Björk Sigur Rós Arcade Fire Beach House Daft Punk un’iniziativa di
Contenuti 04
Quantum Loop
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Loop in Realtà Aumentata
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I luoghi del cinema e della cultura in Puglia
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Programma
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Björk Possibly maybe probably star Not so quiet Il corpo come universo
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Sigur Rós Come una supernova L’album aureo dei Sigur Rós Musiche da una terra adolescente
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Arcade Fire Arcade Fire: riflessi canadesi Una distopia multimediale A commento della nostra adolescenza
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Beach House Delicata psichedelia Dream a little dream of teen Di casa nel deserto
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Daft Punk Il casco come archetipo Invasione elettronica Rockstar in assenza
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Quantum Loop
Il viaggio audiovisivo del nuovo millennio Un festival in cinque serate, un volume di approfondimento, un percorso in Realtà Aumentata… e molto di più!
a cura di Michele Casella
Sedotta dalle molteplici sollecitazioni della cultura pop del nuovo millennio, la redazione di “Pool” si lancia in una nuova iniziativa che unisce musica, videomaking, editoria e multimedialità. Lo fa ribaltando il metodo di approccio alla materia audiovisiva, avvicinando i lettori a uno scambio diretto con esperti del settore, condividendo gli spazi della cultura per ritrovare una socialità che non passi solo dal word of mouth digitale. Lo fa grazie a una collaborazione con l’Apulia Film Commission, protagonista non solo delle politiche di supporto alla filiera cinematografica, ma intestataria di un progetto di promozione autoriale che restituisce agli spettatori la possibilità di scegliere il proprio percorso di narrazione visuale. Lo fa ribaltando il proprio nome, trasformandolo in una delle keyword della moderna comunicazione transmediale: loop. Loop come il refrain di un brano che ti entra in testa e che non riesci dimenticare. Loop come la ripetizione seriale dei video in programmazione continua. Loop come il flusso senza soluzione di continuità di Vine. Loop come il campionamento digitale attorno a cui
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costruire una traccia dubstep. Loop come matrice primordiale di un frattale in perenne rigenerazione. Perché Loop è, innanzi tutto, un festival multimediale che vuole connettere il mondo della musica contemporanea con il meglio del filmmaking internazionale, e per farlo utilizza i due strumenti a cui “Pool” è maggiormente affezionato: la carta stampata e i device di nuova generazione. Il nostro viaggio audiovisivo parte da cinque esperienze sonore di fondamentale rilievo internazionale, quelle di Björk, Sigur Rós, Arcade Fire, Beach House e Daft Punk. Attorno ad essi l’entourage di Loop ha coordinato un importante approfondimento sui registi, le tecniche e gli immaginari sviluppati nella loro videografia, affiancando nomi di straordinario interesse come Michel Gondry, Spike Jonze, Leiji Matsumoto, Roman Coppola, Chris
Cunningham, Lars von Trier, Terry Gilliam, Carmen Vidal, Dean DeBlois, Vincent Morisset, Andrew Huang, Christopher Doyle, Floria Sigismondi, August Jacobsson, Allen Cordell, Eric Wareheim e molti altri. Autori, dunque, che hanno segnato a fuoco la cultura cinematografica di questi anni 2000 e che hanno attraversato il mondo della musica indipendente per approdare al grande pubblico e alle grandi produzioni. Cinque icone della musica contemporanea per un programma suddiviso in altrettante serate, ciascuna delle quali impostata in un intreccio di ascolti, visioni e analisi critica. Il coordinamento di questi appuntamenti è affidato alla redazione di “Pool Magazine”, a cui si affiancheranno alcuni dei più brillanti giornalisti italiani, provenienti da esperienze editoriali di particolare valore e (in primis) veri appassionati di cinema e musica. Attraverso una selezione
di videoclip, cortometraggi, opere animate, app innovative e tantissima musica, Loop vuole esplorare i meccanismi di interazione fra audio e immagine, per tracciare lo storytelling di queste collaborazioni e creare un confronto attivo fra esperienze multidisciplinari. Loop nasce inoltre come risposta all’imperante necrofilia culturale che affligge il nostro Paese, perennemente rivolto verso un passato in decomposizione e marzialmente chiuso alle nuove istanze del nostro tempo e del nostro mondo. In controtendenza rispetto a un sistema mediatico (e istituzionale) che riempie qualunque spazio della propria attività con infinite disamine sulle glorie vecchie di mezzo secolo, Loop risponde con sprezzante biasimo e pratica disinvoltura. Alla glorificazione di vecchie cariatidi preferiamo l’urgenza della pop culture, alle rimembranze
conservatrici contrapponiamo le critiche urticanti, al puzzo di stantio ci opponiamo con la freschezza del nuovo che avanza. Anche per questo Loop si presenta con questo volumetto di approfondimento, redatto dalla giovane redazione di “Pool Magazine“ e impreziosito dall’utilizzo delle nuove tecnologie. All’interno di queste pagine trovate infatti una serie di contenuti fruibili in Realtà Aumentata, ovvero grazie all’interazione con smartphone e tablet. Un modo semplice ed efficace per valorizzare il piacere dell’approfondimento e avere a portata di mano il mondo audiovisivo dei nostri artisti di riferimento. Perché il contemporaneo è vivo e in splendida forma, in continua evoluzione in continua evoluzione in continua evoluzione in continua evoluzione in continua evoluzione in continua evoluzione...
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Loop in Realtà Aumentata
L’ibridazione fra carta stampata e digitale apre nuove strade all’interattività fra le arti
Mentre in Italia il dibattito è ancora focalizzato sul conflitto fra carta e digitale, le modalità di integrazione fra questi strumenti hanno già permesso di modificare la fruizione dei contenuti e di rendere ancor più intensa l’esperienza interattiva del lettore. È per questo che Pool ha progettato la pubblicazione che avete tra le mani come uno strumento di informazione versatile e di facile utilizzo, concepito per ospitare contenuti in Realtà Aumentata. In questo modo abbiamo cercato di rendere la lettura il più multimediale possibile, mettendo a vostra disposizione un’app gratuita con cui raggiungere video, interviste e approfondimenti per completare il nostro viaggio fra musica e cinema. Come funziona tutto ciò? Ecco una semplice guida per l’utilizzo della Realtà Aumentata su Loop!
Scopri ancora di piĂš. Inquadrando con il tuo smartphone o tablet le pagine contrassegnate dal simbolo della Augmented Reality (AR) puoi accedere ad altre informazioni sugli artisti. Cerca il simbolo sulle pagine, inquadra e divertiti!
Come accedere ai contenuti speciali
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I luoghi del cinema e della cultura in Puglia Bari, Lecce e Foggia sono i nodi della rete dei Cineporti
Loop non è solo un momento di approfondimento sull’interazione fra cinema e musica, ma anche un’occasione di aggregazione e dialogo. La scelta della location non poteva che focalizzarsi sui Cineporti, fulcro dell’attività di Apulia Film Commission, nonché anima delle produzioni nazionali e internazionali che trovano spazio nella regione. Ma i Cineporti sono anche il principale spazio di fruizione delle istanze autoriali e multimediali della nostra contemporaneità, i luoghi più indicati per presentare le opere sonore e visuali dei protagonisti di Loop. Cultura e lavoro È all’interno della Fiera del Levante che le troupe cinematografiche in Puglia trovano spazio (1.200 mq) per i casting, per depositare scenografie e costumi, per ogni necessità logistica. Ma il Cineporto di Bari è attivo tutto l’anno come luogo di aggregazione, come sede di rassegne cinematografiche, incontri, conferenze. Base operativa dell’Apulia Film Commission, il Cineporto del capoluogo pugliese coniuga la tensione all’approfondimento e alla diffusione della cultura con l’affermazione del valore lavorativo, economico delle attività intellettuali. Attivo da più di quattro anni (è stato inaugurato il 16 gennaio 2010), il Cineporto, facilmente raggiungibile dall’ingresso monumentale della Fiera del Levante, è ormai un punto nevralgico delle attività culturali cittadine.
Non solo Bari In Puglia i Cineporti sono tre, e costituiscono sul territorio regionale una rete di interscambi e collaborazioni. Il Cineporto di Lecce (500 mq) si trova all’interno delle Manifatture Knos, ex scuola di formazione professionale riconvertita al servizio della cultura. Nelle vicinanze del centro cittadino, il Cineporto è gestito dall’associazione culturale ‘SudEst’ ma è aperto alle proposte di tutti gli operatori del territorio ed è pronto a ospitarne le attività. Foggia vanta un Cineporto di 3.000 mq, facilmente raggiungibile dalla tangenziale, che realizza la sua vocazione alla diffusione culturale con una galleria permanente di arte contemporanea, con l’attrezzatura e gli spazi per ospitare laboratori didattici nel campo della comunicazione e dei new media. Il Cineporto in terra dauna è in grado di ospitare produzioni cinematografiche, televisive e radiofoniche, oltre a concerti, spettacoli e, ovviamente, proiezioni.
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Programma
Location Cineporti di Puglia – Bari Padiglione 180, Fiera del Levante Lungomare Starita, 1 Start h 21:00 In streaming nei Cineporti di Lecce e Foggia Dialogano con gli ospiti: Michele Casella Leonardo Gregorio Luca Romano Carlotta Susca MarilÚ Ursi
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Björk
Interviene Luca Valtorta de La Domenica di Repubblica
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Sigur Rós
Interviene Francesco Pacifico de IL Magazine – Il Sole 24 Ore
16 Arcade Fire Interviene Luca Pacilio de Gli Spietati
23 Beach House Interviene Edoardo Bridda di Sentireascoltare
30 Daft Punk Interviene Cecilia Ermini de Il Manifesto
http://bit.ly/1uLd6Pi
Björk 16
Possibly maybe probably star Dall’avanguardia al pop, la musica di Björk attraverso le sue collaborazioni A cura di Michele Casella
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Not so quiet Björk al cinema con von Trier e Barney A cura di Leonardo Gregorio
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Il corpo come universo Arte e sperimentazione nei videoclip di Björk A cura di Marilù Ursi
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Possibly maybe probably star Dall’avanguardia al pop, la musica di Björk attraverso le sue collaborazioni a cura di Michele Casella
Parcellizzato in milioni di categorie, classi e target di consumo, l’ascoltatore contemporaneo è letteralmente aggredito da un flusso musicale inarrestabile, che esonda in qualunque spazio quotidiano e si gonfia di suggestioni mai così libere e audaci. Una vera esplosione sonora, capace di superare i limiti dello spazio (annientando le distanze fra le culture musicali del globo, unendo oriente e occidente, ritmi e melodie, modelli e standard) e del tempo (per un’attualizzazione del passato, talvolta in un’omologazione del presente, sovrapponendo cultura alta e bassa, travolgendo le certezze e spezzando gli equilibri di genere). È il postmodernismo, baby. E ancora oltre. Eppure, perfino oggi, ci vuole un particolare segno artistico per diventare eroi della contemporaneità e icone della cross-medialità. Ci vuole un mix fuori dall’ordinario per insinuarsi in quel formidabile interstizio che congiunge mainstream e ricerca, ascoltatori avventurosi e schiavi della top 40, maniaci del collezionismo e consumatori inebetiti, youtuber e melomani. Björk – assieme a pochissimi altri artisti dell’ultimo ventennio sonoro – è a tutti gli effetti una delle superstar del firmamento mondiale, capace di mettere d’accordo un pubblico estremamente eterogeneo
e di superare il valore delle singole tracce da lei composte. Perché Björk, in oltre 20 anni dalla pubblicazione dal suo primo album solista, ha saputo introiettare le sperimentazioni del contemporaneo e rimodularle al servizio del pop, congiungendo la ricerca sonora (prevalentemente) europea e statunitense per riconsegnarla alle orecchie del grande pubblico. Un’operazione fondamentale e deflagrante che, di fatto, ha modificato le abitudini di ascolto di un’intera generazione e che ha intrecciato ascolti (voce, strumenti, album, remix), visioni (video, film, installazioni) e ambi(en)ti di applicazione (tecnologia, scienza, narrazioni).
Perché Björk, prima che una grande artista, è un’intelligente producer ed una straordinaria spettatrice del contemporaneo, capace di intercettare il meglio dell’avanguardia e di metabolizzarlo con stupefacente sensibilità. Così, se Debut del 1993 è il suo album più diretto e forse personale, epifania di una musicista unica all’interno di un panorama internazionale già ricco ed esaltante, il seguente Post vede l’imprescindibile apporto di due figure fondamentali della prima metà dei ’90: Tricky e Howie B. Grazie a queste collaborazioni il secondo disco dell’islandese si colora dell’oscurità del trip-hop e della fluorescenza acid, ovvero i
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generi più influenti di quegli anni in Gran Bretagna. Post incrocia infatti una vocalità ancora molto pop e sensuale con tappeti ritmici ben noti nei club londinesi, che passano dalla battuta lenta di Possibly Maybe alla tensione notturna di Army of Me. E se la cover di It’s Oh So Quiet (in origine di Betty Hutton) resta un’indimenticata hit radiofonica, è la straordinaria progressione di Hyper-Ballad a connettere la poetica sognante di Björk con l’esuberanza eccitante del big beat, il genere che di lì a pochi anni avrebbe conquistato le dancefloor di mezzo mondo. L’ex cantante degli Sugarcubes, infatti, diventa in questi anni icona artistica non tanto per la capacità di anticipare le tendenze, quanto per l’incredibile attitudine a intrecciare il suo stile con le espressioni sonore più esaltanti del proprio tempo. In questo senso Homogenic, uscito nel settembre del 1997, è opera fondamentale per la pop culture del recente passato, letteralmente capace di ribaltare un approccio d’ascolto conservatore in favore della creatività e della pura contaminazione. In Homogenic
confluiscono l’elettronica minimale ed il bolero di Ravel, le dilatazioni più oniriche ed il pathos melodico, l’elegia degli archi e lo stridore del digitale, per un album che inaugura anche l’essenziale collaborazione con il produttore Mark Bell. Ma Homogenic è opera fondamentale per la più significativa apertura di Björk verso il digitale. Questo non solo perché Bell proviene dalla scena della Warp Records (al cui interno gravitano personaggi del calibro di Aphex Twin, Autechre, Plaid e molti altri) ma soprattutto per altri due nomi che si affermano al fianco della giovane islandese: Alec Empire e Chris Cunningham. Il primo, tedesco, è fondatore degli Atari Teenage Riot, band di punta della scena digital hardcore anni ’90 e vero ispiratore della più violenta e dissacrante aggressione cacofonica che l’Europa abbia potuto ammirare. Con brutalità spaventosa e chirurgica Alec Empire remixa e stupra i brani più noti di Homogenic, una vera estasi di destrutturazione di fondamentale importanza per la progressione artistica della fanciullina nordica. Chris Cunningham firma invece il video di All Is Full of Love, un momento storico del videoclip mondiale
per una delle più straordinarie apologie dell’amore al tempo dell’intelligenza artificiale. Se fino a Homogenic il lavoro di Björk ha sempre avuto un’impronta prettamente europea, con Vespertine del 2001 si apre una fondamentale svolta americana, tutta racchiusa in due incontri imprescindibili: coi Matmos e con Zeena Parkins. Iconoclasti, costantemente al di sopra delle righe, legati all’attivismo gay e veri rappresentanti della digital-art, i Matmos portano nella musica di Björk la follia e la ricerca dell’allora attivissima scena elettronica di San Francisco. Il duo le apre le porte della disfunzione, dell’errore consapevole, del glitch, costringendola a rielaborare le modalità di interazione fra acustico e digitale. Quel che ne vien fuori è Vespertine, un capolavoro indimenticabile in cui i delicatissimi tappeti di tiny-sound arrivano finalmente al grande pubblico dopo anni di circolazione nei soli ambienti dell’avanguardia e della ricerca. È dunque con questo album che Björk raggiunge il suo massimo risultato, ricongiungendo la musica ‘alta’ della ricerca
elettronica al pop più ispirato, combinando la grazia dei cori eschimesi a carillon e percussioni digitali, riunendo le atmosfere notturne dei temi per film alle obliquità di una produzione anni 2000. E poi ci sono gli archi, fondamentali soprattutto nelle performance dal vivo e guidati dall’arpa di Zeena Parkins. È grazie a quest’ultima se tanta altra sperimentazione entra nella musica dell’artista europea, perché attorno alla Parker si ricompone un mondo di esperienze legato a nomi come Ikue Mori, John Zorn (e la sua imprescindibile etichetta Tzadik) Anthony Braxton, Jim O’Rourke, Lee Ranaldo e tanti altri. In tre parole: New York e Chicago. Superato il bellissimo tour di Vespertine e l’incredibile varietà di sollecitazioni di questo particolare periodo artistico, Björk torna al suo strumento primario, la voce, e lo fa con un album tanto intimo quanto spiazzante: Medùlla. Anche in questo caso le collaborazioni restano di altissimo calibro, in particolare con l’imprevedibile Mike Patton ed il vate del progressive Robert Wyatt, mentre l’apporto di Mark Bell è in primis strumentale ad un ritorno
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Björk Hyperballad 1996 - Diretto da Michel Gondry http://bit.ly/1BxDC2F
alle forme primarie e ad un canto polifonico mai così suggestivo. Un disco praticamente privo di hit se si eccettua la vivacissima Who Is It, ed è proprio da qui che parte il viaggio di Volta attraverso ritmi e percussioni. Anche in questo caso è il tavolo di produzione a correggere la rotta, presentando il rapper e producer Timbaland a indirizzarci attraverso sovrapposizioni di violenti beat e fiati magniloquenti, ritmiche sincopate e percussioni quasi liquide. Fondamentale inoltre il featuring di Antony Hegarty nella ieratica The Dull Flame of Desire, brano capace di comunicare una passione quasi sacrale grazie allo straordinario vocalist di I Am a Bird Now, il disco che meno di due anni prima l’aveva posizionato fra i più
importanti interpreti del nuovo millennio. Last but not least, Björk sposta nuovamente il baricentro delle sue produzioni e sceglie di incrociare la sua attrazione per le scienze naturali alle evoluzioni tecnologiche, il tutto solidamente avvinto ad un universo sonoro in perenne espansione. Nell’ottobre del 2011 nasce dunque Biophilia, il progetto multimediale in cui la musicista incontra Scott Snibbe, artista newyorchese che ha dedicato la sua attività ai media interattivi e all’uso che i nuovi device possono avere nella fruizione e nella composizione musicale. Biophilia diventa il primo app album della storia, uno
strumento di pura interazione fra le creazioni di Björk e la fantasia dell’ascoltatore. È quest’ultimo, infatti, il nuovo protagonista delle composizioni, che deve letteralmente esplorare attraverso viaggi fra le costellazioni, paesaggi costituiti di cellule e virus, fasi lunari che diventano singoli suoni di un unico brano. Le tracce del disco vengono dunque completamente destrutturate e ricomposte dal fruitore, che diventa il principale featuring di questo concept album e che è anche chiamato a cimentarsi con un sistema di musica generativa. In questo modo un disco sempre più fuori dal tempo – frutto di incastri fra fonti sonore distantissime, continue
accelerazioni e rallentamenti, suoni di sintesi e strumenti tradizionali – si pone al centro di questi anni ’10. Un progetto, dunque, in continuità con l’azione di sdoganamento pop della musica contemporanea, anzi di più: un tentativo di rendere attivo il collegamento fra ascoltatore e artista, permettendogli di interagire – attraverso il gioco e le differenti interfacce – con le strutture ed i suoni che hanno reso unica e riconoscibile l’opera di Björk. Un’opera pop, ma allo stesso tempo di continua scoperta. Una musica dal piglio radiofonico, ma avventurosa nella sua costante ricerca innovativa. Un’opera unica, che è già un classico fuori dal tempo.
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Not so quiet
Bjรถrk al cinema con von Trier e Barney a cura di Leonardo Gregorio
Dentro le implosioni e le lacerazioni del cinema (ossia del mondo chiuso) di Lars von Trier; poi fra le zone liminali, le aperture e le confluenze, le visioni che si fondono nell’arte di Matthew Barney. Björk è attrice prima per il regista danese – in Dancer in the dark, film premiato al Festival di Cannes, nel 2000, con la Palma d’oro (e premiata sarà la sua interpretazione) –, poi per il compagno Matthew Barney, statunitense, affermatosi a partire dagli anni Novanta come artista fra i più innovativi, straordinario sperimentatore di linguaggi (è autore del ciclo multicodice Cremaster). Barney la dirige in un’opera complessa e stratificata, che sposta e ricolloca continuamente i sensi, le coordinate della percezione, del contatto: Drawing Restraint 9, presente nelle sezione ‘Orizzonti’ alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2005. Per questi film la cantante islandese firma le colonne sonore, con gli album SelmaSongs e Drawing Restraint 9, fra loro diversissimi, come i due registi e le loro opere, le loro immagini, e come lei che muta, diventa altro con i suoi personaggi (entrambi estremi, impossibili).
Come riporta uno dei principali studiosi di Björk, Ian Gittins, del personaggio in Dancer in the dark (e di se stessa) la musicista dice: “Al pari di Selma, anch’io avverto un forte bisogno di evadere e mi sento calma e sicura solo quando canto e creo musica. L’unica differenza tra me e lei è che Selma è molto più ingenua, perché crede seriamente che la vita possa essere un lungo, interminabile musical mentre io non la penso più così da molto tempo”. Siamo negli anni Sessanta, Selma si è trasferita dalla Cecoslovacchia ai lontani Stati Uniti, lavora in fabbrica e anche fuori per arrotondare, vive in una roulotte con suo figlio, frequenta le prove per un musical, nella parte di Maria, la protagonista di Tutti insieme appassionatamente. Ma Selma sta per perdere definitivamente la vista e tutti i suoi risparmi le servono per evitare la stessa sorte a suo figlio. Camera a mano e melodramma doloroso, disperato. Così von Trier descrive la sua protagonista, ne Il manifesto di Selma: “È più di una sognatrice! Ama ogni espressione della vita. È capace di apprezzare il più piccolo miracolo della sua esistenza così misera. E sa vedere tutti i dettagli […]. Il suo amore e la sua emozione davanti al mondo artificiale della musica, la sua fascinazione
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di fronte alla vita vera… la sua umanità, la propria opera artistica… sono i piccoli gioielli del musical in cui si ritrae quando non si sente bene; i frammenti del musical di Selma… che non assomiglia a nessun altro musical”. Anche prima di morire giustiziata, impiccata, per un omicidio che è stata costretta a compiere (anche lei in balìa degli accadimenti come gli altri protagonisti della vontrieriana ‘Trilogia del cuore d’oro’, che ha Le onde del destino al principio e Idioti nel mezzo), canta, ora per davvero e non più solo nella sua fantasia, qualche istante prima della fine. Björk è meravigliosa, superiore anche al film, ma lavorazione e rapporti col regista sono stati assai duri. Annuncia di voler chiudere con il cinema, tuttavia nel 2005 la ritroviamo in un’opera completamente differente, che nega la narrazione pura e si fa creazione continua, gesto visionario e imprendibile, ricerca e territorio di limiti, identità, spazi, sospensioni
Matthew Barney - Björk Japanese Geisha (Edited) - Drawing Restraint 9 2005 - Diretto da Matthew Barney http://bit.ly/1wlY9Y7
temporali: Drawing Restraint 9. Corpi, carne, acqua. Vita e morte. E, ancora, riemersione e rinascita. Un’opera che, nell’apparente distanza da chi la guarda, annulla ogni possibile cristallizzazione critica. Un’opera in movimento, come un’allucinazione, un reale penetrato, rivissuto, rifondato, visto per la prima volta, tra profondità e superficie, fra erotismo e tensione figurativa, musica e assenze, composizioni di forme e suoni, scorrimenti, allagamenti. E sangue e liquidi, pochissimi dialoghi. In movimento, verso l’altro, come un ciclo, una mutazione. In movimento, come la baleniera nipponica di Drawing Restraint 9 diretta verso l’Antartico, anche un’enorme scultura di vaselina che si scioglie, deborda, e un uomo e una donna, occidentali (Björk e Barney), in unione scintoista, che si abbracciano in una sensuale, plastica coreografia di corpi, si baciano, si leccano, si amano, fino a tagliarsi, a strapparsi le carni, le gambe, all’interno di un’ “asserzione”, rileva la critica d’arte Angela Vettese, “di come
l’amore assoluto porti a uccidersi, annullandosi l’uno nell’altro, nel sanguinoso rito di un omicidio reciproco”. Il ciclo (cinque film) di Cremaster (1994-2002) è terminato; un altro, invece, continua. Scrive Matthew Barney nelle note di regia: “Drawing Restraint 9 rappresenta la nona parte di un ciclo di lavori avviato nel 1987 […]. Il progetto Drawing Restraint può essere descritto come una sorta di fecondazione trasversale tra il desiderio di creare e la fatica di continuare a creare: un tentativo di rafforzare l’energia creativa senza permettere alla propria pratica di assumere una forma concreta”. Alla fine, in questo nono capitolo, dall’acqua, dalla bocca fuoriescono perle; Björk e l’amore sono un altro corpo. “Fecondazione trasversale tra il desiderio di creare e la fatica di continuare a creare”. Anche qui, Björk è un desiderio, un’invenzione, una magnifica ossessione.
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Il corpo come universo
Arte e sperimentazione nei videoclip di Björk a cura di Marilù Ursi
Il corpo non è altro che materia, bisogna saperla usare nel modo più efficace ed essere in grado di plasmarla a seconda delle esigenze; l’uso che Björk fa della propria immagine dimostra chiaramente quanto questa versatilità possa amplificare, a livello concettuale e di marketing, una potenza vocale già di per sé efficacissima. In prima persona protagonista dei suoi videoclip, affascinante o irritante, a seconda dei gusti, spogliandosi e rivestendosi dei panni più diversi Björk si lascia circondare da differenti atmosfere, frutto delle collaborazioni con registi di culto nel panorama del videoclip musicale e, come un
camaleonte, assorbe le influenze e gli scambi con artisti visivi contemporanei incontrati nel corso della sua vita artistica e personale. Un ponte tra avanguardia e cultura pop, l’artista islandese si manifesta in questa sua accezione ibrida e congiuntiva non solo nella musica ma anche nell’aspetto visivo. Il legame con il minimalismo e l’arte concettuale degli anni Sessanta è tutt’altro che celato dalla cantante, la quale ha più volte dichiarato di guardare a Stockhausen e a Cage come modelli importantissimi sin dagli esordi di giovane musicista nell’Islanda degli anni Ottanta. Il corpo mostrato e usato
per comunicare, nella sua trasformazione e nella sua, a volte scioccante, esibizione, un’arte che esplora concetti essenziali della società, mostra un approccio debitore verso i movimenti avanguardisti degli anni Sessanta: da Fluxus, passando per l’arte concettuale tout court, attraversando elaborazioni più recenti come la Land Art fino alle contemporanee sperimentazioni di Mattew Barney, non a caso compagno della cantante nella vita privata e professionale degli ultimi anni. Mutazione e trasformazione sono elementi esplicativi del corpo, invisibili fili che legano Hunter, con
la sua inquietante metamorfosi in orso polare, alla distorsione dell’essere umano in All Is Full of Love, girato da Chris Cunningham, in cui due robot appaiono nel momento dell’approccio sessuale: ciò che di più disumano si possa concepire nell’atto più umano possibile. L’aspetto erotico, sempre perfettamente inserito in un quadro di compenetrazione panica tra l’uomo e la natura, caratterizza una parte grandissima dei videoclip di Björk, e la sensualità è spesso elemento scatenante. Dalla relazione con l’ambiente ‘selvatico’ di aggressione e attrazione come in Alarm Call, in cui regnano sovrani elementi freudiani come
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serpenti e coccodrilli che sfiorano e percorrono il corpo della cantante, al più intimista It’s In Our Hands, girato da uno dei registi che ha maggiormente collaborato con la cantante islandese: Spike Jonze. La relazione con la natura in quanto creazione organica porta a uno dei videoclip più interessanti da un punto di vista di sperimentazione visiva, ovvero Nature Is Ancient, dove viene mostrata la formazione di un feto che non a caso nei suoi connotati richiama quelli della cantante. Il corpo è centrale, non si tratta di uno qualsiasi, ma di Björk in prima persona: è quasi impossibile vedere degli attori nei suoi videoclip, e addirittura quando le immagini sono digitalizzate e rimaneggiate in funzione di un aspetto non umano, i connotati dei robot o del feto, come nei video citati, rimangono sempre e comunque quelli della cantante.
Eppure il corpo di Björk non è solo esibito e modificato, ma anche disciolto, sgretolato, liquefatto, reso in una consistenza metamorfica e sinuosa, pullulante di energie che da invisibili vengono rese evidenti, spesso proprio grazie alla digitalizzazione del corpo stesso. Si tratta di un organismo dal quale scaturiscono energie e legami con l’esterno come accade in Unravel; estensioni del corpo che attraversano lo spazio, possono creare un baco, un involucro al corpo (Coocoon), oppure perforare la pelle con i piercing di Pagan Poetry, senza dimenticare il lungo piano-sequenza di Hidden Place, che indaga sui particolari del viso dell’artista inserendo, tramite l’innesto di elementi digitali, materiali simil-organici che attraversano bocca, naso e occhi. La versatilità del corpo e la sua metamorfizzazione, anche da un punto di vista sessuale, non
Björk All Is Full Of Love 1999 - Diretto da Chris Cunningham http://bit.ly/1wlYav5
sono certo una novità per quel che concerne l’aspetto visivo di un artista musicale (su tutti basti pensare alla carriera di David Bowie), ma in Björk il tutto si unisce a una considerazione panica della corporeità che penetra nell’universo per definire una unione insanabile tra corpo e natura. Le origini islandesi della cantante in questo giocano un ruolo di certo primario, e il videoclip che rappresenta perfettamente questa idea è forse uno dei più grandi successi di Björk, Jóga, primo singolo tratto da Homogenic, diretto da Michel Gondry, in cui, grazie a un importante uso del digitale, i paesaggi islandesi si aprono mostrando la maestosità e la dirompenza della natura (si pensi allo stesso tema con un’accezione legata al mondo marino presente nel videoclip di Oceania), una natura che è anche interna all’artista, racchiusa infatti nel suo petto.
Se il corpo rimane il fulcro nella poetica visiva di Björk, esso si adatta e modifica a seconda delle visioni che i vari registi le danno; la cantante si lascia influenzare spaziando tra gli immaginari più diversi: dal musical in It’s Oh So Quiet, diretto da Spike Jonze, alle atmosfere orientali sotto la guida di Eiko Ishioka, passando per la science fiction del già citato All Is Full of Love. Un corpo pronto ad abbandonare se stesso per una natura nuova sembra, continuamente, riprendere le parole di Moon: “To risk all is the end all and the beginning all”. Tramite le estreme ricerche, dove la natura incontra l’elaborazione cibernetica, Björk riesce a reincarnare un’idea del corpo allo stesso tempo virtuale e organica.
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http://bit.ly/WSe4Om
Sigur Rós 34
Come una supernova Il tempo e lo spazio nei Sigur Rós A cura di Luca Romano
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L’album aureo dei Sigur Rós Ágætis byrjun, 15 anni da un buon inizio a cura di Raffaele Minella
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Musiche da una terra adolescente I video dei Sigur Rós dall’infanzia al mondo adulto a cura di Carlotta Susca
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Come una supernova Il tempo e lo spazio nei Sigur Rós a cura di Luca Romano
Un corpo, per liberarsi da tutto, si espande, si dilata, si estende, si ritrae e alla fine esplode. Dal 1997, data di pubblicazione del primo album, a oggi i Sigur Rós hanno strutturato le loro composizioni sulla dilatazione dei tempi, degli spazi, della musica stessa. Parallelamente è avvenuto qualcosa di simile anche nei video. Le loro musiche, lontane concettualmente dal modello di canzone classico, hanno espanso i tempi allungando le note e i silenzi, ritraendo un movimento intimista interamente dedito alla ricerca, alla rabbia, all’esistenza stessa. Il loro primo video, Svefn-g-englar (1999), ridispone il corpo danzante, in questo caso di ragazzi disabili e con la sindrome di Down, al centro di una radura apparentemente infinita. È il corpo che cerca una via di fuga, uno sfogo, ma anche una collocazione. La danza è la forma di riappropriazione dei propri limiti fisici, limiti che sono nello stesso momento forza e smarrimento nell’infinito circostante. Ma la volontà di oltrepassarsi come essere umani è una volontà di non accettare le regole anche a livello musicale: famoso è in questo senso l’aneddoto sul rifiuto della band islandese di suonare al David
Letterman Show nei soli tre minuti proposti, non avendo canzoni di quella durata nel repertorio. I tempi dilatati e la lunghezza dei brani sono la diretta conseguenza del progetto di liberazione dalla propria condizione di essere umano finito. La seconda tappa di questo percorso è Vaka (Untitled track #01, 2003), video all’interno del quale la corsa dei bambini, con indosso maschere d’ossigeno, all’interno di un mondo non terrestre, riporta ancora una volta il desiderio di andare oltre, di spingersi verso il limite e scavalcarlo. Dalla danza alla corsa in altri mondi, i Sigur Rós ci portano nell’acqua: il nuoto
sarà la terza tappa con il video di Sæglópur (2006). I corpi qui si arrotolano, si toccano, si muovono completamente liberi nell’acqua: è mostrato ancora una volta il desiderio d’esser qualcosa in più, di poter uscire o di portare ai limiti l’esperienza. Ma la trasposizione della curiosità nel campo sensoriale e musicale si sposta anche all’interno delle età: nel video di Hoppípolla (2005) vediamo che a correre, giocare e riappropriarsi del corpo saranno degli anziani, spinti anch’essi dal desiderio di giocare, di ridere e di liberarsi in senso letterale. Il compimento di questa prima fase – l’espansione – è nel film
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Heima (2007). L’Islanda diventa protagonista assoluta del documentario; il tour dei Sigur Rós toccherà diversi luoghi dell’isola assolutamente sperduti, Jónsi dirà che dopo aver suonato in grandi città affollate, il loro desiderio era tornare in Islanda, dove c’è tanto spazio. Suoneranno gratuitamente in vecchie fabbriche abbandonate, in radure nei pressi delle dighe, in vecchie case, praticamente in ogni luogo possibile. Il rapporto con lo spazio della loro terra d’origine sarà il filo conduttore della rappresentazione stessa. La forza della natura, le cascate, la corrente dei fiumi e del mare, le scie delle navi saranno montate sulla musica mischiando definitivamente il linguaggio musicale con quello visivo, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti: la musica sembrerà una diretta emanazione della forza della natura islandese. Ne è simbolo la marimba cromatica costruita da un artigiano locale con le rocce piatte di alcune montagne.
Quelle rocce diventeranno lo strumento, la musica stessa che i Sigur Rós suoneranno. Se il percorso di espansione e di dilatazione del corpo è stato il primo passo verso un’espansione e una dilatazione musicale, questa ricerca nei confronti dei limiti (corporei e mentali) ha riportato, pochi anni dopo, i Sigur Rós a ritrovarsi davanti a un movimento opposto: la compressione prima dell’esplosione. La presentazione di Gobbledigook (2008) è esattamente questo: le musiche abbandonano momentaneamente il rallentamento dei tempi, i silenzi e l’intimità delle note e lasciano spazio a un singolo breve – tre minuti circa – con un’energia che prende ancora una volta la forma della corsa in una foresta da parte di corpi nudi che giocano, ridono, ballano, si toccano, non si fermano davanti a niente, si tuffano, gioiscono nella forma del godimento, ancora una volta
Sigur Rós Svefn-g-englar 1999 - Diretto da August Jacobsson http://bit.ly/1AFKUPN
cercano una libertà, fisica e mentale, che ci avvicina sempre più al deflagrare, all’incapacità di contenere. La sorte del video Gobbledigook non sarà fortunatissima, la censura dovuta alla messa in mostra dei corpi sarà puntuale, andandosi a scontrare però con un video che di oltraggioso non ha nient’altro che la forza, atto intermedio prima della liberazione definitiva del corpo che avverrà sia musicalmente sia visivamente nel loro ultimo video ufficiale. Brennisteinn (2013) è l’ultima tappa di questo percorso. La musica è ormai lontana dalle sonorità lente e intimiste dei primi singoli, i Sigur Rós sono vicini alla forza delle cascate, del mare e del vulcano islandese. Forza e dolcezza. E così anche il video girato da Andrew Huang avrà il giallo come colore dominante e l’esplosione, la deflagrazione
dei corpi, come traccia. I tessuti strappati si placheranno solo con il volto di Jónsi fumante e di profilo, un volto che sembra pronto anch’esso a esplodere. Il video si concluderà con una corsa, con la polvere di una terra che sembra andare in frantumi, mille pezzi che saltano da tutte le parti. Nello stesso modo i suoni delle canzoni saranno meno puliti e più rumorosi, tutto si mischierà ancora una volta in favore di una energia che è l’energia della natura, l’energia di un corpo che non riesce a placarsi, che non riesce ad arrendersi alla sua necessità d’esser solo quello che è: un mero corpo mortale. Ma le sonorità dei Sigur Rós ci riportano appunto a questo: dovremo liberarci da tutto, espanderci, correre, dilatarci, estenderci, ritrarci e alla fine esplodere, pur di sentirci liberi.
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L’album aureo dei Sigur Rós Ágætis byrjun, 15 anni da un buon inizio a cura di Raffaele Minella
I tipi di Smekkleysa/Bad Taste avevano visto giusto già nel 1997, pubblicando in Islanda Von (‘Speranza’), album d’esordio di quella che la critica specializzata internazionale, qualche anno dopo, consacrerà come “l’ultima grande band del XX secolo”. Quell’album, infatti, poi uscito in versione remix con il titolo Von brigði (Recycle bin), sarà seguito dalla pubblicazione, il 12 giugno 1999, del capolavoro dei Sigur Rós: Ágætis byrjun (‘Un buon inizio’). La formazione in trio di Von è, nel frattempo, diventata un quartetto con l’ingresso del tastierista e polistrumentista Kjartan Sveinsson (nella band fino al 2013), unitosi al cantante e chitarrista Jónsi Birgisson, al bassista Georg Hólm e al batterista Ágúst Ævar Gunnarsson, che, subito dopo le registrazioni dell’album, per dedicarsi alla carriera di grafico lascerà il posto ad Orri Páll Dýrason. Registrazioni iniziate nell’agosto 1998 e frettolose, per un’uscita dell’album prevista l’ottobre dello stesso anno, non portano a risultati soddisfacenti per la band, decisa a che il disco sia “so much better” del precedente. Si dovrà, così, attendere quasi un anno, affinché il lavoro sia finito e convinca la band a definirlo “abbastanza buono” … Il successo in terra natia è travolgente (superando i record di vendita della più nota collega Björk), ma saranno le uscite per Fat Cat Records
e Pias Recordings, nel 2000 nel Regno Unito e nel 2001 in Nord America, che porteranno i Sigur Rós a notorietà e indiscusso successo internazionale. Un amico, Gotti Bernhoft, al quale viene data una registrazione non definitiva dell’album, dipinge su grandi pannelli quello che sarà l’artwork: un feto alieno. La band lo trova di una bellezza sconvolgente e lo adotterà per un bel po’ di tempo anche come simbolo, organizzando una mostra dei dipinti originali in un negozio di dischi di Reykjavik. Peraltro, il soggetto dell’artwork sposa perfettamente l’idea del concept album di un nuovo inizio (ancora amici, all’ascolto delle prime registrazioni, avevano commentato
con “un buon inizio…” , da cui la decisione della title track), speranza, umanità ancestrale e al contempo fantascientifica. Dieci lunghe tracce per un’opera ‘totale’, di forte coerenza interna, dettata soprattutto da elementi fortemente contrastanti. Atmosfere rarefatte, falsetti eterei, masse sonore, crescendo esplosivi, ninne nanne ‘infantili’, elettronica calibrata, parti palindrome, archi cameristici, ottoni bandistici, violente distorsioni chitarristiche (Jónsi sfrega le corde della chitarra con un archetto di violoncello), cori maestosi, canto in hopelandic (in islandese vonlenska, non intonazione di testi ma articolazioni che trattano la voce come
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strumento musicale) e sospettabili ‘sezioni auree’. Tutto ciò che, inevitabilmente, porta alla mente atmosfere e paesaggi lunari quieti e confortanti, o violentemente terrestri, sempre di straordinaria bellezza, di una piccola isola di ghiacci e vulcani sperduta nell’Oceano, dove i mesi invernali sono lunghi e bui e “forse fare buona musica è possibile anche perché non si ha tanto tempo da perdere stando al sole” . L’Intro è parte della title track, ma inversa, in cui già si è accarezzati dal falsetto sovrainciso di Jónsi, che ripete un verso su accompagnamento ostinato fino a scomparire nel magma sonoro di basse frequenze su cui rintoccano
i celeberrimi ‘Mi’ che, per mano, accompagnano sull’uscio di un mondo magico. E lì, l’ascoltatore potrà fluttuare tra sogno e realtà, ipnosi, turbamento, estasi, commozione, gioia, fino alle lacrime. Svefn-g-englar (‘Sonnambuli’ – anche se englar in islandese significa ‘angeli’) incede per 10:04 minuti su un tappeto sonoro minimale costruito su quattro accordi (Mi+, Re+, Do#-, La+) e la melodia onirica del falsetto di Jónsi; poco dopo il sesto minuto (sezione aurea?), l’illusione di una seconda sezione su tre accordi (Si-, La+, Mi+), ma subito riprende, incessante, il materiale della prima metà del brano, interrotto solo da un improvviso, inaspettato
finale elettronico. La traccia sarà rilasciata come primo singolo della band (con Viðrar vel…) e se ne ricaverà un video ufficiale diretto da August Jacobsson, meraviglia assoluta, con la coreografia del ‘Pelan special-needs theatre group’, gruppo di performer costituito da ragazzi affetti da sindrome di Down, autismo e altre disabilità. Starálfur (‘Elfo che osserva’) è romanticismo puro, supportato dall’intensa orchestrazione che vede protagonisti gli archi. Flugufrelsarinn (‘Salvatore di mosche’) è come osservare da vicino un geyser, aspettandone l’eruzione che arriva puntuale e ciclica ai minuti 3:50 e 6:10, con
altissime colonne di suono sulle quali si stagliano gli acuti di Jónsi. Ný batterí (‘Nuove batterie’), ovvero due soli accordi (Si-, Sol+) e un ostinato del basso su cui il canto dialoga con gli ottoni, prima sospeso levitando su un paesaggio lunare, poi bruscamente sbattutto sulla Terra e saldamente ancorato alla ritmica della batteria. Hjartað hamast (bamm bamm bamm) (‘Il cuore batte – boom boom boom’), tra i brani più leggeri e rari in cui Jónsi può estendere la propria voce dal registro più grave a quello acuto; come da titolo, il ‘battito del cuore’ è a volte regolarmente ritmato, altre soffertamente trattenuto.
42 Viðrar vel til loftárása (‘Ottima giornata per un attacco aereo’) è la traccia di maggiore durata con i suoi 10:18 minuti; forse il capolavoro dal punto di vista creativo e, sia per numerazione di traccia (7) che per minutaggio iniziale rispetto alla durata totale dell’album, con forti rimandi (seppure, forse, non intenzionali) alla ‘sezione aurea’. La struttura è più articolata e maggiore la varietà armonica, complici linee che s’intrecciano di pianoforte e archi; solo a metà brano si unisce la voce di Jónsi, che, quando al minuto 5:50 detta una pausa (molto dilatata nei live…) porta l’emozione ai limiti delle lacrime. È la B-side del primo singolo e ne è stato tratto un video ufficiale prodotto da Ken Thomas, che affronta in modo diretto, ambientandolo negli anni Cinquanta durante una partita di calcio, il delicato tema dell’omosessualità adolescenziale. Tutti i componenti della band recitano nel video (nei panni di allenatore, arbitro, segnapunti, spettatore). Olsen olsen (una barretta dolce islandese), cantata in hopelandic, è dichiaratamente “una canzone per bambini” (Georg), quindi opportunamente in tempo ternario, con due sezioni che si alternano, la seconda delle quali è prima ‘timidamente’ enunciata dal flauto,
poi dall’intero imponente organico strumentale arricchito di archi, fiati e coro, per un finale tanto orecchiabile quanto maestoso da trasformare una ninna nanna in epico lirismo orchestrale. Ágætis byrjun (‘Un buon inizio’) è una passeggiata tra forme laviche ricoperte di delicatissimo muschio: attenti a non calpestarlo deformandone le bizzarre forme naturali. Avalon è la delicata coda strumentale che riconduce all’atmosfera iniziale dell’album. Si può esserne certi, Smekkleysa/ Bad Taste aveva visto giusto da subito! E la storia sembra ricominciare: dopo una corposa produzione discografica, videografica, progetti paralleli di Jónsi (solista e con Alex Somers) e Kjartan (che, per questi, lascia la band dopo averle “dedicato la vita”), nell’ultimo album Kveikur (‘Stoppino’), del 2013 per XL Recordings, si assiste alla virata più energica ed elettronica, a livelli che, nell’interezza di un album, i Sigur Rós non avevano mai espresso. Ovvero, forse, un (nuovo) buon inizio.
Raffaele Minella racconta il disco aureo Ágætis Byrjun http://bit.ly/X5lqwJ
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Musiche da una terra adolescente I video dei Sigur Rós dall’infanzia al mondo adulto a cura di Carlotta Susca
Riconoscibilissimo nella prima parte, l’itinerario visivo dei Sigur Rós segue il processo di crescita umano, dall’infanzia alla preadolescenza, per arrivare all’ingresso nel mondo adulto. Sin dai primi video (20002008) si era creata una felice sovrapposizione e identificazione fra la giovane età dei musicisti e la natura geologica della loro isola di provenienza, l’Islanda, una delle terre di più recente formazione del pianeta; nei ritmi distesi dei primi album, questo ci raccontavano i video: il momento che precede il passaggio, l’innocenza di un periodo che prelude al salto dalla rupe, nel vuoto. Nel secondo album della band, quello che è unanimemente riconosciuto come il suo capolavoro, Ágætis byrjun (2000), compaiono i video Svefn-g-englar e Viðrar vel til loftárása: il primo declina il tema dell’innocenza con l’ausilio di attori affetti da disabilità; il secondo mostra chiaramente la contrapposizione fra l’universo preadolescenziale (innocente, ignaro delle imposizioni innaturali della società) e quello adulto, abbruttito dal lavoro, incasellato nei ruoli imposti e bisognoso di intrattenimento per santificare le feste. Due ragazzini si baciano teneramente sul campo da calcio in cui avrebbero
dovuto mostrare la propria virilità e un ‘sano’ agonismo, e sullo sfondo dello sconcerto generale e di una Bibbia caduta dalle mani dell’incredulo parroco, il padre di uno dei due giovanissimi interviene a strappare suo figlio dall’abominio che ritiene stia perpetrando. In Viðrar… si compendiamo i temi e i tratti visivi della prima fase del gruppo: protagonisti giovani, primissimi piani, natura incontaminata, minaccia proveniente dal mondo adulto. Questo video tratta, in fondo, lo stesso argomento di Scenes From The Suburbs, il mediometraggio tratto da Suburbs degli Arcade Fire e diretto da Spike Jonze: il conflitto generazionale che si configura come guerra e stato d’assedio ma la cui peggiore minaccia deriva proprio dall’inevitabile passaggio da uno schieramento all’alto, quello indotto dalla crescita e cooptazione nel mondo adulto. Ciò che aspetta i ragazzini con l’inevitabile crescita è ancora sconosciuto, al di fuori della macchina da presa, come nel video di Glósóli (in Takk…, 2005): qui una compagnia di giovanissimi al seguito di un tamburino percorre la natura islandese prima di prendere la rincorsa e saltare da una rupe, senza apparentemente cadere nel vuoto. L’unico bambino che ha delle incertezze temporeggia
46 sul margine, prima di seguire, poco convinto, gli altri (cadrà?), a indicare che occorre arrivare al giusto livello di maturazione per operare il cambiamento necessario, per saltare dall’altra parte, per abbandonare la certezza delle terre battute della propria infanzia e prepararsi a esplorarne altre. E se nello stesso Takk… il video di Hoppípolla ritrae degli anziani, lo fa solo per mostrarli mentre saltano a piedi uniti nelle pozzanghere, suonano i campanelli di sconosciuti per poi scappare, giocano alla guerra in un vagheggiato ritorno all’infanzia proprio perché è quello il periodo in cui si è – forse – più felici. Con Valtari (2012) si interrompe la fusione di immagini e musica realizzata fino all’album precedente, Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust (2008), da cui era tratto il video ‘scandaloso’ di Gobbledigook, un cortometraggio – ritenuto adatto a un pubblico di soli adulti – che segue la corsa gioiosa, l’esplosione di vitalità di un gruppo di giovani nudi sulla spiaggia. Valtari Film Experiment è l’insieme di sedici cortometraggi realizzati da quattordici registi a cui la band islandese aveva fornito un budget perché realizzassero “qualsiasi cosa
venisse loro in mente ascoltando le canzoni di Valtari“. L’idea alla base dell’esperimento era quella di mettere in pratica la predisposizione del gruppo all’apertura delle interpretazioni: “Non abbiamo mai concepito la nostra musica in funzione di una riposta emotiva pre-programmata. Non vogliamo dire a nessuno come sentirsi o cosa trarne. Con i film [del Valtari Film Experiment] letteralmente non avevamo idea di cosa i registi avrebbero prodotto. Nessuno di loro sapeva cosa stessero facendo gli altri”. Un momento di passaggio, inevitabilmente. Pur non avendo mai voluto imporre un’interpretazione a partire dalla propria musica, i video fin qui realizzati si sposavano alla perfezione con il paesaggio nordico e insulare, a tratti incontaminato, dell’Islanda. Lasciando ad altri la possibilità di interpretare liberamente la trasposizione visiva delle suggestioni sonore, i Sigur Rós hanno preparato il terreno a un cambiamento, al passaggio sull’altro versante che si è realizzato con Brennisteinn (2013). Abbandonata la natura vista come terra madre accogliente e culla dell’infanzia, questo video è paragonabile più a un’esplosione vulcanica, all’affacciarsi – sanguinoso, doloroso, eppure necessario e affascinante – in una
Sigur Rós Brennisteinn 2013 - Diretto da Andrew Huang http://bit.ly/1uLdf5v
nuova fase. Il video di Brennisteinn, diretto da Andrew Thomas Huang, segna il passaggio all’età adulta del gruppo in favore di un impatto visivo forse maggiore, ma anche meno in linea con i video precedenti. Abbandonati i ritmi lenti, i primissimi piani, il contatto tangibile con la natura islandese, Brennisteinn si configura come un sacrificio rituale dai toni inevitabilmente dark: unica nota di colore il giallo acido delle
corde, delle esalazioni, della colata lavica, e che retroillumina la luna in un video che segna il rito tribale di accettazione nel mondo adulto. Ecco il motivo della trasformazione, l’incubazione in un corpo che, squarciato, dà vita a nuove forme umane pronte allo scatto: sono definitivamente abbandonate le tematiche adolescenziali che fino a Með Suð… avevano contrassegnato il gruppo, adesso qualcos’altro si affaccia, una nuova fase ha inizio.
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Arcade Fire 52
Arcade Fire: riflessi canadesi Un viaggio nella scena musicale che ha lanciato (e ispirato) la band di MontrĂŠal A cura di Michele Casella
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Una distopia multimediale Spike Jonze traduce in immagini gli Arcade Fire A cura di MarilĂš Ursi
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A commento della nostra adolescenza Due video degli Arcade Fire A cura di Luca Pacilio
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Arcade Fire: riflessi canadesi Un viaggio nella scena musicale che ha lanciato (e ispirato) la band di Montréal a cura di Michele Casella
Nei primi giorni del 2014 l’edizione americana di “Rolling Stone“ titolava: Can Arcade Fire be the world’s biggest band? Erano passati poco più di due mesi dalla pubblicazione del loro quarto album, ma nel mondo della musica alternativa Reflektor era già diventato l’hype del momento, un disco di cui tutti i media di settore, i curatori dei festival e gli appassionati stavano parlando. Perché questo doppio album rappresenta un momento di svolta per la band di Win Butler, ma allo stesso tempo la naturale prosecuzione di un percorso di maturazione che coinvolge l’intera scena musicale canadese. Il primo, decisivo cambiamento per gli Arcade Fire è stata la scelta di mettere al banco di produzione James Murphy, assistito da Markus Dravs, che già da anni era al fianco della formazione indie rock. L’ex leader degli LCD Soundsystem sposta in maniera significativa il loro baricentro sonoro, puntando su ritmiche ben più ballabili che vanno a integrarsi con la potenza espressiva delle composizioni. Il risultato è ben chiaro fin dall’opening track, dove le percussioni sembrano rubate da una produzione DFA o (andando parecchio indietro nel tempo) della mitica ZE Records. Ma è tutto l’album ad avere un’impostazione decisamente
differente rispetto al passato, quasi a rappresentare un riuscito tentativo di equilibrare l’istinto alternativo degli Arcade Fire con il potenziale radiofonico dei brani. Questa commistione trova dunque in Reflektor un perfetto compendio fra musica e marketing, per una scena come quella canadese che in tutti gli anni 2000 ha brillato di fulgida luce propria. Punto di partenza sono le etichette discografiche indipendenti, la cui alta media qualitativa ha trovato formidabili esempi di sintesi sia nel campo della ricerca elettronica che dell’indie rock. La Alien8 Recordings, ad esempio,
vede nel suo roster i rumorismi di Merzbow come le improvvisazioni per chitarra elettrica di Loren Mazzacane Connors, gli estremismi elettronici di Tim Hecker e le evoluzioni funamboliche al limite fra elettrico e acustico di Keiji Haino. E se la label presenta dei prodotti discografici più vicini a un ascolto indie come Lesbians on Ecstasy e The Unicorns (due progetti peraltro interessantissimi del panorama alternativo), è con le pubblicazioni di Set Fire to Flames, Hrsta, Acid Mothers Temple e Shalabi Effect che la Alien8 crea un ponte rispetto all’altra label di riferimento per la sperimentazione rock canadese: la Constellation di
54 Montreal. Aperta nel 1997, questa etichetta è diventata il fulcro della musica anti-corporativa, anti-capitalista e anti-globalista, raccogliendo le produzioni di alcune delle band più significative degli ultimi vent’anni. Primi fra tutti i Godspeed You! Black Emperor, dalla cui matrice hanno poi trovato la giusta visibilità anche i progetti Silver Mt. Zion, Do Make Say Think, Polmo Polpo e tanti altri. Impossibile però non citare le ultime opere di Vic Chesnutt prima del suicidio, alcuni dei lavori migliori della discografia dei Tindersticks e le illuminazioni fra cantautorato e jazz di Frankie Sparo, Elizabeth Anka Vajagic e Land Of Kush. Della favorevole influenza di queste band si nutre anche il progetto degli Arcade Fire, che non solo ne condivide l’approccio art-rock ma ne metabolizza il particolare suono di chitarra, a metà strada fra passionalità, stridori, dilatazioni e clamori. Ancor più diretti sono gli accostamenti con i cataloghi di altre due label, la Paper Bag Records e la Arts & Crafts Productions. La prima mette a segno alcune ottime scelte grazie al dream-pop di Young Galaxy, le melodie di You Say Party! We Say Die! e il digital dei PS I Love You, ma è con gli Stars che riesce a esportare i suoi dischi anche all’estero. Il quintetto di Toronto
esplode infatti con l’eccellente Set Yourself on Fire, un disco abbastanza vicino alle sonorità degli Arcade Fire e che si avvale di un bell’affiatamento fra Amy Millan e Torquil Campbell. Ancor più importante il lavoro svolto dalla Arts & Crafts, base della band con maggiori affinità sonore rispetto agli Arcade Fire: i Broken Social Scene. Capitanato da Kevin Drew, l’ensemble ha saputo costruire album che – al pari della discografia di Butler & Co. – intreccia cavalcate art-rock, perle squisitamente pop, digressioni post-rock, derive noise e cantato decisamente indie. Il loro capolavoro del 2003 You Forgot It In People resta pietra miliare del recente passato della musica canadese, ma anche Feel Good Lost e l’omonimo del 2005 rappresentano alcune fra le più interessanti pubblicazioni del triangolo Vancouver-TorontoMontreal. Sebbene nessuna di queste band abbia raggiunto la notorietà né il successo commerciale degli Arcade Fire, sono molti i tratti che legano queste formazioni e che le hanno rese fondamentali per l’intera scena canadese. Impossibile allora dimenticare i New Pornographers, intestatari di un pop dalle venature nineties e dal tipico innesto voce-chitarra-batteria, ma soprattutto considerati dalla
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stampa specializzata il secondo gruppo canadese più rilevante del nuovo millennio. Più concitati e ‘americanizzati’ risultano i Wolf Parade, esplosi grazie alla bella prova del 2005 Apologies to the Queen Mary e poi retrocessi a un indie più convenzionale e talvolta privo di quei primi, irresistibili refrain. Scanzonati e giocattolosi, gli Unicorns si discostano invece dagli arrangiamenti perfettamente orchestrati degli Arcade Fire così come dalla loro produzione folgorante, per dar vita a un suono volutamente claudicante, sberciato e un po’ fiabesco. Discorso simile per Owen Pallett e i suoi Final Fantasy, negli anni passati decisamente pop e ora concentrati su una versione musicale molto più
minimal, che unisce una chitarra pizzicata, il suono di violino e una voce impostata sulla modalità songwriter. L’elettronica, dicevamo, entra in maniera più decisa nella discografia degli Arcade Fire con Reflektor, ma l’indie canadese ha già proposto delle eccellenti uscite sul fronte digitale. Primo fra tutti va segnalato Caribou, abbastanza distante dall’estetica degli Arcade Fire, ma straordinario miscelatore pop, shoegaze, house e rock. Con le sue prime produzioni (pubblicate con il moniker di Manitoba) il giovane producer crea un ponte immaginario fra Nordamerica e UK, esplorando le sovrapposizioni fra saturazione, melodia e beat.
Arcade Fire Reflektor 2013 - Diretto da Anton Corbijn http://bit.ly/1rZfqFF
Con Swim, però, la sua conversione alla dancefloor è completa e può addirittura entrare in concorrenza con le tracce dei Crystal Castles. Questo duo di Toronto, infatti, rappresenta la risposta al punk digitale che ha sfondato negli Stati Uniti e invaso l’Inghilterra, tanto contaminato dalla chiptune quanto esasperato nella parte vocale e nelle epilessie ritmiche. La mappa sonora canadese delinea dunque un profilo estremamente interessante sia in termini di originalità che di esportabilità, coerente nella costruzione di un’identità certo sfaccettata, ma decisamente riconoscibile. L’intelligente progettualità delle label locali, unita alla capacità di
esportare un prodotto musicale bello e internazionale ha portato a una lenta e costante crescita dell’intera scena alternativa. Una scena che nel 2014 è arrivata ai clamori dei media globali grazie a un disco e a una band decisamente unici. Perché Reflektor degli Arcade Fire è allo stesso tempo un’opera barocca e contemporanea, da ballare nei club e da cantare ai concerti dal vivo, interattiva nella sua declinazione web ma dai rimandi classici nell’uso degli strumenti musicali. Il disco che nel 2014 è effettivamente diventato the world’s biggest one.
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Una distopia multimediale Spike Jonze traduce in immagini gli Arcade Fire a cura di Marilù Ursi
Nell’estate del 2011 appare, gratuitamente in streaming su MUBI, Scenes From The Suburbs, esordio di una felicissima collaborazione artistica tra gli Arcade Fire e Spike Jonze. Un mediometraggio di 30 minuti modellato sul concept album The Suburbs; un copione scritto da Win e Will Butler assieme a Jonze che ha portato band e regista in giro per Austin, Texas, reclutando come attori degli adolescenti non professionisti; l’esito: un racconto distopico in un ambiente suburbano paranoico e violento, in cui la crisi adolescenziale sembra rivestire un punto di vista di sconcertante privilegio. Le atmosfere orwelliane ci ricordano il clima di angusta paranoia legata a quel geniale
piano ammezzato nato dalla penna di Kaufman in Essere John Malkovich, diretto dallo stesso Jonze, mentre i lenti indugi sui protagonisti, con carrelli e panoramiche attente ai particolari di visi e sguardi, richiamano l’estetica di Gus Van Sant che tanta importanza ha avuto, e continua ad avere, nel racconto dell’adolescenza americana. L’album The Suburbs – interamente concepito sul tema della periferia come luogo di sospensione della memoria e carcere a cielo aperto da cui è impossibile fuggire – viene riletto dalla macchina da presa di Spike Jonze abbandonando la frammentarietà del commento video alla traccia musicale e giungendo a un racconto quanto più cinematografico possibile.
Nulla a che vedere con un semplice e descrittivo videoclip: ci troviamo davanti a un’operazione visiva parallela a quella musicale: “un altro punto di vista dello stesso posto”, come l’ha definita Will Butler. La dichiarazione di uno dei personaggi di voler ricordare tutto ciò che è accaduto durante un’estate viene subito contraddetta dall’impossibilità di catturare determinati momenti rispetto ad altri; con l’incapacità narrativa si apre la storia vissuta da un gruppo di adolescenti nel bel mezzo dell’urban sprawl che annienta l’identità del territorio cittadino e dei suoi abitanti. Lo sguardo di Kyle, tra i protagonisti del film, si concentra su un momento di cesura della
sua adolescenza, l’estate in cui Winter si tagliò i capelli, un’estate di cambiamento che ci permette di osservare la vita adolescenziale nei sobborghi del cuore degli Stati Uniti. Il racconto musicale di queste grigie atmosfere urbane si avvale dell’occhio esterno degli Arcade Fire, che dal limitrofo Canada indagano la realtà americana da una prospettiva critica. Il mezzo è spesso il pedinamento dei protagonisti in lente carrellate o movimenti con camera a mano scanditi dal rallenty e dal montaggio alternato, che rende alla perfezione l’idea di una memoria frammentata anche grazie all’uso di frame neri a indicare vuoti narrativi incolmabili – impossibile non pensare ai corridoi della Columbine
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Arcade Fire The Suburbs 2011 - Diretto da Spike Jonze http://bit.ly/1rZftBa
High School in Elephant o all’elaborazione, tramite il ricordo, del trauma vissuto da Alex in Paranoid Park. Una realtà raccontata esternamente da un occhio partecipe ed emotivo, nostalgico e recettivo rispetto al vissuto dei personaggi che si muovono nel profilmico. Spike Jonze attraversa il disagio giovanile in una atmosfera estranea ai protagonisti, un incubo pervasivo che si agita tra le strade della città e si manifesta tramite l’imperante presenza delle forze armate, a viso coperto, in una realtà che ha tutto l’aspetto di una città in guerriglia. Gli elicotteri che sovrastano le case monofamiliari con giardino e i prefabbricati sono spie del controllo militare a cui è sottoposto il territorio urbano; gli
unici aerei che sfrecciano nel cielo sembrano vie di fughe impossibili che lo spettatore osserva inerme e pensoso in soggettiva. L’amicizia, il contrasto generazionale con i genitori e le lunghe passeggiate in bici abitano la plumbea periferia americana, resa come il territorio di una deformazione onirica in cui, come viene dichiarato da Winter, i ragazzi sono solo dei personaggi, reali fino a quando il sogno è in atto, ma dall’esistenza precaria e legata a un prossimo risveglio. Quel risveglio violento che esploderà con l’attacco d’ira finale, carico di tutta la frustrazione maturata in questa realtà di controllo, violenza fisica e psicologica reiterata. Una guerra di periferia persa in partenza e rappresentata
realisticamente all’interno di un incubo in cui tutto ciò che rende la gioventù invincibile, l’amore o l’amicizia, viene annientato grazie alla decadenza del paesaggio disumano che pervade le strade di periferia. Una città sotto scacco delle milizie senza che se ne chieda il perché, in costante clima da coprifuoco e terrore, mette in evidenza una guerra non quantificabile in cadaveri ma ben esplicitata dall’alto tasso di disillusione giovanile. Scene dalla periferia umana e urbana di una nazione in crisi, disfatta dall’uso delle armi, dalla legalizzazione del terrore e dalla vita costruita nel bel mezzo di un’urbanizzazione che vìola, in primis, lo stato di salute fisica e mentale che dovrebbe essere diritto inviolabile del cittadino.
Le lunghe panoramiche e i lenti carrelli con stacchi in soggettiva raccontano, indugiando sui sentimenti di disagio dei protagonisti immortalati in sospensione, una realtà disumana, una società che rifiuta gli adolescenti per pigrizia e disinteresse. Scene From the Suburbs è prima di tutto uno sguardo, dritto negli occhi di questa disfatta, riportato alla narrazione musicale degli Arcade Fire. Un prodotto che merita attenzione per la qualità visiva e l’uso delle tracce sonore in funzione interna, diegetica, con intenzioni assolutamente cinematografiche. Lo straniamento ci avvolge, e qualcosa di più chiaro si scorge nelle parole di Will Butler in Suburban War: “This time’s so strange. / They built it to change”.
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A commento della nostra adolescenza Due video degli Arcade Fire a cura di Luca Pacilio
Soprattutto con il concept album The Suburbs i canadesi Arcade Fire sono riusciti a frequentare con lucida emotività uno spazio espressivo in cui una sensibilità tutta americana trova asilo musicale, uno spazio che riflette sentimentalità, turbamenti, incertezze e l’equilibrio precario di una precisa fascia d’età, quella degli adolescenti, la stessa che aveva trovato espressione e definizione in alcune opere dei migliori cineasti americani di questi ultimi anni (Noah Baumbach, Gus Van Sant, Wes Anderson in particolare). The Suburbs è un disco che si fa interprete, insomma, di una sottile inquietudine che, già testimoniata al cinema, serpeggia attraverso la memoria di un tempo (la giovinezza), i luoghi che diventano miti e una quotidianità che, scandita dalle impressioni e i dubbi dei giovani protagonisti, diventa poesia delle piccole cose. Le canzoni – che suonano come insieme composito di quadri e quadretti scollegati, legati da voli pindarici o da salde connessioni sotterranee, con derive drammatiche e picchi tragici – alternano il registro malinconico a momenti più solari, evidenziando segni che rinviano le miniature impressioniste delle loro liriche anche ai microcosmi di certa letteratura americana
che ha marcato a fuoco il recente immaginario. Da artisti totali quali sono, gli Arcade Fire fanno sì che lo spirito che anima questo disco si rifletta poi in tutto l’ambito artistico che esso ricomprende, a cominciare dai video che ne vengono tratti che, lungi dall’essere delle mere illustrazioni dei brani, muovono dal medesimo presupposto: quello di sollecitare, attraverso un’altra modalità espressiva, quella visiva, il medesimo sentire che emerge dalle canzoni. In questo senso il video di Spike Jonze Scenes From the Suburbs, nato come normale clip promozionale e poi man mano espansosi, fino a diventare un vero e proprio mediometraggio, rende in chiave lievemente distopica il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta: i sobboghi (case regolari, grandi centri commerciali, prati annaffiati: il vuoto insomma) sono, insieme, luoghi e non luoghi, ambienti vissuti come alienanti piste di gioco in cui scorrazzare allegri di giorno per poi trasformarsi, di notte, in inquietante zona di guerra: la periferia conosce il coprifuoco, il mondo dei grandi è una distante minaccia, la realtà quella piscologica dei ragazzi. L’opera in video non si limita insomma a tradurre in immagini i
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brani del gruppo, va di pari passo con essi: Spike Jonze, regista anch’esso sensibile al tema (Nel mondo delle creature selvagge, in forma favolistica e fortemente metaforica, parlava della stessa cosa) crea insomma un film in cui visione, concetto, musica e poetica si muovono di pari passo e nella medesima direzione. Il pop orchestrale degli Arcade Fire scava l’anima, insomma, porta alla luce ricordi come fotografie sbiadite, rovista nell’intimo e quindi, proprio perché tanto del nostro quotidiano oramai vive e si riflette su internet, usa quello spazio virtuale e si impone in esso. Il video interattivo, allora, prima ancora di essere un grande ritrovato tecnologico e il traguardo
di una visione sofisticata e all’avanguardia, viene utilizzato perché consente di rendere al meglio quello che è il nocciolo della poetica del gruppo canadese. Ecco perché l’altro capolavoro in video tratto dal disco è The Wilderness Downtown di Chris Milk: perché questo lavoro, usando l’interattività in una chiave fortemente intima, fa sì che, sulla base del brano We Used to Wait, attraverso l’uso di Google Maps in ambiente Chrome, lo spettatore, avendo preventivamente fornito l’indirizzo della casa della propria infanzia, si trovi di fronte a una molteplicità di finestre che illustrano la corsa in bici del protagonista virtuale come fatta attraverso i luoghi della sua
Arcade Fire The Wilderness Downtown 2010 - Diretto da Chris Milk http://bit.ly/1qJh7V0
personale infanzia. Ancora una volta il tempo narrato dal gruppo è un tempo sospeso, un tempo interiore, un tempo soggettivo che viene esplorato attraverso un meccanismo che, per quanto risponda a istanze sperimentali, finisce col soggiacere a logiche squisitamente vintage. Se l’interattività coinvolge direttamente il fruitore, la personalizzazione dell’esperienza può essere intesa in senso letterale: la canzone del gruppo diventa quella del proprio passato e la tecnologia legata all’interazione viene asservita alle esigenze della memoria di chi sta guardando ed ascoltando. The Suburbs – che paradossalmente è un fragile
terzo disco, meno inventivo e convincente dei due precedenti – si afferma quale opera sintomatica come poche, sorta di affresco visionario di un mondo in crisi che celebra un’era transitoria (la nostra) con lucidità inusitata, muovendo dalle illusioni e dalla conseguente capacità degli adolescenti di dipingere con la fantasia momenti, situazioni e ambienti che uno sguardo oggettivo restituisce nella loro cruda sostanza. Un disco in cui la nostalgia è un attimo e l’ineluttabilità del tempo trascorso è oggetto di consapevolezza vigile, come sintetizzato dai versi finali: “Se potessi riavere indietro / Tutto il tempo che abbiamo sprecato / Non farei altro che sprecarlo ancora”, The Suburbs (Continued).
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Beach House 70
Delicata psichedelia Il cammino artistico dei Beach House A cura di Edoardo Bridda
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Dream a little dream of teen Il suono circolare dei Beach House e l’eredità dell'etichetta 4AD A cura di Michele Casella
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Di casa nel deserto Le fughe nello spazio e nel tempo dei Beach House A cura di Marilù Ursi
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Delicata psichedelia Il cammino artistico dei Beach House a cura di Edoardo Bridda
Un percorso lineare, via via sempre più amplificato e vivido, un sogno che s’avvera. Il percorso dei Beach House, ovvero Victoria Legrand e Alex Scally, sa di predestinazione, riporta indietro il tempo alle origini del dream pop, ai Cocteau Twins, agli Opal. A quando da noccioli di voce e chitarra nascevano alchimie uniche, storie semplici, domestiche, con un portato però tutto generazionale, nato per i posteri. La loro storia, musicalmente, a dir il vero, non è facilmente riconducibile a questo o quel protagonista storico del movimento, mancano i riferimenti diretti alle wave, al blues, allo shoegaze e a tanta looping elettronica del dream; semmai la loro passione per la lentezza ha portato ad altrettanti paragoni con Red House Painters, Tarnation, Dakota Suite e soprattutto Low; il loro però, è un cammino singolare, unico, un crescendo agrodolce e bohemien, una seppiata unione di antiche fragranze mitteleuropee e americane tra i profumi vocali, gli organi grevi e il contralto di lei e gli arpeggi ariosi e femminei alla sei corde (anche synth) di lui, come se sulle teste della coppia volassero nuvole gonfie di pioggia e lo studio di registrazione fosse una vecchia soffitta di specchi, un portale della memoria. Victoria Legrand e Alex Scally si conoscono nel 2004 frequentando la scena indie rock locale di Baltimora, città simbolo della New Weird America e in genere di molti artisti eccentrici, da Frank Zappa a Animal Collective e Dan Deacon. Apparentemente fuori contesto, la Legrand, che è nata in Francia ma si è appena diplomata al locale Vassar College, e il più schivo Scally ne rappresentano in un certo senso l’anima in controluce, due spettrali ombre di delicata psichedelia, avvolgente e appartata. Non passa molto tempo e la coppia inizia a sperimentare a 360° sia umanamente che emotivamente. La voce della Legrand sembra un incrocio tra Kendra Smith, Stevie Nicks, Françoise Hardy e Nico, e la strumentazione (organetto, drum machine, chitarra slide e, alla bisogna, qualche found object) è ridotta al minimo per il massimo effetto. In due giorni, in uno scantinato, nasce Beach House, l’album omonimo di una ragione sociale a lungo cercata e poi apparsa come dal nulla, e tutto d’un tratto sembra perfetta. A pubblicarlo è la Carpark, piccola etichetta di Washington che non ha un vero genere di riferimento, e quell’anno, è il 2006, pubblica anche i lavori di Takagi Masakatsu e Belong. Beach House accende subito alcuni potenti riflettori sul duo a partire da Pitchfork e, due anni più tardi, sempre via Carpark, la conferma si
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Beach House Gila 2008 - Diretto da Jon Irone http://bit.ly/1qJh8IE
chiama Devotion. L’album, che pare uscire da un isolamento fatto di polverosi ricordi e agrodolci maliconie, si poggia su una agreste psichedelia, un fascino particolare e misterioso che si risolve in alcuni dei picchi creativi della sfuggente – almeno fino ad ora – carriera del duo. È l’album dell’indie-consacrazione, a cui segue un tour importante, l’egregio completamento di una prima parte di carriera. In tracklist, classici come Gila, Heart Of Chambers e All The Years, ma anche ottime canzoni. Due anni più tardi, anticipato dal singolo Norway, esce Teen Dream. Dalla piccola Carpark, il duo ha firmato per Sup Pop e, grazie al finanziamento della label, in cabina di regia, per la prima volta, c’è un produttore professionista come
Chris Coady, che in curriculum può vantare lavori per Yeah Yeah Yeahs, TV on the Radio e Grizzly Bear. Proprio per questi ultimi, Victoria contribuisce ai cori di Two Weeks, poi inserito nell’album Veckatimest, e Slow Life, compresa nella colonna sonora di New Moon. Non è la sola traccia registrata in questo lasso di tempo: Used to Be è un nuovo singolo che (riarrangiato) verrà compreso nell’album successivo, e Play The Game è la cover dei Queen che i Beach House registrano per la serie di compilation album organizzata da Red Hot Organization per la raccolta di fondi per la lotta all’AIDS (l’album è Dark Was The Night). Teen Dream è quindi un nuovo inizio. Un lavoro dove “c’è più movimento e un’intensità fisica
e più tangibile”, afferma Vicotria. In un certo senso, è il loro album più visuale e ‘rock’. Sicuramente è la prova più professionale e, differentemente dal passato, le session per la coppia sono lunghe (nove mesi) ed estenuanti (fino a 16 ore al giorno). “Eravamo ossessionati dalle scoperte musicali che fanno i teenager”, afferma la Legrand a Spin, il cui zio Michel ha composto in passato soundtrack per film quali Quell’estate del ’42 e Yentl.
E proprio con la cinematografia si lega strettamente un album che, sempre con il budget offerto da Sup
Pop, può godere di un videoclip per ogni canzone presente in scaletta. Passano due anni e viene pubblicato Bloom (2012) un lavoro che sostanzialmente “può essere
visto come un continuo di Teen Dream ad angoli smussati e con pigmentazione ad acquerello”, afferma Riccardo Zagaglia, “grande coesione di fondo, produzione più nitida e levigata e le pieghe maggiormente dark del loro sound rilegate a livello lirico, con temi quali la morte e la perdita dell’innocenza”. Allo stesso modo, sempre sotto il controllo artistico del duo, continuano gli abbinamenti cinematografici nella loro musica, tanto che del brano Forever Still viene girato anche uno short film diretto dalla coppia e da Max Goldman. Il video, ispirato da Live at Pompeii dei Pink Floyd, vede i Beach House suonare dal vivo i brani del disco in varie location attorno a Tornillo, Texas, dove l’album è stato concepito.
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Dream a little dream of teen Il suono circolare dei Beach House e l’eredità dell'etichetta 4AD a cura di Michele Casella “I find it really hard to go to a Beach House concert. I see the way people look at Victoria Legrand. It’s like I’m revisiting what it was like to see a sea of thousands of faces look at Elizabeth, just madly in love with her… I think it’s really emotional, their music”. Simon Raymonde (Cocteau Twins) ”Under the Radar”, November/December 2013 Ci sono suoni che entrano nell’immaginario collettivo per diventare dei veri marker generazionali. Sono quelli che segnano il tempo in maniera indelebile, che ti risucchiano d’improvviso nel passato, spesso saccheggiati da giovani musicisti in mancanza di ispirazione. E poi c’è qualcosa di più, ci sono suoni talmente originali da risultare permanenti, capaci di racchiudere l’essenza di una scena e difficili da copiare senza far gridare al plagio. La 4AD di Ivo Watts-Russell è senza dubbio una delle poche etichette discografiche le cui musiche appartengono a questa seconda categoria, una label che nel ventennio ‘80-’90 ha radicalmente cambiato la musica britannica moderna e integrato la classicità con le
spinte innovative dell’elettronica. Dall’ecletticità della 4AD sono arrivate le urgenze espressive di una manciata di band, ottimamente sintetizzate in due memorabili compilation: la splendida Lonely Is an Eyesore (1987) e la (quasi) irreperibile Lilliput. Si tratta di gruppi che attingono a folk, rock, barocco e classica contemporanea, miscelando l’estetica del post-punk alle armonie più eteree del pop. Stiamo parlando di Dead Can Dance, Lush, The Wolfgang Press, Throwing Muses, ma soprattutto di This Mortal Coil e Cocteau Twins. Come spesso accade, la musica di queste band ha lentamente trovato spazio in Europa per poi raggiungere le lande d’oltreoceano, radicandosi nei sogni pop di artisti, cineasti e ascoltatori. Da David Lynch a Greg Araki, da Peter Jackson a Chris Fisher, da Harold Budd ad Antony and the Johnsons per poi arrivare ai giovani Hundred Waters, sono innumerevoli gli artisti che hanno scelto questa particolare esperienza made in UK per assimilarla e incorporarla nelle loro personalissime opere. Tra di essi, però, i Beach House restano la formazione che meglio di tutte ha recuperato questa eredità per creare qualcosa di inedito. Pubblicati fin dal primo album dalla Carpark di Washington D.C., Victoria Legrand e Alex Scally
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Beach House Wild 2012 - Diretto da Johan Renck http://bit.ly/1urbo7z
hanno infatti sviluppato un rapporto privilegiato per il mercato europeo con la londinese Bella Union, la label nata proprio dalle ceneri dei Cocteau Twins. A guidarla troviamo infatti Simon Raymonde, che riconosce da subito le affinità con il suono 4AD e decide di lanciarli fin dal 2006 con il loro album omonimo. Caratterizzato da una struttura più semplice e da una produzione meno invasiva, questo debutto su lunga distanza mostra già gli elementi fondanti della musica à la Beach House: dalle atmosfere soffuse ai ritmi rallentati, dalla voce malinconica della Legrand alle fondamentali tastiere dal suono cangiante. I primi ascoltatori che si appassionano al duo di Baltimora sono proprio gli affezionati alle melodie eteree, a quel dream pop che è diventato marchio di fabbrica della stagione d’oro delle produzioni firmate da Ivo Watts-Russell. Il viaggio, però, è appena iniziato, e il seguito del 2008 rappresenta un grosso salto di qualità per la carriera della band. In maniera similare alle uscite dei This Mortal Coil, Devotion è composto da nature morte musicali pervase da uno spleen tutto europeo, spesso delicate come una nenia notturna oppure deflagranti in aperture di forte impatto emotivo. Con il secondo singolo estratto, Gila, Legrand e Scally delineano in maniera esemplare la loro personalissima idea di suono, in cui la circolarità della composizione crea un meraviglioso effetto psicotropo, cullando l’ascoltatore attraverso un caleidoscopio strumentale e vocale che culmina in un refrain assolutamente irresistibile. Il passaggio americano alla Sub Pop non interrompe il perfetto affiatamento con la Bella Union, e nel 2010 arriva il primo vero successo internazionale con Teen Dream. Accompagnato nella versione in vinile da un DVD in cui ogni traccia vede il suo folle corrispettivo video fatto di narrazioni quantomeno surreali, l’album mette in fila una serie di brani in cui melanconia e romanticismo convivono alla perfezione nell’intreccio
di riverberi e canto. Resta imperdibile la geniale progressione di Norway, volutamente obliqua nelle chitarre e oniricamente trascinante nelle ritmiche, così come si rivela indimenticabile la sorprendente Walk in the Park, desolata nelle liriche ma trasognata nelle musiche. E se Teen Dream è forse il momento più alto della discografia dei Beach House, è con Bloom del 2012 che il duo diventa icona degli indie kids e si avvicina ancor più alle sonorità dei Cocteau Twins. Fin dalla opening track Myth le chitarre prendono una forma decisamente affine alle dilatazioni immaginate da Robin Guthrie, mentre con Wild scopriamo l’anima voluttuosamente appassionata della band, guidata da un memorabile giro di chitarra e da una melodia a dir poco trascinante. Lazuli, al contrario, sembra un estratto degli ultimi singoli dei Cocteau Twins (quelli di Milk & Kisses per intenderci), con le sovrapposizioni e i vocalizzi di una Legrand in stato di grazia. In un percorso compositivo in continua progressione, è infatti il periodo dei Cocteaus su Fontana Records – immediatamente successivo a quello su 4AD e legato alla conclusione del sodalizio d’amore e arte fra Elizabeth Fraser e Robin Guthrie – a segnare la nuova pubblicazione dei Beach House e a imprimere la vera svolta di notorietà mondiale. Con quattro album di ottimo successo e una popolarità in continua ascesa, resta adesso da capire cosa avverrà nel futuro della band. Sarà ancora possibile optare per un suono concentrato su riverberi e voce, loop e battuta lenta o sarà necessario determinare uno scarto stilistico più di rottura? Il rischio è quello di cadere nell’autocitazione, ma all’altro estremo vi è il pericolo di allontanare il pubblico di affezionati. Un pubblico trasversale per età e ascolti, che possiede i dischi degli Slowdive come di St. Vincent, che passa dalla chill wave di Washed Out all’oscurità dei Dead Can Dance. Un pubblico assolutamente composito, come il sound dei Beach House e delle band che ne hanno costituito l’ispirazione diretta.
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Beach House Forever Still 2013 - Diretto da Beach House e Max Goldman http://bit.ly/1szup7d
Di casa nel deserto Le fughe nello spazio e nel tempo dei Beach House
a cura di Maril첫 Ursi
Tutto cominciò con un viaggio, quando nel 2004 Victoria Legrand da Philadelphia si spostò a Baltimora, conobbe Alex Scally e mise in piedi il duo che avrebbe dato vita ai Beach House; la storia proseguì con un viaggio quando nel 2005 il neonato gruppo girò il suo primo video (Apple Orchard), amatoriale, sul treno che collega Philadelphia a New York e che anticipò di un anno l’uscita dell’album di esordio della band (Beach House). Lo sguardo del gruppo è quello di un continuo spostamento tra i paesaggi statunitensi desertici: dal videoclip di Used to Be, brano contenuto nel terzo disco Teen Dream, fino ad arrivare al cortometraggio Forever Still, che ha accompagnato l’uscita dell’ultimo CD Bloom. La band ha variato nell’aspetto visivo alla ricerca di una strada, un percorso che ha portato al tema del viaggio, dello spostamento, fisico e temporale, tra luoghi e dimensioni differenti. Le origini francesi della Legrand non impediscono ai Beach House di entrare a gamba tesa in uno dei grandi monumenti tematici che accompagnano la cultura statunitense. In Teen Dream coesistono l’astrattismo visivo di Zebra, in cui solo le parole richiamano alla mente quelle atmosfere che ritroveremo nei video successivi – “Wilderness for miles” – ed esperimenti che ci illuminano sul momento critico in cui i Beach House si trovavano; uno snodo in cui erano presenti più sperimentazioni di videoclip legati al brano Used to Be. Esistono, infatti, oltre alla versione acustica accompagnata da un video
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girato in spiaggia, due videoclip originali legati a questa traccia: il primo diretto da Sean Pecknold, una coreografia cyber tutta incentrata sulla computerizzazione di volti e corpi associati a un paesaggio fantascientifico popolato da robot; il secondo, diretto da Matt Amato, in cui sono già presenti le atmosfere che caratterizzeranno lavori come Forever Still, soprattutto per quel che concerne le ambientazioni, con le atmosfere tipicamente americane dove camion, treni merci e auto decappottabili anni Cinquanta attraversano paesaggi desertici, popolati solo da bar e pompe di benzina sorte in mezzo al nulla. Il paesaggio come distanza e sospensione, il deserto come luogo di solitudine e allontanamento dalla civiltà, la musica come elemento di ritorno al passato, un sound vintage che si lega perfettamente ai luoghi disabitati e desertici. Un evidente indirizzo verso questa linea visiva si manifesta nella ripresa di particolari, spesso da angolazioni distorte, di un paesaggio roccioso, quasi lunare, all’interno del videoclip di Saltwater, girato da Justin Durel in una
modalità volutamente amatoriale, con il sole che infastidisce le riprese. Nel 2012 viene pubblicato Bloom, il più recente degli album della band di Baltimora, accompagnato da Forever Still, un cortometraggio di poco meno di mezz’ora in cui i Beach House eseguono i brani Wild, The Hours, Wishes, Irene nei dintorni di Tornillo, in Texas, dove è stato registrato l’album. Un espediente promozionale che concretizza ancora di più il legame tra il sound dream pop e le atmosfere desertiche di cui la performance sonora si avvale. Un concerto on the road girato dalla stessa band in collaborazione con Max Goldman rende perfettamente il legame tra la scelta musicale e una cornice suggestiva come quella texana. Nulla di nuovo se si pensa a quel memorabile esperimento musicale e visivo side-specific che fu Live at Pompei dei Pink Floyd, ma una direzione certa è ormai stata scelta della band di Baltimora, tra le più prolifiche del panorama statunitense, che in sei anni è riuscita a orientarsi verso una linea guida visiva perfettamente riconoscibile all’interno della
costruzione artistica musicale che guarda verso il passato, da cui recupera sonorità e aspetti visivi (si pensi alle immagini di Lover of Mine, girato strizzando l’occhio ai video amatoriali creati grazie al found footage) e con un'attenzione preponderante verso alcuni aspetti della società americana come habitat naturale di falsi miti: tra gli ultimi esempi in questa direzione di certo si muove il video Wishes, diretto da Erich Woreheim. Se la scelta è verso il deserto è proprio perché nella società esistono energie deleterie, e videoclip come Lazuli e Wild dimostrano proprio questo, l’impossibilità di gestire rapporti e situazioni in una condizione di vita quotidiana; a questo si accompagna lo sguardo indietro nel tempo che caratterizza i Beach House focalizzandosi su alcuni temi: l’America degli anni Cinquanta, culla del boom economico, e l’ottimismo anni Ottanta sono costantemente presenti nell’immaginario visivo della band, tramite una lente che riesce a unire nostalgia e disaffezione critica contemporaneamente.
In Lazuli è ancora fortemente presente quell’aspetto dei Beach House legato all’immaginario cyborg anni Ottanta, alla relazione tra diverse dimensioni spaziotemporali; visivamente il tutto si manifesta con un’esplosione di colori e di animazioni digitali che si alternano a carrelli e panoramiche del tutto realistiche legate alla quotidianità; l’elemento della TV diviene un ponte tra la contingenza e un universo parallelo, oppure, come in Wild, una manifestazione virtuale e metaforica di ciò che accade nella realtà. Una critica sociale ironica e divertita con uova che esplodono in una cucina qualsiasi dove una casalinga qualunque può attraversare dimensioni spaziotemporali differenti (Lazuli) o il semplice uso del playback e del rallenty che sbriciolano l’autorità di una manifestazione sportiva, come accade in Wishes. Verso il deserto o verso una realtà parallela, ‘fuga’ è la parola chiave: che sia questo il motivo del viaggio da cui tutto è cominciato?
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Daft Punk 86 Il casco come archetipo L’identità negata (e perciò rafforzata) dei Daft Punk A cura di Leonardo Gregorio 90 Invasione elettronica I Daft Punk alla conquista della Terra A cura di Cecilia Ermini 94 Rockstar in assenza La robotizzazione dei Daft Punk A cura di Leonardo Gregorio
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Il casco come archetipo L’identità negata (e perciò rafforzata) dei Daft Punk a cura di Leonardo Gregorio
Ha un effetto straordinariamente detossinante cercare le loro facce e non trovarle dietro i caschi robotici. I Daft Punk ci sono ma non si vedono, buona parte dei componenti del contemporaneo star system si vede ossessivamente ma non c’è. Al servizio di selfie, immagine scrutante del proprio volto servita a tutte le ore del giorno, qui si risponde con l’occultamento, l’assenza, la sottrazione del servizio di autoimposizione all’altro h24 (rarissime le foto diffuse che li ritraggono ‘dal vero’). I Daft Punk viaggiano su altre galassie, a bordo di astronavi: “Il fatto è che vogliamo sognare, ci piace la magia, mentre Twitter e gli altri social network hanno il difetto di uccidere la fantasia. Se vai a vedere uno spettacolo di prestigio non vuoi sapere che cosa ci sta dietro”, hanno dichiarato a “Vanity Fair”. E, pertanto, indossano caschi dal 1999, in seguito – raccontano – all’esplosione di un campionatore. Da allora, i veri volti di Guy-Manuel De Homem-Christo e Thomas Bangalter sono celati da due caschi ormai iconici, maschere che precipitano tutti noi in un gioco ancestrale, nei riti del teatro antico. Una volta hanno detto: “Non amiamo farci ritrarre. In parte per perpetuare il mito Daft Punk e in parte perché fin dall’inizio abbiamo preferito porre maggiore importanza nella musica. A dir la verità ci piace l’idea del duo di produttori dall’identità sconosciuta. E poi abbiamo tante
maschere. Penso che l’idea delle maschere complichi e allo stesso tempo semplifichi le cose”. Di certo, aiuta a plasmare un mito.
fino a liricizzare sempre di più con Allegri, Tellier, Haydn e Chopin verso il disperato e, se vogliamo, romantico epilogo.
Nel 2006 arriva inaspettatamente un contributo nodale alla definizione dell’ontologia daftpunkiana che è anche momento culminante della loro potenza videoimmaginifica. Al Festival di Cannes viene presentato Electroma, un film che loro stessi dirigono; scritto e pensato insieme a Cedric Hervet e Paul Hahn. Poco più di settanta minuti in cui, peraltro assai coraggiosamente, i Daft rinunciano a utilizzare le proprie musiche e anzi antologizzano generi e autori, da Todd Rundgren a Brian Eno, da Curtis Mayfield a Linda Perhacs,
Ma rinunciano anche a interpretarsi, infatti Hero Robot #1 e Hero Robot #2, dai pantaloni e giubbotti neri di pelle con marchio Daft Punk sulla schiena e, naturalmente, caschi sono interpretati da due attori, Peter Hurteau e Michael Reich. Eroe robotico ancora altro da sé, a giocare con l’attribuzione delle identità, l’interscambiabilità dei ruoli quando la maschera è il mezzo. Electroma è l’attraversamento della natura e dei desideri di una coppia gemellare in una cittadina alla Lynch, certo, ma anche alla
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Carpenter (il tema della comunità mostruosa ritornerà in un altro video, dall’album Human After All, The Prime Time of Your Life, diretto da Tony Gardner, in cui una bimba che non si capacita del proprio essere umana in un mondo di scheletri finirà per scuoiarsi e morire, vittima in realtà di un’allucinazione notturna). Tutti, in questa cittadina americana, hanno caschi in testa come loro, mamme e figli, vecchi e spose; tutti sono privi di facce e, dunque, di identità. Ma i nostri eroi – come tutti gli eroi che la tragedia classica ci ha consegnato – non si accontentano della propria natura e lanciano una sfida, compiono il loro atto di tracotanza che, da Prometeo ad Aiace, viene sempre punito. Loro vogliono un volto umano, vogliono diventare uomini. Ci provano in un laboratorio dal bianco kubrickiano abbacinante, dove dei volti vengono plasmati sui loro caschi, volti tragicamente ridicoli, improbabili. La comunità li respinge, il sole scioglie inesorabile le loro facce posticce, transeunti. Dissolti per sempre alla loro aspirata umanità, così come si scioglieranno le due statue innamorate del bellissimo videoclip di Instant Crush diretto
da Warren Fu, da Random Access Memories – ma la dissoluzione sarà al contrario conquista di sentimentale e vitale contatto, realizzazione del sogno. Il loro instancabile vagare, metafora della natura umana, certo – il vagare e cercare che comincia sin dalla prima sequenza su una Ferrari nera e poi, continuamente, a piedi fino alla fine – riprenderà fino a giungere in un deserto che prende anche la forma di una donna, origine del mondo e della vita. Qui, ormai persi, i due Daft decideranno di staccare i loro processori e avviare la propria autodistruzione, attuando una delle azioni più peculiarmente umane: il suicidio. Perché il cuore non c’è ma se ne percepisce il battito. Il loro, tuttavia, è un genoma elettrico, un electroma, e la presa d’atto sta nella scena finale in cui uno dei due si toglie finalmente il casco e, proprio in esso, vede riflesso il proprio volto, una mappa di processori. Riuscirà, con l’ausilio del sole, a prendere fuoco e a illuminare, fendendolo, il buio come una torcia. Fuoco che continua a camminare.
Daft Punk Electroma 2006 - Diretto dai Daft Punk http://bit.ly/1uyRC9s
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Invasione elettronica I Daft Punk alla conquista della Terra
a cura di Cecilia Ermini
1997-2007. Tralasciando, per motivi spaziotemporali, tutto ciò che questo decennio ha rappresentato per la musica contemporanea e la sua fruizione (l’avvento di Napster in primis), è bene considerare queste due date come nascita e apoteosi di un’evoluzione (all’epoca impensabile) di un genere come l’elettronica, capace di tramutarsi da culto riservato a pochi eletti a music for the masses da stadio, in modo particolare nella fruizione live degli sforzi sintetizzati di tanti artisti e dj. Le due date non sono affatto casuali visto che il cuore pulsante di questa rivoluzione coincide con due tour (e due CD live) del duo francese Daft Punk, unici esemplari di quel bestiario elettrico, esploso negli anni ’90, ad aver addirittura incrementato popolarità e mitologia, al contrario di tanti gruppi (o singoli) esplosi nei club dell’epoca – Cassius, Etienne de Crecy, Modjo, solo per citarne alcuni. Soltanto i Daft Punk hanno saputo alimentare, con il mistero dell’anonimato e l’altissima qualità musicale, una mitologia quasi da fantascienza superando il corpo divistico/musicale quasi in chiave cronenberghiana. Figlio di quella nouvelle vague, soprattutto francese, che devastò dancefloor e timpani, il cosiddetto ‘French touch’, tanto debitore
di artisti come Cerrone e Sheila B. Devotion, ha visto, nel gelido gennaio del 1997, la nascita del primo disco di Thomas Bangalter e Guy Manuel de Homen-Christo, Homework, e una prima tournée europea, Italia esclusa, con un paio di eccezioni americane. La dimensione live del periodo prevedeva, come è possibile vedere in alcuni filmati che circolano su YouTube, le classiche boites parigine o i piccoli locali con gente ammassata attorno alla postazione del duo. Luci basse, muri opprimenti, note soffocate da urla isteriche, sensazioni da culto segreto con l’eccezione di qualche festival estivo, anche perché, proprio in quegli anni, si cercava di recuperare spiriti woodstockiani, anche in Italia, con le varie edizioni dell’Heineken Jammin’ Festival, che nel periodo d’oro era capace di sfoggiare line up con artisti del calibro di Santana, Oasis, Blur e le Hole. Questo tentativo di ritrovare quello spirito di comunione sociale e rivoluzione musicale non prevedeva però uno spazio fieramente dedicato alla musica elettronica, se non per dare uno scossone finale a un pubblico stordito, in tutti i sensi, dalle schitarrate precedenti. I grandi richiami erano ancora prodotti dalle rock band che si contendevano le copertine di “NME” o di “Melody
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Daft Punk Interstella 5555 2003 - Diretto da Leiji Matsumoto http://bit.ly/1qJhdvO
Maker”, e la concezione che soltanto le rock band potessero attirare folle oceaniche di spettatori era ancora dura a morire. Gli anni successivi saranno dunque per i Daft Punk anche un cammino preparatorio alla loro rivoluzione. Nel 2001 Discovery scala le classifiche di mezzo mondo ma al disco non seguirà nessun concerto, bensì il film di animazione Interstella 5555, realizzato dalla Toei Animation, dove il duo apparirà con gli ormai leggendari caschi. È in questo preciso momento che nascono due nuove creature, due figure misteriose che sgorgano da un immaginario così stratificato di fantascienza, fumetti, videoclip,
dance music, capaci addirittura di creare una sorta di sex appeal dell’inorganico. Dopo l’incompreso Human After All, i tempi sono oramai maturi per completare la missione nell’anno terrestre 2007. La dichiarazione d’intenti e di guerra è molto semplice: il live, e quindi tutta la musica elettronica, deve diventare un rito collettivo che si gioca sulla presenza/assenza, sul mistero, sull’effetto speciale per occhi e orecchie. Un fasto modernista quindi nella dimensione da arena, da grande stadio da era d’oro del rock con una fruizione da festa accessibile a tutti, dove il palco non è più invaso da jack e amplificatori ma diventa una piramide, una
navicella spaziale che trasporta un’invasione aliena pacifica. L’Alive Tour, che parte non ufficialmente nel 2006, comprende 48 date in ogni angolo della Terra: arene, festival, palazzetti, parchi riempiti fino allo sfinimento di sacerdoti del culto electro. Il duo non ha mai voluto far uscire un DVD che documenti visivamente questo apogeo elettronico: “I filmati su YouTube realizzati con il telefonino rendono alla perfezione quello che è stato il nostro tour” hanno dichiarato tempo fa, e infatti la miriade di fan-video girati in tutto il mondo cattura l’estasi di un evento unico e multisensoriale (è sufficiente pensare all’inizio al buio con l’alternarsi delle voci ‘human’
e ‘robot’ fino al crescendo che culmina in Robot Rock). Random Access Memories, uscito la scorsa primavera e osannato ovunque, non ha fatto altro che aumentare la febbre per una nuova apparizione terrestre dei due (il 2017 si avvicina…); questo ritorno al suono manuale e non riproducibile, se non dagli straordinari musicisti che hanno inciso le tracce, complica la possibilità di una nuova insurrezione live ma non per questo la esclude, nell’attesa è bello sognare, non più pecore elettriche ma alieni umani.
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Rockstar in assenza La robotizzazione dei Daft Punk
a cura di Leonardo Gregorio
Michel Gondry ricorda bene il suo incontro con i Daft Punk e i dubbi iniziali sul videoclip da realizzare per loro. Nel documentario a più mani I’ve Been Twelve Forever (2003), parlando della produzione e delle invenzioni di Around the World, il regista racconta infatti che “durante la conversazione fu menzionata la parola ‘dance’”: parola tradotta spesso nei videoclip in un modo che “è sempre tutto energia e sesso, con la coreografia tagliata a pezzi per esaltare il ritmo del montaggio. Tutto quello che odio”. “Così ho ascoltato la canzone in continuazione […]. Ho separato ogni strumento nella mia mente. Ho realizzato come la musica fosse geniale e semplice al tempo stesso”, ci dice Gondry. Ed ecco Around the World, dall’album di esordio dei Daft Punk, Homework (1997): hit di enorme successo e video a coagulare immaginari così lontani e così vicini, cresciuti necessariamente su altri già codificati e diffusi, consumati o ancora attivi, con altri ancora a schiudersi; il genio e il gioco di Gondry e l’universo Daft in un’esplosione ipnotica, pezzi al contempo dentro e fuori la norma dell’adesione al mondo e alle sue finzioni, in and off non etichettabili, mai definitivi, straordinariamente sfuggenti. Frammenti fantastici, meglio ancora sentimentali: come sentire il mondo, ancora. E sentirlo dopo. Qui, come scrive Bruno di Marino su “Alias – il Manifesto”, “tutti inscenano un balletto-girotondo (‘intorno al mondo’, appunto, è il titolo del brano) al ritmo della musica elettrofunky, come se fossero in un coloratissimo show televisivo, dove l’iconografia della vita si
Daft Punk Around The World 1997 - Diretto da Michel Gondry http://bit.ly/1uLdpJY
mescola a quella della morte”. Si tratta, aggiunge Cristiano Dalpozzo, di “un carillon dal meccanismo perfetto e psichedelico per un brano che fa dell’ossessività uno dei suoi punti di forza”. Un video dove “ciascun gruppo di ballerini segue un preciso strumento ovvero gli atleti seguono le linee del basso, gli scheletri la chitarra, le disco girl il sintetizzatore, i robot la voce e le mummie la drum machine”. Cinque gruppi da quattro, cinque sorgenti di movimento, una coreografia a orologeria, alla Busby Berkeley ma schizzata in un futuro rétro. Non appaiono i due, i Daft Punk, Thomas Bangalter e Guy-Manuel De Homem-Christo. E non ci sono neanche nel videoclip precedente, quello di Da Funk, girato da Spike Jonze (altro cercatore di forme), il
pezzo che segnerà l’effettivo avvio della loro ascesa, dopo l’esordio con il singolo The New Wave nel 1994. Il duo francese, rileva Paolo Peverini, nasce come “fenomeno musicale assolutamente misterioso, ‘senza volto’”. Anche se, in realtà, tempo prima un volto ancora c’era, pure in copertina, per esempio quando Thomas e Guy-Manuel, insieme a Laurent Brancowitz (poi nei Phoenix) erano i Darlin’, gruppo rock dalla vita corta. “Generalmente”, continua Peverini, “nei video realizzati per la musica dance regna la tendenza a valorizzare il corpo della star sfruttando vistosi effetti speciali; al contrario, in Da Funk i due autori sono del tutto assenti: il protagonista del video è infatti
96 una creatura ibrida, un uomo con la testa di un cane, peraltro realizzata non con elaborati effetti speciali ma con una semplice maschera, segno esplicito di una messa in scena artificiale”. Un uomo/cane, Charles, con stampella e stereo per le vie notturne della città, fra incontri, un libro (Big City Nights) e una ragazza, Beatrice, un autobus che infine non potrà prendere (“No Radios” prima ancora di “No Smoking” e “No Spitting”) e lo separerà da lei.
giurano i diretti interessati, a seguito dello scoppio di un campionatore nello studio di registrazione, i Daft Punk sono diventati, anzi ‘rinati’, robot. Robot anche nelle esecuzioni live, negli eventi pubblici e mediatici, negli spot (quello nerd e ironico dell’Adidas ambientato nella Cantina di Mos Eisley di Star Wars, 2010, con i due accanto a Snoop Dogg, Noel Gallagher, David Beckham…) e nel videogioco DJ Hero.
In Burnin’, girato da Seb Janiak, in Revolution 909 di Roman Coppola e in Fresh, diretto dagli stessi musicisti, i Daft Punk persistono nell’assenza sensibile, laterale al perimetro visivo, e le connessioni tra musica e immagini sono deviazioni, gioco e interstizi, rappresentazione altra, terreno di sospensioni e di incastri allentati, mancati, rinviati. Scorrono così il bambino/adulto fireman in Burnin’, la ragazza, il poliziotto e il pomodoro in Revolution 909, e Charles, ancora, la bizzarra creatura che torna in Fresh come attore su una spiaggia fatta set cinematografico, per poi allontanarsi in auto con Beatrice, di nuovo lei, una volta terminata la scena.
Robot impegnati, per esempio, in un cameo, cartoon come tutti gli altri personaggi, senza voce, nel film di animazione Interstella 5555. The 5tory of the 5ecret 5tar 5ystem diretto da Kazuhisa Takenouchi, con la supervisione di un maestro come Leiji Matsumoto e tutti i brani di Discovery come colonna sonora, anzi come fluire che diventa forma, visione: l’avventura di una band aliena (tre maschi e una donna) i cui componenti vengono rapiti e condotti sulla terra da un umano senza scrupoli, per spolpare il loro talento e arricchirsi ancora di più. Estetica e figure che provengono da Capitan Harlock – la malinconia abita, ancora, qui. Un altro cameo, come dj in un locale, prima dell’esplosione (un’altra!) in Tron: Legacy (2010) di Joseph Kosinski, film futuristico affine al loro mondo, di cui curano le musiche.
Il 2001 è l’anno di Discovery, il loro secondo, attesissimo, album fulllength. Nel frattempo, qualcosa è cambiato: il 9 settembre 1999,
Robot, eccoli finalmente nei loro video, dal terzo lavoro in studio, Human After All (2005), in Robot Rock, musicisti fracassoni, chitarra a doppio manico e batteria, in cornice e luci scintillanti, violente, coatte da Eighties, o nell’inquietante Technologic, registi di se stessi in entrambi. Torneranno ancora, ancora robot, nel loro ultimo album, il quarto in studio, Random Access Memories (2013). Eppure una volta, in passato, ci hanno anche provato quei due a diventare essere umani, però‌
You can’t say no to hope / Can’t say no to happiness Alarm Call – Björk Redazione Michele Casella Direttore Responsabile Carlotta Susca Caporedattrice Irene Casulli Fashion Editor Direzione Creativa Vincenzo Recchia Creative Director Giuseppe Morea Multimedia Developer Marie Rothemund Visual Designer Collaboratori Leonardo Gregorio, Luca Romano, Antonietta Rubino, Marilù Ursi. Si ringraziano Edoardo Bridda, Cecilia Ermini, Raffaele Minella, Francesco Pacifico, Luca Pacilio, Luca Valtorta. Stampato presso Pignani Printing, Roma Pool Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Tribunale di Bari www.ipool.it Cercaci su Facebook, Twitter, Issuu Progettazione IMood www.imood.it Thanks to La Presidente Antonella Gaeta, Antonio Parente, Luca Pellicani, Rico Colangelo, Fabrizio Stagnani, Cinzia Zagaria, Paola Albanese e tutto lo staff di Apulia Film Commission www.loopfestival.it
Loop come il refrain di un brano che ti entra in testa e che non riesci dimenticare. Loop come la ripetizione seriale dei video in programmazione continua. Loop come il flusso senza soluzione di continuità di Vine. Loop come il campionamento digitale attorno a cui costruire una traccia dubstep.
Björk Sigur Rós Arcade Fire Beach House Daft Punk
Loop come matrice primordiale di un frattale in perenne rigenerazione.