problematiche, abbiamo avuto qualche nuovo associato che non aveva mai conferito prima qui da noi». Un’altra operazione effettuata dal nuovo consiglio è stata l’aumento del capitale. Come si sono comportati i soci? «La risposta è stata positiva. Siamo riusciti ad effettuare un aumento di capitale

«In pesa sono stati rifiutati alcuni carichi non conformi: per questa scelta siamo stati criticati da alcuni conferitori che pretendevano che la Cantina, date le ovvie difficoltà, fosse obbligata ad accettare tutto» Antonella Papalia, presidente della Cantina di Canneto Pavese

di 310mila euro, votato nelle scorse settimane. Avendo fatto l’aumento di capitale entro il 31 dicembre potremo usufruire del Decreto Rilancio che ci permetterà, tramite Invitalia, di avere a disposizione un prestito pari a tre volte la cifra dell’aumento stesso, da restituire in sei anni con interessi vantaggiosi. Tale liquidità dovrà essere impegnata in investimenti per lo sviluppo dell’attività». Vendemmia 2020: com’è andata? Avete raggiunto gli scopi prefissati? «Io, ad essere sincera, mi aspettavo qualcosa di più, ma quest’anno la Cantina ha ricevuto 30.000 quintali di uve dai soci e ci possiamo ritenere soddisfatti. Il nostro obbiettivo, per il futuro, è arrivare a circa 60.000 quintali». Pensate in un futuro di avviare un “progetto qualità”, come già accaduto in altre realtà? «Questo per noi è stato l’anno “zero” e già il fatto di selezionare le uve e le qualità prima della pigiatura è stato un passo enorme in confronto alle annate precedenti. Avendo pigiato un quantitativo ridotto rispetto le ultime vendemmie, i nostri tecnici hanno avuto la possibilità di poter selezionare i mosti ottenuti in base alla gradazione e alla qualità. In pesa sono stati anche rifiutati alcuni carichi non conformi: per questa scelta siamo stati criticati da alcuni conferitori che pretendevano che la Cantina, date le ovvie difficoltà, fosse obbligata ad accettare tutto. Ma proprio perché la cooperativa deve uscire da questa situazione deve dimostrare di non voler proseguire con la politica che l’ha portata in questo oblio». Invece, per quanto riguarda l’area commerciale come avete agito? E quali sono i piani per il futuro?

«Stiamo ancora rivedendo la nostra situazione con una catena di supermercati che, dopo lo scandalo della scorsa gestione, aveva ritirato i prodotti dai suoi scaffali. Ma i vini contestati, analisi alla mano, sono risultati conformi: quindi non c’era alcuna motivazione valida per ritirarli dal mercato. Invece, un’altra catena di cui eravamo già fornitori ci permetterà di poter tornare sugli scaffali dei suoi supermercati dal mese di gennaio, con una nuova veste grafica. Certo, si è perso il periodo natalizio, ma come sappiamo questo sarà un Natale un po’ diverso… Quindi a partire dal prossimo anno provvederemo a ristrutturare la rete commerciale. In questi mesi abbiamo dovuto concentrarci sulla situazione interna della cantina, sistemando le questioni burocratiche, i macchinari e i rapporti con i fornitori. Dobbiamo innanzitutto riposizionare il nostro prodotto sul mercato, aumentando la commercializzazione del vino imbottigliato. Da questa vendemmia abbiamo ottenuto dei buoni vini, che presto saranno disponibili sul mercato e che speriamo possano essere apprezzati dal consumatore». Veniamo all’argomento che più interessa i soci e i conferitori: il pagamento delle uve. Com’è la situazione attuale? «Il saldo del 2018 è stato pagato interamente nelle settimane scorse. Io penso che riusciremo a pagare un acconto del 2020 nei primi mesi del prossimo anno». E per quanto riguarda il 2019? «Abbiamo anche messo a disposizione dei soci un consulente finanziario che possa aiutare i soci nelle varie operazioni di gestione della propria azienda. Allo stesso tempo abbiamo avviato un‘operazione con Credit Agricole, completamente diversa da quella che i soci avevano precedentemente siglato con un altro istituto bancario: a differenza della precedente, il prestito per il pagamento delle uve

2019 non viene garantito dal capitale del socio, ma dallo Stato grazie al Decreto Rilancio e al prestito Invitalia. Quindi i soci che hanno accettato questa operazione riceveranno il saldo 2019 nelle prossime settimane, mentre la cooperativa provvederà a saldare l’importo alla banca in cinque anni, con uno di preammortamento. Come detto in precedenza, l’operazione viene effettuata sul socio, ma il garante è lo Stato attraverso il prestito Covid di Invitalia. La proposta di Credit Agricole è ancora valida, quindi coloro che non hanno aderito in precedenza possono ancora sottoscriverla». Nei giorni si è tenuta l’assemblea soci e alcune voci davano Riccardo Fiamberti come nuovo membro del consiglio d’amministrazione… «L’assemblea si è svolta in base alle normative sanitarie vigenti, con la presenza del delegato dei soci, il Notaio Rossi, e i soci uno alla volta hanno votato una serie di punti. Hanno partecipato anche alcuni “soci speciali” perché hanno diritto di voto, in quanto il loro impegno con la cantina terminerà il 30 giugno prossimo. Fiamberti non poteva essere nominato consigliere di una cooperativa a causa della carica che tutt’ora ancora riveste. In consiglio è stato cooptato un nuovo socio da poco ordinario, Giuseppe Papavero di Borgo Priolo». Pensate di riassociarvi al Consorzio Tutela Vini o al Distretto del Vino di Qualità, da cui precedentemente la cooperativa era uscita? «In questi mesi abbiamo avuto tantissime altre priorità per far ripartire la nostra Cantina. Per il momento non abbiamo ancora preso una decisione in merito. Ce ne occuperemo più avanti, appena la situazione si sarà più stabilizzata». di Manuele Riccardi


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MONTù BECCARIA

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“Il Borgia di Montù” Un mistero che dura da 50 anni Estate 1967. Siamo in pieno boom economico e le strade oltrepadane sono frequentate da milanesi che in lunghissime file si dirigono con le loro automobili per acquistare vino o per trascorrere alcuni giorni di vacanza. Arroccato su queste colline c’è Montù Beccaria, un pittoresco comune di campagna dove la vita scorre tranquilla, come in tutta la vallata. Ma gli abitanti di questo piccolo paese non sanno che quest’estate verrà ricordata per diversi anni per una serie di omicidi, avvelenamenti e colpi di scena che scateneranno l’interesse della stampa nazionale. Se questi eventi si fossero verificati oggi, la Valversa sarebbe stata invasa da troupe televisive, con dirette, approfondimenti, ospiti in studio da Barbara D’Urso e, perché no, uno sceneggiato di Rai Uno con protagonista Beppe Fiorello o magari una puntata su History Channel. Ma questa storia si è svolta più di cinquant’anni fa e in molti forse non la ricordano più così bene… Ricostruiamo i fatti. Montù Beccaria, domenica 18 giugno 1967. Giuseppe Scabini, è un agricoltore di cinquantun anni, una persona perbene e inquadrata, talmente legato al suo lavoro e alla sua terra da aver rifiutato una generosa offerta di Angelo Moratti interessato ad edificare sulle sue proprietà il centro sportivo dell’Inter (poi costruito ad Appiano Gentile). Come da consuetudine, dopo una giornata passata nei campi, Giuseppe si ferma al bar del paese, quattro chiacchiere e saluta gli amici. Arrivato a casa è pallido, sudato e accusa diversi dolori al torace e con difficoltà alle vie respiratorie. Le sue condizioni risultano subito gravi e, in poco tempo, perde i sensi. La moglie Linda e la figlia Ivana chiamano immediatamente il Dott. Dardano, il medico del paese, che tenta invano la rianimazione. Scabini è cianotico, con i pugni chiusi: non c’è dubbio, si tratta di un malore, presumibilmente un infarto. Una fatalità come tante, che non sembrava destare nessun allarmismo su quello che si stava per imbattere sul il piccolo comune oltrepadano. Pochi giorni dopo, il 25 giugno, Giuseppe Scovenna, insieme alla moglie e la figlia Milena di quattro anni, fa visita alla famiglia Scabini per porre le condoglianze alla vedova del cugino scomparso. La bambina dopo aver giocato e corso in cortile rientra in casa per bere un bicchiere d’acqua prima di tornare a casa con i genitori. Poche curve e la piccola Milena si sente male, non riesce a respirare: muore improvvisamente appena arrivata all’ospedale di Stradella. I sintomi sono gli stessi di Scabini: dolori improvvisi, perdita dei sensi e decesso.

Alberto Scabini il giorno del suo rientro a Montù Beccaria, dopo 17 mesi di carcere

Una fatale coincidenza… Passano alcune settimane dalla morte di Giuseppe e la famiglia Scabini viene colpita da un altro lutto: il 9 agosto la madre Anna muore improvvisamente. La donna non si era più ripresa dalla morte del figlio, trascorreva le intere giornate in campagna, denutrita e “desiderosa di morire come il suo Giuseppe”. Si pensa ad una morte naturale, causata da crepacuore o dai dispiaceri che da quel giorno la logoravano. Ma tra gli abitanti di Montù Beccaria iniziano a sorgere i primi dubbi: quelle morti non sarebbero fatali coincidenze, tantomeno per cause naturali. Nascono le prime teorie, con i primi sospettati: addirittura c’è chi fantastica affermando che la casa degli Scabini sia colpita da una maledizione. Questa tesi prende ancor più piede pochi giorni dopo, a Ferragosto, quando la diciannovenne Giuseppina Vercesi e la trentaduenne Mariuccia Perduca, la cugina e l’amica di Ivana, si sentono male appena uscite dalla casa incriminata. Giuseppina muore poco dopo, mentre Mariuccia, grazie al tempestivo intervento del Dott. Dardano, si riprenderà dopo venti giorni di coma: entrambe le amiche avevano manifestato gli stessi identici sintomi dei casi precedenti. Questo spazza via qualsiasi dubbio su possibili coincidenze, ma quale può essere il filo conduttore di questa vicenda? Perché chi entra in contatto con questa famiglia muore con le stesse identiche modalità?

Può trattarsi veramente di una maledizione? Per dare una prima risposta concreta a queste domande, viene disposta l’autopsia sul corpo della diciannovenne. L’esito lascia gli inquirenti e la popolazione sconcertata: nel sangue della ragazza vengono trovate tracce di E605, un anticrittogamico noto in agricoltura con il nome di “parathion”. Questo veleno può essere letale sia se ingerito che inalato, ma può causare gravi intossicazioni anche al semplice contatto cutaneo. Le autorità dispongono la riesumazione e l’autopsia di Giuseppe e Anna Scabini (per la piccola Milena i genitori, ancora provati, non danno il consenso), ottenendo lo stesso medesimo referto. Sfatata la fantasiosa ipotesi della “maledizione”, ora non ci sono più dubbi: si tratta di avvelenamento. La popolazione di Montù Beccaria è sconcertata venendo a conoscenza dell’esistenza di un assassino nascosto nella loro comunità. Di chi si tratta? E per quale motivo ha preso di mira la famiglia Scabini? Sia gli inquirenti che le voci di paese indicano come principale indiziato Alberto Scabini, figlio di Anna e fratello di Giuseppe. Alberto è completamento l’opposto del fratello. Estroso, spendaccione, da poco tempo ha aperto un’attività di commercio di pali e si trova in parecchie difficoltà, sommerso dai debiti. Queste difficoltà sono aggravate dalla scoperta che la madre avrebbe indicato come unico erede testamentario il fratello.

Da qui inizia la pista sul primo sospettato degli avvenimenti che hanno portato alla tragica morte di quattro persone o forse, come si scoprirà in seguito, anche di più. Trovato il possibile movente manca solo l’arma del delitto. Certo, è ormai noto che si tratta di avvelenamento da parathion, ma non è ancora chiaro di come possa essere stato somministrato alle ingenue vittime senza destare alcun sospetto. La svolta nelle indagini avviene il giorno in cui Linda Quaroni, la vedova di Giuseppe e cognata di Alberto, si reca alla caserma dei Carabinieri manifestando parecchi dubbi e scaricando accuse sul cognato. Le perplessità della Quaroni sono nate quando è venuta a conoscenza che la suocera sarebbe morta dopo aver mangiato una brioche avvelenata aggiungendo, inoltre, che il cognato le avrebbe chiesto di seppellire le altre, rimaste in casa della madre, «per evitare guai». Tra i cognati inizia un susseguirsi di accuse reciproche, da non convincere gli inquirenti e far scattare l’arresto per entrambi. Linda Quaroni viene scarcerata tre settimane dopo, quando gli indizi portano ad un unico accusato: Alberto Scabini, il quale rimase in carcere per altri 17 mesi. La ricostruzione degli eventi fu piuttosto complessa, dato che più proseguivano le indagini, più emergevano particolari che permettevano agli inquirenti di collegare ogni caso. A fare da filo conduttore di tutta questa tragica storia risulteranno essere dei dolci, ampiamente diffusi nei bar di quel periodo: i boeri.


Montù beccaria Secondo gli inquirenti Alberto Scabini avrebbe tentato di uccidere parte della famiglia per potersi garantire l’intera eredità della madre, altrimenti destinata al fratello, offrendo brioches e boeri avvelenati. Ma Alberto non poteva immaginare che la situazione gli sarebbe scappata di mano, causando la morte e l’avvelenamento di persone estranee ai fatti. Ed ecco la ricostruzione degli eventi. Il 18 giugno Giuseppe Scabini incontra il fratello Alberto e un amico al Bar Commercio di Montù Beccaria. Giuseppe saluta, mangia un boero offertogli dal fratello, e si incammina verso casa: poche ore dopo viene trovato morto a letto dalla moglie Linda. La settimana dopo la piccola Milena Scovenna mangia un dolce mentre era in visita con i genitori presso gli Scabini, per poi morire poco dopo. Nei giorni successivi Alberto si trasferisce a casa della cognata Linda per aiutarla con i lavori nei vigneti, ma proprio in questo periodo il rapporto tra i due si inasprisce. L’8 agosto su una zappatrice posta sotto un portico compare un sacchetto contenente tre brioches, alcuni boeri e caramelle. Alberto invita la cognata ad andare dagli suoceri e portargli i dolci: tra quelli c’era la brioche che il giorno successivo Anna Scabini mangerà poco prima di stramazzare al suolo e che ha fatto scattare i primi sulla colpevolezza di Alberto. Ed ora veniamo al tragico Ferragosto. A casa di Linda Quaroni, Giuseppina e Mariuccia mangiano entrambe due boeri offertegli inconsapevolmente dalla donna, certamente provenienti da quel misterioso sacchetto comparso sulla zappatrice poche settimane prima. La ricostruzione dei fatti è completata e Alberto Scabini viene formalmente indagato e processato. La notizia fa il giro di tutte le principali testate giornalistiche dell’epoca e l’indagine prende il nome de “Il Caso dei Boeri di Montù” e Scabini viene apostrofato dalla stampa come “Il Borgia di Montù”. Durante il processo Alberto risulta freddo, ammettendo fatti che potrebbero facilmente incriminarlo, ma dichiarandosi completamente innocente, rigettando le accuse della cognata Linda. «Un contadino taciturno, chiuso, lucido, estremamente duro di fondo. Parlava pochissimo, in carcere era diventato ancora più silenzioso. Mi pareva indifferente a quanto gli stava capitando» dice successivamente l’avvocato Vladimiro Sarno, difensore di Scabini. I dubbi dei giudici non vengono chiariti e il 26 marzo 1969 la Corte d’Assise di Pavia lo assolve per insufficienza di prove per l’omicidio dei tre adulti. Per il caso della piccola Milena, invece, viene assolto con formula piena, a fronte del fatto che non vi era stata alcuna autopsia e non si poteva nemmeno provare l’avvelenamento. Per la giustizia italiana Scabini non è “Il Borgia di Montù”: è innocente, o per lo meno non vi sono prove per ritenerlo diversamente. La procura generale di Milano, certa della colpevolezza, presenta

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ricorso, il quale viene fissato per il 23 maggio 1970. Ma la mattina del 27 febbraio 1970 un ennesimo, inaspettato e shoccante colpo di scena scuote per l’ennesima volta il paese oltrepadano. Alberto Scabini viene ritrovato privo di vita dalla moglie, a letto, come il fratello Giuseppe pochi anni prima. In casa non ci sono tracce di veleni o pesticidi, tanto da poter escludere il suicidio: ipotesi confermata sia dalla moglie che dal figlio. Gli inquirenti, come tre anni prima, ricostruiscono le ultime ore di questa inaspettata vittima. La sera prima Scabini rincasa per le dieci e trenta, dopo essere stato al Bar Sport e Bar Commercio, mangia insieme alla nipotina, beve una camomilla e si corica a letto con la moglie per le undici e trenta. Alle tre e mezzo di notte si rialza per andare in bagno e si rimette a letto. La moglie si sveglia alle sei e mezzo, ma preferisce non svegliarlo, finché alle sette vede il braccio a penzoloni, freddo. Tre testimoni affermano che il giorno precedente alla sua morte, Scabini si era più volte lamentato di forti dolori ai reni, sentendosi inoltre la testa pesante. Il referto delle analisi volute dagli inquirenti non lascia spazio alle interpretazioni: la morte è avvenuta per avvelenamento da partathion, come accaduto agli involontari protagonisti della tragica estate del 1967. Esclusa (ancora una volta) la morte naturale, rimangono aperti diversi interrogativi: si è suicidato o è stato ucciso? E in questo caso, chi è l’assassino? Lo stesso dell’estate del 1967 o qualcuno in cerca di giustizia? Ed ecco che entra in scena il testimone. Pochi giorni prima di morire Alberto aveva incontrato in paese una persona che il 18 giugno 1967 si trovava al Bar Commercio con lui e il fratello Giuseppe: era il testimone che al processo aveva confermato che Giuseppe mangiò un boero offertogli dal fratello. «In Assise hai detto delle bugie sulla faccenda dei boeri. Posso denunciarti per falsa testimonianza. Ho bisogno di un milione e mezzo. Se me lo dai sto zitto, altrimenti ti denuncio». Dal racconto di questo testimone emerge che lo Scabini è una persona sconvolta e ricoperta dai debiti, al quale si aggiungono le voci di paese che lo dipingono come tormentato e preoccupato per l’udienza d’appello. Le indagini vengono archiviate come suicidio. Che abbia voluto uccidersi con lo stesso metodo con il quale avrebbe ucciso le sue vittime, come tentativo estremo di essere ricordato come una delle tante vittime di un assassino mai trovato? E se invece si trattasse di un ennesimo omicidio de “Il Borgia di Montù” rimasto in libertà per anni, o forse decenni? Questo a distanza di più di cinquant’anni non potremo mai saperlo. Ma la storia poteva finire qui? No di certo, perché durante le indagini del 1967 gli investigatori scavano a fondo, andando ad analizzare altri tre eventi verificatisi alcuni anni prima, apparentemente estranei, ma con elementi che riconducono ancora una volta alla persona di Alberto Scabini.

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Il Bar Commercio di Montù Beccaria, uno dei principali scenari della vicenda

Giuseppe Scabini, è un agricoltore di 50 anni, una persona perbene, talmente legato al suo lavoro e alla sua terra da aver rifiutato una generosa offerta di Angelo Moratti interessato ad edificare sulle sue proprietà il centro sportivo dell’Inter (poi costruito ad Appiano Gentile) E con un flashback degno della miglior serie Netflix gli inquirenti ci portano indietro nel tempo, esattamente quattro anni prima degli eventi del 1967… Milano, 7 ottobre 1963. La venticinquenne Fiorenza Ironi è nella propria abitazione con il marito Carlo, sposato sole due settimane prima. Sta pranzando, e ha davanti a sé un piatto di insalata. Sbianca improvvisamente, perde i sensi e muore. Non viene richiesta alcuna autopsia, in quanto da subito si ipotizza un decesso per malore. E cosa collega questa morte, avvenuta a Milano nel 1963, con gli omicidi del “Borgia di Montù”? Il marito di Fiorenza Ironi è Carlo Scabini, il figlio di Alberto. Per questo motivo durante le indagini del 1967 a Carlo viene chiesto più volte se nell’appartamento di Milano, all’epoca dei fatti, fosse stato presente anche il padre. Si susseguono diversi “Non so”, “Non ricordo, è passato troppo tempo” ma, non essendoci prove dell’avvelenamento e non un movente, Scabini non può essere accusato a distanza di anni anche di quell’omicidio. Tornando a Montù Beccaria, il 9 novembre 1965 (due anni dopo i fatti di Milano), Luigi Bernini, ragioniere di trentaquattro anni, prende una caramella al bancone del Bar Commercio, la mette in bocca e sulla porta esclama «Che schifo! Cosa mi ha dato, del veleno?». Pochi passi verso casa, cade a terra e muore: infarto, dice il medico. Una fatalità, per un giovane trentaquattrenne… Ma non è tutto.

Il 22 dicembre dello stesso anno, la moglie del proprietario del Bar Commercio, Alba Della Valle, come tutte le mattine si sveglia presto per aprire il locale. Poche ore dopo, il marito la ritroverà riversa a terra, morta per un malore. Ma la Della Valle era una donna sana, che in cinquantaquattro anni non aveva mai avuto bisogno del medico. Poco dopo i funerali, il marito riceverà una lettera anonima, contenente poche chiare parole: “NON VENDERE PIU’ BOERI SFUSI”… di Manuele Riccardi

Giuseppe Scabini, la prima vittima della serie di omicidi dell’estate 1967



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Casteggio: alla scoperta del Museo che non si “arrende” È una delle istituzioni culturali più attive della provincia di Pavia, nonché la vera memoria storica dell’Oltrepo: il museo archeologico di Casteggio non ha mai smesso, nei mesi della pandemia, di farsi in quattro per mantenere accesi i riflettori su di sé, cercando di raggiungere virtualmente gli utenti che non potevano di persona fare visita alle sue sale. Nato nel 1974 per volontà di un gruppo di appassionati locali e dell’amministrazione comunale dopo l’importante ritrovamento di due tombe romane in via Torino, il museo è oggi diretto dall’archeologa Valentina Dezza, con cui ha intrapreso negli ultimi anni un percorso di crescita e rinnovamento. Direttrice, tra i nostri lettori ci sarà anche chi non ha mai visitato il museo di Casteggio. Possiamo raccontare loro perché (quando si potrà) varrà la pena farlo? «Io partirei dall’esterno, perché il nostro museo è ricavato all’interno della meravigliosa Certosa Cantù di Casteggio, un luogo che di per sé vale una visita. Edificata fra il 1700 e il 1705 dai monaci seguaci di San Brunone, passò a privati nell’Ottocento e fu lasciato in eredità al comune del suo ultimo proprietario, il prof. Luigi Cantù. Restaurata di recente, è il fulcro della cultura casteggiana, perché ospita anche la biblioteca. Detto questo, se già si presenta bene da fuori, dentro è ancora meglio: il nostro museo è piccolo ma ricchissimo di curiosità, una vera bomboniera in cui è conservato il passato antico del nostro territorio. Le prime due sezioni sono quella geologica e paleontologica (che raccoglie le testimonianze delle forme di vita, sia marine che terrestri, che hanno preceduto l’arrivo dell’uomo in Oltrepò, pervenuteci attraverso resti fossili di animali e vegetali) e quella preistorica e protostorica, con cui si va dal IV millennio a.C. (e cioè dal Neolitico) fino all’arrivo dei popoli celtici nel II secolo a.C., passando per l’età del Rame, del Bronzo e del Ferro con vasi in ceramica, strumenti in pietra e oggetti in bronzo che documentano i primi insediamenti umani in Oltrepo Pavese. La parte però più ricca è quella romana, tardoantica e medievale: in questa sezione sono esposti reperti che attestano l’arrivo dei Romani nel III secolo a.C. in Oltrepo. Numerosi, in particolare, i corredi funerari provenienti dallo scavo della necropoli dell’Area Pleba, riportata alla luce nel 1987 in via Torino a Casteggio. Particolarmente significativi alcuni oggetti in vetro, tra i quali spiccano un calice di produzione renana, un pregiato vassoio realizzato a stampo e un bellissimo specchietto in vetro e stagno. Una ulteriore parte del museo è invece dedicata alle collezioni: ne fanno parte materiali donati da privati cittadini al comune di Casteggio»

L’Archeologa Valentina Dezza Da dove provengono tutti questi reperti? «Da tutto l’Oltrepò Pavese, vale a dire in un’area grossomodo compresa fra Varzi e Stradella. Passeggiando tra le sue sale è possibile dunque farsi un’idea precisa delle popolazioni che vi hanno abitato nel corso dei secoli, scoprendone le abitudini e le caratteristiche. Ma non solo, ci sono anche tante curiosità come la “testina barbata” di epoca celtica, un oggetto tanto minuscolo quanto curato nei dettagli che doveva essere l’immanicatura di un coltello o di una spada e che testimonia (anche se rinvenuta in un contesto di scavo di età romana di Casteggio) il passato di Clastidium come centro, molto probabilmente, della tribù gallica degli Anares. Tra i rinvenimenti più bizzarri anche una arcaica “scacchiera” (che noi archeologi chiamiamo tavoletta lusoria) con tanto di pedine e una singolare canocchia in osso smontabile per filare la lana. E poi i bronzetti in miniatura di Giove e Mercurio davanti a cui si pregava, o un calice e una coppa di vetro colorato provenienti addirittura dalla Renania. Per non parlare ovviamente delle tombe (a Casteggio nel 1987 è stata rinvenuta un’intera necropoli, di cui sono state catalogate 33 tombe, di cui due sono state portate proprio qui, dentro il museo, con un certosino lavoro di ricostruzione) e di una foglia di vite in bronzo di piccole dimensioni, significativo per testimoniare quanto antica sia la cultura del vino in Oltrepò. Ma la vera star del museo si trova al piano terra, ed è il nostro Dolium. Si tratta di un’anfora alta oltre un metro e trenta, ritrovata nel 1996 nel giardino di una casa privata a Broni. Si tratta di un contenitore che i romani te-

nevano interrato, e che serviva a contenere derrate alimentari di diverso tipo. Ciò che lo rende particolarmente prezioso è il fatto che sia del tutto integro». Il museo è particolarmente legato ai suoi utenti, e in questi ultimi mesi lo ha dimostrato attraverso i suoi canali social. «Dover chiudere ci ha senz’altro rattristato, ma non ci siamo lasciato abbattere. In primavera siamo approdati su Facebook e abbiamo realizzato diversi video destinati soprattutto alle scuole, con interventi incentrati di volta in volta su argomenti che potessero essere collegati alle nostre collezioni. Si è parlato di diritto, di storia, di costume, di ogni aspetto della vita antica. Quanto a questo autunno, invece, ci siamo mossi soprattutto su Instagram, dando il via a una comunicazione social ricca di curiosità e approfondimenti. Ogni martedì compaiono sul nostro profilo clip video in cui si raccontano le novità del museo, mentre il giovedì mattina (tra le 10.30 e le 11) vanno in onda anche delle brevi dirette pensate per mantenere saldo il legame con il pubblico. Il fermo ci ha obbligati a familiarizzare con gli strumenti social, che offrono la straordinaria opportunità di dialogare con le persone pur non potendo tenere aperte le porte dei nostri musei. Un aiuto ci viene dal consigliere Alessandro Fraschini, che in quanto delegato al museo e alla biblioteca sta collaborando attivamente con me per produrre quanti più materiali possibili da postare online, così da non perdere la continuità che si è finalmente stabilita. I social, comunque, sono utili anche per stringere legami con le altre realtà simili alla nostra presenti in Italia: siti archeologici come quelli del Colosseo o di Pompei ci seguono attivamente,

e chissà che un domani non si possano instaurare delle vere e proprie collaborazioni». Tornando al pubblico negli ultimi anni siete stati anche molto attivi sul versante scuola, con visite e laboratori in museo. «E non solo, era appena partito un progetto bellissimo con il liceo scientifico Golgi di Broni (che fa parte delI’istituto Faravelli di Stradella, di cui è preside il professor Roberto Olivieri) che a causa della situazione attuale abbiamo dovuto interrompere. Si chiama “Archeoliceo” ed è stato presentato lo scorso 26 ottobre nell’aula magna della scuola: vero demiurgo dell’iniziativa è il prof. Enrico Corti, docente di latino del liceo il quale ci teneva a far nascere un indirizzo del liceo scientifico con caratteristiche che possiamo definire archeologiche, perché incentrato sulla multidisciplinarietà. Rivolto ai ragazzi delle prime e delle seconde, mira a far capire come le discipline archeologiche siano veramente trasversali, perché richiedono l’intervento di tanti diversi esperti. Quando si effettua uno scavo archeologico intervengono il chimico (che fa le analisi sui contenuti ancora di carattere biologico che sono stati ritrovati), il fisico (a cui spettano altri tipi di prospezioni, come quelle magnetiche), lo storico (che analizza le fonti), l’architetto (il quale si dedica ai rilievi) e così via, in una catena in cui ogni anello è collegato all’altro. Insomma è tutto un insieme che va a ricostruire un mosaico, ed è questa la realtà con cui vorremmo che familiarizzassero i giovani, sensibilizzandoli al contempo verso le antichità del territorio. Sono coinvolti nel progetto anche il professor Stefano Maggi, archeologo dell’università di Pavia direttore dello scavo archeologico di Rivanazzano Terme e il professor Ferroni, fisico. Purtroppo abbiamo dovuto sospendere le attività, ma non vediamo l’ora di poterle riprendere per rinsaldare quel rapporto con i giovani che è la chiave per la sopravvivenza del museo» Anche se è rimanete chiusi al pubblico, però, i lavori all’interno proseguono… «Nei limiti delle possibilità che abbiamo sì. In questi giorni stiamo rifacendo tutte le didascalie delle vetrine, stiamo lavorando a un nuovo sito e all’applicazione dedicata al nostro museo, ma stiamo anche progettando nuovi allestimenti in cui collocare la collezione Giulietti (donataci dal pronipote del celebre esploratore casteggiano) e la collezione Civardi (con opere del noto scultore). L’idea è che quella di sfruttare questo periodo di fermo per rinnovare un po’ l’aspetto generale del museo, così da renderlo più fruibile e accattivante».

di Serena Simula



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Maura Ghezzi ricorda il Maestro Aldo Niccolai In un momento di grave perdita per il mondo artistico vogherese e pianistico in generale, con la recente scomparsa del notissimo M° Aldo Niccolai, abbiamo chiesto un ricordo ad una delle persone e colleghe che meglio lo conosceva. La Professoressa Maura Ghezzi. Vogherese, classe 1952, la Maestra Ghezzi inizia gli studi di Pianoforte in città, proseguendo poi presso il Conservatorio “G.Verdi” di Milano con il M° Ernesto Esposito. Segue inoltre il Corso di Composizione con il M° Bruno Bettinelli e Musica Corale e Direzione di Coro con il M° Franco Monego. Per tre anni lavora presso Casa Ricordi a Milano, e poi alla Civica Scuola di Musica per quattro anni. Vince il Conorso Ordinario come docente di Educazione Musicale nella Scuola Secondaria di Primo Grado e inizia ad insegnare a Voghera alla Scuola Media “G.Pascoli”, per 17 anni, ed alla Scuola Media “G.Plana”, per 15 anni. Ha ricoperto il ruolo di Operatore Culturale dell’ Ufficio Promozione al Teatro alla Scala per 17 anni, ed é a tutt’oggi collaboratrice del Corpo Musicale Città di Voghera con progetti nella Scuola Primaria, della “Chitarraorchestra”, per il Corso di Armonia, ed alle Proposte Culturali. Come ha conosciuto Aldo Niccolai? «Aldo ed io ci siamo conosciuti giovanissimi grazie ad Aldo Bertone, suo amico fraterno. Proprio a Bertone, Aldo Niccolai ha dedicato il suo ultimo concerto a Voghera, il 26 luglio scorso». Cosa ricorda del suo percorso di studente e dei suoi primi anni d’insegnamento? «Ricordo il suo entusiasmo ed impegno costante nello studio del pianoforte, inizialmente sotto la guida del M° Giuseppe Accorsi e successivamente in Conservato-

Maura Ghezzi, professoressa di pianoforte

rio a Milano con Anita Porrini (allieva di Cortot e Arturo Benedetti Michelangeli) con cui si è diplomato con il massimo dei voti. Aldo era un giovane di grande talento tuttavia modesto, gentile e disponibile verso i compagni e gli amici ,emanava una corrente di affettuosa empatia. Ci si incontrava in Conservatorio tra una lezione e l’altra per scambiarci impressioni e commenti. Era un periodo di studio molto intenso ma esaltante perché a contatto con musicisti di altissimo livello. Il Direttore del Conservatorio di Milano era Marcello Abbado, pianista, fratello del celeberrimo Claudio, tra i massimi Direttori d’Orchestra mondiali. Abbiamo iniziato nello stesso periodo ad insegnare alla Civica Scuola di Musica, e da subito si è manifestata la sua propensione all’insegnamento: gli studenti capivano da subito che il loro Maestro riusciva a coinvolgerli positivamente allo studio musicale. Abbiamo

Il Maestro Aldo Niccolai recentemente scomparso

spesso collaborato nella preparazione di studenti agli esami: Aldo per il pianoforte ed io per Armonia». Della vostra generazione, Lei, Bertone, Niccolai, Aneomanti... insomma, siete stati parecchi a diventare famosi insegnanti. Quest’onda è poi proseguita nelle generazioni successive? «Direi di sì. Gli attuali docenti della Civica Scuola di Musica ne sono un importante e concreto esempio! Altri svolgono la professione ed insegnano nei Conservatori». Aldo ha fatto innamorare della musica tanti ragazzi, alcuni dei quali hanno anche vissuto di musica in seguito, da adulti. Ed ha fatto appassionare molte persone anche al canto, con le corali: qual era il suo, chiamiamolo, segreto, secondo lei? «Anche per l’ insegnamento, Aldo Niccolai aveva un naturale talento.

Empatia unita al desiderio di trasmettere con grande competenza il linguaggio musicale quale espressione dei sentimenti più profondi, che il linguaggio corrente non riesce comunicare». Qual è il ricordo più bello che ha di lui? «La gioia il giorno del suo Diploma. E tanti momenti significativi della sua carriera». Cosa rimarrà ora di lui, della sua arte e bravura? «Eredi sono tutti coloro che hanno studiato e si sono formati alla sua scuola». In che modo, a suo parere, la Città dovrebbe tributargli omaggio? «Suggerirei un incontro musicale con i suoi giovani studenti ed ex allievi in segno di gratitudine».

di Lele Baiardi


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TRICOLORE PER LA RIVANAZZANESE SILVIA GALLOTTI Con una prova d’anticipo, prima dell’appuntamento dell’ACI Rally Monza (Tappa 1), la navigatrice rivazzanese Silvia Gallotti ed il suo driver compago d’avventura in campo rallystico, il piacentino Andrea Mazzocchi, si sono cuciti sulla tuta lo scudetto tricolore del Campionato Italiano Rally Junior. Ciò è avvenuto sulla terra senese in cui i neo Campioni Italiani Rally Junior a bordo della Ford Fiesta Rally4 al termine di una performance di alto livello, disputata contro i bravi Mattia Vita, Giorgio Cogni ed Emanuele Rosso, hanno messo in bacheca un titolo prestigioso inseguito con determinazione. Andrea Mazzocchi e Silvia Gallotti sono quindi i nuovi campioni italiani junior! Al rally Tuscan Rewind, il driver piacentino e la navigatrice pavese hanno dato l’ennesima prova di forza contro avversari davvero indomiti: primi di classe R2B e di categoria, suggellando così, una stagione ottima chiusa con 85,5 punti. Tra gioia e ampi sorrisi si raccolgono le prime dichiarazioni: «Siamo al settimo cielo: è una gioia indescrivibile – hanno affermato i due a fine gara – perché questo era il nostro obiettivo fin da quando abbiamo iniziato a correre assieme alla fine del 2016. Ora però sarebbe un errore accontentarsi perché il bello viene adesso: il 2021 sarà sicuramente tosto e per tanto non consideriamo questo successo un traguardo bensì una tappa. Ora però… andiamo a festeggiare!». Oltrepadana Doc, Silvia Gallotti, appassionata da sempre, ha debuttato nei rally nel 2001, ha all’attivo oltre 130 gare in cui ha accumulato 3 vittorie assolute, 6 nel CIR Junior, 27 vittorie di classe, 25 secondi posti e 27 terzi posti e tantissimi piazzamenti nella top five. Ha letto le note ad un considerevole numero di piloti, da Fabrizio Soncin a Daniele Rampoldi, da Paolo Callegari a Paolo Rossi passando poi con Pierluigi Sangermani, Federico Poggi, Roberto Ottolini, Davide Vitali, Andrea “Tigo” Salviotti con il quale ha disputato 34 gare e ancora Massimo Muscia, “Asia”, Giorgio Gramegna, Paolo Rocchi, Giacomo Scattolon, Moreno Mazzocchi, Alessandro Zerbini, Giuseppe Bevacqua, Giorgio Cogni, Lisa Meggiarin con la quale si è aggiudicata il Trofeo A112 Abarth e Andrea Mazzocchi. è stata sul sedile di destra di parecchie vetture quali: Renault Clio, Mg Rover, Opel, Peugeot 206 S1.6, Honda Civic, Subaru 555, Renault Clio S1.6, Peugeot 306, Twingo RS, Citroen Saxo, Peugeot S2.0, Autobianchi A112, Renault Clio R3, Fiat 600 Sporting, Fiat 600 Kit car, Peugeot 106, Panda Kit car, Citroen C2, Fiat Punto Super 1.6 e Peugeot 208 R2.

Silvia Gallotti ha debuttato nei rally nel 2001. Ha all’attivo oltre 130 gare in cui ha accumulato 3 vittorie assolute, 6 nel CIR Junior, 27 vittorie di classe, 25 secondi posti, 27 terzi posti e tantissimi piazzamenti nella top five

La navigatrice Silvia Gallotti

Come lo scorso anno il Tuscan Rewind, tranne che per il CIR Junior, è stato l’ultimo appuntamento stagionale del rallysmo tricolore assoluto, decisivo per indicare i vincitori della stagione per quanto riguarda il Campionato Italiano Rally e per l’assegnazione del Campionato Italiano Rally Terra. Due serie combattute che, sui nobili sterrati intorno a Montalcino, hanno vissuto un’intensa battaglia finale. A vincere il titolo assoluto è stato Andrea Crugnola, in coppia con Pietro Elia Ometto, sulla Citroen C3 R5 della FPF Sport Spa, a lungo anche al comando della gara e poi superato nel finale a titolo acquisito, da Marco Bulacia. ASSOLUTA TUSCAN REWIND 1. Bulacia Wilkinson-M. Der Ohannesian (Skoda Fabia R5) in 55.02’4; 2. Crugnola-Ometto (Citroen C3 R5) a 13.5; 3. Battistolli-Scattolin (Skoda Fabia R5 Evo) a 42.9; 4. Franceschi- Haut Labourdette (Skoda Fabia R5) a 49.2; 5. CostenaroBardini (Skoda Fabia Evo) a 55.9; 6. Cairoli-Tomasi (Hyundai i20 R5) a 1’20.1; 7. Oldrati- De Guio (Skoda Fabia R5) a 1’31.0; 8. Lindholm- Korhonen (Skoda Fabia R5) a 1’36.4; 9. Signor- Pezzoli (Volkswagen Polo R5) a 1’47.0; 10. Taddei-Gaspari (Hyundai i20 R5) a 1’51.4, mentre il vogherese Giacomo Scattolon navigato da Mauro Marchionni, ha sfiorato la top ten assoluta con un buon undicesimo posto. Per quanto riguarda invece il Campionato Italiano Rally Terra il titolo tricolore scavalca l’oceano e finisce in Bolivia terra natia del bravissimo Marco Bulacia Wilkinson, in gara in coppia con Marcelo Der Ohannesian, su Skoda Fabia R5.

La Ford Fiesta Rally4 di Silvia Gallotti e Andrea Mazzocchi

L’Equipaggio Scattolon - Marchionni, per loro 11esimo posto


MOTORI Il sudamericano, venti anni compiuti a settembre ed un futuro a grandissimi livelli già assicurato, ha da tempo gli sterrati italiani come patria adottiva, riuscendo sempre a realizzare prove assolutamente straordinarie come qui dove ha ottenuto il primo posto nell’assoluta ed il titolo terra. Detto del titolo Junior andato a Silvia Gallotti e Andrea Mazzocchi, tassello finale di una brillante stagione, ricordiamo che l’undicesima edizione della gara senese, oltre ad assegnare due dei titoli più ambiti ha deciso anche quello del Due Ruote Motrici, andato a Paolo Andreucci, sempre coadiuvato da Anna Andreussi sulla nuova Peugeot 208 Rally4.

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In questa categoria l’argento è andato allo stradellino Davide Nicelli In gara con Alessandro Mattioda a bordo della Peugeot 208 R2 del team MM Motorsport: «Siamo molto contenti per il secondo posto nel 2RM ottenuto alle spalle di un pilota pluri titolato quale Paolo Andreucci – ha detto Nicelli – Onestamente di più non si poteva fare anche perché Paolo disponeva della nuova Peugeot 208 Rally4. Abbiamo un po’ di rammarico per il secondo posto nel trofeo marca, sfuggitoci per poco più di 3”. Lo abbiamo sfiorato già nella passata edizione, purtroppo lo abbiamo solo accarezzato anche quest’anno.

Silvia festeggiata da un fan a Casteggio

La Peugeot 208 R2 del team MM Motorsport di Nicelli - Mattioda

Voglio complimentarmi con il vincitore Lucchesi. è stata nel complesso una stagione positiva nonostante i condizionamenti. Direi che va bene così, perché abbiamo dimostrato di essere veloci sia su asfalto che su terra. Doveroso per me ringraziare il team MM Motorsport, che mi ha sempre messo a disposizione una vettura veloce e competitiva, gestendomi sempre nel migliore dei modi; il navigatore Alessandro Mattioda; gli sponsor che mi hanno sostenuto; i tifosi veri che mi

seguono ovunque e mio padre, la persona più importante al mio fianco, che mi consiglia. Se sono qui oggi a correre come un semiprofessionista nel massimo campionato rallistico italiano lo devo a lui. Mi spiace perché volevo dedicare la vittoria a Nicola, il patron della scuderia Maranello Corse, venuto a mancare da poco. Gli dedico i due secondi posti. Adesso mi rilasso e penserò al 2021». di Piero Ventura


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Il Mondiale ha fatto Tappa a Monza tre gli oltrepadani in gara L’evento di Monza ha chiuso il WRC 2020, essendo l’ultima tappa del calendario del mondiale di quest’anno. Questa volta il rally brianzolo non si è svolto soltanto all’interno del prestigioso autodromo, nella giornata di sabato infatti si sono toccate anche località ricche di storia rallystica nella provincia di Bergamo con prove speciali difficoltose, quali Valle Imagna e Selvino che hanno influito pesantemente sulle prestazioni di molti protagonisti. Prima di quest’ultimo atto la classifica vedeva al comando il gallese Elfyn Evans con 111 punti, inseguito a 14 lunghezze sul transalpino Sebastian Ogier e 24 dal belga Thierry Neuville. Ma al termine di una gara difficile e ricca di colpi di scena, é Sebastian Ogier a vincere il Rally di Monza 2020 diventando pure il nuovo campione del mondo del Wrc. Pur dopo una Wolf Power stage complicatissima sulle strade brianzole, il francese della Toyota sale ancora una volta sul gradino di più alto del podio e fa suo il settimo titolo iridato. è dunque grande festa per il campione transalpino che pure ha rischiato grandissimo nell’ultima SS16, la Serraglio 16: verso la conclusione della stage, per un breve lasso di tempo i tergicristalli della sua Yaris hanno smesso di funzionare. Fortunatamente Ogier è riuscito a concludere la sua prova e con il settimo crono, sufficiente comunque per consegnarli il successo come il titolo finale. La graduatoria finale del Rally di Monza infatti vede il francese in testa, con Tanak e Sordo a podio, ma rispettivamente con un gap di 13”.9 e 15”.3, mentre hanno concluso nella top five Lappi e Rovanpera. Parecchi gli italiani presenti nell’impegno iridato tra cui il veloce vogherese Giacomo Scattolon, già campione italiano Rally Junior 2014, nonché vice campione europeo ERC2 nel 2017. Il pilota oltrepadano, navigato sulla Skoda Fabia Rally 2 Evo da Giovanni Bernacchini, nonostante la competizione anomala, imponendo un ritmo in crescendo, è riuscito ad essere sempre tra i migliori degli italiani a ridosso dei mostri sacri “ufficiali” del circus iridato: 30° assoluto sulla ps1 e 3° degli italiani, 29° sulla ps2, 26° sulle ps3 e 4 e 2° tra gli italiani, alle spalle di Gamba (21°) e davanti a Spataro (29°), Miele (30°), Biolghini (31°), Perico (32°) e Ogliari (33°). Il suo volo è però rallentato da una foratura patita sulla ps5 da cui esce con il 50° tempo e oltre 3 minuti e mezzo di ritardo. Riparte di slancio sulla ps6 con il 25° tempo assoluto, ma la prova successiva gli è fatale; sulla “Selvino” infatti, una lastra di ghiaccio porta la sua Skoda ad innevarsi.

La rivanazzanese Silvia Gallotti con Andrea Mazzocchi

Non c’è pubblico e di conseguenza manca la “compagnia della spinta” e per il vogherese la giornata di gara si ferma lì tra le nevi della val Seriana. Rientrerà il giorno dopo con il super rally e 50 minuti di penalità. Scattolon onorerà sino alla fine la gara iridata facendo segnare ancora ottimi tempi, ma che in termine di classifica a poco serviranno se non a fare esperienza. Una stagione strana e bizzarra quella del bravo pilota vogherese iniziata, a Roma tra le fiamme della sua Skoda quando era secondo e chiusa tra i ghiacci della bergamasca. Altro oltrepadano in gara è stato lo stradellino Davide Maggi con Nicolò Gonella sulla Hyundai i20. Per lui una partenza difficile: 50° sulla ps1, 60° sulla ps2 e 85° sulla ps3, 79° sulla ps4, tempi imposti e qualche problema lo hanno fatto scivolare nel fondo della classifica. Nel contesto della prova iridata si è conclusa con soddisfazione anche la bella stagione 2020 per i piloti protagonisti del Campionato Italiano Rally Junior 2020, dove a vincere sono stati i neo Campioni Italiani Andrea Mazzocchi e Sivlia Gallotti, i quali hanno centrano la quinta vittoria su sette gare, aggiudicandosi tutte sei le prove speciali in programma nella battaglia tra fango e pioggia all’Autodromo Nazionale Monza. Il piacentino Mazzocchi e la rivazzanese Silvia Gallotti hanno terminato il loro 2020 con l’ennesimo successo, stavolta ottenuto nel contesto Mondiale. Sono le ore 14,00 di giovedì 3 dicembre quando

La Ford Fiesta di Mazzocchi - Gallotti

Skoda Fabia Rally 2 Evo di Scattolon-Bernacchini


MOTORI Inizia l’importante avventura nell’ambito del Mondiale Rally per i ragazzi del CIR Junior 2020, sui 4,33 km della prima prova speciale “The Monza Legacy”, i giovani a bordo delle Ford Fiesta RAlly4 di Motorsport Italia e gommate Pirelli si sono messi in evidenza con Andrea Mazzocchi navigato da Sivlia Gallotti che hanno realizzato il miglior tempo davanti al bravo varesino Riccardo Pederzani insieme a Giulia Paganoni di 10’’. Terzo crono per l’altro piacentino Giorgio Cogni affiancato da Gabriele Zanni. Bene anche l’astigiano Emanuele Rosso navigato da Andrea Ferrari. Sulla ps2, la prima della giornata di venerdì, la Scorpion di 13,43 km, MazzocchiGallotti affondano l’attacco distanziando Cogni-Zanni di 39” e Pederzani-Paganoni di 1’09”8. Anche sul terzo impegno cronometrico, Andrea Mazzocchi e Silvia Gallotti volano sempre più in alto all’ACI Rally Monza. Tre sfide cronometrate su tre vinte e leadership consolidata a ridosso dell’intervallo di gara per i neo Campioni Italiano Junior. Infatti, sono ancora loro a far segnare il miglior tempo in 11’39.6 sulla ripetizione della SS “Scorpion”, terza speciale della gara. Alle loro spalle si confermano gli equilibri con Giorgio Cogni e Gabriele Zanni sempre secondi sia in prova che nell’assoluta, che chiudono a +37.9 sulla SS3. Quindi terzo tempo per Riccardo Pederzani e Giulia Paganoni a + 52.8’’ in prova. In classifica Mazzocchi-Gallotti comandano con 1’17”6 su Cogni e 2’03”6 su Pederzani. Monza fin qui stregata invece per Emanuele Rosso e Andrea Ferrari. Prima la rottura del semiasse sulla SS2, poi l’appannamento al vetro termico dal

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Silvia Gallotti e Andrea Mazzocchi sul gradino più alto del podio

lato guidatore che lo ha costretto ad affrontare la prova successiva con scarsa visibilità. Sulla SS3 infatti Rosso ha pagato 1’34.4 di ritardo in prova dal migliore e segue in classifica staccato di 3’02”1. Se c’era bisogno della consacrazione definitiva è arrivata nel migliore dei modi per Andrea Mazzocchi e Silvia Gallotti, già Campioni prima dello start, che vincono anche l’ultima sfida in calendario per il Campionato Italiano Rally Junior 2020 nell’ACI Rally Monza, gara valida per il FIA World Rally Championship, Rally che per il CIR Junior ha assegnato il punteggio alla fine della prima tappa offren-

do una nuova occasione di successo per Mazzocchi, autore della sua quinta vittoria stagionale su sette round disputati. Cinquina che dà ancora più sapore al titolo già conquistato due settimane prima al Tuscan Rewind. Una prestazione impreziosita dal successo su tutte le sei prove disputate dagli Junior italiani sul fondo misto asfalto-terra, diventata presto fango, reso ancor più estremo dalla pioggia incessante. Un domino assoluto per il duo che ha chiuso al comando in 1:02’48.5, un tempo interessante anche a confronto con quello degli Junior internazionali a caccia del Mondiale.

«Gara tutt’altro che scontata – è stato il commento di Andrea e Silvia – È stata difficilissima, quindi la prima soddisfazione è di averla finita, poi di aver vinto. In più siamo soddisfatti anche del confronto con gli Junior del Mondiale, abbiamo preso alcuni riferimenti e alla fine eravamo sempre vicini. Alla fine di una stagione così dobbiamo ringraziare tutti coloro che ci sono stati al fianco, compresi gli altri ragazzi di ACI Team Italia, a Motorsport Italia, Pirelli e ACI Sport che ci hanno permesso di vivere una stagione importante». di Piero Ventura



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