Più che il Coronavirus, nell’Oltrepò del vino c’è il “virus della corona”
Anno 14 15 - N° 160 162 DICEMBRE FEBBRAIO 2021 2020
di Cyrano De Bergerac
RIVANAZZANO la “sua” voghera TERME: piange INTERVISTA fABRIZIO a romano BOBBIESIferrari
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RIVANAZZANO CASTEGGIO: L’ASSESSORE TERME: INTERVISTA AL WELFARE a romano ferrari
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«Il Bobby, come tutti noi lo «Richieste di aiuti chiamavamo, ha lasciato il ricordo economici aumentate di una persona perbene» del 40%» RIVANAZZANO TERME
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Elezioni 2022: «Sarò certamente in campo» VARZI
VOGHERA: «La sindaca sembra già “stufa” di avere un’opposizione costruttiva»
Pagine 16 e 17
«Continueremo ad essere una delle più piccole DOP di salumi»
OLTREPò PAVESE Le Forze dell’Ordine dovrebbero offendersi di Antonio La Trippa
Come la pallina di neve che partendo dalla vetta si trasforma in valanga quando arriva a valle, così in Oltrepò, il “Pissi Bau Bau”, il pettegolezzo o il gossip che dir si voglia, si è sempre di più trasformato in delazione.
SANTA MARIA DELLA VERSA «Ho lasciato il posto fisso per indossare maglioni brutti»
ROMAGNESE
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Manuel Achille: «Boom di presenze»
Mario Perduca
«Piloti, che gente»
BRESSANA BOTTARONE «Abbiamo convocato in Comune gli acquirenti, persone disponibili» STRADELLA: LOREDANA E TIZIANA gazzotti
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«Facciamo gelati dal 1938, quando mio nonno ottenne il via dal Podestà»
Editore
ANTONIO LA TRIPPA
FEBBRAIO 2021
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le Forze dell’Ordine dovrebbero offendersi Come la pallina di neve che partendo dalla vetta si trasforma in valanga quando arriva a valle, così in Oltrepò – già da alcuni anni – ma con la pandemia ancora di più, il “Pissi Bau Bau”, il pettegolezzo o il gossip che dir si voglia, si è sempre di più trasformato in delazione. Sempre più spesso, sugli organi di stampa e sui canali social, si leggono accuse nei più svariati campi, fatte in maniera molto spesso anonima, ma in molti casi anche palese, di “onesti e bravi” cittadini che sollecitano le Forze dell’Ordine a multare le auto in sosta vietata – tanto per citare un esempio – e non perché diano fastidio o ingombrino un passaggio, ma per il solo fatto di essere in sosta vietata e pertanto “fuori legge”. Tanti insistono chiedendo pene esemplari per chi butta – magari perché sovra pensiero – un pezzo di carta a terra, oppure denunciano con tanto di servizio fotografico allegato, chi appoggia in maniera più o meno educata e tante volte motivata (magari il cassonetto è pieno), il proprio sacco della spazzatura a lato di un cassonetto e non dentro, ma poco importa, importa che si sia individuato il “fuori legge”. Non si tratta di senso civico né di educazione, né di forte senso della legalità, perché l’Italia e l’Oltrepò che ne fa parte alla grande, almeno come usi e costumi, è un paese fondato sull’illegalità e nessuno può dichiararsi di essere o essere stato nel pieno rispetto delle leggi e su nessuna questione. Anche i più integerrimi – e molti di loro li conosco personalmente – che ora sono i paladini della legalità o meglio della delazione, prima in gioventù ma anche dopo, ne hanno combinate di cotte e di crude, un po’ come tutti. C’è chi ha avuto esperienze con sostanze stupefacenti, c’è chi ha avuto “appoggi” per ottenere agevolazioni lavorative, posti di lavoro per loro stessi o per parenti ed amici, c’è chi ha perso il posto fisso, magari anche in banca, perché palesemente fannullone... e ci fermiamo qui, alla parola fannullone. C’è poi chi nel mondo dell’agricoltura o del vino, che oggi si erge a paladino della legalità o meglio ancora della delazione, che come i loro padri, con il vino hanno fatto e fanno... di tutto, anche i più illeciti cocktails e altri ancora, non capaci di miscelare cocktails, vendevano uva sulla carta a chi i cocktails li sapeva fare. Tantissimi sono gli esempi. Addirittura in Oltrepò, sì proprio in Oltrepò, dove come già detto, ma ribadisco, nessuno è “vergine”, sono nate pagine social che invitano alla segnalazione di illeciti, addirittura è stato organizzato un concorso fotografico per chi fotografa le illegalità, patrocinato o ospitato da associazioni che hanno dei nomi bellissimi in difesa della sostenibilità ambientale. Un concorso con una pagina social dove vengono pubblicate le fotografie di chi, forse – a meno che gli amministratori di tale pagina non siano un Tribunale e
loro stessi dei Giudici – ha commesso delle presunte illegalità o meglio delle piccole illegalità. Piccole? Perché le grosse illegalità commesse con i soldi pubblici, quelle no, non vanno fotografate. Un conto è prendersela con uno che butta una sigaretta a terra o fa un parcheggio in sosta vietata, altro conto è prendersela pubblicandone la foto, con chi, utilizzando denaro pubblico commette grandi illegalità. Penso che questa corsa alla denuncia, questa voglia di delazione nei confronti di chi entra in un bar a prendere un caffè e rimane con la mascherina abbassata più del dovuto – tanto per citare un altro esempio figlio dei tempi contemporanei – non c’entri nulla con il desiderio legittimo e diffuso di bloccare la pandemia in corso, è invece un problema psicologico di delazione e di interpretare la denuncia come rivalsa, rivincita e vendetta per le infinite e spesso evidenti frustrazioni a cui questi “cittadini modello” molto probabilmente sono sottoposti da tutta la vita. Purtroppo la voglia di pervasiva intolleranza e di delazione avviene anche ad opera delle Istituzioni pubbliche, anche dei Comuni. Ci sono Comuni che pubblicano sulle loro pagine istituzionali e di servizio pubblico, fotografie di autovetture ben riconoscibili – trattandosi a volte di piccoli Comuni, anche se la targa è stata oscurata sappiamo più o meno tutti che macchina ha il nostro vicino di casa, e mettono alla gogna come se la sentenza fosse già stata pronunciata un cittadino, che certamente o probabilmente ha sbagliato nel mettere il proprio sacchetto della spazzatura dentro al bidone sbagliato o fuori dal bidone... Comuni che mettono alla gogna un cittadino… Niente fa già piangere così la cosa. Molti amministratori pubblici, anche se non tutti fortunatamente, invitano e credo per voglia di visibilità, a denunciare comportamenti illeciti anche dei vicini di casa con la “foglia di fico” del fatto che non si comportano in genere da “buoni cittadini”. Nulla di nuovo, la storia insegna che i Nazisti avevano la Gestapo che sfruttava i delatori, la Repubblica Democratica Tedesca aveva la Stasi dove 1 cittadino su 10 era un collaboratore e delatore e la Russia aveva il KGB che funzionava allo stesso modo. Ma quelli erano regimi totalitari. Oggi con gli stessi sistemi i politici nostrani pretendono di dare lezioni di democrazia, anzi fanno di più: con innumerevoli norme a tutela di corporazioni, associazioni e chi ne ha più ne metta, consentono la proliferazione di denunce più o meno pubbliche o anonime. L’intolleranza e la delazione viene così legalizzata, la delazione è oramai così radicata in nome dell’ordine e della legalità che se ne frega di sbattere cittadini in prima pagina o sulle pagine social dedicate, anche se poi chi è sbattuto ed insultato risulta in-
nocente o ha giustificazioni ritenute valide da chi deve giudicare per quanto fatto. Trovo questo comportamento soprattutto offensivo nei confronti delle Forze dell’Ordine e delle loro capacità investigative, perché la continua delazione vuole sopperire, evidentemente, alla capacità di prevenzione e di azione che è nei compiti e nelle professionalità proprie delle Forze dell’Ordine. L’assioma è semplice: denunciamo noi chiedendo pene esemplari. Sulle pene esemplari vale la pena di aprire una parentesi: cosa s’intende per pena esemplare? Le pene sono stabilite nella legge e solo chi non crede nelle leggi vigenti chiede pene esemplari. Tornando alla Forze dell’Ordine, io se fossi in loro mi sentirei offeso: i delatori denunciano, tirano fuori i problemi perché convinti che a parte loro, nessun altro sarà in grado di farlo, neppure le Forze dell’Ordine. Ribadisco: in Oltrepò questo sistema di delazione funziona solo però per i piccoli casi di illegalità: sosta vietata, un sacco della spazzatura fuori posto, una moto in un prato, una bicicletta attaccata ad un palo... Cose così... Perchè sulle grandi illegalità, sui grandi reati, nessuno dice nulla e perché? Perchè magari chi ha commesso il grande reato è il politico di turno che ti ha trovato il posto sicuro, sia per te, che per tua figlia e perché no anche per il fidanzato di tua figlia. Il ricorso alla sorveglianza tra cittadini sta creando un pericoloso precedente che porterà ad una deriva autoritaria come illustri filosofi hanno ben evidenziato nella storia ed anche attualmente. è veramente preoccupante che i politici oltrepadani non cerchino di bloccare questa reazione impulsiva, isterica e a tratti fanatica che sta colpendo una terra, l’Oltrepò, che comunque ha sempre avuto cittadini di buon senso. Sarebbe bello che gli amministratori pubblici bloccassero questa deriva a tratti paternalistica, a tratti fanatica che porterà alla cieca obbedienza e che scivolerà verso uno Stato autoritario. In Inghilterra questo fenomeno delatorio è scoppiato, come molti altri fenomeni, prima rispetto all’Italia ed anche là le forze politiche in un primo momento hanno appoggiato o tollerato questo atteggiamento. Dopo qualche anno però, per prime le Forze di Polizia inglesi sono intervenute per dire stop al fenomeno perché le denunce e soprattutto le delazioni così numerose e nella maggior parte dei casi infondate stavano inficiando il loro lavoro. E non diciamo che chi non posta le fotografie sui social della macchina in divieto di sosta può essere accusato di omertà, l’omertà è tutt’altra cosa, è una regola della malavita organizzata che obbliga al silenzio sull’autore di un delitto o sulle
circostanze di esso. Omertà è soprattutto solidarietà interessata tra i membri di uno stesso gruppo e ceto sociale che coprono le colpe altrui per salvaguardare i propri interessi onde evitare di essere coinvolti in indagini spiacevoli o pericolose. Nessuno è perfetto e nessuno può vantarsi di non aver mai infranto la legge, magari qualcuno può vantarsi di non essere mai stato beccato, ma almeno tutti, almeno una volta nella vita ci siamo fermati davanti al giornalaio con le 4 frecce e a motore acceso – tanto per citare un esempio di piccola illegalità. Ecco sarebbe opportuno – se si ha proprio voglia di legge che è cosa diversa dalla giustizia – che questi integerrimi cittadini non si comportassero da delatori e soprattutto se proprio si sentono integerrimi lo potrebbero fare nei confronti dei “membri” magari potenti ai quali si è chiesto un favore, di uno stesso gruppo e ceto sociale che coprono le colpe altrui per salvaguardare i propri interessi o evitare di essere coinvolte in indagini spiacevoli o pericolose, ecco lo facciano in questi casi… se proprio vogliono . Spero solo che in Oltrepò quegli amministratori che tollerano certi comportamenti, li stronchino pubblicamente, così come dovrebbero fare le Forze dell’Ordine, tutte. Questa continua delazione prima o poi porterà all’esasperazione e l’esasperazione porterà a sua volta a gesti inconsulti da parte di chi subisce la delazione. Perché poi ognuno, magari esasperato, si comporterà in base alla propria convinzione di giustizia, infischiandosene delle leggi. è successo dappertutto e la storia insegna, dove ci sono stati sistemi fondati sulla delazione. di Antonio La Trippa
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LETTERE AL DIRETTORE
FEBBRAIO 2021
Salice Terme: «Dopo i dossi possiamo sistemare i cartelli? Chiedo per un amico»
«Vigili nascosti, ed io non pago»
Signor Direttore, vorrei segnalare all’amministrazione locale – così attenta in tema di viabilità o meglio dire in tema dossi… - che qualche cartello bisognerebbe sistemarlo, raddrizzarlo o là dove necessario rafforzare la segnaletica. Mi riferisco alla via Gennaro ed in particolare a quel tratto – a senso unico – che sbuca sulla strada che attraversa Salice, la via Diviani, dove è ubicato il locale “Io & Vale”. Percorrendo spesso a piedi quel tratto di strada per raggiungere l’imbocco della Greenway - sono solita infatti lasciare la mia auto nel parcheggio del campo sportivo, ho incontrato – e più di una volta – veicoli che percorrevano in senso di marcia opposto quella via. Auto che arrivando dal Golf tanto per intenderci, in prossimità di “Io & Vale”, incuranti del divieto d’accesso apposto, svoltano a destra ed imboccano contromano la via. Mi ha incuriosito la cosa, certo di aver visto il cartello di divieto, mi sono chiesta se tutti gli imbranati circolano a Salice. Ho controllato ed ho notato che il cartello di divieto è visibile solamente da chi proviene dal centro paese, dalle Terme, ed è diretto verso il Golf, per chi arriva dal senso
Egregio Direttore molti comuni in Oltrepò ed alcuni in valle Staffora per racimolare qualche soldo con le multe se ne inventano di tutti i colori, ma purtroppo per loro alcune sentenze sottolineano come alcuni metodi per sorprendere gli automobilisti in eccesso di velocità non siano leciti. La situazione è quella in cui un apparecchio di rilevazione della velocità sia segnalato e l’autovelox, quelli arancioni che ci sono in molti nostri paesi, sia ben visibile ma il vigile sia nascosto. La Corte di Cassazione sottolinea come il nascondersi volontariamente sia un atteg-
di marcia opposto non si vede minimamente. Spero che la foto scattata faccia capire cosa intendo e che l’amministrazione locale non sapendo più dove mettere dossi, metta o sistemi qualche cartello. Francesca Torti - Voghera
Franco Barisonzi – Voghera
Lettera a Mons. Marco Daniele
Voghera: slittata la riapertura del Teatro Sociale. «Che tragedia!» Gentile Direttore, è notizia recente che il Teatro Sociale di Voghera, al momento non riaprirà. Apriti Cielo! Ma la Sindaca è impazzita nel dare una simile notizia? Capisco la politica che deve trasformare ogni argomento in un cavallo di battaglia, capisco i simpatizzanti dei politicanti locali che devono sostenere il cavallo nella battaglia, capisco chi con il Teatro Sociale ha tentato di “costruire” una carriera politica, ma non capisco come tutti quanti non capiscano che per il “popolo” la riapertura del Teatro non è una priorità, e forse neanche questione secondaria. Se la sindaca avesse detto al “popolo”, oggi, con quel che è successo e che non sappiamo quando e come finirà, dobbiamo tirar fuori
giamento doloso delle forze dell’ordine verso gli automobilisti. Il problema principale per un povero automobilista come me è quello del dimostrare che i vigili erano nascosti. Se dunque passate da un autovelox e avete dei dubbi, fotografate la postazione, come me che li ho fotografati, occultati nel parcheggio di un esercizio commerciale, altrimenti sarà complesso dimostrare la vostra ragione. Se mi arriva la multa, non la pagherò e porterò a mia discolpa le foto. Saluti.
più di 1 milione e mezzo di euro per finire i lavori di un Teatro che oggi non possiamo neanche utilizzare nella sua capienza massima viste le restrizioni sanitarie, avrebbe detto una cosa buona? Si sarebbe comportata come un padre di famiglia? Io credo di no. I dubbi sulla riapertura del Sociale ci sono sempre stati tra i fans della cultura come unico mezzo di rinascita della città e chi lo considera un fallimento imprenditoriale che sarà solo un debito per l’amministrazione ma oggi credo che il tema Teatro Sociale non interessi veramente a nessuno. Un domani chi lo sa. Paolo Landini - Voghera
LETTERE AL DIRETTORE
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Caro Mons. Daniele, carissimo don Marco, tempo fa lessi su di un giornale locale che eri stato assegnato alle Parrocchie di S. Lorenzo Martire, di S. Rocco, di S. Vittore e di Gesù Divin Lavoratore di Voghera. Per la tua persona, anche in ragione della giovane età, indubbiamente un premio; per me, anzi, per noi di Casteggio, la tua partenza costituirà una grave perdita, come pastore e come uomo amico di tutti. Tempo addietro avrei mal digerito il provvedimento di S.E. Mons. Vittorio Viola, nostro eccellente Vescovo di Tortona, gli anni e un briciolo di saggezza mi hanno consigliato una riflessione ed ho concluso che quando si perde una persona di valore, in luogo di pensare a ciò che si perde, bisogna ringraziare Dio e la fortuna d’averla avuta. Ti ho conosciuto diversi anni fa a Santa Giuletta con il tuo Collega don Patrini; oltre alla cultura e al tuo tratto umano, mi meravigliò il tuo rapporto con la gente ed in particolare con i giovani: un oratorio decrepito e poco o nulla frequentato, divenne in pochi mesi un luogo di aggregazione ludica, culturale e religiosa per grandi e piccini. Sembra un tratto marginale della vostra pastorale ma, figlio di contadini, ho imparato a giudicare gli uomini da accadimenti anche minori. Dopo pochi anni, chiamato ad un incarico di prestigio in Diocesi, ti allontanasti dall’Oltrepo per farvi ritorno anni dopo, Parroco di Casteggio. Non eri cambiato: stessa cordialità, stessa cultura umanistica e religiosa, stessa vicinanza ai poveri ed
ai giovani; solo l’aspetto fisico era leggermente mutato, non in altezza ma in... “larghezza”. Grande uomo e grande Prete. Mi mancherai a Casteggio Monsignore, mancherai a tanti. Per fortuna il mio ufficio di Voghera in piazza Duomo, dista pochi metri dalla Canonica della tua importante Chiesa. S.E. Monsignor Vescovo premiandoti con una assegnazione prestigiosa, anche se purtroppo lontana da Casteggio, non ha sicuramente errato. Ho imparato ad apprezzare il valore del Vescovo di Tortona agli inizi del 2015, a pochi mesi dal Suo insediamento. Mi ricevette nell’ampio studio, abbandonò la grande poltrona alle spalle della scrivania, si accomodò davanti, di fronte a me; ascoltò attento la richiesta che mia figlia gli rivolgeva con una cortesia e una cordialità che mi colpì molto. Per un istante in luogo di parlare con Vescovo di Tortona, mi parve di avere di fronte non Sua Eccellenza, ma Padre Vittorio il frate francescano di Assisi. Grande Vescovo che a breve sarà chiamato a più alti Magisteri. Se i meriti contano Vi saranno approntati grandi traguardi. Per noi comuni mortali, il buon Dio riserverà il privilegio di avervi conosciuto ed apprezzato. Grazie Don Marco e grazie anche a Padre Vittorio (non è una diminutio, anzi!), Vi accomuna, tra l’altro, una grande virtù: camminate sulla terra a fianco della gente ma, mentre noi guardiamo la punta delle nostre scarpe Voi, tenendoci per mano, ci indicate il cielo e i suoi misteri.
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Lettera firmata - Casteggio
CYRANO DE BERGERAC
FEBBRAIO 2021
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Più che il Coronavirus, nell’Oltrepò del vino c’è il “virus della corona” Nell’Oltrepò del vino si continua a partire dal via. Nelle scorse settimane il Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese ha firmato una convenzione con l’Associazione Strada dei Vini. Un’associazione che esiste da anni, con finalità e obiettivi che solo la presidenza di Roberto Lechiancole in epoca recente era riuscita a sviluppare per il bene del territorio, dell’enoturismo e della valorizzazione locale. Un lavoro che prima è stato bloccato e per certi aspetti stroncato e che ora ritorna una priorità con un pezzo di carta che dice «torniamo a fare ciò che non avremmo mai dovuto smettere di fare». L’accordo prevede di «fare squadra» e ampliare la rete di comunicazione e di promozione di un mondo che si muove in sinergia e ha un unico importante obiettivo: promuovere l’Oltrepò del vino, attraverso messaggi di valorizzazione, di qualità, di territorio per fare crescere una storica realtà vitivinicola che punta molto anche sulla trasformazione di un territorio – ad un’ora da Milano e da altri grandi centri nervalgici del Nord Italia – da puramente rurale e agricolo a turistico, nel settore in crescita del turismo esperenziale e di prossimità. «La convenzione non è altro che la realizzazione di un progetto di rete istituzionale e privata, di un mondo rappresentato in tutti i suoi segmenti della produzione e della comunicazione – dice il presidente uscente del Consorzio Tutela Vini, Gilda Fugazza – perché una squadra forte e ben rappresentata può costituire il presente e il futuro di questa terra del vino che ha vera storia, ha biodiversità e ha intrapreso una strada della sostenibilità, una terra che è ancora poco conosciuta e pronta ad essere valorizzata e apprezzata». A farle eco è il neo presidente della locale Strada del Vino, un avvocato, Giorgio Allegrini: «È un’azione importante ed è anche un segnale giusto che il nuovo Cda della Strada dei Vini vuole sottolineare – spiega –. Con questa convenzione tutti i soci del Consorzio (che ne hanno le caratteristiche) sono automaticamente iscritti alla Strada dei Vini. Diventa un servizio ai soci e nel contempo facciamo rete con un ente fondamentale per lo sviluppo del territorio, il Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, con cui condividiamo idee e progetti, concreti e da affrontare subito perché stiamo vivendo un cambiamento epocale per il nostro bellissimo territorio». Il presidente dell’Associazione Strada del Vino e dei Sapori dell’Oltrepò Pavese ETS, nel rispetto delle linee e degli obiettivi condivisi con l’unanimità del suo Cda, ha sancito dunque una collaborazione e cooperazione finalizzata alla promozione del territorio e dei prodotti locali, con particolare riguardo al contesto vitivinicolo, previa condivisione di progettualità e di obiettivi. La Strada del Vino ha strutturato un progetto triennale che ha
dato ampio risalto al comparto vitivinicolo con volontà di implementare l’enoturismo nel territorio dell’Oltrepò Pavese, importante realtà produttiva della Lombardia e dell’Italia del vino (terza area mondiale del Pinot nero) allargando il raggio d’intervento alla parte turistica, commerciale e dei servizi. «La volontà di unire le forze e di unificare le azioni e gli scopi dei vari enti non può che favorire un nuovo assetto territoriale idoneo ad alzare il livello di intervento e di inserimento nei mercati e nelle realtà nazionali ed internazionali. Per raggiungere tali obiettivi dovranno essere creati tavoli di coordinamento interessanti i soggetti privati e quelli pubblici. – conclude Giorgio Allegrini – L’identificazione delle attività condivisibili fra il Consorzio e la Strada del Vino, con specifica definizione dei rispettivi ruoli, potrà favorire l’allargamento del settore vitivinicolo verso i Comuni ed i restanti settori produttivi, culturali e turistici oltrepadani dando finalmente un’attuazione concreta al progetto enoturismo creando identità di azione e di obiettivi anche attraverso la condivisione delle attività di comunicazione e la creazione di ufficio stampa che possa raccogliere
ed esprimere le identità del territorio». Il progetto rappresenta l’avvio di altre iniziative su scala provinciale e regionale idonei a favorire la collaborazione fra territori diversi a vantaggio dell’interscambio di prodotti, cultura e azioni turistiche e promozionali. Esaltato il direttore del Consorzio Vini: «Il 2021 è iniziato con la quarta inserita, forse anche la quinta – dice il direttore Carlo Veronese –. Nonostante il tempo pandemico che ci costringe ad essere prudenti sulla progettualità abbiamo tutti deciso di darci dentro perché non vogliamo rincorrere ma piuttosto anticipare sentendo forte la responsabilità di un Territorio che vuole muoversi compatto per promuovere tutto il bello e il buono che c’è in Oltrepò Pavese». Accanto a tutta questa esaltazione cosa resta? Un’attività di promozione, benedetta dalla Regione e dalla Lega, che promette di cambiare il mondo. Forse, prima, sarebbe stato meglio mappare l’accoglienza, innalzare gli standard, garantire che ospiti che parlano l’Inglese possano essere capiti, guidati e ben accolti dagli operatori della filiera vino-enoturismo. Sarebbe inoltre stato importante puntare su segnaletica stradale
turistica, creazione di isole di sosta attrezzate e magari di un ufficio informazioni per gli enoturisti. Senza dimenticare che nella stragrande maggioranza dei borghi del vino dell’Oltrepò la connettività è assente e che i turisti, ormai, vanno solo dove trovano servizi e non solo vino buono. Al bar di Casteggio, sotto le mascherine, ho sentito dire: «Partiamo sempre dalla pubblicità, prima di badare alla sostanza. Sarà un altro boomerang, un altro investimento a vuoto». In effetti colpisce che prima di pensare al turismo di prossimità e ai necessari investimenti per essere all’altezza di un certo livello di domanda, Consorzio e Strada del Vino si sentano galvanizzati da uno speciale Oltrepò che andrà in onda su una tv francese, mentre i francesi sono ancora alla prese con l’allarme pandemia: un’azione, con annessi costi, che più che a favorire il turismo servirà a far svagare i cugini d’oltralpe durante qualche giornata di quarantena. Più che il Coronavirus, in Oltrepò c’è il “virus della corona”. Ognuno cerca il suo quarto d’ora di celebrità. Buona fortuna… di Cyrano De Bergerac
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VOGHERA
FEBBRAIO 2021
«La sindaca sembra già “stufa” di avere un’opposizione costruttiva» Nicola Affronti legale d’impresa, è Consigliere Comunale e Capogruppo UDC in Comune a Voghera nonché Consigliere Provinciale e Capogruppo UDC in Provincia di Pavia. Da circa un mese, è stato nominato coordinatore Regionale dei Giovani dell’Unione Di Centro della Lombardia. A lui facciamo un’intervista a tutto campo dalla nuova amministrazione di Voghera, ai risultati ottenuti in Provincia per il territorio, fino all’impegno nel partito. La Provincia di Pavia, un ente che per tanti anni a causa della riforma delle Province ha avuto qualche difficoltà, ma che dopo un periodo di ombra sembra ritornare a riprendersi il suo ruolo. Quali progetti e realizzazioni ci sono in cantiere? «Sono particolarmente soddisfatto della mia esperienza come Capogruppo e Consigliere Provinciale, in quanto, ora partono alcuni progetti che da anni si attendevano e che si chiedevano alla Provincia con forza. Ad esempio, parlo di una cosa che riguarda la nostra città, nel bilancio 2021 della Provincia (che abbiamo approvato con largo anticipo a Novembre e che quindi è pienamente operativo) è prevista la realizzazione della palestra per l’ITIS Maserati di Voghera. Opera che studenti, insegnanti, genitori (e noi con la passata amministrazione) da anni chiedevamo alla Provincia, sono felice di esserne tra i fautori». Situazione strade: la Provincia è stata spesso accusata di negligenza. è cambiato qualcosa? «I lavori nelle strade (previsti nel bilancio 2021) vedranno l’Oltrepò farla da padrone nella serie di investimenti che l’amministrazione provinciale ha previsto per il nuovo anno e quello seguente. Tutti interventi che, grazie alla celere approvazione del bilancio di previsione, che ha ricevuto l’ok già a novembre, possono essere subito finanziati, messi a progetto, appaltati e cantierizzati. Tempo climatico permettendo, ovviamente. Tra gli altri stanziamenti, son previsti: 105.000 Euro per la protezione delle scarpate sulle strade montane, riasfaltature per oltre 1,7 milioni di euro, 1,1 milioni per interventi dovuti ai problemi creati dalle “situazione meteorologiche avverse”. Un altro importante impulso verrà dato alla viabilità in questo 2021: sono stato promotore e firmatario, insieme agli altri capigruppo, in Consiglio Provinciale di un Ordine del Giorno approvato all’unanimità nell’ultimo Consiglio Provinciale, nel quale andiamo a rimarcare le opere strategiche e indispensabili allo sviluppo del territorio provinciale, tra le altre, su mia proposta, ho fatto inserire il completamento della Tangenziale di Voghera, infatti, quest’opera permetterebbe un considerevole alleggerimento del traffico diretto in Valle Staffora; le altre opere di cui nell’ordine del giorno chiediamo di investire e portare a
Nicola Affronti compimento sono molteplici e per restare in Oltrepò, la “gronda nord” di Stradella. Insomma in Provincia il mio impegno c’è al fianco dei cittadini che ci segnalano i problemi, dei sindaci e dei consiglieri comunali del territorio. Non possiamo perdere il treno del Recovery Plan e non cercare di ottenere i fondi per queste infrastrutture che permetterebbero un rilancio vero del territorio». Ora parliamo del Comune di Voghera, oramai sono diversi mesi che è in carica la nuova amministrazione e il sindaco nell’ultimo Consiglio Comunale ha presentato le linee programmatiche. Il suo intervento a nome del gruppo UDC è stato il più critico. «Come gruppo consiliare UDC (Nicola Affronti, Elisa Piombini ed Antonio Califano), abbiamo osservato l’operato di questa amministrazione e i suoi primi grandi scivoloni. Crediamo che la luna di miele dei primi 100 giorni di amministrazione sia abbondantemente finita. Testimonianza ne sia che nell’ultimo consiglio comunale il sindaco ha presentato le linee programmatiche che sembrano essere, in parte, il risultato di copia/incolla dei vari programmi che eran stati presentati alle elezioni amministrative e fin qui nulla da dire ci sono idee che condividiamo. Non condividiamo però il fatto che non ci si dica i tempi per realizzare le oltre 230 azioni che si vogliono realizzare e soprattutto non ci si dica come le si voglia realizzare e con quali fondi. Tutti vorremmo più sicurezza in città, nella passata amministrazione, l’anno scorso, avevamo previsto il concorso per assumerne nuovi agenti della polizia locale, ad oggi da questa amministrazione sui giornali è stato detto più volte che si faranno assunzioni, ma del bando di concorso neanche l’ombra. Sempre per rimanere in tema di sicurezza, al di là di qualche DASPO propagandistico iniziale e, di molte multe per divieto di sosta fatte per fare cassa nei giorni di carnevale quando i Vogherese erano a comprare nei negozi del centro città, non c’è una percezione di sicurezza maggiore in città rispetto a prima, anzi, preoccupanti fatti si sono verificati, come ad esempio, le vetrine di alcuni negozi che han subito danni perché vandali sollevavano i tombini e li lanciavano contro le vetrine, cosa che
mai era accaduta prima. Tanto lavoro c’è da fare anche lì. Noi ci siamo con le nostre proposte che nero su bianco erano nei nostri programmi e che continueremo a fare (come quella poi ascoltata per i parcheggi gratis sotto Natale e durante i saldi per favorire il commercio cittadino), anche se questa amministrazione al di là di qualche autorevole esponente in consiglio comunale che auspica collaborazione, non dà segnali positivi, anzi, la sindaca sembra già “stufa” di avere un’opposizione costruttiva che faccia il suo mestiere per il bene della città. Noi però mai ci stuferemo di lavorare per il bene della città». Come UDC avete fatto già diverse interpellanze, uno dei temi più volte trattati è quello dell’ASP Pezzani dove avete segnalato che il Comune aveva fatto un bando non conforme alla normativa regionale, revocando i componenti nominati da Barbieri nel gennaio 2020 e cercando di sostituirli. «Infatti questa mossa ha portato regione Lombardia, per la prima volta nella storia a commissariare l’ASP Pezzani affinché si regolarizzasse la procedura di nomina del CDA. Il Comune è stato costretto ad annullare il bando emesso ed ad emetterne uno nuovo. La fretta di questa amministrazione di revocare i consiglieri di amministrazione designati sin dal gennaio 2020 dalla scorsa amministrazione ha partorito gattini ciechi. Infatti ora il Comune ha dovuto fare un’altra procedura riaprendo i termini per la presentazione delle candidature a seguito del nuovo bando. Noi avevamo sottolineato che la procedura del Comune non era in linea con quanto previsto dalla normativa regionale delle Asp. Peccato che questa amministrazione abbia fatto una brutta figura, forse il sindaco che ci ha detto in consiglio di conoscere meglio la normativa sulle Asp, avrebbe fatto meglio a ridarle una lettura». Passiamo a Recology, voi dell’UDC anche con l’allora assessore all’Ambiente Simona Panigazzi, avete il merito di aver recuperato i fondi e concluso la bonifica. Mancava solo il collaudo e poi il Comune dovrebbe restituire i soldi ricevuti per la bonifica a Regione Lombardia se riesce a rivalersi ed a recuperarli. Corretto? «Esatto, abbiamo presentato un’interpellanza al sindaco ed all’assessore alla partita, per chiedere quale sia lo stato del collaudo dei lavori di smaltimento e rimozione dei rifiuti e per avere delucidazioni in merito alle strategie che l’amministrazione intende adottare per la restituzione della somma stanziata da Regione Lombardia. Infatti vorremmo sapere chi sia oggi in possesso delle chiavi del capannone bonificato e come l’amministrazione intenda procedere per l’eventuale restituzione alla Regione del denaro pubblico utilizzato per smaltimento dei rifiuti e per le relative iniziative legali nei confronti della società proprietaria del
capannoni. Attendiamo risposte, noi il problema alla città l’abbiamo risolto, ci auguriamo che questa amministrazione almeno chiuda la parte finale». Lei ha affermato che il nuovo Governo Draghi ricalca – in buona parte – il modello Voghera che qualche mese la sua coalizione, con lei candidato sindaco, ha proposto alla città. «Il nuovo governo Draghi è un bene per il Paese perché il governo non deve esser ostaggio di persone che siano solo in grado di fare proclami sui social, ma deve esser composto da persone competenti. Oggi abbiamo questa chances per il Paese che dobbiamo sfruttare al massimo con i soldi del Recovery Plan e una persona come Mario Draghi sarà in grado di rilanciare l’economia ed il futuro di questo nostro amato Paese. Sì la formula di Draghi si può dire che ricalca – in buona parte - il modello Voghera che qualche mese fa abbiamo proposto alla città: abbiamo fatto una coalizione che guardasse al bene di Voghera mettendo in campo le migliori idee e mettendo da parte il populismo, credo che alla lunga il modello sia questo e a livello nazionale si è realizzato perché il bene comune viene prima di qualsiasi interesse di partito. A Voghera non era ancora passato il tempo del populismo, ma passerà vedendo che le promesse fatte da loro in campagna elettorale rimarranno inevase, ad iniziare da quei rioni dove le promesse fatte difficilmente verranno mantenute. Diceva lo statista DC Alcide De Gasperi “Cercate di promettere un po’ meno di quello che pensate di realizzare se vinceste le elezioni.”». Di recente è stato nominato Coordinatore Regionale dei Giovani UDC cosa state facendo per attrarre giovani alla politica? «Innanzitutto spieghiamo loro che la politica è una passione e non un mestiere. La Politica, chi vuole entrare e farla con noi, riceve una formazione perché prima che esser un politico o amministratore deve conoscere come si amministra. Stiamo faccendo un interessante corso di formazione iniziato a fine dicembre dove hanno già partecipato importanti esponenti del mondo accademico, politico ed economico come il Prof Rocco Buttiglione (accademico ed ex Ministro), siamo arrivati al terzo appuntamento il 20 febbraio con il tema “La Next Generation EU” dedicata all’Economia e sul Recovery Plan di cui ci parlerà l’ex Ministro Giulio Tremonti. Una giornata di altissimo profilo con la partecipazione di personaggi di altissimo spessore culturale: Insomma vogliamo formare giovani preparati ad amministrare ed a far politica poiché i risultati dell’improvvisazione a tutti i livelli di governo si sono visti in questi anni e li stiamo pagando tutti». di Silvia Colombini
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«Servirà una strategia vincente per una missione quasi impossibile» Nel difficile momento che stiamo vivendo è uno degli assessorati più delicati per ogni comune, quello che viene chiamato a intervenire per dare supporto e aiuto alle famiglie in difficoltà: i servizi sociali sono una delle colonne portanti di ogni amministrazione, e rappresentano lo strumento pratico per risolvere (o quantomeno alleviare) ogni situazione di disagio. A Voghera, il sindaco Paola Garlaschelli ha affidato l’incarico di guidarlo a Federico Taverna, membro di Fratelli d’Italia, che si è trovato ad affrontare la sfida dell’emergenza sanitaria e di una popolazione di indigenti in continua crescita. Assessore, occuparsi di servizi sociali nell’era del Covid non è un compito semplice. Abbiamo dei dati che monitorano la situazione in città? Possiamo fare un confronto con lo stesso periodo dello scorso anno? «Purtroppo le situazioni di disagio nella nostra città come prevedibile sono aumentate, e sono certo (purtroppo) che aumenteranno ancora per il 2021. La causa principale ovviamente è la pandemia in corso, che avendoci costretti ad attuare tutta una serie di misure restrittive ha inevitabilmente inciso sul lavoro delle persone. Rispetto al 2019 il Comune ha registrato all’incirca un aumento del 20% delle richieste, a cui abbiamo fatto fronte con tutti gli strumenti a nostra disposizione». Cioè? Quanto è stato stanziato? Come funzionano gli aiuti? E che criteri devono soddisfare i richiedenti? «Nello specifico abbiamo erogato un contributo ordinario da 200 mila euro, un contributo straordinario di altrettanti 200 mila e un ulteriore bonus spesa da altri 200 mila “una tantum”, per tutti quei cittadini che pur non rientrando fra gli assistiti dal Comune hanno presentato un’autodichiarazione. Per i bonus ordinari e straordinari i criteri sono quelli adottati per gli assistiti dal Comune (residenza e ISEE inferiore ai cinquemila euro annui) mentre per l’autodichiarazione
è sufficiente dimostrare di aver o subito una riduzione dell’orario di lavoro e non avere depositi per oltre cinque mila euro o altre forme di reddito assistenziale. Quanto alla cifra assegnata per famiglia, l’importo per il bonus straordinario e il bonus spesa ammonta a 138 euro per i singoli, a 168 quando il nucleo è formato da due persone, a 198 quando sono tre, a 258 per quattro, 378 per cinque e 468 per sei o più componenti». Questa non è l’unica azione che il Comune di Voghera ha messo in campo. Che altro c’è? «Abbiamo messo in campo altre misure per il sostegno, ad esempio abbiamo pagato alcuni affitti arretrati a quei nuclei familiari che si trovano in situazione di morosità incolpevole: nello specifico abbiamo utilizzato 167 mila euro di finanziamento per il piano di zona (finanziamento questo derivante da Regione Lombardia, di cui Voghera è ente capofila) che prevede un contributo fino a quattro mensilità e fino a un massimale di millecinquecento euro a nucleo familiare. Per quanto riguarda invece i cittadini assegnatari degli alloggi di proprietà comunale abbiamo messo a disposizione un totale di 106 mila euro a copertura dei canoni di locazione per un valore non superiore a 2.700 euro a nucleo familiare. Abbiamo anche adottato, come giunta, un provvedimento che assegnerà contributi per la didattica a distanza, provvedimento questo portato avanti dall’assessorato all’Istruzione ma che ha comunque una forte valenza sociale. Oltre a queste misure un po’ più economiche noi sosteniamo e promuoviamo tante iniziative a sostegno delle fasce più deboli, ad esempio negli scorsi giorni abbiamo patrocinato, su mia proposta, lo sportello telefonico di ascolto della Fondazione “Adolescere”, uno spazio di ascolto e supporto psicologico gratuito garantito da psicologhe in grado di offrire strategie di aiuto a tutti quei giovani e anziani che stanno subendo gli effetti dell’isolamento sociale».
Infine ci sono gli interventi speciali destinati alle persone che sono o sono state affette dal Covid. «C’è un Protocollo operativo in collaborazione con Ats di Pavia per l’assistenza sociosanitaria a soggetti fragili in isolamento domiciliare causa Coronavirus che prevede per i soggetti privi di una rete familiare o di prossimità propria la regolare fornitura di materiali di sussistenza, compresi i prodotti alimentari e di prima necessità e prodotti farmaceutici. La Croce Rossa effettua le consegne a tutte le persone anziane, sole o con problemi di salute, che non possono uscire di casa». Parliamo di edilizia popolare: quanti vogheresi sono in attesa di una casa? Sono state diverse le segnalazioni da parte degli inquilini che chiedono interventi di ristrutturazione, hanno portato a qualcosa? «Gli alloggi di edilizia residenziale sono oltre 900, circa 350 di proprietà del Comune e il resto di proprietà Aler. La lista di attesa è sempre lunga e purtroppo non si riescono a soddisfare le diverse richieste, anche perché gli alloggi vuoti purtroppo spesso non possono essere assegnati a causa della necessità di interventi di ristrutturazione. In ogni caso l’assegnazione passa per il bando pubblico e la rispettiva graduatoria. Esiste poi anche un problema legato naturalmente alla vivibilità di questi alloggi e del loro contesto: come accennava nella domanda, è vero che molti purtroppo sono fatiscenti, e serve una maggiore attenzione da parte di Aler e (in tanti casi) un maggior rispetto delle regole da parte degli utenti. Gli interventi di ristrutturazione prevedono sempre tempistiche lunghe, sul rispetto delle regole bisogna lavorare molto». Oltre ai servizi sociali le sono state assegnate anche le politiche del lavoro: ma cosa può concretamente fare il Comune per intervenire su ciò che, di fatto, non dipende da lui? «La verità è che non ci può fare molto, in
Federico Taverna effetti. Come Comune abbiamo davvero pochissimi strumenti per intervenire su questo settore». Tra le sue responsabilità anche servizi demografici e cimiteriali. Abbiamo novità in questi ambiti? «La gestione dei cimiteri e i servizi annessi hanno la loro importanza: il cimitero maggiore è un pezzo di storia della nostra città che si estende per 100mila metri quadrati, e sto lavorando per una revisione di alcuni aspetti in modo tale da migliorare le decine di accessi che si registrano ogni giorno. Il cimitero, inoltre, può essere un’importante risorsa culturale per la città perché all’interno si incrociano diversi stili architettonici che sono oggetto di studio e di curiosità: non è solo il luogo dove riposano i nostri cari, insomma, ma anche un luogo che può esprimere un potenziale di attrazione dal punto di vista culturale. A questo proposito sto pensando all’ipotesi di proporre un piano di alienazione di alcune cappelle dismesse ricche di monumenti funebri di un certo valore che meriterebbero di essere recuperate. Occorre inoltre migliorare anche alcuni aspetti di comunicazione come l’informatizzazione e la digitalizzazione, e non è escluso infine che si possa individuare un’area dedicata alla sepoltura degli animali». di Serena Simula
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«Il Bobby, come tutti noi lo chiamavamo, ha lasciato il ricordo di una persona perbene» La parola ricordo deriva dal latino e significa “richiamare in cuore”. Il ricordo ha infatti il potere e la funzione di richiamare nel presente del cuore qualcosa che non c’è più, adesso. Fabrizio Bobbiesi, non c’è più. Calciatore professionista, aveva dato i suoi primi calci sul campo del Don Orione della “sua” Voghera, sì perché Bobbiesi anche se la carriera l’aveva portato in giro per l’Italia prima come calciatore e poi per il Mondo come osservatore per squadre di Serie A, nella “sua” Voghera ci tornava spesso anche e soprattutto per un “stare” con gli amici di sempre. Tutti ne ricordano il fisico possente quasi “arrogante” che fecero di lui un grande difensore centrale. Dopo avere percorso tutta la trafila delle giovanili, Bobbiesi era diventato una colonna portante del Derthona a cavallo fra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80 vivendo sia la promozione dalla D alla C2. Dopo Tortona, era andato a giocare con le casacche di Fanfulla, Carrarese, Cavese, Puteolana e Mantova, fino al ritiro nell’estate del 1993. è con la maglia della Carrarese – squadra con la quale ha sfiorato la serie B – vestita per due stagioni, che diventa uno dei giocatori più iconici di sempre, talmente amato dai tifosi che alla notizia della sua scomparsa i social sono letteralmente esplosi con tantissimi messaggi di cordoglio. Alberto Ghiozzi della Palestra Malibù di via Sturla a Voghera, legato al “Bobby” da un’amicizia vera e di lungo corso lo ricorda così:
Alberto Ghiozzi
Giorgio Grandi
«Conobbi Fabrizio all’inizio degli anni ottanta. A quel tempo ero un adolescente mentre lui un forte e affermato calciatore professionista poco più che ventenne. Militava nelle fila del Fanfulla di Lodi e l’anno successivo si trasferì in Toscana, alla Carrarese allenata da Corrado Orrico, ma appena gli impegni calcistici glielo consentivano tornava a Voghera. Ricordo le cene domenicali insieme agli amici di sempre: Giorgio, Chicco, Lele, Marco e tanti altri, le adunate al bar Italia di Remo e Valter, le “vasche “in via Emilia, i pomeriggi estivi alle “Ruote”(oggi Golf Club) di Salice Terme oppure al Tennis Club (oggi Country Club) di Voghera... Insomma un collage di immagini e di memorie che appartengono a un periodo irripetibile. Fabrizio, il “Bobby”, come tutti noi lo chiamavamo, in quel periodo era un ragazzo che amava stare in compagnia, si divertiva a partecipare alle “zingarate” che organizzavamo ispirandoci al film “Amici miei” ma al contempo era anche e soprattutto una persona di grande profondità e sensibilità, con una spiccata curiosità intellettuale. La sua professione prima di calciatore e poi d’osservatore e organizzatore di campus (Milan e Torino) l’ha portato a operare anche molto lontano: in Uruguay, Australia, Stati Uniti, Costa Rica... ragione per cui per diversi anni ci siamo frequentati poco, mantenendoci comunque in contatto. Raccontava con dovizia di particolari gli usi e i costumi di quei paesi e tanti gustosi aneddoti. Dal 2010 fino a pochi giorni prima del malore fatale che l’ha colpito, ci siamo frequentati assiduamente, quasi quotidianamente. Frequentava la palestra di cui sono contitolare e, proprio da tantissimi miei clienti che l’hanno conosciuto, ho ricevuto messaggi di cordoglio. A tutti ha lasciato il ricordo di una persona empatica e perbene. Gli sarò sempre grato per aver seguito, consigliato e sostenuto con passione e competenza mio figlio Mauro che attualmente gioca nella Primavera dell’Alessandria Calcio. Abbiamo viaggiato in lungo e in largo per seguire le partite di mio figlio e, quando la sua attività d’allenatore glielo permetteva, si aggregava a noi anche un altro nostro grande amico ed ex ottimo calciatore Claudio Lombardo. Si conversava di tutto, non solo di calcio, si spaziava dalla storia (era infatti un grande appassionato della Roma Antica) alla filosofia, dalla letteratura alla musica, all’arte. Era una persona colta e dai molteplici interessi, innamorato di sua figlia Carolina della quale mi raccontava con orgoglio i traguardi conseguiti a
Bobbiesi con Altobelli dopo un’amichevole Mantova - Inter
«Amava stare in compagnia, si divertiva a partecipare alle “zingarate” che organizzavamo ispirandoci al film “Amici miei”» livello universitario e lavorativo. In tutte le persone che avuto modo d’incontrare ha lasciato un segno di positività e personalmente mi manca tantissimo e avverto un senso di vuoto. Mi trovavo in sintonia con lui, non amava gli orpelli, i cliché e tante inutili sovrastrutture ma mirava all’essenziale. Era uno spirito libero che dava peso a ciò che veramente conta nella vita, quella vita che amava tanto e che purtroppo ha abbandonato troppo presto». In questa struggente memoria entra a “gamba tesa” un altro grande amico di Bobbiesi, Giorgio Grandi che lo ricorda di come fosse una “buona testa matta” come tutti loro, del resto, in gioventù «Una volta lo vidi passare insieme alla nostra combriccola tutto impettito, giacca e cravatta, pensavo dovesse andare ad un matrimonio o ad un funerale, invece no, stava andando dai Carabinieri – cercando di dare buona impressione di sé – per giustificare le scritte che il giorno prima aveva fatto (e non solo lui...) sui muri della città, o ancora quella volta che nella sagre-
stia del Duomo di Voghera, dove l’avevo accompagnato per ritirare alcuni certificati che gli servivano per potersi sposare giù in Toscana, ho visto nei suoi occhi un lampo ed ho capito... stava sostituendo la “mangiacassetta” con registrato il suono delle campane con una sua, di musica rock, se non lo fermo... Sapete qual è stato il suo regalo per le mie nozze? Un’enciclopedia sulla storia di Roma! E potrei continuare riempendo intere paginate di aneddoti dove il “Bobby” ha dato il meglio di sè». Fabrizio Bobbiesi è stato un grande protagonista della storia calcistica dell’Oltrepò noi vogliamo ricordarlo come un uomo buono e come un grande intenditore di calcio, che non ti ordinava di fare le cose, ma che ti spiegava perché quelle cose erano importanti e quindi da fare. Un vero “uomo di calcio” con quel sorriso stampato in volto, con la sua voce sempre calma e rassicurante, con i suoi consigli preziosi. di Silvia Colombini
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L’Oltrepo Pavese è una terra ricca di talento. Imprenditoriale, artigianale, commerciale, sanitario, politico ed artistico. Spero di non aver dimenticato nessuna specifica. Donne e uomini del nostro territorio hanno, da sempre, su vari livelli conquistato spazi importanti grazie alle proprie peculiarità professionali. Alcuni issandosi addirittura alle massime altezze possibili (il primo nome che mi sovviene è Valentino, Re della moda), altri facendosi ben conoscere internazionalmente. Altri ancora, poi, sviluppando un eden felice ospitante la propria nicchia di appassionati. è il caso di questa dolce amica, bella, elegante e charmant, che si è sempre occupata d’arte in senso completo e compiuto. Da alcuni anni produce accessori per la casa davvero unici per creatività, intuizione, ricerca, gusto ed estetica. Abbiamo incontrato Maria Jurema Balma. Vorrei iniziare dal nome. Dal suo bellissimo nome, particolare e raro. Che origini ha? «Il mio nome è effettivamente raro in Italia, ed ha origini indios brasiliane. In botanica corrisponde ad un tipo di mimosa che si trova solo in Brasile. Ha fiori bianchi profumatissimi e, presso le tribù indios, ancora oggi vige un “Rito della Jurema”: il capo-tribù prepara una pozione, della quale tutti si servono, che pare abbia effetti addirittura allucinogeni! Jurema era il nome della mia nonna materna, nata appunto in Brasile perché i miei bisnonni, originari di Casteggio ove il nonno di mia madre era medico ed era stato anche Primo Cittadino, con grande desiderio d’avventura avevano, ad un certo punto della loro esistenza, deciso di andare a “vedere” questo nuovo villaggio appena fondato, parliamo di quasi fine 1800, nello stato di Santa Catarina, a Sud del Brasile. Urussanga, il nome dell’allora neo-nato insediamento cittadino, si trova esattamente a metà strada tra Florianopolis e Porto Alegre. I miei bisnonni furono l’unica famiglia italiana che non fosse veneta! E per ironia della sorte, avendo i veneti esportato là i vitigni e la cultura del vino, tra le fila di vigneti e la conformazione territoriale autoctona Urussanga si presenta come una cittadina Oltrepadana! Pensi che l’adiacente paese ad ovest si chiama Treviso!» Lei porta anche il nome Maria «Come molte donne della mia famiglia, ma loro come secondo nome. A me è stato apposto prima per potermi battezzare con il nome Jurema, nel 1959, quando nacqui, non ammesso in Italia in quanto chiaramente straniero». Affascinante storia ed avvincenti tra-
scorsi familiari! Questa magia che si respira nei suoi racconti ha qualcosa a che fare con il suo innamoramento giovanile per l’arte, a suo parere? «Tutta la mia famiglia, specialmente il ramo materno, ha sempre avuto grande passione per la materia, devo dirle. Io ho avvertito l’imperante desiderio di studiare arte sin da adolescente, decidendo in grande serenità, pur di poter frequentare il Liceo Artistico a Milano, di trasferirmi in vita collegiale presso l’Istituto delle Suore Orsoline in Via Lanzone». Ha trascorso i cinque anni di Scuola Superiore in collegio a Milano? Non è stato, come dire... antitetico alla sua energica, spontanea umanità? «Tutt’altro! La congregazione che gestiva l’Istituto era, mi passi la formula, “molto avanti” nei tempi! Ho ricordi bellissimi! Mi sono divertita tantissimo studiando in una Scuola davvero d’eccellenza, scuola che era composta da materna, elementari, medie, Liceo Artistico e Liceo Classico! Le faccio un esempio della quotidianità (sorride): di mattina venivamo svegliate con musica diffusa da un grammofono, ma erano brani di Lucio Battisti! Erano modernissime! E pensi che, dato che eravamo tutte adolescenti che iniziavamo a prender atto della nostra femminilità, per evitare di vederci truccate con make-up da maschere carnevalesche, ci avevano prima portato a visitare lo stabilimento di Helena Rubinstein alle porte della Città per poi invitare alcuni visagisti dell’Azienda in collegio per insegnarci come eseguire un trucco adeguato!». Ci ha appena regalato una fotografia, ritengo personalmente, diametralmente opposta alla comune credenza nei confronti dei collegi religiosi. Ed una volta diplomata al Liceo, come sono proseguiti i suoi studi? «Senza bisogno d’esame d’ammissione, solo con il Diploma del Liceo Artistico, sono passata all’Accademia di Brera. Ho fatto scenografia, la mia grande passione. Erano anni fortunati, di grande fermento artistico e passione smodata tra noi studenti. Per darle l’idea, l’unica “sospensione” dell’Accademia fu in occasione della chiusura della aule per il rapimento Moro. Ed ho avuto fior di professori! Il grande scultore Andrea Cascella, di infinita discendenza artistica familiare, era il direttore accademico, in alternanza con l’altrettanto strepitoso pittore Domenico Purificato, e come professore di Storia dell’Arte ho avuto lo scrittore Raffele De Grada, figlio dell’omonimo pittore, che si è spento 94enne nel 2010 dopo aver ricoperto importantissimi incarichi, tra i quali il ruolo di consigliere al Teatro alla Sca-
foto di Matteo Carassale per Gardenia
«Mi sono inventata un punto di ricamo che non esisteva»
Maria Jurema Balma, da alcuni anni produce accessori per la casa davvero unici
«Il mio nome, Jurema, ha origini indios brasiliane. In botanica corrisponde ad un tipo di mimosa che si trova solo in Brasile» la e membro della commissione artistica della Biennale di Venezia! Le confido che il professor Da Grada era talmente comunista (ride) che a tutti i suoi studenti aveva fatto acquistare Il Capitale di Karl Marx!». Un parterre di nomi strepitosi che certamente le hanno consentito un accesso al suo mondo professionale con un grandissimo bagaglio culturale! Professione che però da subito si è indirizzata all’arredo, vero? «Sì. Io sapevo già all’accesso in Brera che non avrei sviluppato il mio lavoro nel teatro, o nel cinema, bensì nell’arredo. Scenografia ti dà, all’interno proprio del bagaglio culturale, strumenti estremamente utili da applicare all’arredamento. Mi sono infatti trovata benissimo nelle successive consulenze per show-room appunto d’arredamento, nell’allestimento degli spazi! I miei primi tre anni d’attività sono stati all’interno dello spazio Dria-
de in Via Fatebenefratelli angolo Corso di Porta Nuova, la boutique d’arredo più prestigiosa per antonomasia. Ho vissuto gli anni più belli del design! Ad esempio, la nascita del fenomeno Philippe Starck, personalmente lì conosciuto, e poi Nanda Vigo, Paolo Deganello, e molti altri ancora. Dopo questi tre anni, feci una meravigliosa esperienza presso La Compagnia dei Giardini in Via San Maurilio, sempre a Milano: la show-room più innovatrice d’Italia nel settore degli arredi da giardino. Entrai in un mondo magico! La società AG&P, proprietaria della struttura, fu pioniera negli arredi inglesi in Italia. Super arredi con gusto al top! Ho partecipato a manifestazioni incredibili, ritrovandomi ad avere clienti abituali del Jet-Set come Marella Agnelli e Maurizio Gucci». Quando poi arriva a decidere di fare il salto nell’imprenditoria, di lasciare le consulenze ed aprire la sua attività?
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«Tutto è nato dalla necessità di avere una nappa per la chiave di un cassettone. Da lì ho iniziato a produrre piccoli accessori per la casa e la persona» «Circa 15 anni or sono. Il sistema-arredo era completamente cambiato, trasformandosi in grandi gruppi ove i Main Investors non c’entravano nulla con l’apparato artistico-creativo. Le produzioni manifatturiere iniziavano a trasferirsi all’estero per questioni di costi primari di produzione, ed i risultati spesso non mi convincevano più. Insomma... una serie di fattori ai miei occhi non positivi mi hanno spinta ad investire non su di un’impresa, bensì un hobby! Per necessità di avere una nappa per la chiave di un cassettone (sorride)». Come? Può spiegarmi questo passaggio? «Certamente. Dal giorno che mi sono creata quella famosa nappa che mi serviva... ho iniziato a produrre piccoli accessori per la casa e la persona». Da lì ha creato una linea d’accessori? «Esattamente! Dedicandola al mio primo adorato fox terrier, che si chiamava Dream, la chiamo “Little Dream by Jurema Balma”. Ed inizio a produrre piccoli accessori fatti a mano, da me stessa. Inizio a lavorare da sola, partendo da diversi tipi di nappe e fiocchi per la chiavi dei mobili. Può vedere le mie creazioni sulla mia Pagina Facebook “Jurema Balma”, che è ora il nome della Linea».
Quindi non più “Little Dream by...”? «No. Ora esco come Griffe, con il mio nome. E tutto quello che vedrà sulla Pagina Facebook è tutto realizzato a mano da me. Propongo piccoli oggetti ma che in casa si fanno molto notare! Utilizzo materiali poveri come corde, qualsiasi tipo di cordame con varie sezioni di grandezza, oppure iuta, creando prima la forma per poi accostare decorazioni: perline di murano, di vetro, piccoli swarovski, coralli, conchiglie. Normalmente realizzo tre diverse misure, in grandezza. Così, ad esempio, la nappa grande può diventare un embrasse per tende. Il tutto partendo da zero: intrecciando, cucendo, rifinendo... mi diverto molto. è il mio hobby passionale!». Ma è anche un impegnativo lavoro di precisione! Estrema precisione e dedizione! «Certo che sì! Guardi, quando vedo una dicitura “fatto a mano” apposta su di un oggetto cucito a macchina, provo vero fastidio! Io realizzo tutto davvero a mano, da sola, dalla base alla realizzazione finale! E mi riscalda il cuore l’idea di creare oggetti senza tempo, che niente e nessuno lega ad un genere stilistico: può inserire le mie creazioni nell’antico come nel moder-
nissimo! Calibrando, ovviamente la giusta dose con gusto. Con il mio background accademico, io antepongo sempre prima, davanti a tutto, l’estetica: mai esagerare, non appesantire, ma sempre usare il gusto, essere leggeri. Ad esempio, per le porte di casa... ogni porta può avere un colore». Mi sta molto incuriosendo. Andrò certamente a consultare la sua Pagina Facebook. Produce anche altri complementi? «Sempre per la casa, negli anni, mi è esplosa questa passione per un tessuto francese che trovo strepitoso, elegantissimo: la Toile de Jouy. Ottimo cotone, nasce in una fabbrica fondata nel 1760 dal tedesco Christophe Philippe Oberkampf in un paese che si chiama Jouy-en-Josas, nel dipartimento degli Yvelines, regione dell’Île-de-France poco a sud di Versailles. Generalmente monocromatico di base con donnine o temi orientali intessuti in contrasto di colore, quando arriva tra le mie mani io inizio a ricamarlo! Con ago e filo, e tutta la gamma possibile di colori, però... inventandomi un punto di ricamo: come usassi un pennello per dipingere! Ovviamente mettendo il colore solo ove lo richiede il mio “occhio scenografo”, il mio senso estetico. Magari ripassando, ribattendo a ricamo alcune parti per evidenziarle... e doppiando il retro per non lasciar “fili in libertà”! Tramite nastri di Gros Grain, questi quadri possono vestire i normali cuscini: li ho definiti infatti “Abiti per Cuscini”. E consiglio sempre di vestire cuscini non bianchi, ma fantasia, per raggiungere la massima resa di bellezza e di sofisticatezza. Diventano in realtà microscenografie!». E poi realizza accessori per la persona, vero? «Produco bracciali, braccialetti, collane e cinture. Sempre nello stesso stile, diciamo. Ed ho inserito anche una produzione su ordinazione che riguarda gli eventi: bomboniere, porta-bouquet con intrecci in
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“Abiti per Cuscini” : una creazione di Jurema Balma
«Quando vedo una dicitura “fatto a mano” apposta su di un oggetto cucito a macchina, provo vero fastidio!» organza, che è una tradizione riscoperta dal passato, i lega-tovaglioli per la tavola degli sposi e... “vesto” anche i confetti! Cucendoli nel tulle!». di Lele Baiardi
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RIVANAZZANO TERME
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Elezioni 2022: «Sarò certamente in campo e come rappresentante di una parte politica ben definita» Le larghe intese a volte funzionano, altre un po’ meno. Nel calderone del “un po’ meno” ci buttiamo dentro Rivanazzano Terme, dove il “cerchiamo di convivere per il bene del paese” - tacito accordo tra il consigliere Stefano Alberici e la Giunta Poggi - è arrivato al capolinea. Qualche sentore che non fossero tutte rose e fiori c’era, Stefano Alberici aveva già manifestato una certa insoddisfazione sull’operato della Giunta per la mancanza di un reale e costruttivo confronto tra le parti. Oggi il consigliere, segretario del circolo PD di Rivanazzano Terme, Godiasco Salice Terme e Retorbido, è uscito dalla maggioranza rimettendo le proprie deleghe al sindaco. Nessuna sceneggiata, il tutto è passato in assoluta riservatezza, ma ora Stefano Alberici - vuoi tirato un po’ per la giacchetta da Marco Largaiolli in un’intervista proprio da queste pagine - spiega la sua decisione, una decisione coerente con quanto sostenuto in tempi non sospetti, era il 2019 quando intervistato dichiarò: «Il nostro obiettivo a livello locale è quello di realizzare un programma condiviso. Sarei a disagio se non dovessimo realizzare, ad esempio, la raccolta differenziata o a garantire ai nostri concittadini standard qualitativi dei servizi». Uno dei principali motivi di lasciare la maggioranza sta proprio in queste poche righe. Ne parliamo con Stefano Alberici Alberici lei è uscito dalla maggioranza restituendo le deleghe a lei assegnate nello specifico al ciclo integrato dei rifiuti, alla pubblica istruzione, ai rapporti con le associazioni, alle politiche giovanili e alla mobilità sostenibile. Decisione maturata senza dare troppa visibilità. Ci spiega i motivi? «Ritengo intanto che sia giunto il momento di spiegare il perché e per farlo è necessario fare un passo indietro e ribadire il perché sono entrato a far parte di questa amministrazione. Dopo aver maturato dei punti condivisi, entrando ero consapevole di non essere l’aspetto preponderante, così come ero ben conscio che sarei dovuto scendere a qualche compromesso, ma il mio intento era quello di portare a casa qualche risultato che mi sarebbe stato impossibile raggiungere se seduto tra le fila dell’opposizione». è riuscito nel suo intento? «Purtroppo no. Dopo due anni e mezzo delle premesse iniziali di rinnovamento e delle speranze di rilancio del paese non vi era traccia. Mi sono reso conto che è mancata la capacità e/o la determinazione di scelte coraggiose e importanti. Tutto sembrava filare sul non scombinare equilibri e sul non mettere nulla in discussione. Forse è questo a cui si riferisce Largaiolli quando dice che il problema sono io che non mi sono inserito in un gruppo coeso e con dinamiche ben precise, ma quello non era il mio scopo».
Stefano Alberici
Che responsabilità si dà nel non aver raggiunto il risultato? «Per quanto concerne le mie deleghe posso dire di essermi impegnato a fondo, andando anche oltre le mie prerogative come la definizione di un nuovo regolamento che contrasti la ludopatia. Con la scuola il rapporto è stato sempre ottimo e collaborativo e per questo devo ringraziare le dirigenti scolastiche la dott.ssa Panza e la dott.ssa Bobba sia nell’affrontare le emergenze (alluvione e Covid) sia nel condividere progetti (raccolta rifiuti, giorno della memoria, progetti con le associazioni, progetto “senza Zaino” e altri che erano in fase di realizzazione, come le Energiadi). Ma la nota dolente è senz’altro la raccolta dei rifiuti che a Rivanazzano Terme partiva da percentuali bassissime (30%) segno di scarsa attenzione negli anni precedenti. Devo ammettere che non sono riuscito a creare le condizione perché questo fosse il punto qualificante del nostro mandato. Scelte tardive e poco incisive, questioni burocratiche e l’arrivo della pandemia non possono essere scusanti al fallimento. È mancata, di nuovo, la volontà del gruppo di perseguire un obiettivo così importante. Sicuramente ci sono carenze di regolamentazione regionale e della incapacità di ASM e della precedente Amministrazione di Voghera di essere capofila di un progetto industriale unico per tutti i Comuni Soci, ma il problema non è mai stato percepito come fondamentale e ne consegue che anche attività di controllo e sanzione dei comportamenti scorretti sono venute meno». Lei parla del suo limitato peso politico che tradotto potrebbe anche dire poca autonomia nelle decisioni, è così? «Il messaggio, con il tempo, è diventato fai quello che devi fare e non andare oltre. Se devi cambiare una lampadina alla scuola non c’è problema ma per tutto il resto era necessaria sempre l’approvazione e il controllo di altri. Questo è stato un ulteriore segnale della mia inutilità all’interno della macchina amministrativa e non avendo io ambizioni particolari mi sono sentito fuori posto».
Largaiolli ha commentato la sua scelta dicendo: «Il nostro gruppo veniva da dieci anni di buona amministrazione e ha ben volentieri accettato l’ingresso di chi poteva collaborare fattivamente. Questo, però, non poteva portarci a snaturare le nostre caratteristiche e le nostre peculiarità... La nostra impressione era che la pensasse così anche Stefano Alberici, che, comunque, nel corso degli ultimi Consigli Comunale, non ha dato segnali diversi». Cosa replica? «Mi vien da dire all’amico Marco Largaiolli che se è come dice lui che sintetizzato è “non ti sei inserito in un gruppo già preesistente e coeso”, mi pare un pensiero limitante e ingeneroso, e mi viene da dire allora che se tutto andava così bene come mai la Giunta ha dato le dimissioni sfiduciando il sindaco, il tutto in sordina e facendo rientrare l’allarme in 48 ore? Come se lo spiega? Già in quell’occasione per me quell’amministrazione non aveva più senso di esistere, si è provato a rilanciare, ma la situazione è andata sempre più peggiorando. Il fatto di non aver concluso un granché a metà mandato, ingabbiati in un immobilismo pressoché totale mi ha portato a decidere che per me quel tipo di esperienza era finita». Come è peggiorata questa amministrazione dal suo punto di vista? «Sono i fatti a parlare. Il paese sembra “abbandonato”, non gestito. Si affrontano solo le emergenze ma non c’è visione e prospettiva, la comunicazione è assente e ogni iniziativa , quando qualcuno la propone, è preda di totale immobilismo. Sembra mancare la voglia di prendersi cura e tutto viene, se possibile, rimandato a tempi migliori. Inoltre la presenza del sindaco è inesistente». Quali sono le maggiori criticità dal suo punto di vista? «Mi spiace sempre contraddire l’amico Largaiolli, ma la viabilità, ad esempio, è insoddisfacente: accessi incontrollati, gli attraversamenti pedonali anche se migliorati rimangono inadeguati, parcheggi non regolamentati nella maniera corretta che così come sono strutturati non possono aiutare i commercianti». In che senso? «Nel senso che, come dicevo manca una visione delle esigenze e dei problemi che il nostro Comune dovrà affrontare nei prossimi anni. Occorre ripensare totalmente la viabilità, il centro del paese deve essere più vivibile con più aree pedonali e verdi e con parcheggi veramente a tempo ad uso dei clienti dei negozi. Bisogna ricercare nuovi parcheggi per i periodi estivi di maggior necessità. Un’esigenza imprescindibile è provare a coinvolgere il Comune di Voghera, la Provincia e Confindustria per valutare la possibilità di realizzare un percorso alternativo a servizio della zona industriale».
Cosa ne pensa dell’operato dell’attuale sindaco? «Poggi se voleva dimostrare qualcosa in più, poteva farlo ma non mi pare che l’abbia voluto fare. Poggi è diventato sindaco perché la legge impediva il terzo mandato a Ferrari, normativa curiosa se non inutile. Romano Ferrari ha voluto l’accordo con me, pertanto io lo riconosco come mio unico interlocutore». Rimesse le deleghe e lasciata la maggioranza, il suo ruolo ora è quello di fare un’opposizione serrata? «Assolutamente no. Non è che ora che sono uscito dalla maggioranza voto contro a priori e su ogni tema, anzi ho votato contro solamente al compenso dei consiglieri comunali ma soprattutto a quello del presidente del consiglio, che ha un certo peso economico. Penso anche che il compenso complessivo della Giunta pari ad 87mila euro l’anno sia troppo elevato. Lo prevede la legge e non è un’invenzione di Rivanazzano per carità, ma credo che, se si vuole si possono trovare forme per “restituire” alla collettività questa somma. Un po’ di volontariato di questi tempi non guasterebbe». Prossime elezioni, si ricandiderà? «Sarò certamente in campo personalmente e come rappresentante di una parte politica ben definita. Il Pd ci sarà con le proprie idee e con il proprio gruppo ma aperti ad ogni confronto. Saremo promotori di un tavolo che raggruppi più possibilità e più persone, che, in linea di massima, siano in quell’area ma non escludiamo altre intese». Neppure con Ferrari? «Non sono nessuno per mettere veti. Indubbiamente c’è stata una storia che ha pesato sia da una parte che dall’altra. Ovviamente con prerogative differenti, la prima è che ci deve essere un tavolo alla pari per un confronto serio. Non rientro “uguale” in un gruppo da cui sono uscito, non ha prodotto nessun risultato sarebbe un errore riproporre tutto uguale». Siete in fermento per la formazione di un’eventuale lista? «Certamente è doveroso e le posso dire che sarà una lista il più possibile inclusiva, come non abbiamo avuto problemi ad “accettare” nella lista precedente una volta che la lista era già stata chiusa – la Lega, nella figura di Alice Zelaschi – e nell’eventualità non avrei oggi nessuna difficoltà nel mettermi al tavolo con Romano Ferrari o con Giovanni Palli. L’idea è di fare una lista per amministrare il paese e non una lista politica. E su questo posso dirle che non arriveranno veti neanche dall’interno del partito con il quale comunque sempre mi sono confrontato e sempre mi confronterò».
di Silvia Colombini
GODIASCO SALICE TERME
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Il Golf Club si prepara per la stagione estiva: nuove strutture per nuovi sport Una stagione difficile per gli imprenditori salicesi che dopo un anno dalla prima ondata legata alla pandemia, si ritrovano più o meno nella stessa situazione e l’incertezza la fa da padrone. Ma essere imprenditori è anche questo, essere audaci e provarci sempre e comunque. La pensa così Alessandro Meisina, imprenditore del settore turistico in quel di Salice, gestore del variegato complesso denominato Golf Club: piscine, campi da golf, ristorante e varie attività sportive connesse. Con lui parliamo della ripartenza, perché è ora di pensare e agire se si vuole essere pronti quando la stagione inizierà, questo sempre “facendo le corna” al Covid-19. Meisina prima di parlare di futuro uno sguardo al passato. Una stagione quella passata certamente difficile per il suo settore. è andata così male? «Già il fatto di essere riusciti ad aprire i primi di giugno e non vedere quindi l’intera stagione compromessa è stato un segnale incoraggiante. Con tutte le restrizioni imposte e partendo un po’ in ritardo certamente non è stata una stagione al 100% a livello di affluenza, ma essendo riusciti a contenere i costi possiamo dire di esserne usciti “indenni” con una stagione accettabile. Nessun guadagno ma zero perdite. Questo se parliamo delle piscine e delle attività connesse, se parliamo del ristorante… bè quella è un’altra storia». Parlando della passata stagione, alla riapertura, ha avuto la percezione che la gente avesse voglia di uscire e distrarsi dopo il lockdown? «Assolutamente sì, i nostri affezionati clienti ma anche tanti nuovi e di passaggio, avevano una gran voglia di un po’ di normalità, anche se all’epoca regnava ancora un forte senso di incertezza e paura legata alla pandemia. Tante famiglie hanno preferito mete più isolate rispetto al Golf proprio per la paura di contrarre il virus». Tra poco più di tre mesi se tutto va come deve andare ripartirà la stagione. Qual è il suo sentore sull’affluenza. Ci sarà ancora paura? «Credo che oggi a distanza di quasi un anno questa voglia superi di gran lunga la paura e la speranza per tutti è di affrontare una stagione che si presenti più rassicurante, anche se sono certo che le restrizioni non mancheranno, ma con il buon senso e rispettando le regole credo che si possa passare una stagione positiva per noi gestori e per i nostri clienti». Riaprirete con la stessa tipologia di servizio o ha qualche nuova idea che intende mettere in campo? «Le idee sono tante e alcune di queste posso già dire che – anche grazie all’aiuto di un gruppo di amici imprenditori – verran-
no già concretizzate a partire da quest’anno. La prima novità assoluta è la riqualificazione dell’area oggi adibita a campi da calcetto, ormai obsoleti, e che negli ultimi anni è stata un po’ abbandonata a se stessa sia dal punto di vista della cura che della gestione. L’area verrà completamente riconvertita per altre attività, certamente più adeguate al momento e alle restrizioni che anche in ambito sportivo non mancano». Via i campi da calcetto e al loro posto? «Allestiremo un campo regolamentare di Paddle, lo sport del momento diventato di gran moda in tutto il mondo perché praticato da Vip e calciatori. Il suo successo è dovuto anche al fatto di avere costi bassi per i praticanti ed anche per il mantenimento dei campi da gioco e l’essere di facile apprendimento. Il Paddle tennis è lo sport ideale per chi vuole mantenersi in forma o trascorrere il tempo divertendosi insieme ai propri amici. Il campo è un rettangolo di 10 metri di larghezza per 20 metri di lunghezza con una rete nel mezzo e quattro pareti che circondano l’area di gioco. Si gioca in doppio, anche misto, con una racchetta a piatto pieno e bucherellato e una pallina che, come quelle da tennis, può avere differenti livelli di pressurizzazione per favorire i rimbalzi». Pensa che in Oltrepò possa avere lo stesso appeal che ha nel mondo? «Assolutamente sì. In Oltrepò al momento esiste un solo campo adibito a questa disciplina e so per certo che è sempre pieno e quasi impossibile poter giocare se non si prenota con largo anticipo. La domanda c’è e l’offerta al momento è insufficiente, quindi dico perché no?». Chi potrebbero essere i possibili fruitori, al Golf Club di questi campi? «Tutti i nostri già clienti. è uno sport facile, divertente e che appassiona. Nulla a che vedere con il tennis sia come regole che come impegno fisico e come tecnica. Inoltre sarà sempre presente un istruttore qualificato disponibile ad insegnare la disciplina». Paddle e poi? «Ci sarà un campo dedicato al Pop Tennis, sport prettamente americano che in Europa viene praticato solo in Francia. Questa è una gran scommessa proprio perché è uno sport sconosciuto in Italia, anzi credo che il nostro sarà il primo campo di Pop Tennis che sorgerà in Italia. È l’ultima moda sportiva arrivata da oltreoceano. In questo caso il campo da tennis di misure ridotte (7 metri per 6) non è circondato da pareti e si gioca con una palla da tennis depressurizzata. La forza del Pop Tennis è che si adatta davvero a tutti, mentre il Tennis e il Paddle richiedono sforzi che possono causare infortuni soprattuto a sportivi non più giovanissimi e inoltre “i punti”
Alessandro Meisina
in queste specialità possono durare molto richiedono quindi un certo allenamento, il Pop è, invece, divertimento puro...». Scelta coraggiosa «Abbiamo lo spazio già pronto, quindi non sono necessari grossi interventi, se non di delineare i campi. Per cui l’investimento è davvero alla portata». Per quanto riguarda le piscine – pur capendo che già i costi di manutenzione sono molto elevati – avete programmato ulteriori interventi? «Per quanto riguarda le piscine – intese come spazio acqua – no, ma andremo a riqualificare interamente la zona adibita a spogliatoi e a servizi igienici. Intervento che avevamo già in programma lo scorso anno e che sappiamo essere molto a cuore ai nostri clienti – ma che a causa dell’emergenza sanitaria, abbiamo dovuto necessariamente rimandare». Come sfrutterete queste novità? «Ampliando gli orari di apertura e di fruibilità al pubblico. Questo certamente per gli sport: Paddle, Pop Tennis e Beach Volley. La nostra idea è di far giocare le persone anche in notturna, abbinando la possibilità di poter usufruire della piscina, ovviamente non saranno aperte tutte e tre le vasche, ma quella inserita nell’area benessere, dove una volta sorgeva la discoteca tanto per intenderci. è un’area che si presta particolarmente a questo tipo di apertura serale, avendo una piazzetta piuttosto spaziosa ed un bar annesso. Inoltre abbiamo in atto una partnership con la palestra di Rivanazzano per allestire proprio in questa zona un “angolo” dedicato agli attrezzi, questo anche perché le previsioni di apertura delle palestre non sono ad oggi chiare e in più si è già parlato di una riapertura solo all’aperto, almeno all’inizio».
Parlando invece dell’area dove oggi c’è il beach volley e che è un po’ il “covo” dei ragazzini che si ritrovano per giocare a calcio tennis o a teqball, ha in mente qualcosa? «Le strutture esistenti verranno mantenute tali, in particolare grazie alla collaborazione con il Derthona Basket, prevediamo che il campo da basket verrà adibito allo Street Basket – 3 contro 3 – brandizzato Derthona dove la prima squadra e il settore giovanile potranno sfruttare lo spazio come quartier generale per allenarsi oltre ovviamente ad esser aperto a chiunque voglia giocare». I bene informati ci dicono però che il suo sogno nel cassetto è un altro… «Sì, portare al Golf un simulatore di guida. Esistono simulatori di guida di pista o di rally, ma essendo noi oltrepadani popolo di appassionati rallysti, mi piacerebbe poter simulare il mitico Rally 4 Regioni oppure per i più giovani, l’altrettanto famoso Beta Rally. Sarebbe un modo per far tornare a parlare di rally in Oltrepò». Prima di essere imprenditore lei è stato un “buon” tennista. Pensa che all’interno delle varie attività sportive che state allestendo oltre all’aspetto ludico sia possibile organizzare tornei o competizioni un po’ più impegnate? «Certamente, l’idea è anche quella, sulla falsa riga dei tornei organizzati gli scorsi anni per il Beach Volley. All’interno di ogni settore sportivo ci sarà un professionista che seguirà questo aspetto». Si potrebbe fare lo stesso – organizzare una sorta di torneo – utilizzando il simulatore? «Perché no. Esistono già piattaforme on line dove ci si può iscrivere sia per allenarsi che per gareggiare. Si potrebbe intraprendere una partnership con i numerosi piloti locali – che certamente visto il fermo imposto – avranno una gran voglia di correre e con le scuderie locali e se non sarà possibile simulare tutte le tappe del mitico 4 Regioni, almeno la più rappresentativa, la mitica Ronde di Cecima». Abbiamo parlato di tanto e tutto, ma il golf, che rimane sempre e comunque la vostra attività più identificativa, come sta andando? «è la nostra principale attività che non si è mai fermata. Abbiamo riconfermato un calendario gare degno di nota, aggiungendone di nuove, il che mi fa ben sperare». Il ristorante “9 Buche” riaprirà? «Avremo un cambio di gestione al ristorante, abbiamo trovato un professionista del settore che credo apporterà un grande beneficio». di Silvia Colombini
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GODIASCO SALICE TERME
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Martino Midali: «Qui ho trovato la mia “oasi felice”» Tra le conseguenze del lockdown si può notare l’abbandono delle grandi città, determinato dalla rivoluzione del lavoro a distanza, che ha spinto molte persone a lasciare gli affollati centri urbani per iniziare una nuova vita immersi nella natura. La diffusione dello smartworking ha infatti reso possibile mantenere una professione in città, trasferendosi con la famiglia per periodi più o meno lunghi nelle seconde case, al mare, in montagna o in campagna con una qualità più alta della vita. Vivere immersi nella natura presenta innumerevoli vantaggi e benefici in termini di salute fisica e mentale, ritrovando uno stato di benessere interiore. L’Oltrepò pavese è stato molto gettonato in questo periodo, grazie alla sua vicinanza a Milano ha offerto ampi spazi di natura incontaminata e piccoli borghi dove trascorrere momenti rilassanti lontani dallo stress cittadino. Sono molti i personaggi del mondo dell’imprenditoria, della moda e dello spettacolo che hanno scelto da tempo come “buen ritiro” il nostro territorio. Lo stilista Martino Midali ha scoperto qualche anno fa Salice Terme e si è talmente affezionato a questo luogo da decidere di comprare una casa in mezzo al verde dove trascorre lunghi periodi con il marito per ricaricarsi a un tiro di schioppo da Milano dove è a capo di un’azienda con 200 dipendenti e 60 negozi in Europa. E in questa casa mi ha accolto con grande gentilezza e disponibilità per una chiacchierata amichevole spaziando dalla moda all’ambiente. Martino Midali, stilista dell’omonimo brand di moda, conosciuto per i suoi colori accesi e la vestibilità e comodità delle sue linee, uno degli alfieri del made in Italy nel mondo, come mai ha scelto Salice Terme per trascorrere gran parte del suo tempo libero? «Ho da molti anni alcuni amici qui a Salice con i quali trascorrevo spesso il weekend per la comodità, a due passi dalla città e poi perché ritengo che questo luogo sia un’oasi con una qualità dell’aria incredibile. Milano è una città meravigliosa per lavorare ma viverci tutta la settimana è pesante per il clima, l’inquinamento, lo stress del lavoro e, ad un certo punto, ci si deve sentire liberi per ricaricarsi. Ecco, io a Salice mi sento libero, il verde intorno mi dà un grande senso di pace e di sicurezza, mi sento connesso con la natura. E poi la gente è accogliente, i prodotti del territorio sono fantastici, dal salame al vino, nei ristoranti si mangia cibo genuino, insomma la qualità della vita è davvero buona». Non trova che ultimamente, con la chiusura delle Terme, Salice abbia perso un po’ del suo appeal turistico? «Certo che quando venivo qui a trascorrere il weekend a casa della mia amica e le Terme erano aperte, c’era molta più gente.
Speriamo che al più presto Salice riesca ad avere ancora un suo stabilimento termale, sarebbe ancora un bell’indotto per il turismo, e riesca a ritornare agli antichi splendori, però ci sono le piscine, c’è il golf, c’è la possibilità di fare passeggiate in mezzo alla natura dove si incontrano spesso e volentieri i caprioli. Pensi che mentre a Milano mi sveglio alle 6, qui riesco a dormire fino alle 8.30, a volte anche alle 9. Sono rilassato e sereno. Ho trascorso tutto il lockdown qui e sono stato benissimo. Conosco molte persone che si sono ritirate qui in smartworking. E poi Salice è un po’ il mio luogo del cuore perché mi sono sposato qui, in comune a Godiasco, penso sia stato il primo matrimonio gay di questo luogo. Ho anche un’amica che vive a Miami e verrà a Salice quest’estate e penso che lei possa portare un po’ di turismo americano qui da noi. Le dirò di più, ho una casa a Nizza sul mare dove non vado quasi più da quando ho comprato questa casa a Salice. Sono felice quando sono qui». Lei è nato e cresciuto a Milano? «No, io sono nato in un piccolissimo paese, Mignete, frazione di Zelo Buon Persico a venti chilometri da Milano ma in provincia di Lodi, in campagna, dove mio padre aveva una piccola azienda agricola. Ho frequentato la scuola media a Lodi ed ho iniziato giovanissimo a 16 anni a lavorare a Milano, facevo il centralinista in un’azienda di mio zio e continuavo a studiare la sera, anche se mio padre voleva che rimanessi nell’azienda di famiglia. Era la fine degli anni ’60 e io sentivo l’esigenza di rendermi indipendente e staccarmi dalla mia famiglia, un classico della mia generazione. Sognavo un lavoro che mi divertisse e che non mi pesasse mai e così mi sono identificato nel mio lavoro attuale che è la moda. Il tutto è iniziato negli anni ’70 quando a Milano c’era un grande fermento in questo campo ed io ho sviluppato la passione che ho sempre avuto per l’abbigliamento finché si è trasformata in vero e proprio lavoro. Ho sempre molto amato i tessuti e i colori e dalle prime t-shirt, che ho creato con stampe appartenenti alla mia cultura stile “Andy Warhol”, sono arrivato agli inizi degli anni ’80 a fondare la mia azienda, la “Martino Midali” che ha ora 50 boutiques in Italia». Qual è stato il segreto del suo successo? «Sono stato il primo stilista a dire ai fabbricanti che c’era bisogno di avere dei tessuti che fossero in qualche modo elasticizzati, per seguire meglio le linee del corpo e dare la possibilità alla donna che lavora di essere più comoda e libera. La seconda lotta che ho fatto è stata quella di fare in modo che i tessuti utilizzati potessero essere lavati in lavatrice senza che si sciupassero e non soltanto a secco.
Martino Midali, stilista dell’omonimo brand di moda, ha scelto Salice Terme per trascorrere gran parte del suo tempo libero Per una donna negli anni ottanta “vestire Midali” voleva dire essere parte di un modo tutto nuovo di sentirsi tale e, da allora, le mie proposte sono riuscite a soddisfare le clienti che volevano una moda semplice ed elegante, che le facesse sentire a proprio agio». In questo periodo di pandemia si è visto un cambiamento nelle vendite, molti, soprattutto i giovani, con i negozi chiusi, si sono rivolti principalmente ad acquisti online, che ne sarà dei negozi nelle città? «Sicuramente il coronavirus ha segnato un cambio. Un cambiamento che porterà gli esseri umani a fare delle riflessioni sulla propria vita Non era mai successo nella mia vita di stare fermo per mesi e ho scoperto un mondo di tanti valori anche senza il lavoro Sicuramente, per quanto riguarda la moda, ci sarà un “dopo”. Dobbiamo essere pronti a capire i nuovi input che la società ci dà, ci ha già dato e ci darà in futuro per poter poi adeguarci e dare al pubblico quello di cui avrà bisogno dopo questa pandemia. Credo che, essendo una persona che ha sempre vissuto nella moda con i propri sentimenti e col proprio cuore, ci possono essere già delle valutazioni che sono le mie. I negozi dovranno essere sempre più vicini alle clienti con un servizio eccellente e qui deve tornare in gioco la vecchia mentalità del negozio nel quale il cliente possa sentirsi completamente a proprio agio e, perché no, coccolato. Fissando appuntamenti e dando il massimo alla clientela che ha bisogno di tornare alla normalità. Devo riconoscere all’e-commerce il merito di aver fatto conoscere le mie creazioni all’estero ed in questo periodo l’uso della tecnologia
mi ha permesso di presentare le collezioni in modo digitale in tutto il mondo. Penso che ormai il pret à porter di alto livello abbia dei prezzi inaccessibili ed io ho cercato di trovare un prodotto con un buon rapporto qualità - prezzo in grado di soddisfare al meglio la clientela, fidelizzandola. Secondo me la gente si è un po’ stancata degli Outlet e dei grandi centri commerciali. Ero presente con un negozio a Serravalle ma l’ho chiuso ancora prima che iniziasse la pandemia». Ci sarà quindi una rinascita dei centri storici con le boutiques locali? «A mio parere ci sarà grande sofferenza per i marchi che producono abbigliamento a poco prezzo, sono troppi, con cambi continui di linee che portano anche ad affrontare la questione dello smaltimento di tutta la grande quantità di merce con conseguente inquinamento ambientale. Con questa pandemia le persone hanno iniziato a rendersi conto che non devono più correre in modo così frenetico, non devono pensare solo all’aspetto fisico ma prendersi cura anche del loro intelletto. Sarei molto contento se dopo la pandemia ci fosse una rivalutazione dei centri storici, con la presenza di molti negozi che seguono il cliente come piace fare a noi già da molto tempo. Sono una persona che ama ancora tantissimo il suo lavoro e penso di avere ancora qualcosa da dare alla moda. Credo che le persone che dovranno iniziare l’attività in questo settore avranno delle difficoltà e dovranno trovare delle nuove strategie e rendersi conto che bisogna rallentare e dare alle cose il giusto valore». di Gabriella Draghi
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febbraio 2021
«Continueremo ad essere una delle più piccole DOP di salumi, conciliando al meglio quantità e qualità» Il salame di Varzi è sinonimo di qualità che noi oltrepadani in primis, ma anche tanti buongustai oltreconfine, abbiamo imparato a riconoscere e apprezzare. Acquistando un salame di Varzi sappiamo di mettere in tavola un prodotto che porta con sè storie di territori, di persone e del “saper fare”, che sono poi la nostra storia, quella delle nostre origini e del nostro futuro. Abitare in Oltrepò ha molte sfaccettature alcune positive ed altre negative, tra quelle positive c’è senz’altro l’arte di saper “produrre” buon cibo, conservando le tradizioni, ma anche cercando di migliorarlo sempre. Il salame di Varzi, per tradizione e storia, è un esempio illuminante di questa storia oltrepadana. Il salame di Varzi è un mondo bellissimo ma anche complesso ed in continua evoluzione, che vale la pena conoscere. E allora scopriamone di più parlandone con Fabio Bergonzi, presidente del Consorzio di Tutela del Salame di Varzi. Presidente gli ultimi dati pubblicati e relativi al 2019 hanno visto un incremento rispetto all’anno precedente della produzione di salame di Varzi. Sono stati prodotti 564.774,62 kg di Salame di Varzi DOP (+12,5% rispetto al 2018) pari a 607.515 salami certificati. Cosa ci può dire del 2020? Stesso trend in crescita? «Continua il trend di crescita registrato negli ultimi anni infatti, nel 2020, abbiamo certificato 634.000 salami con una crescita del 4% rispetto all’anno precedente. Questo conferma che un pubblico sempre più ampio apprezza il nostro prodotto». Annata certamente difficile e non ancora purtroppo conclusa a causa della pandemia. Quali sono state e quali sono le problematiche riscontrate dai produttori del Consorzio e legate all’emergenza sanitaria? «è stato, e continua ad essere, un anno difficile, caratterizzato da un andamento della richiesta molto altalenante e poco prevedibile. Chiaramente non riuscire a fare previsioni sulle vendite, per un prodotto che prevede una lunga stagionatura, può portare come conseguenza quella di avere periodi con eccedenze produttive alternati a periodi in cui non si riesce a soddisfare tutte le richieste. Il settore della ristorazione ha sofferto e continua a soffrire tanto, mentre negozi di vicinato, salumerie e grande distribuzione in alcuni casi hanno registrato incrementi di vendite». Sempre basandoci sui dati ufficiali del 2019, si segnalava un incremento anche dell’affettato rispetto al 2018 con una crescita notevole pari ad un +158% rispetto all’anno precedente con 197.475 confezioni di prodotto vendute.
Stessa sorte per il 2020? «Sì, l’affettato è cresciuto molto, anche come conseguenza dell’emergenza sanitaria che ha portato tanti consumatori a preferire l’acquisto di prodotti pre-affettati. Basti pensare che nel 2020 sono state prodotte e commercializzate 451.807 confezioni». L’aumento significativo della vendita di affettato dimostra che questa tipologia di servizio piace al consumatore. Ma il salame di Varzi venduto affettato ed in vaschetta non potrebbe “perdere” le sue qualità a livello di sapore e di profumo? «Questo trend è generalizzato e riguarda tutte le tipologie di salumi, anche quelli di altissima qualità come il nostro, è un servizio che piace al consumatore per la sua praticità. La tecnologia ha fatto grandi passi in questi anni ed oggi permette di conservare inalterate le caratteristiche del prodotto per diverse settimane». Dato per certo che i numeri di produzione del Salame di Varzi sono in costante aumento, come si riesce a coniugare quantità e qualità? «Siamo e continueremo ad essere una delle più piccole DOP di salumi in Italia, conciliando al meglio quantità e qualità. La crescita che stiamo avendo ci rende molto orgogliosi perché ha valore doppio, infatti in Italia il consumo pro capite di salame sta diminuendo, mentre il salame di Varzi cresce, a conferma del fatto che il Consorzio ed i produttori stanno lavorando bene, il nostro salame viene apprezzato da un numero sempre maggiore di estimatori in tutta Italia ed anche all’estero. Il lavoro che stiamo facendo, porterà benefici non solo ai produttori, ma anche al nostro territorio in termini occupazionali e turistici». In questa direzione il disciplinare - che dà le indicazioni e i requisiti in ogni fase di produzione - andrebbe modificato? Se sì quali modifiche andrebbero apportate? «è in corso una procedura per modificare il disciplinare, la variazione più importante è quella di classificare le varie categorie di salame in base al calibro e non in base al peso come avviene oggi, rendendo così il parametro più preciso, inoltre presso i macelli sono variati parametri di classificazione della carne ed è necessario un nostro allineamento. Sono modifiche molto tecniche, non avranno nessun effetto sulle caratteristiche del prodotto». Il disciplinare dà paletti ben precisi riguardo gli allevamenti, la preparazione dell’impasto e le pezzature. Questo dovrebbe allineare i costi sostenuti dai vari produttori. Come si spiega allora – soprattutto nella grande distribuzione – la disparità significativa (in alcuni
Fabio Bergonzi, presidente Consorzio di Tutela del Salame di Varzi
«è in corso una procedura per modificare il disciplinare, la variazione più importante è quella di classificare le varie categorie di salame in base al calibro e non in base al peso come avviene oggi» casi anche di 8/10 euro al kg) di costo al pubblico? «Premesso che il Consorzio non può e non deve occuparsi del prezzo, che è frutto delle regole del libero mercato, non mi risulta comunque che ci siano prodotti in vendita a cifre così basse. Resta il fatto che esisteranno sempre disparità perché non c’è solo il costo della carne a comporre il costo di produzione ma numerose altre voci che non sono uguali per tutte le aziende». Quanti sono ad oggi i produttori vostri associati? «In totale i produttori di Salame di Varzi DOP sono 12 di cui 9 aderiscono al Consorzio, in termini quantitativi, gli associati al Consorzio rappresentano il 99,% del totale della produzione». Non tutti i produttori di Salame di Varzi fanno parte del Consorzio. Perché secondo lei?
Questa non partecipazione quali problematiche causa? «Aderire al Consorzio credo sia il modo migliore per portare il proprio contributo di esperienze e di lavoro per svolgere al meglio le finalità di questo ente che sono: fare promozione, tenere i rapporti con le istituzioni ed il Ministero, tutelare il prodotto. Per favorire l’ingresso di tutti, 3 anni fa abbiamo ridotto sensibilmente le quote di adesione portando la cifra ad un valore quasi simbolico». Qual è, se c’è, la vostra strategia per accogliere tutti i produttori di Salame di Varzi all’interno del Consorzio? «è sempre presente tra i Soci l’apertura ad accogliere tutti i Produttori di Salame di Varzi, il lavoro ancora da fare è tanto ed il contributo di tutti è importante per noi. E’ una forma di condivisione delle conoscenze, di scambio di idee e di proposte, senza alcun tipo di competizione».
varzi Che risultati sta dando il progetto rivolto a sostenere gli allevamenti autoctoni di maiali al fine di rilanciare la filiera del salame di Varzi DOP rilanciando la linea del Salame “Cucito”, un prodotto artigianale d’eccellenza che ha subìto negli ultimi anni un autentico collasso? «Il primo risultato è stato quello di vedere che diversi allevamenti hanno aderito al progetto che noi come Consorzio appoggiamo da diversi anni. La proposta di salame di Varzi si arricchirà così di un prodotto in più che sarà il Salame di Varzi DOP cucito, fatto con carne proveniente da allevamenti del nostro territorio». è un obbiettivo perseguibile e potrebbe essere un valore aggiunto per il Salame di Varzi il fatto che per produrlo in futuro potrebbero essere utilizzati esclusivamente suini allevati in Oltrepò? «Non è realizzabile, l’allevamento suino è un’attività ad alto impatto ambientale, il territorio non sarebbe in grado di sostenere ed ospitare il numero di capi necessari per coprire l’intero fabbisogno. La carne che usiamo attualmente è di altissima qualità, sono suini pesanti provenienti da Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, la stessa carne che viene certificata e usata per i prosciutti di Parma». Con il nuovo sito web, la newsletter mensile e il lancio della pagina facebook avete intrapreso una nuova strategia di comunicazione. Quali sono i benefici e qual è l’obbiettivo commerciale che vi siete prefissati?
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«Sono diversi ed articolati i vantaggi ottenuti con lo sviluppo del nuovo sito. In particolare è stata migliorata la percezione della Brand identity e la sua visibilità sui motori di ricerca. Inoltre è agevolmente visibile su tutti i principali dispositivi mobili. Tutto ciò per intercettare ed avvicinare al prodotto un segmento di mercato costituito da un pubblico più giovane e attento, alla ricerca di prodotti di qualità. In questi mesi, grazie a questi strumenti, abbiamo registrato un numero di contatti molto alto». Da anni si parla di una fiera interamente dedicata al Salame di Varzi. Se ne parla, ma concretamente ad oggi nulla è stato progettato in questa direzione. Il consorzio intende portare avanti il progetto e realizzarlo? Se sì in che modo? «In realtà questo progetto, al quale teniamo molto, è già stato realizzato, infatti a maggio 2019 si è tenuta la prima manifestazione a Varzi totalmente dedicata al salame, con varie degustazioni nelle cantine storiche del paese e visita ai salumifici. L’intenzione era quella di creare un appuntamento fisso da ripetere ogni anno. Avevamo già a disposizione i fondi necessari per organizzare l’edizione di maggio 2020 e di maggio 2021, ma purtroppo l’emergenza sanitaria ci ha costretti ad annullarle entrambe. Speriamo vivamente di poter organizzare l’evento il prima possibile». I prodotti di punta dell’Oltrepò sono il vino ed il salame.
Le associazioni oltrepadane che si occupano di vino sono diverse ma la più omnicomprensiva è il Consorzio Tutela Vini Oltrepò. Esiste tra i due Consorzi, quello del vino e quello del salame una collaborazione? Quali risultati ha portato? Strategie future? «Abbiamo partecipato a diverse iniziative insieme, i rapporti sono ottimi ed il sodalizio ha dimostrato sempre di essere vincente». di Silvia Colombini
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«Utilizzare esclusivamente suini allevati in Oltrepò? Non è realizzabile»
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Cheap but chic: PIATTI GOLOSI E D’IMMAGINE CON I PRODOTTI DELL’OLTREPò
La “Bidrava”: dalle tavole dei contadini dell’Oltrepò alle cucine degli chef stellati RISOTTO ALLA BARBABIETOLA E CAPRINO
Ingredienti per 4 persone: 320 g di riso carnaroli 160 g di barbabietola rossa lessata a vapore 50 g. di burro brodo vegetale 100 g di formaggio caprino fresco 50 g di vino bianco secco qualche cucchiaio di latte sale alcuni gherigli di noce
Questo mese parliamo della barbabietola rossa, l’ortaggio che non mancava mai sulle tavole dei contadini dell’Oltrepò, la cosiddetta “bidrava” nel dialetto locale. Veniva consumata per lo più cotta in forno e condita in insalata, spesso abbinata per contrasto alla radice bianca amara. Mia mamma la preparava spesso in insalata aromatizzata con l’aglio ed io la detestavo per quel suo sapore strano e dolciastro quindi per anni non l’ho utilizzata in cucina. Ma si sa, i gusti, con il passare del tempo cambiano, si imparano nuove ricette e quindi, da qualche tempo, il consumo di barbabietole è aumentato in modo considerevole nella mia cucina. Inoltre la barbabietola è diventato un ortaggio molto amato dagli chef, non solo per il gusto deciso, ma anche per il colore rosso intenso che è ampiamente sfruttato in cucina, per rendere i piatti colorati e vivaci. La barbabietola rossa o rapa rossa è una delle tante varietà della barbabietola “Beta Vulgaris” ed è un ortaggio sotterraneo, originario dell’Africa del Nord. La semina della barbabietola avviene da marzo a ottobre, la raccolta inizia dopo
circa 90 giorni; molto diffusa è la conservazione industriale che la rende reperibile tutto l’anno, ma gennaio e febbraio sono i mesi in cui possiamo trovare questo ortaggio fresco e che arriva direttamente dall’orto. Pur essendoci diverse varietà, le barbabietole rosse hanno tutte le stesse caratteristiche nutrizionali. Sono ortaggi disintossicanti e depurativi, perché costituiti da un 90% di acqua con un basso apporto calorico che proviene soprattutto dagli zuccheri presenti. Buono è il contenuto di sali minerali come ferro, sodio, potassio, calcio, magnesio, fosforo. Sono presenti inoltre vitamine del gruppo B, folati, vitamina C e A. Questo ortaggio, tante volte sottovalutato, è definito un alimento nutraceutico, cioè una sorta di alimento-farmaco che apporta dei vantaggi alla nostra salute. Infatti la barbabietola è importante per il suo elevato contenuto di betaina, un composto che riduce l’accumulo di grasso nel fegato e lo protegge, riduce il colesterolo LDL e i trigliceridi, aumentando il colesterolo buono HDL.
Inoltre la betaina agisce anche a livello cardiovascolare, proteggendo il nostro sistema dalle malattie. Utilizzeremo la barbabietola rossa lessata per la nostra ricetta, un risotto molto colorato che mantecheremo con un formaggio caprino del territorio. Come si prepara: Prima di tutto togliamo la buccia alla barbabietola, la tagliamo a pezzetti e la frulliamo fino ad ottenere una purea liscia. In un tegame tostiamo ora il riso in pochissimo burro, lo bagnamo con il vino e lo lasciamo sfumare. A questo punto aggiungiamo un paio di mestoli di brodo e la purea di barbabietola. Mescoliamo e cuociamo per circa 11 minuti aggiungendo il brodo poco alla volta. Aggiustiamo di sale. Togliamo ora dal fuoco e mantechiamo con il burro, un cucchiaio di caprino e lasciamo riposare per 3 minuti coperto con il coperchio. Mettiamo il caprino restante in un tegamino con il latte e, a fuoco lento, mescoliamo finché non si forma una crema. Stendiamo ora il risotto nel piatto, versiamo la crema di caprino a spirale e decoriamo con dadini di barba-
bietola e gherigli di noce tritati. Un piatto molto gustoso e di grande effetto cromatico! You Tube Channel & Facebook page “Cheap but chic”. di Gabriella Draghi
VARZI
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Associazione Carabinieri: una preziosa opera di aiuto alla Comunità L’Associazione Nazionale dei Carabinieri ha una lunga storia, istituita nel 1886 a Milano con la denominazione di “Associazione di Mutuo Soccorso” è composta da carabinieri in congedo e pensionati. Sono 1673 le sezioni sparse sul territorio nazionale più 27 all’estero con oltre duecentomila soci. Anche Varzi vanta la propria Associazione, voluta dal C.re Sasso Cav. Luigi che nel 1976 con grande soddisfazione da parte di tutti gli aderenti, e del Comandate della locale Stazione Carabinieri Maresciallo Giovanni Peroncini, riuscì nell’intento. Oggi l’Associazione, costituita da ex carabinieri, dai loro familiari e soci simpatizzanti è presieduta dal Brigadiere Donato Mitruccio. Brigadiere, quanti siete ad oggi a far parte della sezione di Varzi? «Siamo sessantaquattro con qualche iscritto non solo di Varzi ma anche di Godiasco e della vallata». Quali sono le finalità della vostra associazione? «Il nostro compito riguarda la promozione e la tutela dei diritti della persona mediante l’assistenza e la vigilanza, in special modo verso i portatori di handicap, gli emarginati e i minori. Ci occupiamo anche della protezione dell’ambiente e della cura del patrimonio storico e artistico, nonché della promozione dello sviluppo e delle attività connesse. Per quanto riguarda i rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione, svolgiamo un servizio di accompagnamento e informazione.
Offriamo poi supporto alle forze di polizia e vari enti statali e la formazione di ausiliari per la regolazione del traffico, corsi di soccorso, segnalazione di atti recanti danno all’ambiente, alla segnaletica e alla cittadinanza». L’Associazione è stata intitolata a Emanuele Messineo. Perchè? «È stata fatta questa scelta in memoria di un giovane carabiniere caduto nell’adempimento del proprio dovere mentre era in servizio e riconosciuto con la medaglia al valore militare». Nel 2009, è stato approvato all’unanimità la costituzione del nucleo di volontariato generico/comune. In che cosa consiste esattamente? «I promotori della costituzione di tale iniziativa furono circa 15 Carabinieri, i quali accettarono di buon grado tutti gli impegni prefissati. Tali impegni, ci hanno gratificato visti i risultati ottenuti, sia con i Cittadini della nostra giurisdizione, sia con le Amministrazioni dei Comuni interessati. Concretamente, quando viene richiesta la nostra collaborazione interveniamo con opere di volontariato e di supporto alle forze dell’ordine come ad esempio la vigilanza davanti alle scuole e la misurazione della temperatura all’ingresso dei mercati in questi mesi caratterizzati dalla pandemia, Prima del lockdown davamo il nostro supporto anche ai comuni limitrofi come Bagnaria e Montesegale e speriamo di riprendere al più presto l’attività a pieno regime, perché al momento siamo un po’
Il Brigadiere Donato Mitruccio
rallentati nelle nostre attività». Volontariato ma non solo. Ci può parlare delle vostre iniziative in campo culturale e ricreativo? «Purtroppo, a causa della pandemia in corso, non possiamo effettuare i nostri raduni abituali, altrimenti avremmo rispettato il calendario delle nostre innumerevoli iniziative che prevede anche un
raduno presso il “Tempio della fraternità” a Cella di Varzi. Riceviamo inviti anche da altre associazioni, alpini compresi e speriamo di ricominciare al più presto a pieno regime la nostra usuale attività». di Stefania Marchetti
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SANTA MARGHERITA sTAFFORA
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«è sempre stato il mio chiodo fisso: fare “cose belle” per la Valle Staffora» È da un forte desiderio di Angelo Dedomenici - ultimo di una generazione di maestri nella produzione di salame - che è nata a Casanova Staffora l’associazione “Insieme per la Valle Staffora”. De Domenici non è nuovo a questo tipo di iniziativa legata alla riscoperta delle tradizioni e del territorio, suo infatti il progetto - diventato realtà nel 2013 - di allestire un museo interamente dedicato alla figura del salumiere: una raccolta unica nel suo genere di attrezzature, nonché l’allestimento di un antico laboratorio proprio come si presentava agli inizi del secolo scorso con tutti i passaggi della lavorazione della carne di maiale. La neonata associazione, che ha visto il coinvolgimento di diversi produttori locali ma anche di artisti di vario genere provenienti da paesi limitrofi, si pone l’obbiettivo di “fare delle cose belle” - come sottolinea il presidente Dedomenici - per la Valle Staffora. Dedomenici da dove nasce la voglia e l’esigenza di “mettere in piedi” una onlus di questo tipo? «È sempre stato il mio chiodo fisso quello di unire i piccoli produttori e fare insieme delle cose belle che diano valore a questo territorio e da tramandare alle nuove generazioni. Il torrente Staffora e tutta la Valle che si snoda lungo il suo corso, ci offrono delle bellezze che se non vengono conosciute e valorizzate, rimangono sterili. Dobbiamo incentivare il turismo verso questi luoghi e allo stesso tempo darci da fare per renderli accoglienti e ricchi di eventi».
Angelo Dedomenici presidente della neonata associazione “Insieme per la Valle Staffora
Per fare delle “cose belle” cosa intende? «Per esempio, durante la bella stagione in previsione dell’arrivo dei turisti, la nostra associazione organizzerà una sorta di picnic nei pressi del torrente Staffora, individuando la location più appropriata. Una vera e propria festa di campagna con tutti i prodotti locali, magari allietata anche dalla musica tradizionale. Vedremo di informare gli organi di stampa, chiederemo ai partecipanti di fare fotografie e promuoveremo in tutti i modi possibili l’evento. Pensiamo anche a una festa sui
prati, una di quelle belle feste che si facevano un tempo e, in questo modo faremo conoscere le antiche tradizioni ai giovani». Tra le vostre iniziative ce n’è una particolare chiamata “Il mio angolo”. Di cosa si tratta? «Durante il soggiorno in zona una famiglia potrà scegliere e occupare temporaneamente uno spazio, quello che preferisce, che sia vicino al fiume, nel bosco, in collina o in montagna e ad ogni spazio individuato e “occupato” l’Associazione darà un nome, identificando e rendendo unico quel luogo».
Al fianco di Dedomenici, Guerrino Motteran in veste di segretario, pensionato milanese già presidente dell’Associazione Cani Educati ma trapiantato da qualche anno a Casanova Staffora. Motteran perché ha sposato l’idea di Dedomenici? «Quando Angelo Dedomenici mi ha parlato di questa sua idea, ho pensato bene di sostenerlo, ho capito quanto sia importante unire le persone e trovare idee e soluzioni ogni qualvolta sorga un problema, sia che riguardi l’artigiano o l’artista. La nostra associazione sicuramente andrà oltre all’organizzare feste, cosa che fanno già altri, noi non vogliamo attirare solo clienti che acquistino i prodotti locali ma vogliamo creare una sinergia tra prodotti alimentari, prodotti culturali e artistici legati alle tradizioni. Ci sono davvero delle possibilità di mettere in pratica tante idee ma è necessario un lavoro di squadra per evitare in futuro l’abbandono di questo territorio». Obbiettivo finale? «Pensare insieme, rimettersi in relazione con gli altri per promuovere lo sviluppo culturale, ambientale, sociale e storico con tutte le caratteristiche della nostra meravigliosa Valle. Con durata illimitata nel tempo, a tal fine abbiamo uno statuto del quale i nostri soci hanno preso atto. Ci auguriamo una crescita costante, se oggi siamo dieci, speriamo di essere cento domani». di Stefania Marchetti
ROMAGNESE
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«Boom di presenze: case disponibili all’affitto andate a ruba e le seconde case piene di villeggianti» Piccoli comuni crescono, tra marketing territoriale e buone pratiche. Ci sembra l’immagine giusta per descrivere Romagnese. Un sindaco giovane e intraprendente che sta concretizzando quel suo sogno nel cassetto svelato nel 2019 prima della sua elezione a primo cittadino. «Mi piacerebbe che Romagnese venisse frequentata da sempre più turisti – aveva dichiarato Manuel Achille durante un’intervista da queste pagine - e che le tante case vuote che ora ci sono tornino a popolarsi. Vorrei che Romagnese diventasse un paese unito, una comunità di persone che diano il massimo e che collaborino assieme per il bene comune in totale serenità e allegria». Che dire… A distanza di due anni Manuel Achille parrebbe essere sulla buona strada: la collaborazione tra i cittadini non manca, sono 75 “la carica” dei volontari che si adoperano per il paese e i turisti non sono mancati, tant’è che nel 2020 Romagnese ha registrato il tutto esaurito. Sindaco a maggio saranno passati due anni dalla sua elezione. In questi due anni è tangibile, piaccia o non piaccia, criticabile o elogiabile, che di Romagnese se ne parla un po’ di più. Giornali, servizi televisivi, pagine facebook attive e propositive, profili Instagram… Insomma un Comune che sembra essersi “svecchiato”. Quanto è importante far parlare di sé ed essere attivi nella comunicazione e con quali benefici? «A mio avviso, saper comunicare è fondamentale al giorno d’oggi, specialmente in territori come il nostro. è per questo motivo che, sin dall’inizio del nostro mandato abbiamo posto l’aspetto comunicativo, da sempre un po’ trascurato, ai vertici dei nostri obiettivi. Nel giro di due anni abbiamo dato vita al canale ufficiale Facebook del Comune, al canale broadcast whatsapp e alla pagina instagram “visitromagnese”, quest’ultima volta prevalentemente a tematiche legate a turismo e eventi. Di conseguenza, vi è stato un interesse sempre crescente dei media locali e nazionali alla nostra realtà che ci ha fatto capire di aver imbroccato la strada giusta». Turismo di passaggio o legato alle seconde case, estivo o invernale. A Romagnese ce n’è per tutti i gusti. Com’è andata la stagione turistica 2020? Quale forma di turismo, di passaggio o legato alle seconde case o a richiesta di case in affitto, ha dato i migliori risultati? «Nonostante la pandemia abbia lasciato i noti strascichi alle spalle e non sia ancora stata debellata, per quanto riguarda la stagione turistica 2020 posso ritenermi fortemente soddisfatto. Abbiamo vissuto un vero e proprio boom di presenze, con le case disponibili all’affitto che, nel giro
di pochi giorni in giugno, sono andate letteralmente a ruba e le seconde case piene di villeggianti. Vi è stata la voglia di voler riscoprire il piacere di immergersi nelle bellezze del nostro alto Oltrepò. Ovviamente, l’auspicio è che si possa proseguire su questo trend anche per gli anni a venire, che non si sia trattato di un semplice turismo “mordi e fuggi” ma di un qualcosa che, con la giusta alchimia di fattori, possa diventare una certezza nel tempo». Per “sfruttare” la richiesta di seconde case il Comune di Romagnese ha creato un portale degli affitti. è stato uno strumento utile? Funziona ancora oggi? Com’è l’andamento del mercato delle seconde case? «Il portale degli affitti è un’idea nata in sinergia tra Comune e Pro Loco volta a favorire l’incontro tra domanda di case in affitto e relativa offerta da parte delle persone del posto. Ovviamente, si tratta di un’idea innovativa che deve ancora essere perfezionata a dovere, anche perché nel corso del 2020, vista l’enorme domanda, non è stato necessario ricorrervi. Tuttavia, sono convinto che negli anni a venire sarà uno strumento estremamente utile se puntiamo a mantenere un certo standard di presenze o, perché no, incrementarle sempre di più, in un territorio ancoro privo di un numero sufficiente di strutture ricettive». Se i turisti sono arrivati a Romagnese, bisognerebbe poi farli tornare. In che modo il Comune ha lavorato o sta lavorando per non “perdere” potenziali turisti? «Al turista va sempre innescata la giusta dose di curiosità per farlo tornare in un determinato luogo. Stiamo lavorando su più fronti a questo fine con tutte le energie possibili e in stretta collaborazione con le associazioni del territorio. Poi, la comunicazione fa tutto. Se sai comunicare ciò che fai, le persone arrivano». Le casse comunali non sempre consentono grandi cose e i sindaci non sono abilitati a far miracoli, ma “essere sul pezzo” - mi riferisco alla partecipazione ed aggiudicazione dei numerosi bandi regionali, provinciali e legati alla Comunità Montana - fa la differenza. Per il turismo quanti soldi ha ricevuto ad oggi il comune di Romagnese e cosa è stato possibile fare? «Per un comune come il nostro, che si sta battendo per eliminare il disavanzo di amministrazione ereditato, essere alla costante ricerca di forme di contribuzione è fondamentale. In questi due anni abbiamo ottenuto fondi a più livelli (sia statali che regionali) volti alla sistemazione di vasp cruciali per il territorio, alla realizzazione di una nuova area camper, alla realizzazione di aree di sosta per i turisti, alla
sistemazione di strade e fossi pericolanti, e tanti altri progetti che stiamo studiando e che verranno realizzati. Ovviamente, ci concentriamo sulla ricerca di fondi volti sia a finalità di tutela ambientale, che turistiche. Una menzione in particolare la riservo alla Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese, che sta operando meravigliosamente per il nostro territorio, anche grazie al bellissimo spirito di collaborazione e di unità che è nato tra noi sindaci in questi due anni. Quando si lavora tutti insieme per un obiettivo comune come stiamo facendo ora, i risultati poi arrivano». è stato attivato il servizio “Romagnese Informa”, per essere sempre aggiornati su informazioni, servizi e eventi relativi al Comune tramite il canale WhatsApp. è stato apprezzato? «Si tratta di un servizio fondamentale per la popolazione e ragionevolmente apprezzato, perché permette di ricevere le principali notizie del proprio Comune comodamente su whatsapp del proprio cellulare ed essere così sempre informati in tempo reale sulle tematiche di maggior rilievo. Un servizio che conta già più di 150 iscritti e che auspichiamo possa crescere con il passare del tempo». Sono stati richiesti dal Comune contributi per puntare sull’innovazione tecnologica per i servizi erogati dal municipio. Ci spiega meglio di cosa si tratta? «Abbiamo ottenuto un contributo di circa 4 mila euro da destinare all’innovazione tecnologica dei servizi messi a disposizione dal comune. Nelle prossime settimane verrà attivato, tra le altre cose, lo “sportello digitale dei servizi per il cittadino” che permetterà alla popolazione di accedere ai principali servizi comunali in maniera veloce ed agevole come, ad esempio, prenotazione di appuntamenti, accessi agli atti, servizi cimiteriali, denuncia tari, accesso alla modulistica varia e altri servizi utili». Come si riesce ad “abituare” e coinvolgere una popolazione mediamente anziana come quella di Romagnese a questi nuovi strumenti? «Credo che ormai viviamo in un’epoca in cui il disallineamento tecnologico tra generazioni sia sempre più ristretto. Anche le persone più “attempate” sono ormai in grado di utilizzare in maniera consapevole i principali social network e questo lo noto ogni giorno nella quotidiana gestione dei vari canali del Comune menzionati in precedenza». Banca della terra d’Oltrepò, un progetto che aveva entusiasmato lei e i suoi vicini colleghi. Come sta andando l’iniziativa? «Direi che siamo a buon punto. Si tratta di un’iniziativa sulla quale credo molto perché, se ben implementata, è in grado di
Manuel Achille, sindaco di Romagnese
generare nuove opportunità per le attività già operanti sul territorio o per chi volesse intraprenderla da nuovo, sfruttando i terreni lasciati incolti. Questa piattaforma va a creare così un incrocio tra domanda e offerta su questi terreni, eliminando asimmetrie informative che, inevitabilmente, si palesano. Un’occasione importante per il rilancio del nostro territorio». In molti li hanno soprannominati la carica dei 75, sono i volontari del Comune di Romagnese che si sono distinti in questi anni per numerose opere a favore della collettività. 75 è un numero davvero considerevole su una popolazione di poco più di 600 abitanti. Qual è il segreto? «Il segreto principale è l’amore verso il proprio territorio, che i volontari mostrano ogni giorno e in ogni cosa che fanno, e poi saper coinvolgere le persone, ognuna per le proprie competenze che può mettere in campo, a mio avviso è fondamentale. Una comunità raggiunge i propri obiettivi solo se è unita, coinvolta e solo se ognuno mette in campo le proprie qualità. Non smetterò mai di ringraziare queste persone, dalle quali abbiamo solo da imparare, e la nostra Pro Loco con la quale collaboriamo in maniera stretta e concreta all’iniziativa. Ho avuto un incontro nei giorni scorsi con una delegazione di volontari con i quali abbiamo già ragionato in prospettiva futura sulle cose da fare come, ad esempio, la pulizia e l’apertura di nuovi tratti di sentieri». di Silvia Colombini
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BRESSANA BOTTARONE
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«Abbiamo convocato in Comune gli acquirenti, persone disponibili a gestire la situazione trovando le soluzioni più opportune» Quando si racconta la storia di Bressana Bottarone non bisogna dimenticare le innumerevoli fornaci presenti sul suo territorio. La più importante, per dimensioni ed anzianità, fu la “Ditta Palli e C.”, fondata addirittura nel 1752 da una famiglia proveniente dal Malcantone in Svizzera. Per tutta la metà del XX secolo questa fu la fornace più grande d’Italia, in cui vi lavorarono circa 300 persone. Già nel corso dei XVIII secolo la famiglia Palli installò altre fornaci a Pizzale, Lungavilla e Voghera, dove successivamente venne trasferita la sede legale. Le fornaci furono per anni il fulcro dell’economia bressanese. Nel 1961, in via Depretis, venne istituita una scuola di avviamento professionale a tipo industriale, successivamente intitolata ad Edoardo Palli «per i meriti dell’industria Palli, più volte ufficialmente riconosciuti». Oggi delle tanto famose fornaci Palli non esiste più alcuna traccia, essendo state demolite parecchie anni fa per fare spazio ad una nuova zona residenziale. Sebbene importanti, le fornaci di Via IV Novembre non erano le uniche situate sul territorio bressanese. Vi erano la “Tacconi” in località Argine, la “Borsani & Azzi” in località Bottarone, la “Del Bò” nell’omonima via, la “Rognoni” in via Indemini, la “Signorelli” in via Pavia, e per finire la “Iovita”, la “Padana” e la “De Giorgi” (ex Cristiani) in Via I° Maggio. Proprio quest’ultima fornace, la “De Giorgi”, chiusa da alcuni decenni, è recentemente salita agli onori della cronaca a causa di uno scandalo ambientale di rilevanti dimensioni. I circa 130.000 metri dello stabilimento abbandonato sono stati messi sotto sequestro dai Carabinieri forestali di Pavia, in seguito alle proteste di diversi cittadini e alla richiesta di intervento da parte della Polizia Locale di Bressana. Dal comunicato stampa emesso dall’Arma dei Carabinieri si apprende che “è stata accertata la presenza di un ingente quantitativo di rifiuti eterogenei, pericolosi e non pericolosi, costituiti da veicoli e pneumatici fuori uso, metalli ferrosi, filtri olio, batterie esauste, imballaggi di plastica, materiale tessile, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), carta e cartone, ferro e acciaio e cisterne adibite a contenere gasolio”. Inoltre, si sta appurando l’eventuale presenza di rifiuti pericolosi nel sottosuolo delle cave di argilla presenti nell’area. Durante l’accertamento, gli agenti hanno inoltre scoperto un’officina meccanica totalmente abusiva. Abbiamo chiesto alcune delucidazioni in merito a Valentino Milanesi, vicesindaco di Bressana Bottarone. Milanesi, come siete venuti a conoscenza di questa discarica abusiva? Da quanto tempo è abbandonata l’area?
«Sul nostro territorio è presente un’altra fornace dismessa in Via Fornace Del Bo, per la quale è stato effettuato un accurato sopraluogo dall’Ufficio Tecnico, il quale non ha evidenziato criticità sul tema ambientale»
Valentino Milanesi, vicesindaco e assessore al Bilancio - Finanze e Programmazione Economica
Addirittura, è stata rinvenuta un’officina meccanica abusiva… «L’ area era oggetto di procedura esecutiva immobiliare dal 2008. Nel febbraio 2009 il C.T.U ha svolto il sopralluogo e redatto una particolareggiata perizia (atto pubblico allegato alla procedura d’asta. ndr) in cui veniva dichiarato che al momento del sopralluogo non esisteva alcuna attività inerente alla produzione di laterizi e che solamente alcuni locali risultavano occupati da officina meccanica e il capannone edificato era utilizzato come deposito di foraggi. Nella stessa, oltre al dettaglio dei materiali ritrovati, il C.T.U. ha anche quantificato che, alla data della perizia, per demolizioni, sgombero macerie e smaltimenti vecchi pneumatici sarebbero stati necessari almeno 738.840 euro». Nessuno prima d’ora si era accorto di quello che accadeva nella ex fornace di Via 1° Maggio? Non erano mai giunte prima segnalazioni all’amministrazione comunale? «Nel lungo periodo trascorso da quando l’area è dismessa, si sono avvicendati diversi amministratori a gestire il Comune, come diversi sono stati i Comandanti della Stazione dei Carabinieri. Posso affermare che l’attuale amministrazione, ed in particolare l’assessore all’ambiente, ha un’attenzione estrema alle tematiche ambientali e dà indicazioni ai servizi comunali di monitorare con assiduità il territorio». Dopo diverse aste andate a vuoto, nei mesi scorsi l’area è stata rilevata da un imprenditore della zona. Ci sono progetti di recupero in cantiere? «Nel caso specifico, non appena abbiamo appreso che nei primi di novembre 2020 l’area in oggetto era stata aggiudicata
La Fornace “Del Bò” nell’omonima via, è l’ultima fornace dismessa di Bressana
La Fornace “De Giorgi” (ex Cristiani) in Via I° Maggio, oggi sottoposta a sequestro
all’asta, abbiamo convocato in Comune gli acquirenti. A loro è stato chiesto di illustrare il progetto che avevano intenzione di sviluppare e, in funzione anche di quanto già emerso dalla perizia del CTU, le garanzie in merito alla bonifica del suolo e del sottosuolo che l’Amministrazione avrebbe richiesto loro. Abbiamo trovato persone disponibili a gestire la situazione trovando le soluzioni più opportune». Negli edifici abbandonati sono state rinvenute lastre di amianto, rifiuti tossici, oli esausti e molto altro materiale altamente inquinante. Chi si occuperà della bonifica e della messa in sicurezza dell’area? Come intende agire l’amministrazione comunale? «Al momento posso solo dire che il riserbo è d’obbligo. Le indagini e gli accerta-
menti sono in pieno corso, per cui tutte le ipotesi, gli elenchi dei quantitativi dei materiali ritrovati, la loro pericolosità e le soluzioni per lo smaltimento sono oggetto di interesse. Avremo più chiarezza quando verranno emessi comunicati ufficiali dalle autorità preposte». Sul vostro territorio comunale avete altre fornaci dismesse, non temete che questa situazione possa verificarsi anche in queste altre strutture? «Sul nostro territorio è presente un’altra fornace dismessa in Via Fornace Del Bo, per la quale è stato effettuato un accurato sopraluogo dall’Ufficio Tecnico, il quale non ha evidenziato criticità sul tema ambientale». di Manuele Riccardi
CASTEGGIO
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«Richieste di aiuti economici aumentate
vertiginosamente del 40%»
Una volta era uno dei comuni più ricchi della Lombardia, conosciuto per le tante banche e per il benessere proveniente soprattutto dall’agricoltura. Oggi che il settore è decisamente meno florido, Casteggio rimane una cittadina ordinata e signorile, che nonostante le apparenze condivide le difficoltà economiche del resto d’Italia, acuite dall’emergenza sanitaria in corso. A cercare di venire incontro ai casteggiani più in difficoltà è l’assessore al welfare Anna Raffinetti, che da oltre vent’anni si occupa di sociale nella piccola realtà pavese. Assessore, di questi tempi sono sempre di più i cittadini che necessitano di un sostegno al reddito in tutti i comuni italiani. Com’è la situazione a Casteggio? «Non diversa da quella che si registra più o meno ovunque nella zona. Le richieste di aiuti economici sono aumentate vertiginosamente nell’ultimo anno, direi circa del 40 per cento. Il comune ha stanziato e distribuito finora in due tranche qualcosa come 30 mila euro in buoni spesa, che sono andati a beneficio di un centinaio di nuclei familiari». Per assegnare gli aiuti avete varato un preciso regolamento. «Sì, lo abbiamo fatto perchè volevamo essere equi nell’assegnare delle non troppo abbondanti risorse a disposizione. Non ritenevamo l’Isee un valore sufficiente sul quale basarci, per cui abbiamo stabilito delle regole nostre che ci aiutassero a fare le valutazioni più corrette riguardo la situazione economica di ciascun richiedente. Abbiamo valutato tanti aspetti, chiedendo ai cittadini di fornire diversi elementi sulla propria condizione, dalle entrate economiche del nucleo familiare sino al conto in banca: tutto ci è servito per fare chiarezza e per essere certi di dare il giusto a chi aveva più bisogno. In questo modo il cittadino ha avuto di fronte regole chiare e ha saputo subito se aveva diritto o meno agli aiuti. Ma non solo: siamo riusciti ad allargare notevolmente la platea, aiutando un numero di persone ben maggiore rispetto a quello che avremmo potuto garantire affidandoci al solo Isee». Per accedere agli aiuti bastava un’autocertificazione. Una scelta un po’ rischiosa. «Più che altro un gesto di fiducia verso i nostri concittadini più in difficoltà. E soprattutto un modo per velocizzare il processo, senza richiedere agli utenti chissà quale macchinoso documento. In questo periodo, con lo stato centrale che ha chiuso i rubinetti per tante categorie, abbiamo creduto fosse importante muoverci con la massima celerità, cosa che siamo stati in
grado di fare anche perché la macchina è ben oliata: con il personale del settore servizi sociali c’è una collaborazione proficua e di lunga data, e ormai mastico abbastanza la materia per sapere come accelerare i tempi. In ogni caso mi sento di rassicurare i più diffidenti: mi occupo dell’assessorato ai servizi sociali da più di vent’anni, e conosco ormai personalmente tutti coloro che si rivolgono più di frequente ai nostri uffici». Però quest’anno avrà visto tante facce nuove. «Purtroppo sì, e ne sono molto dispiaciuta. Se fino all’anno scorso gli aiuti erano destinati soprattutto a stranieri e disoccupati, quest’anno hanno bussato alla nostra porta tanti lavoratori in attesa di ricevere la cassa integrazione. Persone normalissime che per mancanza di liquidità sono prima rimasti indietro con le utenze e gli affitti, e poi hanno cominciato a far fatica a mettere in tavola la cena. La crisi sanitaria ha davvero cambiato il profilo degli indigenti, o meglio di quelli che oggi vengono chiamati “nuovi poveri”. Per rendersene conto basta fare un giro fuori dalla Caritas quando vengono distribuiti i pasti: gli utenti sono aumentati notevolmente, e questo è un segnale che la precarietà sta aumentando anche tra coloro che prima avevano una situazione dignitosa, e che mai avrebbero pensato di dover ricorrere agli aiuti del comune per fare la spesa. Il regolamento può dare una mano, ma temiamo non possa bastare a far fronte all’emergenza». Però gli aiuti non sono finiti con i buoni spesa, avete anche attivato un fondo destinato agli affitti arretrati. «Sì, un fondo di 170 mila euro di cui hanno beneficiato una novantina di famiglie. Il sostegno copriva tre mensilità, che non andavano all’inquilino ma direttamente al padrone di casa: in questo modo l’ente si è assicurato che il denaro venisse utilizzato per lo scopo per cui era stato assegnato. Nell’ultimo anno abbiamo anche aperto due centri dedicati all’emergenza: si occupano principalmente della distribuzione di aiuti alimentari, ma all’interno di uno dei due abbiamo anche uno sportello psicologico. Esisteva già, ma oggi si occupa soprattutto di coloro che stanno risentendo psicologicamente di questa situazione. Lo stato attuale delle cose non ha infatti solo ripercussioni economiche, ma anche emotive: i casi di depressione sono aumentati con l’isolamento ed è importante non trascurarli». L’aumento della povertà spesso genera criticità a livello di sicurezza. Lei si occupa anche di questo assessorato,
Anna Raffinetti, assessore al Welfare, da oltre 20 anni si occupa di sociale
« Se fino all’anno scorso gli aiuti erano destinati soprattutto a stranieri e disoccupati, quest’anno hanno bussato alla nostra porta tanti lavoratori in attesa di ricevere la cassa integrazione» avete riscontrato problemi nell’ultimo periodo? «Fortunatamente no. Preoccupati dalle eventuali trasgressioni al coprifuoco e in generale alle regole sugli spostamenti abbiamo attivato a suo tempo dei pattugliamenti serali sia con la polizia locale che con il servizio di vigilanza esterno Axitea. Sono felice di poter dire, però, che in questi mesi non abbiamo ricevuto nessuna segnalazione allarmante. I casteggiani si sono attenuti alle regole fin da subito, e hanno ripreso le loro abitudini con ordine quando è stato possibile. Ancora oggi al mercato la domenica rafforziamo i controlli, ma la situazione è sempre molto ordinata». Tra le sue deleghe c’è anche quella all’istruzione, un altro settore che ha dovuto adeguarsi non poco alle normative anti-Covid. Ci sono ancora disagi oppure dopo la partenza è stato tutto in discesa? «Le criticità si sono verificate soprattutto all’inizio dell’anno scolastico, mentre in questo periodo tutto sta filando liscio. Fortunatamente non abbiamo avuto par-
ticolari difficoltà con i trasporti perché le richieste sono state poche fin dall’inizio. Il nostro mezzo ha viaggiato sempre mezzo vuoto: eravamo già in regola quando la capienza consentita era solo del 50%, e quando è stata aumentata all’80% abbiamo definitivamente smesso di preoccuparci. Quanto alla scuola in sé, la rivoluzione più grande si è verificata a ora di pranzo: i bambini non vanno più in mensa ma mangiano in classe, ognuno al suo posto. Per assicurare una scrupolosa igiene sono intervenuti anche diversi volontari, che ogni giorno aiutano le maestre a disinfettare tutto». A marzo si celebra la donna: da donna assessore con la delega alle pari opportunità ha pensato a qualcosa? «Per la verità no, anche perché la ricorrenza non è mai stata particolarmente sentita nella nostra città. I fondi delle pari opportunità sono irrisori e non ci è mai stato possibile organizzare grandi eventi. E quest’anno, data la situazione, le possibilità si sono ulteriormente ridotte». di Serena Simula
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Edifici “da salvare” individuati con la didattica a distanza La diffusione del coronavirus sta modificando radicalmente il sistema scolastico italiano. Per la prima volta nella storia le scuole rimangono chiuse e si assiste ad una transizione epocale verso l’e-learning dopo anni di lezioni in aule e libri cartacei. In poche settimane, studenti e professori si sono ritrovati all’utilizzo obbligatorio di strumenti virtuali per poter portare avanti lezioni ed esami. Una rivoluzione straordinaria del sistema formativo nazionale che sicuramente condizionerà il suo modo di funzionare anche quando l’emergenza sarà alle spalle. Abbiamo incontrato il professor Filippo Pozzi che, alla sua prima esperienza didattica al Liceo di Broni, ha dovuto affrontare i problemi legati al nuovo tipo di coinvolgimento degli allievi attraverso la DAD (didattica a distanza) Filippo Pozzi docente di Disegno e Storia dell’Arte presso il Liceo di Broni, da quando è iniziata la scuola ha avuto l’opportunità di svolgere didattica in presenza nelle sue classi? In quali classi insegna? «Ho effettuato la presa di servizio il 30 ottobre 2020 ma da quel momento fino allo stato attuale delle cose non ho ancora potuto vedere di persona i miei studenti a causa dell’emergenza sanitaria che stiamo affrontando. Faccio parte di quei docenti che hanno preso servizio direttamente in modalità didattica a distanza, la famosa DAD, con tutto ciò che ne consegue nel bene e nel male. Si tratta del primo anno in cui insegno questa materia e ne sono molto entusiasta, inoltre è la prima volta che lavoro in questo istituto. Insegno Disegno e Storia dell’Arte nelle classi di scienze applicate: 2BSA, 3ASA, 3BSA, 4ASA e 4BSA. Di certo questa distanza non aiuta a relazionarsi con i colleghi e gli studenti, soprattutto per chi come me non ha ancora avuto l’opportunità di svolgere didattica in presenza. Siamo separati dagli schermi e questa tecnologia informatica (meno male che esiste) ci permette sì di comunicare, ma devo dire che rispetto alla didattica in presenza è tutto molto freddo dato che si comunica con mail e video lezioni. La scuola non significa soltanto didattica, possiede una forte componente relazionale e sociale che in questo momento non riesce a svilupparsi ed è una conseguenza diretta della DAD. Questa modalità didattica per sua natura, non riesce a colmare il vuoto sociale e relazionale che in modo silente si sta creando. Resto comunque fiducioso per il futuro, auspicandomi che la situazione di emergenza sanitaria migliori al più presto, sarebbe un peccato che i ricordi scolastici degli studenti dei giorni nostri siano le video lezioni e non per esempio le gite o più in generale quel senso di appartenenza ad un gruppo».
Filippo Pozzi, docente di Disegno e Storia dell’Arte al liceo scientifico “Golgi” di Broni
«Vorrei lanciare un monito alle amministrazioni, ai gruppi culturali locali ma a tutti in generale, con il fine di porre l’attenzione su questa tematica perché in un’ottica post Covid-19 potrebbe rivelarsi la nostra salvezza e dovremmo essere pronti»» Quali difficoltà ha incontrato ad insegnare la sua materia attraverso la DAD e che cosa si è inventato per cercare di coinvolgere al meglio i suoi alunni? «L’ostacolo maggiore sta nel comprendere le dinamiche del gruppo classe e il livello di partecipazione alle lezioni. Può capitare che uno studente sia collegato alla video lezione, ma di fatto potrebbe anche essere assente, dalle espressioni dei volti è un po’ più semplice capire se si ha di fronte qualcuno interessato o meno. Insomma la mancanza del linguaggio non verbale si fa sentire, in presenza la partecipazione è più attiva e la lezione è sicuramente più stimolante. Per questo motivo spesso cerco di coinvolgerli nella lettura delle opere d’arte mostrando a loro un dipinto, un complesso architettonico o una scultura e chiedendo di descrivere semplicemente ciò che si osserva. Di solito propongo questo esercizio senza aver ancora affrontato l’autore o l’opera, perché credo che le persone siano troppo abituate a guardare e non ad osservare. Il risultato ottenuto è che ciascun studente nota particolari e dettagli differenti dell’opera. Appena sono venuto
a conoscenza di questo ruolo che mi è stata affidato non nascondo di aver avuto un leggero smarrimento per il fatto di essere la prima esperienza in materia; ma grazie ai miei studi pregressi in architettura del paesaggio, ho subito elaborato una proposta progettuale per gli studenti. Ho cercato di coinvolgerli ulteriormente proponendo un’indagine sulle emergenze storico-culturali del territorio. Ciascun studente aveva il compito di scegliere un edificio che reputasse rilevante (meglio se abbandonato o in disuso) nei pressi della propria abitazione o del proprio territorio comunale per poi analizzarlo sotto diversi aspetti. L’obiettivo era quello di realizzare una scheda o una presentazione per comprendere la tipologia dell’edificio, la proprietà, l’accessibilità, la fruizione, lo stato di conservazione ed il contesto che lo circonda. Era necessario recarsi sul posto per scattare delle fotografie oppure, solo per chi voleva cimentarsi, per realizzare dei disegni a mano libera. In alternativa si poteva eseguire un rilievo con la carta da lucido. Chi ha scelto un’emergenza lontana dalla propria residenza per motivi di interesse,
o chi non aveva la possibilità di spostarsi, ha cercato il materiale fotografico su internet». Quale è stata la risposta degli allievi alle sue proposte? «Devo dire che sono rimasto molto stupito dai lavori di gran parte di loro, alcuni studenti addirittura si sono recati negli archivi comunali e parrocchiali per recuperare planimetrie e immagini storiche citando anche le fonti. Pochi hanno dimostrato difficoltà, forse alcuni per mancanza di entusiasmo e come dargli torto in questo periodo; altri forse non erano abituati ad affrontare progetti di natura creativa, ma tutto sommato in generale se la sono cavata bene. L’ostacolo principale per alcuni è stato quello di trovare le fonti da cui ricavare le informazioni sulle emergenze storico-culturali meno conosciute, in quel caso si sono avvalsi delle fonti orali ottenute dalle persone più anziane del posto. L’intento era quello di stimolare gli allievi per realizzare qualcosa di diverso dall’ordinario, ciascuno ha sviluppato un proprio percorso personale e progettuale dall’inizio alla fine. Questo progetto era un modo per fare lezione all’aperto senza la mia presenza; ma soprattutto è stata anche un’occasione per passeggiare nei pressi del proprio comune e prendere coscienza delle poco acclamante, ma numerose emergenze storico-culturali che si trovano nell’Oltrepò Pavese. Purtroppo non è stato possibile organizzare visite ai musei che attualmente sono ancora chiusi, ho voluto far comprendere a loro che alcune piccole opere d’arte seppur modeste, si trovano sotto i loro occhi a pochi passi da casa e la storia dell’arte può essere anche una materia molto concreta». Quali monumenti e in quali paesi sono stati presi in considerazione dai ragazzi? «Le emergenze storico-culturali sono davvero numerose e variegate, devo dire che molte non le conoscevo affatto, sono contento che ci sia stato un arricchimento reciproco. L’indagine ha fatto emergere 50 strutture elencate qui in seguito: •Basilica Minore di San Pietro Apostolo a Broni, •Borgo storico di Golferenzo, •Campanile della Beata Vergine Maria Assunta a Portalbera, •Cantinone medievale a Pietra de Giorgi, •Cappella del Monte di San Contardo a Broni, •Cappella della Madonna del Rio Frate a Broni, •Cascina La Torretta e Cascina Campagna a Belgioioso, •Castello di Arena Po, •Castello di Borgonovo Val Tidone, •Castello di Canneto Pavese, •Castello di Castelletto di Branduzzo, •Castello di Cigognola, •Castello di Montalto Pavese, •Castello di Montecalvo Versiggia, •Castello di Montù Beccaria, •Castello di Mornico Losana, •Castello di Oliva
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«Le emergenze storico-culturali sono davvero numerose e variegate. L’indagine ha fatto emergere ben 50 strutture» Alcuni degli edifici “da salvare” individuati dagli studenti: da sinistra la Torretta di Zenevredo, la Pieve della Madonna dell’Uva di Montecalvo Versiggia e la Torre di Soriasco nel Comune di Santa Maria della Versa
Gessi, •Castello di Pinarolo Po, •Castello di Santa Giuletta, •Castello di Verde a Colli Verdi, •Castello di Volpara, •Castello di Zavattarello, •Chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Mornico Losana, •Chiesa di S. Marcello in Montalino a Stradella, •Ex cantina sociale a Broni, •Ex ospedale a Stradella, •Ex ospedale Arnaboldi a Broni, •Ex scuola elementare Paolo Baffi a Broni, •Idroscalo a Pavia, •Mulino Mangiarotti a Broni, •Museo della fisarmonica “Mariano Dallapè” a Stradella, •Oratorio di Santa Maria della Neve a Casanova Lonati, •Palazzo Bellisomi a Montebello della Battaglia, •Palazzo Isimbardi a Stradella, •Parrocchia dei SS. Rocco e Martino a Redavalle, •Parrocchia del Ss. Nome di Maria a Santa Maria della Versa, •Parrocchia della Beata Vergine Maria Assunta a Portalbera, •Parrocchia N.S. di Fatima a Pometo, •Parrocchia Santi Nabore e Felice a Stradella, •Pieve della Madonna dell’Uva a Montecalvo Versiggia, •Pilastro storico di San Martino in Strada a Redavalle, •Rocca di Montalino a Stradella, •Rocca di Pietra de Giorgi a Pietra de Giorgi, •Santuario di Santa Maria della Passione a Torricella Verzate, •Torre di
Soriasco a Santa Maria della Versa, •Torre di Stradella a Stradella, •Torre di Zenevredo a Zenevredo, •Via Francigena a Campospinoso, •Villa Naj a Stradella, •Villa Nuova Italia a Broni». Che tipo di progetto ha elaborato con i ragazzi per l’eventuale recupero dei monumenti? «In questa prima fase i ragazzi si sono dedicati all’individuazione delle emergenze storico-culturali e ad un’analisi delle stesse. Successivamente si passerà alla fase progettuale dove ciascuno di loro dovrà elaborare delle idee, anche le più fantasiose, per poter recuperare o semplicemente ripensare a questa eredità che abbiamo ricevuto dal passato. Alcune strutture versano in cattive condizioni e hanno perso la loro funzione iniziale, diversi monumenti vengono vissuti e nel tempo sono cambiate soltanto le destinazioni d’uso. Dall’indagine è emerso che in alcuni casi manca la cartellonistica informativa oppure globalmente la situazione non è proprio decorosa. D’altro canto sono emersi alcuni esempi virtuosi di restauri e progetti di valorizzazione che utilizzeremo come riferimenti positivi.
Pertanto chiederò ai ragazzi di meditare sulle nuove funzioni che potrebbero avere gli edifici in un’ottica post Covid-19 dove gli spazi aperti la faranno da padrone e il turismo lento/sostenibile prenderà sempre più piede. Sarà loro compito saper comunicare alla classe il proprio progetto (e perché no, agli enti su cui insistono queste strutture) e dimostrare che con la cultura si mangia eccome, ma credo che non ci saranno ostacoli su questo fronte». Quindi un modo nuovo di apprendere ed essere coinvolti in prima persona sul territorio, una bella esperienza per i ragazzi. Si ritiene soddisfatto della metodologia che ha adottato e intende svilupparla ulteriormente per ottenere risultati migliori? «I risultati ottenuti sono andati oltre quelli attesi, mi reputo molto soddisfatto del loro impegno, soprattutto considerando la situazione di emergenza sanitaria in cui ci troviamo dove il futuro è ancora incerto, ma non bisogna farsi prendere troppo dallo sconforto, può essere deleterio e non possiamo permettercelo. L’obiettivo era quello di far uscire fisicamente i ragazzi dalle proprie abitazioni in
un periodo di clausura, nel rispetto dei vari DPCM, per renderli partecipi di ciò che li circonda, ma l’intento era anche quello di farli spaziare con la mente per innescare in loro il processo creativo. Mi accontenterei di aver fatto incuriosire o appassionare anche solo uno studente alla materia e al tema dei beni culturali in generale. Ci tengo a dire che questi monumenti ci appartengono, sono molto fragili e necessitano di una continua tutela e capisco che le fonti economiche vanno cercate con il lanternino, ma bisogna farlo. Inoltre gli strumenti legislativi ci sono, a partire dall’Articolo 9 della Costituzione e non a caso sto affrontando con loro la Convenzione Europea del Paesaggio nell’ambito del progetto di Educazione Civica. Detto questo, vorrei lanciare un monito alle amministrazioni, ai gruppi culturali locali, ma a tutti in generale, con il fine di porre l’attenzione su questa tematica perché in un’ottica post Covid-19 potrebbe rivelarsi la nostra salvezza e dovremmo essere pronti». di Gabriella Draghi
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Un account Instagram per diffondere e preservare il dialetto oltrepadano, l’idea dei fratelli Contini Il linguista Bernardino Biondelli nel suo “Saggio sui Dialetti Gallo-Italici”, edito nel 1853, classifica l’attuale dialetto oltrepadano come una varietà dialettale di tipo emiliano-pavese, definito “pavese-vogherese”. Effettivamente il nostro dialetto risente parecchio delle influenze linguistiche delle regioni confinanti: dal piacentino al tortonese, senza tralasciare la cadenza ligure di alcune zone dell’estremo sud della provincia. Anche il dominio francese in età napoleonica ha lasciato parecchie tracce nelle parole di uso quotidiano: basti pensare a parole “cassetto” (tiroit in francese, tirät in dialetto) oppure “cavatappi” (tire-bouchon in francese, tirabusò in dialetto). Una lingua certamente non facile da codificare con metodo accademico, data la molteplicità di varianti sviluppate nelle singole vallate oltrepadane. L’esempio più eloquente riguarda la parola “uovo”, “Ov” in dialetto oltrepadano: una semplice sillaba, che nei singoli comuni di Santa Maria della Versa, Stradella e Broni, sebbene situati in un raggio di pochissimi chilometri, viene pronunciata con tre accenti differenti. Si tratta solitamente di un linguaggio ancora molto diffuso tra la popolazione più anziana e, come anche le tradizioni, rischia di essere dimenticato dalle nuove generazioni. Chiara e Francesco Contini sono due fratelli nati e cresciuti a Stradella: lei è un’insegnante, laureatasi all’Università di Pavia e a Trinity College, residente a Casteggio; lui, dopo aver conseguito la laurea alla York University, risiede da parecchi anni a Toronto, dove dirige un’azienda turistica. Da alcune settimane hanno avuto l’idea di diffondere e preservare le parole e i detti della nostra lingua attraverso l’account Instagram “Dialetto Oltrepò” (@dialetto. oltrepo). Francesco, anche se è all’estero da tanti anni, l’accento oltrepadano non l’ha di certo perso… «Nonostante io abiti da parecchi anni in Canada, a Toronto, la mia connessione con l’Oltrepò è fortissima: sono in contatto giornaliero con la mia terra, con i miei parenti e con i gruppi di amici. Con i social e con i nuovi metodi di comunicazione la distanza si è ridotta tantissimo. Quando sono arrivato in Canada ci si mandava ancora le lettere cartacee, ora con internet la comunicazione è immediata». Diffondere il dialetto oltrepadano tramite Instagram: come vi è venuta l’idea? «Con WhatsApp e con le nuove applicazione di comunicazione noi siamo sempre in contatto e ci siamo resi conto che spesso, nei gruppi con amici, utilizziamo parole in dialetto che, fuori contesto e all’interno di una conversazione in italiano, hanno un effetto molto particolare.
«L’espressione “sugamàn”, molto utilizzata sia da mia zia Jolanda che da mia nonna Antonietta»
Questa “estraneità” linguistica rende la discussione più divertente e per questo abbiamo avuto l’idea di aprire un account Instagram in cui condividere queste espressioni e questi modi di dire che fanno parte del nostro patrimonio culturale. Il tutto è stato enfatizzato dal periodo che abbiamo vissuto: con la pandemia e i lockdown abbiamo trascorso più tempo in casa, cercando maniere un po’ diverse per sfogarsi e intrattenersi con gli amici. Sicuramente questo ha influito in maniera significativa». Chiara, il dialetto oltrepadano ha però ulteriori varietà locali, influenzate dalla vicinanza con le provincie confinanti. Voi a quale “variante” fate riferimento? «Le varie zone dell’Oltrepò sono unite da un unico dialetto, ma le vocali e le cadenze sono molto diverse tra loro. L’idea è quella di trovare una “formula” che unisca e rappresenti un po’ tutto il territorio oltrepadano, facilmente intuitiva per tutti. Tante sono le espressioni utilizzate dagli anziani e dai nostri nonni, altre sono ancora comunemente usate, come per esempio “baia la vulp!” per indicare un posto dove fa freddo. Ci sono termini vecchissimi, che stanno quasi andando in disuso, che sono anche difficilmente traducibili in italiano, come “perd al cü pra let”, che andrebbe tradotto con “perdersi in un bicchier d’acqua e non combinare nulla”, oppure “balurdón”, una unica parola per indicare “un malessere che prende alla testa e provoca un leggero stato confusionale momentaneo. Il dialetto oltrepadano, rispetto a quello di altre zone d’Italia, è molto meno connotato e meno conosciuto: forse è per questo motivo che noi involontariamente tendiamo a dargli meno importanza». Francesco, com’è stato l’approccio con il “popolo” di Instagram? Quali sono i vostri riscontri? «Abbiamo aperto l’account Instagram a fine gennaio e, dopo un mese, abbiamo già parecchi follower: questo indica che c’è un interesse sull’argomento.
I nostri seguaci sono in continuo aumento e stiamo registrando parecchie interazioni. Ci arrivano da tutte le parti dell’Oltrepò parecchi modi di dire e termini, molti dei quali sconosciuti anche a noi. Per cui, per avere la conferma di tali suggerimenti, ci avvaliamo anche della collaborazione dei nostri amici e conoscenti sparsi su tutto il territorio oltrepadano». Instagram è uno dei social network preferito dai giovani. Secondo una vostra analisi, qual è il vostro “fan base”? «Dai commenti vediamo che ci sono molti giovani che seguono il nostro account e che collegano questi termini ai loro genitori o ai loro nonni: questo ci fa parecchio piacere. È un’opportunità per i giovani per rafforzare il legame con le loro origini e il loro territorio. Anche io e mia sorella utilizziamo spesso parole che ricordano i nostri nonni. Con Instagram c’è una semplicità di comunicazione che riesce combinare agevolmente l’aspetto visivo con quello fonetico: in questo modo, con un semplice post, il messaggio viene inviato e la diffusione è immediata». Avete avuto qualche fonte di ispirazione? «Dobbiamo riconoscere che in passato ci sono stati diversi utilizzi “mediatici” del nostro dialetto, che hanno avuto parecchio successo. L’esempio più famoso è “Lasarät” (Mario Salvaneschi, ndr), che ha messo in scena indimenticabili spettacoli valorizzando la nostra lingua. Inoltre, non vanno dimenticati “I Beagles”: da più di trent’anni le loro canzoni dialettali sono cantate da diverse generazioni. Altro personaggio degno di nota è Daniele Andolfi, che negli ultimi anni è diventato molto popolare su Youtube, doppiando in oltrepadano Trump e molti altri personaggi famosi. Queste sono state le nostre fonti di ispirazione: probabilmente senza la loro visione divertente e ironica, oggi l’approccio con il nostro dialetto sarebbe differente». Francesco, qual è il modo di dire a cui lei è più affezionato o che la colpisce di più?
«Ad oggi abbiamo creato un catalogo contenente più di 500 parole, ma l’espressione che mi colpisce di più è “sugamàn”, molto utilizzata sia da mia zia Jolanda che da mia nonna Antonietta. Un’altra parola che mi piace parecchio è “sgarlisòn”…». E lei, Chiara? «Dipende molto dal tempo e dalle situazioni. A me piace molto “sta butùnà”, inteso come “andarci con cautela con ciò che si dice”. Questo perché si può applicare in diversi casi, sia sul lavoro che in certi rapporti personali, quando magari ci si accorge che ci si trova in una situazione in cui bisogna dosare le parole e limitare i danni: “non dire troppo”, “sta nel tuo”. Ma devo dire che a me piacciono tantissimi altri termini, ce ne sarebbero troppi da elencare». Pensate di sviluppare questa idea per un progetto più concreto, magari editoriale? «Per noi rimane un divertimento, senza l’ambizione di trasformarlo in un progetto più serio, editoriale o accademico. Non crediamo che sia quello l’interesse di chi ci segue, ma nel relazionare le parole con l’uso quotidiano. Il nostro dialetto è molto particolare: la stessa parola magari viene pronunciata con accenti e cadenze differenti a Broni, Stradella, San Damiano, Santa Maria della Versa e così via. Alla fine, ci si ritrova con tante lingue diverse nello stesso territorio, anche se uno stradellino, un bronese e un vogherese alla fine si capiscono benissimo tra loro. Per questo sarebbe veramente difficile portare avanti un progetto di codificazione univoco. Certo, abbiamo diverse idee da sviluppare, ma il divertimento rimane il primo obiettivo. Ogni giorno ci arrivano parecchi suggerimenti e questo ci fa parecchio piacere. Abbiamo intenzione di sviluppare un progetto audio, perché il dialetto scritto è difficile da comprendere in quanto non codificato. Seguiteci e a breve scoprirete le prossime novità». di Manuele Riccardi
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«Facciamo gelati dal 1938, quando mio nonno ottenne l’autorizzazione dal Podestà» Non è facile attribuire la “paternità” del gelato. Alcuni la fanno risalire addirittura alla Bibbia, quando Isacco offrì ad Abramo latte di capra misto a neve, altri, invece, la affidano agli antichi Romani che si distinsero ben presto per le loro “nivatae potiones”, veri e propri dessert freddi. Bisogna però aspettare il Cinquecento per assistere al trionfo di questo alimento. In particolare, è Firenze a rivendicare l’invenzione del gelato così come lo intendiamo noi. Ma la storia moderna di questo “sempreverde” alimento comincia ufficialmente quando l’italiano Filippo Lenzi, alla fine del ‘700, aprì la prima gelateria in terra americana. Un successo strepitoso che portò ad una nuova invenzione: la sorbettiera a manovella. Anche il gelato industriale vanta una lunga storia: il primo su stecco arrivò in Italia nel dopoguerra, il mitico Mottarello al fiordilatte, seguirono poi il Cornetto, primo gelato con cialda industriale e negli anni ‘70 con la diffusione del frezeer domestico le famiglie italiane potevano avere comodamente il loro secchiello formato famiglia, il Barattolino. In Oltrepò sono diverse le gelaterie artigianali – storiche o di nuova generazione – che producono un gelato di eccellenza, una di queste è sicuramente la Gelateria Lidia di Stradella Per tanti, stradellini e non, è il famoso “gelato della Lidia” che ha resistito al tempo, alla crisi, alle mode. Si tratta di una bella storia di famiglia, portata avanti con passione e orgoglio dal lontano 1938. Al timone della gelateria oggi ci sono le figlie della mitica signora Lidia, Loredana e Tiziana Gazzotti. Loredana, quando è nato questo posto? «Ha iniziato il nostro nonno materno, Luigi Franchioni, nel 1938. Aveva preso la licenza da una certa signora Anna Patelli: le aveva dato 500 lire e così aveva ottenuto l’autorizzazione del Podestà, perché all’epoca serviva quella. Poi nel 1942 è morta mia nonna e quindi mia mamma Lidia, che aveva appena finito l’avviamento (le scuole di quel tempo), è andata a lavorare nel negozio con suo padre. Aveva 14 anni e da quel momento è sempre stata impegnata nell’attività di famiglia». Il locale è nato come gelateria con bar annesso così come lo conosciamo noi oggi? «No, era latteria e gelateria. Le persone venivano a prendere, con il loro pentolino, un quartino di latte oppure mezzo litro o la bottiglia. Il negozio era sempre in questa via, la via 26 Aprile, ma leggermente più avanti rispetto a questo attuale. In questo dove siamo adesso prima c’era un bar storico della città, l’Unica: quando il bar si è trasferito in un altro punto di Stradella, la Lidia ha preso il suo posto. Si è trattato di un cambio favorevole, perché questo ne-
gozio era più grande rispetto al precedente. Io avevo 14 anni… adesso ne ho 66: quindi posso dire che sono 52 anni che siamo in questa posizione!». Tornando alla signora Lidia, sua mamma, ha imparato il mestiere da giovanissima… «Sì, lei ha sempre fatto questo lavoro. Poi è andata avanti da sola quando suo padre è mancato nel 1973. Io e mia sorella Tiziana le abbiamo sempre dato una mano quando potevamo, perché facevamo altri lavori. Lei ha continuato fino alla sua morte nel 1995. A quel punto noi due abbiamo deciso di dedicarci completamente a questa attività e abbiamo portato avanti noi la tradizione di famiglia». La Lidia e il suo gelato a Stradella sono sempre state una vera e propria istituzione. «è vero! Qui prima l’attività non aveva un’intestazione particolare. Quando, poi, abbiamo rilevato noi il negozio abbiamo dato al notaio il compito di chiamare l’attività “Gelateria Lidia”. Prima non c’era il nome perché tanto c’era lei e tutti sapevano che era il suo gelato!». Lidia faceva il suo lavoro con grandissima passione. «è proprio così. Quando magari lei era in laboratorio a preparare il gelato e sentiva che c’era qualche cliente, arrivava subito e se io o mia sorella stavamo preparando un cono gelato ci diceva “Va via ca tse bona no!” (Vai via che non sei brava). Era gelosa del suo gelato e faceva tutto con estrema passione. La gente questo lo percepiva. La nostra fortuna è che ci ha insegnato questo mestiere». Avete iniziato anche voi da piccole come lei? «No. Da grandi. Poi lei non voleva che facessimo la vita di sacrifici che aveva fatto lei, invece noi siamo sempre state pronte ad aiutarla quando c’era bisogno. Noi avevamo comunque lavori diversi: io lavoravo alla in un supermercato della città, e mia sorella faceva la maestra all’asilo nido». E poi vi siete ritrovate anche voi qui… «Sì, quando è mancata nostra mamma abbiamo deciso di prendere noi in mano il negozio e continuare la tradizione». è stata dura continuare senza di lei? «Quando è morta ci è mancata la terra sotto ai piedi. è stata veramente durissima, perché lei era il vero pilastro della nostra famiglia, la figura principale». Parlando invece del vostro famoso gelato, qual è il segreto? «La semplicità. Il nostro è un gelato semplice e naturale. Le persone hanno sempre apprezzato queste caratteristiche». Un vostra caratteristica da sempre è che non avete voluto “strafare” con i gusti. Perchè? «Abbiamo sempre preferito concentrarci
Le sorelle Loredana e Tiziana Gazzotti titolari della Gelateria Lidia sui gusti classici. Ne abbiamo parecchi, per carità, ma tutti super classici. Abbiamo provato tempo fa a realizzare qualche varietà particolare, ma se rimane lì qualche giorno vuol dire che è un gusto da non fare, perché non piace. Il gelato devi farlo e devi darlo via, altrimenti è da non proporre più». Questo vostro modo di fare vi ha sempre premiato. Ci racconti però magari qualche aneddoto sulla vostra genuinità… «Parliamo, per esempio, del gusto stracciatella. Altri ci mettono i pezzi di cioccolato già pronti e già spezzati, mentre noi questi pezzi li facciamo sciogliere. Il risultato è estremamente diverso. Poi abbiamo i macchinari “in piedi”, posti quindi in verticale: adesso le macchine le fanno in orizzontale. Noi abbiamo ancora questa tecnica e ci troviamo bene. Il gelato è diverso. Stesso discorso per la panna montata». Anche questo è un vostro prodotto famoso, oltre al gelato «La fanno tutti con la macchinetta con il gas, noi invece abbiamo un macchinario diverso per farla, di quelli che si usavano una volta, con il montapanna e la frusta. Quando si mette in bocca il risultato è ben diverso! E poi noi abbiamo un segreto, la facciamo solo “in stagione”: da noi non si trova tutto l’anno». Avete visto un calo negli anni per quanto riguarda la clientela? «Sicuramente, per tutti». Ma si riferisce all’anno scorso o più in generale? «Dall’arrivo dell’euro a dire la verità! I tempi, da quel momento, sono cambiati per tutti. Noi non abbiamo prodotti che costano tanto: un caffè con la panna o un gelato lo possono acquistare tutti, però magari una volta il cliente prendeva una bella coppa grande di gelato, mentre poi è passato al classico “scodellino”. E poi, parlando del nostro settore, con il passare degli anni
è arrivata anche un bel po’ di concorrenza qui in città, perché hanno aperto varie gelaterie. Poi noi abbiamo deciso di rimanere “vecchio stile” e non abbiamo il banco gelateria a vista e questo, forse, ci penalizza un po’, perché la gente vuol vedere i gusti». Però avete resistito bene negli anni… «Certo. Abbiamo i nostri clienti affezionati da tantissimo tempo». Avete mai pensato di fare come gli altri e fare questo bancone a vista? «Assolutamente no! Anche perché la conservazione del gelato è completamente diversa. Quando è capitato di rimanere senza corrente, altri hanno dovuto buttare via il gelato, noi neanche una briciola. Certo, commercialmente rende forse mano, ma noi continuiamo con questa nostra tradizione». Cosa vi aspettate per questo anno? «Speriamo che il comune ci conceda ancora, come l’anno scorso, la possibilità di mettere fuori dei tavolini. Ci aveva “dedicato” due parcheggi per poter ospitare la nostra clientela anche al di fuori del negozio, e per questo li ringraziamo molto. Per il resto, se qualcuno vuol comprare il nostro negozio noi andiamo in pensione! Scherzo! Lo diciamo sempre, ma quando ci è successo che qualcuno fosse realmente interessato alla nostra attività abbiamo declinato l’invito, noi siamo nate qui e questa è casa nostra. è molto dura staccarsi». C’è un legame particolare… «Sicuramente siamo legate emotivamente. Noi trattiamo i nostri clienti come se fossero amici che vengono a trovarci in casa nostra. Abbiamo anche ricevuto un premio in passato, come negozio storico per la continuità della stessa famiglia. è il nostro mondo, il nostro regno». di Elisa Ajelli
SANTA MARIA DELLA VERSA
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«Ho lasciato il posto fisso per seguire una grande passione, ma soprattutto per indossare maglioni brutti» Lasciare il lavoro fisso, la sicurezza economica e la tranquillità per intraprendere una strada nuova dalle incerte prospettive. Farlo perché è ciò che avremmo voluto fin dall’inizio, ma anche perché è la storia della propria famiglia, un ritorno alle origini che sa di tradizione oltre che di passione. È la scelta che ha fatto Luca Salviati, trentasettenne di Stradella che dopo otto anni e mezzo da dipendente in città ha deciso di tornare in collina, tra i vigneti di Santa Maria della Versa, e di lanciarsi nell’impresa a cui aveva a lungo dovuto rinunciare. Dalla sua pagina facebook l’annuncio: «Ho lasciato il posto fisso per seguire una grande passione e iniziare una nuova avventura... ma soprattutto per indossare maglioni brutti. Mi rimetto in gioco, rimbocco le maniche e cerco di far fruttare le mie lauree». Luca, la viticoltura è da sempre la sua grande passione. «Sì, anche perché tra i vigneti ci sono cresciuto. La mia famiglia si occupa di vino da non so quante generazioni, e fin da bambino quando andavo a trovare mio zio (il fratello di mia madre, che gestisce l’azienda da quando ero piccolo) per me era come andare al parco giochi. Alle superiori ho frequentato il Gallini, sono quindi perito agrario, poi mi sono laureato in Viticoltura ed Enologia a Milano, proseguendo con la Laurea Magistrale Interateneo in Scienze Viticole ed Enologiche con specializzazione in Viticoltura di Territorio e di Precisione. E in effetti, appena finiti gli studi, ho iniziato a lavorare in azienda». E poi? «Oltre all’agricoltura ho sempre avuto un’altra grande passione, quella per la fotografia. Nel 2012 ho avuto l’occasione di iniziare a lavorare in un negozio di Stradella e ho deciso di provare: per 8 anni e mezzo ho lavorato lì da dipendente ma gestendo da solo e in autonomia il negozio. Questo fino a poche settimane fa, quando mio zio mi ha proposto di prendere in mano la gestione dell’azienda agricola. Un po’ a malincuore, quindi, ho dovuto prendere una decisione e ho scelto di lasciare un’attività a cui ero molto affezionato, in cui ormai ero conosciuto e che mi dava grandi soddisfazioni (oltre che un buono stipendio con quattordicesima e tutte le tutele del lavoro da dipendente) per buttarmi in questa nuova avventura e iniziare a lavorare nell’azienda agricola di famiglia». Cosa l’ha convinta a lasciare? «Nonostante il lavoro in negozio fosse oggettivamente comodo e sicuro, caldo in inverno e fresco in estate, arrivavo a casa la sera provato psicologicamente, spesso
stressato o arrabbiato. Ho deciso di mettere al primo posto il mio benessere, e di scegliere non in base allo stipendio o alla tranquillità, ma alla qualità della vita» Il lavoro in vigna sarà di certo più faticoso di quello in negozio. «Certo, il lavoro è sicuramente più pesante a livello fisico ma è estremamente appagante. Quando la sera finisco di lavorare sono stanco ma sereno. Lavorare a contatto con la natura, seguendo i suoi cicli e il suo evolversi nell’arco delle stagioni è una cosa che mi mancava moltissimo quando lavoravo chiuso in un negozio». Come è stata gestita fino ad oggi l’azienda e quali cambiamenti ha intenzione di apportare? «Fino ad oggi l’azienda è stata gestita con un metodo tradizionale, basato sulle tecniche consolidate e sul sapere antico. Anche se si tratta di insegnamenti preziosi ancora oggi, non amo pensare all’agricoltura come a qualcosa di “vecchio” o di fermo nel passato (come spesso viene rappresentata) e spero di riuscire a dar sfogo anche qui alla mia passione per la tecnologia e l’innovazione (ho anche un canale YouTube in cui parlo di tecnologia, si chiama SalviatiLuca). Ci sono tantissime interessanti applicazioni di nuove tecnologie e di sperimentazioni che non vedo l’ora di mettere in pratica, soprattutto per quanto riguarda i monitoraggi e i rilevamenti. Vorrei raccogliere dati oggettivi che vadano oltre l’occhio (seppur esperto) dell’agricoltore, e mettere insieme di anno in anno uno storico che sia in grado di darmi informazioni sull’evoluzione della situazione e sulla salute delle piante. In questo modo potrei capire cosa ha funzionato e cosa no, e correggere eventualmente il tiro» Strano, non le ho sentito pronunciare la parola “biologico”. «Perché francamente sono un po’ scettico a riguardo. Commercialmente tutto ciò che è biologico funziona benissimo, ma a livello pratico non mi convince del tutto. Preferisco usare prodotti chimici a basso impatto ambientale piuttosto che utilizzare rimedi naturali che in realtà danneggiano tutto l’ecosistema. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. Quando sulle viti si presenta un parassita dannoso ci sono prodotti chimici capaci di sterilizzare le femmine di quella specie, che si dissolvono nel giro di poco e che debellano il problema senza arrecare danni agli altri organismi che vivono sulla pianta e che contribuiscono al suo benessere. In agricoltura biologica un problema di questo tipo dovresti risolverlo con il pireto, estratto del crisantemo che uccide quel
Luca Salviati, 37enne stradellino
«Dopo otto anni e mezzo da dipendente in città ha deciso di tornare in collina, tra i vigneti di Santa Maria della Versa» parassita e tutto ciò che incontra. Questo vuol dire sì che hai messo sulla pianta un prodotto naturale e non chimico, ma che hai danneggiato anche altri gli altri organismi che collaborano al suo ciclo vitale». Sono sempre di più i giovani che decidono di tornare alla terra, in una sorta di inversione di tendenza rispetto a quello che accadeva fino a pochi decenni fa. Allora la meta era la città, adesso è la campagna. «In effetti da quando ho iniziato questa nuova avventura sono stato contattato da molti giovani della zona che fanno il mio stesso lavoro e che si sono complimentati per la scelta e augurato buona fortuna. Non solo, mi hanno anche chiesto di incontrarci e di scambiare quattro chiacchiere. Questo mi ha fatto estremamente piacere e mi fa sperare in future collaborazioni: sarebbe bellissimo creare un gruppo di giovani agricoltori, perché il nostro territorio ha enormi potenzialità e sono sicuro che insieme si possano ottenere grandi risultati». Secondo lei perché la campagna ha acquisito un nuovo fascino? Forse perché il lavoro ha cominciato a scarseggiare anche in città? «Non credo sia per questo, perché tutti i ragazzi con cui ho parlato si trovavano
nella mia stessa situazione: avevano un lavoro stabile ma cercavano qualcos’altro. Io penso che la motivazione sia la stessa che ha spinto anche me: la ricerca di una dimensione lavorativa più umana, più calma, in sintonia con l’ambiente e i suoi ritmi». Lei è ancora il presidente del Circolo Fotografico Oltrepò: porterà la fotografia in azienda? «Assolutamente sì. Questo nuovo lavoro mi dà continuamente nuove idee e stimoli che certamente condividerò con gli altri membri del circolo. Ogni mattina, quando vado nei campi, i miei occhi vedono qualcosa di nuovo, e osservano affascinati i cambiamenti che la natura fa quotidianamente. Quando è presto mi piace osservare la sculture di brina e le gocce di rugiada, che poi spariscono con il trascorrere delle ore. Le ombre che si allungano, le luci che modificano i colori e arricchiscono le cose di nuovi riflessi: è un mondo vivo che si trasforma. Penso che proprio il mutare della natura attraverso le stagioni sarà il soggetto delle mie prossime fotografie».
di Serena Simula
MONTù BECCARIA
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16 anni di amministrazione, uno dei sindaci più longevi dell’Oltrepò Quest’anno anche gli abitanti di Montù Beccaria saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo consiglio comunale. La data delle elezioni non è ancora certa e, a causa dell’emergenza sanitaria, rischia di essere spostata a fine estate o inizio autunno. L’unica certezza è che il sindaco uscente, Amedeo Quaroni, non potrà ricandidarsi a tale carica, a causa delle limitazioni previste dalla legge. Lo abbiamo intervistato, facendo un bilancio non solo del suo ultimo mandato ma anche di quanto fatto in questi sedici anni consecutivi alla guida dell’amministrazione comunale. Quaroni, attualmente lei è uno sindaci oltrepadani in carica da più anni. Quando ha iniziato il suo percorso? «Ho iniziato nel 2005, prima del mio primo mandato, come sindaco facente funzioni in quanto il mio predecessore Vercesi era mancato poco dopo la sua elezione. Dal 2006 sono stato eletto per tre mandati consecutivi». Quali sono le opere e i progetti portati a termine nel suo ultimo mandato? «Solitamente, si cerca di ultimare i progetti annunciati nel programma elettorale verso la fine del mandato: questo perché occorrono anni per programmare i lavori, per adempiere alla burocrazia e per gestire le finanze comunali. Il lockdown ha ostacolato la realizzazione materiale di alcuni progetti, come penso questo si sia verificato anche in altre realtà. I bandi e i cantieri sono stati sospesi per diversi mesi e per questo sono stati cambiati tutti i nostri piani. Sono state portate a termine diverse opere negli anni precedenti, rimanendo fedeli al nostro programma elettorale: abbiamo rimesso a nuovo tutto l’impianto di illuminazione pubblica, sostituendo i lampioni con quelli di ultima generazione su quasi la totalità del territorio comunale e aggiungendo ex novo alcuni punti luce, andando in contro alle esigenze dei cittadini. Sono in fase finale di realizzazione i lavori riguardanti la nuova palestra delle scuole: speriamo di poterli terminare entro questa primavera. Questo era un punto principale del nostro programma elettorale, perché sul nostro comune sono situate scuole materne, elementari e medie che offrono il servizio anche ai bambini dei paesi vicini. I locali adibiti a palestra non erano più sufficienti, troppo piccoli e fuori dagli standard attuali. Si tratta di un’opera che non avrà alcun peso economico sulle spalle delle future amministrazioni, interamente pagata senza lasciar nessun debito. Sono anche previsti interventi sulle strade comunali, con duecentomila euro già messi a bilancio per le asfaltature da effettuarsi nella prossima primavera».
Del centro sportivo mai decollato cosa ci può dire? «Stiamo terminando i lavori presso il centro sportivo comunale, costruito parecchi anni fa e mai operativo. Quest’anno doveva essere l’anno della svolta, l’emergenza sanitaria ancora una volta ha rallentato la burocrazia. Siamo però riusciti a smantellare parte di una costruzione preesistente che verrà sostituita da un campo da calcio regolamentare a sette entro la fine del mandato». E per quanto riguarda il piano governo del territorio? «Stiamo lavorando su alcune varianti del PGT, che avevamo in precedenza approvato nel 2012. Ultimamente si sono create alcune necessità da parte di alcuni cittadini, e per questo abbiamo deciso di poter effettuare alcune modifiche. Si tratta di una ventina di varianti che dovrebbero essere approvate entro fine mandato. Va segnalato che Montù Beccaria è uno dei pochi comuni di collina in cui negli ultimi cinque anni sono state edificate nuove abitazioni. Si è creata addirittura una nuova zona residenziale a ridosso del palazzo scolastico, dove ora vivono una trentina di famiglie». Invece, nell’arco di questi sedici anni quali sono state le opere più rilevanti? «Di lavori ne sono stati fatti, ce ne sarebbero da elencare… Nel 2013 c’è stata la riapertura del Teatro Dardano, chiuso da più di quarant’anni, e che purtroppo non abbiamo potuto utilizzare nell’ultimo anno per colpa della pandemia. Il comune ha inoltre acquistato una villa nelle vicinanze dell’istituto scolastico, dove ora hanno sede la banda del paese e la biblioteca comunale, che raccoglie circa 25.000 volumi annualmente aggiornati. Con gli 830mila euro ottenuti con il bando “6000 campanili” si è provveduto a piastrellare in porfido le vie del centro storico, rifacendo inoltre tutti i servizi idrici, di scarico e del metano. Molti sono stati gli investimenti sulle frazioni: per esempio, la sistemazione del centro sportivo e la piscina di Costa Montefedele. Sono orgoglioso che, in sedici anni di amministrazione, i debiti del comune si sono ridotti di almeno il 60-70%. Siamo partiti con una situazione critica, trovandoci due milioni di euro di debiti lasciati dalle amministrazioni precedenti, ad oggi ridotti ad un passivo di 450-460 mila euro. Ci terrei a ricordare che nel frattempo sono stati realizzati parecchi progetti, acquistando diversi immobili da destinare ad uso pubblico, senza effettuare alienazioni, semplicemente cercando finanziamenti e cercando di risparmiare sul superfluo e non sul necessario».
Amedeo Quaroni, al suo ultimo mandato di sindaco di Montù Beccaria
Inoltre, Montù Beccaria è uno dei pochi comuni ad avere un’enoteca comunale… «L’enoteca comunale è stata inaugurata nel maggio 2015, ricavata da alcuni spazi adiacenti al comune e messa a disposizione dei produttori durante le manifestazioni. Potrebbe essere sfruttata ancora di più, creando un sistema di collaborazione tra le varie aziende e poter calendarizzare qualche ulteriore evento. Spero che in un futuro si riesca a coinvolgere al meglio i produttori e creare una maggiore sinergia». Come capitato in tutti gli altri comuni, anche Montù Beccaria nel 2020 ha dovuto sacrificare i suoi principali eventi… «Quella del 2020 sarebbe stata la terza edizione del “BeviAMOontù”, una giornata enogastronomica per le vie del paese, organizzata dalla nostra Pro Loco. Le prime due edizioni erano andate molto bene e c’erano forti aspettative per la terza. È stato annullato l’”Agosto Montuese”, un evento che si svolge in circa otto serate e che negli nelle ultime estati ha portato a Montù migliaia e migliaia di persone. Purtroppo, la mancanza di questi eventi ha causato una forte “frenata” nelle relazioni sociali. C’è il rischio che questi stop forzati vadano a compromettere anche il rapporto umano che si era creato tra gli organizzatori. Spero che non sia così». Diciamo che voi sindaci in carica vi siete trovati ad amministrare in una situazione non certo facile, che nessuno poteva immaginare. «Certamente questa è stato il momento più brutto. Una situazione di difficoltà, certamente non paragonabile a questa, l’avevo già vissuta nel primo mandato, quando nel 2009 il nostro comune venne colpito dal maltempo, causando parecchi danni al ter-
ritorio, con frane e smottamenti su diversi versanti. Alcune famiglie rimasero sfollate a causa di un’enorme massa di terreno staccatasi dalla collina. Venne fatto il possibile, accedendo a fondi per cercare di rimettere in piedi tutto ciò che il maltempo aveva distrutto in poche ore. Anche quelli per noi furono anni difficili». Per legge, terminato questo mandato, non potrà più ricandidarsi per la carica di sindaco. Pensa comunque di rimanere ancora coinvolto, magari ripresentandosi come candidato consigliere? «Se il nostro gruppo intenderà proseguire e ripresentarsi alle prossime elezioni, si cercherà di trovare un nuovo candidato sindaco condiviso, ma penso certamente di rimanere coinvolto in altre vesti. La scadenza naturale del mandato sarebbe a maggio, ma ad oggi non è ancora chiaro quando si potrà andare a votare: qualcuno ipotizza addirittura che ciò avverrà a settembre o ottobre. Vedremo come si evolverà la situazione nei prossimi mesi». Lei è anche coordinatore di Forza Italia per l’Oltrepò Pavese, ruolo che ormai ricopre da alcuni anni «Per quanto riguarda la politica posso dire di non essermi mai tirato indietro e che andrò sempre avanti a dedicarmi a questo. Quando mi sono candidato alle ultime regionali mi ha fatto molto piacere vedere che nel mio comune Forza Italia ha registrato il 45% dei consensi, un risultato di gran lunga superiore rispetto alla percentuale regionale: questo significa che molti cittadini non hanno guardato l’ideologia politica, ma alla singola persona».
di Manuele Riccardi
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C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò...
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la storia di Carlo Sgorbini detto “MÄRAS” Carlino per tutti ma per la zona GodiascoSalice Terme, era conosciuto con questo strano nomignolo, “Märas” che in dialetto significa roncola: non ho mai capito cosa centrasse il mio amico Carlino con le roncole ma tant’è, così lo chiamavano. Era un uomo strano, un concentrato di indolenza e di seria attività, di lavoro coscienzioso e di qualche buona partitina a poker, era soprattutto una bravissima persona con la battuta sempre pronta. Le battute di Carlino erano taglienti e fulminanti ma pronunciate sempre con una calma olimpica, con tempi comici degni di una grande scuola di recitazione; erano semplici considerazioni o estremizzazioni di fatti normali di vita, enunciate sempre al momento giusto, ricercate intonazioni e con una voce leggermente appoggiata su una esse dolce trascinata, dal tono pacato e tranquillo. Era nato secondo di cinque figli, da Angelo Sgorbini detto Giòl ad Gêp e da quella santa donna che rispondeva al nome di Sturla Eugenia detta Genia. Già i nonni Gêp, Carlê e nonna Faustina erano stati personaggi degni di nota nella storia di Sant’Eusebio, spesso ricordati per la laboriosità e per qualche gustoso episodio di vita familiare; il padre Angelo detto Giòl ad Gêp, li superava tutti. Non amava molto il lavoro, anzi non lo amava per nulla: gradiva invece dopo un po’ di lavoro nei campi, dedicarsi ad attività ludiche o ad invenzioni strane e di dubbia utilità. Dedicò ore ed ore ad una ruota che, munita di diverse scatole ancorate alla sua circonferenza esterna, girando fissata ad un perno e parzialmente immersa nell’acqua del torrente Ardivestra, sollevava il liquido di pochi centimetri con estrema soddisfazione dell’inventore: le scatole si immergevano vuote nell’acqua, riemergevano cariche di liquido che depositavano in una canalina posta a non più di trenta centimetri di dislivello dall’acqua. Splendida pompa di sollevamento! Ancora: avendo spezzato il vomere dell’aratro trainato dai buoi, tentò con pochissima fortuna di sostituirlo sacrificando la robusta pentola di latta che serviva all’alimentazione dei maiali, forgiando e modellando la superficie; riparò in tal modo l’aratro che al primo solco, esalò l’anima a Dio o, per meglio dire, il vomere al suo inventore e forgiatore, riprendendo l’antica forma di pentola per di più schiacciata. Ma non era ancora finita: la vera e propria vocazione all’invenzione, si manifestò in un paio di ali realizzate con leggere asticelle di legno, carta e cartone magistralmente assemblate da Giòlu perché sì, il nostro voleva provare l’emozione del volo. Un pomeriggio d’estate salì qualche gradino della sulla scala a pioli della cascina, inforcò un’ala per braccio e al grido
Le allegre scorribande a bordo del Volkswagen “Mobili”
Carlino Sgorbini con la sorella Marziana, la prima a sinistra
di “via da suta, si vola” si gettò nel vuoto tra la disperazione della povera Genia che l’aveva seguito implorandolo di non farlo. Il risultato fu una serie di forti ammaccature ma per fortuna, non si verificarono rotture se non nel morale del pover uomo scosso sia dal fallimentare tentativo, che dalle risate di chi aveva assistito e i “te l’avevo detto” della sua amata Eugenia. Mi stavo perdendo nel racconto di alcuni fatterelli di vita del padre dimenticando il nostro eroe. Carlino, stanco della vita del contadino che non amava, sul finire degli anni sessanta, acquistò a Milano dal suo amico Leo, un camioncino Volkswagen di colore marrone con una grande scritta sulle due fiancate “Mobili”. Carlino non provvide mai, nè ad acquistare nè a vendere mobili, ma la scritta rimase per molti anni. Aveva il conto terzi e trasportava di tutto in cambio di modici compensi. Vendeva vino a Milano in damigiane spacciandolo per proprio e commercializzava mele ammaccate da sidro, trasportandole a Santa Giuletta (i pum màch). Io, giovane studente universitario a Pavia, passavo l’estate a Sant’Eusebio al più bighellonando per il paese, raramente impegnato in piccoli lavori in aiuto a papà. Spesso, incrociando Carlino al bar o per strada, venivo invitato a fargli compagnia durante qualche servizio di trasporto conto terzi. Andavo volentieri perché il personaggio era simpaticissimo e poi mi rendevo utile, bloccando la quarta marcia di Mobili, così chiamerò il mitico Volkswagen sopra citato: Carlino partiva con l’ansimante mezzo di trasporto, prima seconda e terza marcia, tutto regolare. Quarta marcia ed io afferravo la manopo-
la della lunga leva del cambio trattenendola, in caso contrario non avrebbe mantenuto la posizione, lasciando il mezzo in folle. Quando l’autista doveva cambiare marcia, lasciavo la presa perché con le altre marce il problema non si poneva. Un pomeriggio solito invito, solita partenza, solito cambio di marce, all’inserimento della quarta, quasi per forza d’inerzia senza guardare, allungo la mano per bloccare la manopola ma Carlino, senza scomporsi o alterare la voce, mi dice serio “läsa stà cö sistemà l’ätàc” (non ti preoccupare che ho sistemato il fermo). Non capivo, abbassai lo sguardo e vidi che aveva sistemato un grosso elastico, quello che allora servivano alle donne per fermare le calze, agganciandolo allo schienale posteriore, cambiava marcia e, inserita la quarta, con un rapido movimento della mano fermava l’asta con l’elastico ricordato: vibrava molto ma non lasciava più il mezzo in folle. Una sera eravamo al bar a Sant’Eusebio per un caffè e due chiacchiere. Arrivò Aldo, proprietario del bar e commerciante di frutta. Si rivolse a Carlino con una preghiera “ho caricato ciliege a San Paolo di Rocca Susella ma ne ho lasciato una bräncà che i gä stìva no, iävàt a tö?” (una manciata che non sono riuscito a sistemare sul camion me li porta a casa tu?). Il nostro con aria leggermente scazzata, risponde affermativamente e, con un segno d’intesa, partimmo. A San Paolo la sorpresa: la bräncà (la manciata), in realtà erano 14,70 quintali di cassette di ciliege. Ricordo che Mobili aveva una portata massima di otto quintali e molti troppi anni sulle... balestre. Ciò causava un anomalo ripiegamento ruote verso l’esterno lasciando
l’impressione, solo quella per fortuna, di un mezzo instabile e insicuro. A bordo, si affrontò la discesa verso la statale con il mezzo che dava l’impressione di essere poco docile alle sollecitazioni del volante. Arrivammo al primo grande tornante, Carlino girò e girò il volante; il mezzo rispose male sfiorando il bordo della scarpata sottostante. Ad un tratto, al termine della corsa, il volante emise un piccolo scatto. Carlino imperturbabile guardando la curva mi disse “sperüma c’ a finìsä perché e vulänt ä lo finì” (speriamo che la curva finisca perché io ho finito di girare il volante). Con aria serafica come stesse parlando di una cosa che riguardasse altri e non lo interessasse minimamente. Grande Carlo, finì la curva e si concluse il viaggio con una leggera reprimenda nei confronti della ‘bräncà’’ di Aldo che rideva come un matto. L’elastico per trattenere la manopola del cambio non fu il solo intervento estemporaneo su Mobili, altre piccole riparazioni furono effettuate con fil di ferro e nastro isolante, una in particolare mi colpì molto. Aveva deciso di istallare un’autoradio sul potente mezzo, non essendo lo stesso predisposto a tale operazione, dovette sistemare la radio in una scomoda posizione laterale quasi irraggiungibile dal posto di guida. Il galantuomo provvide ad un’istallazione che semplificò almeno l’accensione e lo spegnimento. Durante un viaggetto mi disse “cënda la ràdio” (accendi l’autoradio). Mentre mi abbassavo per effettuare la manovra, si mise a ridete dicendomi “ghê l’interütùr tra i dü sedil” (c’è l’interruttore per l’accensione tra i due sedili).
C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò...
FEBBRAIO 2021
Quella volta a Godiasco, davanti alla fabbrica Merli.... Mi voltai e vidi penzolare una peretta (era solitamente l’interruttore che penzolava dalla testata del letto al tempo in cui il bagno in camera, era un orinale smaltato conservato in uno stipetto mono uso; per i doppi servizi si provvedeva con un altro orinale ed un altro stipetto, così mi spiegò lui) collegata ad una treccia di filo elettrico che proseguiva raggiungendo l’autoradio. Bastava schiacciare la peretta per accendere o spegnere il mastodontico gracchiante autoradio. Inutile dire che l’antenna era un pezzo di robusto fil di ferro zincato di risulta da un vigneto recentemente estirpato! Era un pomeriggio d’autunno oltrepadano, dolce, mite, dai colori pastello tenue dei vigneti che stavano perdendo le foglie, con il sole che abbracciava morbido senza pungere, con gli uccelli prossimi alle partenze migratorie, ormai allineati sui fili dell’Enel, quali soldatini in partenza per la guerra. Ero assorto nei miei pensieri davanti a casa, quando un fischio richiamò la mia attenzione: Carlino con il braccio perennemente penzoloni dal finestrino, mi invitava a seguirlo con un cenno della mano, di corsa lo raggiunsi senza chiedere la destinazione; dopo un po’ quando, bontà sua, ritenne d’informarmi, mi disse “vam a Gudiàs da Merli a cärgà ad fùräm” - andiamo a Godiasco dalla ditta Merli per un trasporto a Vigevano di forme per le scarpe -. Giunti a destinazione in anticipo, davanti alla fabbrichetta trovammo non il vecchio Merli ma il figlio Piero Luigi che, rivolto a Carlino, lo pregò di effettuare un trasporto di alcune attrezzature ginniche per la sua palestra. Voghera era la destinazione. Carlino tentò di prendere tempo dicendo “vena tardi” ma davanti all’insistenza del figlio del padrone acconsentì e ci avviammo dopo aver imbarcato Piero Luigi che parlava a raffica, come un mitragliatore incantato; Carlino, senza guardarlo, rispondeva con leggeri segni affermativi. “Vai di qua, vai di là, carica questo, carica quello, tornammo a Godiasco molto tardi: sul piazzale della piccola fabbrica il vecchio Merli ci attendeva nero come la pece, con i pugni stretti ai fianchi e lo sguardo torvo. Carlo scese serafico dal camioncino, lo avvicinò e lentamente gli disse “u mlà dic Pieroluigi e më mäscärdìva c’tèra dacòrdi äncä ti” (me lo ha chiesto Piero Luigi e pensavo tu fossi d’accordo) il vecchio non lo lasciò neppure ultimare e, guatando di malanimo il figliuolo, disse “söt cä sia däcòrdi con cul demente lì, däscàrgä svelt e ve indrè clê bële tardi” (cosa vuoi che sia d’accordo con questo demente, scarica velocemente e torna indietro che è
tardi). Caricammo e partimmo direzione Vigevano. Il vecchio aveva ragione, era tardi e giungemmo tardi all’appuntamento: stavano chiudendo il grande cancello dello stabilimento, Carlino si fermò due metri oltre la linea di chiusura impedendo ai due addetti di ultimare l’operazione. I due operai guardando male l’autista, con gesti della mano e urlando intimarono l’arretramento del camioncino ma il nostro, sceso con noncuranza dal mezzo senza spostarlo, li guardò e a bassa voce disse loro “ më a möv pù da lì, se ädvärì däscàrgäm e vam a cà dächì a un quart d’ùra, sädnò stam chi fëna ä dmämätèna” (se aprite scarichiamo e andiamo a casa tra un quarto d’ora, in caso contrario restiamo qui sino a domattina) Non gli risposero perché li aveva disarmati con la sua calma, lo guardarono con odio vero, ma aprirono il portone. Scaricò velocemente ed al termine, con noncuranza tutta sua, salutò con un “ciau” che sapeva di presa in giro, l’operaio che si era fermato sul portone. Così era il personaggio. Una sera al bar, mi annunciò che l’indomani saremmo andati a Castelcanafurone, da lui detto confidenzialmente Scäfärutôn che in dialetto significa grosso calzettone di lana. Probabilmente non saremmo tornati la sera ma il giorno dopo. Avvertii mamma e l’indomani partimmo con un carico d’uva di circa 14,30 quintali quindi ben superiore agli otto di portata massima. Partenza in mattinata e faticosa scalata del passo Brallo con il mezzo spesso in prima marcia dato il leggero sovraccarico. A metà salita cominciò a piovigginare e Carlino volle fermarsi per coprire con un grosso telo, le cassette d’uva temendo però, che l’acqua raccolta dal telone, caricasse ulteriormente il povero mezzo. “Sperùma cä piöva no tant parchè sädnò a vam pù sù” (speriamo che spiova altrimenti non riusciremo a proseguire). Salimmo lievi come caprioli e verso le quattordici, dopo una rapida pastasciutta dal Normanno a Brallo, iniziammo la discesa verso Ponte Organasco. Se in salita l’asfittico motore tribolava, in discesa chi tribolava era Carlino con lunghe frenate, più ipotetiche che reali, per tentare di fermare il mezzo e ad evitare i burroni che di tanto in tanto, si presentavano a lato del nostro cammino: chiaramente il sovraccarico non giovava ad una corretta frenata. Nel primo pomeriggio, dopo aver raggiunto il fondovalle, aver risalito la montagna dal lato opposto, lasciato alle spalle l’abitato di Ferriere, nota località di villeggiatura estiva tra la Val Nure e la Val D’Aveto, giungemmo nella mitica
Castelcanafurone a otre 800 metri d’altezza. Qui giunti intesi immediatamente che Carlino era molto popolare, lo salutavano chiamandolo sig. Sgorbini ed usando un’estrema deferenza. Iniziammo la consegna delle ceste d’uva: una qui, due nella casa vicina, una e mezza in una cantinetta nascosta. Poi, più in là, un’altra alla signora e ben tre al vicino benestante. A quel punto capii perché Carlino pensava di mangiare e dormire in loco, non avremmo mai finito entro notte. Per di più l’uomo si era stancato portando in spalla le pesanti sporte e arrampicandosi a piedi, su brevi mulattiere non percorribili da Mobili. A sera, con il camioncino ricoverato in un cortile chiuso (era ancora carico per metà di sportine d’uva nera da pigiare) andammo da Bianca. Il nome della giovane signora lo ricordo, sig.ra Bianca, quello del marito mi sembra Costante o Moreno. L’osteria era tutto per il paese, trattoria, luogo di vendita di prodotti alimentari e non, posto telefonico pubblico e, in caso di necessità, anche locanda. Locanda per modo di dire, me ne sarei accorto dopo cena. Mangiammo molto bene tagliolini, funghi e una faraona al forno splendida. Dopo un caffè, un ammazza caffè e due chiacchiere con i tanti che il nostro conosceva, andammo a dormire. Costante, così lo chiamerò, ci condusse all’ultimo piano dello stabile, una buia soffitta con pavimento in legno rustico e il soffitto in sgangherate assi di legno che lasciavano intravedere la luce del cielo che filtrava dalle tegole sconnesse. Ci coricammo in silenzio e dopo poco dalle fessure delle assi sopra di noi, prima sentimmo e poi inquadrammo un topo gigantesco che scorrazzava in solaio. Carlino serafico “sperùmä cum vena no a truvà! (speriamo non ci venga a far visita). Il giorno dopo, concluse le consegne, salutati i tanti amici castelcanafuranesi, dopo aver ammirato lo splendido paesaggio e la natura ancor rigogliosa, con i boschi non più verde brillante, ma tendenti ad assumere i colori dell’autunno inoltrato, lasciammo alle spalle lo splendido paesino di montagna e volgemmo la prua al fondovalle, sulla via del ritorno. Pochi giorni dopo nel pomeriggio, partimmo per la valle Schizzola per un servizio a nome di un guardiacaccia che necessitava di un trasloco a Montesegale. Giunti sul posto trovammo tre donne che con aria un poco strafottente, si rivolsero a Carlino dicendo “i mobili da caricare sono in casa, possiamo cominciare”. L’uomo rispose “fate pure, io faccio l’autista non il camallo” - scaricatore del porto di Genova -. Obtorto collo iniziarono a caricare il camioncino lasciando un piccolo spazio vuoto nella parte posteriore del cassone. Al termine si rivolsero di nuovo all’autista dicendo “ädès ghè al gugnë” (ora c’è il maiale da caricare), Carlino senza smettere di fumare e con un leggero sorrisino sulle labbra risponde “mê äl càrg no sicùr, pudì dìgäl a lù su va insüma da sul o ghi dä iutàl” (io non lo carico di sicuro, potete chiedere al maiale stesso se sale da solo sul camion o se dovete aiutarlo).
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Carlo Sgorbini
Le signore furiose chiesero aiuto a due vicini che guardarono male il reprobo, ma caricarono il grosso maiale. Partenza con parte del mobilio notevolmente sporgente a destra e sinistra del camioncino ed un maiale che grufolava di paura sul retro. Carlino decise, così conciati, di prendere la strada per Gravanago evitando la statale dove se fermato, avrebbe avuto guai grossi. Con la solita calma “sim fèrmä im porta drënta” e girandosi verso il maiale, “magari i mäl mätä äsèma!” (se ci fermano ci portano in galera, il guaio è se rinchiudono nella stessa cella anche il maiale). A Gravanago un trattore in mezzo alla strada ci obbligò fermarci; qualche conoscente si avvicinò al camioncino fermo e una persona, dopo aver dato un’occhiata al malandato mezzo ed al suo carico, chiese a Carlino con insistenza dove era andato, questi infastidito “ö purtà e càmio e e gugnë a fà un girë “ (ho portato il camioncino e il grufolante animale a fare una passeggiata). Grande amico mio, non sgridare tuo fratello Giuseppe detto Möta se anche nell’aldilà si scolerà una birretta. Grande amico mio: è morto giovane a poco più di sessant’anni, dopo essere diventato cliente del mio studio di Voghera fiero, come diceva lui, che il suo amico Cirighè fosse diventato un professionista importante, bontà sua. Un pomeriggio di maggio uscì dal mio ufficio ed io lo salutai dicendogli “ci vediamo”. Dopo circa un’ora una mia dipendente entrò nella mia stanza e mi disse che Carlino mi sta ancora aspettando nell’atrio “u ma dic, ci vediamo” ripeteva alle ragazze che gli chiedevano chi aspettasse. Quasi imbarazzato uscii, mi scusai e, pur impegnatissimo, lo accompagnai in strada per un caffè. Ti sia lieve la terra amico mio, ti sia lieve la terra. Spero tu possa incontrare lassù il tuo mitico Mobili che qualche sfasciacarrozze pensa di aver demolito dopo la tua partenza, ma non è così, non può essere demolito il simbolo dei tuoi anni migliori e delle nostre scorribande più allegre. di Giuliano Cereghini
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CINEMA
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Il “Confine” più pericoloso Vogherese di nascita ma di famiglia lombardo-veneta con DNA materno brasiliano, ultimo di tre figli, Classe 1990, è un noto musicista, per la precisione bassista, attore e cabarettista. Nell’anno del suo trentunesimo compleanno, però, un altro talento artistico prende il sopravvento: ha scritto e dirigerà il suo primo film. Horror. In primavera. Abbiamo incontrato Giulio Oldrati. Giulio. Iniziamo da... «Immagino voglia sapere un po’ di vita e curriculum. Allora... Mi sono diplomato al Liceo Scientifico, a Voghera, ed ho poi studiato Basso Elettrico diplomandomi alla Nam di Milano». Non ha proseguito negli studi universitari? «No. Ho avuto l’occasione di trovare un lavoro subito terminato il Liceo ed ho preferito così. Anche per non ulteriormente gravare sul bilancio familiare appunto per la frequentazione della scuola musicale. Che nel frattempo, la musica intendo, era diventata un’esigenza prioritaria. E nel 2014 sono così riuscito ad iscrivermi alla Nam, diplomandomi nel 2016. Sono stati tre anni “pesanti”, tra studio e lavoro, ma sentivo profondamente che così doveva essere». Altre passioni erano già esplose, però... «Beh, nel frattempo già suonavo con formazioni, con bands. Ho iniziato nel 2007 con i miei storici amici Andrea Civini, batterista, ed Alessandro Favale, chitarrista e voce, in un gruppo che si chiamava Break-Point. Ricordo il nostro primo concerto al Cu-Cu di Torrazza Coste. Nel contempo mi stavo rapidamente avvicinando alle Arti Visive, in senso generale. Era un mondo dove tutte le mie passioni, cioè musica, fotografia e creatività d’immagine, si potevano fondere in un unico progetto». Quali di queste Arti era però imperante? «Non posso definirmi un “fissato” della fotografia, anche se mi piace davvero molto, ma da sempre l’ho usata, mi passi il termine, per meglio definire il “contesto di ripresa video”: la composizione geometrica e l’attenzione alla prospettiva fotografica, ai punti della messa a fuoco, sono l’anima della successiva ripresa filmata. è però l’immagine in movimento che, alla fine, mi suscita emozione. Abbinando a volte un’altra mia passione, coltivata dalla nascita, che è il disegno. Disegno sempre molto, utilizzando i pennarelli. è proprio lo stile “Inchiostro” il mio preferito! Ed infine, una “cultura” che mi son costruito da auto-didatta è la Storia dell’Arte». è pomposo, barocco, romantico come propensione musicale e visiva oppure è un minimalista?
Giulio Oldrati
«Mi definisco “Realista”. Un “Realista” però del mondo onirico, che è il mio preferito. Ma realizzare un’Opera fantastica implica costi produttivi, la maggior parte delle volte, proibitivi, se non sei un professionista affermato, ahimè. Quindi, non sentendomi più di tanto coinvolto dal genere minimalista, sono certamente incline al realismo. Quello del grande Cinema italiano del dopoguerra». Quali sono i nomi di riferimento preferiti? «Oniricamente, il primo in assoluto è David Lynch, senza dubbio! E poi un incontro per me tardivo, che molto ha segnato il mio gusto cinematografico, è stato il nostro Maestro Federico Fellini! Una volta approcciato, la vera folgorazione è arrivata con “8 1/2”, ovviamente: la rappresentazione dei sogni e dei desideri che tutti noi abbiamo!». La sua cultura cinematografica è autodidatta? «Nell’insieme generale sì. L’applicazione alla ripresa è iniziata “rubando” qua e là tecniche e segreti che vedevo messi in opera da altri. Un grande consigliere è stato certamente il regista, anche lui vogherese, Marco Rosson. Un vero talento, pluripremiato in tutto il mondo.
Non tralasciando il fatto che ho studiato anche teatro, prima. Con Bruno Cavanna, dal 2013. Parecchi sono stati gli spettacoli portati in scena, anche, direi, impegnativi: ad esempio, “La Cantatrice Calva” di Eugène Ionesco, “Radio Argo”, dramma basato su racconti mitologici con protagonisti Menelao, Agamennone e molti eroi lirici greci... uno degli spettacoli che più mi ha appassionato». Ed anche il Cabaret, ad un certo punto... «Il percorso cabarettistico è iniziato con il Garpez, uno spettacolo-laboratorio tutto fatto da ragazzi! Tutti autori dei propri pezzi, supportati dai consigli dei colleghi, una situazione davvero stimolante e bella! Con il Garpez abbiamo solcato palcoscenici di zona ed oltre: Milano, Torino, Vercelli, Alessandria, i primi che mi sovvengono». Oltre a questo curriculum artistico di tutto rispetto, lei però inserisce in questi anni anche lo studio di Video Editing... «Che è la professione che svolgo attualmente, da due anni, per Sky Italia Tv. Dopo, anche qui, molta applicazione da autodidatta, nel 2015 inizio una serie di corsi online, che mi portano ad ottenere una Certificazione del programma di editing “Adobe Premier” con il Gruppo Internazionale “Espero”. Studiando, all’interno
dei corsi, anche altri software, come ad esempio Photoshop... Proseguendo contemporaneamente con un altro corso di Montaggio Video a cura di Davide Vasta, uno dei migliori professionisti del settore a livello nazionale». Video Editing che sempre più rappresenta una fondamentale parte di lavorazione della pellicola... «Assolutamente. è la cara, vecchia “PostProduzione”. La tecnologia di settore è talmente cresciuta, iperbolicamente, al punto di diventare, talvolta, un serio problema nell’ottenimento di risultato finale. Mi spiego. Negli ultimi anni, confidando nelle magie dell’editing, molto spesso la qualità del “girato”, delle scene riprese in produzione, si rivela davvero molto povera di qualità. E noi editor ci ritroviamo a fare i conti con veri e propri salvataggi acrobatici delle pellicole!». Sta quindi lavorando in Smart Working, al momento? «Ahimè sì. Da Marzo dello scorso anno, e non riapriremo gli uffici sino al termine della pandemia. Sarebbe effettivamente estremamente costoso rendere sicuri gli uffici della nostra grande struttura, composta da tre buildings! è una cosa che sto un po’ soffrendo, devo dirle: l’atmosfera “da ufficio” a me piace molto, pause di lavoro e possibilità di confronto faccia a faccia dello stesso incluse. E l’ambiente milanese, comunque, ti “carica”, con i contatti dal vivo con rinomati professionisti». Quando arriva l’idea di produrre un lavoro cinematografico in proprio? «Mi è sempre piaciuto scrivere storie, storie che da sempre nascono, mia inclinazione, in realtà come fossero sceneggiature. Ma l’idea di questa produzione che mi accingo ad iniziare è stata proprio una folgorazione!». Giunta in un momento insospettabile? «Esatto! Durante il lockdown, probabilmente nel subconscio ispirato dalla segregazione che era in corso, un giorno che ero alla guida rilassata, della mia automobile, dal nulla... ho immaginato quest’uomo, questo ragazzo, questo personaggio che vive chiuso tra le mura di una stanza. Si scopre, durante la pellicola, che la motivazione di questa estraneazione dal mondo, apparentemente dovuta a socio-patologia o limite indotto dalla pandemia, in realtà ha ben altra motivazione: non può attraversare i “Confini”. Che è il titolo del mio Corto Horror!». Questi “Confini” hanno quindi più significati? «Sono sipari tra ambienti diversi, non solo fisici, ovviamente, ma immaginari, emotivi, profondamente avvertiti, ed anche sovrannaturali. Sono “Confini” pericolosi, certamente.
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Il vogherese Giulio Oldrati ha scritto e dirigerà in primavera il suo primo film Horror La metafora è, di base, il limite della sua mente, all’interno della quale va a crearsi un mondo periglioso e temibile, invalicabile. Tentarne il superamento potrebbe essere drammatico e letale. Un reminder di Prometeo, che rubò il fuoco agli Dei. Come il greco personaggio mitologico, anche il mio protagonista non si può salvare, ma nel contempo non può morire, tranne... e qui mi fermo». Lei ha scritto soggetto, sceneggiatura, ritengo eseguirà il Video Editing finale, e sarà anche il regista del film? Quali altre figure la supporteranno? «Ha detto tutto giusto, ma devo precisarle che sarà un Cortometraggio della durata di massimo 18 minuti. Spero vivamente di riuscire a rimanere all’interno di questa tempistica. Inoltre, sono anche cameraman insieme all’amico, e strepitoso talento, Jakub Pielarz, studente dell’Istituto Europeo di Design a Milano. La mia fiducia nel suo “occhio”, sia fotografico che cinematografico, è totale. Aiuto-regia e
Casting Manager è Alberto Mastromarino, regista teatrale già in carriera dalle eccelse qualità professionali ed umane. Production Manager e factotum imprescindibile è Giulia Bona, la Direttrice Artistica del Voghera Film Festival. Costumi e Makeup/Trucchi, ruolo decisivo per la riuscita della parte horror, saranno in carico a Eleonorita Acquaviva, moglie del già citato Maestro Marco Rosson, strepitosa truccatrice! Scenografa ed aiuto-costumista è Maria Vittoria Giaccoboni, laureanda magistrale proprio in materia. L’attore protagonista è Marcello Spinetta, già in forza al Teatro Stabile di Torino e professionista incredibile, mentre il principale ruolo femminile è di Francesca Ragno, cantante ed attrice diplomata all’SDM di Milano. A completare il cast abbiamo due ballerine, Alice Di Vito ed Alice Boschini: la prima Alice, anche bravissima cantante, è una Hip-hop dancer, mentre la seconda, solo in ordine d’intervista e non per rango, è una bravissima professionista della Danza
Contemporanea. Non posso però rivelare i rispettivi ruoli all’interno della pellicola. Dimenticavo la Colonna Sonora, che è originale ed inedita interamente composta da me, mentre tutta la Produzione Sonora è in carico all’amico e musicista, chitarrista e produttore, di ben nota bravura Alessandro Tuvo, che insieme alla compagna Carolina Bertelegni forma l’apprezzato, molto apprezzato, duo “Family Business”. Ed infine, comparse a sorpresa...». Come viene tutto ciò finanziato? Quanto può arrivare a costare una simile produzione? «è appena partita una campagna di Crowdfunding, che terminerà l’11 aprile prossimo, sul portale “Produzioni dal Bas-
so” con budget di 5.000 euro. Mi son ritrovato a dover chiedere “aiuto” a finanziatori di buon cuore perché, al di là dei costi produttivi, vorrei innanzitutto depositare la storia, come copyright del soggetto inedito, ed inoltre poter partecipare ad alcuni Festival di settore. Credo molto in questo progetto! Se tra i lettori de Il Periodico ci fossero sensibili sostenitori, il link per partecipare, a fronte di svariati premi e facilities future, è : https://sostieni.link/27775. Le riprese inizieranno nella seconda metà del mese di Maggio 2021».
di Lele Baiardi
MOTORI
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«Piloti, che gente» “Piloti, che gente”. Mai titolo fu più azzeccato e dire che parlava di pistaioli. Se avesse avuto a che fare con i rallisti, sono certo che il Commendatore avrebbe incontrato serie difficoltà a dare un senso compiuto alla sua opera. Mi sono sempre chiesto quali sconosciuti fenomeni neurologici avvengano nel cervello scollegato di un rallista lato volante quando viene avvisato che mancano trenta secondi alla partenza di una prova speciale, quale sia il motivo per cui i neuroni dell’emisfero sinistro vadano in standby mentre le sinapsi elettriche dell’emisfero destro vengono sollecitate oltremisura fino al rischio di cortocircuito quando sono scanditi, un tempo da una mano ora dal semaforo, i fatidici 5,4,3,2,1. A mio parere è questo il momento in cui un pilota comincia a dare il peggio di sé. Il respiro affannoso, un rivolo di bavetta all’angolo della bocca, la solita domanda “ripetimi la prima curva” (che conosce come il pianerottolo di casa sua), il mondo che scompare tranne la strada e i comandi a sua disposizione. E fin che si tratta di un ragazzotto alle prime armi ci sta. è più che comprensibile l’eccitazione per un momento che ha sempre sognato di vivere guardando i filmati dei suoi idoli, come pure ci sta se parliamo di un professionista il cui successo lavorativo va di pari passo con le prestazioni. Ma il pilota per passione e divertimento, vale a dire la quasi totalità, perché? Può essere un autonomo che costituisce il 100% della forza lavorativa della sua attività, può essere un dipendente i cui capi già non vedono di buon occhio le sue assenze, può essere un illustre professionista che il giorno dopo è atteso da impegni molto importanti. Magari è sposato con prole e ha un mutuo da pagare o, peggio, ha una moglie che non condivide la sua passione o, molto peggio, proprio non la sopporta e non perde occasione per rinfacciargli il fatto che distrae tempo e denari dall’economia familiare. Tutti ragionamenti che lui ha già fatto mille volte. Ma ora 5,4,3,2,1 questi ragionamenti non contano, anzi proprio non esistono. Il suo emisfero attivo riconosce solo alcuni stimoli: accelerare, inserire più marce che può, alla fine di quell’ allungo dove il giro precedente ha frenato alla catasta di legna tenere giù ancora qualche metro. Se ci riesce evitando di danneggiare l’erba del campo adiacente la strada allora la sua autostima cresce, e di tanto. Se poi ha notato la presenza tra gli spettatori di qualche amico che certamente nei giorni successivi gli farà i complimenti (ero sulla tale prova in quella destra alla fine di una dritta, sei passato divinamente, come i primi) può anche succedere che aumenti il suo ego. Già, l’ EGO smisurato del pilota. In gara come durante le ricognizioni, ufficiali o abusive che siano, in macchina si è sempre in tre: il pilota, il suo ego e
il navigatore. C’è il pilota che lo esterna in modo sfacciato, perfino arrogante (io sono er meio, se non vincerò sarà perché avrò avuto dei problemi). Un altro evita di sbilanciarsi in pronostici ma gli dà libero sfogo quando uscendo dal parco assistenza ti dice: il preparatore insiste che l’assetto va bene così, ma lo so IO cosa è meglio, adesso ci fermiamo e do due click agli ammortizzatori anteriori. Ci sono anche piloti che non lo lasciano minimamente trasparire, eppure dalle loro espressioni avverti che lo stanno zittendo con faticosa ma signorile difficoltà. In fin dei conti, forse è giusto che sia così, senza quell’ego invece che a un rally ci si potrebbe iscrivere a manifestazioni podistiche non competitive. Ritengo che tutti abbiamo visto quel filmato in cui una vettura arriva lunga e finisce con le ruote nel fosso, il naviga scende a spingere aiutato dai pochi spettatori . Una volta rimessa in strada dentro la prima e via veloce senza zavorra. Qui emerge il peggio del peggio del pilota: la sua alienazione come a inizio prova gli fa riconoscere solo strada e comandi, in più il suo ego, pur momentaneamente in crisi, gli manda un velocissimo messaggio subliminale: la macchina è intatta, tu ci sei, il resto è noia, vai!!! E che dire del fantastico video che ha come protagonisti Rosario Siragusano e Tommà a Favara? Lì non c’è possibilità di equivoci, non ho sentito la nota, hai usato un tono sbagliato, dovevi darmela con più anticipo. Seduti comodi, con tutta calma Rosario gli illustra la condizione della strada viscida, gli indica con esattezza millimetrica il tornante pericoloso quasi chiamandolo per nome, gli fa presente la sua tendenza a bloccare le ruote. Rosario ha svolto il suo compito come meglio non poteva, è tranquillo, ma non ha fatto i conti con quel diavoletto che alloggia dentro ogni driver e ripropone il solito mantra: tu sei il pilota e lo sai tu come devi fare! Ma torniamo alla nostra gara. Finalmente ecco la fotocellula di fine ps e lì, puntuale, arriva l’altra domanda “QUANTO ABBIAMO FATTO?” Non importa che a distanza di 200 metri ci siano i cronometristi, ci sia un cartellone con i tempi di tutti, no, lui deve saperlo adesso. Allo stop altra situazione surreale. Mente do al commissario la tabella, ripongo il quaderno delle note, tolgo il casco, allento le cinture e apro il radar lui con la delicatezza di un bue muschiato mi lancia sulle gambe il suo casco. Ha altro cui pensare, ha un impegno inderogabile, apre la portiera e all’amico fidato che si è avvicinato domanda “quanto ha fatto XXX? XXX è il suo rivale di riferimento, non quello con cui sta lottando in classifica, quello è secondario e poi se ne occuperà il naviga. XXX è il rivale storico, può essere amico nella vita ma nemico in gara come pure può essere qualcuno oggetto di malcelata antipatia che per di più ha il torto di viag-
Mario Perduca al volante della A112 al rally del Canavese 1977
giare sui suoi tempi. Quando finalmente ha saputo, di colpo il pilota rientra in modalità umana, disinserisce il suo personale bang e, come guarito da un invalidante torcicollo, ruota la testa a destra, si accorge della tua presenza, abbozza un “tlà” e mosso da inaspettato altruismo ti apostrofa “ma non sei scomodo con quei caschi? Vuoi una mano?” Felice come un bambino la mattina di Natale prosegue “gli abbiamo dato tre secondi” (gli=a XXX). Quando è andata così il trasferimento successivo è un piacere, hai a che fare con una persona normale, quasi gradevole. Ma se XXX è stato più veloce, apriti cielo. Tutti i suoi fantasmi arrivano ad affollare l’abitacolo, diventa taciturno, e questo sarebbe il minore dei mali perché se apre bocca è solo per mettere in discussione tutto, la macchina, la scelta di gomme, le note. Ti indispone anche fisicamente perché tende a inserire marce alte a regimi troppo bassi e la vettura viene scossa da fastidiosi singhiozzi, quasi rifiutasse di avanzare. Può anche capitare che in un tratto rettilineo senza strade laterali ti chieda spazientito “mi vuoi dire se devo andare dritto?” Fortunatamente poi arriva la ps successiva e tutto finisce e tutto ricomincia. Sono stato iconoclasta nei confronti della mitica figura del pilota? Certo, ma ho scherzato. Forse. E comunque non più di tanto. Negli anni ho letto le note a sette piloti, personalità eterogenee, dal ragazzino
esordiente al capitano di lungo corso. Il mio irriverente profilo del pilota bene o male si adatta a tutti costoro, a qualcuno in modo perfettamente calzante, ad altri con qualche forzatura, ma una caratteristica in comune ce l’hanno. Prima che come piloti, avevo avuto la possibilità di apprezzarli come persone. Non trattandosi di un lavoro ma di una passione, questa è sempre stata la condicio sine qua non per decidere di passare tanto tempo in macchina e di condividere rischi e inevitabili delusioni. Invece dal punto di vista stile di guida, gestione della gara e anche coabitazione mi riesce difficile rendere pienamente l’idea di quanto siano stati diversi l’uno dall’altro. Usando una metafora linguistica direi: Babele. Se l’editore avrà la bontà di concedermi ancora spazio, nei prossimi numeri andrò a rivangare episodi che hanno come protagonisti alcuni di questi amici dando naturalmente la priorità alle malefatte, loro. Sono certo che non me ne vorranno. Quasi certo. Per concludere, non so chi tra loro sia stato il pilota più affidabile, di certo so quale è stato di gran lunga il più pericoloso. L’ottavo, primo in ordine cronologico. Fortunatamente ha guidato solo una volta una A112 al rally del Canavese 1977. di Mario Perduca
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motori
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Rally Storici: bilancio positivo per l’Equipaggio Mombelli - Leoncini Terminata una stagione, agonistica difficile, ricca di restrizioni e incertezze in cui i calendari sono stati stravolti dall’emergenza Covid, per Domenico Mombelli e Marco Leoncini è giunto il tempo di stilare il bilancio dell’anno passato prima di avviarsi verso una nuova stagione, la cui speranza è rivolta sempre verso una maggiore normalizzazione. Come detto, quella 2020 è stata un’annata ridotta nel suo svolgimento in cui, si sono vissute anche situazioni spiacevoli come al Rally Tuscan, gara annullata per la parte storica poche ore prima del via, innescando un forte malumore nei concorrenti, molti dei quali non si sono visti restituire a tutt’oggi la tassa d’iscrizione. Sotto l’aspetto del risultato finale, nonostante le mille traversie, l’equipaggio oltrepadano può ritenersi soddisfatto. Nei 3 appuntamenti (su 5) validi per campionato italiano terra rally storico, a cui Mombelli-Leoncini e la Loro Ford Escort hanno partecipato, hanno ottenuto i seguenti risultati: Rally Val d’Orcia il 22/23 febbraio 2° Assoluti, 2° classe 2, 1° classe 2/2000; Rally San Marino Historic 29/30 agosto 6° Assoluti, 2° classe 2, 3° classe 2/2000 e Rally Medio Adriatico 26/27 settembre: 3° Assoluti, 1° classe 2, 1° classe 2/2000, che hanno permesso al duo dell’alta Valle Staffora di aggiudicarsi il trofeo ACI per il 2° raggruppamento. «è stato un bel traguardo che premia i nostri sforzi – ha detto Leoncini – unitamente a quelli e di tutti coloro che ci hanno seguito e supportato in quest’anno condizionato dal virus Covid-19. Se da una parte siamo soddisfatti per esserci
difiche alla macchina, rivelatesi buone e performanti grazie alla maestria di Marco Vecchi “CVM” preparatore e assistente in tutti in rally in cui abbiamo gareggiato». La vettura, potenziata dalla CVM darà modo a Mombelli-Leoncini di puntare ancora più in alto in questa stagione agonistica appena iniziata in cui l’equipaggio oltrepadano ha cambiato casacca passando a difendere i colori della Scuderia Erreffe Motorsport di Romagnese. Calendario 2021: il Campionato italiano terra rally storico con le sue 6 tappe, la prima il 28 febbraio con il Rally Val d’Orcia, poi il 25 aprile con il Rally Medio Adriatico, il 27 giugno con il Rally San Marino, il 1 agosto con il Rally Vallate Aretine, il 7 novembre con il Rally Coppa Liburna e per concludere il 28 novembre con il Rally Tuscan. L’Equipaggio Mombelli-Leoncini su Ford Escort RS MK1
aggiudicati il Trofeo Aci, dall’altra, nostro malgrado, dispiaciuti e delusi per le ragioni non del tutto chiare che ci hanno impedito di correre al Tuscan, a seguito del repentino annullamento all’ultimo momento della nostra gara, valida quale ultima prova del campionato e tra le più belle per le prove che la caratterizzano. è un ottimo risultato, siamo cresciuti come esperienza e feeling tra driver e soprattutto con la macchina, e cosa più importante ci siamo divertiti tantissimo a passare i nostri week-end con una delle passioni più sentite che ci accomunano. Fuori campionato, a dicembre abbiamo disputato il rally del Ciocchetto, giusto per non perdere il ritmo e per collaudare le nuove mo-
Domenico Mombelli e Marco Leoncini
di Piero Ventura
MOTORI
FEBBRAIO 2021
Ricognitore al “Monte”: «è stata come una vittoria» Il “Monte” come lo chiamano in molti, è per tradizione uno dei rally più difficili dell’intero calendario per via delle tante variabili che gli equipaggi iscritti devono affrontare. Una gara dura dove un piccolo errore ti può compromettere una corsa densa di prove dure, da uomini veri. Il meteo instabile e le mille sfaccettature dell’asfalto sono le insidie maggiori e spesso interpretarle risulta difficile anche per i campioni più navigati. Ecco dunque che in queste condizioni il ruolo dei ricognitori è fondamentale. Passando più volte lungo le prove speciali a bordo dei propri muletti messi a disposizione dai team e poco prima del transito del primo concorrente, riescono a fornire ai diretti interessati notizie importanti sullo stato della strada in modo da suggerire eventuali correzioni nelle note e la scelta giusta delle gomme. Nella gara monegasca le segnalazioni più frequenti sono senza dubbio la presenza di ghiaccio e neve fresca, senza dimenticare il fango e lo sporco che si accumulerà nelle zone limitrofe dei tagli. Un buon ricognitore può rappresentare l’ago della bilancia, colui che può far recuperare posizioni in classifica e talvolta far vincere il rally al proprio assistito. E come la storia ci insegna, a Monte Carlo è materia ben nota! Ad entrare nel mondo dei ricognitori per un impegno mondiale di grande levatura come il “Monte”, quest’anno, è stata la giovane vogherese Claudia Musti (oltre trenta gare all’attivo e sei vittorie) che ha vissuto una di quelle esperienze destinate a rimanere impresse nella memoria. Al fianco di Mauro Peruzzi (esperto coequipier di piloti come Cunico, Dalla Pozza, Pianezzola, Zordan, Caneva, Gecchele, Segantini ecc), su di una Skoda Fabia R5, la 26enne vogherese è riuscita a dare il meglio di se superando uno degli esami più difficili. Figlia di Filippo, rallysta di punta nell’ambito pavese nel periodo 1973-1990 (tornato alle gare per un ritorno di fiamma dal 2014 al 2016) con 4 vittorie assolute nel carniere, titolare della Ova Corse in cui si approntano stupende Porsche; sorella minore di Matteo (115 gare all’attivo e 22 vittorie assolute) e, a completamento della Musti Dynasty, zia dei figli di Matteo, Lucrezia e Nicolò, rispettivamente di 13 e 8 anni, provetti kartisti, Claudia ha debuttato in campo rallistico al Monza Rally Historic Show 2014 leggendo le note al fratello Matteo sulla Porsche 911 concludendo al quarto posto assoluto e secondo di classe. Ma come si è avvicinata ai rally Claudia? «In famiglia si parlava e sentivo parlare solo di rally – racconta Claudia – e questo, di per sé, è stato un fattore importante. Ancora piccola ero già la fan n°1 di mio
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Il belga Thierry Neuville (classificatosi per 5 volte al 2° posto nella classifica finale del campionato del mondo rally) con Sofia D’Ambrosio e Claudia Musti
fratello Matteo. Avevo l’abbigliamento personalizzato “Mustirally” ed ero presente ai rally a cui partecipava. Poi, un giorno, sono salita su una delle nostre Porsche al fianco di Matteo. Credo sia scoccata in quel momento la scintilla che da fan mi avrebbe trasformata in protagonista. In quel momento da quella macchina non sarei mai più scesa». Molti giovani che si avvicinano ad una specialità hanno sempre qualcuno o qualche campione a cui ispirarsi. è stato così anche per lei? «Ispirarmi, no, mi è sempre piaciuta Fabrizia Pons, con Lucky Battistolli formano una coppia imbattibile. Ma i miei maestri sono stati invece tutti uomini, cito due nomi su tutti: Claudio Biglieri e Giuseppe Fiori. Posso dire che mi hanno cresciuta e seguita nei miei primissimi passi di navigatrice». Molte gare all’attivo, tanti risultati. Non le è mai balenata l’idea di passare dal sedile di destra a quello di sinistra? «Assolutamente, no! Mi trovo benissimo sul sedile di destra e voglio continuare in questo ruolo e migliorarmi». Veniamo ora al Rally di Montecarlo. Un’esperienza tutta nuova. Come l’ha affrontata? «Ero molto emozionata pensando al ruolo che avrei dovuto ricoprire in una gara tanto impegnativa. Però ero curiosa di capire come viene affrontata una gara mondiale. è molto differente dalle altre, è tutta un’altra cosa a livello di regole, tensione, strade, è diversa un po’ di tutto. Sono stati 4 giorni di lavoro molto intenso, fortunatamente tutto è andato per il meglio. Inizialmente avevo dei timori per l’annotazione note etc.etc.etc. In tanti sottovalutano l’importanza di questo ruolo. Il primo impatto è stato difficile, poi dopo la prima giornata, abbiamo notato che i
ragazzi erano soddisfatti del nostro lavoro. Avevamo fatto le giuste scelte. Posso dire che abbiamo lavorato come una squadra a 360° per tutti i giorni di gara. Alla fine è stata una bella esperienza, ho sentito da subito una fortissima fiducia attorno a me da parte di tutti. Questo grazie anche all’aiuto di Mauro che mi ha guidato al meglio in questa avventura. Abbiamo percorso tantissimi chilometri assieme, aiutandoci a vicenda come si fa in ogni equipaggio e squadra che si rispetti. Una squadra che torna dal “Monte” con il nostro equipaggio formato da Fabrizio Arenghi Bentivoglio e Massimiliano Bosi in gara con la Skoda Fabia R5 – RC2 della Delta Racing che nonostante parecchie traversie, ha chiuso con un onorevole 44° posto assoluto, 25° di RC2 e terzi tra gli italiani. Il Montecarlo è finito, torniamo a casa… anzi l’indomani al lavoro, però con la felicità di aver fatto una bella esperienza che sicuramente servirà nella mia carriera di navigatrice». Quale effetto le ha fatto un Montecarlo senza pubblico? «Strano. Molto strano. Un effetto triste, una grande mancanza. Si può dire che senza pubblico abbiamo vissuto un rally di Montecarlo all’ 80%. è mancato il suo calore, i colori, il tifo. Spero l’anno prossimo di poter ripetere questa esperienza circondata dal pubblico». Questa esperienza è stata la base su cui costruire progetti futuri? «Qualche progetto è nato. Ho conosciuto tanta gente, da grandi campioni come Thierry Neuville a importanti D.S. e non nascondo che qualche piccolo progetto già c’é. Di fatto per l’anno prossimo l’equipaggio è confermato». In questa esperienza c’è stato qualcosa che l’ ha colpito particolarmente?
Rally Montecarlo: immagini on board dalla Skoda di Claudia Musti
«Sì. Vedere la strada delle prove prima e dopo il passaggio dei piloti ufficiali. Non pensavo potessero procurarmi un così grande effetto. Passano in punti che manco ti immagini. Trovano il “taglio” in punti che noi “umani” non vediamo. Passano ovunque. è allucinante». Nel suo palmares ha 6 vittorie e molti podi all’attivo. Dove catalogherebbe questo Montecarlo? «Se si potesse la calcolerei come settima vittoria. Ho imparato di più in questa occasione che non in dieci gare». di Piero Ventura
La “Musti Dynasty”