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Post lauream Tra formazione e mondo del lavoro
Bergonzoni L’urgenza dell’altrove
Editoria digitale L.ink Festival Un approfondimento sul giornalismo contemporaneo
L.INK 8
L’editoria ai tempi dell’ePub
UNIVERSITà 16 18 19 20 22 23
Like a rolling stone – Cosa succede dopo la laurea? Sul tocco sventola bandiera bianca FAQ – Frequent Academic Questions Vita da fuorisede – Vademecum del pendolare: last train home Bari Città Universitaria – The Hub Bari: dall’idea al progetto I Radiodrammatici di ‘Schegge d’Ortaet’ – Ascoltare il teatro nell’etere
LIFE 24 26 27 28
Professioni in proiezione – La bussola del web Lo voglio! – Rassegna di varie (in)utilità Con RECIT i traduttori fanno rete – Gazzettino estero Giramondo – Spring break
ARTE 30 31
Lo spazio dell’arte – Inaugurata la nuova sede di ARTcore Il mondo in mano alle adolescenti – Gli scatti fotografici di Teenage Stories
VISIONI 32 34 36 37 38 39 40
Io tifo per l’underdog – Intervista ad Alessandro Gassman L’urgenza dell’altrove – Intervista ad Alessandro Bergonzoni Come un tuono – Derek Cianfrance dirige Ryan Gosling Le rifrazioni dello sguardo – Il gioco delle personalità in Fassbinder Il felice destino della Rigenerazione – Lo Stabile d’Innovazione Kismet Gangster Squad – La fine dell’American Dream Visioni a confronto – Bologna Violenta, Pasolini, de Sade
LIBRI 42 43 50
CAM, Con Altri Mezzi Aerei di carta La terza squadra – Un racconto di Nicolò Aurora
MUSICA 44 46 47
Una eXperYenZ di editoria innovativa – Un’intervista a Ivan Iusco Mark the music! Per un ascolto del testo letterario Disfunzioni Musicali
HI TECH 48
Generare un popolo di bit – I videogiochi di Peter Molyneux
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L’editoria ai tempi dell’ePub
Sfoglia la brochure del L.ink Festival http://bit.ly/ZMJQcY
Si apre a Bari il festival dedicato alla realtà mediatica contemporanea. Dal 10 al 14 aprile, un’occasione per mostrare i mutamenti avvenuti nel campo dell’informazione attraverso l’incontro con i mestieri che ruotano attorno a una redazione di oggi.
In un periodo di rivoluzione per l’editoria mondiale, L.ink apre un dibattito sulle nuove forme della comunicazione e lo sviluppa attraverso seminari, workshop e incontri. Cinque giorni che vedono la partecipazione di professionisti italiani e internazionali, protagonisti di esperienze che hanno cambiato il modo di intendere il giornalismo nel nuovo millennio. L.ink nasce da un’idea del magazine «Pool» in collaborazione con l’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’, l’Ordine dei Giornalisti di Puglia, il Master in Giornalismo e il Distretto Produttivo ‘Puglia Creativa’. La manifestazione è sostenuta dai Laboratori dal Basso, percorsi di apprendimento per giovani imprenditori realizzati dall’Agenzia Regionale per la Tecnologia e l’Innovazione della Puglia. Cinque giornate per riflettere sulle nuove istanze dell’editoria contemporanea, spaziando dalla carta stampata al web, dall’avanzamento delle nuove tecnologie ai differenti registri di scrittura contemporanea, dalle eterogenee cognizioni necessarie al lavoro redazionale alle regole deontologiche della professione. Tutti i seminari e i workshop sono presentati da professionisti dell’editoria e professori universitari e sono coordinati da «Pool Academy». Puntando l’attenzione su esperienze innovative e di grande rilevanza, L.ink mira ad analizzare le dinamiche che muovono il mercato editoriale contemporaneo e che contribuiscono in maniera determinante a creare i nuovi profili professionali del nostro tempo.
APRILE 2013 Salone degli Affreschi Ateneo dell’Università degli Studi di Bari Piazza Umberto I, Bari
Ex Palazzo Poste Piazza Cesare Battisti Bari
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Seminario I blogger e il linguaggio giornalistico: mutazioni in atto :: dalle ore 9 alle 13 Francesco Magnocavallo co-founder di Blogo.it
Seminario Liquid teaching Community sourcing: nuovi concetti per l’editoria :: dalle ore 9 alle 13 Antonino Benincasa
Seminario Editoria e culture giovanili :: dalle ore 9 alle 13 Luca Valtorta direttore di xL di Repubblica
Seminario Satira e illustrazione nel giornalismo italiano :: dalle ore 9 alle 13 Vincino direttore de Il Male
Workshop Typographic Tables :: dalle ore 15 alle 19 Antonino Benincasa Designer, co-founder di HusmannBenincasa Corporate & Brand Design e professore di ruolo alla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano
Incontro New Record, Via De Giosa 59, Bari Il giornalismo musicale in Italia :: dalle ore 19 alle 20,30 Luca Valtorta direttore di Xl di Repubblica Antonio Princigalli Coordinatore Puglia Sounds Michele Casella L.ink / Pool Enrico Godini Pool
Seminario Citizen Witnessing: ripensare il giornalismo in tempo di crisi :: dalle ore 9 alle 13 Stuart Allan docente di giornalismo alla School of Media dell’Università di Bournemouth
Workshop Il parallelismo tra rivoluzione del web e rivoluzione industriale :: dalle ore 15 alle 19 Francesco Piccinini direttore di Fanpage
Workshop Modelli editoriali: il giornalismo contemporaneo all’estero :: dalle ore 15 alle 19 Neil Shea docente della Boston University e giornalista del National Geographic
Workshop Fumetto, illustrazione ed editoria al tempo dei blog :: dalle ore 15 alle 19 Paolo Bacilieri fumettista e illustratore Roberto La Forgia fumettista e illustratore
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I blogger e il linguaggio giornalistico: mutazioni in atto
Il parallelismo tra rivoluzione del web e rivoluzione industriale
Liquid teaching Community sourcing nuovi concetti per l’editoria
Editoria e culture giovanili
FRACESCO MAGNOCAVALLO
FRANCESCO PICCININI
ANTONINO BENINCASA
LUCA VALTORTA
Co-fondatore e top editor di Blogo.it, primo editore italiano di blog professionali a tema. La piattaforma Blogo.it conta oggi oltre un milione di lettori al giorno e pubblica circa 70 magazine verticali in cinque lingue. Blogo.it è oggi una delle prime realtà dell’informazione online italiana, campione dell’editoria partecipata e pioniere dei social media in Italia. Magnocavallo oggi crea strategie di campagne di comunicazione digitali per istituzioni del settore no profit, a livello internazionale.
Ex direttore d’AgoraVox, già docente di Brand Strategy e Comunicazione presso l’École Supérieure de Gestion di Parigi. Oggi direttore responsabile di Fanpage.it. Nel 2010 ha collaborato a ‘Strozzateci Tutti’, il libro/blog/manifesto contro le mafie che ci ha portati fino a Scampia. Dal 2012 è in libreria l’ultimo libro a cui ha collaborato come autore, Novantadue, l’anno che cambiò l’Italia, edito da Castelvecchi. Il suo intervento a L.ink è volto a tracciare il parallelismo tra rivoluzione del web e rivoluzione industriale.
Designer (*1967) nato a Siersburg, Germania. Nel 1993 si laurea in Comunicazione Visiva alla HfG Schwäbisch Gmünd e nel 1996 si trasferisce a Milano, dove fonda lo studio “72 dpi”. Dal 1997 al 2005 insegna Comunicazione Visiva e Motion Design al Politecnico di Milano – Facoltà del Design. Nel 1999 fonda a Milano con Nicole Husmann lo studio “HusmannBenincasa Corporate & Brand Design”. Nel 2000 vince il concorso per la realizzazione del logo delle Olimpiadi Invernali Torino 2006. Realizza inoltre la Corporate Identity dei XX Giochi Olimpici Invernali, Torino 2006, il logo delle Paraolimpiadi Invernali 2006 e tutti gli altri loghi correlati ai Giochi Olimpici Invernali. Dal 2003 al 2006 fa parte del Consiglio Nazionale dell’AIAP (Associazione Italiana Progettazione per la Comunicazione Visiva). Dal 2004 è membro del Ministero della Grafica. Nel 2005 viene nominato Professore di ruolo alla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano, dove insegna comunicazione visiva. Il suo workshop per L.ink è focalizzato sul tema ‘Typographic Tables’.
Ha studiato Lingue e Letterature Orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia. A metà degli anni ‘80 inizia la carriera giornalistica nel modo più classico, come correttore di bozze per un service editoriale legato ad Arnoldo Mondadori Editore. Partecipa poi alla stesura della versione italiana del volume Industrial Culture Handbook della rivista americana Re/Search, la più importante a occuparsi delle avanguardie artistiche e della scena undergound musicale. Ha collaborato con Focus, Sette del Corriere della Sera, è stato caporedattore di Tutto Musica. Dal 2004 è direttore di xL, mensile edito dal Gruppo Editoriale L’Espresso in sostituzione del settimanale Musica. È inoltre autore del libro Sol mutante. Mode, giovani e umori nel Giappone contemporaneo (Costa & Nolan, 1999).
Citizen Witnessing: ripensare il giornalismo in tempo di crisi
Modelli editoriali: il giornalismo contemporaneo all’estero
Satira e illustrazione nel giornalismo italiano
Fumetto, illustrazione ed editoria al tempo dei blog
STUART ALLAN
NEIL SHEA
VINCENZO GALLO (VINCINO)
ROBERTO LA FORGIA
Stuart Allan insegna giornalismo presso la School of Media dell’Università di Bournemouth, dove dirige il Centre for Journalism and Communication Research. È autore di numerosi articoli e sedici volumi di cui il più recente è il pluricensito Citizen Witnessing: Revisioning Journalism in Times of Crisis (Polity Press, 2013). È cofondatore della rivista peer-reviewed Journalism Education e fa parte di numerosi comitati editoriali di altre riviste specializzate. Attualmente la sua ricerca è orientata all’analisi del digital imagery performato dai cittadini attraverso la pratica del news reporting. A breve pubblicherà anche un volume dedicato alla storia della fotografia dalle/sulle zone di guerra. Per L.ink cura il seminario Citizen Witnessing: ripensare il giornalismo in tempo di crisi’.
È docente di giornalismo presso la Boston University (USA). È inoltre giornalista del National Geographic, autore di numerosi documentari e reportage di guerra (dall’Africa, Medio oriente, Asia ed Europa) e sulle questioni ambientali. Ha collaborato a lungo anche per riviste quali The American Scholar, Foreign Policy, The Atlantic Monthly, The Christian Science Monitor e Inversion Magazine. Ha vinto diversi premi e riconoscimenti tra cui il Lowell Thomas Award per le sue storie sull’Etiopia e su Cuba.
Nel 1969 inizia a collaborare con il quotidiano L’Ora di Palermo e dal 1972 lavora nel giornale di Lotta Continua. Nel 1978 fonda e dirige L’avventurista e partecipa alla nascita de Il Male, di cui sarà direttore per quattro anni. Dal 1984 è stato direttore di Ottovolante, collaboratore de Il Clandestino, di Tango, e di Linus. Nel 1987 diventa direttore di Zut ed inizia la sua lunga collaborazione con il Corriere della Sera. Nel 1988 esce Cuore e Vincino ne diventa una delle colonne portanti collaborando nel frattempo al Sabato e a Il Foglio. Nell’ottobre del 2011, insieme a Vauro Senesi, rifonda la storica rivista di satira Il Male, di cui è tuttora il direttore insieme al vignettista toscano. Il suo intervento a L.ink si concentra sulla nascita e la gestione di una testata giornalistica nella sua evoluzione dagli anni di piombo a oggi.
Roberto La Forgia è nato a Treviso nel 1983. Nel 2007 cura il progetto Gli intrusi, un libro pubblicato da Coconino press. Ha collaborato inoltre come illustratore con le riviste Lo straniero e Black e con gli editori Rizzoli, Orecchio Acerbo, Baldini Castoldi Dalai. Redige la rivista in pdf Mosso e pubblica regolarmente sul settimanale Il Male di Vauro e Vincino. Nel 2012 pubblica il graphic novel Il signore dei colori in Italia con Coconino press – Fandango e in Francia con Les Édition Atrabile. Attualmente vive e lavora a Varese.
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Il giornalista oggi: competenze in mutazione Intervista a Enzo Iacopino, Presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti a cura di Chiara Buratti Guarda l’intervista video realizzata con il Presidente Iacopino http://bit.ly/16o8KlH
Gli imperativi del giornalismo sul web sono: velocità, immediatezza, interconnessione, multimedialità, ipertestualità. Per poter riuscire a conciliare i nuovi ‘must’ della professione bisogna quindi fornire informazioni nella maniera più veloce possibile, utilizzando linguaggi differenti e inserendo link, in modo che il lettore possa interagire attivamente commentando o condividendo notizie sulle varie piattaforme della Rete. Quali competenze si richiedono oggi a un giornalista? Come deve orientarsi il lettore fra la numerosa offerta a cui è esposto? A queste domande ha risposto il Presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, durante l’incontro dello scorso 2 marzo a Bari: Signor Presidente, con la nascita di Internet e il successivo sviluppo del giornalismo on-line, il giornalista si è trovato di fronte a un nuovo universo che non conosce: quali competenze deve avere oggi? Si potrebbero fare liste lunghissime, la prima è una qualità: deve avere la dote dell’umiltà, perché prima di spiegare o raccontare agli altri le cose, bisognerebbe capirle. Affrontare gli argomenti con umiltà, raccontarli in maniera semplice, facendo riferimenti che aiutino i lettori a capire le questioni credo sia la dote fondamentale per essere un buon giornalista. Il resto matura con l’esperienza. Che cosa è cambiato nel giornalismo con la nascita dei social media? Credo che siano molto cambiati i
ritmi. Sta cambiando anche la lingua italiana con i correttori automatici on-line. E la cosa più grave è che però questo nuovo linguaggio dei social media viene usato anche negli articoli per la carta stampata e negli esami per gli aspiranti giornalisti. Che differenza c’è tra un giornalista della carta stampata, uno del web, un giornalista radiofonico e uno televisivo? Io ho lavorato principalmente nella carta stampata, ma ho fatto anche tv. Per esempio, la costruzione delle frasi in maniera compiuta per il giornalista televisivo non è la stessa che per quello della carta stampata perché dietro ci sono le immagini che aiutano, e questo vale anche per la radio, che ha la necessità di un’informazione più essenziale dato che un servizio radiofonico dura dai tre ai cinque minuti. Il lavoro su Internet è una cosa diversa perché offre la possibilità di cambiare tutto con tempi e ritmi tali che ne risente anche il linguaggio, anche se comunque i fatti, indipendentemente da quale linguaggio si usi, vanno affrontati con umiltà e con la mente libera da condizionamenti, raccontandoli nella maniera più semplice possibile. La semplicità stessa è un valore. Lei cosa ne pensa della ‘disinformazione’? Questa continua ricerca di notizie dovuta alla nascita di testate giornalistiche on-line pensa che sia un vantaggio o uno svantaggio per il giornalismo? Non credo che l’informazione possa essere troppa, il problema è la qualità, il rispetto della verità dei fatti, il rispetto delle persone, il loro
ruolo. Quell’informazione becera, strillata, per esempio pubblicando intere pagine di intercettazioni telefoniche sbobinate che passano sopra la vita di chiunque, anche di chi non ha nessun contatto con l’argomento in questione, quella, francamente, mi lascia un po’ di amaro in bocca. A parte questo, l’informazione non è mai troppa, soprattutto in una società come la nostra, che sta vivendo turbamenti, sarebbe riduttivo dire che ci sono troppe notizie. Che differenza c’è tra un blogger e un giornalista? So di avere una posizione non condivisa, ma credo che i blogger facciano informazione. Il problema è che pretendono di farla senza regole e in nome di un malinteso senso della libertà. La libertà è un valore da difendere. L’idea di poter scrivere liberamente qualunque cosa su chiunque, trovo difficile considerarlo un esercizio della libertà personale, però, negare che il blogger non faccia informazione, francamente, mi sembra una bestemmia.
Tre armi per gli intellettuali Zygmunt Bauman: il coraggio è più forte di qualunque media a cura di Dora Renna Il ‘Mese della Memoria’ ha avuto a Bari una conclusione particolarmente intensa: Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche, ha tenuto una lectio magistralis sul tema ‘Umano/disumano’ al Teatro Petruzzelli e una sul tema ‘Gli Intellettuali e l’Europa’ presso l’Università degli Studi di Bari. Nato nel 1925, Bauman ha vissuto tutti i momenti cruciali della Storia contemporanea e le sue teorie hanno cambiato il modo in cui guardiamo a noi stessi e a ciò che ci circonda. È stato Bauman a teorizzare la liquidità della società postmoderna, attanagliata dalle incertezze, malata di consumismo e tendente all’omologazione. Eppure nel pensiero di Bauman si sente la forza della possibilità. La lectio magistralis all’Università era gremita di giovani che lo hanno seguito per parlargli, per conoscerlo meglio. «Pool Academy» gli ha posto una domanda, forse la stessa che porrebbero tanti studenti universitari e a cui forse temono di dare una risposta, ma che nelle parole di Bauman trova un significato nuovo e una spinta all’azione.
Cosa possono fare i giovani intellettuali nella società postmoderna per far sentire la propria voce? I nuovi media posso aiutare? «Conosci Václav Havel? Era il leader dell’opposizione non violenta clandestina al comunismo nella Repubblica Ceca, colui che ha ispirato la ‘rivoluzione di velluto’ nell’autunno del 1989. In quel momento la Repubblica Ceca versava in una condizione drammatica, e lui stesso è stato recluso in carcere per le sue idee. Non aveva lanciamissili né tantomeno l’accesso ai mass media, cose che noi riteniamo oggi di vitale importanza per far valere le idee. Sai come ha fatto lui a raggiungere il suo obiettivo? Aveva tre cose fondamentali. Innanzitutto la speranza, una grande speranza. Poi aveva una forte determinazione, che lo rendeva addirittura ostinato. Infine aveva un immenso coraggio. Del resto anche io, tu, tutti noi qui abbiamo qualche speranza, abbiamo forse un po’ di determinazione, e abbiamo un po’ di coraggio. Ma sai qual è la differenza tra Václav Havel e noi tutti? Lui aveva queste tre cose, e non ha avuto paura di usarle. Mentre tutti noi siamo un po’ timidi nel farlo. Ed è questo che vi dovete ricordare».
Avvicinò alla Puglia Gadda e Pasolini.
Un riconoscimento ad Antonio Rizzo, creatore del ‘Premio Taranto’. a cura di Dino Miccoli Antonio Rizzo: c’era una volta il Premio Taranto, il premio del mare. Il polo tarantino dell’Università degli Studi di Bari ha pensato di intitolare un’aula della Facoltà di Scienze della Formazione al giornalista che lo ha creato. Un cittadino illustre che si adoperò per la sua terra anche con giudizi puntuali sui fatti di cronaca, così come suo padre,
che si firmava Riant sulla «Voce del Popolo». Ora l’aula Rizzo riporta il pensiero a quel periodo ricco di splendore che va dal 1949 al 1952: Ungaretti, Palazzeschi, Manzini, Bo, Savinio, e poi Benedetti, Brandi, Dorfles, Eco, Sanguineti, Valsecchi, Zevi e Gadda, senza dimenticare Pasolini, fra giurati e premiati, hanno orbitato intorno a Taranto grazie al Premio. Merito di
Antonio Rizzo e della sua famiglia, che sembrarono spianare la strada da intraprendere: quella della denuncia verso una sterile ricchezza dei pochi, a favore di un nuovo modello di sviluppo culturale ed economico partendo proprio dalle perle tarantine, il paesaggio e il mare.
Quicky Media: il meeting dedicato ai web media della Regione a cura di Rosa Cambara Il primo meeting aperto in cui i responsabili dei web media pugliesi possono confrontarsi e crescere insieme. Stiamo parlando di Quicky Media, progetto nato dall’impegno dell’Associazione di Promozione Sociale ‘Media Gate’ e di RadioLuogoComune, realizzato con il patrocinio di Bollenti Spiriti – Regione Puglia, grazie al finanziamento di Principi Attivi 2010. Il 20 ottobre 2012 si è tenuto il primo incontro, che ha visto la partecipazione di buona parte degli operatori regionali. L’evento è stato realizzato con lo scopo di rafforzare il tessuto ancora debole delle redazioni giornalistiche online, per permettere ai responsabili dei web media di conoscersi e di discutere insieme delle nuove frontiere dell’informazione. Due i prossimi obiettivi di Quicky Media: partecipare alla co-progettazione di un Laboratorio dal Basso dedicato ai web media e aderire al Distretto Puglia Creativa.
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L’informazione è una sostanza necessaria Intervista a Neil Shea, giornalista del «National Geographic» a cura di Dora Renna
L.ink – l’editoria ai tempi dell’ePub può vantare tra i propri ospiti Neil Shea, un giovane scrittore americano già affermato per lo spessore e la sensibilità del suo lavoro. Cresciuto a Boston, era una wilderness guide (una guida specializzata e il responsabile della sicurezza di viaggiatori e turisti in ambienti selvatici come le giungle) prima di diventare scrittore. Attualmente è redattore straordinario per il giornale letterario «Virginia Quarterly Review», scrive regolarmente per «National Geographic» e insegna giornalismo alla Boston University. Ha spesso lavorato all’estero, in Africa, Medio Oriente, Asia, Europa. Ha ricevuto diversi riconoscimenti nazionali, come i ‘Lowell Thomas Awards’ d’oro e d’argento, assegnati dalla Society of American Travel Writers, per le storie dall’Etiopia e da Cuba, e un premio per i reportage ambientali dalla Society of Environmental Journalists. «Pool Academy» ha parlato con lui di informazione e giornalismo online. Il contributo di Neil Shea è stato offerto con grande professionalità e cortesia. Qual è lo scopo dell’informazione nella società globale? Penso che sia quello di migliorare le nostre vite. Non intendo dire che l’informazione dovrebbe venire usata semplicemente per farci stare comodi, renderci più ricchi o tenerci aggiornati su ciò che fa Lindsay Lohan. L’informazione è materia prima. È usata al meglio se aiuta ad ampliare il nostro pensiero e a sfidare apatia, ingiustizia e altri simili problemi. Spesso sentiamo parlare di quanto l’informazione ci assilli, di quanto ci prenda a pugni fino a lasciarci confusi a girare su noi stessi. Quando la si guarda così, l’informazione diventa un avversario, come uno tsunami o un uragano. Qualcosa da combattere, controllare, temere. Forse è meglio pensare all’informazione come ad acqua, una sostanza necessaria che ci sostiene e ci circonda, e
che possiamo sfruttare per tanti scopi. Tempo fa uno dei miei insegnanti suggerì che i giornalisti possono pensare all’informazione come a un fiume. Noi scivoliamo lungo questo fiume a bordo di una nave con tanti altri passeggeri. Le sponde sono rigogliose, l’acqua piena di vita. Come giornalisti, noi siamo guide. È nostro compito individuare e mostrare ciò che c’è di interessante mentre ci muoviamo lungo la corrente. Aiutiamo gli altri a vedere più in profondità nelle cose. Quali sono le implicazioni dell’affermarsi del giornalismo online? Il giornalismo online è fantastico. La Rete offre maggiori opportunità e canali per le storie, e ci permette di raccontarle in modi in cui non avremmo potuto cinque anni fa. Siamo in grado di portare così tante risorse nel nostro lavoro online che il giornalismo non è mai stato così potente e di vasta portata. E questo è il punto in cui dovrei dire ‘però’. Il giornalismo online e i modelli di business che lo circondano creano due problemi particolarmente pungenti. Primo, fanno sembrare che il duro lavoro sia a buon mercato. Un sacco di consumatori di notizie, reportage, saggi ecc. pensa che la Rete renda in qualche modo il nostro lavoro più semplice, e quindi si aspetta di poterlo avere gratuitamente o a prezzi ridottissimi. Ciò sta iniziando a cambiare in meglio, ma c’è ancora una percezione distorta del giornalismo, soprattutto del giornalismo online. Il secondo problema – o sfida – del giornalismo online è che può essere facilmente suscettibile di errore. La Rete rende molte cose semplici e veloci, dalla ricerca alla pubblicazione. Dobbiamo lavorare più duramente per assicurarci che ciò che troviamo in Rete siano fatti, e dobbiamo pensare più a fondo a ciò che abbiamo scritto o creato prima di postarlo online. Puoi suggerire tre abilità necessarie per diventare un buon giornalista? Scrivi bene. Osserva i dettagli da vicino. E poi devi avere la volontà di sfidare idee e persone, insistere e respingere. Questa può essere la parte più dura del lavoro. Neil Shea è uno scrittore che vale la pena di leggere approfonditamente. Per chi volesse farsi un’idea del suo lavoro e avesse un po’ di dimestichezza con l’inglese, il suo sito (www.neilshea.net) riporta articoli interessanti e scritti con grande passione. Nel frattempo, ecco alcuni estratti tradotti dalla sua pagina web: «In televisione, in tutte le televisioni cubane, appare un breve documentario. Ricorda che la rivoluzione non è finita; non finisce mai qui. Come la guerra al terrore di George Bush, la rivoluzione cubana è a finale aperto, perpetua. La vita è migliorata dal periodo especial [l’inizio della rivoluzione, N.d.T.]. Ma per il paesaggio si spande quel senso di debito, la sensazione che anche dopo cinquant’anni ci sia ancora qualcosa di dovuto. Quella notte, sopra il baseball e le tessere del domino e i tavoli da cucina, indugiavano i fantasmi della lotta». (Da The Revolution is – Castro’s Cuba at 50, apparso su «Virginia Quarterly Review» e vincitore di un ‘Lowell Thomas Award’ nel 2009). «Scene da Appalachia, tardo 2008. L’autunno di ‘Yes We Can’. L’economia peggiora e tutti parlano di cambiamento. Sono qui con il fotografo Andy Curtaro per osservare l’assistenza sanitaria rurale, specificamente per visitare le cliniche mobili che
Umberto Lisiero News(paper) Revolution L’informazione online al tempo dei social network Fausto Lupetti Euro 15,00 – 202 pagine Se per definizione stretta l’informatica studia il trattamento delle informazioni in sistemi elettronici automatici, non dovrebbe stupire che la diffusione sempre più capillare del web tenda a trasformare il modo in cui i contenuti di qualsiasi tipo si diffondano. In particolare per quanto riguarda le informazioni giornalistiche, la Rete
globale ha già di fatto cambiato non solo i metodi di diffusione, ma praticamente tutti gli aspetti del lavoro che trasforma il fatto in notizia. Il volume News(paper) Revolution di Umberto Lisiero, appena pubblicato dall’editore Fausto Lupetti, prova a far ordine e a rivedere tutte le fasi del lavoro giornalistico alla luce dei nuovi media e con
forniscono servizi gratuiti a quanti non possono permetterseli. Non puoi chiamarlo giornalismo, in realtà, perché ciò che stiamo costruendo è una raccolta di immagini e impressioni, ma alcune cose sono innegabili. Sulle coste e nelle capitali le cose che un tempo apparivano solide si stanno sbriciolando. Non è la fine, ma fa rumore. Andy e io non stiamo cercando segni di nuovi fenomeni o sintomi della imminente recessione. In un certo senso ci dirigiamo nella direzione opposta, cerchiamo di sfuggire a queste ossessioni. Le persone che incontriamo non fanno notizia, perché per loro non è un collasso improvviso o una disastrosa caduta. Non sono precipitati da superattici e neppure dalle villette a schiera. Erano qui, non visti». (Da Out Yonder – Sick and unseen in America, apparso su «Virginia Quarterly Review« nel 2009). «Quando ho incontrato Dunga, diversi giorni dopo la celebrazione, mi ha detto che aveva preso la sua decisione. Non voleva prendere parte alla vendetta. ‘Per me deve essere come se un serpente avesse morso mio fratello nei cespugli. Come se mio padre fosse stato investito da un’auto [sono stati entrambi uccisi da una tribù rivale, N.d.T.]. La vendetta non è la mia strada’. Gli anziani della tribù avevano supportato la sua decisione. Avevano visto i cambiamenti spazzare la regione. […] Io penso al volto di Bacha [moglie del fratello ucciso, N.d.T.], alla sua mandibola serrata, alla fermezza nel suo sguardo. Quando suo figlio sarà grande abbastanza, gli racconterà la storia di suo padre. Poi, probabilmente, gli darà il fucile di suo padre». (Da Omo River – Africa’s last frontier, apparso su «National Geographic» e premiato con un ‘Lowell Thomas Award’ nel 2010).
continui confronti con il giornalismo classico della carta stampata. Un utile saggio per capire come cambia il modo di pensare, scrivere e impaginare la notizia, e che offre numerosi spunti di riflessione e suggerimenti sia pratici che teorici. Dai quotidiani ai blog, per provare a immaginare il giornalismo che verrà.
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Like a rolling stone Cosa succede dopo la laurea?
a cura di Nicolò Aurora
Una volta conseguita la tanto agognata laurea, il passo dalla sensazione di avere il mondo in pugno alla domanda «E ora?» è breve e drammatico allo stesso tempo. All’estrema soddisfazione di aver finalmente raggiunto un traguardo tanto sudato fa fronte poi la consapevolezza di esser divenuto ‘uno dei tanti’, un ‘egregio signor Nessuno’ nell’oceano dei giovani laureati dalle belle speranze ma dalle scarse certezze. Se con il vecchio ordinamento, una volta conseguita la laurea a ciclo unico, la carriera universitaria si prospettava pressoché conclusa, salvo la prospettiva del dottorato, con la riforma Gelmini e il 3+2, dopo la laurea triennale scatta automaticamente la domanda: Che fare? Continuare gli studi o tentar di trovare un posto di lavoro degno di tale nome? E se continuare gli studi, rimanere a Bari o emigrare verso altri lidi, magari stranieri? Sono domande che ogni laureato o laureando si è fatto o si sta facendo. E sia se si è deciso a priori, sia se si deciderà del proprio futuro dopo il meritato festone di laurea, la sensazione di sentirsi spaesati, quell’attimo di incertezza cosmica, l’immedesimarsi in delle pietre rotolanti verso il nulla ha accomunato tutti. Per molti laureati quindi il vero problema è la mancanza di un orientamento post laurea(m), nonostante l’Uniba abbia un ufficio specializzato proprio nell’indirizzare le scelte dei neodottori baresi, ma in pochi sono a conoscenza di questo servizio. Ascoltando infatti il parere di chi è fresco di laurea, quasi nessuno ha mai usufruito dei servizi dell’ufficio Formazione Post Laurea, collocato al piano terra dell’Ateneo (vicino al bar, è aperto al pubblico ogni giorno dal lunedì al venerdì dalle 10,00 alle 12,00), che si occupa per l’appunto di indirizzare la scelta per la formazione di livello successivo. Eppure le opportunità che l’Uniba mette a disposizione sono diverse e facilmente consultabili dal sito dell’Università (Uniba > Offerta formativa) e vanno dal dottorato fino ai master passando per tirocini, esami di stato abilitativi, scuole di specializzazione e corsi di perfezionamento. Se si opta per un master universitario, la scelta è ampia, grazie anche ai molti partner dell’Università che mettono a disposizione la loro professionalità
per i giovani laureati in ogni campo, come il Teatro Pubblico Pugliese per le materie umanistiche, o le strutture ospedaliere per le professioni medicoscientifiche. Anche per i corsi di perfezionamento, la scelta è ampia. Più difficile è invece accedere al dottorato: il numero limitato di posti con borsa di studio scoraggia diversi ragazzi interessati alla carriera universitaria. Per chi invece preferisce tentare subito la fortuna, il Settore Orientamento al Lavoro dell’Uniba raccoglie e pubblica le migliori opportunità promosse da enti, aziende e associazioni esterne (Uniba > Studenti > Bacheca delle opportunità per gli studenti e laureati offerte da enti esterni). Come estrema ratio rimane l’alternativa di emigrare. Riprendere la valigia, magari non di cartone come i nostri nonni, e partire verso altri Paesi è una triste consuetudine che ha ripreso vigore in Italia, specialmente al Sud. Paola ci racconta infatti di come una volta conseguito il titolo di laurea in Storia e Scienze Sociali lo scorso mese, ha subito preparato tutto per andare a vivere a Londra. E fa nulla se il futuro prossimo prevede un lavoro in un fast food: come ci dice la stessa Paola, «È un punto di partenza. A Bari non sono riuscita a trovare neanche quello. Qui in Inghilterra ci sono molte più opportunità di riuscire nel campo dei lavori intellettuali come l’insegnamento o la ricerca. In Italia il futuro è più incerto». Il perché è presto detto. E ce lo racconta Domenico, neodottore in Medicina che, con alle spalle un periodo di Erasmus a Valencia, ci spiega la differenza tra rimanere nella terra natia o emigrare: «Per provare anche solo a mettere due punti di
sutura ho dovuto aspettare il quinto anno di Medicina. A Valencia invece in Erasmus ho fatto molta più pratica assistendo in prima persona anche a interventi di un certo rilievo. A Bari c’è troppa teoria e poca pratica, e una volta divenuto dottore il senso di spaesamento è davvero tanto». Macchina burocratica farraginosa, senso di scarsa meritocrazia, prospettive di un futuro roseo inesistenti e crisi economica. Questi i principali motivi che spingono molte giovani menti italiane a prendere un biglietto di sola andata e portarsi dietro le loro competenze. C’è però chi decide di rimanere, come racconta Lorenzo, neolaureato in Scienze motorie che non è riuscito a trovare un lavoro attinente al suo corso di studi. L’ottimismo però non gli manca: «Lavoro in un call center, come tanti altri laureati e anche persone in possesso di un dottorato, ma al momento non voglio andare via. A venticinque anni ho ancora diverse opportunità qui in Italia e voglio prima provarci. Certo, non si può avere subito il lavoro della propria vita, ma bisogna anche sapersi adattare. E nonostante lavori in un call center, continuo a cercare qualcosa di meglio. Arriverà il momento, la ricerca finirà e troverò il mio vero lavoro. L’importante è non mollare». Anche perché se ci si lascia andare si rischia davvero di essere solo un masso rotolante verso il baratro. È vero, fermarsi e iniziare a costruire qualcosa di importante per il proprio futuro non è facile, ma neanche impossibile, e spesso basta iniziare a cercare davanti ai proprio occhi. Magari proprio sulla bacheca dell’Uniba.
In alto: illustrazione di Marco Lafirenza
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Sul tocco sventola bandiera bianca Spiacere è il suo piacere, lui ama essere odiato: il Bastian Contrario stavolta spara a zero sul post lauream a cura di Bacon Per le strade di <inserite la vostra città preferita> eran giorni di coraggio, e tra noi si scherzava a raccogliere ortiche, allorché m’imbattei in Dentamaro, una vecchia conoscenza delle ore di ginnastica e di religione. Occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero, un cappello e un ombrello e insomma sì, per farla breve trasudava hipsteria da tutti i pori. Un insolito rimpianto mi fece pulsare il cuore, e con la scusa di volerci parlare proposi un drink. Come spesi male il mio tempo! Fortunatamente, il trillo del suo iPhone 5 interruppe la sequela di millanterie che snocciolò come olive verdi; «è la redazione,» mi sussurrò grave «un cane ha salvato una bimba da morte certa». Prima di scappare, mi
pregò di pagare la sua parte. «Ti lascio il mio numero, così ti restituisco il favore. Scrivimi su WhatsApp, però, ché non ho soldi al cellulare. Ah, e possibilmente a fine mese». Laurea col massimo dei voti, master all’estero, avviata azienda di famiglia. Qualcosa non mi tornava. In preda all’incontenibile richiamo degli affari altrui, aspettai con pazienza. Il secondo incontro m’illuminò. «Scrivo al giornale, d’altronde è il lavoro per cui ho studiato, mica noccioline» mi confessò pescando in una ciotola di arachidi. «Ok, ‘Cronache di Quartiere’ è una rivista elitaria, ma è interessante, mi permette anche di sperimentare con la fotografia, guarda». Mi porse un testo in odor di retorica, impaginato male e corredato da immagini sovraesposte; dopo un tempo che presumevo quello di lettura, staccai gli occhi dal giornale. «Fantastico» commentai vacuamente, soppesando per istinto la sua paga irrisoria, che molte cose avrebbe spiegato. «Nel frattempo credo che darai una mano a tuo padre, non dico in direzione ma quantomeno al centralino». «L’azienda non rispecchia la mia personalità!» ribatté Dentamaro, frantumando allusivamente il guscio di un pistacchio. «Non posso permettermi distrazioni mentre faccio gavetta. Non mi pagano, è vero, ma finché sto dai miei posso tirare avanti. E poi mi danno gli accrediti per gli eventi cittadini, tra parentesi fanno dei buffet niente male». Mi batté sul tempo e insinuò: «Lì ho incontrato la nostra vecchia compagna Farinelli, ramo catering. Certo fa un po’ a pugni con la laurea in Lingue, ma se sta bene a lei…». La voglia di sapere pulsava. Carpii informazioni sulla vecchia classe al prezzo di un secondo misero drink. Appresi così che l’ingegner Bruni lavorava in un centro per l’abbronzatura; Disegni, architetto mancato, faceva il commesso all’Ikea; Grieco, classicista eccellente, durante i compiti in classe smerciava versioni tradotte; Loiudice, laureato in Giurisprudenza, al momento pescava aringhe in Norvegia; Piccolomini, che aveva studiato in America, dopo un brillante dottorato lavorava in ludoteca. Era chiaro che Dentamaro li considerava sfigati poiché, contrariamente a lei, si sprecavano in lavoretti in nome del vil denaro. E la bella della classe, peraltro molto intelligente? Lei sì che aveva avuto fortuna. Interrotti i brillanti studi al quinto mese di gravidanza, aveva sposato l’erede di una ricca e assai tradizionalista dinastia di idraulici. Non avrebbe più ripreso a studiare: le poche volte che la si vedeva in giro, lamentava di non aver mai tempo per far nulla, stringendo più forte con le mani curatissime l’infante adorato. D’altronde, la bella della classe si chiamava Carofiglio.
FAQ Frequent Academic Questions a cura di Ilaria Lopez
Esistono convenzioni per praticare attività sportiva? Cosa: tesserino universitario per usufruire di agevolazioni nell’accesso agli impianti sportivi del CUS – Centro Universitario Sportivo. Dove: Lungomare Starita 1/a-b, Bari; per informazioni: Segreteria CUS (dal lunedì al venerdì 9,15-12,45 e 15,45-20,00; sabato 9,15-12,45); recapito telefonico: 080 5341779/5344865; indirizzo e-mail: info@cusbari.it. Come: per attivare il tesserino è necessario recarsi presso il CUS con una fototessera, copia del pagamento della tassa d’iscrizione all’Università per l’anno in corso, modulo di iscrizione (scaricabile dal sito www.cusbari.it > Universitari) e un certificato medico di sana e robusta costituzione per attività non agonistica. Quando: in qualunque momento dell’anno, a seconda dei corsi che si intende frequentare. Link: www.uniba.it > Studenti > Servizi e opportunità > CUS – Centro Universitario Sportivo.
Si possono svolgere laboratori teatrali tramite l’Università? Cosa: laboratorio teatrale CUTAMC (Centro Universitario per il Teatro, le Arti Visive, la Musica, il Cinema). Dove: la sede del CUTAMC si trova nella Strada S. Giacomo, Borgo Antico, nei pressi della Cattedrale; recapito telefonico: 080 5714621/5243270; direzione: Grazia Distaso (facoltà di Lettere e filosofia, palazzo Ateneo, piazza Umberto I, recapito telefonico: 080 5714361, indirizzo e-mail: g.distaso@lettere. uniba.it. Come: per poter prendere parte alle selezioni per il laboratorio del CUTAMC è necessario prendere visione del bando apposito. Quando: consultare periodicamente il sito dell’Uniba per accertarsi della pubblicazione del bando. Link: www.uniba.it > Studenti > Servizi e opportunità > CUTAMC – Centro Universitario per il Teatro, per le Arti visive, la Musica, il Cinema.
È possibile svolgere periodi di lavoro retribuito per l’Università? Cosa: collaborazione part-time per un totale di 150 ore da svolgere presso strutture dell’Università come biblioteche, laboratori o altro. Dove: Area Diritto allo Studio, Centro Polifunzionale Studenti (piazza Cesare Battisti), I piano; orari di ricevimento: dal lunedì al venerdì 10,00-12,00; martedì e giovedì 15,00-17,00. Come: è necessario possedere determinati requisiti di reddito e merito, consultabili sull’apposito bando. Quando: consultare periodicamente il sito dell’Uniba poiché il periodo di uscita del bando può variare. Link: www.uniba.it > Studenti > Collaborazioni studentesche (Part-time).
L’Università incentiva lo studio in altri Paesi? Cosa: finanziamento ricerca tesi all’estero. Dove: palazzo Ateneo, I piano; chiedere della responsabile del servizio, Santina Bruno (santa. bruno@uniba.it). Come: consultare il regolamento sul sito dell’Uniba (vedi ‘Link’). Quando: in qualsiasi momento dell’anno. Link: www.uniba.it > Ateneo > Statuto e regolamenti > Didattica > Regolamento per viaggi di istruzione ed esercitazioni in campo.
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Vita da fuorisede
Vademecum del pendolare: last train home Rubrica pratica di consigli di sopravvivenza per Cenerentoli e Cenerentole di provincia a cura di Antonella Di Marzio Troppo spesso cause nobilissime si combattono su Internet, con un accanimento social da tunnel carpale: «Condividi per salvare la foca monaca dallo zitellaggio»; «Pianta l’albero della cuccagna con un click»; «Firma la petizione per regalare un sorriso alla iena ridens». C’è però un gesto concreto che voi, residenti nella city, potete compiere per spargere un po’ di agape laddove serva: concedere un giaciglio per una notte ai pendolari. Donerete loro assaggi di mondanità, li esenterete da confessioni di incapacità alla guida; ma, soprattutto, li salverete da quel caravanserraglio che può rivelarsi l’ultimo treno per casa. Sì, perché quando la luna si fa alta in cielo, le placide maree della decenza si inabissano. Le insidie sono ingannevoli e numerose: beffati dall’aver interrotto sul più bello baci brindisi e sospiri, o atterriti da quell’oretta di agonia tra la fine dello straordinario e il loro letto, i pendolari tiratardi dovranno attuare strategie complesse al fine di restare umani. Variopinte comitive preadolescenti, reduci dalla presentazione dell’ultimo (e primo) disco di qualche neoidolo delle folle, rivelano a sorpresa un livello di pericolosità abbastanza basso; l’unica rogna è
costituita dal bonus canoro, che aumenta esponenzialmente al cospetto di menti deviate dai talent show (consiglio di lasciar perdere: la leggenda parla di modelle scoperte nei fast food, di cantanti imboscati nei cori delle chiese; non fa menzione di wannabe superstar da treno). Ora mi rivolgo a voi, cari pendolari: potrete facilmente arginarli spostandovi sul lato opposto del vagone: il galateo del treno, al cospetto di rumore visibile, vi autorizza a farlo. Tanto più se sfodererete a corredo una gentile aria di scuse e un minaccioso tomo da finto-studiare. Le cose si fanno già più complicate se il vostro vicino pare andare a male. Non importa che egli sia muratore o architetto, oscuro studente o chiarissimo professore, telefonista o quadro aziendale: il lavoro nobilita l’uomo, ma a fine giornata lo fa anche un po’ puzzare. Spostarsi sfocia nell’insensibilità e nella maleducazione, tanto più se considerate che anche voi potreste essere un tantino stagionati, in senso formaggesco. Vi rimane però la possibilità di appoggiarvi al finestrino o al bracciolo, in senso opposto; e sperare che i miasmi corporali risultino soporiferi più che venefici. Dormire è invece una pia illusione al cospetto di certe pericolose, ancorché sottovalutate, donzellette di
Il menù del fuorisede
DOs & DON’Ts dell’Università
a cura di Francesca Martines
Scontatezze e ovvietà di cui la vita vera non potrà mai fare a meno
Cucinare è un’arte. L’arte di saper scegliere gli ingredienti, di combinarli tra loro, di cuocerli nei modi giusti. Sono azioni che richiedono tempo. Esattamente quello che uno studente – ancor più se fuorisede – non ha. Non ne ha per fare la spesa, né per pensare a cosa cucinare. Tranquilli: a questo ci pensiamo noi. A voi non resta che il piacere di gustare ciò che «Pool Academy» vi suggerisce di preparare, in pochi minuti, con pochi euro, con poca fatica.
a cura di Antonella Di Marzio
Iniziamo con una semplice ma gustosissima Pasta, pane e pomodoro. Soffriggete i pomodorini con l’aglio – attenzione: non fate uso di tale ingrediente se pranzate in compagnia, ne andrebbe della vostra vita sociale – e della mollica di pane; non ha importanza se si tratta di pane bianco, pan carré, di grano duro o tenero: il risultato è sempre garantito! Se per caso, in dispensa, aveste anche del peperoncino o delle acciughe… non risparmiatevi e aggiungeteli al soffritto, nel quale poi salterete la pasta scolata al dente. campagna. La loro dotazione di occhiali da miopia da studio e di chiavi onorarie della biblioteca dipartimentale è una copertura che tiene soltanto alla luce del giorno o del neon. Rilassate confidenze semidialettali squarciano la loro maschera sgobbona, grondante desideri repressi di evasione dalla provincia e di liberazione sessuale: le loro chiacchiere ad alta voce sul grado di fattibilità di categorie maschili vi si insinueranno nella coscienza, veicolate all’odore delle loro gomme dai colori shocking, allegramente ruminate a bocca aperta forse per protesta contro la femminilità imposta. Il volume delle loro confessioni, più alto di quello medio delle cuffie, esclude anche la lettura e il sonno come strategie di resistenza passiva. Non vi rimane che ricascare in quel Ruzzle a cui non giocavate da cinque giorni, dieci ore e tre minuti, sperando di trovare ispirazione nelle loro esternazioni colorite. Cari pendolari, vi percepisco esausti ormai, ma siamo giunti al capolinea. Ci rivediamo sul prossimo treno; però prima, per favore, dormite almeno otto ore filate.
Come secondo piatto, ecco servita la Cotoletta Crik Crok. No, non state sbagliando: parliamo esattamente delle patatine fritte in busta, lo spuntino segreto – o spudorato – di migliaia di studenti che, per i nostri amici fuorisede alle prese con i fornelli, diventerà il tocco da maestro per creare una vera e propria opera d’arte culinaria. Passate il petto di pollo nell’uovo sbattuto e impanatelo nelle patatine sbriciolate, infornate per una decina di minuti e gustate caldo! Non avete l’uovo? Sostituitelo con l’olio… sarà ancora più croccante ma… un po’ meno salutare… Non avete il pollo? Sostituitelo con una fetta di prosciutto cotto tagliata spessa… sarà una delizia per il palato e per il portafoglio! Non avete le patatine in busta? Compratele: non si sopravvive da fuorisede senza snack ipercalorici…
DO: Presentarsi immediatamente a tutti i nuovi coinquilini: accertarsi della loro identità non è scontato come sembra. Vi eviterà spaventi nel cuore della notte e tentativi di sfratto a legittimi affittuari. DON’T: Condividere informazioni di servizio alle sette di mattina: non è divulgazione, è circonvenzione d’incapace. DO: Arruffianarsi i nuovi coinquilini con dolci o cene inaugurali. Però prima assicuratevi di saper cucinare. DON’T: Far scontare ai coinquilini le proprie mani bucate. Se non arrivate a fine mese, scroccate a chi volete, ma a loro no: avranno sempre un modo in più per vendicarsi. DO: Annunciarsi rumorosamente se la casa pare stranamente silenziosa. Farete sì che attività private restino tali senza troppi imbarazzi. DON’T: Imbastire una duratura liaison tra coinquilini. L’eros invecchia in fretta al cospetto dei rispettivi outfits casalinghi.
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Bari Città Universitaria The Hub Bari Dall’idea al progetto a cura di Claudia Colonna Hub Bari si trova all’interno della Fiera del Levante (viale Volga, pad. 129) Membership Le modalità Unlimited, Anchor e Hub Studios prevedono l’utilizzo illimitato dello spazio di co-working e una scrivania dedicata. Le modalità Hub 100, Hub 50 e Hub Connect prevedono l’utilizzo limitato dello spazio di co-working e la scrivania non dedicata. Prezzi Variano da 25 a 600 euro al mese Info e contatti Sito: bari.the-hub.net/ E-mail: info@hubbari.net Orari di apertura Da lunedì a venerdì, dalle 8,30 alle 19,30
The Hub, una esperienza di co-working: nata a Londra nel 2006, è presente anche a Bari. Si tratta di uno spazio di lavoro collaborativo che mette a disposizione un luogo fisico e virtuale per giovani professionisti, startuppers e freelancers con unico obiettivo: fare impresa in modo innovativo. Il coworking consiste nell’unire più professionalità per arricchire e migliorare il proprio modo di lavorare, con lo scopo di favorire l’innovazione sociale e la creatività e di valorizzare la territorialità. Intervistiamo Giusy Ottonelli, tra le ideatrici dell’Hub barese, che ha sede nel padiglione 129 della Fiera del Levante. La rete internazionale di Hub oggi è presente in numerose città fra cui San Francisco, Londra, Milano, New York, Mumbai. Come nasce Hub a Bari? Dall’incontro di cinque persone che avevano fatto un’esperienza all’estero, dal desiderio di racchiudere diverse professionalità e di rivitalizzare uno spazio, grazie alla collaborazione che c’è stata con la Regione, l’Ente Fiera, ARTI Puglia. Ed è un progetto totalmente autofinanziato. Quali sono gli obiettivi e le opportunità che offre? Il nostro obiettivo principale è di far nascere quanti più progetti possibile nell’ambito dell’innovazione sociale: progetti che mirino al territorio barese e pugliese e che diano un valore aggiunto a tutta la nazione. Il macro-obiettivo di Hub è quello di cambiare il mondo. Si tratta di una visione un po’ utopistica ma è lo scopo a cui tendiamo.
Le possibilità che offre Hub sono svariate: innanzitutto una rete fisica di spazi presente a Bari e altrove, una rete virtuale (Hub Net) e soprattutto la possibilità di connessione e il confronto costante con gli altri professionisti che lavorano in ambiti diversi. Quali e quante professionalità racchiude? Con cinque mesi di lavoro ci sono già 85 membri, le professioni sono svariate, vanno dall’architettura al design, fino al marketing, alla formazione, all’informatica, alla ristorazione e molte altre. Ci sono delle connessioni trai vari Hub? Ogni Hub nella città rappresenta i bisogni e le peculiarità di quel territorio, per cui è importante rapportarsi in una dimensione nazionale. In pratica c’è un incontro ogni tre o sei mesi con gli altri Hub internazionali e italiani. Come si entra a far parte di questa realtà? Basta scrivere una e-mail a info@hubbari.net per fissare un incontro con noi. Offrite un supporto agli hubbers? Sì, un progetto che si chiama ‘Build up’, realizzato con Hub Madrid e Team Academy attraverso il processo meet by doing; si tratta di un corso di accelerazione per giovani ragazzi che hanno un’idea e vogliono trasformarla in un progetto.
I Radiodrammatici di ‘Schegge d’Ortaet’ Ascoltare il teatro nell’etere a cura di Lorena Perchiazzi Sembrerebbe un ossimoro: fare teatro alla radio. Come è possibile pensare di conciliare quella che per eccellenza è l’arte della presenza e del corpo dell’attore, dello spazio condiviso, con un mezzo di comunicazione esclusivamente sonoro? A quanto pare, invece, si può: non solo il teatro può essere ascoltato, ma la radio avrebbe, contro ogni aspettativa, il potere di esaltare l’interpretazione degli attori, corporizzando la parola e rappresentando con i suoni luoghi, ambienti e azioni. Un’impresa senza dubbio non facile, ma per questo accattivante: è la sfida raccolta dai ‘Radiodrammatici’, il nuovo programma radiofonico tutto made in Puglia realizzato dalla compagnia teatrale ‘Schegge d’Ortaet’ in collaborazione con RadioLuogoComune, partito sulle frequenze di Radio Bari Città Futura (FM 101.00) lo scorso 5 marzo. ‘I Radiodrammatici’ ha una buona dose di humor nonsense: il progetto nasce dalla passione e dalla follia di tutte le persone che hanno contribuito alla sua realizzazione. Le voci che ascolterete sono di Marco De Santis, Massimiliano Urso, Claudio Ciraci, Antonello Arciuli, Silvia Cuccovillo e Domenico Palmieri, tutti attori della compagnia teatrale. Ha poi preso parte al progetto Greta, una cagnetta che interpreta il ruolo di Herpes, un cane trovatello. Ma perché complicarsi la vita con il radiodramma? Marco De Santis – che assieme a Massimiliano Urso e Roberta Barbieri dirige la compagnia teatrale ‘Schegge d’Ortaet’ e può vantare già numerosi premi (fra cui il primo posto per la regia con lo spettacolo ‘La Tredicesima Notte’ a Talia nel 2011) – risponde così: «Beh, in realtà non c’è una vera risposta. Fare radio significa apparentemente fare un passo indietro rispetto a quelli che sono i più comuni mezzi di
comunicazione e potrebbe addirittura significare rivolgersi volutamente a un pubblico ristretto ed elitario. In realtà penso che ogni mezzo di comunicazione conserva in sé delle regole e delle strutture drammatiche con un potenziale molto alto. Fare teatro o radio, o ancora cinema, significa principalmente studiare, capire, comprendere queste regole e piegarle a un’idea. E così abbiamo fatto. È una sfida, senza grandi aspettative, ma comunque audace». Una sfida aperta a un pubblico eterogeneo, di tutte le classi e le età. Ma il bello della radio, al giorno d’oggi, è la sua diffusione anche sulle piattaforme virtuali: Internet e lo streaming hanno permesso alla radio di potenziarsi e di arrivare anche alle nuove generazioni, che utilizzano il web come principale canale di comunicazione. ‘I Radiodrammatici’ è «un’epopea radiofonica» in cui l’enfasi e la grandezza creano un effetto grottesco che si sposa perfettamente con l’umorismo nonsense di cui è pervasa. Tutto è finzione, come nel teatro, ma rendere credibile quella finzione è il passo migliore che avvicina una qualsiasi forma d’arte a essere specchio dei suoi tempi. E la radio in tal modo stimola il pubblico alla partecipazione fantastica, invitandolo a concentrarsi sulle voci, le musiche e i rumori. Per questa prima stagione sono state registrate in tutto, finora, dieci puntate: la puntata zero è andata in onda lo scorso 5 marzo e, a partire dal 6, va in onda ogni mercoledì. Il programma può essere ascoltato anche in streaming sul sito www.baricittafutura.fm e in podcast sul sito www.radioluogocomunenetwork.it.
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Professioni in proiezione A cura di Quasar Associazione per la Formazione Professionale
La bussola del web a cura di Deborah Baldasarre
Come orientarsi nel variegato panorama digitale, dove le accelerazioni e innovazioni sono all’ordine del giorno? Prediligere le competenze o le attitudini e il talento nella costante ricerca di se stessi e del proprio percorso professionale? Potrebbe essere questo il dilemma (ma anche la chiave risolutiva) delle future generazioni di professionisti del web e, perché no, anche di coloro che hanno già intrapreso questo percorso. Giulio Xhaet - esperto di comunicazione e nuovi media e autore del libro Le nuove professioni del web ci ha raccontato la sua visione umanistica della professione digitale.
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Sei orientato ai talenti e alle attitudini piuttosto che alle competenze. Perché? La Rete di ultima generazione ha portato alla ribalta nuove figure professionali. Fino a qualche anno fa Internet era costruito e sviluppato da ‘smanettoni’ informatici e, in generale, da figure di stampo ingegneristico, coloro che lavorano ‘dentro’ al codice informatico. Gli attuali professionisti del web sono invece persone dotate di capacità e talenti vicini alla comunicazione, al marketing, alla creatività: lavorano ‘sul’ codice informatico, per meglio dire sono professionisti del codice umanistico. Se per il primo le competenze sono predominanti – quindi quanto più conosco strumenti e linguaggi professionali in modo approfondito e specifico, tanto più costituisco potenzialmente una buona risorsa professionale – per il secondo sono le attitudini a essere preponderanti. Inoltre, la rivoluzione digitale ne regala alcune nuove di zecca: l’attitudine al tempo reale (Real-Time Attitude); l’attitudine all’integrazione online/offline always on (All-line Attitude); l’attitudine alla crossmedialità co-creata con l’utenza (Transolving Attitude); l’attitudine alla ricerca e selezione delle fonti e delle news (InnovHunting Attitude). Quali sono le figure più ricercate e quali quelle più remunerate? Tendenzialmente, il SEO (che è a cavallo tra codice informatico e codice umanistico) è ben remunerato dalle aziende, ma è richiesto anche chi si occupa di analisi, quindi Web Analyst ed e-Reputation Manager. Per i Community Manager la situazione è estremamente flessibile: sono molto richiesti, ma non sempre vengono proposti loro buoni contratti. I creatori di contenuti, soprattutto junior, sono tendenzialmente i professionisti più in difficoltà in
Profili Professionali ICT Un cenno a parte merita il gruppo di lavoro italiano Web Skills Profiles, nato all’interno della sezione italiana dell’International Webmasters Association/The HTML Writers Guild (IWA/HWG) proprio per definire i profili e i relativi percorsi formativi relativi al settore del web, anche se con riferimento all’ICT. Un approccio inevitabilmente diverso dal precedente, come emerge dalle parole del responsabile Pasquale Popolizio, che dichiara che «il talento è un elemento soggettivo che non può essere valutato e in cui talvolta ci si rifugia quando non si possiedono competenze; l’attitudine, invece, è una predisposizione. La professionalità si basa su competenze certe, quantificabili e qualificabili e la conoscenza è basata sullo studio continuo e sul confronto. La Rete Internet e il web richiedono conoscenza e professionalità». E continua: «Il nostro lavoro ha lo scopo di definire i profili professionali europei ICT di terza generazione che siano maggiormente aderenti al settore del web; lo scopo del documento è di garantire pertanto una chiara identificazione delle competenze e conoscenze richieste a chiunque operi nelle 21 figure identificate dall’associazione – con qualsiasi inquadramento lavorativo». Per approfondimenti: www.skillprofiles.eu
quanto la Rete ci rende tutti creatori potenziali di contenuti e se ‘lo fanno tutti – e molti gratuitamente – chi sei tu per pretendere un lauto stipendio?’. Un impasse da cui non sarà facile uscire. Tra le professioni del web prese in esame, ve ne sono alcune più affini a una tipologia di lavoro subordinato piuttosto che alla libera professione? Sono tutte professioni adatte sia al freelancing che al lavoro di agenzia e in azienda. Il punto è che il mondo del lavoro, in generale, sta decisamente mutando fisionomia: sempre più persone, soprattutto la generazione dei cosiddetti ‘Millennials’, si muovono tra esperienze in agenzia, mentre affrontano stage e part-time in azienda, e intanto provano anche la strada del freelancing - a volte per passione, a volte per necessità. Come tendenza generale, il numero di questi ultimi cresce esponenzialmente. Sono d’accordo con gli statunitensi, che affermano: “Freelance is the new full-time”. Siamo multitasking tanto nell’utilizzo della Rete quanto nella ricerca quotidiana della realizzazione dei nostri sogni nel cassetto, che si moltiplicano e si fondono tra loro. Possiamo ritenere valida o meno la tua classifica in tutto il mondo occidentale? Da un lato il digitale è un ambiente di per sé internazionalizzante e delocalizzato, a livello professionale e personale; dall’altro ogni nazione si appropria delle nuove idee degli altri Paesi, rendendoli in brevissimo tempo degli standard. Terminologicamente poi il web riprende parole inglesi. A livello concettuale la risposta è quindi sì: tutti i ruoli descritti nel libro sono presenti e attivi in Italia e negli altri Paesi occidentali.
La tendenza è spesso quella di affidare più mansioni alla stessa figura che ha competenze e attitudini basilari trasversali… Le nuove professioni del web sono per loro stessa natura strettamente interconnesse e convergenti. È giusto possedere un know-how di base su tutte, perché senza la consapevolezza dell’una, svolgerò meno bene il lavoro dedicato su un’altra e non potrò mai sperare di creare e gestire progetti integrati di ampio respiro. Solo dopo essermi confrontato con le professioni del web in toto saprò qual è il mio talento (o quali siano i miei talenti), quindi cosa mi appassiona maggiormente e dove riesco a ottenere i risultati migliori, arrivando a specializzarmi come ‘esperto di’. La multicanalità, spesso citata, è associata e fa rima con multiprofessionalità. Inoltre, quasi tutte le aziende non possono realisticamente permettersi di assumere tanti professionisti digitali e, anzi, non ne hanno un reale bisogno: servono poche figure capaci di lavorare in team, con le attitudini e le conoscenze giuste. Quindi da questo punto di vista apriamo mentalità e voglia di apprendere: esiste una realtà vasta, multidisciplinare e in continuo fermento che ci aspetta, a portata di un click, ed è il mondo del codice umanistico. Prendete la vostra bussola, fiutate i cambiamenti e adattatevi prontamente al nuovo contesto, evolvendo la vostra professionalità. Siate come il Nasofino e il Ridolino di Spencer Johnson, perché nessun ‘formaggio’ rimane stabile e immutato nel web per più di qualche secondo... Per approfondimenti: www.professionidelweb.it
Presentazione del libro di Giulio Xhaet Le nuove professioni del web a SMAU
Potete inviare le vostre riflessioni e le segnalazioni sugli argomenti di vostro interesse scrivendo a marketing@ quasarformazione.eu. La sede è a Putignano, via Martiri delle Foibe, 1. Tel. 080.4059370.
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Lo voglio! Rassegna di varie (in)utilità a cura di Ilaria Lopez
Vintage dal futuro
Febbre da plettro
Guinness prêt-à-porter
Negli ultimi anni la tecnologia ha fatto passi da gigante – iPhone, iPod e iPad vanno per la maggiore, si sa. L’unica cosa che questi oggettini ancora non riescono a fare è il caffè. Quelli di voi che sperano che un giorno si inventi un’applicazione che assolva anche questo compito, nel frattempo possono consolarsi con un gadget molto interessante: Arcadie, un mini cabinet per iPod touch e iPhone, disponibile su www.doxbox.it. Grazie a questa mini cabina potrete trasformare il vostro iSupporto in un vero e proprio videogioco vintage. Avete presente quei bei videogiochi citofonici con due joystick delle sale giochi? Grazie ad Arcadie potrete ricrearvi la vostra personale sala giochi portatile. Come farlo? Semplicissimo: basta inserire il vostro iPhone/iPod touch dentro Arcadie e… che vinca il migliore!
Tutti i chitarristi sanno quanto sia difficile ritrovare i plettri – persi nei meandri dei cuscini dei divani, smarriti fra le tenebre del sotto-letto, mangiati dal cane. Dramma assoluto quando ci si accorge di non avere più plettri nelle tasche/nel portafogli/nei calzini! Grazie a un comodo e pratico aggeggino, cari chitarristi, non sarete mai più frustrati dalla perdita improvvisa del vostro amato plettro: Thinkgeek.com propone il DIY (Do It Yourself) Guitar Pick Punch. Simile a una spillatrice, il Guitar Pick Punch è in grado di produrre una quantità infinita di plettri: tutti quelli che la vostra immaginazione riesce a concepire! Le modalità d’uso sono molto semplici. Se la vostra carta di credito è scaduta non gettatela: spillatela. Il risultato sarà un vero e proprio plettro fai-da-te. Semplice, pratico e indolore.
Chi dice birra dice Guinness: una delle regole d’oro non scritte degli amanti di quella bevanda alcolica a base di malto che ci accompagna da secoli. Noi e il nostro povero fegato affaticato. C’è un modo però per continuare ad amare la birra senza i fastidi di un fegato sovraccarico. Su www.etsy.com troverete la soluzione che fa per voi: la Beer Soap, la saponetta alla birra. D’altronde alla base della birra ci sono malto e luppolo, elementi naturali perfetti per un prodotto per il corpo. Con la Beer Soap avrete la vostra Guinness letteralmente a portata di mano; in più, la Beer Soap garantisce quelle ‘mille bolle blu’ che tutti i fan delle saponette naturali cercano a ogni lavaggio. E in più la pelle beneficerà delle straordinarie proprietà naturali delle erbe della birra. L’unico problema sarà resistere alla tentazione di assaggiare la saponetta.
Tutte le informazioni utili sono disponibili sul sito del Comune di Roma al link: http://bit.ly/120EHOC
Con RECIT i traduttori fanno rete Il post lauream per chi studia Lingue a cura di Marianna Silvano Il destino di chi traduce è spesso quello di rimanere nell’ombra: c’era una volta il traduttore traditore che viene inaspettatamente tradito. Ma qualcosa sembra cambiare grazie a mamma Unione Europea, che ama i suoi piccoli pargoli senza i quali neanche potrebbe esistere. Nel 2001 nasce il RECIT. Per i francofoni: RECIT e non récit. Non è un ‘racconto’, né un ‘resoconto’, e nemmeno un ‘conto’, bensì l’acronimo di Réseau Européen des Centres Internationaux de Traducteurs littéraires, una rete a livello europeo che unisce diverse associazioni, il tutto per tutelare la specie protetta del traduttore. Ci sono centri in Spagna, Belgio, Svizzera, Francia,
Germania, Inghilterra e, last but not least, in Italia. Il nostro Belpaese è entrato a far parte del RECIT con la Casa delle Traduzioni: si tratta di un centro dotato di ostello, biblioteca e sala conferenze, che si prefigge di ospitare gratuitamente i traduttori stranieri che si occupano di traduzioni dall’italiano. La biblioteca mette a disposizione materiali utili per il lavoro del traduttore: dizionari, manuali e libri di critica, nonché il fondo donato da Carlo Cecchi delle opere tradotte da Elsa Morante e i testi donati dalle case editrici Europa Editions e Voland. La Casa delle Traduzioni è nata a Roma nel 2011 e si dimostra molto attiva
nell’organizzazione di eventi, presentazioni di progetti editoriali, workshop di traduzione, seminari, conferenze, insomma di tutto ciò che pertiene al mondo della traduzione letteraria. È un punto di riferimento che mette in contatto i traduttori di tutta Europa, permettendo di creare utilissime opportunità. Non solo: vanta un partenariato con PETRA (Piattaforma Europea per la Traduzione Letteraria) – progetto che si occupa di fornire un resoconto dettagliato e preciso sulla situazione dei traduttori nell’UE – e con il sindacato italiano dei traduttori.
Gazzettino estero
incoraggiarne la visione parlando di Luis C.K., uno degli irriverenti autori del programma, nonché comico di grandissimo successo. E mentre in un’intervista a «Vanity Fair» ci informa che Gogol’ è tra i suoi autori preferiti, il «NYT» ne esalta le gesta con un intero articolo di elogio al suo stile irriverente e dissacrante, grottesco e paradossale (proprio come quello di Gogol’). Un esempio fra tutti: l’attenzione di entrambi verso i difetti fisici altrui, che diventano motivo non solo di riso, ma di riflessione. Quindi, mentre fate zapping, fermatevi a guardare questi programmi, sono davvero imperdibili e sicuramente dopo non sentirete la mancanza del made in Italy.
Now. Mentre all’estero si godono le conversazioni dei due grandi scrittori, per il momento accontentiamoci di qualche inedito postato dal «New Yorker». Si tratta di una lunga chiacchierata sullo sport: inaspettatamente riaffiorano i sogni della giovinezza, le brucianti sconfitte, un pareggio a una partita di scacchi. Si parla di bellezza estetica, di sindrome edipica dello sport, di intensità nella passione, della ferocia dello scontro. Si parla di eroi, football a stelle e strisce, libri abbandonati per guardare una partita di cricket. E se Coetzee subito si dimostra tormentato, Auster pare più conciliante: sembra divagare, più che formulare un’idea compiuta. Mentre Auster si perde nelle nubi dei suoi ricordi infantili mischiati a quelli dei suoi due figli, Coetzee sembra ancora rimuginare su quella dannata partita a scacchi che lo tormentò a lungo. E pensare che la conversazione era partita da una brevissima considerazione: «Perché perdere il mio tempo curvo di fronte allo schermo del televisore per guardare dei ragazzi che giocano?».
Rassegna stampa dal mondo a cura di Marianna Silvano È inutile negarlo: quando sentiamo parlare di stampa estera ci vengono le palpitazioni come per una cotta adolescenziale. E giusto per farvi venire le farfalle allo stomaco, ecco qualche notizia dal mondo! Gogol’ redivivo al David Letterman Show Vi immagino in pigiama, sul vostro divano, mentre sgranocchiate qualcosa di ipercalorico (e già vi sentite in colpa); brandite il vostro telecomando come se fosse lo scettro del potere e impotenti fate zapping in TV. Gran parte della produzione che vi sorbite in questo preciso istante di colpevole inedia è costituita da format comprati dall’estero. Ma possiamo anche imbatterci nei programmi originali: avete mai guardato il David Letterman Show? Vi conviene farlo, è una vera, pluripremiata chicca di comicità. E pochi giorni fa il «New York Times» ci ha fornito un motivo in più per
Scacco matto e divagazioni sullo sport È attesa in Italia per quest’anno la pubblicazione della corrispondenza tra Paul Auster e John Coetzee. Sembra che i due abbiano incominciato il loro rapporto epistolare nel 2008: da allora sono state vergate molte pagine, trattati svariati argomenti ed è stato stretto un forte legame. La raccolta è già stata pubblicata nel 2012 in Spagna col titolo Aquì y Ahora e proprio questo mese in America col titolo Here and
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GIRAMONDO
Spring break a cura di Maddalena Candeliere Quello che prima era un grande evento solo per gli statunitensi, da pochi anni è diventato il momento più atteso dell’anno per gli studenti di mezzo mondo. Stati Uniti, Canada, Giappone, Corea, Cina, Francia, Croazia: sono questi i Paesi in cui ha preso piede la ‘salutare’ usanza dello spring break, la ‘vacanza di primavera’ concessa agli studenti universitari all’inizio della bella stagione. Una settimana di puro, ma direi non proprio sano, divertimento all’insegna di feste e giochi sfrenati. Gli studenti si concedono una pausa dallo studio per dedicarsi interamente allo svago. Mete predilette sono i luoghi turistici, soprattutto se tropicali… con mare, sole e musica ventiquattro ore su ventiquattro. Ragazzi e ragazze si lasciano trasportare dalla frenesia durante serate a tema, beach party, attività in spiaggia con animazione, dj, live band e ancora possibilità di fare canottaggio e accedere a club sportivi di vari tipi. Insomma ce n’è per tutti i gusti. Vediamo allora come si svolge l’evento nei vari Paesi. Al primo posto gli Stati Uniti, pionieri della festività che può comprendere un periodo che va dalla fine di febbraio fino a metà aprile, ma che generalmente si svolge nella prima metà di marzo. Località preferite: prima fra tutte Miami, considerata la numero uno in termini di vita mondana, divertimento no limits e night life, con le sue bianche spiagge da urlo che
vanno da South Beach fino a Sunny Isles, dove sole, mare e continui party sono i must dello spring break americano nella città che ospita il WMC (Winter Music Conference), il maggior raduno mondiale di musica e discografia che trasforma tutta Miami in una immensa discoteca. A seguire Cancun, Acapulco e Puerto Vallarta sono le altre mete ambite dagli spring breakers. Canada. Qui l’evento si svolge a febbraio e viene anche chiamato reading break. Per quanto riguarda il Giappone e le località dagli occhi a mandorla, invece, lo spring break si svolge fra la fine dell’anno accademico e l’inizio del successivo: periodo che corrisponde agli ultimi giorni di marzo e ai primi di aprile. In Francia sono gli studenti di medicina a farla da padrone, con la vacanza di primavera dedicata principalmente alle località sciistiche. Destinazione Novalja Zrce per la Croazia, che concede quattro giorni di feste e divertimento senza limiti. Parola d’ordine, quindi, festa no stop! Scegliete una località (suggerirei balneare) tra le più cool e preparatevi a lasciarvi andare, evitando possibilmente di giungere a risultati devastanti… Preparatevi, insomma, a una vacanza da leoni!
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Lo spazio dell’arte Inaugurata la nuova sede di ARTcore a cura di Stella Dilauro In alto: uno scatto realizzato durante il vernissage della mostra bi-personale Custom Imagery, dedicata ai lavori di Gemis Luciani e Fabio Santacroce.
ARTcore, galleria di arte contemporanea e luogo d’incontro, inaugura a Bari una nuova sede operativa in via De Giosa, 48. Il nuovo spazio – più ampio rispetto al precedente in via De Rossi – è situato in un appartamento al primo piano ed è composto da due sale espositive per mostre personali e collettive e una zona living, dove verranno organizzate tavole rotonde, incontri culturali, conferenze e workshop. In questo ambiente, l’arte contemporanea diviene soluzione esperienziale, in cui la location, le opere e gli artisti sono elementi di una visione multicentrica e dagli stimoli eterogenei. È con questo spirito che l’ex direttrice di Fabrica Fluxus, Roberta Fiorito, e i soci fondatori di ARTcore, Mara Nitti e Kostantinos Karapidakis, decidono di unire le forze per dar vita a una nuova sede dedicata all’arte e alla cultura. La linea espositiva è orientata alla ricerca, alla sperimentazione e all’innovazione artistica; lo scopo principale è di avvicinare all’arte contemporanea quante più persone possibile, tramite l’allestimento di un ambiente accogliente e di interscambio, ma soprattutto grazie alla predilezione per progetti che diano un supporto concreto alla compagine sociale locale, che ha già avuto modo di mostrarsi reattiva. Dopo le esperienze laboratoriali dedicate a bambini e adolescenti, nonché all’integrazione sociale dei disagiati psichici, le due direttrici hanno deciso di diversificare ulteriormente l’offerta e ci hanno fornito una anticipazione: l’avvio, nel mese di giugno, di un workshop per curatori, pensato per chi intenda approcciarsi agli aspetti organizzativi delle mostre. All’intervento diretto sul territorio, ARTcore affianca altresì una vocazione internazionale: «Bisogna agire locale e pensare globale», dice Roberta Fiorito, «a breve
parteciperemo a un’importante fiera d’arte contemporanea ad Atene». In concomitanza con l’inaugurazione della nuova sede si è tenuto il vernissage della mostra bi-personale Custom Imagery, dedicata ai lavori di Gemis Luciani e Fabio Santacroce. I due giovani artisti pugliesi, pur partendo da approcci molto differenti, si sono entrambi dedicati alla rielaborazione di tematiche correlate all’imperialismo culturale del mondo massmediatico e commerciale. Gemis Luciani non intende lasciar trasparire alcuna forma di giudizio o assegnazione di valore: partendo da un immaginario commerciale – quello delle riviste – compie il lavoro di archiviazione di un’intera epoca storica, mostrando così l’estetica della contemporaneità attraverso la sua rappresentazione editoriale. Fabio Santacroce, invece, sembra più legato a una forma di critica sociale, quasi ‘politica’. Per le sue opere seleziona immagini stock utilizzate per la promozione nel settore bancario/finanziario o del customer service, le modifica o le associa ad altre figure. Il suo interesse è rivolto in particolare alle immagini che fanno leva sulla componente ‘motivazionale’: caratterizzate da volti rassicuranti, celano però una realtà ambigua e sono rappresentative di un allargato processo di manipolazione e omologazione culturale. Utilizzando gli spazi espositivi messi a disposizione dalla galleria ARTcore, Luciani e Santacroce hanno potuto strutturare un dialogo in maniera autonoma e indipendente, fornendo con l’accostamento delle loro opere molteplici stimoli interpretativi per l’osservatore, che diventa parte integrante del processo artistico.
Il mondo in mano alle adolescenti Gli scatti fotografici di Teenage Stories a cura di Maddalena Candeliere Guardando per la prima volta questi splendidi scatti, la mia mente è andata subito alle Avventure di Alice nel Paese delle meraviglie nel momento in cui la piccola protagonista del romanzo di Lewis Carroll diventa grande e poi piccina. Qui, però, non ci troviamo fra le pagine di un libro, ma nella mente della giovane fotografa tedesca Julia Fullerton-Batten, ideatrice dell’opera Teenage Stories, che vuole riprodurre l’idea utopica di un mondo ‘governato’ dalle adolescenti, in questo caso rappresentate da altissime modelle. L’artista ferma nella sua opera tratti e momenti di vita personale, in particolar modo del periodo vissuto tra Germania e Stati Uniti, dove si trasferì con tutta la famiglia. Le ragazze di questi scatti ricalcano l’immagine sua e delle sue sorelle alle prese con la vita di tutti i giorni, i problemi affrontati nel rapporto madre-figlia e in generale i traumi del periodo adolescenziale: il trasferimento in primis, e poi i viaggi, la casa al mare, l’incidente in bicicletta… In modo surreale e con
reminiscenze gulliveriane, Julia ripercorre i suoi ricordi e li trasferisce nella sua opera con un estro artistico del tutto particolare. L’idea di fondo è quella di catturare le immagini di queste modelle giganti in netta contrapposizione con la realtà circostante, costituita da piccoli paesaggi progettati in studio e costruiti poi in scala ridotta. La realizzazione di questi ambienti e lo sguardo delle ragazze che osservano il mondo dall’alto verso il basso serve a trasmettere all’osservatore la visione di un universo in cui il potere sociale sia in mano alle adolescenti. Con il suo estro artistico, la promettente fotografa tedesca, molto quotata nel mercato della fine art, ha realizzato, con un risultato alquanto singolare, un’opera che si è aggiudicata il primo premio al Prix de la Photographie Paris 2007.
In alto: Due opere tratte dalla serie di fine art dell’artista Julia Fullerton-Batten.
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Io tifo per l’underdog Intervista ad Alessandro Gassman a cura di Claudia Morelli
Leggi l’intervista completa sul sito di Pool http://bit.ly/X3W7JY
Approdato a Bari per il Bifest e la presentazione di Razza bastarda, Alessandro Gassman torna nel capoluogo pugliese ad aprile per la sua tournée teatrale con Riccardo III, in cui è regista e attore protagonista. Razza bastarda è la trasposizione dell’opera teatrale Roman e il suo cucciolo e rappresenta il debutto alla regia cinematografica per Gassman.
Signor Gassman, a febbraio è partito il tour di Riccardo III, opera in cui emerge con forza la responsabilità di chi è al governo nei confronti del popolo. La scelta è casuale rispetto al momento storico che l’Italia sta vivendo? No, non è casuale. Volevo fare un classico e quindi ho scelto quello che sicuramente, tra i capolavori di Shakespeare, ha più attinenza con la situazione sociale e politica che il nostro Paese sta drammaticamente vivendo. La conquista del potere senza il rispetto delle regole è qualcosa a cui i nostri politici, di qualsiasi colore, in maniera drammatica ci hanno abituato e che ha suscitato, in queste ultime elezioni, una reazione molto forte negli elettori, portando a risultati che lasciano il Paese in una situazione di ingovernabilità molto preoccupante. In una nota ha affermato che la decisione di portare in scena Riccardo III è stata dovuta anche all’avvicinamento con Trevisan e alla sua capacità di ‘svecchiare’ i classici, pur restando fedele
In realtà quest’ombra, senza ovviamente nulla togliere a mio padre, mi è stata attribuita ma francamente io non la vedo. Non ho neanche avuto occasione di vedere Riccardo III interpretato da mio padre, quando avevo tre anni. Ho lavorato in piena libertà, seguendo quelle che sono le mie passioni. Le critiche, devo dire molto buone, che sono uscite sullo spettacolo non fanno paragoni proprio perché è una pièce diversa, un tipo di narrazione diversa, siamo due attori molto lontani l’uno dall’altro; quindi, per mia fortuna, questo tipo di confronto non si è posto.
In occasione della Stagione di Prosa 2012/2013 del Comune di Bari in collaborazione col Teatro Pubblico Pugliese, gli studenti universitari, i dottorandi, gli specializzandi e i volontari del servizio civile potranno fruire di una riduzione sul costo del biglietto per lo spettacolo “RIII - Riccardo Terzo” di Alessandro Gassman che si tiene al Teatro Royal di Bari dal 3 al 7 aprile 2013. Per poter acquistare il biglietto, al costo di 12 euro, gli studenti devono esibire al botteghino il proprio libretto universitario con il timbro dell’anno accademico 2012/13 (oppure la ricevuta del MAV della prima rata dell’anno accademico 2012/13).
all’opera. Crede che l’adattamento linguistico riesca effettivamente a far accostare i ragazzi alle opere classiche? Sicuramente sì. Ora posso dirlo con cognizione di causa, nel senso che siamo arrivati a oltre 25 repliche e i posti a teatro sono sempre stati esauriti, con un buon 70% dei nostri spettatori rappresentato da ragazzi. Questo è un successo straordinario, da attribuire sicuramente alla collaborazione con Vitaliano, che ha adattato il testo così come lo intendevo, cioè evitando di utilizzare una terminologia lontana dal linguaggio dei giovani di oggi e quindi usando un italiano comprensibile a tutti, cosa che rende lo spettacolo popolare. Il motivo per cui, invece, esitava ad approcciarsi ai testi shakespeariani è «l’incombenza di gigantesche ombre familiari». Si sono fatti confronti rispetto all’interpretazione del Riccardo III che fece suo padre nel 1968?
Passiamo al cinema. Razza bastarda rappresenta le condizioni di vita degli extracomunitari nel nostro Paese. In che misura pensa che il cinema possa influire sulla società? Io credo che chi si occupi di cinema, di teatro, come tutti coloro che fanno un mestiere pubblico... chi scrive, chi dipinge, chi suona, debba dedicare parte del suo tempo, se ne ha la possibilità, a questioni sociali che gli stanno a cuore. Razza bastarda, che esce il 18 aprile nelle sale italiane, è un film che parla di integrazione razziale, del disagio esistente nelle periferie delle nostre città. Ma è soprattutto la storia di un rapporto irrisolto tra un padre, mezzo rumeno e mezzo rom, e un figlio nato in Italia. Il film è nato in collaborazione con Amnesty International e vuole mettere in luce uno dei tanti problemi riguardanti l’integrazione nel nostro Paese, che è quello di non poter dare la nazionalità italiana a chi nasce qui da genitori non italiani. Io definirei questa una legge razzista. Quindi secondo Lei alcune leggi andrebbero attualizzate, considerando le trasformazioni in atto nella società… Sì, bisognerebbe adattarle alla società che si sta trasformando e, soprattutto, se si vuole continuare a definire l’Italia un Paese evoluto; cosa che al momento, a mio modestissimo modo di vedere, di fatto non è. Roman è un emarginato sociale; Riccardo III soffre di gigantismo ed è un re ‘fuori scala’ all’interno del suo mondo. Da cosa nasce l’interesse per la tematica del disagio e del disadattamento dell’uomo? Forse perché sono cresciuto con l’insegnamento di tifare sempre per l’underdog, per lo sfavorito, il più debole… o anche per colui con il quale non sono d’accordo. Per quanto riguarda Roman, ho da subito provato molta tenerezza per quest’uomo che sbaglia tantissimo, perché ha un piccolo cervello che non funziona, però ha un grande cuore, sebbene non riesca a trasmettere amore al proprio figlio. Per quello che riguarda Riccardo è il discorso opposto: un grande cervello e un piccolo cuore; un uomo molto intelligente ma che utilizza male la sua intelligenza, distruggendo tutto ciò che lo circonda. Ed è questo che lo rende affascinante. Molto spesso si viene attratti da ciò che è pericoloso e negativo, ma non necessariamente se ne deve trarre un esempio. Al contrario, sia per quel che riguarda Roman che per Riccardo, sarebbero due esempi da non seguire.
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L’urgenza dell’altrove Intervista ad Alessandro Bergonzoni a cura di Alessandra Macchitella
Leggi l’intervista completa sul sito di Pool http://bit.ly/ZtVDct
Alessandro Bergonzoni, comico, attore, scrittore e artista, è un mago della parola e la plasma per suscitare risate, ma anche riflessioni. Urge è il titolo del suo ultimo spettacolo teatrale, in cui vuole segnalare le differenze che, se trascurate, possono realmente cambiare il senso delle cose, quelle banalizzazioni che accomunano realtà diverse tra loro. Tra queste Bergonzoni pone l’accento sulla differenza tra sogno e bisogno: confonderli può portare a un vero e proprio incubo. L’urgenza, l’allerta, la necessità di non astenersi dal dire, la traiettoria che permette lo sconfinamento veloce da un territorio artistico conosciuto e praticato in direzione degli spazi confinanti: questi sono i punti di partenza dello spettacolo secondo il comico. Cosa urge per Bergonzoni? Urge l’abbandono totale dell’accontentarsi, urge una mania di grandezza, no, quella l’abbiamo già, urge
grandezza. Bisognerebbe cominciare a dimenticare la cosa semplice. Confondiamo il semplice con l’idea del normale, il normale con l’idea del banale, siamo uccisi dal banale, dalla parodia e difficilmente cambiamo verso, cambiamo poetica, difficilmente riusciamo ad andare altrove. Urge smettere di accontentarsi di quello che è dato, urge dimenticare gli eroi e gli esempi, gli esempi siamo noi. Urge alzare il livello di guardia da un punto di vista della supervalutazione e della sopravvalutazione delle cose. Basta un Sanremo normale per richiamare alla genialità, bastano quattro battute per dire che in fondo si sta inventando qualcosa di nuovo. Io dico che come in tempo di guerra, perché siamo in tempo di guerra da un punto di vista antropologico, sicuramente dovremmo cominciare a ripalatarci. ‘Ripalatarci’ vuol dire ricominciare a distinguere i sapori. Io non ho nulla contro chi canta a Sanremo, ma da qui a dire che a Sanremo i momenti musicali giovanili hanno dentro di sé poesia, invenzione
parla di Chiesa, solo se muoiono i poeti, soltanto se si arriva a determinati livelli, diventa difficile raccontare tutto questo anche nei confronti di una politica necessaria, che necessita di anime, perché se siamo messi in questa maniera è anche perché mancano le anime. Esiste un punto d’incontro tra linguaggio filosofico e poetico? L’artista è il ponte che si crea tra il proprio spettacolo e quello che è il resto. Io non sono felice e realizzato quando finisco una serata, devo cominciare un altro mestiere. L’artista deve porre un ponte e questa è una poetica. Noi leghiamo la poetica agli artisti soprattutto morenti o morti. Un lavoro profondo che il pubblico spesso desidera ma non capisce come, ‘come possiamo arrivare a’? Ho già parlato di rivelazione, sei tu all’interno che devi avere quella scintilla che scoppia. Noi andiamo a vedere Benigni e diciamo che Dante è grande. Poi andiamo a casa, io la chiamo cultura colluttoria, cioè ci sciacquiamo la bocca col mentolo di Dante e poi sputiamo. Quando cominciamo a mandare giù? Quando creiamo quel ponte? Con la consapevolezza e coscienza e conoscenza. Ma la conoscenza interessa a qualcuno in questo momento? Ora è tutta e solo comunicazione. Come arrivare, non cosa far arrivare. Noi releghiamo alla legge e medicina la risoluzione di alcuni temi senza ricordare quel ponte, quella poetica. Dovremmo accettare questo ‘salto in altro’, il sovrumano.
o altro, diventa molto problematico. Anch’io faccio due uova in cucina, non sono ristoratore, non lo sarò mai e non m’interesso di cucina. In questo momento invece, tutto ciò che è leggermente sopra il prevedibile diventa nuovo, importante, diverso. I poeti sono altrove, i filosofi sono altrove, l’intelligenza è altrove, la forza, la creatività, l’ingegno sono altrove, se ci interessa dobbiamo andare a cercare questi altrove. Ma ci interessa? Nel suo spettacolo parla di ‘voto di vastità’. Di cosa si tratta? Voto di vastità vuole dire non accontentarsi di tutto quello che sembra ci basti, penso che per andare oltre servano delle piste d’atterraggio più grandi. La manifestazione interiore conta molto di più, devi cominciare tu a fare questa manifestazione, a crederti molto più grande quale sei, è la parte più potente dell’anima, però di solito si parla di anima solo se si
L’arte abbraccia tutti i temi? L’arte è dentro le cose, solo che noi abbiamo la necessità di segmentare sempre tutto. Noi dovremmo augurare a chiunque malattie, tsunami, terremoti, come unico modo per capire, lo dice anche la Chiesa, senza dolore non c’è conoscenza. Io credo che l’arte possa dare un’impostazione diversa al tema della conoscenza. Prima di provare il dolore o senza provarlo hai la possibilità di immedesimarti negli altri. Credo che Madre Teresa di Calcutta non fosse una lebbrosa, però capisse attraverso l’energia interna che c’era qualcosa da fare d’altro. Ma quanti festival della filosofia dobbiamo ancora fare? Cosa ci devono raccontare ancora i filosofi? Racconta più Pasolini da morto che quattro canzoni di cantautori da vivi. Adesso il problema siamo noi, il momento artistico deve essere interiorizzato, siamo noi gli esempi, siamo noi i malati. Io sono un ministro di me stesso, voto tutti i giorni, ogni volta che vedo una persona morire, ogni volta che vedo un cretino e decido di lasciarlo andare, ogni volta che ascolto trasmissioni per distrarmi. Questo tipo di lavoro apparentemente chiede una grande fatica, ma per me è molto più faticoso subire tutto questo. È più faticoso fare un’azione di critica o subire?
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Come un tuono Derek Cianfrance dirige Ryan Gosling in un film di vendetta e fuga a cura di Leonardo Gregorio In alto: un frame di Come un tuono..
Guarda il trailer ufficiale di Come un tuono http://bit.ly/YRgvvk
Due immagini. Una gabbia sferica in un luna park e una strada deserta che pare separata dal mondo eppure è proprio lì, solo nascosta. Dentro, fra queste immagini, tra il volgare fragore notturno della festa cittadina nell’incipit e la serena luce del finale che sembra suggerire la stessa (in)consistenza mutevole di una istantanea scattata in preda all’istinto (o al caso?), scivola − ora più morbido, ora più in torsione − The Place Beyond the Pines di Derek Cianfrance (Come un tuono, il brutto titolo italiano). Un film scheggiato in superficie da simmetrie, ‘prolungamenti’ e residui di storie e personaggi; corpo elastico attraversato da rifrazioni di un ‘sentire’ comune e al contempo antipodale di esistenze che si incrociano, si perdono e si richiamano in un lungo tracciato di affetti, ritorni, assenze, vendette e fughe. Due padri e due figli dentro un film che è uno ma in realtà trino, per quanto lineare, estraneo agli incastri e ai labirinti(smi) di Iñárritu e Arriaga (rispettivamente regista e sceneggiatore della ‘trilogia sulla morte’ formata da Amores perros, 21 grammi e Babel), ma distante anche dalla narrazione più stratificata di Blue Valentine dello stesso Cianfrance, altra livida rappresentazione di vita familiare con Ryan Gosling e Michelle Williams. Luke (Gosling, di nuovo), motociclista che si esibisce in spettacoli itineranti, torna per lavoro a Schenectady, nello stato di New York, e scopre di avere un bambino nato da una fugace relazione con
Romina (Eva Mendes), che intanto ha trovato un altro uomo. Molla tutto per stare accanto alla donna e al piccolo, i soldi però non bastano e si mette allora a rapinare banche. Alle sue fughe in moto metterà fine un inesperto poliziotto (Bradley Cooper), anche lui neopadre, che lo fredderà. Inizia un altro film. E poi un altro ancora, quando sono passati quindici anni, e i loro figli, ignari di tutto, diventeranno amici… È sorprendente come il regista riesca a lavorare su psicologie e asperità, calandole su una struttura che ricorda molto quella delle trilogie tragiche. L’eroe (il real hero, il nameless hero di Gosling nel Drive di Refn qui entra insieme in continuità e in cortocircuito, anche ‘figurativo’) è, come sempre, bello e capace, ha doti che lo rendono vicino alla divinità, sfida la gravità, la velocità, la sorte e per questo la sua tracotanza viene irrimediabilmente punita dagli déi. A eseguire la condanna è un rivale, strumento inconsapevole dapprima e poi ambizioso e astuto, le cui mani però si sono macchiate di sangue. Le colpe dell’uno e dell’altro ricadono sui figli che, come in un’Orestiade o nella saga edipica, a loro volta danno corso alla lotta ma (soprattutto in questa terza parte in cui il carattere dei padri è disperso) sembrano burattini involontari. Il tutto in un film apparentemente bulimico ed eccessivo ma dove ogni elemento, anche il più insignificante, è necessario per arrivare a definire e finire il poema.
Le rifrazioni dello sguardo Il gioco delle personalità in due film di Fassbinder a cura di Michele Casella
Guarda i primi minuti di Despair http://bit.ly/YRBvko
Due lavori sull’identità e sull’alterità, due lungometraggi in cui forma e contenuto si intersecano alla perfezione attraverso un ardito gioco di specchi. Con Despair e I only want you to love me soggetto e autore diventano elementi di analisi della società pur mantenendo una stretta coerenza con il plot della narrazione. Torna dunque la RaroVideo ad assolvere all’essenziale compito di ripubblicare grandi opere del passato, nello specifico due film in cui Rainer Werner Fassbinder presenta forti elementi autobiografici. Immergendosi nell’inconscio ed esaminandolo come origine di un comportamento sociale e politico, il regista tedesco si concentra sui valori del nostro tempo e sulle relazioni personali più intime. In particolare con Despair, Fassbinder
sviluppa un racconto a metà strada fra raffinatezza formale e ironica follia, psicanalisi freudiana e viaggio onirico. Basato su un romanzo di Nabokov e sulla sceneggiatura di Tom Stoppard, il film è un sofisticato alternarsi di realtà moltiplicate e rifrazioni soggettive, declinate in funzione di un desiderio di autodistruzione che è allo stesso tempo personale e sociale. Un tema non troppo distante da quello di I only want you to love me, in cui l’inaridimento delle relazioni (intime e pubbliche) procede in parallelo con la materialità del tessuto sociale ed in contrapposizione con l’emotività del protagonista. Un’opera spigolosa e cruda, che getta uno sguardo austero sulla perdita di fiducia e sensibilità.
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Il felice destino della Rigenerazione Bilanci, convenzioni e tournée all’estero per il Kismet a cura di Claudio Mundo
Era il 1989 quando, ottenuto il riconoscimento di Teatro Stabile d’Innovazione da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la compagnia Kismet OperA inaugurò la sua casa in un ex edificio industriale di Bari. L’intento era di valorizzare l’idea di teatro come officina artistica, fucina di idee, centro di cultura e di dialogo permanente. La compagnia seguì, così, il suo ‘felice destino’ – kismet in sanscrito – dopo essersi formata a Bari nel 1981. Da allora il Teatro ha ospitato artisti italiani e stranieri, mediando tra il teatro e tutte le forme artistiche di creazione e comunicazione; alla produzione e messa in scena di spettacoli unisce proposte di formazione, incontri e laboratori per le scuole, percorsi di ricerca drammaturgica, rassegne musicali, attività volte al dialogo e al confronto sui temi fondanti della cultura e della socialità. Siamo ormai ad aprile, mese cui non spetta solo il compito di condurre l’anno verso il tepore primaverile, ma anche la responsabilità di tirare il cordino e far calare il sipario su ‘Rigenerazione’, la stagione 2012/2013 a cura del direttore artistico Teresa Ludovico. Lungo l’anno ci sono stati ospiti della potenza di Antonio Rezza, Alessandro Bergonzoni e Gianrico Carofiglio; sono state messe in scena commedie, tragedie, spettacoli e contest di danza. Per la chiusura, ecco balenare Grimmless, nuova tappa del progetto drammaturgico e performativo del duo composto da Stefano Ricci, che firma anche la regia, e Gianni Forte, i due enfants terribles della nuova scena italiana, già invitati a presentare i propri allestimenti su prestigiosi palcoscenici internazionali. Attesa anche per Aldo morto, di Daniele Timpano, vincitore del Premio Ubu 2012 Rete Critica: il suo spettacolo, in scena nei giorni in cui scoccheranno i 35 anni dalla tragedia Moro, si confronta con l’impatto che questo evento ha avuto nell’immaginario collettivo. Francesco d’Amore e Luciana Maniaci porteranno il loro Biografia della peste, spettacolo psicotico e magico che si racconta attraverso due favole, una nera e una bianca. Matteo Latino ci racconterà dell’illusione di libertà e del senso di deragliamento d’identità verso la natura animale con il suo In Factory. L’ultimo atto della stagione vedrà una due giorni dedicata a DAB – Danza a Bari, in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese. Il lavoro della compagnia Kismet non si ferma però qui: dopo il debutto a Birmingham dello scorso 15 febbraio, lo spettacolo I was a rat, adattamento e regia di Teresa Ludovico della storia di Philip Pullman, sarà in tournée in Inghilterra fino a giugno. Uno dei maggiori quotidiani inglesi, «The Guardian», ha già pubblicato un’entusiastica recensione sull’«esuberanza fisica all’italiana». Il nostro augurio è che se ne parli ancora.
Il Kismet e gli studenti Rinnovate per la stagione in corso le convenzioni del Kismet con l’Università degli Studi di Bari e l’Accademia di Belle Arti; sono disponibili biglietti gratuiti e riduzioni. Per informazioni: www.teatrokismet.org
- Sono state rinnovate per la stagione in corso le convenzioni del Kismet con l’Università degli Studi di Bari; sono disponibili biglietti gratuiti e riduzioni. - Sono previsti seminari di approfondimento intitolati Dal testo alla messa in scena:
interventi di attori e registi e confronti sul palco e in sala prove, coordinati dalle professoresse Ravasini e Porcelli. - È stato riattivato un bando per gli studenti che vogliano svolgere dei periodi di attività formativa al Kismet.
Gangster Squad La fine dell’American Dream (anche in negativo) a cura di Leonardo Gregorio In The Untouchables – Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma, Kevin Costner era l’agente del Dipartimento del Tesoro Eliot Ness che, affiancato da integerrimi collaboratori, interpretati da Andy García, Sean Connery e Charles Martin Smith, dava la caccia all’Al Capone di Robert De Niro. Vale a dire all’emblema insuperato e forse insuperabile, quasi leggendario della malavita americana (insieme a quello più ‘anarchico’ e ‘pistolero’, John Dillinger, riportato sullo schermo, fra regola e rinnovamento stilistico, da Michael Mann in Nemico pubblico del 2009, con Johnny Depp). In Gangster Squad (2013) di Ruben Fleischer, è il sergente John O’Mara di Josh Brolin a mettere su una squadra clandestina di poliziotti tostissimi (Ryan Gosling, Robert Patrick, Giovanni Ribisi, Anthony Mackie e Michael Peña) per fermare Mickey Cohen, anche lui realmente esistito, gangster impersonato da Sean Penn. Nel capolavoro di De Palma la città era Chicago ai tempi del proibizionismo. Nel film di Fleischer siamo nella Los Angeles del 1949, la città degli angeli e dei sogni, ma dopo la guerra è iniziato il lento declino dell’American Dream, quel grande sogno individuale e collettivo così ben raccontato dal western classico e − in un vitalismo capovolto, perciò dai risvolti neri, anzi noir − dal gangster movie delle origini, basato su uno schema vicino a quello della tragedia. E quella ‘aurea tragica’, la mitologia più che la cronaca del crimine, l’avrebbero poi dissepolta, contaminata e rimessa in epica autori del cinema americano moderno come lo stesso De Palma con Scarface (1983), Francis Ford Coppola nella trilogia del Padrino (1972-1990) e Martin Scorsese − che fra Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995) sigillerà il modello cinematografico di riferimento, fino a riportarlo in vita con Gangs of New York (2002),
gemello diverso di C’era una volta in America di Sergio Leone (1984); nel 1987 invece De Palma fonde il canone classico, fra citazioni varie, con un’impronta pop e fracassona, già inesorabilmente post. Gangster Squad arriva fuori tempo massimo, dopo il ben più riuscito e sofisticato L.A. Confidential del 1997 di Curtis Hanson (qui Mickey Cohen è Paul Guilfoyle). Il film di Fleischer ricalca nella struttura The Untouchables, in un tentativo malriuscito di omaggio a un ‘classico’ con aggiunta a profusione di banale verniciatura estetizzante e ironia da (scadente) fumetto. L’esito è un frullato postmoderno dove non vi è traccia del benché minimo tocco sovversivo e dunque ‘consapevole’; quel tocco che Quentin Tarantino, per esempio, trascinando giocosamente il sogno americano ai livelli del peggior degrado morale, dimostrava di possedere già venti e passa anni fa (si pensi alle Iene e a Pulp Fiction). E allora, se post-tutto è e deve essere, un film che forse può ancora dirci qualcosa sul post-gangster/ noir movie, su quali siano le nuove strade percorribili, è più di tutti Cogan – Killing Them Softly (2012) di Andrew Dominik, con il sicario Brad Pitt: non riesuma la tragedia, sa che è impossibile, niente buoni, l’eroe cattivo non ha più ‘grandezza’ ed è poco più che un impiegato del crimine dalla morale semplice ma gelida e penetrante: «America’s not a country. It’s just a business. Now fucking pay me». Poi i titoli di coda. Anche l’American Dream più torvo, ai tempi della crisi economica mondiale, è morto?
Guarda il trailer ufficiale di Gangster Squad http://bit.ly/YZRRI0
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Visioni a confronto
Bologna Violenta, Pasolini, de Sade a cura di Luca Romano
Utopie e piccole soddisfazioni di Bologna Violenta Ascolta l’album Utopie e piccole soddisfazioni pubblicato da Bologna Violenta http://bit.ly/175gJp0
Un disco generalmente contiene in sé molte storie, più canzoni e moltissime interpretazioni. Per parlare dell’ultimo lavoro musicale di Bologna Violenta (alias Nicola Manzan) bisogna discostarsi un attimo dai canoni musicali radiofonici, e, senza troppi pregiudizi, lasciarsi sedurre dalle ventuno tracce di Utopie e piccole soddisfazioni (Wallace Record-Dischi Bervisti). Brano dopo brano ci si renderà conto di come echi e richiami possano condurre a film, opere di musica classica e influenze di ogni tipo. In realtà è un disco abbastanza duro, con riferimenti contemporaneamente sia alla musica classica sia al punk italiano anni Ottanta: molto evidenti – per questo abbastanza importanti – sono i richiami al rapporto tra potere ed erotismo, che in quegli anni andava mostrandosi e concretizzandosi. Si riesce a riassaporare la forza delle immagini dei film di Pasolini, sopratutto Salò o le 120 giornate di Sodoma, in cui il corpo diventa l’estremo punto di concentrazione del rapporto servo-padrone, rapporto che Pasolini rievocherà per poter mostrare l’affermarsi, in quegli anni, di un nuovo tipo di dittatura, molto più forte e decisamente meno controllabile di quello che era stato il fascismo italiano: la dittatura del consumismo. Una dittatura fortemente incentrata sul corpo e sul controllo dell’uomo sull’uomo. L’origine di questo testo, tuttavia, è decisamente più antica e risale al Marchese de Sade, autore del libro Le 120 giornate di Sodoma e di altri volumi di pari successo come Justine o La filosofia nel boudoir. Lo stravolgimento del mondo apportato da de Sade nei suoi testi è la trasformazione di un sogno, di una utopia, nel suo contrario. È un mondo in cui assolutamente nessuno vorrebbe o riuscirebbe a vivere, un mondo in cui il potere trova il punto d’incontro nella relazione violenta di sopraffazione fisica. I rapporti tra le persone diventano quasi insopportabili e il desiderio di un ribaltamento diventa spontaneo in ogni lettore. Il potere infatti, sia in Pasolini che in de Sade perde completamente ogni utilità, così abbiamo la reiterazione, la ripetizione assoluta di ciò che non vorremmo nemmeno fare accadere. All’interno del film di Pasolini si arriverà a dire: «Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?». L’eternità diventa così il paradigma e l’aspirazione del potere stesso. Nello stesso modo, nel lavoro di Bologna Violenta si respira questo sapore di ribaltamento del concetto stesso di potere e dominio dell’uomo sull’uomo.
Justine del Marchese de Sade lavoro avant pop si ha a tratti, quando una radio inizia a trasmettere musica e a passare da una frequenza all’altra, si sente una richiesta musicale che si interrompe, non c’è più alcuna possibilità che la volontà abbia una soddisfazione, le chitarre coprono tutto e aggrediscono. Il brano di chiusura, Finale – con rassegnazione (traccia 21) ci lascia per quasi quattro minuti la speranza che tutto si sia risolto, che i violini, gotici e solenni, ci accompagnino, ma il finale è sempre la fine, e per l’uomo la fine è sempre inaccettabile.
L’incipit del disco contestualizza il messaggio necessariamente politico, un messaggio che è il medesimo di Justine, è un superamento dell’utopia come orizzonte comportamentale; l’utopia diventa, nel contingente quotidiano, il ribaltamento delle azioni, cessa d’essere una prospettiva e diventa la speranza di non esser più ciò che si è. Nessuno agirebbe se le proprie azioni non avessero un seguito: qui i riff ripetitivi lasciano una sensazione di impossibilità dell’azione. Il viaggio si arresta in partenza, il mondo ci impedisce l’agire e ci impone un subire. Tuttavia all’interno del disco i riff si alternano a piccoli momenti di sereno, di speranza, il suono del violino apre a un possibile, a una uscita dal tempo, a uno spazio reale in cui la felicità sembra possa affermarsi, per poi tornare a eclissarsi nuovamente davanti al suono di una chitarra distorta. All’interno del disco troviamo, inoltre, numerose citazioni, voci, discorsi, potremmo dire quasi testi, ma sembrano piuttosto rumori che infastidiscono l’assordante riff di chitarra. La percezione di un
Le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini «Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?».
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CAM, Con Altri Mezzi Intervista ad Alberto Bullado a cura di Carlotta Susca Che analisi faresti dei blog letterari oggi? La situazione attuale è quella di un sostanziale sovraccarico, affiancato da una crisi crescente di lettori. La democratizzazione del web ha portato alla fioritura di numerose realtà: blog, webzine, community. Inoltre una nuova generazione di ‘nativi digitali’ si pone nei confronti del web con meno ingenuità e nuove competenze. Altro punto fondamentale: in questi primi dieci anni di blogosfera letteraria si è effettuato un ribaltamento prospettico fondamentale: la “Repubblica delle Lettere” si è via via improntata sui lettori. Forse è proprio per questo che i blog pagano ancora il dazio di certi pregiudizi e di un latente scetticismo (per non dire ostilità) da parte della critica tradizionale, eppure rappresentano un’opportunità e una possibile risorsa per un’aggiornata divulgazione del sapere.
Visita il sito di Con altri mezzi http://bit.ly/10jfBcv
Cosa manca? La ‘professionalità’. I blog letterari, parlo della media, mancano di expertise, non possiedono elevate competenze di copywriting, di web marketing, di cura grafica: dalla stesura e formattazione del testo all’indicizzazione SEO. Insomma: vorrebbero comunicare ma non riescono a farlo, o comunque non in modo aggiornato e appropriato rispetto alle dinamiche del web 2.0. In questo modo si autoescludono dal ‘mercato delle idee’ e dal mondo della comunicazione. Solo innalzando il livello di qualità della comunicazione è possibile avanzare delle ulteriori pretese, elevando in questo modo anche il livello di competenza e utilizzo dei lettori e della e-readiness collettiva. I lit-blog del futuro devono evolversi da opinionifici amatoriali, pseudo-intellettuali o post-accademici in qualcosa di nuovo. E poi, certo, i blog devono sapersi tradurre in ‘attori culturali’ a 360°, uscire dal virtuale e ‘fare cose’.
Quindi i blogger dovrebbero partecipare a più eventi? Trovo paradossale che nel 2012 i principali eventi culturali non avessero quasi mai spazi dedicati ai blog letterari. Il tema del Salone del Libro di Torino era: ‘Vivere in rete’. Ma non c’era wi-fi né spazi per i blogger. Ho scritto per CAM un articolo ironico sul tema e qualche giorno dopo ho ricevuto una chiamata da Edoardo Parolisi, responsabile comunicazione e stampa del Salone. Ho potuto capire tante cose: l’organizzazione del Festival aveva provato a considerare la presenza dei blog letterari, senza però capire come farlo. Il problema resta la mancata percezione del fenomeno da parte delle istituzioni culturali, che faticano a capire cosa/chi siamo e quale può essere il nostro ruolo. Cosa salvare della vecchia critica e cosa buttare? L’impegno. Risposta che vale per entrambi gli aspetti della domanda. Molto spesso si auspica il ritorno di una critica ‘impegnata’, ‘militante’, ma se l’impegno significa inventarsi delle etichette, creare cricche, parrocchiette, alibi culturali per affrancarsi, affermarsi o promuoversi attraverso iniziative poco più che suggestive e class action estemporanee, allora dico no all’impegno e a questa ‘critica militante’. Auspico una critica sempre più interdisciplinare e transmediale, che sia allo stesso modo creativa e responsabile. La seriosità sepolcrale dilazionata dalle nostre accademie produce orribili studenti post-ventenni dediti al necrologio, alla patristica culturale e all’antiquariato intellettuale.Il problema della critica è inoltre domiciliare: dove fare critica al giorno d’oggi? Il web potrebbe essere il giusto alveo nel quale chiamare a raccolta queste forze: si tratta di un mezzo gratuito e potenzialmente più performante, ottimizzato e capillare rispetto ai tradizionali mezzi di comunicazione.
Aerei di carta a cura di Cristò
Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, S. Massimo Zangari Guida alla letteratura americana Odoya Euro 16 – 256 pagine Le biografie, le opere e le frasi celebri dei più importanti scrittori americani dagli anni Quaranta a oggi, ma anche saggi critici e percorsi tematici. Una raccolta di volti, voci e opere per cercare il proprio percorso nella letteratura statunitense.
Sotto il confine, niente Michel Onfray Il post-anarchismo spiegato a mia nonna Eleuthera Euro 9 – 100 pagine Il più celebre e irriverente filosofo francese contemporaneo spiega a sua nonna la propria idea di anarchia a partire dal ‘principio di Gulliver’. La forza del lillipuziano più forte non può niente contro il gigante, ma grazie al potere di tanti si può aver ragione anche di un colosso.
Giovanni Robertini L’ultimo party. Bestiario del lavoro culturale ISBN Euro 12 – 192 pagine Un pamphlet dedicato ai lavoratori del mondo culturale oggi visti come dei panda: vivono in preda alla costante minaccia dell’estinzione e cominciano a dubitare che il bambù, quella cultura alternativa di cui si nutrono, gli piaccia ancora.
Un Murakami d’annata che non passa mai di moda a cura di Antonella Di Marzio Murakami Haruki A sud del confine, a ovest del sole Supercoralli € 19,00 pp. 250 Traduzione di Mimma De Petra Revisione della traduzione di Antonietta Pastore Hajime, gestore di due jazz club a Tokyo, vanta una vita quasi perfetta: ad adombrarla, l’assenza di Shimamoto, amica d’infanzia persa di vista senza una ragione. Paragone costante con qualsiasi altra, la donna ritorna a sorpresa in una sera di novembre, ammantandosi di un fascino che s’intreccia alla vaghezza: diventano pallide ombre, al cospetto di Shimamoto, le altre donne della vita di Hajime, di cui pure lui ha narrato senza indugio. Il suo non è però il catalogo di un seduttore; piuttosto, il racconto di quanto sia inesorabile lo scorrere del tempo, che alla nostalgia sostituisce qualcosa di più freddo.
A sud del confine, a ovest del sole (Einaudi) si legge con frenesia, ma ciò rischia di sgualcire le impalpabili atmosfere drappeggiate dall’autore. Il ritmo si deve forse a una scelta editoriale: il volume in uscita è in realtà la traduzione di un romanzo del 1992, ma le somiglianze con i capitoli della recente trilogia 1Q84 inducono a pensare si tratti di un prequel. Gli amanti di Murakami sorrideranno nel riconoscere gli stilemi dell’autore: tra questi, il persistere di uno struggente senso di perdita, che Murakami non tanto rievoca, ma come nessun altro sa creare dal nulla. Talvolta però la mancanza si fa tangibile: soprattutto se si tratta dell’assenza di una storia.
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Una eXperYenZ di editoria innovativa Intervista a Ivan Iusco, boss di Minus Habens a cura di Kevin Arnold Intestataria di un’estetica capace di unire suono e immagine, melodia e ritmo, la Minus Habens celebra i suoi primi 25 anni con uno splendido volume che ne analizza la storia e l’evoluzione attraverso i racconti dei suoi protagonisti. Capace di interpretare il passaggio fra analogico e digitale, il responsabile dell’etichetta Ivan Iusco ci racconta le suggestioni e gli stimoli che lo hanno portato all’interazione con il cinema e con l’editoria. Minus Habens ha creato un percorso da sempre legato ai supporti fonografici e all’evoluzione tecnica. Quanto ha influito la tecnologia sulla musica dell’etichetta e qual è il supporto a cui siete più affezionati? Gran parte delle nostre produzioni è caratterizzata dall’uso di strumenti elettronici, tanto da rendere inimmaginabile l’attività dell’etichetta senza tecnologia. La Minus Habens non ha mai avuto la necessità di adeguarsi in modo pedissequo alle logiche imposte dal mercato: questa libertà si è riflessa in scelte talvolta azzardate e in qualche caso uniche. Abbiamo pubblicato dischi in vinile colorato in edizione limitata, picture-disc (vinili trasparenti al cui interno è racchiusa la parte grafica), la prima compilation al mondo su pendrive usb, ma anche la rivista «Neural» e libri come Virtual Reality Handbook (la prima guida in italiano alla Realtà Virtuale, 1992), Images (1993), Internet. Underground.Guide (1995) e Minus Habens eXperYenZ, dotato di una serie di QR code. Questo approccio esclude la possibilità di legarsi a un supporto in particolare: lo scopo primario è quello di veicolare idee e progetti nuovi.
La vostra è indicata come un’etichetta di musica elettronica, ma molti titoli sono decisamente più trasversali ed eclettici. Qual è il vostro approccio sonoro? Tendiamo da sempre alla ricerca e alla sperimentazione. Siamo partiti dall’elettronica perché abbiamo intuito fin da subito le infinite e affascinanti potenzialità della manipolazione della materia sonora attraverso la tecnologia analogica e digitale. Ma non trascuriamo di analizzare in modo onnivoro ciò che accade in ambito musicale e cinematografico, soprattutto per individuare collaborazioni inedite ed evitare di ripercorrere sentieri già battuti da altri. Mi piace immaginare la Minus Habens come una rete di laboratori, una dimensione in cui s’incrociano attitudini ed esperienze diverse. Nel tempo il cinema e la parte visuale hanno raggiunto un’importanza capitale nel tuo stile e nella tua attitudine; in che modo suono e immagine si incrociano nella tua esperienza? La mia musica ha trovato nella luce e nei più diversi significati dell’immagine il suo habitat. La prima esperienza fu quella con Lacapagira di Alessandro Piva, in cui portai la musica elettronica sul grande schermo. Il successo di quella pellicola mi ha dato la possibilità di comporre musiche con registi come Rubini e Prieto, e di realizzare brani che altrimenti non avrei mai composto.Oltre alle mie personali colonne sonore composte per il cinema e la videoarte, ho avuto la possibilità di far ospitare molti brani di Minus Habens in ambito audiovisivo. La relazione fra musica e cinema è diventata centrale nella nostra attività a partire dalla fine degli anni Novanta.
Il libro per i venticinque anni della label è un progetto multimediale assai ambizioso, qual era l’obiettivo che volevi raggiungere? Minus Habens eXperYenZ è un libro che nasce dall’idea di fotografare un cammino lungo e articolato attraverso lenti diverse, lo ‘sguardo’ delle tante persone che ho voluto coinvolgere in questa iniziativa editoriale. Un’espressione corale attraverso numerosi interventi di artisti e professionisti incontrati in questi anni. L’obiettivo era quello di svelare al pubblico una proiezione multidimensionale della Minus Habens, un percorso assolutamente inedito. Il web ha cambiato in maniera fondamentale l’approccio alla musica degli ultimi venticinque anni, qual è il mutamento più importante per la Minus Habens e come vedi il futuro della tua label? E quello del music business? Lo stesso termine ‘etichetta’ ha cominciato a risultare riduttivo. Nel futuro prevedo un’attività sempre più volta allo sviluppo di approcci nuovi e diversi per traghettare la musica e le nostre espressioni audiovisive in ambiti insospettabili. Il music business ha bisogno di menti giovani e, soprattutto, aperte a tutte le possibilità. Trovo anacronistica la ‘reincarnazione’ della musica in vinile, ma allo stesso tempo lo sono certi aspetti della distribuzione digitale. Il mutamento più importante è stato quello relativo all’avvento dell’mp3. Il passaggio al ‘metaformato’ ha consentito di lasciarci alle spalle l’aspetto fisico e materiale della musica. Con Internet le abbiamo restituito la sua caratteristica fondamentale: l’immaterialità.
Imood progetta il libro Intervista a Vincenzo Recchia, Creative Director di Imood Il progetto editoriale del volume dedicato alla Minus Habens vede un incrocio estetico fra analogico e digitale. Come hai impostato il concept del volume? Premetto che essere stato scelto per questo progetto editoriale mi ha molto emozionato. Quando Ivan mi ha contattato aveva considerato un dorso di 160 pagine, che chiaramente non ho rispettato, data la mole di contenuti. Era impensabile limitarci! Con Ivan ci conosciamo da tanti anni e lui mi ha subito dato carta bianca. Le parole chiave del lavoro sono state: pulizia nella griglia e la valorizzazione dell’excursus temporale dei 25 anni della Minus Habens. Non potete immaginare quanto materiale ho visionato.
Lo stretto rapporto fra suono e immagine è una costante della storia della Minus Habens, quali suggestioni ha portato al tuo lavoro questo connubio? Sicuramente una impostazione grafica di supporto ai contenuti, quindi niente fronzoli o elementi grafici fini a se stessi. La storia della Minus Habens, con la sua identità visiva, è la vera protagonista di questa pubblicazione. Nell’era della realtà virtuale e della comunicazione 2.0, qual è il valore aggiunto di una pubblicazione tradizionale su carta? All’interno del volume ho consigliato a Ivan di inserire alcuni elementi di interazione, nello specifico dei QR code per poter fruire al meglio i contenuti multimediali.
Sfoglia le prime pagine del volume 25 - Minus Habens eXperYenZ http://bit.ly/XsLKk5
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Mark the music! per un ascolto del testo letterario Musica, letteratura inglese e dintorni a cura di Pierpaolo Martino Pierpaolo Martino è professore aggregato di Letteratura inglese presso l’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’. È autore di vari libri fra cui Down in Albion: Studi sulla Cultura Pop Inglese (2007) e Mark the Music – The Language of Music in English Literature from Shakespeare to Salman Rushdie. Suona in diversi gruppi jazz, improv e post-rock, come ad esempio Foré, Howl, Mondegreen e The Wilde Club.
Come ci insegna Shakespeare (si veda, in particolare, Il Mercante di Venezia) la musica resiste a ogni tentativo di identificazione e sistematizzazione; la musica, in effetti, è linguaggio iconico che eccede tutto ciò che è previsto e prevedibile e soprattutto la parola, per parlare essa stessa alla dimensione corporea, confondendo significato ed emozione, ricordo e desiderio. È possibile – anzi, necessario, nel contesto multimediale e multimodale in cui siamo inseriti (e in cui si torna sempre più a parlare di interdisciplinarietà) – guardare non solo una lingua (come suggeriva il critico russo Michail Bachtin), ma anche e soprattutto un linguaggio con gli occhi, e aggiungerei le orecchie, di un altro linguaggio, pensando la letteratura proprio a partire dalla musica. Può risultare interessante in tal senso, per il lettore, articolare percorsi di lettura, ascolto ed esecuzione testuale che nel caso della letteratura inglese coinvolgano autori quali, per esempio, lo stesso Shakespeare ma anche Keats, Wilde, Joyce, Eliot, Woolf, Larkin, MacInnes, Brathwaite, Kureishi, Parsons, Hornby, Rushdie, ma anche musicisti e compositori quali L.K. Johnson, David Bowie, David Sylvian, Morrissey, Thom Yorke, autori per cui la canzone assume una forte connotazione letteraria, in un complesso movimento in cui il lettore/ascoltatore è costretto, forse con suo immenso piacere, ad abitare la soglia tra linguaggi diversi, tra cultura alta e bassa, tra passato e presente. Ciò che ci deve oggi interessare non sono tanto le modalità in cui la musica diventa argomento e metafora all’interno discorso letterario, quanto la capacità delle letteratura di muoversi in direzione della musica ossia di diventare musica facendo proprie la discorsività e la ricchezza del linguaggio musicale. La musica appare, così, nel vasto ambito degli studi letterari, fenomeno complesso e poliedrico. C’è senz’altro la musica come puro suono, aspetto, questo, che risulta fondamentale nella nostra percezione della scrittura poetica – si pensi in tal senso a T.S. Eliot. Ma la musica è anche e soprattutto una pratica discorsiva la cui articolazione può illuminare la nostra comprensione di forme dialogiche quali romanzo e dramma, dal teatro shakespeariano e wildiano al romanzo polifonico di un Joyce o di una Woolf. La musica resta inoltre una delle pratiche sociali più ampiamente condivise dai tempi dello stesso Shakespeare, nei cui drammi essa rappresentava una vera e propria protagonista in scena, sino all’epoca delle sottoculture e della condivisione dal basso della musica in Rete e nei blog, di cui parlano romanzieri quali Nick Hornby e Tony Parsons. L’immagine forse più interessante su cui riflettere e di cui mettersi all’ascolto è forse proprio quella del (contrab)basso, immagine ricorrente in molti autori di lingua inglese da Coleridge alla Woolf, da Kamau Brathwaite a L.K. Johnson e che attraverso la sua storia di emancipazione in ambito dub, jazz e post-rock, dice bene l’idea di sovversione, di capovolgimento di cui tanto si parla in ambito postcoloniale. Ma il basso è anche immersione, vibrazione condivisa, suono che non può essere contenuto e che ci ricorda necessariamente la presenza degli altri nella nostra vita. In questo senso, le stesse ‘effe’ che segnano la cassa di risonanza del contrabbasso possono essere pensate al tempo stesso come occhi e orecchie, soglia metaforica tra dentro e fuori, tra musica e mondo. È proprio in questi termini, nell’ascolto e nella vibrazione che la letteratura diventa musica.
Disfunzioni Musicali COCOROSIE Tales of a grass widow City Slang A un anno di distanza dal singolo We are on fire, le Cocorosie annunciano la pubblicazione del loro quinto album, come sempre caratterizzato da un titolo particolarmente evocativo: Tales of a grass widow. Sarà dunque la City Slang a licenziare il prossimo 27 maggio la nuova raccolta di undici brani delle sorelle Casady, ancora una volta focalizzato su sonorità delicate e oniriche concepite dalla rielaborazione di suggestioni provenienti da mezzo mondo. Pur basato prevalentemente sull’utilizzo di strumenti acustici, il disco sviluppa con ancor più efficacia l’interazione con l’elettronica, creando un fil rouge fra le nuove canzoni e la spontaneità del loro primo capolavoro La maison de mon rêve. La produzione Tales of a grass widow è però decisamente più articolate rispetto al debutto e vede al banco di regia Valgeir Sigurðsson, già al lavoro con Björk, Múm, Bonnie ‘Prince’ Billy e molti altri. Sono comunque le voci di Bianca e Sierra a segnare la rotta di questo nuovo lavoro su lunga distanza, giocando fra elegia e sensualità, reminiscenze adolescenziali e accentuata liricità, sovrapposizioni e dissonanze. Torna inoltre la collaborazione di Antony Hegarty, straordinaria voce degli Antony and the Johnsons e coprotagonista della memorabile Tears for animals. L’uscita di Tales of a grass widow si affianca alle altre attività in itinere delle Cocorosie, fra cui la produzione di Peter Pan a Parigi assieme alla poliedrica Laurie Anderson. Sempre nel 2013 Bianca Casady lancerà Girls against god, un progetto editoriale correlato al collettivo Future Feminists, un’iniziativa volta a «liberare la società e proteggere il pianeta dagli effetti corrosivi dei sistemi patriarcali». di Kevin Arnold
YEAH YEAH YEAHS Mosquito Interscope Records
BLACK ANGELS Indigo Meadow Blue Horizon
«Le canzoni vi sorprenderanno, sono molto più moody, vicine ad atmosfere minimali e psichedeliche». Karen O, leader del gruppo, sintetizza in tre aggettivi l’essenza di questo album. Gli YYY tornano a tre anni da It’s Blitz! (consigliatissimo) con un sound riconoscibile e coerente ma allo stesso tempo svecchiato e rinnovato in più punti. A tracce alterne si riconoscono, accanto a delay e distorsioni, suggestioni evocate da intrusioni proprie del rock sperimentale e non solo. All’identità sonora del gruppo si aggiungono i beats electro di James Murphy (LCD Soundssystem) che produce una traccia del disco (These Paths) e il rap di Dr. Octagon in Buried Alive. Non mancano le ballate tipiche della band di Brooklyn, che questa volta si caricano di forti tinte dream pop in linea con le tendenze attuali. Mosquito si dimostra un viaggio eclettico e non banale, un percorso inaspettato che si chiude meravigliosamente con l’ultima traccia Wedding Song: 4,56 minuti di intimità che contrastano e ammortizzano le sonorità più acute e nineties del disco.
Senza rinunciare alla loro naturale predisposizione per la nuova psichedelia statunitense, i Black Angels spingono sull’acceleratore del rock e insistono sull’impeto delle chitarre elettriche e della batteria. A segnare la linea melodica del nuovo Indigo Meadow ci pensa invece Alex Maas, con la sua voce un po’ nasale e perfettamente calata nel ruolo di nuovo eroe alternativo. Sanguigno e appassionato, l’album attualizza uno stile appartenente alla decade che va dal ’65 al ’75 e che vede nel Texas la sua terra promessa. Dotato di una straordinaria attitudine live che lo renderà una tappa imperdibile dei prossimi festival estivi, Indigo Meadow è dinamico, aggressivo, vario e spesso piacevolmente lisergico. Imperdibile, inoltre, il ritmo morbosamente ammiccante di Always Maybe, traccia che unisce un’attitudine post-punk a un calediscopio di sample, voci di sottofondo e distorsioni. Un disco che sarà una delle bombe indie dell’anno.
di Alessia Marzovilla
di Michele Casella
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Generare un popolo di bit I videogiochi di Peter Molyneux a cura di Cristò In alto: Peter Molyneux Nella pagina a fianco: Un’immagine tratta da Fable III
Visita il sito della 22 Cans http://bit.ly/XsLTUH
Già da alcuni anni risulta evidente come i videogiochi abbiano raggiunto una maturità tecnica e narrativa molto vicina a quella del cinema. Non tutti i videogiochi, naturalmente. Alcuni progetti – uno su tutti la saga di Assassin’s Creed – rivelano un potenziale artistico ancora in gran parte inesplorato e probabilmente frenato dalle necessità commerciali delle principali software house. Non è un caso che Peter Molyneux, sviluppatore britannico di culto, abbia deciso di lasciare la Lionhead Studios, casa produttrice di videogiochi da lui stesso fondata, a soli sei anni dall’acquisizione da parte di Microsoft. Molyneux è uno di quegli sviluppatori che sanno portare delle visioni negli occhi e nelle mani dei videogiocatori, di inventare modalità di gioco rivoluzionarie e soprattutto di mettere il videogioco al servizio di un’idea forte, direi quasi filosofica. Il suo primo gioco di successo è Populous (sviluppato nel 1989 per la Bullfrog Productions e pubblicato dalla Electronic Arts), in cui, come molti ricorderanno, il giocatore è Dio e deve modificare le caratteristiche di un territorio per far sì che il suo popolo di fedeli cresca e si sviluppi e lo ami (!), in modo da poter combattere il popolo di fedeli avversari e devoti a un altro Dio. L’idea alla base di Populous è che la simulazione di dinamiche socioculturali – religiose, in questo caso – sia riproducibile da un’intelligenza artificiale guidata da una mano umana. Se nella filosofia delle principali religioni monoteiste la mano di Dio guida il proprio popolo di fedeli, allora un popolo ‘minore’ fatto di bit e righe di comando può essere ugualmente guidato dalla
mano del giocatore. Tutto questo mi ricorda alcuni racconti dello scrittore Stanislaw Lem, ma anche alcune considerazioni filosofico-matematiche di Douglas Hofstadter e in generale tutta la riflessione sociologica della migliore letteratura fantascientifica degli anni Sessanta e Settanta, da William Gibson a Ray Bradbury. Oggi Molyneux, dopo aver lavorato ai capitoli del controverso Fable per Microsoft, decide di rimettersi in gioco fondando una software house indipendente, la 22Cans, per ricominciare a dare corpo alle proprie visioni lontano dalle logiche strettamente commerciali e burocratiche delle major del videogame. In una recente intervista Molyneux ha detto: «Parte del problema è rappresentata dal fatto che i grandi sviluppatori e i grandi publisher devono mettere in atto determinati procedimenti. Non possono consentire una creatività senza limiti, perché, se lo facessero, gli sviluppatori creativi finirebbero con lo spendere tutti i soldi dei publisher. Non c’è modo di dire: ‘Ho due persone nell’ufficio, ed entro quattro mesi rilascerò un gioco che sarà completamente diverso dal solito’. In una grande azienda servirebbero quattro mesi soltanto per far approvare il concept del gioco». Peter Molyneux, dunque, prova a liberare la propria creatività in vista di un grande progetto di cui parla poco e intanto rilascia una app semplice dietro cui, naturalmente, c’è una grande idea: «Il futuro è dei curiosi».
Alla ricerca del tesoro al centro del cubo La app Curiosity di Molyneux
Alla fine l’ho fatto: ho scaricato ‘Curiosity – What’s Inside the Cube?’ sull’iPad. Il nome dell’ideatore, Peter Molyneux, era una garanzia, e se ne parlava tanto. Sessanta miliardi di cubi uniti a formare un unico grande cubo. A ogni tap sparisce un cubetto. Non bisogna fare altro che picchiettare lo schermo per cancellare i cubetti, tutti i cubetti, sessanta miliardi di cubetti, fino a raggiungere il centro del cubo e scoprire cosa c’è dentro. Si sa solo che è qualcosa che cambierà la vita di chi lo trova e che solo una persona potrà avervi accesso, colui che romperà l’ultimo cubetto. Curiosi? Nel giorno del debutto 236.000 di persone hanno scaricato l’applicazione e hanno cominciato a scalfire il cubo. C’è chi ha cominciato a demolire senza ritegno e chi ha approfittato per lasciare messaggi politici e dichiarazioni d’amore o per disegnare figure effimere che presto scompaiono sotto i colpi degli altri giocatori. Qualcun altro ha fatto subito incetta di bombe e picconi (in vendita nello store dell’app): permettono di potenziare la forza distruttiva dei propri polpastrelli per alcuni minuti, e sono armi che possono costare fino a 50.000 dollari. Insomma per il momento Curiosity è un gioco rivoluzionario in cui oltre tre milioni di persone cooperano alla vittoria di uno solo, ma presto si comincerà a fare sul serio, come si augura lo stesso Molyneux: «Aspettate che il cubo diventi davvero piccolo, di sapere che manca poco alla sua distruzione, e vedrete come resterete incollati allo schermo per scoprire cosa c’è dentro». (Cristò)
GAMIFICATION
E se vivere fosse un arcade? La diffusione degli smartphone e dei social network ha portato in poco tempo un grandissimo numero di persone a giocare anche per ore a videogame spesso ripetitivi nelle dinamiche di gioco, ma che fidelizzano attraverso ricompense virtuali con cui acquistare premi o bonus per il gioco stesso. Forse è per questo che il concetto di gamification, pur essendo piuttosto antico nella sostanza, è stato espresso da Jesse Schell, noto game designer, solo nel 2010. La gamification consiste nell’uso di meccaniche e dinamiche tipiche dei videogame in contesti diversi da quelli del gioco vero e proprio. Attraverso la gamification è quindi possibile applicare alcuni concetti base dei videogiochi (livelli, boss da superare, bonus ecc.) alle raccolte punti dei grandi centri commerciali, o all’educazione pubblica, alle norme igienico-sanitarie, o ancora a cinema, musica ed editoria. Potremmo ritrovarci presto, per esempio, a partecipare a un gioco collettivo per la raccolta differenziata che premi i migliori invece di punire i recalcitranti. Naturalmente le implicazioni della massificazione di un approccio del genere sono ancora tutte da studiare e potrebbero aprire scenari idilliaci quanto apocalittici. Intanto conviene farci caso: quando qualcuno ci inviterà a fare un gioco nuovo, chiediamoci se vuole venderci qualcosa. (Cristò) www.gameifications.com www.gamification.it
La terza squadra Un racconto di Nicolò Aurora Il boato di rabbia degli oltre diecimila tifosi assiepati nelle tribune mi rimbomba nelle orecchie. Il guardalinee ha alzato la bandierina e ha annullato quello che poteva essere il gol del vantaggio per un fuorigioco millimetrico e visto, quindi, solo da lui. Partono subito le proteste. Il guardalinee è già accerchiato dai giocatori in casacca azzurra che chiedono spiegazioni più o meno cortesemente. Tocca a me. Metto in moto le gambe e raggiungo anch’io il guardalinee per fare la mia parte e prendere le sue difese. Esatto. Le sue difese. Perché il mio compagno di squadra non ha la divisa azzurra della squadra di casa e neanche quella rossa degli ospiti, ma ha la ‘giacchetta nera’ come me, anche se oggi vestiamo in giallo fosforescente, ma neri o gialli abbiamo la stessa divisa e, come in una vera squadra, devo difendere anch’io la nostra area per evitare il peggio. La squadra degli arbitri. Quella che non considera mai nessuno. E sì, perché in campo di squadre non ce ne sono solo due. Arrivo e mi fiondo subito all’attacco. Qualche parola dura verso il classico giocatore di esperienza che si sente autorizzato a rivolgersi verso di noi neanche fossimo al mercato del pesce, un cartellino giallo al più insistente ed ecco che la situazione torna sotto controllo mentre sento cantare a squarciagola «Mettila! Mettila… la bandiera mettila nel…». Rido e riprendo la gara. Normale amministrazione, ormai non ci faccio più caso. Ricomincia il gioco. Il difensore batte il calcio di punizione e neanche due secondi eccola lì! SBAM! Contatto duro tra il 7 azzurro e il 9 rosso. Fischio. Fallo. E poi? Ho un secondo e mezzo di tempo per decidere se giallo o rosso. Il tempo di percorrere quei 15 metri che mi separano dal luogo del fallo, il luogo del crimine, e decidere della sorte del 7 azzurro. Intanto in tribuna sono tutti in piedi in attesa della mia decisione. Il fallo è stato brutto. Devo calmare le acque e un rosso è quel che serve. ROSSO. Espulsione. Fuori. Mi verrebbe da dire anche: «per te il Grande Fratello finisce qui» ma evito. Arrivo di corsa, mano al taschino, estraggo il cartellino e PAM! Rosso diretto. Fulmino il giocatore con lo sguardo e non gli lascio il tempo di aprir
bocca che gli grido: «Fuori, esci fuori e non fiatare!». Lui rimane con la bocca a mezz’aria e si avvia poi mesto verso lo spogliatoio. Per evitare di essere accerchiato anch’io faccio subito battere la punizione. Intanto dagli spalti si alza un nuovo coro: «Eh uomo nero alè uomo nero alè… coglio…!». Rido ancora… questa volta però perché non sono vestito di nero, ma di giallo e nessuno come sempre se ne accorge. In fin dei conti è divertente essere l’uomo nero. E ogni domenica provo la stessa allegria ed eccitazione di quando ero una giovane speranza della scuola calcio ‘Sparlotti’. La stessa che provai quando dissi al mister Sergio «Non se la prenda, ma io voglio fare l’arbitro». La risposta fu disarmante ma prevedibile: «L’arbitro? Ma non potevi fare il calciatore come tutti gli altri? Ma porca la miseria, che ci hai tu che non va?». Me lo sono chiesto a lungo e poi la risposta l’ho trovata da solo una uggiosa domenica di novembre nelle tribune di un campetto di periferia mentre assistevo a una partita di mio nipote di dieci anni. Ventidue simpatici marmocchi che rotolano dietro una palla cercando di mostrarsi futuri Pelè agli ordini di un mister, il mio mister, Sergio. A fine gara lo vado a salutare e non gli dico ciao, ma: «Mister, io l’ho capito perché non volevo fare il calciatore. Perché da calciatore in serie B non ci sarei mai arrivato, da arbitro sì». La sua risposta fu la migliore. Un sorriso sincero e poi: «Hai ragione. Anzi, se vi serve un allenatore…». «Ma mister, noi non siamo mica una squadra!». «Oh sì che lo siete. Avete pure la divisa dello stesso colore!». Sergio aveva ragione. E mi ritornano in mente le sue frasi proprio mentre il difensore rilancia verso il centrocampo. La partita continua e io riprendo a correre e a inseguire l’azione mentre l’attaccante stoppa di petto e tenta la rabona per poi provare il tiro e far vincere la propria squadra. Corro anch’io. Ho una squadra da far vincere. La mia.
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