Anno 13 - N° 148
Il Duca Denari si starà rigirando nella tomba
NOVEMBRE 2019
20.000 copie in Oltrepò Pavese
pagina 5
CASTEGGIO
Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - 70% - LO/PV
«Via Marconi terra di nessuno: un delirio notturno e serale» Cattivi odori che provengono dal Rile, mancanza di parcheggi, maleducazione dei clienti del bar, automobilisti che sfrecciano... pagina 37
TORRAZZA COSTE «Consorzio? O si punta sulla qualità, oppure si chiude» Dal 2 settembre il Consorzio di Tutela dei Vini dell’Oltrepò Pavese ha un nuovo direttore: è Carlo Veronese, 50 anni, e non è esattamente... pagine 16 e 17
GODIASCO SALICE TERME Varni Agnetti, gelo tra Riva e Fondazione
Nel comune di Godiasco Salice Terme, ci sono “cose” che funzionano bene, “cose” che funzionano più o meno bene, altre che funzionano più o meno male... pagine 20 e 21
VARZI «Conta che il salame sia buono, non dove si allevano i maiali» Il bando Agriseed pubblicato dalla Comunità montana rilancia il dibattito intorno al futuro del Salame di Varzi Dop. L’Ente... pagina 25
PONTE NIZZA «Autovelox, deterrente contro la maleducazione» Sicurezza stradale e recupero dell’ex stazione della Voghera-Varzi in vista del completamento della Greenway sono le priorità nell’agenda... pagina 24
COLLI VERDI Vino e zootecnica, il Bio al Castello Dal Verme Torre degli Alberi è una frazione del nuovo comune di Colli Verdi, nato il 1 gennaio 2019 dalla fusione dei comuni di Ruino, Canevino e Valverde... pagina 65
pagina 11
«Patto con Forza Italia, Asm regalata alla Lega»
il Periodico
Prezzi delle uve in caduta libera: ecco perchè
Il prezzo delle uve è un tema scottante ricorrente in Oltrepò Pavese. è un dato di fatto che negli ultimi 40 anni il potere di acquisto di un quintale di uva sia crollato drasticamente, causando uno stallo nello sviluppo del territorio. Lo si può notare da un semplice calcolo pratico. Prendiamo come riferimento un cingolato di piccole dimensioni: un Fiat 355C nuovo negli anni ‘70 costava tra 2.500.000 e i 3.500.000 di Lire. Oggi lo si acquista usato ad un prezzo oscillante tra i 3.500 e i 5.000 euro in base alle condizioni. Tramutando il valore in uva, partendo da un massimo di 5.000.000 di lire e dividendolo per un prezzo medio al quintale di 35.000 lire del 1977, bastavano 140 quintali di Pinot Nero per poter acquistare...
news
pagine 50 e 51
«Io assessore? «Noi Sinti, cittadini vogheresi dimenticati» Non faccio il tappa buchi» pagine 6 e 7
Rivoluzione in vista per la raccolta rifiuti a Rivanazzano Terme. Dal gennaio del 2020 entrerà in vigore il nuovo sistema di raccolta porta a porta per l’indifferenziato, che prevede l’eliminazione dei discussi cassonetti che tante polemiche hanno portato nelle scorse settimane. «Sappiamo che la possibilità di non differenziare offerta dalla presenza dei cassonetti grigi aperti è una delle cause dei bassi risultati ottenuti finora» spiega... pagina 19
Editore
ANTONIO LA TRIPPA
il Periodico News
NOVEMBRE 2019
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OLTREPO PAVESE E “STRATéMP”, CON L’AMMONTARE DEI DANNI SI SAREBBERO POTUTI PULIRE 1.700 KM DI FOSSI di Antonio La Trippa Il Periodico News tratta di temi riguardanti l’Oltrepò Pavese e viene distribuito in 20.000 copie solo in Oltrepò. Va da sé pertanto che la stragrande maggioranza dei propri lettori sia oltrepadana: molti parlano e capiscono il dialetto, quindi sanno cosa vuol dire “stratémp”. In italiano potrebbe essere: “temporale o pioggia di particolare intensità accompagnato da un tempaccio”. Il fatto stesso che in Oltrepò esista una parola come “stratémp” da tempo immemore è perché da sempre, gli “stratémp” esistono, da sempre gli “stratémp” si sono verificati in Oltrepò e da sempre hanno provocato più o meno danni, in alcuni casi dei veri e propri “disastar” (disastri). Per alcuni dei nostri lettori, i più anziani, questi “stratémp” non sono nulla di nuovo, checché se ne dica dei cambiamenti climatici a livello mondiale, del buco dell’ozono, della natura che si ribella, etc. Per altri invece non sarebbero paragonabili a quelli del passato. La verità probabilmente sta nel mezzo: l’Oltrepò è pieno di racconti che parlano di frane, smottamenti, di fiumi, ruscelli e di fossi straripanti, ma allora cosa distingue ciò che succedeva anni orsono da ciò che si verifica in tempi moderni? Per esemplificare: una volta su 10 ”stratémp” solamente 2, secondo i racconti dei nostri “vecchi”, provocavano qualche “disastar”, oggi su 10 “stratemp” i disastri sono 8. La colpa di questi continui disastri quando ci sono abbondanti piogge viene data normalmente a chi dovrebbe occuparsi della manutenzione e della pulizia di fossi che, illustri esperti del settore, indicano come causa principale. Altri dicono che non è del tutto vero, perché anche se la manutenzione e la pulizia dei fossi venisse fatta a regola d’arte, ciò non impedirebbe “disastar” e la causa è da attribuire alla rete fognaria insufficiente, mi spiego meglio: le tubazioni sotterranee delle fogne in molti casi e purtroppo anche ultimamente, sono state spesso progettate con dimensioni insufficienti, proporzionate alle unità abitative e la popolazione di allora, che però aumentando le ha sovraccaricate, con una portata di acqua e di acque refluee non in grado di far fronte ad eventuali “stratémp”. Rifare le fogne per molti paesi dell’Oltrepò è oggi una mission impossible: un’impresa titanica sia dal punto di vista operativo che economico. Quindi per alleviare i disastri provocati dagli “stratémp” l’unica soluzione è, come dicono gli esperti, fare manutenzione ai fossi. Qui “casca l’asino”, come si suol dire: con cadenza regolare, più o meno ogni anno, i vari sindaci dei Comuni oltrepadani emettono ordinanze in cui intimano ai vari proprietari di terreni dove ci sono i fossi di fare manutenzione, così come dice la legge. Nel contempo ogni persona di buon sen-
so penserà:“Se obbligano i privati a fare manutenzione nei fossi di propria competenza, i comuni, la provincia e gli enti interessati certamente puliranno a loro volta i fossi, i ruscelli, i tombini, etc. etc. etc. che competono loro”. Ma non è così, la realtà dei fatti è un’altra. La realtà è che di fossi puliti, siano essi di competenza pubblica o privata, ce ne sono pochissimi. Se le lucciole sono ormai quasi introvabili, i fossi puliti le superano in rarità. Per i fossi di competenza pubblica la scusa più gettonata per questa mancata pulizia è la mancanza di risorse, mentre per i fossi dei privati la scusa degli enti pubblici è che è difficile controllare, in base alle ordinanze emesse, che i lavori vengano effettivamente eseguiti. Qualsiasi persona di buon senso direbbe “Perché emettete le ordinanze se poi non siete capaci di farle rispettare? Forse per consumare inchiostro e carta?” Anche in questo caso la realtà è un po’ più complessa soprattutto nella parte più alta e meno popolata dell’Oltrepò: ci sono campi e boschi con proprietà difficili da rintracciare, magari gli attuali proprietari sono i figli dei figli dei figli, nipoti dei nipoti o parenti del proprietario originale ormai defunto e difficili da trovare. Nella parte più pianeggiante dell’Oltrepò questo problema non esiste, perché nel 99% dei casi, si conosce il nome del proprietario o del locatario , ma se ogni volta che succede uno “stratémp” anche in pianura ci sono allagamenti, fossi che tracimano etc etc, è perché non si fa ciò che si dovrebbe fare. Come risolvere il Problema? Visto che oramai con cadenza annuale i nostri Comuni chiedono lo stato di calamità (l’ultimo “stratémp” di qualche settimana fa ne è l’esempio più recente), sarebbe opportuno che i vari sindaci ed autorità competenti incominciassero a far rispettare l’ordinanza che riguarda la pulizia dei fossi dove il proprietario è certo, conosciuto e riconosciuto anche rischiando, ed è un rischio concreto, di perdere voti… Secondo molti “malpensanti” infatti è questo il vero problema: il consenso. I sindaci emettono le ordinanze, fanno il loro lavoro, sono a posto con la coscienza di “facciata”, ma poi non si preoccupano di controllare perché molti di questi privati cittadini proprietari di terreni sono loro votanti… e non è che siano proprio contenti di spendere soldi per pulire dei fossi… quindi onde evitare di perdere voti, soprassiedono nei controlli. Nel contempo sarebbe anche opportuno, visto che sono anni che ripetono le stesse ordinanze, di darsi l’obbiettivo mese per mese, non in un’unica soluzione, perché nessuno chiede loro il miracolo, di rintracciare i vari proprietari “sconosciuti” per obbligarli in tutti i modi possibili affinché puliscano i fossi di loro competenza.
Per i fossi di proprietà pubblica, sarebbe anche ora, essendo questa un’esigenza primaria, che i vari sindaci dell’Oltrepò iniziassero a dedicare in primis delle risorse economiche a queste “benedette” manutenzioni e pulizie invece di spendere soldi in altre suppellettili stradali come rotonde, rotondine, dossi, passaggi pedonali rialzati, dissuasori, etc. etc. etc. Vedete, a mio giudizio, c’è un problema di fondo: molti sindaci non capiscono o non vogliono capire che prima di buttare soldi in opere nuove su strutture vecchie, in questo caso le strade, la prima cosa da fare è sistemare la strada. è inutile rifare un pezzo di asfalto se poi i fossi o i tombini non sono puliti, l’acqua a quel punto filtra sotto il manto stradale e crea smottamenti e buche anche se il manto stradale è recentemente fatto ed è come costruire case sulla sabbia: se non c’è vento tutto bello, ma se il vento arriva (e prima o poi arriva) cadono. È inutile mettere dossi ad ogni piè sospinto in una strada se nella stessa ogni 20mt c’è una buca o un tombino che è una voragine. Prima porta a livello i tombini, prima pulisci le tombinature di attraversamento per raggiungere le varie proprietà, poi rifai il manto stradale e poi se avanzi dei soldi sbizzarrisciti con rotonde e rotondine, dossi, passaggi pedonali rialzati, dissuasori o altre cose simili. Ad onor del vero, come è successo in alcune località oltrepadane, i passaggi pedonali rialzati durante l’ultimo “stratémp” ne hanno accentuato gli effetti negativi, perché hanno avuto l’effetto diga nella loro prossimità, dove si sono formati dei grandi accumuli d’acqua che sono tracimati nei marciapiedi e dai marciapiedi hanno invaso garage e case private. In questa “triste” circostanza mi è capitato, passando, di vedere un sindaco “fan” dei dossi (avendo lui “ornato” il suo Comune di innumerevoli passaggi pedonali rialzati) che osservava con faccia perplessa il di-
sastro causato dallo “stratémp” ed accentuato dai passaggi pedonali rialzati. Si sarà reso conto della “lucàda” (stupidata) fatta? Dubito, bastava guardarlo in faccia per capire che non aveva capito. C’è poi un ultimo aspetto da valutare: le richieste danni subite dai cittadini e dai Comuni che nel caso dell’ultimo “stratémp” di qualche settimana fa, aumentano di giorno in giorno ed ad oggi sembrano ammontare intorno ai 6milioni di euro. Soldi che arriveranno, se mai arriveranno, dalle casse pubbliche. 6 milioni….I prezzi normalmente applicati da chi pulisce e fa manutenzione ai fossi variano dai 2 ai 5 euro al metro, dipende dalla stato e dalla logistica del fosso, facendo una media di 3,5 euro al metro per la manutenzione dei fossi, con circa i 6 milioni di danni dichiarati dopo l’ultimo “stratémp”, se la stessa cifra fosse stata usata in maniera preventiva si sarebbero potuti pulire e mantenere circa 1.715 km di fossi. 1.715 kilometri di fossi puliti! Arrotondiamo pure per difetto, facciamo che si potevano pulire 1.200 km…..sono tanti….. Allora non è forse meglio spendere soldi per la prevenzione anziché invocare lo stato di calamità naturale dopo ogni “stratémp”? Sembrerebbe di no. Molti sindaci d’Oltrepò, così come i passeggeri del Titanic ballavano mentre la nave stava affondando, vanno avanti ad organizzare tavole rotonde, convegni, a presenziare ad ogni sagra ed ad ogni nastro da tagliare, installare autovelox per fare cassa, costruire “cattedrali nel deserto”, rotonde, rotondine, dissuasori, passaggi pedonali rialzati ed altri amenità simili, mentre l’Oltrepò si copre di fango. Del resto li abbiamo votati noi. Con l’attenuante che in molti casi erano gli unici candidati mentre in altri abbiamo dovuto scegliere il meno peggio. I risultati, però, sono sotto gli occhi (ma ormai sopra le caviglie, come l’acqua) di tutti.
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il Periodico News
LETTERE AL DIRETTORE
NOVEMBRE 2019
Eccidio famiglia Lavezzari: «Narrazione priva di fondamento» Gentile Direttore, nella lunga intervista all’attuale sindaco di Menconico, pubblicata nel mese scorso, la narrazione riportata su come avvenne l’eccidio della famiglia Lavezzari nel febbraio del 1945 è priva di qualsiasi fondamento: la causa non è stata l’ospitalità data a militari tedeschi o ad altri sbandati. L’efferato eccidio di quella famiglia fu compiuto da noti membri del cosiddetto “terzo fronte”. Era da tempo annunciata ed i motivi erano ben altri. La determinazione della “banda” era così spietata che qualche giorno prima furono addirittura passati per le armi dagli stesso autori della strage due poveri sfollati milanesi (i coniugi Orazi) che si trovavano ospiti nella canonica, perché ebbero il sospetto che avessero visto manovre e preparativi. Suggerisco al primo cittadino e ai suoi molti lettori, se interessati, di rileggere le pagine scritte da don
Pasquale Stafforni e riportate nel volume “MENCONICO” scritto da P.B. Pedrazzi, edizioni Guardamagna 1991, nonché i diversi racconti di testimoni locali riportati nell’interessante lavoro di ricerca e tesi di laurea della prof. Paola Rossi dal titolo “Menconico: documenti di storia e cultura popolare” AA. 1993-94 alle pagine 16 e segg. Per completezza di informazione, la sentenza di morte pronunciata il 4 marzo 1945 dal comando partigiano (Divisione Aliotta) per 3 membri della “banda” mentre il quarto fu processato da un tribunale della Repubblica a fine guerra e condannato, è un documento in mie mani e mi è stato consegnato dall’amico Fabrizio Bernini, noto cultore di storia locale, purtroppo da poco prematuramente scomparso. Alessandro Callegari San Pietro Casasco (Menconico)
«Dov’è finita la carità cristiana?» Gentile direttore, volevo condividere con i suoi lettori un fatto che mi è accaduto a Salice Terme e che mi ha lasciato alquanto mortificata, non arrabbiata e neppure risentita, mortificata è il termine più opportuno. Sono una cattolica praticante, ma da quando la mia unica compagnia, la mia cagnolina, non sta più a casa da sola, ho dovuto rinunciare mio malgrado ad andare a Messa, in quanto, anche se non esiste una vera e propria legge in tal merito, il buon senso mi ha sempre suggerito di non andare nella “casa del Signore” con la mia cagnolina, potrebbe dare fastidio, distrarre i fedeli, sporcare etc. etc. etc. Qualche giorno fa ero a passeggio con la mia cagnolina, era tarda mattinata, in una Salice deserta, e vedendo il portone della Chiesa aperto, non ho resistito e sono entrata. Guardandomi in giro, ho visto che oltre a me c’era solamente un’altra sola persona. Ho pensato, in virtù di quel buon senso che credo di possedere, che se mi fossi messa in fondo, vicino al portone non avrei dato fastidio, tempo di dire una pre-
ghiera e sarei uscita, premetto che la mia cagnolina è molto tranquilla. A quel punto, il parroco mi si è avvicinato e mi ha pregato di uscire, in quanto gli animali non sono ammessi. Ho provato a chiedere al Parroco di concedermi qualche minuto, la Chiesa ripeto era deserta e la mia cagnolina era tranquillissima. Apriti o cielo…. Non ripeto esattamente cosa mi è stato detto, ancora oggi che ne scrivo, un senso di mortificazione mi assale…. il suo monologo si è concluso dicendo che i cani non sono cristiani e solamente a Sant’Antonio è concesso loro l’ingresso in Chiesa per la benedizione. Ora non devo io spiegare ai più, a cui nulla importa, che la mia cagnolina, mia unica compagnia delle mie lunghe e solitarie giornate è per me più cristiana di quanto il signor Parroco creda, ma non è questo il punto, il punto è: dov’è finita la carità cristiana se non sa riconoscere una povera “vecchia” che ha bisogno di stare anche per qualche minuto nella casa del Signore? Lettera Firmata - Salice Terme
In bicicletta al buio e di notte L’ incubo degli automobilisti Alla c. del Direttore, volevo condividere con i suoi lettori una situazione che ormai giornalmente mi capita: percorrendo la statale Voghera - Rivanazzano mi capita spesso di imbattermi in un signore in bicicletta, senza luci. Lo chiamo signore ma potrebbe essere chiunque: donna, ragazzino, asiatico, caucasico o di colore, poca importa chi sia (premesso che non si riesce a riconoscere perché è anche ben coperto), ciò che mi preme sottolineare è che questo signore rischia la vita tutte le sere, a maggior ragione in questa stagione, quando alle 16 è già buio e a peggiorare la visibilità ci si mette la pioggia o la nebbia. Il mio è un appello affinchè questo signore si metta almeno un giubbino catarifrangente o qualsiasi altro tipo di segnale luminoso che facciano presagire la
sua presenza. Dopo questo mio primo pensiero, pensare alla vita di questo signore, ecco però che mi sale la “carogna”: chi li controlla questi signori? Evidentemente nessuno o meglio non so neanche se sono controllabili e perseguibili... Perché se è vero che io automobilista usando il telefonino, piuttosto che assumendo alcol metto a rischio oltre alla mia vita quella degli altri e vengo giustamente sanzionato, questo signore non sta forse mettendo in pericolo oltre che la sua di vita anche la mia? Se lo investo? Oltre ad averlo sulla coscienza per il resto della mia vita, sarò “rovinata” per il resto della mia vita, sperando di riuscire a dimostrare di essere nel giusto, cosa che non sempre riesce. Paola Alberti - Voghera
In ricordo di Mons. Valentino Culacciati Egr. Direttore, l’Associazione Ex Artigianelli Pavoniani di Pavia si unisce al cordoglio dei familiari, della Comunità parrocchiale di Salice Terme e a tutti quanti hanno beneficiato dell’operato di Mons. Valentino Culacciati. All’indomani del mio trasferimento da Pavia a Salice Terme, conobbi don Valentino frequentando la parrocchia e partecipando alle attività parrocchiali. Gli parlai della mia provenienza e di padre Lodovico Pavoni, che di nobile e ricca famiglia bresciana, fattosi sacerdote, donò sostanze e vita per la meritoria opera a favore dei minori disagiati di Brescia ai tempi dell’occupazione napoleonica e della successiva restaurazione asburgica. Padre Pavoni fu tra i primi a capire che il riscatto di questi giovani doveva avvenire tramite il lavoro e un’educazione che li preparasse alla vita. Padre Pavoni fondò e fu patrono degli oratori lombardi. Creò istituti con scuole e laboratori in cui i ragazzi potevano imparare un mestiere e contribui-
re economicamente alla loro propria sussistenza e quella di una loro futura famiglia. La Congregazione da Lui fondata, opera in varie città europee raggiugendo anche altri continenti. Don Valentino, rimase profondamente colpito da questa figura di Santo ed essendo in fase di ristrutturazione l’organizzazione parrocchiale (poi, ben riuscita) Don Valentino a padre Pavoni volle titolare la bella biblioteca parrocchiale. Di questo, la nostra Associazione come tutta la Congregazione Pavoniana, gli sarà sempre riconoscente. Ad ogni anno alla festa patronale di Salice Terme, come Associazione, eravamo soliti partecipare alle varie funzioni ed era per noi, come per Mons. Valentino, un momento di ideale condivisione. La nostra Associazione, di Pavia, dopo più di 50 anni dalla chiusura dell’Istituto continua tuttora. Frutto di una buona “pianta” Pavoniana. Ermes Rigoli (Ex Artigianello) Salice Terme
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CYRANO DE BERGERAC
il Periodico News
Novembre 2019
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Il Duca Denari si starà rigirando nella tomba di Cyrano de Bergerac Il Duca Denari, patron della vera La Versa e del Consorzio di Tutela della Prima Repubblica, insieme con Angelo Ballabio e Pietro Riccadonna, indimenticati enologi impegnati in un Oltrepò brillante e qualitativo si staranno, certo, rigirando nella tomba. Il nuovo che avanza, mi hanno raccontato a un tavolo dell’Osteria del Giuse di Stradella, sta infatti asfaltando la qualità percepita del Metodo Classico locale, proponendolo in promozione al discount a 4.59 euro la bottiglia a un mese da Natale, momento magico per le vendite nel segmento della spumantistica. Tutta da ridere anche la scheda del prodotto sul sito della catena nazionale di discount, nella quale si legge letteralmente: «Quando si parla di spumanti italiani di solito alla mente sovviene la Franciacorta. In Lombardia, però, c’è un’altra area meritevole di essere menzionata: l’Oltrepò Pavese. Qui - si legge sul sito - si producono spumanti metodo classico a base Pinot Nero che non temono competizione alcuna né dalle produzioni del Franciacorta né dalle più famose etichette di Champagne». Per chi legge vale a dire che tanta qualità e vocazione meritano la mirabolante spesa di 4.59 euro a bottiglia, in promozione volantino però, mentre quando il prezzo è intero si parla di 5.49 euro. Pazzesco. Negli anni in cui i produttori di filiera (veri) cercano di fare immagine, lo “champagne” locale (definizione errata ma che rende l’idea) finisce a scaffale e sui volantini al prezzo di un Metodo Martinotti da battaglia, un prodotto come ne esistono a centinaia. Tutto questo non succede ad opera di qualche imbottigliatore ma per mano della prima cantina cooperativa del territorio, Terre d’Oltrepò, realtà che ha in mano il mercato e che vinifica la metà delle uve della quarta zona di produzione d’Italia e la prima di Lombardia (a volumi). La logica della damigiana è trasferita alla bottiglia con tappo a fungo, non con un Metodo Classico qualunque ma con una “private label” DOCG Oltrepò Pavese (Denominazione d’Origine Controllata e Garantita), il vertice assoluto secondo la legge italiana sulle denominazioni. Si dice che nessuno possa far niente per evitarlo, colpa del mercato brutto e cattivo, come se il mercato lo si dovesse sempre subire trasformando in carne da macello ogni denominazione, indistintamente, per vuotare le cantine alla svelta senza badare troppo al fatto che un nome di denominazione appartenga a tutti coloro che lo rivendicano. Dall’altra parte vi sono poi coloro che puntano il dito sulle piccole e medie aziende che hanno preferito uscire dalla denominazione e che i loro metodi classici
li imbottigliano come VSQ (vino spumante di qualità) senza riportare il nome territoriale, spiegando che ciò crea disvalore e non valorizza. Provate a dar loro torto di fronte allo scaffale del discount, magari aggiungendo che nulla si può… Ma per capire meglio, mi sono fatto spiegare da chi negli anni dal 2005 al 2007 prese parte ai lavori per portare il Metodo Classico Oltrepò Pavese dalla DOC alla DOCG, un fatto di prestigio indiscusso per una zona di produzione intelligente. Mi hanno raccontato che all’epoca a dirigere il Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, presieduto da Vittorio Ruffinazzi, era Carlo Alberto Panont, fuoriclasse dei direttori di consorzio, con entrature politicoistituzionali altissime. Tutto il lavoro venne svolto con metodo, nella certezza che il territorio in cui è nato il Metodo Classico italiano nel 1865 (primato conteso con Canelli) meritasse di veder sganciate le proprie bollicine dall’unico disciplinare-madre (come l’astronave-madre dei Visitors) che schiacciava la produzione in termini di qualità percepita di una referenza che doveva diventare simbolo. Panont, che aveva precedentemente avuto esperienze in Franciacorta e Valtellina, riteneva che l’Oltrepò avesse in 2.800 ettari di Pinot nero la forza
di fuoco che altrove mancava per elevare le bollicine italiane (in zona Franciacorta e Trentodoc si lavorava di più con lo Chardonnay). Il lavoro per arrivare all’ottenimento della DOCG dalla vendemmia 2007 fu tantissimo. Nacque poi il nome consortile Cruasé, per valorizzare parallelamente la pura espressione rosa del Pinot nero Metodo Classico delle colline oltrepadane. Entrambe le Ferrari sono però rimaste in garage con le gomme a terra. Anche il Cruasé - mi ha raccontato uno dei fautori del progetto abortito - fu infatti intaccato sul nascere da svendite in grande distribuzione (sebbene non a 4.59 euro a bottiglia) e molti blasonati produttori presero subito le distanze da “colleghi” che non avevano capito che un nome di marchio meritava di essere difeso e valorizzato da tutti, anche in termini di posizionamento di prezzo. Panont si voltò e si trovò condottiero di nessun esercito e migrò verso altri lidi: dopo aver diretto Ascovilo (associazione dei consorzi di Lombardia), contribuito ad avviare con dedizione l’Enoteca Regionale della Lombardia di Broni, condividendo un lungo lavoro con l’attuale presidente ed ex sindaco Luigi Paroni, fu chiamato a dirigere il Centro Riccagioia: il suo sogno era farne la San Michele
all’Adige dell’Oltrepò Pavese, centro studi e ricerca. Sogno infranto anche questo, per l’incapacità del territorio di fare rete e della politica, miope, di dare continuità concreta a dichiarazioni d’intenti. Sono rimaste le dichiarazioni, che si susseguono incessanti sui giornali locali, mentre Panont è migrato altrove e oggi dedica la sua professionalità ad altre zone vitivinicole italiane più mature, responsabili e consapevoli. Oggi l’Oltrepò Pavese ha 13.000 ettari di vigneti, ma la DOCG Oltrepò Pavese Pinot nero Metodo Classico vale solo 300.000 bottiglie l’anno (la Franciacorta su 3.000 ettari ha prodotto 17 milioni di bottiglie nel 2018). Quelle dell’Oltrepò sono pochissime, ma si svendono pure quelle. Sarà che si è abituati con il resto ed è facile estendere il modello? Ai posteri l’ardua sentenza, ai viticoltori le briciole, insieme alle speranze e alle promesse di una classe politica che ha commesso molti errori ma che dà ancora lezioni e porta tutti a spasso come i cagnolini ai giardini, in piazza Buttafuoco o giù di lì. Ognuno fa il suo mestiere, ma qualcuno lo fa davvero male. Mandateci una cartolina dal Merano Wine Festival, sperando che presto il francobollo non costi più di una bottiglia DOCG.
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il Periodico News
VOGHERA
NOVEMBRE 2019
«Patto con Forza Italia, Asm regalata alla Lega» Se il centrodestra vogherese ha già calato la prima carta in vista delle prossime comunali con la lista civica promossa da Delio Todeschini, il centrosinistra resta alla finestra in attesa di capire se e quando si faranno le primarie, che ruolo avranno i renziani di “Italia Viva” e se il movimento 5 Stelle sarà o meno un alleato. Nel frattempo però l’ingegnere del Pd Pier Ezio Ghezzi si “scalda” in vista della bagarre elettorale e parte all’attacco del centrodestra denunciando il “patto politico” che Lega e Forza Italia avrebbero intessuto in vista delle nuove elezioni. Un “gioco di potere” che avrebbe il suo fulcro nella gestione di Asm. Ghezzi, sembrava che la reintroduzione del consiglio di amministrazione per la municipalizzata fosse cosa fatta. Il sindaco Barbieri la voleva, invece alla fine è rimasto l’amministratore unico. è questa la pietra dello scandalo? «è una decisione maturata da un accordo politico tra Forza Italia e la Lega ed è un atto contro Voghera. Lo ritengo l’accordo più pericoloso per la città per gli anni a venire. Un patto per le poltrone che salva coloro che hanno determinato il disastro di Asm Vendita e Servizi e reso incerto il destino del Gruppo». Asm ha un destino “incerto”? «È sufficiente leggere bene il bilancio 2018 per capire la dimensione del danno. Utili e margini in caduta libera. La società si salva perché un fornitore di energia elettrica non ha fatturato circa 1,4 milioni di euro. La Asmt di Tortona, di proprietà del gruppo, produce utili ma non li distribuisce ad Asm perché deve pagarsi fornitori e investimenti. Da quando è stata comperata non è mai arrivato un quattrino nelle tasche dei vogheresi. Allora chiedo al sindaco: ma perché abbiamo speso i soldi dei vogheresi a Tortona? Quale vantaggio per noi cittadini?». Sta dicendo che il futuro della municipalizzata sarebbe a rischio? «Oggi Asm ha prospettive problematiche. Vendita e Servizi tenta di riparare i danni che la capogruppo ha generato. L’acquisto di Asmt Tortona, positivo sul piano territoriale, è stato un investimento elevato e, ad oggi, non remunerativo. Gli utili di Asmt Tortona e di Voghera Energia sono “imprigionati” nelle singole aziende per risolvere i problemi di Tortona e pagare i mutui della centrale elettrica, e Voghera resta a bocca asciutta. La prossima gara sulla distribuzione del gas, fondamentale per l’esistenza del gruppo, pare sia già data per persa. Forza Italia ha affossato, contro gli interessi della città, il cambiamento indifferibile: prima le poltrone e le assunzioni, e da ultimo la buona gestione
Pier Ezio Ghezzi
Nemici di facciata, alleati sotto banco: «Lega e Forza Italia preparano l’accordo per il 2020» della società e i vogheresi». Eppure Monica Sissinio, presidente di Asm Vendita Servizi, ha dichiarato che nonostante il caos bollette e le polemiche l’azienda sta facendo il fatturato migliore degli ultimi anni… «Il fatturato non è un parametro che, da solo, produce buoni risultati. Sono gli utili e i soldi in banca le vere “spie” della salute aziendale. Monica Sissinio non ha esperienza di gestione di azienda pubblica, come gli altri due membri del CdA allora nominati e non avrebbe dovuto accettare l’incarico.
Ha dimostrato, comunque, buona volontà, ma lo stato in cui ha trovato la società era pessimo. Ha assunto un professionista esterno di esperienza, avendo la capogruppo bruciato ogni competenza interna. Si è trovata nella condizione di firmare un bilancio con un utile molto risicato (- 60% rispetto al 2017)». Torniamo alla questione della rinuncia al CdA. Perché questa manovra rappresenterebbe uno snodo politico cruciale? «Perché crea nuove alleanze e di fatto esautora e mette fuori dai giochi politici
Barbieri. Lui dopo 18 mesi di bollette pazze ed esposti in magistratura, resosi conto che l’azienda veniva gestita in completo distacco dal Comune e con risultati preoccupanti, voleva giustamente reintrodurre il cda per recuperare il controllo. Ma ha fatto i conti senza l’oste: il suo partito. Il coordinatore (Gianpiero Rocca ndr) e i consiglieri di Forza Italia, ben sapendo che Asm è un bacino elettorale e uno snodo economico del territorio, hanno bloccato il progetto. Il sindaco è stato fermato con la minaccia di sfiducia in Consiglio comunale e il coordinatore di F.I. ha “firmato” il patto politico con il direttore generale (Piero Mognaschi ndr) e la Lega. Si sono ribaltati i ruoli. La Lega, dall’opposizione, ora comanda insieme al dg e Forza Italia ubbidisce». Sta dicendo che i vertici locali di Forza Italia avrebbero “immolato” Asm sull’altare di una alleanza con la Lega per le prossime comunali? «Dico che Asm, la maggior ricchezza della città, è declassata a “merce di scambio elettorale”, con i cittadini che subiscono. Il patto appena siglato può esserne la prova». Eppure tra Lega e Forza Italia non sembra che corra buon sangue. Si mettono le dita negli occhi a ripetizione…
VOGHERA «Dipende dalla Lega, se finge di scontrarsi con FI in consiglio comunale e poi si accorda per le poltrone: ad oggi, tanto per cambiare, si sono divisi Asm, Sapo, Pezzani». Lei parla di un accordo tra Rocca e la Lega ma il segretario (e parlamentare) Elena Lucchini, che un po’ di voce in capitolo l’avrà pure, ha più volte lasciato intendere di voler cambiare la vecchia classe dirigente, di cui Rocca è sicuramente un esponente… «Aspettiamo i fatti e verificheremo se la Lega parla e basta o “cambia le cose”. L’onorevole Lucchini, dopo anni che noi lo sosteniamo, ha dichiarato in effetti di voler estromettere l’intero gruppo di potere di Forza Italia dal Comune e di creare una nuova classe dirigente di destra. A breve capiremo se sono solo parole al vento». E l’Udc di Affronti? Che ruolo potrebbe avere a questo giro? «L’Udc, il cui senso delle istituzioni ho sempre rispettato, è sempre stata un’alleata strategica del centro-destra, con un patto di ferro siglato tra Paolo Affronti e Giovanni Alpeggiani. La scomparsa di quest’ultimo però ha determinato la crisi di Forza Italia e ora l’UDC pare essere senza alleati a destra, ma per quanto posso rilevare, dichiara di insistere sulla coalizione attuale, anche se non pare essere più strategica per Forza Italia. Conoscendo Affronti, attenderà fino alla fine prima di mollare». Crede che le liste civiche giocheranno un ruolo importante nello spostamento degli equilibri elettorali? «Le liste civiche, nelle elezioni locali, sono fondamentali per la vittoria. Voghera ne è stata un esempio. Nel 2015 vi erano 8 liste civiche a supporto dei partiti tradizionali. Barbieri batte Torriani nel 2015 per 11 voti alleandosi con Aquilini. Credo che anche nel 2020 nasceranno come i funghi.
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I vogheresi dovranno valutare bene ogni singola lista e capire se sono “liste civetta” per accaparrarsi le poltrone, o se animate da un vero obiettivo di cambiamento». Guardiamo un po’ in casa vostra. Crede che le primarie si faranno? «Credo, da sempre, nel ruolo delle primarie. La scelta del candidato sindaco non va decisa dalle segreterie di un partito o da quelle di una coalizione, e non deve rimanere una indicazione di pochi, seppur qualificati, dirigenti: va legittimata dagli elettori. Personalmente, se fossi un sindaco, sottoporrei volentieri la rielezione ai cittadini, affrontando con coraggio il loro giudizio sull’operato di cinque anni. È necessario il loro svolgimento in tempi stretti». Nel caso sfiderebbe Ilaria Balduzzi, che di fatto si è già candidata, almeno a livello mediatico. La appassionano i derby? «I derby calcistici infiammano le tifoserie, le Primarie hanno il ruolo opposto: allontanare il tifo e far scegliere i cittadini sui contenuti e sul profilo dei candidati. Non ci sono vincitori e vinti nelle primarie, ma candidati che si confrontano con il modello di città, i programmi, e la credibilità che mettono in campo. Poi tutti i candidati, insieme, formano la squadra per la campagna elettorale.
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«Io candidato? Si facciano le primarie, decideranno gli elettori» Da cinque anni lavoro tra la gente e ne sono riconosciuto. Finalizzerei volentieri, come ho già dichiarato, questo impegno nella sfida di primarie aperte di coalizione. Ad oggi gli scenari non sono ancora definiti, ma lo saranno a breve». Se non si facessero le primarie penserebbe di staccarsi dal Pd e correre da “civico”? «Le primarie sono previste dallo Statuto del partito. Il regolamento del tavolo di coalizione, formatosi a settembre, le prevede». Qualcuno potrebbe farle notare che la sua “corsa” a palazzo Gounela l’ha già fatta e, seppure per pochi voti, l’ha perduta. Sente comunque di essere ancora l’uomo giusto per rappresentare l’al-
«Barbieri tagliato fuori dai nuovi accordi politici»
ternativa al centrodestra? «Non so se sono l’uomo giusto, né mi assumo la responsabilità di dire di esserlo. L’autoinvestitura è il concetto contrario alla legittimazione popolare. Chiedo che siano i vogheresi, con il libero voto delle primarie, a indicare chi debba essere il candidato sindaco». Se il centrodestra si presenta unito, la storia degli ultimi 20 anni insegna che a Voghera, come si dice, “non c’è trippa”. Secondo lei una vostra alleanza con Il movimento 5 stelle potrebbe cambiare le cose o servono altri assi nella manica? «Con M5s abbiamo un denominatore comune: il programma. Così era nel 2015 e potrebbe esserlo ancora. Due anni fa gli chiedemmo di appoggiarci al ballottaggio: rifiutò e perdemmo. Oggi M5s pare disponibile al confronto. La alleanza PD, Lista Civica e M5s, costituirebbe una base di partenza ampia e positiva, ma al ballottaggio occorrono alleanze con le forze e gli elettori moderati per battere la destra. M5s utilizza, per le decisioni importanti, la piattaforma Rousseau, facendo scegliere direttamente gli elettori del movimento. Di fatto utilizza lo strumento delle Primarie in forma digitale. Non dovrebbe avere alcuna remora ad accettare le primarie per la candidatura a sindaco della città». di Christian Draghi
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Petizione anti-autovelox: «Basta fare cassa sulle nostre tasche» La Bressana-Salice, la tangenziale di Voghera in prossimità dell’uscita Oriolo, la Voghera-Varzi in località Ponte Crenna e oggi anche la Voghera-Casei Gerola. «La Provincia non può pensare di far cassa penalizzando gli automobilisti dell’Oltrepò vogherese». Questo il “leit motiv” che caratterizza la petizione popolare, con richiesta di rimozione del dispositivo automatico di rilevamento della velocità posizionato sulla sp 206 nel tratto da Voghera a Casei Gerola, presentata da consiglieri comunali, assessori e dai rappresentanti dell’Udc di Voghera. La petizione mira a far rimuovere o in alternativa momentaneamente a sospendere il funzionamento del dispositivo automatico di rilevamento della velocità posizionato sulla strada a doppia corsia Voghera - Casei Gerola, con eventuale possibilità di rivedere almeno il limite di velocità portandolo a 90 chilometri orari. Secondo la petizione popolare che verrà presentata il nuovo autovelox sistemato sulla Voghera - Casei Gerola tende a penalizzare gravemente i pendolari e non che ogni mattina con il proprio automezzo raggiungono Milano o Sannazzaro de’ Burgundi o la Lomellina in un tratto di strada a doppia corsia, forse l’unica della zona. «Non bastano le strade ed i ponti ridotti per scarsa manutenzione in modo indecente con limitazioni di carreggiata, ci mancava anche questo provvedimento» affermano i presentatori della petizione che sta raccogliendo in questi giorni molte firme. «Non abbiamo raccolto firme per suscitare polemiche, la nostra petizione vuole sollevare un problema e far riflettere su un provvedimento assunto che forse oltre alla sicurezza stradale mira anche a far cassa per sopperire in parte alle difficoltà finanziarie dell’ente Provincia» - afferma Nicola Affronti, presidente del consiglio comunale di Voghera e quotidianamente pendolare che raggiunge con il proprio mezzo il posto di lavoro a Milano. «I disagi e i pericoli restano, con le strade diventate in alcuni punti percorsi ad ostacoli. Non può inoltre passare il principio - conclude Affronti- che in mancanza di manutenzione si impongono nuovi limiti di velocità». Come risolverebbe il problema specifico oggetto della vostra petizione? «Prima di tutto noi chiediamo che si riconvochi il tavolo prefettizio al fine di verificare quali sono tutte le strade decretate e quelle che potrebbero comunque essere inserite, evitando se possibile questa concentrazione di autovelox provinciali che oggi insiste sul nostro Oltrepò vogherese».
Nicola Affronti
Al Presidente della Provincia Poma cosa chiede? «Chiedo prima di tutto più attenzione per la nostra zona, che non si traduca solo in qualche autovelox in più. Gli interventi sulle strade più importanti attorno alla nostra città non possono essere solo i rappezzi fatti in queste ultime settimane. Pur comprendendo le difficoltà di chi amministra riteniamo si possa fare di più e di meglio». E relativamente alla Voghera - Casei? «Non possiamo accettare che per pochi chilometri di tolleranza si penalizzino in questo modo gli automobilisti e questo in una strada a nostro avviso che non può essere considerata oggi ad alto rischio grazie alle due corsie per senso di marcia, o quantomeno con rischio minore rispetto a tante altre». Cosa chiede questa petizione? «Chiede di valutare la situazione provinciale in modo complessivo e quindi di assumere decisioni che non risultino ‘punitive’ solo per alcuni territori. Di certi “aiuti” i pendolari fanno anche a meno». Quante firme avete raccolto ad oggi? «In una settimana siamo arrivati alle duecento firme. I primi firmatari sono i consiglieri comunali UDC Galloni, Piombini e gli assessori Geremondia e Panigazzi oltre ovviamente a me e a tutti gli espo-
nenti del partito, ma risulta firmata anche da esponenti di altri partiti e soprattutto condivisa da cittadini che ne sostengono le motivazioni». Se qualcuno volesse firmare dove può farlo? «La raccolta firme avviene ogni sera dalle 18 alle 20 presso la nostra sede di via Papa Giovanni XXIII a Voghera». In primavera si vota per le comunali. Cosa farà l’Udc? «Il nostro partito sta monitorando la si-
tuazione, valutando alleanze possibili e credibili e non cartelli elettorali che dimostrano fragilità. Per fare accordi bisogna essere credibili e noi pensiamo di esserlo e soprattutto di mantenere con lealtà gli impegni. è certo che le situazioni locali sono diverse da quelle nazionali e quindi una valutazione in questo senso si impone, intanto prepariamo una buona lista di candidati». di Silvia Colombini
Tratto della Sp 206 tra Voghera e Casei Gerola, oggetto dei controlli
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«Più “agili” di altre associazioni: creiamo iniziative per risvegliare la città» Più “agile” e concreta di una tradizionale associazione di categoria, “Voghera da scoprire” è il nuovo team di commercianti che si sono riuniti con l’intenzione di badare al sodo, proponendo e orchestrando nuove iniziative che possano far tornare ai cittadini la voglia di «scendere in strada, salutarsi e godersi le vetrine come si faceva una volta». Non è un caso che, con le festività alle porte, l’associazione scaldi i motori e si prepari ad investire sul Natale, forte delle numerose adesioni già riscontrate. A guidarla è la presidente Maria Teresa Figini, titolare dello storico negozio di arredamenti per la casa “Vecchi”. Come è nata l’idea di creare questa associazione? «Lo spunto è venuto dalle conversazioni tra commercianti, che sentono la stessa esigenza: rivitalizzare la città. Dalle parole, poco per volta, attraverso riunioni sempre più allargate, si è passati ai fatti, ed ecco che è nata l’associazione. Per molti di noi, ma credo sia lo stesso per tanti vogheresi, è inevitabile pensare a come era Voghera qualche anno fa, quando la passeggiata per le vie del centro era una piacevole occasione per incontrare amici e conoscenti, o semplicemente per uscire di casa. Le cose sono cambiate, ma siamo convinti che vivere la città anche passeggiando per le sue strade, sia un’abitudine da recuperare». Quanti commercianti hanno aderito? «Fino ad ora gli iscritti sono oltre 70 e sono rappresentati tutti i settori del commercio: dall’abbigliamento, alla cura per la persona, all’oggettistica, alla sanità, alla ristorazione, al negozi di gastronomia, alle librerie, ai negozi di fiori e di fotografia, agenzia di viaggi. Un’adesione, e ne siamo molto contenti, davvero ampia». In città però esistono già diverse associazioni di commercianti, come Ascom, Acol e Artigiani. Perché crearne una nuova? «Senza nulla togliere alle altre associazioni, i commercianti hanno sentito la necessità di provare a smuovere le acque con uno strumento più agile. “Voghera da scoprire” ha una finalità impegnativa, ma abbastanza ristretta. Il ruolo di questa associazione non è istituzionale o amministrativo, ma soprattutto propositivo, derivante dall’esperienza che abbiamo ogni giorno nelle nostre attività. Non vogliamo sostituirci alle altre associazioni. Il nostro ruolo è semplicemente diverso: vuol essere un’iniezione di energia per il settore del commercio. E per questo vogliamo coinvolgere i vogheresi, che sono i nostri primi interlocutori. A loro chiediamo consigli e suggerimenti per migliorare il nostro lavoro e rendere viva, tutti insieme, la nostra città».
“Voghera da Scoprire”: già 70 i commercianti iscritti alla nuova associazione
Il vice Cristiano Bonferoni con la presidente Maria Teresa Figini
Viabilità e commercio: «Chiudere il centro al traffico non significa aver creato un’isola pedonale» Cosa c’è a Voghera…“da scoprire”? «La vita di una città di provincia è fatta da tanti aspetti, attività, eventi, persone. Una parte importante sono le strade della città, i suoi negozi, le vetrine che diventano una casa comune per tutti i cittadini. Bisogna riscoprire proprio questo, il piacere di uscire, di salutarsi, di respirare la città. Ci sono angoli di Voghera che diamo per scontati, ma che hanno una bellezza e una poesia che forse non sappiamo più co-
gliere. “Voghera da scoprire” invita tutti a riflettere anche su questo». Il commercio vogherese è davvero in crisi come si dice? «Basta vedere le molte vetrine chiuse per capire che i problemi ci sono, ma alcune attività hanno aperto e proprio il fatto che è nata questa associazione evidenzia che c’è la voglia di fare qualcosa in più. L’ambizione dell’associazione è fare in modo che insieme alle nuove frontiere del
commercio (centri commerciali, vendite on line) anche il piccolo negozio tradizionale riacquisti la dignità che merita invece di arrendersi silenziosamente a quello che sembra un declino senza prospettive. Anche perché la vitalità del commercio cittadino, le vetrine aperte e illuminate, contribuiscono non poco alla vita della città». In che rapporto siete con l’amministrazione comunale? «La nostra associazione non ha alcuna connotazione politica né vuole averla. Ciò detto riteniamo indispensabile la collaborazione con l’amministrazione che governa la città». Si è parlato spesso di viabilità in rapporto al commercio del centro. Sensi unici, parcheggi a pagamento o liberi, centro pedonale o aperto alle auto. Qual è la vostra posizione in merito? «La questione è complessa, ognuno può avere opinioni diverse. In certe ore della giornata le macchine sono in coda nella circonvallazione di Voghera, mentre il centro pedonale è vuoto. Il nodo della circolazione e dei divieti è un problema che va affrontato con la massima attenzione per consentire alle persone e ai mezzi di raggiungere senza difficoltà tutti i punti al centro della città e di viverla rispettando le esigenze di tutti. Accanto alla mobilità bisogna considerare anche il concetto di centro chiuso al traffico: chiudere una strada non vuol dire trasformarla automaticamente in un’isola pedonale, ma sono necessari interventi che garantiscano vita a questa zona. Via Emilia buia e deserta verso sera è un’immagine che suscita malinconia». di Christian Draghi
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«Noi Sinti, cittadini vogheresi dimenticati da tutti» Il campo “nomadi” di Campoferro, tecnicamente area attrezzata, è una delle più grandi contraddizioni nella storia recente della città di Voghera. Inaugurato nel 2006 per dare una collocazione ai Sinti che occupavano il cortile dell’ex caserma, doveva essere un segno di integrazione e civiltà, ma si è trasformato negli anni in una sorta di ghetto. Avulso dal contesto cittadino, collocato in un’area delimitata dalla ferrovia da una parte e la tangenziale dall’altra, nascosto alla vista delle auto in transito da un distributore, assomiglia molto a una di quelle escrescenze sulla pelle di cui un po’ ci si vergogna e che si cerca di mascherare in qualche goffo modo e porta già con sè una contraddizione in termini: inutile parlare di “nomadi”, perché chi ci vive lo fa da ormai 13 anni e più stanziale di così si muore. L’altra contraddizione è che quando si pensa ai nomadi (in vogherese i “singar”) il luogo comune è che si tratti di stranieri che si muovono di qua e di là dentro a delle roulotte. Quelli di Campoferro sono italianissimi, vogheresi residenti a tutti gli effetti. Secondo il censimento incoraggiato da Salvini lo scorso luglio, sono 99 gli abitanti di quell’area, metà dei quali minorenni. 22 nuclei famigliari che si dividono le 9 piazzole a disposizione. Per capire le condizioni in cui vivono bisogna farsi un giro da quelle parti. A confermare la sensazione che “se anche non li si trova è lo stesso (o magari meglio)” c’è la strada: per arrivarci bisogna entrare nell’area di un distributore e tenere la sinistra, per poi proseguire anche se si crede di essersi persi. L’accoglienza è buona, i bambini e i cani portano allegria. «Un po’ tutti si sono dimenticati di noi qui» dicono gli adulti. Una volta a fare da “ponte” tra loro e la città era l’Opera Nomadi, che oggi non c’è più. Vicino gli è rimasta Marcella Barbieri dell’associazione “Insieme”, che ha raccolto il testimone un po’ in solitaria. L’area è buia. «C’è un solo lampione che funziona, gli altri sono tutti rotti. Abbiamo più volte chiesto al Comune di intervenire, ma ancora niente» spiegano i residenti. La mancanza di luce non è neppure il problema più grave. «Abbiamo solo due bagni a disposizione, ce li dobbiamo dividere tra tutti. Ce n’era un terzo che da quando si è guastato non è mai stato ripristinato» ci raccontano. «Inoltre i servizi non sono riscaldati, per fare la doccia in inverno mettiamo delle stufette elettriche». In estate invece l’asfalto del cortile non lascia scampo: «Si muore dal caldo, gli alberi sono pochi e troppo bassi per fare ombra». In realtà, quasi non si vedono, tranne uno i cui rami pendono pericolosamente sopra una delle abitazioni e una
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«Non si trova lavoro, impossibile cambiare vita» nevicata abbondante potrebbe causarne la caduta e provocare danni. Il collegamento con la città è assicurato, per i ragazzi che vanno a scuola, da un servizio autobus apposito e, questo sì, efficiente. Dalle elementari alle superiori, la scolarizzazione è per tutti. C’è chi va alla Plana, chi al Santa Chiara, chi frequenta la scuola alberghiera. Qualcuno che ha già finito di studiare ha trovato lavoro nei bar del centro. Per loro l’integrazione non è mai stato un problema. Chi è nato e cresciuto a Voghera non ha avuto problemi, assicurano, a farsi amicizie e a inserirsi nel tessuto sociale come chiunque altro vogherese… “di città”. C’è chi sogna di diventare estetista e chi pratica la boxe con ottimi risultati. Il problema riguarda gli adulti ed è per tutti lo stesso: la mancanza di lavoro. C’è chi come Denus è iscritto all’ufficio di collocamento e a tutte le agenzie interinali possibili da anni e periodicamente va a cercare un impiego senza risultati. «Per tre anni avevo lavorato per Asm come operatore ecologico, con una cooperativa di Lungavilla che però poi ha perso l’appalto e io di conseguenza il lavoro». Daniela invece ha fatto la colf, in regola, per tre anni. Poi la famiglia si è trasferita e da allora anche per lei il buio. Senza un lavoro stabile e uno stipendio fisso non si può avere una casa “vera”, nemmeno un alloggio comunale. Rosina anni fa ce l’aveva fatta, poi è rimasta vedova e da sola non ha potuto far altro che tornare al campo insieme alla famiglia. Quando si parla di povertà spesso non si ha idea di quanto misuri: a Campoferro c’è chi si ritrova a dover gestire 50 euro al mese. Il Comune non vi aiuta? «Ci sono i contributi economici che elargiscono alle famiglie in difficoltà e quelli per i bambini, da cui però vengono detratti i costi forfettari fissi per luce e gas. Non basta certo per costruirsi una vita diversa». Come fate a vivere allora? «Ci arrangiamo. Qualcuno riesce a recuperare del ferro e a venderlo, qualche spicciolo salta fuori così o con altri lavoretti occasionali». Quando non si hanno alternative, si impara l’arte di arrangiarsi.
Un gruppo di Sinti residenti nell’area attrezzata
Il campo “nomadi” modello è oggi un ghetto fatiscente: «Due bagni non riscaldati da dividerci in 100 e un solo lampione funzionante» In ogni modo. Nella politica non credono più. «Non voteremo più» dice qualcuno, «tanto vengono a prometterci cose, ma poi non vedi più nessuno». Eppure, a scapito dell’accoglienza a dir poco tiepida che la città gli ha riservato i Sinti di Campoferro rivendicano con un certo orgoglio la loro vogheresità. Viene fuori quando gli si chiede perché non considerano l’idea di andarsene: «Noi siamo vogheresi, vogliamo restare qui. I nostri figli vanno a scuola, hanno la loro vita in questa città». La speranza che le cose possano cambiare per loro è proprio
«Bambini e ragazzi a scuola perfettamente integrati»
rappresentata dai bambini. Ci vorranno magari un paio di generazioni, ma è possibile che la loro integrazione diventi effettiva e che, trovando lavori regolari e più o meno stabili, possano cambiare le carte in tavola. Ad oggi permane la sensazione che i Sinti vogheresi siano considerati cittadini di serie B. L’area attrezzata che li ospita, motivo di vanto per i politici che la realizzarono, oggi somiglia più una donna anziana a cui è sceso il trucco e che mostra impietosamente le rughe. «Ci dicevano che questa area è un modello da imitare, ci mettevano in mostra ai vari politici di turno che venivano a vederla» raccontano i Sinti. «Adesso invece non si vede più nessuno. Ma che modello è? Qui non adesso ci considerano più». D’altra parte, se la ricerca del lavoro è impresa ardua oggigiorno non solo per un sinto, aggiustare i lampioni, ripristinare il terzo bagno e restituire un po’ di dignità all’area attrezzata “orgoglio” della città e ai suoi residenti lasciati a se stessi, apparirebbero concessioni alla decenza più che all’opportunità. di Christian Draghi
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«Il web a scuola una falsa risorsa: diventa scusa per facilitarsi la vita» Nell’epoca della presupposta conoscenza universale, con internet a fare da deus ex machina per giovani e giovanissimi, la scuola vede il suo ruolo cambiare ed essere costantemente messo in discussione. è per questo che diventa necessario guardare “Oltre i confini” e il preside del Maserati e Baratta di Voghera Filippo Dezza presenta un nuovo progetto contro la “dispersione scolastica”: l’obiettivo è evitare che situazioni di disagio economico, famigliare o linguistico, possano spingere alcuni ragazzi ad allontanarsi anzitempo dal percorso educativo, gettando in qualche modo la spugna e contribuendo ad alimentare non solo un vuoto culturale ma anche e soprattutto sociale. Dezza, può spiegare meglio di che tipo di progetto si tratta? «“Oltre i confini” è un progetto nazionale, che coinvolge circa 70 istituti, avente come obiettivo principale la prevenzione alla dispersione scolastica, creando in alcune categorie di studenti “a rischio” motivazioni e stimoli a permanere nell’ambito scolastico». A chi si rivolge? «è rivolto a studenti delle classi prime, sia della sede Maserati che del Baratta, caratterizzati da situazioni socio-relazionali di particolare difficoltà e comunque da situazioni che potrebbero facilmente ‘distrarre’ il ragazzo dalla frequenza scolastica: disagio famigliare in tutte le forme come disagio economico o difficoltà di lingua». Quando, dove e termini di attuazione? «Verrà attuato utilizzando un locale appositamente attrezzato presso la sede Baratta, destinato proprio allo svolgimento dei corsi e delle attività didattiche che verranno programmate e che troveranno realizzazione a partire dal mese di novembre. Si tratterà di lezioni a carattere eminentemente laboratoriale realizzate da un gruppo di docenti, circa una dozzina, di diverse discipline, i quali svolgeranno attività sia curricolari che ludico-formative volte ad accrescere nel gruppo di studenti coinvolto un adeguato interesse verso il lavoro scolastico. Parte di queste attività saranno al mattino ma il grosso sarà in orario pomeridiano».
«Non credo nella bontà assoluta del web, tantomeno a fini educativi»
70 studenti delle classi prime a lezione contro il disagio sociale
Quanti studenti vogheresi interessa? «Parliamo di circa 70 studenti già iscritti. Ma il dato è piuttosto ondivago, soprattutto in prospettiva futura». Il nome del progetto è “Oltre i confini”, ma di quali confini si parla? «Sono i confini del disagio in tutte le sue espressioni, i confini dell’aula scolastica vista solo come quattro mura che isolano l’adolescente dal mondo e dalla realtà che lo circonda, sono i pregiudizi della società adulta come di quella formata dai coetanei». Il tessuto sociale, anche a livello locale, è in continua evoluzione e sempre più eterogeneo. Quanto è diffusa questa “crisi”, se così si può dire, che porta ad allontanarsi dalla scuola? è possibile definirla con dei numeri? «Definire tale crisi con numeri è praticamente impossibile, soprattutto dal mio osservatorio in particolare, considerato che tutto sommato la realtà che dirigo e più in generale la situazione vogherese non presenta toni particolarmente drammatici in questo senso. Vero è però che le forme di disagio sono moltissime e molto spesso latenti: parliamo di disagio famigliare, sociale, economico e relazionale. L’integrazione e la relazione fra etnie e culture diverse non è, per quanto mi riguarda, un problema se visto con gli occhi dei ragazzi; se invece si comincia a ragionare con la testa degli adulti (i genitori) allora diventa una criticità che la scuola si deve attrezzare a combattere e, meglio ancora, a prevenire». Crede che i metodi di insegnamento tradizionali siano ancora “attuali” in un mondo in cui la conoscenza globale è a portata di mano grazie al web? «Purtroppo credo che la mia opinione sul tema sia abbastanza fuori dal coro: io non credo nella bontà del web in qualunque forma esso venga usato, tanto meno se a fini educativi. Siccome ormai non si parla più di uso ma di ‘abuso’ delle tecnologie,
Filippo Dezza, preside del Maserati e del Baratta
Il preside Dezza lancia un progetto per fermare la “dispersione scolastica” di per sé assolutamente non da demonizzare, le forme tradizionali di insegnamento non solo restano, per quanto mi riguarda, più che mai attuali e utili ma acquistano un valore aggiunto riscontrabile proprio nella loro supposta obsolescenza». Crede che questo accesso illimitato alle informazioni sia una falsa risorsa per gli studenti? «La scuola è luogo di educazione, di crescita e di formazione, non è occasio-
ne per inventarsi un modo per rendere la vita facile e veloce. è quindi inevitabile che l’abuso delle tecnologie diventi alibi perfetto per evadere dalla scuola e dalle sue regole: che motivo ho di dar retta a quattro insegnanti che me la raccontano su quando con un clic ho accesso diretto al mondo dell’informazione, della cronaca, del finto sapere, dell’apparenza e della globalità?». di Christian Draghi
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LA STORIA
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«Dialisi, incubo quotidiano e ora anche beffa» Una persona sana difficilmente sospetta quanto drammatica sia la vita di un dializzato. Doversi attaccare 3 o 4 volte la settimana a una macchina che ripulisce il sangue condiziona irrimediabilmente l’esistenza stravolgendo il quotidiano. E non è neppure principale dei disagi. Essere in dialisi significa non poter bere, mangiare o andare dove si vuole come qualsiasi altra persona, oltre a soffrire di un numero imprecisabile di deficit fisici. Finirci in giovane età poi, è peggio di un incubo ad occhi aperti. Lo sa bene Alessandro Bruno, 30enne vogherese che il suo inferno personale lo vive da ormai sei anni. In cura presso l’ospedale di Voghera, con un trapianto di rene andato male alle spalle (una condizione che, come spiegherà, è tutt’altro che rara a verificarsi nè semplicemente imputabile alla sfortuna), vede ora, con una discutibile riforma della sanità in atto in Lombardia, l’avvicinarsi di una possibile “beffa” che non esita a denunciare. La creazione della figura del “gestore”, una persona o un ente giuridico che si occupi a pagamento dei malati cronici rappresenta per lui un preoccupante passo verso la privatizzazione della sanità. «Un modo bieco per lucrare sulle spalle di migliaia di cittadini». Alessandro non si limita a subire la sua condizione: negli anni si è documentato, studiando la malattia e le possibili cure mediche ed è arrivato a dipingere un quadro ben preciso della condizione del dializzato. Da tempo si impegna nella diffusione di informazioni riguardo alle condizioni di chi vive questa situazione drammatica. «Una situazione che “conviene” prolungare il più a lungo possibile, per motivi economici, dato il giro di soldi che porta mantenere le persone in dialisi» dice. Alessandro, lei su un blog ha definito la dialisi un “fossile vivente”. Come mai?
comunicati
La storia di Alessandro, 30enne vogherese: «Siamo galline dalle uova d’oro»
Alessandro Bruno
«La dialisi, o meglio l’emodialisi, è una cura dalle radici ottocentesche. Per quanto fosse ancora solo una pura applicazione sperimentale teorica o poco di più, resta una signorina che si porta dietro i suoi 165 anni contando la teoria ed i suoi 7374 contando le applicazioni terapeutiche sull’uomo». Quali restrizioni comporta essere dializzati?
«Chi fa la dialisi non può ad esempio frequentare un locale come normalmente farebbe una persona comune, per una semplice ragione: i dializzati smettono di urinare, e smettere di urinare significa dovere contenere i liquidi il più possibile. Non ci si fa caso normalmente, ma un solo bicchiere d’acqua contiene in media 250 millilitri, la metà della dose media giornaliera permessa ad un paziente nefropatico
anurico. Mangiare poi vuole dire bere di conseguenza, in quanto anche il cibo contiene liquidi, oltre che una moltitudine di sali e sostanze che occorre tenere sotto controllo. Anche l’alimentazione diventa un problema: per evitare di bere e di mangiare troppo e male, spesso il dializzato evita i locali pubblici il più possibile. Se il nefropatico non è un povero anziano semi-paralitico la vita diviene tutt’altro che una passeggiata! Non bere ha delle ripercussioni psicologiche da notte horror». Una condizione grave. Lei ne ha viste di tutti i colori nella sua esperienza di dializzato… «Ho sentito e visto personalmente pazienti nefropatici bere di nascosto rischiando di affogare per edema polmonare, persone che nel tempo diventano isteriche o maniaco depressive, persone parlare in solitaria, mangiare compulsivamente la carta, avere comportamenti autolesionisti e perdere completamente la lucidità». Lei è uno dei circa 100 pazienti in dialisi presso l’ospedale di Voghera. Come si trova nella struttura? «Il reparto dal mio punto di vista funziona bene, poi bisognerebbe chiedere a chi ci lavora».
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LA STORIA Da tempo ha iniziato a denunciare l’introduzione della figura del “gestore”, voluta da una riforma di Regione Lombardia. Lo ha definito addirittura un “piano criminale”. Parole pesanti. Come mai? «Lo spiego citando un articolo apparso sul Fatto Quotidiano: “La Regione ha individuato 65 malattie, per le quali ha stabilito un corrispettivo economico da attribuire al gestore a secondo della patologia presentata da ogni persona da lui gestita. Se il gestore riuscirà a spendere meno della cifra attribuitagli dalla Regione potrà mantenere per sé una quota dell’avanzo, eventualmente da condividere con il Mmg che ha creato il contatto. Il gestore non deve per forza essere un medico, può essere un ente anche privato e deve avere una precisa conformazione giuridica e societaria e può gestire fino a 200.000 persone”. Ora, non è difficile immaginare che nelle scelte dei gestori conterà maggiormente il possibile guadagno piuttosto che la piena tutela della salute del paziente che resterà in sua balìa». Affidarsi a un gestore non è però obbligatorio… «No e per fortuna in molti stanno evitando di supportare questa pratica. Altre categorie però, soprattutto gli anziani, sono facili vittime di pressioni o giochetti “poco puliti”, fatti apposta per convincerli ad aderire al piano. Vi ho assistito di persona,
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Timori per la riforma sanitaria: «Pressioni sugli anziani per affidarsi a un “gestore”» anche all’ospedale di Voghera». Che cosa ha visto? «Un medico del nostro reparto si è avvicinato repentinamente ad un nuovo paziente, un anziano signore. Dopo qualche convenevole, il medico inizia a parlare di un “database” in cui il signore anziano e malato avrebbe dovuto inserirsi. “Pensiamo a tutto noi” diceva il medico, “non si deve preoccupare”. Si tratta della “presa in carico del paziente cronico” della Regione Lombardia. “Si tratta solo di un database”, ripete. Il signore non comprende granché ed annuisce. Il medico allora salta da un paziente all’altro: una signora molto anziana che fa la dialisi da tanto, troppo tempo. Il medico ripete le cose con la stessa formula, e visto che la signora sembra non comprendere scrive il promemoria di presentarsi alle ore x in reparto, dove avreb-
bero fatto firmare tutte le adesioni al figlio della signora. Finito di scrivere il dottore sfacciatamente si è avvicinato alla infermiera responsabile della signora dicendole “dallo al figlio e mi raccomando: sii convincente”, con fare conciso». Il “gestore” può davvero essere chiunque? «Può anche non essere un medico, e scavalcare completamente la figura del medico curante. Inoltre non può essere cambiato, una volta stabilito quello che è a tutti gli effetti un contratto vincolante, prima di un anno dalla firma di questo patto. Un ennesimo passo spedito verso la totale privatizzazione del sistema sanitario». Si dice che il trapianto di rene sia la soluzione alla dialisi. Lei lo ha provato ma le è andata male. Solo sfortuna? «In realtà non è così semplice. Quello che molti non sanno è che il trapianto ha una
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durata limitata negli anni: principalmente per via del fatto che chi lo subisce deve prendere degli immunosoppressori e del cortisone in ampie quantità. In parole povere, i farmaci che dovrebbero preservare il rene trapiantato dalla reazione immunitaria, danneggiano il rene essi stessi nel corso del tempo. Inoltre possono avere effetti collaterali di gravissima entità. è quindi una soluzione solo temporanea, soprattutto per chi è in giovane età, con numerosi risvolti sociopsicologici. Si ricordi che spesso sia trapianto che dialisi danneggiano infatti pesantemente l’aspetto fisico dei pazienti. Tutti i trapiantati poi, sono destinati a tornare in dialisi, prima o poi infatti, il rene cesserà di funzionare». E del rene artificiale che ne pensa? «è un progetto molto promettente che però sembra subire ostacoli e rallentamenti di ogni tipo. E se subisce ostacoli e rallentamenti possiamo solo immaginarne il motivo: con un’ampia diffusione di questo strumento cadrebbe di colpo l’intera macchina mondiale della dialisi, che rende attualmente centinaia di milioni di dollari per chi la gestisce. Noi dializzati siamo come galline dalle uova d’oro: incatenati a vita alla macchina della dialisi, rendiamo ricchi quelli che le gestiscono, mentre le nostre vite se ne vanno nel silenzio dell’oblio». di Christian Draghi
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«Consorzio? O si punta sulla qualità, oppure si chiude» Dal 2 settembre il Consorzio di Tutela dei Vini dell’Oltrepò Pavese ha un nuovo direttore: è Carlo Veronese, 50 anni, e non è esattamente l’ultimo arrivato. È stato per lunghi anni direttore del Consorzio del Lugana, con risultati ottimi per il comparto vitivinicolo territoriale. Certo, qualcuno dirà: il Lugana non è l’Oltrepò; e in effetti stiamo parlando di aree con volumi e problemi molto differenti. Ma la curiosità da parte dei produttori è molta, come per ogni avvicendamento. Perché, volenti o nolenti, il Consorzio interessa tutti. Tutti vogliono conoscerlo, e lui ha già incontrato personalmente i rappresentanti di molte aziende (anche fra quelle considerate “dissidenti” o fuoriuscite dal Consorzio). Dei vecchi dissapori, delle vecchie rotture, lui non vuole sapere nulla: dice di voler guardare al futuro, e di rispondere per quanto accaduto dal 2 settembre in poi e per quanto ancora dovrà accadere. Pensiamo sia corretto il punto di vista di chi vuole voltare pagina. Ma la pagina precedente è un po’ ingombrante, e non è detto che tutti, in Oltrepò, siano disposti a ripartire da zero. La discriminante è semplice, tanto semplice: tutto dipende da quali orientamenti il nuovo management metterà in gioco. È per questo che gli abbiamo chiesto di fare una chiacchierata con noi. Chiacchierata che inizia a tavola, sorseggiando un riesling a chilometro (quasi) zero. Un buon inizio. Benvenuto in Oltrepò pavese, tanto per iniziare. Devo dirle che non la invidio: la aspetta un lavoro difficile da affrontare. Cosa l’ha spinta ad accettare? «Questa è una sfida! Facciamo un passo indietro. Io ho un’esperienza mista, sia a livello di associazione che aziendale. Ho fatto il produttore per dodici anni, poi tredici in un Consorzio, di cui dieci come direttore. Erano quindi 25 anni che io promuovevo lo stesso vino, il Lugana. A un certo punto uno dice: “andiamo a fare qualcosa di diverso”. C’è stata l’occasione di conoscere persone dell’Oltrepò che cercavano un nuovo direttore… Per quale sfida? Rilanciare quella che è la più importante denominazione della Lombardia, la più importante non solo perché può contare sul 62% della superficie vitata della regione, ma anche perché, storicamente, ha la primogenitura del vino lombardo. L’Oltrepò ha una storia legata al vino che nessun altro in Lombardia ha.» Mi consenta: il passato è passato, ma non è detto che sia determinante per il futuro. Non di per sé, almeno… «Una zona che parte dal niente, la costruisci a tua immagine e somiglianza. Questa non è una zona che parte dal niente.
Carlo Veronese, neo direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese
Ci sono aziende che hanno le cantine nei castelli, con cinquecento anni di storia… bisogna partire dal buono che c’è.» Non teme che tutta questa storia si traduca anche in abitudini difficili da eradicare? L’Oltrepò, purtroppo, in passato ha dimostrato di non saper cambiare così facilmente. «I grandi cambiamenti, le innovazioni, anche gli investimenti, avvengono nei momenti di crisi. Se senza problemi riesci a vendere il tuo prodotto in maniera abbastanza semplice e a guadagnare soldi, chi te lo fa fare di investire in cantina? Questo è un territorio che ha avuto la fortuna, fino a poco tempo fa, di riuscire a vendere tutto il vino che produceva e abbastanza bene. Ma a un certo punto qualcosa non ha più funzionato. Mi riferisco al vantaggio di avere una metropoli vicina, alla vendita del vino prevalentemente sfuso. Nel territorio del Lago di Garda questa crisi c’è stata 20/25 anni fa; quindi la crescita, gli investimenti nelle aziende e in comunicazione si sono iniziati a fare da un po’ di tempo. Sto trovando un territorio che su questi aspetti è un po’ indietro.» La crisi, insomma, come opportunità. «Può diventare un’opportunità, se la sfrutti in maniera positiva. O ti innovi, o chiudi. Il modello “vecchio stile”, per cui faccio il vino come lo faceva mio nonno e
lo vendo sfuso, non esiste più.» Non è la prima volta che in Oltrepò arriva un “papa straniero”, anche alla testa del Consorzio; e nelle passate occasioni le cose non sono andate come sperato. E non per colpa del direttore… «Secondo me questa è l’ultima chiamata. Cinque anni fa, sette anni fa, dieci anni fa, l’Oltrepò Pavese non era messo come in questo momento. Negli ultimi anni sono successe cose importanti. Il mondo è cambiato, quindi: o si punta sulla qualità, oppure si chiude. Tutte le uve sono cadute di prezzo, e stiamo facendo troppo vino. Produciamo tanto, ma vendiamo male. Ci sono altri territori che producono meglio e vendono meglio. Tutte le nostre attività devono essere puntate nel produrre bene e nel vendere bene. Aumentare la qualità e aumentare il prezzo per bottiglia, non quello per litro. Il nostro lavoro deve essere diretto al miglioramento qualitativo della produzione, ma soprattutto a far conoscere il prodotto dell’Oltrepò Pavese per far aumentare il prezzo della bottiglia.» Qui veniamo al problema di vini marchiati Oltrepò che finiscono sugli scaffali della GDO a prezzi per così dire ridicoli. Problema molto sentito, se ne sarà accorto. «L’Oltrepò non è rappresentato dalla fascia più bassa. Ma pensiamo al discorso
«Un territorio senza Consorzio è un territorio senza tutela» dell’ospitalità. L’hotel 5 stelle non si crea problemi se nella stessa città c’è un ostello, perché l’ostello si occupa di una fascia e il 5 stelle di un’altra. Per il vino è lo stesso. Il discount che vende vino a 3 euro non deve preoccupare, se non gli altri che vendono vino a 3 euro. Una Lamborghini e una Dacia hanno sempre quattro ruote, ma il cliente Lamborghini non comprerebbe una Dacia nemmeno per la servitù.» Fermo restando che non è il Consorzio ma il mercato a decidere i prezzi, non pensa che qualcuno dovrebbe ribellarsi? «Se passiamo il tempo a disquisire sul prezzo di una bottiglia a 2 euro al supermercato, perdiamo tempo che potremmo dedicare ad altro.
TORRAZZA COSTE Se ne eliminiamo una, ci sarà sempre qualcun altro che ne proporrà un’altra. Quelle che vendono in quel modo sono aziende predisposte per vendere in quel modo. L’importante è che l’azienda che ha un brand importante non voglia provare a fare le scarpe a chi vende in GDO. Perché è quello che crea confusione nel consumatore.» I disciplinari sono adatti alle esigenze del territorio? «I disciplinari li fa il territorio. Se il territorio li vuole cambiare si cambiano. Il disciplinare è una legge, le leggi si cambiano. Ma non è cambiando disciplinare che si cambiano le cose: bisogna cambiare sistema di produzione e di promozione. Non il disciplinare in sé. Il disciplinare non ti dice di produrre tanto: ti dice la produzione massima consentita. Se tu vuoi produrre di meno, produci di meno.» Pensa che il Consorzio si muoverà, in qualche modo, per allargare la compagine societaria? Forse è anche giusto, a un certo punto, che alcune aziende che non si sentono a proprio agio in un consorzio fatto di tante voci e tanti interessi spesso contrastanti, prendano strade autonome. «La porta è sempre aperta, anche perché non si può dire di no a un’azienda che si vuole associare - a meno che non si tratti di un delinquente. La mia prima preoccupazione oggi non è la compagine sociale: il Consorzio deve fare le attività del Consorzio. Vigilanza sui marchi e promozione. Promozione che farà, dove ha l’erga omnes, chiedendo i vini di tutti; dove invece saranno solo i soci a contribuire alla promozione, chiedendo i vini dei soci. Sono convinto che se noi cominciamo a fare una vera attività consortile di promozione, tante aziende che oggi sono fuori torneranno dentro.» Cosa significa per un Consorzio perdere gli erga omnes? «Il punto è che se tu perdi l’erga omnes non puoi chiedere soldi a tutti, ma solo ai soci. A quel punto però puoi fare meno attività. Per come è strutturato questo Consorzio le quote sono molto basse, e quindi o ci sono tanti soci e si riescono a fare le cose, altrimenti non ci sono condizioni per andare avanti e si chiude. E si può anche chiudere un Consorzio. Ma io non penso che sia il sistema ideale. Un territorio senza Consorzio è un territorio senza tutela. Non per niente tutte le DOC italiane hanno un Consorzio di tutela.» Che visione aveva dell’Oltrepò Pavese prima di venirci a lavorare, e quale ne ha ora? «Una zona bellissima, piena di storia. La zona da dove vengo io, il Lago di Garda, attira qualche milionata di turisti all’anno. Ma i nostri comuni, quelli agricoli soprattutto, sono comuni molto poveri. L’agricoltura è sempre stata molto povera. Qui invece è sempre stata molto ricca, grazie ai vigneti ma anche al seminativo. Sono tutti bei paesi, tutti o quasi hanno un castello, tutti una chiesa antica. È un territorio bellissimo da esplorare; ma poco strutturato per le visite. Una marea di castelli si vedono solo dal di fuori, anche perché
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Il modello “vecchio stile”, per cui faccio il vino come lo faceva mio nonno e lo vendo sfuso, non esiste più.» buona parte sono privati. Molte chiese sono sempre chiuse. Anche l’ospitalità è un problema, ma non solo dell’Oltrepò Pavese. Anche Pavia ha un grosso problema di ospitalità. Non si può pensare che il territorio cambi se perfino il suo capoluogo ha le stesse mancanze.» Insomma: potenzialità inespresse. «Pavia merita una visita. A Pavia e all’Oltrepò uno può dedicare benissimo tre o quattro giorni di vacanza. La Certosa, da sola, vale un viaggio. Poi Sant’Alberto, Varzi, la stessa Via del Sale… Si possono davvero organizzare tantissime cose e in questo ambito il territorio è abbastanza vergine. Ricordiamoci che venticinque anni fa sul Garda nessuno veniva a visitare i paesi interni. Oggi dappertutto ci sono attività aperte, percorsi promozionali, biciclette, bikers in giro… cose che prima non erano nemmeno immaginabili. Considerando che qui in Oltrepò siamo a un tiro di schioppo da Milano, Genova e Torino, le possibilità sono tantissime.» Si potrebbe obiettare che le condizioni dei manti stradali, sulle strade interne, scoraggino i turisti… «Sono sempre strade di collina e montagna, con i loro problemi. Ma proprio l’altro giorno percorrevo una strada sul Garda con buche enormi… eppure lì ci sono cinque milioni turisti all’anno.» Parliamo della sua strategia. Su quale strada vuole portare il Consorzio? «La strategia del Consorzio è quella di promuovere tutti coloro che fanno prodotti di qualità. Di fare in modo che una serie di aziende, che oggi sono aziende con un brand importante ma che non sono riuscite in questi anni a fare il salto definitivo, possano divenire conosciute in maniera importante. Se un’azienda non la conosce nessuno, è impossibile portarla da zero a dieci. Ma con altre già avviate, che possono contare su prodotti di qualità, si possono avviare delle strategie per aiutarle a diventare importanti. Se queste partiranno con un vino capace di alzare il livello, tutto il territorio andrà nella loro stessa direzione.» Come declina concretamente questa strategia? «Noi dobbiamo far conoscere tutti, ma poi puntare su uno zoccolo di aziende, quel-
le che sono molto belle o che hanno dei vini molto buoni. Devo riuscire a capire in poco tempo quali sono quelle che sono molto belle da essere visitate e fanno vini buoni, quelle che fanno vini buoni ma non sono molto belle da visitare - e quindi delle quali si faranno assaggiare i vini, magari ai giornalisti che vengono sul territorio, ma senza portarli in azienda. Uno può fare il vino in un capannone, ma quel vino può essere eccezionale. Devo conoscere il territorio, e su questa base partiranno tutti gli eventi, tutte le tantissime attività che può fare il Consorzio. Se domani mi chiama un giornalista polacco e mi chiede dodici bottiglie di Pinot nero, io domani devo poter scegliere dodici bottiglie, una diversa dall’altra, e devo decidere qual è il messaggio che voglio dargli. Occorre acquisire informazioni. Se vogliamo lavorare negli Stati Uniti, dobbiamo sapere chi è già presente in quel mercato (anche perché i loro cronisti non scrivono di aziende che non sono distribuite nel mercato americano). Bisogna conoscere dove viene venduto il vino, quale vino viene venduto in ogni mercato, visto che abbiamo tanti vini. Quali sono i mercati per la bonarda, quali sono quelli per il Pinot nero. E a questo punto creare momenti di promozione o del singolo vino o di tutto ciò che è l’Oltrepò.» Cosa intende per promuovere “tutto ciò che è l’Oltrepò”? «Nel momento in cui il Consorzio viene chiamato a fare una degustazione di presentazione dell’Oltrepò, porteremo agli eventi una serie di vini che rappresentano il territorio, ma che non potranno essere tutti. Saranno 7/8 vini: gli spumanti metodo classico bianco e rosato, che è il prodotto scelto come “di punta”, il riesling, pinot nero, fresco e strutturato, poi la bonarda, perché non si può ragionare l’Oltrepò senza la bonarda, e finiamo con sangue di giuda e/o moscato. Con questi vini potremmo fare una cena o un pranzo cambiando vino ad ogni portata, e avere tutti vini dello stesso territorio dall’aperitivo al dolce. Sono pochissime le zone del vino che possono avere questo.» Ma… non saranno un po’ troppi anche sette o otto vini per rappresentare un territorio?
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«Io parlo da persona positiva, e da persona che per 25 anni ha promosso solo un vino bianco. Quando trovavo quello che mi diceva: “Non bevo vino bianco”… Io non lo potevo accontentare. Se oggi uno mi dice: “Io non bevo spumante”, beh: gli trovo i fermi. Se uno mi dice: “Non bevo vino bianco”, gli trovo i rossi. “Non bevo i rossi”, gli trovo i rosati. “Io bevo solo vini dolci”? Gli trovo i vini dolci. Troverò sempre nel panorama dell’Oltrepò qualcosa che ti piace. A meno che uno non mi dica: “Io sono astemio”. La diversità è ricchezza.» Veniamo agli eventi. A quelli in programma, a quelli in ipotesi. A eventuali eventi anche “grandi”… «Io ragiono su tanti eventi piccoli sparsi nel mondo piuttosto che a soltanto uno grande. Avendo risorse limitate, bisogna fare delle scelte. Preferisci lavorare tutto l’anno e fare solo due settimane nel megaresort in Thailandia o tutti i weekend avere la possibilità di andare da qualche parte? Io dico che, avendo risorse limitate come tutti, preferirei creare tante occasioni per far conoscere e apprezzare l’Oltrepò. Tanto per iniziare, abbiamo partecipato alla Milano Wine Week, che è andata bene, tre settimane fa. Abbiamo avuto un quartiere di Milano tappezzato di Oltrepò Pavese… con i milanesi che mi chiedevano dov’è l’Oltrepò. Questo fa capire come ci siano potenzialità a due passi da qui non ancora non sfruttate. Non dobbiamo dimenticarci di Pavia e di Milano.» E poi, il Merano Wine Festival, proprio in questi giorni… «L’anno scorso a Merano c’erano due aziende che rappresentavano l’Oltrepò Pavese, Monsupello e Travaglino. Quest’anno ce ne sono sette. Il Consorzio ha chiesto a Merano di invitare cinque nuove aziende. Le hanno scelte gli organizzatori, ma a spese del Consorzio. Il visitatore di Merano rappresenta un target altissimo. Chi decide di andare a Merano, un posto peraltro scomodo da raggiungere, lo fa e paga un biglietto costoso perché ha determinati interessi. Ora: chi l’anno scorso ha visto due aziende dell’Oltrepò, quest’anno ne vedrà sette. All’interno di Merano, poi, c’è un’area dedicata a degustazioni, dove abbiamo preso dei tavoli: qui verranno altre undici aziende a far conoscere i loro prodotti. Merano è tante cose. È l’evento delle aziende al top, e qui rientrano i famosi sette. In più, sulla via principale di Merano ci sarà una tensostruttura di 50 mq destinata ad aperitivi con le bollicine dell’Oltrepò. Un investimento fatto dal Consorzio per promuovere tutto l’Oltrepò, soci e non soci.» E poi? Per il futuro prossimo? «Per fine novembre/dicembre stiamo organizzando altre cose. Per il prossimo anno, Vinitaly e Prowein come default fra le attività del Consorzio. Stiamo preparando la partecipazione a eventi in Milano per la promozione dell’Oltrepò Pavese; ad alcuni inviteremo anche aziende, se vorranno partecipare, ma è importante capire che il Consorzio ci sarà a prescindere.» di Pier Luigi Feltri
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«Io assessore? Non faccio il tappa buchi» Rivoluzione in vista per la raccolta rifiuti a Rivanazzano Terme. Dal gennaio del 2020 entrerà in vigore il nuovo sistema di raccolta porta a porta per l’indifferenziato, che prevede l’eliminazione dei discussi cassonetti che tante polemiche hanno portato nelle scorse settimane. «Sappiamo che la possibilità di non differenziare offerta dalla presenza dei cassonetti grigi aperti è una delle cause dei bassi risultati ottenuti finora» spiega il consigliere con delega alla raccolta rifiuti Stefano Alberici. Inchiodata al 35%, la differenziata rivanazzanese è lontana dagli obiettivi minimi imposti a realtà urbane di quel tipo e si avvicina più alla media di uno sperduto paese di montagna. Sempre che la giunta sopravviva, visti gli scossoni delle ultime settimane, dalla primavera prossima si cercherà di invertire la tendenza. Alberici, come mai a Rivanazzano la differenziata non decolla? Solo colpa dei cassonetti o c’è altro? «Siamo consci della situazione, ho in mano questa delega da un anno e mezzo e stiamo lavorando per trovare soluzioni ottimali senza aumentare le tasse a carico dei cittadini. Devo dire che una delle ragioni delle difficoltà che ci sono state è che è mancata una politica unitaria a livello territoriale. Ognuno ha fatto per sé e Voghera, che avrebbe dovuto essere leader e comune capofila, non ha mai saputo imporre un sistema unico, limitandosi a proporre i cassonetti a calotta con il badge». Così anche voi farete per vostro conto? «La nostra idea è di muoverci in concertazione con il comune di Godiasco dato che siamo “comunicanti”: a partire dal nuovo anno introdurremo la raccolta porta a porta dell’indifferenziato, poi forse anche di carta e plastica». Come funzionerà? «Doteremo i cittadini di sacchi di plastica trasparenti muniti di un apposito codice a barre per il riconoscimento dell’identità, in modo da poter controllare il contenuto e chi lo ha “differenziato”. I cassonetti per l’indifferenziato spariranno. Occorrerà un’ampia opera di informazione e prevenzione per educare la cittadinanza ma, nel caso, saremo anche pronti a reprimere i comportamenti sbagliati». I costi per i cittadini aumenteranno? «Per il primo anno resteranno uguali, poi dipenderà dalla quantità di differenziata che si riesce a conferire. Più si è virtuosi più si risparmia». Un gruppo di cittadini vi ha accusato di trascurare l’ecologia. Hanno detto di aver chiesto i cassonetti per la differenziata nei giardini pubblici, ma di essere stati snobbati…
«Giunta in crisi? Tensioni interne, situazione poco chiara» «Ho letto quell’articolo. Premettendo che la risposta “basta andare avanti di 300 metri e ci sono altri cassonetti” è stata inappropriata, mi sento di dire che non penso che questo sia un problema sostanziale. Non abbiamo ritenuto di investire in qualcosa che poi non avrebbe portato grandi risultati». Altra critica mossa è quella per cui in paese ci sarebbero troppi parcheggi e, di conseguenza, troppe auto. Cosa risponde? «Riguardo all’aspetto ecologico dico che stiamo spingendo il progetto “pedibus”, che prevede un servizio di volontari che accompagnano i bambini a scuola per tagliare delle corse dello scuolabus. Chi si lamenta per le troppe auto in circolazione potrebbe venire a dare una mano. Per i parcheggi, non credo siano troppi, tutt’al più mal distribuiti. Inoltre si potrebbe pensare di rivedere la durata del disco orario, oppure fare più controlli per far rispettare il limite esistente di due ore e favorire così il ricambio delle auto. Riconosco anche che si potrebbe provare a ritagliare uno spazio pedonale nel centro, ma bisognerebbe prima ricavare nuovi posteggi per supplire a quelli che si vanno a perdere, per non penalizzare i nostri commercianti. Sappiamo benissimo che la gente va all’Iper perché può lasciare la macchina comodamente di fronte all’entrata». State pensando a nuovi parcheggi? «Stiamo considerando la possibilità di ricavare circa 40 posti auto dal l’area del vecchio campo da bocce. A quel punto si potrebbe pensare a creare magari un piccolo sazio pedonale». Parliamo dell’Amministrazione. Si è rischiata la crisi con le dimissioni, poi rientrate, di quattro assessori. Cosa sta accadendo? «Ci sono delle tensioni all’interno della squadra, c’è poca chiarezza in questa fase». Si parlava di un suo ingresso in giunta
Stefano Alberici, consigliere comunale con delega all’ecologia
Raccolta rifiuti: la svolta a partire da marzo Via i cassonetti, arriva il porta a porta per l’indifferenziato in sostituzione di uno dei dimissionari. è vero? «Era una possibilità, ma a queste condizioni non avrei accettato comunque, non mi sento di fare il tappa buchi». L’esperimento del listone unico non sta andando bene? «Dopo due anni e mezzo il bilancio non
è certo soddisfacente. Si parlava di continuità e innovazione, diciamo che finora sono mancate entrambe. Probabilmente la mancanza di un’opposizione non è utile a nessuno perché viene a mancare il contraltare e il confronto». di Christian Draghi
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GODIASCO SALICE TERME
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Varni Agnetti, gelo tra Riva e Fondazione Berogno: «Il sindaco mente» Nel comune di Godiasco Salice Terme, ci sono “cose” che funzionano bene, “cose” che funzionano più o meno bene, altre che funzionano più o meno male, altre che funzionano male. Questo non succede solo a Godiasco e in Oltrepò, ma in ogni comune del mondo. Tra le “cose” che funzionano bene a Godiasco Salice Terme, a detta di tutti, ma soprattutto a detta degli interessati, gli ospiti, c’è la casa di riposo “Fondazione Varni Agnetti”. Il consenso su come gli ospiti vengono accuditi è unanime, pertanto non ci dovrebbero essere polemiche “intorno” e “dentro” la Varni Agnetti che da anni funziona e funziona bene, ma alla luce degli ultimi fatti, le polemiche “intorno” ma soprattutto “dentro” la Varni Agnetti ci sono, eccome se ci sono… Da sempre la struttura è stata nella “sfera” di Elio Berogno, ex sindaco di Godiasco, ex Presidente della Comunità Montana Alto Oltrepò e fino a poche settimane fa presidente della Fondazione Varni Agnetti, e proprio durante gli ultimi mesi della sua presidenza è stato modificato lo statuto della Fondazione con un ampliamento del Cda. Secondo alcuni sarebbe stata una “manovra” di Berogno stesso per fini alla luce dei fatti non chiari. Berogno, documenti alla mano, sostiene che l’ampliamento del Consiglio d’Amministrazione sia una conseguenza della riforma del Terzo Settore, approvata e legittimata da Regione Lombardia, ente titolato a farlo. L’attuale sindaco, Fabio Riva, non ci sta e sostanzialmente ritiene che con la modifica dello statuto e l’ampliamento del Cda, viene diminuito all’interno della Fondazione il peso e la capacità di decidere del comune di Godiasco (nel Cda della Fondazione il sindaco di Godiasco ha eletto, come proprio rappresentante, Daniele Rochini) e in base a questo principio si è rivolto al Tar per cercare di inficiare ed annullare la modifica societaria approvata da Regione Lombardia. Nel consiglio comunale del 30 settembre avente per oggetto “Comunicazioni del sindaco”, e pubblicato sull’albo pretorio del Comune di Godiasco si legge: “Oggetto: Comunicazioni del Sindaco. Il Sindaco informa ‘i Signori Consiglieri che a fine maggio, primi di giugno è venuto a sapere che la Fondazione Varni Agnetti avrebbe potuto variare lo statuto entro il 3 agosto 2019 per adeguarsi alla riforma del terzo settore. E il Sindaco ricorda: già nel mese di giugno cominciammo a chiedere se il Consiglio di Amministrazione della Varni Agnetti avesse intrapreso questa strada o se avesse voluto attendere una proroga. Non ricevendo risposta scrivemmo in data 10 luglio una Pec per chiedere se vi era l’intenzione di modificare lo statuto o se fosse addirittura già stato fatto. Passarono due settimane senza ricevere risposta. Mandai un’altra Pec per sollecitare una ri-
sposta in merito, come Sindaco del Comune, proprietario dell’immobile sede della Fondazione, e ricevetti una risposta solamente in data 2 agosto. Voglio ricordare che il Comune è proprietario dell’immobile sede della Fondazione. è sufficiente fare una visura catastale per poterlo verificare. I membri del Consiglio di Amministrazione in rappresentanza del Comune di Godiasco Salice Terme sono stati nominati dal Sindaco precedente ma riconosco che questi non hanno obbligo di rendicontazione al Sindaco. La risposta alla mia domanda, se fosse stato variato lo Statuto, arrivò solo ai primi di agosto. Diceva che qualcosa era cambiato ma, per correttezza nei confronti dei Consiglieri, il nuovo statuto sarebbe stato consegnato solo dopo il C.d.A. del 12 agosto. Capimmo quindi che qualcosa era successo. Mi rivolsi ad alcuni consiglieri della Varni Agnetti senza ricevere notizie precise ma solo venendo a conoscenza che qualcosa era cambiato. Chiesi al Notaio rogante e così ottenni l’atto che aveva cambiato lo statuto. Venni quindi a sapere, con grande stupore, che il Consiglio di Amministrazione modificò all’unanimità diversi articoli dello Statuto senza portare a conoscenza nessuno dei Sindaci fondatori: Godiasco, Rocca Susella, Fortunago e Montesegale. Gli articoli modificati, che secondo me sono più pesanti per il Comune di Godiasco, sono due: 1) Il primo riguarda il fatto che i Comuni fondatori, che avevano priorità nei ricoveri, vengono messi alla pari di altri sei Comuni, che nel 2015 avevano appoggiato il progetto degli alloggi protetti per anziani inaugurati il 10 novembre 2018, e che sono Cecima, Ponte Nizza, Bagnaria, Val di Nizza, Borgo Priolo e Borgoratto Mormorolo. Vengono inoltre aggiunti tre enti esterni: il Rotary Valle Staffora, la Fondazione Cariplo (e questa si può capire per i grossi finanziamenti che ha dato alla Fondazione Varni Agnetti) e l’Associazione Pensionati Cariplo e Banca Intesa; non vi era più un bacino di circa 4.500 abitanti ma un bacino di 8.500 abitanti e per cui la possibilità di ricovero agevolato per gli abitanti di Godiasco Salice Terme veniva di molto ridotta. 2) Il secondo articolo modificato, che mi sorprese molto, fu quello della composizione del Consiglio di Amministrazione. Da quando l’IPAB si trasformò in Fondazione, in Consiglio di Amministrazione della Varni Agnetti siedono sette componenti di cui tre del comune di Godiasco che, sommati al Parroco di Godiasco, davano sempre la maggioranza al ns. Comune. Questo fu garantito non solo perché il Comune è proprietario dell’immobile concesso in Comodato ma anche perché il Comune si impegnò a pagare il 50% del Frisl servito per cofinanziare la costruzione della Casa di Riposo, pari a 10.000 euro all’anno per vent’anni. Inoltre, il Comune assunse la quota del 50% di un mutuo di 15 anni, acceso nel 2002,
rimborsando 2.300,00 euro all’anno per 15 anni. Quindi, oltre a mettere a disposizione l’immobile, sono stati pagati circa 240.000 euro. Per questo, il Comune di Godiasco ha sempre mantenuto la presenza di tre membri nel Consiglio di Amministrazione. Il Comune di Godiasco, oltre ad avere dato l’immobile in comodato gratuito, aveva concesso due aree in diritto di superficie, il primo a titolo gratuito, il secondo a prezzo agevolato entrambi della durata di 90 anni. Chiesi e ottenni di parlare di questa situazione con il Direttore, che mi rispose che, essendo solo un dipendente, avrei dovuto parlare con il Presidente. Andai a trovare il Presidente per chiedere il motivo di questa scelta e mi disse che la modifica dello statuto era obbligatoria per nuove norme che riguardavano il Terzo settore. In merito all’allargamento agli altri Enti mi rispose che poteva solo fare bene alla Fondazione. Come Sindaco di Godiasco dico che potrà anche far bene alla Fondazione ma sicuramente non farà bene ai residenti del Comune di Godiasco Salice Terme. Il Comune perde due Consiglieri e quindi il potere di avere nella Fondazione Varni Agnetti un Presidente del Comune di Godiasco, come avvenuto in questi ultimi 20 anni. Dissi anche al Presidente della Fondazione Varni Agnetti che avrebbe potuto modificare lo Statuto senza modificare quei due articoli e che, se fosse al mio posto, farebbe la stessa cosa che sto facendo io. Un Presidente di Godiasco conta sicuramente qualcosa per Godiasco e per i Godiaschesi. Invece, adesso, il Presidente potrà essere di qualunque altro posto, avendo allargato la composizione del Consiglio di Amministrazione. Magari non nella prossima nomina, ma fra 5 o 10 anni potrebbe accadere che il Presidente sia di Varzi, di Voghera, di Milano e non potrà certamente garantire il trattamento che oggi viene riservato ai cittadini Godiaschesi, sia in ambito di ammissione ai ricoveri, sia per eventuali posti di lavoro e per tante altre cose che può fare la Fondazione Varni Agnetti per i residenti di Godiasco. Non ho certo un feeling ma sono sicuro che l’attuale Presidente se ha potuto fare qualcosa per i godiaschesi lo ha sicuramente fatto. Qualcuno dei nostri residenti è sicuramente stato aiutato, cosa che in futuro, con un Presidente che verrà da chissà dove, non avverrà più. Farò di tutto affinchè il nuovo Consiglio di Amministrazione modifichi lo statuto. Adesso, in attesa che si pronuncino i Giudici in merito alla riforma statutaria, posso solo nominare un membro e lo farò a brevissimo. Sto solo aspettando l’accettazione della nomina. Appena si insedierà il nuovo Consiglio di Amministrazione porterò un ordine del giorno in Consiglio Comunale e chiederò che lo stesso prenda posizione e faccia delle richieste ben precise al nuovo C.d.A. lo chiederò che il nuovo C.d.A. riporti la composizione come prima della modifi-
Fabio Riva ca oppure lo porti a 11 componenti, dando la possibilità al Comune di Godiasco di avere cinque membri. Informo il Consiglio Comunale che si sta predisponendo il ricorso verso il Presidente della Regione Lombardia che ha approvato la modifica allo statuto, e non solo del C.d.a, che per quello che ha fatto ne aveva tutti i poteri, anche se, secondo me, li ha male esercitati perché non ci ha permesso di partecipare prima della delibera. Per tutelare i nostri cittadini, non posso che ricorrere al TAR prima della scadenza del termine utile. Mi ha detto l’avvocato che, sotto tale profilo, ci sono buone possibilità. Mi auguro comunque di non dover andare avanti con il ricorso e che il Consiglio di Amministrazione riveda le sue posizioni. Diversamente devo anche valutare un’eventuale segnalazione alla Corte dei Conti perché il Comune ha messo 240.000,00 euro per la costruzione e il completamento della Fondazione Varni Agnetti e non può essere messo alla pari di altri soggetti che non hanno investito nulla. A questo punto il Comune deve recuperare qualcosa, per esempio l’immobile dato in comodato potrà essere chiesto indietro per far sì che ritorni nella piena proprietà del Comune e la Fondazione Varni Agnetti paghi un affitto, una locazione. Il canone di locazione, comunque, non lo vuole incamerare il Comune per fare cose diverse, ma per la tutela dei cittadini residenti. Se, facendo pagare un affitto, la Fondazione aumentasse le tariffe, noi utilizzeremmo questi soldi per aiutare i residenti del Comune di Godiasco Salice Terme a pagare la retta. In questo modo andremmo ad aiutare i nostri residenti che pagheranno sempre una retta agevolata. Noi continueremo a collaborare anche con il nuovo C.d.a. sperando che il C.d.a. stesso riveda le proprie posizioni così da poter bloccare il nostro ricorso. Il Sindaco conclude: Credo di avere spiegato bene come sono andate le cose. è solo una comunicazione e quindi potrei chiudere la seduta ma non la chiudo perché sono a disposizione di tutti i consiglieri per eventuali domande. Interviene il Consigliere Berogno Luca dicendo che l’argomento sta a cuore e si poteva fare in forma di dibattito in modo da permettere al Consiglio di potersi pronunciare. Si prende comunque atto che si è ritenuto di
GODIASCO SALICE TERME fare solo delle comunicazioni. Interviene il Sindaco dicendo che il dibattito è aperto e che se si vogliono fare delle domande si possono fare perché lui è a disposizione. . E il Sindaco continua: la pratica tornerà comunque in Consiglio per un dibattito quando chiederò ai Consiglieri di votare. Ho ritenuto dovervi informare prima che questi fatti diventassero di dominio pubblico, perché è giusto prima informare i consiglieri. Adesso la cosa diventerà di dominio pubblico e io dovrò spiegare alla gente cosa è successo. Datemi atto di aver informato il Consiglio Comunale prima di chiunque altro. Vi ho portati a conoscenza di ogni mia azione a tutela degli interessi dei residenti del Comune di Godiasco Salice Terme. Potrò anche invitare i rappresentanti della Fondazione Varni Agnetti, qui in questa sede del Consiglio Comunale; non inviterò il Direttore perché in occasione del nostro incontro mi disse che lui è un dipendente e quindi non risponde di queste cose. Quando ho parlato con il Presidente, anche alla presenza dei nostri rispettivi avvocati, mi ha precisato che questa modifica non è stata fatta per poter essere rinominato in Consiglio della Fondazione espressamente dichiarando di non voler, assolutamente, più rivestire la carica di Presidente del Cda. Sono preoccupato per quello che è successo, adesso devo spiegare alla gente cosa è cambiato per i godiaschesi. I rapporti con la Fondazione, in questo momento, sono freddi. Interviene nuovamente il Consigliere Berogno Luca il quale dice che non è comunque scritto da nessuna parte che il Presidente non possa essere di Godiasco. Risponde il Sindaco dicendo che non è scritto ma prima vi erano condizioni ben più favorevoli perché avvenisse che il Presidente fosse di Godiasco. E il Sindaco conclude: ciò è fondamentale per tutti, come ho spiegato prima. è fondamentale sia per gli ingressi in casa di riposo che per tutti i benefici che possono trarre i Godiaschesi con un Presidente Godiaschese in casa di riposo. La seduta è tolta. Nel frattempo c’è stato un ping-pong di botta e risposta tra l’ex sindaco e l’attuale primo cittadino, ping-pong che Elio Berogno non ha del tutto “digerito”. Ed a questo proposito ci ha inviato una lettera che pubblichiamo integralmente: Godiasco, 21 ottobre 2019 Gentile Direttore, Le scrivo nella veste di ex Presidente della Fondazione “Varni Agnetti”. Mi permetto di allegare alla presente, copia del comunicato che, in risposta all’intervento del Sindaco di Godiasco del 4 ottobre u.s., ho ritenuto opportuno inviare ad alcune testate giornalistiche, ma che ha subito dei tagli, non di poco conto, rendendo così impossibile ai lettori di avere una versione veritiera e diversa da quella enunciata dal Sindaco, anche su temi specifici. Considero offensivo, nei riguardi della mia persona, affermare il falso e diffondere notizie volte solo ad erigersi “paladino” di un problema – “godiaschese” ¬ che non esiste. Forse non si tiene conto e mi duole ricordarlo, che 25 anni fa, fu il sottoscritto quale Sindaco, a edificare (non solo la volontà della Donatrice, ma a trovare i fondi: oltre 6 miliardi di lire) la Casa di Riposo.Potenziata poi in questi ultimi 5 anni di Presidenza con la co-
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struzione degli alloggi Protetti per Anziani (altri 3 milioni di euro). A Godiasco e in tutto il Comune mi conoscono da 77 anni, dove, con il consenso dei Cittadini, ho fatto il Sindaco per 25 anni consecutivi, senza ricevere una lira (e poi un euro) di indennità di carica. La ringrazio ancora e saluti con cordialità. P.S. Con una precisazione: chi vuol fare politica con l’inganno è destinato al fallimento e non va da nessuna parte. Insieme alla sopracitata lettera l’ex presidente Berogno ci invia un comunicato stampa che riportiamo fedelmente: Relativamente alla “cronistoria” fatta alla stampa dal Sindaco Riva, debbo dire che non è esatta, ma soprattutto si basa su presupposti sbagliati, arrogandosi dei “diritti” che non esistono e, soprattutto, non sono previsti dalla legge. La modifica dello Statuto è una conseguenza della Riforma del Terzo settore in vigore sin dal 2016, dell’introduzione di nuovi servizi, della necessità di rivolgersi ad una utenza ed una rete territoriale più ampia che possa garantire una maggior sostenibilità economica e, conseguentemente, dei posti di lavoro in essere. La Regione Lombardia, unico Ente titolato a valutarne la legittimità delle modifiche statutarie, lo ha approvato senza alcun rilievo. Per i cittadini del Comune di Godiasco Salice Terme, Fortunago, Montesegale e Rocca Susella non cambia nulla! La loro priorità di accesso ai servizi della Fondazione è garantita dallo Statuto e dal Regolamento di accesso, anzi è stata estesa anche ai nuovi servizi, come ad esempio, agli Alloggi Protetti. Il Regolamento di accesso è stato approvato e reso pubblico come previsto dallo Statuto e dalla normativa regionale. Non corrisponde neppure al vero che il Sindaco ci abbia contattato nel mese di giugno: i contatti sono avvenuti a fine agosto e settembre. Alle richieste formali del Comune di luglio abbiamo dato seguito nei tempi e nei modi previsti come documentano gli atti; la riprova ne è che mentre il Sindaco chiedeva ed otteneva da me di essere ricevuto, aveva già deliberato con la Giunta Comunale in data 29 agosto 2019 (Delibera n. 88) di “proporre ricorso al TAR Lombardia di Milano contro il Decreto n. 338 del 05/ 07/ 2019 del Presidente della Regione Lombardia”. Dal 2004, non ci sono più rappresentanti dei Comuni, i Consiglieri sono designati direttamente dal Sindaco e non hanno vincolo di mandato, agiscono a titolo gratuito, nell’esclusivo interesse della Fondazione, Ente di Diritto Privato indipendente che ha quale unica finalità l’offerta di un servizio sempre in miglioramento alla propria utenza. Il Sindaco quindi nomina secondo criteri di professionalità, moralità e serietà un componente del Consiglio di Amministrazione che non è suo rappresentante. Quanto alla certezza di avere un Presidente godiaschese non vi è mai stata, è il CDA che in modo democratico ed indipendente elegge il Presidente ed il Vicepresidente fra i suoi membri. Si parla di soldi presi dalle tasche dei cittadini? Meglio parlare di soldi lasciati nelle tasche dei cittadini, infatti le nostre rette sono tra le più basse a livello comunale, provinciale e regionale, se raffrontate con la concorrenza negli ultimi 15 anni sono rima-
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Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Varni Agnetti”
Elio Berogno sti nelle tasche dei soli utenti di Godiasco oltre 2.000.000,00 di €uro, inoltre negli ultimi 10 anni la Fondazione ha erogato oltre 5.000.000,00 di €uro in stipendi e collaborazioni a cittadini di Godiasco, senza contare l’indotto dei fornitori, le tasse, l’IMU e l’addizionale comunale pagata dai dipendenti al Comune di Godiasco Salice Terme. Si consideri inoltre il Comune ha investito annualmente per la costruzione dell’immobile adibito a casa di riposo una cifra piuttosto bassa, infatti l’importo investito da altre istituzioni e privati, senza i quali non ci sarebbe la casa di riposo, è stato decisamente più elevato e non paragonabile alla cifra sbandierata dal Sindaco! Il pagamento dell’affitto? Anzitutto l’immobile è stato edificato su un’area costituente il lascito testamentario della vedova Agnetti. Il contratto in essere cesserà i suoi effetti solo nel momento in cui verrà meno la destinazione dell’immobile a casa di riposo, quindi mai! Infatti l’atto di rogito così recita ...”concede in comodato gratuito alla Fondazione ... e che la durata è a tempo indeterminato”. Confidando che questa “polemica” nell’interesse di tutti si chiuda, lascio ogni commento ai cittadini del mio Comune ed ai lettori con una semplice domanda: vale la pena sollevare questa “confusione” su un Ente che da tutti è considerato un gioiello del territorio e di ricorrere al TAR se poi il tutto sembra ridursi ad una mera questione di nomine? Ogni considerazione deve essere dei cittadini di Godiasco Salice Terme, ognuno di loro si farà un’idea di chi ha ragione e di chi ha torto. Berogno, scaduto il suo mandato si è detto, ed i fatti lo hanno confermato, non più interessato alla presidenza, tant’è che il nuovo presidente è l’ingegnere Giancarlo Maria Albini di Lungavilla. Questo gesto di disinteresse da parte di Berogno, spiazzando tutti i detrattori e complottisti, di occupare la poltrona di presidente, dovrebbe allontanare e quietare il ping-pong di accuse reciproche tra l’ex sindaco e quello attuale, da parte nostra speriamo che il giudizio degli ospiti, l’unico che effettivamente e praticamente ha valore, della Varni Agnetti, continui ad essere uguale a quello che è sempre stato, cioè di massima soddisfazione. Auguriamo nel frattempo buon lavoro al nuovo Presidente e al direttore, il Dottor Carlo Ferrari che è la persona che garantisce la continuità dei servizi offerti e se poi i politici vorranno andare avanti nelle loro polemiche, ricorsi, contro-ricorsi, (a tal proposito sarebbe interessante sapere chi li paga questi avvocati dei “ricorsi”….) liberissimi di farlo. di Nilo Combi
Insediatosi il 23 ottobre 2019, gli incarichi di Presidente, Vice Presidente e Consigliere sono svolti a titolo gratuito senza corresponsione di alcuna indennità. Presidente Fondazione “Varni Agnetti”: Ing. Giancarlo Maria Albini Nato a Lungavilla Ingegnere, Master in Economia, ha lavorato in gruppo multinazionali e società ed organizzazioni pubbliche e private in diversi settori (banche, finanza). è stato Direttore Centrale Deutsche Telecom per l’Italia, Amministratore delegato di Infracom Italia (fra le maggiori società di servizi ICT), Direttore Generale di CARIDATA – Gruppo Banca Intesa. Attualmente è Amministratore di primarie società quotate in borsa e Advisor di primari Fondi di Investimento; è stato designato da Fondazione Cariplo in virtù della sua decennale esperienza manageriale e dal suo impegno nel sociale. Vice Presidente: Geom. Pietro Ghezzi – nominato dell’Associazione Pensionati Cariplo e Gruppo Intesa San Paolo, ex funzionario Banca Intesa San Paolo, segretario ANSPI Godiasco, già amministratore comunale del Comune di Godiasco Salice Terme; Don Stefano Ferrari – membro di diritto del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Varni Agnetti a tutela i diritti della donataria benefattrice Maria Maddalena Concaro Varni – Parroco a Godiasco Salice Terme e Rivanazzano Terme; Rossi Valentino – designato Presidente dell’Unione dei Comuni Terre dei Malaspina (Comuni di Cecima e Ponte Nizza) – ex funzionario di BANCA, già consigliere comunale del Comune di Ponte Nizza, consigliere ed assessore della Comunità Montana Oltrepò Pavese; Daniele Rochini – designato dal Sindaco del Comune di Godiasco Salice Terme, lavoratore dipendente settore terziario, già amministratore comunale del Comune di Godiasco Salice Terme. Giancarlo Orezzi – designato dal Presidente dell’Unione dei Comuni Borghi e Valli d’Oltrepò, ex Dipendente Banca Intesa, Vice Direttore Filiale di Godiasco, già Componente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Varni Agnetti; Massimo Terziani – designato dal Rotary Club Valle Staffora, Medico con specializzazione in medicina legale e delle assicurazioni, consulente e perito medico legale, esperto di rischio clinico e controllo della qualità nelle strutture sanitarie, esperto problematiche medicina territoriale.
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“Oltrepò drink twist”
NOVEMBRE 2019
OLTREPÒ MULE! IL MOSCOW MULE del TERRITORIO di
Emanuele Firpo
“Con chi dovrei andare a letto per avere un vodka martini?” Cate Blanchett in Blue Jasmine. Terzo appuntamento legato al magico mondo della miscelazione, al quale abbiniamo la naturalezza dei prodotti tipici firmati Oltrepò Pavese. Era il 1534 quando nacque in Polonia la prima distilleria di vodka, un distillato di cereali o patate, ai tempi le patate di piccole dimensioni non erano considerate adatte al commercio e venivano quindi utilizzate per altri scopi, impiegato come solvente per erbe e spezie curative, l’alcol contenuto nella vodka conservava nel tempo queste medicine. La paternità di questa “acquetta” è contesa dai vicini russi, nel 1540, in Russia, lo Zar Ivan il Terribile pensò di favorire il commercio di bevande alcoliche aprendo le prime rivendite autorizzate, rifornite dalle distillerie in mano alla nobiltà russa, per creare un circolo “virtuoso” del denaro. Per avere un’idea dei consumi dell’epoca, lo Zar Pietro il Grande, a cavallo tra seicento e settecento fece commercializzare la vodka all’interno di fusti da 12 litri, misura che rimase in essere fino alla fine dell’ottocento, quando la piaga dell’alcolismo e l’emergenza sociale ad esso legata, consigliò di usare misure più consone. La vodka piace a tutti e su questo non ci piove. Piace a tutti perché è insapore e inodore ed abbinata a bibite gassate o succhi dona quel tono alcolico senza essere invadente sul gusto. Proprio per questo motivo è stata bistrattata dai nostri antenati barman che, dalla sua tarda scoperta, preferivano distillati più profumati e gustosi come ad esempio il whiskey. La vodka infatti ha dovuto fare i conti con il distillato a maggior consumo americano prima di essere conosciuta come si deve. La nascita del MOSCOW MULE, poco prima degli anni Cinquanta, ha influito non poco a renderla popolare. Vediamo insieme la storia di questo particolare cocktail composto da vodka, succo di lime e ginger beer, una bibita gassata a base di zenzero ed altri aromi. Il “Mulo Moscovita” è un cocktail particolare, servito, come recita la ricetta originale, in bicchieri o tazze di rame che facevano da complemento al lancio del drink. E’ un esempio di come tre prodotti perdenti singolarmente, possano trovare il successo insieme. Il Moscow Mule, nasce nel 1947, per assecondare il rilancio sul mercato americano della vodka Smirnoff e che di li a poco determinerà il “Vodka Craze” ovvero la mania del distillato russo che sarà utilizzato in decine di drink. Il drink fu inventato da tre uomini di affari che si riunirono a New York, al Chatham Hotel, per discutere e decidere una strategia comune per il rilancio dei loro prodotti sul mercato americano.
Il primo, John Martin , responsabile di un grosso distributore di bevande alcoliche e cibo, la Heublein Brothers, il secondo Jack Morgan, proprietario della Cock and Bull Products, produttore di bibite fra le quali spiccava la poco conosciuta e venduta Ginger Beer, nonché proprietario di un noto ristorante a Los Angeles con lo stesso marchio e Rudolf Kunett, presidente della Smirnoff America, in procinto di essere rilanciata negli Stati Uniti, dopo la poca fortuna riscossa anche in Europa. Quest’ultimo si era assicurato, alla fine del Proibizionismo, la licenza di produzione in terra americana, ma complice la guerra e scelte di marketing non corrette, fino a tale data aveva accumulato solo perdite, che il suo amico Martin ripianò entrando in società con lui. Il drink fu un esempio di co-marketing incredibile e travolgente, due prodotti semi sconosciuti e perdenti, la ginger beer, fino ad allora poco gradita, e la vodka, un distillato povero di origine russo-polacca, che insieme formarono un successo travolgente. Il drink, nonostante i natali newyorkesi, fu molto famoso sulla costa ovest, a Los Angeles dove Morgan aveva il suo ristorante sulla Sunset Boulevard, che fu il veicolo da traino per il successo del “Mulo”, che prese a scalare le vette delle preferenze, come titolavano i giornali locali, giocando sul nome del cocktail. Giocando sull’effetto emulazione i tre uomini di affari comprarono pagine intere dei quotidiani che riempirono con le foto di consumatori di Moscow Mule, catturate durante le feste, che loro stessi davano al ristorante. La gente, alla ricerca di un minuto di notorietà, preconizzato da Andy Warhol, faceva a gara per essere fotografata con la tazza di rame mentre sorseggiava il drink.
Un altro elemento di successo del drink fu il servizio all’interno delle tazze di rame, curioso escamotage ideato dallo stesso Martin, in aperta rottura con il passato, fatto di tumbler e coppe cocktail. Anche in questo caso si trattava di prodotti di recupero, infatti queste goffe tazze erano uno stock di magazzino invenduto di un amica di Morgan, che aveva un’azienda di oggetti di rame. Ora che sappiamo un po’ di storia sulla vodka e sul moscow mule cimentiamoci nella preparazione del drink di questo mese, l’OLTREPò MULE, il Moscow Mule del Territorio. Ho pensato di personalizzare il cocktail con l’aggiunta di uno sciroppo di lavanda preparato in casa e per rendere ancora più unico il miscelato vi do due dritte su come estrarre lo zenzero per ottenere una piccantezza esclusiva. Ricetta codificata del Moscow Mule In un tumbler alto, o una tazza di rame, pieno di ghiaccio versate 5 cl di vodka neutra, 1,5 cl di succo di lime e colmate con la ginger beer (la reperite al supermercato nella corsia delle bibite); decorate con una fettina di lime e una rondella di cetriolo (opzionale). Ricetta dell’OLTREPò MULE, il Moscow Mule del Territorio In un tumbler alto, o una tazza di rame, pieno di ghiaccio versate 5 cl di vodka neutra, 2 cl di succo di lime, 2,5 cl di sciroppo alla lavanda, 2 cl di zenzero fresco estratto e colmate con la ginger beer; decorate con una fettina di lime, due striscioline di zenzero senza buccia e un rametto di lavanda disidratata. Possiamo ottenere un ottimo sciroppo alla lavanda unendo i fiori secchi all’acqua in ebollizione nel rapporto di 1 a 20. Con 25 grammi di lavanda vi serve mezzo litro di acqua.
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Rivisitiamo i COCKTAIL d’autore con i prodotti del nostro TERRITORIO Procedimento: portate l’acqua in ebollizione in un pentolino e versate i fiori secchi, lasciate per massimo 5 minuti, filtrate, lasciate raffreddare quasi completamente ed inserite lo zucchero nella percentuale compresa tra 62 e 66,7% per garantire la conservazione, mescolate ed imbottigliate in contenitore scuro. Conservate in frigorifero e consumate entro 2/3 giorni (se si conserva in un frigorifero casalingo tenere in fondo dove la temperatura è più bassa). Per lo zenzero fresco estratto: private della buccia 250 g di zenzero e passatelo con la grattuggia, inserite il tutto in un pentolino con mezzo litro di acqua e portate ad ebollizione a fuoco vivo; dopo qualche minuto dal bollore spegnete il fuoco, lasciate raffreddare e filtrate con un colino. Al liquido ottenuto aggiungete il succo di mezzo lime e 5 cl di liquore alla liquirizia per dare rotondità al preparato. Se non disponete del liquore calabro potete inserire nel pentolino, insieme allo zenzero, un paio di stecche di radice di liquirizia. Il drink risulterà bilanciato e profumato ed il contrasto tra la dolcezza dello sciroppo di lavanda e la piccantezza dello zenzero fresco sarà un’esplosione al palato. Consiglio di gustarlo in abbinamento a piatti gourmet, dalle pizze agli hamburger, portate che riempiono le liste di ristoranti e pub e che sono ormai una tendenza attuale. Suggerisco di riunire tutti gli ingredienti del piatto in un sol boccone e subito dopo sorseggiare il drink per raggiungere l’apice nella degustazione, in questo modo l’incontro dei sapori sarà sublime! Avrò ragione? Provare per credere! Consuma sempre i drink a stomaco pieno e non far mancare, di tanto in tanto, un sorso di acqua fresca. DEGUSTARE UN COCKTAIL È UN PIACERE… SE TI PERDI CHE PIACERE È?! DRINK RESPONSIBLY
Emanuele Firpo Barman e collaboratore presso Io&Vale, consulente per aziende del settore turismo, appassionato di merceologia e fondatore della Scuola per Barman “Upper School” di Salice Terme.
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PONTE NIZZA
NOVEMBRE 2019
«Autovelox unico deterrente contro la maleducazione degli automobilisti» Sicurezza stradale e recupero dell’ex stazione della Voghera-Varzi in vista del completamento della Greenway sono le priorità nell’agenda del sindaco di Ponte Nizza Tino Pernigotti, fresco di rielezione. Transitare ad alta velocità nel cuore del suo Comune è già costato caro a oltre 300 automobilisti, cui gli autovelox hanno appioppato multe salate in soli due giorni di funzionamento. All’accusa di “fare cassa” Pernigotti risponde che «viene prima la sicurezza dei cittadini» e fa presente come i velox a Ponte Nizza si trovino nei centri abitati e non su rettilinei extraurbani con limiti di velocità assurdamente bassi. Sindaco, quanti autovelox avete posizionato e di che tipo sono? «Per il momento sono presenti due box per le rilevazioni della velocità modello velo-ok, uno in centro a Ponte Nizza ed uno nella frazione Molino del Conte all’altezza del bivio per San Ponzo; abbiamo intenzione di posizionarne altri due, uno sempre nel centro abitato di Ponte Nizza ed uno nella frazione di Casa Minchino». Pare che abbiano elevato quasi 400 sanzioni in soli due giorni di funzionamento. Conferma? «Sono state elevate ben oltre 300 contravvenzioni in solo due giornate di rilevazioni. Va detto anche che prima di svolgere i rilievi abbiamo effettuato un monitoraggio con dei risultati raccapriccianti». Questo tipo di apparecchiature sono generalmente utilizzate a spot. Voi quando li accendete? «Li utilizziamo saltuariamente e in tutta la fascia oraria diurna e notturna». Qualcuno vi accuserà di voler fare cassa sulle tasche degli automobilisti. Cosa si sente di rispondere? «è vero, ho avuto discussioni anche con amici sulla questione di far cassa, ma quando si rimane impotenti di fronte alla maleducazione e al mancato rispetto delle norme stradali, pur avendo cercato tutti i dissuasori possibili, abbiamo ritenuto che questa fosse l’unica soluzione che poteva portare dei risultati per la sicurezza dei cittadini. Mi lasci dire che non abbiamo messo i rilevatori in una strada extraurbana a due carreggiate e due corsie per ogni senso di marcia in pieno rettilineo ponendo un limite di 70 km/h come ha fatto qualcuno (il riferimento è al recente posizionamento di un autovelox lungo la dritta Voghera-Casei Gerola ndr), ma sono stati posizionati nei centri abitati dove vi sono continuamente pedoni ai margini della strada che hanno diritto alla propria incolumità».
L’ordinanza: «Acqua per uso alimentare da bollire, valori fuori norma»
Celestino Pernigotti
Più di 300 multe in due giorni. Il Comune ha incassato 20mila euro. «Non vogliamo “fare cassa”: gli apparecchi sono dentro i centri abitati e non nei rettilinei» Quanti soldi ha incassato il suo Comune da quelle multe? «Attorno ai 20mila euro». Avete annunciato un intervento importante che riguarderà l’ex stazione della Voghera-Varzi. Può illustrare di cosa si tratta? «Si tratta di un’opera davvero importante che darà un volto nuovo al paese. sarà recuperata l’intera area dell’ex stazione ferroviaria Voghera-Varzi con anche la ristrutturazione degli immobili ormai abbandonati da anni. i lavori riguardano la riqualificazione dell’intera piazza italo pietra. è appena stata assegnata
la progettazione ad uno studio tecnico che si adopererà per elaborare e mettere in pratica quanto previsto dalla scheda tecnica approvata dalla regione». L’opera costerà 550 mila euro. Una cifra molto impegnativa per un piccolo comune. Come pensate di finanziarla? «Il progetto è finanziato per 500mila euro dal progetto “Aree interne” e prevede un cofinanziamento da parte del comune di 50mila euro». La decisione di intervenire su questa struttura è legata al completamento della Greenway? Quali sono i progetti del suo Comune per sfruttare questa
opportunità turistica? «Ponte Nizza è geograficamente la porta d’ingresso all’area interna dell’alto Oltrepò pavese per cui il progetto dovrà prevedere una ricezione adeguata con le relative informazioni e opportunità che l’intera zona montana offrirà, in poche parole dovrà essere la vetrina del nostro territorio. Certamente un ruolo importante lo avrà la realizzazione della green-way su cui è posta l’intera area interessata dai lavori. oltre ad una stazione di ricarica per le bici elettriche Ponte Nizza sarà il punto nevralgico dove gli amanti delle due ruote potranno avere tutte le informazioni e le necessità per svolgere questo sport su tutti gli itinerari e i sentieri percorribili del territorio» Capitolo strade. Il presidente della Provincia Poma ha annunciato interventi anche in Oltrepò. Ci saranno interventi programmati nel suo Comune? «Fortunatamente le strade provinciali nel nostro comune non versano in condizioni gravissime come quelle di altri comuni pavesi, ma sono previsti comunque interventi di stesura di asfalto sulle provinciali per Sant’Alberto e per Trebbiano nei punti più ammalorati e nel tratto della ex-461 nel centro abitato di Ponte Nizza. Abbiamo chiesto la realizzazione di una rotonda al bivio di San Ponzo per ragioni di sicurezza e sono sicuro che il presidente sarà sensibile alla richiesta, attento come è alle problematiche dei cittadini pavesi». Nel suo Comune è in vigore un’ordinanza che impone la bollitura dell’acqua ad uso alimentare. Come mai? «C’è un’ordinanza di bollitura dell’acqua che permane su tutto il territorio comunale per ragioni di sicurezza dallo scorso giugno. Le analisi dei tecnici dell’Ats, con prelievi fatti al consumo da alcuni rubinetti sul territorio avevano rilevato parametri non conformi. Da controlli successivi alle sorgenti è emerso che i parametri erano regolari. Stiamo attendendo gli esiti dei successivi controlli eseguiti al consumo per far cessare gli effetti dell’ordinanza». di Christian Draghi
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«Conta che il salame di Varzi sia buono, non dove si allevano i maiali» Il bando Agriseed pubblicato dalla Comunità montana rilancia il dibattito intorno al futuro del Salame di Varzi Dop. L’Ente, insieme a Fondazione Cariplo, mette a disposizione 230mila euro totali da destinare a chi intende aprire un nuovo allevamento di maiali semi liberi o convertirne uno esistente allo scopo di produrre salame “cucito” Dop. La condizione è che i suini siano autoctoni, pesino almeno 220 chili e vivano un minimo di 13 mesi. Una volta pronti, per la lavorazione dovranno essere affidati a una delle imprese appartenenti al Consorzio Tutela. Come si legge nel bando stesso, lo scopo è «il consolidamento di una filiera a km0, ovvero interamente sviluppata sul territorio della Comunità montana dell’Oltrepò Pavese, per la valorizzazione del prodotto più pregiato». Che il cucito rappresenti il fiore all’occhiello della gastronomia locale non si discute, anche se rappresenta solo una minima percentuale della produzione complessiva (a farla da padroni sono filzetta e salametto). Quale sia lo stato di salute generale del prodotto principe della Valle Staffora lo rivelano i dati del Consorzio: «Da gennaio a settembre di quest’anno – dice il presidente Fabio Bergonzi – sono stati prodotti 416.757 kg di pasta di maiale certificata da organismo di controllo, con cui si sono realizzati 444.894 salami contro i 390.808 del 2018, con un incremento della produzione del 14%». Per produrli ci sono voluti - a spanne - circa 8mila maiali, dei quali quelli allevati in loco sono un numero compreso tra i 300 e i 500. Fatti i conti della serva, se si pensa che il “vicino” più prestigioso, il salame di Felino, nel 2017 vantava una produzione che partiva dalla lavorazione di oltre 5 milioni di chili di carne, si capisce facilmente come i numeri del nostro Consorzio siano significativi a livello locale, ma assomigliano tutt’al più a quelli di una discreta produzione artigianale. Che è poi quella che il bando Agriseed mira a sostenere: il “cucito” è un prodotto di norcineria raffinato che non ha pari se realizzato a regola d’arte. A livello economico, poi, è quello che attualmente può fornire i margini di guadagno più alti dato che un buon cucito si può (e si dovrebbe) piazzare anche a 34-35€ al chilo. La domanda è se per favorire la crescita di questo prodotto il finanziamento di attività di allevamento a km0 sia la strada giusta. Diversi allevatori concordano sul fatto che la provenienza del maiale stesso, per altro già ristretta dal disciplinare alle regioni di Lombardia, Emilia e Piemonte, non sia di per sé determinante ai fini qualitativi. A fare la differenza sono il peso
territorio, il “ragazzo” non ha la statura per diventare cestista e la strada si fa lunga e irta come le colline d’Oltrepò. Se invece il suo dna è quello di un’eccellenza artigianale, una piccola produzione di nicchia ad altissimo livello che però non ha l’ambizione di cambiare le sorti economiche di chicchessia, la strada imboccata potrebbe anche essere quella giusta. Non è detto che una sia meglio dell’altra e per vedere risultati occorreranno anni in entrambi i casi. Tutto sta nel chiarirsi subito le idee e smetterla di procedere a tentoni seguendo la logica del “piutòst che nient l’è mei piutòst”. Occorre avere una visione e fare una scelta per poi perseguirla e incoraggiarla (leggi finanziarla) nel migliore dei modi.
Fabio Bergonzi, Presidente Consorzio Tutela
Giorgio Perdoni, Presidente Confraternita Pegaso
Fondi per sostenere gli allevamenti autoctoni: «Spingiamo “il cucito” con una filiera a km 0»
della bestia (240-250 kg), la sua alimentazione e il modo in cui viene cresciuto. Che respiri anche l’aria delle colline oltrepadane è superfluo. Colline che, va detto, non hanno né la tradizione né la vocazione per l’allevamento. «Non ci sono neppure gli spazi che servirebbero per metterne su uno che possa produrre un reale guadagno» dice un allevatore della zona che preferisce rimanere anonimo. «Inoltre, con i pochi soldi che mette a disposizione quel bando, nessuno riuscirebbe a costruire nulla partendo da zero, servono ben altre risorse». Dei 230mila euro complessivi infatti ne vengono assegnati un massimo di 25mila per soggetto a fronte di un investimento minimo garantito di 15mila.
«Con questi numeri non si fa business, si rischia anzi di lavorare in perdita» dice sempre lo stesso allevatore. Avere tanti maiali (quelli che servirebbero appunto a far business) richiederebbe poi nutrirli, gestire una catena che va dal rifornimento di cibo alla pulizia dei liquami, con tutta una serie di operazioni che avrebbero tra l’altro una componente impattante sul paesaggio e l’ambiente. Dall’altra parte è innegabile che il bio oggi tiri e le filiere a km0 rappresentino un punto di forza per molti territori con vocazioni agricole. Il salame di Varzi deve decidere cosa vuole fare da grande. Se, come dicono spesso i politici, deve diventare un traino per il rilancio (si presuppone economico) del
Salame Dop: prodotto di nicchia o gallina dalle uova d’oro? In soldoni: i contributi che la comunità montana elargisce attraverso Agriseed sono utili? Certamente sì. Saranno decisivi per cambiare il destino commerciale del salame di Varzi dop? Quasi sicuramente no. Se è vero, come ricorda il presidente del Consorzio che è partner dell’iniziativa Bergonzi, che «da qualche parte bisogna pur cominciare» e fa bene ad essere contento della nuova opportunità data agli allevatori locali, occorre anche riflettere attentamente sulle strade da percorrere e le filosofie da abbracciare. Giorgio Perdoni, presidente della Confraternita Pegaso che ha fatto del tramandare il salame «di una volta» una mission, sottolinea che «non è importante dove si allevano i maiali, è importante che di salame se ne faccia tanto e buono». L’Oltrepò non ha la capacità di fare grandi numeri, ma di sicuro, se vuole, sa sfornare ottimi salami. I migliori. Ci si interroghi su come motivare tutti i produttori a consorziarsi e a mantenere la qualità del prodotto ben al di sopra degli standard. Anche quelli del disciplinare stesso che, come ricorda Perdoni, «impone di non superare certi limiti verso il basso, ma non impedisce a nessuno di alzare l’asticella». di Christian Draghi
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«Dal governo Palli ancora nessun risultato strategico» Fondi europei, recupero aree dismesse e lavoro in Alto Oltrepò. Il consigliere provinciale Paolo Gramigna e il neo segretario del circolo PD di Varzi, Luca Rossi, si confrontano su questi temi. Rossi pensa si possano offrire opportunità concrete al territorio? Quali saranno i passi successivi da intraprendere? «Bisognerà conoscere le opportunità che le istituzioni possono mettere in campo, anche in relazione alla prossima programmazione europea 2021 – 2027 ed agli esempi di buone pratiche applicati altrove. Politicamente, però, l’obiettivo dovrà essere posto a medio/lungo termine e sarà quello di contribuire ad un cambio di approccio culturale teso alla ricerca di opportunità attraverso la conoscenza e la competenza, non più attraverso l’affidarsi al potente di turno.» Gramigna, nel FESR (Fondo Europeo Sviluppo Regionale) per il 2021-2027 è previsto l’Italia un consistente aumento di risorse: risorse per circa 43,5 miliardi di euro, con un incremento pari al 29%. Un’occasione imperdibile per aree come l’Oltrepò. Tuttavia, è previsto il ripristino della regola “n+2” in sostituzione della regola “n+3”. Mi spiego: la Commissione provvederà al disimpegno di una parte degli stanziamenti se questa non sarà stata utilizzata o se al termine del secondo anno non saranno state inoltrate le domande di pagamento. Il nostro sistema territoriale riuscirà a darsi dei tempi e a rispettarli? «Il prossimo bilancio Europeo presentato dalla Commissione Europea, al parlamento europeo ed al Consiglio d’Europa nello scorso mese di luglio, prevede un incremento di spesa soprattutto per investimenti, compresa la dotazione sui fondi strutturali sia indiretti (soprattutto FESR e FSE) che diretti. Un buon motivo per sostenere politicamente l’UE e non additarla pretestuosamente come causa di ogni male. Per tornare al tema della domanda, in Oltrepò Pavese sono individuati due ambiti territoriali entro i quali possono essere finanziati progetti di sviluppo attraverso fondi indiretti UE. Uno è l’area Leader (tutti i comuni a sud della via Emilia, tranne Broni e Voghera) e l’altro è l’area dell’Appennino montano costituita dai comuni del Sistema Nazionale Aree interne. Nella scorsa programmazione Regione Lombardia ha voluto fare una scelta a mio avviso limitante, riservando per l’area Leader la possibilità di finanziare progetti solo attraverso il Piano di sviluppo rurale (PSR) e per le aree interne solo attraverso FESR e FSE. Tutto ciò sta comportando una obiettiva difficoltà per raggiungere adeguate performance di spesa. Altro grosso problema è quello della quota di cofinanziamento richiesto per
Paolo Gramigna, consigliere provinciale
Luca Rossi, nuovo segretario del circolo PD di Varzi
«Come forza politica non mancheremo di spronare le istituzioni locali in uno spirito di collaborazione per la ricerca del bene comune» le aziende private, nonché per gli Enti pubblici la spesa dell’IVA a proprio carico. Tutti elementi che andranno corretti nella prossima programmazione per rispettare le performance di spesa dettate dalla UE.» Nel campo dei diritti sociali, grande importanza sarà data agli investimenti in grado di migliorare l’accesso al mercato del lavoro (in particolare per donne e giovani) e che aumentino la qualità del sistema di istruzione e formazione. Partendo da un bilancio di quanto già realizzato, quali possono essere le linee di intervento ulteriori? «Anche in questo caso i fondi Europei, in particolare l’FSE, vengono in aiuto. Occorre lavorare con le scuole primarie del nostro territorio e puntare a progetti per favorire l’inclusione scolastica e combattere la dispersione. Parallelamente gli istituti scolastici secondari in collaborazione con gli Enti di formazione, sull’esempio di quanto fatto all’IPSIA di Varzi, potrebbero ospitare corsi di
formazione abilitanti, come gli IFTS, completamente gratuiti poiché finanziati dai fondi europei.» Parlando di aree industriali dismesse, ovviamente un pensiero va subito alla ex-Zincor e alla sua bonifica. Dopo il duro lavoro svolto su questo tema negli anni passati, quale visione si può avere per quest’area nel futuro? «Arrivare a completare la bonifica di quell’area ed allontanare un potenziale pericolo è già stato un grande successo cui mi onoro di aver contribuito da assessore provinciale prima e da consigliere provinciale poi. Ora l’area va portata all’attenzione di imprenditori che potrebbero godere di importanti finanziamenti pubblici per stabilire nell’area la propria attività, nonché di una connessione informatica a banda larga, in fase di realizzazione dalla società Open-fiber con finanziamento del MISE. Certamente non potranno più essere riproposte realtà produttive impattanti o
inquinanti. Occorre analizzare le buone pratiche di rigenerazione di aree dismesse per trarre le proporre idee.» Un’area già bonificata da tempo è, invece, quella dell’ex fornace Martinelli di Valverde; un complesso del quale l’amministrazione Andrini, con coraggio, già anni or sono aveva acquisito il possesso e la piena disponibilità. Finora i vari progetti ipotizzati per il pieno recupero dell’area (polo artigianale, parco energetico) non si sono concretizzati anche a causa dell’atavica mancanza di finanziamenti. Possono esserci novità con la nuova programmazione comunitaria? «Quella della acquisizione dal fallimento della proprietà da parte del Comune è stata una scelta vincente per potere accedere a finanziamenti pubblici per la bonifica e per evitare il pericolo che lì si realizzasse negli anni ‘90 un inceneritore di rifiuti speciali. L’area si presta particolarmente all’insediamento di attività produttive in quanto adeguatamente infrastrutturata per quanto riguarda la linea elettrica. Credo che nella prossima programmazione comunitaria non possa essere trascurato il tema del finanziamento di progetti privati o pubblici per il recupero anche di questa aree dismessa.» Rossi dopo aver parlato di progetti, chiuderei con una nota sulla politica varzese. Nei primi mesi di amministrazione, il sindaco Palli si è fatto notare per un certo attivismo. Come ne giudicate, fin qui, i risultati? «Palli non solo è diventato sindaco, ma anche presidente della Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese. Ha avuto naturalmente molta visibilità mediatica in questi primi mesi di mandato anche perché per la prima volta Varzi e la Comunità Montana hanno un sindaco e presidente leghista. Rispetto a qualche mese fa, quando sono stato candidato consigliere comunale a Varzi avversario della lista Palli, ora il ruolo mi permette un giudizio politico, non amministrativo che compete ai consiglieri comunali civici di opposizione. Mi pare che risultati strategici non ce ne siano ancora stati. Ciò che è stato fatto, sostenuto dalla giunta della Comunità Montana, è proseguire il percorso dell’attuazione dei progetti aree interne, già in precedenza definiti, che si erano interrotti nel periodo preelettorale per quanto riguarda la loro fase attuativa. Auspichiamo che Varzi e la Comunità Montana non prescindano da un ruolo attivo nell’ambito della prossima programmazione comunitaria, per non precludere possibilità soprattutto ai giovani che qui vogliono vivere e lavorare. Come forza politica non mancheremo di spronare le istituzioni locali a questo ruolo, sempre in uno spirito di collaborazione per la ricerca del bene comune.» di Pier Luigi Feltri
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Amarcord: quando Dalla e Drupi riempivano il Cinema Italia Se la Zincor era il simbolo della Varzi che lavorava, il salone del Cinema Italia era sicuramente quello della Varzi che si divertiva. Gli anni d’oro in cui la Valle Staffora brulicava di vita sono oggi un lontano ricordo, ingiallito quanto le fotografie che lo ritraggono. La storia del Cinema è legata a filo doppio alla famiglia Comolli: fu Luigi, imprenditore illuminato del ramo divertimento, ad aprire i battenti come “Teatro” verso la fine degli anni ’20 presso l’allora casa del Fascio, al civico 6 di via Pietro Mazza, dove oggi ha sede la biblioteca comunale. La lungimiranza e le capacità imprenditoriali di Comolli resero memorabile quella prima fase storica del Cinema. Vi si esibivano orchestre, si festeggiava il Carnevale, si proiettavano film. «Iniziò quelli film muti, da Charlie Chaplin a Buster Keaton» ricorda il musicista varzese Luigino Ginelli, autore di un libro in cui rievoca la storia dello spettacolo “made in Varzi”. Nei primi anni ’50 poi, con l’era fascista ormai alle spalle, la Sala da ballo diventava “Cinema Italia” a tutti gli effetti. Gli ospiti illustri non mancavano: tra loro Luciano Tajoli, Claudio Villa, che Comolli andò a prendere Roma di persona andando e tornando in giornata, e Betty Curtis fresca vincitrice del Festival di Sanremo del 1961 con “Al di là”. La svolta però avvenne all’inizio degli anni ’60, quando il Cinema si traferì nell’attuale sede di via Luigi Mazza. è corretto, Ginelli? «è stato a 1962 che la sede si trasferì nella nuova struttura di via Luigi Mazza, dove il Cinema Italia è stato fino alla fine dei suoi giorni. Sorge su una parte del giardino dei Berri che Gigi Comolli acquistò negli anni ’50. Per circa un paio d’anni, in attesa di progetto e permessi per avviare la costruzione dello stabile, Comolli adibì lo spazio a Sala da ballo all’aperto. Era uno spettacolare giardino al di là di uno dei ponticelli sul Reponte superiore. Si scendeva qualche scalino e ci si immergeva nella natura tra alberi secolari, pini, e roseti come contorno. Sulla sinistra entrando si notava il palco con un’ampia pista ,circondata da tavolini e sedie e a lato non poteva mancare il chiosco-bar». Poco dopo l’inaugurazione del nuovo Cinema Gigi Comolli, che sarebbe scomparso di lì a pochi anni (1965), passò la gestione al figlio Francesco. Ci fu continuità in tutto, anche nella programmazione “altisonante”… «Nell’Italia del boom economico e del Festival di Sanremo, il nuovo Cinema Teatro divenne il cuore pulsante della Valle Staffora. Da lì passarono tutti. Orietta Berti, Milva, Iva Zanicchi, Wess & Dori Ghezzi, Giorgio Gaber, Rocky Roberts ap-
1972: Remo Tagliani presenta la prima edizione del Cantastaffora
Inaugurato negli anni ’20: «Proiettava i film di Chaplin e Buster Keaton» Dal 1962 la nuova sede: ha ospitato la “beat generation” pavese pena uscito vincitore dal “Festivalbar”del 1967 tenutasi quell’anno a Salice Terme. Poi ancora i Camaleonti e i Dik Dik con il clamoroso successo di “Sognando la California”. Vennero persino Lucio Dalla sull’onda del successo di “4 marzo 1943” dopo il terzo posto al Sanremo del 1971 e Nicola Di Bari con alle spalle successi come “La prima cosa bella”. Con lui ebbe il piacere di bere un whiskey il nostro Carletto Tevini». Non mancavano le esibizioni delle “glorie” locali… «Nella seconda metà degli anni ’60 venivano i complessi “beat” come i vogheresi
Frenetici, le Calamite con Drupi, i Rettili, i Discepoli, Ramon e gli Evasi da Casteggio per citarne alcuni e nei primi anni ’70 gruppi come i modenesi “Johnny e i Marines” con le chitarre a forma di fucile, le “Pesche Sciroppate” e i “Crema” di Pavia. C’erano anche i Barracuda, di cui facevo e faccio ancora parte». Il Cinema Italia era un punto di riferimento per tutta la comunità varzese e la vallata, una struttura assai più “polifunzionale” di qualsiasi centro costruito in epoche recenti. Remo Tagliani, giornalista e presentatore varzese, è una delle memorie storiche di quel periodo d’oro. Ricorda le
proiezioni con l’indimenticato Antonio “capitani” Arnelli in cabina di regia, che «spesso durante la proiezione della pellicola si addormentava e veniva svegliato dal grido degli spettatori “capitani è saltata”, quando magari la stessa si rompeva causa l’usura. Allora c’era la prima, la seconda e “altre visioni”, e a Varzi il cinema c’era il martedì, giovedì, sabato, domenica pomeriggio e sera». Tagliani, non c’erano però solo film, concerti o il carnevale. Proprio in quella sala lei ha organizzato e presentato delle manifestazioni… «Ho incominciato all’inizio degli anni settanta a organizzare degli spettacoli, dal Cantastaffora a Potevano Essere Famosi. Prima c’era il Minifestival. Il palcoscenico era ricavato sotto lo schermo e misurava dai 10 metri di larghezza ai 2 metri di profondità. C’era sempre il tutto esaurito con 500 - 700 spettatori». Che tipo di manifestazioni erano? «Cantastaffora era nato nel 1972, la mia idea era un po’ quella di fare una versione locale dello Zecchino D’oro. Tra i bambini che si esibirono c’era anche Giorgio Trucco, oggi tenore, che allora aveva sette anni ma già si sentiva che aveva talento. Sarebbe bello organizzare una nuova edizione Amarcord richiamando gli ospiti d’allora per vederli oggi.
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Luigino Ginelli
1967: Il complesso vogherese “I Nodi” al primo Minifestival
Remo Tagliani
Per quanto riguarda “Potevano essere famosi” era un evento dedicato a tutti quelli che, pur sapendo cantare, non lo avevano mai fatto in modo ufficiale, con un complesso o su un palco». Come venivano utilizzati gli incassi? «Tutti quegli spettacoli erano organizzati per beneficenza ed anche il ‘teatro’ veniva concesso dalla famiglia Comolli gratuitamente. La parte inferiore era adibita a serate danzanti, principalmente il Carnevale e qualche altra data come San Giorgio, la Fiera di San Simone e i coscritti. Ricordo ancora quando abbiamo organizzato un Cantastaffora a favore dei Cappuccini e abbiamo consegnato l’incasso di
Giù la clèr nel 2014: «Tarditi provò a salvarlo ma i varzesi non risposero»» ben 900mila lire a padre Giovanni Maria Tognazzi, cappellano della Rai di Milano, al quale ero legato da una sincera amicizia, e che mi aveva tra l’altro suggerito proprio il nome “Cantastaffora”. Lui era emozionatissimo, non credeva ai suoi occhi». Poi il declino, lento ma inesorabile. Negli anni 2000 però la struttura era stata
acquistata dalla famiglia Tarditi, intenzionata a continuare la tradizione del Cinema Teatro Italia. Cosa andò storto? «I tentativi fatti da Roberto Tarditi sono stati numerosi, dalla proiezione di film in prima visione, quale Ratatouille, a serate danzanti con il complesso di Omar Codazzi, tuttavia, per vari motivi, la risposta del-
la popolazione non è stata favorevole ed è finita la storia del Cinema Italia. Diciamo che i varzesi sono persone molto particolari, se ti hanno in simpatia va bene, ma basta un nonnulla che ti girano le spalle. Credo che a Tarditi sia andata male per questioni, diciamo così, “ambientali”». L’ultima saracinesca, abbassata nel 2014, ha posto fine alla lenta agonia di uno dei simboli di una Varzi che oggi non esiste più. Vive ancora nel ricordo di chi l’ha vissuta e sui libri di chi in qualche modo ha provato a raccontarla in maniera nostalgica. La chiusura del Cinema Italia ha inesorabilmente sancito la fine un’epoca. di Christian Draghi
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Auser in prima linea: nasce il “telefono amico” per anziani soli Con 24mila chilometri già percorsi dai suoi volontari a sostegno degli anziani sparsi sul territorio dell’Alto Oltrepò, l’Auser di Varzi nato nel 2014 si conferma un’associazione in crescita e lancia un nuovo progetto in vista dell’inverno: un servizio di telefonia dedicato alle persone bisognose. Da Giugno c’è un nuovo presidente, Paolo Mazzocchi, un nuovo statuto e un nuovo consiglio direttivo. L’Associazione di volontariato, che si occupa principalmente di trasporto e assistenza agli anziani, è consapevole del ruolo importante che riveste in un territorio dove la maggior parte della popolazione è anziana. Il nuovo presidente Mazzocchi, ora in pensione, è stato medico di reparto all’ospedale di Varzi e conosce molto bene le problematiche legate all’anziano. Ha da poco trasferito la sua esperienza di operatore medico in una nuova missione, quella di allargare i servizi e la territorialità dell’Auser di Varzi. Mazzocchi, può spiegarci questo nuovo progetto di telefonia? «è un progetto finanziato dalla Fondazione Cariplo con il Gal capofila e coinvolge anche gli Auser quella di Montalto Pavese, Pietra de’ Giorgi e Santa Margherita Staffora. Prevede la strutturazione di un servizio di “telefonia di ascolto”, il cui numero sarà reso noto a breve per offrire compagnia attraverso il telefono a persone anziane e aiutarle in caso di necessità. Questo servizio è stato pensato soprattutto in vista dell’inverno, dove a volte piccoli paesi diventano quasi completamente spopolati ed isolati, le persone anziane si sentono sole e hanno bisogno di socializzare oppure di accedere ai servizi». Solitudine e necessità di essere portati in giro, soprattutto per ragioni cliniche. Quante auto avete a disposizione e quanti autisti? «Abbiamo 3 autovetture e 14 autisti, un buon numero direi, ma certe volte facciamo fatica a soddisfare le richieste, perché capita che non tutti i 14 autisti siano disponibili, ma nonostante le difficoltà, tutti si danno da fare per ritagliare del tempo da dedicare a questa “missione”». Quanti viaggi fate al giorno? «Negli anni precedenti facevamo uno o due viaggi al giorno adesso arriviamo a sei, talvolta più di sei e quindi non avendo auto sufficienti usiamo le nostre personali se necessario. Nel 2018 abbiamo percorso 18mila km quest’anno siamo già oltre i 24mila. Il trend è in crescita e abbiamo bisogno di aumentare il parco auto. Non dimentichiamo che questa associazione è determinante per il nostro territorio: andiamo a prendere le persone che hanno bisogno anche in montagna, senza
Più di sei uscite al giorno I volontari hanno già percorso 24mila chilometri
Il Dott. Paolo Mazzocchi, neo presidente AUSER di Varzi
di noi non saprebbero come fare, inoltre, non ci limitiamo solo a “scarrozzare” le persone, ma mostriamo loro empatia, le ascoltiamo in modo che non si sentano sole, abbiamo ricevuto lodi e ringraziamenti anche e soprattutto per questo. Non si porta soltanto in giro il malato gli si fa compagnia». Servirebbero più volontari? «Quello sempre e a tal proposito stiamo pensando di potenziare il trasporto coinvolgendo i comuni al di fuori di Varzi ad esempio Cecima, Romagnese, Brallo di Pregola e Menconico. Cogliamo l’occasione per sollecitare chiunque abbia un po’ di tempo libero e voglia nel rendersi disponibile ad accompagnare chi necessita di avvicinarsi all’ ospedale o ad altri servizi. Questo progetto vuole coinvolgere più
persone possibili nei comuni citati affinché ci sia una collaborazione capillare su di un territorio che è sempre più anziano». Chi sono i vostri assistiti? «Tutte quelle persone che, causa problemi economici, di salute e di solitudine, non hanno l’autonomia o la possibilità di recarsi ad effettuare accertamenti o visite mediche in zona e non solo, infatti spesso e volentieri li accompagniamo anche fuori provincia o fuori regione». Può fare un bilancio di questi mesi? «Un bilancio ottimo che mi soddisfa e inorgoglisce pienamente. è un’organizzazione in pieno “boom” come si suole dire. Guardando le statistiche in mie mani, si può dire che rispetto allo scorso anno i chilometri percorsi sono molti di più, questo implica che siamo riusciti ad incrementare i servizi, che è il nostro scopo.
Sono entrato qui praticamente digiuno riguardo alle attività di questa struttura e sto scoprendo, di volta in volta, un lavoro di squadra eccezionale: un gruppo composto da pensionati e persone che dedicano una parte del proprio tempo libero al volontariato senza percepire alcun compenso. è straordinario». è prematuro, è in carica da soli 5 mesi, ma se avesse un sogno nel cassetto da realizzare, quale sarebbe? «Collaborare il più possibile con le altre associazioni presenti sul territorio. Già da quest’anno ad esempio, ricominceremo a proporre delle serate a sfondo educativo, cosa che era già stata fatta in passato. A fine mese il primo incontro sarà dedicato alle cattive abitudini: ludopatia e abuso del telefonino. Il prossimo anno, in collaborazione con la Croce Rossa, affronteremo il tema dell’ alimentazione nell’anziano fragile e l’ insegnamento di qualche manovra di primo soccorso a livello pratico. In passato abbiamo partecipato al progetto “abitare in age” un progetto gestito dal Politecnico di Milano. Praticamente eravamo i selezionatori dei pazienti anziani per valutare la qualità della loro vita sia che vivessero da soli sia accompagnati. Un progetto a livello nazionale che vedeva due realtà a confronto, quella cittadina e quella rurale, sarebbe interessante poterlo riproporre». In che modo raccogliete i fondi necessari per rendere possibile il vostro servizio? «Il comune ci dà una grossa mano, anche perché non facciamo pagare il trasporto, le persone ci fanno offerte e ben vengano…. Inoltre ci dilettiamo ad organizzare serate benefiche dove noi tutti diventiamo attori di teatro, oppure all’occorrenza ci “trasformiamo” in cuochi in alcune feste di paese sempre organizzate per raccogliere fondi. In queste occasioni devo dire che le persone che si prodigano a darci una mano sono veramente tante». In che modo è possibile migliorare il servizio? «Bisogna riuscire ad “allargare” il lavoro dell’ Auser, renderlo più capillare e coordinato potenziando gli intercollegamenti. Mi spiego: ci sono comuni che non hanno un Auser proprio e si servono di noi ma se riuscissimo a coinvolgere non dico tutti ma buona parte dei comuni dell’Alto Oltrepò, ci sarebbe la possibilità di dividersi i compiti ed i territori: se una persona di Romagnese deve andare a Voghera potrebbe essere accompagnata sino a Varzi dai volontari di Romagnese e poi da Varzi essere presa in carico da noi». di Stefania Marchetti
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CASTEGGIO
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«Solo con il “porta a porta” la differenziata può decollare» Primi cinque mesi di amministrazione Vigo a Casteggio; primi grandi problemi da gestire, ma anche primi progetti concretamente messi in campo, sulla scia di quello che è stato il programma amministrativo presentato in corrispondenza della tornata elettorale. Il sindaco ci racconta i suoi primi passi. Dopo soli cinque mesi dall’insediamento lei, come altri sindaci neo-eletti in Oltrepò, si è trovato a dover gestire un’emergenza certo non comune, come quella dello scorso 21 ottobre. Un commento, a freddo, su questo momento delicato? «Dire che un’emergenza è andata bene è una parola grossa, ma non posso certo dire sia stata mal gestita. Anzi, sono estremamente soddisfatto per la macchina che si è messa in moto, sia per quanto riguarda gli uffici comunali, sia per la collaborazione avuta dalla Protezione civile. Colgo l’occasione, come ho fatto anche il 4 novembre, per ringraziare tutti coloro che hanno collaborato per risolvere questo brutto momento. Devo dire che nel giro di 48 ore abbiamo liberato Casteggio dal grosso delle criticità, sia dal punto di vista viabilistico, sia per quanto riguarda gli immobili che andavano messi in sicurezza, sia per il sottopasso. Un lavoro enorme. Ce l’abbiamo fatta anche grazie alla disponibilità di alcune ditte, ce n’erano cinque attive fra quelle che si occupano di movimento terra e di spurghi. Poi la Protezione Civile, con almeno 100 volontari.» Cento volontari… un piccolo esercito. Considerando anche che i volontari dei paesi vicini saranno stati impegnati a contenere l’emergenza nei loro comuni. «Sì, sono venute a darci una mano persone anche da lontano. Anche la Protezione Civile del Parco del Ticino, con mezzi tecnici ed esperienza di livello. Il nostro comune, di fatto, è tornato alla normalità in un paio di giorni. Poi diciamo che si tratta di un evento che avremmo proprio voluto evitare.» Come evitare che si ripeta? «Secondo me dobbiamo essere molto chiari. Il rischio si mitiga ma non si elimina. C’è una parte del problema che tocca i corsi d’acqua, la pulizia dei fossi. Argomento su cui di fatto noi ci siamo messi immediatamente al lavoro. Il 27 maggio sono stato eletto, il 19 giugno ho preso i primi contatti con Regione Lombardia alla ricerca di finanziamenti per sistemare il reticolo idrico minore. Questo per dire che l’idea di una manutenzione e di una messa in sicurezza del territorio l’avevamo.» Evidentemente la Regione non ha mai risposto…
Lorenzo Vigo
«Ad oggi stiamo ancora traccheggiando, è brutto dire che bisogna sempre che succeda qualcosa prima che si agisca. Ma siamo comunque in contatto con gli uffici della Regione, abbiamo compilato le dovute schede (RASDA, ndr) e siamo in attesa di capire cosa succederà. Ci sono però delle criticità urbanistiche che risalgono all’urbanizzazione degli anni ‘70/’80 che, di fatto, sono inaffrontabili.» Per esempio? «Parlo della tombinatura dei corsi d’acqua, per esempio. Torrenti interrati in tubi da 80 centimetri, sopra ai quali sono stati costruiti quartieri. È chiaro che quando cade una pioggia come quella di questa occasione, il torrente si riprende la sua strada. Servirebbero opere di regimentazione idraulica, che però non sono alla portata dei comuni. Sicuramente noi proseguiremo gli interventi di messa in sicurezza del territorio e anche tutta la manutenzione. Oggi non c’è in Casteggio, ma in nessun comune dell’Oltrepò, alcun intervento di pulizia delle caditoie, perché non fanno parte delle attività previste da Pavia Acque. In altre parti della nostra regione invece sì. La soluzione verrà trovata, dovremo avere una manutenzione programmata del territorio. Il territorio è fragile; se non si parte dal metterlo in sicurezza, tutti gli altri discorsi, a partire dalla promozione,
«Un territorio così frammentato dovrebbe avere una governance comune» vengono meno.» Per avere fondi a sufficienza c’è bisogno che venga dichiarato lo “stato di emergenza”. «Servirebbe che la questione dallo “stato regionale” passasse allo “stato nazionale”, in modo da avere il riconoscimento effettivo. Dalla Prefettura è stata attivata l’Unità di crisi locale. A Casteggio ed in altri comuni, dopo quanto successo, era ben noto che il problema fosse grande: non si sono sporcate un po’ le strade, sono proprio scoppiate delle tombinature che erano lì da più di quarant’anni. Ci sono stati anche tanti danni per i privati. Abbiamo bisogno di un sostegno concreto per sistemare il territorio, vediamo adesso le istituzioni che passi faranno.» L’emergenza, appunto, ha coinvolto non soltanto Casteggio ma anche comuni vicini. Da cosa nascono queste
difficoltà comuni, e come affrontarle insieme? «Tante criticità sono le stesse per tutti i comuni, che poi sono solo una divisione meramente amministrativa. Ci dovrebbe essere una sorta di sistema di gestione del territorio. Penso, per esempio, alla gestione dei fossi da parte dei privati; penso all’attenzione che dovrebbe esserci per evitare di arare le fasce di rispetto verso i corsi d’acqua e le strade, cercando di lasciare i bordi inerbiti e riducendo la discesa del fango a valle. Ma il problema vero è quello che hanno i comuni più piccoli, quelli che hanno magari 150 abitanti e la stessa estensione territoriale di Casteggio: come possono riuscire a controllare i campi, i fossi, i corsi d’acqua? Per questo, forse, un territorio così frammentato dovrebbe avere una governance comune.»
CASTEGGIO Un coordinamento? «Un respiro comune da parte dell’Oltrepò, a partire da temi come questo. Soprattutto per la fascia della zona collinare, dell’Oltrepò del vino, che ha criticità e peculiarità particolari. Un coordinamento. Che si tratti di rischio idrogeologici, che si tratti di promozione turistica, l’obiettivo deve essere quello di fare squadra. Bisogna notare che abbiamo una frammentazione pazzesca: fra Stradella a Casteggio si incontrano una cinquantina di comuni.» Dato che fa molto riferimento alla necessità di fare rete, parliamo dei rapporti con i suoi colleghi sindaci. Alessandro Cantù, sindaco di Stradella, e Giovanni Palli, sindaco di Varzi, sono entrambi, come lei, stati eletti da cinque mesi. E vanno predicando un po’ le sue stesse cose, ovvero la necessità di fare squadra fra comuni. Casteggio sta proprio in mezzo a Stradella e Varzi… «L’idea è quella di muoversi come squadra. Ho già avuto modo di parlare con i sindaci di Broni e di Stradella. Riviezzi è un amico di vecchia data, siamo stati assessori entrambi nella nostra precedente vita amministrativa. È inevitabile che questi tre centri principali facciano un po’ da capo-cordata di questa coesione territoriale. Sul piatto i temi sono tanti.» Facciamo un esempio. «Stiamo ragionando sulla fusione dei piani di zona. Verosimilmente andremo a fondere i nostri piani di zona entro fine anno, per realizzare, come previsto dalla regione, un ambito più “consistente”. Voghera, di recente, si è messa insieme alla Valle Staffora. Noi andremmo ad avere lo stesso numero di abitanti, ma suddivisi in un numero di comuni che sarebbe circa il doppio. Stiamo anche costruendo un piano di promozione comune, con riferimento ai bandi Gal che sono attualmente aperti. Presenteremo un progetto territoriale che va da Casteggio a Stradella e che comprenderà tutti i comuni presenti nella fascia. Abbiamo riaperto il tavolo del Distretto del Commercio e abbiamo già nuovi comuni che chiedono di entrare a farne parte…» Ecco, i Distretti del Commercio. Qualche anno fa erano sorti come funghi, in Oltrepò. Ovviamente il fine dei comuni non era pensare ai problemi del commercio, ma incamerare qualche euro di fondi regionali. Dopo il periodo in cui c’era attivo un bando, i distretti finivano in uno stato di quiescenza. Fino all’uscita del bando successivo. Che non c’è più stato. Ma sono in previsione nuovi fondi… «Regione Lombardia ha già nei propri capitoli di spesa le nuove risorse da destinare ai Distretti. Ma la Regione dovrebbe armonizzarli, questi distretti: con i precedenti finanziamenti se ne era creato un numero inverosimile. Forse, averne un numero minore che comprendano territori più vasti, sarebbe utile per farli rimanere vivi. C’è stata questa difficoltà: passato il finanziamento, finivano tutte le attività. Se il distretto non è costituito da tre comuni, ma è territoriale, ci sono più possibilità che si mantenga vivo e che produca
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«Nel giro di 48 ore abbiamo liberato Casteggio dal grosso delle criticità» risultati anche al di là del finanziamento regionale. Con cifre relativamente basse, se si è in tanti, si può contribuire alla realizzazione di eventi.» Quando si parla con i sindaci storici, un po’ tutti ripetono come un mantra che sentono la mancanza di un punto di riferimento ai livelli più alti della sfera amministrativa. Il “politico” di riferimento per l’Oltrepò. Per un sindaco come lei, che ha iniziato da poco la sua avventura amministrativa come primo cittadino, è così sentita l’assenza di un personaggio di questo tipo? «Devo dire che ho avuto contatti con i politici che stanno in Regione a anche a Roma. È chiaro che riferimenti e contatti ci sono. Ma penso anche sia inevitabile un cambio di generazione. È vero che non ci sono più i vecchi riferimenti, ma ce ne saranno degli altri. Dobbiamo lavorare per creare una catena che dall’Oltrepò arrivi in regione e a Roma. Se pensiamo ai nostri attuali rappresentanti territoriali, vediamo che molti sono nuovi. Certo non c’è più la rete storica che c’era prima, molti anni fa. Quello che dobbiamo fare, al di là del colore politico, è lavorare insieme per essere determinanti sui tavoli dove si decidono le cose. Ora si vedrà cosa succederà con la storia dell’alluvione. Ci sono territori molto più forti nell’ottenere attenzioni, finanziamenti e quant’altro. La provincia di Pavia, invece, deve lavorare di più. Però io sono ottimista. Ci sono tanti giovani amministratori, bisognerà crescere; ma se siamo uniti come territorio ci sono le potenzialità per arrivare lontano.» Restiamo in tema di politici. La minoranza, nel Consiglio Comunale di Casteggio, appare collaborativa. Seggio, in particolare. D’altra parte vi conoscevate bene, dalla passata legislatura. Devo osservare che il clima ora sia più disteso rispetto a un tempo, quando spesso le sedute finivano in insulti se non addirittura alle mani. Come commenta i rapporti che intercorrono con le attuali opposizioni? «Penso di essermi sempre posto in maniera collaborativa con tutti, anche prima di fare il sindaco. Chiaramente la minoranza è cambiata; c’erano tutta una serie di situazioni, in precedenza, che andavano a fomentare situazioni che non c’entravano o c’entravano poco con il Consiglio Comunale. Spesso ho tollerato con fatica che nel luogo dove si dovrebbe discute-
re l’attività amministrativa, magari dopo aver passato mesi a lavorare su un progetto, tutto finisse nell’insulto gratuito. Ma si tratta di un capitolo chiuso. Noi dobbiamo lavorare come dovrebbe lavorare ogni amministrazione.» Come? «Con uno spirito di massima collaborazione, sempre tenendo presente che la maggioranza deve fare bene il suo lavoro e che la minoranza deve esercitare il suo controllo e le sue proposte. Certo, immaginare cinque anni di totale condivisione su tutti i temi non è possibile, anche perché altrimenti non saremmo stati contrapposti alle elezioni. Poi tutto sta al comportamento dei singoli. Quello che sempre non va dimenticato è il rispetto del luogo e del ruolo che i cittadini ci hanno assegnato.» In Consiglio Comunale l’opposizione si è fatta tramite, con due interrogazioni, delle richieste di alcuni cittadini. Voi avete risposto nel merito, come amministrazione, ma avete anche rilevato che certe istanze potrebbero essere risolte tranquillamente dagli uffici competenti… che però non vengono contattati per la segnalazione dei problemi. Come commenta questo aspetto? «Penso sia più che altro un’abitudine molto italiana il pensare che far presente un’istanza al politico di turno possa aumentare le chance di vedere realizzato quello che si ha in mente. Attenzione: questo non significa che bisogna sfilarsi dal problema, noi siamo qui apposta. Però a volte ci sono state delle situazioni tecniche, estremamente banali, di cui venivano interessati i politici, che con una telefonata o una mail direttamente all’ufficio tecnico si sarebbero potute risolvere. La macchina comunale, al di là degli amministratori, è completamente e continuamente attiva per i cittadini. Ci sono uffici comunali di ogni tipo, dove è possibile anche solo informarsi per capire se una cosa sia più o meno fattibile. Ci si può interagire personalmente o anche telefonicamente o via mail. Noi, comunque, siamo sempre a disposizione.» Alcuni comuni, per migliorare la comunicazione con i cittadini, hanno effettuato alcuni investimenti mirati. L’app Municipium, per esempio, attiva nel comune di Voghera. Può essere questa una soluzione, almeno a parte di questa criticità? «Diciamo che stiamo lavorando anche su
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questo. Sui canali di comunicazione sia dall’amministrazione per i cittadini che viceversa. Vanno calibrati i costi, però sicuramente un potenziamento nei rapporti con i cittadini lo faremo, era anche nel nostro programma.» Parliamo di temi amministrativi: la raccolta differenziata. Lei ha ereditato un sistema che prevede la raccolta tramite cassonetti, potenziato da Callegari anche in tempi recenti. Ormai la tendenza però è quella di implementare diversamente la raccolta, al fine di aumentare le percentuali di differenziazione. La sua ricetta? «L’idea è assolutamente quella di andare verso una raccolta differenziata più spinta. Noi abbiamo un’occasione estremamente importante: andiamo verso la scadenza dell’appalto per la gestione del servizio rifiuti. L’idea è quella di rimettere mano al sistema e di creare un servizio a misura di Casteggio, che possa implementare le percentuali. Io sono dell’opinione che l’unico modo per arrivare a livelli ottimali sia il “porta a porta”. Poi ho visto in alcuni paesi anche sistemi misti, dove oltre al “porta a porta” sono presenti anche cassonetti che si aprono con un badge, che possono essere d’aiuto. Vedremo la soluzione tecnica più adeguata. Se consideriamo anche il servizio di ritiro domiciliare dei rifiuti ingombranti, il servizio di smaltimento degli oli esausti, il ritiro dei fitofarmaci, la piazzola ecologica rinnovata pochi anni fa, dobbiamo rilevare che ci sono già molti servizi che hanno migliorato la strutturazione del servizio rifiuti. È chiaro che il grosso è rappresentato dai rifiuti solidi urbani, e quindi andare nella direzione di una “differenziata spinta” può veramente farci fare il salto di qualità.» Cosa segna la sua agenda da qui alla fine dell’anno? «Diciamo che questi sono stati sei mesi di semina. Nei vari settori stiamo cercando di posizionare tutta una serie di interventi che pensiamo possano portare il comune a crescere. Siamo in fase di apertura della variante al piano regolatore. L’intenzione nei prossimi mesi è quella di aprire la discussione sullo sviluppo della città; come la immaginiamo nei prossimi anni. Stiamo poi andando verso la fusione dei piani di zona; che sono sempre stati ultrapremiati a livello di efficienza. Il mio sogno è quello di puntare sempre più a contributi alle persone in difficoltà che possano essere legati anche al lavoro. Borse lavoro, o comunque incentivi che possano far lavorare le persone. Poi abbiamo in mente una serie di spostamenti “domino” delle strutture comunali, anche per risparmiare energia. Stiamo valutando anche un ridimensionamento degli uffici comunali, che potrebbero portare anche alla chiusura nei mesi comunali dell’ufficio del sindaco. Un’ottimizzazione nella gestione degli immobili è necessaria. Una volta il comune aveva quaranta dipendenti, ora poco più di venti.» di Pier Luigi Feltri
CASTEGGIO
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«Via Marconi terra di nessuno: un delirio notturno e serale» Cattivi odori che provengono dal Rile, mancanza di parcheggi, maleducazione dei clienti del bar, automobilisti che sfrecciano a velocità assurde. «Via Marconi è una specie di giungla e il Comune si è dimenticato di questa zona della città». A parlare è Luca Nascimbene, 21enne casteggiano che alle scorse elezioni era candidato consigliere comunale con il Movimento 5 Stelle. Si definisce scrittore e poeta, occasionalmente giornalista, collaboratore di giornali locali. Vorrebbe cambiare la sua città, partendo dall’analizzarne i problemi. Nascimbene, cosa accade in via Marconi? «Si tratta di una via che è dimenticata dal comune di Casteggio. Non è possibile che tutto l’anno il Rile emani odori assai sgradevoli, con l’arrivo quindi di aria malsana: ci vuole più manutenzione e più riguardo a tutte le vie del paese. Le sere d’estate non è possibile uscire fuori dalla propria abitazione che ci si sono alcuni alcolisti del bar di via Marconi che fanno apprezzamenti sessisti sulle ragazzine minorenni. Alla sera tardi non manca di certo che qualche esibizionista neopatentato emulo del film Fast and Furious che impedisce di dormire: quelli che salgono e che arrivano da via Milano fanno il sottopassaggio ad una velocità impressionante e manca un cartello di Stop a frenare tutto questo. Insomma, un totale delirio diurno e serale. In Via Marconi ciascuno fa ciò che vuole perché nessuno fa rispettare le regole, il parcheggio per noi residenti non esiste perché parcheggia chiunque.
Luca Nascimbene
Comunque via Marconi non è l’unica zona con problemi». Quali altre zone sono colpite da disagi? «Ci sono molti problemi per quei casteggiani che abitano vicino al Riazzolo e che si sono visti inondare la casa, un delirio unico, che si poteva prevenire con giusti interventi di manutenzione e di sicurezza per quelle persone che abitano in quella zona, ma il Comune dimentica interi pezzi di città». Cosa secondo lei non funziona? «A mio parere a Casteggio non funziona
la macchina amministrativa, ovvero l’amministrazione comunale, i soliti volti di cinque anni fa a cui si sono aggiunti nuovi consiglieri. Il Comune deve assumere più gente nei lavori pubblici, nelle manutenzioni…». Cosa, secondo lei, non ha fatto la precedente amministrazione e non sta facendo quella attuale? «Ogni amministrazione, ogni volta, promette l’eliminazione dell’eternit in paese, ma questo smantellamento non si è mai visto. Prendiamo per esempio lo stabilimento ex Enel: produce particelle nocive alla salute per chi vive e apre le finestre di fronte all’edificio, se è nocivo come si sa già, deve essere smantellato con o senza autorizzazione dell’Enel. Dovrebbero intervenire gli organi competenti e se è ancora di proprietà dell’Enel dovrebbe venire sanzionato con ammende piuttosto alte, perché le persone si ammalano di mesotelioma. La vecchia amministrazione è la fotocopia identica della amministrazione attuale, cambia il Sindaco, cambiano alcuni consiglieri, ma la suonata è sempre la stessa, non pensano alle persone disagiate, non danno ascolto alle vere problematiche che ciascun cittadino può avere. Secondo me, a questo punto, è inutile andare a votare alle amministrative. Casteggio è in balia da tantissimi anni del partito di Forza Italia e sarà molto difficile abbattere questo fortino alle prossime elezioni amministrative del 2023». Alle ultime elezioni lei si è candidato al consiglio comunale, ma non è stato un gran successo…
«Mi sono candidato in veste di Consigliere comunale perché non sopportavo più l’amministrazione precedente. Non ho preso tanti voti, solo 13: forse i miei compaesani non erano sicuri di voler un giovane in consiglio comunale...Questo rimarrà un mistero». Come ha iniziato con la politica? «Ho iniziato a fare politica già ai tempi della Scuola Superiore. Non potevo immaginare che un giorno, oltre a fare lo studente, avrei potuto fare carriera in questo senso, sia come attivista sia come candidato alle amministrative del 26 Maggio 2019». Se fosse sindaco, quali sarebbero le prime tre cose di cui si occuperebbe? «Prima di tutto mi dimezzerei lo stipendio e lo devolverei ai cittadini più bisognosi, poi mi occuperei della manutenzione stradale e ambientale, e cercherei di creare più posti di lavoro». Quando incontra i suoi concittadini cosa le dicono? Sente lamentele particolari? «I cittadini con cui parlo sono per lo più artigiani, commercianti, anziani, famiglie che desiderano un sindaco che stia assieme alla popolazione e che li ascolti. I commercianti di via Roma, per esempio, chiedono che in settimana sia istituito un mercatino grosso con mercanzia di ogni valore che attragga più gente: a mio avviso solo così si potrà far girare di più l’economia, più gente spende più soldi girano». di Elisa Ajelli
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C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò
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L’OSTERIA cà d’ Ärnësta Il complesso edificio era al centro del paese, dirimpetto alla strada che saliva la collina per approdare alla chiesetta del paese. Tra le due guerre, proprietaria e anima dell’osteria di Sant’Eusebio, era Ernesta Barbieri, figlia di Pasquale e di Adelaide, per tutti Ärnësta o R’nësta. Da giovane, una caduta in bicicletta, aveva compromesso il corretto uso e l’appiombo della gamba destra che era uscita dall’incidente e dalle premurose cure dell’ospedale di Voghera, con una vistosa arcuata malformazione che comprometteva l’incedere della donna rendendolo dondolante e caratteristico. Per il paesino, Cà d’Ärnësta, era bar, ristorante, albergo, commestibili, posto telefonico pubblico, sale e tabacchi, sala da ballo e, in qualche occasione, ambulatorio medico. Lei, eccezionale lavoratrice, oltre a tutte le attività ricordate, badava con amore ai due vecchietti di casa, svolgeva mille mansioni con il saltuario aiuto di giovani ragazze e, almeno una volta a settimana, si recava al mercato di Voghera per provvedere al rifornimento dei vari negozi di sua responsabilità. Trovava anche il tempo di favorire qualche compaesano privo di mezzi di trasporto, acquistando beni o medicine a Lui necessarie. Definiva quest’attività: “fa i cumisiòn”. Pur burbera e un poco pettegola, era una splendida persona: lavoratrice indefessa e disponibile con chiunque ne avesse necessità; si aggirava a destra e a manca del grande edificio che iniziava a levante con la bottega, con il cucinìno privato sul retro, proseguiva con i locali dell’osteria e, terminava ad ovest, con lo stanzone adibito a locale televisivo o a sala da ballo. Al piano superiore erano sistemate le camere per i clienti, spesso cacciatori; da qui il nome “Osteria dei Cacciatori”, sicuramente i frequentanti più affezionati e redditizi della locanda. Al piano inferiore erano dislocate cantine e magazzini. Adiacenti a questi due piccoli campetti per il gioco delle bocce. I campi erano due listarelle di terreno racchiuse tra poche assi sconnesse, terminanti all’estremità con una robusta protezione in legno. Non erano propriamente ben curati: un rullo ed una raspa livellavano al meglio i fondi in sabbia proditoriamente attraversati dalla gigantesca radice di una grande robinia che rendeva una gradevole ombra ma, slivellando il terreno, comprometteva il fondo necessariamente liscio ed omogeneo per il regolare svolgimento del gioco. Le bocce poi erano generalmente di legno e, l’uso e l’età, ne avevano compromesso la sfericità e la superficie ma tant’è, i tempi erano quelli, la possibilità di viaggiare quasi nulla e l’utenza paesana doveva gioco forza accontentarsi di quello che passava il convento o, per meglio dire, di quello che passava l’Ernesta. D’estate si giocava a bocce: la domenica pomeriggio, la sera
tardi o di notte. Il guaio era che i due campi bocce erano illuminati da due piccole lampadine sospese ad un filo teso sopra di essi e, vuoi per l’estesa superficie da coprire, vuoi per la ridotta portata delle due lampadine, parlare di campi illuminati era una circonlocuzione eufemistica: si giocava in penombra neppure stabile, perché i due piattini portalampade erano soggetti a continue sollecitazioni e dondolii, dalle brezze serali estive, sollievo alla calura ma deleteri ad una corretta e stabile visuale. Alle ripetute lamentele dell’utenza, Ärnësta rispondeva invariabilmente con “i giög ä ièn cûlì, s’iv pia˘s nò, andì da un’altra pàrt”, i campi gioco sono questi, se non siete soddisfatti, andate altrove. In quegli anni lontani l’osteria era frequentata esclusivamente dagli uomini del paese, la domenica pomeriggio e in tarda serata al termine dei lavori e dopo una buona cena ristoratrice. Una capace stufa a legna prima e, in anni successivi, a carbone, troneggiava al centro della grande stanza che lungo la parete posta a est, presentava un
bancone di legno con piano d’appoggio per la mescita di vino, liquori e qualche rara bibita. Spesso il tepore della stufa, la stanchezza del duro lavoro quotidiano o semplicemente l’abitudine, favorivano tiepidi sonnellini di qualche avventore che, poggiate le braccia su un tavolino appartato, profittava della tranquillità e della familiarità dell’ambiente: solo in caso di rumorose e persistenti russatine, il vicino dava di gomito ed il malcapitato si svegliava di soprassalto meravigliandosi delle risate degli astanti. Non era presente la macchinetta per il caffè espresso ed eventuali rade richieste di tale bevanda, venivano soddisfatte attivando il pentolino posto nell’adiacente cucinìno: la mistura liquida che ne usciva andava bevuta lentamente, anzi andava decantata per un pò di tempo, al fine di evitare quantità impressionanti di granuli in sospensione che attenuavano il piacere degustativo. L’alimentazione della stufa a carbone era compito esclusivo della padrona di casa che razionava la miscela di carbone e terra in modo da abbattere i costi
del riscaldamento che, ad una cert’ora della notte, risultava scarso od assente. Generalmente gli avventori chiedevano gazzose, aranciate o birre, oppure grappe, marsala, vermut o cognac. Queste, con qualche altra strana bevanda quali il “millefiori o lo strega”, erano le abituali richieste dei frequentanti il ritrovo e le disponibilità dello stesso. Pochissimi chiedevano vino anche in ragione del fatto che quasi tutti ne producevano almeno per il consumo familiare. Un abituè di tale bevanda, da Lui usata sia come aperitivo che come digestivo, era tale Bianchi Fermo detto Bianchino: verso le diciotto pomeridiane scendeva a piedi da Ponticelli dove abitava e lavorava, sedeva davanti al bar e schiarendosi leggermente la gola, ordinava la “mésa”. Sì, ordinava una mezza bottiglia di vino rosso, non perché intendesse bere meno del solito, anzi, le “mése” a notte fonda erano diventate quattro o cinque, ma perché aveva verificato che in due mezze bottiglie, che costavano esattamente come una bottiglia, vi era un mezzo bicchiere di
C’ERA UNA VOLTA L’OLTREPò vino in più. Durante la settimana raramente pagava il conto ed Ernesta provvedeva ad annotare i progressivi importi su un quadernotto con la copertina nera e i bordi delle pagine rosso fuoco; il sabato a mezzodì veniva pagata la settimana di lavoro ed il pomeriggio Bianchino saldava il dovuto all’oste in gonnella. Assistere alle ricostruzioni dei vari consumi serali a distanza di diversi giorni era un vero spasso: Ernesta esibiva il famoso libriccino nero e richiedeva il pagamento delle mezze bottiglie documentando il suo dire, l’avventore contestava il numero delle bottiglie segnate ricordando perfettamente i consumi serali; si accendevano animatissime discussioni durante le quali la signora lamentava che alcuno mettesse in dubbio la sua onestà e Bianchino dopo aver dato consigli sul posizionamento del citato quadernetto, ribadiva che il suo esposto era inferiore alle richieste. Le dispute duravano anche tutto il pomeriggio con minacce e toni molto accesi: un malcapitato giorno a fronte ad un’offesa non sopportabile di “ciucatè”, ubriacone, sussurrata in bottega a denti stretti dall’Ernesta, mentre serviva un’altro avventore, il buon Fermo afferrò un grosso filetto di merluzzo sotto sale, in buona vista sul bancone del negozio, e lo scagliò violentemente in faccia alla poveretta. Minacce di denunce senza seguito, conclusero la malaugurata vicenda che però non permisero più al povero Fermo di bere a credito: se aveva i soldi Ernesta lo serviva senza proferir parola, in caso contrario il poveretto o attingeva a prestiti dagli amici o sopportava la sete. Ci vollero comunque diversi anni a che il triste episodio fosse dimenticato e tutto tornasse alla normalità. Gli avventori serali giungevano alla spicciolata e, a secondo la stagione, si sistemavano ai tavolinetti esterni o attorno alla grande stufa di casa. I giovani in maglietta e pantaloncini corti, gli uomini con pantaloni di fustagno pesante anche d’estate e l’immancabile cappello questo si invernale o estivo a seconda delle stagioni. D’inverno, giubbotti, maglioni di lana grezza, spesso confezionati da mamme o spose premurose, rarissimi cappotti e qualche giacchetta “paltò e marsinën”, sfoggiati solo in occasioni speciali. Si chiacchierava e si scambiavano opinioni le più diverse: sul tempo, sugli animali, su qualche malattia temuta e scongiurata e, almeno i più giovani, su qualche bella ragazza incontrata o sognata. Non si parlava quasi mai di politica: tra le due guerre era sconsigliabile se non proibito, successivamente, nessuno voleva andare a ricordi e ferite ancora troppo vive e dolorose nella carne di tutti. Non si parlava mai di calcio, raramente di ciclismo in occasione di corse o giri importanti: qui gli schieramenti erano ben delineati o coppiani o bartaliani. Il bello è che spesso chi si avventurava in giudizi o apprezzamenti sui singoli corridori, non aveva mai visto una corsa ne dal vivo, ne tantomeno per televisione che, o non c’era ancora o non era alla portata delle scarne risorse disponibili. Un omone con voce baritonale, esternava il proprio amore per Coppi descrivendolo come una specie di moderno Ràmbo, grande e grosso con una forza spaventosa: le argute radiocronache di quei
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«L’osteria era ritrovo, luogo ove trascorrere le ore del riposo chiaccherando amabilmente con gli amici, giocando a carte o a bocce» tempi avevano sollecita la sua fantasia e le imprese del fenomenale ciclista di Castellania avevano fuorviato il poveretto che, se per ventura si fosse trovato al cospetto dell’airone piemontese, con quelle lunghe gambe scarne, con quello sterno ipertrofico e quell’aria mite e spaurita, probabilmente avrebbe pianto dal dispiacere. Le fumose serate, allora tutti fumavano purtroppo anche in luoghi chiusi, iniziavano con qualche chiacchiera, proseguivano con una partita a tre sette o a briscola e si concludevano verso la mezzanotte ora di uscita dal locale. D’estate molti si soffermavano all’esterno sul piazzaletto, al buio ed al fresco, continuando a chiacchierare dei più vari argomenti. Era l’unico luogo di aggregazione di questi paesini minuscoli dove non esistevano altri locali o forme di svago, per giovani o meno giovani, era però luogo tranquillo dove la serenità del tempo che passava era raramente rotta da accadimenti insoliti e piacevoli: qualche serata danzante nel mitico salone d’Ärnësta o nel “baracön” realizzato sul terreno di Mòta e Carlino antistante l’osteria. In tempo di caccia il locale era frequentato da cacciatori liguri in Oltrepò per la loro passione venatoria; qualche serata era allietata da Paolo Braghieri, noto Pàul ciùc, simpaticissima “ligéra”, barbone, rigidamente in abiti militari grigioverdi, cortesissima e gentilissima persona a tassi alcolici normali, quando questi salivano trasferivano il buon Paul con il cuore e con la mente sul Monte Nero e sul Grappa, teatri delle sue lontane imprese militari. Misurava la stanza con passi cadenzati e dondolanti per ore, soffermandosi di tanto in tanto ad inveire convinto contro il “lupo tedesco”, suo personale ed acerrimo nemico. Tutti sorridevano alle sue filippiche militari limitandosi ad offrire un bicchiere di barbera all’anziano milite che interrompeva per un attimo il percorso di guerra, per poi riprenderlo con rinnovato vigore. La signora Ernesta, incrollabile zitellona sino alla cinquantina ed oltre, decise, sul finire di quella rispettabile età, di convogliare a giuste nozze con un simpatico fornaciaio di Cornale, certo signor Rizzieri. La decisione venne accolta con sorpresa e curiosità dal paese che visse il momento col partecipazione e l’allegria che sempre segue avvenimenti di questo tipo: il buon “Risiéri” giunto a Sant’Eusebio novello principe consorte, presidiava taciturno l’osteria in assenza della moglie disdegnando i paesani, a suo dire, intriganti ed impiccioni ma, dopo alcune incom-
prensioni, tutto tornò alla normalità ed i due anziani sposini, condussero serenamente gli ultimi tribolati anni di vita. I preparativi delle nozze furono spassoso argomento a puntate nell’osteria, a sera inoltrata qualcuno chiedeva dei preparativi o degli inviti ad antichi fidanzati ed ecco lo spettacolo servito gratuitamente: la povera donna si infervorava a spiegare, a volte commuovendosi, a volte ridendo felice alle salaci battutacce degli interlocutori, sino a ricordare episodi piacevoli o meno del passato. Una sera, a ridosso del matrimonio, fu convinta da Primo, ad indossare l’abito di nozze ed a sfoggiarlo davanti ai nottambuli mattacchioni. Dopo aver fintamente tergiversato schernendosi e sogghignando, la signorina risalì le scale di casa, si agghindò di tutto punto e, sfoggiando un cappello a tesa larghissima, si presentò ai clienti, che ridevano come matti, in abito da sposa color pesca. Solo Bianchino la rimirava di sottecchi senza ridere. L’anziana donna eccitata dal successo dell’improvvisato spettacolo, prese a passeggiare tra i tavolini quasi a percorrere un’ideale passerella. “Non per dire” diceva convinta “ma pös mätäm a pari d’una fiulëta äd vent’àn”, posso paragonarmi ad una ragazza di vent’anni; Bianchi Fermo, sino ad allora silenzioso, a queste parole sbottò: “ät pë mätät pari d’un rutàm: sit mòlan i ramê ät và in fàs me una bàla äd pàia” - puoi metterti alla pari di un rottame: se ti tolgono le varie fasce e cinture, ti sfasci come una balla di paglia -. A queste cattive parole Ernesta non prestò minimamente senso, con un’occhiataccia fulminò il malcapitato aggiungendo “ti tà˘s che tât nintènd nò, te nànca sposà!” - taci che non sei esperto in queste cose, non sei neppure coniugato. Continuò il defilé sino a che l’ultimo dei clienti tra il serio ed il faceto, ebbe a domandare notizie sulle stoffe, sulla necessità di portare un cappello a larga tesa in chiesa dove, notariamente, non c’è il sole, sui giudizi dati dallo sposo o riservate previsioni sulla prima notte di nozze. Se Dio volle, verso mezzanotte, la povera donna risalì a fatica la ripida scala impedita dal lungo abito di nozze ma felice di aver esibito il vestito che da tanti, troppi anni, aveva sognato. L’osteria era ritrovo, luogo ove trascorrere le ore del riposo chiacchierando amabilmente con gli amici, giocando a carte o a bocce o assistendo ad alcuni programmi televisivi dal magico apparecchio sistemato nel salone. Nei primi
Giuliano Cereghini anni sessanta pochissimi disponevano di radio e tanto meno di televisori: trasmissioni come Lascia o raddoppia con Mike Bongiorno o Un, due e tre con Tognazzi e Vianello, erano seguitissime da uomini e qualche rara donna nel salone ad Ca D’Ärnësta davanti ad un gigantesco televisore che occupava lo spazio di un’utilitaria ma disponeva di uno schermo di una cinquantina di centimetri per lato. Le trasmissioni erano in bianco e nero ed erano seguite in religioso silenzio dagli astanti. L’arrivo furtivo nel buio dell’oste in gonnella, distraeva per pochi istanti i telespettatori che erano invitati dalla padrona di casa, che brandiva un enorme vassoio carico di ogni ben di Dio, a fare “una consumàsion”. Chi una bibita, chi un cioccolato o un torroncino, chi un pacchetto di caramelle di menta o una sottile fetta di panettone nella stagione invernale o un gelato preconfezionato d’estate, tutti si servivano dal vassoio retto a fatica dalla signora che non lasciava la sala se tutti, come diceva Lei, non avessero attinto alla sua famosa “basìla” o vassoio Prima di uscire tutti o quasi tutti, pagavano regolarmente il conto salutando soddisfatti e commentando la trasmissione della sera. Uomini semplici, regole dettate più dalla necessità che dalla volontà ma un vivere partecipato e sentito così lontano dall’atmosfera surreale e fredda degli attuali bar dove, sfoggio di maldicenze, discussioni furiose su argomenti vuoti e avulsi dalla realtà quotidiana, sfociano in prevaricazioni e prese in giro: la cattiveria allo stato puro fa a gara spesso prevalendo, con una becera ignoranza mascherata da qualche sgangherata citazione o da vuote parole nell’idioma di moda al momento. Rimpiangere quella gente, quel modo di dividere un nulla che univa tutti o quel mondo pieno di speranze di un futuro migliore, è unico modo per sentire e rivivere momenti irripetibili che, gli anni ed un degrado galoppante, allontanano sempre più dalle nostre vite. Il buffo sta nel ritenere tutto questo progresso e non barbarie ma tant’è, crescendo diventiamo sempre più bravi a raccontare storielle a noi stessi prima che agli altri.
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OLTREPò PAVESE DA SCOPRIRE
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Fai Giovani Oltrepò: «Il nostro intento è la valorizzazione del territorio» Nato nel 1975 sul modello del National Trust inglese con lo scopo di tutelare e far conoscere il patrimonio artistico, paesaggistico e culturale italiano, il FAI oggi è una realtà che nel tempo è cresciuta moltissimo senza mai perdere di vista le sue finalità. Il FAI possiede o ha contribuito a salvaguardare e valorizzare 64 beni sparsi su tutto il territorio nazionale visitati ogni anno da quasi un milione di persone e ,attraverso le sue campagne nazionali , si occupa di sensibilizzare i cittadini su temi di pubblico interesse come la salvaguardia dell’acqua, la tutela ambientale e il Progetto ALPE. Nel tempo il FAI ha acquisito beni di vario tipo sparsi su tutto il territorio nazionale, dal monastero di Torba, primo bene FAI, al castello della Manta nel Marchesato di Saluzzo e poi ville signorili e residenze di prestigio, quali la Villa del Balbianello sul Lago di Como, che accolgono i visitatori in scenari meravigliosi. Non mancano beni di altro tipo, quali il Bosco di San Francesco ad Assisi e il Giardino pantesco a Pantelleria, fino all’orto sul Colle dell’Infinito a Recanati, di recentissima inaugurazione. Per quanto riguarda la struttura sul territorio, il Fai si avvale di una rete capillare di 19 Direzioni Regionali organizzate in 125 Delegazioni, 94 Gruppi FAI e 94 Gruppi FAI Giovani ai quali si aggiungono due “Gruppi FAI ponte tra culture” composto da ragazzi di diversa nazionalità che, in occasioni particolari, svolgono visite guidate per un pubblico che parla la loro lingua. Abbiamo incontrato la dott.ssa Valentina Berisonzi, Capo Gruppo Giovani all’interno di una delegazione del FAI Oltrepò Pavese che ha come Capo Delegazione la signora Romana Riccadonna. Quando si è costituito il Gruppo Giovani Fai dell’Oltrepò Pavese? «La delegazione FAI Oltrepò Pavese è nata nel 2011 con l’intento di valorizzare il territorio oltrepadano e ad oggi coordina un gruppo di circa 40 volontari compreso il gruppo FAI giovani che si è costituito qualche anno dopo in quanto una delle finalità del FAI è quella di rivolgersi a diversi target di utenza, dalle persone un po’ più mature che possono avere interessi più specifici ad un target più giovane che ha bisogno di un certo tipo di esperienze culturali. Il nostro gruppo giovani di volontari attivi attualmente è composto da 12 persone ma la delegazione è una realtà in continua espansione con una crescita costante di iscritti». Quali sono le attività che proponete sul territorio? «Nel tempo abbiamo diversificato le offerte culturali che proponiamo sia agli
Valentina Berisonzi con il gruppo FAI Giovani Oltrepò
iscritti, che si sentono parte di un gruppo nella condivisione di un ideale comune, sia ai non iscritti che, con la loro partecipazione, sostengono comunque sempre più numerosi e interessati le nostre iniziative. Abbiamo le GIORNATE FAI di Primavera (terzo fine settimana del mese di marzo), organizzate dalla Delegazione al completo, e d’Autunno ( secondo fine settimana di ottobre), organizzate principalmente dal Gruppo Giovani. Queste sono le due grandi occasioni orchestrate a livello nazionale per conoscere un evento FAI. In questi eventi apriamo al pubblico beni di solito chiusi o poco conosciuti quali borghi, castelli, residenze e giardini privati. Nel 2019, durante la Giornata FAI di Primavera, la nostra Delegazione ha aperto la Chiesa di Montalino, gioiello del romanico lombardo, la Chiesa di Portalbera, il Castello e la Chiesa di Arena Po e agli iscritti è stata offerta la possibilità di navigare su un tratto del fiume Po; durante la Giornata FAI d’Autunno appena vissuta, sono stati aperti al pubblico il Castello di Argine, dimora privata che per la prima volta ha concesso
l’accesso, e la vicina Chiesa di Santa Maria Nascente con un successo di pubblico notevole. 1500 persone in gruppi di 20 hanno potuto effettuare la visita nei due giorni accompagnati dai nostri volontari. Organizziamo poi viaggi di un solo giorno in località limitrofe , a settembre siamo stati a Cremona e a Ottobre a Vigevano sulle orme di Leonardo, o di più giorni con lo scopo di visitare uno o più luoghi FAI: a maggio siamo stati a San Gimignano a visitare il bene FAI Casa e Torre Campatelli, ad Assisi per visitare Il bosco di San Francesco e a Recanati dove si stavano ultimando i lavori di sistemazione dell’Orto sul Colle dell’Infinito, ultimo bene FAI inaugurato alla presenza del Presidente della Repubblica. Effettuiamo visite presso atelier d’artista o residenze di prestigio,cerchiamo di valorizzare i beni architettonici dei talenti presenti sul territorio proponendo visite presso residenze private in cui siano presenti opere d’arte di pregio e presentando al pubblico artisti locali spesso sconosciuti. Un’altra attività interessante è il trekking urbano,
«Il nostro gruppo giovani di volontari attivi è composto da 12 persone ma la delegazione è una realtà in continua espansione»
OLTREPò PAVESE DA SCOPRIRE una serie di passeggiate per tutti nella città di Voghera alla scoperta di palazzi e luoghi dal passato importante». Come scegliete i luoghi da scoprire e valorizzare, ricevete anche proposte di apertura di dimore e castelli da parte dei proprietari? «Il gruppo giovani non è mai indipendente dalla Delegazione FAI, ci può capitare di individuare e proporre un bene e quando capiamo che il bene può essere accessibile ci confrontiamo con la Delegazione per verificare innanzitutto che il bene possa essere adeguato ad accogliere molte persone, che possa essere in linea con le direttive FAI e con quella che è l’identità del nostro territorio. A volte i sindaci o i proprietari ci contattano per proporre un borgo o un bene e altre volte, confrontandoci con i partecipanti alle nostre manifestazioni, riusciamo ad acquisire notizie su beni che potrebbero essere aperti al pubblico». Quanti iscritti conta il FAI sul territorio nazionale e che cosa si può fare per sostenere le vostre iniziative? «Il FAI si sostiene anche grazie ai contributi di quanti scelgono ogni anno di iscriversi per contribuire alla realizzazione delle sue iniziative. Oggi gli iscritti sono circa 190.900 sul territorio nazionale, di cui alcune centinaia in Oltrepò, e le loro adesioni non solo rendono possibili progetti di tutela del patrimonio culturale italiano, ma garantiscono anche agevolazioni particolari quali l’accesso gratuito a tutti i beni FAI e il diritto a sconti presso musei e teatri convenzionati. Proprio in Oltrepò, ad esempio, abbiamo appena siglato una convenzione in tal senso con il Teatro Carbonetti di Broni. Durante le occasioni culturali che proponiamo sul territorio il nostro compito è anche quello di far conoscere il FAI, quindi c’è chi può contribuire con un obolo oppure chi ci conosce e ci apprezza in quell’occasione e può decidere di iscriversi. Abbiamo diverse tipologie di tessere d’iscri-
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«Durante le giornate Fai di primavera e autunno coinvolgiamo le scuole con gli apprendisti ciceroni»
zione, per il singolo utente a 39 euro, per i giovani a 20 euro, per le famiglie a 66 euro, per le coppie che possono essere composte anche da due amici, a 60 euro. L’iscrizione può essere effettuata anche online, attraverso il nostro sito». Il gruppo FAI Giovani Oltrepò ha una sede a Voghera? «Abbiamo una sede all’interno della Delegazione che è ubicata presso il Circolo “Il Ritrovo” a Voghera dove ci incontriamo e organizziamo gli eventi di vario tipo. Abbiamo una pagina facebook: “Delegazione FAI Oltrepò Pavese” e “FAI Giovani Oltrepò Pavese” che utilizziamo per promuovere tutti i nostri progetti. Siamo sempre alla ricerca di altri volontari che affianchino l’operato della Delegazione aiutandoci a realizzare nuove iniziative che sempre più consentano ed estendano la conoscenza e la presenza del FAI sul territorio». Fate opera di sensibilizzazione presso le scuole dell’Oltrepò Pavese? «Il FAI ha un settore dedicato alla scuola. Le scolaresche possono accedere ai nostri beni ed è anche possibile iscrivere le classi al FAI ottenendo ingressi gratuiti o
Il Castello di Argine
sconti importanti. Ci facciamo conoscere presso le scuole attraverso i dirigenti scolastici o tramite gli insegnanti iscritti. Durante le giornate FAI di Primavera e Autunno coinvolgiamo le scuole con gli apprendisti ciceroni, alunni soprattutto delle scuole medie che vengono preparati ad illustrare i luoghi di visita, con un buon riscontro ed interesse. Sono stati nostri partners il Liceo “Galilei “di Voghera e l’Istituto Comprensivo di Broni e Stradella. I ragazzi che partecipano si dimostrano sempre più interessati alle tematiche di valorizzazione e tutela del territorio e la forza che hanno i giovani nel coinvolgere i loro genitori ed amici nel farci conoscere è grandissima e molto importante per noi. A questo proposito abbiamo organizzato per domenica 1 Dicembre un Concerto Strumentale presso il Teatro “Barnabiti” di Voghera con inizio alle ore 15.30. Strumentisti saranno i ragazzi dell’indirizzo musicale della scuola media “Plana” che
chiuderanno il semestre esibendosi con un programma vario ed interessante che spazia dalla musica tradizionale a quella moderna». Avete già un’idea sui progetti del prossimo anno sul territorio? «I nostri progetti saranno sempre in sintonia con la Delegazione con la quale lavoriamo in sinergia. Non possiamo dare anticipazioni perché è una scelta del FAI quella di pubblicizzare l’evento specifico una quindicina di giorni prima, quindi vi rimandiamo per informazioni ai primi giorni del mese di Marzo per le Giornate FAI di Primavera in Oltrepò. Posso dire che, a livello nazionale, uno dei progetti che verrà maggiormente portato all’attenzione del pubblico è quello della valorizzazione delle aree montane, il “Progetto Alpe” con l’intento di tutelare quella che è la spina dorsale del nostro territorio». di Gabriella Draghi
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ROBECCO PAVESE
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35 anni da maestra d’asilo: «Ho cresciuto generazioni» Lucia Cevini, di Verretto, classe 1957, ha casualmente scoperto la sua vocazione per l’insegnamento ancor prima di diventare maggiorenne. Dopo una dura gavetta a Fumo, con una breve parentesi a Borgoratto Mormorolo, da 35 anni è maestra alla scuola materna di Robecco Pavese, in totale fanno 40 anni di servizio statale. Nonostante tutto questo tempo Lucia non è stanca del suo lavoro, anzi, lo ama come quando aveva appena cominciato e la pensione non è tra le sue priorità: è un pensiero che la riguarda solamente per ragioni anagrafiche – il suo animo è ancora pieno di vitalità e voglia di fare. Com’è iniziata la sua carriera di maestra d’asilo? Che studi ha fatto? «Mi sono diplomata nel ’74 e ho iniziato a insegnare a livello statale grazie ad un concorso a cui ho partecipato nel 1979. In quei cinque anni tra il ’74 e il ’79 ho lavorato a Fumo, dove ora c’è l’asilo nido. Circa un mese dopo la fine degli esami la suora che allora dirigeva quell’asilo si recò a Voghera, all’istituto che avevo frequentato, e, chiedendo i nominativi delle ultime insegnanti diplomate, tra gli altri le diedero il mio: quando venne a casa mia per comunicare ai miei genitori che ero stata scelta mi sembrava di toccare il cielo con un dito; avevo appena finito gli studi e subito dopo avevo il mio primo lavoro». Come sono stati questi primi cinque anni? «Diciamo che è stata una gavetta molto tosta: lo stipendio praticamente non esisteva e mi sono spesso ritrovata in situazioni abbastanza critiche. Mi ricordo che un giorno
Lucia Cevini, da 35 anni maestra alla scuola materna di Robecco Pavese
la suora mi disse: “Io adesso devo uscire, ti lascio con i bambini”; erano sessanta divisi in due sezioni, io una sola (ride). In qualche modo mi feci coraggio – dovevo per forza – e tra un gioco e un lavoretto me la cavai. Nonostante ciò mi sono sempre trovata bene e avevo un bel rapporto con suor Oliva. Naturalmente poi cresci, hai altri obiettivi, desideri l’indipendenza, che però non ti puoi permettere con il compenso del tirocinio. Perciò appena c’è stata l’occasione del concorso l’ho colta al volo e mi è andata bene: sono passata e ho iniziato a lavorare a livello statale a Borgoratto Mor-
morolo e nell’ ’84 sono arrivata a Robecco Pavese». Per quale ragione ha deciso di spostarsi a Robecco? «Lavorava lì una mia carissima amica, Luigia, anche lei di Verretto come me. Quando ha saputo che la sua collega aveva chiesto il trasferimento perché si sposava, mi ha fatto immediatamente sapere che si sarebbe liberato il posto. Da lì è partita la nostra avventura, il nostro matrimonio lavorativo (ride). Davvero, forse siamo state più assieme noi due a lavoro che con i nostri rispettivi mariti. Per fortuna siamo sempre andate molto d’accordo, anche
perché abbiamo caratteri piuttosto affini». Com’è strutturato il programma per i bambini? «Ogni anno abbiamo un progetto diverso da sviluppare. Quest’anno il tema è “i cinque elementi”, che proponiamo in un formato ovviamente semplice, comprensibile per bambini dai 3 ai 6 anni. Siamo partiti dal racconto di una creazione un po’ rivisitata e adatta a loro, con questo mago Cosmo che mette in ordine il caos che regnava sulla Terra ed insegna ai cinque elementi che per ottenere qualcosa di buono bisogna collaborare. Da qui sviluppiamo sia un percorso emo-
ROBECCO PAVESE tivo, parlando ai bambini dell’importanza della collaborazione e dell’altruismo, sia un percorso sensibile, pratico, con esperimenti tattili e lezioni più propriamente scolastiche. Abbiamo poi intenzione di fare una visita guidata in una fabbrica di laterizi a Verretto, che gentilmente cuocerà per noi i lavoretti in argilla fatti dai bambini e se li potranno portare a casa. E come sempre è attivo il progetto di psicomotricità». La risposta immaginiamo sia scontata, ma ci tenevamo ad avere anche un suo parere: consiglia ai genitori di iscrivere i bambini alla scuola materna e perché? «Ovviamente lo consiglio. Prima di tutto è un ambiente al di fuori della famiglia, che ha sì le sue regole ma è completamente diversa rispetto al vivere in una società. I bambini iniziano ad avere autocontrollo, disciplina, a rispettare le regole della vita insieme agli altri. L’obiettivo principale è di farli socializzare e di conseguenza giungere alla collaborazione, al rispetto, all’ascolto». è complicato rapportarsi con i genitori? «Qualche screzio capita, forse più frequentemente al giorno d’oggi rispetto a quando ho iniziato. Credo sia a causa del divario d’età: nei miei primi anni di lavoro ho avuto a che fare con genitori miei coetanei o di poco più grandi di me, quindi eravamo tutto sommato sulla stessa lunghezza d’onda; adesso è il contrario: i genitori dei miei alunni potrebbero essere i miei figli, altroché; non mi stupisco se mi considerano un po’ matusa (ride) ed è normale avere opinioni discordanti su certe cose. Ma non mi posso lamentare più di tanto, ho sempre avuto un ottimo rapporto con le mamme e i papà da 35 anni a questa parte. Senza di loro non andremmo da nessuna parte. Lo Stato ormai non ci finanzia più niente, non riceviamo materiale o altri tipi di contribuiti utili a migliorare l’esperienza scolastica dei bambini. Sono i genitori quasi sempre a fornirci fogli, pastelli, giochi dei loro figli grandi… si fanno in quat-
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«Il segreto per far bene questo lavoro è l’entusiasmo e il saper stare in gruppo»
tro per aiutarci e siamo veramente grati del supporto che ci offrono». Quali sono le difficoltà maggiori che ha dovuto affrontare in questa lunghissima carriera? «Niente di che in realtà, cose di ordinaria amministrazione. La cosa più ardua è fare in modo che la tua vita privata non condizioni il lavoro. Capita di essere irrequieti, agitati, tesi, capitano le giornate no, ma non devi mai e poi mai portare i tuoi problemi personali al lavoro. I bambini – non so, avranno un sesto senso – sono come delle spugne: se porti con te la negatività, loro la sentono e la assorbono tutta; sono estremamente empatici e se sei nervoso tu, lo sono anche loro. Stesso discorso, però, vale anche per la positività. Io cerco sempre di avere entusiasmo in tutto quello che faccio e soprattutto con i bambini, per i quali io insegnante sono un punto di riferimento, la voglia di stare in asilo deve partire in primo luogo da me. E questo mio entusiasmo non si ferma una volta che termina la giornata: anche a casa, la sera, quando ho finito di fare le mie cose, mi metto lì e cerco canzoni nuove, preparo i lavoretti, organizzo attività speciali per le feste… mio marito mi dice: “Ma sei ancora lì, con quei disegni!” (ride). Però io mi rilasso. Ogni tanto penso che dovrò andare in pensione, ormai è ora; ma non riesco proprio a immaginarmi, che ne so, sul divano mentre faccio l’uncinetto».
Ha mai avuto periodi in cui questo entusiasmo le è mancato? Come li ha affrontati? «Momenti di crisi, in cui ero demoralizzata e magari ho anche pianto, ce ne sono stati – rari, ma inevitabili. Mi sono sempre ripresa pensando a quanto mi piaccia il mio lavoro, alle cose che dovevo fare per i bambini e alle soddisfazioni che ti danno. In questo modo, pian piano, le cose si sistemavano da sole». Perché ha scelto di dedicare la sua vita all’insegnamento, in particolare nel campo dell’infanzia? «Già alla fine delle medie mi avevano consigliato di frequentare la scuola magistrale, probabilmente perché avevano visto in me un’attitudine particolare. Guarda caso anche la mia amica Luigia la frequentava, mi parlava di come si trovasse bene e dei possibili sbocchi lavorativi, quindi mi sono messa in gioco. Ho capito solo dopo che era ciò che volevo fare nella vita. è una cosa che mi è capitata spesso, quella di rendermi conto che ciò che il destino aveva scelto per me alla fine mi piaceva». Qual è il segreto, secondo lei, per lavorare bene – specialmente nel suo ambito? «Innanzitutto, come ho detto prima, l’entusiasmo è fondamentale. Poi il team, il team è la chiave. Senza pregiudizi, senza invidie, con la voglia di collaborare, con serenità: questo è il modo più bello di lavorare. Qualcuno lassù mi vorrà bene: ho
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avuto la fortuna di aver lavorato con una collega straordinaria, un’amica, una sorella, cioè Luigia. Poi sono arrivate Federica e Antonella e non avrei potuto chiedere di meglio. Ci vogliamo bene e siamo una grande squadra che funziona. Ognuna di noi è un punto di riferimento per l’altra». è ancora in contatto con dei suoi ex allievi? «Sì, con tantissimi! Ho avuto a volte anche i loro figli: bambini che frequentavano quando ancora lavoravo a Fumo hanno poi portato a Robecco i loro figli. Faccio l’esempio di Fumo perché ci ho lavorato, ma nel nostro asilo la maggior parte degli iscritti vengono anche da molti altri comuni limitrofi, nonostante il nostro istituto sia geograficamente abbastanza isolato. Comunque sì, con alcuni sono in contatto, altri li incrocio in giro, al mercato, a messa: magari subito non li riconosco, ma quando mi dicono come si chiamano e qualche cosa che hanno combinato all’asilo, allora faccio mente locale e mi viene in mente tutto. è sempre un piacere enorme rivederli». La questione pensione quindi è ancora in sospeso? «Sì, per ora sì. Come ho detto prima, non riesco ad immaginarmi la vita senza il mio lavoro. Fosse per me andrei avanti ad oltranza; purtroppo però il fisico ne risente (ride). Non vorrei allarmare i genitori che spesso mi vengono a chiedere se l’anno prossimo ci sarò, se i bambini avranno ancora la maestra Lucia. Per ora voglio solo portare avanti quest’anno scolastico al meglio, attualmente senza alcuna decisione definitiva. Ribadisco che il fisico ne risente: ci sono bambini un po’ più agitati che o si attaccano alle gambe, o corrono e bisogna stargli dietro, oppure quelli che vanno presi in braccio e calmati nelle loro “giornate no” – insomma, è faticoso. Però sono combattuta: amo il mio lavoro, mi gratifica davvero tanto». di Cecilia Bardoni
Cheap but chic: PIATTI GOLOSI E D’IMMAGINE AL COSTO MASSINO DI 3 EURO
I “gialdèn”, I BISCOTTI “DEI MORTI” di Gabriella Draghi
I “gialdèn” o giallini o pangiallini sono i grossi biscotti tipici della pianura lombarda che venivano serviti il 23 aprile per la festa di San Giorgio, protettore dei lattai, ai produttori di formaggi che erano invitati nelle cascine per rinnovare i contratti di fornitura del latte. Con il trascorrere degli anni sono poi diventati il dolce tipico delle nostre zone durante il mese di novembre nel periodo di commemorazione dei Santi e dei Morti. I gialdèn sono realizzati con la farina di mais grazie alla quale l’impasto prende il colore giallo sole. Inzuppati in una bella tazza di tè, latte o addirittura in un bicchiere di vino dolce come un Malvasia dell’Oltrepò Pavese, questi biscotti addolciranno le vostre giornate autunnali. Il mais viene utilizzato per diverse preparazioni in cucina e per la produzione di olio. In origine non era solo giallo, esistevano molte varietà di mais caratterizzate
da colori diversi delle pannocchie. Alcuni di queste varietà sono state preservate da agricoltori che ne hanno ripreso la coltivazione. Io ho utilizzato il “mais arancione ottofile” così chiamato perchè la pannocchia presenta otto file di chicchi dal colore arancione. Il mais ottofile è stato recuperato dal rischio di estinzione e veniva tradizionalmente usato per preparare la polenta. Ricco di amido, contiene anche circa l’ 8% di proteine, il 2% di fibre alimentari e il 2% di grassi mentre i minerali maggiormente presenti sono: potassio, selenio, fosforo, magnesio, calcio e ferro. Le vitamine che possiamo trovare nel mais sono: vitamina A, vitamine del gruppo B (B1, B2, B3, B5, B6) la vitamina E, K. Il mais contiene inoltre beta-carotene , alfa-carotene e luteina. è indicato per l’alimentazione in gravidanza grazie all’acido folico contenuto ed è uno dei principali alimenti inseriti nello svezzamento dei bimbi. è senza glutine e può quindi rientrare nella dieta dei celiaci.
Veniamo ora alla ricetta di questi squisiti biscotti di facile realizzazione. Come si preparano: Versiamo le farine a fontana sulla spianatoia. Aggiungiamo lo zucchero, un pizzico di sale, il burro ammorbidito, l’uovo intero e il tuorlo. Impastiamo bene e da ultimo aggiungiamo il lievito vanigliato. Cospargiamo la spianatoia di farina. Aiutandoci con il mattarello, stendiamo una sfoglia allo spessore di circa un centimetro e tagliamo con uno stampino o con un bicchiere dei dischi del diametro di 7 centimetri. Mettiamo i nostri biscotti sulla placca del forno imburrata e infarinata distanziati tra loro e li cuociamo in forno caldo a 180° per 15 minuti. Quando saranno raffreddati li cospargiamo con abbondante zucchero a velo utilizzando un colino e li sistemiamo su di un piatto da portata pronti per essere serviti ai nostri ospiti. You Tube Channel “Cheap but chic”. Facebook page “Tutte le tentazioni”
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Gialdèn (Giallini) Ingredienti per 6 persone: 250 g di farina bianca 200 g di farina gialla di mais ottofile 200 g di zucchero 1 uovo intero e un tuorlo 200 g di burro 1 bustina di lievito vanigliato per dolci un pizzico di sale zucchero a velo
Gabriella Draghi
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Prezzi delle uve in caduta libera: ecco perchè Il prezzo delle uve è un tema scottante ricorrente in Oltrepò Pavese. è un dato di fatto che negli ultimi 40 anni il potere di acquisto di un quintale di uva sia crollato drasticamente, causando uno stallo nello sviluppo del territorio. Lo si può notare da un semplice calcolo pratico. Prendiamo come riferimento un cingolato di piccole dimensioni: un Fiat 355C nuovo negli anni ‘70 costava tra 2.500.000 e i 3.500.000 di Lire. Oggi lo si acquista usato ad un prezzo oscillante tra i 3.500 e i 5.000 euro in base alle condizioni. Tramutando il valore in uva, partendo da un massimo di 5.000.000 di lire e dividendolo per un prezzo medio al quintale di 35.000 lire del 1977, bastavano 140 quintali di Pinot Nero per poter acquistare un trattore di piccole dimensioni. Oggi un cingolato nuovo da 75Cv costa 35.000 euro (iva esclusa), con un prezzo medio di Pinot Nero di 59,00€ al quintale. Quindi servono all’incirca 600 quintali di Pinot Nero per poterne acquistare uno. Angelino Mazzocchi, è un agronomo di Cigognola che per diversi anni è stato il tecnico del Centro Assistenza Valle Scuropasso. Ci ha fornito i dati di uno studio effettuato nel 2011 (e aggiornato con le ultime annate) con prezzi medi delle uve Pinot Nero, Riesling e Croatina dal 1973 al 2017, deflazionati. Mazzocchi, in queste tabelle possiamo vedere i prezzi delle uve Pinot Nero, Riesling Italico e Bonarda, dal 1973 al 2017. Per quale motivo è stato effettuato questo studio? «Questo studio venne presentato a Canneto Pavese nel giugno 2011, durante un convegno riguardante i costi di produzione nel campo vitivinicolo. I dati erano aggiornati alla vendemmia 2010 e riguardanti esclusivamente il Pinot Nero». Chi se ne è occupato? «I dati erano stati raccolti dal Centro Assistenza Valle Scuropasso insieme al Prof. Gabriele Canali, docente di Economia Agroalimentare all’Università Cattolica di Piacenza». Dalle tabelle e dai grafici che ci ha fornito possiamo invece vedere tre tipologie di uve: Pinot Nero, Riesling e Croatina (Bonarda DOC). «Lo studio originariamente prevedeva i prezzi del Pinot Nero DOC fino al 2010, ma poi è stato aggiunto anche il Riesling DOC. Abbiamo aggiunto anche i prezzi riguardanti il Bonarda, grazie ad una ricerca effettuata da mio figlio per una tesi universitaria, elaborando i dati ISMEA. Bisogna però segnalare che i prezzi della tipologia Bonarda, almeno per i primi anni, riguardano una fascia di selezione alta perché la qualità più comune aveva prezzi un po’ più bassi.
Angelino Mazzocchi, agronomo di Cigognola
Certamente sono dati utili per valutare le oscillazioni di mercato. Invece per il Pinot Nero e il Riesling c’era un valore unico varietale». Vedendo il grafico si nota un elevato picco per tutte e tre le tipologie nel 1979. Si ricorda più precisamente la motivazione di tale innalzamento? «Si può subito notare che in sei anni dal 1973, prima annata presa in considerazione per lo studio, al 1979 i prezzi delle uve
Pinot Nero e Riesling si sono quadruplicati, passando da 12.000-15.000 lire al quintale a 54.000 e 80.000 lire. Oggi, deflazionati, corrisponderebbero a 169,00 e 221,00 euro al quintale. In questi sette anni c’era una richiesta di mercato fortissima che ha portato a questo forte aumento dei prezzi, con picchi tra il 1977 e 1979. Questa spinta era stata data dalle ditte piemontesi che venivano a ritirare il Pinot Nero per produrre metodo classico e
Riesling per il metodo Charmat. Negli ultimi anni ci sono state comunque annate particolari in cui le nostre uve erano fortemente richieste. Un esempio recente riguarda l’annata 2017, in cui molte zone vinicole hanno subito grandinate e gelicidi. Anche da noi la produzione era calata del 30-40% ma le nostre uve erano richieste da vinificatori di altre zone per colmare le loro perdite. Eppure non ci sono stati picchi come nel 1977-1979». Come mai in Oltrepò non funziona la banale “Legge della domanda e dell’offerta”? «Si può dire che il triennio 1977-1979 è stato un caso più unico che raro, in cui questa legge di mercato ha realmente funzionato come dovrebbe sempre essere. La curva del grafico parla chiaro: ci sono stati sì altri picchi, certamente minori, ma i prezzi anche in caso di siccità o calamità naturali non sono mai aumentati nel modo corretto». Come mai dal 1979-80 è iniziato il costante crollo dei prezzi? C’è stato qualche fattore scatenante particolare? «La motivazione è semplice: dal 1980 la Gancia ha smesso di acquistare uve in Oltrepò perché i prezzi delle uve stavano aumentando troppo per i loro piani improntati principalmente sulla quantità. Iniziarono quindi il progetto “Pinot di Pinot” acquistando uve in altre zone meno vocate a prezzi decisamente inferiori». Però negli anni ’80 lo spumante metodo classico dell’Oltrepò Pavese si vendeva bene e a prezzi non certamente bassi… «Sì, certo. Lo spumante vinificato qui da noi si riusciva a vendere a buoni prezzi, ma di certo non si è seguito quel trend. Infatti il prezzo medio delle uve è rimasto inferiore ma più stabile per alcuni anni. Negli anni 2000 si denota un appiattimento dei prezzi di tutte e tre le tipologie».
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Come mai? «Qui ci sono varie motivazioni. C’è da prendere in considerazione anche l’introduzione dell’Euro, che ha un po’ scosso le conversioni dei prezzi e destabilizzato il mercato. Il potere d’acquisto legato al prezzo delle uve si è ridotto drasticamente dal 1979 ad oggi. Negli anni ’70, con 80.000 lire si pagavano circa tre giornate di lavoro in campagna: con i prezzi di un quintale di Pinot dei giorni d’oggi a volte non si riesce a pagarne una. Questi sono conti alla portata di tutti. Lo sviluppo delle aziende si è così bloccato. A differenza degli anni’70 le aziende di oggi acquistano poche attrezzature nuove, non perché non ne hanno bisogno, ma perché non hanno la liquidità per permetterselo. Chi lo ha fatto recentemente si è avvalso di contributi europei, che sono stati essenziali per poter sviluppare un’azienda e permetterle il rinnovamento tecnologico. Ora però non tutti lo fanno ancora, perché prima erano contributi in conto capitale e ora contributi in conto interessi. Quindi non ci sono più i vantaggi degli anni 2000». L’ultimo prezzo massimo di Pinot Nero si è registrato nel 2003. Cosa accadde? «Il 2003 segna la prima annata in cui Berlucchi ha acquistato uve Pinot Nero da spumantizzare presso un’azienda da lui affittata in Oltrepò. I prezzi del Pinot Nero da noi rilevati riguardano però le uve rac-
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colte normalmente, non in cassetta. Ma questo ha influito comunque sui prezzi medi del Pinot. Il Pinot veniva raccolto in cassette di legno e portato in Piemonte fino al 1967. Dall’annata successiva si è solo raccolto normalmente. C’è stata poi qualche annata particolare richiesta in cassetta da Riccadonna, ma si tratta di pochi casi. Nelle annate successive ci sono stata aziende che pigiavano le loro uve in cassetta, ma il mercato era praticamente nullo. è stato Berlucchi a reinserire questo tipo di raccolta in grande scala sul mercato delle uve». Dal 2010 possiamo notare un appiattimento delle tre tipologie, su prezzi che corrispondono ai minimi storici. Il 2010 è stato anche la prima annata a non essere pagata dalla storica Cantina La Versa, evento che ha destabilizzato il mercato delle uve in tutto questo decennio. Si tratta di una semplice casualità o i due fattori possono considerarsi “causa ed effetto”? «Potrebbe anche essere, ma non è detto che i due eventi siano strettamente collegati. Senz’altro è una concausa. Un’altra causa importante riguarda un altro fattore, un po’ difficile da rilevare, ma che certamente ha influito: nel 2008 c’è stata la fusione tra la “Cantina di Casteggio” e l’”Intercomunale di Broni”, che ha creato “Terre d’Oltrepò”. In quell’anno il Pinot
Nero valeva ancora 80,00€ al quintale, l’anno successivo 69,00€: questo è stato l’effetto della fusione. Broni pagava prezzi superiori rispetto a Casteggio, ma si è ritrovata a dover ritirare una quantità di uve maggiori che faceva fatica a collocare ad un prezzo importante, dovendo abbassare i prezzi d’acquisto ai soci. Ci terrei però a precisare che a mio parere il primo motivo di questi prezzi bassi sta nel fatto che questa zona non ha più avuto un ruolo importante a livello promozionale». Come mai secondo lei non si è fatto nulla per arginare questa caduta libera dei prezzi? «Negli anni ’80 si è cercato di creare un marchio nazionale per gli spumanti italiani, come avviene in Francia e in Spagna. Questo non si è mai realizzato perché non è stato possibile trovare un accordo. All’epoca noi lavoravamo con Cinzano e le iniziative per questo marchio nazionale arrivavano proprio dai piemontesi. L’accordo non si è mai raggiunto perché non c’era una visione d’intenti comune su quali zone geografiche inserire in questa “denominazione”. In quel periodo la Cinzano aveva iniziato ad acquistare Pinot Nero in Veneto, a prezzi più bassi per fare spumanti di valore inferiore, non metodo classico. Nella denominazione si voleva far rientrare anche il Veneto, ma loro erano contrari. Partì così il progetto “Alta Langa – Tra-
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dizione Spumante” a cui volevano aggregare l’Oltrepò Pavese. Qui non si ritenne giusto aderire a causa di perplessità sul disciplinare agronomico e alla contrarietà di “La Versa”, che aveva forte potere decisionale, in quanto aveva un proprio marchio forte sul mercato. Da qui ognuno è andato per proprio conto ed è iniziata l’ascesa del Franciacorta con l’arretramento dell’Oltrepò Pavese. Era si stato creato il marchio “Talento”, ma non è mai stato sviluppato e utilizzato a fondo». Concludendo secondo Lei per aumentare i prezzi, o per lo meno arginarne la caduta, cosa si potrebbe fare? Bisognerebbe migliorare la promozione degli spumanti attraverso un marchio unico oppure sarebbe più opportuno agire sui disciplinari? «Sicuramente bisognerebbe agire su entrambe le problematiche, ma se non c’è un’azione commerciale comune è anche inutile intervenire sui disciplinari. Sono già stati fatti parecchi tentativi negli anni scorsi che però non hanno ricevuto il giusto seguito. Un esempio su tutti è il Cruasè DOCG nato una decina di anni fa: un bel progetto su cui alla fine nessuno ha investito realmente. Un prodotto non si vende da solo, ma con la giusta spinta commerciale e promozionale». di Manuele Riccardi
BRONI
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«Carbonetti, i conti non tornano» Con il bilancio 2019 destinato a chiudersi con un forte passivo, il gruppo di minoranza Broni in Testa torna a farsi sentire e attacca la gestione del Teatro Carbonetti. Giusy Vinzoni, Gigi Catena e il capogruppo Cesare Ercole questa volta puntano l’attenzione sul pesante segno meno di fronte al rendiconto per l’anno in corso. «Va bene il passivo, che per un ente che produce cultura è comprensibile, ma ci sono dei numeri decisamente alti e a nostro avviso sarebbe possibile contenerli con una gestione più oculata». Consigliera Vinzoni, dopo un po’ di tempo tornate a parlare del teatro della vostra città. Cosa succede? «Vogliamo portare alla luce la gestione delle spese del Carbonetti. Quando si parla delle spese del Carbonetti dobbiamo sempre specificare che noi non siamo contro il teatro e non siamo contro la cultura, come invece l’amministrazione vuol far credere. Siamo contro decisioni e strategie intraprese per quanto riguarda proprio i costi di gestione. Fare i conti della gestione del teatro non significa essere contro la cultura, ma vuol dire far capire a chi ci amministra che questo teatro ci costa tanto e in un periodo difficile come questo bisogna tenerlo ben presente. In un consiglio comunale andato in scena poco tempo fa si era parlato per esempio di sostituire i parchimetri perché non sono a norma e la risposta che ci è stata data è “costano tanto, aspettiamo ancora un po’”: forse se si riuscisse a gestire il teatro in maniera diversa, si potrebbero comunque destinare un bel po’ di fondi ad altre necessità» Ok la critica, ma avete dei numeri che riguardano questi costi? «Certo. Se non ne parliamo noi non ne parla nessuno. Prendiamo per esempio la stagione appena conclusa, quella 2018/2019. Gli spettacoli sono costati 127.392,87 euro, gli incassi registrati sono di 75.254 euro, questo per quanto riguarda i soli spettacoli. Aggiungendo gli introiti derivati da sponsor, vendita biglietti e affitti percepiti per il noleggio del teatro si arriva a 95.101 euro. Le spese invece, sommando a quelle sostenute per gli spettacoli in sé tutte le altre voci tra cui pubblicità, alloggi, costi della vendita online dei biglietti, cene e utenze, si arriva a 262.330. A conti fatti il segno meno dice 167.229 euro. Una cifra pesante, con aspetti da chiarire oltretutto». Quali sarebbero questi aspetti? «Ad esempio le utenze: ci è saltato all’occhio che nella stagione 2016/2017 per l’acqua si erano spesi 543,78 euro, nel 2017/2018 la stessa utenza è passata invece a 8.299,29 euro per passare all’ultima stagione a 5031,92 euro».
«Dobbiamo specificare che noi non siamo contro il Teatro, nè contro la cultura»
La consigliera di minoranza Giusy Vinzoni
«Continuiamo a puntare il dito sulle strategie intraprese per limitare i costi di gestione perchè i risultati sono davvero deludenti» Come si spiega? «Il sindaco non ha risposto, i costi delle utenze non vengono mai presi in considerazione da lui perché per non sono li ritiene costi ma investimenti: è come se in una gestione famigliare non venissero presi in considerazione i costi di luce, gas e telefono. A maggior ragione se si tratta di soldi pubblici, magari andrebbero spesi in maniera diversa e magari si dovrebbero fare dei controlli, in quanto il trend delle spese ha raggiunto picchi pazzeschi». Beh, una bolletta che sale di 8mila euro da un anno all’altro non è che passi proprio inosservata… «Noi abbiamo pensato a una qualche perdita. Chi doveva controllare e non l’ha fatto? I problemi e gli imprevisti possono succedere, ma poi bisogna porvi rimedio.
Questo che ho detto è solo un esempio, ma ci sono molti altri casi simili. E ribadisco che per noi il problema non è il poco incasso degli spettacoli, perché è un trend generalizzato in questo periodo storico nei teatri italiani. Noi mettiamo in discussione la gestione». Ci spieghi meglio su cosa volete porre l’attenzione. «Noi parliamo di puri costi di gestione. Il mio collega Catena ha chiesto in consiglio comunale al sindaco delucidazioni in merito, visto anche che Riviezzi aveva pronosticato un risparmio con il passare del tempo, ma abbiamo ricevuto risposte vaghe: si vuole eludere quella che è la domanda, cercando di non parlare di quello che la minoranza chiede e questo è un mio, un nostro, grande rammarico.
Tutti devono sapere che spesso e volentieri quando noi chiediamo qualcosa ci viene risposto tutt’altro: accade per il teatro, è accaduto per le probabili sanzioni per i rifiuti e per molti altri argomenti. Nell’ultimo consiglio comunale, inoltre, sono anche stati fatti paragoni sbagliati: per esempio il sindaco ha detto che anche la biblioteca è un ente in perdita, ma noi non abbiamo chiesto resoconti su questo e mi permetto anche di dire che l’utente della biblioteca è diverso da quello del teatro, perché in biblioteca vanno sia le persone che magari non hanno intenzione di accumulare libri in casa, sia soprattutto ragazzini, magari di famiglie numerose, dove magari comprare libri può essere un problema economico: quindi il poter usufruire di una biblioteca come quella di Broni, gestita a mio parere molto bene, con un personale valido all’interno, è un servizio importantissimo che viene dato. Paragonare questa al teatro è sciocco, prima di tutto perché noi della minoranza non abbiamo chiesto i conti della biblioteca e mai lo faremo, secondo perché l’utenza è ben diversa. è solo un modo per togliere l’attenzione da quello che abbiamo chiesto. Noi continuiamo a puntare il dito sulle strategie intraprese per limitare i costi di gestione, perché i risultati sono davvero deludenti dal nostro punto di vista. E sottolineo ancora una volta che noi non stiamo parlando dell’attività del teatro in quanto spettacoli». Avete proposte concrete in merito? «Auspichiamo una gestione diversa , magari si potrebbe pensare di dare una quota annuale al teatro e poi lasciare che questo ‘cammini con le proprie gambe’. Siamo ben consapevoli che tutti i teatri siano in perdita, ed è comprensibile che il teatro non guadagni con gli spettacoli, anche se su questo punto avremmo qualcosa da ridire. Perché spesso abbiamo fatto notare che alcuni prezzi dei biglietti andrebbero alzati e si potrebbero così ridurre un minimo le perdite dal punto di vista proprio dello spettacolo in sé». di Elisa Ajelli
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pietra de’ giorgi
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«Fossi puliti, nessun danno dopo l’ultima l’alluvione» Il comune di Pietra de’ Giorgi si guadagna i galloni di “virtuoso” nella categoria “manutenzione ordinaria delle reticolo idrico”: rispettando le normative che impongono la pulizia di fossi e tombini ha scongiurato i disastri causati dal nubifragio che si è abbattuto sull’Oltrepò circa due settimane fa. Il sindaco Fabrizio Abelli fa il punto della situazione. Sindaco, sono passati più di cinque mesi dalle elezioni: ci fa un piccolo bilancio di questa esperienza? «Il bilancio di questi primi mesi è sicuramente positivo. Le cose da fare sono tante ed è richiesto un grande impegno perché i “mezzi” a nostra disposizione non sono purtroppo grandissimi ma, con la collaborazione dei consiglieri e di quei cittadini che vogliono partecipare, cercheremo di fare tutto il possibile per rendere migliore il nostro paese». Come si trova a gestire la macchina amministrativa? «Gestire questa macchina non è semplicissimo per me, anche perché non ho esperienza specifica, ma sicuramente è un’esperienza interessante e stimolante». Lei è cresciuto in una famiglia che ha masticato politica da sempre: come mai ha deciso di candidarsi solo ora e non prima? «Probabilmente se ci fosse stato ancora mio papà, con il quale avevo comunque un grande rapporto, non mi sarei candidato perché agli occhi della gente sarei stato solo “il figlio di Abelli”. Ho accettato di candidarmi perché tengo tantissimo al nostro territorio ed in particolare al mio paese, posso dire di essere un “nazionalista” dell’ Oltrepò, e vorrei riuscire a fare qualcosa per aiutare la mia gente». Questione immigrazione: nel suo paese ci sono tanti immigrati? Come vengono gestiti? «Gli immigrati a Pietra de’ Giorgi sono, nella grande maggioranza dei casi, integrati molto bene e quindi non abbiamo problemi particolari di gestione». Cosa è previsto nel breve periodo a Pietra? Ci sono lavori in vista? «Con il contributo del ministero dello sviluppo economico che ci verrà erogato a breve abbiamo previsto l’eliminazione delle barriere architettoniche mediante pavimentazione dell’area esterna in prossimità della Scuola d’Infanzia e del Micronido, la realizzazione di nuovi centri luminosi a Led per illuminazione pubblica, il rifacimento di parapetti in centro storico ed interventi localizzati di manutenzione straordinaria per messa in sicurezza di strade comunali. I lavori dovrebbero iniziare in questi giorni. Con il contributo di Regione Lombardia, invece, metteremo in sicurezza il
«I proprietari dei vigneti hanno rispettato l’ordinanza e pulito i fossi»
Fabrizio Abelli
«Probabilmente se ci fosse stato ancora mio papà, con il quale avevo un grande rapporto, non mi sarei candidato perché agli occhi della gente sarei stato solo “il figlio di Abelli”» territorio comunale mediante interventi di “regimazione idraulica del reticolo minore” e interventi di sistemazione del dissesto idrogeologico». Avete avuto problemi legati al maltempo delle scorse settimane? «Avevamo avuto problemi col nubifragio di fine maggio, invece nelle scorse settimane non è successo quasi niente anche perchè a luglio è stato fatto un avviso che chiedeva ai proprietari dei vigneti di sistemare i fossi: per fortuna in molti hanno
rispettato questa comunicazione, per cui abbiamo avuto molto meno problemi che in passato». Pietra è stato uno dei primi comuni italiani ad avere il finanziamento europeo per il Wi-Fi gratuito e avete completato l’installazione in tempi record nei mesi scorsi: questo servizio ha successo? «Direi che il servizio di wi-fi gratuito funziona molto bene». Per i giovani avete qualche progetto in mente?
«è prevista a breve l’ istituzione di una “consulta giovani” nel nostro comune, della quale si sta occupando la nostra consigliera più giovane, Sara Zambianchi. Lo scopo di questa consulta è quello di fare in modo che siano i giovani stessi a proporre all’amministrazione le iniziative di loro interesse». Cosa vorrebbe realizzare a breve per il suo paese? «Mi piacerebbe rendere Pietra de’ Giorgi più attrattiva dal punto di vista turistico: abbiamo la fortuna di vivere in un territorio molto bello ed abbiamo il dovere di valorizzarlo. Per l’anno prossimo stiamo studiando la possibilità di organizzare eventi culturali come mostre di pittura, concerti musicali e iniziative legate alle nostre tradizioni. Cercheremo di prestare attenzioni alle tematiche ambientali: abbiamo appena aderito allo “Sportello Amianto Nazionale” e abbiamo intenzione di rendere il comune “plastic free”. Un altro aspetto fondamentale è legato alla collaborazione fra i comuni dell’ Oltrepò orientale ed in particolare fra i piccoli centri che hanno problemi comuni e che dovrebbero “fare squadra”. Per fortuna noi sindaci della zona, nella grande maggioranza dei casi, andiamo molto d’accordo e stiamo cercando di organizzarci». Nella sua giunta è presente Sara Zambianchi, giovane coordinatrice della Lombardia per l’associazione Città del Vino: cosa rappresenta per lei, sindaco, avere un così prezioso elemento in squadra? «Sara, con la quale personalmente sono molto in sintonia, è una risorsa importante per il nostro comune. Nonostante la giovane età è molto competente in materia di agricoltura e si sta dando molto da fare; la sua nomina a coordinatrice regionale penso sia motivo d’orgoglio per Pietra de’ Giorgi». di Elisa Ajelli
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Iniziati i lavori al cimitero: «Pressioni sulla ditta» Una ditta non troppo zelante e tempi burocratici più lunghi del previsto sono alla base delle condizioni non ottimali in cui versa il cimitero di Stradella, che in questi giorni è oggetto di alcuni lavori. A testimoniare l’importanza che il cimitero riveste nei programmi della nuova amministrazione è il fatto che sia stata istituita un’apposita delega, affidata al vicesindaco e assessore “alla partita” Dino Di Michele. Di Michele, com’è attualmente la situazione del cimitero stradellino? «Ho trovato sicuramente una situazione complessa quando ho iniziato il mio lavoro di vicesindaco. La ditta che opera presso il cimitero ha vinto una gara di appalto lo scorso anno e ha quindi ancora davanti un anno e mezzo circa di pieno lavoro. Dico situazione complessa, perché il nostro cimitero è composto da più aree: quella antica, che è sotto il vincolo della Sovraintendenza, e quella degli altri ampliamenti. Ho avuto delle difficoltà e ho dovuto agire con determinazione nei confronti della ditta affinché svolgesse il proprio lavoro contrattuale. Probabilmente la ditta era abituata ad essere un po’ meno pressata e non dava la risposta che invece noi auspichiamo per il nostro cimitero. Ci sono decisamente ampi spazi di miglioramento nella gestione e nella cura di questo luogo e questa amministrazione è fermamente decisa a migliorare, nella pulizia, nel verde, nella manutenzione ordinaria e straordinaria. Il fatto poi che questa amministrazione ci tenga particolarmente è anche dato dal fatto che mai prima d’ora era stata una delega precisa ad un Assessore proprio per il cimitero: questa è un’assunzione di responsabilità forte nei confronti dei cittadini». Che lavori state facendo? «è stato dato in appalto il lavoro che è iniziato negli ultimi giorni di ottobre, ma poi non subito attuato a causa del maltempo: il rifacimento delle facciate esterne del cimitero nuovo “Licalzi” (denominato così per l’architetto che l’ha progettato), perché c’erano dei ferri scoperti, scoppiati a causa della ruggine e delle intemperie e di una manutenzione ordinaria che non è stata fatta per troppo tempo. Questi lavori di rifacimento e tinteggiatura erano davvero necessari ormai. Poi sono state sostituite le lampade nei sotterranei, mettendo lampade a led in modo da dare più luminosità e maggior risparmio energetico. Infine, sono state sostituite delle lastre di marmo ammalorate che si erano deteriorate e distaccate: sono state cambiate nei giorni prima della festività dei Santi, perché i tempi della burocrazia non ci hanno permesso di svolgere questo
Il piano interventi: rifacimento delle facciate esterne, tinteggiatura e nuove lampade
Dino Di Michele vicesindaco
lavoro prima. Il cimitero è un luogo sacro, deve essere curato, rispettato e onorato in ogni modo: ci vorrà sicuramente del tempo per vederlo come noi lo vorremmo, ma ci metteremo tutto il nostro impegno. Il cittadino deve tenere sempre a mente che i tempi burocratici sono molto lunghi, prima bisogna vedere se ci sono le risorse economiche, poi bisogna rispettare le procedure che ogni singolo appalto prevede. Io mi scuso con i cittadini se a volte non hanno la percezione immediata del nostro lavoro: oggi stiamo cominciando a vedere piccole grandi cose che abbiamo avviato a giugno quando ci siamo insediati e in futuro si vedranno i progetti che stiamo studiando adesso. Stiamo anche cercando di migliorare la comunicazione ai cittadini, ma abbiamo dovuto affrontare una fase di rodaggio dei primi mesi amministrativi». Ad oggi, quindi, cosa può dire? «Ci sono situazioni che in questo semestre sono già migliorate, non senza difficoltà. Però ribadisco che ci sono margini di miglioramento e noi saremo sempre attenti affinché tutto si svolga nel modo più corretto possibile. La ditta sicuramente deve capire che ci sono tempi nuovi e modalità
nuove che riteniamo debbano affrontare». Parliamo dei vivi. Lei ha anche la delega alla Cultura. Cosa state facendo come amministrazione in tal senso? «Abbiamo avviato una serie di incontri, di rapporti con le istituzioni, con le associazioni e con i singoli al fine di creare dei tavoli che possano, in maniera sinergica, dare degli eventi qualificati e qualificanti della città e che possano attrarre. Con l’aiuto dell’esperienza del passato, che sicuramente non gettiamo via e che ci ha dato modo anche quest’anno di avviare la stagione teatrale, con l’aiuto di Pierangelo Lombardi, a cui va il nostro plauso per la massima disponibilità dimostrata: indipendentemente dai ruoli che oggi ricopriamo, si è dato anima e corpo per la stagione del Teatro e per la gestione dei rapporti con il Fraschini che gestirà il nostro teatro fino a fine stagione. All’inizio dell’anno nuovo dovremo poi fare le valutazioni per la prossima stagione teatrale, che certamente vogliamo che sia di alto livello come è sempre stata. Abbiamo poi un accordo, fatto dalla precedente amministrazione, con l’associazione
Tetracordo per l’Accademia del Ridotto e la musica. Devo dire in generale che sono molto soddisfatto: c’è stato un aumento nel rinnovo degli abbonamenti e nelle prevendite del 7%. Posso però dire che è un dato che non ci deve fermare: vogliamo migliorare anche in questo aspetto. Poi naturalmente qualche difficoltà c’è…». Per esempio? «Per esempio nella ricerca di sponsor, che scarseggiano sempre. In questo contesto generale economico, la difficoltà maggiore è rappresentata proprio da questa scarsità: soggetti che negli anni passati sponsorizzavano molti eventi e la stagione teatrale non hanno più le risorse per fare quello che facevano o addirittura vengono a mancare totalmente. Facciamo quindi un appello: il territorio ha bisogno del nostro Teatro, che è sempre riuscito ad attrarre anche molte persone oltre i confini cittadini (e questo lo dicono i numeri) e questo porta sicuramente benessere e movimento anche economico alla nostra città. Questo spero che spinga a sostenere sempre e sempre di più il nostro Teatro». Tornando alla cultura in generale, cosa state facendo? «Abbiamo fatto numerose sponsorizzazioni e patrocini per presentazioni di libri, per giornate di divulgazione scientifica e culturale con più soggetti coinvolti, abbiamo continuato la collaborazione sempre proficua con il Lions Club…». Secondo lei qual è il tratto che vi dovrà contraddistinguere, sotto l’aspetto culturale, nella vostra legislatura? «Quello della sinergia tra tutti i soggetti, in collaborazione con l’assessorato alla promozione del territorio del mio collega Andrea Frustagli: ogni manifestazione che fino ad oggi abbiamo realizzato aveva all’interno eventi e momenti culturali. Vogliamo dare sempre un valore aggiunto ad ogni evento». di Elisa Ajelli
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STRADELLA
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Leo Club: i giovani che si divertono facendo beneficienza Non solo altruismo, ma anche cooperazione, valorizzazione dell’individuo e lavoro di squadra: sono questi i valori chiave del Leo Club, un’associazione a scopo benefico presente in Italia e all’estero, che, alle dipendenze della più estesa e antica Lions Club, comprende volontari tra i 12 e i 30 anni. Denis Valenti e Mara Lupica Spagnolo, rispettivamente presidente e vicepresidente del Leo Club Broni Stradella fanno luce su come, all’interno dell’associazione, chiunque possa dare il suo contributo concreto a fini di beneficenza, realtà nei confronti della quale molti provano ancora una certa diffidenza. Quando nasce il Leo Club Broni Stradella e in che cosa si differenzia dal Lions Club? «Il Leo Club Broni Stradella è uno dei più antichi, in quanto è stato fondato nel 1975, e la sua caratteristica principale è quella di essere composto da membri under 30; noi nello specifico siamo 14 ragazzi di età compresa fra i 16 e i 29 anni. Ci differenziamo dal Lions Club, oltre che per il fattore età, anche perché tendiamo a organizzare eventi destinati ad una fascia di pubblico più giovane, che sono per noi un modo di farci conoscere e in cui gli interessati possono approfittarne per diventare nuovi membri». Dove e come nascono i Leo Club? «Un Leo Club può nascere in qualunque città: per farlo ha bisogno di un Lions Club “padrino” che per noi è ovviamente quello di Broni – Stradella. A loro volta i Lions, a seconda della collocazione, fanno riferimento a dei distretti – il nostro è quello della bassa Lombardia – che sono ancora riuniti sotto la fondazione Lions Club Italia». Come mai si è scelto di basare i Leo Club su un criterio di età e non di altro tipo? «La scelta dipende dal fatto di voler far sentire a proprio agio anche i membri più piccoli: dei ragazzini di 12 o 13 anni, ad esempio, potrebbero sentirsi sotto pressione se inseriti in un gruppo con persone molto più grandi di loro. Un divario di età più limitato, come quello del Leo Club, permette anche ai più giovani di fare le stesse attività del Lions Club senza sentirsi a disagio, spesso insieme a dei coetanei e in un ambiente un po’ più informale». Come agisce Leo Club sul territorio e a quali enti fa beneficenza? «Sia Lions che Leo Club devolvono l’intero ricavato degli eventi che organizzano: eventi che possono essere locali, come l’organizzazione di cene per raccolte fondi e simili, oppure nazionali, in cui tutti i Leo d’Italia, lo stesso giorno, scendono in piazza a vendere prodotti come le uova di Pasqua o, sotto Natale, i pandorini.
Denis Valenti e Mara Lupica Spagnolo
Il ricavato delle iniziative locali è destinato a enti del territorio che sappiamo hanno bisogno di fondi, ovviamente anche al di fuori dei nostri due comuni sede; su scala nazionale, invece, la cifra guadagnata viene devoluta a realtà che interessano tutta Italia, secondo un tema che varia ogni tre anni: l’anno scorso e i due precedenti abbiamo donato dei kit didattici alle scuole, quest’anno invece kit analoghi saranno offerti alla Croce Rossa e alla Protezione Civile». Quali sono i ruoli all’interno del club? Come vengono assegnati? «Aldilà della supervisione e dell’organizzazione generale di cui si occupano presidente e vicepresidente, c’è un tesoriere che tiene sotto controllo le donazioni che facciamo e le piccole quote con cui ci sostentiamo – che per fortuna, non avendo grandi spese, bastano, così riusciamo a devolvere per intero le somme ricavate
dai nostri progetti; c’è poi il segretario, che stila una sorta di verbale delle riunioni e informa i soci di iniziative organizzate dagli altri club; il cerimoniere – ruolo abbastanza impegnativo – è colui che, negli eventi più formali, legge davanti al pubblico il cerimoniale che illustra la natura e gli scopi del Leo Club; abbiamo poi chi si occupa dell’area social e quindi gestisce il nostro Instagram e Facebook. Insomma, chiunque se la senta può avere un compito attivo all’interno del gruppo – ovviamente conforme alle sue capacità: tendiamo ad assegnare ruoli un po’ meno impegnativi ai ragazzi molto giovani o con meno esperienza. Anche chi magari per studio o per lavoro non può dedicare così tanto tempo al Leo Club, ha comunque modo di dare il suo contributo partecipando alle iniziative». Perché, quindi, una persona dovrebbe iscriversi al club?
«In primis perché siamo un ente benefico, quindi per la semplice volontà di aiutare gli altri, per altruismo, valore il quale va sempre più scemando in questa società diffidente ed egoista. è un’ottima occasione per fare nuove amicizie; i ragazzi giovani si responsabilizzano mentre i più grandi possono mettere in pratica esperienze lavorative pregresse». Come sono i rapporti con i due comuni di riferimento, Broni e Stradella? Agevolano in qualche modo il vostro operato? «A livello comunale i rapporti sono molto buoni; ad esempio, l’anno scorso, in occasione di un corso di fotografia per smartphone, tenuto da un professionista, in più serate, Broni ci ha gentilmente concesso lo spazio per tenere tutti gli incontri. Abbiamo sempre riscontrato grande disponibilità anche da parte del comune di Stradella.
STRADELLA Sanno che le nostre attività hanno un buon motivo per essere svolte». Recentemente avete organizzato un evento al ristorante Liros di Stradella: com’era strutturato e a vantaggio di quale ente è stato realizzato? «L’evento in questione, tenutosi venerdì 11 ottobre, è il Quizzoleo: una cena completa in cui i tavoli, da sei persone, cioè le squadre, si sono sfidati ai quiz che abbiamo proposto tra una portata e l’altra; a fine serata abbiamo corretto le risposte, fatto gli spareggi e assegnato dei premi in gadget a seconda del posizionamento sul podio – primo, secondo, terzo e quarto posto. Abbiamo devoluto l’intero ricavato alla fondazione CLAP di San Martino Siccomario, una Onlus che si occupa di ragazzi disabili e si finanzia tramite donazioni o finanziamenti privati; ci ha fatto estremamente piacere poter dare una mano a questa realtà». Come ci si iscrive ad un Leo Club? «Ci sono tre metodi principali, molto comodi: tramite la sezione “diventa un Leo” presente sul nostro sito web, inserendo il proprio comune di residenza ci verranno mostrati i Leo Club a noi più vicini con tutti i contatti di riferimento – anche solo per chiedere informazioni. Stessa cosa si può fare cercando i nostri profili su Instagram e Facebook e scrivendoci privatamente nell’apposita sezione messaggi. Altrimenti, partecipando ad uno dei nostri eventi, ci si può rivolgere allo staff ed entrare praticamente subito. L’iscrizione verrà formalmente conferma-
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ta il gennaio successivo in cui il governatore Lions spillerà i novizi. Per quanto riguarda i Lions Club il processo è un po’ più complicato, perché di solito ci si iscrive a invito o per transizione dai Leo una volta superati 30 anni (se lo si desidera). Tuttavia ultimamente questa struttura di sole conoscenze si è ammorbidita e per diventare membri di un Lions Club ci si può presentare ai gazebo che allestiscono durante gli eventi». è richiesta una frequenza minima di partecipazione? «Essere membro di un Leo Club è un impegno, sì, ma in alcun modo limitante: per discutere sulle prossime iniziative ci troviamo una volta al mese e solitamente facciamo un aperitivo, quindi non sono incontri formali, pesanti e infiniti; detto questo, la cosa più che altro richiesta è la presenza fisica agli eventi. Pazienza se, qualche volta, uno non riesce ad essere alla riunione o a fare qualcosa per l’organizzazione materiale dell’attività, ma essere presenti “quel giorno” è importante per dare agli altri un’immagine di coesione, partecipazione e voglia di fare che noi Leo Club abbiamo davvero; perché alla fine questo siamo: un gruppo di amici che si dà da fare per il sociale». Nel mese di ottobre avete svolto altri eventi in aggiunta alla serata Quizzoleo? Programmi per il futuro? «Sì: domenica 20 e 27, prima a Stradella e poi a Broni, insieme ai Lions, abbiamo organizzato “Una mela per chi ha fame”: si tratta di una vendita di mele al costo di 1€
il cui ricavato è stato devoluto alla Caritas e a Pane Quotidiano. Il 31 ottobre, sempre con i Lions, si è tenuta una “cena con delitto”: i partecipanti dovevano scoprire chi fosse il fantomatico assassino tramite indizi da noi forniti. Ci stiamo poi portando avanti per il 2020, dato che ormai siamo alla fine dell’anno: ci piacerebbe organizzare una serata a tema Grande Gatsby – anni ’20». Denis, come è avvenuto il tuo ingresso nel Leo Club e com’è stata la tua esperienza? «All’inizio, devo ammetterlo, ero piuttosto scettico; avevo però un amico, ora membro dei Lions, che spesso mi invitava ai numerosi eventi organizzati dal Leo Club. Vedendo poi le foto sui social e anche grazie all’insistenza di questo mio amico, ho partecipato ad un evento: non me ne sono mai pentito, anzi. è un’esperienza che consiglio davvero perché, facendo del bene, realmente ci si diverte, si conoscono molte persone e si trascorrono serate anche un po’ più originali e interattive rispetto alle solita discoteca, per fare un esempio». Mara, vuoi darci anche tu la tua testimonianza? «Certo; io, a differenza di Denis, già orbitavo abbastanza intorno al mondo della beneficenza. Il mondo Leo Club mi attirava, ma ero un po’ spaventata perché temevo che organizzassero eventi tutti pomposi, pensavo che avrei dovuto spendere chissà quanto ad esempio per il dress code e cose simili; in realtà non è assolutamen-
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Leo Club: gruppo aperto a chi ha dai 14 ai 29 anni te così: tu in quanto membro, fai quello che puoi, sei te stesso, il tuo contributo, anche se minimo, è comunque importante e le tue capacità vengono valorizzate; Leo Club offre anche un sacco di opportunità per quanto riguarda i viaggi grazie agli scambi giovanili: è possibile soggiornare presso un campus Leo all’estero, per due o tre settimane, insieme ad altri membri, e vedere come diverse culture si approcciano al mondo della beneficenza e organizzano iniziative analoghe a quelle organizzate qui in Italia. Grazie a Leo Club ti rendi conto che le tue potenzialità, insieme alla forza del gruppo, aiutano davvero chi ne ha bisogno: non c’è soddisfazione più grande del vedere le reazioni di felicità e stupore quando le associazioni ricevono i frutti del nostro impegno». di Cecilia Bardon
ARENA PO
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«Facciamo da noi per superare la burocrazia» Un nuovo percorso all’insegna della continuità. è quello di Alessandro Belforti, sindaco di Arena Po, che nel maggio scorso è stato rieletto come primo cittadino del paese. Il sindaco ci parla di questi primi mesi dopo le elezioni e ci spiega perché, a suo parere, Arena è una piccola isola felice. Sindaco, con tutta sincerità, si aspettava a maggio la vittoria? «Diciamo di sì. Anzi, forse con tutto quello che abbiamo in precedenza fatto la vittoria poteva anche essere più larga. è stata sicuramente una sfida molto dura, contro un ex sindaco del paese e contro un esponente della Lega, partito che ha vinto davvero in tantissimi post. Non era facile vincere ma alla fine ci siamo riusciti, considerando, appunto, gli sfidanti e anche il fatto che in campagna elettorale non abbiamo spinto più di tanto: noi ci siamo basati su quello che abbiamo costruito negli anni precedenti del nostro mandato ed era sotto gli occhi di tutti. Penso che di amministrazioni che hanno fatto quello che abbiamo fatto noi in cinque anni per Arena Po non ce ne siano mai state». Questi primi mesi dopo la riconferma come sono andati? «C’è stata sicuramente continuità con il passato. Abbiamo proseguito sulla traccia che avevamo segnato in precedenza e abbiamo trovato qualche problemino burocratico che stiamo risolvendo…». Cioè? «Dovevamo già essere partiti con il rinnovo dell’illuminazione pubblica ma non ci siamo riusciti, perché c’è qualcuno che si mette di traverso». Intende la minoranza? «Assolutamente no! Intendo le lungaggini burocratiche: tempo che arriva la risposta per il progetto, si gira il tutto alla ditta, la ditta risponde…insomma si va in ritardo».
La burocrazia: un problema ormai per tutti i comuni… «è sempre più difficile. Poi la Corte dei Conti dà pareri che non sempre sono favorevoli, tutti si spaventano e quando succede poi si puntano i piedi e magari la realizzazione dei progetti va per le lunghe. La propaganda è la semplificazione di tutto, ma quando poi si tocca con mano si capisce che questa semplificazione non esiste. Per esempio, il tetto della scuola lo stiamo rifacendo adesso, dopo che la cifra che abbiamo richiesto ci è stata messa a disposizione il 18 agosto: tra le ferie, il bando e le altre cose, i lavori sono partiti in questi giorni…». Altri lavori che state facendo? «Abbiamo completato l’allargamento di una strada in una frazione, abbiamo asfaltato un’altra strada nel centro di Arena e stiamo provvedendo a mettere dei dissuasori di velocità su strade provinciali, davanti al cimitero del capoluogo e davanti alla piazza della frazione Ripaldina». In campagna elettorale, al nostro giornale aveva parlato del “porto turistico”: una priorità per rilanciare il territorio, collegando per esempio Arena e Ripaldina con percorsi ciclo pedonali… cosa può dirci adesso? «Rimane una nostra grande priorità e ci stiamo lavorando. è assolutamente un progetto che rimane vivo, come rimane vivo il progetto di tutta la piantumazione dell’area demaniale che abbiamo preso in carico come comune: si tratta di 13 ettari. è uscito da poco un bando e vorremmo sistemare anche questo aspetto. Siamo davvero sempre al lavoro». Per i giovani cosa state facendo? «Cerchiamo di tenerli il più possibile vicino al paese e ci stiamo riuscendo. Quello che mi è sempre dispiaciuto tantissimo negli anni era vedere i nostri ragazzi partire alla sera per andare magari nei locali
Sulla vittoria elettorale: «Poteva anche essere più larga»
Alessandro Belforti
«Lavori alle scuole partiti in ritardo per lungaggini burocratiche» di Stradella a fare l’aperitivo e tornare a notte fonda: così non vivevano mai il loro paese. Invece, con tante manifestazioni ed eventi, abbiamo cercato di tenerli qui e devo ammettere che i risultati si sono visti. Oltre a rimanere loro, portano anche amici dai paesi vicini e partecipano attivamente alla vita del paese. Questo è un aspetto molto importante a mio parere». A livello di sicurezza come siete messi? «Nei precedenti cinque anni abbiamo fatto un grande lavoro in questo senso, con un ottimo impianto di sorveglianza: tutti gli accessi al paese sono controllati da telecamere e lettura targhe. Abbiamo inol-
tre sotto controllo tutti gli accessi nelle frazioni. Stiamo incrementando sempre di più comunque: tutti gli anni una cifra viene sempre messa a disposizione per ampliare questo settore della videosorveglianza. Non abbiamo mai preso soldi dalla Regione e abbiamo sempre fatto tutto con le nostre finanze e le nostre forze. Non avevamo il tempo di aspettare i vari bandi e ci siamo arrangiati noi, sicuramente è stato un grosso sforzo, ma siamo soddisfatti. Non dico di essere un’isola felice…ma quasi». di Elisa Ajelli
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CANNETO PAVESE
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«Stiamo lavorando per far si che la tutela del Buttafuoco rientri in capo al Consorzio» In un Oltrepò vinicolo sempre più frammentato e stazionario c’è una piccola realtà di produttori che procede spedita con idee chiare e precise. Si tratta del Club del Buttafuoco Storico, consorzio nato il 7 febbraio 1996 per volontà di undici giovani agricoltori. La Zona Storica di produzione del Buttafuoco è situata ne “lo Sperone di Stradella”, territorio composto dai comuni di Broni, Canneto Pavese, Castana, Cigognola, Montescano, Stradella e Pietra de’ Giorgi delimitato a Ovest dal torrente Scuropasso, a Est dal torrente Versa. A nome di questa realtà abbiamo intervistato Armando Colombi. Milanese di nascita, dopo essersi trasferito in Oltrepò ha iniziato a collaborare con il Consorzio Tutela Vini in diversi eventi nazionali. Dal 2013 è direttore del Club del Buttafuoco Storico. In questi anni si è impegnato parecchio non solo per la promozione di questo vino, ma anche di tutto il territorio oltrepadano. Colombi, ad oggi quante sono le aziende consorziate al Club del Buttafuoco Storico? Quante etichette e quante bottiglie producete? «Attualmente sono iscritte al Club quindici aziende, con sedici vigne. Ci sono cinque aziende in stand-by che dovrebbero entrare a gennaio, con la nuova annata. Alcune di queste hanno la vigna che è ancora oggetto di verifica, perché per fare il Buttafuoco Storico il vigneto deve avere una determinata storicità e qualità. Altre invece stanno cercando vigne storiche da poter acquistare in modo da potersi consoziare. Per questo motivo due anni fa abbiamo fatto una campagna cartellonistica con il fine di chiedere di poter affittare o vendere i vigneti, evitando di lasciarli in abbandono. Riguardo la produzione posso dire che potenzialmente, con la vendemmia 2019, le aziende consorziate producono complessivamente 70.000 bottiglie».
70mila bottiglie prodotte con la vendemmia 2019
«Il Buttafuoco sta tornando sulle tavole milanesi»
Armando Colombi, direttore del Club del Buttafuoco Storico.
Il vostro Consorzio specificatamente di cosa si occupa? «Il Consorzio Club del Buttafuoco storico è un’unione privata di aziende che si occupa di diverse cose: principalmente della promozione e della valorizzazione del marchio privato” Buttafuoco Storico”. Promovendo questo vino si pubblicizza anche il suo territorio di provenienza. Stiamo investendo parecchio in comuni-
cazione per valorizzare i sette comuni di produzione del Buttafuoco Storico. Facciamo anche altre attività, come per esempio l’accoglienza del turista con il nostro punto vendita consortile, dove riceviamo gli appassionati spiegandogli il territorio, non solo quello di produzione del Buttafuoco, ma di tutta la Valversa e l’Oltrepò in generale. Ci occupiamo inoltre di aiutare le nostre
aziende facendo incontri con i buyer e partecipando ad incoming, per facilitare l’inserimento del Buttafuoco Storico nel canale estero. Abbiamo anche una linea di prodotti vinificata direttamente dal nostro Club nata appositamente per poter inserire questo prodotto nelle enoteche più prestigiose e nei ristoranti stellati, in modo da averlo empre nella loro carta dei vini». Nel 2015 avvenne lo strappo di alcune aziende vostre consorziate con il Consorzio di Tutela Vini Oltrepò. Quest’anno invece il Club è entrato a farne parte ma è notizia dei giorni scorsi che il Consorzio di Tutela non è riuscito ad ottenere l’Erga Omnes sulla tipologia Buttafuoco DOC. Ci può spiegare meglio? «Diciamo che sulla stampa è stata fatta un po’ di confusione a riguardo ed è giusto fare chiarezza. Con la nascita della tipologia Buttafuoco DOC, nel 2010, viene sconvolto il calcolo dei numeri per l’assegnazione della tutela e dell’Erga Omnes. Bisogna precisare che il Consorzio di Tutela non ha mai avuto l’Erga Omens sulla DOC Buttafuoco ma solo la tutela, che è una cosa differente. Questa è stata persa con la fuoriuscita di alcune aziende nel 2015 ed ora è a capo di Regione Lombardia, la quale a sua volta la demanda per gli aspetti tecnico-pratici a Valoritalia. Il Consorzio di Tutela Vini Oltrepò Pavese per riottenere la tutela deve avere un determinato numero di aziende iscritte. Ottenuto ciò cercherà di ottenere anche l’Erga Omnes, che è un controllo a 360° sulla denominazione, anche sulle aziende non socie. La notizia arrivata nei giorni scorsi è che il Consorzio di Tutela ha avuto la conferma dal Ministero di avere i numeri per un controllo totale su tutte le denominazioni, escluso il Casteggio DOC e il Buttafuoco DOC. Precisamente su quest’ultima non ha ne tutela ne Erga Omnes, per una questione tecnica, ma stiamo lavorando tutti coesi per far si che almeno la tutela rientri in
CANNETO PAVESE capo al Consorzio per poter agevolare lo sviluppo di questa denominazione. Il 2019 è stato anche l’anno del cambiamento per l’Oltrepò vinicolo, con la nomina dei un nuovo direttore vini. Quali sono le vostre aspettative? «Ho conosciuto Carlo Veronese circa una decina di anni fa, quando lavoravo come brand ambassador del Consorzio tutela Vini Oltrepò Pavese e giravo l’Italia nelle varie manifestazioni. Ha fatto uno splendido lavoro come direttore del Lugana e sono sicuro che anche qui riuscirà a fare altrettanto. Noi, come Club abbiamo un’ottima stima verso di lui e abbiamo una grande aspettativa per il territorio. Certamente ci sarà da lavorare su tutte le denominazioni». Ultimamente il Club è molto presente con eventi su Milano: proprio pochi giorni fa vi abbiamo visti impegnati alla Wine Week. Com’è andata? «Partecipiamo a tantissimi eventi, sia sul territorio che fuori. Alcuni più eclatanti, tipo la Milano Wine Week , o altri su scala nazionale, con grande riscontro sulla stampa. Siamo impegnati ogni settimana nella promozione dei nostri prodotti, con attenzione sia per il consumatore finale che verso gli influencer e gli operatori del settore. Su Milano abbiamo tantissimo riscontro, perché è un prodotto che piace. Ma soprattutto perché il Buttafuoco è il grande vino di Milano: un rosso fermo strutturato che, come diceva Carlo Porta, “butta fuoco in bocca” e si abbina ai piatti milanesi. Stiamo cercando di comunicare
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Il Club del Buttafuoco Storico al lavoro per valorizzare il marchio: esiste dal 1996 Ad oggi 15 le aziende iscritte che il Buttafuoco è tornato, perché si era un po’ perso. Questo perché negli anni passati i ristoratori lombardi che facevano più tendenza avevano spostato l’attenzione sui rossi toscani e piemontesi. Con l’abbinamento territoriale si torna però a parlare di Buttafuoco a Milano. Prossimamente saremo al Merano Wine Festival, ma abbiamo altri eventi e incontri in agenda». Avete avviato anche qualche programma di promozione all’estero? «Certo. Proprio in questi giorni abbiamo avviato una campagna degustazioni in Florida attraverso un importatore americano, ma lavoriamo con l’estero già da diverso tempo. Siamo già presenti in diversi stati europei, soprattutto in Danimarca, Germania e Paesi Bassi, Stati Uniti e Canada. In Asia invece vendiamo in Cina e stiamo provando in Giappone». Il mese scorso Gerry Scotti ha annun-
ciato di voler ampliare la propria gamma di vini con l’introduzione di una Bonarda e di un Buttafuoco. Si tratterà di quello storico? «Gerry Scotti, quando si è avvicinato all’Oltrepò Pavese nel 2016, è rimasto affascinato dal Buttafuoco Storico. Già allora era stato imbastito un progetto, in collaborazione con l’azienda F.lli Giorgi, che è stato portato avanti in sordina finché un mese fa è stato proprio lui ad annunciarlo alla stampa. A breve seguiranno ulteriori comunicazioni da parte sua». Quali sono i prossimi progetti di cui vi state occupando? «Abbiamo progetti a breve, medio e lungo termine. A breve proseguiremo con il nostro programma su Milano: già a Natale faremo due giornate in piazza di Regione Lombardia. A febbraio ci sarà il ventiquattresimo compleanno del Club, sempre a Milano, in cui avremo alcuni ospiti
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dello spettacolo. Stiamo portando avanti un progetto di valorizzazione del territorio, cercando di valorizzare i sette comuni di produzione con un’immagine omogenea. A lungo termine faremo molti più eventi rispetto gli anni precedenti». di Manuele Riccardi
COLLI VERDI
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Vino e zootecnica, il Bio al Castello Dal Verme Torre degli Alberi è una frazione del nuovo comune di Colli Verdi, nato il 1 gennaio 2019 dalla fusione dei comuni di Ruino, Canevino e Valverde. Precedentemente appartenuta al soppresso comune di Ruino, la frazione prende il nome dall’omonima torre proprietà della famiglia Dal Verme da circa 700 anni. I Dal Verme discendono da un abitante di porta San Zeno di Verona, di cui le prime notizie si hanno attorno all’anno 1174. Nel corso del XIII secolo gli appartenenti alla nobile casata vantavano importanti cariche nelle più prestigiose città italiane. Attorno alla metà del ‘300 iniziarono la loro attività di condottieri al servizio dei Visconti di Milano e per questo motivo cominciarono ad acquistare numerosi feudi in Oltrepò e sul piacentino. In tempi recenti il proprietario di Torre degli Alberi fu il Conte Luchino Dal Verme, recentemente scomparso all’età di 103 anni. Reduce dalla campagna di Russia del 1943, prese le redini della 88ª Brigata “Casotti” con il nome di “Maino” dando un contributo essenziale alla liberazione dell’Oltrepò dall’occupazione nazista . La torre del trecento è la parte più antica della struttura. Ai piedi di essa sono stati costruiti alcuni locali, in più fasi dal ‘400 a fine ‘800, mantenendo sempre uno stile architettonico uniforme e armonico. Nel cortile fa bella mostra una lapide funeraria romana, rinvenuta il secolo scorso durante i lavori nelle campagne. Camillo e suo figlio Giacomo ci raccontano com’è cambiata l’azienda negli ultimi decenni, con l’affiancamento della viticultura alla già avviata zootecnia. I Dal Verme nobili condottieri di origine veneta con parecchie discendenze. La vostra famiglia da quale ramo discende? «I Dal Verme sono originari di Verona. Successivamente si sono spostati nel milanese e da lì si sono nati diversi rami di discendenza. Noi discendiamo direttamente da quello di Milano». Possiamo dire che, fino ad un certo periodo, la storia di Torre degli Alberi va a pari passo con quella del Castello di Zavattarello? «Il castello di Zavattarello e Torre degli Alberi erano un’unica possessione. Successivamente mio nonno e suo fratello divisero la proprietà. I nostri cugini di Milano, nel 1975, cedettero il castello al comune. All’interno del castello di Zavattarello c’è una sezione interamente dedicata alla storia della famiglia Dal Verme». La tenuta è sempre stata abitata oppure avete dovuto effettuare operazioni di recupero? «Torre degli Alberi è sempre stata abitata. L’azienda agricola è nata parecchi anni fa, essendo circondata da terreno coltivabile. Gli immobili non hanno mai avuto biso-
Camillo e Giacomo Dal Verme gno di recuperi importanti, dato che con gli anni c’è stato un continuo lavoro di manutenzione ordinaria». Fino a qualche anno fa Torre degli Alberi era conosciuta principalmente come azienda zootecnica. Ultimamente avete introdotto anche la produzione di vini da uve biologiche. Come mai questa scelta? «L’azienda inizialmente era condotta a mezzadria ma col passare degli anni mio padre Luchino decise di prendere in mano la gestione dell’azienda, assumendo i mezzadri già presenti, destinandola all’avicoltura. Nei primi anni di allevamento le galline venivano allevate in libertà nei boschi, dato che non si conoscevano ancora le patologie dell’avicoltura. Si cercava di allevarle nell’ambiente più naturale possibile, dato che non venivano usati antibiotici e vaccini. Con l’evoluzione della scienza e della zootecnia si è arrivati ad avere allevamenti più intensivi ma allo stesso tempo più sani. L’azienda è biologica da sempre e nel 2009 abbiamo deciso di affiancare la viticultura alla già preesistente attività zootecnica, impiantando 4 ettari di Pinot Nero da destinare alla spumantizzazione. Abbiamo puntato da subito sul biologico, evitando l’utilizzo di diserbanti e prodotti di sintesi, lasciando il vigneto inerbito e utilizzando unicamente prodotti a base di rame e zolfo. La scelta di ampliare l’azienda al campo vitivinicolo è nata da diversi fattori: negli ultimi anni ci sono stati molti cambiamenti, dal clima ai gusti dei consumatori. Per questo abbiamo scelto di puntare da subito sulla qualità, optando per le bollicine». Organizzate visite guidate presso l’azienda? «Possiamo dire che noi non facciamo vere e proprie visite guidate. Organizziamo de-
gustazioni su prenotazione, all’interno di una nostra sala interna, per gruppi di dieci/ quindici persone. Il castello non è visitabile al pubblico perché la nostra abitazione privata. è nato come torre di avvistamento che collegava i diversi castelli e per questo motivo è una struttura sobria e spartana, che non vanta dipinti o affreschi, in quanto la residenza vera e propria della casata era a Zavattarello». Fate già rete con altre strutture simili o siete affiliati a qualche ente? «Come struttura non siamo affiliati a nes-
sun ente, ma come azienda agricola siamo affiliati alla Fivi (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti). Facciamo parte di “Vigneti e Natura in Oltrepò”, un progetto nato per tutelare le biodiversità nei vigneti». Specificatamente di cosa si tratta? «è un progetto, al quale aderiscono una quindicina di aziende in Oltrepò, nato con lo scopo di tutelare le biodiversità nei vigneti. Siccome bisogna ridurre i fitofarmaci usati in viticultura si sta cercando di studiare dei sistemi alternativi, per fare in modo che i vigneti possano autodifendersi. La soluzione è aumentare e tutelare le biodiversità presenti in un territorio. Il progetto si occupa di effettuare prove e sperimentazioni in determinate zone di ogni azienda, monitorando periodicamente il censimento di farfalle e uccelli presenti. Certamente qui da noi è più facile dedicarsi al biologico e alla biodiversità, dato che i nostri vigneti sono circondati da boschi e preservano al meglio l’habitat naturale delle specie indigene». Tornando al turismo, come vedreste un circuito di promozione dei castelli e delle dimore storiche dell’Oltrepò Pavese? «Come detto precedentemente presso la nostra struttura non è possibile organizzare visite turistiche guidate. Certamente, per come è strutturata la nostra azienda, sarebbe per noi più interessante un circuito che promuova generalmente l’enoturismo».
Il Castello Dal Verme di Torre degli Alberi
di Manuele Riccardi
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MUSICA
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«Essere un eterno emergente mi tiene con il pepe al culo»
Ha battezzato il suo progetto come l’azienda di famiglia e oggi si definisce “cantautonomo”. Ha avuto mentori illustri come Eros Ramazzoti e Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi, ed è recentemente approdato alla corte di Davide “Boosta” Dileo dei Subsonica. A leggere la sua biografia, tra dischi, premi e collaborazioni, il vogherese Gianluca Massaroni dovrebbe essere un artista affermato. Eppure, sarà che come dice Venditti “la musica promette regali che forse non ha”, nonostante i galloni guadagnati sul campo lotta ancora per smettere la casacca di “emergente”. Appellativo che però non disprezza, dato che come dice lui lo tiene «con il pepe al culo». “Rolling Pop”, il suo ultimo album, è uscito da poco più di due settimane per la prestigiosa etichetta Cramps Record/Sony e per “Massaroni Pianoforti” si tratta di una nuova avventura e sfida, da affrontare con la consapevolezza della maturità e la forza di chi ha sempre lottato imparando a rialzarsi dopo le delusioni. Gianluca, il suo ultimo disco vanta la produzione di un big della musica italiana, “Boosta” fondatore dei Subsonica. Com’è nata questa collaborazione? «Uscivo dalla mia terza raccolta fondi su Musicraiser per registrare il quarto album che fortunatamente si era conclusa con successo raggiungendo la cifra stabilita per entrare in studio di registrazione. Neanche un mese dopo su Instagram mi scrive privatamente Boosta (che non conoscevo personalmente ma solo a livello artistico coi Subsonica) dicendo che apprezza i miei lavori precedenti, che sta rilanciando l’etichetta storica della Cramps Records Sony e che vuole mettermi sotto contratto come primo artista. è nata così, con un messaggio inaspettato ma sempre inseguito». Eppure non è la prima volta che viene “scoperto” da un volto noto della musica italiana. Nel 2007, addirittura, la aveva contattata Ramazzotti. Com’era andata in quell’occasione? «Ramazzotti mi aveva ascoltato casualmente su radio DeeJay quando sono stato ospite di Alessio Bertallot nella sua trasmissione B-Side.
Nuovo disco prodotto da “Boosta” dei Subsonica. «Mi ha scritto in privato su Instagram»
«L’Oltrepò? Sono sempre stato a margine della scena locale»
Il vogherese Gianluca Massaroni
Mi ha messo sotto contratto per 5 anni e 3 Album distribuzione Sugar. Purtroppo le cose non sono andate così come mi aspettavo ma almeno nel 2009 è uscito il mio primo ed unico disco ufficiale prodotto da Eros “L’Amore Altrove Gianluca Massaroni” che non avendo avuto nessun tipo di promozione è finito nel dimenticatoio». Deve essere stata una delusione pesante. Come ha reagito? «Dopo questa esperienza amara ho solo fatto l’unica cosa che potevo fare per non finirci anch’io nel dimenticatoio ed è stata quella di rialzarmi, rimboccarmi le maniche e l’umore, darmi da fare ed incominciare a produrmi i dischi in maniera autonoma sul portale di Musicraiser. anche se poi comunque e fortunatamente sono stato supportato sia dalla BMG come editori sia dalla Universal come distribuzione». Dieci anni dopo come ha reagito alla nuova “chiamata”, diciamo, VIP? «(ride) Felice ma l’ho presa normalmente. Pensi che per l’Album “Non Date il Salame Ai Corvi” uscito nel 2013 il mio mentore e mecenate (oltre alle mie raccolte fondi autonome per registrarmi i dischi) è stato Giovanni Gulino dei “Marta Sui Tubi”». Insomma, la stima e l’appoggio di colleghi autorevoli non le è mai mancato. A proposito di autoproduzioni, lei è stato in Oltrepò un pioniere del crowdfunding, la raccolta fondi online di cui oggi in tantissimi si avvalgono. Che cosa le ha insegnato questa esperienza? «Questo autoprodurmi, anche se per molte persone esterne alla faccenda è stata una mia sconfitta, mi è servito per arrivare ad oggi a un’etichetta finalmente vera e spero duratura». “Rolling Pop”. Di cosa parla il nuovo disco e in che modo si differenzia da
quelli precedenti? «Nessuna differenza se non che in questo disco ho fatto pace con me stesso rispetto all’album precedente “Giù”, decisamente più sperimentale. Ora ho preso più consapevolezza della mia scrittura, della mia voce. Rolling Pop contiene 11 brani con la produzione artistica di Andrea Massaroni (mio fratello) e Davide “Boosta” Dileo. In questo lavoro racconto l’adolescenza con tutte le sue ombre e i suoi slanci, come se fosse lei stessa la protagonista di una storia d’amore, fino all’ultima traccia, manifesto definitivo di quando si perde, per poter finalmente crescere e guardare avanti. A questa adolescenza ho dato un nome e l’ho chiamata Jennifer». Trova che sia più difficile “arrivare” se si proviene da una realtà piccola come Voghera? «Battisti era di Poggio Bustone, Vasco è di Zocca... non mi voglio ovviamente paragonare a loro, ma non credo davvero che Voghera possa essere un deterrente per qualsiasi tipo di carriera si voglia intraprendere». In effetti, per essere come spesso viene definita, una cittadina-dormitorio di Provincia, ha dato i natali a numerosi artisti che hanno raggiunto fama o fatto comunque una carriera artistica importante: Valentino, Arbasino, Marco Forni, Eros Cristiani, Enzo Draghi, Alessandro Raina, Marco Rosson per citarne alcuni. C’è qualcosa nell’aria o è il “tedio a morte del vivere in provincia”? «Credo la seconda, ma poi c’è sempre uno stato d’animo soggettivo che ti porta a scrivere o a fare determinate scelte, no? Sicuramente meno hai distrazioni attorno e più ti concentri sul percorso che hai intrapreso. Certo è che la fortuna è
importante tanto quanto la determinazione che ci metti per raggiungere i tuoi scopi». Voghera, o l’Oltrepò in generale, ha anche però un rapporto spesso difficile con i suoi talenti. Senza scomodare la classica “nemo profeta in patria”, si può tranquillamente parlare di “cordiale indifferenza”. Com’è il suo rapporto con la terra natia? «Condivido sulla “cordiale indifferenza”, ma va bene così. A Voghera in fondo io ci torno perché ho la famiglia e un negozio di strumenti musicali dove mi sento a casa. A Pavia ci vivo da anni e ci sto davvero bene, ma non m’importa di essere o fare l’artista quando vado in giro o al bar a bermi qualche bicchiere (anche di troppo!). Ho un buon rapporto con la quotidianità cordiale e indifferente anche se poi quando scrivo o salgo sul palco ok lì le cose cambiano, dò tutto me stesso e pretendo amore incondizionato!». è tanto che non si esibisce a Voghera o dintorni. Come mai? «Mah! Non mi hanno più chiamato e poi non credo ci siano dei posti per fare un determinato tipo di musica che non sia liscio (che amo molto) o Karaoke (che qualcuno fa molto bene). Una volta all’anno però, vado volentieri all’Irish Pub di Salice Terme per suonarmi qualche canzone nuova da solo, durante il periodo natalizio». Che impressione le fa la scena musicale oltrepadana oggi? «Non la conosco, o meglio, non la frequento. Non so ma per un motivo o per l’altro ne sono sempre rimasto al di fuori. Posso raccontare un aneddoto divertente al proposito: quando in adolescenza ho cercato di farmi un gruppo chiamando i musicisti della zona per suonare con me, alla fine mi hanno fatto fuori loro! Ogni tanto in famiglia ci ricordiamo di tutti quelli che venivano a provare da me nel retro del negozio e che poi sparivano per l’eternità e niente, amorevolmente vengo preso ancora in giro per questo e ormai ci sorrido anch’io». Ora che “Boosta” è il suo produttore la vedremo sul palco dei Subsonica? «Al momento non mi è stato proposto. Spero però che il nuovo disco arrivi a un pubblico sufficiente per garantirmi di fare un po’ di live in giro per l’Italia». di Christian Draghi
ARTE & CULTURA
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Un thriller per superare gli scogli nella vita Diego Paraventi, residente a Rivanazzano Terme, a 38 anni si trova inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno, a rendere realtà il sogno che non ha mai dimenticato di avere sin da adolescente: scrivere un libro. La sua opera di debutto, “Amara gioia”, è un thriller votato all’introspezione che, tramite il vissuto di un giornalista di cronaca nera, indaga il comportamento dell’uomo di fronte ad un blocco interiore ed i metodi per superarlo. Diego, lei è scrittore di professione? «No, scrivo per passione. Da un anno a questa parte ho ottenuto il brevetto come istruttore federale di mountain bike e insegno per una squadra di Rivanazzano». Da grande appassionato di motociclismo qual è la sua opinione riguardo le prossime Olimpiadi di enduro, che si terranno l’anno prossimo, proprio qui in Oltrepò? «Di sicuro saranno una grande occasione per valorizzare il territorio; in generale il concetto di “due ruote” nella nostra zona si sta sempre più evolvendo e consolidando in vari ambiti: sono nate delle realtà come il noleggio di mountain bike e biciclette con pedalata assistita offerto dall’Irish Pub, per citare un esempio. Il motociclismo, l’enduro in particolare, è uno sport molto popolare in Oltrepò, e inoltre molte persone si sono avvicinate ad esso grazie ad iniziative come quella citata prima: sono convinto che un evento di così grande portata come la Sei Giorni garantirà un buon afflusso di appassionati e curiosi, con un conseguente movimento a vantaggio anche delle attività locali». Una critica che viene spesso mossa ai motociclisti è di non rispettare l’ambiente e di non prendersi cura dei percorsi su cui corrono. è vero? «Tra motociclisti e bikers, non c’è cosa che ci stia più a cuore del tenere puliti sentieri e strade secondarie. Quando uno decide di andare a farsi una passeggiata nel bosco, che sia inverno o estate, trova il sentiero in ordine quasi il cento per cento delle volte anche grazie a noi: è un aspetto, questo, che le persone non vedono; perciò, quelle poche volte in cui si ritrovano il tracciato sporco, la colpa viene data a noi. Ma parlo da costruttore e manutentore di percorsi: è nell’interesse di qualunque pilota di fuoristrada prendersi cura delle proprie piste e quindi del territorio». Ci spostiamo in ambito scrittura, la sua passione principale: come si intitola il libro? Sarà disponibile a breve? Ci può fare un riassunto della trama? «Il libro sarà disponibile online entro la prima metà di dicembre. Ho scelto un ossimoro per intitolarlo: “Amara gioia” racconta di un giornalista che scrive di cronaca nera per “Il Messaggero” di Roma e
Diego Paraventi si trova implicato in una serie di omicidi. Lui è un uomo con una sensibilità maggiore rispetto alla norma e per questo una vittima riesce a mettersi in contatto con lui tramite i sogni. Il giornalista inizierà a collaborare con la polizia per scovare questo fantomatico assassino che uccide sia nella realtà che nei sogni, ma proverà un senso, appunto, di amara gioia: se da un lato ha questa preziosissima dote di comunicare con la vittima, dall’altro ha perso la capacità di strutturare articoli di cronaca nera, va incontro ad una sorta di blocco dello scrittore. Non posso fornire troppi dettagli sul finale, dico solo che il nostro protagonista, alla fine, troverà la sua giusta collocazione». A che cosa si deve la nascita del romanzo? «La voglia di scrivere un libro mi è venuta grazie a un sogno che feci da ragazzino; da allora, pur non sapendo cosa volevo scrivere e cosa avrei scritto, non persi mai questa mia ambizione, finché un giorno ho presi carta e penna e dopo due anni eccoci qui, ad opera praticamente ultimata. Come incoraggiamento decisivo c’è stata la pubblicazione del giallo di Mirella Ferrari, che per molti anni ha lavorato al Nuovo Hotel Terme e proprio lì ha ambientato
il suo romanzo». Con questo libro lei ha voluto semplicemente narrare una vicenda o anche trasmettere un messaggio? «Scopo della mia storia è parlare a tutti coloro che, come il protagonista, si trovano ad affrontare un ostacolo, un blocco. Per superare tale punto morto, in qualunque ambito esso sia, è necessario compiere un lavoro su sé stessi e di conseguenza trovare la forza di andare avanti». Il protagonista la rispecchia? «Sì, come può rispecchiare chiunque altro: ognuno di noi può ritrovarsi in una situazione analoga a quella del nostro giornalista; è un personaggio nato per veicolare un pensiero e in cui è facile immedesimarsi. Non è di certo un mio alter ego: nel romanzo ci sono pochissimi riferimenti autobiografici, quasi zero». Il thriller è un genere complesso: può essere a tratti horror piuttosto che psicologico – nel suo caso lo definirei onirico, predilige una struttura a intreccio abbastanza contorta e per questo non è facile evitare buchi di trama o contraddizioni, tratta di tematiche forti. Consapevole di tutti questi problemi, perché l’ha scelto per il suo primo romanzo? «Non c’è un motivo vero e proprio: il mistero e le atmosfere noir mi hanno sempre affascinato, in più sapevo di voler trattare di argomenti forti, di conseguenza ho avuto molta disinvoltura nel sostenere il processo creativo. Certo, ho rivisto il manoscritto una volta terminato per rifinire quei particolari che non avevo curato, scrivendo di getto, nella prima stesura; ma non ho predisposto niente a tavolino: semplicemente, un giorno, ho messo nero su bianco il libro che sognavo di scrivere da tuta la vita». C’è un autore in particolare che le è stato o le è tutt’ora d’ispirazione? «Paulo Coelho senza ombra di dubbio; della sua produzione amo in particolare “I guerrieri della luce”, una raccolta di suoi
aforismi che consulto spesso e ogni volta mi rendo conto di trovarmi d’accordo con lui: è come se questo suo semplice libretto mi leggesse nella mente». In base alla sua esperienza, ritiene difficile pubblicare un libro da neofiti? «Non saprei dirlo con imparzialità, nel senso che io ho avuto anche molta fortuna perché tutte le case editrici a cui io ho proposto il mio romanzo mi hanno dato un riscontro positivo. Alla fine sono stato io a scegliere tramite quale casa editrice pubblicare – non il contrario, e ho usato principalmente un criterio economico: se pubblichi un libro per la prima volta, a meno che tu non abbia già un nome per altri motivi, ti devi autofinanziare. Il fatto che il mio libro sia piaciuto mi ha sicuramente avvantaggiato; se così non fosse stato di certo non mi sarei arreso, ma forse ci avrei messo molto di più a raggiungere l’obiettivo pubblicazione. Ovviamente la stesura in sé richiede tempo, energie, circostanze propedeutiche alla scrittura, ispirazione… e una volta completata, non è finita qui: si deve effettuare un minuzioso lavoro di editing in collaborazione con il personale fornito dalla casa editrice per correggere eventuali errori o ritoccare alcuni punti; se poi questi ritocchi non ti vanno a genio il processo si allunga per le modifiche – a cui corrispondono altrettante revisioni – che apporterai finché non sarai completamente soddisfatto. Comunque queste sono variabili estremamente soggettive. Mi sento quindi di dire che l’unica difficoltà oggettiva per una persona che inizia da zero, al di là dei gusti delle case editrici, sia il finanziamento». Avrebbe preferito iniziare prima la sua carriera di scrittore? «No, per niente. Se sei veramente convinto di voler fare qualcosa, il momento giusto prima o poi arriva, e sblocca le potenzialità latenti che ti permetteranno di portare avanti negli anni la tua passione: infatti io sono solo alla mia prima pubblicazione, ma in cantiere ho nuovi progetti già delineati con una certa precisione. Per me scrivere un libro è sempre stato un sogno: credo che i sognatori siano i motori di ricerca di questo mondo e io mi sento uno di loro. Ho sempre creduto con tutto me stesso in questo sogno senza mettermi fretta; e quando ho capito che era il momento di tradurlo in realtà, mi sono dato da fare per assecondare il flusso naturale delle cose e arrivare alla scrittura di questo libro, arricchito di idee e consapevolezze maturate nei miei 38 anni». di Cecilia Bardoni
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ARTE & CULTURA
NOVEMBRE 2019
Alla riscoperta e valorizzazione della cultura popolare La Compagnia Dialettale dell’Oratorio di Broni nasce il 5 gennaio del 1993, data del suo primo spettacolo. Si era in prossimità delle feste natalizie e dovendo allestire in oratorio uno spettacolo in occasione dell’Epifania si decise di chiedere aiuto a Lasarat, (al secolo Mario Salvaneschi) il quale, con grande entusiasmo, si mise a capo di un gruppetto di giovani e li aiutò a mettere in scena la pièce dal titolo “Il Capellone”. La prima si tenne in un teatro gremito in ogni ordine di posto e fu un successo straordinario ed inaspettato. Tutti credevano però che l’esperienza teatrale finisse lì… ma, quasi per caso, dopo pochi giorni arrivò da Don Valentino Arpesella, parroco di Pietra de’ Giorgi, l’invito per uno spettacolo in occasione della festa patronale di Sant’Antonio e il 17 gennaio la compagnia, guidata da Lasarat, recitò nell’ossario adiacente alla Chiesa parrocchiale. L’accoglienza della gente di Pietra de’ Giorgi, in quella serata gelida e densa di una fittissima nebbia, fu di un calore indimenticabile. Era il primo di una lunghissima serie di spettacoli rappresentati in tanti paesi dell’Oltrepò e della provincia di Pavia. Negli ultimi anni la Compagnia ha scelto di limitare le proprie rappresentazioni all’ambiente teatrale, in quanto gli allestimenti scenici sono andati di anno in anno facendosi più complessi e quindi di difficile adattamento a strutture diverse dal teatro. In preparazione il prossimo spettacolo, che andrà in scena a Dicembre 2019, dal titolo “Ponta chi un’altra cadrega”, rivisitazione in salsa bronese del musical “Aggiungi un posto a tavola”. Marco Rezzani, Presidente dell’Associazione Amici del Teatro Carbonetti, è uno dei fondatori della Compagnia Dialettale, gruppo che oggi è formato da 35 appassionati, tra attori e tecnici, di cui una dozzina sono ragazzi dagli 8 ai 12 anni, le nuove leve. Lo stile cui la Compagnia si rifà è quello del teatro di rivista con canzoni e musiche eseguite dal vivo e negli ultimi anni il gruppo si è cimentato con grandi capolavori della letteratura adattati al vernacolo e al contesto cittadino, in un percorso innovativo con cui la compagnia vuole dimostrare come il dialetto sia lingua viva e versatile. La compagnia, nel solco di una tradizione nata a Broni negli anni trenta, si pone come luogo di riscoperta e valorizzazione della cultura popolare, di quella storia “piccola”, che non comparirà sui libri di scuola, ma che è quella più vera ed autentica. Rezzani, come è nata la Compagnia Dialettale dell’Oratorio di Broni? Coltivate la vostra amicizia anche al di fuo-
Marco Rezzani, Presidente dell’Associazione Amici del Teatro Carbonetti, e uno dei fondatori della Compagnia Dialettale dell’Oratorio di Broni
ri del teatro? «Ci siamo conosciuti all’oratorio che molti di noi frequentavano. La Compagnia è prima di tutto una bella storia di amicizia condivisa anche al di fuori del teatro. E l’oratorio è stato il luogo cuore di tutto. E lo è ancora. Negli anni in molti si sono avvicinati alla Compagnia che è sempre voluta rimanere parte integrante dell’attività della Parrocchia e dell’oratorio». Qual è il vostro background artistico e di studio? «Direi che non si può parlare di un particolare background artistico. Siamo cresciuti nel solco della grande tradizione di teatro in vernacolo che è patrimonio di Broni, sin dagli anni trenta. E poi abbiamo avuto un grande maestro: Lasarat, al secolo Mario Salvaneschi, che da subito
ha creduto in questa esperienza e che ci ha sempre sostenuti con affetto. Lasarat è senza dubbio uno dei più grandi attori di teatro dialettale. Senza di lui nulla avremmo potuto fare e nulla potremmo fare. I percorsi professionali e di studio dei membri del gruppo sono davvero diversissimi. Ognuno porta la sua esperienza di cultura e di vita». Quali sono i requisiti necessari per entrare a far parte della Compagnia Dialettale? «Assolutamente non sono richiesti requisiti particolari, né tantomeno “provini” di ammissione. Una sola cosa è richiesta: la passione per il teatro e per il dialetto che è espressione di cultura, di amore per la propria terra e per le proprie radici, senza le quali non pensiamo di poter avere
futuro. E poi la voglia di stare insieme, perché in tutti questi anni la Compagnia è stata ed è un luogo di socializzazione, di incontro, di relazione». Tra gli attori della vostra Compagnia anche tanti bambini. Come siete riusciti ad avvicinarli a questo mondo? «Quello dei bambini, me lo lasci dire, è il capitolo più bello. Infatti, da qualche anno, sono entrati a far parte della compagnia undici bambini e ragazzi, dagli otto ai tredici anni: sono bravissimi, hanno imparato il dialetto con qualche iniziale difficoltà. La “u” lombarda, la “o” chiusa, tipicamente bronese, l’uso di parole nate qui, con suoni che rimandano alla parlata longobarda e al tedesco portato da antichi occupanti, non sono loro abituali! Non lo è neppure per gli adulti, onestamente, perché si deve risalire al modo di esprimersi dei nostri bisnonni, agli scritti di Dominione e di Cremaschi e tanto tempo è ormai passato: la lingua si è trasformata. I nostri giovanissimi attori, che il pubblico ha imparato a conoscere ed apprezzare, rappresentano uno sguardo proiettato verso il futuro. Ci preme soprattutto sottolineare il loro “stare insieme” in amicizia, questa è una bella testimonianza per tutta la comunità bronese. Mi permetta di citare i loro nomi perché lo meritano: Alessandro Bardoni, Maria Bardoni, Chiara Bonini, Elisa Brambilla, Sofia Brambilla, Giacomo Cavanna, Sofia Cavanna, Giacomo De Alberti, Vittoria Nervi, Andrea Rezzani, Eleonora Zucconi». Recitare in dialetto: come lo avete imparato? Studio o semplicemente una tradizione ben tramandata in famiglia? «Non abbiamo compiuto studi particolari. C’è chi lo parla in casa, magari tra amici e chi pian piano lo ha perfezionato». Dove prendete ispirazione per i vostri personaggi? «è la vita di ogni giorno, di questa nostra terra così bella e ricca. Vizi e virtù che accomunano tutti. Dall’anno della sua fondazione la Compagnia ha sempre proposto un nuovo lavoro: dopo “Il Capellone”, nel 1994 è stata la volta di “Ragò ad pel d’inguri”, nel 1995 di “L’è no sempar festa”, nel 1996 di “Sarac & Champagne”, nel 1997 di “Sum furtunà me i can in cesa”, nel 1998 di “As l’è no supa, l’è pan bagnà”, nel 1999 di “L’ha fat un ov fora dla cavagna”, nel 2002 di “Al malà dal pugnatei”, nel 2003 di “Avanti Savoia”, nel 2004-2005 di “Al pais di du campanei”, nel 2006 della “Locandiera, bellezza d’Oltrepò”, nel 2007 della “Bisbetica Domata”, nel 2008 de “I Promessi Sposi”, nel 2009 de “I tre o quattro moschettieri”,
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La Compagnia Dialettale dell’Oratorio di Broni nasce il 5 gennaio del 1993
nel 2010 delle “Smanie per la villeggiatura e ritorno”, nel 2011 de “Il mistero di Ulisse: da Itaca a Broni”, nel 2012 de “Al ladar simpatic” e nel 2013 “Donzella al balcone tra sogno e illusione”. Nel 2014 la “Vedova Allegra” è diventata “Una vidua da spusà in un mond dasbirulà”. Nel 2015 è stata la volta di un remake della “Locandiera, bellezza bronese”, mentre nel 2016 Peppone e Don Camillo di casa nostra sono stati protagonisti di “Un previ un po’ special, mei perdal che trual”. Nel 2017 le vicende di Bertoldo hanno preso la scena con “Brut me la not, furb me un gat” e nel 2018 il protagonista è stato Gulliver con “Un piccolo uomo con
grandi sogni”, nel 2019 “Ponta chi un’altra cadrega”, rivisitazione in salsa bronese del musical “Aggiungi un posto a tavola”. E nel 2020 sarà la volta di “Mary Poppins”!». Dove si svolgono le prove, e dove vi esibite? «Le prove si svolgono nel teatro dell’oratorio, una bella struttura capace di contenere 300 persone. Per quanto riguarda le rappresentazioni, la prima si svolge nel teatro dell’oratorio, ma ci esibiamo anche al teatro Carbonetti, il teatro della città. Negli ultimi anni la Compagnia ha scelto di limitare le proprie rappresentazioni all’ambiente teatrale, in quanto gli allestimenti scenici sono andati di anno in anno
facendosi più complessi e quindi di difficile adattamento a strutture diverse dal teatro». La compagnia è formata da attori che sono quelli che vediamo sul palco ma chi lavora dietro le quinte? Costumi scenografia e via dicendo… «Il lavoro dietro alle quinte è altrettanto importante, addirittura lo è forse di più di quello degli attori. C’è chi realizza i costumi a mano, chi cura le scenografie (il maestro Augusto Corbellini da Broni), i tecnici di scena. Tutti volontari, come gli attori peraltro. Uomini e donne che dedicano parte del loro tempo alla comunità». Quanto tempo occorre per mettere in scena uno spettacolo?
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«Di solito alla fine dell’anno ci si ritrova per una prima lettura del copione. Con l’inizio del nuovo anno, all’incirca una volta a settimana, si svolgono le prove. A maggio le prime rappresentazioni, poi in autunno eventuali repliche. Quindi per mettere in scena uno spettacolo ci vogliono all’incirca sei mesi. Senza dimenticare però il grande e impegnativo lavoro di scrittura del testo che è svolto dalla nostra regista Milena Sacchi». Prendete spunto per le vostre rivisitazioni da qualche “personaggio” di Broni? «In tutte le nostre riviste c’è sempre un forte richiamo al locale. Innanzitutto alle vie, ai quartieri, alle frazioni del nostro paese. E poi anche a qualche personaggio… può essere il sacrista, il vigile, il sindaco, qualche figura particolare di Broni… Sempre nello stile della satira bonaria e affettuosa che ci contraddistingue». L’amministrazione comunale ha dimostrato in questi anni, di puntare molto sulla cultura. Qual è la vostra esperienza? «L’Amministrazione comunale da sempre ci sostiene in modo convinto e sincero. E, a testimonianza di questa vicinanza, nel 2014 la Compagnia è stata insignita della benemerenza civica di San Contardo per il suo ultra ventennale ruolo culturale e sociale a servizio della città e per aver tenuto in vita la tradizione teatrale. è per noi motivo di orgoglio. Economicamente come vi sostenete? «Non abbiamo sponsor o meglio ne abbiamo uno che non smette mai di sostenerci e di sorprenderci: il nostro pubblico. La Compagnia si finanzia con le offerte che il pubblico fa all’ingresso quando viene ad assistere agli spettacoli e poi l’attività della Compagnia rientra tra quelle della Parrocchia di Broni che, in base alle necessità, provvede alle piccole spese che di volta in volta si presentano». di Federica Croce
SPORT
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«Le colline d’Oltrepò ideali per il Triathlon» Le colline della Valle Staffora sono un palcoscenico ideale anche per uno sport di nicchia come il Triathlon, la disciplina che combina nuoto, ciclismo e corsa. La Asd Staffora Triathlon, società dilettantistica nata nel 2009, ne ha fatto territorio d’allenamento per quanto riguarda bici e corsa, mentre per il nuoto si appoggia alla piscina di Casteggio. Uno sport che richiede grande sforzo e sacrificio e porta a sfide importanti ed estremamente impegnative dal punto di vista fisico, come nuotare lungo il Po per 22 km, gestendo le correnti e le proprie energie. Dire che il Triathlon non è alla portata di tutti suona forse eufemistico. La storia recente della società, che ha sede a Godiasco Salice Terme, è anche la storia di un’amicizia tra i suoi componenti, guidati dal presidente Danilo Sparpaglioni, 59 anni di professione geometra. Sparpaglioni si può considerare il pioniere della disciplina in Oltrepò Pavese e atleta con diversi anni di esperienza: nel suo curriculum, infatti, annovera successi importanti, come la traversata dello Stretto di Gibilterra e le Isole Eolie a nuoto in solitaria. Insieme a lui Marco Zucchi, 28enne arbitro di calcio, istruttore di nuoto presso la piscina Aquaviva di Voghera ed allenatore di pallanuoto presso la piscina di Casteggio. Per la prima volta i due hanno affrontato una nuova ed entusiasmante esperienza sportiva. Il 15 Settembre si è svolta a Casalmaggiore la “discesa in Po”, percorso effettuato a piedi, in bici e a nuoto da Casalmaggiore a Viadana, su una distanza di circa 16 km. Il tragitto dei “Caimani del Po” è durato 2 ore e 12 minuti, comprese due piccole soste in acqua di un’ora, per i rifornimenti necessari di integratori. I due atleti hanno affrontato le acque dell’immenso fiume, seguiti da un gruppo di canottieri del circolo Eridania, che gli hanno indicato, nel percorso, la traiettoria delle correnti, inoltre Sparpaglioni e Zucchi, insieme a Marco Sinigaglia, nel mese di Ottobre hanno portato a termine una gara di 22 km a nuoto sul fiume Po, a San Daniele. Sparpaglioni, quando si è avvicinato alla pratica del Triathlon e quali sono le caratteristiche di questa disciplina? «Ho iniziato questo Sport alla fine degli anni 80, quando incontrai un gruppo di ragazze di San Francisco che praticavano da tempo il Triathlon… da allora è nata la curiosità. Cominciavano ad uscire le prime riviste del settore “Triathlete” che ci facevano conoscere gli atleti americani del calibro di Dave Scott, Mark Allen, Scott Tinley, Scott Molina e l’italiano Danilo Palmucci. Ai tempi io e i miei compagni siamo stati dei veri esploratori e pionieri di questa nuova disciplina, che abbiamo scelto di praticare per la “completezza at-
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Staffora Triathlon: da sinistra Galeazzi, Coleottero Zuccarelli, Arbasino, Sparpaglioni
letica” che la caratterizza e per il fattore legato alla “personalità” che ha visto ciascuno di noi mettersi in gioco con se stesso. Il Triathlon di oggi in Italia non ha più quelle caratteristiche, sia come disciplina che come atleti». Riguardo alla “Discesa in Po”, gara che si è svolta a Casalmaggiore a settembre: quali sono stati i momenti più adrenalinici ed emozionanti? Danilo Sparpaglioni: «è stato tutto emozionante, in particolare seguire la corrente del grande fiume». Marco Zucchi: «Il momento più adrenalinico è stato senza dubbio l’ingresso in acqua e la sensazione di spinta data dalla corrente del fiume. Non si trattava di una gara, quanto più una discesa sportiva dove la sfida era principalmente con se stessi piuttosto che con gli altri nuotatori». Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato durante il percorso? «Il passaggio a nuoto sotto i ponti ed alcuni tratti di 4/5 km dove non vi era alcuna corrente e gli improvvisi cambi di corrente da seguire, che impegnavano la bracciata più del solito». Per chi si approccia per la prima volta a questa disciplina quali sono i requisiti fondamentali richiesti? «Prima di nuotare in Po e su questa distanza va detto che bisogna saper nuotare bene in mare aperto in qualsiasi condizione, è necessario un allenamento di fondo a 10.000 metri. Aver praticato parecchio in mare su lunghe distanze, aiuta a resistere ai tratti di cambiamento della corrente. Per i motivi indicati, in vari punti specifici del percorso, abbiamo nuotato in modo trasversale rispetto al fiume». Che preparazione richiede, a livello tecnico, uno sport come il Triathlon?
«Tanta passione, pratica della ginnastica a corpo libero e del ciclismo, allenamento di pallanuoto». Si parla spesso dei rischi legati al fiume, in particolare dei mulinelli. Vi sentite di sfatare questo mito? Danilo Sparpaglioni: «Ho nuotato per due volte su una lunghezza di 38 km in Po, senza mai incontrare mulinelli. è solo la corrente a ridosso dell’argine che dà quest’impressione. Rispetto al nuoto in mare, quello nel fiume è completamente diverso , sia dal punto di vista fisiologico che muscolare, in quanto la bracciata che entra per prendere l’acqua riceve la spinta della corrente stessa, fatto che in piscina ed in mare non avviene. Le sensazioni sono più belle, si ha un magnifico rapporto tra acqua e terra. Dando la bracciata si scorge la Riva del fiume che rimane indietro…insomma, un’esperienza sicuramente da ripetere. In questi ultimi 30 anni c’è stato un bombardamento mediatico negativo riguardo al nuoto in Po. Si pensi che dagli anni ’40 in avanti, a Piacenza vigeva l’obbligo, per tutti i bambini e genitori, di attraversare il Fiume a nuoto». Marco Zucchi: «Molti mi hanno chiesto un parere riguardo ai mulinelli e alla loro pericolosità. Sono certo che la maggior parte di quelli che citano questo fenomeno in realtà parlino per sentito dire più che per esperienza diretta, quindi in assoluto mi sento di sfatare questo mito». Quali sono le aree che, in Oltrepò, si prestano alla pratica del Triathlon? «Le aree per praticare Triathlon comprendono le colline dalla Valle Staffora, Val Curone e Val Borbera, con le proprie salite ed i propri paesaggi». Quali gare avete disputato in passato e
quali le prossime in programma? Danilo Sparpaglioni: «Le gare disputate in passato sono state tante. In Italia parecchie; all’estero le più rappresentative sono state: Ironman (Francia, Austria, Svizzera), Triathlon America ( Alcatraz, Sacramento Triathlon, San Francisco Bay Bridge ), Triathlon Francia ( Alpe D’Huez, Lungo Mont Ventoux, Lungo Cannes, Lungo Marsiglia, Lungo del Verdon )». Marco Zucchi: «Non ho mai fatto gare di Triathlon. Avrò la prima il 15 dicembre ad Antibes. Sono emozionato e curioso, penso che la difficoltà più grande sarà rispettare le regole e gestire le sensazioni del corpo durante la gara». Come vedete proiettato questo sport a livello locale e nazionale? «è uno sport di nicchia, perché poca gente vuole mettersi in gioco fuori dai soliti schemi di gara». Sparpaglioni da quanti membri è composto il team? «La Squadra è composta da Gianni Alterni, Riccardo Coleottero Zuccarelli, Saverio e Tommaso Zefilippo, Marco Zucchi, Leonardo Galeazzi, Andrea Tani, Fausto Crosina, Raffaele Buscone. La Società in questi ultimi cinque anni si è ampliata con la creazione di una sezione ciclisti agonisti di cui fanno parte, oltre a me, Flavio Amicucci, Raffaele Buscone, Maurizio Berruti, Fausto Crosina, Leonardo Galeazzi, Fabrizio Pellizzoni, Andrea Tani, Stefano Schiavi». La “Staffora Triathlon” è di Godiasco; avete iscritti anche in altre parti del territorio? «Sì, abbiamo iscritti residenti a Novi Ligure e a Milano». di Federica Croce
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NOVEMBRE 2019
Un vogherese protagonista ai mondiali di Para Rafting
Marco Montagna, 52 anni, vogherese, dipendente di ASM Voghera, è stato protagonista con la sua squadra ai campionati mondiali di Para Rafting che si sono tenuti a Settembre a Kiev, in Ucraina. Iscritto al Club “Movimento & Natura” di Volpiano, Montagna si è avvicinato al Para Rafting per puro caso, spinto da un amico che già praticava questo Sport, così adrenalinico ma al tempo stesso rigenerante grazie al contatto diretto con la natura. I risultati sono stati ottimi fin dall’inizio, e nell’ultima manifestazione iridata ha portato la Nazionale italiana alla conquista della medaglia d’oro nella categoria slalom, dell’argento nella gara a due gommoni e del bronzo nella discesa lunga. Montagna, quando ha iniziato a praticare Para Rafting? «Mi sono avvicinato al Para Rafting da circa 8 mesi grazie a un amico, che già si allenava da tanto. Provando ho visto che mi piaceva e così ad agosto ho superato la selezione per i Campionati Mondiali di Kiev, portando la bandiera italiana in Ucraina». Cosa l’ha spinta ad avvicinarsi a questo sport, avventuriero e rischioso? è stata in qualche modo una sfida contro l’incidente motociclistico che l’ha colpita 20 anni fa, causandole la perdita della gamba sinistra? «No. Ho deciso di avvicinarmi a questo sport per motivi puramente medici. Sono sempre stato uno sportivo: in passato ho praticato atletica leggera a livello agonistico, quindi il Rafting è stato semplicemente un seguito. La pratica dell’Atletica mi ha aiutato a gestire lo stress psicologico antecedente alla gara e a mantenere la concentrazione». Dagli inizi ad oggi. Come si arriva a far parte della Nazionale Italiana? «è necessario partecipare a tutti i raduni, impegnarsi e portare avanti gli allenamenti. Inizialmente è importante affidarsi alla guida dei tecnici; solo successivamente si può procedere in parziale autonomia nell’apprendimento delle dinamiche di movimento nel fiume… ci tengo a ricordare che la conoscenza di questo sport richiede un po’ di tempo… i rischi da fronteggiare durante una gara sono tanti, soprattutto per quanto riguarda l’andamento del percorso». In che territorio effettuate le esercitazioni e le gare? «Io sono iscritto al Club “Movimento & Natura” di Volpiano, per cui gli allenamenti principali si svolgono sulla Dorea Baltea. L’ultima gara in Italia l’abbiamo svolta sul fiume Brenta, caratterizzato da un percorso di slalom fisso abbastanza impegnativo». Non esistono in Oltrepò associazioni di Para Rafting? «No, la più vicina è a Vigevano, in un circuito attrezzato collocato all’uscita di una centrale elettrica dell’Enel, sul fiume Ticino». A suo giudizio l’Oltrepò ha o non ha i requisiti per dare spazio a questa
Marco Montagna, atleta Pararafting
tipologia di sport? «Penso che, se fosse navigabile, il torrente Staffora potrebbe offrire una buona attrattiva. Anche il Po potrebbe essere adatto, anche se nella zona dell’Oltrepò è molto piatto». Quanto tempo della sua vita occupa la pratica di questo sport, tra allenamenti e gare? «Dovendo far fronte alla gestione della vita lavorativa e familiare, non rimane molto tempo... diciamo che svolgiamo quasi tutti gli allenamenti nel weekend. In questo sport la teoria viaggia di pari passo con la pratica. Durante le esercitazioni siamo assistiti dai tecnici, che possono accompagnarci in gommone o semplicemente assisterci, dividendo l’equipaggio». L’ultima sfida sono stati i i campionati a Kiev. Com’è stato sfidare i Russi? «I Russi sono veramente forti. Tra loro c’era anche il campione mondiale di Para Canoa. La loro competenza in materia si è vista durante la prima gara della discesa lunga, in cui la mia squadra è stata penalizzata per le posizioni di seduta sul gommone. Questo ci ha causato un distacco di 50 secondi. La Medaglia D’Oro l’abbiamo ottenuta il giorno della gara durante le prove di slalom, dopo aver attuato gli accorgimenti necessari». Quali gare ha disputato in passato e che titoli ha vinto? Quali le prossime in
programma? «Ho partecipato ai Campionati Nazionali Italiani e a quelli mondiali a Kiev. Mi sto preparando per la gara sull’Adige, successivamente ne avrò una nei pressi di Vicenza». Sport e disabilità: diversi gli esempi di grandi campioni, Zanardi per citarne uno, che hanno fatto della loro disabilità un punto di forza, diventando per tutti un grande esempio di volontà e tenacia. Quanto conta la “voglia” di farcela?
«Nello sport si cerca il riscatto… la disabilità in Italia viene vissuta come una colpa, invece è un fatto che purtroppo può accadere a chiunque. Gli sguardi della gente in questi ultimi vent’anni sono cambiati, non c’è più la discriminazione di una volta. Mi preme comunque ricordare che l’uso della protesi non ti rende invincibile, per raggiungere ottimi risultati si rende comunque necessario impegnarsi nello sport il doppio di un atleta comune». di Federica Croce
Nazionale azzurra di Para Raft della Federazione Italiana Rafting a Kiev
MOTORI - CAMPIONATO ITALIANO RALLY
il Periodico News
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A Verona brilla Scattolon Sottotono Nicelli
Giacomo Scattolon
Scattolon brilla in una gara in cui Andrea Crugnola e Pietro Elia Ometto, su Volkswagen Polo R5, si aggiudicano il 37°Rally Due Valli rimescolando maggiormente le carte nella corsa al titolo tricolore, apertissima, con ancora quattro piloti Crugnola, appunto, e poi Basso, Campedelli e Rossetti in grado di aggiudicarsi lo scudetto quando al termine manca solamente una gara su terra, il Tuscan Rewind. In tutto questo rimescolamento c’é invece l’ennesima nota positiva targata Oltrepò, quel “Do maggiore (ovvere dò di più)” suonata dal vogherese Giacomo Scattolon che chiude la gara veronese al sesto posto assoluto nella classifica di una gara che ha visto tutti i migliori specialisti nazionali, di cui, molti portacolori di Team Ufficiali, contendersi il successo finale. Scattolon, in coppia con Matteo Nobili sulla Hyundai I20 NG R5, si é battuto fin da subito all’interno della top ten assoluta, avvicinandosi gradatamente nella seconda fase di gara alla prestigiosa top five, traguardo per pochi. Il driver vogherese, portacolori del Road Runner Team, ha dimostrato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, di essere il miglior talento pavese impegnato in gare di grande rilievo. Un risultato il suo, che riempie di contentezza, oltre allo stesso pilota, anche tutti i suoi fans i quali auspicano che presto possa arrivare un grande supporter che permetta a Scattolon (già ex campione italiano Rally Junior) di spiccare quel volo nell’olimpo tricolore che da tempo merita. Stranamente giù di tono invece lo stradellino Davide Nicelli che dal Rally Due Valli esce un po’ deluso. Ora é chiamato a fare miracoli su di un fondo a lui non congeniale, la terra del Tuscan, per sperare ancora nella conquista del trofeo Peugeot. Navigato da Alessandro Mattioda, sulla Peugeot 208 R2 del Team Bianchi, ha provato a racimolare qualche punto prezioso per il trofeo della Casa del Leone, ma alla fine ha raccolto solo un quarto posto nel monomarca e un secondo tra le due ruote motrici, con quest’ultimo
L’Equipaggio Scattolon-Nobili
titolo ormai vinto dall’ufficiale Peugeot Ciuffi. Molto lucidamente, di questa mezza débàcle Nicelli rimprovera se stesso: «È stato un week end in cui tutto ha funzionato al top tranne il sottoscritto – ha detto il driver stradellino - , che purtroppo sono stato veloce solo su alcune prove ma mai incisivo per stare con i primi. Peccato perchè avevamo preparato bene la gara e c’era la possibilità di ottenere un buon risultato utilissimo in ottica campionato, invece ora siamo costretti a rincorre i no-
stri principali rivali Griso e Guglielmini. Sono deluso e rammaricato con me stesso perché ho disputato una gara molto al di sotto delle mie potenzialità. Ora devo trovare la giusta concentrazione in vista del Tuscan, l’ultima gara di campionato tutta su fondo sterrato dove saremo obbligati a fare una super gara se vorremo provare a giocarci il trofeo Peugeot e un posto da ufficiale Peugeot per il 2020». di Piero Ventura
La Peugeot 208 R2 di Nicelli-Mattioda
Davide Nicelli
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MOTORI - RALLY DAY
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Il ritorno di Brega - Zanini, i piloti oltrepadani dominano al Timorasso Gli oltrepadani Massimo Brega e Paolo Zanini si impongono nell’edizione 2019 del Rally Race Terre del Timorasso Derthona, organizzato dal VM Motor Team in collaborazione con la Pro Rally 2001. L’Equipaggio portacolori della Scuderia Piloti Oltrepò di Voghera, a bordo di una Hyundai i20 R5, passato al comando sulla seconda prova in programma, da quel momento in poi, ha dominato la gara, mantenendo la leadership della competizione senza che nessuno potesse mai insidiarla seriamente. A Paolo Zanini, è andato anche il Memorial Massimo Concaro, dedicato al ricordo dell’indimenticato navigatore locale. Sfogliando gli annali, appare curiosa la storia dei componenti l’Equipaggio vincente. Infatti, i due, dopo 16 anni di bellissime imprese, sono stati lontani l’un l’altro per ben 11 anni prima di ritrovarsi a dividere l’abitacolo di una vettura da gara. Il binomio Brega-Zanini é nato infatti nel 1992 con il 2° posto al Rally del Bormida a cui ha fatto seguire la vittoria ai monti savonesi ed il 3° posto al Maremma sempre dello stesso anno. Assieme fino al rally Valle d’Aosta 2008, hanno disputato 53 gare vincendone 9, ottenendo 6 secondi posti e 2 terzi. Quest’anno l’Equipaggio é tornato a comporsi e dopo un paio di piazzamenti eccoli salire nuovamente sul gradino più alto del podio davanti alla Skoda di Mezzogori e l’altra Hyundai di Riccio. Da sottolineare l’ottimo ottavo posto assoluto e primo per la Classe Super 1600, del driver di Rivanazzano Terme Giordano Barberis Mattia navigato sulla Clio dalla brava Giulia Risso con a quale ha ottenuto il miglior risultato stagionale.
Andrea “Tigo” Salviotti
è durata invece pochissimo la gara di Michele Tagliani e Claudia Musti autori di un “lungo” sulla prova speciali di Monleale, la seconda in programma, fermando la loro corsa contro un muro di recinzione. La vittoria tra le due ruote motrici è andata a “Iceman”- Malvermi, su Renault Clio R3C della Media Rally e Promotion, mentre il Trofeo Corri con Caki é andato a Romano - Pozzi vincitori in N2. Il Rally Race Terre del Timorasso, caratterizzato da un cielo grigio, che a tratti ha lasciato cadere qualche goccia di pioggia, è stato una competizione selettiva, che ha messo alla prova gli equipaggi ed i mezzi meccanici impegnati sia per il successo assoluto che in quello delle classi di appartenenza, in cui gli oltrapadani anche lì hanno ben figurato. Detto della vittoria di Barberis - Risso in Super 1600, la classe RS1.6-P é stata ampiamente dominata da Andrea “Tigo” Salviotti e Susy Ghisoni a bordo della Suzuki Swift nei colori della
La Hyundai i20 R di Brega-Zanini (Diessephoto)
Salviotti-Ghisoni (Diessephoto)
Efferre Motorsport di Romagnese i quali hanno preceduto i conterranei Fabiano Avogadri e Luigi Bariani su di una vettura gemella per i colori della VM Motorsport relegando, per 4”3, sul terzo gradino del podio la brava Claudia Spagnolo alle note di Stefano Ciotti sulla Peugeot 106. Altra vittoria per la Scuderia Piloti Oltrepò, giunge grazie a Paolo Burgazzoli e
Giorgia Pertosa che con la Citroen C2 si aggiudicano la classe RS1.6. Infine, terzo e quarto posto per la Scuderia Efferre nella classe N3, grazie a Max Nussio e Valentina Nespoli (Clio) e Antonio Madama con Giuseppe Sboarina su di una vettura gemella. di Piero Ventura
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Con Musti e Ghezzi, la Scuderia Piloti Oltrepò fa man bassa “Al Rally Race Terre del Timorasso Derthona” per auto moderne, é stata inoltre affiancata l’omonima gara riservata alle auto storiche, per la gioia dei tantissimi appassionati di un territorio da sempre protagonista dello sport motoristico dalle antiche tradizioni. Come per il rally moderno, ad aggiungere ulteriori spunti di interesse all’evento c’é stata la prova speciale di apertura allestita in notturna all’interno del Motodromo di Castelletto di Branduzzo, che ha permesso al pubblico di assistere comodamente ed in tutta sicurezza ad una bella serata di Rally.
Ghezzi-Benenti secondi classificati
Fino dai primi metri, questa gara, riservata alle auto storiche da rally, ha avuto un solo dominatore, rimasto al comando dalla prima all’ultima prova speciale: Matteo Musti su Porsche 911. Il vogherese della Scuderia Piloti Oltrepò (SPO), in coppia con Claudio Biglieri sulla Porsche 911 by Ova Corse, non ha avuto rivali nella due giorni tortonese, precedendo sotto la bandiera a scacchi l’altra Porsche 911della Scuderia Piloti Oltrepò condotta da Alessandro Ghezzi e Agostino Benenti a 1’52”. Inutile raccontare la gioia del presidente del sodalizio vogherese, Giuseppe Fiori, per il pregevole en plein ottenuto dai suoi Equipaggi che hanno primeggiato sia nel rally moderno che in quello storico. Sul terzo gradino del podio, staccati di 2’38” sono saliti Maurizio e Marco Torlasco con l’Opel Kadett GT/E con i colori della Pro Rally 2011. Poca fortuna invece per gli altri portacolori della Scuderia Piloti Oltrepò: Giorgio e Marco Verri in gara con la Fiat Uno. L’Equipaggio di Pietra de’ Giorgi é stato costretto al ritiro per noie al cambio sulla ps 4, quando occupava la sesta posizione. Un poco deluso per l’occasione mancata é Marco Verri il quale ha così commentato: «Purtroppo si è rotto il selettore delle marce nel cambio. Peccato perché sulla Monleale, abbiamo staccato un buon tem-
po nonostante le gomme non erano in temperatura, mentre sulla Grondona non abbiamo preso rischi perché si scivolava parecchio. Ci rifaremo sicuramente al Monti Savonesi». Sfortuna anche per la scuderia Efferre di Romagnese i cui portacolori PaganiniRazza con l’Opel Ascona sono stati costretti al ritiro a due prove dal termine quando avevano il piede sul podio di Raggruppamento. Tornando ai vincitori, se puntare su Matteo Musti é puntare su di un cavallo vincente, non da meno é farlo su Claudio Biglieri il quale, nelle ultime 4 gare disputate, ha centrato 3 vittorie assolute con tre driver differenti: Rally di Salsomaggiore al fianco di Beniamino Lo Presti, Rally Valtellina leggendo le note a Ermanno Sordi e ora con Matteo Musti alle Terre del Timorasso.
La Porsche di Musti-Biglieri
di Piero Ventura La Fiat Uno di Verri-Verri
Al Rally Storico Aci Como bene gli oltrepadani In uno scenario da favola, tra un bagno di folla e condizioni meteo ideali, si é disputato il 38° Rally Trofeo Aci Como: 197 Equipaggi tra partecipanti alla Finale Aci Sport, al Campionato Wrc, e al rally Storico sono scesi dal palco di Piazza Cavour per dirigersi verso il Triangolo Lariano per affrontare le prove speciali in programma. A far da mossieri alla partenza con il presidente di Aci Como, Enrico Gelpi, due grandi atleti: Arianna Noseda campionessa mondiale di canottaggio e il motociclista dakariano Jacopo Cerutti, pluricampione italiano motorally. In questo record di iscritti la nostra attenzione va però al Rally Storico in cui erano impegnati Equipaggi oltrepadani che ben hanno figurato. Sul podio del terzo Rally Storico Aci Como sono saliti tre Equipaggi che si sono dati battaglia
per tutta la gara: in testa sin dall’avvio i locali Paolo e Aurelio Corbellini (Ford Sierra 4x4) che vincono precedendo due Equipaggi del nostro Oltrepò; i portacolori della Scuderia Piloti Oltrepò, Beniamino Lo Presti, navigato per l’occasione dal vogherese Paolo Zanini sulla Porsche 911 by Ova Corse (quest’ultimo, vincitore al fianco di Brega del recente Rally Race per vetture moderne), mentre ad occupare il terzo gradino sale un altro Equipaggio targato Oltrepò, quello composto dai vogheresi Ermanno Sordi e Claudio Biglieri, anch’essi su Porsche 911 by Pentacar. Anche in questo caso, ricordiamo che Claudio Biglieri é stato recente vincitore al fianco di Matteo Musti del Rally Race storico). di Piero Ventura
Da sx Zanini, Lo Presti, Biglieri, Paolo e Aurelio Corbellini, Sordi
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Va ai vogheresi Rancati - Ercolani la “10 Ore delle Valli Piacentine” Novanta Equipaggi giunti da Emilia, Lombardia, Liguria, ma anche dalla Svizzera, hanno dato vita alla seconda edizione della “10 Ore delle Valli Piacentine”, organizzata da C.P.A.E. per rievocare lo storico “Rally delle valli piacentine”. Parliamo di quel “Rally delle Valli Piacentine”, una delle gare più importati del panorama europeo tanto da vedere ben 314 Equipaggi iscritti all’edizione 1978: per questa rievocazione, giunta, come detto, alla seconda edizione, il percorso, di circa 160 chilometri, ha rispecchiato punti salienti dell’epoca e si é snoda lungo le valli appenniniche ripercorrendo strade e passi dove grandi piloti, da Bacchelli a Cambiaghi, da Tony a Verini, da Pregliasco a Vudafieri, intrecciarono sfide entrate nella storia del motorismo sportivo. Dopo la partenza in mattinata dal Pubblico Passeggio, la carovana ha fatto rotta verso Rivergaro per affrontare la prova del “Bagnolo”. Poi via per Pontedellolio, Bettola, Passo Cerro e Perino, prima della sosta a Bobbio. A seguire, altri nomi magici quali Coli, Pradovera e Farini, e ancora Bettola per chiudere, dopo 24 prove di precisione a Piacenza in Piazza Cavalli. Alla gara erano ammesse vetture storiche classiche e una quarantina di interessantissime vetture storiche in configurazione Rally. Auto, queste ultime, che hanno fatto la storia del rallysmo come le bellissime Fiat 131 Abarth, 124 Abarth, 125 S, Fiat X1/9, le Lancia Fulvia Coupè HF, Porsche 911, Ford Sierra Cosworth, Lancia Beta Montecarlo, Opel Manta, Bmw 2002, Alfa Romeo nelle varie versioni, Alpine Renault e le immancabili scorpioncine A112. Parecchi gli Equipaggi oltrepadani in gara, ed é appunto ad uno di questi a cui é andata la vittoria assoluta, si tratta dei vogheresi, specialisti della regolarità classica Ugo Rancati e Gianfranco Ercolani a bordo della piccola ma scattante Fiat 850 coupè. «Abbiamo trovato il ritmo quasi subito e il tutto si é trasformato in una gara bellissima, vissuta su di un percorso altrettanto bello e ricco di storia». Ovviamente Rancati-Ercolani si sono aggiudicati anche il successo nella categoria Classic. è andato invece ai cremonesi Bardelli-Bardelli con l’Abarth A112 il successo tra le vetture Rally in cui troviamo tre equipaggi oltrepadani nella top ten assoluta. Al 5°posto si sono collocati Celadin navigato sulla Fulvia Coupè da Bono; al 7° posto troviamo Carlo Verri e Walter Carena con la Fiat 125 S nei colori di Paviarally, mentre all’8° posto si sono piazzati Guarnone-Dealberti con la Fulvia Coupè scuderia Erreffe. Altro successo oltrepadano arriva nel Trofeo A112, in cui ad emergere sono Oriano e Cecilia Crosignani (settimi assoluti).
CLASSIFICA 1 PRIMI 10 ASSOLUTI
Ugo Rancati e Gianfranco Ercolan
Buone nel complesso anche le prestazioni di Cantarini-Cattivelli (Mercedes 300) e Negrini-Taschin Renault 5 GTL. Positivo
anche il debutto regolaristico di FusettoNovati con la A 112. di Piero Ventura
1. 46 RANCATI-ERCOLANI FIAT 850 COUPÈ CLAS/CLAS 98 2. 48 PIGHI-CALLEGARI MORRIS MINI COOPER CLAS/CLAS 112 3. 43 BISI-CATTIVELLI TRIUMPH TR3A CLAS/CLAS 136 4. 66 GARILLI-MACELLARI AUTOBIANCHI A112 ABARTH CLAS/CLAS 143 5. 40 BARDELLI-BARDELLI AUTOBIANCHI A112 ABARTH RALL/RALL 147 6. 42 PREDALI-FINARDI AUSTIN HEALEY BN4-L CLAS/CLAS 151 7. 62 CROSIGNANI-CROSIGNANI AUTOBIANCHI A112 ABARTH CLAS/CLAS 172 8. 45 BORDI-FERRARI ALFA ROMEO GIULIA SS CLAS/CLAS 173 9. 78 MALVICINI-CROSIGNANI PORSCHE 993 CLAS/CLAS 215 10.15 FIORENTINI- CAPPELLINI LANCIA FULVIA COUPÈ HF RALL/RALL 226
Carena, Verri, Novati, Fusetto, Taschin e Negrini
MOTORI - AUTO D’EPOCA
Parla piacentino, il Corvino storico Equipaggi locali battuti in casa. Va infatti ai portacolori del CPAE (Club Piacentino Auto Epoca) Malvicini-Crosignani su Lancia Fulvia Coupè, l’edizione 2019 del “Corvino Storico”, gara di regolarità per auto d’epoca promosso dal Veteran Car Club di Casteggio. I vincitori hanno messo alle loro spalle nell’ordine, ben sette portacolori del club organizzatore e precisamente: Cantarelli-Cattivelli (A112), Guatelli-Vistarini (Y10), Crosignani-Crosignani (A112), Forelli-Cleoncini (A112), Fronti-Ruggeri (A112), Curone-Cristina (Fiat 600 D) e Viola-Mussi (A112) ai quali va la vittoria tra gli equipaggi Gentleman precedendo i portacolori del Clun piemontese Bordino: Varosi-Cagliari (Lancia Beta) e Pasino-Italiano Volks Wagen Ghia. di Piero Ventura
La premiazione di Viola- Mussi