L’Oltrepò Pavese del vino deve guardare avanti con metodo e strategia
Anno 15 14 - N° 160 163 DICEMBRE MAGGIO 2021 2020
di Cyrano De Bergerac
RIVANAZZANO l’analisi di marco TERME:salvadeo INTERVISTA a romano ferrari
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«Le aziende che più hanno patito sono quelle in cui c’erano già dei problemi pregressi» CASTEGGIO
Pagine 20 e 21
Due giovani soci e amici riaprono la storica panetteria Vai
VARZI
RIVANAZZANO STRADELLA: mattia TERME:grossi, INTERVISTA consigliere a romano di minoranza ferrari
Pagina pagina 15 26
«La maggioranza boccia il ripristino dello Sportello Donna»
vOGHERA, Restyling sito del Comune «Lo giudico insufficiente, una scatola vuota»
La “Sei Giorni” di enduro «Mi auguro che nessuno cavalchi la protesta solo per attaccare l’amministrazione»
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La torta di mandorle in cambio di stoffe dall’America SANTA MARGHERITA STAFFORA
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“Made in Oltrepò”, la vetrina on line delle eccelenze oltrepadane ARENA PO
Pagine 30 e 31
Gabriele Scabini Presidente ATC5
BRESSANA BOTTARONE
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Caccia di selezione «Lo scopo è quello di tutelare il lavoro dell’agricoltore»
Dove atterravano Messerschmitt e biplani Fiat, oggi crescono meliga, grano e frumento
Multe e tasse mai saldate Il Comune ha crediti per 8 milioni di euro
Il ritratto scanzonato del pilota-personaggio Massimo Brega
In Oltrepò tutti son capaci di organizzare eventi, a parole e con soldi pubblici
di Mario Perduca
di Antonio La Trippa
Editore
ANTONIO LA TRIPPA
MAGGIO 2021
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IN OLTREPò TUTTI SONO CAPACI DI ORGANIZZARE EVENTI, A PAROLE E CON SOLDI PUBBLICI Da sempre ma ancora di più oggi, vista la situazione economico-sociale, per organizzare manifestazioni ed eventi, ci vuole prima di tutto coraggio. In secondo luogo competenza, a seguire le risorse economiche e poi la voglia di fare. In Oltrepò non sono tante le società, gli enti o le singole persone che organizzano eventi – di tutti i tipi – enogastronomici, culturali, sportivi o quant’altro, al contrario questo territorio è ricco di persone, anche facente parte di enti, associazioni varie o partiti politici che all’annuncio di un evento o manifestazione, immediatamente sollevano dubbi, eccezioni e contro indicazioni, ma soprattutto dicono – a parole – come questo evento doveva o poteva essere organizzato. Tutto questo naturalmente a parole perché in concreto tali persone munite di tante parole e ottime idee, che sanno esattamente dove, perché e come organizzare una manifestazione, fanno tutt’altro nella vita. Ho la ragionevole certezza che se qualcuno contestasse a queste persone il loro operato professionale ribatterebbero dicendo: “Ma tu che lavoro fai nella vita?” Ed ottenuta la risposta direbbero: “Allora tu che fai tutt’altro nella vita come puoi criticare il mio lavoro?”. Ecco appunto! Detto questo non ho la presunzione di dire che coloro che criticano non siano persone capaci a priori o non abbiano buone idee, ma mi permetto invece di dire che queste loro belle e buone idee dovrebbero metterle in pratica organizzando loro stessi eventi e manifestazioni, magari, se possibile, senza l’aiuto di contributi pubblici. Val la pena di ricordare che mentre molti eventi sono organizzati con il parziale e in alcuni casi, purtroppo, il totale contributo di soldi pubblici, altri nascono grazie al coraggio di uomini che oltre alla faccia ci mettono “il grano” con il relativo rischio imprenditoriale. La cosa più semplice per molti di questi “professori da tastiera”, ai quali non va bene un evento che è uno, sarebbe quella di contro - organizzare a loro volta eventi che abbiano successo e per successo non s’intende visti dalla stretta cerchia di amici che, come spesso accade in molti casi oltrepadani, per amicizia o per carità partecipano all’evento. Le manifestazioni di successo, qualunque esse siano, sono quelle che vengono chiamate “major events” e sono eventi che hanno molti partecipanti, molti spettatori e che in primo luogo portano una visibilità al territorio ed in secondo luogo, un ritorno economico diretto al medesimo. Anche in questo caso, molti professionisti del “sì però, sì ma, bisognava fare così invece di cosà” discutono anche sul ritorno di visibilità che può portare un evento.
Discutono sul fatto che un evento enogastronomico doveva essere fatto in modo differente. Ottimo. Io dico: “Organizzalo tu e con i tuoi soldi come lo vuoi tu e con tutti i prodotti del territorio che vuoi tu!”. Altri pontificano dicendo che un determinato evento, magari sportivo non dà un’immagine corretta del territorio che lo ospita. Questo avviene normalmente negli sport motoristici. Ottimo. Io dico: “Organizzalo tu un evento non motoristico ma che porti la stessa visibilità e lo stesso numero di persone nel territorio”. Altri dicono che determinati eventi e faccio l’esempio del Giro d’Italia che arriverà in quel di Stradella, costano troppo in proporzione al ritorno d’immagine ed economico. Ottimo. Io dico: “Portala tu una manifestazione che costa meno e che abbia lo stesso prestigio e abbia un maggior ritorno economico”. Il vero problema è tutto qui: tanti hanno idee, pochi le mettono in pratica e tra quelli che di idee ne hanno tante – a parole – aleggia la speranza o la presun-
zione magari un giorno di organizzare un evento ma... fermo restando di poter usare soldi pubblici o di qualcun altro. In questo proliferare di idee sugli eventi e manifestazioni che potrebbero “far del bene” al nostro amato Oltrepò, ho notato che stanno nascendo nel nostro territorio una miriade di associazioni, tante, forse troppe, e tutte con lo scopo di promuoverlo. Promozione turistica: la finalità più ambita e “abusata” del momento! Tornando a queste tante belle e nuove associazioni di promozione turistica, un po’ le ho guardate e mi sono informato e ho visto da chi sono composte: da persone che non hanno mai fatto marketing o organizzato eventi a livello professionale e che nella vita fanno tutt’altro. Magari faranno promozione turistica e organizzeranno eventi meglio di chi lo fa di mestiere... magari... ma ho una certezza: tutte queste belle e buone associazioni sono nate per andare a mungere la mucca dei soldi pubblici. Di esempi così in passato e anche nel presente in Oltrepò ce ne sono troppi.
Sono meravigliato che i politici oltrepadani, non tutti, e mi riferisco a quei politici che non fanno parte in maniera diretta o indiretta di queste pseudo associazioni, per cui non hanno interessi diretti e quindi dovrebbero avere “le mani libere” nel decidere, a questi domando di prendere oggi ed in futuro una sacrosanta decisione, ma non elettorale per accontentare tutti, una decisione dettata dalla valutazione delle capacità di chi chiede soldi pubblici per organizzare manifestazioni, eventi o per promuovere il territorio. Basterebbe porsi una domanda: “Chi mi sta chiedendo soldi per promuovere il territorio lo ha sempre fatto con soldi pubblici o almeno una volta ha organizzato eventi o manifestazioni con i suoi soldi?”. Nota: Per manifestazioni ed eventi non intendo le sagre di paese, che pur rispettabilissime sono tutt’altra cosa.
di Antonio La Trippa
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LETTERE AL DIRETTORE
MAGGIO 2021
«Vaccinare un parente per ogni ospite di Rsa» Gentile Direttore, a oltre un anno dall’inizio della pandemia si intravede, grazie ai vaccini, qualche flebile luce per la lenta uscita da questa triste e dura situazione. Tutte le categorie sociali hanno sofferto, anche se in diverso modo. Non voglio fare qui un’analisi di questi mesi, ma sottolineare un aspetto dell’attualità legata ai piani vaccinali. È chiaro, credo a tutti, che tante sono le esigenze, tutte giuste e supportate da valide motivazioni ed è difficile stabilire, per chi deve decidere, una tremenda classifica dove non tutti possono essere primi, ma ci sono anche secondi, terzi, quarti, quinti, etc…(inutile, ipocrita e ingannevole dire a tutti o a tanti che sono prioritari). È triste riconoscerlo, ma nei fatti esiste un oggettivo «conflitto» generazionale, sociale, economico in queste scelte, non possiamo eliminarlo e nasconderlo, è così e bisogna affrontarlo, governarlo e gestirlo. Tutta la Comunità scientifica lo afferma e un anno di numeri e lutti ha mostrato che la categoria che è stata più decimata è quella dei nostri anziani. So bene che i giovani, i giovanissimi, alcune categorie produttive
hanno sofferto duramente, ma qui parliamo di decine di migliaia di persone (i nostri padri, i nostri nonni, con nomi e cognomi), che hanno perso la vita, il bene più prezioso. In particolare quelli che sono ospiti nelle Rsa sono stati colpiti in modo ancor più duro. Ora giustamente sono stati vaccinati, spero tutti o quasi; ma da un anno quelli sopravvissuti, e credetemi, non è un termine esagerato, continuano a vivere una tremenda condizione di isolamento dai familiari, solo parzialmente attutito da alcune misure minime che non sto a descrivere e dalla indubbia buona volontà del personale; la loro condizione fisica e psicologica ne risente molto pesantemente. Tenendo conto che gli ospiti delle Rsa in Lombardia sono circa 60.000 è così difficile ipotizzare subito, non fra mesi, la vaccinazione di almeno un parente per ospite per consentire un rapido inizio di ingressi e visite vere per farli riprendere a sperare in un qualche futuro? In una società solidale e umana credo si debba avere il coraggio di fare scelte conseguenti. Rosa Gazzaniga - Voghera
«Ci vogliono più piste ciclabili» Egregio direttore, scrivo questa lettera per fare giungere il mio messaggio ai sindaci dei comuni dell’Oltrepò. L’argomento è quello della “sicurezza stradale”. Le difficoltà che si incontrano, che sto riscontrando utilizzando la bici, per sport, per andare a scuola la sera, o per le commissioni quotidiane, sono le buche che ci sono a bordo strada, spesso rattoppate male, e per questo bisogna spostarsi verso il centro della carreggiata rischiando un incidente con le automobili che passano, a volte anche ad alte velocità, non rispettando la distanza di 1,5 metri e che a volte girano senza utilizzare l’indicatore di direzione tagliando la strada, per non parlare poi della mancanza di progettazione di piste ciclo-
pedonali. Stessa cosa la vivono i pedoni (giovani o anziani) o peggio ancora disabili in sedia a rotelle, costretti la maggior parte delle volte a camminare a bordo strada per mancanza di marciapiedi sicuri, o per le barriere architettoniche presenti ancora nei paesi. Con questa invito i sindaci a fare il più in fretta possibile ad attuare, non solo sulla carta, a realizzare piste ciclopedonali che servono disperatamente a chi vive pericoli ogni giorno sulla strada, e si muove senza auto, cosa che dovremmo iniziare a fare di più tutti quanti. Grazie della cortese attenzione Giorgio Maini Broni
«Sulle prenotazioni dei vaccini non mi sembra tutto trasparente» All’attenzione del Direttore, scrivo a lei per portare all’attenzione di tanti quanto sta spiacevolmente succedendo ed è già successo a Voghera in una realtà del terzo settore che fa tanto bene, che tanto continuerà a farne, e che conosco dall’interno, in quanto la mia famiglia ha sempre operato dal suo interno con senso di sacrificio e volontariato .Dalla guerra al Coronavirus siamo passati alla guerra per il vaccino, con alcuni in prima fila non per far sì che questi possano arrivare il prima possibile per tutti, ma in prima fila per farsi vaccinare, cercando una via preferenziale che trovo a dir poco indegna. Questa realtà ha stilato la lista dei suoi operatori e volontari che potessero ricevere il vaccino in via prioritaria o preferenziale dir si voglia. Nella lista sono stati inseriti anche molti nomi
non operativi e non tutti potenzialmente in contatto con quelli che invece operativi lo sono, con una dottoressa, iscritta alla stessa realtà associativa, che ha vaccinato gli iscritti. Quello che rientra in un’italica logica dell’essere sempre più furbi cercando di gabbare gli altri, è che in questa lista sono finite anche persone che non c’entrano nulla. Parlare di sdegno è riduttivo. Pensare che qualcuno possa avere una corsia preferenziale in questo momento emergenziale è a dir poco disdicevole. E la cosa ancora più brutta è che per colpa di qualcuno ci va di mezzo il buon nome di un’istituzione intera. Trovo inutile fare cene e vantarsi di fare beneficenza quando non c’è il rispetto delle regole che devono essere uguali per tutti. Lettera Firmata - Voghera
«Ho paura di tornare alla mia auto dopo il lavoro» Gentile Direttore, vorrei portare alla vostra attenzione un problema ormai ricorrente percorrendo il centro di Voghera . Io sono un’impiegata di uno studio di commercialisti in centro a Voghera zona via Emilia e quindi a causa covid vengo in auto al lavoro, (anche se la mia collega che viene in treno muore di paura uguale) il problema è che quando torno alla mia auto, che generalmente parcheggio in zona piazza San Bovo, intorno alle ore 19/19.30, spesso sono contornata da gente ubriaca che ti segue ed alcune sere orsono hanno fatto finta di tirarmi addosso la bottiglia vuota ed alcune volte mi hanno seguita fino a dove avevo parcheggiato l’auto ed hanno fatto fatica ad andarsene. Ho paura! Io sono cresciuta in paese limitrofo a Voghera già da neopatentata venivo a parcheggiare vicino a Piazza Meardi o parcheggi simili anche di
sera e sola ma non ho mai avuto così paura come ora! Non vedo volanti o altro che possono venire in soccorso e se chiamo ora che arrivano se volessero farmi qualcosa è tardi… Cerco di parcheggiare dove la mettono le mie due colleghe per non essere sola al ritorno ma non è sempre possibile visto i pochi parcheggi di Voghera Alla mattina devo ragionare, oltre a mettere sempre i pantaloni, anche al tipo di scarpe perché se dovessi aver bisogno di correre per scappare come faccio se ho su 5 cm o più di tacco?? Secondo voi sono ragionamenti corretti da dover fare per andare a lavorare??!! Per favore aiutate le ragazze/donne che si recano a Voghera a essere sicure! Lettera Firmata - Rivanazzano Terme
LETTERE AL DIRETTORE
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CYRANO DE BERGERAC
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L’Oltrepò Pavese del vino deve guardare avanti con metodo e strategia L’Oltrepò Pavese della vite e del vino si trova alle prese con il sogno ripartenza schiacciato in una congiuntura che stritola il mondo del vino nazionale. Mentre si avvicinano due eventi che, giocati bene, potrebbero dare grande visibilità positiva al territorio, l’arrivo di tappa del Giro d’Italia a Stradella e la Sei Giorni Internazionale di Enduro, il settore si interroga. “In questo momento servono strumenti per mettere in sicurezza finanziaria migliaia di aziende del vino piegate dalle chiusure horeca, con 500 milioni di euro di crediti incagliati e mancate vendite, franco cantina, per 1,5/1,8 miliardi di euro. Contestualmente servirà anche una promozione verso i Paesi terzi più flessibile per intercettare il rimbalzo che ci attendiamo. Il settore deve ripartire da questi 2 capisaldi, mentre pensiamo che la distillazione non sia adatta a questo particolare momento”. Lo ha detto il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Ernesto Abbona, in seguito alla recente riunione del Tavolo vitivinicolo con il sottosegretario pavese al ministero delle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio. Per il presidente Uiv: “Il vino italiano nei prossimi mesi si gioca il proprio futuro. Se attraverso il Fondo filiere si riescono ad adottare misure finanziarie efficaci per traghettare il settore fuori dall’impasse, saremo pronti a ripartire. Altrimenti si rischiano dinamiche distorsive a catena, in particolare sul fronte dei prezzi, in grado di travolgere un sistema sin qui vincente. Tra mancati ricavi e crediti non evasi il quadro del mercato oggi è però particolarmente fluido e sarebbe un peccato non approfit-
tare di uno scenario che potrebbe rivelarsi favorevole. Questa – ha concluso Ernesto Abbona – è una crisi di liquidità, non più di mercato, e se non assecondiamo la domanda latente questa si rivolgerà altrove”. Le principali misure di emergenza proposte al Tavolo da Unione italiana vini riguardano misure a sostegno della liquidità delle imprese che hanno perso fatturato, con il rafforzamento del contributo a fondo perduto, con l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assistenziali anche per il 2021 e la sospensione dei pagamenti delle imposte e del versamento dell’IVA sui crediti commerciali incagliati. Interventi richiesti anche in merito allo stoccaggio dei vini Dop e Igp e all’approvazione dei decreti attuativi sulle rese dei vini generici e sulla sostenibilità. Al netto di ulteriori emergenze sanitarie, l’Osservatorio Uiv prevede per il 2021 una ripresa significativa sul mercato interno rispetto allo scorso anno, anche se al confronto con il 2019 mancheranno all’appello ancora 2 miliardi di vendite al consumo. Luce verde anche per l’export, forte della ripartenza attesa sui principali mercati, dove le campagne vaccinali sono in fase molto avanzata. In questo contesto, secondo Uiv, le cantine italiane riuscirebbero a chiudere la campagna vendemmiale a fine luglio con 38,5 milioni di ettolitri di vino, 1,3 milioni in più rispetto a un 2020 in crescita produttiva del 3%. Un dato tutt’altro che preoccupante, considerando che con le gelate di questa primavera si attende una vendemmia in riduzione. Inoltre, in favore del Belpaese giocheranno da una parte
le previsioni di vendemmia di una Francia funestata dalle gelate (32 milioni di ettolitri previsti, minimo storico), dall’altra l’espulsione nei fatti dei vini australiani dal mercato cinese: nel primo trimestre dell’anno, gravato da un dazio del 218%, l’import di Pechino di vino Aussie si è infatti quasi azzerato, e le prospettive nel medio-lungo termine segnalano un vuoto da riempire pari a 1,3 milioni di ettolitri solo di vino rosso. Anche in questo caso, la minore produzione francese potrebbe fornire l’occasione storica per il nostro Paese di costruire una vera alternativa di valore per gli importatori del Dragone.
L’Oltrepò Pavese deve guardare avanti con metodo e strategia per non perdere il treno della ripartenza in un quadro nazionale complesso da decifrare. In quest’ottica saranno fondamentali buone scelte del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, del sistema della cantine cooperative e degli attori privati. L’unione può fare la forza, purché sia un’unione sul valorizzarsi tramite l’enoturismo e il mercato del vino a valore.
di Cyrano de Bergerac
OLTREPò PAVESE
MAGGIO 2020
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Tra crisi e nuove opportunità: «Le aziende che più hanno patito sono quelle in cui c’erano già dei problemi pregressi» Una crisi innegabile, ma anche un’opportunità per innovarsi, trasformarsi e portare davvero il proprio modello di business nel nuovo millennio: si deve cambiare prospettiva per cogliere i lati positivi di quest’ultimo anno dal punto di vista dell’imprenditoria, eppure qualcosa di buono c’è. Ne abbiamo parlato con Marco Salvadeo, presidente della sezione Oltrepò Pavese di Assolombarda, titolare di due aziende di consulenza (una nel ramo aziendale e una nel ramo risorse umane) che ci ha aiutato a fare il punto sull’impatto che l’emergenza Coronavirus ha avuto sull’economia locale, e su quali sviluppi futuri possiamo attenderci. Cominciamo da qualche numero: avete già un’idea delle perdite registrate dall’industria pavese negli ultimi mesi? «Sì, Assolombarda ha raccolto una serie di dati che fotografano in generale la situazione sul territorio. Il Covid-19 ha impresso uno shock senza precedenti sull’economia pavese, così come in Lombardia e in Italia. Sul fronte degli scambi con l’estero le imprese locali hanno perso, nei primi sei mesi del 2020, 236 milioni di euro di fatturato, pari a un calo del -11,9% rispetto allo stesso periodo del 2019. Il dato è ovviamente negativo, ma comunque migliore rispetto al resto della regione, la cui media si è assestata a -15,3%. La migliore performance pavese è legata alla presenza nel nostro territorio di settori essenziali, come farmaceutica (+16,4%) e alimentare (+15,8%) che crescono a doppia cifra. A subire pesanti contraccolpi sono stati i metalli (-28,4% di esportazioni) e la meccanica (-26,8%), così come la calzatura (-17,9%) e la chimica (-7,0%). Allo stesso modo il Pil pavese è previsto in flessione del -9,2% nel 2020, un calo meno intenso rispetto al -10,2% regionale. Il rimbalzo del 2021 è atteso del +6,2%, così da limitare al -3,6% la perdita cumulata del PIL pavese a fine 2021 rispetto al 2019. Questo gap è leggermente più contenuto rispetto a quello della Lombardia (-4,1%) in quanto Pavia beneficia della più vivace ripartenza del manifatturiero che costituisce una vocazione distintiva del territorio». La miglior tenuta dell’industria locale è stata solo dai settori che vi operano?
«Si e no. Sicuramente nel nostro territorio ci sono tante aziende che non si sono fermate nemmeno durante il lockdown della scorsa primavera perché operano in settori primari, ma il discorso non si ferma qui. Non è solo una questione di eterogeneità delle aziende, ma anche di dimensioni: piccole e medie imprese sono più flessibili, e quindi sono riuscite a rispondere meglio alle sfide poste da questa situazione» Nell’analisi dei dati ha già accennato a quali settori sono addirittura cresciuti, possiamo dire altro in merito? «Possiamo fare un ragionamento più generale. Sicuramente il settore che ha perso meno è quello alimentare, ma anche qui bisogna fare delle distinzioni: chi vendeva alla grande distribuzione o ai privati ha retto bene al colpo (anzi, ha aumentato le vendite), mentre chi ha sofferto di più sono i produttori che destinavano il grosso delle loro vendite ai ristoranti e ai locali. Tra questi ultimi è riuscito a stare meglio a galla chi ha sviluppato un sito con un e-commerce funzionale. A questo proposito si è sviluppata molto anche tutta la logistica (che, non dobbiamo dimenticare, fra Broni e Castel San Giovanni occupa circa 10 mila persone), vera e propria protagonista di quest’ultimo anno. Tantissime nuove assunzioni hanno riguardato i centri di smistamento per le vendite online, in quella che potremmo davvero definire una nuova rivoluzione industriale. Bene (ed è tutto correlato) anche il settore dell’hi-tech». E riguardo alle aziende in crisi, ne abbiamo? «Qualcuna c’è, ovviamente, anche se mi è impossibile fare nomi. Il periodo per certi settori è stato deleterio, ma posso dire che le aziende che più hanno patito sono quelle in cui c’erano già dei problemi pregressi. Chi, purtroppo, aveva tra le mani un modello di business già poco attuale oppure non aveva una gestione finanziaria solida ha ricevuto il colpo di grazia». Dobbiamo aspettarci numeri drammatici quando sbloccheranno i licenziamenti? «Credo meno drammatici di quello che si potrebbe pensare. Non perché la situazione non sia grave, ma perché la maggior parte delle aziende veniva già da un lungo periodo di crisi economica: aveva già tirato la cinghia negli anni scorsi, tagliando tutto il tagliabile.
Marco Salvadeo, presidente della sezione Oltrepò Pavese di Assolombarda
Sarebbe difficile, in tante realtà, pensare a un’ulteriore riduzione del personale». E per quanto riguarda lo smart working? è un modello che le aziende manterranno in futuro? «Personalmente credo proprio di sì. Dopo un anno tutte le aziende lo hanno sperimentato e portato a regime, e credo si siano ampiamente rese conto del fatto che lo stesso lavoro che si faceva in ufficio (per tante attività, non per tutte) si può tranquillamente svolgere da casa. Anzi, dirò di più: credo che il nostro territorio beneficerà di questa nuova abitudine. Se i dipendenti delle aziende (e penso principalmente alle aziende milanesi) potranno continuare lavorare da casa, significa che avranno più tempo per frequentare la loro città finito il turno di lavoro, oppure in pausa pranzo. Mi aspetterei un ripopolamento della provincia, a beneficio dell’economia locale e a chilometro zero. Conosco personalmente diversi dirigenti d’azienda che hanno deciso di trasferirsi sulle nostre colline, e spero vivamente che consentano ai loro dipendenti di fare la stessa cosa conservando il loro lavoro». Ma alle aziende converrebbe? «Se pensiamo a cosa può costare l’affitto di un palazzo o di un grande ufficio a Milano, con tutti gli oneri connessi, io credo che la risposta non possa che essere sì. Ma penso che converrebbe loro anche a livello di immagine: chiedendo ai loro dipendenti di non andare
ogni giorno a Milano ne migliorerebbero la qualità della vita, contribuendo anche a diminuire le emissioni e il traffico, e cioè giovando quindi anche al territorio in cui si collocano». Mi sembra che di tutta questa situazione lei sia incline a cogliere gli aspetti positivi. «Non dico che non ci siano aspetti negativi, anzi. Ci sono e ci saranno, in una misura che ancora non siamo nemmeno in grado di calcolare. Però è indubbio che le nostre aziende siano state capaci di reagire alla tempesta che ci ha travolti, attuando spesso delle vere rivoluzioni interne. Abbiamo assistito a un balzo in avanti dal punto di vista della digitalizzazione, abbiamo visto piccole attività di paese attrezzarsi con app, siti e delivery, dimostrando la loro capacità di reagire alle difficoltà. Il Covid, da questo punto di vista, ha accelerato notevolmente un processo che era già in atto». Un’ultima domanda sull’attività di Assolombarda: quali sono gli argomenti all’ordine del giorno? «In primis, ovviamente, l’emergenza di cui abbiamo parlato fino ad ora. La preoccupazione principale è quella di riuscire a dare un po’ di respiro alle aziende più colpite, ma di questi tempi si discute anche di vaccini. Confindustria ha lanciato l’idea di vaccinare i dipendenti nei luoghi di lavoro, e tantissimi imprenditori si sono detti favorevoli. Ovviamente l’iter sarà un po’ lungo, ma è bello sapere che i nostri industriali sono pronti a intraprenderlo. Per il resto abbiamo appena stilato il piano strategico per i prossimi mesi, e oltre alla questione Covid rimangono sul tavolo altri temi: quello delle infrastrutture (tra le priorità del piano di rilancio Assolombarda individua la realizzazione delle infrastrutture digitali e delle opere strategiche per il territorio, come il nuovo ponte della Becca e la Superstrada Vigevano-Malpensa), quello della sostenibilità (in chiave di miglioramento della qualità ambientale del territorio) e quello della formazione tecnica (a cui stiamo lavorando con l’Università di Pavia e con le scuole superiori, nell’ottica dell’inserimento nei programmi scolastici di una didattica applicata)». di Serena Simula
VOGHERA
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Restyling sito del Comune «Lo giudico insufficiente, una scatola vuota» Alessandro Traversa, 35 anni, è il coordinatore provinciale del partito +Europa. Dopo essersi candidato alle passate elezioni vogheresi nella coalizione guidata da Pier Ezio Ghezzi, sta proseguendo insieme al sodalizio dei “civici” un percorso di opposizione allargata, che vede nei tre consiglieri comunali eletti (Ghezzi, Barbarini, Vicini) gli alfieri di un più ampio e ben affiatato gruppo. Traversa, in particolare, nella vita si occupa di comunicazione. E dunque gli abbiamo posto alcune domande a riguardo della transizione digitale avviata in questi ultimi mesi dall’Amministrazione Garlaschelli (che ha delegato la consigliera Gloria Chindamo a farsi carico di questo bel grattacapo). Come giudica il restyling del sito del Comune di Voghera, inaugurato negli scorsi giorni? «Lo giudico insufficiente purtroppo. È migliorata la veste grafica se si accede da browser, l’aspetto è sicuramente più gradevole, ma trovo il sito mal strutturato, non intuitivo, ancora molte pagine non aggiornate e dopo sei mesi non esiste ancora nessun servizio digitalizzato. Una scatola vuota. Le cose peggiorano se ci si collega da smartphone, la confusione regna sovrana ed è un peccato, perché la pagina del comune è una vetrina anche per chi non conosce il territorio.» Quali suggerimenti pensa possano essere utili ai fini del miglioramenti del servizio? «Come dicevo in precedenza rivedere la struttura del sito, sopratutto con la navigazione da smartphone, e poi adeguarsi il prima possibile al Decreto Legge “Semplificazione digitale” che prevede fondamentalmente tre cose: utilizzo dello S.P.I.D. (Sistema Pubblico di Identità Digitale) e della C.I.E. (Carta d’Identità Elettronica) come sistema unico di accesso ai servizi digitali, utilizzo della piattaforma pagoPA, avviare i progetti di trasformazione per rendere disponibili i servizi sull’app IO. Questo prevede la Legge, siamo stati rassicurati che verranno implementati a breve, lo avevamo già chiesto tre mesi fa. Oggi la situazione è la medesima. Un consiglio spassionato, si parta a digitalizzare l’anagrafe». In generale, come giudica i primi passi nella direzione di una Voghera più “digital”? «La digitalizzazione del comune di Voghera era ferma ai primi anni 2000, un disastro. L’ingegner Chindamo si è trovata in una situazione che definirei surreale, ma aggiornare i PC del comune, predisporre le video-chiamate e utilizzare il POS per i pagamenti è la normalità da anni per molti comuni. Nulla ha a che fare con la rivoluzione digitale.
Il concetto di Smart-city è molto più ampio, passa dalla realizzazione di uno sportello open-data, all’utilizzo dei big-data per la gestione e la pianificazione della città. Dal traffico, alla qualità dell’aria per finire al marketing territoriale. Alleanza Civica ha chiesto al sindaco con interpellanza quale sia la road-map per la digitalizzazione, la risposta è stata fumosa. Serve un assessore che si occupi di Transizione digitale, un assessore che deve avere voce in capitolo in tutte le scelte della giunta, non basta l’impegno di un consigliere comunale che non può e non ha gli strumenti giusti per avviare la rivoluzione digitale.» Lei svolge inoltre il ruolo di Admin del gruppo Facebook “Politica @ Voghera”. In questo momento di spostamenti limitati, la piazza virtuale è ancora di più il luogo principale dove si confrontano le diverse anime della città. Da questo suo punto di osservazione privilegiato, come le sembra si stiano riposizionando le varie formazioni politiche a sei mesi dalle elezioni che hanno visto vittoriosa la coalizione guidata da Garlaschelli? «Io sono uno dei tre Admin della pagina, coadiuvato da altri due amici: Andrea Bertelegni e Fabio Tordi. Come sempre nel periodo della campagna elettorale abbiamo avuto un boom di accessi e interazioni, la campagna elettorale anomala in periodo Covid ha sicuramente incrementato questo trend ed ha portato i partiti ad utilizzare prevalentemente le piattaforme social per la campagna elettorale. Dopo le elezioni, rispetto al passato la pagina ha mantenuto un livello alto di discussione. Le posizioni dei partiti mi paiono cristallizzate come a ottobre, ci sono stati dei passaggi in consiglio comunale che su singoli temi hanno riavvicinato le varie anime dell’opposizione, penso al voto sul bilancio o alla richiesta di trasparenza sulla vicenda giudiziaria che coinvolge l’assessore Miracca.» Vuole commentare il recente attacco subito da uno degli altri referenti del gruppo? «Una situazione che ci ha profondamente turbato. Per questo motivo rivedremo le regole di pubblicazione del gruppo. Preferiamo non dire altro». In particolare, le pare che le variegate componenti dell’opposizione siano intenzionate in qualche modo ad imbastire un dialogo? «Credo che su molti temi cruciali ci siano ancora una netta contrapposizione, ed è normale che sia così, buona parte dell’opposizione faceva parte della vecchia giunta. Io credo che per il momento si debba fare una opposizione intelligente. Per esempio l’O.d.g. “Figli Costituenti” portato in Consiglio Comunale dai Consiglieri di Alleanza Civica, Ghezzi, Barbarini e Vi-
«Non basta l’impegno di un consigliere comunale che non può e non ha gli strumenti giusti per avviare la rivoluzione digitale» cini è stato controfirmato da Ilaria Balduzzi del Pd e da Antonio Marfi del M5s ed è poi passato quasi all’unanimità. Ci sono temi che uniscono, partiamo da quelli.» Attualmente lei ricopre il ruolo di coordinatore provinciale di “+Europa”. Qual è la visione del vostro movimento per quanto riguarda il territorio oltrepadano? «Per il rilancio dell’Oltrepò crediamo che debba nascere una cabina di regia fra i vari territori. Fra poco arriveranno importanti risorse dal Recovery Fund, serve un piano strategico per il territorio, ci giochiamo lo sviluppo della provincia di Pavia per i prossimi vent’anni. +Europa nonostante le difficoltà del periodo è riuscita a mantenere una buona percentuale di iscritti, e di questo sono mediamente soddisfatto. Continuano i contatti con il mondo liberaldemocratico e riformista, abbiamo ottimi rapporti a Pavia con Azione tramite Angela Gregorini e Riccardo Casarini, con Italia Viva con Emanuele Roccato e Emanuela Marchiafava, con Volt Italia tramite Salvo Trotta e ovviamente con Alleanza Civica a Voghera di cui + Europa con Radicali Italiani fa parte con Voghera+Libera. Appena la situazione Covid migliorerà dovremo incontrarci e continuare un percorso riformista insieme.» Come sta proseguendo l’esperienza della lista civica “Voghera+Libera”, di cui “+Europa” ha fatto parte durante la passata tornata elettorale? «Prosegue in modo ottimale, il gruppo di Voghera+Libera è rimasto unito, e siamo rappresentati ottimamente in consiglio comunale dai Consiglieri Ghezzi, Barbarini e Vicini. Lavoriamo in sinergia sia sui documenti da presentare in consiglio comunale sia nella pianificazione dei Webinar. È un progetto che proseguirà e si rafforzerà col tempo. Un percorso simile sta avvenendo a Milano per le prossime comunali. Siamo stati un piccolo laboratorio in questo senso.»
Alessandro Traversa coordinatore provinciale del partito +Europa.
Da qualche settimana ha inaugurato insieme a Emanuele Bottiroli e Fabio Salmoirago una serie di podcast: “I socialisti”. Con il termine “Socialisti” si intende “esperti di social”: non si tratta dunque di una pagina politica, a dispetto del nome; ciò non toglie che nelle vostre intenzioni questo spazio avrà anche risvolti pratici e non soltanto analitici. Vuole parlarci di questa esperienza e di come potrebbe rendersi utile sul nostro territorio? «Una doverosa premessa il progetto “I Socialisti” riguarda il mio ambito lavorativo, e appunto, non è inerente al mio percorso politico. Nasce dalla stima di tre amici accomunati dalla passione per il mondo digitale, le nuove tecnologie e la comunicazione. È un progetto ad ampio respiro. Attraverso il nostro podcast vogliamo aiutare gli imprenditori a ripensarsi sul nuovo orizzonte digitale che può offrire grandi chance di rilancio e posizionamento a valore di prodotti e brand. L’effetto domino della pandemia ha accelerato un processo di migrazione verso web e social che può avere un lieto fine solamente attraverso competenze, strategie e piani di comunicazione mirati. Come trasformare la comunicazione in business e adattarsi a un mondo in continua evoluzione. È un’avventura molto stimolante che sta avendo un buon riscontro, abbiamo già programmato i prossimi podcast con ospiti di alto valore. Seguiteci su Facebook, Youtube e Instagram.» di Pier Luigi Feltri
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«Ci ho visto lungo su Andrea, sentiremo parlare di lui» Se c’è una cosa che la pandemia dovrebbe aver insegnato a tutti noi, questa è l’importanza di saper resistere. Proprio chi in un contesto così ostile ha saputo mantenere la forza necessaria per portare avanti i propri sogni e raggiungere i propri obiettivi, si è ritrovato nelle mani un risultato ancora più meritato. È il caso, per esempio, di un giovane vogherese: Andrea Arbasino, 16 anni. Un cognome “di peso” per un cittadino iriense; Andrea infatti è nipote del noto avvocato Ambrogio Arbasino, cugino dell’ancor più noto Alberto Arbasino, penna fra le più prestigiose del Novecento italiano. Lungi dal prestigio giuridico e letterario dei suoi illustri parenti, il sogno di Andrea è quello di diventare un ballerino professionista. Per intraprendere questa via, era necessario tentare l’ammissione in un’Accademia. Una formazione in un’istituzione prestigiosa è il primo passo per tentare di intraprendere una carriera ricca di soddisfazioni nel mondo coreutico. La difficoltà principale di Andrea (quella che ha reso manifesta la sua grande resilienza) è stata il doversi scontrare con le restrizioni dovute alla pandemia, che hanno sconvolto non soltanto la sua quotidianità, ma anche un momento estremamente delicato della sua formazione. Il più delicato, anzi. Andrea non poteva raggiungere la sua scuola di danza, luogo deputato agli allenamenti. Allo stesso tempo non poteva permettersi di perdere un solo giorno di lavoro, dopo aver già investito tre anni di studio presso l’Accademia del Teatro Alla Scala, e dopo un allontanamento traumatico dall’istituzione meneghina. Ma la preparazione, in qualche modo, è continuata. E alla fine Andrea Arbasino ha trovato la sua destinazione: è stato infatti scelto dalla European School of Ballet di Amsterdam, che gli ha addirittura proposto di trasferirsi immediatamente in Olanda, senza nemmeno attendere l’inizio del nuovo anno accademico di studi, a settembre. E Andrea non se l’è fatto ripetere due volte. Si trova già ad Amsterdam dove attende di concludere la quarantena disposta dalle autorità locali per coloro che provengono dall’estero, e poi inizierà a lavorare ancora più alacremente che nei mesi passati. Chi ha sempre creduto in lui è stata la sua insegnante di danza, Carola Freddi, direttrice della scuola Caput Villae di Codevilla. Un punto di riferimento per il settore, dal quale già in passato giovani artisti hanno spiccato il volo verso prestigiose accademie. Andrea, tanto per iniziare congratulazioni e in bocca al lupo per questa bella avventura.
Andrea Arbasino
Quanto hai lottato negli ultimi mesi per ottenere questo risultato? «Ho lottato tanto. La delusione derivata dalle fine dell’esperienza in Scala mi aveva buttato molto giù. Molte volte ho pensato di non essere in grado di andare avanti su questa strada, non mi sentivo all’altezza... tante emozioni, tanti pensieri nella testa, ma la mia fortuna è stata quella di avere dei genitori e un’insegnante fantastica che mi hanno sostenuto anche in questi momenti molto difficili.» Quali difficoltà hai dovuto sostenere? «Ci sono state molte difficoltà. La pandemia non ci ha permesso di continuare a studiare in scuola di danza; abbiamo dovuto trovare una soluzione che ci permettesse di continuare il nostro studio e di raggiungere il nostro obbiettivo: quello di entrare in un’accademia. Per mesi ho lavorato nella casa di famiglia che avevamo appena ristrutturato... era ancora vuota, quindi abbiamo cercato di renderla il più possibile simile ad una sala di danza. Il risultato non è stato fantastico, ma l’importante era non perdere il ritmo. Ci siamo accontentati; abbiamo lavorato su un pavimento non adatto, duro e scivoloso.» Qual è stata la prima cosa che hai pensato quando ti è stata comunicata la proposta di trasferirti in Olanda? «Quando mi è stata annunciata la bella notizia, ossia che mi sarei dovuto traferire in Olanda per raggiungere l’Accademia, sono rimasto... scioccato. Tanto che, preso dalla gioia, non riuscivo neanche a parla-
re! Ma in quel momento tutte le mie emozioni ballavano dentro il mio corpo per la felicità.» Come stanno andando i primi giorni ad Amsterdam? «I primi giorni qui ad Amsterdam stanno andando molto bene. Attualmente sono in quarantena, sono chiuso in una stanza accogliente, luminosa, e in compagnia con un’amica, pure lei ammessa all’Accademia. Ho la possibilità di seguire le lezioni di danza online: non è la stessa cosa, ma meglio tenersi in allenamento. L’Accademia sembra essere perfetta, ci sono tantissime tipologie di ballo che sto scoprendo, e siamo seguiti da veri professionisti. Era quello che stavo cercando.» Come si conciliano gli impegni nella danza con la scuola? «Ho iniziato a settembre una scuola professionale, che mi permette di dedicare più tempo possibile alla danza. La mole di lavoro è minore, ma cerco di impegnarmi e di dare il massimo anche a scuola: viaggio con una media alta, ritengo importanti entrambi i due percorsi.» L’ammissione alla European School of Ballet è ovviamente per te un punto di partenza, non certamente un punto di arrivo. Qual è il tuo sogno nel cassetto? «Per me l’ammissione all’European School of Ballet è un nuovo tutto! Grazie a questo potrò crescere come ballerino e come uomo, e imparerò nuove lingue. È una strada difficile, ma la affronto con determinazione.»
Abbiamo rivolto alcune domande all’insegnante di danza classico-accademica di Andrea Arbasino. Si tratta di Carola Freddi, diplomata all’Accademia del Teatro Alla Scala di Milano. Ci racconti come ha conosciuto Andrea. «Ho conosciuto Andrea cinque anni fa. Un giovane con occhi vivaci e i capelli rossi, impossibile da non notare. Aveva desiderio di iniziare lo studio della danza classica e si rivolse a me; la mia scuola ha uno staff specializzato nell’insegnamento del classico.» È stata lei a vedere in Andrea la possibilità di una carriera come danzatore, tanto da proporlo per un’audizione alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, nel 2015. Come andò quell’esperienza? «Alla prima lezione notai del potenziale fisico notevole in Andrea e facilità nell’apprendere i gesti tecnici della danza, quello che si definisce talento naturale. Dopo pochi mesi decisi di indirizzarlo verso una scuola professionale, l’Accademia del Teatro alla Scala, dove io stessa mi sono formata come insegnante. Secondo il mio pensiero, gli allievi talentuosi devono essere indirizzati il prima possibile nelle grandi accademie, per studiare giornalmente ogni forma di danza e tutte le materie ad essa legate.» Le cose sembravano andare per il meglio. Andrea aveva calcato già in alcune occasioni il prestigioso palcoscenico del Piermarini. Ma, inaspettatamente, a un certo punto qualcosa è andato storto... «Ricordo ancora il giorno della sua bocciatura, dopo tre anni di studio, sacrificio e lontananza dalla famiglia. È stato un duro colpo per Andrea e una grande sconfitta per me. Per un attimo ho temuto di essermi sbagliata sul suo conto.» Il giovane ballerino ha saputo poi ritrovare la voglia di mettersi in gioco e, proprio in queste ultime settimane, è arrivato il premio ai molti sforzi: l’ammissione alla European School of Ballet di Amsterdam. Un’istituzione di grande prestigio. «Io e Andrea abbiamo deciso che non sarebbe finita lì. Abbiamo ricominciato lo studio, fino a quando siamo stati bloccati dalla pandemia. La scuola di danza è stata chiusa, ma la preparazione di Andrea doveva proseguire. Abbiamo allestito un salotto con tappeto specifico per la danza, portato la sbarra e lì, online, abbiamo continuato.» Vuole raccontarci come si è svolto il programma di allenamento? «Andrea si allenava 3/4 ore al giorno per sei giorni a settimana con lezioni di danza classica, pilates e rinforzo muscolare. Doveva allenare pirouette, salti, tecnica
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«Andrea si allenava 3/4 ore al giorno per sei giorni a settimana con lezioni di danza classica, pilates e rinforzo muscolare» maschile e nel frattempo mantenere il corpo forte ed elastico. La pandemia ci ha permesso di avere la possibilità di fare audizioni direttamente da casa, attraverso selezioni con lezioni online. Step dopo step Andrea si è guadagnato questo nuovo traguardo all’European School of Ballet. Ottenerlo è stato difficile. Ci sono stati momenti di grande fatica fisica e mentale, io col mio staff abbiamo seguito Andrea in ogni passo. È la mia più grande soddisfazione. Ci ho visto lungo su Andrea, ha un talento artistico particolare e sentiremo parlare di lui.» Cosa insegna la vicenda di Andrea a tutti i giovani aspiranti danzatori? «La vicenda di Andrea è di una bellezza rara, non solo di esempio ad altri aspiranti danzatori, ma anche per tutti quelli che in questo anno di pandemia hanno visto la propria vita svuotarsi: voglio dire loro che bisogna ritrovare se stessi, cercare nuovi obiettivi e proseguirli seguendo e superando un passo alla volta le difficoltà che si incontrano.»
Carola Freddi, direttrice della scuola Caput Villae di Codevilla.
La sua scuola di danza è nota anche per avere alla base una certa “filosofia”. Vuole raccontarcela? «Ho aperto la mia scuola con l’idea di un luogo adatto a tutti. Amo estremamente trasmettere le conoscenze e la mia passione ai miei allievi, ho allievi di 3 anni e altri di 65, ma ad ognuno di loro dedico sempre la massima attenzione. Tutti quanti possono danzare, ognuno seguen-
do il proprio ritmo e rispettando i propri limiti.» Come accennato anche poco fa, il mondo della danza ha subito un grave colpo durante l’ultimo anno. Cosa serve ora per ripartire? «Aver tolto la danza, come tutte le altre attività sportive di base, ai giovani è un danno sociale, psicologico e motorio. Fare sport è un diritto dell’uomo per il
suo benessere psico-motorio. Tanti miei colleghi hanno dovuto chiudere i battenti, noi abbiamo fatto fatica a portare avanti questo lungo periodo senza aiuti di nessun tipo, ma sentiamo vicini i nostri allievi che non vedono l’ora di tornare a scuola di danza.» di Pier Luigi Feltri
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GODIASCO SALICE TERME
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Varni Agnetti, «Sorprendenti sono stati i gesti di solidarietà di singoli privati e istituzioni» È stato un anno, quello appena trascorso, non certo facile per il comparto socio sanitario e per le sue diramazioni a livello locale. Alle paure e alle incertezze dei primi tempi della pandemia è seguita la consapevolezza che solo con la programmazione si sarebbe potuto voltare pagina. Azioni concrete sono state intraprese quindi anche dalla Fondazione Varni Agnetti di Godiasco: è stato implementato lo staff medico, potenziato il centro diurno e sono state migliorate le dotazioni strumentali. Questi solo alcuni degli interventi realizzati. Naturalmente, poi, è stata sostenuta la campagna vaccinale, conclusa in Fondazione nello scorso mese di febbraio. Abbiamo chiesto al direttore della struttura, il dottor Carlo Ferrari, di spiegare ai nostri lettori il dettaglio di quanto realizzato a maggior beneficio degli ospiti. La recente pandemia ha creato problemi in genere al sistema socio sanitario locale quali in particolare alla Fondazione “Varni Agnetti”? «Certamente la pandemia ha creato difficoltà di gestione sia dal punto di vista assistenziale che economico. Dal punto di vista assistenziale le RSA hanno subìto una crescente sanitarizzazione dei bisogni, ospiti sempre più fragili e complessi; inoltre le RSA, che sono luoghi pensati per ricreare o ricordare gli ambienti della casa di provenienza degli anziani, hanno sempre trattato patologie croniche e non acute. La pandemia ha aumentato invece il bisogno sanitario degli Ospiti. Dal punto di vista economico con la pandemia sono aumentati i costi di gestione (personale, farmaci e presidi sanitari e sono letteralmente esplosi i costi dei dispositivi di protezione individuale) e sono diminuite le entrate (riduzione della saturazione di posti letto, contingentamento degli ingressi, posti letto dedicati alla quarantena dei nuovi ingressi). Nelle prime settimane della pandemia, per garantire i dovuti D.P.I. ai dipendenti e collaboratori (mascherine chirurgiche, FFP2, FFP3, camici monouso, guanti in nitrile, occhiali, visiere, soprascarpe e tute) le strutture hanno dovuto reperirli con enormi difficoltà ed a prezzi molto alti e decisamente fuori mercato. Tali costi stanno incidendo in maniera significativa sui bilanci delle RSA. Inoltre la struttura dei costi delle R.S.A è caratterizzata da alti costi fissi (quasi l’80% dei costi è costituito da costi di personale) riducendo le possibilità di veloce risposta alle crisi economiche quindi anche alla crisi dovuta alla pandemia. Non è stato sicuramente facile per nessuno gestire queste strutture nel mezzo di una gravissima pandemia che ha colpito in maniera devastante la Lombardia, più di ogni altra Regione».
Carlo Ferrari, direttore della Fondazione Varni Agnetti
Quali azioni dal punto dal punto di vista organizzativo avete messo in atto? «La Fondazione ha ripensato la propria organizzazione ed ha avviato un percorso che garantirà agli ospiti ulteriore sicurezza e protezione, sia a livello socio-assistenziale che sanitario, potenziando lo staff medico (n. 2 medici geriatri, n. 3 medici specialisti in anestesia e rianimazione e n. 1 medico infettivologo), ed implementando il personale infermieristico, socio assistenziale e socio-educativo e mantenendo adeguati standard fisioterapici. Inoltre è stato attivato un nuovo servizio di teleconsulto medico nelle ore serali e di telemonitoraggio degli ospiti critici. Di conseguenza si è reso imprescindibile un potenziamento delle attrezzature sanitarie al fine di limitare per quanto possibile, l’invio degli ospiti residenti in ospedale». Come avete resistito dal punto di vista economico a questa pandemia? «In primis, grazie all’impegno ed al sacrificio di tutti i nostri dipendenti e collaboratori e grazie anche ad una serie di ristori che dovrebbero arrivare da parte di Regione Lombardia, oltre al contributo di Fondazione Cariplo, Fondazione Comunitaria della provincia di Pavia e ai contributi da campagna di raccolta fondi da parte della Comunità Locale (molti privati cittadini) ed enti del territorio (comuni di Borgoratto Mormorolo, Ponte Nizza, Cecima, Bagnaria e Val di Nizza). Abbiamo avuto una risposta straordinaria al nostro appello di aiuto per far fronte all’emergenza da Coronavirus e supportare le attività della nostra Fondazione, mai ci saremmo aspettati un simile risultato!». Ci sono stati anche altri aiuti... «Sorprendenti sono stati i gesti di solidarietà di singoli privati e istituzioni. Per noi è stata l’ennesima dimostrazione che il nostro territorio ha a cuore cause importanti, che toccano un bene prioritario come quello dell’assistenza socio – sanitaria
alle persone fragili. I Fondi stanziati dalla Fondazione Cariplo (euro 71.000,00) sono stati utilizzati per sostenere l’unità di offerta Centro Diurno a seguito delle difficoltà economiche provocate dalla pandemia, mentre con le donazioni ricevute dalla raccolta fondi lanciata per l’emergenza Coronavirus (oltre euro 50.000,00) la Fondazione Varni Agnetti ha acquistato: un “Sistema ecografico portatile di alta qualità” che è di grande aiuto nella valutazione dello stato di salute degli Ospiti (es. ecografia polmonare per diagnosi precoce COVID-19, ecocardiografia, ecografia addome completo, ecocardio ecc.); un “Sistema di monitoraggio degli ospiti” (registrazione dei parametri vitali in modo automatico e scadenzato, lettura del dato in remoto sui pc del reparto, sviluppo ed aggiornamento costante del trend clinico grazie allo score news) dotato di connettività integrata in grado di misurare i parametri essenziali utilizzabile singolarmente o, come workstation. Tale sistema permetterà di monitorare gli Ospiti in struttura ed anche attraverso in servizio di teleconsulto e/o telemedicina; una “Pompa infusionale di ultima generazione” che permette di infondere la terapia endovenosa o enterale degli ospiti più compromessi in maniera precisa in termini di tempo e dose; un sistema “Sanigate” che permette il trattamento di disinfezione veloce e continuo, in accesso agli A.P.A./C.D.I. – Alloggi Protetti della Fondazione durante il passaggio delle persone. Le risorse rimanenti sono state utilizzate soprattutto per l’acquisto di D.P.I. per gli Operatori ma anche di tamponi antigenici rapidi per l’effettuazione di attività di screening per la prevenzione dell’infezione da Covid-19 sia per gli ospiti che per gli operatori». Come sta andando la vaccinazione in Fondazione? «Presso l’R.S.A. della Fondazione Varni Agnetti, grazie al lavoro di squadra dei nostri medici di struttura, dei nostri infermieri ed alle indicazioni dell’Infettivologo dottor Giorgio Barbarini, si è cercato di rendere più agevole il percorso vaccinale, corredandolo anche delle informazioni immunologiche che certificano l’esigenza di un vaccino e testimoniano quindi l’avvenuta immunizzazione. Si è infatti provveduto a screenare preliminarmente tutti gli operatori e tutti gli ospiti per conoscerne lo status immunitario versus il Covid, per effettuare poi la vaccinazione completa (due dosi del vaccino Pfizer) ai soggetti negativi, un’unica somministrazione vaccinale nei soggetti con valore di anticorpi S inferiore a 50 U/ ml e non vaccinando in prima battuta i soggetti con titolo anticorpale maggiore di 50 U/ml. I risultati ottenuti e le rilevazioni cliniche effettuate testimoniano la bontà della scelta compiuta, che prevede il controllo
periodico del titolo anticorpale specifico. Nel mese di febbraio 2021 sono terminate le vaccinazioni di ospiti ed operatori ed abbiamo avuto un’adesione molto alta. A fronte di ciò la Fondazione ha ridefinito il proprio piano di screening dei controlli degli Ospiti e degli Operatori che viene effettuato attraverso tamponi molecolari e tampone antigenico rapido». Cosa serve fare per il futuro? «Le RSA sono sempre più dei centri multiservizi territoriali! È necessario partire dalla difficoltà della pandemia per migliorare il sistema socio sanitario, non è necessario cambiarlo completamente! Credo che ci siano le condizioni per costruire nuovi modelli di assistenza territoriale, partendo dalle piccole cose che già ci sono e che già funzionano. Le RSA devono diventare sempre più presidi sul territorio, che proprio sul territorio possono rafforzare interventi di prossimità. In questo senso è da intendere la recente unità di offerta “Rsa aperta” introdotta da Regione Lombardia per venire incontro alle esigenze di sostegno domiciliare. La RSA del futuro ha l’occasione di diventare un luogo davvero aperto, amico del territorio, capace di innescare un’osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, forme di abitare leggero, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche». E poi? «Servono anche interventi migliorativi strutturali sulle RSA (magari con i fondi del Recovery Fund) ad esempio creazione di nuovi spazi per gli incontri in sicurezza con i famigliari degli ospiti, nuovi spazi comuni più ampi rispetto agli standard attuali, camere aggiuntive (meglio se singole) dedicate ad eventuali isolamenti: sono necessari interventi per migliorare strutturalmente i CDI che devono essere collegati alle RSA, ma fisicamente dislocati in aree diverse e devono avere anche delle camere di appoggio per l’utenza che può manifestare situazioni temporanee di fragilità. Noi stiamo lavorando in questo senso, il nostro obiettivo, infatti, è quello assicurare un ulteriore passo in avanti rispetto all’organizzazione attuale della “Varni Agnetti” nel costruire un modello di Fondazione che sia, sempre più, espressione della comunità che rappresenta e capace di essere protagonista del cambiamento nei nuovi scenari che vanno disegnandosi». di Silvia Colombini
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“Sei Giorni” di enduro, «Mi auguro che nessuno cavalchi la protesta solo per attaccare l’amministrazione» “Eventi e turismo”, un binomio indissolubile dei tempi moderni, tanto che nel corso degli ultimi anni, sempre più destinazioni, hanno captato le forti potenzialità dell’organizzazione di eventi quale preziosa risorsa turistica e strumento di marketing territoriale. Nel corso degli ultimi decenni il fenomeno degli eventi ha visto un rapido sviluppo riconducibile a tutta una serie di fattori socio-demografici ed economici. L’intensificarsi della domanda ha fortemente contribuito alla nascita e alla veloce crescita di un vero e proprio management del settore che vede negli eventi un grande potenziale per il richiamo turistico, la promozione del territorio e input al suo sviluppo. In particolare, se fortemente specializzate, può poi attirare un turismo qualificato che generalmente presenta un’elevata propensione alla spesa. In quest’ottica la “Sei Giorni Internazionale di Enduro” - che andrà in scena in Oltrepò Pavese con quartier generale a Rivanazzano Terme dal 30 agosto al 4 settembre 2021 - si propone come vetrina per Rivanazzano ma anche per l’Oltrepò, poiché permette una sovraesposizione mediatica a livello globale diventando così uno strumento di marketing territoriale. Un grande evento sportivo come la “Sei Giorni” crea visibilità, ed è questo l’aspetto preponderante, in quanto permette la diffusione di un’immagine positiva a livello nazionale e internazionale, generando importanti ricadute economiche con impatti diretti per l’economia, soprattutto durante l’evento. Essere al centro del mondo dell’enduro per una settimana ed organizzare una manifestazione come la “Sei Giorni” ha incrementato l’orgoglio e l’entusiasmo dei rivanazzanesi e degli oltrepadani o almeno una gran parte di essi. Abbiamo voluto chiedere all’ex sindaco ed attuale vice-sindaco di Rivanazzano Terme, Romano Ferrari, quali sono le motivazioni, i costi, le problematiche ed i benefici che la “Sei Giorni” ha avuto al momento della decisione di ospitarla e potrebbe avere per l’Oltrepò e per il suo paese. Ferrari, si torna a parlare della “Sei Giorni” di Enduro dopo lo stop imposto dall’emergenza sanitaria. Facciamo un passo indietro: quando vi è stata fatta la proposta di ospitare il mondiale dell’enduro e qual è stata la vostra immediata reazione? «Tutto è cominciato nell’estate del 2018 quando i motoclub Alfieri di Asti e quello di Pavia, hanno contattato prima Elisa Randi (la nostra consigliera delegata alle manifestazioni) e poi il sottoscritto perchè facessimo da tramite con l’aeroclub che gestisce il nostro aeroporto. Con molta lungimiranza gli amici dei motoclub di
Asti e Pavia (ben consigliati in questo dai componenti del nostro motoclub Vallestaffora), hanno giocato le loro carte, per l’aggiudicazione dell’evento, puntando molto sulla nostra location aeroportuale. Allora addirittura neppure era ancora stabilito quale fosse la nazione organizzatrice dell’edizione 2020 della Six days. La scelta dell’Alfieri si è comunque dimostrata vincente. Per noi dell’amministrazione è stata una enorme soddisfazione aver visto nascere e crescere la possibilità dell’aggiudicazione dell’evento e di conseguenza abbiamo gioito per l’assegnazione. Mi sento di dover ringraziare i vertici del nostro aeroclub (il presidente Viola e l’ ingegnere Albini) per la sensibilità e disponibilità dimostrata nell’occasione, mettendosi a disposizione di un intero territorio». Quali sono stati i problemi più evidenti dal punto di vista logistico ed amministrativo che avete riscontrato per poter ospitare questa importante manifestazione? «Per ora nessun problema. Incontriamo spesso gli organizzatori proprio per monitorare lo stato di avanzamento “dei lavori” e per concordare tutte le soluzioni del caso. L’organizzazione è in capo a persone serie e competenti e noi, abbiamo messo in campo tutta la nostra massima disponibilità attraverso i nostri funzionari e gli uffici, proprio per trovare le giuste soluzioni tecniche che permettano di evitare disagi alla viabilità e consentano di avere una buona organizzazione della logistica». Per Rivanazzano Terme, ma di riflesso per tutto l’Oltrepò, quali sono dal suo punto di vista i benefici tangibili - economici e di ritorno di immagine - che questo evento porterà? «Purtroppo la pandemia in corso sicuramente non permetterà l’affluenza di tifosi che si avrebbe in una situazione normale, però sicuramente il nostro territorio sarà comunque conosciuto e frequentato da tante persone, con benefici per il commercio. Il fatto stesso che al termine della Six days edizione 2019 a Portimao (Portogallo) il mondo dell’enduro si sia dato appuntamento a Rivanazzano Terme la dice lunga». La vostra amministrazione è da sempre caratterizzata da una certa vivacità nell’organizzare, nell’era pre Covid, manifestazioni. Avete pensato e studiato manifestazioni sinergico e collaterali, prima e durante lo svolgimento del mondiale di enduro? «Sicuramente il paese sarà vivo e, nel rispetto delle norme anticovid, ci sarà la possibilità per chi verrà di svagarsi, di apprezzare il nostro paese e di apprezzarne le peculiari bellezze».
Romano Ferrari
Qual è la sua opinione in merito alle preoccupazioni che da alcune parti arrivano sull’impatto ambientale che la “Sei Giorni” potrebbe avere? «Il mondo delle gare di enduro è un mondo che rispetta l’ambiente e chi ha seguito queste gare lo sa perfettamente. Noi abbiamo ospitato diverse manifestazioni enduristiche e non abbiamo mai riscontrato alcun problema. Anzi, devo dire che abbiamo sempre riscontrato il massimo rispetto verso l’ambiente e verso i percorsi». La preoccupazione che da più parti c’è non è solamente dovuta all’impatto ambientale ma anche, e parliamo della fase successiva alla gara, al ripristino dei sentieri utilizzati dalle moto se danneggiati. Che assicurazioni ha avuto dagli organizzatori in merito e come intende “vigilare”? «Ricollegandomi alla precedente risposta non posso non dire che chi organizza queste gare sa che ha l’obbligo di ripristinare i percorsi e la nostra esperienza è che lo hanno sempre fatto. Sappiamo che gli organizzatori sono attrezzati in tal senso. Si tratta di persone serie. Non si sono improvvisati ma da tanto organizzano gare e sanno come devono comportarsi». Lei ritiene che il fronte del no alla “Sei Giorni” si possa fermare ad una protesta verbale a priori o possa trasformarsi, come avvenuto in altri casi e durante altre manifestazioni contestate, in una protesta fattiva anche durante i giorni dello svolgimento della gara? In questo caso la sua amministrazione, essendo Rivanazzano cuore pulsante della gara, se ciò dovesse accadere come intende comportarsi? «Sono convinto che non ci sarà alcun problema. Anche perché chi vorrà veramente rassicurarsi sulla tutela dell’ambiente,
avrà tutti i modi per poter verificare che questo è un punto fermo ed un obiettivo sia per l’organizzazione che per gli enti locali. Noi tutti garantiremo la massima trasparenza a chi avrà titolo e ruolo per approfondire ed avere tutte le informazioni del caso. Siamo a disposizione per chi, quando sarà il momento, vorrà verificare il tutto. Nel caso ci fossero comunque proteste ci coordineremo, con le strutture preposte, per gestirle». Ospitare manifestazioni di questa importanza a carattere internazionale non è cosa da tutti, né cosa di tutti i giorni. Il Comune per “ottenerla” quali facilities ha concesso all’ente organizzatore? «Nulla che non fosse la disponibilità, la collaborazione e soprattutto una location unica come l’aeroporto». Oltre a queste facilities, il Comune avrà un esborso economico? «Assolutamente no. Anzi avremo solo vantaggi legati alla visibilità». Lei come politico è molto presente sul territorio e tra la gente, qual è il sentimento popolare e degli operatori economici che lei ha recepito per questa manifestazione? Favorevoli o contrari? «Sicuramente favorevoli». C’è una parte che non sembra apprezzare questa manifestazione. A questi lei cosa si sente di dire? «Noi siamo a loro disposizione per ogni chiarimento. Siamo convinti che problemi non ce ne saranno. Vorrei rassicurare tutti. Questo è un evento mondiale, che non arriva tutti i giorni. A livello locale mi auguro che nessuno cavalchi la protesta solo per attaccare l’amministrazione». Molti comuni dell’Oltrepò cercano di portare eventi e manifestazioni nel loro territorio perché le stesse, se hanno un impatto positivo, portano benefici anche dal punto di vista politico. Tra un anno ci saranno le elezioni comunali. Lei pensa che questa manifestazione possa portare ulteriori consensi alla vostra campagna elettorale? «Personalmente ho creduto in quest’evento in tempi non sospetti, fin dal 2018. E con me tutta l’amministrazione. Tutti abbiamo pensato e siamo tutt’ora convinti che sia un occasione unica per il territorio. Per questo motivo soprattutto lo abbiamo voluto. Inoltre la nostra amministrazione sta facendo anche tante altre cose per il paese. Sappiamo che i nostri concittadini hanno sempre saputo distinguere tra chi lavora per il bene del paese e chi fa polemiche solo strumentali. Il nostro impegno è sempre stato premiato e riconosciuto dai rivanazzanesi, a cui va la nostra gratitudine. Lo sarà anche stavolta». di Silvia Colombini
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MONTESEGALE
MAGGIO 2021
«Dal maiale all’insaccato, la nostra una filiera completa» Li chiamano millennials, ma a sentir parlare Francesco Muttoni sorge il dubbio che non ci abbiano raccontato tutta la verità sui nuovi ventenni. Classe 2000, cresciuto letteralmente a pane e salame sulle colline di Fortunago, Francesco non è un tipo molto social, ama la sua terra e ha scelto di continuare le tradizioni di famiglia, dedicandosi ad ampliare e ad arricchire l’attività creata dei genitori. Lui, che da qualche anno già si rimboccava le maniche per l’azienda agricola di famiglia, ha appena aperto il salumificio “San Pietro”, che a Frascate (Montesegale) lavorerà in tandem per produrre principalmente il salame di Varzi dop. Francesco, da dove nasce l’idea di aprire un salumificio? «L’azienda della mia famiglia si è sempre occupata principalmente di vino ma da trent’anni produce anche insaccati: abbiamo circa un’ottantina di suini all’anno e la lavorazione fino ad oggi è stata fatta all’esterno. Con il nostro vino e la nostra ricetta, ovviamente, ma comunque da un laboratorio sito al di fuori dell’azienda. Da quando, durante e dopo gli studi, ho cominciato a lavorare regolarmente per i miei, ho iniziato a pensare che sarebbe stato bello occuparsi in prima persona di tutte le fasi, così da consegnare al cliente un salame che è stato seguito da noi dall’inizio alla fine. L’obiettivo, quindi, è questo: creare un prodotto di alta qualità partendo proprio dall’allevamento di maiali in loco. La filiera sarà completa, dal maiale all’insaccato per conquistare il mercato non solo provinciale ma anche al di là dei confini pavesi. L’unica procedura che affideremo ad altri sarà la macellazione, che avverrà a Varzi. In ogni caso non usciremo dai confini dell’Oltrepo». Quindi sarà sempre la tua famiglia ad occuparsi di tutto, anche se il nome dell’azienda è diverso.
«Sì, rimarrà un affare di famiglia, ma gestirò io personalmente la parte relativa al salumificio. Anche se lavorerò in stretta collaborazione con i miei familiari, infatti, volevo costruire qualcosa che fosse mio, di cui occuparmi con una certa autonomia. Sono ancora giovane e ho molto da imparare, lo so, ma l’impegno profuso negli ultimi quattro anni nell’azienda agricola familiare mi ha permesso di farmi una certa esperienza. Ho quindi deciso di affrontare un’avventura da solo e di mettermi in gioco. E poi, comunque, al Gallini ho studiato trasformazione e lavorazione dei prodotti agroalimentari e questo è proprio il mio campo. Voglio mettere in piedi un’azienda moderna, attenta alle tradizioni ma anche alle nuove tecnologie». Il prodotto di punta sarà il salame di Varzi, garantito dalla denominazione di origine protetta. Lei è tra i pochi produttori (una dozzina) a far parte del Consorzio Tutela Salame di Varzi Dop. «Sì, e ne sono molto orgoglioso. I segreti di famiglia nella lavorazione sono importanti, ma più importante è seguire le regole del disciplinare, che ci garantiscono di realizzare un prodotto chiaramente identificabile, con una qualità certificata. Io ho scelto di dedicarmi al salame di Varzi in primo luogo perché è un prodotto che conosco bene, e in secondo luogo perché sono fermamente convinto della necessità di portare avanti quelle che sono le eccellenze del nostro territorio. Il salame è il prodotto gastronomico più famoso di queste terre ed è quello che, insieme al vino, può aiutarci a rendere appetibile l’Oltrepò ai turisti. Investire sul salame di Varzi significa investire sul meraviglioso luogo in cui viviamo: poco conosciuto, poco valorizzato, ma dalle enormi potenzialità». Al salumificio San Pietro (nome che avete scelto in ricordo di suo nonno) non preparerete però solo salami. «No, abbiamo in programma di produrre
Francesco Muttoni, 21 anni, ha deciso di dedicarsi alla produzione del Salame di Varzi
anche salametto, pancetta, coppa e cotechino. Quanto alla vendita, comincia proprio in questo periodo: si possono trovare a Casteggio, in via Manzoni 5, nella rivendita Coldiretti che ospita i prodotti di tante aziende locali». A proposito di vendite: l’ultimo anno per il commercio è stato terribile. Voi come ve la siete cavata? «Abbastanza bene, e lo dobbiamo alla fedeltà e all’amicizia che ci hanno dimostrato i nostri clienti. La crisi c’è ed è innegabile perchè ci ha sottratto il bacino di utenza dei ristoranti e delle attività, ma la vendita a domicilio per i privati è riuscita tenerci a galla. Abbiamo dato alle persone la possibilità di acquistare online sul nostro sito e di ricevere a casa vino, salumi, confetture, pasta fresca e molto altro. I clienti hanno risposto bene, e noi ci siamo adattati. è più faticoso e si effettuano ordini più piccoli, ma abbiamo raggiunto anche tanti nuovi
clienti che prima non ci conoscevano». Lei ha solo ventun anni: non ha mai pensato di allontanarsi da qui, di dedicarsi a qualcos’altro? «No, mai. Sono cresciuto respirando questo mestiere, il mestiere della terra, e ho maturato negli anni una grande passione per quello che fa la mia famiglia. Ho scelto un percorso di studi che mi permettesse di rimanere nell’ambito, e già prima della maturità ho frequentato a lungo le vigne e le cantine di Gravanago pensando al contributo che mi sarebbe piaciuto dare». Progetti per il futuro? «Comincerei dal presente, dall’avviare bene la mia attività. Ma se devo confessare un sogno, allora sogno in grande: vorrei esportare il salame di Varzi al di fuori dei confini italiani, e farlo conoscere nel mondo». di Serena Simula
VARZI
MAGGIO 2021
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La torta di mandorle in cambio di stoffe dall’America Tra i prodotti tipici che Varzi può vantare, ci sono la torta dolce di mandorle e la torta di riso salata. Queste torte si distinguono da altri prodotti anche per la loro lunga storia di cui ci parla la signora Giuseppina Garabello. Varzese doc con una bottega tutta sua dove produce e vende questa particolare tipologia di torte. Ci racconta la storia di queste due torte? «È una storia lunghissima che risale al 1700, quando i mulattieri percorrevano la via del sale da Genova fino alla pianura per portare le loro merci. Erano delle vere e proprie carovane di muli e uomini che camminavano per giorni finché raggiungevano Varzi, luogo al confine con le quattro regioni, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Liguria. Arrivavano molto stanchi ed erano costretti a sostare per recuperare le forze e poi pagare il dazio ai marchesi Malaspina che all’epoca erano i padroni dell’intera Valle Staffora. Succedeva che, nei forni del centro storico che erano tantissimi, dato che Varzi era un grande paese importante dove viveva molta gente benestante, si cuocevano le torte di mandorle e le torte di riso che facevano parte della tradizione culinaria del luogo». Quali particolari proprietà nutrizionali avevano questi prodotti da forno? «La torta di mandorle era ricca di proteine e dava molte energie mentre la torta di riso era un piatto unico perché preparata con uova, burro e formaggio oltre al riso, sale e pepe in uno scrigno di pasta sfoglia. Quindi i mulattieri potevano ristorarsi grazie al salato della torta di riso e alla dolce torta di mandorle. Inoltre, dopo averle gustate, facevano scorta di queste torte, riempivano le loro bisacce prima di rimettersi in cammino verso le cittadine
Giuseppina Garabello nella sua bottega di prodotti tipici
che dovevano raggiungere». Una lunga storia come merce di scambio tra il ‘700 e l’800. Nel ‘900 con il flusso migratorio, cosa accadde? «Le due torte venivano ancora prodotte ma la torta di mandorle era più utilizzata come merce di scambio con i nostri connazionali emigrati in America. Personalmente ho fatto alcune ricerche e ho scoperto che tre mie pro zie migrarono in America nel 1921, dove riuscirono a trovare lavoro e benessere. Tanti giovani varzesi fecero la stessa cosa, partirono per andare a lavorare in America, e lì si ritrovarono con altri italiani formando delle vere e proprie comunità. Cominciarono a mandare dei bauli pieni di stoffe, tessuti vari e cotone ai familiari rimasti in Italia, ricordo ancora mio padre che andava a ritirare i bauli al porto di Genova. Per noi era un dono speciale. Conservo ancora uno di quei bauli, l’ho fatto restaurare ed è molto bello».
Come venivano impiegati i tessuti, la stoffa e il cotone? «Per cucire i corredi alle ragazze che si sarebbero sposate. Venivano confezionate lenzuola ricamate, asciugamani, tovaglie, tutta la biancheria per la casa e anche abiti da sposa. Mia madre ricevette il suo abito da sposa bianco, lungo con il velo in un epoca in cui ci si poteva sposare solo con il tailleur, perché non c’erano molti mezzi. Le fu mandato dall’America e mi ha sempre raccontato che provò una grande emozione». Fu così che nacque l’idea di contraccambiare con le torte di mandorle, giusto? «Sì, i familiari cominciarono a fare le torte di mandorle. E bisogna dire che il nostro territorio è sempre stato ricco di piante di mandorle, si possiamo trovare lungo tutta la Valle Staffora». Ma come potevano arrivare integre dopo un viaggio di quindici giorni?
«Fu creata una pasta diversa con le mandorle tostate, amare e dolci, zucchero e rosso d’uovo, senza lievito. Fu realizzata una torta che resisteva per il periodo del trasporto e poteva essere consumata dopo diversi giorni dalla preparazione». È vero che la nuova ricetta scatenò la rivalità tra le due contrade del paese? «Le cose andarono proprio così. Le donne avevano due metodi per fare le torta di mandorle: quelle della via del Mercato la preparavano con mandorle non tostate perché sostenevano che la mandorla non tostata rilasciasse olio così la torta rimaneva un po’morbida. Le donne della via Di Dentro, la facevano con mandorle tostate perché la torta rimanesse fragrante ma diventava tanto dura che la si doveva spezzare e non si poteva tagliare con il coltello. In America non poteva essere mandata la torta di riso, che attualmente io stessa continuo a produrre per la mia bottega seguendo la ricetta tradizionale, cuocendola nelle teglie di rame. Sinceramente ho riscontrato un certo gradimento anche da parte dei turisti, è richiesta per gli aperitivi e i buffet». Come è nata la ricetta della torta salata di riso? «Grazie alle donne di Varzi che andavano alla monda del riso nelle pianure della lomellina. Venivano pagate con i sacchi di riso e, avendone molta disponibilità, dovettero inventarsi delle ricette per cucinarlo tra cui appunto la torta, che si rivelò un piatto unico e versatile e poi, come racconta la storia, cominciarono a venderla e a servirla in occasioni particolari facendola diventare una propria delizia locale». di Stefania Marchetti
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VARZI
MAGGIO 2020
Fondatore dell’associazione “Varzi Viva”, Di Tomaso era e rimane uno dei PR della Valle Staffora Le sue fotografie raccontano l’Oltrepò, lui, Antonio Di Tomaso, fondatore ed ex presidente dell’associazione “Varzi viva”, oggi si gode la pensione e si dedica alla sua pagina facebook dove le sue fotografie di scorci di Oltrepò riscuotono un gran successo. Arrivato a Varzi nel 1963 all’età di 22 anni dalla Basilicata insieme ai genitori, si innamorò della Valle Staffora tanto da impegnarsi in ogni modo possibile per farla conoscere, questo suo impegno e costanza gli è valsa la Benemerenza Civica per il suo grande impegno nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale della Valle Staffora conferitagli nel 2009 dal Comune di Varzi. Di Tomaso lei è arrivato in Lombardia in età praticamente adulta, è stato difficile iniziare qui una nuova vita? «No, perché mi sono subito innamorato di questi posti meravigliosi. La Valle Staffora è diventata praticamente la mia terra, tanto che ho cominciato subito a fotografare tutto ciò che c’era di bello cercando di diffondere il più possibile la ricchezza naturale di questa zona». Come ha potuto utilizzare le sue bellissime fotografie? «Per promuovere la conoscenza dell’Oltrepò Pavese. Ero addetto all’ufficio tecnico del Comune di Santa Margherita di Staffora, avevo fotografato tutte le frazioni del territorio comunale ed erano così belle che gli altri consiglieri decisero di stamparle ed esporle in sala consiliare creando una mostra che tuttora si può ammirare a Casanova Staffora». Lei non è mai stato un fotografo di professione ma si può definire un talento naturale.
Dotato di grande passione come tale non è mai passato inosservato. Quali altre opportunità ha avuto per condividere le sue opere? «Nel 1982 a Varzi, i frati della Pieve dei Cappuccini, volendo inaugurare un monumento in memoria di San Francesco, decisero per l’occasione di organizzare una mostra fotografica. Fui invitato ad esporre le mie opere insieme ad altri amici fotografi della zona e della Comunità Montana». Quale fu il risultato? «Un enorme successo e così decidemmo di dare vita ad un circolo fotografico, Artecol (arte ecologia). Ogni anno organizzavamo una mostra e un concorso fotografico e la manifestazione andò avanti per sette anni con buoni risultat». In seguito fondò l’associazione culturale “Varzi Viva”, come ebbe l’idea? «L’idea nacque osservando il mercatino dell’antiquariato che si svolgeva a Varzi e tutto ciò che accadeva intorno. I tanti oggetti testimonianze del passato e la gente che li cercava, vuoi perché legati ad un ricordo affettivo, vuoi perché insoliti, carini e originali, diventarono soggetti di una ricerca sul patrimonio da ricuperare e salvaguardare. Ritengo tutto questo fondamentale per raccontare le tradizioni e la storia di un popolo che non devono essere mai dimenticate». L’associazione fu accolta con interesse in paese? «Abbiamo avuto ottocento adesioni, una bella risposta di pubblico. Ci occupavamo di tutto, teatro, cinema, mostre di pittura, visite guidate, insomma tutto ciò che poteva essere interessante per il nostro territorio.
Antonio Di Tomaso, riceve la Benemerenza Civica dall’allora sindaco Querciolli
Avevamo visitatori dall’Università di Pavia e abbiamo ricevuto anche i ragazzi dell’Erasmus. Alla fine si può dire che abbiamo svolto la funzione di pubbliche relazioni. Nel 1994 non c’era internet e noi avevamo tantissime informazioni utili da trasmettere al pubblico. Comunque siamo stati tra i primi ad avere un sito internet nella provincia di Pavia, addirittura in quattro lingue, suscitando lo stupore di Regione Lombardia». Nel 2009 il Comune di Varzi le ha conferito l’attestato di Benemerenza Civica per il suo grande impegno nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale della Valle Staffora, nel 2011 il Comune di Val di Nizza le ha assegnato la Medaglia d Oro raffigurante lo stemma dei Malaspina, per la conoscenza divulgata del Castello di Oramala.
Oggi che è in pensione non possiamo credere che dopo tanto lavoro possa stare senza pensare a qualcosa di bello da creare… di che cosa si occupa? «Mi occupo della mia pagina facebook e di fotografia, come sempre. Gli amici spesso mi chiedono consigli in merito ai loro impegni nelle varie associazioni e mi fa molto piacere. È un po’come essere dietro alle quinte senza espormi sul palcoscenico. È bene che vadano avanti i giovani magari supportati dai consigli da parte di chi ha maggiore esperienza. Certamente un fattore determinante è la costanza, che, talvolta viene a mancare. La gente si perde per strada dopo l’entusiasmo iniziale, occorre un dialogo e un rapporto basato sulla franchezza e scevro di campanilismo». di Stefania Marchetti
SANTA margherita STAFFORA
MAGGIO 2020
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“Made in Oltrepò”, la vetrina online delle eccellenze enogastronomiche e non solo, dell’Oltrepò Pavese Valeria Piazza è una giovane imprenditrice nativa di Tortona in provincia di Alessandria ma trasferitasi dopo varie esperienze lavorative in Oltrepò Pavese, ed esattamente a Casanova Staffora. Qui ha saputo creare in tempo di lockdown una piattaforma online per la vendita di prodotti tipici dell’Oltrepò Pavese e molto altro, piattaforma il cui nome è proprio “Made in Oltrepò”. Dalla cantina alla salumeria, dalle birre alla latteria, e poi ancora prodotti dell’orto e del forno, ma non solo, la piattaforma propone anche prodotti di bellezza, oggettistica varia, materiale tessile e racconti, tutti uniti da un fil rouge: l’Oltrepò Pavese. Incontriamo Valeria Piazza dopo aver visionato la piattaforma da lei ideata e spinti da una piacevole curiosità. Valeria perché ha scelto di vivere a Casanova Staffora anziché tornare a Tortona? «Diciamo che per una serie di circostanze positive mi sono trovata qui e ho deciso di stabilirmi in questo piccolo paese di montagna della Valle Staffora. Nel frattempo ho conosciuto mio marito ed insieme abbiamo capito che questo luogo sarebbe stato l’ideale per la nostra vita familiare. Ora siamo anche genitori di due meravigliosi bambini, Leonardo e Giovanni. Qui tutto scorre un pochino più lento rispetto alla città, ed è in questo territorio che è diventato la mia casa che ho deciso di mettere le radici anche per realizzare questo progetto imprenditoriale». Veniamo a “Made in Oltrepò”, una sorta di vetrina dei prodotti del territorio. Si può definire così?
«Sì certo. Ho creato una specie di vetrina online che raccoglie le eccellenze enogastronomiche e non solo dell’Oltrepò Pavese, nate dalla passione di piccoli produttori, artigiani e agricoltori che hanno investito sulla qualità e sul chilometro zero. Un negozio che si moltiplica in mille altri negozi, un’impresa che da un piccolo paese di montagna può raggiungere infinite destinazioni. L’ho chiamato “Made in Oltrepò” perché i prodotti sono strettamente collegati alla zona dell’Oltrepò Pavese». Come le è venuta l’idea di questo tipo di attività? «È venuta dal desiderio di coniugare lavoro e famiglia. Non volevo un lavoro qualsiasi e lontano da casa ma uno particolare che mi permettesse di diffondere per quanto mi era possibile i prodotti tipici enogastronomici e anche oggettistica e materiale tessile, tutto creato in queste zone. “Made in Oltrepò” è nato da passione, entusiasmo e determinazione che sono parte del mio carattere». è partita da un’idea, ma per metterla in partica non sarà stato per niente facile. Da dove ha cominciato? «Ho contattato man mano vari produttori della zona facendo un lavoro abbastanza lungo ma molto interessante e ora sono molto contenta dei risultati. Tutti i prodotti presenti in vetrina nascono da piccole aziende oltrepadane che hanno deciso di puntare sulla qualità: salumifici, cantine vitivinicole, fornai, aziende ortofrutticole, atelier di creazioni tessili, piccole case editrici, produttori di miele, zafferano, birra e latticini.
Valeria Piazza, giovane imprenditrice di Casanova Staffora
Il mio ruolo è e sarà quello di occuparmi interamente della gestione degli ordini ed essere di supporto per offrire un’esperienza di navigazione il più piacevole possibile e accontentare i clienti più difficili». Risultati quindi molto soddisfacenti? «Assolutamente sì. Gli ordini sono davvero tanti e in questo modo le aziende possono far conoscere i loro prodotti ovunque, inoltre il fatto che il portale sia molto semplice per gli acquisti, basta infatti un click per aggiungere al carrello il prodotto scelto che verrà poi spedito direttamente a casa, ha incentivato all’acquisto».
Sappiamo che aggiunge anche un tocco personale ai pacchi che spedisce «Certo, nel momento in cui mi viene richiesto, personalizzo il pacco, per esempio aggiungendo un bigliettino di auguri ed anche un po’ di storia di queste meravigliose colline, un modo semplice in questo complicato momento storico, di abbattere per quanto possibile le distanze, anche solo con un dono a chi è distante». di Stefania Marchetti
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MAGGIO 2021
Cheap but chic: PIATTI GOLOSI E D’IMMAGINE CON I PRODOTTI DELL’OLTREPò
Conosciuto in Oltrepò con il nome di “Dent ad can”: il tarassaco POLPETTINE DI TARASSACO CON SALSA ALLO YOGURT Ingredienti: 1 mazzo di foglie di tarassaco 1 piccolo cipollotto 4 uova 4 cucchiai di parmigiano grattugiato 3 cucchiai di pane grattugiato 1 spicchio d’aglio sale e pepe olio di semi di arachide per friggere per la salsa: 200 g di yogurt bianco 1 cucchiaio di olio extravergine d’oliva qualche filo di erba cipollina tritata sale e pepe
La primavera è il momento migliore per la raccolta delle erbe selvatiche e tra queste il tarassaco è una delle più generose. È possibile trovarlo tutto l’anno, ma questo è il periodo in cui la pianta è al meglio e i principi attivi sono più concentrati. Può essere confuso con diverse altre piante simili, ma è facile riconoscerlo dai suoi fiori gialli che crescono su steli singoli e dai bordi delle foglie con la caratteristica forma “a dente di leone”, uno dei suoi tanti nomi popolari insieme a “dente di cane” più diffuso nel nostro territorio. Nelle nostre campagne era abitudine fare cure primaverili depurative a base di foglie e radici di tarassaco: quest’erba è, infatti, uno dei migliori diuretici e tonici del fegato, due funzioni molto importanti per aiutare il corpo a riprendere energia dopo l’inverno. Come dicevamo, il tarassaco si trova come pianta spontanea nei prati, a volte tra i ruderi e negli orti. Fiorisce a primavera e i suoi caratteristici fiori gialli si trasformano poi in “soffioni” che hanno la funzione di disperdere nell’aria i semi. Il “dent ad can” come viene chiamato nel
nostro dialetto è anche ricco di vitamina C, ferro e potassio, e, soprattutto nelle sue foglie e radici, si trovano anche le vitamine A, B e D. Contribuisce a depurare il sangue, riattivare il metabolismo e regolare le funzioni di reni e fegato, espellendo il colesterolo in eccesso, oltre a vantare importanti proprietà digestive, antinfiammatorie e diuretiche. Con il suo sapore lievemente speziato, il tarassaco è sempre stato utilizzato nella cucina di campagna in molte preparazioni come insalate, zuppe, frittate e torte salate. Questo mese, attingendo alla cucina tradizionale primaverile del nostro territorio, vi propongo una ricetta molto semplice ed economica, alla portata di tutti, che ci permette di utilizzare questa erba spontanea molto diffusa. Come si preparano: Innanzitutto abbiate cura di raccogliere il tarassaco in luoghi lontano dalle strade e da fonti inquinanti scegliendo le foglie giovani che sono più tenere. Dopo averle lavate le lessiamo in abbondante acqua leggermente salata per qualche minuto.
Ora le scoliamo strizzandole molto bene, le tritiamo finemente con la mezzaluna e versiamo il trito in una terrina. In una padella con un cucchiaio d’olio, rosoliamo lo scalogno tritato e lo aggiungiamo poi al trito di tarassaco. Sbattiamo ora le uova con un pizzico di sale e pepe e le aggiungiamo al composto mescolando brevemente. Uniamo il parmigiano grattugiato, l’aglio finemente tritato e il pane grattato, poco alla volta fino ad ottenere un composto non troppo morbido. Lasciamo riposare qualche minuto e ci occupiamo della salsa. In una ciotola versiamo lo yogurt, l’olio e l’erba cipollina tritata. Mescoliamo e aggiungiamo un pizzico di sale e pepe. Formiamo ora delle polpettine con il nostro composto di tarassaco e le rotoliamo nel pane grattugiato. Friggiamo le polpettine ottenute in olio di semi di arachide abbondante e caldo e le scoliamo su carta assorbente. Siamo pronti ora per l’impiattamento: mettiamo le polpettine su di un piatto da portata e versiamo in una ciotola la salsa allo yogurt in accompagnamento.
Un aperitivo o anche un secondo sfizioso traendo spunto dalla tradizione contadina. You Tube Channel & Facebook page “Cheap but chic”. di Gabriella Draghi
OLTREPò PAVESE
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Caccia di selezione: «Lo scopo è solo quello di tutelare il lavoro dell’agricoltore» Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli avvistamenti di branchi di cinghiali nei vari comuni dell’Oltrepò Pavese, sempre più frequenti soprattutto nelle località di pianura, dove storicamente la presenza di questi animali è sempre stata sporadica se non addirittura nulla. Nei giorni scorsi nei centralissimi parchi di Salice Terme e Rivanazzano Terme sono stati segnalati numerosi esemplari di questi selvatici pascolare indisturbati, tanto che i sindaci sono dovuti correre ai ripari emanando ordinanze comunali che ne vietano la somministrazione di cibo. Il sindaco di San Damiano al Colle, Cesare Vercesi, ha invece richiesto formalmente l’intervento di Provincia e Regione per cercare di limitare i danni causati sia agli agricoltori che agli automobilisti, soprattutto in seguito ad un incidente stradale che ha coinvolto un suo concittadino, fortunatamente senza gravi conseguenze. Ad inizio anno, un branco spaventato di cinghiali aveva invaso le strade del centro di Santa Maria della Versa, causando panico tra i clienti di un bar del centro. Abbiamo chiesto a Gabriele Scabini, presidente dell’ATC5, uno degli enti che si occupa della gestione della caccia in Oltrepò Pavese, di spiegarci quali sono le opere di contenimento e selezione che verranno adottate per cercare di arginare questa problematica. Scabini, facciamo un po’ di chiarezza a chi non è del settore: in ambito venatorio come è suddiviso il territorio provinciale? «La provincia di Pavia è suddivisa in sei zone: 5 ATC (Ambito Territoriale Caccia) e una ZPS (Zona Protezione Speciale)». L’ATC5 da lei presieduta che zona di competenza copre? «La suddivisione delle zone è difficile da spiegare, perché non sempre segue i confini comunali. L’ATC5 confina ad est con la Provincia di Piacenza, ed è all’incirca compresa tra i comuni di: Santa Maria della Versa, fino alla frazione Sannazzaro (Montecalvo Versiggia), fino alla località Michelazza (Lirio) parte dei comuni di Montalto Pavese, Borgo Priolo e Fortunago, fino ad arrivare alla Val Schizzola, Varzi e al confine con il Piemonte». Di che cosa si occupa un ATC? «L’ATC è un ente che si occupa della gestione del territorio di competenza assegnatogli, effettuando il ripopolamento della selvaggina, organizzando la caccia in braccata al cinghiale, quella di selezione al capriolo e, da poche settimane, anche quella di selezione al cinghiale. Tra le varie attività, l’ATC si occupa inoltre della parziale liquidazione dei danni alle colture causati dalla selvaggina». Come avviene la gestione di un ATC?
«Ogni anno in ATC5 le squadre abbattono 1300/1400 cinghiali, ma con la caccia in braccata si risolve solo parzialmente il problema»
«L’ATC5 è gestito da un comitato composto da dieci soggetti nominati in rappresentanza di alcuni enti e associazioni: Confagricoltura, Coldiretti, Comune di Varzi, Federcaccia, Arci Caccia, Libercaccia, Regione Lombardia ed enti ambientalistici. Questi membri a loro volta eleggono il presidente del comitato». Quanti sono i cacciatori associati alla ATC5? «Approssimativamente circa 1700 cacciatori». Parlando di ripopolamento, quanti capi inserite ogni anno nel vostro territorio di competenza? «Mediamente ogni anno “lanciamo” circa 700\750 lepri provenienti dall’Est Europa. Per quanto riguarda i volatili, invece, il numero è di circa 6000 capi, tra fagiani e pernici». Soffermiamoci sulla caccia di selezione: come funziona? «Ogni anno i nostri selecontrollori effettuano il censimento dei caprioli. I dati raccolti vengono elaborati dai tecnici faunistici e successivamente inviati all’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) il quale, dopo aver approvato il piano di abbattimento, lo invia a Regione Lombardia che a sua volta emette il Decreto indicando il numero di capi da abbattere, suddivisi per sesso ed età. Sono già una decina di anni che la caccia di selezione al capriolo si svolge nel nostro territorio e coinvolge circa 500 soci». Quindi dovete attenervi ad un piano prestabilito? «Esattamente. Ogni capo abbattuto viene fascettato e visitato dal veterinario». Il censimento come si svolge? «Il territorio viene suddiviso in zone e i selecontrollori, che sono operatori abilitati, compilano delle schede classificando tutti gli animali avvistati, suddivisi per sesso ed anzianità. I dati vengono poi calcolati sulla base di coefficienti: è un sistema dif-
ficile da spiegare a chi non è del settore». La caccia di selezione del cinghiale nell’ATC5 è però una novità «Nella nostra ATC la caccia di selezione al cinghiale partirà per la prima volta quest’anno. Le domande di adesione si sono chiuse il 15 aprile scorso». Quanto durerà? «Siamo in attesa del Decreto di Regione Lombardia che ci autorizzerà a partire. La caccia di selezione al cinghiale durerà tutto l’anno, con una sospensione dal 1° ottobre al 31 dicembre, ovvero nel periodo in cui si volgerà quella in braccata». Avete registrato parecchie adesioni? «Sono arrivate circa duecento domande. Ora le stiamo valutando ed in seguito distribuiremo i cacciatori su cinque diversi settori». Invece quanti cacciatori partecipano mediamente alla caccia in braccata? Quanti cinghiali vengono abbattuti ogni anno? «La caccia in braccata è invece suddivisa in sedici squadre, per un totale di 700 cacciatori. Chi svolge la caccia al cinghiale può anche partecipare a quella di selezione del capriolo: una non esclude l’altra. Ogni anno, solo in ATC5, queste squadre abbattono circa 1300\1400 cinghiali». Da diversi anni i cinghiali stanno abbandonando le zone montane e sono più frequenti in quelle di pianura, avvicinandosi sempre di più ai centri abitati, come accaduto recentemente con gli avvistamenti nei parchi di Salice Terme e Rivanazzano. Secondo lei, cosa può aver causato questo fenomeno? «Una decina di anni fa per vedere branchi di cinghiali bisognava recarsi in zone di alta montagna, ma ora la situazione è cambiata. A livello statistico ho notato che le nostre squadre che cacciano in alta montagna hanno meno prelievi rispetto a quelle che operano in bassa collina. Probabilmente i cinghiali trovano una maggio-
Gabriele Scabini, presidente ATC5
re e più comoda reperibilità di cibo nelle coltivazioni di collina e pianura: spesso raggiungono addirittura il Parco del Ticino attraversando a nuoto il Po». Il ritorno del lupo nell’Oltrepò montano e alto collinare può essere stato uno dei fattori scatenanti? «Al momento la preda preferita dal lupo è il capriolo. Certamente anche la sua presenza può avere influenzato questo spostamento, ma non è di certo l’unica causa». Ormai i danni alle colture causati da cinghiali e caprioli sono sempre più elevati. Ritiene che la caccia di selezione sia l’unico repellente a questa problematica? «Con la caccia in braccata si risolve solo parzialmente il problema. Ho fortemente voluto l’istituzione della caccia di selezione in seguito alle numerose segnalazioni pervenute alle associazioni di categoria di agricoltori successivamente a noi inoltrate. Svolgendo la selezione durante tutto l’anno si potranno evitare parecchi danni, soprattutto nel periodo primaverile ed estivo, dove le colture sono più soggette agli attacchi». Come funzionerà? «Una volta ricevuta la segnalazione della presenza di un branco, noi manderemo i nostri operatori certificati nella zona mirata. Lo scopo della selezione è solo ed esclusivamente quello di tutelare il lavoro dell’agricoltore, evitando inoltre successive domande di risarcimento». Come vede il futuro della caccia in Oltrepò? «Come ho già dichiarato in altre occasioni, vorrei introdurre la caccia per specie. È un progetto che sogno sin da quando mi sono insediato e mi batterò per poterlo attuare». di Manuele Riccardi
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casteggio
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Due giovani soci e amici riaprono la storica panetteria Vai Dante Vai, quante volte nei lunghi giorni di prigionia in Egitto, in mano inglesi, ebbe a pensare alla sua bella Italia, a Trovo (Trövi in dialetto locale) dove era nato, alla sua Chiesa parrocchiale dei SS Biagio, Filippo e Giacomo, all’oratorio dove aveva giocato bambino, al Ticino, non lontano dalle cui rive si adagia il piccolo Comune lomellino. Ai pomeriggi estivi di giochi sfrenati sulle rive ghiaiose, qualche pesciolino “catturato” con le nude mani tra i sassi del fiume Ticino allora azzurro di nome e di fatto, attenti a non farsi sorprendere dalla guardia campestre comunale (al campagnô) che li avrebbe sgridati e “denunciati” ai genitori. Sette anni era durata la tortura egizia: fame, sete, umiliazioni da parte dei sudditi di Albione, gli inglesi, signori nelle iconografie ma tristi e vendicativi nelle vesti di militari vincitori. Quante notti a sognare la sua terra lontana, la sua gente. Quanti giorni interminabili sotto un sole che bruciava la pelle e il sentire buono. Finalmente liberi, si torna in Italia, la vita riprende con i ritmi grami del dopoguerra ma, per i reduci da tanta prigionia, con il profumo della libertà e la voglia di ricominciare. Ricominciare o meglio, cominciare. Dante prima del militare, aveva svolto lavoretti tra cui il fornaio, ma la guerra prima e la prigionia poi avevano bruscamente interrotto un’attività che lo intrigava molto. Con il fratello Giovanni cercava negozi di alimentari o panetterie vicino al paesello ma non trovava nulla di confacente alle loro esigenze o alle loro modeste disponibilità. Finalmente a Redavalle, piccolo paesino oltrepadano sulla direttrice Casteggio-Broni, i fratelli acquistarono un negozietto che rispondeva ai requisiti di cui sopra. Purtroppo, nel 1951, Giovanni Vai viene a mancare ed il fratello con un gesto di generosità, lascia negozio e licenze alla cognata e si trasferisce a Casteggio. Non da solo però, nel breve soggiorno a Redavalle aveva conosciuto la donna della sua vita, Angela, che viveva a Redavalle ma lavorava a Milano. Si sposarono a fine agosto e, ai primi di settembre, aprirono la panetteria a pochi metri dall’attuale localizzazione. La signora Angela o per meglio dire la Ragioniera Angela, lascia il lavoro a Milano, inizia ad affiancare il marito nella rivendita convinta ed entusiasta della nuova attività. Nel 1959 una drogheria, che occupava locali più adatti all’espandersi dell’attività del panettiere Vai, trovò una diversa allocazione e il “Nanu” al vénda i mur a Dante Vai e Signora al n.7 di P.zza Cavour con du ëgg äd vedrëna in slä rumera, con due vetrine sulla via Emilia. Pochi anni prima, nel 1955, erano nate le gemelle Rossana e Giovanna che, nel 1983, data della Prematura morte di Dante, pur laureate in lettere moderne ed insegnanti, decisero di coadiu-
vare mamma Angela nella gestione della panetteria almeno sino alla sua pensione. Dante Vai ha segnato una storia breve ma intensa nel campo dei panificatori della provincia di Pavia di cui è stato consigliere, capogruppo dei panettieri di Casteggio e stimatissimo dai colleghi che, allora in paese, erano una decina. Era un uomo attaccatissimo al suo lavoro, non particolarmente espansivo ma molto lungimirante e moderno. Nel 1985 Rossana Vai sposa Aldino Valverde, per tutti Aldo, perito elettrotecnico lontano anni luce dal mondo del pane e dei dolci. Viene coinvolto dalla moglie e dalla cognata a collaborare nella panetteria per permettere all’anziana madre, di staccarsi dall’attività e godersi qualche viaggio sognato per tutta la vita ma mai effettuato per l’impegno costante nel negozio. Aldo, a poco a poco, si innamora dell’attività, apporta delle varianti al confezionamento delle mitiche pizzette Vai, delle focacce di diversi formati e dei biscotti e crostate. Purtroppo, sia Aldo che la cognata Giovanna vengono prematuramente a mancare e Rossana dopo aver proseguito per un anno da sola, nel 2018 decide di sospendere, non chiudere, un’attività storica a cui si sentiva molto legata per i ricordi e per l’attività sua e dei suoi cari. Incontro Rossana Vai un pomeriggio in un bar di Casteggio, rigidamente fuori dai locali, per un caffè dati i tempi grami. Sono stato cliente di suo padre e di sua madre oltre che suo, ci conosciamo molto bene. Le Chiedo: Settant’anni di attività della Panetteria Vai, per venticinque anni lei e sua sorella Giovanna avete dato seguito ad un’antica tradizione. Dal 2018 chiusura temporanea; dopo tre anni cosa l’ha convinta ad affidare il suo mitico negozio a due giovanotti di belle speranze ma scarsa esperienza nel settore? «Dico la verità, in questi anni ho avuto moltissime proposte d’affitto o di acquisto dei locali da persone che non conoscevo o da enti e banche, che intendevano cambiare totalmente l’uso dei locali e spesso, persino l’attività. Mi spiaceva veder andare in fumo i sacrifici di tanti anni della mia famiglia o disperdere un’attività che, a mio parere, aveva ancora motivo di esistere nei modi e nelle forme in cui s’era sviluppata. Ho rinunciato ad offerte più vantaggiose pur di non veder stravolta l’immagine della panetteria che con i miei genitori e Giovanna, avevamo affermato nel tempo. Smobilitare mi sembrava una sconfitta, un arrendersi al destino avverso». Cosa ha trovato in Davide e Nicholas che li differenziava dagli altri postulanti? «Mi sono piaciuti subito per una serie di motivi legati alla freschezza della loro età e della voglia di lavorare che mi hanno dimostrato, per il fatto che loro stessi,
Dante e Angela Vai, storici proprietari della Panetteria Vai di piazza Cavour
Era il 1959 quando “Nanu” al vénda i mur (vende i locali) a Dante Vai e Signora al n.7 di P.zza Cavour, con du ëgg äd vedrëna in slä rumera (con due vetrine sulla via Emilia) ebbero a chiedermi di poter conservare il nome della storica panetteria Vai, di mantenere inalterato il negozio, l’attrezzatura, il vecchio forno e di poter confezionare e vendere gli stessi prodotti che hanno caratterizzato negli anni, il mio negozio. Persone pulite, giovani, volonterose, conosciute e affidabili». Ricordare suo marito Aldo e la gemella Giovanna è forse troppo triste per lei, mi parli invece dei suoi genitori? «Due persone splendide, diversi tra di loro ma unitissimi nelle decisioni e, contrariamente alle apparenze, erano quasi sempre le tesi di babbo a prevalere. Moderno, intelligente e lungimirante era un uomo con lo sguardo al 2000 mentre mamma, era una donna di stampo antico, dell’800, che nulla voleva rischiare. Due persone per bene, due lavoratori, semplici ma eccezionali.
Hanno coccolato le uniche figlie seguendone gli studi, accontentando, per quanto possibile, i loro desideri e le richieste quali l’estate al mare, allora non così scontato come ai tempi d’oggi. A proposito della modernità di babbo Vai: finì sulle pagine dei giornali locali, come primo panificatore a chiudere per ferie estive il negozio di Casteggio, allora ed oggi molto frequentato per il mercato domenicale». Scusi l’impertinenza, ma tra lei e Giovanna chi decideva? «Sembra strano ma ripetevamo i genitori: in apparenza sembravo io la più sicura, ma mai una decisione è stata presa unilateralmente ed anzi, spesso era la tesi di Giovanna a prevalere. Negli anni ho constatato che le decisioni di mio padre e di Giovanna, si sono sempre rivelate le migliori, le più opportune».
casteggio Chiacchierando avviciniamo l’entrata posteriore del negozio dove i due giovani stanno lavorando. La signora mi guida all’interno, mi presenta e mi lascia con loro per lo scambio di due considerazioni. Cliente del negozio da cinquant’anni, non avevo mai visto il retro. Spazioso e pulito nel quale troneggia un gigantesco forno d’epoca. Rimirando la gigantesca attrezzatura comprendo Rossana che considerava una sconfitta lo smantellamento del monumento. Monumento si, altero e scolpito come un antico minareto, come una stele innalzata a ricordo degli uomini e delle loro fatiche. Splendido. Due giovani quasi trentenni, mi guardano, mi illustrano biscotti e focaccine che stanno confezionando seguendo le direttive di Rossana, me ne offrono. Sembrano fratelli: Davide più vivace, estroverso, Nicholas più tranquillo ma, entrambi determinatissimi. La voglia di lavorare, la voglia di iniziare l’avventura della loro vita, d’essere indipendenti e produttivi. Davide Massone è figlio del proprietario della rivendita di frutta e verdura all’angolo di Piazza Dante di Casteggio. Per qualche tempo ha collaborato nell’attività di famiglia ma ora vuol provare ad essere indipendente. Davide cosa l’ ha spinta ad affrontare questa avventura commerciale in un momento di pandemia tanto tormentato e difficile? «Con il mio amico Nicholas, ho deciso di provarci. Abbiamo avvicinato la signora Vai e le abbiamo chiesto il negozio chiedendole altresì, l’autorizzazione a mantenere il nome della storica panetteria, la rivendita degli stessi prodotti e una sua collaborazione - consulenza per la produzione di pizzette, torte, biscotti e focacce. La signora è stata favorevolmente impressionata dal nostro entusiasmo e dalla nostra decisione di continuare la storica attività del negozio. Ci siamo accordati e dal primo marzo abbiamo iniziato quella che sarà certamente una grande avventura di lavoro e di sacrificio in cui crediamo fermamente».
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Diceva del suo socio - amico, andrete d’accordo anche in futuro? «Non ho dubbi, lo conosco da sempre, so chi è e lui conosce bene me. Sono certo che il nostro sarà un buon sodalizio di lavoro, nel massimo rispetto reciproco e valorizzando le nostre diverse peculiarità di lavoro e di vita». Nicholas Vittori, l’altro socio, lavorava come carpentiere in una ditta di Robecco Pavese e non ha mai provato a fare il panettiere. Nicholas come pensa di inventarsi questa nuova attività così diversa dal suo passato? «Mi è capitata l’occasione di lavorare in proprio con un amico, di gestire un’attività di rivendita e di realizzo di prodotti che, vuoi le attrezzature della panetteria, vuoi la costanza nel voler apprendere un’attività che mi piace, vuoi infine l’abilità e i segreti della signora Vai che, pazientemente ci insegna, mi hanno convinto a perseguire una strada spero lunga e fruttuosa». Giusto per fare i maliziosi: mi ha detto “lavorare in proprio con un amico”. è sicuro lo sia? «Posso dubitare di tutto e di tutti, ma che Davide sia un mio amico è una delle certezze della mia vita. Lo conosco da tanto, lo so capace, volonteroso e leale». Un’ultima domanda ad entrambi: la conservazione del nome della Panetteria è stata una furba trovata per convincere la signora Vai, o no? «Assolutamente no. Credevamo e crediamo che un negozio che compie settanta anni e che è stato riconosciuto come negozio storico di Casteggio dalla Camera di Commercio di Pavia, deve essere rispettato per quello che è stato, conservandone nome, attività e, per quanto possibile, mobili e attrezzature. Che poi questo nostro pensare che, badi bene, abbiamo chiesto non subito, ci abbia favorito è indubbio e si desume dalle parole della proprietaria che teneva molto ad una continuità storica che per noi non è sicuramente un peso ma, un vantaggio». Esco dal retro del locale di servizio medi-
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Davide Massone e Nicolas Vittori, soci e amici Dal primo marzo hanno riaperto la storica panetteria Vai di Casteggio tando su quanti giovani lamentano la mancanza di lavoro, quanti cercano un posticino fisso che tolga i pensieri e contempli un buon stipendio. Per questi lavorare è un optional se proprio si deve, ma senza intaccare l’invisibile cannula di vetro sulla schiena. Davide e Nicholas mi sembrano di ben altra tempra: in un momento tragico, con una pandemia che avanza ancora minacciosa, iniziano un’attività di sacrifici, presenza e rischio imprenditoriale. Iniziano con lo spirito giusto e con i valori veri della vita: la positività, la voglia di lavorare, l’entusiasmo dei loro pochi anni, la volontà di fare bene anche rischiando e, ultimo ma non secondario, la loro amicizia che traspare da come si muovono, come parlano da come si guardano.
Li lascio facendo loro gli auguri che meritano, indispensabili nelle alterne vicende di vita e ripenso alle parole di Rossana: “puliti”, ha definito i due ragazzi. Ecco forse non c’è migliore definizione, “puliti”, come persone, come amici e come futuri commercianti. L’apertura del primo di marzo è stato un successo, con clienti in file ordinate sul marciapiedi antistante la panetteria e, tale augurale principio, si e manifestato anche nei successivi giorni di apertura. Auguri ragazzi, che il buon vento e la salute vi accompagni nei prossimi anni che, come diceva il buon Giacomino di lontane memorie scolastiche, saranno migliori: dopo la tempesta ci sarà la quiete. di Giuliano Cereghini
bressana bottarone
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Multe e tasse mai saldate Il Comune ha crediti per 8 milioni di euro Un buco di quattro milioni: se lo ritrova in bilancio il comune di Bressana Bottarone, regalo di anni e anni di tributi non pagati da parte delle due logistiche fallite negli scorsi anni all’interno del territorio comunale. Centoventi mila sono i metri quadrati in gran parte in disuso, e poche sono le speranze di rientrare di quel mastodontico credito che, unito ad altri crediti pendenti, rischia di mandare in crisi la macchina comunale. Ma non è solo la questione economica a preoccupare l’amministrazione, perché in cima alla lista delle priorità c’è anche il tema ambientale: sono diversi i poli logistici che si stanno insediando o che potrebbero insediarsi in zona, deturpando una vasta area di territorio e, soprattutto, consumando altro suolo oltre a quello già cementificato e lasciato in stato di abbandono. Di tutto ciò abbiamo parlato con l’assessore alla salvaguardia dell’ambiente e ai lavori pubblici Gianfranco Ursino. Assessore, per ricostruire la faccenda bisogna partire dall’inizio. Non che sia facile stabilire quale sia, qui, l’inizio. «In effetti la questione è intricata, ma cercheremo di esporla nel modo più lineare possibile cominciando, direi, dal 2016, anno in cui fallì la Log Service. Per chi non la conoscesse, era una delle due ditte di logistica che storicamente avevano sede a Bressana: la seconda era la CLH, fallita qualche anno dopo, nel 2019. Si tratta di Imu, Tasi, Tarsu e Tari che si sono accumulate nel tempo, arrivando alla cifra di 4,2 milioni. Di questi, 3,9 milioni sono stati riconosciuti dal giudice come “crediti privilegiati”». Una buona notizia, no? «In teoria si, in pratica non proprio. Ci sono creditori più privilegiati di noi sulla lista dei rimborsi, i più consistenti dei quali verranno elargiti solo nel momento in cui dovessero essere vendute le due logistiche. Il patrimonio immobiliare è però gravato da ipoteche e solo una forte ripresa economica potrebbe portare ad una valorizzazione migliore del patrimonio immobiliare e a soddisfare un maggior numero di creditori». E questi 4,2 milioni non sono gli unici soldi che il comune avrebbe da recuperare. «No, purtroppo il bilancio è appesantito da altri crediti mai saldati, per un totale di circa 8 milioni. Il fondo crediti di dubbia esigibilità attualmente è pari a 6,4 milioni. Si tratta di tasse di vario genere non pagate da cittadini e imprese e poi ci sono migliaia di verbali di violazioni del Codice della strada il cui grado di riscossione è inferiore al 40%. Possiamo dire, considerando questi crediti, che il bilancio comunale non è in disavanzo teorico, ma è chiaro che non sarà possibile assicurare i servizi senza
la riscossione di una parte importante di questi crediti. Erano tutti temi che abbiamo sollevato in campagna elettorale e da quando ci siamo insediati abbiamo avviato, dove possibile, le procedure per il recupero coattivo con risultati che iniziano a vedersi». Ma oltre al grave problema economico c’è anche un’altra questione a preoccuparvi: quella ambientale. «Sì perché purtroppo in Oltrepò ogni volta che una logistica chiede di potersi insediare, gli amministratori tendono a stendere il tappeto rosso in cambio di oneri che i comuni incassano e di promesse di posto di lavoro, senza considerare l’impatto sul territorio e sulla qualità della vita degli abitanti. Consumo di suolo, inquinamento, traffico, deturpazione del paesaggio con conseguente deprezzamento degli immobili, sono aspetti che vengono sacrificati in nome di qualche posto di lavoro precario e malpagato. Nel 2010 a Bressana è stato autorizzato un gigantesco polo logistico per un’area di 296 mila metri quadri, di cui 118mila di superficie coperta, che (stando alla convenzione stipulata all’epoca) avrebbe dovuto essere concluso in 10 anni e non nei consueti 4 previsti in genere dalle norme. In più negli anni sono arrivate proroghe di legge ed adesso hanno modo di ultimare i lavori nel 2026». Quanto manca da costruire? «Con l’autorizzazione del 2010 la VIP nel luglio del 2019 ha fatto partire i lavori per la costruzione di un primo capannone che sta per essere ultimato, dei sei previsti nel progetto. E pensare che il nuovo gigantesco insediamento poteva essere bloccato molto tempo fa: nel corso degli anni il comune ha rivisto la convenzione due volte per andare incontro alle richieste della ditta e mai nessuno era andato a certificare l’avvio dei lavori». E nel frattempo nella vicina Casatisma si potrebbe costruire una nuova area logistica di 314 mila metri quadrati. «Esatto. Come se non bastassero le criticità che stiamo vivendo, uno dei nostri confinanti sta premendo per realizzare quest’altra opera che andrà a deturpare il territorio. La legge regionale che dovrebbe porre un freno al consumo di suolo risale al 2014 e a distanza di anni in provincia di Pavia continuiamo pressoché a ignorarla. Nella relazione presentata dalla Provincia di Pavia con l’avvio nel 2019 della procedura di revisione del PTCP, viene dichiarato “l’intento di governare lo sviluppo della logistica alla luce delle crescenti richieste di realizzazione di nuovi poli logistici e trasporto merci che interessano il territorio provinciale”. Un intento che insieme al PTCP al momento è rimasto lettera morta. Intanto i progetti di insediamento di poli logistici vanno avanti.
Gianfranco Ursino, assessore alla salvaguardia dell’ambiente e ai lavori pubblici
«In Oltrepò ogni volta che una logistica chiede di potersi insediare, gli amministratori tendono a stendere il tappeto rosso in cambio di oneri e di promesse di posto di lavoro, senza considerare l’impatto sul territorio e sulla qualità della vita degli abitanti» Eppure sono sotto gli occhi di tutti i capannoni e altri siti industriali abbandonati lungo le nostre strade. Purtroppo manca un’adeguata programmazione territoriale che tracci un disegno di sviluppo della provincia e ne sancisca la vocazione agricola e turistica dell’Oltrepò. Vi invito ad andare a leggere le osservazioni presentate dalla stessa Provincia di Pavia alla conferenza di Vas del 30 ottobre 2019 per la revisione del Pgt del comune di Casatisma, che era un po’ l’atto propedeutico per consentire l’insediamento della futura logistica: ci sono pesanti osservazioni. Come Comune di Bressana avevamo già posto in quella sede le nostre perplessità a riguardo e le ribadiremo nelle osservazioni che presenteremo nell’ambito nell’istruttoria in corso di verifica di assoggettabilità a Valutazione di Impatto Ambientale della logistica di Casatisma. Anche perché riteniamo si tratti di un intervento di rilevanza sovra-comunale e pertanto la sua istruttoria dovrebbe coinvolgere in modo diretto come decisore non soltanto il Comune sul cui territorio è previsto, ma anche le municipalità circostanti. Come previsto dalla normativa di attuazione del PTCP attual-
mente vigente, al capo 2 - I.15 inerente la concertazione sugli interventi di rilevanza sovracomunale». E mentre si discute sull’apertura di nuove logistiche il ponte sul Coppa in pieno centro a Bressana viene chiuso ai mezzi pesanti. «Purtroppo saremo costretti a farlo per ragioni di sicurezza. A metà 2016 via Depretis (che attraversa tutto il paese) è stata declassata e acquisita dal comune, compreso il ponte. All’epoca dell’acquisizione non si trovarono le carte relative al collaudo e la Provincia si impegnò a rifarlo entro fine 2016. Ma solo nei mesi scorsi, dietro nostra insistenza, è stato fatto il collaudo ed è arrivata la bella sorpresa: il ponte necessita di lavori di consolidamento. Da qualche giorno nessun mezzo oltre le 3,5 tonnellate (camion, trattori e autobus) può transitare ed è stato istituito il senso unico alternato. Con Autoguidovie abbiamo studiato un nuovo percorso per gli autobus e abbiamo avviato il dialogo con la Provincia per accelerare l’iter dei lavori che saranno lunghi con gravi disagi per la cittadinanza». di Serena Simula
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«Abbiamo scelto di ripartire anche per tutti coloro che di teatro vivono» Riparte la stagione estiva del Carbonetti, una buona notizia per i tanti appassionati dopo mesi di stop forzato. Location il giardino adiacente il Teatro, dove verranno organizzate serate teatrali all’insegna di grandi protagonisti. Ne parliamo con il sindaco Antonio Riviezzi e il presidente dell’Associazione “Amici del Teatro Carbonetti” Marco Rezzani. Riviezzi che sensazione si prova a ripartire con una stagione teatrale estiva? «Siamo orgogliosi di poter presentare una nuova stagione teatrale che, per quanto relativa ai soli mesi estivi, ci permette di rinnovare l’impegno dell’amministrazione comunale nella promozione della cultura. Questa edizione arriva in un momento di grande difficoltà per il mondo dello spettacolo, settore tra i più provati dagli effetti della pandemia. L’emergenza sanitaria ha inflitto una battuta d’arresto senza precedenti alle attività culturali e di intrattenimento, dalle sale cinematografiche ai musei, privandoci di qualcosa che ha sempre fatto parte non solo delle consuetudini sociali dei nostri tempi, ma addirittura del cammino del genere umano verso il progresso civile. Ci siamo evoluti con l’arte, la musica, il teatro fin dai primordi della civiltà e certamente non si tratta di aspetti della vita cui si può rinuciare a cuor leggero». Nonostante le critiche che negli anni le sono state mosse proprio sui costi del Teatro, nonostante siamo in dirittura d’arrivo di questa legislatura, lei crede fortemente nel Teatro «Mai come in questo frangente è importante credere nella necessità della cultura, pur nel rispetto delle regole che la pandemia ci ha imposto e della sicurezza sanitaria di tutti noi. Il Teatro Carbonetti è un fiore all’occhiello del Comune di Broni. In questi anni è diventata una realtà consolidata, affermandosi come centro culturale della città e del territorio. Crediamo molto nel teatro e nella responsabilità sociale e culturale che esso ricopre: la responsabilità di valorizzare i valori e l’ identità della nostra città e del circondario. Investire nella cultura, voglio sottolinearlo, significa puntare sui nostri giovani, sostenere le associazioni culturali e sportive della città, creare occasioni di sviluppo, fare promozione alle unicità e bellezze del nostro territorio e aiutare il commercio locale. È per questo motivo che, nel corso di mesi scorsi, l’amministrazione, gli uffici competenti e l’Associazione Amici del Teatro Carbonetti, hanno lavorato affinché il Carbonetti potesse riprende la propria attività». Rezzani, per l’Asssociazione “Amici del Teatro Carbonetti” cosa significa questa nuova stagione? «Era il 25 ottobre dello scorso anno. Era appena terminata la serata con Mogol, con
Antonio Riviezzi e Marco Rezzani tutto il suo carico di emozioni e di bellezza. Di lì a pochi minuti sarebbe entrato in vigore il decreto che, tra le altre disposizioni, prevedeva anche la nuova chiusura dei teatri. Il resto, lo sappiamo, è storia recente. Quella sera, salutandoci fugacemente per rientrare a casa per il coprifuoco, ci siamo lasciati con la promessa e la speranza di ripartire appena sarebbe stato possibile. Ora ci proviamo. L’ultimo decreto legge lo permette. Anche alla luce dell’ottima esperienza dello scorso anno, il Carbonetti ha scelto di “trasferirsi” all’aperto, nella stupenda cornice dei Giardini di Villa Nuova Italia. Si potrà andare a teatro in assoluta sicurezza, nel rispetto di tutte le norme che presiedono alla tutela della nostra e altrui salute. Come lo scorso anno appunto. Abbiamo scelto di ripartire perché siamo consapevoli che il teatro, come tutta la cultura, è necessario alla nostra vita. Il teatro è uno spazio in cui si partecipa alla poesia che si fa corpo, relazione, contatto emotivo, respiro, gesti, lacrime, fatica, gioia e dolore. Questa è la condizione del teatro, questa è la condizione della vita. Abbiamo scelto di ripartire anche per tutti coloro che di teatro vivono – attori, tecnici, maestranze di vario tipo – che per tanti mesi sono stati costretti a fermarsi con ricadute economiche pesantissime. Lo abbiamo fatto per dare un segno di speranza e di futuro. Un grazie sincero al sindaco e all’amministrazione comunale per aver creduto e appoggiato questo progetto di ripartenza. A nome mio e dell’intera Associazione “Amici del Teatro Carbonetti” vi voglio dire di cuore: non aspettiamo altro che il momento di rivedervi a teatro!». Sindaco, ci può fornire qualche informazione riguardo agli aspetti organizzativi? «Sulla scorta della positiva esperienza degli spettacoli organizzati l’estate scorsa nei giardini, quest’anno la macchina organizzativa si sta muovendo perché si possa ricreare una cornice ancora più funzionale e suggestiva per i numerosi spettacoli che verranno ospitati.
Considerato che alcuni di questi richiedono particolari accorgimenti tecnici, la dotazione strumentale in dotazione verrà implementata con un palco di dimensioni maggiori e un ring che permetterà di replicare all’aperto gli effetti di luce e le atmosfere che solitamente vengono ricreati nei teatri al chiuso, un po’ come accade per i concerti musicali realizzati outdoor. L’accesso ai giardini seguirà scrupolosamente tutte le norme anti covid in vigore e le prescrizioni di tutti gli enti preposti, grazie anche alla collaborazione della Protezione civile, dell’Associazione Carabinieri in congedo e degli Alpini di Broni. Anche quest’anno verrà garantito il servizio bar, sempre nello stringente rispetto della normativa anti covid vigente». Riguardo al numero dei posti a sedere ed al costo del biglietto, cosa ci può dire? «Riguardo al numero di posti, l’organizzazione sta lavorando per garantire un numero leggermente più contenuto di quello dello scorso anno, attorno ai 240 posti, per consentire una migliore visuale d’insieme rispetto al palco. Rispetto invece ai prezzi dei bilgietti, posso confermare che non hanno subito nessun aumento rispetto all’anno
precedente, anzi: nel caso di alcuni spettacoli, come ad esempio la serata dedicata ad Alda Merini, sono addirittura diminuiti in maniera considerevole». Si partirà sabato 5 giugno alle 21.30. Prematuro fare ipotesi, ma là dove fosse ancora in vigore il cosiddetto coprifuoco delle 22.00, come intendete arginare l’ostacolo? «Trattandosi di spettacoli all’aperto, necessitano del buio e della luce artificiale per poter essere svolti; per questo motivo attualmente abbiamo ipotizzato in via ipotetica un orario di inizio per le ore 21.30, salvo per la lirica, in attesa di verificare la futura normativa in materia di coprifuoco e soprattutto la possibilità che il titolo di ingresso allo spettacolo funzioni come giustificativo per spostamenti oltre l’orario stabilito. Se così non dovesse essere, vedremo di applicare tutti i correttivi del caso. In caso di maltempo, l’organizzazione valuterà se riproporre lo spettacolo all’interno del teatro – nel caso fosse possibile – oppure se rinviarlo a data successiva». di Silvia Colombini
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STRADELLA
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«Consiglio comunale pessimo, la maggioranza boccia il ripristino dello Sportello Donna» Una minoranza sempre attiva. è quella de “La Strada Nuova”, guidata dal consigliere Mattia Grossi. Un gruppo giovane e attento alle problematiche che riguardano la città, attivo sul territorio e sui social, nonchè attraverso gli strumenti ufficiali: le interpellanze. Mattia, il suo gruppo porta sempre numerose interpellanze durante i consigli comunali. Ci parla di quelle presentate durante l’ultimo consiglio comunale? «Abbiamo presentato tre interpellanze e un ordine del giorno. L’ordine del giorno riguardava il ripristino di un servizio importantissimo: lo Sportello Donna o punto rosa, che è stato chiuso nel 2017. Per quanto riguarda invece le interpellanze abbiamo chiesto che sia riqualificato il giardino della biblioteca, di essere aggiornati in merito alla situazione del cavalcavia della zona logistiche e infine abbiamo posto l’attenzione sul problema degli imbrattamenti con bombole di vernice che avvengono sugli edifici nella zona del polo scolastico». Avete ottenuto risposte che vi soddisfano? «Per niente, è stato un consiglio comunale pessimo. Per quanto riguarda l’ordine del giorno sul ripristino dello Sportello Donna, la maggioranza ha votato contro, sulle interpellanze invece il sindaco Cantù ha proposto di discuterle durante il prossimo consiglio comunale e la maggioranza ha dato voto favorevole». Parliamo di buone notizie: il punto nascite dell’Ospedale cittadino ha riaperto i battenti. Cosa ne pensa visto che si è sempre esposto in prima persona?
Mattia Grossi, consigliere di minoranza
«Ritengo che chi fa politica debba sempre esporsi in prima persona per far si che i servizi a disposizione dei cittadini non vengano mai ridotti ma, se possibile, implementati. Pertanto sono davvero felice che il reparto di ostetricia sia stato riaperto e che tutte le donne che ne necessitano possano usufruirne. Sicuramente il merito di questo risultato è di tutti i cittadini di Stradella e dei paesi limitrofi che insieme ai loro sindaci e a tutti gli amministratori hanno lavorato duro per ottenere questo risultato». Avevate fatto una diretta streaming sulla questione amianto, per chi non l’ha seguita, qual è la questione?
«Come tutti sappiamo l’amianto è da sempre un problema per il nostro territorio, sia perché in passato si utilizzava molto nell’edilizia, ma soprattutto perché a Broni era presente la Fibronit. Ad aprile del 2019 è stato sottoscritto dall’amministrazione di Broni e dalla precedente amministrazione di Stradella, l’impegno a riperimetrare il SIN (Sito di Interesse Nazionale) per permettere anche alla nostra Città di poterne usufruire. Tramite il SIN, infatti, sipotrebberoricevere dallo Stato i fondi per la bonifica di gran parte dell’amianto presente nel nostro territorio comunale. Ad ottobre 2020 l’attuale Giunta ha però deciso di non proseguire con l’iter di annessione al SIN di Broni e contestualmente ha emesso un bando di 300mila euro per lo smaltimento di coperture in amianto di edifici privati. Il fatto di avere un bando comunale per lo smaltimento dell’amianto non è motivo di esclusione dal SIN e quest’ultimo consente di avere accesso a fondi maggiori rispetto a quelli del bando e che possono essere utilizzati sia per edifici pubblici che privati; quindi potevano essere portati avanti parallelamente. Due settimane fa abbiamo tenuto una conferenza online con alcuni referenti di Casale e di Legambiente proprio per parlare dei vantaggi per i territori che fanno parte del SIN. Per chi volesse vedere il meeting è disponibile la registrazione sulla nostra pagina facebook “La Strada Nuova per Stradella”. Inoltre, durante il Consiglio di marzo abbiamo presentato un ordine del giorno, per richiedere la mappatura dei tetti tramite droni, per conoscere l’effettiva quantità
di coperture in amianto in modo da sapere se i fondi del bando comunale siano sufficienti o meno al loro smaltimento». Area di sgambamento cani: molti cittadini anche attraverso le pagine facebook che parlano della città, hanno manifestato l’esigenza di averne una come in altre realtà vicine. Lei se ne era già occupato tempo fa. Oggi com’è la situazione? «Si parla da diversi anni della realizzazione di un’area sgambamento cani a Stradella. Durante il Consiglio di settembre 2019 avevo presentato un ordine del giorno in cui chiedevo la riqualificazione di diverse aree urbane e campi gioco comunali che risultavano in stato di completo abbandono e in consiglio era stato proposto di adibire una di queste areeproprio per questo scopo. Durante il 2020 ci sono state altre priorità, ma ora che l’emergenza sanitaria sta volgendo al termine, pensavo di riproporre il tema in Consiglio per venire in contro a questa esigenza dei cittadini». Avete intenzione di riproporre i corsi online che avete fatto tempo fa? «Come associazione ogni anno abbiamo proposto dei corsi, nel 2019 li avevamo fatti dal vivo, nel 2020 online causa pandemia. Quest’anno non ci abbiamo ancora concretamente pensato ma ci stiamo concentrando sulla sensibilizzazione dei cittadini nei confronti di tematiche rilevanti per la nostra città, come ad esempio il SIN, tramite conferenze online».
di Elisa Ajelli
STRADELLA
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Professione “esploratore”: Nicola Ardenghi il massimo esperto in botanica dell’Oltrepò Il primo ottobre scorso, lo stradellino Nicola Ardenghi è stato nominato curatore dell’Orto Botanico di Pavia. Una nomina che lega per l’ennesima volta la struttura pavese con il nostro territorio. Quasi un secolo fa un altro oltrepadano venne nominato direttore della struttura: si trattava del botanico Luigi Montemartini di Montù Beccaria, che mantenne la direzione fino al 1926, quando il governo fascista lo inviò al confino di polizia. Classe 1986, dallo stile vintage e carismatico, Ardenghi dopo laurea in Scienze Naturali, conseguita presso l’Università di Pavia, un dottorato e un assegno di ricerca in ambito botanico, ha proseguito la sua formazione naturalistica concentrandosi sullo studio della flora locale. Come curatore dell’Orto Botanico di Pavia, si occupa della tutela delle collezioni presenti all’interno dell’Orto, di divulgazione scientifica, di ricerca collegata alle piante custodite, della comunicazione e del coordinamento degli eventi della struttura. Nicola, la sua è stata una carriera da ricercatore iniziata in giovane età. A tredici anni aveva già pubblicato il suo primo “Uccelli rari d’Egitto” … «È stata la mia prima pubblicazione, scritta mentre frequentavo la terza media a Il Cairo, insieme ad Ettore Grugni, mio professore di matematica e scienze casualmente anche lui originario di Pavia». Come si è appassionato alla vegetazione e allo studio della natura? «Ho scoperto questa passione per la natura e per le piante, fin da bambino, quando andavo con i miei nonni di Stradella nel loro orto. Negli anni successivi ho sviluppato questo interesse anche all’estero, grazie ai viaggi che ho fatto con i miei genitori, principalmente in Egitto e Tunisia, dove ho avuto modo di conoscere un altro tipo di natura: dopo queste esperienze ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Scienze naturali». Lei è un vero e proprio esploratore della natura e ha setacciato la nostra regione alla ricerca di piante rare o inedite. Si sarà trattato di un lungo lavoro… «Mi sono interessato della ricerca della flora spontanea della Lombardia e in particolare della provincia di Pavia, dove ho censito 2969 tra specie e sottospecie, pari a circa il 70% della flora della nostra regione. Ma il lavoro di cui sono più orgoglioso l’ho pubblicato nel 2016 e riguarda la flora dell’Oltrepò Pavese. Questo studio mi ha permesso di entrare in intimità con il nostro territorio, visitandolo in ogni angolo e scoprendo piante che all’epoca non erano ancora ben conosciute o diffuse. A distanza di cinque anni è tutt’ora l’opera più completa sull’argomento». Come si è svolto questo lavoro? «L’esplorazione si basa sulla conoscenza del territorio, ed è per questo che è stato
fondamentale suddividerlo in zone di pianura, collinari e montane. Per esempio, con questa divisione so che se sono alla ricerca di una specie di montagna andrò a muovermi nelle zone appenniniche, magari verso il Lesima o il Penice. Però va aggiunto che molte specie sono state scoperte con casualità, camminando e osservando con molta attenzione quelle piante più curiose o strane». In queste sue ricerche ha rilevato alcune anomalie, cioè piante che non si sarebbe mai aspettato di trovare in Oltrepò Pavese? «Ho trovato parecchie piante esotiche, non estranee soltanto alla flora del nostro Oltrepò, ma anche a quella italiana ed europea. Sono piante che arrivano da continenti diversi, solitamente attraverso l’uomo: questo avviene sia volontariamente, perché interessato a coltivarle, come accaduto più di un secolo fa con la vite americana, oppure casualmente, attraverso mezzi di trasporto. Diverse piante esotiche le ho scoperte nei pressi della stazione di Stradella. Tanti anni fa trovai accanto ai binari una pianta americana (lo zigolo di Schweinitz), imparentata con il papiro, che prima di allora non era mai stata segnalata in Italia: sicuramente era arrivata con i treni merci, tant’è vero che altri esemplari sono stati registrati in Francia sempre lungo la ferrovia». Quindi voi esploratori segnalate i luoghi di scoperta di ogni esemplare anche per scoprirne il movimento? «Certamente, perché col tempo possono scomparire oppure contrariamente diffondersi in modo minaccioso, come è accaduto per l’ambrosia». Quindi confrontando questi suoi studi recenti con quelli effettuati ad inizio secolo, ha notato qualche evoluzione, diversità o discrepanza? «Ci sono stati parecchi cambiamenti: alcune specie autoctone sono diventate più rare se non addirittura estinte, come alcune erbe infestanti all’epoca presenti nei campi di cereali». Questo immagino sia avvenuto per merito e/o colpa della chimica e dei diserbanti… «Esattamente, per le modifiche nelle tecniche colturali. Ma anche l’aumento dell’attività edilizia industriale che nelle zone di pianura ha causato l’estinzione di diverse specie che crescevano in ambienti umidi». Sappiamo che lei si occupa anche dello studio di fiori ed erbe spontanee commestibili. Ci sono varietà diffuse che noi sottovalutiamo ma che invece possono rivelarsi ottimi ingredienti per i nostri piatti? «Ce ne sono diverse: mi sono interessato principalmente di quelle consumate a livello tradizionale, tra le quali il “vartis”, cioè i germogli del luppolo selvatico, che
è un classico della cucina oltrepadana. Ma poi abbiamo anche l’ortica, la gallinetta, le foglie basali del papavero o la cicoria selvatica. In realtà ce ne sono parecchie altre che potrebbero arricchire questo “bagaglio gastronomico”. Nei vigneti dell’Oltrepò, negli ultimi sessant’anni, si è insediata un’altra pianta non autoctona ormai ampiamente diffusa, la rucola selvatica dai fiori bianchi: si tratta di una varietà mediterranea non tradizionalmente consumata in Oltrepò, ma che si presta molto a tale scopo come già accade in Italia meridionale, dove viene cucinata in padella con aglio, olio e peperoncino o come semplice condimento». Il secolo scorso in Oltrepò esistevano piante ampiamente diffuse che ora non esistono più? Com’è cambiato l’ecosistema? «A livello di specie legnose possiamo dire che non sia cambiato molto. Ciò che si è modificato riguarda essenzialmente l’estensione dei boschi, soprattutto nella fascia collinare. Decenni fa i boschi di roverella e carpino nero erano molto più estesi, ora si sono ridotti soprattutto perché sostituiti dai vigneti. Per questo motivo sono diventate meno diffuse, ma sono ancora lontane dall’estinzione». Invece, per quanto riguarda la zona montana, il pino è stata una di quelle specie introdotte dall’uomo, vero? «L’introduzione delle conifere, in particolare del “pino nero”, è stata una grande modifica avvenuta agli inizi del Novecento, che ha cambiato anche il paesaggio dell’Oltrepò. Questa varietà proviene dall’Europa centro-orientale, era stata impiantata artificialmente nell’Oltrepò Montano, ma successivamente è “scappata” da questi impianti ed è diventata selvatica, presente ormai nei boschi e negli arbusteti completamente integrata con il nostro ecosistema. Quelle che noi chiamiamo generalmente “pinete” in realtà non sono boschi spontanei, ma impianti artificiali creati un secolo fa per avere più legna e per poter consolidare i versanti franosi dell’Oltrepò». Parlando di viticultura, alla fine dell’Ottocento arrivò dall’America la fillossera, che causò lo sterminio di diverse varietà di Vitis vinifera. Da allora la coltivazione è cambiata, passando dal “piede franco” all’innesto su vite americana. Anche questa nuova tipologia di cultura è stata una modifica importante per il nostro ecosistema? «Mi sono interessato molto dello studio del “selvatico”, cioè della vite americana portainnesto. Ho trascorso tanti anni a studiare queste varietà. Anche loro sono “scappate” dalla coltivazione in impianti e spesso le si trovano nei boschi o addirittura lungo gli argini del Po.
Nicola Ardenghi è stato nominato curatore dell’Orto Botanico di Pavia Anche questa è stata un’introduzione del secolo scorso che ha cambiato il paesaggio e gli ecosistemi, soprattutto nella zona collinare e di pianura. Essendo oltrepadano ci tengo molto che l’Orto Botanico possa in qualche modo aiutare il nostro territorio. Nei prossimi mesi terremo alcune conferenze sulla malattia della vite ed in particolare mi occuperò personalmente di quella dedicata alla peronospora. Tra l’altro molti non sanno una curiosità a riguardo: questa malattia è stata scoperta per la prima volta in Italia nel 1879 a Santa Giuletta dai botanici di Pavia (Romualdo Pirotta, collaboratore di Santo Garovaglio, allora direttore dell’Orto Botanico), i quali ritornando dall’Oltrepò hanno poi involontariamente portato la malattia all’interno dell’Orto causando la morte di tutte le viti presenti al suo interno». Quali progetti intende sviluppare durante il suo nuovo incarico di curatore dell’Orto Botanico? «La pandemia ha bloccato molti nostri progetti ed eventi in programma. Come tutti i musei, siamo rimasti chiusi al pubblico sia durante la zona gialla che la zona rossa. Questo però ci ha dato modo di trovare metodi alternativi per la presentazione delle nostre collezioni, migliorando la nostra comunicazione social con video divulgativi, in sinergia con il Sistema Museale di Ateneo, di cui l’Orto fa parte. Assieme ai due giardinieri, ai volontari del servizio civile e agli studenti part-time che quotidianamente ci danno una mano fondamentale nella gestione dell’Orto, abbiamo colto l’occasione della chiusura forzata per poter svolgere diversi lavori di ristrutturazione, sistemando antiche aiuole e ricontrollando i tanti alberi presenti nell’Orto, tra i quali il “Platano di Scopoli”, alto 45 metri e seminato nel 1778 dal naturalista Giovanni Antonio Scopoli. Uno dei mei obbiettivi è quello di catalogare tutte le piante presenti per metterle al meglio a disposizione del pubblico». di Manuele Riccardi
castana
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«L’Oltrepò Pavese è vicino al punto di rottura: manca equilibrio tra le cooperative e le cantine private» Qualche mese fa avevamo intervistato Armando Colombi, direttore del Consorzio Club del Buttafuoco Storico, il quale ci aveva illustrato i nuovi progetti in cantiere. Dal primo marzo 2021 il Consorzio ha un nuovo presidente. Si tratta di Davide Calvi di Castana: classe 1984, titolare dell’azienda agricola di famiglia dal 2009, ha conseguito la Laurea in Enologia a Piacenza e la specialistica ad Asti. Dal 2015 ricopre l’incarico di presidente della Cia – Agricoltori italiani Pavia ed inoltre, da alcuni anni, è vicepresidente del Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese. Appassionato di storia e tradizione locale, è uno dei cardini della compagnia teatrale dialettale G74 di Oliva Gessi. L’azienda Calvi di Castana è legata a filo doppio con nome del Buttafuoco Storico: il padre Valter è stato promotore, fondatore e primo presidente del Club. Calvi, la sua è un’azienda storica di Castana: da quanto tempo producete vini? «A Castana il cognome Calvi è molto diffuso e per distinguere i vari ceppi una volta si faceva riferimento al capostipite della famiglia: il nostro ceppo si chiama Mariòn, che successivamente è diventato anche il nome del nostro Pinot Nero. La mia famiglia lavora vigneti a Castana almeno dal 1600, quando alcuni terreni risultavano intestati a Pietro Calvi di Palazzina, mio antenato. Da allora i vigneti sono rimasti pressoché gli stessi: inizialmente in enfiteusi perpetua e successivamente, con Napoleone, trasformati in proprietà. Siamo una piccola azienda vocata alla qualità, senza velleità di dimensioni e ingrandimento, ma con la sola volontà di espandersi verticalmente e non orizzontalmente». Il vostro Buttafuoco prende il nome da una delle vigne più storicamente vocate per la produzione di questo vino… «Una svolta importante per la nostra azienda è avvenuta negli anni ’90, con l’acquisto di Vigna Montarzolo, una delle più importanti di Castana, fino ad allora inserita nella proprietà del Castello: questa vigna viene citata anche in alcune vecchie canzoni popolari di Castana. L’arenaria presente a Montarzolo viene nominata anche nei libri di geologia, e venne utilizzata per la costruzione della Basilica di San Michele Maggiore di Pavia, dove furono incoronati sette Re d’Italia. L’acquisto di Vigna Montarzolo è stata un po’ la “scintilla” che ha innescato la nascita del Club del Buttafuoco Storico…». Suo padre Valter è stato tra i fondatori del Club: come nacque l’idea di costituire questo consorzio?
«Il nome del Buttafuoco nasce da un fatto storico: nel 1859, durante la II guerra d’Indipendenza, un gruppo di marinai austriaci incaricati di traghettare le truppe sul Po, si ammutinarono e scomparvero sulle colline dell’Oltrepò. Dopo aver temuto il peggio, vennero ritrovati in una cantina nella nostra zona, sani e salvi ma completamente ubriachi per aver bevuto parecchie bottiglie di vino Buttafuoco. Negli anni successivi la Marina Imperiale battezzò una nave con questo nome, in onore di quell’ottimo vino. Da questa prima testimonianza sappiamo che il Buttafuoco è sempre rimasto limitato alla nostra zona, parallelamente al Sangue di Giuda. Nel secondo dopoguerra la commercializzazione del Buttafuoco è stata ripresa in grande stile dal Commendator Bianca Alberici, la quale ha riportato il nome in auge: aveva terreni meravigliosi, ampliamente vocati per questo vino. Agli inizi degli anni ’90 mio padre ha iniziato la vinificazione del primo Buttafuoco “Don Angelo”, una sorta di “numero zero”. Da lì è nata l’idea di coinvolgere altri amici, produttori e proprietari di terreni situati nelle zone più vocate. Si è trattato di un progetto innovativo, che parte da una da una filosofia, non da un pretesto commerciale, perché questo è il Buttafuoco Storico: è una filosofia di vita e di produzione». Calvi, la sua sarà una presidenza un po’ anomala, iniziata nel corso di una pandemia che potrebbe protrarsi ancora per parecchi mesi… «Purtroppo, questa è una realtà che andrà affrontata e valutata un passo alla volta. Dato che ci sarà il rischio di non poter svolgere eventi in presenza per diverso tempo, cercheremo di puntare maggiormente sui social, cercando di tenere sempre coinvolti i nostri amici e clienti». Un vero peccato, se si pensa che proprio nel 2021 si celebrano i venticinque anni del vostro consorzio. Quali iniziative avete in programma? «Il 2021 è l’anno del nostro “giubileo”. Lo scorso 9 febbraio abbiamo festeggiato con uno show in diretta sulla Tv locale, ma non ci siamo limitati solo a questo evento. Per l’occasione è stata presentata un’etichetta celebrativa della riserva speciale 2016, prodotta in 700 esemplari. Nei giorni scorsi abbiamo presentato online la selezione “Vignaioli del Buttafuoco Storico 2016” e prossimamente inizierà “Scollinando 2021”. Si tratterà di un’edizione “diffusa”, differente rispetto alle precedenti, per poter rispettare il distanziamento ed evitare assembramenti: limitazioni permettendo, fino ad ottobre piccoli gruppi potranno prenotare visite
Davide Calvi, dal primo marzo presidente del Club del Buttafuoco Storico
in cantina e ai vigneti, in totale sicurezza. Come di consuetudine a novembre è previsto “Scodellano”, con la presentazione dell’annata 2017». Come descriverebbe “Vignaioli del Buttafuoco Storico 2016”? «Un vino meraviglioso, con 16 gradi svolti di alcol, senza alcun residuo zuccherino. Eccezionale, assolutamente da provare». Ad oggi, qual è la posizione che il “Club del Buttafuoco Storico” (e di conseguenza il vostro vino) ricopre all’interno del territorio? «Dopo anni di lavoro e di crescita costante il nostro consorzio si è affermato come attore fondamentale del nostro territorio: non si può parlare di Oltrepò Pavese senza parlare di “Buttafuoco Storico”. Nonostante gli ultimi scandali, che vedono coinvolte altre cantine e altri vini, ci troviamo ancora in un terreno fertile per intraprendere un dialogo tra associazioni. C’è ancora la possibilità di fare rete e solo andando avanti insieme sostenendo le nostre eccellenze possiamo riuscire a valorizzare l’Oltrepò. Chi fino ad oggi ha voluto puntare su un solo vino, ha sempre fallito. Un territorio di 13.500 ettari vitati non può essere rappresentato da una sola tipologia. Il Buttafuoco è certamente un vino cardine del nostro territorio, ma non può rappresentarlo integralmente». Quindi lei è favorevole alle zonazioni e alle sottozone? «Mi baso semplicemente su un principio territoriale: anche mio padre, negli anni precedenti, ha combattuto molto per questo. Il nostro territorio è già diviso in zone e sottozone, e non si tratta di una scoperta recente ma del periodo post fillosserico:
la bonarda di Rovescala, il moscato di Volpara, il pinot nero per il metodo classico in Valle Versa e Valle Scuropasso, il riesling italico di Oliva Gessi, sono solo alcuni esempi di prodotti eccellenti vinificati in sottozone già di fatto esistenti da parecchi devenni». In veste di presidente di Cia Pavia, qual è la sua opinione riguardo il recente scandalo che si è nuovamente abbattuto sulla cantina Terre d’Oltrepò? «Non entro nel merito della questione. Come Cia siamo fiduciosi nell’operato della magistratura e siamo sicuri che la cantina riuscirà a chiarire la propria posizione». Cosa si auspica per il futuro dell’Oltrepò Pavese? «Un’attenzione maggiore riguardo le cantine sociali. Va ritrovato un punto di equilibrio tra le cooperative e le cantine private, perché entrambe sono importanti per il territorio. L’Oltrepò Pavese è vicino al punto di rottura: i prezzi attuali delle uve non consentono una remuneratività corretta delle aziende agricole. Dagli studi svolti insieme a Regione Lombardia emergono dati allarmanti: stiamo svalutando le uve rispetto ai costi di produzione, sottopagando gli agricoltori che non potranno andare avanti a lavorare in queste condizioni ancora per molti anni. Io sono molto preoccupato di questo, perché è venuta a meno la sostenibilità aziendale. Il sistema di produzione e di vendita che oggi ha tenuto in piedi l’Oltrepò, fondato sulla vendita dello sfuso, ci ha dimostrato essere fallace e di non essere più in grado di sostenere il territorio. Bisogna puntare sulle produzioni di qualità ed eccellenza. di Manuele Riccardi
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ARENA PO
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Dove atterravano Messerschmitt e biplani Fiat, oggi crescono meliga, grano e frumento San Damiano al Colle, aprile 1940. La politica del ventennio fascista sta per giungere al suo punto culminante: nel giro di poche settimane il Duce avrebbe dichiarato guerra alla Francia, ma la vita di campagna sta scorrendo come tutti i giorni. Percorrendo le strade interpoderali, Lidia e Dina, due ragazzine di Casalunga, stanno per raggiungere la loro amica Piera per poi dirigersi verso il laboratorio sartoriale di Costa Montefedele, presso la quale, da ormai da diverse settimane, hanno iniziato ad apprendere l’arte della sartoria. Tutto d’un tratto, un forte rumore dal cielo impaurisce le due giovani, le quali voltandosi in direzione Mondonico scorgono un aereo a bassa quota dirigersi proprio verso di loro. Terrorizzate, Lidia e Dina si nascondono dentro alcune sterpaglie e rimangono a terra, nella convinzione che quell’aereo possa scaricare su di loro alcune raffiche di mitragliatrice. Fortunatamente non fu così: il velivolo scollinò dirigendosi verso la zona di Cardazzo. Passata la forte paura, dopo aver raggiunto l’amica Piera, le tre ragazzine proseguono il loro viaggio verso la destinazione prefissata, non sapendo che quell’evento a cui avevano appena assistito, sarebbe diventato una prassi comune negli anni a seguire: si trattava di uno dei primi aerei da guerra in fase di atterraggio presso l’aeroporto campale di Cascina Vaga, la cui pista di atterraggio era situata nel territorio di Arena Po. Nel gergo locale viene spesso erroneamente ricordato come l’Aeroporto del Cardazzo, data la maggior vicinanza con la frazione del comune di Bosnasco. Un’accurata ricostruzione delle vicende militari di Cascina Vaga è stata descritta da Pier Vittorio Chierico nel libro “Allarme! Bombardieri su Pavia” (Prime Editrice, 2014) alla quale vanno aggiunte diverse testimonianze e ricerche storiche svolte sul campo, tra le quali quelle dello stradellino Orindo Meraldi, originario di Arena Po. Negli anni Trenta Cascina Vaga si presentava come un tipico cascinale medievale, secondo alcune documentazioni già di proprietà dei Beccaria nel XIV secolo. I lavori di costruzione dell’aeroporto iniziarono a metà del 1938, un anno prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale e due anni prima dell’ingresso in guerra. La realizzazione, secondo la ricostruzione di Meraldi, venne programmata molto prima, dato che l’area fu sottoposta a vincolo militare parecchi anni prima e la linea elettrica dell’alta tensione venne deviata in modo anomalo per non attraversare quella che poi sarebbe diventata la pista d’atterraggio. Il governo requisì, oltre a parecchi campi agricoli, diversi immobili di proprietà delle famiglie Ferrari, Massoni e Sarchi, destinandoli alla sede di
Cascina Vaga, i piloti attendono l’ordine di decollo seduti al posto d’allarme goliardicamente rinominata Osteria della Gioconda
comando, alla logistica e all’alloggio del personale militare. Il campo ricopriva un’area di circa un chilometro quadrato e fu realizzato livellando il terreno, con annessa costruzione di canali per il drenaggio delle acque piovane. Non vi furono costruite particolari strutture e anche la pista di decollo era costituita da un semplice manto erboso. All’interno della casa colonica vennero successivamente stabiliti gli uffici del comando del 43° Gruppo BT e dei servizi logistici. Secondo quanto riportato da alcuni libri, il decollo avveniva in direzione nord ovest, verso un naturale strapiombo che permetteva lo slancio degli aeroplani. Il campo di volo divenne operativo agli inizi degli anni ’40, quando arrivarono i primi velivoli provenienti dall’aeroporto di San Damiano Piacentino: tredici bombardieri “cicogna” del 43° Gruppo Terrestri del 13° stormo BT, precedentemente utilizzati durante la guerra spagnola. Questi bombardieri vennero schierati sul lato ovest, dove vi era abbastanza vegetazione per poterli nascondere: fu una trovata abbastanza ingegnosa, in quanto l’aeroporto per diversi mesi riuscì a non essere individuato dai ricognitori francesi e inglesi. La mensa degli ufficiali fu stabilita a Stradella, quella dei sottufficiali, invece, presso il ristorante “La Barca” di Castel San Giovanni. Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra e il 13° Stormo venne assegnato al fronte occidentale, con il compito di attaccare simultaneamente l’aeroporto di La Fayence e l’idroscalo di Hyères.
Alle ore 10 del 13 giugno decollarono simultaneamente, dalle basi situate in Piemonte, quarantasei caccia biplani Fiat CR.42, ai quali fu assegnato il compito di anticipare i bombardieri del 13° Stormo in decollo da Cascina Vaga con la missione di bombardare i citati aeroporti francesi. A causa delle condizioni meteo avverse, dodici caccia caddero al suolo. Poco prima, alle 9:23, dieci bombardieri FIAT BR.20 decollarono da Cascina Vaga, con a bordo quattro bombe da 100 Kg e quattro da 50 kg ciascuno: poco prima altri dieci velivoli erano partiti dall’Aeroporto di San Damiano di Piacenza. La 5^ squadriglia riuscì a bombardare l’aeroporto di Hyères, mentre la 3^ sganciò il suo carico esplosivo sull’idroscalo. Durante il ritorno alla base, i bombardieri furono intercettati dai caccia francesi, i quali riuscirono a causare alcune perdite italiane. Il primo pilota del Fiat BR.20 della 3 ^ squadriglia fu ucciso da una raffica e il secondo pilota, il M.llo Raffaello Bruni, riuscì ad atterrare indenne a Cascina Vaga. Un secondo bombardiere fu colpito gravemente ai motori e cercò di ammarare a largo di Imperia: tre membri dell’equipaggio si inabissarono, mentre altri due furono tratti in salvo da alcuni pescatori. Un terzo bombardiere, sul quale di trovava il Serg. Maggiore Giuseppe Goracci, venne colpito gravemente. Secondo la testimonianza del 1° Aviere armiere Natale Vanuzzo (unico superstite dell’equipaggio dopo essersi paracadutato), Goracci riuscì a compiere diverse disperate manovre tentando di salvare il velivolo e l’equipaggio.
Sopravvissuto al lancio dall’aereo in picchiata, venne massacrato a morte da una folla inferocita di francesi appena giunti sul luogo dello schianto: ormai privo di forze, prima di perire riuscì ad urlare «Viva l’Italia!». Grazie al rapporto di Vanuzzo, il M.llo Goracci fu insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare “alla memoria”. Quella di Goracci non fu l’unica Medaglia d’Oro assegnata in quella missione. A bordo del FIAT BR.20 inabissatosi a largo Imperia si trovava il Tenente Simone Catalano, al quale venne riconosciuta la medesima decorazione “alla memoria” per le sue eroiche manovre effettuate nel tentativo di portare in salvo il suo equipaggio. Goracci e Catalano furono le prime Medaglie d’Oro assegnate nel corso della Seconda guerra mondiale, alle quali si aggiunse quella d’Argento riconosciuta al M.llo Raffaello Bruni, per aver riportato alla base il suo BR20, nonostante i gravi danni subiti. Dalla missione del 13 giugno, otto uomini non fecero più ritorno a Cascina Vaga. Secondo un’altra testimonianza, contenuta in un diario dell’epoca, i feriti vennero successivamente curati dal Dott. Masnata di Stradella. Dopo undici missioni svoltesi in altrettanti giorni, per un totale di circa duecentodieci ore di volo, il 24 giugno l’Italia firmò l’armistizio con la Francia. Pochi giorni dopo il 43° Gruppo lasciò Cascina Vaga diretto verso il Belgio, dove partecipò alla Battaglia d’Inghilterra in supporto agli alleati nazisti. A seguito di ciò, il campo di volo fu abbandonato per parecchio tempo,
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I lavori di costruzione dell’aeroporto iniziarono a metà del 1938. Gli alleati lo bombardarono nel ‘44 «Tra il 14 e il 18 settembre grosse detonazioni si udirono per la distruzione del Campo di Aviazione, talmente forti da essere udite fino a Stradella, dove le vetrate di alcune abitazioni caddero infrante» utilizzato solo temporaneamente: tra il 27 e il 29 giugno del 1942 ospitò un centinaio di caccia tedeschi i quali, nel giro di poche ore, ripartirono verso destinazione ignota. Secondo la ricostruzione di Pier Vittorio Chierico, tra il settembre 1943 e luglio 1944 Cascina Vaga ospitò reparti tedeschi al comando dell’aeroporto (il Fliegerhorst-Kommandantur E 17\XVIII e il Fliegerhorst-Kommandantur E (v) 217/VII). Dal gennaio 1944 fu inoltre occupato dalla 1^ squadriglia caccia del 77° Gruppo tedesco, prima di essere trasferita a Udine. Nel 1943 il campo volo venne rinforzato con nuove strutture a ferro di cavallo, costruite con le pietre del fiume Trebbia, destinate ad ospitare finti aerei di legno utilizzati per depistare il nemico, e fu dotato di diversi bunker armati, edificati lungo il perimetro est. Per la fabbricazione delle opere e il trasporto dei materiali di costruzione, venne realizzata un’apposita ferrovia Decauville e vennero impiegati un centinaio di operai della vicina Todt di Arena Po. Il campo di Cascina Vaga tornò totalmente operativo agli inizi del 1944 ospitando il 2° Gruppo CT dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana a partire dall’aprile dello stesso anno. Il 12 maggio l’aeroporto
venne bombardato dagli alleati e la ANR subì la perdita di tre FIAT G.55. La prima missione di combattimento del 2° Gruppo avvenne il 25 maggio, giorno in cui sedici Fiat G.55 si alzarono in volo dall’aeroporto pavese e da quello di Bresso, per contrastare una cospicua formazione di bombardieri americani (secondo alcune fonti circa duecentocinquanta), scortati da una quindicina di caccia P-38 nel cielo di Piacenza. A questa prima missione, ne susseguirono diverse altre nel corso dell’estate del ’44. Il 24 giugno si verificò il sabotaggio ai danni del BF.109 del Sottotenente Gino Gamberini, il quale morì avvolto dalle fiamme durante il decollo: questo episodio fu uno dei dodici casi di sabotaggio aereo avvenuti per mano partigiana nel biennio 1944-1945. Dopo il trasferimento degli ultimi otto Fiat G.55 del nucleo comando, avvenuto nell’estate del 1944, il campo volo si avviò verso la totale dismissione. Venne utilizzato ancora poche volte, dall’aviazione tedesca, in caso di atterraggi di emergenza o di trasferimento: per questo motivo, credendolo ancora operativo, gli alleati lo bombardarono nei mesi di settembre e ottobre. Secondo altre testimonianze verificate, «tra il 14 e il 18 set-
Orindo Meraldi accanto ai resti del bunker di Bosnasco, in località Cardazzino
tembre grosse detonazioni si udirono per la distruzione del Campo di Aviazione del Cardazzo, talmente forti da essere udite fino a Stradella, dove le vetrate di alcune abitazioni caddero infrante». «Della pista dell’aeroporto militare non rimane più alcuna traccia» - spiega Meraldi - «ma sono ancora ben riconoscibili i resti di un bunker, poco distante la zona industriale di via Cardazzino, nel comune di Bosnasco». La costruzione è ben visibile, situata nelle prossimità di un campo coltivato e venne fatta esplodere dai tedeschi, poco prima di abbandonarlo e ritirarsi verso il piacentino. Sebbene la stabilità sia stata compromessa dall’esplosione, la struttura è ancora accessibile e visitabile in una minima parte. Secondo altre fonti, l’idea di far esplodere il campo di volo non fu una trovata dell’ultimo minuto, ma fu accuratamente studiata durante l’ampliamento del 1943: «Mio padre aveva lavorato alla costruzione dell’aeroporto, e mi ha sempre raccon-
tato che durante i lavori venivano piazzate cariche e inneschi in modo da non poterlo lasciare in mano nemica in caso occupazione» ricorda Carlo Brandolini, presidente dell’Unirr Stradella Oltrepò. Date le poche documentazioni cartacee rimaste, non possiamo sapere di preciso chi decise la sorte del campo di volo e come avvenne la sua dismissione, ma una sola cosa è certa: dove una volta atterravano e decollavano Messerschmitt e biplani Fiat, oggi crescono meliga, grano e frumento. Certamente vi domanderete: «Cosa ne è stato di quelle tre ragazzine?». Lidia e Dina per alcuni anni hanno confezionato i migliori abiti indossati dalle signore di Milano durante la “Prima della Scala”. Dina è da poco mancata, ma Lidia e la sua amica Piera oggi sono due serene ultranovantenni, con ancora tante storie da raccontare. di Manuele Riccardi
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SPETTACOLO
MAGGIO 2021
«Il mio è un mestiere bellissimo» è apparso recentemente in un episodio della serie televisiva “Rocco Schiavone” con Marco Giallini ma l’attore vogherese Lorenzo Pedrotti ha già interpretato molti ruoli con diversi registi cinematografici. L’abbiamo raggiunto telefonicamente a Roma, dove vive stabilmente ormai da diversi anni per conoscerlo un po’ meglio e farci raccontare qualcosa di più sulla sua carriera. Lorenzo Pedrotti, lei è nato e cresciuto a Voghera, cittadina di provincia che spera, in un futuro prossimo, di riavere il suo “Teatro Sociale” al massimo dello splendore. Come e quando è nata in lei la passione per la recitazione? «Mi è sempre piaciuto giocare da bambino e “recitare” alla fine è un po’ la stessa cosa. Quindi non saprei dire se c’è stato un quando. Sicuramente mia nonna, la pittrice Lusardi, mi ha trasmesso qualcosa di quella sua vena artistica infinita. E se fosse anche solo un briciolo, sarei fortunato. Spesso un mio amico mi dice: “siamo nati così, non è colpa nostra”, quindi forse questa passione c’è sempre stata. Sul come è nata invece direi che mentre frequentavo le medie, partecipavo agli spettacoli teatrali della scuola e c’era un ragazzo un po’ più grande di me, era molto bravo e credo mi abbia ispirato indirettamente. Da lì in poi la mia curiosità non è mai finita». Quale percorso di studio ha seguito per diventare attore professionista? «Ho frequentato il Teatro Arsenale a Milano per due anni, poco dopo aver finito il liceo scientifico a Voghera, ma per il resto è stato tutto un imparare sul campo, ho fatto diversi cortometraggi e film indipendenti, ho studiato a modo mio, ho osservato chi il mestiere lo fa da anni. Ho ancora molto da imparare». L’essere nato in una città di provincia ha penalizzato in qualche modo il suo percorso? «No, non sono stato penalizzato, sapevo
già cosa volevo fare. Quello che spiace è che avevo a disposizione un teatro bellissimo a due passi da casa, che ho potuto vedere solo in fotografia, perché quando sono nato era già stato chiuso». Ci può parlare dei suoi esordi come attore? Con quali registi ha lavorato e quali sono i lavori che meglio hanno valorizzato il suo ruolo? «Mentre frequentavo il teatro a Milano andavo spesso a Torino alla “film commission “ dove penso di aver fatto i primi provini. In quel periodo ho ottenuto delle piccole parti in alcuni film, tra i quali “Giallo” di Dario Argento dove ho recitato in inglese la mia scena con Emmanuelle Seigner e Adrien Brody. Poi mi sono trasferito a Roma, qui ho preso parte a diversi progetti indipendenti come il film “Krokodyle” di Stefano Bessoni e poco dopo, nel 2011 ho fatto diversi provini per avere la parte da protagonista nel film “Paura” dei Manetti Bros. Alla fine mi hanno preso ed è stata una bellissima esperienza e siamo rimasti amici. Prima che la pandemia scoppiasse mi hanno chiesto se mi andava di fare una piccola parte nel loro prossimo film “Diabolik” con Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastandrea. E chi rifiuta? Ci sono i film “E fu sera e fu mattina” e “La terra buona” entrambi di Emanuele Caruso, due bellissime esperienze, che mi hanno fatto riscoprire delle zone uniche in Piemonte. Un regista che sicuramente mi ha colpito è Ridley Scott, anche qui breve ma intensa esperienza sul set di “Tutti i soldi del mondo”, dove recito in inglese con Mark Wahlberg e ogni volta che finivo la scena Ridley si avvicinava e mi chiedeva se ero contento o se avessi voluto farne un’altra. Devo dire che essun regista mi ha mai fatto sentire a mio agio come ha fatto lui, un vero maestro. Ma se devo essere sincero
L’attore vogherese Lorenzo Pedrotti non ho ancora fatto un ruolo del quale sia totalmente soddisfatto». Fra cinema, teatro e televisione, qual è il mezzo espressivo che più predilige e perché? «Cinema, da sempre. C’è qualcosa di unico quando mischi immagini e musica, almeno secondo me». Spesso e volentieri si leggono interviste di giovani attori che dichiarano di essere approdati al cinema per caso, facendo passare il messaggio che la recitazione si possa basare solo su doti personali e che trovare ruoli adeguati sia molto semplice, cosa ne pensa in merito e quali difficoltà deve affrontare un attore per lavorare a dei buoni livelli e con continuità?
«Quando guardi un musicista suonare uno strumento, ti basta poco per capire se stona, se non tiene il tempo. L’allenamento è tutto, in ogni settore. Se poi hai qualcosa in più già di tuo ancora meglio, ma non basterebbe solo quello. Le doti personali vanno allenate». Consiglierebbe ad un giovane di intraprendere la sua carriera professionale? Insieme alla passione per la recitazione di quali altri fattori un ragazzo dovrebbe tenere conto per riuscire al meglio ? «Sì, lo consiglierei. É un mestiere bellissimo, utile non solo al cinema o in teatro. Bisogna essere però sinceri con sé stessi e capire se l’attore lo si vuol fare per inseguire un “sogno americano” o se si vuole fare il mestiere dell’attore. Sono due cose totalmente diverse. Se insegui il successo non è detto che lo raggiungi e soprattutto non è detto che ti diverti, non stai più facendo l’attore per il piacere di farlo, per il piacere del “gioco”. Io faccio tante altre cose e diversi lavori, fare l’attore è una delle tante cose che faccio». L’abbiamo vista recentemente nella serie televisiva di successo “Rocco Schiavone”, quali sono i suoi progetti futuri? «Dovrei essere in “Body Odissey” di Grazia Tricarico, pandemia permettendo, gireremo in Svizzera in inglese. La parte è piccola, ma sono emozionato dal fatto che è la prima regista donna con cui lavorerò. Finalmente! La cosa a cui tengo di più a livello creativo al momento è la band che ho a Londra i “Gain Altitude”, primo album in arrivo entro fine anno». Ha un sogno nel cassetto? C’è un regista con il quale le piacerebbe lavorare? «Fin troppi, non ci stanno più in un cassetto solo! No, per me la cosa più bella è vivere la scena nel momento delle riprese, se il progetto mi piace, ci può essere chiunque alla regia». di Gabriella Draghi
MUSICA
MAGGIO 2021
«Quando hai un sogno vivi in funzione di quello» Vogherese, Classe 1985, fin da bambino si appassiona alla musica, al canto, ma soprattutto alla scrittura di brani propri, inediti. Una passione, quella creativa, con la quale convive ormai da anni. Che lo ha obbligato ha far molta strada. E di strada ne sta ancora facendo. Come ben descrive anche in un suo romanzo, edito nel 2015: “Strade”. Abbiamo incontrato Gianluca Giagnorio, in arte MaLaVoglia. Mi racconta qualcosa dei suoi inizi? «Mi crede se le dico che non mi ricordo quando ho iniziato a cantare? Avevo sette anni quando sono salito sul palco per la prima volta. Questo lo ricordo bene. Mio zio Antonio organizzava sempre concerti estivi a Sannicandro Garganico, il paese d’origine dei miei genitori, in Puglia. Iniziai grazie a lui, praticamente. Poi grazie a mio fratello Marco imparai a suonare la chitarra e mi ritrovai a cantare ciò che scrivevo. Iniziai relativamente tardi a trovare interessante quello che scrivevo in musica, avevo ventun anni. Anche se a otto già scrivevo pensieri e poesie. Leggevo Kavafis e Machado grazie alla mia maestra delle elementari. A nove anni mi facevo le interviste da solo, in inglese, e dichiaravo al mondo i miei problemi con la droga (ride). Erano gli anni dei Guns, di Kurt e i Nirvana. Insomma, ero una rockstar!». Mi ha detto che ha iniziato relativamente tardi a cantare le sue canzoni. Presumo quindi abbia dovuto fare altro prima di raccogliere qualche frutto dal suo percorso artistico. «Il mio primo passo importante l’ho fatto a venticinque anni, ad Amici 11, il programma televisivo. Arrivai fino alla selezione della classe e rimasi in gara per le sfide, ma non ebbi accesso al “serale”. Ringrazierò sempre quell’esperienza perché mi ha dato tanto. Mi ha fatto capire che io volevo veramente provarci con quello che avevo da dire. E da allora mi sono messo in testa di riuscirci. Poi, ovvio, sappiamo cosa c’è di mezzo tra il dire e il fare. E per mantenere vivo il mio sogno mi sono dovuto per lungo tempo auto-finanziare, facendo qualsiasi tipo di lavoro. Chiudendo anche la parentesi di Scienze Politiche all’università di Pavia. Passai dallo spennare i polli all’Esselunga al barista, l’assicuratore, il modello per qualche pubblicità. Poi iniziai ad avvicinarmi al mondo moda e ci rimasi per un po’, come Sales Assistant (anche se poi ero un commesso ma fa più figo in inglese) fino ad arrivare in Montenapoleone a Milano, nella Boutique di un grande brand. Non mi è mai interessato il lavoro che facevo. Volevo solo sfruttarlo per avere la forza economica di finanziarmi. Quando hai un sogno, vivi in funzione di quello e fai di tutto per non perderlo. Ne sei innamorato, è totalizzante. Ma è bellissimo perché è il motore della tua vita.
Gianluca Giagnorio in arte MaLaVoglia Ho così potuto fare tante esperienze musicali; alcune belle e ricche di soddisfazioni, altre meno. Poi sono arrivate tante cose inattese. L’apertura di concerti ad artisti come Tozzi, i Nomadi, Raf, Vecchioni, Alex Britti, Albano Carrisi. La vittoria dell’accademia di Sanremo nel 2018 con il brano “Camoscio”, e la finale al Premio Mia Martini a Bagnara Calabra. Fino ad arrivare all’ultima inattesa esperienza dell’estate scorsa alle Isole Tremiti, alla Furmicula, lo storico locale dove Lucio Dalla era solito andare a suonare. Ho fatto sessantadue concerti su quello stesso palco dove Lucio si esibiva ogni tanto, in compagnia di qualche suo amico. Tipo Pino Daniele, De Gregori, Venditti, Anna Oxa, Ron. Sappiamo tutti cosa fossero le Isole Tremiti per lui, e poterne respirare gli stessi luoghi, conoscere le persone a lui più vicine, entrare in contatto e stringere un bellissimo rapporto con la Fondazione Dalla... insomma, è stata una cosa meravigliosa». Come scrive? Da dove prende spunto per scrivere le sue canzoni? «Devo dire che è strano il mio rapporto con la scrittura. Vado a periodi dove scrivo tantissimo, e altri dove non prendo in mano nemmeno la chitarra. Li chiamo periodi di accumulo, dove sono più concentrato a vivere, vedere, pensare. Raccolgo le idee, registro bozze di melodie e scrivo frasi o pensieri sul mio telefono o sul mio quadernino che mi porto sempre dietro. Questo è uno di quei periodi. Vengo da un autunno dove avevo tanto da raccontare, dopo appunto l’esperienza alle Tremiti, e il lockdown. Penso di essere cambiato molto in questo anno difficile. Mi è servito. È stato un anno dove tutti abbiamo perso qualcosa, ma sono convinto che sia stata un’ottima occasione per guardarci dentro, migliorarci e diventare più forti.
Proprio in questo anno ho avuto molte idee. E a volte mi vengono fuori da nulla. Da una parola, una frase. Le chiamo chiavi, mi aprono un mondo. Come quando su una scatola di uova ho letto che provenivano da allevamenti di galline libere. Allevate a terra. Ho scritto “ALLEVATI A TERRA”. Come quando, dopo aver visto l’ennesimo successo di Hamilton, mi sono chiesto che tipo di rapporto potesse avere con la sua macchina. Penso debbano essere una cosa sola, una bellissima storia d’amore da raccontare. L’ho immaginata, l’ho scritta, l’ho fatta ascoltare al mio produttore Davide Maggioni ed è piaciuta. Il 14 maggio uscirà su tutte le piattaforme digitali online. Ho cercato di costruire un mio team di persone, che stimo e che mi stimano. Accanto a me ci sono quelle persone che fanno parte del mio percorso e sono molto importanti. Lei è tra queste: mi ha sempre seguito, dai miei primi passi, e questa è una cosa che ho apprezzato tanto. Devo dire grazie anche a Francesco Tripicchio, il mio bassista, che mi sostiene, consiglia e, ovviamente, suona il basso in tutte le mie canzoni. La mente del video di “Hamilton” è Cesare Bobbiesi, che ringrazio infinitamente per la sua pazienza e bravura. La copertina del singolo l’ha elaborata un mio carissimo amico e l’attrice protagonista è una mia altra grande, bellissima amica: Flavia Locascio (nonché grande amica anche del più noto Lodo Guenzi della band “Lo Stato Sociale”). Nel mio team ci metto dentro anche la mia famiglia, che nonostante tutte le difficoltà, mi ha sempre sostenuto». Com’è il suo rapporto con la discografia italiana? «Urca! Entriamo in un ginepraio! Penso che il periodo storico sia particolare, di transizione, ma già da prima della pandemia. Quindi tutto deve essere preso con le pinze e rapportato in base a quelli che sono i tempi. Se in Italia la trap, l’indie e il rap stanno monopolizzando le “hit parade”, un motivo ci sarà. Innanzitutto, la discografia, in generale è cambiata. Partendo dal presupposto che la figura del vecchio discografico è quasi estinta, oggi gran parte della discografia (parlo soprattutto di mainstream) si affida più ai numeri che un artista già ha su Spotify, Instagram, Tik Tok che alla qualità musicale. A mio modestissimo parere, è limitante perché taglia fuori tutta quella fetta di musica che non viene dai Social. Motivo per cui la musica live, per gli artisti che propongono i loro inediti, è in grave difficoltà già da molto prima del Covid. Non so come si possano cambiare le cose, ma devono essere cambiate. Sono tanti i fattori che hanno scatenato questa situazione particolare. Dal fatto che oggi chiunque possa creare musica e caricarla sulle varie piattaforme digitali, a tanti produttori che si limitano a fare
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“marchette” pur di fare uscire i prodotti e poi si lamentano che il mercato musicale è saturo. La colpa è anche di noi artisti che a volte pensiamo di aver scritto capolavori incredibili della musica italiana e non collaboriamo tra di noi perché pensiamo di essere migliore dell’altro. Non funziona così. Io ad esempio sono stato coinvolto in una bellissima iniziativa di artisti pavesi, ideata da Beatrice Campisi. È stata creata una playlist Spotify (Radio Carovan) di artisti della zona dove ci supportiamo a vicenda e devo dire che sta nascendo una bella interazione tra tutti. è una bella cosa, bisogna collaborare, condividere, fare gruppo e crearci quegli spazi che non abbiamo. Voglio dire: tanto “Caruso”, “Il mio canto libero”, “Sally”, sono già state scritte. Dovremmo essere tutti un po’ meno convinti di aver cambiato le sorti del mondo con un nostro brano. “Take it easy” come direbbero gli Eagles». Cosa si aspetta da “Hamilton”? «Non mi aspetto niente, mi crede? Non voglio crearmi aspettative inutili su un brano che, personalmente, rappresenta molto di più di un’uscita discografica. È il primo dei miei nuovi brani che ho scritto durante questo difficilissimo anno. Per me rappresenta la rinascita dopo un periodo che ha avuto un effetto Tsunami sulla mia vita. Ho vissuto un incubo e ora voglio solo ripartire. Veloce, come Hamilton. Il brano mi piace molto, anche a livello di sonorità. È stato prodotto e arrangiato da Davide Gobello (Elephant Studio) e il mio produttore Davide Maggioni (Matilde Dischi). Nel mastering finale c’è il tocco,e si sente, di Luca Vittori. Penso che Hamilton sia il brano giusto con il quale ripartire. Tutto quello che succederà, non ci è dato saperlo. Anzi, lo scopriremo solo vivendo…». Come descriverebbe questo nuovo lavoro? «La lascio con la presentazione del brano ai Media: “L’amore più bello è quello che arriva quando non te lo aspetti più, che ti spiazza e di colpo mette a posto tutte le tessere sballate di quel puzzle che non sei mai riuscito a completare. Si diventa una cosa sola senza rendersene conto, si incollano le anime, la pelle, la carne, si diventa come il Louvre e la Gioconda, il Napoli e Maradona, Netflix e le serie Tv… come Hamilton e la sua prima McLaren. E ti senti forte, vivo. Perché in fondo, l’amore, ci accende e ci fa andare veloci. Hamilton è un inno all’amore, è per tutti quei cuori ricuciti che aspettano soltanto una nuova scintilla per ritornare a battere più forte di prima. È per tutti quelli che hanno raccolto i pezzi di due vite da buttare e ora, insieme, vanno veloce. Velocissimo”». di Lele Baiardi
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storie di rally: Mario perduca racconta
MAGGIO 2021
Il ritratto realistico e scanzonato del pilota-personaggio Massimo Brega “Rem tene, verba sequentur”, diceva Marco Porcio Catone tanto tempo fa. Comincia a essere padrone della materia, le parole verranno da sole. Di sicuro l’argomento, ossia i piloti con cui ho corso, lo conosco molto bene, al contrario di riuscire a tradurlo in parole scritte in forma accettabile non ne sono molto convinto meno ancora di dar vita a qualcosa di gradevole che non annoi chi legge inducendolo a voltar pagina. Fortunatamente il tutto dovrebbe occupare le ultime facciate de Il Periodico cosicché il lettore non avrà la possibilità di passare oltre. Non è mia intenzione scrivere monografie dei personaggi in questione ma solo raccontare episodi divertenti e/o interessanti che li hanno visti protagonisti nel bene e nel male e nel faceto. Non sapendo dove iniziare ho pensato di andare a ritroso nel tempo per evitare un’impostazione troppo narrativa e anche perché i ricordi sono più freschi. Alcuni giorni orsono ho incontrato un amico che non vedevo tempo, appassionato e profondo conoscitore di rally e di rallisti e, parlando del più e del meno, gli ho fatto cenno di questa collaborazione col Periodico. Costui di professione fa lo psicologo con specializzazione in patologie dell’attività sportiva. Botta e risposta “parlerai anche di Massimo?” “e certo, ci ho corso più di dieci anni e con lui ho concluso la carriera”, “non volermene, ma sinceramente nutro seri dubbi che tu sia in grado di offrire un quadro completo del personaggio, non hai le basi scientifiche, puoi limitarti a raccontare episodi, aneddoti ma per scavare in profondità ti servirebbe il supporto continuo di un luminare quale mi ritengo”. “Concordo ma, senza offesa, penso sarebbe troppo anche per te, vedrò di limitarmi al racconto evitando di addentrami in oscuri meandri, se poi decidessi di andare oltre chiederò aiuto a Dylan Dog”. Massimo, in arte rallistica Brega, classe 1961. Subito una grave pecca: comincia a correre verso la trentina, età in cui un pilota dovrebbe essere già nel pieno dell’attività con l’irruenza giovanile supportata da una buona dose di esperienza. Seconda ancor più grave pecca: non dispone di una maxi valigia. Adesso i pro: perfezionista, appassionato vero, competente e competitivo e in primis veloce, anzi velocissimo. Più semplicemente chi ha letto il mio personale profilo del pilota di rally, basta che faccia copia e incolla senza modificare una virgola. Stile di guida spettacolare quando è il caso, superutilitaristico quando serve. Questo aspetto mi dà lo spunto per parlare della prima gara disputata insieme, Valle Umbra 2000. Per dieci anni era stato il rivale di riferimento nelle varie edizioni dell’Oltrepò, quello di cui si chiede per primo il tempo. Edizione 1996 ultimo pas-
saggio sulla ps Oramala. Notte di pioggia, è ancora buio ma sta per albeggiare e le nuvole basse sono un vero problema. Con Buscone partiamo col n.7 e prendendoci tanti rischi stacchiamo il miglior tempo rifilando 15 sec. Ci fanno i complimenti ma Giorgio serafico risponde a malincuore: restate qui e vedrete cosa fa QUELLO Là, la gara finisce qui. E infatti ci suona un bel minuto tondo. Ma ora i casi della vita, o meglio le crisi di coppia, ci mettono in macchina insieme. Era successo che Paolo Zanini, suo storico navigatore, venutagli a noia la monogamia piatta e senza acuti, aveva pensato di cercare nuovi stimoli, nel caso specifico provare a vincere il rally Valle Umbra in coppia con Matteo Musti su Clio. Non tollerando cotanta onta, il Massimo furioso e vendicativo mi propone un’uscita chiodo scaccia chiodo, neanche da dire su Clio. Da grande esperto di maneggi riesce a farci assegnare un numero di partenza più alto del fedifrago, in modo da poter controllare i suoi tempi. Vinte di stretto margine le prime due prove ci aspetta la lunga di Assisi che farà classifica, tortuosa all’inizio poi veloce in discesa. Le premesse sono poco incoraggianti. Prima del C.O. mi consiglia “se abbiamo qualche minuto telefona a Monica e dille che le hai voluto tanto bene”. Direttamente dal manuale “gestione delle criticità” al capitolo “come tranquillizzare i collaboratori”. Poi però guida ancor meglio di quanto mi aspettassi, in discesa è superlativo. Nei pochi tornanti finali è strano, veloce senza fronzoli, più che di essere in gara da l’impressione di avere una gran fretta di arrivare a vedere il tempo dei rivali. E infatti prova vinta con tanto margine e vittoria finale prenotata. Alla partenza dell’ultima corta ps abbiamo 17” di vantaggio, guida come si deve, evitando ogni forma di rischio, ma in una stretta inversione la Clio non gira. In rapida sequenza: disobbedisce al secondo comandamento, riattiva momentaneamente l’emisfero sinistro, fa un respiro profondo, retro e subito mentre inserisce delicatamente la prima licenzia in tronco il suddetto emisfero e giù per la discesa è un delirio assoluto. Solo due chilometri, per fortuna, di lucidissima follia. Esperienza da non ripetere ma entusiasmante. Naturalmente corsa vinta. Nel trasferimento verso il palco d’arrivo, tanto per darmi un contegno gli dico “forse così era un po’ troppo” “sì” e caso archiviato. Ma tutto è bene quel che finisce bene pur se altrettanto bene non era cominciato. Prima ricognizione della prima prova, comincia a dettare e subito ci intendiamo come possono farlo un abitante di Rovaniemi e un aborigeno australiano, io da sempre stringato e lui amante della sintesi come Boris Pasternak
Piccolo esempio: «Suggerisco “al cantiere sinistra 3”, lui replica “nooooooo, non capirei, scrivi alla ce-men-ti-fe-ra sinistra 3» Mario Perduca
quando descrive l’arrivo della primavera ne “il dottor Zivago”. Piccolo esempio, arriviamo a una curva al cui esterno si trova l’ingresso di una cava, suggerisco “al cantiere sinistra 3”, replica “nooooooo, non capirei, scrivi alla ce-men-ti-fe-ra sinistra 3”. Bravo, mentre la scandirò come vuoi saremo a fine prova. E poi quando tocca a me leggere si perfeziona il disastro. Qui sei in anticipo, qui hai un tono troppo basso, sei in ritardo cosa aspetti? Abbassa la voce. Trascorsa la giornata in questa rilassante atmosfera, mentre facciamo rientro alla base Massimo chiosa “adesso qualcosa va meglio, ma senza una svolta drastica per ben che vada arriviamo terzi, impensabile competere con Mustino nè tanto meno con Ogliari (dato come certo vincitore su Subaru Impreza, vettura di un altro pianeta), mentre se riesci ad assecondarmi ce la giochiamo per l’assoluto”. E certo, penso, vorrebbe star davanti a una Subaru, ma dove sono capitato, chi me l’ha fatto fare? Dopo cena mi ritiro velocemente in camera, singola, col morale in cantina, chiamo Monica e le illustro la situazione, prodigo di elogi verso il novello driver del tenore “non avrei mai pensato di salire in macchina con Norman Bates”. Lei tenta inutilmente di rincuorarmi “lo hai sempre visto come un pilota bravo, sicuro e veloce, perché non provi a essere più elastico, sei tu che devi adattarti” “sì va bene ciao, ci sentiamo domani”. Praticamente nello stesso giorno ho discusso con i due interlocutori con cui non hai chances, la moglie e il pilota. Però ormai siamo qui, tentare non costa niente, ma domani sarebbe tardi per cui in modo molto ridicolo mi siedo contro la testata del letto con in mano il quaderno e provo a leggere come richiesto sperando che nessuno mi senta. Neanche arrivare in cima alle Mesules è così difficile, però un passo dopo l’altro si può. Verso le tre con la gola secca mi sembra di aver fatto progressi, forse ci siamo. E infatti la mattina dopo alla prima ricognizione la mancanza di improperi e soprattutto il suo sguardo
incredulo mi dicono la notte in bianco è servita. Salto temporale fino al 2004. Con fatica riusciamo a mettere insieme il budget per partecipare al Monza rally show con una fantastica Peugeot 306 Maxi by Racing Lyons, finalmente una vettura dell’amico Moreno. Il precedente è impegnativo, nel 2000 con una macchina analoga ha fatto faville vincendo addirittura una Grand Prix mettendosi dietro tutte le WRC. Ora questo modello comincia ad accusare il peso degli anni e dei regolamenti e inoltre abbiamo come compagno di squadra nientemeno che Piero Longhi. Ma in questo contesto ciò non è rilevante. Che conta è il fatto che si effettuano le ricognizioni con macchina da gara, tuta e casco. E qui anche l’ amico psicologo entrerebbe in crisi. Due giri per prova, al primo si scrive, al secondo si legge. Le prove sono le stesse dell’anno prima quando abbiamo corso con una Peugeot S1600, ad eccezione di un breve tratto che però abbiamo ricostruito a tavolino. Non male sfruttare entrambi i giri. La nostra andatura è subito più veloce rispetto a coloro che stanno prendendo le note, poi anziché diminuire, il divario aumenta, ma non ci do particolare importanza. La seconda prova comprende quel tratto nuovo, si percorre la Parabolica in senso contrario, poi nel rettilineo che porta alla variante Ascari ci sarà una chicane artificiale, ma non so a che altezza è piazzata. Massimo sta andando velocissimo, immagino voglia capire bene questa lunga curva che alla fine chiude, poi mi darà modo di dettagliare la nota successiva. Invece no, caccia dentro tutte le marce che ci stanno, sotto la chicane ne scala qualcuna, la imbocca con la solita cattiveria e appena uscito ancora giù. Lo contesto subito “oh, rallenta dimmi cosa scrivere” risposta da incazzatissimo “leggiiiiii”, gli do due colpi sul braccio “vuoi mollare o no?” “dimmi cosa c’è adessoooo” poi di colpo alza il piede “ahhh, ma non siamo in gara”. Come si usa dire? Non posso crederci.
storie di rally: Mario perduca racconta
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«Quella volta che arrivò la Bea, al secolo Beatrice Ghezzi, concessionaria Peugeot a Stradella, carissimissima amica di entrambi e nostro munifico sponsor...»
Massimo Brega
Per qualche curva è tranquillo, poi l’istinto riprende il sopravvento e in una di quelle strette curve ricavate davanti ai box infila in frenata due malcapitate Mitsubishi N. Al successivo briefing il direttore di gara esordisce così “ho notato che non tutti i piloti interpretano in modo corretto lo spirito delle ricognizioni”. Adesso qualcosa di casalingo. Oltrepò 2006, manca l’ultimo passaggio sulle tre prove e abbiamo un rassicurante vantaggio sul secondo, la macchina è perfetta, ci monteranno gomme nuove, abbiamo il vento in poppa. A Salice stiamo aspettando il nostro minuto di uscita dal riordino col vetro abbassato per il caldo, in religioso silenzio perché ho intuito che lui sta percorrendo mentalmente la prima prova che andremo a fare dopo
il parco, Varzi-Cignolo. In effetti è meglio rinfrescarla, è una ps che non conosce bene. Dal tempo trascorso, sguardo fisso nel vuoto, dovrebbe aver passato l’abitato di Castellaro e imboccato la discesa. Fra due minuti rischio ad aprire bocca. Va bene così, ormai dipende solo da noi. Non dobbiamo fare sbagli, dobbiamo evitare i tagli che potrebbero danneggiare una delle nostre meravigliose Pirelli e sarà fatta. Ma ecco il fattore di disturbo. Una voce amica, la Bea “ciao ragazzi, siete bravissimi”. Bea al secolo Beatrice Ghezzi, concessionaria Peugeot a Stradella, carissimissima amica di entrambi e nostro munifico sponsor. Penso tutti convengano che l’elemento cardine dei rally sia lo sponsor. Lo sponsor è per antonomasia una bella persona, simpatica come nessuno, divertente, piacevole e praticamente ha sempre ragione. Capita che si presenti alle verifiche con prole al seguito e ti chieda se può far sedere il piccolo sulla macchina.
Ma certo, se vuole gli diamo anche il casco, chissà che non diventi un pilota. E dato che non puoi dar di spalle a chi ti ha permesso di essere lì, mentre lo intrattieni con l’altro occhio che ruota tipo camaleonte controlli quello che il piccolo sta facendo, dove allunga le manine, cosa tocca, ma non puoi esprimerti come vorresti e allora inventi che devono finire di regolare il sedile. Orbene Bea, amica e sponsor, notando l’espressione intensa di Massimo pensa di essere di supporto psicologico “ormai è fatta, puoi anche sorridere”. Subito due trasfigurazioni. Massimo assume le sembianze del drago davanti a San Giorgio e fiammeggia “qui non c’è proprio niente da ridere” e Bea, cresciuta alla scuola di Bernacca, pur incredula per questa aggressione verbale evita di ribattere ed emula Michael Jackson allontanandosi con nonchalance dalla vettura. Ci sarebbero molti altri episodi da citare, ma non volendo contribuire alla defore-
Massimo Brega e Mario Perduca al Beta Rally Oltrepò del 2006
stazione mi fermo qui convinto di aver dipinto un ritratto realistico e scanzonato del pilota-personaggio Massimo Brega. Alla prossima. di Mario Perduca
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motori
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Arriva da Milano il rilancio del Rally 4 Regioni Per gli appassionati pavesi e non solo per loro, il Raly 4 Regioni è sacro. La storia, le cronache, le vicende, le avventure e anche le leggende che negli anni hanno avvolto di una certa magia questo rally, i cui splendori li ha vissuti dal 1971 al 1986, si raccontano ancora oggi tramandate da padre in figlio con immutato entusiasmo e nostalgia. Una nostalgia che spinse Rudy Dalpozzo a riproporlo nel 2011-12 e Aci Pavia dal 2015 al 2019. Poi, la pandemia, la crisi, i decreti, i protocolli, i look down e una certa saturazione nei promotori ne hanno impedito lo svolgimento nel 2020. Sembrava destinato a tornare in quel letargo che la prima volta durò un quarto di secolo, prima di essere destato. Ma la voglia di tenere in vita la manifestazione, specialmente in occasione del cinquantennale della nascita, ha fatto il miracolo ed ecco che all’orizzonte è apparsa la passione di Milano Rally Show con a capo Beniamino Lo Presti, conosciutissimo professionista milanese dai molteplici incarichi di prestigio e ottimo gentleman driver nel settore dei rally storici. Ma cos’è Milano Rally Show? è un team di professionisti, ciascuno esercente la propria attività in variegati ambiti professionali che, ispirato dalla “metafora del Calabrone“ (Secondo alcuni testi di aeronautica e talune impostazioni scientifiche, il calabrone, causa la sua superficie e struttura alare rispetto al peso, non potrebbe volare: accade che il calabrone non lo sa, e continua a volare), ha realizzato, per la prima volta nella gloriosa storia della Città di Milano, un evento motoristico, coinvolgendone i luoghi più suggestivi ed esclusivi quali: Castello Sforzesco, Piazza della
Previste 7 prove speciali per lo Storico, 6 per il Moderno e la Sport. Centro logistico della manifestazione sarà Salice Terme Scala, Piazza Duomo, Piazza Gae Aulenti, etc. etc. etc. Ora la sua saggia follia è tesa al rilancio del Rally 4 Regioni. Oggi sono molti a chiedersi, cosa abbia spinto Milano Rally Show ad affrontare una simile avventura? Lo abbiamo chiesto a Beniamino Lo Presti, amministratore unico del team. «Mi hanno spinto molti elementi – dice Lo Presti - Anzitutto la bellezza del 4 Regioni, la sua generale universale riconoscibilità. Dopo aver parlato con molti equipaggi e piloti, in modo particolare con “Lucky”, il quale mi ha spinto a considerare la possibilità di organizzare il 4 Regioni con ambizione significativa e spero anche concreta, io e i miei soci, Isabella Resta e Massimo De Stefano, abbiamo assunto la decisione di organizzare il 4 Regioni, ma con obiettivi di crescita. Anzitutto promuovere l’evento storico a livello internazionale, di cui abbiamo ottenuto il riconoscimento, perché il 4 Regioni è simbolo di storicità.
Beniamino Lo Presti, professionista milanese e gentleman driver nel settore dei rally storici Poi, abbinare alla gara internazionale delle storiche, un rally nazionale per auto moderne. A spronarci è arrivata anche la disponibilità di Regione Lombardia a considerare questa nostra iniziativa tra gli eventi sportivi del 2021 da supportare e sostenere. Non ultima, abbiamo avuto la piena disponibilità del sindaco di Salice Terme a far si che il Rally 4 Regioni ritornasse nei luoghi in cui è nato. Ma non è finita qui. Essendo io milanese d’adozione e adoro Milano con un amore vero, abbiamo altresì inserito un evento conclusivo del 4 Regioni proprio a Milano, ovvero, un Master Show in città in programma domenica 4 luglio, il quale, non solo farà ovviamente classifica a parte, ma sarà ad inviti. Questo Show è già iscritto a calendario come gara atipica sperimentale, alla quale potranno partecipare anche equipaggi che non hanno preso parte al 4 Regioni».
Chi sarà al suo fianco in questa avventura? «Tutte le modalità organizzative saranno in capo agli organizzatori di Milano Rally Show. Abbiamo inoltre la collaborazione del presidente di Aci Pavia, Marino Scabini, il quale, come legale rappresentante dell’Ente provinciale, svolgerà funzioni di alta rappresentanza e funzioni consulenziali. C’è poi Roberto “Rudy” Dalpozzo con la sua esperienza e due grandi amici: Giuseppe Fiori e Claudio Biglieri che a titolo personale, ci hanno offerto la loro collaborazione grazie all’affetto e alla stima reciproca che ci lega». Torniamo al rally. Come sarà impostata tecnicamente la gara? «Sono previste 7 prove speciali per lo Storico e 6 per il Moderno e la Sport: Rocca Susella e Pozzol Groppo da percorrere due volte ciascuna e Oramala che verrà disputata tre volte dallo Storico e due da Moderno e Sport. Come detto, centro logistico della manifestazione sarà Salice Terme dove, oltre partenza e arrivo, ci saranno verifiche, Parco Assistenza, direzione gara etc. etc. etc.». Insomma, nonostante il lungo periodo difficile che sta vivendo il Paese e con lui anche tutto lo sport, grazie a Milano Rally Show, si é pronti per fare ripartire la storia e celebrare con un evento di livello il cinquantennale della nascita di uno degli appuntamenti rallystici che hanno contribuito a scrivere pagine e pagine di vicende sportive non solo del nostro territorio.
di Piero Ventura
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Ottimo debutto di Riccardo Canzian nel GTA European Series è stato un mese di aprile certamente ricco di significato per i piloti oltrepadani, che non solo hanno saputo esprimersi ad alti livelli nazionali, ma anche internazionali. Se in campo rallystico, Matteo Musti è salito sul gradino più alto del podio del 2° Raggruppamento al Rally di Sanremo, valido per il campionato italiano ed europeo, altrettanto bravo lo è stato Riccardo Canzian al debutto in pista, in cui è salito sul terzo gradino del podio nella AM Cup valida per il campionato continentale GT4 corso dal 16 al 18 aprile all’autodromo di Monza, primo atto della GT4 European Series 2021, giunta alla sua quattordicesima edizione. La stagione GT4, molto impegnativa, si è aperta appunto sul circuito brianzolo e si concluderà sul Circuit de Barcelona-Catalunya il 10 ottobre. Le altre prove saranno nell’ordine: Circuito di Francia Paul Ricard, Le Castellet, Francia 28-30 maggio GT World Challenge Europe Endurance Cup; Circuito olandese Zandvoort, Zandvoort, Paesi Bassi 18-20 giugno GT World Challenge Europe Sprint Cup; Belgio Circuit de Spa-Francorchamps, Stavelot, Belgio 29 luglio - 1 agosto GT World Challenge Europe Endurance Cup; Germania Nürburgring, Nürburg, Germania 4-5 settembre GT World Challenge Europe Endurance Cup, per concludersi, come detto, in Spagna al Circuit de Barcelona-Catalunya, Montmeló, l’ 8-10 ottobre con il GT World Challenge Europe Endurance Cup. Per i colori oltrepadani una delle piacevoli novità proposte dalla GT4 European Series a Monza, è stato il debutto in pista di Riccardo Canzian, veloce rallysta, che ha dovuto lasciarsi alle spalle “traversi” da brivido e improvvisazioni, a favore di una guida pulita, precisa, in cui occorre studiare e limare ogni centimetro di pista. Il pilota di Broni affronta questa importante serie continentale con la Porsche 718 Cayman GT4 CS MR by Autorlando Sport n° 75 che divide con Dario Cerati, pilota di provata esperienza con 97 gare all’attivo, due titoli (campione italiano GT – 2006 e Campione italiano GT4 – 2016), 10 vittorie, 15 podi, 10 pole position e 10 volte titolare del giro veloce in gara. L’appuntamento motoristico monzese é basato su due gare di 1 ora di durata cadauna, in cui i componenti l’equipaggio si alternano alla guida con turni di mezz’ora. Gara 1 si disputa al sabato e Gara 2 alla domenica. Le prove di qualificazione in cui i componenti l’equipaggio, in questo caso quello composto da Dario Cerati e Riccardo Canzian hanno a disposizione un turno a testa di prove per fare il tempo. Il pilota n°1 dell’equipaggio (Cerati) guiderà il primo turno in gara 1 e il secondo pilota (Canzian) invece, effettuerà il primo turno di guida in gara 2, ognuno si schiererà al via con il proprio tempo fat-
Terzo gradino del podio per Dario Cerati e il bronese Riccardo Canzian to segnare in prova. Nella prima sessione, sulla Porsche di Autorlando è salito Cerati. Le cose non sono andate per il meglio, tant’è che in gara 1 si trova a partire dalla 46esima casella in griglia e 11° di AM Cup. Preso il volante, Riccardo Canzian, nella seconda sessione di prove, fa invece segnare il 28° tempo assoluto e primo di AM Cup. A questo punto cosa succede? Succede che in gara 1 partirà Cerati che a metà gara lascerà la guida a Canzian, mentre in gara 2 le cose si invertiranno. Canzian partirà dalla 28 casella e a metà gara lascerà la guida a Cerati.
Nel tardo pomeriggio di Sabato 17 la GT4 entra nel vivo. In gara 1, dapprima Cerati recupera un buon numero di posizioni, poi a metà gara, cede il volante a Canzian che completa l’opera recuperando più di una decina di posizioni, portando la Cayman 718 a chiudere al 24° posto assoluto e terzo di AM Cup. Risultato impensabile prima del via. Un podio all’esordio nell’europeo a Monza non é certamente da tutti. Sembrava invece una cavalcata vincente quella impostata da Riccardo Canzian in gara 2 del GT4 European Series.
Il pilota di Broni, al volante della Porsche Cayman 718 del team Autorlando, scatta dalla casella n° 28 sulla griglia di partenza. Nel suo turno di giuda di 30 minuti, risale sino alla diciottesima posizione assoluta e primo di AM Cup imponendo un ritmo, che visto l’evolvere della gara, avrebbe potuto portarlo a lottare comodamente nella top ten assoluta, tenendo ampiamente il comando della AM Cup. All’avvicinarsi del momento di cedere il volante al compagno di team Cerati, la situazione precipita, Canzian viene tamponato da un avversario che lo spedisce nella ghiaia. Riccardo riesce a riprendere la pista e raggiungere i box per cedere la vettura al compagno di squadra. Quando Cerati torna in pista, la Porsche n° 75, ha l’assetto danneggiato dall’inconveniente patito, e si colloca in 37esima posizione assoluta e ultima di AM Cup. Una classifica migliorata poi da Cerati fino alla 32esima assoluta e ottava di AM Cup quando transita sotto la bandiera a scacchi. Un vero peccato per Cerati e Canzian, con quast’ultimo che avrebbe potuto festeggiare il suo debutto con il gradino più alto del podio in AM Cup e un’ottima posizione nella classifica assoluta. La sua è stata comunque una prova convincente, di carattere e incisiva che meritava un finale differente. di Piero Ventura
Agli oltrepadani Fabio Azzaretti e Claudia Spagnolo la STBW6 Incerta e ricca di colpi di scena la 47° edizione del Rally Team 971 ha visto la vittoria di Jacopo Araldo e Lorena Boero in 37’14”4, dopo un finale di gara rocambolesco che ha confermato una giornata esaltante. Basti pensare che nella prima parte di gara sono stati tre i leader assoluti ad alternarsi in testa alla classifica. L’equipaggio della scuderia Meteco Corse in gara su una Skoda Fabia R5 ha conquistato il successo assoluto solo al termine dell’ultima prova quando un errore ha fatto perdere a Luca Cantamessa e Lisa Bollito al via su una Polo R5 oltre trenta secondi e la leadership che avevano conquistato dopo la prova 4 (hanno poi chiuso al 4° posto) Mentre Patrick Gagliasso e Dario Beltramo vincitori nel 2018 e 2019 erano stati invece i leader iniziali e per soli 2 decimi di secondo sono finiti al 2° posto con il tempo di 37’14”4. Terzo posto per gli svizzeri Michellod-Fel-
Azzaretti-Spagnolo su Mini Cooper S (foto di Lavagnini) lay con la Skoda Fabia in 37’21”2. In gara anche gli oltrepadani Fabio Azzaretti e Claudia Spagnolo con la Mini Cooper S, i quali hanno chiuso la gara al 41° posto assoluto con il tempo di 45’22”4. Impegnati con Bertani-Baldi (Opel Corsa) a contendersi il gradino del podio in una classe, la
STBW6, povera di concorrenti, alla fine hanno prevalso su gli unici avversari per solo 5 decimi di secondo, dopo averne pagati 10 di penalità. Degli 85 equipaggi al via, in 57 hanno portato a termine la gara. di Piero Ventura
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Sanremo tra luci ed ombre per gli oltrepadani
Una gara bella e combattuta come nelle migliori tradizioni del Rally di Sanremo, una battaglia sul filo dei secondi che si è decisa proprio sull’ultima prova cronometrata, anzi per l’esattezza dopo, quando Craig Breen uscito dall’ultima speciale al comando del rally, ha “lasciato strada” (pagando di proposito ritardo all’ultimo C.O.) al compagno di colori Andrea Crugnola, pilota di punta del team Hyundai nel Campionato Italiano Rally Sparco. Ma il giochino è durato poco, fino poco dopo le nove di sera quando, con la decisione n. 2 delle ore 21:15 la Direzione Gara del 68° Rallye Sanremo ha comunicato l’annullamento dell’ultimo Controllo Orario della gara. In base a questa decisione la vittoria nel rally viene assegnata all’equipaggio n. 42 Craig Breen – Paul Nagle su Hyundai i20 R5. Detto questo, occupiamoci ora dei piloti e co-piloti oltrepadani iniziando dal vogherese Giacomo Scattolon che ha tenuto un buon ritmo cercando di trovare un corretto set up per capire al meglio la Volkswagen Polo R5 by Erreffe R.T. Con alle note, l’esperto figlio d’arte, Giovanni Bernacchini, il pilota oltrepadano ha portato a termine una gara difficile completata a ridosso della top ten. L’undicesimo posto assoluto è frutto di una gara in costante crescita e utile ad affrontare le prossime tappe del campionato tricolore. Il piacentino Andrea Mazzocchi navigato dalla rivanazzanese Silvia Gallotti hanno invece iniziato a prendere dimestichezza con la Skoda Fabia R5 del team M33 Aci Team Italia nonostante un meteo piovoso e assai differente da quello trovato poche settimane prima al Ciocco.
CLASSIFICA FINALE
Giacomo Scattolon
Silvia Gallotti
è tutta esperienza per i campioni junior in carica che, al termine delle prove, hanno concluso in 18° posizione assoluta. «Questo Sanremo è stato difficile – hanno commentato i ragazzi di Aci Team Italia – fango e nebbia non aiutavano e abbiamo sempre fatto scelte per stare dalla parte della ragione perché abbiamo bisogno di incrementare il feeling con la vettura che il team prepara egregiamente. Abbiamo sempre migliorato e questo ci dà fiducia per il proseguo della stagione». Non ha invece confermato la brillante prestazione fornita al rally del Ciocco, Davide Nicelli, che a Sanremo si è dovuto accontentare della quarta piazza nel trofeo Renault e nella categoria R1. A bordo della Renault Clio Rally 5 del team HK, gommata Michelin, navigato dal biellese Tiziano Pieri e supportato dalla scuderia Sport e Comunicazione, il driver stradellino ha pagato una partenza poco convincente e, nonostante il tentativo di rimonta, si è dovuto accontentare di chiudere la gara ai piedi del podio. «è stato un rally difficile ed impegnativo – ha detto Nicelli – soprattutto per le condizioni meteo non partico-
Davide Nicelli
Daniele Mangiarotti
larmente favorevoli, con pioggia e nebbia. Per noi è stata una gara difficile da interpretare, specie nel primo giro di prove, in cui non siamo mai riusciti ad esprimerci al meglio, nonostante tutto il pacchetto fosse perfetto. Poi, al secondo giro di prove siamo migliorati, abbiamo fatto degli ottimi tempi, collocandoci nelle primissime posizioni, giocandocela con i migliori. Ho sperato fino all’ultimo in un terzo posto, ma purtroppo non ci siamo riusciti. Abbiamo chiuso quindi al quarto, sia nel trofeo Renault che in R1. Inutile dire che da questa gara ci aspettavamo ben altro». Inizio faticoso in questa stagione anche per il palermitano Marco Pollara navigato dal co-driver di Broni Daniele Mangiarotti, che al Rally di Sanremo non sono riusciti ad esprimersi al meglio, complici, anche per loro, le condizioni meteo altalenanti, che hanno reso la gara più complessa del solito. Impeccabile invece la loro Citroen C3 R5 del Team PRT e le gomme Pirelli. «Abbiamo archiviato una gara negativa e difficile – ha commentato Daniele Mangiarotti – Guardiamo il bicchiere mezzo
1. Crugnola-Ometto (Hyundai i20) in 58’30.4; 2. Breen-Nagle (Hyundai I20 R5 a 5.2; 3. Andolfi- Savoia (Skoda Fabia R5) + 8.0; 4. Albertini- Fappani (Skoda Fabia R5 Evo)+ 18.1; 5. Basso-Granai (Skoda Fabia R5) + 32.
CLASSIFICA CIR SPARCO DOPO ROUND 2
1. Albertini (Skoda Fabia Evo) 31 pt; 2. Andolfi (Skoda Fabia R5) e Crugnola (Hyundai i20 R5) 24 pt; 3. Basso (Skoda Fabia EVO) 23; 4. Breen 20 pt.
CLASSIFICA CIR JUNIOR
Casella 20 pt; Vita 16 pt; Rosso 14 pt; Pederzani 10 pt; De Nuzzo 8 pt; Cogni e Porta 3 pt.; Lovati 1 pt.
pieno, quanto meno siamo riusciti a fare chilometri importanti, in vista del prossimo appuntamento. È chiaro che non siamo soddisfatti della nostra prestazione, non è stata la gara che ci aspettavamo. La nostra scelta di gomme è stata in linea con i nostri competitor, quindi siamo riusciti ad adottare la giusta strategia, ma è mancato altro». di Piero Ventura
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Auto storiche: vince Da Zanche davanti ad un irriducibile Matteo Musti Sanremo è Sanremo, se i valtellinesi Lucio Da Zanche e Daniele De Luis con la potente Porsche 911 gruppo B by Pentacar del 4° Raggruppamento, vincono la gara ligure, prova d’apertura del Campionato Italiano Rally Auto storiche, i vogheresi Matteo Musti e Claudio Biglieri salgono meritatamente sul secondo gradino del podio, trionfando nel 2° raggruppamento di cui diventano leader di campionato. Con questa vittoria e con il secondo posto nella classifica assoluta, il driver vogherese ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per giocarsi, oltre al titolo italiano, anche quello continentale, se dovesse decidere di seguirli. Veniamo alla cronaca: i valtellinesi, saliti in cattedra già dalla prima prova speciale di venerdì, hanno seminato tutti gli avversari per strada tranne i portacolori della Scuderia Piloti Oltrepò Matteo Musti e Claudio Biglieri sulla meno recente Porsche 911 Rsr, approntata dalla vogherese Ova Corse. Musti-Biglieri devono recriminare su di una partenza un po’ a rilento, specialmente sulla prima delle 14 prove in programma. Una partenza che li ha visti accumulare un ritardo dai leader di circa 20 secondi nelle prime tre prove. Un ritardo, il loro, che non è mutato nelle successive 11 prove speciali, in cui, Musti è stato l’unico a non cedere neppure un metro tenendo caparbiamente il ritmo e la scia di Da Zanche, andando a chiudere con un divario di 20”7. Ben lontani, completano il podio LuiseHandel con la Subaru Legacy a quasi 2 minuti (1’57”3). Ma andiamo per ordine; il Campionato Italiano Rally Auto Storiche 2021 è iniziato dal 36°Sanremo Rally Storico in cui nomi e vetture d’eccezione si sono riuniti per il primo atto della serie nazionale, valido anche per il campionato europeo, basato, appunto, su 14 prove speciali ricavate in mezzo a 436,54 km di spettacolo e più di ottanta protagonisti con dodici nazioni rappresentate in una corsa con doppia validità: Tricolore ACI Italia e FIA European Historic Rally Championship. Il sole caldo ha illuminato Sanremo, per la prima giornata di una gara in cui l’uomo da battere è il campione in carica Lucky Battistolli con Fabrizia Pons e la Lancia Delta Integrale, ma il primo loop di tre prove ha visto tutte le speciali vinte da Lucio Da Zanche (Porsche del 4° Raggruppamento) che comanda con 18”6 sull’Audi Quattro (3° Raggruppamento) di “Zippo” e la Porsche (2° Raggruppamento) di Matteo Musti distaccato di 20”3, in quale ha tardato a trovare quel ritmo incisivo che lo accompagnerà poi per tutta la gara. Al quarto posto troviamo il favorito Lucky con la Lancia Delta a 22”2 che ha riscontrato qualche noia al motore. Seguiti nell’ordine da Luise-Handel (Subaru Le-
CLASSIFICHE DI RAGGRUPPAMENTO
Il Podio del Sanremo Storico gacy) a 29’5; 6. Alonso Villaron-Lopez Fernandez (Ford Sierra Cosworth 4X4) a 37.0; 7. Negri-Coppa (Porsche 911) a 39. 1; 8. Bertinotti-Rondi (Porsche 911 Rsr) a 49.6; 9. Mourgues-Giraudet (Bmw M3) a 52.3; 10. Volpato-Sordelli (Ford Escort Rs) a 53.5. Nel secondo giro di prove della prima giornata di gara Da Zanche e Musti diventano imprendibili per tutti e la prima giornata del Sanremo Storico si chiude con la coppia Lucio Da Zanche-Daniele De Luis sulla nuova Porsche 911 Sc Gruppo B di Pentacar al comando con il tempo complessivo di 34’18.4. Le 6 prove disputate hanno confermato un Da Zanche davvero in forma, vincitore di 5 speciali, che si aggiudica la prima tappa e il 4°Raggruppamento. «Siamo ottimisti, il vantaggio c’è e cerchiamo di gestire con uno sguardo al meteo che potrebbe mischiare le carte» - Ha commentato Da Zanche all’arrivo di tappa di fronte alla Vecchia Stanzione di Sanremo - «Una grande giornata, ma domani dovremo stare attenti, Musti, molto veloce, è molto vicino». Secondo assoluto in una lotta sul filo dei secondi è appunto Matteo Musti con alle note Claudio Biglieri, a 22’’1 da Da Zanche. «Purtroppo abbiamo perso tempo sulla prima prova e stiamo cercando di recuperare. Lucio Da Zanche va davvero forte, ma ce la giochiamo domani guardando al meteo che non promette bene e andrà a vantaggio delle quattro ruote motrici. La mia gara, in ogni caso, è su Da Zanche. Sarà importante la scelta di gomme giuste». Una bella corsa quella del vogherese in cima alla classifica del 2°Raggruppamento e che sull’ultima prova ha chiuso a soli due decimi di secondo dal rivale con la Porsche di Pentacar. Luigi “Lucky” Battistolli invece, si deve accontentare del terzo gradino provvisorio della classifica a 33.4 dalla
vetta. «Probabilmente abbiamo sottovalutato quella che poteva essere una competizione molto dura, come questa. Arrivando da vittorie che ci lasciavano pensare di avere la macchina apposto. Lavoreremo per portare fino in fondo la gara e mettere a posto la vettura». Lucky è riuscito a segnare il miglior tempo sulla prova numero 4 che gli permette di risalire in classifica. Proseguendo con la graduatoria troviamo il migliore del 3°Raggruppamento, Andrea “Zippo” Zivian, autore di un’ottima gara occupa la quarta piazza con la sua Audi Quattro coadiuvato da Denis Piceno a 34’’1. In crescita la prestazione di Matteo Luise navigato da Fabrizio Handel che sta macinando chilometri con la Subaru Legacy gruppo A e chiude quinto assoluto della prima tappa. Le otto prove in programma nella seconda giornata vivono tutte sul duello al vertice tra Da Zanche e Musti, che non varia però le posizioni, mentre dietro di loro, ben distanziati, tutti gli altri disputano un’altra corsa contendendosi il terzo gradino del podio che va a Matteo Luise e Fabrizio Handel con la Subaru Legacy. Una gara in salita per il pilota di Adria tornato sulla vettura dopo cinque anni dall’ultima apparizione sulla Legacy, di Balletti Motorsport, Soddisfatto Andrea “Zippo” Zivian, tra i protagonisti di questa gara con la Audi Quattro che conclude quarto assoluto. Seguono in classifica le Porsche 911 affidate a Davide Negri e Marco Bertinotti che si sono rispettivamente piazzati in quinta e sesta posizione dopo un lungo duello. In particolare Negri, copilota Roberto Coppa, ha spinto molto nel tratto finale. In questa seconda giornata, fuori dai giochi quasi subito, il più atteso di tutti Luigi “Lucky”Battistolli, con Fabrizia Pons sulla Lancia Delta Integrale 16V Gruppo A che toccando un muretto ha rotto una sospensione costringendoli al ritiro.
4° Raggruppamento 1. Da Zanche - De Luis (Porsche 911 Sc Rs) in 1:29’52.1 Porsche 911 Sc Rs; 2. Luise - Handel (Subaru Legacy) +1’57.3; 3. Alonso Villaron - Lopez Fernandez (Ford Sierra Cosworth 4X4) +4’57.1 3°Raggruppamento 1. ‘Zippo’ - Piceno (Audi Quattro) in 1:32’04.0; 2. Delle - Regis (Fiat Ritmo 75) +11’55.6; 3. Gandolfo - Torterolo (Fiat 127) +13’40.9 2°Raggruppamento 1. Musti - Biglieri (Porsche 911 Rsr) in 1:30’12.8; 2. Negri - Coppa (Porsche 911) +1’57.9; 3. Bertinotti Rondi (Porsche 911 Rsr) +2’32.4 1°Raggruppamento 1. Parisi - D’Angelo (Porsche 911 S) in 1:48’34.9; 2. Salin-Protta (Porsche 911 S) + 3’36.8; 3. Bianco - Casazza (Porsche 911) +5’17.5
Proseguendo con la classifica finale assoluta, termina settimo assoluto l’equipaggio spagnolo formato da Daniel Alonso Villaron e Alejandro Lopez Fernandez con la Ford Sierra Cosworth 4X4, mentre completano la top ten il novarese Dino Vicario sulla Ford Escort MKII, Maurizio Pagella con Roberto Brea su 911 Carrera Rs ed il vogherese Ermanno Sordi con la 911 Rs. Gli asfalti del Sanremo sono stati teatro di battaglie anche nel 1°Raggruppamento dove a spuntarla è stato il campione in carica Antonio Parisi con Giuseppe D’Angelo che ha approfittato dei problemi che hanno ritardato il suo principale avversario Nicola Salin con Davide Protta su Porsche 911 S, altra 911. Tornando agli oltrepadani, da segnalare la grande soddisfazione di Stefano Maroni, presidente del Rally Club Oltrepò, per la buona prestazione fornita dal suo equipaggio formato da Giambattista Tambussi ed Emilo Partelli, i quali hanno portato al 2° posto di classe e al settimo di raggruppamento, nonché al 30° assoluto, la bianca Opel Kadett GT/E approntata da Autostoriche Madama a Mezzadra di Montebello della Battaglia. Il prossimo round del CIRAS 2021 adesso si disputerà sugli asfalti della Targa Florio HIstoric Rally in programma per il 7-8 maggio. di Piero Ventura