Chi manipola la tua mente

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SCIENZE UMANE a cura di

Alberto Oliverio Qu

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Anna Oliverio Ferraris

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Chi manipola la tua mente?

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rti Vecchi en e nuovi persuasori. e aR Riconoscerli per difendersi ina ldo

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www.giunti.it © 2010 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia ISBN 9788809754423 Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl Prima edizione digitale 2010


Introduzione

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to La manipolazione non è certo una novità, è sempre esistita: eb oo nel quotidiano, k a nella politica, nello spettacolo. Già Platone pafossero due tipi di discorsi: quelli che hanno spiegava comepci ri en come obiettivo la tconoscenza e una comunicazione autentica e aR ad arte, mirano a ottenere un benee quelli che invece, usati ina ldo ficio esteriore. I primi rispettano l’interlocutore, la sua autoP ac di convincerlo con sofismi, nomia e libertà, i secondi cercano e trucchi e menzogne ben congeniate. Ma perché riprendere oggi una tematica tanto antica? C’è qualcosa di nuovo rispetto al passato? La risposta è affermativa, per due ordini di motivi. Il primo è che all’epoca di Platone e di Aristotele i filosofi consideravano la sofistica una pratica reprensibile, tant’è che per mettere in guardia i loro contemporanei dalle trappole del linguaggio avevano analizzato e classificato i paralogismi più diversi, fornendo in tal modo ai loro discepoli e lettori i mezzi per riconoscere e rifiutare i ragionamenti apparentemente corretti ma sostanzialmente falsi e ingannevoli. Oggi invece si nota, sempre più diffuso in taluni ambienti, un sovvertimento dell’ordine dei valori: la comunicazione corretta viene bollata come ingenua e, di contro, si ammirano i “comunicatori” che manipolano l’informazione a proprio uso e consumo. Nel mondo dello spettacolo, della politica, del commercio e del management l’efficacia è il valore a cui viene dato il ruolo primario, mentre l’approfondimento e l’argomentare corretto sono, da molti, considerati degli optional, a volte dei veri e propri fastidi: l’obiettivo primario non è la conoscenza e neppure la costruzione di rapporti interpersonali basati sul ri-

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INTRODUZIONE

spetto e la reciproca fiducia, bensì riuscire a cambiare le attitudini delle persone a proprio vantaggio, abilmente e furbescamente, senza che esse se ne accorgano o possano controbattere. Oppure aiutarle ad imporsi agli altri, insegnando loro tecniche e trucchi. In una società così fatta è la comunicazione stessa a cambiare statuto, perché il linguaggio viene utilizzato come mezzo di persuasione. Il che trasforma la comunicazione in un vano Qu (seppure es “efficace”) esercizio di retorica, quando invece doto vrebbe essere, eb soprattutto in una società che si dice democraoo tica, uno scambio k a tra interlocutori che mettono in comune ciò pp e che, nello sforzo vicendevole di convinche hanno da dire ar t cersi, ricorrono ad ieargomentazioni esplicite non a subdoli ne aR trucchi. ina ldo Il secondo motivo si riallaccia al primo ma si spinge ben Pa oltre. A differenza di 2300-2400 ce anni fa, oggi la comunicazione non passa soltanto attraverso il linguaggio, sia esso verbale e non verbale, ma anche attraverso altri media che utilizzano l’immagine a pieno ritmo e che, non concedendo spazi di intervento ai loro interlocutori, li relegano tout court al ruolo di semplici spettatori. Grazie a queste due variabili – immagini e assenza di dialogo – e lavorando su di esse proprio come i sofisti lavoravano sul linguaggio, il potere della persuasione aumenta a dismisura. La comunicazione multimediale ha infatti la caratteristica di catturare la mente umana (che non è solo ragionamento e riflessione, ma in gran parte percezione, emotività, sensazioni, impulsi) e di ridurre il processo di comunicazione alla sua fase di “diffusione”: una comunicazione a senso unico e incompleta. Il diffusore invia il suo messaggio a un destinatario che non ha la possibilità, materiale o simbolica, di rispondere. La comunicazione basata sulla sola diffusione ha però il potere di raggiungere un numero impressionante di individui contemporaneamente, di agire sulla loro quotidianità, di creare abitudini, di formare la pubblica opinione o, se si preferisce, quell’“ignoranza pluralistica” dovuta, per l’appunto, al fatto

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INTRODUZIONE

che i destinatari, costretti ad affidarsi a chi gestisce la comunicazione, non hanno mai parte attiva nĂŠ nei confronti di costoro nĂŠ degli altri destinatari che, come loro, ricevono le informazioni standosene isolati nelle loro abitazioni. A meno che non si decida di prendere la sana abitudine di riflettere sui meccanismi della comunicazione e a meno che non si creino altre reti comunicative dove sia possibile un vero dialogo e un reale confronto. Q ue

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Capitolo I

Una forte propensione ad imitare

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Sessantaquattromila ripetizioni fanno la verità. Aldous Huxley

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en «La nostra è la tiprima epoca in cui molte migliaia delle mie aR gliori menti si sono occupate a tempo pieno di analizzare la ina ldo psicologia collettiva per manipolarla, sfruttarla e tenerla sotto Pa controllo». È questa una frase cfamosa di Marshall McLuhan, e fondatore della scuola di Toronto di comunicazione multimediale, autore nel 1976 del saggio La galassia Gutenberg in cui spiegava l’importanza e il ruolo assunto dai media di massa nella storia dell’uomo. Prima di lui, nel 1957, il sociologo americano Vance Packard ci aveva già messi in guardia dai manipolatori di professione: «Vi sono degli specialisti» spiegava in un saggio fortunato dal titolo I persuasori occulti «che studiano sistematicamente le nostre segrete debolezze e vergogne nell’intento di influenzare più efficacemente il nostro comportamento». La presenza di questi manipolatori di professione non è certamente una novità; oggi però, nell’era della comunicazione globale, essi appaiono più agguerriti di un tempo: dispongono di un corpus di conoscenze molto vasto in ambito sociopsicologico e di tecnologie sofisticate e penetranti. Gli interventi di questi esperti sugli individui, i gruppi, le comunità e le masse sono scientifici e sistematici. Per convincere e indirizzare i comportamenti non hanno bisogno di ricorrere ai metodi autoritari di un tempo, alle minacce o alla violenza, le loro armi sono la seduzione, la persuasione e la suggestione.

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CAPITOLO I

DAI SOFISTI AL MARESCIALLO PSICOLOGO: BREVE STORIA DELLA PROPAGANDA

L’arte della manipolazione ha origini molto antiche. I sofisti greci riuscivano a dimostrare tutto e il contrario di tutto attraverso un uso scaltro e sapiente della retorica che Platone bollava come immorale. Secondo il filosofo ateniese, discepolo di Socrate e maestro di Aristotele, le parole dovevano servire Qu e per progredire sul cammino della conoscenza, non per imst porre, cono euna dialettica ingannevole, il proprio punto di vista bo ok possedevano in egual misura la capacità di a coloro che non ap pa giocare con le parole. Nonostante questa condanna, l’arte rti en smise mai di essere usata in modo strudella persuasione non e Ri mentale in ogni epoca astorica e ambito sociale. Nell’Antica na l d Roma, ad esempio, il raggiroo nel commercio era noto, tollePa rato e persino codificato. Nel diritto ce romano c’era la figura del “dolus bonus” per spiegare che una certa dose di inganno è sempre presente nelle transazioni commerciali e che, di conseguenza, gli acquirenti ne sono consapevoli (o dovrebbero esserlo), per cui l’inganno (il “dolus”) non risulta dannoso (è, quindi, “bonus”). Duemila anni fa però non si faceva ancora ricorso alle raffinate tecniche multimediali di persuasione, disponibili oggi su vasta scala. Sempre a Roma, ma molti secoli più tardi, per l’esattezza nel 1599, un papa, Clemente VIII, fondò la Sacra Congregatio de Propaganda Fide allo scopo di riavvicinare uomini e donne alla Chiesa e propagare la dottrina nelle missioni in terre lontane. Interrotta per alcuni anni, l’iniziativa fu poi rilanciata in forma stabile da Gregorio XV, successore di Clemente VIII. Nell’etimologia della parola latina “propaganda” si scopre il suo significato originario. Declinata al gerundio questa parola designa ciò che della fede deve essere propagato: le credenze, i misteri, le leggende dei santi, i racconti dei miracoli. Non si tratta quindi di trasmettere una conoscenza obiettiva e accessibile a tutti attraverso il ragionamento, ma di convertire a delle verità nascoste che promanano dalla fede, non dalla ragione.

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UNA FORTE PROPENSIONE AD IMITARE

I regimi dittatoriali e totalitari del Novecento hanno fatto, com’è noto, un largo uso della manipolazione e della suggestione a scopi propagandistici. Le grandi adunate naziste, sovrastate dalla voce ipnotica del Führer e dalla sua gestualità imperiosa, sono un documento straordinario seppur drammatico della forza della suggestione: una condizione psichica che, all’interno di abili scenografie (si pensi al senso di potenza cheQcomunicavano le adunate militari del Terzo Reich, allo statouedi stoesaltazione provocato dalle musiche guerresche, alla sapiente sceneggiatura delle parate sportive) emerge quasi aueb oo tomaticamente k a e si autoalimenta grazie a ciò che ruota intorno pp contesto in cui essi si trovano inseriti in quel agli individui, al ar tie momento, alle emozioni ne che vivono, alla presenza di numerosi altri individui in folla,aRalla ina diffusione di slogan, simboli e paldo role d’ordine. Joseph Goebbels, che per conto di Hitler gestì Pa con successo – e tragicamente c–e la macchina propagandistica del Terzo Reich, sapeva che in una folla le emozioni possono obnubilare la mente e diffondersi per contagio. Sapeva che l’incisività degli slogan e la loro ripetizione cadenzata affascina, convince ed esalta. Conosceva l’effetto che avrebbe fatto sugli spettatori il campo sportivo monumentale di Reichssportfeld a Berlino in cui nel ’36 si sarebbe celebrata la superiorità della razza ariana (vedi Figura 1). Sapeva anche come incanalare le emozioni della folla e trasformarle, a seconda dei progetti del potere, in devozione sottomessa al Führer oppure in rabbia e risentimento verso minoranze esposte e attaccabili. C’era già, in quegli anni, un sapere codificato su come mescolare la realtà alla finzione, e su quali mezzi utilizzare per diffondere false informazioni, notizie allarmanti, narrazioni in grado di generare paura, commuovere e convincere. Nel 1928, negli Stati Uniti, era stato pubblicato un saggio sulla propaganda scritto da Edward Bernays (nipote di Freud) che collegava le idee di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle a quelle di Sigmund Freud sull’inconscio. Benché televisione e internet fossero ancora di là da venire, in quel saggio Bernays intuiva, basandosi sul ruolo che svolgevano allora la

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CAPITOLO I

radio e il telegrafo, quale impatto avrebbero avuto i mezzi di comunicazione nel corso del Ventesimo secolo sia in campo economico che politico e militare e, per meglio illustrarlo, riportava questo esempio: «Se la Cecoslovacchia ha ufficialmente acquisito lo statuto di Stato indipendente il lunedì 28 ottobre 1918, invece di domenica 27, è perché il professor Masaryk, aveva capito che all’inizio della settimana il mondo avrebbe recepito meglio la proclamazione della libertà del suo Q paese.uDalla conversazione che abbiamo avuto su questa quees to stione» continuava Bernays «Masaryk mi ha detto “Se cambio eb oo la data di nascita k a della Cecoslovacchia come nazione indipp pendente, confezionerò la storia per il telegrafo”. Questo ar tie aneddoto illustra il ruolo ne della tecnologia nella nuova propaRi ganda. Il telegrafo fa la astoria, na e la data fu modificata». ldo propaganda non aveva nulla di Per Bernays però l’uso della Pa

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Figura 1 Alle Olimpiadi di Berlino del 1936 le parate sportive furono inserite in scenari militareschi che ebbero un effetto fortemente suggestivo sul pubblico, grazie anche alla perizia e alle innovazioni sceniche della celebre regista di regime Leni Riefenstahl, la stessa che nel ’34 a Norimberga girò il Trionfo della volontà, un documentario sul nazionalsocialismo che segnò l’esordio della politica spettacolo. [© Popperfoto/Getty Images]

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reprensibile era bensì al servizio delle “relazioni pubbliche”: la nuova branca della psicologia sociale di cui egli fu uno degli iniziatori. Contrariamente a lui però altri si preoccupavano per l’uso non corretto che poteva essere fatto della propaganda da parte di chi, occupando una posizione di potere o ricoprendo il ruolo di consigliere del leader, si trovava ad avere il controllo dell’informazione. Nel 1922 era comparso un saggio di Walter Lippman L’opinione pubblica in cui l’autore criticava aspraQu mente esla tendenza dei governi a manipolare l’informazione. t Nelloo estesso anno Serge Tchakhotine, sociologo di origine bo russa, diedeoalle k a stampe un saggio dal titolo inequivocabile Lo pp da parte della propaganda politica dove attacstupro delle folle ar tie cava un autore tedesco, Kurt Hesse, autore a sua volta di un ne aR saggio, Maresciallo Psicologo in cui veniva tracciato il ritratto ina l d profetico di un Führer che,oattraverso la parola e gli atteggiaPa menti, sapeva agire sugli animi infiammarli e portare il cumani, e popolo tedesco, umiliato dalla sconfitta subita nella prima guerra mondiale, verso il riscatto e la vittoria. Nei paesi occidentali contemporanei i dittatori sono considerati obsoleti, un archetipo del passato, e in Europa come negli Stati Uniti, in Canada come in Australia, l’unica forma di governo ritenuta accettabile è la democrazia. Ciò non significa però che le tecniche di persuasione e di manipolazione siano state accantonate, come sarebbe logico, per l’appunto, in una democrazia. La verità è che se ne fa un uso continuo e martellante, più che nel passato anche se in forme diverse e in nuovi contesti. Le tecnologie si sono evolute, la comunicazione avviene in tempo reale, lo strumento non è più il telegrafo, come ai tempi di Bernays, ma il satellite, l’obiettivo però è sempre lo stesso: il controllo, il dominio. «Le parole, signor Bond, ecco le nuove armi» spiega un magnate della stampa a James Bond nel film Il domani non muore mai (1997). «Cesare aveva le sue legioni, Napoleone la sua grande armata. Io ho le mie divisioni: televisioni, giornali, magazine… Da qui a mezzanotte, avrò raggiunto più persone di chiunque altro nella Storia, a parte Dio!».

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CINDY CRAWFORD ALLE ISOLE FIGI Dire oggi che le nuove tecnologie della comunicazione hanno enormemente accelerato la diffusione delle informazioni è un’affermazione banale. Meno banale è invece considerare il ruolo che il flusso delle immagini (attraenti, scioccanti, in movimento, accompagnate da suoni che allertano e commuovono) esercita Qu sulle persone, sulle loro memorie, sui loro desideri e es paure. La fiction debordante di questa nostra epoca sulle loro to eb un valore aggiunto di grande impatto con i suoi rappresenta o personaggi, leoksue ap narrazioni, le emozioni che sollecita in un pa Certi modelli si impongono all’attenzione pubblico recettivo. rti en la vita delle persone, come è emerso da collettiva e modificano e uno studio condotto nelaR1999 ina alle isole Figi da Anna Becker, ldo antropologa dell’Harvard Medical School. Pa Prima della comparsa della televisione, nel 1995, era molto ce raro in quel piccolo arcipelago limitrofo alla Nuova Zelanda trovare delle donne indigene che seguissero una dieta, perché la cultura locale valorizzava un forte appetito e un corpo robusto dalle forme morbide e tonde. Ma tre anni dopo l’arrivo del piccolo schermo, il 74% delle liceali affermavano di sentirsi “troppo grosse” e il 69% aveva già iniziato una dieta per perdere peso. La cosa più sorprendente fu che l’11% di loro erano ricorse al vomito autoindotto, tipico della bulimia nervosa, per raggiungere un look ideale, di contro allo 0% prima del 1995. Dallo studio della Becker emerse che i personaggi televisivi (nello specifico quelli femminili) erano diventati per le giovani delle Figi dei modelli di riferimento ben più forti dei modelli femminili della loro famiglia. «Voglio diventare alta e magra come Cindy Crawford» spiegava una delle intervistate. «Voglio somigliare alle ricche allieve californiane della serie Beverly Hills» affermava un’altra. «Imito le star australiane della serie Shortland Street, il loro modo di vivere, il tipo di cibi di cui si nutrono» dichiarava con convinzione una terza. Affermazioni che rivelano una spinta molto forte ad identificarsi e ad emulare i modelli di donna che apparivano

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sul televisore e che confermano il risultato di studi ormai classici secondo cui i modelli hanno più probabilità di essere imitati quando si vede che i loro comportamenti portano al successo (“rinforzo vicario”), si pensa che siano legittimi e abituali (“autorinforzo”) e si ricevono istruzioni dettagliate su come agire: istruzioni più implicite che esplicite, che passano attraverso il non detto, cioè gli atteggiamenti, i sorrisi, le forme suggestive, la scenografia, i colori, le musiche in sordina. Qu Individui suggestionabili possono spingere ancora più lones to tano l’identificazione con i modelli proposti. In una pubblieb o cazione del o1974 k a la psicoanalista Hilde Bruch riportava il caso pa di una giovanepanoressica di diciotto anni che arrivava a sodrti e disfare il proprio appetito guardando gli altri mentre mangiane aR direttamente al loro posto. Questa vano, come se si mettesse ina ldo riusciva ad assumere, come il mipaziente, spiegava la Bruch, Pa tico Zelig, l’identità di chiunque ce si trovasse accanto a lei e guardando gli altri mangiare era come se lei stessa assumesse del cibo. Si sentiva sazia osservando gli altri. In realtà la paziente della Bruch altro non faceva che portare all’estremo limite la propensione ad imitare i propri simili che, insita in ognuno di noi, serve a creare coesione sociale; ma che oggi, grazie all’impatto che le immagini riescono ad esercitare sul nostro cervello (che per quasi i due terzi del suo volume è “visivo”), può portare alla cosiddetta persuasione incosciente la cui caratteristica principale è quella di accantonare la riflessione. IMITATORI NATI Chi più chi meno, tutti quanti siamo propensi ad imitare. In classe, negli stadi, nelle manifestazioni politiche, nei concerti, le persone tendono a riprodurre, in tutto o in parte, alcuni comportamenti dei loro vicini e questa propensione è tanto più forte quanto maggiore è la carica emozionale che una certa azione trasmette. A scuola, durante la ricreazione in cortile, non è raro vedere un bambino che si mette a correre

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CAPITOLO I

gridando. Egli viene immediatamente seguito da altri bambini senza che tra di loro ci sia stato alcun accordo preliminare. L’imitazione è una delle vie per entrare in rapporto con gli altri, è alla base della coesione sociale e della vita di gruppo. Imitandone gli atteggiamenti comunichiamo ad una persona che condividiamo le sue parole o il suo comportamento. È anche un tentativo spontaneo e inconsapevole di assimilare la realtà con cui entriamo in contatto. Q ue

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Figura 2 Neonati di appena due settimane dimostrano di saper ripetere le smorfie di un adulto dopo un intervallo di tempo. Nel 1977 Andrew Meltsoff e Michael Moore, due studiosi della prima infanzia, misero un succhiotto di gomma in bocca ai piccoli e, mentre questi erano impegnati a succhiare, facevano loro le boccacce; tolto il succhiotto e trascorsi alcuni minuti, i piccolissimi erano in grado di ripetere quanto avevano visto. L’esperimento dimostra che il neonato si è formato una precisa immagine mentale dell’evento: è in grado di riconoscere la smorfia dell’adulto e di collegare ciò che vede con i movimenti del proprio viso. Un sorprendente esempio di imitazione e di memoria.

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La propensione a entrare in relazione con gli altri attraverso l’imitazione è presente molto presto nella vita degli esseri umani come è stato anche dimostrato da un noto esperimento di Andrew Meltzoff e Michael Moore, che riassume precedenti osservazioni e studi. A poche settimane di vita i bambini si sforzano già di ripetere le smorfie di un adulto posizionato davanti a loro (vedi Figura 2). Un’altra manifestazione precoce di questa sensibilità agli stimoli sociali con vaQ lenzauecomunicativa è riscontrabile, sempre nei piccolissimi, sto nel cosiddetto contagio emozionale. Si tratta di un comporeb oo tamento piuttosto sorprendente per chi ha poca pratica di ka neonati ma benppnoto al personale paramedico dei reparti neoar tie natali degli ospedali. ne Basta che un neonato inizi a piangere Ri perché tutti gli altri si amettano a piangere. Ciò che sorprende na l d è la specificità del tipo di risposta, il fatto cioè che il piccolo o Pa risponda al pianto con il pianto ce non con un altro comportamento. E per quanto riguarda il linguaggio, fin dalle prime settimane di vita i neonati rispondono con dei micro movimenti alla voce umana (sincronia interazionale) e in seguito con i tipici gorgheggi. La disposizione ad imitare è iscritta nel nostro cervello. Nella corteccia premotoria ci sono i neuroni-specchio che si attivano quando osserviamo i movimenti, i giochi, la mimica, i gesti di un’altra persona ma anche quando la ascoltiamo parlare. Questo gruppo di neuroni fa da ponte tra l’osservatore e la persona (o la scena) osservata. Il meccanismo dei mirror neurons (studiati da Rizzolatti, Fogassi e Gallese) è talmente efficace che questi neuroni non si attivano soltanto quando osserviamo il movimento compiuto da un’altra persona che, ad esempio, stringe un bullone con una chiave inglese: essi entrano in gioco anche quando vediamo sullo schermo del computer un braccio virtuale che compie un certo movimento, lo schema stilizzato di una persona umana che cammina, un attore che recita in un film. In tutti questi casi, i segnali visivi vengono inviati dagli occhi alla corteccia premotoria e questa reagisce attivando gruppi di neuroni che anticipano un’azione che non

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necessariamente si verificherà, ma che potrebbe anche verificarsi ad imitazione del modello, reale o virtuale che sia. Non stupisce quindi se dopo aver visto un programma televisivo i bambini imitino i movimenti dei personaggi. È grazie a questa propensione che i bambini riescono a realizzare, spontaneamente e senza fatica, una enorme quantità di apprendimenti a partire dalle prime settimane di vita. Nel rapporto quotidiano si crea una sorta di reciproco rispecQu chiamento es e stimolazione: (1) la mamma “legge” il sentimento to del bambino eb nei suoi comportamenti manifesti, (2) quindi oo propone un comportamento che non è l’esatta imitazione di ka pp quello del bambino, ma che vi corrisponde (operazione traar tie smodale), (3) il bambino ne scopre che l’esperienza soggettiva aR a “leggere” il comportamento mapuò essere condivisa, riesce in do è solo una imitazione, ma che terno rendendosi conto chealnon ac sua esperienza affettiva oriesiste una corrispondenza conPla e ginaria. Questa sintonizzazione affettiva costituisce la base della comunicazione empatica ed è quindi un processo estremamente utile per la socializzazione e, più in generale, per l’apprendimento, su cui agisce come una sorta di acceleratore. Alla nascita un neonato non sa nulla del mondo; a cinque anni è già in grado parlare fluentemente una lingua o due, si muove in maniera appropriata, sa fare un uso corretto delle mimiche, dei gesti e delle posture, partecipa a giochi di gruppo, utilizza oggetti di uso quotidiano e tutto ciò grazie alla sua propensione innata ad imitare. MIMICRY, VANTAGGI E STRUMENTALIZZAZIONI Se nell’infanzia questo dispositivo è particolarmente attivo ciò non significa che scompaia in seguito. I neuroni-specchio continuano ad essere attivi anche se in misura un po’ inferiore. Vari studi hanno dimostrato che ognuno di noi inconsciamente copia le espressioni mimiche, il modo di parlare, le posture, il linguaggio del corpo e altri comportamenti delle per-

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sone cui siamo maggiormente esposti o che esercitano un fascino su di noi. «I neuroni-specchio» spiegano Olivier Droulers e Bernard Roullet in una pubblicazione sulla “neuroscienza del consumatore” (2008) «si attivano quando uno fa un gesto particolare, quando uno immagina di farlo o ancora quando lo vede compiere da un’altra persona». Tale imitazione comporta spesso anche una partecipazione emotiva. Barbara Wild e alcuni colleghi dell’università tedesca di TuQ bingaue(2009) hanno trovato che quanto più intense sono le misto miche della eb persona che interagisce tanto più intense sono le oo emozioni provate dagli osservatori. Si tratta di un processo raka pp che consente di stabilire un rapporto empido e automatico ar tie patico con gli altri. neQuesta imitazione sincronica (mimicry) può essere ad una via;aRma ina molto più spesso è reciproca e dà ldo tra due o più persone che giova luogo a una sorta di balletto Pa alla costruzione e al mantenimento dei rapporti. Una vasta ce serie di dati di ricerca ha documentato (a) che noi troviamo più simpatiche le persone che ci imitano (a meno che il comportamento di “copia” non ci appaia eccessivo, come uno scimmiottare), (b) che anche l’imitato o non solo chi imita è portato a modificare il proprio comportamento, (c) che il comportamento di imitazione ci rende più propensi a dare aiuto (vedi Scheda 1). Scheda 1 LA FORZA DELL’IMITAZIONE I ricercatori olandesi Marielle Stel, Rick van Baaren e Roos Vonk dell’università Radboud a Nijmegen (2007) hanno proposto ad un gruppo di studenti un video nel quale si vedeva una persona di nome Maria che parlava di un tema allegro oppure triste. A metà degli studenti è stato chiesto di imitare la mimica di Maria, all’altra metà no. Successivamente a tutti quanti è stato chiesto se intendevano devolvere per una nobile causa una parte del denaro che avevano ricevuto per la loro partecipazione alla ricerca. In maniera sor-

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prendente è emerso che coloro che avevano imitato gli atteggiamenti di Maria erano disposti a devolvere una quantità di denaro significativamente maggiore. Gli autori dello studio hanno spiegato il fenomeno con il fatto che l’imitazione di Maria induceva, di per sé, una maggiore empatia nei confronti dei bisogni degli altri. Quando imitiamo, facciamo uno sforzo di immedesimazione che ci rende più sensibili alle loro esigenze. Gli studenti che avevano imitato Maria si immedesimavano di più nella nobile causa e per questo Qu motivo donavano più denaro. es studio sempre del gruppo olandese ha dimostrato che non Un altro to eb soltanto l’imitare oo ma anche l’essere imitati ci rende più generosi. Per k ristorante, esempio, in un i clienti lasciano una mancia più consiap p stente quando la cameriera che prende l’ordinazione ripete sistear te maticamente ciò che iil gli chiede, invece di limitarsi a dire ncliente e aR oppure non dire nulla del tutto. “ho capito”, “ho preso nota”, ina ldo Di questi vantaggi sociali edPaevolutivi del mimicry era già ce

consapevole sul finire dell’Ottocento il sociologo Gabriel Tarde, anche se non disponeva di dati sperimentali in grado di supportare le sue convinzioni. Nel volume Le leggi dell’imitazione (1890) Tarde spiegava come gli esseri umani si imitino in continuazione sia per una spinta innata verso i consimili, per sentirsi parte di uno stesso gruppo o comunità; sia per comunicare, agire, inventare, ampliare il proprio repertorio di comportamenti. Delle correnti imitative “irradiano” la società come delle forze magnetiche cosicché ogni individuo riceve dagli altri delle idee o delle rappresentazioni di cui si appropria copiandole e trasformandole. Per il sociologo francese l’imitazione rende la vita sociale più facile e può agire a distanza favorendo la coesione tra individui separati fisicamente. È quanto accade, per esempio, tra cittadini che, pur non conoscendosi, si formano opinioni simili sulla base degli articoli che leggono o dei telegiornali che vedono. L’opinione pubblica, uno dei pilastri portanti della democrazia, si forma in questo modo. Il pericolo, notava Gabriel Tarde, che pure vedeva nell’imitazione una delle colonne portanti del sistema democratico, è che possono essere imitati sia modelli positivi

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che negativi e condivise opinioni e atteggiamenti per l’inclinazione innata che abbiamo ad imitare e non per una reale e meditata condivisione. Una lunga serie di ricerche condotte negli anni Sessanta ha dimostrato che i bambini imitano i comportamenti aggressivi visti sia nella realtà che in televisione (Bandura, Ross e Ross, 1961, 1963; Bandura, 1973) e che esiste una correlazione tra l’enfasi data dalle reti televisive ai casi di suicidio adolescenQ zialeuees l’incremento dei suicidi degli adolescenti (Phillips, to 1986; Ishii, eb 1991). David Phillips vide anche che il tasso di oo omicidi cresceva k a nei giorni successivi agli incontri di boxe trapp smessi in televisione. Il che non significa che di per sé un inar tie contro di boxe induca ne all’omicidio, indica però che su alcuni aR soggetti lo stimolo violento ina libera tendenze latenti e stimola ldo l’imitazione. Pa Come altri dispositivi innati, cela propensione ad imitare può essere sfruttata in vari modi e non sempre a fini positivi. Un caso emblematico fu quello del fumo e delle star di Hollywood. Negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta le industrie del tabacco americane, temendo di perdere clienti a seguito dei risultati ottenuti dagli studi sul cancro al polmone, pagarono profumatamente le star del cinema affinché fumassero nei film in cui erano protagonisti. Gary Cooper, Clark Gable, Joan Crawford, Spencer Tracy, Henry Fonda, Cary Grant, John Wayne, Bette Davis, Humphrey Bogart e molti altri attori di Hollywood aderirono a questa forma di pubblicità occulta comparendo molto spesso sullo schermo con una sigaretta tra le dita e assumendo pose ora voluttuose ora virili mentre aspiravano ed emettevano fumo. Avvolti in spirali di fumo, gli spettatori in sala fumavano a loro volta, spesso lo stesso tipo di sigarette delle star, sincroni con i modelli che avevano di fronte. Gli attori trasmettevano il loro fascino, la loro disinvoltura, il loro sex appeal alla sigaretta e all’atto del fumare e gli spettatori si sincronizzavano sui loro gesti, movimenti e atteggiamenti. Divenne sempre più chiaro, a chi aveva interesse a sfruttare l’inclinazione ad imitare, che il pubblico

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poteva essere pilotato a compiere determinate azioni o comportamenti senza rendersi conto del disegno che vi era dietro, soprattutto quando tutto ciò avveniva nell’atmosfera onirica di una sala cinematografica. Oggi è noto a tutti (o quasi) che i personaggi televisivi, le star del cinema e dello sport che reclamizzano e/o fanno da testimonial ai prodotti commerciali ricevono per queste loro partecipazioni dei cachet consistenti; alla maggior parte degli spetQ tatori, uperò, continua a sfuggire la pubblicità occulta. Questa es to forma di pubblicità “invisibile” si sta diffondendo sempre più eb oo anche se si finge k ache non esista. Di tanto in tanto il programma Striscia la notiziappsmaschera questo tipo di pubblicità clandear tie stina raccontando come ne calciatori, allenatori, show girl e altri personaggi televisivi delaRmomento possano ricevere cifre che ina l d variano tra i 1500 e i 20000 euro o per indossare abiti firmati, atac corso di una trasmissione o trezzi sportivi, orologi e gioielliPnel e di una semplice comparsata. Questo metodo non è nuovo, molti film sono diventati degli spazi pubblicitari per le aziende che li finanziano. Un esempio famoso è il film Man in Black (1997) che fece triplicare le vendite degli occhiali Ray-Ban grazie al fatto che gli eroi del film li indossavano. RIVALITÀ MIMETICA A volte è sufficiente che una personalità molto in vista opti per un oggetto qualunque o un capo di vestiario perché questo faccia tendenza, sia desiderato da molti e rapidamente si diffonda, indipendentemente dal suo prezzo. In un saggio sulle mode, il sociologo Guillaume Erner (2008) fa questo esempio: «Se una donna sconosciuta ha l’audacia di indossare dei jeans extralarge pur avendo una taglia media o piccola, a priori non accade nulla di particolare, a meno che questa donna non si chiami Kate Moss e che ella decida, come si verificò nel 2007, di indossare dei jeans extralarge che subito hanno fatto tendenza. Constatato il grande successo di quella iniziativa e con-

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sapevole dell’influenza esercitata sul suo pubblico, la cantante decise poi di creare una propria linea di abiti». Analogo fenomeno si verifica continuamente per quelle griffe che hanno acquisito un carisma “indiscutibile”. Una borsa da donna in sé banale, ma fregiata di un logo altisonante assume tutta un’altra aura sul mercato ed esercita una forte attrattiva sulle potenziali acquirenti da indurle a non badare a spese pur di procurarsi l’oggetto simbolo. Qual è il meccaQu nismo es psicologico sottostante a questo tipo di comportat mento?oSecondo Thorstein Veblen (1857-1929), autore di un eb o saggio moltooknoto tra i sociologi sull’organizzazione del tempo ap pa le mode gli esseri umani sono guidati da libero, nel seguire rti en in cui l’imitazione e la rivalità giocano motivazioni complesse e aR un ruolo centrale. Osservando i suoi contemporanei alle prese ina l d con il capitalismo dell’inizio o del Ventesimo secolo Veblen si convinse che la gente segue Pleacemode non solo per il piacere della novità, il che è una motivazione alla base della curiosità e del desiderio più che legittimo di cambiare; ma anche per mostrare agli altri di poter permettersi degli oggetti costosi e alla moda e quindi acquisire status sull’arena sociale. Una volta risolte le questioni di prima necessità, spiegava Veblen nel suo saggio, l’uomo cerca di soddisfare dei bisogni spirituali e sociali. L’abbigliamento è uno di questi. Al di là della originalità, piacevolezza o funzionalità che può caratterizzare un determinato capo di vestiario o un accessorio, che pure possono avere un ruolo rilevante nella scelta di un prodotto da parte dell’acquirente, l’ostentazione di abiti e accessori all’ultima moda consente a quest’ultimo di collocarsi socialmente, di paragonarsi ai propri simili. Secondo quello che in seguito fu definito “effetto Veblen”, il prezzo di un capo di vestiario o di un altro oggetto alla moda non ha soltanto un significato economico o utilitaristico, ma anche un rilevante significato sociale e simbolico. È soltanto rifacendosi a questo meccanismo che, secondo Veblen, si può comprendere perché la domanda per un particolare abito o bene di consumo possa essere tanto maggiore quanto più ele-

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vato è il suo prezzo e perché, quindi, per esempio, una banale polo risulti meno desiderabile di un prodotto perfettamente identico dotato però di un piccolo coccodrillo. Il valore aggiunto creato dalla griffe genera il desiderio, fornisce appartenenza e sicurezza. Si tratta di spinte emotive potenti che consentono di spiegare perché molte persone siano disposte a seguire le mode anche quando queste si succedono con un ritmo incalzante. Qu

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o UNA PSEUDOSCIENZA DI SUCCESSO eb oo

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pp La propensione ar a sincronizzarsi con i propri simili all’int terno di un rapportoienempatico è stata studiata e poi sfruttata e aR negli anni Settanta dal matematico e studioso di psicologia Riina l d chard Bandler e dal linguistaoJohn Grinder che, grazie anche P al contributo scientifico direttoacee indiretto di studiosi come Gregory Bateson, hanno dato vita alla cosiddetta “Programmazione Neurolinguistica” (PNL), una tecnica volta a potenziare le risorse individuali al fine di ottenere un maggiore successo nel lavoro e nei rapporti sociali. L’originalità di questa tecnica consiste, per l’appunto, nello sfruttare la propensione naturale ad imitare, così profondamente radicata nel nostro sistema nervoso e patrimonio genetico. Dopo avere studiato i comportamenti e i modi di fare di tre terapeuti che in quegli anni riscuotevano molto successo a livello professionale e sociale (Fritz Perls, terapeuta della scuola gestaltica; Virginia Satir, terapeuta della famiglia; Milton Erickson, fondatore e presidente della società americana di ipnosi clinica) Bandler e Grinder giunsero alla conclusione che tutti (o quasi) coloro che raggiungono un buon livello nella carriera lavorativa e/o nella società condividono gli stessi gesti, comportamenti e atteggiamenti: un bagaglio di espressioni e modalità comunicative efficaci quanto ricorrenti, che possono svilupparsi in maniera autonoma e spontanea fin dall’infanzia per inclinazione naturale o per imitazione di modelli, oppure essere apprese successivamente, applicandosi, prestando at-

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tenzione e correggendosi. Di qui la convinzione che per riuscire sia sufficiente riprodurre gli stessi comportamenti delle persone di successo ed eliminare dal proprio bagaglio comportamentale tutti gli atteggiamenti sbagliati o controproducenti. Chiunque può cambiare il proprio modo di fare e di essere in mezzo agli altri, purché abbandoni quelle modalità espressive che portano all’insuccesso, migliori la percezione che ha delle situazioni e infine riprogrammi i propri atteggiamenti, le Qu proprie es attitudini e in ultima analisi il proprio cervello in senso to positivo, cioè alla propria riuscita personale. Seefunzionale bo ok e Grinder, i tre psicoterapeuti di successo da condo Bandler ap pa studiati erano in grado di costruire un “raploro attentamente rti en porto empatico positivo” con i loro pazienti che si traduceva e aR nel miglioramento personale di questi ultimi. Ne dedussero ina l d che una comunicazione efficace ha effetti positivi e desiderao Pa bili su coloro che con cui il soggetto interagisce e, di ritorno, ce anche su quest’ultimo. Il nome scelto dai fondatori di questa tecnica sintetizza tre componenti: Programmazione: le modalità umane di comportamento sono variabili e si fondano sulla percezione e sull’esperienza individuali. C’è una gamma predefinita di comportamenti (programmi o schemi) che funzionano in modo inconsapevole e automatico. Neuro: ogni comportamento umano è fatto di processi neurologici. Il sistema nervoso riceve stimoli dagli organi di senso (vista, tatto, udito, olfatto e gusto) e li rielabora come percezioni e rappresentazioni. Linguistica: i processi mentali umani sono codificati, organizzati e trasformati attraverso il linguaggio. Le parole sono ponti che collegano le rappresentazioni interne del mondo con l’esperienza. Il linguaggio è l’espressione individuale della nostra percezione soggettiva. A dispetto del mondo scientifico che ha definito la PNL una “pseudoscienza”, questa tecnica si è diffusa e ha trovato

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applicazioni in campi diversi: nello sport, in psicoterapia, nel marketing, nel management aziendale, nel cosiddetto coaching per migliorare la comunicazione, le relazioni e l’efficacia personale. Chiunque può farvi ricorso, ma in particolar modo viene utilizzata da coloro che hanno a che fare con il pubblico: attori, dirigenti di azienda, venditori, politici, psicoterapeuti eccetera. Si tratta di copiare o migliorare una strategia interattiva di successo, che può appartenere o al bagaglio delle noQu stre esperienze passate o a qualcun altro come un amico, un es to collega, unebpersonaggio pubblico. Che la PNL funzioni opoo pure no, in fondo k a è quello che tutti quanti noi facciamo sponpa taneamente da psempre, in maniera non programmata da rti e quando cioè da bambini ne imitavamo i grandi o gli amichetti che aR suscitavano la nostra ammirazione. Può essere usata anche al ina l d contrario, per indurre, ad esempio, il nostro interlocutore a o Pa modificare il suo atteggiamento: cese alza troppo la voce e noi invece di farci contagiare dalla sua agitazione gli rispondiamo con toni pacati, abbiamo buone probabilità di ottenere che abbassi il tono della voce e si mostri più ragionevole. In questo caso, gli facciamo da specchio rinviandogli un’immagine diversa e migliore. Scienza o pseudoscienza la PNL aumenta la consapevolezza delle persone che la praticano su aspetti importanti della comunicazione a cui generalmente non prestano molta attenzione. Esse imparano ad osservare gli atteggiamenti degli altri e a guardarsi con un occhio esterno mentre, come degli attori, cercano di assumere i comportamenti ritenuti più efficaci. A seconda dei casi l’effetto può risultare naturale oppure artificioso, convincente oppure distaccato, ma in esso non c’è nulla di sleale. Diverso è invece quando la PNL non è al servizio dell’emancipazione personale, del successo o della buona impressione, più che lecita, che uno vuol fare sugli altri, ma viene utilizzata in modo subdolo per manipolare, come nel caso che segue, dove il manipolatore cerca di creare sull’interlocutore il cosiddetto “effetto camaleonte”.

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Carlo è il responsabile del servizio formazione di una grossa azienda. È lui che pianifica, che sceglie i formatori, che decide quali stage far fare a dirigenti e impiegati. Ha una grossa responsabilità e un buono stipendio. Da lui dipende la formazione e la produttività di gran parte del personale. Tempo fa Carlo aveva seguito uno stage per affinare la comunicazione e l’abilità argomentativa e durante quel corso era stato sensibilizzato alla differenza che esiste tra convincere e manipolare, ossia portare validi argomenti o, al contrario, usare Qu strategie manipolative. Un giorno, due dirigenti di uno studio es specializzato nella formazione avevano richiesto un incontro per to eb una serie di attività nella sua azienda. Carlo li aveva riceproporre oo k aufficio perché doveva rinnovare il programma ed era vuti nel suo pp curioso di sentire ar che cosa intendevano proporgli. L’incontro era tie iniziato bene. I due nefunzionari erano simpatici e comunicativi. Sin aR un clima disteso e cordiale. Ad un certo dall’inizio si era creato in punto però Carlo si rese aconto ldo che i suoi interlocutori parlavano di tante cose, che erano moltoPbrillanti, ma che si mantenevano sulle ac e stanno proponendo qualcosa di generali. Non sarà, pensò, che mi inutile o di scadente? Fu in quel momento che ebbe l’illuminazione. Notò che molto discretamente uno dei due lo osservava e si modulava sulla sua gestualità, sul suo tono di voce, assentiva quando lui assentiva, sorrideva quando lui sorrideva… Si ricordò allora di quando lo psicologo del corso sulla comunicazione gli aveva illustrato le tecniche di sincronizzazione e capì che quei due le stavano applicando su di lui. Invece di illustrare le loro proposte con valide argomentazioni, essi cercavano di convincerlo con la seduzione. Dopo essersi assicurato che proprio di manipolazione si trattava Carlo, gentilmente ma rapidamente, aveva posto fine al colloquio. (da Breton, 2008)

Nel caso dell’anoressica descritta dalla Bruch (vedi a p. 15) è la paziente, che in modo inconsapevole si sincronizza e si identifica con il modello che ha di fronte al punto da immedesimarsi nelle sensazioni che questi prova durante il pasto. La sua posizione è quella della soggiogata. In questo caso, invece, il manipolatore cerca di creare, consapevolmente, una sincronizzazione fisica con l’interlocutore che ha di fronte con l’obiettivo di soggiogare il suo subconscio.

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La tecnica del rispecchiamento (o del camaleonte) è descritta nei manuali per venditori: tono della voce, posture, pause, ritmo della respirazione, ammiccare degli occhi, cenni di assenso, piccoli movimenti del capo e altre modalità espressive della comunicazione non verbale vengono riprodotte allo scopo di creare un clima favorevole. Anche la ripetizione sistematica di ciò che l’interlocutore dice riprendendo le sue parole eQ i suoi sentimenti (“come hai detto tu...”, “è proprio ue contribuiscono a creare l’effetto camaleonte (vedi così…”) sto anche Scheda eb 1). E tuttavia, siccome nessuna tecnica è peroo fetta, molto dipende dalla capacità del persuasore, dalla conka pp sapevolezza del destinatario nonché dalla rilevanza della quear tie stione. Nel caso di Carlo ne il trucco non ha funzionato perché aR colto subito “qualcosa di troppo”. conoscendo la tecnica ha in do avere successo. Il che spiega In altri casi invece il truccoalpuò Pa perché la saggezza popolare consigli, prima di prendere una ce decisione importante, di “dormirci su”, di concedersi cioè il tempo necessario per riflettere e valutare, al di fuori di quella forza di attrazione che un interlocutore abile e seduttivo può esercitare. Sulla sincronizzazione fisica si basano anche le risate registrate inserite nei programmi televisivi. È raro che qualcuno dica di apprezzarle e tuttavia su molti spettatori questo stratagemma ottiene l’effetto desiderato. Quell’allegria artificiale è contagiosa: l’uso delle risate induce a ridere più spesso e più a lungo. Anche i giudizi complessivi sulle trasmissioni risultano in questo caso più positivi per quelle accompagnate dalle risate o da manifestazioni esplicite di consenso. I dati sull’efficacia delle risate registrate provengono da ricerche ormai “classiche” come quelle di Fuller e Sheehy-Skeffington (1974), Nosanchuk e Lightstone (1974): quest’ultimo lavoro, in particolare, indica che l’efficacia è massima quando il materiale è scadente; detto in altri termini, significa che più il materiale è scadente più gli autori televisivi sono indotti a inserire le risate fasulle nella colonna sonora dei loro programmi per creare un clima di partecipazione e consenso.

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Gli autori dei programmi scadenti e i produttori televisivi fanno il loro mestiere, incalzati dalla concorrenza e dall’audience; il problema è come mai un trucco così banale e trasparente continui a funzionare con il pubblico, che si rende conto che le risate sono aggiunte artificiosamente. Il fenomeno si spiega riflettendo sul ruolo che svolge un’altra potente arma della persuasione, anch’essa basata sull’imitazione: il principio della riprova sociale. Q ue

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LA RIPROVAoSOCIALE ka pp

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ien Nell’Etica Nicomachea Aristotele spiega come gli uomini e aR non esitino a far propria un’opinione non appena si convinina l d cono che essa è “universalmente accettata”. Anche questa è o Pa una forma di imitazione, dettata ce in questo caso dalla convenienza, dal desiderio di sentirsi al sicuro, insieme agli altri. Ritrovarsi da soli a sostenere un punto di vista provoca un senso di sgomento e di allarme. Si può dunque aderire all’“opinione generale” non perché la si condivide ma per mettersi al riparo dalle cattive sorprese, dalle critiche e/o per il piacere di sentirsi in sintonia con gli altri. Il principio della riprova sociale, spiega Cialdini (1989), ci dice che uno dei mezzi che usiamo per decidere che cos’è giusto, è cercare di scoprire che cosa gli altri considerano giusto. «La tendenza a considerare più adeguata un’azione quando lo fanno anche gli altri normalmente funziona bene. Di regola, commetteremmo meno errori agendo in accordo con l’evidenza sociale che al contrario. Questo aspetto del principio della riprova sociale è il suo maggior punto di forza, ma anche la sua debolezza. Come altre armi di persuasione, ci offre una comoda scappatoia, ma allo stesso tempo ci espone agli attacchi dei profittatori in agguato» (p. 96). Ci sono molti stratagemmi, non solo quello delle risate registrate, per dare l’impressione che la maggioranza pensi o agisca in un certo modo. È tradizione che attori di teatro anche bravi si avval-

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gano spesso di una claque che guida gli applausi. Famosi predicatori internazionali, che fanno il giro del mondo e compaiono in televisione, si portano dietro un numero consistente di coadiutori per dare l’impressione di condivisione e consenso. Uno stratagemma a cui ricorrono anche gli agenti dei cantanti e delle star del mondo dello spettacolo: il gruppetto di fan che attendono all’uscita dell’albergo il loro “idolo” è in qualche caso Qspontaneo, in altri casi invece è organizzato ad hoc. Ancheuiespubblicitari e i venditori per promuovere un prodotto t insistonoosul eb fatto che riscuote un grande successo “di puboo blico”: in questo k a modo non hanno bisogno di convincere che pp dicano che molti altri la pensano così. A è buono, basta che ar tie completare il messaggio ne ci pensa il destinatario che dentro di aR “se piace a tanti deve essere un sé fa questo ragionamento: ina ldo buon prodotto”. Pa Come un gruppetto possa dar ce vita ad una sorta di effetto valanga del consenso intorno a opinioni, idee, scelte o personaggi di cui in realtà la maggior parte delle persone non ha una cognizione sufficiente (e qualche volta nessuna cognizione) lo ha spiegato il filosofo Arthur Schopenhauer nel volume L’arte di ottenere ragione. «Ciò che si chiama opinione generale è, a ben guardare, l’opinione di due o tre persone; e ce ne convinceremmo se potessimo osservare come si forma una tale opinione universalmente valida. Troveremmo allora che furono in un primo momento due o tre persone ad avere supposto o presentato e affermato tali opinioni, che si fu così benevoli verso di loro da credere che le avessero davvero esaminate a fondo: il pregiudizio che costoro fossero sufficientemente capaci indusse dapprima alcuni ad accettare anch’essi l’opinione: a questi cedettero a loro volta molti altri, ai quali la pigrizia suggerì di credere subito piuttosto che farne faticosi controlli. Così crebbe di giorno in giorno il novero di tali accoliti pigri e creduloni: infatti, una volta che l’opinione ebbe dalla sua un buon numero di voci, quelli che vennero dopo l’attribuirono al fatto che essa aveva potuto guadagnare a sé quelle voci solo per la fondatezza delle sue ragioni. I rima-

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nenti, per non passare per teste irrequiete che si ribellano contro opinioni universalmente accettate e per saputelli che vogliono essere più intelligenti del mondo intero, furono costretti ad ammettere ciò che era già da tutti considerato giusto. A questo punto il consenso divenne un obbligo. D’ora in poi, i pochi che sono capaci di giudizio sono costretti a tacere e a poter parlare è solo chi è del tutto incapace di avere opinioni e giudizi propri, ed è la semplice eco di opinioni altrui: tutQ tavia,ueproprio costoro sono difensori tanto più zelanti e intolsto leranti diebquelle opinioni. Infatti, in colui che la pensa diveroo samente, essi non tanto l’opinione diversa che egli prok odiano ap pa fessa, quanto l’audacia di voler giudicare da sé, cosa che essi rti e stessi non provano nmai e a fare, e in cuor loro ne sono consaaR capaci di pensare sono pochissimi, pevoli. Insomma, a esser ina ldo tutti: che cos’altro rimane se non ma opinioni vogliono averne Pa accoglierle belle e fatte da altri, ceanziché formarsele per conto proprio?» conclude Schopenhauer «Poiché questo è ciò che accade, quanto può valere ancora la voce di cento milioni di persone? Tanto quanto un fatto storico che si trova in cento storiografi, ma poi si verifica che tutti si sono trascritti l’uno l’altro, per cui, alla fine, tutto si riconduce all’affermazione di uno solo» (pp. 54-56). Scheda 2 NESSUNO SFIDA L’OPINIONE PUBBLICA CON PARERI IMPOPOLARI

In una lettera-testamento dal titolo The Privilege of the Grave scritta cinque anni prima di morire e pubblicata postuma, lo scrittore americano Mark Twain (1835-1910) spiegava come secondo lui la libertà di parola sia una illusione. Ecco alcuni passaggi di quella lettera: «L’omicidio è proibito sia formalmente che di fatto, la libertà di parola è formalmente permessa, ma di fatto proibita. Per l’opinione comune sono criminali entrambi, tenuti in gran spregio da tutti i popoli civili. L’omicidio è a volte punito, la libertà di parola lo è sempre, qualora venga esercitata. Il che avviene raramente. Ci sono

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almeno cinquemila omicidi per ogni (impopolare) manifestazione di libera espressione. Questa riluttanza a esprimere opinioni impopolari è giustificata: il prezzo da pagare è assai alto, può comportare la rovina economica di un uomo, può fargli perdere gli amici, può condannare all’emarginazione la sua famiglia innocente e rendere la sua casa un luogo desolato, disprezzato ed evitato da tutti. Nel petto di ogni uomo si cela almeno una opinione impopolare sullaQ politica o sulla religione, e in molti casi se ne trova ben più u d’una.ePiù sto l’uomo è intelligente, maggiore è la quantità di opinioni eb che ha e che tiene per sé. Non c’è individuo – comdi questo tipo o preso il lettoreokeame stesso – che non sia in possesso di convinzioni pp impopolari, che coltiva ar e accarezza e che il buon senso gli vieta di tie esprimere. A volte sopprimiamo un’opinione per ragioni che ci ne aRpiù spesso lo facciamo perché non posfanno onore, non onta, ma in siamo sostenere l’amaro costoadi ldodichiararla. A nessuno di noi piace Pa evitato. Una naturale conseessere odiato, a nessuno piace essere ce guenza di questa condizione è che, consciamente o inconsciamente, facciamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione piuttosto che esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate. Quest’abitudine produce inevitabilmente un altro risultato: l’opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un’opinione, è semplicemente un atteggiamento […]».

«Io lo dico, tu lo dici, ma alla fine lo dice anche quello. Dopo che lo si è detto tante volte, altro non vedi se non ciò che è stato detto». È questo un motto famoso di Goethe che spiega il modo in cui possano diffondersi le opinioni. Ma quando un’opinione (o una credenza) è molto diffusa e condivisa diventa difficile smontarla, anche se è palesemente falsa o pericolosa, perché agli occhi di molti essa ha ormai assunto un valore di verità: è il fatto stesso di essere condivisa da molti a renderla veritiera. E se qualcuno tenta di smontarla la spiegazione è sempre la stessa: non sarebbe condivisa da così tante persone se fosse “del tutto” falsa. Succede allora che chi si trova nella delicata posizione di poter diffondere idee e opinioni, se non è frenato dall’etica e dal rispetto dei destinatari dei mes-

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saggi che invia, può anche creare ex novo delle “verità” che, condivise via via da un numero crescente di persone, “non possono non essere vere” perché, ognuno pensa tra sé e sé, è impensabile che così tanta gente si sbagli: il che a volte è vero, ma altre volte è falso. SPIRALI DI SILENZIO E MIMETISMO MEDIATICO Q ue

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o eb della sua importanza, questo tipo di riflessione A riprova o attraversa leokepoche storiche e le discipline. Elisabeth Noelleap p Newmann (1973), ar per esempio, autrice di numerose ricerche tie ne mediatica, ha spiegato come i mass sulla comunicazione aR media provochino delle di silenzio”. Così come, con in“spirali ald altre parole, hanno spiegato o Arthur Schopenhauer, Mark Pa Twain, Robert Cialdini, Goethe ce o Aristotele molti cercano di capire qual è l’opinione dominante e si conformano a quelle che pensano siano le tendenze più diffuse per non andare contro corrente. Ponendo in primo piano alcune opinioni e non altre, i mass media, ad esempio la televisione, possono dare l’impressione che certe convinzioni siano dominanti anche se di fatto non lo sono. Accade quindi che molti spettatori aderiscano ad un’opinione che considerano maggioritaria e autocensurino le opinioni contrarie. Ciò accade perché molte persone sono sole davanti al televisore con cui non possono instaurare un contraddittorio; inoltre, essendo sole, non hanno modo di confrontare la versione proposta dai media con quella di altre persone e di scoprire, per esempio, che molti altri non la condividono. In questo contesto si realizza facilmente, su vasta scala, il fenomeno “dell’ignoranza pluralistica”, cioè l’errata convinzione che esista una maggioranza compatta, mentre in realtà c’è, quanto meno all’origine, un pluralismo di idee. In preda all’ignoranza pluralistica, la gente tenderà ad autocensurare sempre più la dissidenza, con l’effetto di accentuare il clima di “opinione dominante” innescato dai mass media.

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A questo tipo di argomentazione si potrebbe controbattere che le fonti di informazione sono molte e diversificate, il che però è vero soltanto quando i mezzi di informazione fanno correttamente il loro mestiere e non cadono essi stessi vittime del mimetismo mediatico. Che cosa significa? Significa che la spinta ad imitare è presente anche nei media i quali possono precipitarsi su una informazione senza verificarne l’autenticità, soltanto perché altri la stanno diffondendo e Q non siuepuò restare fuori da uno scoop. Rincorrendosi a visto cenda le diverse reti finiscono spesso per fornire agli spettaeb o tori resocontioksimili che rimbalzano da un’agenzia all’altra e ap pa da un canale all’altro senza che ci sia il tempo per una verirti e fica. ne aR Il mimetismo mediatico, ina spiega Ignacio Ramonet nel voldo lume La tirannia della comunicazione (1999) è quella febbre che si impossessa dei media ePliacspinge, nell’urgenza più ase soluta, a precipitarsi per coprire un evento (qualunque esso sia) con il pretesto che i media concorrenti si stanno impossessando di quell’evento ed esso sta acquistando un’importanza crescente. «Questa imitazione delirante, spinta all’eccesso provoca l’effetto valanga e funziona come una sorta di auto intossicazione: più i media parlano di un tema, più si persuadono, collettivamente, che quel tema è indispensabile, centrale, capitale, e che bisogna coprirlo ancora di più, consacrandogli ancora più tempo, più mezzi, più giornalisti. I media si autostimolano, si sovreccitano gli uni con gli altri, moltiplicano i rilanci e si lasciano andare verso un eccesso di informazione in una specie di spirale vertiginosa, ubriacante, fino alla nausea» (p. 33). Incalzati della concorrenza, i media sono indotti a inseguire le notizie e a rilanciarle. In tempo reale. Chi lavora con le notizie non può permettersi che altri facciano lo scoop e siano sempre primi nell’annunciare le novità. Se perde terreno troppe volte rischia la carriera. Qualcun altro in attesa, può soppiantarlo. Ciò origina un cortocircuito che alla fine porta i giornalisti, prede dell’urgenza, ad affidarsi alle agenzie senza

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verificare l’autenticità delle notizie; oppure ad alimentarle tenendole in vita il più possibile per continuare a parlarne e fare audience. Il rischio di adottare un’idea o una interpretazione preconfezionata senza approfondire e verificare le fonti è molto comune: ci vuole tempo, calma e spirito riflessivo per poter valutare i pro e i contro e operare una scelta con cognizione di causa. Un caso di mimetismo mediatico che molti ricordano fu nel Q 1998uel’affaire Clinton-Lewinsky, talmente gonfiato dai media sto che qualcuno ipotizzò che Bill Clinton, allora presidente degli eb o Stati Uniti, oavesse inventato la crisi irachena per deviare sulka pp l’Irak e su Saddam ar Hussein l’interesse nefasto dei media. I t media americani siienerano precipitati sulla notizia di una relae aR e una stagista della Casa Bianca bazione sessuale tra Clinton in do sandosi su un’unica fonte,alsenza verificarne l’attendibilità e soPa pratutto senza spiegare al pubblico ce da dove quella notizia provenisse. E poiché nessuna emittente avrebbe mai accettato di non mandare in onda uno scoop così sensazionale lo scandalo fece il giro del mondo prima ancora che ci fossero delle prove e una versione attendibile dei fatti. Una volta messo in circolo uno scoop del genere si autoalimenta: gli spettatori vogliono i dettagli, i giornalisti vanno a caccia di indiscrezioni e di interviste, si raccolgono opinioni, vengono organizzati dibattiti e sondaggi, ogni giorno emerge un elemento nuovo. Le testate giornalistiche si rincorrono e più si rincorrono più danno corpo all’evento. Si materializza così la cosiddetta profezia che si auto-avvera. Secondo questo principio – formalizzato da Robert Merton sotto il nome di “teorema di Thomas” – una cosa percepita come reale diventa reale nelle sue conseguenze. Un evento costruito non ha più bisogno di giustificarsi se ha conquistato l’attenzione del pubblico, ne ha suscitato la curiosità e si è trasformato in pubblica opinione (vedi il caso riportato nella Scheda 3). La sua forza risiede nel potere che esercita sul campo, non nella sua veridicità o nel suo intrinseco valore.

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Scheda 3 LE VOCI D’ORLÉANS Nel 1969 nella cittadina francese di Orléans era sorta una voce secondo cui alcune ragazze, dopo essere state addormentate in boutiques di moda da commercianti per la maggior parte ebrei, erano rimaste vittime di una “tratta delle bianche”. Una équipe di sociologi Qsiurecò ad Orléans subito dopo il momento più critico della dife to “notizia”, per raccogliere il maggior numero possibile fusionesdella eb di testimonianze oo di persone che occupavano le posizioni più dika verse. Quei fatti, dalla fantasia (e dal desiderio inconscio di lipnati pa berazione sessuale unito al senso di colpa) di alcune liceali, non rti e erano mai accaduti; manmolti erano ormai convinti che fossero reali e a perché tutti ne parlavano,Rcompresi i giornali. Anche quando fuina ldo continuarono a crederci perché rono ridicolizzati e smentiti, molti Pa ormai quella convinzione aveva preso ce forma ed era stata raccontata e condivisa. E poiché la polizia aveva sempre evitato di parlarne nella fase culminante del fenomeno, la rete di tratta delle bianche venne attribuita alla polizia e coinvolse l’amministrazione locale il cui silenzio divenne la prova evidente di una colpevole complicità. La vicenda di Orléans fu raccontata in un volume, La rumeur d’Orléans (1969), dal filosofo Edgard Morin.

DIFFUSIONE E COMUNICAZIONE È utile distinguere il termine“diffusione” dal termine “comunicazione”, spesso usati come sinonimi. Una buona comunicazione fornisce al recettore del messaggio gli elementi per valutare, inquadrare, comprendere le cause e le conseguenze di un messaggio, i suoi risvolti positivi e quelli negativi. Il processo comunicativo che invece si riduce alla sola fase di diffusione, come avviene molto spesso nei mezzi di comunicazione di massa, è fortemente carente e incompleto. La trasmissione in questo caso è a senso unico, il recettore del messaggio non ha la possibilità materiale o simbolica di rispondere, di avan-

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zare delle obiezioni o proporre delle alternative, di esigere un approfondimento e un maggiore rigore. Questa carenza può favorire una valorizzazione impropria di altri indicatori, elementi di contorno che finiscono per avere il sopravvento: per esempio, l’aplomb, la sicurezza, l’assertività con cui le opinioni vengono presentate, il modo di parlare e di porgere dello speaker unito ad una coreografia che lo valorizza. Pochi sanno cheQun timbro di voce grave aumenta la credibilità dell’oratore ue Streeter, Krauss 1979), che la scena di apertura di un (Apple, sto telegiornale eb su cui domina il colore blu produce un effetto rioo lassante sullo k aspettatore (Gorn et al. 2004), che il parlare vepp in televisione rende il discorso più credibile loce, senza pause, ar tie (Duller et al. 1992). nIn e quest’ultimo caso, la valutazione istintiva dello spettatore è alaRinseguente: “Se parla velocemente vuol ald dire che non ha esitazioni, che conosce ciò di cui parla”, con o la conseguenza che per tenerePaiceritmi televisivi molti finiscono per dire ovvietà, frasi standard buone per ogni occasione. Chi è responsabile di questa deriva della comunicazione? Tutti e nessuno. Nessuno è realmente responsabile dell’avvitarsi del sistema su se stesso. Da un lato, i media, incalzati dalla concorrenza, sono indotti a inseguire le notizie e a rilanciarle. Dall’altro, c’è un pubblico ormai assuefatto alla sua dose quotidiana di informazione che entra in crisi di astinenza quando non ne riceve a sufficienza o la sua curiosità non viene soddisfatta all’istante. Ciò origina un cortocircuito che alla fine porta i giornalisti, preda dell’urgenza, ad affidarsi alle agenzie senza verificare l’autenticità delle notizie; oppure ad alimentarle tenendole in vita il più possibile per continuare a parlarne. Un sistema che assomiglia a quelle gabbie in cui i ratti che corrono accelerano la rotazione dell’impianto. Lo stesso affannoso rincorrersi lo si riscontra anche in quei programmi di intrattenimento che nella stessa fascia oraria sono l’uno il clone dell’altro. Quando un programma realizza uno share elevato, le reti concorrenti, per paura di perdere audience e sponsorizzazioni, si affrettano ad imitarlo. Proprio come fanno coloro che praticano la PNL (vedi p. 24), studiano le ca-

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CAPITOLO I

ratteristiche “vincenti” del programma di successo e ne mandano in onda uno simile nello stesso orario; il che ha però l’effetto di ridurre la varietà dei generi e di omologare l’offerta. A livello internazionale i format che ottengono un buon successo di pubblico fanno il giro del mondo, qualche volta con piccoli adattamenti, ma invariati nella loro struttura portante. Q

ue LO SPECCHIO DELLA MEDIOCRITÀ s to

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Un aspettookrelativamente nuovo, tipico dei nostri anni, è il ap p successo di pubblico ar che riescono ad ottenere reality come Il tie ne dei famosi, La fattoria, format televiGrande Fratello, L’isola aR sivi in cui i personaggi-attori ina si mostrano nella loro irrilevante ldo quotidianità, ottenendo in cambio la notorietà. “Il medium è Pa il messaggio” fu l’intuizione geniale ce di McLuhan e questi spettacoli sembrano proprio dargli ragione. Il semplice comparire attribuisce identità, ruolo, prestigio a chi viene inquadrato dalla telecamera. C’è un valore aggiunto dato dal semplice passaggio in video che trasforma degli esseri umani comuni in icone. I gesti più irrilevanti della quotidianità o i discorsi più insignificanti acquistano una pregnanza che al di fuori dello schermo non avrebbero. Gesti e discorsi che chiunque può fare senza sforzo, il che non soltanto è tranquillizzante per lo spettatore (che pensa “anch’io potrei andare in tv”) ma induce quest’ultimo a considerare la mediocrità un traguardo soddisfacente. «Ciò che i telespettatori vogliono profondamente» scriveva Jean Baudrillard (2001) riferendosi alla versione francese del Grande Fratello «è lo spettacolo della banalità, che è oggi la vera pornografia, la vera oscenità – quella della nullità, dell’insignificanza e della piattezza». E poiché l’insignificanza faceva audience, altre reti e altri programmi, per reggere la concorrenza, si sono messi allo stesso livello dei reality. In nome della corsa all’audience la banalità ha contagiato altre trasmissioni, che attestandosi su un

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UNA FORTE PROPENSIONE AD IMITARE

basso profilo hanno rinunciato definitivamente alla qualità. Ne consegue che molti degli spettatori che oggi accendono il televisore non si aspettano nulla di meglio o di sostanzialmente diverso. A conclusione di questo capitolo possiamo affermare che l’imitazione è fondamentale alla vita sociale e alla crescita individuale. Aggrega. Crea legami. È alla base di numerosissimi Qu apprendimenti principalmente nell’infanzia ma non solo. es to Consenteebuna rapida circolazione delle idee e dei comportaoo menti. E tuttavia, proprio perché è un’esigenza profondaka pa mente radicatapdentro di noi, può essere strumentalizzata. Nel rti e capitolo che segue nci e soffermeremo sulle strategie messe in aR il cui obiettivo non dichiarato è campo dal manipolatore ina ldo scopi senza tener conto degli inquello di raggiungere i propri Pa teressi degli altri, facendo però credere che sta agendo nel cloro e loro personale interesse. Per ottenere questo risultato, l’esperto manipolatore ricorre a strategie dolci di aggiramento, stimoli capaci di toccare le corde più sensibili delle persone: le emozioni, gli affetti, il desiderio di affermarsi, l’invidia, la rivalità, l’ammirazione, la paura... Chiunque però, prestando un po’ di attenzione, può sviluppare quegli anticorpi che ci consentono di difenderci dalle manipolazioni e di scegliere in piena autonomia.

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Capitolo II

Il piacere di farsi convincere

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I professionisti della persuasione non sono i soli

aooconoscere e ad usare questi principi a proprio vantaggio; ka pp ma lo specialista ha molto più della nostra vaga e ar tie dilettantesca cognizione di ciò che funziona o no. ne Robert Cialdini aR ina ldo Pa Quando pensiamo alle vittime cedei manipolatori le immagi-

niamo quasi sempre come delle persone inermi e innocenti che vengono raggirate da individui infidi contro la loro volontà. La realtà però non è così semplice e lineare. Che persone ingenue e facilmente manipolabili esistano è fuori discussione, cinquant’anni di ricerche in psicologia sociale hanno però arricchito questo schema interpretativo dimostrando che il manipolato non è sempre passivo ma può avere delle “buone ragioni” per lasciarsi influenzare, anche se queste ragioni possono poi rivelarsi fallaci. GLI STUDI SCIENTIFICI A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso, un gruppo di psicologi diretti da Carl Hovland dell’università americana di Yale, iniziarono a studiare la manipolazione partendo dalla comunicazione persuasiva. Sino ad allora la persuasione era stata studiata nell’ambito della retorica, disciplina che, com’è noto, risale all’antichità. Rispetto alla tradizione retorica le ricerche del gruppo di Yale segna-

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rono una svolta sia perché si incominciò a studiare la comunicazione persuasiva con metodi scientifici e sia perché l’intento non era più quello di codificare l’arte della persuasione, ma quello scientifico di capire come e perché la persuasione funziona. Hovland, che nel corso della seconda guerra mondiale aveva fatto parte di un gruppo di ricerche militari, era rimasto colpito dal ruolo che la propaganda, allora attraverso la radio, poteva svolgere nel modificare gli atteggiamenti e le Qu opinioni es delle persone. to Per capire che cosa poteva far cambiare l’attitudine di una eb o persona neiokconfronti di una idea, di un convincimento o di ap pa un’opinione, Hovland e i suoi collaboratori misero a punto un rti e protocollo per i loroneesperimenti noto come “il paradigma di aR Yale”. Con questo protocollo essi studiarono gli effetti della ina l d comunicazione persuasivaoconfrontando il “prima” con il Pa “dopo” e osservando la persuasione da tre diverse angolature: ce la natura della fonte di informazione; le proprietà del messaggio inviato; le caratteristiche del destinatario e il ruolo che questi svolge nel processo comunicativo. Ne emerse un quadro complesso e per certi versi inquietante. Per quanto riguarda la fonte, per esempio, se è accettabile, augurabile e anche prevedibile che una fonte autorevole risulti più convincente di una fonte non autorevole (Hovland e Weiss, 1951), è invece inquietante, come emerse fin dai primi studi, che le persone attraenti e simpatiche riescano a convincere di più di quelle meno attraenti e meno simpatiche o che una bella ragazza convinca di più quando è ben vestita e sapientemente acconciata piuttosto che quando veste in modo trasandato. Per quanto riguarda le proprietà del messaggio, dalle ricerche della scuola di Yale emerse l’importanza del livello di emotività che esso riesce a trasmettere. Per esempio, è più facile da persuadere una persona in preda alla paura rispetto ad una che non avendo paura si mantiene lucida. Per ottenere un effetto convincente su una persona spaventata, la paura non deve però raggiungere livelli tali da sconvolgerla, perché il panico può dar luogo a comportamenti imprevedibili. Anche altri

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CAPITOLO II

stati d’animo, come gioia, eccitazione, curiosità, commozione o tenerezza, sono in grado di creare un clima favorevole alla persuasione, come sanno bene i pubblicitari che cercano di collocare i loro messaggi all’interno di una narrazione che evochi emozioni funzionali all’acquisto o quei politici che, nei momenti di crisi, cercano di sviare l’attenzione degli elettori illudendoli con false promesse o diffondendo sondaggi addomesticati. Dati interessanti emersero inoltre dagli studi sulla struttura Qu del messaggio e sul ruolo della memoria. Miller e Campbell es to (1959) dimostrarono, ad esempio, che di due argomentazioni eb oo si ricorda meglio k a l’ultima se tra le due c’è un intervallo di pp tempo e se si è chiamati ad esprimersi subito dopo che l’ular tie tima sequenza argomentativa è stata illustrata. Si ricorda inne vece di più la prima se aleRinargomentazioni si susseguono una ald dopo l’altra (senza alcun intervallo) e se trascorre del tempo o Pa prima che ci si debba pronunciare. ce È facile immaginare come queste tendenze possano essere sfruttate da chi fa informazione nei media o cerca di impostare una campagna elettorale. Anche le argomentazioni unilaterali e bilaterali hanno pregi e limiti. L’argomentazione unilaterale risulta efficace, ai fini della persuasione, con quelle persone che sono già propense ad aderire ad una certa tesi: per esempio, per un elettore di destra convincersi che un candidato di sinistra non sia affidabile o viceversa. L’argomentazione bilaterale risulta più efficace invece con coloro che sono incerti o neutrali: per convincere questo genere di elettori serve parlare di entrambe le posizioni per poi evidenziare “obiettivamente” i “pregi” dell’una e i “difetti” dell’altra. Ovviamente chi è vaccinato a questo tipo di retorica è più resistente a tale espediente. La diffusione della televisione ha affiancato le immagini alle argomentazioni creando altri effetti interessanti che molti non hanno tardato a cogliere e a utilizzare. Uno di questi è l’effetto esposizione che vale tanto per i prodotti commerciali che per i personaggi politici, le star dello spettacolo o dello sport o per qualsiasi altra persona che goda di una elevata visibilità e che grazie ad essa viene proiettata in una sorta di empireo. Riem-

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pire lo spazio visivo e sonoro, essere visto e ascoltato regolarmente e ripetutamente suscita nel pubblico, come è stato dimostrato da studi scientifici, una attitudine più favorevole verso la persona così “esposta” (Zajonc, 1968). Solo la riflessione consente di mantenersi lucidi di fronte a questo tipo di seduzione. Poiché non tutte le persone sono influenzabili, e comunque non nella stessa misura, il destinatario del messaggio è stato attentamente studiato. Se è vero infatti che alcune modalità Qu comunicative creano un contesto favorevole alla manipolaes to zione, è però eb altrettanto vero che il destinatario non è passivo oo ma elabora le e i messaggi che riceve, li confronta k informazioni a pa con le proprie pconvinzioni e opinioni, con il proprio sistema rti e di credenze e di valori ne e cerca di dar loro un senso. Sul conaR testo soggettivo del destinatario hanno lavorato, dopo Hoina l d vland, molti altri ricercatori o ottenendo risultati che fanno Pa ormai parte del bagaglio istituzionale di conoscenze dei coce municatori di professione, ma che sono poco conosciuti o del tutto ignorati dalla maggior parte dei destinatari della comunicazione: e questo, in un mondo come il nostro basato in larga misura sulla comunicazione e le sue ricadute, rappresenta una lacuna che deve essere colmata. IL SENTIMENTO DI LIBERTÀ Una prima scoperta ad opera dei ricercatori di Yale fu il divario che può esistere, e che spesso esiste, tra opinione e comportamento. Una persona può convincersi che fare una corsa nel parco ogni mattina sia un ottimo esercizio per mantenersi in salute. Il fatto che ne sia convinta non garantisce però che la farà. La stessa cosa vale per un fumatore convinto che il fumo gli sta danneggiando la salute, ma che tuttavia continua imperterrito a fumare. Un primo risultato del gruppo di Yale fu dunque l’aver dimostrato che modificare le opinioni di qualcuno non si traduce automaticamente nella modifica dei suoi comportamenti. Un secondo risultato, meno intuitivo del precedente, riguarda

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CAPITOLO II

il ruolo centrale che nella comunicazione persuasiva può avere il sentimento di autonomia del destinatario. Sebbene esista nella nostra realtà sociale attuale una spinta all’omologazione, la nostra cultura pone l’individuo al centro e ne valorizza l’indipendenza. Ne consegue che se una persona è prevenuta è difficile convincerla, ergerà delle difese per resistere ai tentativi di persuasione. Lo psicologo sociale Jack Brehm definì “reattanza psicologica” questo tipo di reazione oppositiva Q (che haueanche un riscontro fisico a livello dell’epidermide) che sto tende a rafforzare una persona nella propria convinzione, sia eb o essa giusta o osbagliata. Una serie di esperimenti condotti da ka pp e Alexandre Pascual tra il 2000 e il 2006 Nicolas Guéguen ar tie hanno dimostrato ciò neche molti mettono in pratica spontaaR neamente, seguendo il proprio intuito, e cioè che è più semina l d plice convincere una personao se l’approccio non è invadente ac autonomia. Espressioni del e lascia spazio al suo bisogno Pdi e tipo “Ovviamente sei libero di non essere d’accordo… sei tu che decidi”, “È evidente che puoi fare quello che vuoi, anche se…” hanno una funzione tranquillizzante e facilitatrice: chi ha la sensazione di essere libero, non assillato o costretto, non ha bisogno di organizzare una difesa, è più docile, rilassato e tendenzialmente più aperto alla persuasione, che d’altro canto non è, di per sé, da rifuggire o malefica. Per quanto riguarda il fumo ad esempio le campagne pubblicitarie basate soltanto sull’induzione della paura di ammalarsi di cancro o sull’informazione dei danni prodotti dal tabacco sulla salute dei fumatori attivi e passivi non ottengono grandi risultati per diversi motivi: di fronte all’immagine della malattia il fumatore può mettere in campo dei meccanismi di difesa psicologici e convincersi che “quello può capitare agli altri ma non a me” e quindi sfidare il pericolo. Un’altra reazione possibile è quella della reattanza: di fronte a una forte costrizione, l’individuo adotta il comportamento contrario a quello raccomandato. È il caso del fumatore incallito che fuma due pacchetti di sigarette al giorno e che davanti alle immagini che mostrano i danni indotti dal fumo all’organismo, aumenta la dose di si-

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garette. Questa reazione è tipica delle persone che non amano agire in conformità delle regole e si sentono private della libertà se qualcuno stigmatizza il loro comportamento. Qualche successo in più riescono ad ottenerlo quelle campagne che pur indicando i pericoli, puntano sulla capacità della persona di autogestirsi (auto-efficacia): «se vuoi puoi fare così e così…» (Cho e Witte, 2005). Tornando alla discrepanza che può esistere tra opinioni e Qu comportamenti, per ottenere che una persona cambi abitues to dini, scelte eb e comportamenti in mancanza di validi motivi (che oo acquisti, per k aesempio, un prodotto simile a quello che ha pp ma di un’altra marca o che voti per un cansempre acquistato ar tie didato di cui sa poco ne o nulla) è necessario che si senta libera aRl’impressione di decidere in piena audi scegliere. Deve avere ina ldopossono anche agire sotto la prestonomia. Certo, le persone Pa sione di una minaccia, di una di una costrizione o cautorità, e del giudizio del proprio gruppo sociale; ma queste pressioni esterne impediscono di sentire come propria una scelta o un comportamento e la volta successiva questa pressione potrebbe perdere di efficacia. “Ho fatto quella scelta, ma non la condivido… non mi piace” pensa la persona costretta, rivelando che il cambiamento non si è stabilizzato. L’abile persuasore deve dunque cercare di creare un clima favorevole, al cui interno il destinatario abbia la percezione di essere libero e si senta responsabile dei propri atti. Nessuno lo obbliga ad acquistare un certo prodotto, è lui che sceglie di acquistarlo. Il grembiule scolastico è stato per lo più dismesso perché era percepito come una imposizione, non perché fosse omologante. Molti adolescenti oggi indossano jeans e maglietta, il che uniforma il loro abbigliamento, hanno però la percezione di avere scelto liberamente quel tipo di abbigliamento. Ecco perché moltissime pubblicità cercano di associare ai prodotti che sponsorizzano un senso di libertà, di avventura e di autonomia. Una variante un po’ più subdola di questa strategia è quella che pone l’azione al centro. È stata definita “sottomissione liberamente consentita” dagli psicologi sociali R.V. Joule, J.L.

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CAPITOLO II

Beavois e C. Kiesler i quali avevano notato che quando si è coinvolti in una attività si prova spesso un senso di efficacia e di libertà, sia nel caso in cui la scelta sia veramente libera sia nel caso in cui sia stata indotta. L’agire possiede un suo intrinseco potere di coinvolgimento che in determinati contesti o condizioni può essere manipolato. Il punto critico per il persuasore è riuscire ad ottenere un atto iniziale, insignificante in apparenza ma non nella realtà (una firma, una risposta, Qu un’azione, es un consenso) dando però al destinatario la sensato zione o l’assicurazione che quell’atto non avrà conseguenze. eb oo Quando invece k aci sono delle conseguenze e noi pensiamo di pa avere sbagliato, psprecato il nostro tempo o di esserci lasciati rti e abbindolare finendo per ne fare qualcosa in contrasto con le noaR una sorta di disagio. Per uscire da stre convinzioni, proviamo ina ldo abbiamo due possibilità: posquesta spiacevole condizione Pa siamo riconoscere di avere sbagliato, ce di avere agito in maniera avventata e superficiale, oppure scegliamo la sottomissione liberamente consentita: per non dover ammettere di avere sbagliato e per giustificare il nostro atto preferiamo modificare la nostra opinione. “In fondo ho fatto bene ad accettare, era una buona occasione” ci diciamo, anche se così non è. Modifichiamo la nostra opinione per giustificare il nostro comportamento. A questo primo passo ne possono seguire altri in un crescendo di scelte sbagliate che lo psicologo Kurt Lewin ha definito “effetto congelamento”: una condizione che mantiene e spesso amplifica le conseguenze della scelta iniziale. Radicalizziamo la decisione nella speranza che, proseguendo sulla strada intrapresa, ne possano derivare dei benefici. Un esempio pratico di questo tipo di ingranaggio che punta sulla forza dell’adesione iniziale è la tecnica nota come “il piede nella porta” evidenziato da un esperimento di Freedman e Fraser (1966). Le adesioni sono più o meno numerose a seconda del tipo di approccio: Approccio A - Posso installare nel vostro giardino un cartellone in cui si invitano gli automobilisti a rallentare? Adesioni: 16,7%

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Approccio B - Accetta di mettere sulla finestra questo cartellino per la prevenzione del traffico? Bene…. Qualche giorno più tardi: E se sullo stesso argomento installassimo un cartellone in giardino? Adesioni: 76% Nell’esperimento il cartellone era di 16 metri quadri. Analogamente, si è visto che le probabilità di ottenere fondi perQassociazioni umanitarie aumentano se la persona in queue ha in precedenza firmato una petizione. Il fatto di avere stione st firmato,o eebquindi aver dato in qualche modo il proprio conoo senso alle iniziative dell’associazione, crea un obbligo a cui la ka persona si senteppvincolata. E per quanto riguarda ancora i conar tie sumatori tutti gli studi realizzati negli ultimi decenni negli ne aR Stati Uniti come in Europa ina hanno mostrato che più un mesldo saggio viene ripetuto più aumentano le probabilità che esso si Pa imprima nella memoria del destinatario. È anche stata indice cata una soglia minima: ci vogliono almeno dieci messaggi al giorno per influenzare il comportamento di un consumatore. Ecco il motivo per cui cinema e televisione rimandano tante volte lo stesso spot! Scheda 4 TRUCCHI DI ORDINARIA AMMINISTRAZIONE Nella strategia del “piede nella porta” illustrata da Freedman e Fraser il trucco consiste nel chiedere poco per ottenere molto, nel trucco “della porta sul naso” (in Cialdini, 1975) invece si domanda di più per ottenere ciò che si ha in mente di ottenere: «Accompagnereste gentilmente dei giovani delinquenti allo zoo in occasione di una uscita? Non vi porterà via che due ore…». SÌ: 16,7% «Incontrereste un delinquente in prigione, due ore per settimana, per due anni? – Ah, è impossibile?! – Allora in cambio, accompagnereste gentilmente dei giovani delinquenti per una visita allo zoo? Non vi porterà via che due ore…». SÌ: 50%

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CAPITOLO II

La tecnica della “menzogna per omissione” (Cialdini et al. 1978) è volta a ottenere una decisione svantaggiosa per il destinatario ma senza che lui se ne renda conto. Il modo in cui si presenta la questione è determinante: «Cari studenti, volete partecipare ad una esperienza di psicologia sociale? Bisognerà vederci alle 7 del mattino». SÌ: 31% Studenti che si presentano effettivamente alle 7 del mattino: 24% «Cari studenti, volete partecipare ad una esperienza di psicologia sociale? Qu – D’accordo. – Dovremo vederci alle 7 del mattino. Siete ancoraesd’accordo?». SÌ: 56% to eb si presentano effettivamente alle 7 del mattino: 53% Studenti che o k a un primo consenso, diventa più difficile fare Quando si è odato p marcia indietro. par tie ne aR per le allodole (Joule et al. 1989): Le tecnica dello specchietto ina «Cari studenti, volete partecipare ldo ad un esperimento di psicologia? Dovrete imparare a memoria delle Paliste di cifre e non sarete remuce nerati». SÌ: 15,4% «Cari studenti, volete partecipare a un esperimento dedicato alle emozioni? Dovrete guardare un film e riceverete una remunerazione». Poi, quando arriva il momento: «Mi spiace, l’esperimento è terminato e non vi ho potuto avvisare! In cambio vi propongo di partecipare a un altro esperimento. Dovrete imparare a memoria delle liste di cifre e non sarete remunerati». SÌ: 47,4% La tecnica della libertà di scelta (Guéguen e Pascual, 2000): «Mi scusi, ho dimenticato il portafoglio e devo prendere l’autobus! Mi potrebbe aiutare, per favore». SÌ: 10% Somma media accordata: 0,49 «Mi scusi, ho dimenticato il portafoglio e devo prendere l’autobus! Mi potrebbe aiutare, per favore? Ma ovviamente è libero di rifiutare…». SÌ: 47,5% Somma media accordata: 1,07 Idem per Internet: «Cliccate qui» 65,3% «Siete liberi di cliccare qui»: 83% Manovrare l’urgenza. Un trucco per ottenere un rapido accordo su un argomento controverso sorvolando su aspetti importanti e rimandando ad altro momento i chiarimenti, pur sapendo che questo

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IL PIACERE DI FARSI CONVINCERE

momento non ci sarà, è quello di mettere fretta per l’incalzare del tempo. Può essere usato in qualsiasi contesto, familiare, lavorativo ecc. È visibile nei talk show quando il conduttore, appellandosi al tempo che incalza e col pretesto della pubblicità che preme, tronca di netto un intervento che sta assumendo una piega non gradita.

MANIPOLAZIONI VIRTUOSE Qu

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o La stessa eb strategia può servire a fini opposti – abbindolare oo oppure aiutare k a – dipende dalle intenzioni e dal contesto. C’è pp una manipolazione ar virtuosa che, usata in dosi omeopatiche e tie per una buona causa, ne ci appare lecita e produttiva. È ciò che aR spesso nei confronti dei figli e degli genitori e insegnanti fanno in ldo alunni per vincere le loroaresistenze allo studio o all’impegno e per abituarli al rispetto delleParegole senza dover ricorrere alle ce minacce o alle punizioni. Alcune astuzie educative, fondate sull’intelligenza, l’invenzione, il senso dell’opportunità riescono a stimolare i ragazzi senza costringerli o limitare la loro libertà. Un esempio. Un insegnante di inglese può fingere con i suoi allievi di conoscere poco o nulla di un argomento di storia dell’arte che i ragazzi hanno da poco affrontato, in altra sede, con l’insegnante di educazione artistica e farsi spiegare da loro, prima in forma orale e poi per iscritto, tutto ciò che hanno imparato sull’argomento… naturalmente in inglese. Quando è ben condotta, la strategia dell’ “insegnante ignorante” spinge gli alunni a dar prova della loro competenza, li rende attivi e, ridistribuendo il potere nella classe (generalmente è l’insegnante che monopolizza tutti i poteri, da quello disciplinare a quello pedagogico), libera uno spazio di responsabilità che può essere investito dall’iniziativa dagli alunni. Questo temporaneo sovvertimento dei ruoli, che vede gli alunni insegnare al proprio insegnante, ha l’effetto di indurre anche i più riottosi e resistenti a cooperare. “Incoraggiare per dissuadere” è un’altra forma di manipolazione accettabile. L’obiettivo di questa “astuzia” consiste nel

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CAPITOLO II

rendere insostenibile la posizione degli oppositori per indurli a cambiare atteggiamento. Immaginiamo un corso di psicologia per gli ingegneri di un’azienda. Il clima iniziale è di non collaborazione. Gli ingegneri sono distratti, apatici, guardano continuamente l’orologio, parlano al telefonino. Per contrastare il disinteresse e l’apatia, il docente decide di incoraggiare i partecipanti a dire che cosa pensano del corso e, per mostrare che li prende in Qu considerazione, scrive le loro valutazioni sulla lavagna. «Non es to serve a nulla», eb «non mi interessa», «è una perdita di tempo», oo «non ha alcun k anesso con il mio lavoro» sono i primi compp scrivere, uno per uno, i giudizi degli ingementi. A che serve ar t gneri sulla lavagna?ieServe ad attivare gli allievi e a metterli ne aR alle loro valutazioni. La lavagna in “concretamente” di fronte ina ldo questo caso funziona da specchio: attesta che i partecipanti ac loro opinioni non vengono hanno diritto di essere contro.PLe e ignorate. Ma l’effetto specchio ha anche una valenza sottilmente narcisistica cosicché, nel vedere i propri giudizi scritti sulla lavagna, i partecipanti si sentono meglio. Poiché le loro opinioni vengono prese in considerazione, possono incominciare a rilassarsi e ad essere meno ostili. Nel nuovo clima che si è creato, qualcuno incomincia ad essere più positivo nei confronti del corso e più collaborativo nei confronti del docente: può notare, per esempio, che la psicologia offre delle tematiche interessanti, che gli ingegneri che si occupano della selezione del personale dovrebbero conoscerla, che insegna a fare team e a lavorare meglio con i colleghi e così via. Man mano crollano le resistenze iniziali e alla fine il docente può iniziare il corso. Non sempre c’è modo e tempo per convincere una persona seguendo un lucido ragionamento e portando una serie di argomenti a sostegno delle proprie ragioni, così per una buona causa si può indurre l’altro ad agire prima che gli venga spiegato il motivo di quell’azione, oppure gli si dà l’impressione di una scelta libera senza però fornirgli tutti gli elementi di giudizio necessari. La differenza è nell’intenzione,

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IL PIACERE DI FARSI CONVINCERE

non nel metodo. Resta da sperare che le buone cause siano veramente tali. Ci si può domandare, ad esempio, se sia corretto dal punto di vista etico, utilizzare nelle campagne che hanno come obiettivo la salute pubblica (le cosiddette “pubblicità progresso”) gli stessi ambigui messaggi e modalità di persuasione che vengono normalmente utilizzate per vendere dei prodotti commerciali. Qu

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o PORTARE IL BISOGNO DI AFFIDARSI DOVE PUÒ eb oo

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Nel 1956 treppricercatori americani dell’università del Minar tie ne Henry Riecken e Stanley Schachter (in nesota, Leon Festinger, aR Cialdini, 1989) si infiltrarono abilmente in una setta millenaina l d ristica di Chicago, diretta da o un medico, Thomas, e da una P donna di mezza età, Marian. aThomas e Marian praticavano ce l’occultismo, il misticismo, la scrittura automatica, credevano nei dischi volanti e affermavano di essere in contatto con gli extraterrestri. Un terzo personaggio si considerava ed era considerato dai membri della setta come l’incarnazione di Gesù. Tra gli adepti c’erano casalinghe, studenti, un giornalista, un medico, un commerciante: persone comuni, di media cultura, che avevano una vita familiare e lavorativa. Fingendosi convinti seguaci della teoria millenaristica, i tre ricercatori ebbero modo di seguire gli incontri e le discussioni di gruppo che avvenivano all’interno della setta nonché di assistere ad un evento clou, che prevedeva la fine del mondo alla mezzanotte di un giorno stabilito. Da tempo i capi predicavano che tutti gli esseri umani sarebbero morti travolti da un immane diluvio, mentre i membri della setta sarebbero stati prelevati dagli extraterrestri e portati in salvo su un altro pianeta. Tutti quanti avevano imparato delle parole d’ordine per farsi riconoscere dagli extraterrestri e sapevano di non dover indossare alcun capo di vestiario corredato da elementi di metallo, bottoni e cerniere. Dal dettagliato resoconto che i tre ricercatori fecero di quell’esperienza emersero elementi di grande inte-

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CAPITOLO II

resse. Il primo è l’estrema convinzione che i seguaci e i loro capi mostravano di avere nelle loro credenze: si sentivano speciali, diversi dagli altri ed erano molto solidali tra loro. Poiché erano convinti di possedere la verità e di essere un gruppo di eletti (gli unici che, secondo le profezie, sarebbero sopravvissuti al diluvio universale) quando arrivò il momento furono anche disposti a grossi sacrifici, come liberarsi di tutti i loro averiQprima del diluvio, licenziarsi dal lavoro, lasciare gli studi ue e la famiglia. sto Un secondo elemento di rilievo è la fiducia cieca nelle loro eb oo guide carismatiche, al punto da continuare ad affidarsi ai loro ka capi anche dopoppche ar le previsioni della fine del mondo e deltie l’arrivo dei dischi volanti fallirono miseramente. Quando, ne aR dopo una lunga e trepidante ina attesa, arrivò la mezzanotte, gli ldo ciò che sarebbe dovuto succeadepti, scossi e impauriti per dere ma che non era successo,Pacaddero in uno stato di proce fonda prostrazione. Ne uscirono però rapidamente, qualche ora più tardi, quando la mano di Marian incominciò “autonomamente” a scrivere un messaggio che diceva «Il piccolo gruppo, riunito da solo per tutta la notte, ha diffuso tanta luce che Dio ha salvato il mondo dalla distruzione». Questo messaggio non solo restituì la fiducia ai seguaci della setta ma li convinse anche a fare molto più proselitismo di quanto non avessero fatto sino ad allora. Proprio perché la profezia non si era realizzata era diventato indispensabile, per la coesione del gruppo, fare nuovi proseliti. Ormai si erano spinti troppo avanti, avevano rinunciato a troppe cose per le loro convinzioni, non potevano permettersi di vederle crollare: la vergogna, i costi economici, l’abbandono del lavoro e della famiglia, il ridicolo li avrebbero travolti e distrutti. Se invece riuscivano a fare nuovi proseliti, a portare altre persone a condividere il loro sistema di credenze, queste avrebbero acquisito nuova forza. Al punto in cui erano arrivati l’unica salvezza risiedeva nella riprova sociale, ossia nel fatto che non solo loro ma anche altri condividevano le loro credenze. Il mondo fisico li aveva smentiti e la loro verità era stata messa in crisi.

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IL PIACERE DI FARSI CONVINCERE

Il mondo sociale avrebbe provato la validità delle loro credenze. Più grande era il numero delle persone che riuscivano a convertire, più adesioni riuscivano a raccogliere, più le loro idee sarebbero state vere. Il principio della riprova sociale recita infatti: quanto più vasto è il numero di persone che trova giusta una certa idea, tanto più giusta è quell’idea. Qu

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ar tie i propri desideri per la realtà. Gli inglesi defiCapita di scambiare ne aR(pio desiderio) questa propensione a creniscono wishful thinking i dere in ciò che si vuole o nsialdesidera, ma non si tratta però di una do Pa già Terenzio diceva «tu credi in scoperta del mondo anglosassone: ce ciò che speri ardentemente». Il messaggio di fondo dei gruppi millenaristi promette un futuro che molti desiderano vedere realizzato: nel giro di qualche anno accadrà un cataclisma che purificherà il mondo e darà inizio ad un’era paradisiaca. Si salveranno soltanto coloro che credono. La storia del millenarismo è costellata di insuccessi, ma questo non impedisce la ricorrente ricomparsa di nuovi profeti e nuovi discepoli. La propensione a credere in ciò che piace credere è molto forte perché dà la sensazione di poter cambiare le cose con il semplice desiderio. E qualche volta si trasforma in una forza propulsiva dagli esiti felici: credere nei propri desideri significa anche credere in se stessi e nelle proprie forze o capacità, il che può avere esiti positivi. Diverso, invece, quando questa propensione viene intercettata e manipolata da qualcuno che, in buona o cattiva fede, induce credenze irrazionali o illusioni più o meno pericolose, come nel caso dei guru di certe sette; oppure, più banalmente, cerca di trarne vantaggi personali. Un oratore, per esempio, che voglia farsi applaudire cercherà di dire ciò che il pubblico vuole sentirsi dire e non lesinerà frasi ad effetto e lusinghe. Molte campagne elettorali sfruttano questa forza propulsiva insita nell’elettore cercando di individuare ed assecondare i suoi desideri, i suoi sogni, le sue speranze. Molti elettori sanno poco o nulla del

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candidato, di lui conoscono soltanto l’aspetto e le manifestazioni esteriori, conoscono però molto bene i propri desideri e le proprie speranze cosicché quando queste vengono evocate le riconoscono come proprie. Associare l’immagine del candidato ai desideri degli elettori è il passo successivo, a volte un gioco da bambini.

All’interno di una setta, il rapporto più intrigante è quello che si crea tra il guru (o il gruppo dei capi) e gli adepti. Il guru vieneQquasi sempre descritto come dominante, autoritario, caue sto capace di influenzare e plagiare i suoi discepoli. rismatico, eb oo L’adepto è invece generalmente descritto come sottomesso, suka bordinato, vittima pp passiva del carisma del capo. Non bisogna ar tie la relazione che si crea tra l’uno e l’altro però dimenticare che ne è a due vie: il guru forgia ma anche l’adepto dà un suo al’adepto, R na forgiare il guru. Entrambi sono fondamentale contributo inel ld Pa differenti. Spesso sono proattivi, anche se con modalità eoruoli ce prio i discepoli, che prendono molto sul serio la missione del guru, a incoraggiarlo quando questi manifesta segni di stanchezza o mostra delle incertezze sulla sua missione. E sono proprio i discepoli più devoti quelli che si impegnano a riscrivere la sua biografia aggiungendovi episodi prodigiosi e ad effetto. Non è infrequente che tra il guru e il discepolo si verifichi una sorta di folie à deux o delirio condiviso. Ognuno si impegna a rinforzare le credenze e le attese dell’altro. Quando nel guru affiorano dei dubbi sulla sua missione, i seguaci sono lì per confermarla. Se non gli consentono di abbandonare o di cambiare è perché hanno dei validi motivi: da un lato non potrebbero sopportare di essere stati ingannati e dall’altro hanno bisogno di continuare a credere in lui e nella sua dottrina, di avere cioè dei “solidi” riferimenti. Questo è un aspetto critico che consente di comprendere perché alcune persone finiscono per aderire ad una setta, sottoporsi all’indottrinamento del guru, eseguire i suoi ordini, seppure sgradevoli, accettare credenze irrazionali e stili di vita bizzarri. I motivi espliciti variano da una persona all’altra, ma dagli studi che sono stati fatti sulle caratteristiche degli adepti di

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sette diverse emerge un dato comune: la setta risponde ad una mancanza o, se si preferisce, si insinua là dove c’è una mancanza. Mancanza di che cosa? Mancanza di identità, di appartenenza, di autostima, di protezione, di affetto, di risposte soddisfacenti alle importanti questioni esistenziali. C’è un vuoto di qualche tipo da riempire. Può accadere perché si è giovani, perché la famiglia è in dissesto, perché si è perduto il lavoro, perché ci si trova in un paese straniero, perché si è suQ bito uun es lutto, perché si è depressi, perché si ha bisogno di dare to un senso ealla bo propria vita, perché si è suggestionabili e prook di chi mostra un qualche interesse per noi. Le pensi a fidarsi a sette lo sanno pepavanno alla ricerca delle persone momentarti e neamente più fragilineche, nella fase iniziale, seducono con ataR tenzioni, lodi, affermazioni ina e consigli volti a blandire e a far ldo Persino l’ipnosi, dove una percadere le resistenze personali. Pa sona è completamente assoggettata ce al volere di un altro, riesce sulle persone suggestionabili ma non ha alcun effetto su altre. Si può dunque concludere che meno “mancanze” un individuo ha da colmare minore sarà il potere delle sette su di lui. Scheda 6 TIPI DA SETTA I motivi per cui una persona è attratta da una setta variano da caso a caso. Gli psicologi François Lelord e Christophe André (1996) hanno provato a redigere un inventario basato su alcuni tratti della personalità. Al narcisista, piace l’idea di appartenere ad una élite: nella setta, sente di far parte di quei pochi fortunati che hanno accesso alla “vera” conoscenza. Il paranoico è attratto dalle sette che si isolano lontano da tutti, in cima ad una montagna o nel centro di una foresta. Gli piace la sensazione di appartenere ad una minoranza perseguitata. Il dipendente, particolarmente vulnerabile al richiamo delle sette, nel trovare un gruppo che lo accoglie si sente finalmente accettato

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e protetto. È pronto a farsi vittimizzare pur di non sentirsi escluso. Lo schizoide, grande solitario di fronte all’eternità, può trovare nella setta un modo di comunicazione più semplice di quello che trova nel mondo esterno. Incapace nelle relazioni umane, è attirato dalle codificazioni rigide. L’ossessivo trova la sua sicurezza nel funzionamento ritualista del gruppo. Lo schizotipico vede il magico in ogni cosa. Superstizioso e convinto Qudi avere particolari poteri è attratto dalle sette ufologiche o es esoteriche. to eb è felice di poter mettere in scena le sue emozioni daL’istrionico oo k a dei discepoli. Preferisce i gruppi esuberanti. Invanti al pubblico pp cline all’idealizzazione ar ha volentieri una relazione passionale con il tie leader. ne aR un sollievo temporaneo alla sua visione Il depresso trova nel gruppo ina pessimistica della vita. ldo Pa cliente per le sette perché deIl passivo-aggressivo non è un buon ce testa obbedire.

VENDITORI E TELEPROMOTORI Il rapporto tra il venditore e il suo cliente può essere visto come una sorta di balletto in cui ognuno recita una parte. Il punto critico è la consapevolezza. Entrambi possono essere agguerriti, generalmente però è più facile che a condurre la danza sia il venditore, perché preparato a svolgere il suo ruolo più del cliente, anche perché su quel ruolo si guadagna da vivere. Il che non significa, ovviamente, che tutti i clienti siano manipolabili né che tutti i venditori siano dei manipolatori. Il venditore navigato sa blandire, compiacere, accarezzare l’ego dei clienti, sfruttarne le vulnerabilità con tatto, senza darlo a vedere. Alcuni possiedono un talento naturale per questo genere di cose, altri lo affinano con dei corsi professionalizzanti. Nel volume La comunicazione interpersonale (1982) lo psicologo Kurt Danziger spiega come fin dalle prime battute un venditore possa ottenere la fiducia (o la sfiducia)

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e indica il copione da seguire per impedire la ritirata del potenziale acquirente. Al centro c’è un know-how psicologico non banale. Il venditore deve collegare in modo adulatorio la scelta dei prodotti che vende ad una immagine favorevole dell’acquirente stesso in modo che questi non possa rifiutare tale immagine. Ecco alcuni esempi: «Ad una persona ricca di esperienza come lei non debbo certo ricordare che…», «Una persona di stile come lei sa immediatamente riconoscere un prodotto di qualità», «Vedo che ha buon gusto», «I nostri clienti più selettivi scelgono questo prodotto», «Questo prodotto è stato acquistato da XY (un personaggio in vista), nostro cliente affezionato» sono alcune delle frasi con cui il venditore cerca di valorizzare il cliente. Ma l’arte del venditore non finisce qui. «Per essere un buon venditore» spiega Danziger «bisogna far prevalere la propria definizione della situazione». Questa definizione comporta una messa in scena in cui il venditore irradia su chi gli sta accanto un senso di sicurezza del proprio ruolo: agisce in modo da tenere come garantito l’assenso del potenziale acquirente; sa come dribblare le critiche e le discussioni e, prima che il cliente dia il suo assenso, inizia ad incartare la merce o a scrivere l’ordinazione, oppure chiede se paga in contanti o con la carta di credito, se preferisce il modello A o quello B, il colore chiaro o quello più scuro. Viene dato per scontato un consenso implicito, che è la leva per assicurarsi l’adesione. Nell’interazione faccia-a-faccia il venditore può anche, seguendo il linguaggio del corpo del suo cliente, realizzare quella sincronizzazione di cui si è parlato a pagina 27. Alcune di queste strategie possono funzionare anche quando tra il venditore e il cliente c’è la telecamera e lo schermo televisivo, come accade per le televendite. Se è vero infatti che il venditore non vede l’acquirente e non può quindi sincronizzarsi su di lui egli, oltre a godere del prestigio che gli proviene dal medium che utilizza, può mettere in atto altre strategie. Un caso emblematico fu quello di Vanna Marchi, la televenditrice più famosa d’Italia, condannata a dieci anni di reclusione per bancarotta fraudolenta, truffa aggravata e as-


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sociazione per delinquere finalizzata alla truffa. Per raggiungere il suo pubblico al di là dello schermo e per ottenere il consenso dei telespettatori la Marchi adottò uno stile urlato e battagliero: voce stridula, gestualità appariscente, possesso della scena, sguardo dritto nella telecamera. «D’accordo?» era l’urlo che utilizzava in tutte le sue trasmissioni per agganciare e soggiogare il suo pubblico: spettatori semplici, persone fragili che in lei vedevano quella forza e quella sicurezza di cui loro erano sprovvisti; spettatori incolti e superstiziosi che credevano al malocchio ed erano pronti a spendere cifre rilevanti per farselo togliere (dai 2 ai 10 milioni di lire che però in alcuni casi hanno raggiunto la cifra di 300, 400 e 600 milioni); spettatori malati o infelici che erano pronti ad acquistare amuleti, numeri del lotto, riti magici e una serie di porta fortuna (sale da cucina, tronchetti d’edera, candele) per guarire dal cancro, disintossicare il figlio tossicodipendente, conquistare la persona amata, evitare ad un familiare di ammalarsi come la Marchi preconizzava per poterlo tenere in pugno. Secondo la Finanza quando fu arrestata la Marchi aveva circa trecentomila clienti. Prima di darsi all’esoterismo aveva lavorato in altre televendite di cosmetici e prodotti dimagranti ottenendo sempre un buon successo commerciale grazie al suo modo di esprimersi imperioso, che non ammetteva repliche. Evidentemente l’esibizione di sicurezza colpisce l’immaginazione e l’emotività di molti, privandoli di quella lucidità che consente di distinguere il truffatore dalla persona affidabile. Una distinzione che diventa ancora più difficile per quelle persone che sono cresciute credendo alle fatture e al malocchio e che aderiscono allo stesso sistema di credenze esibito dall’imbonitore. VIA CENTRALE E VIA PERIFERICA

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Negli anni Ottanta, due studiosi, Richard Petty e John Cacioppo, hanno descritto i due percorsi (centrale e periferico) che può seguire la mente umana di fronte ai messaggi per-


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suasivi che la raggiungono e che hanno l’obiettivo di orientarla verso determinate scelte o di indurre un cambiamento di atteggiamento. Il percorso centrale è un processo di elaborazione dell’argomento e delle informazioni contenute nel messaggio che richiede la capacità di analizzarlo mentalmente. Il ricevente va in profondità, bada al contenuto più che al contesto, confronta il discorso persuasivo con le conoscenze pregresse, lo rielabora, produce pensieri pro e contro e pesa il tutto per poi decidere. Sono importanti: le capacità relativamente stabili di capire; le condizioni contingenti che influiscono sullo sforzo cognitivo del soggetto; il grado di comprensibilità del messaggio; una sufficiente dose di motivazione, il soggetto deve cioè ritenere che il messaggio sia rilevante per lui. Il percorso periferico riguarda invece un processo di cambiamento basato su elementi che non sono direttamente pertinenti al messaggio come, per esempio, informazioni di sfondo o segnali periferici (vividezza e piacevolezza del messaggio, colori, luminosità, abbigliamento, gradevolezza, scenografia, musica di accompagnamento ecc.). Il ricevente resta in superficie: la sua scelta o decisione avviene sulla base di elementi estrinseci, come le emozioni suscitate dal messaggio, la gradevolezza di colui che lo invia, la parvenza di serietà del discorso, la sua lunghezza, insomma una serie di elementi di contorno. Questo processo si attiva più facilmente in condizione di scarsa motivazione o di scarse capacità critiche, tipica condizione infantile; ma può essere ulteriormente incoraggiato dai modelli semiologici impliciti nella comunicazione che indicano come assumere il messaggio, come contestualizzarlo e leggerlo, qual è il significato generale che il ricevente deve dargli. C’è un comunicare sulla comunicazione (metacomunicazione, vedi a p. 70) che indica come i messaggi devono essere interpretati. I messaggi pubblicitari, per esempio, si basano sul fatto che, qualunque sia l’argomento di cui si parla, il significato è sempre il risultato dell’associazione di un prodotto con una qualità che lo valorizza. Tutti i messaggi pub-


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blicitari si fondano su questo schema immutabile, cosicché quando si guarda uno spot la comprensione va da sé: è implicito cioè che il prodotto che viene presentato sia illustrato come un buon prodotto. Una semplice esperienza chiarisce questo concetto. A due classi della sezione superiore della materna fu presentato uno spot ispirato alla campagna contro il fumo (Bentolila, 2007). Vi si vedeva un ragazzo che proponeva ad una ragazza una sigaretta. La ragazza prendeva la sigaretta, la schiacciava tra le dita e poi la buttava dicendo «un po’ di libertà guadagnata!» parole che comparivano anche in sovrimpressione. Alla fine della proiezione fu chiesto individualmente ad ogni bambino «Che cosa vuole dire il film? Che cosa racconta?». Trentotto bambini su quaranta risposero: «Vuole dire che la sigaretta è buona, che fumare fa bene» e qualcuno ha anche aggiunto «Perché è la libertà». Dei due altri bambini uno non ha risposto e l’altro ha spiegato «La sigaretta non è buona perché mia zia è morta perché fumava troppo». Trentotto bambini su quaranta (provenienti da famiglie e ambienti diversi) hanno dunque risposto non in base al contenuto, ma allo schema dello spot pubblicitario che ha indotto la seguente considerazione: si tratta di uno spot; gli spot parlano bene dei prodotti che reclamizzano; in questa pubblicità si parla di sigarette; se si parla di sigarette in uno spot non si può che dirne bene. Per tutti quei bambini (tranne l’unico che aveva avuto una esperienza concreta nella vita reale) il significato è racchiuso nel modello semiologico in cui il messaggio è inserito, non nel messaggio in sé e il modello ha avuto la meglio sul messaggio. Anche le serie televisive, non soltanto gli spot pubblicitari, coltivano la prevedibilità come una forma basilare della comunicazione ed è per questo motivo che la gente le trova confortanti e non ansiogene. Una volta assimilato il modello semiologico, la comprensione va da sé e non bisogna fare alcuno sforzo. La prevedibilità delle sequenze è tale che si può anche fare zapping da una serie all’altra senza perdere il filo. Seguire l’uno o l’altro percorso dipende da fattori diversi le-


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gati alla personalità, alle aspirazioni, al momento, ai bisogni, alla cultura e ai valori di ognuno. In alcuni è più forte il bisogno di accuratezza e di comprensione, in altri quello di arrivare a conclusioni socialmente sostenibili, che reggano il confronto con gli altri. Le persone differiscono per bisogno di conoscenza e di appartenenza: quelle con più elevato bisogno di conoscenza tendono ad impegnarsi per approfondire e capire, quelle con un forte bisogno di appartenenza sono molto attente all’opinione del gruppo di riferimento o della maggioranza e tengono in minore considerazione la conoscenza. Chi tiene molto alla presentazione di sé in pubblico, alla figura che può fare o non fare di fronte agli altri, tende ad elaborare centralmente i messaggi che fanno appello all’immagine e perifericamente quelli che per lui non sono prioritari. Attenzione, concentrazione, abilità cognitive e conoscenze sono altri fattori importanti. Per poter elaborare “centralmente” un messaggio bisogna prestare attenzione e concentrarsi, serve però anche avere delle abilità cognitive e delle conoscenze sull’argomento che consentono di seguire i ragionamenti. Conoscere l’argomento spinge a elaborare analiticamente il messaggio non solo perché si è in grado di farlo, ma anche perché si è motivati a farlo: è sempre gratificante immergersi in una riflessione su questioni che si comprendono e in cui si sa come muoversi. Ma mettiamoci per un momento anche dalla parte di chi invia il messaggio: per colui che vuole convincere è preferibile puntare sulla via centrale o su quella periferica? Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Certamente, se non si possiedono argomenti validi conviene puntare sulla via periferica. Un motto dei pubblicitari è: «se non hai niente da dire, distrai». Tuttavia, anche avere dei buoni argomenti non implica tout court raccogliere consensi. Il destinatario che elabora diligentemente il messaggio può sviluppare delle obiezioni e avversare la tesi che viene sostenuta. Il destinatario che invece non elabora il messaggio o lo elabora male, tende a distrarsi, presta attenzione ad aspetti collaterali che poco o nulla


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hanno a che vedere con il messaggio centrale. Infine, ciò che è centrale per qualcuno può essere periferico per qualcun altro. Una casalinga può sintonizzarsi su un programma per avere delle informazioni sulle ultime ricette di cucina. Un’altra può guardare lo stesso programma per il piacere di rivedere il volto familiare del noto presentatore o per il clima allegro creato dalla scenografia e dai cibi. Elementi “periferici” per la prima sono invece “centrali” per la seconda. La stessa cosa capita per chi va all’opera: qualcuno apprezza i cantanti, qualcun altro presta più attenzione all’orchestra e alla direzione, per altri ancora invece sono le soluzioni sceniche quelle che attirano maggiormente il loro interesse. E ancora, l’attenzione ai fattori periferici può dirci molto su una persona, le sue intenzioni, convinzioni, desideri, stati d’animo: può essere assai più interessante e rivelatore il modo in cui essa espone un argomento che l’argomento stesso. Ma di questo parleremo più diffusamente nel prossimo capitolo. Queste differenze, del tutto legittime, rivelano inclinazioni, interessi e personalità differenti. Diverso è invece il caso di chi gioca su più livelli per confondere il destinatario, quando per esempio si accentuano i fattori periferici per distrarre dal messaggio centrale. Accade quando si vuole dare l’impressione di affrontare un argomento ma in realtà non se parla affatto: si gira intorno senza arrivare al punto, si usano termini evocativi, frasi fatte, giochi di parole. LA TRAPPOLA DELLE EURISTICHE

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Quando non riusciamo ad analizzare tutte le componenti di una situazione o di un problema, per interpretare e giungere ad una conclusione ci appoggiamo all’elaborazione “euristica” (dal greco heurískein, trovare). Ci avvaliamo cioè di scorciatoie che ci consentono di trarre delle conclusioni senza analizzare a fondo i problemi. Nella nostra mente sono presenti molte regole per arrivare a trarre conclusioni senza ana-


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lizzare a fondo le questioni. Ad esempio: lo dice un esperto, sarà vero (euristica della fonte credibile); i discorsi lunghi sono seri (euristica della lunghezza); chi usa parole difficili è colto (euristica della difficoltà); se costa tanto è buono (euristica del prezzo); ci sono dati, tabelle, statistiche, deve essere un discorso fondato (euristica della parvenza scientifica) e così via, si tratta di regole superapprese che applichiamo a diversi contesti. Queste regole sono radicate nella nostra mente, facilmente accessibili e di esse abbiamo imparato a fidarci. E infatti molte volte funzionano e hanno successo. Qualche volta però non funzionano e qualche altra volta vengono manipolate. Sono dunque una grande forza ma non possiamo fidarci al cento per cento. Prendiamo la frase “l’ha detto la televisione”: sottende l’affermazione “quindi è vero”. Questa euristica nasce dalla convinzione che la tv sia una fonte autorevole, attendibile, praticamente infallibile. Per molti spettatori “l’ha detto la televisione quindi è vero” è un assioma che non necessita alcuna dimostrazione perché essi non possono ammettere che un medium tanto presente nella loro vita, che li intrattiene e fa loro compagnia, che entra nell’intimità della loro vita domestica e a cui loro dedicano tempo e attenzione possa ingannarli. Il loop cognitivo in questo caso è il seguente: siccome io la guardo deve essere attendibile, altrimenti non la guarderei. D’altro canto, nessuno può negare che, oltre a divertire, intrattenere o annoiare, la tv dia anche molte informazioni corrette e utili. Quando però abusa dell’euristica della fonte credibile, può fare dei danni come nel caso sopra descritto di Vanna Marchi (p. 57). Ma non solo. Grazie al prestigio di cui gode, grazie anche alla ripetizione dello stesso messaggio nel corso della giornata in orari e trasmissioni diverse la tv può creare, più e meglio di altri media, un alone di prestigio intorno a persone e messaggi. Il fatto poi che essa riesca a raggiungere in tempo reale e contemporaneamente un pubblico molto vasto, rende questo effetto ancora più potente. Se un personaggio ha alle spalle un buon agente, questo può farlo figurare come esperto anche se


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non lo è, oppure amplificare notevolmente i suoi meriti e costruirgli una immagine ad hoc che lo renda credibile. Un caso emblematico fu nel 1998 quello del “professor” Di Bella, sbandierato dai mass media, non solo dalle tv ma anche dalla carta stampata, come l’inventore di un metodo miracoloso per la cura del cancro, quando invece non vi era alcuna prova che il suo farmaco avesse una qualche efficacia. Per dargli credibilità e notorietà gli furono attribuite ricerche e pubblicazioni scientifiche inesistenti. Fu persino organizzato un convegno a Bruxelles spacciato come un intervento alla Comunità Europea quando invece si trattava di un evento mediatico per dare visibilità al personaggio e pubblicizzare il suo “miracoloso” farmaco. Alla comunità scientifica non venne data la possibilità di intervenire sui media in modo adeguato. Conduttori televisivi di successo ma privi di competenze dedicarono svariate trasmissioni al “metodo Di Bella” dove ai maggiori oncologi italiani fu fatta fare la figura dei baroni avidi di denaro e invidiosi del successo del professore. I conduttori di talk show, com’è noto, hanno un grosso potere nelle loro trasmissioni - danno e tolgono la parola, gestiscono i tempi, possono con una battuta o una semplice occhiata minimizzare, ridicolizzare o, al contrario, enfatizzare un intervento - e grazie a questo potere indirizzare le opinioni dei telespettatori più dipendenti. Quella volta la realtà venne completamente ribaltata e al pubblico fu proposta la narrazione “convincente” dell’anziano medico, paterno e affidabile che si prende cura personalmente del malato, che offre una terapia semplice e indolore. Accadde così che molti malati abbandonarono i protocolli che avevano seguito sino a quel momento per assumere un farmaco privo di qualunque effetto. È istruttivo notare come in quel caso venne costruita una vera e propria telenovela: quel tipo di narrazione, semplice e comprensibile a cui molti spettatori sono ormai abituati fin dall’infanzia. «Di giorno in giorno» si legge su un rapporto dell’Osservatorio di Pavia del 1998 «tramite rimandi multipli, la vicenda si è arricchita di “nuove puntate” che spesso, nella


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migliore logica seriale, lasciavano la narrazione aperta alle puntate successive. Il tutto spesso a scapito della precisione dell’informazione, piegata all’esigenza della spettacolarità e ai tempi e agli spazi dei tempi di comunicazione». Nell’ambito dei talk show fu ampiamente sfruttato un elemento chiave di ogni telenovela che si rispetti, ossia la contrapposizione di due posizioni, la terapia miracolosa Di Bella contrapposta alla chemioterapia, strumento della medicina ufficiale. Una contrapposizione da cui scaturirono accalorate discussioni sul “diritto e la libertà di cura”, l’“accanimento terapeutico”, “la lobby della medicina ufficiale”. Alcuni telegiornali arrivarono a dedicare metà del proprio spazio a Di Bella – spiega ancora il resoconto dell’Osservatorio di Pavia – con rimandi alla stampa, che a sua volta presentava altrettanti rimandi ai diversi speciali informativi (Porta a Porta, Moby Dick, Esclusivo 5 ecc.): una sorta di circolo che si è andato alimentando via via che l’attenzione (indotta dai media) cresceva. Si tratta di un circolo autoreferenziale dove le fonti di informazione si legittimano a vicenda: se lo dice una fonte “autorevole”, se il TG e i quotidiani vi dedicano molto spazio, deve essere vero, questo è il messaggio implicito che si trasmette e si propaga in casi del genere. Anche dei dati statistici e dei sondaggi può essere fatto un uso improprio e qualche volta un vero e proprio abuso. Il fine è quello di dare supporto scientifico ad una tesi (euristica della parvenza scientifica). Raramente però, sui media, viene illustrata la metodologia che è stata utilizzata per raccogliere i dati, i calcoli statistici che sono stati fatti sui dati raccolti e spesso non viene neppure specificata l’entità del campione su cui l’indagine è stata (o sarebbe stata) condotta. E per quanto riguarda, infine, l’euristica del prezzo è vero che, soprattutto quando ci sono dei controlli rigorosi, prezzo e qualità sono interconnessi; ma può anche accadere, come ognuno sa, che il prezzo di un prodotto scadente sia uguale o addirittura superiore a quello di un buon prodotto.

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FRAME E BACKGROUND

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«Sulle montagne del Guatemala» scriveva Aldous Huxley in Ritorno al mondo nuovo «le uniche opere d’arte importate sono i calendari a colori che le aziende straniere, i cui prodotti sono venduti agli indios, distribuiscono gratuitamente. Sui calendari americani si vedevano cani, paesaggi, giovani donne in stato di parziale nudità. Ma per un indio il cane è soltanto un oggetto utilitario, paesaggi ne vede fin troppi ogni giorno, e una bionda seminuda non gli interessa, anzi per lui è un poco repellente. Perciò i calendari americani avevano assai minor successo dei calendari tedeschi; perché i pubblicitari tedeschi s’erano dati la pena di capire cosa veramente avesse interesse e valore per un indio. Un capolavoro di propaganda commerciale fu un calendario lanciato da un produttore di aspirina: in calce all’immagine si scorgeva il notissimo marchio di fabbrica sulla bottiglietta di pastiglie bianche. Sopra non si vedevano né boschi d’autunno, né monti sotto la neve e nemmeno un cocker spaniel, né una ballerinetta popputa. No, gli astuti pubblicitari tedeschi avevano associato l’analgesico a un quadro coloratissimo e vivacissimo della Santissima Trinità, seduta su un banco di nubi, con attorno San Giuseppe, la Vergine Maria, santi assortiti e gran numero di angeli. Così, nella mente semplice e religiosissima degli indiani, le virtù dell’acido acetilsalicilico erano garantite da Dio Padre in persona e da tutta la sua schiera celeste». I pubblicitari tedeschi avevano tenuto conto di un aspetto molto importante nel processo di trasmissione dei messaggi ossia la cornice interpretativa (frame), il modo cioè in cui le persone costruiscono simboli e significati e organizzano una conoscenza socialmente condivisa e persistente nel tempo. Gli studi transculturali hanno indicato chiaramente che le strategie comunicative valide in una cultura spesso non lo sono in un’altra. E lo stesso vale per i singoli individui. Prendiamo l’adulazione, ad esempio, c’è chi si lascia convincere dagli adulatori e chi invece ne è infastidito. Il comunicatore esperto sa


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di dover tenere conto del contesto in cui avvengono gli scambi comunicativi e che le persone organizzano i messaggi in un quadro significativo per loro. Se il contesto non è consono ad un certo messaggio o impreparato a riceverlo questo risulta privo di efficacia: può essere ignorato oppure interpretato in maniera imprevedibile. Può, per esempio, risultare scioccante e indurre il recettore ad un rifiuto difensivo aprioristico. L’abile persuasore deve dunque fare un lavoro di framing (definizione della cornice interpretativa) prima di inviare dei messaggi, deve cioè assicurarsi che esista una disponibilità che consenta al messaggio di essere recepito; oppure adattare il messaggio alla cornice preesistente (come nel caso dei pubblicitari tedeschi in Guatemala) o, ancora, cercare di crearla come nell’esempio seguente. Nel famoso film La parola ai giurati (titolo originale: 12 angry men) di Sidney Lumet del 1956 (rielaborato nel 2007 da Nikita Mikhalkov nel film 12) emerge molto chiaramente il ruolo del framing nella persuasione. In questo caso una persuasione onesta che ha come obiettivo la verità, non l’inganno. In una giuria di dodici persone, uno dei giurati è l’unico ad avere dei dubbi sulla colpevolezza dell’imputato. Per convincere gli altri undici della validità del suo giudizio, il giurato dissidente non inizia esprimendo dubbi o portando argomentazioni volte a dimostrare l’innocenza dell’imputato, dedica invece parecchio tempo nel ridefinire il compito della giuria. Gli altri pensavano infatti di essere lì riuniti per ratificare con un semplice atto burocratico quanto era emerso nel corso del processo. Il giurato dissidente invece, dopo averli studiati, li porta uno per uno a pensare che la giuria è lì non per assolvere ad un atto burocratico di routine, ma per riesaminare il caso da cima a fondo. Solo a questo punto egli incomincerà ad esprimere i suoi dubbi e a portare gli argomenti che minano la certezza nella colpevolezza dell’imputato. Strettamente connessa alla costruzione della “cornice” è la produzione di un background adatto, cioè un insieme di conoscenze di sfondo in cui la persuasione possa inserirsi. Molte


CAPITOLO II

notizie o messaggi sono destinati a non lasciare alcuna traccia se non c’è nel recettore una struttura di riferimento che gli consenta di operare un qualche tipo di aggancio. Per ottenere una completa revisione del processo e ottenere un giusto verdetto, il giurato dissidente del film di Lumet deve non soltanto ridefinire il compito della giuria, ma anche ribaltare il pregiudizio razziale degli altri giurati. Il giudizio di questi ultimi infatti è pesantemente viziato, all’inizio, dal fatto che l’imputato è un giovane ispanico immigrato negli USA. Per ottenere un cambiamento su attitudini così radicate non si può intervenire con affermazioni di principio o argomentazioni razionali che otterrebbero un effetto boomerang, bisogna bensì dedicare del tempo a preparare il terreno, nel caso di 12 coinvolgendo i giurati uno per uno sul piano personale e promuovendo in ognuno una catarsi che li porta a guardare con occhi diversi il giovane imputato verso cui stava per compiersi una grave ingiustizia. I mass media possono essere meravigliosi mezzi di informazione, di intrattenimento e di diffusione di saperi ma anche potenti strumenti di persuasione. Tutto dipende da come vengono usati e con quali obiettivi. La multimedialità attiva varie corde dello spettatore, come le emozioni, lo spirito di emulazione, la dipendenza. Molti autori ritengono però che non sia nel singolo programma ma nel medio-lungo periodo che i mass media riescono a produrre quel background su cui possono poi innestarsi le azioni persuasive. È stato dimostrato che i mass media sono deboli negli effetti a breve termine, come la persuasione su specifiche questioni, mentre risultano potenti negli effetti a lungo termine, quali i cambiamenti più sottili e di fondo nel modo di pensare, nello stile di vita, nel creare consenso (Di Giovanni, 2007). È il modo di guardare alla realtà che man mano va modificandosi. Ma questo è per l’appunto argomento del prossimo capitolo.

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Capitolo III

Nel nome del consumo

La pubblicità, questa forma moderna, insidiosa e inedita di controllo delle coscienze dovrebbe essere ribattezzata propaganda una volta per tutte. Bertrand Méheust (La politique de l’oxymore, 2009)

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In una pubblicazione del 2004 intitolata I dirigenti di fronte al potere il direttore del primo canale della televisione pubblica francese, Patrick Le Lay, riferendosi alla Coca-Cola, che la sua rete doveva reclamizzare, fece questa dichiarazione che è passata alla storia: «Perché un messaggio pubblicitario sia percepito, bisogna che il cervello dello spettatore sia disponibile»; e aggiunse «le nostre trasmissioni hanno come obiettivo quello di renderlo disponibile: ossia di divertirlo, di rilassarlo per prepararlo tra due messaggi. Ciò che noi vendiamo alla Coca-Cola è del tempo disponibile del cervello umano». La pubblicità in televisione – e nei media in generale – sarebbe dunque l’arte di insinuarsi il cervello umano, in modo che le informazioni vi si imprimano nel modo più efficace possibile. Ma come preparare adeguatamente il cervello degli spettatori? Grazie ai progressi tecnologici nel campo delle neuroscienze, che consentono di osservare il cervello in attività in tante diverse situazioni della vita quotidiana, oggi sappiamo che i messaggi che provengono dal mondo della pubblicità provocano dei fenomeni di memorizzazione inconsapevole, come il desiderio di dominare sugli altri, l’emulazione, il bisogno di identificarsi con dei simboli o delle marche. C’è stato, verso la metà del secolo scorso, un cam-


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biamento sostanziale nel modo di fare pubblicità. Le vecchie réclame degli anni Venti, Trenta e Quaranta si rivolgevano alla parte cosciente della nostra psiche («Acquista l’automobile X perché ha un’ottima ripresa, dei buoni ammortizzatori e una stabilità invidiabile»): al consumatore il compito di giudicare se i pregi decantati erano tali da giustificare l’acquisto. Oggi le pubblicità dirette sono rare, il messaggio non è esplicito ma implicito: è racchiuso nel non detto, negli ammiccamenti, nelle musiche di sottofondo, nei colori, nelle forme suggestive, nelle emozioni e nelle eccitazioni che vengono somministrate su misura ai consumatori. Il messaggio non viene più decodificato dall’apparato analitico del nostro cervello, ma da quello della persuasione incosciente. MESSAGGI IMPLICITI

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«L’aspetto più terribile della comunicazione, è l’inconscio della comunicazione» scrisse alcuni anni or sono Pierre Bourdieu in uno dei suoi saggi sulla comunicazione mass mediatica. Molto spesso è proprio ciò che non viene menzionato l’aspetto più rilevante della comunicazione: la cosiddetta metacomunicazione, ossia tutti quei messaggi che sono sottesi alla comunicazione esplicita che passa attraverso le parole, le immagini, gli atteggiamenti e che indica come quelle parole, quelle immagini e quegli atteggiamenti devono essere assunti e interpretati. A volte ce ne rendiamo conto. Altre volte no. I messaggi metacomunicativi sono numerosissimi e di varia natura. Prendiamo la “cornice” o frame per esempio: il modo in cui un messaggio viene inquadrato e presentato fornisce già di per sé una chiave di lettura. Come abbiamo visto a p. 60 il format “spot” crea delle attese a livello interpretativo che danno forma al messaggio. La stessa frase pronunciata tra amici oppure rivolta a una platea di sconosciuti assume una valenza completamente diversa. Gli esempi sono infiniti. La comunicazione non verbale implicita (mimiche, atteggiamenti,


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posture, tono della voce, abbigliamento ecc.) può rafforzare oppure indebolire o anche contraddire quella verbale esplicita. Possiamo, per educazione, esprimere un apprezzamento che però il tono della voce, lo sguardo oppure un piccolo gesto possono smentire. Anche gli abiti che indossiamo sono una forma di comunicazione. E ancora, se su un determinato tema possono pronunciarsi sia le persone competenti che coloro che non ne sanno nulla, i secondi, posti su un piano di parità con i primi, vengono implicitamente legittimati dalla presenza di questi ultimi e considerati anch’essi “esperti”, il che capita spesso nei talk show di tipo infotainment (contrazione dei termini inglesi information e entertainment) dove l’informazione e lo spettacolo si mescolano. Anche coloro che operano nei media possono non essere del tutto consapevoli dei messaggi impliciti che inviano, specialmente se sono alle prime armi, è però più facile che sia il pubblico ad essere inconsapevole. I professionisti della comunicazione, infatti, sono costretti a fare delle scelte su cui sono indotti a riflettere. Per esempio, chi lavora in televisione sa perfettamente che riprendere con la telecamera una persona sul suo luogo di lavoro ha un significato diverso dal riprenderla in uno studio televisivo (dove quella persona si è recata appositamente) seduta magari in mezzo ad altri ospiti. Il presidente della Repubblica, per fare un esempio lampante, viene sempre intervistato o nel corso di manifestazioni ufficiali o nel suo studio al Quirinale e non si sposta dalle sue sedi ufficiali allo studio di Porta a Porta o di Domenica In. La collocazione sulla scena è un altro indicatore implicito molto significativo che contribuisce alla lettura del messaggio: a seconda dell’importanza che gli si vuole dare, l’ospite può essere collocato al centro della scena o lateralmente, gli può essere concessa la parola per un tempo ragionevole o, al contrario, può essere interrotto sul più bello. Il conduttore può lasciare spazio agli ospiti oppure prendersi lui gran parte della scena. In un gruppo di intervistati colui a cui viene lasciata l’ultima parola è implicitamente valorizzato. Una piazza in cui


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sono presenti gruppi di persone, invece, che ogni tanto vengono inquadrati nel corso di un talk show servono al conduttore per mostrare partecipazione e consenso anche quando nessuno viene interpellato o esprime un parere. D’altro canto, al di là dei commenti dello speaker che, ad arte, possono sottolineare un aspetto e tenerne in ombra un altro, la stessa scelta dell’inquadratura fatta dall’operatore nel corso di una manifestazione, è di per sé portatrice di messaggi: in alcuni casi fedeli alla realtà in altri invece parziali o deformanti. REALTÀ DEFORMATE

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Il 5 febbraio del 1990, nel corso di una puntata di Mixer, un settimanale di informazione della Rai, il giornalista televisivo Gianni Minoli mostrò un documentario d’epoca in cui il giudice Sansovino confessava di avere truccato, d’accordo con altri membri del tribunale elettorale, i risultati del referendum del 1946 con cui venne abolita la monarchia in Italia, sostituita dal sistema repubblicano. Molti spettatori, soprattutto coloro che nel ‘46 avevano partecipato al referendum, seguirono il programma in preda ad un’emozione crescente. Soltanto al termine della proiezione Minoli rivelò l’inganno: il giudice che compariva nel filmato era in realtà un attore, il “vecchio” documentario, in bianco e nero, era stato girato in studio qualche settimana prima con dei figuranti. Tutto era falso ad eccezione della profonda emozione vissuta da milioni di spettatori. «Abbiamo voluto mostrare» disse in conclusione il giornalista «come si possa manipolare l’informazione televisiva. Bisogna ormai imparare a diffidare della televisione e delle immagini che ci vengono presentate». Contraffazioni di questo tipo sono facili da realizzare quando si dispone di un medium potente come la televisione, ma sono anche facili da smascherare perché c’è sempre qualcuno che conoscendo come sono andati realmente i fatti può denunciare l’inganno. Nel caso del giovane che sfascia la ve-


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trina (Figura 3) lo scatto del fotografo che include, oltre al manifestante, anche un nutrito gruppo di suoi colleghi intenti a fotografarlo, fornisce un quadro abbastanza fedele di una realtà che induce l’osservatore a porsi una domanda: in che misura i fotografi che circondano il manifestante hanno un ruolo nell’incoraggiare e nel sostenere la violenza in corso, se non addirittura nel suggerire con la propria incombente presenza, un comportamento da scoop? Altre forme di deformazione sono meno evidenti. Per esempio, alcune categorie sociali sono molto più rappresentate di altre sui media, il che produce una alterazione della struttura sociale. Politici, sportivi, attori, soubrette, giornalisti, sindacalisti, conduttori televisivi, “vip” hanno molto più spazio sul piccolo schermo di quanto non ne abbiano altre categorie, indipendentemente dalla loro consistenza numerica e dal loro peso effettivo nella comunità. Anche di transessuali

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Figura 3 Il giovane manifestante agisce spontaneamente? Sta recitando per i fotografi? La presenza di un pubblico pronto a fotografarlo influisce sul suo comportamento?


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e transgender c’è una presenza massiccia in televisione (perché fanno audience) che non rispecchia le reali percentuali in rapporto al resto della popolazione. Chi utilizza soltanto o soprattutto la televisione come mezzo di informazione non riesce a farsi una idea corretta del peso e del ruolo che hanno le diverse categorie di persone nel contesto sociale. La convenzionalità e la semplificazione sono altre distorsioni frequenti. Per quanto riguarda la convenzionalità, c’è la tendenza da parte dei media a dare di maschi, femmine, bambini, adolescenti, anziani ecc. una immagine convenzionale. Per esempio, i nonni sono miti e canuti. I bimbi piccoli sorridenti e bellissimi. Le donne sexy e molto truccate. Gli scienziati bizzarri. I transessuali molto vistosi e così via. Le persone però sono assai più variegate e complesse. Chi fa riferimento ai modelli proposti dai mass media per interpretare il mondo rischia di aderire a degli stereotipi, la cui caratteristica preminente è proprio quella di semplificare la realtà. «L’antenna» scriveva Gregory Derville in Le pouvoir des médias (1997) «sembra riservata a coloro che accettano di calibrare i loro messaggi affinché siano facili da diffondere, da riconoscere e da assimilare. La comunicazione sembra passare attraverso una semplificazione e una standardizzazione del suo contenuto. È così, per esempio, che un pensiero complesso viene smembrato in una serie di formule facili da assimilare e d’effetto: affinché un messaggio “circoli” al meglio, bisogna che tutti possano capirlo e appropriarsene, con il rischio di tradirne la complessità e la ricchezza». Per raggiungere il maggior numero di persone possibili e reggere la concorrenza degli altri canali lo sforzo mentale che si richiede agli spettatori deve essere minimale (vedi Scheda 7, pp. 81-82). Il compito, proprio dei mezzi di informazione, di trattare l’attualità in tempo reale, ha molti pregi, ovviamente, ma anche un limite, quello di trascurare il divenire, il susseguirsi degli eventi e l’intrecciarsi di vicende che, nel tempo, producono cambiamenti. «I mass media» nota lo psicologo della comunicazione Parisio Di Giovanni nel volume Psicologia della Comu-


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nicazione «ritraggono il mondo com’è nel presente, trascurando la dimensione storica. Creano così una rappresentazione appiattita sull’oggi, in cui le cose sembrano uscite dal nulla e l’assetto esistente appare scontato». Questa “dilatazione del presente” a svantaggio del passato finisce a volte per indurre a considerazioni sbagliate o fuorvianti. Unendo eventi vicini nel tempo e non considerando (a causa dell’urgenza) il ruolo che possono avere avuto eventi iscritti nella vicenda esistenziale delle persone, i notiziari e i titoli di giornali portano spesso il lettore a relazioni illusorie e inducono interpretazioni tutte da provare. Per esempio, il titolo Dirigente esce dall’ufficio e si suicida induce a pensare che esista un nesso tra il suicidio e l’ambiente di lavoro, quando invece l’uomo potrebbe essersi suicidato per altri motivi legati alla sua vicenda personale e non lavorativa. Un’altra forma di deformazione della realtà è prodotta dal tasso elevato di negatività. I mass media riportano continuamente episodi di cronaca nera, di attività della criminalità organizzata, di incidenti, disastri, guerre, problemi ambientali, terremoti ma anche film polizieschi e dell’horror, fiction cariche di scene violente, trasmissioni-inchieste su delitti orrendi, persone scomparse, truffe, disfunzioni istituzionali e così via. La violenza abbonda anche nei videogiochi perché è facile da rappresentare e ha il “vantaggio” di tenere il giocatore incollato allo schermo. Da svariati studi condotti negli USA, analizzando sistematicamente i programmi per un certo numero di anni, è emerso ciò che molti immaginavano e cioè che nelle trasmissioni televisive c’è molta più violenza che nella vita reale (Gerbner e Gross, 1976, 1980). Tra il numero delle violenze che una persona sperimenta nella vita reale e quelle che vede sugli schermi il divario è enorme anche per chi vive in quartieri con alta incidenza di criminalità. Il mondo rappresentato sui media è dunque peggiore di quello reale. Tenere presente questo divario è importante per non cadere nella morsa dell’insicurezza, della diffidenza e della paura; il rischio è infatti quello della caverna descritta da Platone: se il mondo esterno è così pericoloso, se le persone sono così inaf-


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fidabili, meglio rifugiarsi dentro casa e guardare il mondo attraverso lo schermo. Quelle che si muovono sullo schermo, però, sono ombre... VERO E VEROSIMILE

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Molti programmi di intrattenimento (dai talk show del dolore ai reality) devono il loro successo alla strumentalizzazione delle emozioni. A seconda del format, gli ospiti in studio “devono” commuoversi, piangere, accusarsi a vicenda, recriminare, litigare, insultarsi eccetera e se non lo fanno spontaneamente, devono prestarsi a recitare la parte che viene loro assegnata pena l’esclusione dal programma nelle puntate a venire. Ci sono personaggi che hanno costruito la notorietà in televisione insultando, dicendo o facendo volgarità, dando in escandescenze. Gli spettatori cercano emozioni, non si smette di ripetere, e i media le forniscono. Non c’è nulla di male, ovviamente, nel vivere delle emozioni attraverso uno spettacolo, una notizia del TG o un talk show. Dalla drammaturgia greca al romanzo ottocentesco le emozioni sono sempre state al centro delle narrazioni umane. C’è, nell’arte, una “finzione veritiera” al servizio della verità che aiuta a immedesimarsi e a capire. Il problema nasce quando le emozioni vengono strumentalizzate e/o si confonde emozione con informazione. Il messaggio, insidioso, che implicitamente inviano i programmi di informazione che cedono al fascino dello spettacolo e strumentalizzano le emozioni è il seguente: “Se l’emozione che provi di fronte a questa notizia è vera, è vera anche la notizia”. “Se ti commuovi e le tue lacrime sono vere, l’evento che ha causato quelle lacrime è vero anch’esso”. Ma il fatto di provare un’emozione, anche molto intensa, non garantisce – ahimè! – che l’informazione sia vera, come ha dimostrato il programma di Minoli sul referendum citato in precedenza o come hanno dimostrato le numerose trasmissioni su Di Bella (vedi a p. 64), che suscitarono


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un forte coinvolgimento negli spettatori. Ci sono dei termini nel gergo massmediologico che danno l’idea di come si può intervenire sulle emozioni, sull’immaginazione del pubblico e anche sul modellamento dell’opinione pubblica. La parola “mediatizzate” indica, per esempio, un tipo di operazione volta a semplificare e/o romanzare la realtà. Il genere docudrama è una forma di mediatizzazione sempre più diffusa che sostituisce una narrazione obiettiva, basata su documenti storici e testimonianze dirette, priva di fronzoli e scevra di abbellimenti. Nel docudrama una vicenda realmente accaduta o un evento storico viene ricostruito nei teatri di prosa e recitato da attori che, attraverso la loro interpretazione infondono pathos, tensione emotiva, sentimenti, lirismo e producono una fiction che sembra più reale del reale perché creata ad hoc per coinvolgere. Gli attori prestano il loro volto, la loro voce, il loro look a personaggi reali e per quanto si sforzino di calarsi nel personaggio e nelle situazioni c’è sempre uno scarto notevole tra l’interpretazione e l’originale: atmosfera, clima psicologico, temperamenti, luoghi e circostanze vengono modificate, a volte completamente stravolte dall’enfasi della recitazione. L’ambiguità, in questo tipo di operazione, è notevole soprattutto quando il docudrama è inserito come prova o dimostrazione a sostegno di una determinata tesi, in un programma di informazione o in un talk show che ha pretesa di obiettività e che in altri momenti del programma porta in scena personaggi reali o documenti attendibili. La tentazione di inserire il docudrama nel proprio programma può essere forte, soprattutto quanto il conduttore vuole imporre la sua tesi: bastano infatti poche pennellate per creare un clima emotivo volto ad orientare il pubblico verso un tipo di interpretazione/valutazione piuttosto che un altro. Un altro termine interessante, proveniente dalla lingua inglese è infotainment (vedi a p. 71). Qui i generi si mescolano, i piani si sovrappongono: l’argomento proposto in trasmissione è serio, ma in studio la soubrette mostra le gambe su fino all’inguine. Ci sono ospiti competenti e ospiti che sono stati


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invitati per fare spettacolo: con il loro look e le loro battute devono creare un’atmosfera lieve e disimpegnata. Bisogna scongiurare il pericolo che lo spettatore se ne vada facendo “zapping” su un altro canale. Se ben orchestrato questo tipo di programma può risultare accettabile, non privo di intelligenza e di humour; ma può anche essere un ottimo strumento per sfiorare gli argomenti senza approfondirli, per mettere in scena una pantomima senza costrutto, per fare propaganda ad un prodotto o ad un candidato creandogli intorno un clima favorevole. Molti uomini politici non solo accettano ma gradiscono e ricercano di trovarsi fianco a fianco con personaggi noti del mondo dello sport e dello spettacolo, cantanti, calciatori e divi del momento, perché sperano che si verifichi un transfer simbolico tra l’ammirazione che il pubblico nutre nei confronti delle star e la propria persona. Come hanno dimostrato due psicologi sociali (Carlston D. e Mae L. 2007) la televisione è lo strumento ideale per questo genere di effetti: le immagini favoriscono le associazioni tra informazioni o stimoli diversi soprattutto quando lo spettatore, trascinato dal flusso veloce delle sequenze, non ha il tempo necessario per interrogarsi sul nesso che esiste tra la persona e il simbolo che l’accompagna. Ma come opera in concreto il transfer simbolico? La vista di un simbolo (persona o altro) produce una sensazione che il cervello cerca di attribuire ad una fonte precisa, se possibile umana (ma può essere anche una T-shirt o un paio di scarpe). La sensazione è allora involontariamente attribuita alla persona il cui viso appare associato a quel simbolo. Col termine realsificazione, si intende invece un amalgama di realtà e mistificazione. Realsificazioni sono quei reality show in cui si vuol far credere che i partecipanti parlino “realmente” dei loro problemi, vivano le emozioni che mostrano. Realsificazioni sono quei dibattiti che pretendono di riprodurre l’agorà del confronto e della discussione pubblica, il luogo della democrazia diretta, quando invece su di essi domina una regia che indirizza gli interventi, mette in luce alcuni aspetti e in ombra altri. Realsificazioni sono anche quelle ricostru-


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zioni in studio del “luogo del delitto” attraverso un modellino che ha lo scopo di coinvolgere e convincere lo spettatore grazie alla sua concretezza e verosimiglianza (vedi Scheda 7). Il primo ad avvalersi in Italia di questa tecnica fu Corrado Augias: nel corso di una trasmissione della Rai del 1997 sul delitto di Marta Russo alla Sapienza il conduttore, sostituendosi di fatto alla magistratura, ricostruì in studio la scena del delitto secondo la sua interpretazione dei fatti senza preoccuparsi dell’impatto che questo poteva avere sull’opinione pubblica e indirettamente anche su qualche membro della giuria. Il problema di queste ricostruzioni “verosimili”, a volte dei veri e propri docudrama, è che essendo ben confezionati risultano convincenti anche se poco fedeli: problema di cui solo ora si incomincia a prendere consapevolezza. In tribunale le testimonianze possono essere “rafforzate” o “indebolite” dal modo in cui gli accadimenti vengono presentati. Immaginiamo di essere in un’aula di tribunale e di dover spiegare al giudice, o a una giuria, la dinamica di un grave incidente automobilistico. Una prima possibilità è quella di servirsi del linguaggio: a seconda delle parole utilizzate possiamo non soltanto influenzare eventuali testimoni ma anche creare un’atmosfera più o meno verosimile. Una seconda possibilità è quella di utilizzare dimostrazioni grafiche, ad esempio illustrare alla lavagna la scena dell’incidente con le posizioni delle automobili, la loro direzione, i punti di riferimento stradali eccetera: così facendo rendiamo più “visibile” la situazione in quanto essa è meno astratta, più vicina ai sensi. Vi è una terza possibilità, già utilizzata in qualche Stato americano, anche se questa prassi è oggi al centro di polemiche: la dinamica dell’incidente viene simulata al computer e proiettata su uno schermo. Ora le automobili non sono più quadratini ma modellini virtuali, simili per aspetto ai modelli delle automobili coinvolte nell’incidente. Esse si muovono sullo sfondo di un paesaggio, anch’esso virtuale, sino al momento in cui si verifica l’incidente con relativi rumori che simulano la frenata, l’impatto ecc. Questa situazione, simulata dalla di-


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fesa del presunto responsabile, è in grado di influenzare le rappresentazioni mentali e le memorie dei giudici e dei giurati i cui giudizi, in qualche modo, dipendono così da “pregiudizi”, dalle (false) memorie che la simulazione virtuale ha indotto nelle loro menti. Per questo motivo esiste un forte movimento d’opinione per bandire l’uso della simulazione virtuale nelle aule di giustizia americane. Ma non tutte le realsificazioni avvengono attraverso la tv o il computer. Restyling è invece il termine che indica un lavoro sull’immagine pubblica di un prodotto, un’azienda o una persona. Un esempio noto a tutti: nell’aprile del 2001, nelle case degli italiani arrivò per posta un album di 125 pagine dal titolo Una storia italiana. Il protagonista, Berlusconi, vi compariva in ruoli e momenti diversi della sua vita, tutti evocativi di un qualche successo o emozione: giovane rampante con la pipa tra i denti e il pollice verticale; animo sensibile chino su un prato mentre raccoglie le margherite; trionfante stretto alla mamma; jogger con Piersilvio; bimbo in bianco e nero; forzuto con “Rocky Stallone”; felice di stringere la mano a Clinton; e ancora, Veronica il “grande amore”, i “piccoli segreti”, i trionfi del Milan, le ville, gli amici, la vita in famiglia. Un’operazione d’immagine che comportò seimila tonnellate di carta, due miliardi e mezzo di pagine stampate, un costo di diverse decine di miliardi. In quell’occasione il direttore di Datamedia e sondaggista di fiducia di Berlusconi, Luigi Crespi, dichiarò che almeno il tre per cento degli elettori sarebbero stati “folgorati” dalla lettura del libro e si sarebbero convinti a votare per il centrodestra. «So che mi sto giocando la carriera, ma credo che la vittoria della Casa delle libertà sia assoluta, certa, scontata» (www.repubblica.it/gallerie/online/politica/libro). I più incisivi di tutti sono, a detta di molti studiosi, gli effetti a lungo termine. Una singola pubblicità, un singolo dibattito televisivo hanno generalmente effetti di breve durata, mentre la presenza diffusa e quotidiana dei mass media con azioni che si accumulano poco alla volta, può incidere pro-


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fondamente nel creare consenso e nell’orientare la gente verso alcune tematiche piuttosto di altre, verso alcuni personaggi piuttosto di altri. Secondo una frase divenuta celebre, le persone sono molto più pronte a discutere sulle questioni che a discutere sul fatto che siano quelle le questioni su cui discutere. Si produce allora quello che va sotto il nome di effetto di mainstreaming: giorno dopo giorno i mass media creano la visione dominante, forgiano l’opinione pubblica e soprattutto stabiliscono l’agenda setting, fissano cioè, giorno per giorno, quelli che sono i temi rilevanti della vita sociale e le priorità con cui questi vanno considerati, creando una sorta di taccuino mentale dei problemi di attualità. Questo aspetto è così importante da creare una competizione tra governi e media nel controllo dell’agenda. Scheda 7 L’EFFETTO “MAQUETTE”

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«Il pubblico [televisivo] non vuole la complessità, le sfumature, le riflessioni sui grandi problemi. Vuole una “maquette” semplice, ben definita, riconoscibile come i personaggi e le scene dei teleromanzi. La televisione produce questa maquette: essa è “secreta” quasi inconsciamente da tutti coloro (giornalisti, soggettisti, spettatori) che vi partecipano come un ragno secerne la sua tela. […] Ma questa maquette non è certamente la realtà. È un modello semplificato, ma non fedele nella sua approssimazione. Può essere paragonata a una mappa distorta, colorata, geometrizzata che riporta territori il più delle volte inesistenti. Dunque, questa maquette s’impone ai telespettatori come un’iper-realtà, più concreta, più coerente, più presente del reale, divenuto “sfondo” della maquette. E vero che ci si può sempre scambiare le opinioni, dibattere, azzuffarsi, farsi la guerra, ma queste divergenze non derivano da una visione personale e individuale della realtà vissuta, derivano invece da una valutazione personale e individuale della maquette. Ci si batte per dei fantasmi, si discute sull’immaginario, si vota per delle finzioni impersonate da attori che fanno la parte di uomini politici


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e che vengono, come è giusto, giudicati secondo le loro qualità di attori. Sulla base delle teorie di Leon Festinger, gli psicosociologi hanno scoperto che, nella lotta tra una finzione coerente e una realtà sconcertante, è la finzione che ha la meglio. È per questo che l’immagine verosimile fornita dalla televisione ha la meglio sul “vero”». (Bruno Lussato, I bambini e il video, Vallardi, 1991)

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La fusione dei generi è molto sfruttata nella pubblicità, dove è fondamentale, per rendere più persuasivi e accettabili i messaggi, il clima o la “magia” che si riesce a creare. Ovviamente questo tipo di operazione richiede talento e intelligenza; ma una cosa è la qualità del lavoro dei creativi, spesso di alto livello, e un’altra è l’effetto che il loro lavoro ha sui destinatari dei messaggi. Come ha così chiaramente spiegato Patrick Le Lay (vedi a p. 69) il messaggio pubblicitario è tanto più efficace e penetrante quanto più il cervello del consumatore è predisposto a recepirlo. Quando Le Lay illustrava la necessità di preparare il cervello dello spettatore attraverso i programmi che vengono mandati in onda era l’anno 2004; da allora sono stati fatti ulteriori passi in questa direzione dalle promofiction o promoserial, dove la separazione tra pubblicità e narrazione è sempre meno evidente in quanto il pubblicitario nel costruire gli spot utilizza personaggi o aspetti salienti delle fiction e lo stacco può essere minimo o abolito del tutto: tra il programma e la pubblicità non c’è soluzione di continuità. Lo spot diventa allora un prolungamento della fiction e la fiction “predispone” il cervello dello spettatore, come suggerisce Le Lay, alla ricezione del messaggio pubblicitario. Un passaggio morbido, impercettibile. Sono stati fatti molti studi per comprendere come reagisce il nostro cervello agli stimoli inviati dalle pubblicità: come li memorizza, se si tratta di memorizzazione consapevole o in-


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conscia. Uno di questi è così congeniato (Courbert, 2006). Nel corso di un esperimento, si presentano rapidamente per la durata di tre secondi dei logo di marche a dei volontari che fungono da cavie. Si lascia poi loro il tempo di dimenticare ciò che hanno visto, all’incirca una settimana. Quegli stessi logo verranno successivamente ripresentati agli stessi soggetti inseriti però, questa volta, in mezzo a logo di altre marche. Si domanda infine alle “cavie” ciò che pensano delle diverse marche rappresentate. Sorpresa: quelle marche il cui logo è stato visto rapidamente la settimana precedente e poi dimenticato suscitano opinioni più favorevoli delle altre! Come si spiega questo risultato? La risposta è la seguente: nella fase molto breve di esposizione il soggetto valuta e poi registra rapidamente a sua insaputa le tracce positive o negative del suo giudizio debolmente elaborato. Se successivamente il soggetto incontra nuovamente il logo in una situazione in cui è debolmente coinvolto (se è distratto o perturbato, oppure se gli si richiede di rispondere rapidamente a delle domande), sono queste tracce mestiche a guidarlo, a sua insaputa. Lo stimolo, avrebbe dunque più successo quando il destinatario non riflette e non presta molta attenzione. Un risultato che incoraggia ad inserire comunque le pubblicità in internet o nelle stazioni ferroviarie, pur sapendo che la maggior parte delle persone che vanno in rete o in stazione non prestano attenzione ai logo perché in quel momento sono alla ricerca di altre informazioni. A riprova di ciò, alcuni psicologi hanno condotto un esperimento in cui facevano leggere alle loro “cavie” delle pagine Internet, dove accanto al testo c’erano delle bande pubblicitarie con dei logo (Vanhuele et al., 2005). Col pretesto di analizzare la capacità degli individui di memorizzare le informazioni inserite nelle pagine, gli sperimentatori equipaggiarono i soggetti con apparecchi in grado di seguire i movimenti oculari. Grazie a questa tecnica quando i soggetti orientavano lo sguardo sulle bande pubblicitarie queste scomparivano. Uno stratagemma che consente di avere la certezza che i soggetti


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non hanno potuto prestare attenzione ai logo (anche se questi sono però entrati per un attimo nel loro campo visivo). I risultati di questo esperimento confermarono quelli dell’esperimento precedente: interrogate successivamente, le “cavie” mostrarono un apprezzamento più positivo per i logo inseriti nelle pagine web piuttosto che per altri logo e si mostrarono anche più propense all’acquisto dei prodotti che corrispondevano a quei logo che avevano vagamente intravisto. Infine, un altro risultato: l’effetto, che tende a persistere nel tempo, è tanto più forte quanto più il logo è semplice. Uno degli esperimenti più citati sul fascino che un logo può esercitare sui consumatori è quello realizzato nel 2003 a Houston da Read Montague e collaboratori: l’obiettivo era quello di capire su che cosa si basano le preferenze per la Coca-Cola e la sua diretta concorrente, la Pepsi. Ciò che emerse fu un sorprendente divario tra il gusto e la vista. Allorché le “cavie” bevevano l’una e l’altra bevanda con gli occhi bendati, senza sapere quale delle due bibite stavano gustando, le preferenze si distribuivano equamente tra l’una e l’altra; ma quando l’identità del prodotto era visibile, i soggetti esprimevano una netta preferenza per la Coca-Cola. Grazie alle risonanza magnetica i ricercatori poterono seguire l’attività cerebrale delle “cavie” riuscendo a dimostrare che le due situazioni non attivavano il cervello nello stesso modo: la prima (occhi bendati) coinvolgeva l’area cerebrale del cosiddetto nucleo accumbes (o “strato ventrale”), una struttura cerebrale legata alla sensazione del piacere; la seconda invece (lattina col logo visibile) attivava le zone coinvolte nel controllo cognitivo (la corteccia prefrontale mediana) e in particolare la memoria di lavoro, quel tipo di memoria cioè che consente di prefigurare un’azione, una scelta. Nel vedere il logo le persone non solo percepivano le sensazioni legate al gusto ma evocavano anche le immagini, le sensazioni, i sentimenti connessi a quel prodotto (abitudini quotidiane, ricordi infantili, pubblicità precedenti). I ricercatori ne dedussero che la Pepsi doveva accontentarsi del secondo posto non potendo competere con la


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Coca-Cola che, poiché era sul mercato dalla fine dell’Ottocento, aveva ormai acquisito, attraversando svariate generazioni, un “capitale di marca”. In altri studi i ricercatori ponevano le “cavie” davanti a uno schermo su cui compariva un prodotto, veniva poi aggiunto il prezzo, infine i soggetti erano invitati ad acquistare il prodotto. La risonanza magnetica evidenziava le fasi di attività delle diverse aree cerebrali: quelle specializzate nell’anticipazione dei vantaggi e quelle che valutano costi e benefici. Se alla presentazione del prodotto, si attivava il nucleo accumbes (zona di anticipazione dei vantaggi), si poteva essere certi che il soggetto avrebbe acquistato il prodotto. Sulla base di esperimenti di questo tipo qualcuno incominciò ad affermare di avere individuato “la regione chiave del neuromarketing” e di essere in grado di certificare ad un’azienda se i prodotti che intendeva lanciare sul mercato potessero avere un successo di vendita oppure no. Una prospettiva indubbiamente attraente per i pubblicitari, le aziende e per gli autori di questo genere di studi, i quali vendono il loro know-how alle aziende. Scheda 8 IL CONTRIBUTO DELLA PSICOLOGIA ALLA PUBBLICITÀ

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Le tecniche di persuasione pubblicitarie si sono evolute e diversificate. Il marketing ha trovato nelle teorie psicologiche che si sono succedute degli elementi per affinare la propria concezione di consumatore e sviluppare nuove strategie di vendita. Partiti da un approccio razionale dell’individuo, secondo cui bisogna mettere al primo posto gli aspetti utili del prodotto, gli uomini del mercato hanno poi scoperto, all’inizio del XX secolo, la psicoanalisi che, al contrario di quelle che erano state le credenze sino ad allora, descrive un consumatore alle prese con le sue pulsioni profonde. Conseguenza pratica: bisogna identificare e poi raggiungere i desideri nascosti, stimoli erotici ma non solo. Nello stesso periodo i lavori dei comportamentisti ispirarono il metodo AIDA, che indica che per convincere bisogna: 1) attirare l’Attenzione; 2)


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suscitare Interesse; 3) creare il Desiderio del prodotto; 4) convincere all’Acquisto. Le ricerche di Ivan Pavlov sul condizionamento indicarono poi la necessità di: (a) accompagnare il prodotto con stimoli in grado di provocare delle reazioni emotive positive; (b) ripetere molte volte lo stesso messaggio per creare una associazione tra il prodotto e le emozioni dei potenziali acquirenti. Dopo la seconda guerra mondiale Elihu Katz e Paul Lazarsfeld, studiosi dei “flussi comunicativi” creati da nuovi strumenti della comunicazione di massa, suggerirono ai pubblicitari di mettere in scena delle star e dei personaggi pubblici, individuate tra i leader d’opinione in cui i consumatori potessero identificarsi. Si diffuse così la figura del testimonial che accetta di essere associato ad un prodotto o ad una linea di prodotti e si propone agli spettatori come modello di riferimento e di identificazione. Col passare del tempo ci si accorge che la marca, il logo o la griffe che dir si voglia può essere più incisiva, in termini di vendite, del prodotto stesso. La marca si stacca idealmente dal prodotto che rappresenta e assume uno status indipendente. La gente incomincia ad acquistare un prodotto, non tanto per le sue caratteristiche ma perché è “firmato”. La griffe si fa portatrice di un messaggio che parla dello stile di vita di una persona. Se nel caso del testimonial l’obiettivo è quello di promuovere un flusso comunicativo-affettivo tra il consumatore e il personaggio di prestigio, nel caso della griffe il flusso è quello che si stabilisce tra il consumatore e la marca, dotata anch’essa di una sua “personalità” o, se si preferisce, di una sua indefinibile attrattiva. “Leggere” gli umori, i desideri, gli impulsi direttamente nel cervello delle persone è un obiettivo relativamente recente legato alla tecnica del brain imaging. A Ulm, in Germania, per esempio uno psichiatra, Henrik Walter, ha organizzato un esperimento con questa tecnica per conto della Daimler Chrysler per vedere come reagiscono gli uomini di fronte all’immagine di una serie di autovetture. Ne è emerso che le autovetture vengono guardate come se si trattasse di un oggetto amato (nel fronte dell’auto molti vi vedono un viso: i fari sono gli occhi...). La conclusione è stata che una pubblicità non deve limitarsi a far sì che il consumatore si rifletta o si riconosca nel prodotto ma, nel caso dell’automobile, deve anche mobilitare in lui una volontà “arcaica” di appropriarsi di un oggetto di seduzione. «Il consumatore deve poter sentire la marca, e aggrap-


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parvisi come ad un’amante» è la frase attribuita a un pubblicitario della agenzia Saatchi & Saatchi (in Benilde, 2007). Una pubblicità molto sofisticata è comparsa sugli schermi a partire dal 2008. Lo spot mostra un’auto “androide” che si trasforma in una sorta di robot bipede, inserito in una coreografia complessa su un ritmo di musica tecno. La realizzazione di questo spot è stata affidata ad un celebre coreografo e ha richiesto due mesi di lavoro con strumenti tecnologici molto avanzati. Perché un tale investimento? Il motivo è spiegato in uno studio dal titolo Quell’automobile mi sta sorridendo? (Aggarwal e McGill, 2008): la somiglianza tra l’automobile e l’essere umano è una delle risorse che i pubblicitari utilizzano per rendere il prodotto attraente. L’automobile è spesso antropomorfizzata (ad esempio nei fumetti), presentata cioè come dotata di caratteristiche umane in cui il consumatore può più facilmente proiettarsi e identificarsi. Tutto ciò che può fare apparire più umana un’automobile susciterebbe quindi una forte identificazione al prodotto. Da qui la scelta del potente investimento nello spot. Non si lavora soltanto sulle emozioni ma anche sulle percezioni. Un esempio è il cosiddetto suono ipersonico che viene percepito soltanto quando una persona si trova nel suo raggio. I suoni ipersonici non vengono diffusi nell’ambiente in quanto hanno una direzionalità selettiva; ma se il passante si trova in prossimità di una macchinetta che distribuisce bibite ghiacciate, percepirà un falso rumore di cubetti di ghiaccio che cadono nel bicchiere e delle bollicine che si liberano dalla bevanda, il che dovrebbe stimolare il suo desiderio di bere. Ecco, altri concetti che fanno parte del bagaglio culturale dei pubblicitari: 1. Smaterializzazione: un alone si sostituisce al valore tecnico/pratico; il bene di consumo è investito delle più svariate esigenze psicologiche; 2. Identificazione e seduzione: è il testimonial con la sua “autorità” a rendere attraente il prodotto: «Se vuoi essere seducente come me acquista il telefonino»; 3. Amalgama affettivo: si mescolano due elementi, due fatti, due termini, che a priori non hanno nulla in comune ma che alla fine si legano tra loro; per esempio: gli orsetti di una famosa pubblicità della Coca-Cola trasferiscono alla bibita la loro tenerezza, ilarità e calore.


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4. Effetto fusione: la ripetizione del messaggio crea l’illusione della sua validità intrinseca; l’uso di luci e colori accresce l’adesione. Il pensiero indotto è: “Se viene ripetuto vuol dire che è vero”. In merito a una celebrità: “Se compare sempre vuol dire che vale davvero”; 5. Manipolazione cognitiva: può avvenire attraverso false promesse (“fa passare il mal di testa”), paragoni troncati (“lava più bianco…” di che cosa?), parole evocative: (Mulino bianco, Valleverde…); 6. Amalgama cognitivo: è un figura centrale della retorica manipolativa basata su una associazione priva di fondamento ma ad effetto: “Se fumo sono una donna emancipata”; 7. Star strategy: il prodotto deve essere riscattato dalla quotidianità e dai suoi attributi funzionali per essere proiettato nello star system; tocca ai “comunicatori” attribuire ai prodotti quel valore onirico senza il quale quella pasta, quell’olio, quel detersivo sarebbero solo pasta, olio, detersivo; 8. Buoni sentimenti: entrare con discrezione nelle case, con messaggi non urlati, far sognare ricorrendo alla modulazione delle fiabe; così è nato il format Barilla: una specie di leggenda popolare che vuole far vibrare le corde del sentimento.

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Gli spot sono prodotti elaborati e ogni campagna pubblicitaria richiede un considerevole lavoro di ricerche, sondaggi e inchieste. Lavoro che è frutto dalla collaborazione di specialisti provenienti da discipline diverse: sociologi, psicologi, semiologi, linguisti, grafici, musicisti, registi e operatori cinematografici. Girare uno spot di venti secondi richiede almeno cinque giorni di lavoro. Ogni piano, anche se breve, necessita di numerose ripetizioni. Segue la fase del montaggio in cui le immagini vengono scelte e sincronizzate con i suoni e i commenti. Bisogna poi sovraimprimere il testo. Ad ogni tappa del lavoro, un gruppo di persone valuta il risultato. Una tale congiunzione di know-how, di capacità e di sforzi ha fatto dire a Marshall McLuhan (1968) che «non ci sono équipe di sociologi in grado di rivaleggiare con le équipe dei pubblicitari nella ricerca e nella utilizzazione dei dati sociali sfruttabili. I pubblicitari investono ogni anno miliardi di dollari nelle ricerca e nell’esame delle reazioni del pubblico, e la loro produzione è una straordinaria accumulazione di dati sull’esperienza e i sentimenti comuni di tutta la società».

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LA DOPPIA FACCIA DEL NEUROMARKETING

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Le tecniche di persuasione al servizio della pubblicità e delle aziende stanno dunque esplorando nuovi territori. Invece di chiedere alle persone se sono soddisfatte di un certo prodotto senza poter verificare se dicono la verità, si va a cercare direttamente nel loro cervello. Si cerca di identificare le zone del cervello responsabili della secrezione di ormoni per verificare se l’immaginario pubblicitario li attiva. Attraverso la tecnica del brain imaging si cerca di sapere se l’ipotalamo è stato eccitato oppure no. Si cerca anche di creare dei riflessi condizionati appoggiandosi su dei simboli referenziali della “cultura giovanile”, del mondo dei “vip” o anche della cultura “etnica”. Molti neuroscienziati però non sono convinti della portata innovativa delle tecniche utilizzate dai neuromarketers e criticano una certa faciloneria di questi ultimi nel vendere alle aziende e ai pubblicitari risultati vecchi come se si trattasse di novità, ossia applicare quello che si sa sui correlati neuronali delle decisioni e delle emozioni alle tradizionali tecniche di marketing, ribattezzate però con nomi nuovi. Se l’esperimento di Montague è istruttivo in quanto riesce a separare il gusto dalla vista e dai fattori culturali legati al marchio della Coca-Cola, per quanto riguarda altri esperimenti il fatto di sapere quali sono le zone del cervello che si attivano non aggiunge nulla di particolarmente rilevante ai risultati che si ottengono. Per esempio dall’esperimento fatto per conto della Daimler Chrysler riportato nella Scheda 8, emerge la classica associazione tra desiderio sessuale e pulsione all’acquisto, già presente in molte pubblicità “tradizionali” fondate sulla seduzione, l’erotismo e il riflesso condizionato che lega tra loro prodotto e impulsi. Anche le pubblicità che utilizzano i suoni ipersonici si basano sulla classica associazione pavloviana di uno stimolo incondizionato con uno stimolo condizionato. Comunque, secondo lo studio condotto da Deena Skolnic Weisberg dell’Università di Yale insieme ad altri autorevoli


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scienziati il prefisso “neuro” anteposto a “marketing” ha l’effetto di rendere immediatamente più credibili agli occhi dei pubblicitari e delle aziende certe spiegazioni, giuste o sbagliate che siano, e di conferire un alone di prestigio all’esperto che si presenta con l’etichetta del neuromarketer. In altre parole il termine “neuro” è già di per sé una tecnica del marketing, una “marca” che consente di presentare come una novità una vecchia tecnica. «L’idea di fondo» spiegano Legrenzi e Favrin (2009) «consiste nel raccontare che parti diverse del cervello funzionano in modo diverso e che quindi, a seconda dei circuiti neuronali che vogliamo attivare dobbiamo costruire messaggi pubblicitari e strumenti di vendita diversi. In realtà quello che viene presentato come una grande novità è spesso niente di più che un’altra “innovativa” tecnica di vendita per proporre una collaudata consulenza di marketing». C’è un altro aspetto del neuromarketing che non ha a che fare con il cervello umano ma con una sorta di cervello costruito artificialmente in cui convergono le tracce di tutti comportamenti e gli stili di acquisto di una persona. Oggi un supermercato o un qualsiasi negozio o centro acquisti può, attraverso le carte di credito, le tessere di fedeltà o altro, fare delle statistiche su chi compra un determinato prodotto, con quale scadenza e collegare quel prodotto ad altri prodotti che quel consumatore è solito comperare o potrebbe acquistare in futuro. Questo consente, a chi ne ha interesse, di tracciare un profilo del cliente potenziale e anche di individuare diverse e svariate tipologie di clienti. Il profilo emerge “fondendo” tutti i dati provenienti da un individuo e ricostruendo il suo cervello di consumatore-risparmiatore, le cui scelte sono state registrate in luoghi e in tempi diversi. Un conteggio che risulta altrettanto semplice, se non di più, quando gli acquisti vengono fatti on-line. Tutti i passaggi sulla rete lasciano delle tracce e la visita di un sito comporta generalmente la presenza di un cookie (biscottino) del computer del visitatore che è così rintracciabile. Dopo qualche tempo il consumatore


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riceverà sul suo computer pubblicità o “consigli per gli acquisti” relativi non solo ai prodotti che è solito acquistare ma anche ad altri. BERSAGLI SENSIBILI

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In una pubblicità mandata in onda dalla Rai si vedevano dei bambini che disegnavano delle automobili: erano gli ultimi modelli di una casa automobilistica italiana. Lo spot si concludeva con la marca della fabbrica a tutto campo. Si dice sempre che i bambini non devono essere strumentalizzati, che nel rispetto della privacy il volto di un minore va oscurato quando la sua immagine appare su un quotidiano o su uno schermo, inspiegabilmente però i bambini delle pubblicità compaiono a viso scoperto, a volte anche nudi. «Sono i genitori che danno il consenso» è la spiegazione: il volere del genitore vince sulla norma generale. È anche una vittoria del marketing a cui evidentemente non si chiede di seguire le regole che altri invece sono tenuti a rispettare. Regole che, per inciso, non valgono neppure per taluni programmi televisivi in cui i bambini vengono esibiti come degli adulti in miniatura e loro, sotto la spinta di genitori e conduttori televisivi cercano di assumere il linguaggio e gli atteggiamenti che gli adulti si aspettano da loro. Ma perché nel nostro paese i bambini vengono usati nelle pubblicità, non soltanto quelle relative a giocattoli, merendine, abbigliamento, ma anche a prodotti per la casa o per adulti, come appunto l’automobile? Non c’è un solo motivo ma svariati: – i bambini sono i consumatori più ingenui, posseggono poco e vorrebbero molto: si trovano quindi nella posizione ideale per essere “catturati” dalla pubblicità; – a fare gli acquisti sono i genitori, ma i bambini possono “assillarli” per ottenere ciò che vogliono: l’esperto pubblicitario sa come indurre il capriccio (in inglese nag factor, “as-


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sillo”) nel piccolo consumatore in modo che possa vincere le resistenze dei genitori; i bambini sono fiduciosi e ottimisti nei confronti dei “consigli per gli acquisti” e al supermercato indicano alla mamma il prodotto “migliore”; la presenza di bambini nelle pubblicità favorisce l’identificazione dei piccoli spettatori; con loro funziona bene la promozione incrociata tra due o più marchi (saturation marketing) un tipo attività promozionale “sinergica” basata sull’associazione di un prodotto con un personaggio amato dai bambini: per esempio, sulla busta della merendina c’è il simpatico coyote, sulla confezione di hamburger c’è l’eroe del calcio, sulla t-shirt ci sono le Winx; e per quanto riguarda i giocattoli, sempre più spesso sono associati a eroi di film, storie, videogames, fumetti, personaggi di serial televisivi che suggeriscono come quel giocattolo deve essere utilizzato, all’interno di quale narrazione, schema o contesto: le bambole Winx, ad esempio, hanno ognuna un proprio corredo di abiti e di gadget, si dedicano allo shopping, al look, al ballo e al gossip; anche i “gormiti”, piccoli personaggi mostruosi offerti ai maschietti, hanno ruoli, linguaggi ed equipaggiamenti pre-definiti; i pubblicitari però lavorano anche sui tempi lunghi, cercano cioè di allevare i loro consumatori “fidelizzandoli” a un gusto, un prodotto o una marca (brand loyalty) in vista degli anni a venire. Una specialista del mercato per bambini, Norma Pecora, denunciava già nel 1988 il pericolo di una vera e propria “consumerizzazione del bambino”: «Entriamo nel XXI secolo» scriveva «con dei bambini che sono dei consumatori bene addestrati, capaci di associare il clown Ronald di McDonald con le “cose buone” prima di saper parlare». Parole profetiche se si considera che allora non c’era ancora la Baby tv che si rivolge direttamente ai lattanti (vedi a p. 136).


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I bambini sono soprattutto sensibili alla forma e al ritmo di uno spot e meno al suo obiettivo commerciale. Ricordano però gli slogan, le rime, le canzoncine e le filastrocche, e diventano delle specie di ripetitori che instancabilmente riproducono le formule delle pubblicità che hanno visto e sentito. Ciò vale sia per i bambini che amano le pubblicità che per quelli che sostengono di non amarle. In uno studio condotto su 122 bambini tra i nove e i dodici anni emerse che 54 di loro (il 45%) non gradivano le pubblicità in televisione («è noiosa», «è troppo lunga», «interrompe i programmi», «è falsa», «è stupida», «fa perdere tempo») tuttavia quegli stessi bambini ricordavano, riproducendoli a memoria, lo stesso numero di spot pubblicitari che ricordavano gli altri, in media 13-14 (Oliverio Ferraris e Grant, 1994). Il motivo è evidente, lo spot è uno spettacolo, breve e a lieto fine, costruito come uno sketch, animato da figure attraenti, un ritmo trascinante, parole e frasi facili da ricordare. Particolarmente efficace è nei bambini il cosiddetto “effetto esposizione” già ricordato in precedenza (p. 42). Esso emerge chiaramente in un esperimento condotto nell’università di Standford in California con bambini tra i 3 e i 5 anni (Robinson et al., 2007). Ai bambini veniva presentato del cibo e una bevanda (hambuger, pollo, patatine fritte e un bicchiere di latte) ora in un imballaggio senza marca, ora in un imballaggio che portava la marca McDonald’s. Attraverso un questionario ai genitori i ricercatori sapevano quali erano le abitudini alimentari dei bambini, l’eventuale presenza di giocattoli McDonald’s in casa e le abitudini televisive dei bambini. I bambini che parteciparono allo studio furono 63 e 340 furono le sedute di degustazione comparativa. Ogni volta i bambini dovevano gustare la versione “anonima” e la versione McDonald’s e indicare le preferenze, anche se i prodotti erano identici. I risultati mostrarono che il 59% preferiva il pollo marcato, contro il 18% per il pollo “anonimo” (gli altri non si pronunciavano). Il 48% preferiva gli hamburger marcati contro il 36% per la versione anonima. Il 76% le patatine


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fritte di marca alle anonime, il 61% il latte targato McDonald’s contro il 21% del latte anonimo. Dallo studio è anche emersa una correlazione positiva tra le preferenze per i cibi col marchio e il numero dei televisori in casa. In altre parole, è la frequenza delle immagini McDonald’s sul televisore domestico che modifica il gusto dei bambini, o più precisamente la loro percezione del cibo risulta modificata dalla frequente esposizione alla marca. Gli uomini del marketing possono usare strategie molto ingegnose per conquistare i bambini: una di queste fu utilizzata negli anni Settanta dalla Nestlé per penetrare nel mercato giapponese. Fin dall’inizio fu chiaro che introdurre il caffè in Giappone era un’impresa difficilissima – racconta Clotaire Raspaille (2008), all’epoca consulente in marketing della Nestlé – perché i giapponesi adulti, abituati al tè fin dall’infanzia, non mostravano alcuna propensione per il gusto del caffè, sconosciuto nella loro cultura. A differenza degli italiani, dei francesi o degli americani i giapponesi non avevano alcun tipo di legame emotivo o ricordo infantile con il caffè, era perciò irrealistico pensare di poter convincere gli adulti o gli adolescenti a berlo: non restava che rivolgersi ai bambini, i cui gusti erano in formazione. Ma come “imprintarli” al gusto del caffè se nelle famiglie questo prodotto non veniva usato? C’era inoltre l’ostacolo della caffeina, che non è una sostanza proponibile all’infanzia. Per iniziare i piccoli al nuovo prodotto vennero perciò creati dei dessert al profumo di caffè ma senza caffeina. Anche se nessuna marca riuscirà mai a convincere i giapponesi a rinunciare al tè, le vendite del caffè – praticamente inesistenti in Giappone nel 1970 – aumentarono sensibilmente. I bambini possono essere raggiunti attraverso i loro genitori, se le esche che vengono lanciate sono attraenti e convincenti. Per esempio, da alcuni anni va in onda in vari paesi un programma dal titolo Little Einsteins rivolto a bambini di età prescolare che promette un potenziamento dei quoziente di intelligenza dei piccoli spettatori. Molti genitori hanno ab-


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boccato, felici di poter parcheggiare i loro figli davanti a un programma “stimolante” e “intelligente”. I bambini però non sono diventati dei piccoli Einstein e ora qualcuno, negli Stati Uniti, ha incominciato a fare causa alla Disney per la pubblicità ingannevole collegata a quel programma. SCOPRIRE IL CODICE

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In Culture Codes Clotaire Raspaille illustra il metodo di lavoro che seguiva quando lavorava come consulente per la Nestlé, la Chrysler, la catena di alberghi Ritz-Carlton. Dal suo racconto si apprendono particolari e metodi che ci aiutano a capire il modo in cui lavorano i consulenti delle grandi società nel promuovere un prodotto. Antropologo e psichiatra di formazione Raspaille conosceva i lavori dello scienziato e studioso del comportamento umano Henri Laborit che, nelle sue pubblicazioni, aveva evidenziato lo stretto legame che esiste tra l’apprendimento e l’emozione, mostrando che senza la seconda il primo è impossibile. Più l’emozione è intensa più l’esperienza si inscrive nella memoria. Si pensi ad un bambino a cui la madre dice di evitare una pentola calda sui fornelli. Questo concetto è astratto fino a quando il bambino non tocca la pentola e si brucia. In quell’attimo di dolore emozionalmente intenso il bambino impara che cosa significano “caldo” e “bruciare” e ci sono poche probabilità che lo dimentichi. La combinazione di esperienza ed emozione che accompagna quell’esperienza crea una condizione molto simile a un imprinting. Inconsciamente ognuno di noi dà ad ogni cosa – un’automobile, un profumo, certi alimenti, una relazione, una città ecc. – un codice che nasce dalle proprie esperienze, molto spesso infantili. Il percorso per scoprire gli imprinting nascosti (o “codici”) nei potenziali consumatori muove da queste premesse teoriche e si articola in un incontro esplorativo, ognuno della durata di tre ore, con un gruppo di potenziali consumatori che man


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mano vengono portati a liberarsi delle spiegazioni razionali (o sovrastrutture) e ad entrare in contatto con le proprie genuine emozioni e antichi ricordi di esperienze vissute. Analoghi incontri vengono attivati con altri gruppi di consumatori, in modo da avere un campione di studio sufficientemente ampio. Raggiungere i vissuti inconsci o inconsapevoli che i consumatori hanno nei confronti di un determinato prodotto non è un processo immediato: «Quando si pongono delle domande dirette sui loro interessi e le loro preferenze» spiega Raspaille «le persone tendono a dare quelle risposte che l’interlocutore si augura di avere. Non hanno l’intenzione di ingannarlo. Il motivo è che la gente risponde alle domande con la corteccia cerebrale, la parte del cervello che controlla l’intelligenza piuttosto che l’emozione o l’istinto. Esaminano una questione, la digeriscono, e quando forniscono una risposta questa è il prodotto di quella riflessione. Credono di dire la verità ma nella maggior parte dei casi non dicono ciò che vorrebbero realmente dire». È in genere soltanto nella terza fase di una seduta di esplorazione che emergono i contenuti più interessanti. «Questo processo li aiuta a mettersi in ascolto di un’altra parte del loro cervello. Le risposte che danno in questa ultima fase provengono dal loro cervello rettile, la sede degli istinti. È nel nostro cervello rettile che riposano le vere risposte». O quanto meno quelle che va cercando il pubblicitario. Ed ecco come si articolano le tre fasi di una sequenza esplorativa. Nel corso della prima ora si parla genericamente di vari argomenti e anche del prodotto in questione, per esempio nel caso del caffè per i giapponesi, se lo conoscevano, che uso ne facevano, come secondo loro altri popoli lo utilizzavano, per quale ragione e con quali risultati. Nel corso della seconda ora i partecipanti vengono fatti sedere in terra, come dei bambini alla scuola materna. Vengono date loro delle forbici e dei giornali con cui fanno dei collage di parole. Per esempio nel caso dei giapponesi, sulla parola caffè. L’obiettivo è che qualcuno racconti delle storie su quella parola e indichi delle piste emotive da seguire. Nel corso della terza ora, infine, i partecipanti


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vengono fatti sdraiare sul pavimento e su dei cuscini. Viene quindi diffusa un musica dolce e rilassante. Il cervello deve entrare in uno stato di quiete, di pre-sonno, uno stato in cui i pensieri possano vagare liberamente come nel sogno, senza le costrizioni della logica e della coerenza. «Questo consente alla persone di cominciare il processo di separazione dalla corteccia e di procedere verso la fonte dei loro primi incontri con l’oggetto in questione». Soltanto quando i partecipanti sono completamente rilassati si incomincia un viaggio a ritroso nei territori della adolescenza e dell’infanzia al fine di entrare in contatto con le prime esperienze (o imprinting) relative al prodotto in questione. Nel caso del caffè per i giapponesi questo viaggio non portò da nessuna parte, perché nelle loro esperienze infantili il caffè non era mai stato presente; ma in altri casi invece il viaggio portò delle indicazioni che poi servirono ad impostare delle campagne pubblicitarie. La Jeep Wrangler, per esempio, in questo stato quasi onirico fu associata, dai gruppi di consumatori americani, ai grandi spazi delle praterie, alla libertà di andare dove si vuole senza regole e senza norme e in ultima analisi ad un cavallo: il cavallo dell’uomo solitario del grande West era il codice nascosto, emerso nella terza ora delle sedute esplorative. A seguito di questa “scoperta” la Chrysler decise di modificare il modello della Jeep così come era stato progettato per il mercato degli Stati Uniti: vennero eliminati gli accessori di lusso perché i cavalli non ne hanno; la pelle morbida che ricopriva i sedili fu sostituita dal cuoio duro della sella; si decise di cambiare le porte e di lasciare il tetto aperto perché il guidatore di quel tipo di autoveicolo voleva sentire il vento intorno a sé, come se stesse correndo nelle grandi praterie in groppa al suo cavallo. Infine la Jeep fu per l’appunto battezzata “Wrangler” che è il termine usato per designare il cowboy che si occupa delle selle dei cavalli. L’azienda cominciò dunque a vendere l’ultimo modello della Wrangler come un “cavallo”. In uno degli spot preferiti dal pubblico si vedeva un bambino su una montagna con il


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suo cane. Il cane precipita in un burrone e resta aggrappato in maniera precaria ad un ramo sporgente. Il bambino corre al villaggio per cercare aiuto. Passano vari tipi di automobile prima di incontrare una Wrangler. La Wrangler scala la montagna e il suo guidatore salva il cane. Il bambino abbraccia il cane, poi si volta per ringraziare il guidatore ma la jeep sta già scendendo come quegli eroi dei vecchi western che se ne vanno sulla loro cavalcatura, nel sole che tramonta. Questa campagna pubblicitaria, spiega Raspaille, fu un successo. Un’altra campagna dall’esito interessante e imprevedibile fu quella studiata e realizzata per la catena di alberghi RitzCarlton. Attraverso il metodo in tre fasi si scoprì che di una camera d’albergo la stanza da bagno è apprezzata e da molti percepita come uno spazio di libertà. Per molte persone il bagno in casa propria è stato nell’infanzia il simbolo dell’intimità e dell’indipendenza assoluta. Lì potevano isolarsi, chiudersi a chiave per tempi anche lunghi, sottrarsi al controllo dei genitori e alla presenza fastidiosa di fratelli e sorelle. Perché non valorizzare uno spazio così denso di valenze emotive? Perché non renderlo ancora più personale mettendoci il telefono, un block notes e una penna? Perché non rendere la sala da bagno più spaziosa e confortevole? Perché non collegarla con la filodiffusione? Quando è soltanto funzionale un bagno è banale; ma una stanza da bagno che diventa un rifugio dal mondo, equipaggiata e indipendente, che trasmette un senso di libertà e di autonomia risponde al codice inconscio di molte persone. La sessualità è un’altra dimensione molto sfruttata nell’ideazione di un prodotto come nel lancio pubblicitario. È ancora Raspaille a spiegarci come nelle sedute esplorative per il lancio negli Stati Uniti di una nuova berlina fossero emersi tra i consumatori moltissimi ricordi relativi alla prima esperienza sessuale, vissuta per l’appunto sui sedili posteriori di un’auto. Di questa indicazione tennero conto sia i designer nel realizzare una carrozzeria dal look “sexy”, sia i pubblicitari nello strutturare la loro campagna promozionale. Il nuovo modello


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ottenne il successo sperato in una certa fascia di pubblico più attenta al look che ad altre caratteristiche strutturali. «Il consumo e la sicurezza non erano migliori di altre berline, e [l’auto] non era più affidabile sotto i profilo meccanico. Ma era inconsueta, aggressiva e sexy. Questo rispondeva a ciò che la gente cercava veramente in una vettura, piuttosto a ciò che dicevano di volere. Se noi avessimo soltanto ascoltato ciò che la gente diceva, sarebbe stata creata una berlina efficace ma banale e il pubblico avrebbe scrollato le spalle». D’altro canto fu proprio il settore dell’automobile a dare inizio a quella trasformazione epocale della pubblicità cui abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo. In un libro intitolato La fine del lavoro, l’economista e sociologo Jeremy Rifkin spiega come negli anni Trenta negli Stati Uniti la produzione in serie delle automobili rischiava di ingorgare la produzione in quanto molte delle auto che uscivano dalle catene di montaggio restavano invendute. O si riduceva la produzione o si doveva trovare il modo di convincere la gente a cambiare più spesso l’auto, anche se non ne aveva alcun bisogno. La vecchia réclame non funzionava più, bisognava sperimentare altre forme di convincimento. Se i cittadini non avevano obiettivamente necessità di un’auto nuova è al loro inconscio che bisognava rivolgersi puntando sulle emozioni e i sentimenti: una efficace campagna pubblicitaria non doveva più puntare, come prima, sulle caratteristiche del prodotto ma stimolare il senso di inadeguatezza, la rivalità sociale (confronto con vicini e colleghi), l’ammirazione nei riguardi del testimonial, la sensazione di dominio nel possedere una grossa berlina anche se consumava molto di più del modello precedente. Una volta che il nuovo modo di fare pubblicità fu lanciato divenne difficile fermarlo e dagli Stati Uniti man mano si diffuse in tutto il mondo industriale.

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Le stesse strategie che mirano a fare emergere i contenuti nascosti nell’inconscio delle persone per indurle ad acquistare dei prodotti di consumo, vengono utilizzate anche per pro-


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muovere personaggi pubblici, rimodellare la loro immagine, migliorare le loro capacità espressive, correggere il loro modo di porsi e di parlare, renderle gradevoli e popolari e anche vendere altri prodotti attraverso di loro: come nel caso di David Beckham‌

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Capitolo IV

Il personaggio e il suo doppio

Chi non lo sa che il lupo sdolcinato, è tra tutti i lupi il più pericoloso? Charles Perrault

In un mondo siffatto, è possibile sottrarsi alla manipolazione? Ha senso, poi, essere sempre all’erta, sospettosi e diffidenti? In fondo la società del consumo porta anche benessere e divertimento. Da un lato omologa, dall’altro riduce le differenze sociali. Sottrarsi completamente alla manipolazione è impossibile, sapere però che la psiche umana obbedisce a certe regole e conoscerle rende più liberi. Consente anche di riconoscere e decodificare il lavoro che consulenti, curatori di immagine, pubblicitari, agenti, spin doctor e consiglieri svolgono dietro le quinte, di frapporre tra noi e il loro lavoro la giusta distanza per poterlo valutare. DAVID BECKHAM ED HARRY POTTER

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Nel dicembre 2008 accompagnato dalla moglie Victoria ex spice-girl, arrivò a Milano David Beckham. Trentatré anni, ex giocatore del Manchester e del Real Madrid, acquistato dal Milan per una stagione. Non è più il campione di un tempo, ha però un fisico perfetto e un look fascinoso. Quella milanese è stata un’operazione d’immagine per il Milan un po’ in ribasso, per Dolce e Gabbana che lo vestono e lo calzano, per Armani che ne cura l’intimo. Beckham ha il pregio di piacere


CAPITOLO IV

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sia alle donne che ai gay. Anche la moglie è una testimonial “tosta”: la borsa Chanel, l’anello Posh Spice, gli underwear Armani. Griffati entrambi dalla testa ai piedi e naturalmente ricchissimi, si spostano da un continente all’altro su jet personali, così come un comune mortale si sposta da un quartiere all’altro in metropolitana. Sono capricciosi e distaccati. Esibiscono una vita sessuale libera e amano le dimore esclusive. Dopo alcuni mesi di soggiorno a Milano, Victoria ha “candidamente” espresso il desiderio di abitare nel Castello Sforzesco. Sotto i riflettori e di fronte alle telecamere i due divi si attengono rigorosamente alla parte che hanno accettato di recitare e a cui sono vincolati per contratto. Grazie a loro la gente comune dovrebbe sognare e acquistare i prodotti che sponsorizzano. Quello di Beckham è soltanto un esempio tra i tanti. Nel momento in cui un personaggio di successo accetta le condizioni che lo sponsor gli propone si lega a lui, si trasforma e diventa qualcos’altro. È successo anche ad Harry Potter. All’inizio era soltanto un bel libro di avventure da leggere in silenzio lasciando correre l’immaginazione, ma dopo che l’autrice ha venduto i diritti di licenza alla Warner e Brothers i libri di Harry Potter si sono trasformati da un’oasi di pace in una cultura satura di media commerciali ed elettronici. Harry è diventato un marchio. Non solamente la serie dei film, ma anche gli articoli per la scuola, i giocattoli e i cibi. «Da subito la Warner Brothers ha trasferito i film di Harry Potter in prodotti, prodotti e ancora prodotti: puzzle, giochi da tavolo, bambole e altri giocattoli della Mattel; giochi per il PC della Electronic Arts; costruzioni della Lego: poi ci sono caramelle, costumi, calzini, camicie, boxer, zaini, calendari, borse da viaggio e trolley. Appena iniziano le proiezioni di un nuovo film, noi e i nostri bambini possiamo stare certi che vedremo immagini di Harry, dei suoi amici e dei suoi nemici ovunque: su riviste, in televisione e negli Studio Stores della Warner Brothers di tutto il mondo» (Linn, 2004, pp. 107-108).


IL PERSONAGGIO E IL SUO DOPPIO

Quando un personaggio viene così fagocitato dal mercato va incontro ad un processo di transustanziazione. Nel momento in cui David Beckham accetta di vendere la propria immagine agli stilisti, ai produttori di orologi e a quant’altri il bel calciatore si trasforma in un’icona prevedibile da cui il pubblico si aspetta comportamenti consoni alla parte che gli è stata assegnata. La sua immagine si fissa in uno stereotipo che può essere riprodotto all’infinito, proprio come le serigrafie di Andy Warhol. E se come essere umano diventa inavvicinabile, come immagine è invece dappertutto. Implacabilmente. Le gigantografie di Beckham in slip fasciatissimi, in pose plastiche a torso nudo, incombono e ci inseguono: in strada, in metropolitana, nelle stazioni ferroviarie, ammiccanti dai quotidiani, occhieggianti dalle pagine dei settimanali, in enormi pannelli nelle jeanserie e nei supermercati. Non lo vogliamo ma siamo costretti a vederle. E come lui, molti altri. La bulimia del mercato è tale che persino i monumenti artistici e intere facciate di palazzi storici possono essere oscurate da una réclame. CHI HA PAURA DELLO SPIN DOCTOR?

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In Wag the Dog (in italiano Sesso e Potere) un film del 1997 tratto dal romanzo di Larry Beinhart American Hero e diretto dal regista Barry Levinson, due consulenti del presidente degli Stati Uniti si inventano una guerra in Albania, con tanto di filmati, di inni e di eroe. Lo scopo è quello di concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla guerra spostandola da uno scandalo di natura sessuale riguardante il presidente: scandalo che aveva avuto l’effetto di abbassare disastrosamente l’indice di gradimento del presidente. Nel film, Conrad Brean, esperto di manipolazione dei media, e Stanley Motts, produttore cinematografico di Hollywood, diffondono una sequela di false notizie tra cui quella di un presunto arsenale nucleare dell’Albania. Le notizie e le immagini che vengono diffuse attraverso i media sono sapientemente infarcite di retorica, nazio-


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nalismo, richiami ai valori democratici e libertari, con l’obiettivo preciso di risvegliare un esasperato sciovinismo nella pubblica opinione americana. L’operazione ha successo, nel film, grazie alla fiducia incondizionata che il pubblico accorda al mezzo televisivo. Brean e Motts sanno che molti telespettatori “credono a ciò che vedono” ed essi sono abbastanza smaliziati e cinici da capire che il loro compito, quello per cui sono stati ingaggiati dalla presidenza degli Stati Uniti, consiste nel dare alla simulazione il massimo della “verosimiglianza” in termini di effetti speciali. La loro filosofia è riassunta in una frase pronunciata da Brean ad un certo punto del film: «Come disse Platone: non ha importanza come cazzo ci riesci, se ci riesci». Questi professionisti dell’informazione operano da tempo nel mondo reale, assai prima che nella fiction. Negli Stati Uniti li chiamano spin doctor. Il termine “spin” (“far girare”) deriva da un effetto particolare che viene impresso alla palla da baseball e che in questo caso serve ad indicare l’azione che il consulente esercita sulle notizie da divulgare. Consiglieri di certi capi di stato, hanno il compito molto speciale di formattare o di creare, in parte o del tutto, l’informazione destinata ai media e poi di distillarla a tempo ed ora. Si impegnano a rimodellare l’immagine degli uomini politici per cui lavorano. Svolgono la loro azione nell’ombra. Utilizzano il condizionamento, le tecniche di gestione sociale (sondaggi di opinione, focus group) e gli strumenti di comunicazione più sofisticati per indirizzare l’opinione pubblica. I consiglieri del principe hanno una tradizione antichissima, tuttavia, nella forma contemporanea di spin doctor uno dei primi fu, negli Stati Uniti, Ivy Ledbetter Lee. Autore nel 1906 di una Dichiarazione dei principi delle pubbliche relazioni, Lee riuscì a convincere alcune compagnie americane ad avvalersi della sua consulenza e ad investire nelle pubbliche relazioni; ma ciò che gli diede la notorietà fu un’altra vicenda, piuttosto torbida. Nel 1914 quando il magnate John D. Rockefeller, proprietario di alcune miniere in Colorado, rischiava il carcere per l’accusa gravissima di aver provocato una strage


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di scioperanti, donne e bambini, Lee, nonostante l’ostilità dell’opinione pubblica che chiedeva a gran voce giustizia, riuscì a salvare il suo assistito dalla galera diffondendo una versione modificata dei fatti tra i giornalisti e i personaggi più influenti, coloro cioè che, per la posizione che occupavano nella comunità potevano influenzare l’opinione pubblica. Questa sua abilità nell’avvelenare l’informazione gli valse il soprannome di “Poison Ivy”, un tipo di edera velenosa che cresce nel continente americano. Poison Ivy era contemporaneo di Edward Bernays (vedi a p. 11), anch’egli interessato allo sviluppo delle pubbliche relazioni nelle aziende USA e ideatore di strategie di successo. Una di queste è la tecnica “della terza parte”, che prevede di rilasciare notizie diffuse da enti o personalità estranee, in apparenza, alla campagna pubblicitaria in corso, ma in realtà sapientemente istruite su cosa dire o fare. Ad esempio: una casalinga che si trova “per caso” in negozio dice ad alta voce il suo parere su un sugo per la pasta; un noto calciatore esprime un parere sull’ultimo modello di una motocicletta; un passante, anche lui “per caso” nei pressi della telecamera, rivela per chi voterà alle prossime elezioni. Un contributo significativo Bernays lo diede nel saggio L’ingegneria del consenso (1928) dove tra l’altro si rammaricava del fatto che la politica non avesse «ancora saputo adattare i metodi del business in materia di distribuzione di massa delle idee e dei prodotti». Una “carenza” che venne in seguito ampliamente colmata dai politici e dai loro consiglieri, a partire da Joseph Goebbels, il cinico e abile ministro della propaganda di Hitler, che conosceva gli scritti di Bernays. Come già ricordato, l’origine e il progressivo sviluppo di questo aspetto dell’informazione venne accolto da alcuni con grande entusiasmo e da altri con molta preoccupazione: questi ultimi vi vedevano un bubbone che, crescendo, avrebbe potuto infettare la democrazia (vedi a p. 11). In seguito, nel 1962, Daniel Boorstin introduceva una separazione netta tra i fatti “creati da Dio” e quelli “creati dall’uomo” e metteva in


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guardia dai cosiddetti pseudo-eventi, orchestrati ad arte dagli spin doctor per distrarre l’attenzione del pubblico e spostarla su altri obiettivi (vedi Scheda 9). E se nel film Wag the dog la “distrazione” assume le proporzioni tragiche della guerra, altre forme di “distrazione”, che a tutta prima sembrano innocue e trascurabili perché associate al passatempo, al relax o al divertimento, possono servire anch’esse per deviare l’attenzione della gente da altri eventi rilevanti. La strategia della distrazione è antica quanto il mondo. I maestri di questa arte sono gli illusionisti, ma essi non sono certamente gli unici ad utilizzarla. Un fatto di cronaca nera può essere amplificato al massimo e rimbalzare da un TG all’altro per giorni e giorni sia per tenere alto lo share che per oscurare altre notizie (un aumento delle tasse, l’acuirsi della crisi economica, la gaffe di un ministro…) e ciò grazie anche al vincolo che lega molti giornalisti televisivi alla classe politica. Un noto conduttore di talk show, con appoggi politici importanti, nel rispondere in un incontro pubblico alla mia domanda sul perché nel suo programma intere categorie di cittadini non fossero mai rappresentate mentre alcuni personaggi vi comparissero assiduamente, non esitò a rispondermi, con tono assertivo, che nello scegliere gli ospiti per le sue serate adottava un criterio cristallino,assolutamente inattaccabile, che garantiva la rappresentatività di tutti cittadini: per formare il parterre delle trasmissioni si rivolgeva alle segreterie dei partiti e ai sindacati (sic!). Ben più inquietante è, però, quest’altro episodio, che ha dei punti in comune con Wag the Dog. Nel 2003 il primo ministro britannico Tony Blair riuscì, grazie al lavoro dei suoi addetti stampa e consiglieri alle relazioni pubbliche, a surriscaldare l’opinione pubblica del suo paese contro Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa. Si venne poi a sapere, dopo qualche tempo, che quelle armi non esistevano, ma ormai la Gran Bretagna era entrata in guerra contro l’Irak a fianco degli USA.

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MASSAGGIARE IL MESSAGGIO Nel sito wikipedia.org alla voce spin doctor si legge: «I compiti dello spin doctor sono diversificati, ma tutti riconducibili a una matrice comune: “Massaggiare il messaggio”, trarre cioè il meglio da qualsiasi situazione in cui sia implicato il suo committente, fornendo ai giornalisti e ai media una versione “aggiustata” di un evento-notizia in veste, volta per volta, di consigliere per la comunicazione, capo ufficio stampa, portavoce o campaign manager. Le sue attività in un certo senso riassumono gli incarichi del tradizionale addetto stampa e del consulente di immagine, mentre per un altro verso li travalicano.

1. Compito dello spin doctor è gestire una crisi con messaggi e tattiche comunicative ad hoc, specialmente nel settore della politica, nei confronti ad esempio di una decisione impopolare, correggendo e smussando eventuali incaute prese di posizione del suo cliente e fornendo ai media e quindi all’opinione pubblica, l’interpretazione delle esternazioni del cliente, al fine di evitargli critiche o commenti malevoli. Si spiegano così le improvvise inversioni di tendenza o di giudizio di alcuni dei politici, che al mattino forniscono una versione che smentiscono nel pomeriggio. E se qualcuno fa notare l’incongruenza: «Sono stato frainteso» è la risposta benevola; «È l’opposizione che travisa ad arte le mie parole» è la risposta di attacco.

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2. Un altro compito dello spin doctor consiste nel fornire notizie “informali” alla stampa facendole passare per confidenze, per notizie riservate o anonime. Una operazione che si avvale della complicità (o della pigrizia) di coloro che ricevono questi input e che, anche se consapevoli, li diffondono ugualmente perché alla ricerca di scoop, novità, eventi “notiziabili”. «Noi scriviamo articoli come i nostri clienti


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vogliono che li scriviamo, li mandiamo ai giornali, alle riviste o alle varie tv e i giornalisti a loro volta scrivono articoli usando le nostre informazioni» dichiara su http://www.medicinenon.it/spin_doctor un sedicente spin doctor pentito. 3. Un’altra delle attività dello spin doctor consiste nel promuovere l’immagine del proprio cliente, come se si trattasse di un prodotto, utilizzando cioè le tecniche del marketing. Vengono messe in evidenza alcune caratteristiche o episodi e si tace su altri. Si cerca di migliorare il look del soggetto in questione sapendo che l’apparenza colpisce il pubblico più di altri tratti della personalità. Il soggetto viene addestrato a fornire una immagine positiva di sé di fronte alle telecamere: mostrare il profilo migliore, guardare nell’obiettivo per comunicare decisione e sicurezza, curare l’abbigliamento, il tono della voce, la capigliatura, il sex appeal. Le labbra gonfiate di star e giornaliste hanno questo obiettivo. 4. A volte si tratta di creare un evento che possa interessare e convincere l’opinione pubblica (informazione gestita), altre volte bisogna rimodellare una notizia (non “aumento delle tasse” ma “riassetto fiscale”). «Per tutto l’anno scorso ho lavorato in una agenzia di pubbliche relazioni. Il lavoro aveva uno scopo: far sì che tu ti interessassi alle cose che i miei clienti volevano che ti interessassi, anche se sono insignificanti per la tua vita. Sfortunatamente, spesso ho avuto successo. Non ho lavorato per Hitler o cose del genere, solo per grandi società che avevano un solo scopo: fare soldi per i loro azionisti». Queste parole appartengono allo spin doctor “pentito” di poco prima».

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Per la sua peculiare attività di manipolatore di messaggi o creatore di candidati elettorali lo spin doctor deve essere indifferente alla verità dei fatti, ma creare una narrazione attraente. I politici che si avvalgono della loro opera sono sempre


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più numerosi: non solo Bush, ma anche Obama. Non solo Reagan ma anche Rutelli che nel 2001 si è avvalso (con scarso successo quella volta) di Stanley Greemberg, lo spin doctor di Clinton. Non solo, infine, Berlusconi, ma anche il PD. TELENOVELE RASSICURANTI

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È ormai una prassi consolidata che le campagne elettorali vengano curate dai professionisti della comunicazione i quali cercano di capire che tipo di messaggi inviare agli elettori, come porgerli e inquadrarli. Nulla di male se il candidato è persona onesta e di valore, ma non sempre è così. Un caso clamoroso quanto significativo fu nel 1989 quello di Collor de Mello in Brasile: un perfetto sconosciuto dal passato non cristallino, che nulla aveva mai fatto per la comunità ma che dopo una breve e martellante campagna pubblicitaria riuscì ad essere eletto presidente. Scriveva all’epoca Mimmo Candito, giornalista de La Stampa che si trovava in Brasile per seguire la campagna elettorale: «Per circa un mese, rispettando la stessa rigidità cronometrica di un carosello pubblicitario, Fernando Collor de Mello appariva nel notiziario per meno di un minuto, ripreso sempre indaffarato, in partenza o in arrivo da qualche viaggio, pronunciava una breve frase generica del tipo “lo Stato è vecchio e va riformato” oppure “la gente si aspetta giustizia e bisogna dargliela”, e poi si allontanava a grandi passi verso un immaginabile aereo in attesa di lui con i motori già accesi. Era il minisceneggiato dell’uomo convincente, avvolgente, quello dal quale avremmo comprato non una ma cento, o mille, auto usate. Sono andato anche a intervistarlo, in cima a un grattacielo, naturalmente, e lui è stato molto gentile e molto evasivo, naturalmente. Come se lo spot (che poi non era uno spot) continuasse anche senza la telecamera». D’altro canto molti degli elettori di Collor de Mello erano abituati da anni alle telenovele, il genere di spettacolo preferito dalla maggior parte dei brasiliani.


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Di fronte a un pubblico di questo tipo la genericità dei discorsi e dei programmi è più persuasiva di un discorso bene argomentato e di un programma fondato su premesse realistiche. Inoltre, se il candidato assume una posizione chiara, rischia di produrre un effetto boomerang da parte di chi non condivide le sue stesse opinioni. Un discorso vago e superficiale consente invece a un certo tipo di elettori di concludere che “il candidato condivide le mie stesse idee”. Meglio ancora se il candidato riesce a ritagliare il proprio messaggio sulle attese e sulle opinioni del pubblico che ha di fronte. Molti elettori sono alla ricerca di conferme. «I comunicatori devono conoscere la posizione o le convinzioni delle persone con cui stanno comunicando, quanto meno se sono interessate a modificare le loro attitudini» spiega John H. Whittaker (1967), autore di uno studio sulla persuasione nella vita quotidiana. «Non è sufficiente esporre il proprio punto di vista. Infatti, la presentazione della propria posizione senza tener conto di quella dell’ascoltatore, può convincere quest’ultimo che lui ha ragione e che il comunicatore è in errore». Il che spiega perché lo stesso candidato possa fare discorsi diversi a seconda del pubblico che ha di fronte. Ma c’è di più, l’elettore vuole assimilare a sé il candidato per cui vota, quindi «per essere assimilati ed eletti» spiegano Granberg e Seidel (1976) «è necessario moderare in pubblico la propria posizione, specialmente in un sistema bipartitico e in contesti in cui le opinioni dell’elettorato sono normalmente distribuite e possono trovare un punto d’incontro su alcuni punti moderati». In assenza poi di una reale conoscenza del candidato e del suo operato, come nel caso di Collor De Mello, e in presenza di un pubblico non esigente, le notizie diffuse ad arte possono essere determinanti, così come la capacità del candidato di recitare la sua parte. Rientrano in questo quadro anche quelle iniziative pre-elettorali intorno a cui si fa un gran battage ma che vengono dimenticate subito dopo le elezioni anche nel caso in cui l’esito risulti positivo per coloro che le hanno organizzate. A Roma, per esempio (ma non è certo l’unico caso), in occasione di una


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consultazione elettorale fu inaugurato il cantiere di un’“accademia per l’educazione artistica dei bambini disabili”. Di fronte alle telecamere e alle ruspe in azione fu organizzata una festa di promesse e di allegria con vip, attori, politici e presentatori televisivi: non se ne fece mai nulla e a testimonianza dello pseudo evento è rimasto soltanto, tre anni dopo, un rudere circondato da logore transenne. Scheda 9 EVENTI SU MISURA

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Normalmente per presentare un progetto, il risultato di una ricerca, un libro, un prodotto commerciale o un candidato, i PR organizzano degli eventi-vetrina. Una attività più che lecita, che può essere non soltanto utile, ma creativa e stimolante. Alcuni eventi però sono in realtà degli pseudo-eventi: la sostanza è minimale (qualche volta inesistente) rispetto al battage che ne viene fatto e alla messa in scena. Prendiamo il caso di una rete televisiva che organizzi una conferenza stampa con rinfresco per annunciare un nuovo programma. Vengono invitati molti giornalisti. Il giorno successivo i giornali ne parleranno e riporteranno delle interviste. Ci sono due possibilità: che il programma sia valido o che si tratti di una semplice operazione d’immagine. L’evento è un fatto, un avvenimento, una notizia autentica. Lo pseudo-evento è costruito ad arte per motivi diversi da quelli dichiarati. È possibile sintetizzare così le caratteristiche dello pseudo-evento: 1) è organizzato perché ne parlino i media: le domande “è reale?”, “è valido”, non sono importanti quanto la domanda “è notiziabile?”; 2) c’è un fondo di ambiguità che lo rende intrigante: il pubblico è indotto a chiedersi “che cosa significa?” e quindi a prestarvi attenzione; 3) racchiude in sé una tautologia, una profezia che ha delle probabilità di auto-avverarsi: se ad esempio una casa cinematografica riesce a far parlare di un film nel TG della sera, i telespettatori scambieranno una pubblicità per una notizia e un certo numero di loro penseranno che si tratti di un film da non perdere.


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Gli pseudo-eventi, spiega Daniel Boorstin nel volume L’immagine (1962), possono ottenere più successo degli eventi per i seguenti motivi: – essendo completamente costruiti sono più teatrali degli eventi: ciò attira l’attenzione del pubblico; – chi li organizza spende del denaro, ha quindi l’interesse di ottenere il massimo dell’effetto, cerca perciò di pubblicizzarli in anticipo, di ripeterli, di trovare il modo che vengano ripresi da altri media (magazine, quotidiani ecc.) e amplificati; – risultano spesso più comprensibili e rassicuranti degli eventi perché sono stati pianificati per essere recepiti dal maggior numero di persone possibili; – si potenziano a vicenda perché c’è un reciproco vantaggio: un servizio fotografico su un personaggio noto è funzionale alla visibilità del personaggio in questione; d’altra parte il magazine che fa il servizio fotografico ottiene un vantaggio sulla concorrenza.

LA MACCHINA DELLE STORIE

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Nel 2004 a contendersi la presidenza degli Stati Uniti c’erano John Kerry, democratico e George Bush, repubblicano. Il fatto che John Kerry abbia perso quelle elezioni pur essendo partito avvantaggiato e pur avendo speso un’ingente somma di denaro per la sua campagna elettorale dipese, secondo gli spin doctor da due importanti fattori. Primo, Kerry era troppo sofisticato, troppo intellettuale per entrare in risonanza con l’America profonda. Secondo, nella sua campagna Kerry parlava di problemi, dati, fatti e diritti, cioè cose concrete ma “noiose”. Bush, invece, raccontava delle storie avvincenti e toccanti per esempio: «Sono stato un alcolista e l’11 settembre ho rischiato la vita, ma sono stato salvato dal potere di Gesù: io vi proteggerò dai terroristi di Teheran e dagli omosessuali di Hollywood». Secondo un guru del marketing americano, Seth Godin: «Kerry non ha voluto raccontare una menzogna che la gente avrebbe ricordato. Che piaccia o no Bush invece ha incarnato con straordinario talento il personaggio del


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dirigente forte, convinto e infallibile» (in Salmon, 2007). Secondo Evan Cornog, che insegna giornalismo alla Columbia University, la chiave della leadership negli Stati Uniti sta, in gran parte, nello storytelling, una tendenza che fa la sua comparsa negli anni Ottanta, sotto la presidenza di Ronald Reagan, quando le stories incominciarono ad apparire nei discorsi ufficiali al posto di argomentazioni e dati. I fatti, le statistiche, i programmi, i piani di spesa hanno un impatto assai meno rilevante sul piccolo schermo di quanto non ne abbiano il look, il corpo, i riferimenti alla vita privata che, apparizione dopo apparizione, possono trasformare un politico in personaggio familiare, affidabile, carismatico. Il che ha portato ad una crescente personalizzazione della politica. «La gente non vuole avere più informazioni» scrive Annette Simmons autrice del volume The Story Factor (2002) «vuole credere in voi, nei vostri obiettivi, nel vostro successo, nella storia che gli raccontate. È la fede che fa muovere le montagne, non i fatti. I fatti non fanno nascere la fede. La fede ha bisogno di una storia che la sostenga»: di racconti o parabole che assumono un valore simbolico e che per la loro concretezza si impongono all’attenzione collettiva più delle cifre, dei ragionamenti o di una compilazione di fatti. Questo è uno dei punti forti degli spin doctor che lavorano per i politici: trattare le informazioni in forma narrativa, personalizzare il più possibile, porre il loro cliente al centro di storie o vicende esistenziali che suscitino emozioni e, quando ci si riesce e la situazione lo consente, farlo apparire come l’unto del Signore, in possesso di poteri speciali. Se ben studiati, contestualizzati e montati a dovere, certi trucchi continuano a funzionare anche nel terzo millenio. Il leader/guru non fa riferimento ad un sapere ragionato e consapevole, cerca invece di raggiungere l’immaginazione e il cuore della sua audience con storie commoventi. Un esempio. In occasione della campagna elettorale del 2004 per la presidenza degli Stati Uniti, racconta Christian Salmon in un saggio dal titolo Storytelling, nelle tv locali fu mandato in onda, circa trentamila volte, un videoclip della du-


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rata di 60 secondi dal titolo Ashley Story che si apriva con queste parole: «Mia moglie Wendy è stata assassinata l’11 settembre dai terroristi». L’uomo che guarda nella telecamera è in piedi, in maniche di camicia, dentro casa sua, davanti alla libreria. Il suo nome in sovraimpressione appare in basso sullo schermo: Lynn Faulkner, Manson Ohio. La telecamera zumma su una foto della moglie con accanto la figlia Ashley di dieci anni. Una voce fuori campo prosegue: «dalla morte di sua madre, Ashley, s’era chiusa in se stessa». Sullo schermo si vede una foto attuale di Ashley su un’amaca mentre è intenta a leggere un romanzo con in copertina un ritratto di una donna d’epoca vittoriana. La voce narrante prosegue: «Ma quando il presidente Bush è arrivato a L., Ashley è corsa a vederlo come aveva fatto quattro anni prima, con sua madre». La musica si fa intensa e struggente mentre sullo schermo scorrono le immagini di Bush che stringe molte mani in mezzo alla folla. Linda, un’amica dei Faulkner, racconta quindi: «Il presidente avanzava verso di me. Allora gli ho detto “Signor presidente, questa ragazzina ha perduto la mamma al World Trade Center”». «Lui si è girato» prosegue ora Ashley filmata qualche settimana dopo l’incontro «... “So che è duro. Stai bene?” mi ha detto». «Il nostro presidente ha allora preso Ashley tra le braccia e l’ha stretta al cuore. (La camera mostra Ashley tra le braccia del presidente). Ed è in quel momento che gli occhi di Ashley si sono riempiti di lacrime» racconta la voce fuori campo. La telecamera inquadra Ashley che dice «È l’uomo più potente del mondo ed è venuto di persona ad accertarsi che io stia bene». È poi nuovamente la volta del padre: «Ciò che ho visto quel giorno (sullo schermo compare il titolo di un giornale “Bush conforta la figlia di una vittima dell’11 settembre”) è quello che io voglio vedere nel cuore (foto di Bush a Ground Zero mentre si felicita con un pompiere) e nell’animo di un uomo che si occupa delle funzioni più elevate e importanti del nostro paese». Il videoclip termina con un primo piano di George Bush di profilo, il viso inclinato verso il basso, in una attitudine di profondo raccoglimento mentre la musica si fa sempre più struggente.


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La “storia di Ashley” suscitò, com’era prevedibile, attenzione e commozione in moltissimi telespettatori che videro in Bush l’uomo della provvidenza. Due sono gli elementi attivi racchiusi in quel videoclip studiato a tavolino a scopo propagandistico: la strumentalizzazione delle emozioni (reali nella giovane Ashley) e la forma narrativa. Del primo abbiamo già parlato. Della forma narrativa parleremo più diffusamente in seguito (vedi pp. 133-136): possiamo però anticipare fin d’ora che la narrazione in sé non è certamente “cattiva”, anzi ha moltissimi aspetti positivi e produttivi, è l’uso strumentale che se ne fa che può renderla ambigua. Anche le storie che ognuno racconta di sé a se stesso e agli altri nel ricapitolare la propria vita e dare senso agli avvenimenti, non sono quasi mai del tutto fedeli alla realtà; ma tutto cambia quando la manipolazione è intenzionale, volta a rimodellare l’immagine di una persona (restyling) o di un avvenimento o fatto storico proponendoli al pubblico come “la verità”. La prova è la delusione che proviamo quando lo veniamo a sapere, anche se la manipolazione è avvenuta a fin di bene, come nei due casi illustrati nelle Figure 4 e 5, entrambe foto storiche, belle, forti, apparentemente spontanee. La prima è la foto di cinque marines americani immortalati mentre piantano la bandiera sul monte Sunbachi nell’isola di Iwo Jima, presidio giapponese durante la seconda guerra mondiale. Tutti quanti abbiamo sempre considerato questa bella foto, un’istantanea fedele di un fatto accaduto. In realtà i marines immortalati in quella foto, non sono quelli che arrivarono per primi in cima al Sunbachi, ma altri che vennero messi in posa, successivamente, per immortalare la conquista dell’isola. In un film del 2006, Flags of our fathers, il regista Clint Eastwood racconta, traendola da un libro, la vicenda di tre di quei cinque marines rimpatriati e scritturati, dallo Stato in difficoltà, per partecipare a una tournée di propaganda, mentre i loro compagni restavano al fronte. Costretti ad andare in giro per gli Stati Uniti tra feste, stadi e majorettes a raccogliere fondi i tre, che alla fine di ogni spettacolo dovevano recitare la scena


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della bandiera tra applausi e musiche patriottiche, si sentivano in realtà soffocare dai sensi di colpa nei confronti dei compagni al fronte e dalla vergogna per un titolo usurpato. La seconda foto (Figura 5), simbolo della liberazione dal fascismo e dell’emancipazione femminile, ritrae tre giovani partigiane con il mitra puntato nel giorno del 25 aprile del 1945 mentre camminano a Milano davanti all’Accademia di Brera. Anche in questo caso la realtà è però un po’ diversa dalla rappresentazione. La foto fu scattata il giorno 29 e non il 25. Le ragazze, una italiana di 17 anni e due sorelle polacche, si misero in posa su richiesta del fotografo. Nella foto compariva in primo piano anche un uomo che però si fece cancellare dai negativi perché, come dichiarò in seguito, lui quell’arma l’aveva imbracciata solo per compiacere i fotografi. Infine, sul finire di quella giornata la ragazza che compare sul

Figura 4 La bandiera americana sul monte Sunbachi. Questa foto, una delle più famose della seconda guerra mondiale, finì su tutti i giornali USA e fu usata, dal governo piegato dallo sforzo bellico, per una colossale campagna di propaganda. [© Corbis]

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lato destro della foto uccise casualmente sua sorella (al centro) perché, non pratica di armi, lasciò partire un colpo dal mitra per errore. IL DISCORSO DI CHECKERS È sempre più raro, nel nostro mondo, che tra elettori e candidati ci siano dei contatti, degli scambi verbali e una conoscenza diretta. Solo a livello locale questo è possibile, raramente a livello nazionale e per pochi individui. La conoscenza dei personaggi pubblici è quasi sempre indiretta e le storie che vengono raccontate su di loro hanno la funzione di colmare la distanza che separa gli uni dagli altri. Il problema per il ricevente è sapere se i racconti sono attendibili oppure no, chi li

Figura 5 Tre ragazze con il mitra. Milano, 1945. La foto scattata dopo la Liberazione ritrae tre giovani donne con i mitra puntati. Nella foto originale, in primo piano, c’era anche un uomo. Tutti e quattro si misero in posa per il fotografo. [© Publifoto/Olycom]

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diffonde e con quali obiettivi. Il problema per il mittente è quello di riuscire ad essere convincente e credibile. Gli Stati Uniti, com’è noto, hanno svolto in quest’ambito il ruolo di apripista grazie anche al know-how accumulato dall’industria cinematografica. E non è un caso che il primo presidente ad avvalersi di questa modalità di comunicazione in forma sistematica e consapevole sia stato proprio Ronald Reagan, ex attore di Hollywood che spesso nei suoi discorsi alla nazione evocava episodi tratti da vecchi film di guerra come se appartenessero realmente alla storia degli Stati Uniti. Altre volte, per colpire l’uditorio, Reagan dava vita ad una vera e propria recita inserendovi dei personaggi che, con la forza della loro presenza fisica, avevano il compito di validare una certa tesi. Nel 1985, per esempio, pronunciò il discorso sullo stato dell’Unione davanti alle due camere del congresso. «Due secoli di storia americana dovrebbero averci insegnato che niente è impossibile. Dieci anni fa, una ragazza ha lasciato il Vietnam con la sua famiglia. Sono venuti negli Stati Uniti senza bagagli e senza sapere una parola d’inglese. La ragazza ha lavorato sodo e alla fine delle secondarie era tra le prime della sua classe. Nel maggio di quest’anno, esattamente dieci anni dopo aver lasciato il Vietnam, prenderà il diploma dell’Accademia militare di West Point. Mi sono detto che vi avrebbe fatto piacere incontrare questa eroina americana, il cui nome è Jean Nguyen». E l’eroina americana si alzò a ricevere gli applausi dagli organi istituzionali (in Salmon, 2007). Una volta aperta la strada, altri la imboccarono con la certezza di non poterne più fare a meno. Bill Clinton, appena eletto, assunse lo stesso direttore della comunicazione di Reagan, il quale gli insegnò a raccontare le storie che piacciono alla gente e ad inserire episodi della sua infanzia nei discorsi ufficiali, anche se ovviamente non avevano alcun nesso con i problemi del paese o le questioni da affrontare, ma che avevano l’effetto di renderlo popolare e simpatico, di farlo sentire vicino alla gente. Come abbiamo visto George Bush imparò la lezione e ne fece un uso spregiudicato. James Car-

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ville, uno degli spin doctor che contribuirono alla vittoria di Bill Clinton nel 1992, fece questa inquietante dichiarazione: «Io penso che potremmo eleggere non importa quale attore di Hollywood a condizione che egli abbia una storia da raccontare; una storia che dica alla gente com’è il paese e come egli lo vede. Un racconto è la chiave di tutto. Se non comunicate con delle storie, voi non comunicate. I fatti parlano ma le storie fanno vendere» (Carville e Begala, 2002). Prima che agli elettori bisogna però rivolgersi ai media i quali formano l’opinione pubblica. Già Richard Nixon nelle sue memorie (1981) aveva scritto che i presidenti postmoderni «devono essere dei maestri nell’arte di manipolare i media, non solo per vincere le elezioni, ma per portare a buon fine la loro politica e sostenere le cause in cui credono. Devono al tempo stesso evitare a tutti i costi di essere accusati di manipolare i media». Di lui è rimasto famoso il cosiddetto “discorso di Checkers”, pronunciato nel 1952 quando era candidato alla vicepresidenza degli USA. Poiché era stato accusato di essersi indebitamente appropriato di denaro per la sua campagna elettorale, Nixon affittò mezz’ora di televisione per spiegarsi alla nazione. Le sue parole, in realtà, non chiarirono le accuse che gli erano state rivolte, ma l’aspirante vicepresidente ebbe modo di spiegare che egli era un buon padre, un buon marito, un buon cittadino, un buon americano. E mentre parlava, la telecamera si soffermava sul suo fedele cane Checkers, accucciato davanti al camino... La trasmissione si concluse con un appello ai telespettatori: Nixon li invitò a scrivere al comitato nazionale del partito repubblicano per stabilire se doveva restare candidato alla vicepresidenza o dimettersi. L’effetto fu immediato e massiccio: al comitato del partito repubblicano giunse una valanga di lettere, telegrammi e telefonate in suo favore. Nixon fu premiato non perché avesse dimostrato di essere onesto, ma perché la sua immagine televisiva, la storia del buon padre di famiglia che aveva raccontato accanto al caminetto e il muso “onesto” di Checkers avevano fatto breccia nel cuore degli spettatori.

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CAPITOLO IV

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COSTRUIRE CAMPAGNE ELETTORALI Le tecniche americane di personalizzazione e narrazione hanno attraversato l’oceano e ora vengono applicate anche in Europa. Secondo il linguista Christian Salmon, autore del volume Storytelling, durante il confronto elettorale tra Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal gli uomini politici, i media, i giornalisti e gli esperti in comunicazione hanno bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi e si sono messi a raccontare delle storie. Per la prima volta, la destra non rivendicava più l’indipendenza nazionale né la sinistra il progresso sociale. «Il dibattito televisivo tra i due candidati non ha visto il confronto tra due progetti di società ma quello di due posture, di due intrighi» spiega Salmon. È stato il trionfo del gossip, dei pettegolezzi sui menage familiari, le rotture e infedeltà coniugali. «La moda attuale» constata Christian Gambotti (2007) riflettendo sulla metamorfosi compiuta da Sarkozy nel paesaggio politico francese «tende a ridurre la politica a tutto ciò che è esteriore alla politica stessa». E Salmon di rimando: «Mai, senza dubbio, è stata così pregnante la tendenza a considerare la vita politica come una narrazione fallace avente come scopo quello di sostituire all’assemblea deliberativa dei cittadini una audience prigioniera, che mimando la socialità delle serie televisive, degli autori e degli attori, costruisce una comunità virtuale e fittizia. Questa deriva è così sorprendentemente fluida, diffusa nello spirito del tempo, mescolata alla nostra atmosfera più intima come al clima generale dell’epoca, da passare inosservata. Il che è anche la chiave del suo irresistibile successo». L’antesignano però di Sarkozy è stato Berlusconi. È lui che per primo, in Europa, ha costruito la sua popolarità sulla televisione e le strategie del marketing. Come ricorda Pierre Musso nel suo libro Il Sarkoberlusconismo, le campagne elettorali di Forza Italia e del suo leader sono organizzate da una équipe di specialisti del marketing dell’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi e della società di produzione che appartiene al gruppo

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Fininvest. Come i pubblicitari, anche il cavaliere usa sempre parole semplici, frasi brevi, slogan facili, immagini e narrazioni elementari ma di buon effetto scenico: ripete l’espressione “scende in campo”, assimila gli elettori ai tifosi degli stadi, si appropria del colore della nazionale, battezza il suo movimento Forza Italia e Partito delle libertà. La disponibilità continuativa di svariate reti televisive gli ha consentito di realizzare un populismo mediatico che aggira il Parlamento. E sono innumerevoli gli spot di propaganda ad uso e consumo della sua audience, molti dei quali reperibili su internet. Una delle più riuscite fu, nel maggio 2001, il “contratto con gli italiani” Porta a Porta, dove il cavaliere, seduto a una scrivania, sorridente e munito di penna stilografica, lesse con tono bonario e solenne il suo impegno con gli italiani in cinque punti, apponendovi poi la firma, sotto l’occhio assecondante di Vespa. L’impegno non fu rispettato, ma negli spazi mediatici ciò non ha alcuna importanza: gli eventi ncalzano e non c’è tempo per le riflessioni a posteriori. Un altro sketch che vale la pena di rivedere su internet (di nuovo a Porta a Porta) fu quello del 15 settembre 2008 realizzato grazie alla collaborazione della campionessa di fioretto Valentina Vezzali, da poco rientrata in Italia dalla competizione olimpica in Cina. In quella occasione il cavaliere fu celebrato come leader “carismatico” e come maschio desiderato dalle donne. La giovane sportiva, infatti, fasciata in una tuta d’argento, con un fioretto in mano e due medaglie d’oro sul petto recitò un lungo peana al cavaliere che terminò con la frase ad effetto «io da lei mi farei veramente toccare», basata sul doppio significato della parola toccare che nel linguaggio della scherma significa segnare un punto. Valentina si avvicinò al cavaliere, lo toccò, lo guardò ammirata negli occhi, lo abbracciò e lo baciò. Un feuilleton in piena regola, uno schema narrativo elementare pre-femminista, ma evidentemente considerato efficace dagli spin doctor del capo. Questo spot, così come altri interventi di Berlusconi nei confronti delle donne, ha riportato sulla scena pubblica una

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CAPITOLO IV

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modalità machista di relazionarsi al femminile che, sebbene arcaica, trova però una rispondenza in quei connazionali che non hanno mai veramente accettato un rapporto alla pari con le donne. «L’“utilizzatore finale”» scriveva El Mundo (23/6/09) riferendosi a un’espressione infelice di un avvocato di Berlusconi «ha imposto il suo modello di televisione alla società italiana, creando un talk show permanente, senza interruzioni. Berlusconi non è una persona, è un attore che interpreta se stesso 24 ore su 24 davanti alle telecamere». Il ricorso alla recita nella società dello spettacolo è considerato una prassi abituale da coloro che curano l’immagine degli attori o di altri personaggi in vista. Per restare in argomento, quando scoppiò il caso Noemi, improvvisamente a fianco della ragazza comparve un “fidanzato”, certo Domenico Cozzolino, apparso in precedenza in un programma del gruppo Mediaset. I due si baciavano in pubblico, passeggiavano abbracciati, si lasciavano benevolmente intervistare dalle riviste del gruppo Mondadori. «È stato tutto organizzato» ebbe modo di spiegare in seguito il Cozzolino (Corriere della Sera, 1/7/09): il fidanzamento era una fiction, decisa in tutta fretta per motivi di opportunità e infatti aveva una data di inizio e una precisa data di scadenza, il 7 giugno, il giorno successivo alle elezioni europee. Ma a che scopo questa messa in scena? Cozzolino fu reclutato come fidanzato-schermo per convincere una certa fascia di elettori gossip-dipendenti che, poiché c’era un fidanzato, non poteva esistere alcuna storia di sesso tra Noemi e Berlusconi. Quando Cozzolino rivelò il trucco le elezioni erano ormai avvenute. IL NEMICO NECESSARIO Una figura centrale del teatro, delle favole così come dei poemi epici e delle saghe antiche e moderne è l’avversario. L’avversario/nemico è indispensabile all’eroe, che senza di lui

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non potrebbe esistere o comunque perderebbe molto della sua attrattiva. Senza nemico non c’è contrapposizione. Non c’è dialettica. È grazie alla presenza di un nemico che chi scrive una storia può costruire intrecci inquietanti che tengono vivo l’interesse dello spettatore/lettore. La presenza di un nemico crea un campo di tensione e questo consente all’eroe di esprimersi al meglio, di differenziarsi, di proporsi al suo popolo come il salvatore, di diventare il difensore dei deboli, di organizzare una strategia difensivo/offensiva per nobili fini, di chiamare a raccolta le forze migliori, di incarnare il Bene contro il Male. Ecco perché in ogni storia che si rispetti c’è un nemico. Se il nemico non c’è bisogna trovarlo. Se il nemico è debole bisogna rafforzarlo. Per Sarkozy, spiega Pierre Musso (2008) il nemico è, ancora e sempre, il Maggio ’68, sinonimo di lassismo, di perdita di autorità e di punti di riferimento. Per Berlusconi il nemico sono i comunisti, continuamente evocati come causa di tutti i mali dell’Italia. L’individuazione di un nemico, spiega Musso, consente «di designare uno spettro da combattere». È lui l’origine del “male” e del declino, della crisi politico-morale. Ed è su di lui che va orientato il risentimento e l’insoddisfazione dei cittadini. Il trucco è vecchio come il mondo ed è stato utilizzato innumerevoli volte dal potere nel corso della storia: governanti in difficoltà hanno cercato in vari modi e in diverse circostanze di incanalare lo scontento e la rabbia della gente verso obiettivi esterni da combattere (invasori potenziali, infedeli, ebrei…). Ma la presenza di un nemico ha anche altri risvolti. Raccontare delle storie popolate di eroi e di antieroi serve a coltivare l’identificazione con l’elettore/telespettatore/cittadino ordinario. L’identificazione avviene in due tempi. Dapprima l’eroe designa un avversario/nemico, successivamente invita un interlocutore ordinario rappresentativo del “buon senso popolare” a sostenere il suo punto di vista. Questa procedura è la tecnica della “terza parte” già illustrata a p. 105: risale a Edward Bernays e consiste nel fare illustrare ad una

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CAPITOLO IV

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persona “comune”, incontrata “casualmente” dal giornalista televisivo che va alla ricerca di pareri “spassionati”, i pregi dell’eroe e delle sue iniziative. Scheda 10 DIVI E POLITICA Per la forte visibilità e il prestigio di cui godono presso il grande pubblico, cantanti e attori hanno spesso un ruolo attivo nelle campagne elettorali, sia nei paesi occidentali che in quelli orientali. Nelle complicate e lunghissime elezioni indiane, per esempio, conclusesi nel maggio del 2009 (714 milioni di elettori, 800 mila seggi), gli attori hanno avuto un posto assai rilevante. Quelli di Bollywood, l’ormai celebre centro di produzione di Mumbai per i film in lingua hindi, e soprattutto quelli di Tollywood, polo ancor più produttivo ma meno noto all’estero, sono scesi in campo, alcuni candidandosi, altri facendo propaganda per i partiti che li avevano ingaggiati. Ogni celebrità viene infatti vista, soprattutto nel Sud dell’India, come un possibile seggio in più. C’è stato anche chi, come Chiranjeevi, un attore molto noto in India soprannominato l’“Immortale”, ha fondato un suo partito attraendo masse osannanti ed enormi («un milione al primo comizio», secondo la stampa indiana). Forte dei suoi 149 film che propongono tutti la stessa trama (poliziotto o signorotto corrotto che sfrutta i poveri e opprime belle fanciulle), l’“Immortale” si è presentato ai fan adoranti nella stessa veste del personaggio che è solito interpretare: l’eroe che salva sfruttati e oppressi e ristabilisce la giustizia. «Il governo non ama la gente… I poveri sono sempre presenti nella mia testa e nel mio cuore», è stato il suo slogan elettorale ai comizi, accompagnati da balletti ispirati ai suoi film, vestito con abiti da scena, occhialoni neri da vendicatore e gli immancabili baffi. «La commistione tra spettacolo e politica è antica da noi, nel Sud metà dei politici hanno avuto un passato del cinema, come una delle donne più potenti d’India, l’ex attrice e ora capo dell’opposizione in Tamil Nadu, Jayalalitha», ha scritto l’editorialista di Delhi Subhash Agrawal, ammettendo comunque che il fenomeno sta ora

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crescendo. «Ma poi perché stupirsi tanto? Pensate a Reagan, o a Schwarzenegger». Anche in Italia la visibilità premia se si considera l’elevato numero di conduttori televisivi e speaker di TG che hanno ricoperto cariche politiche di vario genere.

IL REGNO DELLA MANIPOLAZIONE Rolf Jensen, considerato da molti un guru della comunicazione, prevede che «domani ciascuno sarà valutato sulla sua abilità a produrre sogni che verranno alimentati e sostenuti dal consumo del pubblico». Sembra una boutade volta a dar credito ai cosiddetti “strategic dreamers” e in ultima analisi allo stesso Jensen, non si può però ignorare che esiste un pubblico, in gran parte giovane, che si appassiona ai reality e che da essi trae ispirazione per la propria vita, i propri sogni e progetti. In queste produzioni per il vasto pubblico la manipolazione raggiunge livelli altissimi, sia perché sono completamente costruite, sia perché vengono proposte agli spettatori come programmi verità, cioè rappresentazioni autentiche della quotidianità. Il Grande Fratello ne è un esempio emblematico. La manipolazione in questo reality (come in altri) inizia con la formazione del casting e prosegue, puntata dopo puntata, per tutta la durata della storia. La teatralizzazione è continua. Un buon feuilleton prevede una galleria di personaggi stereotipati ed emblematici, tali cioè da risultare immediatamente identificabili e riconoscibili. Ogni partecipante deve perciò incarnare un “tipo”, a tutto tondo, con invarianti fisiche e comportamentali che lo rendono prevedibile. Nulla viene lasciato al caso e nelle selezioni che precedono la messa in onda gli aspiranti partecipanti vengono testati, provati e poi scelti in funzione delle attese della produzione e dello spettacolo che essa intende creare e proporre, anche in rapporto alle precedenti edizioni.

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CAPITOLO IV

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Per attrarre gli spettatori bisogna garantire sempre qualche elemento di novità, qualche trasgressione in più rispetto al passato perché le edizioni precedenti creano nel pubblico delle attese che devono essere soddisfatte se si vuole avere un’audience che soddisfi gli sponsor. Per evitare sorprese, i giovani aspiranti rispondono a questionari, si intrattengono con gli psicologi, scoprono di fronte alla telecamera il loro tasso di telegenicità, fanno degli esercizi di strip-tease. Nelle prove di selezione bisogna mostrarsi disinvolti, resistenti, docili e ambiziosi. Imbarazzi e timidezze dovranno essere recitati nel corso della trasmissione, ma non devono essere reali. I prescelti devono mostrare di avere determinate caratteristiche e offrire delle garanzie. Devono entrare nel ruolo loro assegnato, applicare le direttive, essere complici della produzione e degli autori, condividere le loro astuzie nei confronti del pubblico. Una volta definito il casting, la produzione promuove degli incontri di preparazione in cui dà indicazioni concrete sui comportamenti da tenere: «se piangi, cerca di farlo bene davanti alla telecamera, in primo piano», «quando sei sotto la doccia, massaggiati le parti intime», «quando ti spogli per andare a letto, lascia intravedere qualcosa», «non avere paura di dire le parolacce», «ricordati che quello è il tuo rivale». La produzione interagisce regolarmente nel corso della storia: propone delle “sfide”, suggerisce atteggiamenti e argomenti di conversazione, ricorda ai partecipanti le regole del gioco. Le condizioni in cui gli abitanti della casa sono collocati è pre-scenarizzata così come lo è l’esibizione del conduttore e degli ospiti in studio. Si sa che ci saranno delle crisi, delle lacrime, dei litigi, delle inimicizie, dei giochi, dei tradimenti e del sesso. La tanto sbandierata trasparenza è una favola. Come è possibile, d’altronde, non recitare quando si hanno puntati addosso tre o quattro telecamere? In un reality come l’Isola dei famosi il personale tecnico presente sull’isola è composto da svariate decine di persone, compresi i costumisti e i parrucchieri. Costoro rispettano un orario di lavoro,

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hanno le loro pause sindacali e durante le riprese si muovono tra i “naufraghi” con telecamere e microfoni. La costruzione a tavolino dei partecipanti e il loro modellamento continua al montaggio: altro momento clou della manipolazione. Chi monta le riprese può tagliare dei passaggi, escludere alcune inquadrature, forzare il tratto, sopprimere gli elementi contradditori. Basta eliminare una scena o tagliare una frase per rimodellare un personaggio. D’altro canto sono gli autori e la produzione a decidere chi deve uscire e chi deve restare, non certo gli spettatori a cui si fa credere che i loro voti siano decisivi. Il pubblico viene continuamente ingannato a partire dal fatto che la vita nella casa è artificiale e non rispecchia per nulla il mondo reale: gli ospiti vivono nel confort, senza lavorare, con l’unico obiettivo di sedurre o eliminarsi. È un mondo virtuale, con amici virtuali, lacrime e baci virtuali. Il “confessionale”, poi, contrabbandato come il luogo della sincerità, è invece lo spazio della menzogna, dove la recita è programmata in anticipo, nei dettagli. L’ironia suprema è che gli spettatori guardano Il Grande Fratello in attesa di scivoloni e trasgressioni, quando anche queste sono pianificate dalla produzione. Elementi di realtà però ci sono anche nei reality. Uno è la diaria che i concorrenti ricevono per la partecipazione. Un altro è la grossa vincita in denaro se risultano vincitori. La notorietà è il primo e immediato risultato. Le foto dei partecipanti compaiono sui settimanali. Essi sono invitati nei programmi televisivi di gossip. La gente li riconosce in strada e al supermercato. Vengono ingaggiati per presenziare in discoteca o a feste pubbliche e private. Qualche fan chiede l’autografo. Non si può negare che i media riservano loro una notorietà improvvisa e spettacolare, che però nella maggior parte dei casi cala dopo qualche settimana. Qualcuno rientra nei ranghi. Qualcun altro ci rientra con difficoltà, perché l’esser stato sotto i riflettori ha cambiato le sue aspettative e i suoi progetti e ne ha destabilizzato l’equilibrio psichico. Negli Stati Uniti si parla di sindrome del Truman show, da quando si è sa-

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CAPITOLO IV

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puto che negli ultimi tempi undici persone coinvolte nei reality si sono suicidate dopo essere state eliminate. Usciti dal reality molti si rivolgono ad agenti pubblicitari e PR per continuare a restare sui media. Altri invece ripiegano sullo psicoanalista. Altri ancora sfruttano il momento di notorietà per entrare in politica. Ma chi paga il tributo maggiore alla manipolazione sono gli spettatori, in gran parte adolescenti, a cui viene proposto un modello di successo basato sulla visibilità pura e semplice, su comportamenti inutili, sulla totale assenza di impegno, di intelligenza e di creatività, sul pettegolezzo e la volgarità. Puntata dopo puntata lo spettatore apprende che per vincere bisogna tradire, sparlare dei propri compagni, litigare, esibirsi in scene di nudo e di sesso. «Il Grande fratello è lo specchio del disastro di una società tutta presa dalla corsa verso l’insignificanza e in estasi davanti alla propria banalità» è il commento senza appello di Jean Baudrillard (2001). Eccessivo? Un tempo, forse. Ora non più. Quando la banalità e l’insignificanza vengono elevate a modello di vita e di successo e i telespettatori si riconoscono e prendono a modello gli esemplari umani che le rappresentano, allora viene meno la spinta a migliorare se stessi e a uscire dalla propria condizione. Si resta fermi sulle proprie posizioni senza alcun desiderio di evolvere. Che senso ha, pensa il giovane spettatore, impegnarsi in compiti complessi, farsi una cultura ampia e articolata, quando coloro che partecipano a queste trasmissioni ottengono denaro e celebrità senza possedere alcun talento, formazione o cultura? L’unica cosa che veramente conta è riuscire ad entrare nella fiction, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo. Questa è, alla fine, la forma di manipolazione più perniciosa messa in atto dal Grande Fratello e da altri programmi animati dallo stesso tipo di ideologia. Politica emotiva, pubblicità seduttiva, fiction ingannevole, informazioni addomesticate o profondamente modificate stanno disegnando, tutte insieme, i contorni di una società ma-

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IL PERSONAGGIO E IL SUO DOPPIO

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nipolatrice che alla fine crea una sorta di “gabbia dorata” che valorizza coloro che riescono a dare agli altri la sensazione di essere liberi nelle proprie scelte e nei loro atti, quando invece costoro fanno esattamente ciò che viene loro imposto. «Una gabbia dorata dove ciascuno è invitato a dare il suo “libero consenso” a ciò che ci si aspetta da lui; una gabbia dorata dove coloro che non hanno successo sono considerati responsabili dei loro fallimenti e colpevolizzati» spiega la filosofa Michela Marzano (2008) in un saggio sulla manipolazione. L’uomo postmoderno, che giustamente pensa di essere uscito dalla gabbia d’acciaio (descritta da Max Weber nel saggio sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo), di essersi cioè lasciato alle spalle le costrizioni di una società paternalistica, moralista, gerarchica e improntata a una rigida disciplina, non si accorge però che costrizioni, regole, gerarchie e controllo continuano a essere presenti; in forme completamente diverse rispetto alla società precedente, meno visibili ma non meno efficaci.

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Capitolo V

Dall’eterodirezione all’autodirezione

L’argomentazione è una forma di ragionamento senza la quale la vita dello spirito e la formazione di una comunità umana si rivelano impossibili. Chaïm Perelman (La nuova retorica, 1958)

La mondializzazione e l’universalizzazione attuale degli schermi è all’origine di un fenomeno inedito quanto inquietante: la sincronizzazione delle emozioni su una scala di milioni di persone. Secondo il filosofo Paul Virilio (2009) saremmo passati dalla standardizzazione delle opinioni, che corrisponde alla comunanza di interessi delle classi sociali, alla sincronizzazione generale dei sentimenti; ossia «ad una comunità di emozioni che sfocia su un comunismo mondiale delle passioni». Questa sincronizzazione favorisce «la fabbricazione di una comunità mondiale che non è più un’addizione di una comunità di interessi – quelle dei poveri, dei ricchi, dei borghesi ecc. – ma un vero fenomeno allucinatorio». I mass media globalizzati producono «una serie di tsunami di emozioni, di compassione, di panico, di violenze» che attraversano il globo in tempo reale. E ancora: «La rintracciabilità [dei singoli individui attraverso gli schermi] permette di controllare le masse testa dopo testa, punto dopo punto, pixel dopo pixel. Mentre le società antiche gestivano dei grandi gruppi, esse non arrivavano a controllare testa per testa, c’erano ancora dei fuggiaschi, dei rivoltosi, degli underground, dei dissidenti. Oggi le tecnologie della sincronizzazione favoriscono un controllo istantaneo e permanente. Noi siamo al di là di Orwell».

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DALL’ETERODIREZIONE ALL’AUTODIREZIONE

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IL DOPPIO VOLTO DELLE EMOZIONI I manipolatori di professione, lo abbiamo visto nei capitoli precedenti, cercano di agire sulle emozioni per colonizzare le menti e “sincronizzarle”. Per raggiungere questo obiettivo si avvalgono di molti mezzi tra cui anche quelle conoscenze scientifiche che hanno modificato l’ottica con cui si guarda oggi alla vita affettiva. Com’è noto a tutti coloro che hanno studiato filosofia, per molto tempo la tradizione del pensiero filosofico ispirato a Cartesio ha opposto la ragione all’emozione. Negli ultimi cinquant’anni però si è fatta strada la convinzione che le nostre emozioni sono al centro del funzionamento del nostro sistema cognitivo, il quale le decodifica grazie ai segnali che provengono dal nostro corpo. Decisivi sono stati gli studi del neurofisiologo Antonio Damasio, illustrati in un suo libro di successo dal titolo, appunto, L’errore di Cartesio (Adelphi, Milano, 1995). Nel tracciare la mappa cerebrale delle emozioni Damasio è partito dall’osservazione che i pazienti frontali, quelli a cui è stata danneggiata una parte della corteccia cerebrale, sebbene mostrino di avere delle facoltà intellettuali intatte (calcoli, comprensione di molti problemi, lettura, linguaggio) sono però incapaci di agire in modo ragionevole: per esempio, non hanno paura di rischiare tutto il loro denaro su un solo colpo in borsa, non provano alcuna emozione se perdono somme consistenti di denaro. Disconnessi dalle proprie emozioni, a seguito del danno che hanno subito al cervello, le decisioni di questi pazienti diventano inadeguate: non sanno più a che cosa dare importanza nella gestione della loro vita. Ma se le emozioni e le capacità strategiche sono perturbate contemporaneamente, significa che tra di esse c’è un legame. Nel prendere delle decisioni la nostra corteccia si appoggia su delle informazioni emozionali che Damasio ha chiamato “marcatori somatici”. Somatici perché riguardano i vissuti corporei, sia a livello viscerale che a quello non viscerale. Il termine marcatore deriva invece dall’idea che il particolare stato corporeo richiamato dal-

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CAPITOLO V

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l’emozione costituisce una sorta di contrassegno o etichetta. I marcatori somatici sono dunque una sorta di strumento che facilita il compito di selezionare opzioni vantaggiose sulla base degli esiti di passate esperienze che hanno lasciato delle tracce, nelle quali riconosciamo una qualche analogia con la situazione presente. I marcatori somatici hanno un ruolo importante nella produzione, nell’esecuzione, nell’ascolto e nell’apprezzamento di un brano musicale. La musica unifica razionalità ed emozioni passando attraverso il corpo. Gli studi di neurofisiologia hanno indicato che corpo e mente sono strettamente collegati, che le emozioni hanno un ruolo importante nel modulare l’apprendimento e la memorizzazione: esse influiscono sulle interpretazioni che diamo della realtà e sulle decisioni che prendiamo. L’emozione fissa l’apprendimento e favorisce la memorizzazione. Più l’emozione è intensa più l’esperienza viene ritenuta in memoria. Si è compreso che l’intelligenza emozionale è alla base degli scambi e della vita di relazione, che facilita la socializzazione e la comprensione degli altri. Abbiamo una vita sessuale perché viviamo delle forti emozioni. L’apprezzamento della musica parte dalle sensazioni fisiche e dalle emozioni che suscita in noi. Entriamo in sintonia con gli altri attraverso le emozioni. Sappiamo leggere le emozioni degli altri sul loro volto, nei loro atteggiamenti, nelle loro più diverse espressioni. Infine, le emozioni sono contagiose e nel diffondersi dagli uni agli altri uniscono le persone, creano partecipazione e condivisione. Fin qui il volto positivo delle emozioni, che però sono complesse e bifronti. Se un eccesso di razionalità non consente di porsi in contatto col nostro genuino sentire, un eccesso di emozioni può portarci ad agire in maniera inconsulta o precipitosa. Se un eccessivo autocontrollo sconfina nell’inibizione, rende insensibili oppure violenti è però grazie all’autocontrollo che riusciamo a mantenerci lucidi in situazioni difficili. Lasciarsi contagiare dalle emozioni è positivo in alcuni contesti, ma controproducente in altri. Poiché l’intelligenza emozionale è diventata di moda c’è il rischio di sopravvalutare il ruolo delle

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emozioni a scapito della razionalità e quindi di non dare il giusto peso alla loro strumentalizzazione, quando invece si tratta di un fenomeno in espansione. A seconda del modo in cui viene presentata, infatti, una notizia può suscitare riflessione oppure emozioni più o meno intense e canalizzate. L’iperemozione – nota Ignatio Ramonet ne La tirannia della comunicazione – è sempre esistita nei media, ma restava appannaggio di una certa stampa demagogica o popolare che giocava facilmente con il sensazionale, la spettacolarità e lo shock emotivo. Al contrario, i media attendibili puntavano sul rigore, la freddezza concettuale e bandivano il più possibile il pathos attenendosi strettamente ai fatti, ai dati, alle azioni. Tutto questo però si è modificato sotto l’influenza di quel media dominante che è la televisione che, per coinvolgere il più possibile i suoi spettatori, cerca di inserire le emozioni nei suoi programmi, compresi i TG. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, viene così promossa la cosiddetta politica emotiva, fatta di slogan, di immagini “pregnanti”, di narrazioni avvincenti ma svianti rispetto alle scelte e alle decisioni della politica reale. E gli spettatori, abituati a questo stile comunicativo, se lo aspettano rischiando, alla fine, di non vederne più i limiti. Ovviamente, non tutte le finzioni sono infide. C’è una finzione veritiera, già è stato detto, nell’arte come nel gioco e nella vita di tutti i giorni, che esprime in forme efficaci la realtà dei sentimenti e delle situazioni. Essa non ha nulla da spartire con la manipolazione. Sensibilità, formazione, esperienza e cultura sono gli strumenti che ci consentono di non confondere le due forme di finzione. I PREGI DELLA NARRAZIONE Negli anni Sessanta il filosofo Roland Barthes e un piccolo gruppo di intellettuali si fecero promotori di una nuova disciplina che il bulgaro Tzvetan Todorov battezzò “narratologia”. Nella narrazione quel gruppo di intellettuali vedeva

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CAPITOLO V

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una delle grandi categorie della conoscenza che consente di comprendere e organizzare il mondo e di dare senso alla propria esistenza. Raccontando si legano accadimenti ed esperienze, si individuano connessioni, cause e conseguenze, ci si interroga sulle intenzioni proprie e altrui, si rievocano fatti e persone, si cercano conferme e significati. Anche per lo psicologo americano Jerome Bruner la narrazione è un potente strumento del pensiero e dell’azione: è portatore di senso, consente di organizzare l’esperienza e i ricordi. All’inizio, spiega Bruner (1993), la conoscenza del mondo avviene attraverso l’azione, poi l’uomo sviluppa una rappresentazione di esso attraverso le immagini, infine costruisce con il pieno possesso del linguaggio una rappresentazione del mondo sottratta all’azione. La narrazione è una modalità di pensiero e di linguaggio profondamente radicata nella natura umana. Dai miti greci agli stregoni africani, dai racconti biblici ai miti mesopotamici, dal poemi guerreschi alle favole, dal romanzo ottocentesco fino al cinema e ai videogiochi, la storia dell’umanità è stata tramandata attraverso racconti che hanno il potere di avvincere e di imprimersi nella memoria. Anche Gesù Cristo affidò i propri insegnamenti a racconti capaci di colpire la mente e il cuore degli ascoltatori. In psicologia, le tecniche di terapia narrativa ipotizzano la cura come un racconto della storia del malato. L’antropologia ha messo in evidenza il ruolo dei racconti orali nella trasmissione culturale. La sociologia ricorre a racconti di vita per trattare questioni di identità sociale o professionale. Anche le scienze gestionali si servono dei racconti degli impiegati per analizzare le dimensioni simboliche dell’organizzazione aziendale. L’approccio narrativo è diventato egemonico nelle scienze sociali a partire dagli anni Novanta, spiegano gli esperti, e la dimensione narrativa è entrata anche nel mondo dell’economia. La narrazione non ha tanto a che fare con lo scambio di informazioni quanto piuttosto con la costruzione del significato (sense-making). Quanto più una situazione è problematica e ingarbugliata tanto più abbiamo bi-

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sogno di darle un senso, anche provvisorio, perché solo in questo modo possiamo poi decidere cosa fare. La narrazione di sé consente anche di posizionarsi nel contesto sociale e, raccontandosi, di farsi conoscere, riconoscere, aggregarci o differenziarci. Se, appena possiamo, confrontiamo le nostre spiegazioni con quelle degli altri, la narrazione viene condivisa e anche, come spesso accade, contestata dagli altri, negoziata con loro. In questo senso diventa un patrimonio sociale e culturale (Mantovani, 2009) Narrandosi, così come leggendo e ascoltando storie di persone reali o di personaggi della letteratura e della fiction si attivano tutta una serie di funzioni mentali positive che servono a conoscere la realtà, cogliere problemi e trovare soluzioni, riflettere sui valori e sulle decisioni che sono state prese o che si possono prendere. La narrazione offre una gamma molto ricca di situazioni, modelli e stati d’animo, sensibilizza ai problemi degli altri e della comunità, migliora la comprensione, la cooperazione e la creatività. Indica come risolvere i problemi ed è una porta d’accesso alla mente e al mondo degli altri. «È anche un gioco» spiega Brian Boyd (2009) in un saggio sulle origini delle storie «che consente di fare delle ipotesi, di andare oltre il qui-ed-ora, di esplorare situazioni nuove e inaspettate». Nell’infanzia e nell’adolescenza è lo strumento ideale per riflettere su di sé, su ciò che si è e su ciò che si desidera diventare: l’Io ideale si confronta con l’Io reale dando così origine a una dialettica per cui il desiderio di possedere una capacità che si ritiene di non avere ancora dà avvio a tentativi di acquisirla, che possono avere successo (Petter, 2009). Scheda 11 COPIONI NARRATIVI La presa che la modalità narrativa ha su di noi non dipende soltanto dai contenuti che veicola ma anche dalla struttura attraverso cui i contenuti vengono veicolati. Alcune scansioni o regole espressive

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trovano maggiori risposte di altre nel destinatario in quanto consone al funzionamento della nostra mente. Ci sono degli schemi ricorrenti che hanno una presa immediata sull’ascoltatore. Per esempio, nelle fiabe, ci sono tre personaggi essenziali, la cui presenza è indispensabile per creare una trama: l’eroe, l’oppositore, l’aiutante (o mentore); mentre lo schema generale in base a cui si sviluppa il racconto nel tempo “deve” articolarsi in una sequenza di punti: 1. Equilibrio iniziale (inizio) 2. Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione) 3. Peripezie dell’eroe 4. Ristabilimento dell’equilibrio (conclusione) A pagina 60 abbiamo visto come lo schema semiologico dello spot pubblicitario induca un tipo di comprensione che va da sé, che non richiede cioè sforzi di comprensione, un fenomeno che riguarda anche altri tipi di narrazione di largo consumo come i fotoromanzi, i serial televisivi, le soap, i reality, i romanzi popolari, i feuilleton, i gialli seriali. Anche la narrativa di buon livello segue gli schemi narrativi universali, sia pure offrendo contenuti più complessi e imprevedibili.

Le grandi potenzialità formative della narrazione non ci devono far dimenticare che attraverso questa via, congeniale alla mente umana, possono passare forme diverse di manipolazione. Un format collaudato e coerente nel suo svolgimento può imbrigliare il pensiero del destinatario che, catturato dallo schema del racconto, non è indotto a considerare o immaginare altre possibili e diverse narrazioni. Ciò è tanto più vero quanto più giovane è lo spettatore. LA BABY TV «Guardare la televisione può frenare lo sviluppo dei bambini minori di tre anni, causare ritardi psicomotori, incoraggiare la passività, causare sovraeccitazione e turbe del sonno». Questa è la scritta in sovraimpressione nei programmi di Baby

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first e Baby tv che vanno in onda in Francia, dove il Ministero della salute e l’Autorità delle comunicazioni l’hanno resa obbligatoria dopo avere tentato invano di bloccarne la messa in onda, perché quei programmi vengono trasmessi dall’Inghilterra, non su territorio francese. E in Italia? Nel nostro paese l’insediamento di Baby tv è avvenuto in sordina sia perché l’operazione è stata fatta durante l’estate del 2009, cioè in periodo di vacanza, sia perché gli organismi ufficiali di controllo non hanno ritenuto di dover segnalare rischi e danni possibili. Non trovando ostacoli di sorta la Baby tv si è proposta ai genitori come “supporto alle famiglie”, “stimolo alla creatività e all’apprendimento”, “compagna del bebè nella crescita”. Il suo target sono i piccolissimi tra zero e tre anni. Il quadro però che emerge dalle ricerche scientifiche internazionali è tutt’altro che rassicurante. Vari studi hanno dimostrato che una esposizione regolare allo schermo televisivo nei primi tre anni di vita interferisce negativamente con lo sviluppo del linguaggio (Christakis, 2009) e dell’intelligenza senso-motoria, quella forma di intelligenza che caratterizza le prime fasi dello sviluppo, che presiede alla formazione dello schema corporeo e all’acquisizione di tutte quelle abilità, sociali e non, che si apprendono attraverso i giochi e le attività di movimento (Wachs, 1986; Troseth e DeLoache, 1998; Schmidt et al., 2008). Vi è anche il rischio che i lattanti si relazionino al televisore come ad un oggetto transazionale (o affettivo), con tutte le conseguenze che ciò può comportare nelle età successive: dalla passività alla riduzione dei giochi spontanei, dall’assunzione acritica dei messaggi alla incondizionata permeabilità alla propaganda e ai messaggi pubblicitari che nei programmi che si rivolgono ai piccolissimi sono spesso incorporati nel programma (pupazzi, giocattoli, gadget di vario tipo). Il flusso ininterrotto delle immagini sul piccolo schermo trascina l’attenzione del bambino, anche quando lui/lei non è ancora in grado distinguere le immagini e di comprenderne

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il valore rappresentativo. Lo sguardo, nelle prime fasi dello sviluppo, viene orientato in modo riflesso dai collicoli (nuclei nervosi sottocorticali) prima che subentrino meccanismi di puntamento volontari. Questo tipo di attenzione non è volontaria ma coatta, indotta cioè dal flusso dei colori, del movimento, dei suoni, dal cambio delle immagini e dei piani: non nasce, come nel gioco, da una esigenza interna al bambino che esplora l’ambiente, tocca, annusa, sceglie dove dirigersi e che cosa fare, ma è molto simile allo stato ipnotico: una condizione ideale per indurre gusti, abitudini, forme di attaccamento e di affezione a personaggi reali e della fiction, marche e logo. L’imitazione è un altro punto di rilievo. Gran parte degli apprendimenti infantili avvengono per imitazione; ma ai fini della socializzazione l’imitazione di ciò che avviene sullo schermo ha ben poco in comune con l’imitazione che si verifica nell’ambiente familiare. Quando il bambino imita ciò che vede fare dagli adulti o dai bambini più grandi accanto a lui, questi comportamenti riguardano delle situazioni reali e generalmente i genitori nominano le situazioni e le emozioni ad esse collegate dando loro un senso. C’è anche un contesto, nel mondo reale, che aiuta il piccolo a dare senso a ciò che lo circonda. Di fronte allo schermo, invece, il piccolino imita senza ricevere alcun commento, indicazione o feed-back. Tutto è decontestualizzato. Davanti allo schermo può interiorizzare delle sequenze comportamentali di cui gli sfugge una parte importante di senso, anche se poi quelle stesse sequenze possono incistarsi nella sua memoria lasciando delle tracce rilevanti in una fase dello sviluppo in cui la sua mente è ancora tutta da modellare. Il piccolo non ha ancora una conoscenza del mondo reale ma viene messo in contatto con mondi virtuali: il rischio è quello di una frammentarietà della conoscenza che, in una fase così precoce dell’esistenza, può generare confusione e insicurezza. Quando poi, ad una età così precoce, il mediatore privilegiato tra il bimbo e la realtà non è un essere umano ma uno

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schermo, esiste un forte rischio per il piccolo di sviluppare una vera e propria dipendenza dal televisore e dai suoi ritmi innaturali destinata a proseguire negli anni a venire. IL FORMAT DEI SONDAGGI Numerose forme di consenso, individuale o collettivo, sono soggette a influenze di tipo emotivo, a trappole cognitive che dipendono da come viene presentato un problema. Ad esempio, esiste un crescente scetticismo sul significato e sull’affidabilità dei sondaggi televisivi in diretta in quanto, in assenza di informazioni specialistiche, in condizioni di scarsa meditazione, sotto la pressione di un framing di tipo emotivo (cioè di una “cornice” ingannevole), le risposte del pubblico dipendono in larga misura dal modo in cui vengono poste le domande, cosicché i risultati di un sondaggio basato sul televoto possono essere completamente rovesciati dai risultati di un successivo sondaggio in cui la domanda è stata riformulata in modo adeguato. Immaginiamo ad esempio di fare un sondaggio, come è stato fatto negli USA ai tempi dell’amministrazione Nixon e della guerra del Vietnam, in cui si chiedeva all’opinione pubblica se il ritiro delle truppe dal Vietnam dovesse procedere a un ritmo più veloce o più lento. Di fronte ad un quesito siffatto la maggior parte delle persone opterà per l’opzione “ritmo più veloce” e i giornali titoleranno, come fecero nel giugno del 1969, che l’opinione pubblica chiedeva una rapida ritirata. Immaginiamo ora di porre una terza alternativa, sia perché riteniamo che ciò sia giusto, sia perché, sapendo come si comporta l’opinione pubblica, vogliamo dimostrare che in realtà la situazione è diversa rispetto a quelle che i sondaggi avevano indicato. Accanto alle due domande, “Le truppe devono ritirarsi più lentamente” oppure “più velocemente”, inseriamo una terza opzione, cioè “al ritmo con cui si stanno ritirando ora”. Adesso la maggioranza propenderà per questa opzione, soltanto il 29 % per l’opzione “più lentamente”, appena il 6% per

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l’opzione “più velocemente” e i giornali titoleranno, come fecero qualche settimana dopo il primo sondaggio, «Inversione di rotta nell’opinione pubblica, gli americani sono a favore della politica attuale». Gli psicologi sociali conoscono bene questo “trucco” e sanno che se si aggiunge una terza categoria a due opzioni in contrasto tra di loro, dal 10 al 40% degli interrogati opterà per questa opzione, soprattutto se viene percepita come più sicura, tradizionale e indolore. Uno spostamento dell’opinione pubblica si verifica anche nei casi in cui viene utilizzato un sondaggio basato su opzioni “aperte” oppure “chiuse”. Nel primo caso si pone una domanda del tipo di quella posta anni addietro da Howard Schuman e Jacqueline Scott in una ricerca sulle preferenze sociali: «Qual è il problema più importante di fronte a cui si trova oggi il nostro paese?». Le risposte a questo tipo di inchiesta dal formato “aperto” furono – e sarebbero tutt’ora – estremamente diversificate: soltanto il 2% delle persone interrogate indicò ai primi posti la qualità delle scuole pubbliche e l’inquinamento mentre il resto degli interrogati (cioè il 98%) indicò un vasto numero di categorie, definito col termine “altre”. Se invece il questionario veniva formulato in modo “chiuso”, con opzioni predeterminate tra cui la qualità delle scuole pubbliche, l’inquinamento, l’aborto legalizzato e la crisi energetica, le “altre risposte” si riducevano al 40%: Quali sono i problemi prioritari del paese? (da Schuman e Scott, 1987) Problemi

Percentuale delle persone che indicano la risposta Questionario aperto Questionario chiuso

Qualità della scuola pubblica Inquinamento Aborto legalizzato Problemi energetici Altre

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1 1 0 0 98

32 14 8 6 40


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Anche i sondaggi in cui si utilizzano diversi tipi di scale di valutazione basati su diverse definizioni delle quantità sono spesso inaffidabili e inconsistenti: immaginiamo ad esempio di chiedere a un gruppo di persone quanto tempo passano quotidianamente di fronte al televisore utilizzando due scale, entrambe divise in sei diversi incrementi di mezz’ora. La prima scala, però, inizia con “sino a mezz’ora” e termina con “più di due ore e mezza”, mentre la seconda scala inizia con “sino a due ore e mezza” per terminare con “più di quattro ore e mezza”. Il gruppo di persone che ha risposto alla prima scala ha indicato, nell’84% dei casi, di guardare la tv per due ore e mezza o meno di due ore e mezza mentre soltanto il 63% delle persone cui è stata sottoposta la seconda scala ha dato questa risposta e ha rivelato così di guardare di più la televisione... Un analogo rovesciamento di scelte si verifica quando si manipolano i termini “consentire” o “proibire”: nel primo studio effettuato su questo “trucco”, basato sulla presentazione delle domande, si chiese a un gruppo di persone di rispondere a queste due domande: «Ritieni che la legge dovrebbe consentire che vengano tenuti dei discorsi in pubblico contro la democrazia?». «Ritieni che la legge dovrebbe proibire che vengano tenuti dei discorsi in pubblico contro la democrazia?».

Benché queste due domande abbiano lo stesso significato, in una delle prime inchieste condotte sul modo in cui la formulazione di una domanda pregiudica le risposte si vide che quando veniva utilizzato il termine “consentire”, il 62% delle persone rispondeva negativamente, mentre quando la domanda parlava di “proibire” soltanto il 46% si dimostrava d’accordo. Così, ad esempio, un recente sondaggio effettuato negli USA ha dimostrato che il 29% del campione intervistato era a favore di una modifica costituzionale che “proibisse l’aborto” mentre in un altro campione il 50% degli intervistati

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era in favore di un emendamento costituzionale che “proteggesse la vita del prodotto del concepimento”; simili risultati sono stati ottenuti in un’inchiesta condotta in Italia sulla “liberalizzazione” o “proibizione” delle droghe leggere. Gli studi sulla modalità della comunicazione e delle consultazioni e quelli sul framing indicano che quando si chiede il parere delle persone le loro risposte variano in funzione di questi fattori: 1. L’ordine di presentazione delle domande. 2. Il contesto in cui sono inserite le domande. 3. Se il formato delle domande è aperto o chiuso. 4. Se vengono proposte delle alternative. 5. L’ordine di proposta delle alternative. 6. L’esistenza di categorie intermedie. 7. Il modo in cui sono suddivise le scale di punteggio ecc. LA LEZIONE DI SOCRATE Nella Grecia antica non si facevano i sondaggi, i filosofi del tempo però avevano una conoscenza approfondita delle strategie di manipolazione tipiche della loro epoca. In uno dei suoi dialoghi, Platone immagina una conversazione tra Gorgia e Socrate, sul potere e l’onestà della retorica. Gorgia, contemporaneo di Platone, era uno dei maggiori sofisti dell’epoca e Socrate era stato il maestro di Platone. Le “ragioni” di Platone sono ancora valide? Per rispondere a questa domanda bisogna rileggere alcuni passaggi del Gorgia. GORGIA:

Se tu sapessi tutto, Socrate, sapresti che essa [la retorica], per così dire, raccoglie e tiene a sé sottomessi tutti i poteri. Te ne darò una considerevole prova. Spesso, ormai, mi sono recato con mio fratello e con altri medici da qualche ammalato che non voleva bere medicine o mettersi in mano al medico lasciando che questi praticasse tagli o cauterizzazioni,

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e, mentre il medico non riusciva a persuaderlo, io lo persuasi con non altra arte che la retorica. Sostengo, anzi, che, se un retore e un medico arrivassero in una città qualsiasi, e se si trovassero a dover competere a parole nell’assemblea o in un’altra pubblica adunanza su quale dei due vada scelto come medico, il medico non avrebbe alcuna possibilità di uscirne vincitore, ma la scelta cadrebbe su quello capace di parlare, ammesso che costui lo volesse. E se si trovasse a competere con qualsiasi altro specialista, il retore saprebbe persuadere a scegliere sé piuttosto che chiunque altro. Non c’è infatti argomento di cui il retore, di fronte alla folla, non sappia parlare in modo più persuasivo di qualsiasi altro specialista. Ebbene, tanto grande e di tale natura è il potere di quest’arte! […] Il retore sa parlare contro tutti e di tutto, in modo da essere più persuasivo di altri, di fronte alla folla, in una parola su qualsiasi argomento voglia. […] SOCRATE : Poco fa dicevi che, anche in materia di salute, il retore sarà più persuasivo del medico. GORGIA: Così dicevo infatti, almeno nel volgo. SOCRATE : E questa tua espressione “nel volgo”, non significa forse “fra gente che non sa”?; perché, di certo, fra gente che sa non sarà più persuasivo del medico! GORGIA: Dici il vero. SOCRATE : E se sarà più persuasivo del medico, non sarà forse più persuasivo di colui che sa? GORGIA: Certamente. SOCRATE : E senza essere medico. Non è vero? GORGIA: Sì. SOCRATE : Colui che non è medico, però, certamente ignora le cose di cui il medico ha invece conoscenza. GORGIA: È chiaro che è così. SOCRATE : Allora, chi non sa, fra gente che non sa, risulterà più persuasivo di chi sa, se è vero che il retore è più persuasivo del medico. Se ne deduce questo, o la conseguenza è un’altra? GORGIA: Se ne deduce questo, almeno in questo caso.

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Dunque, il retore e la retorica si trovano in questa posizione rispetto a tutte le altre arti: non c’è alcun bisogno che sappia come stiano le cose in sé, ma occorre solo che trovi qualche congegno di persuasione, in modo da dare l’impressione, a gente che non sa, di saperne di più di coloro che sanno. Questo eb

SOCRATE:

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La riflessione che Platone attribuisce a Socrate si attaglia egregiamente a tante situazioni riportate nelle pagine precedenti di questo saggio – per esempio il ruolo avuto dai nostri sofisti nel caso Di Bella (p. 64) – il che significa che non bisogna mai dare per acquisiti raggiungimenti culturali fondamentali anche se datano a più di 2300 anni fa. LA RETORICA SECONDO ARISTOTELE Per Platone e per di Socrate la retorica di cui i sofisti facevano ampio uso era una abilità che consentiva di parlare di tutto, ma che riusciva a persuadere soltanto gli ignoranti, coloro cioè che avevano una conoscenza inadeguata o sommaria degli argomenti trattati. Per Aristotele, discepolo di Platone, la retorica è necessaria alla vita associata, il suo scopo però non deve essere quello di manipolare il pensiero altrui ma di mostrare, attraverso la parola, quali sono le cose che possono indurre alla persuasione. Bisogna quindi distinguere una retorica onesta da una retorica disonesta. A differenza del sofista l’oratore non fa un cattivo uso della sua arte ma l’adopera solo in servigio della verità. Il grande filosofo ateniese insegnava ai suoi allievi a convincere le persone con la forza del ragionamento e dei buoni argomenti, evitando di ricorrere ai trucchi, alle seduzioni e alle violenze mentali messe in atto dai sofisti, i cattivi maestri. Al tempo stesso però non condannava l’uso di quelle strategie comunicative che possono facilitare la comunicazione, come gli esempi, le storie, le analogie, il principio d’autorità, i presup-

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posti condivisi, la ricerca di un punto di accordo o di un terreno comune. Una cosa è convincere, un’altra è manipolare. Convincere è legittimo e spesso doveroso. Nel corso della sua trattazione Aristotele riporta questo esempio: se vuoi convincere qualcuno che tirare a sorte i magistrati non è una buona strategia (era una pratica greca per designare la giuria nel settore giudiziario) puoi ricorrere alla seguente analogia: «Immagina che per comporre un gruppo sportivo che rappresenti la città si tirino a sorte i giocatori dall’insieme dei cittadini». I Greci, amanti dello sport, comprendevano immediatamente la questione senza bisogno di lunghe spiegazioni o sofisticati ragionamenti. Né una dimostrazione rigida né un atto di seduzione, dunque, ma un ragionamento che può essere alleggerito da un’analogia, da una narrazione, o da altre forme di argomentazione. Ecco la grande lezione della retorica classica, così come essa è poi stata recuperata dalla tradizione umanista. Flessibilità e immaginazione sono legittime oltre che apprezzabili, così come legittimo è ricercare gli approcci e i momenti migliori per argomentare e convincere. Un altro esempio. Immaginiamo che una donna voglia convincere il marito, un attivista politico, a collaborare alle attività domestiche che attualmente ricadono completamente su di lei. Potrebbe ricorrere alle arti della seduzione femminile, ma poiché è convinta della parità tra uomo e donna, preferisce scegliere una via diretta in grado di portare il coniuge allo scoperto e di indurlo a compiere una scelta consapevole. Prende allora spunto dal fatto che il marito a cena le racconta di avere energicamente protestato con i suoi compagni di partito perché nel corso di una riunione non è stata data la parola a tutti coloro che l’avevano chiesta e volevano intervenire. «Sono d’accordo con te, in una società democratica ognuno deve avere lo stesso spazio degli altri, c’è parità di diritti e di doveri» commenta la moglie «in casa nostra però questa uguaglianza è al di là da venire… le faccende domestiche ricadono tutte quante su di me e se tu

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hai tempo per dedicarti ai tuoi hobby io di tempo per me non ne ho mai». Tra i due tipi di retorica, quella onesta e quella disonesta, ci sono delle analogie. Per esempio, entrambe possono essere pianificate, studiate, preparate in anticipo, certi effetti vengono programmati per rendere più convincente il discorso. Si può imparare ad esprimersi in maniera efficace frequentando dei corsi che insegnano l’arte oratoria, i modi più efficaci per risultare convincenti di fronte alle telecamere. Come differenziarle, allora, l’una dall’altra? La differenza sta nella trasparenza. Mentre il comunicatore onesto può, se interrogato, riconoscere di avere preparato il suo intervento con l’obiettivo di essere convincente, colui che manipola è impossibilitato a rivelare la propria strategia, non può per esempio dire: «per dimostrare la mia tesi ho utilizzato delle false premesse», «per convincerti ho accostato concetti che non hanno alcun nesso tra loro», «attraverso un uso sapiente delle immagini ho suscitato in te delle emozioni al solo scopo di farti accettare la mia proposta», «mi guardo bene dal dirti ciò che penso, ti dico soltanto ciò che tu vuoi sentirti dire», o ancora, come nel caso illustrato a pagina 27, «ho sincronizzato la mia mimica sulla tua affinché tu ti rispecchiassi nei miei atteggiamenti e nelle mie parole». Ma se, al contrario, gli interlocutori sono ugualmente esperti, l’uso dei trucchi e dei sofismi può allora diventare un gioco divertente, una sfida ad armi pari. Scheda 12 I SOFISMI DEL POLITICO All’inizio del XIX secolo il filosofo inglese Jeremy Bentham – ricorda la filosofa Michela Marzano nel volume Estensione del dominio della manipolazione – notava che spesso i politici del suo tempo davano l’impressione, attraverso i loro discorsi e i loro atteggiamenti, di agire in un senso, quando in realtà facevano tut-

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t’altra cosa o magari nulla del tutto. Promettevano ma non mantenevano oppure facevano i propri interessi infischiandosene degli impegni assunti. Scrisse perciò un trattato sui sofismi politici in cui spiegava che ciò che caratterizza un sofisma politico è l’uso costante delle stesse formule: formule in cui i termini sono sistematicamente ambigui, generici, veri e propri slogan, quasi dei tic (per esempio, oggi i politici usano spesso termini come “pacchetto”, “tavolo di discussione”, “osservatorio congiunto”, “scelte bilanciate”…). L’argomentazione è spesso assente. Le asserzioni possono essere ad effetto ma prive di coerenza al loro interno. Poiché tiene la parola e produce un flusso ininterrotto di frasi, l’oratore può dare l’impressione di competenza mentre in realtà pronuncia una serie di proposizioni generiche, buone per ogni occasione. In ciò è facilitato, oggi, dall’immagine, quando la discussione avviene in televisione, perché l’attenzione dello spettatore televisivo alle parole e alla consequenzialità del discorso è distratta dal look, dagli atteggiamenti e dalle espressioni mimiche dell’oratore e delle altre persone in studio, dagli interventi più o meno tempestivi del conduttore. Per porre fine a un dibattito si può invocare un’autorità superiore. Per lasciare cadere una proposta o, al contrario, per farla passare senza discuterne ci si appella alla dimensione temporale. Rimandare a dopo oppure accelerare. L’urgenza consente di evitare le discussioni sul “senso” delle riforme o degli interventi. Un altro sofisma usato spesso dai politici (ma non solo) è quello di confondere il dibattito con argomenti pretestuosi, oppure non consentendo all’interlocutore di spiegarsi, parlandogli sopra o attaccandolo sul piano personale, obbligandolo cioè a interrompersi per spiegare o difendersi e quindi deviando il discorso su un altro tema, meno pericoloso o più facile da trattare. È una strategia che viene utilizzata quando si è in difficoltà e, privi di buoni argomenti, si rischia di essere messi nell’angolo.

La comunicazione disonesta trae il suo potere dalla dissimulazione. Nell’esempio dei magistrati tirati a sorte Aristotele dice chiaramente di utilizzare un’analogia per dimostrare la validità della sua tesi. La strategia usata per convincere è in questo caso visibile, trasparente. Sta all’uditorio accettarla oppure no. Un’altra differenza tra i due tipi di comunicazione

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sta nel fatto che colui che argomenta onestamente vuole sì convincere l’uditorio (o audience), ma non vuole vincere a tutti i costi se ciò comporta l’inganno, la seduzione o la minaccia. Rispetta gli altri e pensa che alla fine ognuno abbia diritto di avere le proprie opinioni. Non ricorre alle tecniche della manipolazione perché ha un’etica che non glielo consente: crede nella convivenza civile e pensa che l’inganno mini i rapporti tra le persone. Non lo vuole fare, infine, perché altrimenti perderebbe il rispetto di se stesso. Chi è abituato, invece, a usare la manipolazione per raggiungere i propri obiettivi, seppure elettrizzato dalle proprie vittorie e acquisizioni, prima o poi perde la fiducia degli altri. Non solo, ma rischia di diventare sempre più cinico e freddo, costretto a sdoppiarsi, come nel caso che qui presentiamo di un esperto in competitive intelligence, detto il Nibbio, tanto abile quanto disonesto. «Sul lavoro è un avventuriero senza scrupoli. Le corporation lo assoldano per ottenere informazioni sulla concorrenza. Il suo lavoro consiste nel mentire, sfruttare e imbrogliare dando l’impressione di aiutare, solidarizzare, stimare. Ha messo su una finta società di reclutamento con tanto di false fotografie di famiglia. Ha distrutto la carriera di molte persone che gli avevano dato fiducia. “Chi mi conosce” spiega “sa che non mi faccio alcun problema a ricorrere a inganni e sotterfugi per carpire informazioni riservate. Il mio sopranome è Il Nibbio”. Lui tuttavia si considera una persona rispettabile perché ritiene di riuscire a tenere separata la vita pubblica da quella privata. Non pensa di essere moralmente più riprovevole dei dirigenti d’azienda e amministratori delegati che lo assoldano. “Per vivere bene con se stessi” spiega “bisogna abituarsi a vivere una vita a compartimenti stagni”». (da Bakan, The Corporation, pp. 69-70)

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UNA QUESTIONE DI POTERE Non c’è dubbio che una vita a compartimenti stagni non è una vita soddisfacente e piena, sta di fatto però che i tipi come il Nibbio – e ce ne sono in ogni ambiente – se ne infischiano sia dell’onestà che del rispetto degli altri. Che fare, allora? Smascherare i manipolatori oppure, liberarsi di ogni remora morale e usare le loro stesse armi? La risposta non è certo semplice e neppure immediata. Poiché è alla radice del vivere civile, la questione è stata oggetto di riflessioni importanti, in ogni epoca, da parte di pensatori illustri e profondi conoscitori della natura umana. Machiavelli, per esempio, nel suo notissimo trattato, pur dando gran valore alle leggi, raccomandava al Principe di cercare di essere anche leone e volpe: leone dotato di forza per poter difendersi dai lupi, volpe per riuscire a districarsi dai “lacci”. I “lacci” in questo caso, di cui la volpe è esperta, sono le astuzie che consentono di «aggirare e’ cervelli delli uomini» spiega Machiavelli (Il Principe cap. XVIII). Il leone, che di lacci non si intende, rischia di essere sconfitto dal suo stesso stile diretto e leale. Perciò Niccolò Machiavelli consigliava al Principe di usare anch’egli l’astuzia nei confronti dei propri nemici, perché «se gli uomini fussimo tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osserverebbero a te, tu etiam non l’hai da osservare a loro». E a riprova di ciò ricorda che «quello che ha saputo usare meglio la volpe, è meglio capitato». Non solo, Machiavelli dà anche consigli al Principe su come usare l’astuzia: «è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore». L’illustre Segretario fiorentino, nel rivolgersi al suo Principe, Lorenzo il Magnifico, gli raccomandava la dissimulazione per necessità, ossia in determinate circostanze, nei confronti del nemico, per il bene del suo regno e del suo popolo e, nonostante questi consigli non riteneva di dare una lezione di disonestà ma di buon governo. Questa stessa lezione però,

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oggi, in tutt’altra epoca storica, rivolta non ad un Principe del XVI secolo, che aveva il compito di agire per il bene del regno e dei sudditi, ma estesa a chiunque abbia un qualche tipo di potere in società che si definiscono democratiche, appare incoerente e stonata. Dei “lacci che aggirano il cervello degli uomini” i machiavelli di oggi fanno un uso diffuso e disinvolto, nel proprio interesse personale o nell’interesse del proprio gruppo. In più, le armi di cui i machiavelli attuali possono disporre sono più raffinate, invasive e penetranti di un tempo. I sofisti del Duemila non si avvalgono soltanto della dialettica ma di tecnologie della comunicazione molto potenti, che entrano capillarmente nelle case, con cui non solo possono “lavorare” sulle pulsioni dei cittadini-spettatori, ma anche raggiungere grandi masse di persone senza mobilitarle fisicamente. L’accesso ai mezzi di comunicazione in qualità di gestori, poi, non è per nulla distribuito in maniera democratica, è bensì concentrato in alcuni centri di potere dove, individui ben consapevoli della forza di cui dispongono, se la tengono molto stretta. L’abuso di potere è sempre esistito, ma attualmente è molto spesso mascherato da buone intenzioni e parole rassicuranti. Dietro ai proclami sull’autonomia e il rispetto degli altri, c’è la volontà di indirizzare le persone senza che esse se ne accorgano. Per dirla con le parole della Marzano, si crea uno schermo semantico capace di far girare il motore senza rivelare il meccanismo. Certo, in un contesto del genere, la tentazione di schierarsi dalla parte dei manipolatori è molto forte, soprattutto in particolari momenti e situazioni; ma una scelta di questo tipo comporta anche, bisogna esserne consapevoli, il declino della società civile. Homo homini lupus, è questo che vogliamo? Vogliamo definitivamente rinunciare al piacere di poterci fidare gli uni degli altri? I sofisti dell’antichità trovarono sul loro cammino pensatori del calibro di Socrate, Platone e Aristotele, che non lasciarono che la loro cinica visione dei rapporti umani si diffondesse nella società greca, ma attivamente si impegnarono affinché la retorica, come arte del

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DALL’ETERODIREZIONE ALL’AUTODIREZIONE

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convincere, fosse a disposizione di tutti, cercando anche il giusto linguaggio – strumento esemplare sono i “dialoghi” – nel promuovere la consapevolezza e l’autodeterminazione nei loro contemporanei. Chi si assume il compito di contrastare i sofisti di oggi? In realtà, ognuno di noi può farlo se, grazie all’esperienza di cui dispone e alla preparazione e riflessione che coltiva, riesce a distinguere la cattiva dalla buona comunicazione. Se, cioè, come insegnava già Aristotele e dopo di lui molti altri, sa autodirigersi invece di lasciarsi passivamente dirigere dall’esterno. Autoanalisi, osservazione e riflessione sono gli strumenti cognitivi a nostra disposizione che ci consentono di prendere le distanze dai messaggi che ci raggiungono e di valutarli, di non confondere le nostre motivazioni e obiettivi con quelli altrui, di desincronizzarci rispetto agli tsunami emotivi che periodicamente attraversano i mass media, di orientarci verso la buona stampa e la buona televisione. Certamente può essere difficile a volte, per tutti coloro che non si trovano nella posizione di chi ha il potere di diffondere le notizie (ossia la stragrande maggioranza di noi), distinguere la realtà dalla fiction; e tuttavia sarebbe un errore gettare la spugna: grazie ad Internet, per esempio, ci sono oggi altre vie di comunicazione e di informazione. Se da un lato alcuni spazi di libertà si chiudono, altri se ne aprono, nuovi e inediti. Una nuova e più attiva opinione pubblica può formarsi in rete: ognuno può intervenire e guadagnarsi degli spazi di espressione e di comunicazione che altrimenti non avrebbe. Navigando in rete è possibile trovare informazioni, discussioni e confronti che possono fornire un quadro meno addomesticato di molti aspetti della realtà in cui viviamo. È fuori discussione, infine, che con l’aumentare del numero delle persone non manipolabili si contrae anche il numero dei manipolatori: senza qualcuno da manipolare il manipolatore è come un bullo senza vittima, si ritrova solo e con le armi spuntate. Ecco perché le strategie dei manipolatori devono diventare sapere comune, normale oggetto di studio e di osser-

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CAPITOLO V

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vazione e non essere invece appannaggio di una minoranza di professionisti che lavorano dietro le quinte. Per la diffusione capillare che oggi hanno i mass media e le raffinate strategie di cui dispongono i maghi della comunicazione, questo tipo di sapere rappresenta un passaggio indispensabile di ogni democrazia degna di tale nome.

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Indice

INTRODUZIONE

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I. UNA FORTE PROPENSIONE AD IMITARE Dai sofisti al maresciallo psicologo: breve storia della propaganda Cindy Crawford alle isole Figi Imitatori nati Mimicry, vantaggi e strumentalizzazioni Rivalità mimetica Una pseudoscienza di successo La riprova sociale Spirali di silenzio e mimetismo mediatico Diffusione e comunicazione Lo specchio della mediocrità Schede: 1 – La forza dell’imitazione 2 – Nessuno sfida l’opinione pubblica con pareri impopolari 3 – Le voci d’Orléans

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II. IL PIACERE DI FARSI CONVINCERE Gli studi scientifici Il sentimento di libertà Manipolazioni virtuose Dove può portare il bisogno di affidarsi Venditori e telepromotori Via centrale e via periferica La trappola delle euristiche Frame e background Schede: 4 – Trucchi di ordinaria amministrazione 5 – Wishful Thinking 6 – Tipi da setta

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III. NEL NOME DEL CONSUMO Messaggi impliciti Realtà deformate Vero e verosimile Cervelli predisposti La doppia faccia del neuromarketing Bersagli sensibili Scoprire il codice Schede: 7 – L’effetto “maquette” 8 – Il contributo della psicologia alla pubblicità

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IV. IL PERSONAGGIO E IL SUO DOPPIO David Beckham ed Harry Potter Chi ha paura dello spin doctor? Massaggiare il messaggio Telenovele rassicuranti La macchina delle storie Il discorso di Checkers Costruire campagne elettorali Il nemico necessario Il regno della manipolazione Schede: 9 – Eventi su misura 10 – Divi e politica

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V. DALL’ETERODIREZIONE ALL’AUTODIREZIONE Il doppio volto delle emozioni I pregi della narrazione La Baby tv Il format dei sondaggi La lezione di Socrate La retorica secondo Aristotele Una questione di potere Schede: 11 – Copioni narrativi 12 – I sofismi del politico

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BIBLIOGRAFIA

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rtiene ook appa Questo eb Anna Oliverio Ferraris CHI MANIPOLA LA TUA MENTE? Giunti Editore S.p.A.


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