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CONTINUITÀ: RICORDO DI ADRIANO CORNOLDI
mente adatto a “mettere in scena” le “frizioni” progettuali, ciò che altrimenti non emergerebbe da una narrazione convenzionale e istituzionale. La selezione di film documentari proposta in questo saggio offre infatti uno sguardo del tutto inatteso sugli spazi, una prospettiva laterale, come se l’architettura fosse inquadrata in alcuni casi da un punto di vista nascosto, in altri seguendo personaggi in “soggettiva” o con l’approccio dell’osservazione situata aprendosi al dialogo interdisciplinare con la sociologia e l’antropologia. I documentari costituiti da diverse testimonianze (Edificio Master, The Infinite Happyness, Un piatto un ritratto) paiono come sinfonie di sguardi e micro-narrazioni che – nel loro insieme – fanno capire non tanto come è fatto l’edificio, come è stato concepito, ma quali possibilità genera, quali tipologie di vita offre, o nega, e quali invece nascono o vengono sviluppate in modo indipendente dall’idea originaria, o addirittura in aperta contrapposizione ad essa. I linguaggi che narrano l’architettura stanno cercando nuovi tipi di racconto volti a mettere al centro il modo in cui essa è vissuta più che la sua natura compositiva e funzionale. In quest’ottica le narrazioni audiovisive focalizzate sull’osservazione critica tipica di uno sguardo indiscreto possono costituire un’interessante chiave interpretativa in discontinuità con quella retorica che tratta l’architettura contemporanea come una messa in scena estetizzata e artefatta.
NOTE
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1 2 3 4 5 L. Tozzi, Se a raccontare le opere sono i loro abitanti, «Pagina99», 21 maggio 2016, pp. 33-35: 34. http://www.bekalemoine.com (ultima consultazione 31/10/2019, ultimo aggiornamento s.d.)
G. Perec, L’Infra-ordinaire, Paris, Seuil, 1996; trad. it. L’infra-ordinario, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
L. Tozzi, Se a raccontare le opere sono i loro abitanti, cit., p. 33.
Osservatorio Nomade. Immaginare Corviale, a cura di F. Gennari Sartori, B. Pietromarchi, Torino, Bruno Mondadori, 2006.
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Metodi 4
Strumenti del progetto contemporaneo
Laura Arrighi Dipartimento di Architettura e Design - DAD, Università degli Studi di Genova
Cosa è successo tra la rivoluzione ottocentesca introdotta da Gottfried Semper 1 , che contraddicendo Vitruvio, elegge il nodo e la tessitura come arti primarie di definizione dello spazio, e l’esaltazione moderna della struttura puntiforme di Le Corbusier che, dalla Maison Dom-ino alla Chaise Longue LC4, spoglia ogni manufatto dal suo rivestimento per isolarne lo scheletro come supporto per infiniti plug-in funzionali? Considerando le arti, scultura e pittura, e l’architettura stessa come trasposizioni dell’arte del tessere, attraverso lo studio di alcune parole chiave Semper prova come sia sempre esistito uno stretto legame tra l’ornamento e l’architettura a esso posteriore.
L’assonanza fonetica tra le parole tedesche Wand (parete) e Gewand (abito) ha origine dalla parola Winden che significa ricamare. Nell’interpretazione strumentale che Semper fa, la parete viene intesa come elemento di chiusura, di delimitazione spaziale e di protezione dagli agenti atmosferici e non come apparato strutturale; come l’abito, oltre alla funzione di protezione, ha anche quella di decorazione, così come la parete della cella del tempio greco. Come il vestito è costituito da fili tessuti, così la parete ha nell’intreccio di rami o canne prima, e tappeti poi, la sua origine. 2 Le sperimentazioni moderne posteriori, che vedono in Le Corbusier uno dei massimi esponenti, trasformano le architetture in nude macchine da abitare, prefabbricate, cellule ripetibili, puriste, private di tutti gli orpelli che non hanno una loro funzionalità abitativa. Così, se tra la metà e la fine del XIX secolo l’architetto era anche decoratore di interni, tappezziere e, in alcuni casi, stilista, una figura cioè capace di controllare olisticamente il progetto dello spazio domestico, sconfinando continuamente tra discipline contigue e complementari, è altrettanto vero che, per un lungo tratto del secolo successivo, questa figura si è ridotta a occuparsi unicamente della definizione di una nuova estetica basata sull’utilità e la correttezza funzionale. Contestualmente le relazioni tra moda, furniture design e architettura hanno viaggiato su binari paralleli, nei quali la gestalt era più orientata alla costruzione di analogie formali che alla ricerca di un rapporto con la materialità degli oggetti e con le loro caratteristiche fisiche. Oggi stiamo assistendo a un’inversione di rotta rispetto a questo indirizzo, una rotta che ci riporta, con le dovute distanze, al pensiero semperiano. Testimonianza di questo è la rinascita della materialità, e nello specifico del tessuto, nell’interior design contemporaneo; tessuto inteso sia come elemento di decorazione sia come strumento di configurazione spaziale. Un discorso sul tessuto non può prescindere da una riflessione sulle discipline che maggiormente sono legate a questo materiale. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento arte, architettura, moda e design erano molto più vicini rispetto a quanto non lo sono stati nel corso del secolo scorso. Dagli anni 2000 tuttavia, hanno cominciano a ricomparire in modo importante oggetti ibridi, nati dalla sinergia delle discipline. Il significato profondo e il grande potenziale che oggi questa sinergia rappresenta appare spesso sfocato da questioni puramente stilistiche e “di gusto”, una visione riduttiva che vale la pena indagare facendo come premessa, alla Semper, alcune considerazioni circa i termini “abito” e “abitazione”, la loro definizione e il reciproco sconfinamento.
Abito, Abitare, Abitudine, hanno la medesima radice del latino habere, che indica possesso, ma che si può anche declinare in attitudine, inclinazione, disposizione, apparenza: tutti concetti che contribuiscono a determinare l’identità di una persona e dell’ambiente nel quale questa agisce.
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Abitare significa quindi avere consuetudine con un luogo, farlo coincidere con ciò che siamo soliti avere, portandocelo dietro continuamente. 3 La casa come “abitudine” si risolve in un complesso di caratteri morfologici o di comportamento di un individuo; la casa come habitus è costume, è mostrarsi, dimostrare di essere al mondo. Sorvolando il dibattito dei moderni riguardo la moda, l’ornamento, e la casa, e facendo un salto nel XXI secolo, ci rendiamo conto di quanto la relazione ha prodotto e continua a produrre opere e speculazioni che sembrano delineare sempre di più una figura ibrida di progettista di interni e una trasformazione della disciplina architettonica da campo settoriale a campo “liquido” nel quale si mescolano saperi appartenenti ad altri mondi. Un processo che ha le sue radici nelle ricerche di alcuni esponenti dell’architettura e del design degli inizi del secolo. È il 1999, siamo al Baltimore Museum, dove il giovane artista coreano Do Ho Suh presenta una delle sue prime opere, la Seoul Home, una casa tessuto che riproduce, attraverso la tecnica sartoriale, l’abitazione della sua infanzia. Un modello in scala 1 a 1 perfettamente fedele all’originale in tutti i dettagli, salvo per il fatto di essere realizzato con la stoffa tipicamente utilizzata per i paracadute: un oggetto protettivo come il nido domestico nel quale siamo cresciuti e allo stesso tempo labile, leggero, trasparente e morbido, proprio come una tenda che definisce uno spazio culturale più che fisico, capace di isolarci dal contesto circostante, ma allo stesso tempo instabile e mutevole. Il lavoro di Do Ho Suh è permanente e temporaneo allo stesso tempo: riproduce un concetto domestico identitario e consolatorio, ma allo stesso tempo testimonia la condizione tutta contemporanea del nomadismo urbano, in quanto, proprio perché fatta di tessuto leggero, la casa si può impacchettare e trasportare dentro a una valigia, ogni volta che ci si deve muovere per esigenze di lavoro o di studio. In altri termini la casa per l’artista coreano è quel luogo capace di rispondere alla semplice domanda: dove ho dormito veramente bene l’ultima volta? Un luogo culturale, appunto, all’interno del quale l’idea di comfort si allontana dai parametri formali ed ergonomici che hanno dominato la produzione degli ambienti domestici a partire dagli anni Trenta fino all’ultima parte del secolo scorso, per iniziare a dialogare con valori più emozionali, sensoriali, tattili. In questo passaggio che caratterizza la nostra contemporaneità, il ruolo dei tessuti diventa centrale. A dimostrarlo alcuni progetti architettonici che sono diventati emblema di questa smaterializzazione. Nel 1980, OMA è tra i venti studi invitati a partecipare alla Strada Novissima alla prima Biennale di Architettura di Venezia, intitolata “La presenza del passato”, curata da Paolo Portoghesi. In pieno Postmodernismo, le soluzioni formaliste dei diversi progetti si scontrarono con la soluzione di Koolhaas e compagni, che scelsero di rinunciare al disegno per collocare sulla strada un grande brano di tessuto semitrasparente, sollevato in un angolo. La casa di OMA, allineata insieme alle altre, monumentali e formalmente complesse, è una tenda, una membrana instabile e mutevole, che precorrendo i tempi, definisce una nuova condizione per l’architettura e il design. Qualche anno più tardi, nel 1994, a Tokyo, Shigeru Ban, realizza la sua Curtain Wall House, un volume a base trapezoidale, nel quale la facciata principale è sostituita da una tenda che riveste la doppia altezza sulla quale si sviluppano gli spazi domestici. Aprendo e chiudendo la grande tenda è possibile modificare non solo l’aspetto dell’architettura, ma la sua spazialità, contaminando interno ed esterno, pubblico, semipubblico e privato. Il tessuto prende forma modellandosi sulla struttura architettonica, ma, contemporaneamente, rimodella lo spazio, proprio come un abito interagisce e modifica il corpo che lo ospita. Ecco che corpo architettonico e corpo umano appaiono entità sempre più sfocate e anche nella moda si assiste a sperimentazioni che riducono (o elevano) l’abito al ruolo di guscio che si può configurare liberamente, un vero e proprio dispositivo spaziale. Sempre alla fine degli anni Novanta in Giappone, lo stilista Issey Miyake si dedica a un progetto altamente tecnologico chiamato A-POC (A Piece Of Cloth, un pezzo di stoffa). Si tratta di una nuova tecnica di tessitura che rende possibile produrre vestiti finiti senza l’utilizzo di cuciture e, ancora, richiede la commistione di tradizionale tessitura e l’impiego di modernissimi sistemi computerizzati. Il vestito non è un prodotto finito standard, ma può essere modificato rispetto ai gusti dell’acquirente. Riprendendo il concetto di abito-abitazione, un altro designer giapponese, Kosuke Tsumura, allievo di Miyake, vede l’abbigliamento come una vera e propria “casa mobile” e presen-
Laura Arrighi | Soft home. Il ritorno del tessuto negli interni, tra analogico e digitale 373
La didattica di terzo livello: insegnare nel Master, dal concept al costruito
Simona Canepa Dipartimento di Architettura e Design, Politecnico di Torino
I master sono, sia quelli di primo sia quelli di secondo livello, lo strumento che le varie facoltà e scuole forniscono al neolaureato per avvicinarsi al mondo del lavoro, oggi in continua trasformazione. Hanno lo scopo di definire e aggiornare rendendolo sempre attuale il profilo che il mercato del settore richiede. Sono pertanto delle scuole dove l’insegnamento è del tipo learning by designing. L’imparare progettando consente allo studente di calarsi nel mondo reale grazie anche all’esperienza di tirocinio curricolare presso aziende del settore. La mia esperienza mi vede coinvolta da anni nel Master di primo livello in Interior Exhibit & Retail Design del Politecnico di Torino, dalla prima edizione nel 2014 e anche nella fase preliminare all’istituzione con il coordinatore prof. Marco Vaudetti. Questa fase è stata di fondamentale importanza per l’organizzazione e la futura gestione del master stesso. In questa fase iniziale si è proceduto allo screening del quadro competitivo delle proposte offerte come didattica di terzo livello in tutta Italia, a cui è seguita la fase di messa a punto degli insegnamenti in base alle richieste del mercato di lavoro nel settore degli interni e al rapporto continuo con le aziende e gli stakeholders. La proposta di questo master è nata infatti dall’esigenza di rispondere alla crescente domanda di figure professionali nei settori della progettazione degli interni abitati, degli allestimenti e del retail; aree di progetto in cui sono avvenute e continuano ad avvenire rapide trasformazioni che incidono direttamente sui profili professionali. Questo master propone un’esperienza nel mondo dell’arredo domestico inteso in tutte le sue declinazioni, dalla casa tradizionale alle forme di domesticità contemporanea in continuo rinnovamento, dell’exhibit di spazi museali, di mostre, fiere ed eventi con attenzione specifica rivolta sia agli aspetti gestionali e di marketing, sia di ordinamento espositivo, e del retail design con attenzione alle formule di vendita e alle tecniche di allestimento, comunicazione e promozione. Si tratta di tre laboratori progettuali preceduti da un modulo di tematiche comuni nel campo del marketing, della rappresentazione, degli impianti con lo scopo di uniformare le diverse competenze che caratterizzano i partecipanti formatisi nelle varie sedi universitarie in ambito di laurea triennale e/o magistrale o diploma universitario. Il master è organizzato con un taglio metodologico, ma ha nello stesso tempo un carattere molto operativo. In ogni laboratorio, dopo una prima fase in cui si vuole offrire ai partecipanti un metodo per affinare le loro capacità critiche costituito da presentazioni di un corpus dottrinale, scatta la fase del progetto basato sul solving problem di una determinata situazione reale con il preciso scopo di mettere in luce lo stile creativo personale e originale della proposta progettuale. Concept e progetto devono essere in grado di fondersi in modo creativo con le effettive esigenze degli utenti finali, simulando così un incarico di progettazione che il mondo del lavoro potrà offrire ai partecipanti nell’immediato futuro. Il master si propone di fornire piena conoscenza delle metodologie e delle strumentazioni atte a impostare, gestire e portare a compimento processi di organizzazione degli interni ed effettuare di conseguenza scelte consapevoli per l’ideazione e per lo sviluppo a scala di dettaglio di arredi, attrezzature, materiali, finiture e grafica di commento. I temi affrontati sono finalizzati a formare figure professionali in grado di interpretare in maniera critica e creativa il rapporto tra oggetti, ambienti e utenti, integrando conoscenze di tipo progettuale nel settore dell’arredo, dell’allestimento e del retail con la imprescindibile formazione di base di tipo storico e culturale. I settori lavorativi di sbocco vanno dagli studi professionali, alle ditte che operano nei settori degli interni, dell’arredamento, dell’allestimento, del commercio, anche di alta gamma, tanto
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