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Uniba Antonio Uricchio è il nuovo Rettore
Black Mirror Le nuove tecnologie protagoniste di una serie tv
Non è un Paese per festival Cosa manca all’Italia per avere un evento musicale di portata europea
06 Uniba al centro dell’Europa – Antonio Uricchio è il nuovo Rettore dell’Università ‘Aldo Moro’ 10 Il senso di Orientamento – Strategie dell’Uniba per la ricerca del lavoro 12 Vita da fuorisede – Vademecum del pendolare: sliding trains 14 Parlare, non solo a parole – La LIS (in)segnata agli studenti baresi 15 FAQ – Frequent Academic Questions 16 Voci in sintonia – Il ‘Coro Harmonia’
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Lo voglio! – Rassegna di varie (in)utilità Giramondo – I cinema della resistenza
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Puglia Experience – Il workshop di Apulia Film Commission sulla sceneggiatura Ripensare il cinema – Digital Heritage e il found footage Soundscape Composition – Il paesaggio sonoro come fonte di rielaborazione artistica Black Mirror – Le nuove tecnologie protagoniste di una serie tv Visioni a confronto – Il dottor Caligari Il primo Kubrick non si scorda mai – Torna nelle sale Paura e desiderio
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Sessanta secondi di bellezza – La rivista fotografica «C-41»
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Book Geeks – Il futuro dell’editoria è social Aerei di carta «McSweeney’s»: carta vincente Di carne, fantasmi e antidoti – Un autunno con David Foster Wallace
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Non è un Paese per festival Gli xx ridisegnano le coordinate dei festival Disfunzioni Musicali La musica al bando! – Puglia Sounds e la promozione di progetti discografici
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Quando il loop diventa arte – L’approccio filosofico di Vine Un salto come si deve – Breve viaggio nel futuro del libro
Editoriale #003
Fare rete nell’impresa culturale: un miraggio o una soluzione? Le questioni del lavoro, della formazione e della cultura tornano ad essere i temi portanti di un Paese in fibrillazione, in cui le forze sociali stanno entrando in tensione costante per ritagliarsi lo spazio essenziale alla propria (r)esistenza. In una nazione sempre più divisa ed in cui ogni singola unità lavorativa si sente un isolotto in continuo stato di allerta, i professionisti della cultura persistono ad invocare la “Soluzione Definitiva” ai propri problemi: la creazione di reti sociali. Una pratica che, concordiamo appieno, può rivelarsi decisiva nel necessario affrancamento dalle politiche dell’assistenzialismo e del basso profilo lavorativo, ma che concretamente resta troppo spesso una pura formalità limitata alle dichiarazioni da conferenza stampa. E così, interi settori della creatività nazionale si trovano a battagliare all’interno della propria filiera di produzione, senza neppure provare a comprendere quali siano le reali esigenze della loro attività d’impresa. Accade dunque che piccole testate giornalistiche si facciano concorrenza per la supremazia su un territorio semi-provinciale, o che i festival si organizzino in rete pur continuando ad operare in maniera del tutto individuale, o che un editore si preoccupi se qualche piccola risorsa pubblica viene destinata ad un festival del libro. Manca insomma una corretta e coerente capacità di programmazione a medio termine, che permetta di organizzare il futuro delle imprese creative in modo da comprenderne i bisogni ed organizzare politiche culturali che diano risposte in grado di ripercuotersi positivamente nel tempo. A poco valgono le associazioni di settore se poi l’unico motivo di condivisione è il proprio tornaconto privato. Sta proprio qui la scommessa sulla nuova generazione di professionisti della cultura, nel comprendere che l’isolazionismo rende più deboli e meno inseriti nel generale sistema produttivo. Un sistema che già relega l’arte, la letteratura, l’audiovisivo e lo spettacolo dal vivo ad un surplus improduttivo o, peggio!, a puro intrattenimento da fine settimana. Fare networking, unire competenze eterogenee, organizzarsi in maniera equilibrata e darsi un obiettivo concreto ma ambizioso: sono queste le direttrici per utilizzare nel mondo del lavoro le competenze acquisite nel proprio percorso formativo. Raggiungere questi traguardi facendo davvero rete con gli altri è il metodo che potrà segnare il successo delle migliori idee di impresa culturale. Michele Casella
Una sfida per il bene comune Cosa ci aspettiamo dal nuovo anno accademico, dal nuovo anno sociale? Abbiamo un nuovo Rettore e, forse, un modo nuovo di concepire l’università: ma questo ci basta? Basterà assestare tutti i passaggi, mettere al posto giusto le persone adeguate, sistemare gli ingranaggi della macchina amministrativa e accademica per poter affrontare le sfide che oggi la società chiede al mondo accademico, all’ambito culturale della nostra città e della nostra regione? Un importante manager ha pensato di affidare per alcuni mesi a un giovane la conduzione di una sua azienda, e perfino alcuni nostri amministratori locali pensano sia opportuno affidare a giovani “leoni” la conduzione politicoamministrativa delle nostre città e del Paese. Ma potrà bastare l’attestazione di un certificato di nascita per poter essere certi che si approdi a nuove terre, le terre del futuro, e che queste terre siano effettivamente le terre che desideriamo per noi e per le nuove generazioni? Non è solo con olio nuovo che possono essere rimessi in moto gli ingranaggi di una società malata da tempo, di un’università (che non può mai pensarsi fuori dal contesto sociale) messa alla prova tra contenimento della spesa e valutazione dei suoi processi didattici e di ricerca. Cosa occorre per fronteggiare questa sfida? Non abbiamo bisogno di una nuova macchina, ma di uomini pronti ad accettare la sfida del tempo: uomini capaci di investire ora, in questo tempo di crisi, sulle risorse materiali e immateriali presenti nel Paese, capaci di valorizzare le differenze e le diversità, capaci di mettere da parte il proprio tornaconto per il bene comune, capaci di vedere, non sognare, a occhi aperti una nuova università aperta a tutti e a tutto, capaci di inventarsi nuovi modi per rendere più agevole il passaggio degli studenti nel mondo del lavoro. Sono questi i tentativi in atto anche nel nostro territorio: imprenditori che invece di chiudere acquistano nuove aziende per rendere più stabile il lavoro dei propri dipendenti; ricercatori che non smettono di occuparsi di ambiti da cui dipendono la vita e la salute delle persone. Concepire una nuova università, però, non potrà essere solo il punto del programma di governo di un Rettore, né il proposito solo di una parte della comunità accademica, ma lo sforzo di tutti ognuno nei propri ambiti e contesti. La vita dell’università, del nostro Ateneo dipende da ciascuno. Buon lavoro! Paolo Ponzio
REDAZIONE Michele Casella Direttore Responsabile Paolo Ponzio Direttore Editoriale Carlotta Susca Caporedattrice Cristò Chiapparino Caporedattore I rene Casulli Fashion Editor DIREZIONE CREATIVA Vincenzo Recchia Creative Director Giuseppe Morea Multimedia Developer Giancarlo Berardi Visual Baseneutra Copertina COMITATO SCIENTIFICO UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ‘ALDO MORO’ Angela Carbone, Marina Castellaneta, Grazia Distaso, Giuseppe Elia, Daniele Maria Pegorari, Ines Ravasini, Annarita Taronna, Paola Zaccaria, Giovanna Zaccaro. MANDACI I TUOI RACCONTI BREVI scritture@ipool.it PER COLLABORARE SCRIVICI A academy@ipool.it PARTNER Gianfrate.com
COLLABORATORI Nicolò Aurora, Alessandro Bucci, Rosa Cambara, Maddalena Candeliere, Claudia Colonna, Stella Dilauro, Antonella Di Marzio, Enrico Godini, Leonardo Gregorio, Ilaria Lopez, Alessandra Macchitella, Lello Maggipinto, Valeria Martalò, Francesca Martines, Alessia Marzovilla, Cataldo Miccoli, Claudia Morelli, Michela Panìco, Mario Panìco, Lorena Perchiazzi, Dora Renna, Laura Rizzo, Luca Romano, Marianna Silvano, Marilù Ursi STAMPATO PRESSO Ragusa Service S.r.l. Bari POOL Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Tribunale di Bari www.ipool.it PUBBLICITÀ - IMood Via C. Colombo, 23 Putignano (BA) Tel. 080.4054243 Fax 080.4054243 www.imood.it CERCACI SU Facebook Twitter Issuu
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Antonio Uricchio fotografato da Ciro Nigro
Uniba al centro dell’Europa Antonio Uricchio è il nuovo Rettore dell’Università ‘Aldo Moro’. Fulcro del suo programma gli studenti e il necessario confronto con formazione, internazionalizzazione e lavoro a cura di Lorena Perchiazzi Punto nevralgico per la formazione delle nuove leve professionali e per l’incrocio con le esigenze del mondo lavorativo, l’università si trova a fronteggiare le sfide del presente attraverso una commistione di urgenze, stimoli, necessità e spinte progettuali. A guidare l’Ateneo di Bari verso il necessario rinnovamento sarà da oggi Antonio Felice Uricchio, eletto Rettore dell’Università intitolata ad Aldo Moro, grazie a un programma che punta sulla valorizzazione delle eccellenze e su una visione europea delle attività accademiche. «Pool Academy» ha intervistato il nuovo Rettore a pochi giorni dalla sua elezione per conoscere più a fondo i punti centrali del suo programma e gli obiettivi che intende realizzare nel corso del suo mandato ma, innanzitutto, per scoprire come nasce l’idea della candidatura al rettorato.
L’Uniba: a Bari, sul Mediterraneo, nel mondo
Internazionalizzazione, miglioramento dei programmi di studio, creazione di partnership, incentivi alla ricerca e all’innovazione: queste alcune delle priorità del piano d’azione del nuovo Rettore, la cui idea di università risulta calibrata sulle nuove esigenze dello scenario europeo della conoscenza. «Sono stati gli studenti, i colleghi e il personale che mi hanno spinto a candidarmi per questo importante ruolo, perché condividiamo insieme un modello di università che guarda al futuro, aperta e che accoglie anche le sfide di un mondo che sta profondamente cambiando. Miro a un’università che non si chiuda al proprio interno e che tenda a riconoscere i propri meriti e ad affermarsi. Un’università che dialoghi, in grado di intercettare i bisogni che possono venire da tutti gli strati della società, ma che al tempo stesso guardi anche al globale, quindi all’internazionalizzazione, e soprattutto consenta di promuovere i processi di sviluppo del territorio.
L’università deve essere un catalizzatore di crescita attraverso la ricerca, l’innovazione e le esperienze virtuose. Un’università senza porte, senza cancelli, sempre pronta a confrontarsi con l’esterno, che riceva stimoli e fornisca servizi». L’università, osserva il professor Uricchio, oggi non può restare circoscritta al suo luogo di appartenenza: occorre ampliare le vedute e ragionare in termini ‘europei’. Sono sempre più numerosi, infatti, i ragazzi disposti ad allontanarsi dal proprio Paese pur di seguire corsi di studio all’estero nella speranza di andare meglio incontro a un mercato del lavoro sempre più interconnesso e globalizzato. L’UE, da parte sua, si impegna a garantire un forte sostegno politico e sostanziali incentivi finanziari per attuare diverse strategie di internazionalizzazione. Tra queste, Erasmus+, il nuovo programma dell’UE per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport, che grazie ad un importo annuale di oltre 400 milioni di euro sosterrà gli scambi internazionali degli studenti;
verrà inoltre incentivata la cooperazione tra le università europee e i loro partner in tutto il mondo, consentendo a studenti provenienti da Paesi non comunitari di realizzare parte del loro percorso accademico presso un’università europea, o viceversa. La Commissione UE propone inoltre di sostenere il riconoscimento delle competenze acquisite all’estero da studenti, ricercatori e personale, nonché di agevolare l’apprendimento delle lingue straniere (in particolare l’inglese) e delle tecnologie di informazione e comunicazione, al fine di favorire l’accesso a programmi di apprendimento on line. Risorse preziose che necessitano, al tempo stesso, di continuo sviluppo e implementazione e che devono essere accompagnate dalla valorizzazione del sapere e delle competenze per garantire un livello di eccellenza durevole, tanto in termini di risorse umane quanto in termini di risorse finanziarie. L’ateneo barese deve anche confrontarsi con gli scenari, più prossimi, del Mezzogiorno e del Mediterraneo.
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Antonio Uricchio ha un lungo ed eccellente curriculum multidisciplinare alle sue spalle: già preside della II Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari, attualmente componente del Senato accademico, è direttore del Dipartimento Jonico in “Sistemi Giuridici ed Economici del Mediterraneo, Società Ambiente e Culture”, presidente della Commissione brevetti, coordinatore dell’osservatorio generazionale e del comitato delle politiche ambientali dell’Ateneo barese, nonché professore ordinario di Diritto tributario nella stessa Università. Autore di numerosissime pubblicazioni di rilevanza internazionale, è proponente e coordinatore di molteplici gruppi di ricerca nazionali e internazionali sui temi del diritto, dell’economia e dell’ambiente; è anche componente dei Comitati tecnico-scientifici dell’Apulia Film Commission e del Centro Internazionale di Alti Studi Universitari. Adesso un nuovo, impegnativo compito: guidare l’Ateneo barese per i prossimi sei anni a partire dal 1° novembre, quando, cioè, scadrà il mandato dell’attuale Magnifico Rettore Corrado Petrocelli.
«Noi ci portiamo alle spalle tradizioni di studi secolari, che fanno parte della nostra identità, e non possiamo non tenere in considerazione anche il fatto che la nostra regione, la Puglia, è da secoli crocevia delle più svariate culture. All’interno del bacino del Mediterraneo, l’università italiana può ancora ricoprire un ruolo da protagonista che favorisca un confronto culturale e che abbatta le divaricazioni» – afferma il nuovo Rettore, che conferma in questo senso il suo sostegno a un progetto avviato nel 2010, la ‘Federazione del sistema universitario pugliese-lucano-molisano’ tra l’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’, le Università degli Studi del Salento, della Basilicata, del Molise, di Foggia, e il Politecnico di Bari.
Dal pre- al post-, i servizi allo studente
Tuttavia, accanto a questi fattori positivi da incentivare e promuovere, l’Università italiana, in generale, è purtroppo caratterizzata anche da alcuni aspetti allarmanti, come gli alti tassi di abbandoni, i frequenti cambi di corsi di laurea, le basse percentuali di laureati rispetto agli iscritti iniziali e i numerosi laureati disoccupati, o che devono aspettare molto tempo prima di trovare un’occupazione corrispondente al titolo conseguito. «Per affrontare questo tipo di questioni si rende necessaria l’implementazione del servizio di assistenza psicologica attraverso le tecniche del contatto diretto, ma anche attraverso la Rete; è fondamentale il recupero degli studenti inattivi, quelli che abbandonano dopo delle sconfitte. E poi occorre implementare il tutorato (orientamento intrauniversitario), che può essere praticato anche attraverso piattaforme di e-learning. Per quanto riguarda il post lauream, invece, ho deciso di puntare su due direttive: un’agenzia per le politiche occupazionali, che preveda anche la collaborazione delle istituzioni e del sistema produttivo, per facilitare il dialogo tra i giovani e le imprese, e un laboratorio di studio, che possa anche offrire un supporto concreto ai giovani che guardano al proprio futuro occupazionale, alla domanda di lavoro che talvolta resta insoddisfatta anche perché non trova da parte dei laureati la qualificazione richiesta; l’università deve offrire un servizio più incisivo di orientamento al lavoro anche per i disoccupati di lungo periodo che hanno bisogno di riqualificarsi. Anche l’orientamento preuniversitario risulta di primaria importanza, proprio per evitare abbandoni e per incentivare la scelta di corsi di laurea coerenti con le aspettative, gli interessi e le capacità dello studente».
Alla Ricerca di risultati
«In questo quadro, la Ricerca deve continuare a essere il motore determinante del sistema universitario, perché c’è un doppio livello da considerare e sostenere: uno, discendente, che viene dall’Europa e ci raggiunge, e uno che, invece, parte da noi e diventa proposta per le altre università europee. Occorre potenziare le nostre strutture, creare una task force e dialogare nei tavoli in cui le strategie della ricerca vengono definite, anche a livello europeo».
Da oltre un decennio, infatti – spiega il neo Rettore – si pagano le conseguenze di una finanza pubblica schiacciata dal peso di un enorme debito, che continua a penalizzare gli investimenti nei settori chiave come quello della Ricerca e dell’innovazione tecnologica. Si pone la necessità di legare l’università alle aziende, di attivare tirocini per laureandi e laureati, di finanziare borse di studio e di dottorato, assegni di ricerca, collaborazioni con gli enti locali. La valorizzazione del capitale umano e della creatività dei nostri talenti – che dovrebbero rappresentare la prima risorsa per recuperare slancio e competitività – rischia però di venir meno, e il loro impegno di essere ignorato e mortificato. E dunque è indispensabile, in questo caso, anche una sinergia con le istituzioni pubbliche, che sono chiamate a compiere scelte lungimiranti per assicurare alla formazione, all’università e alla ricerca un futuro migliore. «All’interno dell’università si raggiungono risultati importanti nei vari settori scientifici, e non siamo privi di eccellenze, ma spesso sopraggiungono problemi in una fase successiva: il ricercatore può trovare ostacoli perché non ha gli strumenti adatti o gli interlocutori a cui comunicare i propri risultati. Occorre adottare la cosiddetta strategia dell’’ultimo miglio’, che consenta di assistere lo studente e il ricercatore quando un’idea innovativa risulta vincente e occorrono strumenti adeguati per realizzarla, per farla diventare realtà. L’attenzione all’’ultimo miglio’ implica il coinvolgimento del sistema scientifico e delle imprese affinché il giovane realizzi il suo progetto, che può in seguito diventare uno spin off. Se già l’università barese, e il Politecnico di Bari nello specifico, offre agli studenti e ai ricercatori assistenza per la proposta, la costituzione, la gestione e lo sviluppo di spin off, nonché il supporto all’organizzazione di iniziative di marketing territoriale e di promozione dell’innovazione, questa attenzione al sostegno della Ricerca va ulteriormente rafforzata».
Una città universitaria
Uricchio ha reso un punto di forza del suo programma da candidato Rettore l’idea di ‘città universitaria’; nel corso dell’intervista ha ribadito l’importanza del rapporto dell’Ateneo con Bari, e l’evidenza delle implicazioni della presenza di un polo universitario in un contesto urbano. Diventa importante quindi riflettere sui servizi da offrire agli studenti che convergono a Bari. «È fondamentale venire incontro alle esigenze degli studenti fuorisede che scelgono di trasferirsi e vivere nella nostra città, affinché non si sentano estranei e non vivano l’università con disagio: occorrerà implementare i servizi (alcuni, come l’Osservatorio generazionale di cui sono coordinatore, esistono già a tale scopo) e costruirli su misura dello studente e delle sue necessità, perché lo studente deve rimanere il punto focale dell’intera azione culturale e amministrativa dell’Università degli Studi di Bari».
Nella pagina precedente: Antonio Uricchio fotografato da Ciro Nigro
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Il senso di Orientamento Strategie dell’Uniba per la ricerca del lavoro a cura di Michela Panìco A noi studenti capita spesso di avvertire l’esigenza di un’Università in grado di prepararci concretamente al mercato del lavoro, capace di delineare per noi dei profili professionali e di offrirci un supporto nella ricerca di occupazione. Ma altrettanto spesso noi studenti pecchiamo di pigrizia e non riconosciamo all’Università dei meriti che invece ha, né ci informiamo su tutti i servizi che mette a nostra disposizione, come quello di Orientamento al lavoro. Si tratta di un servizio di consulenza per laureandi e laureati: prevede l’organizzazione di tirocini con l’obiettivo di intercettare i bisogni professionali delle aziende pubbliche e private del territorio. Esso ha ulteriori sviluppi nel Job Placement, un ulteriore servizio per orientare, informare e formare i giovani neolaureati nella costruzione di un percorso professionale coerente con le loro attitudini, anche a supporto della creazione di impresa.
Visita la sezione Job Placement del sito Uniba http://bit.ly/1cGwYM9
L’informazione giusta per trovare lavoro Per conoscere meglio questo servizio, ne abbiamo parlato con la dott.ssa Pasqua Rutigliani, Direttore Generale Vicario e Responsabile del Placement dell’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’: ‹‹Uno degli elementi di criticità è la mancata diffusione della conoscenza del servizio, nonostante noi ne diamo notizia sia attraverso il sito, sia attraverso comunicazioni indirizzate ai direttori di dipartimento e ai coordinatori del collegio di dottorato, coinvolgendo alcune volte anche le associazioni dei dottori di ricerca o degli studenti. In realtà
l’informazione non attecchisce molto e, al fine di migliorarla, ci siamo attivati anche utilizzando social network come Facebook o altri canali; così qualcosa si riesce a smuovere››. Un percorso da professionisti Ma vediamo bene di cosa si tratta, a chi è destinato e di cosa si occupa il Placement: ‹‹Prima di tutto c’è da dire che tutte le attività di orientamento, secondo quello che è il mio punto di vista da dirigente, vanno viste non come un momento che si deve affrontare soltanto alla fine degli studi, ma fin da quando si entra nell’Università: non si deve parlare tanto di sbocchi professionali nel mercato del lavoro, perché esso è in crisi e cambia velocemente, ma bisogna guardare ai profili professionali. In tal modo, ipotizzando il profilo vicino alle attitudini e nelle potenzialità dello studente, già dall’iscrizione, questo può iniziare a costruire il proprio curriculum e ad orientare in tal senso tutte le attività curriculari ed extracurriculari, come per esempio il tirocinio, in maniera coerente››. Self made students Oltre ai tirocini, agli stage e alle attività formative e di orientamento, una particolare attenzione viene dedicata dal Placement ad autoimprenditorialità e autoimpiego: ‹‹Oggi c’è la possibilità di far sì che gli studenti non mirino necessariamente al lavoro subordinato nelle pubbliche amministrazioni e nelle imprese, ma che si pongano l’obiettivo della valorizzazione delle attività di ricerca o di studio che
hanno realizzato. Il progetto dell’autoimpiego va di pari passo con le attività che svolgiamo nell’ufficio di trasferimento tecnologico, dove aiutiamo gli studenti anche alla creazione di imprese spin off. Quindi lo studente non ha come unica scelta la ricerca di un impiego alle dipendenze di un datore di lavoro, ma potrebbe diventare egli stesso un imprenditore, e l’Università in tal senso lo supporta attraverso attività di affiancamento per capire se la sua idea è matura per affrontare il mercato e, in tal caso, come fare per portarla avanti››. Sostegno alle imprenditrici Parallelamente, l’ufficio Placement si occupa di curare anche le esigenze di particolari target di laureandi e laureati (donne, studenti diversamente abili, studenti stranieri) per fornire servizi differenziati e mirati: ‹‹Pensiamo per esempio al target donne; quando si fa attività di Placement, c’è anche tutta un’attività di formazione e affiancamento consulenziale per capire che non ci sono professioni o carriere precluse alle donne, e che è necessario abbandonare gli stereotipi di genere. Per esempio, è utile conoscere come si crea una impresa femminile, quali opportunità ci sono, come valorizzare gli strumenti posti a disposizione delle donne. Fortunatamente da noi non esiste questo problema: anche i corsi di laurea scientifici registrano un numero notevole di donne, ma è importante che, al di fuori dell’università, la società proceda di pari passo, e che anche le imprese vengano abituate a fare un certo tipo di politica e selezione del personale››.
Educazione alle imprese Si evince infine l’importanza del confronto-dialogo con le imprese del territorio al fine di conoscere i loro bisogni e far sì che possano intercettare quelli degli studenti; l’Università deve mettere in correlazione due mondi che potrebbero costruire tanto insieme, ma che spesso comunicano poco: ‹‹Nel Placement ci sono due destinatari, lo studente e l’impresa. Noi abbiamo anche un ruolo importante per le aziende, quello di educarle a fare selezione del personale. Si tratta, infatti, di piccole e medie imprese che tendono ad assumere persone non molto qualificate: questo accade anche perché il manager si sente minacciato da candidati altamente qualificati e dalle aspettative che possono avere. Quindi per noi il tirocinio diventa una modalità per poter educare le imprese e far capire loro come possa essere una leva di innovazione importante avere delle persone che sappiano lavorare bene››. Per maggiori informazioni e approfondimenti: Orientamento al lavoro, Palazzo Ateneo, piano terra tel. 080 571 4991/4892 mail: job.placement@uniba.it
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Vita da fuorisede
Vademecum del pendolare: sliding trains Rubrica pratica di consigli di sopravvivenza per Cenerentoli e Cenerentole di provincia a cura di Antonella Di Marzio In direzione ostinata e contraria: era questo l’album che il nostro personaggio, che chiameremo Sonny, aveva scaricato legalmente per tenersi sveglio a bordo del maledetto treno delle sette. Probabilmente, allo scopo sarebbe stata più adatta una qualsiasi compilation da discoteca, ma Sonny doveva scontare il fatto di aver scoperto De André solamente da teenager, per di più tramite una cover dance di Geordie. A ogni modo, salì sul treno già affollato, resistendo alla fiumana discendente che rischiava di travolgerlo; riuscì pure a mettersi comodo, con appena un’ombra di rimorso per la signora che aveva lasciato in piedi (quella donna era troppo giovane, aveva deciso, per avere diritto alla cessione del posto). Una volta tanto, l’aria condizionata funzionava a puntino, e Sonny, abbracciando uno zaino che ben fungeva da peluche, si addormentò. Un grave errore, per una serie di ragioni: Punto 1: Pur dovendo scendere al capolinea, Sonny temeva di mancare la fermata; Punto 2: Pur essendo generalmente sciatto, Sonny temeva di sgualcirsi il vestito; Punto 3: Pur essendo il migliore del suo corso, Sonny temeva di laurearsi quel mattino senza aver ripetuto la sua tesi una volta di più. Si risvegliò con un sussulto del treno. Chissà perché, scese perplesso, mettendoci qualche minuto a
realizzare di non aver potuto studiare. Quando se ne rese conto, iniziò a rimproverarsi in silenzio; smise solo quando si accorse che la sua austera (ex) facoltà, raggiunta a passo automatico, si era inspiegabilmente tramutata in un negozio di dolciumi. Solo in quel momento alzò lo sguardo: strade sconosciute, negozi ignoti, bancarelle mai viste. Nemmeno l’ombra dell’accademia; pareva, piuttosto, il Paese di Cuccagna. Recuperò dalla sua mente un’informazione accessoria, che parlava di una fiera in un paese vicino: quello al capolinea opposto della linea ferroviaria. In un angolo della sua mente, si prendeva a calci; col resto del suo splendido cervello, elucubrava soluzioni. La famiglia, poteva chiamare la famiglia; ma i suoi avevano la macchina guasta, e avrebbero preso il treno dopo il suo. Poteva tornare in stazione, e viaggiare in direzione opposta; in lieve ritardo, ma sarebbe arrivato. O forse no, perché quel giorno, che novità, era previsto uno sciopero; secondo l’orario, i ferrovieri avevano ormai le braccia incrociate. Passò in rassegna gli amici; per un motivo o per l’altro, li sapeva tutti stabilmente appiedati. Chiamare l’università, spiegare tutto, sorvolando sulla figura meschina? Non era possibile, aveva perso il cellulare, che pure aveva messo nello zaino; che doveva però aver lasciato sul treno, con la tesi dentro, per giunta. Era ufficiale ormai,
illustrazione di Francesca Chilà
aveva cannato l’ultimo giorno della sessione, già di per sé seduta straordinaria; un superlativo ulteriore, che lui sapesse, non c’era. Sarebbe finito fuori corso, ritardando la domanda per il dottorato; dandola vinta al suo rivale di sempre. Le malelingue avrebbero mormorato che a non farlo laureare fosse stata la sua hybris: una tesi da seicento pagine («Perché a me?», gemeva spesso il suo relatore), nei tempi regolamentari, era impresa impossibile. Sonny sapeva di essere spacciato. E cadde come corpo morto cade. Si riebbe sul morbido, anche se vagamente sporco e puzzolente. Era in treno. La voce automatica gracchiava l’annuncio del capolinea imminente: quello giusto stavolta, quello suo. Smontò quasi ballando. Non aveva ripetuto e non ricordava nulla; eppure, adesso lo sapeva, non era questo il peggio che potesse capitare. Quel sogno, doveva riconoscerlo, gli era stato mandato dal destino. La storia appena narrata si presta a numerose interpretazioni; e tu, caro lettore pendolare, sei libero di suggerne la morale che vuoi. Ti prego solo di una cosa: non malignare che il sogno sia uno stanco espediente letterario. Provaci tu, a tenerti sveglio e in forze la notte prima della laurea a forza di caffè e di calzone di cipolle.
Il menù del fuorisede
DOs & DON’Ts dell’Università
a cura di Francesca Martines
a cura di Antonella Di Marzio
Agosto. Trentacinque gradi all’ombra. Gli amici sono al mare e tu, studente fuorisede, sei adagiato triste e sconsolato su una sedia. Calda. Di fronte a te, solo un libro che aspetta – invano – di essere aperto. Anche tu dovresti essere in vacanza, ma la sessione autunnale degli esami incombe inquietante e cinica sulle vite degli studenti e sulla tua. Voglia di studiare: pari a zero. E allora, perché non cucinare?
Scontatezze e ovvietà di cui la vita vera non potrà mai fare a meno
Quella che oggi vi proponiamo è una classica ricetta francese facile da preparare, a basso costo, in perfetto stile ‘Menù del fuorisede’, che lascerà a bocca aperta e papille gustative soddisfatte chiunque approfitti del vostro pranzo. Parliamo della famosa quiche, volgarmente detta ‘torta salata’. Quattro semplici passi per realizzarla: 1) andate al supermercato più vicino e comprate un rotolo di pasta sfoglia (o brisée); 2) sbattete in una ciotola due uova con sale, pepe, tanto formaggio grattugiato e tutto ciò che vi rimane nel frigo (se sono verdure, soffriggetele prima in padella con cipolla e olio). Ecco un piccolo segreto: la cucina francese richiederebbe l’aggiunta di panna… ma per tenervi ‘light’ allungate il composto con un po’ di latte, sarà il tocco segreto che garantirà il risultato! 3) versate il composto all’interno della sfoglia che avrete adagiato in una teglia e bucherellato con una forchetta; 4) infornate per 20 minuti a 200 gradi. Se il caldo avesse oscurato anche gli ultimi accenni di fantasia culinaria sopravvissuti all’intenso studio, vi suggeriamo la quiche con patate e pancetta, con questa piccola variazione al punto 2): soffriggete in olio e burro le patate, che avrete tagliato a cubetti molto piccoli, aggiungete la pancetta e fate insaporire per qualche minuto, quindi versate nel composto di uova e formaggio e condite la sfoglia. Infornate e provate a resistere al profumo che inizierà a sprigionarsi nella vostra cucina. Ricordate che è estate: servite il piatto freddo e in mini-porzioni… a meno che non abbiate deciso che la sessione autunnale degli esami non è roba per voi.
Graduation Day DO: Giocare d’anticipo è la chiave per un outfit di successo; che i vestiti li compriate o decidiate di riciclarli, dovrete resistere comunque alle lusinghe della fretta. Altrimenti investirete piccole fortune nell’acquisto di fondi di magazzino; e non ci sarà dieta improvvisata che possa infilarvi con onore nel completo dei 18 anni. DON’T: Fasciarvi in rigorosissimi tailleur. Specialmente se siete piccoline, darete l’impressione di esservi provate i vestiti della mamma. La regola, con le dovute sostituzioni, può declinarsi anche al maschile. DO: Assicurarvi che amici e parenti abbiano almeno sfogliato il bignami del Galateo. Gli schiamazzi durante la seduta non predispongono la commissione poi tanto bene. DON’T (alle sedute altrui): Appiccicare tra i corridoi fotomontaggi tristissimi che rivelino la doppia vita del laureando; non fa più scandalo – pensate un po’ – che agli studenti piaccia bere e divertirsi. A meno che non abbiate idee geniali, risparmiate sulla carta e investite piuttosto sul regalo. DO: Studiarvi bene la Tesi, e abbozzare un discorso da ripetere davanti allo specchio. Non basta che siate bravissimi: dovete dimostrarvi convinti e convincenti. Non siete poi così bravi? Fate finta. DON’T: Arrabbiarvi o rinchiudervi in un falsissimo pudore allorquando, a seduta terminata, gli amici intoneranno Dottore nel buco. Non è volgarità quella che omaggiano, è solo tradizione!
14 Una lingua senza suoni La Lingua dei Segni Italiana è l’idioma ufficiale di circa 60.000 persone non udenti; come lingua visiva, con morfologia e sintassi proprie, è caratterizzata da componenti manuali (secondo parametri di configurazione, locazione, movimento e orientamento) e non manuali (la suddetta espressione facciale); inoltre, al pari delle lingue vocali, è soggetta a variazioni diatopiche sull’intero territorio nazionale. L’insegnamento della LIS, però, non risulta affatto diffuso a livello accademico: a oggi, l’unico ateneo a offrire l’insegnamento della LIS come lingua straniera è l’Università ‘Ca’ Foscari’ di Venezia; sono una fortunata eccezione anche le attività seminariali come quelle dell’ateneo barese.
Parlare, non solo a parole La LIS (in)segnata agli studenti baresi a cura di Antonella Di Marzio «Più espressione!» raccomanda il docente alla classe gremita; non siamo in un corso di teatro, ma la richiesta non appare per nulla bizzarra. Siamo invece nell’ex facoltà di Lingue dell’Università degli Studi di Bari, dove scopriamo che l’espressione facciale è una componente importante della comunicazione in LIS (Lingua dei Segni Italiana). Il primo seminario di LIS, conclusosi lo scorso anno accademico, è stato promosso dall’associazione ‘Studenti Indipendenti’ grazie al contributo del fondo per le attività culturali e sociali autogestite. «Non mi aspettavo tanta partecipazione», confida Michele Bitetto, il titolare del corso, a fronte dei circa centocinquanta studenti che hanno voluto imparare a segnare.
#iosegno Per colmare un vuoto legislativo, sulla piattaforma change.org è stata lanciata la petizione #iosegno, che al Parlamento Italiano chiede di riconoscere la LIS come lingua ufficiale. L’iniziativa è stata promossa da Radio Kaos ItaLis, «di Sordi e per Sordi» premiata al MEI di Faenza come migliore web radio dell’anno 2012. D’altronde, è proprio il web a facilitare la diffusione della lingua e della cultura sorda, per esempio con mezzi come LisTube, una sorta di YouTube dedicato interamente ai video in LIS; ma, perché non rimanga una lingua di pochi, è necessario promuovere un autentico scambio tra udenti e non udenti. E se la musica può fare da barriera, è sempre possibile segnare le canzoni: sui palchi sanremesi e del Primo maggio, Daniele Silvestri ha cantato la sua A bocca chiusa con l’accompagnamento di alcuni interpreti in LIS. Un precedente di ‘musica per sordi’ è costituito da un videoclip del 2000: in Discolabirinto (Subsonica feat. Bluvertigo), un macchinario collegato agli strumenti musicali traduceva le note in luci e immagini, mentre due coriste segnavano il testo del brano. Lavoro: occasioni da segna(la)re Gli udenti interessati alla LIS dovranno abbattere concezioni pietistiche: se l’apprendimento delle lingue apre la mente, lo studio dell’affascinante idioma dei segni non fa certo eccezione. In più, la conoscenza della LIS dischiude notevoli orizzonti lavorativi: per la professione di interprete LIS esistono due associazioni di categoria, ANIOS e ANIMU. Un terreno potenzialmente fertile è poi quello delle tecnologie: l’applicazione iSegni, un vero e proprio dizionario LIS-Italiano, risulta ancora da migliorare; mentre per la traduzione automatica in LIS esiste BlueSign Translator, un software non ancora in commercio sviluppato dall’Università degli Studi di Siena. Per quanto riguarda l’ateneo barese, si auspica che i seminari di LIS vengano ripetuti e potenziati nel corso degli anni accademici a venire; e che ancor più possano fruirne studenti di categorie professionali in particolare contatto col pubblico. L’immagine in alto è di Matteo Milazzo Si ringraziano per la collaborazione la scuola IED Firenze ed il corso di visual comm. del prof. Alessandro Capellaro, l’associazione LIS-Learning (www.lis-learning.com) ed il prof. Dino Giglioli, Presidente Nazionale dell’ANIMU (Associazione Nazionale Interpreti di Lingua Italiana dei Segni).
FAQ
Frequent Academic Questions a cura di Ilaria Lopez
L’Università può mettere i laureati in diretto contatto con il mondo del lavoro? Cosa: Job placement. Link utili per cercare lavoro, per tenersi aggiornati su incontri tra aziende e laureati e altri servizi utili per i neolaureati. Dove: servizio on line disponibile sul sito www.uniba.it. Come: il Job placement mette a disposizione occasioni per tutti coloro che siano in possesso di una laurea – che sia di primo o secondo livello. Quando: in qualsiasi momento dell’anno. È consigliabile consultare sempre la pagina, poiché viene periodicamente aggiornata. Link: www.uniba.it > Studenti > Opportunità e Lavoro > Job placement.
Sono disponibili borse di studio per gli studenti dell’Uniba? Cosa: borse di studio dell’A.di.s.u. Dove: consultare il sito www.adisupuglia.it. Come: è necessario essere in possesso di determinati requisiti (reddito, media degli esami sostenuti, CFU ecc.). I requisiti sono elencati dettagliatamente sul bando per la borsa di studio. Quando: a seconda del tipo di corso di laurea, i termini per la presentazione delle domande variano. Consultare periodicamente il sito. Link: www.adisupuglia.it > Area Studenti > Domande Borse di studio.
Ci sono opportunità di formazione post lauream in lingua inglese? Cosa: borse di studio per master in lingua inglese alla MIB School of Management di Trieste. Dove: consultare il sito www.uniba.it. Come: le borse sono destinate a laureati in tutte le discipline. Quando: le scadenze variano, consultare i bandi. Link: www.uniba.it > Studenti > Opportunità e Lavoro > Bacheca delle opportunità offerte da enti esterni > Borse di studio per l’accesso a master in lingua inglese MIB School of Management.
Sono disponibili borse di studio anche per discipline umanistiche? Cosa: Borse di studio per laureati in discipline storiche, filosofiche e letterarie, erogate dall’Istituto Italiano per gli Studi Storici. Dove: consultare il sito www.uniba.it. Come: per poter fare domanda per la borsa di studio è necessario essere laureati o dottori di ricerca, italiani e stranieri, in discipline storiche, filosofiche e letterarie. Quando: il termine di presentazione della domanda per la borsa di studio scade venerdì 6 settembre 2013. Link: digitare www.uniba.it > Studenti > Bacheca delle opportunità offerte da enti esterni > Borse di studio per laureati in discipline storiche, filosofiche e letterarie.
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Voci in sintonia Tra composizione classica e formazione alla musica, l’esperienza internazionale del ‘Coro Harmonia’ In un periodo storico in cui la musica viene scambiata per intrattenimento e la sua diffusione diventa elemento di corredo per semplici prodotti commerciali, c’è ancora chi prova a riservarle il suo corretto ruolo culturale. È questo il caso del ‘Coro Harmonia’, che dal 1989 riunisce circa sessanta studenti dell’Università degli Studi ‘Aldo Moro’ intorno ad un esemplare repertorio concertante focalizzato soprattutto sul XVII e XVIII secolo. Passando da Bach a Vivaldi, da Pergolesi a Händel, nel tempo il coro ha costruito un curriculum di alto profilo, con collaborazioni d’eccezione e concerti in tutto il mondo. Sotto la guida del direttore Sergio Lella, questo collettivo arricchisce la proposta culturale dell’Ateneo barese e si propone come eccellenza del territorio. Ne parliamo con Anita Defelice, membro del consiglio direttivo dell’associazione Harmonia. Come avviene la scelta di coloro che fanno parte del ‘Coro Harmonia’? L’associazione ha sempre accolto tutti coloro desiderino avvicinarsi alla pratica corale per passione o curiosità. La scelta avviene tramite una semplice audizione, che nella maggioranza dei casi è positiva. Molti ragazzi, tra cui anche studenti Erasmus, hanno scelto di seguire il coro.
Visita il sito del Coro Harmonia http://bit.ly/13Ds7YK Foto di Fratelli Tartaglione
In che modo il coro contribuisce alla continua formazione sonora dei suoi musicisti? Per scopi statutari, una delle finalità dell’associazione è la diffusione della musica; non a caso accanto al coro sono nate l’Improbabilband e la Scuola Popolare di Musica, momentaneamente sospesa per motivi di gestione economica. La formazione è quindi una delle nostre prerogative: periodicamente teniamo laboratori di vocalità e, a breve, per la seconda edizione, organizzeremo il corso di formazione di base ‘Homo Musicalis’. Esso sarà completamente gratuito e raccoglierà otto moduli, tra cui ascolto, euritmia,
vocalità, lettura musicale, principi base della teoria, improvvisazione, body percussion, uso consapevole della voce. Il coro è protagonista di un’intensa attività di concerti internazionali, qual è l’aspetto più appassionante in questo scambio di culture? Ce ne sono tanti in effetti: la musica accomuna gente molto diversa, si scoprono posti nuovi, si stringono amicizie che durano nel tempo, ma più di tutto si scopre come la musica vocale d’insieme sia il minimo comune denominatore per un’esperienza di vita in quanto geneticamente impresso nella specie umana. Il repertorio del coro ha una mirabile attenzione per la musica del ‘600 e ‘700, ma vi è anche un elemento di connessione con il contemporaneo? Anche se privilegiamo il rinascimento o il barocco perché ricchi di musica corale, siamo stati anche chiamati ad eseguire opere di musica moderna, come Un sopravvissuto di Varsavia, di Schönberg, e una produzione di musica inedita per uno spettacolo su Galilei. Una delle produzioni in cantiere è il Requiem di Mozart in chiave jazz. Qual è stata l’esperienza più entusiasmante nell’attività del coro? Sono state tantissime e tutti particolari, a cominciare dalla partecipazione al FIMU di Belfort, in Francia, sino all’ultima che ci ha visti protagonisti di una tournée per tutto il territorio pugliese assieme ad altri 200 coristi e che ha riscosso un clamoroso successo. Per la prima volta abbiamo preso parte ad una grande produzione musicale che ha offerto al pubblico la spettacolare musica dei Carmina Burana e che prosegue con altri due appuntamenti il 29 e 30 agosto.
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Lo voglio! Rassegna di varie (in)utilità a cura di Ilaria Lopez
Hippie reloaded
Il Tetris che scotta
Con un poco di zucchero… la bici va su!
La moda di quest’anno è dominata dallo stile hippie: fiori, fantasie damascate, strisce e colori sgargianti colonizzano camicie, pantaloni, giacche et similia. Se questo stile non è nelle vostre corde, andate in letargo e tornate alla luce all’inizio del prossimo autunno; se invece siete dei nostalgici degli anni Sessanta, esiste un oggetto che non può assolutamente mancare alla vostra attrezzatura estiva: la tenda da campeggio hippie style. Ricordate il camper van della Volkswagen? Quel furgoncino solitamente dipinto con colori psichedelici che girava per le strade negli anni Sessanta? La tenda che potrete trovare su www.crazyluke.it si ispira proprio a quel furgoncino. L’oggetto ideale per rendere il vostro soggiorno in campeggio davvero groove. Il prezzo non sarebbe stato propriamente alla portata delle tasche dei figli dei fiori originali, ma d’altronde costerebbe di più comprare un vero esemplare di camper van del ’65, no?
Ora che siamo in piena estate, l’ideale sarebbe bere tè ghiacciato tutto il giorno. I pomeriggi passati a sorbire tazze di tè caldo con annessi biscottini sono ormai lontani… ma imparate dalla formica e fate provviste per il prossimo inverno: accumulate bustine del tè, infusi e tisane, così vi ritroverete per le mani un vero oro liquido per le gelide sere fra dicembre e febbraio prossimi. Non dimenticate di curare lo stile anche quando sorseggiate il vostro chai o la vostra cioccolata calda. Un vero must per i cultori delle bevande calde è il mug disponibile su www.crazyluke.it: una manciata di mattoncini colorati su questa tazza e il revival del tetris è presto fatto. Ma non vi accontenterete certo di guardarlo soltanto, il tetris. Versando nella tazza una bevanda bollente, la configurazione iniziale del gioco cambierà magicamente. E magari una volta tanto riuscirete a piazzarli tutti, gli infidi mattoncini.
Se il consiglio della più famosa tata Disney ormai vi va stretto, potete sempre riciclarlo e riadattarlo. Via la pillola, avanti la bici e mano alle bibite in lattina. Ecco un utile accessorio, proposto da www.etsy.com, che vi permetterà di mandare giù più facilmente la pillola delle salite in bici, magari con l’aiuto di bevande zuccherine: il Bicycle Can Cage. Si tratta di un pratico portalattine applicabile alla vostra bicicletta. Così potrete portare sempre con voi la vostra bevanda preferita, avendo le mani ben piantate sul manubrio – occhio alla sicurezza, anche quando siete su due ruote! Come un pistolero tira fuori la sua Colt dalla fondina, grazie al Bicycle Can Cage potrete tirare fuori la vostra bibita ogni volta che vorrete. L’oggetto ideale da regalarsi e regalare per ecologiche gite estive. Buona pedalata a tutti!
GIRAMONDO
I cinema della resistenza a cura di Marianna Silvano
L’innovazione in campo cinematografico e il monopolio dei blockbuster stranieri sta rendendo la vita più difficile a molte sale cinematografiche in giro per il mondo. La causa va ricercata nella necessità di convertire le pellicole da 35mm in DVD, e non tutte le sale possono sostenere i costi che ne derivano. Molte sono costrette a gettare la spugna. Altre non si danno per vinte: è il caso del Rio Theater (Monte Rio, California). La piccola movie house è il centro culturale della comunità in cui si trova: non solo sala cinematografica, ma anche luogo di incontro per i giovani e museo cittadino. Un cinema costruito con i ‘quonset hut’ (i tipici prefabbricati americani risalenti alla Seconda guerra mondiale). Gli spettatori dalle camice di flanella, entusiasti del loro cinema d’antiquariato e preoccupati all’idea che possa essere costretto a chiudere i battenti, sostengono Suzi e Don Schaffert, i proprietari della struttura, che hanno lanciato una campagna di crowdfunding per finanziare la battaglia contro il ‘Go digital or go dark’, la necessità della scelta fra abbracciare l’era digitale o dover spegnare le luci in sala per sempre. Si possono anche accettare dei compromessi, pur di rimanere in vita. Siamo nella cittadina di Broome,
nell’Australia occidentale. Considerato uno dei migliori cinema da visitare nel mondo, e uno dei più vetusti nel suo genere, il Sun Pictures è una struttura all’aperto che può contenere 500 spettatori fanatici del cinema hollywoodiano. La struttura mantiene però alta la propria tradizione: posti a sedere in legno e in tela colorata, una grande schermo al termine di un giardino spazioso. I proprietari ne vanno orgogliosi, e col petto in fuori parlano della storia del luogo: in origine, quando la città veniva inondata dalla acque dell’oceano, la popolazione raggiungeva la sala con delle imbarcazioni e rimaneva a guardare le pellicole mentre le immagini si proiettavano sulle acque, esaltando persino la fauna marittima. La sala ora combina la tecnologia della distribuzione digitale, l’effetto dei migliori blockbuster americanoidi e l’orgoglio della propria tradizione. Per altri la tradizione è l’unica a rimanere. È il caso del Krugovaya Kinopanorama, un cinema unico nel suo genere, situato a Mosca. Risalente al periodo sovietico, voluto da Kruščëv, il cinema si presenta come un enorme cilindro. Ci si accomoda al centro su piccoli cuscini colorati, si è circondati da undici schermi su cui viene proiettato il film da altrettanti apparecchi.
Purtroppo l’idea non fu di grande successo in origine e, a quanto pare, non lo è ancora. Il cinema è diventato ormai un museo, un luogo di ritrovo per i cacciatori di tesori della settima arte: vengono proiettati film risalenti al periodo sovietico e documentari. Insomma, il cinema non può far altro che reggersi (a malapena) sulla storia che evoca, non certo sugli incassi al botteghino. Tre esempi piuttosto paradigmatici; del resto le soluzioni sembrano essere solo queste: innalzare forconi e torce in nome della propria tradizione; sapersi confrontare con le nuove esigenze del mercato cinematografico – pur sempre rimanendo un’icona per la propria cultura –, o rassegnarsi all’unica e (probabilmente) avvilente attività museale. Ma si sa, purtroppo i cambiamenti tecnologici mietono vittime.
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Puglia Experience Il gotha della sceneggiatura mondiale per il workshop itinerante organizzato dall’Apulia Film Commission a cura di Leonardo Gregorio e Marilù Ursi Venti giorni per attraversare la Puglia, sedici sceneggiatori di sette nazionalità diverse, quattro docenti d’eccezione: ecco gli elementi chiave dell’ultima edizione di Puglia Experience, workshop itinerante di sceneggiatura. Tutti uniti «nel viaggio dello scrittore, una missione che punta a esplorare e tracciare i confini incerti tra la mitologia e la narrazione contemporanea», prendendo in prestito da Christopher Vogler le parole usate per introdurre il suo più celebre manuale.
Visita il sito dell’Apulia Film Commission http://bit.ly/190Sh8O
Puglia Experience, giunto alla sua quarta edizione, ha radunato, dal 17 giugno al 6 luglio sotto il patrocinio dell’Apulia Film Commission, progetti che vanno dall’Italia all’Australia passando per Nuova Zelanda, Inghilterra, Stati Uniti, Albania e India; l’eterogeneità dei partecipanti risulta ancor più interessante se si pensa che ognuno di loro ha avuto la possibilità di confrontarsi con docenti di primissimo piano nel panorama mondiale cinematografico. Le guide in questo percorso di scrittura sono state: James V. Hart, storico produttore e sceneggiatore di capolavori come Hook – Capitan Uncino, di Steven Spielberg, Dracula di Bram Stoker, diretto da Francis Ford Coppola, e Frankenstein di Mary Shelley, di Kenneth Branagh. Ad accompagnare Hart, un monumento della teoria narrativa mondiale come Christopher Vogler, autore
de Il viaggio dell’eroe (Writer’s Journey) oltre che story analist per le più importanti major statunitensi; con loro David Magee, attore e regista teatrale, nonché sceneggiatore candidato agli ultimi Oscar per Vita di Pi di Ang Lee, e l’australiana Claire Dobbin, nota script advisor e presidente del Melbourne International Film Festival. La cinematografia italiana ha spesso lamentato una crisi profonda nel campo della sceneggiatura, ed è interessante notare quanto l’ambito della scrittura filmica possa diventare, in una esperienza come questa, il campo di incontro tra culture diverse per favorire spunti creativi di grandissimo valore. Il confronto tra partecipanti e docenti è stato alimentato e arricchito da luoghi e persone incontrate durante tutto il percorso formativo, dislocato nei più disparati centri della regione, dal Salento al Gargano, e conclusosi nel capoluogo, con gli ultimi giorni al Cineporto di Bari, sede logistica della Commission regionale. A differenza delle precedenti edizioni si è scelto di aprire la partecipazione al workshop non solo a sceneggiatori appartenenti all’area mediterranea, ma a candidature provenienti da tutto il mondo. La selezione, inizialmente svolta da una commissione interna, si è poi spostata nelle mani dei docenti, che
Dio e Mr. Hyde: le due anime di James V. Hart
Intervista allo sceneggiatore di Dracula
hanno privilegiato la qualità dei progetti presentati, progetti nati per essere girati in parte o totalmente sul territorio pugliese; in questo, la formula di workshop itinerante ha sicuramente aiutato i partecipanti a sviluppare idee e percorsi narrativi modellati su location ben precise, infatti l’intero gruppo di studio ha attraversato tutte le provincie pugliesi toccando con mano e ascoltando di persona le esperienze e il vissuto del territorio. Tra le attività collaterali al workshop, gli spettatori pugliesi hanno potuto assistere, nella sala del DB D’Essai di Lecce, a una speciale lezione di cinema tenuta da James V. Hart e alla successiva proiezione di Epic – Il mondo segreto, ultimo lavoro di Hart in veste di produttore esecutivo e coautore insieme a William Joyce e Chris Wedge. Il progetto Puglia Experience è ormai una caposaldo nella sponsorizzazione filmica del territorio pugliese nonché una occasione di indubbia importanza artistica per gli stessi partecipanti, come ha precisato la presidente dell’AFC Antonella Gaeta: «[…] tutti sulle tracce di storie, rivelazioni, anime antiche e nuove del nostro territorio, di ‘esperienza’, parola chiave del progetto e di ogni forma di racconto compiuto». Abbiamo incontrato tre dei docenti coinvolti in questa ‘esperienza pugliese’, interrogandoli su questioni artistiche e produttive con uno sguardo sempre in bilico tra l’attuale situazione internazionale e la localizzazione di determinati spunti critici sul territorio italiano e pugliese. (M.U.)
Lei ha lavorato in alcuni film come sceneggiatore e produttore insieme. Come vive questo doppio ruolo? Devo dire che mi piaccio di più come sceneggiatore che come produttore. Da sceneggiatore devi immaginare un mondo, come se fossi Dio; da produttore devi trasformarti in Mr. Hyde, ed è un lavoro molto intenso, bisogna raccogliere i soldi, mettere insieme la troupe, convincere gli attori a recitare nel film; devi essere al contempo buono e cattivo. Purtroppo, qualche volta, per avere la certezza che il tuo film venga effettivamente realizzato nella maniera che desideri, devi fare il produttore, è una necessità. Quanto il suo motto «le arti ci salveranno» ha a che fare con un’idea di cinema legata all’immaginario, alla fantasia e anche a un mondo che è quello dell’infanzia – aspetti che sono presenti in molti film da lei scritti? Credo veramente che le arti ci salveranno, forse l’unica strada per la sopravvivenza della specie umana è proprio questa. L’arte richiede collaborazione e cooperazione fra le persone per creare qualcosa, e te ne accorgi proprio in progetti internazionali come Puglia Experience: non ci sono barriere che tengano, quando si lavora insieme. Qui sono arrivati scrittori e sceneggiatori provenienti da tanti Paesi diversi. L’ultimo film che ho scritto, Epic – ll mondo segreto, parla in qualche maniera proprio di questo, di coesistenza: ci sono esseri umani altissimi ed esseri piccolissimi… affinché la foresta, quindi il mondo, possa sopravvivere, è necessaria la loro cooperazione. Questa storia nasce anche dai miei ricordi di infanzia: quando ero piccolo, di fronte a casa mia c’era un bosco che mi ha ispirato nella scrittura, e una esperienza simile l’ha avuta Chris Wedge, il regista di
Epic. Un po’ in tutti i lavori che ho scritto mi sono orientato molto sull’opposizione tra due personaggi o due realtà e la necessità, poi, di azione condivisa. Penso a film come Dracula di Bram Stoker, Hook – Capitan Uncino, La musica nel cuore, e altri ancora. Che tipo di particolarità ha un workshop come Puglia Experience? Vedremo nuovi film nati da questo workshop? Tutti i partecipanti, in seguito all’esperienza che hanno fatto in questi luoghi, hanno modificato le loro storie in funzione di ciò che hanno visto e che li ha ispirati. È accaduto anche a me, che ho altri progetti da realizzare, e adesso sto pensando proprio alla Puglia. A distanza, dagli Usa, come vede il cinema italiano e soprattutto quello contemporaneo? La percezione Oltreoceano, dove praticamente non arriva il cinema italiano, è che manchino i grandi maestri del passato. Ho lavorato con Tornatore e Antonioni, ma tanto tempo fa. Per questo mi piacerebbe portare delle coproduzioni in Italia, per tirare fuori nuovi talenti. Dov’è Sergio Leone? (M.U. e L.G.)
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Strategie per il cinema Claire Dobbin e l’esperienza pugliese Come lavora uno script advisor e che tipo di rapporto instaura con lo sceneggiatore? Aiuta gli sceneggiatori a rafforzare le loro storie, che possono venire da ogni dove, da esperienze personali, da qualcosa che è realmente successo, da materiale esistente, ma tutto deve essere reso in maniera cinematograficamente efficace. In che modo operazioni come Puglia Experience aiutano lo sviluppo culturale e la promozione di un territorio? Chi fa cinema aspira ad arrivare al maggior numero di persone. Un’operazione possibile se si hanno a disposizione i mezzi giusti perché ciò avvenga. In questo contesto è molto importante il ruolo di cooperazioni e coproduzioni internazionali, che possono dare ai film una
circolazione più ampia. Quel che accade con Puglia Experience è molto importante: Apulia Film Commission ha avuto il merito di aver guardato oltre, di esser stata più lungimirante rispetto ad altri. Oltre ad assegnare incentivi economici alle produzioni che vengono a girare in questa regione, ha portato in Puglia scrittori e sceneggiatori perché potessero esserne ispirati nello sviluppo delle migliori storie possibili. Gli stessi hanno poi incontrato produttori, innescando un meccanismo che si può rivelare quantomai proficuo. Che luogo da raccontare è la Puglia? Siamo stati in giro, abbiamo percorso la costa, visitato Lecce, Bari, Vieste e tante altre località. Alcune cose me le aspettavo, altre per niente. A Bari abbiamo
incontrato omaccioni abbronzati e pescatori sul litorale, le signore delle orecchiette nel centro storico, un uomo un po’ matto che ballava con tutti, musica per strada… tanti tipi di persone e un senso di piacevolezza della vita che forse è italiano e, soprattutto, meridionale. In Puglia le storie da raccontare sono moltissime. Dalle mie parti non abbiamo altrettanto talento nel vivere la vita. Un workshop con 16 sceneggiatori e 16 storie. Quale il genere predominante? Non sono storie per film di genere in senso stretto: sono piuttosto drammatiche, in maggioranza, e vanno poi a contaminarsi con il thriller, con registri più romantici o altri ancora. (M.U. e L.G.)
Migliaia di anni di storie prima di Vita di Pi Intervista a David Magee Le sue sceneggiature hanno un forte legame con romanzi e testi letterari. Come affronta la trasposizione? L’idea del romanzo è più legata alla dimensione interiore dei personaggi, ai pensieri intimi, ai monologhi. Il compito dello sceneggiatore è quello di rendere azione ciò che è pensiero; la maggior parte delle risorse viene orientata a immaginare qualcosa che possa avere impatto visivo.
ma da ‘riarrangiare’ per un mezzo narrativo completamente diverso dalla letteratura, qual è il cinema. Molti ritengono che il film di Ang Lee da me scritto, Vita di Pi, sia molto fedele al libro omonimo di Yann Martel, invece le differenze sono tantissime. Gli accadimenti sono stati ricalibrati o distribuiti diversamente in molte situazioni. Ed è stato un procedimento necessario per arrivare ai momenti clou della storia.
Il pubblico che ha già letto e apprezzato un libro cerca spesso, nella versione cinematografica, qualcosa che lo stupisca ancora di più… Chi ha letto il libro conosce già le scene salienti, che devono essere necessariamente presenti nel film. Poi ci sono tutti i passaggi che conducono a questi momenti fondamentali: da rispettare, certo,
Qual è il momento che più ama e che la ispira quando scrive una sceneggiatura? Forse il momento che mi emoziona di più è quando vedo quello che ho scritto prendere vita sullo schermo. Solamente allora realizzo che quanto ho pensato, creato, rielaborato, diventa reale. A volte, addirittura, il risultato supera le mie aspettative, ed è
proprio quello che mi è successo con Vita di Pi. A quasi 120 anni dalla nascita del cinema, e un’infinità di film realizzati, quanto è difficile trovare idee per storie che siano veramente originali? Le storie sono come le persone, sono senza numero, diverse una dall’altra, ciascuna con la sua singolarità. Non sono solo 120 anni ma molti di più, se si considera che possiamo far risalire lo storytelling fino a Omero. O magari le storie sono sempre le stesse, ma vengono attualizzate, modificate, raccontate in maniera diversa, adeguate, per così dire, al sentimento dei tempi in continua mutazione. (M.U. e L.G.)
Ripensare il cinema Digital Heritage: reinterpretare il cinema attraverso gli archivi audiovisivi e il found footage a cura di Leonardo Gregorio e Marilù Ursi Già La valigia dei sogni del regista Luigi Comencini (era il 1953) mostrava il personaggio di un ex attore del muto che recuperava pezzi di vecchie pellicole, destinate al macero, per allestire proiezioni private. Forse perché sapeva che «la storia del cinema è la storia della sua distruzione», come dichiarava Enno Patalas, fra i massimi esperti di restauro del film, per anni alla guida della Cineteca di Monaco di Baviera. Ma lo diceva agli albori degli anni Ottanta, altri tempi, lontanissimi, ancora analogici eppure già incerti. Oggi, invece, fra le vie sterminate del magma-mondo digitale e le nuove tecnologie, quella Storia va rimodulata all’interno di un sistema mediale sempre più vasto e articolato. Diverse sono le pratiche, le modalità di realizzazione e diffusione di immagini e testi audiovisivi, ma quali sono e
come si strutturano quelle di recupero, conservazione e restauro di supporti deperiti, nonché le forme di riutilizzo di immagini preesistenti? Risposte da cercare nell’ambito di ‘Digital Heritage’, interessante e articolata iniziativa dedicata alla gestione degli archivi audiovisivi, nata da un’idea di Oggetti Smarriti e del Collettivo 14fps, gruppo di giovani videomaker ed operatori culturali riuniti nell’ambito dei Laboratori dal basso dell’ARTI finanziati da Regione e UE. «L’obiettivo che ci unisce – spiegano gli organizzatori – è recuperare e valorizzare il materiale filmico prodotto da cineamatori e professionisti con l’intento di archiviarlo e renderlo fruibile, dandogli una seconda vita in opere autoriali, non solo cinematografiche». (L.G.)
Tutti i protagonisti di Digital Heritage Digital Heritage ha presentato lezioni frontali aperte e project work realizzati in collaborazione con Università di Bari, Centro Studi AFC e Apulia Film Commission. Tra la Mediateca Regionale Pugliese e l’ex Palazzo delle Poste si sono succeduti incontri con esperti di archiviazione come Serena Barela dell’AAMOD (l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico), Silvia Mazzini di Regesta, Andrea Meneghelli della Cineteca di Bologna, Massimo Canario dell’Istituto Luce, Adriana
Noviello dell’Austrian Film Museum di Vienna, Salvo Dell’Arte e Maresa Lippolis, specilisti di copyleft e copyright, Karianne Fiorini dell’Archivio Nazionale del Cinema di Famiglia, Roland Sejko, autore del documentario David di Donatello 2013 La nave. I project work a numero chiuso hanno avuto come protagonisti autori e registi che utilizzano materiale documentario o d’archivio: Alina Marazzi, regista di Un’ora sola ti vorrei, Vogliamo anche le rose e il recente Tutto parla di te; Marco Bertozzi, docente allo IUAV di Venezia e autore del libro Recycled Cinema; ancora, poi, David Phelps, critico, programmatore e autore di lavori di found footage come On Spec e la serie Cinetract. A ragionare sull’uso creativo e informativo dell’archivio televisivo è inoltre intervenuto il critico cinematografico Enrico Ghezzi per raccontare l’illuminante esperienza di Blob”.(L.G.)
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Enrico Ghezzi e l’insoddisfazione Intervista al padre di Blob
Leggi l’intervista completa a Enrico Ghezzi http://bit.ly/1910v0u Le foto sono di Vincenzo Ardito
Come è cambiato Blob, soprattutto fare Blob, nel corso del tempo? Blob − e questo è il suo principale difetto − è stato poco innovativo rispetto a se stesso, ma è fatale: Blob è una cosa talmente semplice, banale e intensa che non può che incoraggiarti a questo. In qualche modo, il meglio che tu possa fare è fermarti qui. Ho sempre detto che la sua qualità prima è di essere insoddisfacente, luogo dell’insoddisfazione; non può piacerci, non può essere bello, in sei-sette ore di lavoro facciamo le cose in corsa, anzi a occhi chiusi… è vero che sai già dove andare a parare, anche a cose che non hai visto, ma paradossalmente dovresti vedere tutto, ed è la promessa malcelatamente non mantenuta da Blob. Tutta la televisione è bella o bellissima, perché antropologicamente oltre. Questo è il paradosso di Blob, l’insoddisfazione. Ma va bene così, in un certo senso.
Perché resiste ancora? Per motivi psico-politico-quantitativo-economici. È un programma che costa pochissimo rispetto a qualsiasi cosa si cerchi di mettere alla stessa ora. Ed è anche l’unico a resistere in uno spazio in cui il programma dominante è, da molto tempo, Striscia la notizia − in un certo senso dello stesso genere −, e questo è molto importante. Un altro motivo di resistenza è quello dello sbattere la testa sempre contro lo stesso muro, soprattutto conto le stesse teste, gli stessi stomaci: il gruppo di Blob, non solo per pigrizia, è stato mantenuto più o meno integro. In realtà, già un anno dopo la sua nascita, avrei voluto fare il programma in un altro modo, un po’ alla maniera di The Cameraman di Buster Keaton, cosa che ha anche causato problemi con altri autori di Blob, come se fosse un tentativo di lesa maestà nei nostri stessi confronti. L’idea di un ‘contenitore anarchico di immagini’ e di una comunicazione fatta di frammenti sembra essere stata definitivamente sdoganata, e in questo Fuori Orario. Cose (mai) viste e Blob hanno dato un contributo importantissimo alla televisione Italiana. Riconosci dei programmi in particolare come legittimi eredi? No, perché Blob e Fuori Orario sono stati fatti in una situazione di casuale ma fortissima, oggettiva coincidenza di intenti di un piccolo gruppo di persone. Oggi non ci sarebbe la libertà di farlo, oggi che tutto si basa sul piano della paura, della copertura, della par condicio, di tutte queste stronzate. Quando abbiamo cominciato c’era la Lega che arrivava dal nulla, la crisi e il crollo dei partiti di massa… noi, all’epoca di Angelo Guglielmi direttore di Rai 3 (1987-1994, ndr), abbiamo fatto quello che volevamo, delle cose folli. In quel periodo sono nati, per esempio, Un giorno in pretura di Roberta Petrelluzzi, un programma dirompentissimo, un film; poi, subito dopo, Chi l’ha visto?, un programma di fiction, e Blob, che è un programma di invenzione dell’esistente. (M.U e L.G.)
Oggettivo e visionario: il cinema del found footage
Intervista a Marco Bertozzi, autore di Recycled cinema Qual è la differenza sostanziale fra i film d’archivio tradizionale e i film di found footage? La differenza sta nel ribaltamento del valore referenziale dell’immagine: il found footage cerca di scardinare l’immagine apparente – quella che a prima vista sembra un sistema di segni che dà un significato immediato –; prova a indirizzare, quindi, la nostra percezione verso una costruzione del senso un po’ diversa. E questo è possibile esaltando aspetti mediali legati al dispositivo e al suo linguaggio, oppure aspetti politici e storici che quell’immagine parrebbe non mostrare. È un lavoro di scavo, di messa in luce di qualcosa che non è così evidente. Leggi l’intervista completa a Marco Bertozzi http://bit.ly/11K3uZp
Che ruolo ha il found footage nella storia del cinema? Ha sempre avuto un ruolo nella storia del cinema, sin dal muto: penso, per esempio, alle ‘vedute’ riciclate per farne altri film, oppure mi viene in mente un film
monstre girato durante la Prima guerra mondiale da vari operatori, poi montato negli anni Trenta da Roberto Omegna e intitolato Gloria (1934, ndr). È un film sulla Prima guerra mondiale ‘vista’ dal balconcino di piazza Venezia, su come il fascismo ricostruisce la Storia omettendo, per esempio, la disfatta di Caporetto proprio attraverso il footage, con materiali di diversa provenienza. E così via, i casi sono tanti, e alcuni li cito nel mio libro (Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio 2013, ndr): da Why We Fight (1942-1945, ndr), una serie di film di propaganda commissionati dal governo Usa per convincere il popolo americano della necessità dell’intervento bellico, ad All’armi siam fascisti (1963, ndr) di Lino Del Fra, con Cecilia Mangini e Lino Micciché, fino a La verifica incerta (1964, ndr) di Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello. Quindi si può tracciare una vera e propria filogenesi di questa storia.
YouTube, i videoclip e il mascheramento Intervista al regista David Phelps
Quanta attenzione è riservata dalla critica, negli Stati Uniti, all’oggetto found footage? C’è un pubblico specifico? Oggi non c’è quasi per niente attenzione, eppure, specialmente nell’avanguardia del cinema americano, si può dire che il found footage sia stato un vero e proprio movimento, con esponenti di primo piano come Bruce Conner e Arthur Lipsett. Ma penso anche a Joe Dante che, nel 1968, ha realizzato The Movie Orgy: un lunghissimo film-zapping, un found footage costruito sul montaggio di parti di B movie, spot, trailer e programmi televisivi. In Dante predomina minacciosamente la tv che è vaudeville, commedia, come la politica, con i politici alla tv che sono vaudeville anche loro. Poi c’è l’episodio di Dante in Twilight Zone: The Movie (Ai confini della realtà,1983, ndr) dove usa anche il found footage di vecchi cartoni animati, che diventano la realtà del film. Anche Brian De Palma è tra gli autori che hanno fatto questo in passato. Il problema principale è, forse, che l’intero patrimonio filmico americano sta sparendo e diventa sempre più difficile attingere dal passato.
Come cambia, oggi, il ruolo del found footage? Oggi è tutto più facile, perché possiamo attingere a immagini dalla Rete, da depositi di sequenze che sono su piattaforme di condivisione: possiamo manipolarle con strumenti che sono più a portata di mano del banco di montaggio con la pellicola. Questa nuova facilità porta con sé rischi e opportunità: da un lato la democratizzazione dell’uso delle immagini, certo, ma se non c’è consapevolezza, il rischio è la diffusione di utilizzi banali o stereotipati dei materiali, per esempio l’effetto nostalgia, che è sempre in agguato rispetto all’uso di immagini antiche. Quindi le tecnologie digitali possono, in qualche modo, anche essere un limite? Sì, per esempio viene meno il contatto con la materia. Prima avevi il fotogramma, lo toccavi, era qualcosa di materico, lì c’era la tua immagine. Quando facevi e montavi un film in pellicola, quell’immagine era lì. Oggi
Hai iniziato la tua prima giornata di project work sul found footage partendo dal videoclip della canzone Beauty And a Beat di Justin Bieber e Nicki Minaj. Poi, in un percorso dentro la storia del cinema, hai mostrato spezzoni di lavori di Dziga Vertov, Sergej M. Ėjzenštejn, Jean-Luc Godard e altri. Come si arriva da Vertov a Justin Bieber? Sì, non si dovrebbe fare ma l’ho fatto, perché penso che in questo videoclip il presupposto sia in fondo lo stesso, ovvero che tutto è falso, che la realtà è qualcosa che si crea con la cinepresa (o con la telecamera), che tutto funziona e gira intorno a essa. Credo che sia un omaggio alla cinematografia del falso, non vuole nemmeno farci credere che quello che vediamo sia la realtà, anzi piuttosto il contrario. Accade un po’ anche nei video di Katy Perry, che fanno il verso ai film hollywoodiani e alla loro pretesa di convincere la gente che niente è falso. Riguardo alle Histoire(s) du cinéma di Godard, hai detto che il regista mostra soprattutto quello che non è successo. Cosa c’è o cosa vorresti nelle tue ideali Histoire(s) du cinéma? Mi sarebbe piaciuto che il cinema avesse continuato a essere libero, così com’era fino alla sua normalizzazione, avvenuta negli anni Trenta. Gli autori mostravano sullo schermo quello che volevano, senza doverlo travestire. Anche se, in effetti, il cinema che maschera resta una cosa meravigliosa, per me. Parte del mio progetto consiste proprio nel vedere cosa c’è dietro questa maschera. Nei tuoi lavori di found footage su quali materiali operi e, soprattutto, cosa cerchi nelle immagini? Devo farmi un’idea, qualche volta cerco di rovistare su YouTube, ma la prima cosa è stabilire dei limiti a quello che voglio fare. Parto dal concetto, stabilisco i recinti e, dopo ciò, tutto risiede nell’intuizione. Vado avanti e vedo se funziona. Di solito non funziona [sorride, ndr].(L.G.)
quell’immagine non sai più bene dov’è, è sparsa in milioni di pixel e quindi al tempo stesso puoi rielaborarla milioni di volte. Dunque, come ritrovare queste immagini fuori dal web? Ci sono archivi istituzionali come Luce, Rai Teche, AAMOD, archivi che mettono a disposizione immagini, ed è importante il contatto diretto con le persone che ci lavorano perché sanno quali immagini ci sono e su quali formati; poi ci sono film che, per motivi economici, non sono mai stati trasferiti su un altro supporto o digitalizzati, e sono rimasti in nitrato. C’è un gigantesco processo in atto e sono determinanti le politiche culturali legate a coloro che dirigono queste realtà. È abbastanza ovvio poi che, per una serie di ragioni, i ‘cinetecari’ tendano a guardare al loro interno, ma sempre di più devono guardare al mondo, ‘aprirsi’ all’esterno, proprio per la loro stessa sopravvivenza. (M.U. e L.G.)
Visita il sito dell’associazione Oggetti Smarriti http://bit.ly/187NtNI
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Soundscape Composition Il paesaggio sonoro come fonte di rielaborazione artistica a cura di Michele Casella «È solo attraverso la musica che l’uomo può trovare la genuina armonia tra il proprio mondo interiore e il mondo esterno a lui. E sarà nella musica che l’uomo creerà i modelli perfetti di quel paesaggio sonoro ideale che vive nella sua immaginazione». R. Murray Schafer
Visita il sito dell’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori http://bit.ly/13K5Btx
Dalle composizioni di musica concreta di Pierre Schaeffer passando per le straordinarie aneddotiche di Luc Ferrari, la scena sonora moderna si nutre da oltre un secolo di suggestioni elettroacustiche provenienti da tutti gli aspetti della vita quotidiana. La musica diventa, dunque, un nuovo elemento di narrazione, ora per mezzo dello studio analitico di field recording, ora attraverso la reinterpretazione creativa di sample ambientali da assimilare in nuovi brani. Da queste fondamentali esperienze nasce anche in Italia l’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori, un collettivo di performer e musicisti che attinge ai suoni del territorio per approdare a una doppia finalità: creare una mappatura dei soundmark propri di una specifica location e fornire materiale audio per inedite produzioni artistiche. Proprio con questo spirito la Mediateca Regionale Pugliese e l’Apulia Film Commission hanno ospitato il 28 e 29 giugno Francesco Giannico e Alessio Ballerini, coordinatori dell’Archivio. Un’esperienza che ha visto Bari al centro di un affascinante workshop in ecologia acustica (teorizzata da Raymond Murray Schafer) e parte integrante di un originale progetto di promozione culturale. Abbiamo intervistato Francesco Giannico per farci raccontare la sua esperienza pugliese e tracciare le linee di questa sorprendete avventura uditiva.
Qual è l’obiettivo principale del vostro lavoro? L’esigenza primaria è quella di focalizzare l’attenzione sulla sperimentazione elettroacustica, una pratica che si è sviluppata già da 35 anni ma che in Italia è arrivata con molto ritardo. In questo senso i workshop sono molto funzionali, soprattutto se collaborativi. Infatti più gente si coinvolge, più si raggiungono buoni risultati, sia nella raccolta di materiale sia nella creazione della performance live. Grazie a questo lavoro si approda inoltre alla mappatura del territorio, che è anche un veicolo per promuovere meglio il nostro paesaggio sonoro.
Cosa c’è alla base del soundscape composition? In sostanza, si tratta di composizioni musicali che prendono spunto dai campioni audio acquisiti durante le nostre passeggiate sonore. Registratore digitale alla mano, i ragazzi raccolgono i suoni d’ambiente e poi li utilizzano in una performance live, ma il materiale può anche essere trattato in tempo reale o in fase di composizione in studio. L’elaborazione dei file audio può essere lieve – in modo da mantenere la riconoscibilità del campione audio salvaguardandone il valore analitico – o può prestarsi a trasformazioni più radicali tali da mettere in primo piano “l’estetica artistica”.
Come funziona un vostro workshop? Generalmente partiamo dal contatto con uno stakeholder del territorio, un ente pubblico o privato che voglia recepire la nostra offerta, farla propria e organizzarla con noi. Subito dopo lanciamo una open call e riceviamo le iscrizioni del pubblico. Non c’è una vera e propria selezione, non c’è bisogno di essere musicisti o esperti informatici per iscriversi. Bisogna solo dotarsi di un portatile, sul quale viene installato un software di semplice utilizzo per manipolare i suoni in tempo reale durante la performance dal vivo. Il workshop prevede quindi delle soundwalk, delle passeggiate sonore che sono precedute da alcuni
incontri frontali in cui cerchiamo di dare nozioni di base sul soundscape composition. Cosa avviene durante le passeggiate sonore? I partecipanti vengono dotati di un registratore digitale ed apprendono le principali nozioni sulle sorgenti sonore e sulla microfonia. L’esperienza sta tutta nell’individuazione di suoni: c’è la tonica di sottofondo, che consiste in quei suoni (fondamentalmente d’ambiente) da cui si viene assorbiti. Poi ci sono i sound signal, quei segnali sonori che vengono percepiti in modo cosciente (ad esempio la voce). I soundmark, marcatori sonori, consistono invece in quei suoni che caratterizzano una determinata zona (come il suono inconfondibile del polpo sbattuto dai pescatori sul molo). Tutti questi elementi sono alla base delle nostre registrazioni e spesso si sommano e sovrappongono in nuove e stimolanti modalità di ascolto. Come nasce l’idea dell’Archivio e da quali professionalità è formato? L’idea di partenza è nata dall’incontro fra me e Alessio Ballerini in occasione di un live. Nel giro di pochi giorni abbiamo messo su questo progetto, ma si tratta di un’idea che era già nell’aria tra i ragazzi che si occupano di musica elettroacustica. Da un po’ di
tempo si parlava dell’utilizzo di paesaggi sonori nelle composizioni, così abbiamo deciso di metterci in moto. Tutto è nato dalla passione artistica per questo tipo di sperimentazioni e dall’interesse per l’utilizzo di campioni audio. Oggi l’Archivio è formato da sound artist e musicisti elettroacustici, ma anche da videoartisti, filosofi e filmaker. Al momento i coordinatori siamo io e Alessio, ma ci sono circa 15 persone che gravitano attorno all’AIPS. La cosa più interessante è che ognuno di essi arriva da un ambito differente e contribuisce a creare un panorama di relazioni variegato. Come sviluppate il vostro lavoro artistico? Si tratta di connettersi direttamente al paesaggio sonoro, di ricreare uno spazio e di reinterpretarlo. Il lavoro può essere analitico e/o scientifico, ma in alternativa può esserci un approccio di carattere artistico, che crei discrasia fra suono e immagine. Quasi tutti all’AIPS siamo interessati più all’approccio artistico, di conseguenza la mappa italiana è importante soprattutto nella sua capacità di veicolare il messaggio e di comprendere il modo in cui viene messa in atto la creazione artistica.
Foto di Francesco Giannico
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Black Mirror
La società contemporanea si riflette nella serie tv sulle nuove tecnologie a cura di Valeria Martalò
Visita il sito ufficiale di Black Mirror http://bit.ly/14gCdyE
Quel genio di Charlie Brooker, già autore di capolavori come Dead Set (miniserie zombie in cui si salvano solo gli abitanti della casa del Grande Fratello, ignari dell’epidemia), ci ha regalato una seconda straordinaria stagione di Black Mirror. Ma cos’è lo ‘specchio nero’ del titolo? Guardatevi intorno, ne avete a decine accanto a voi: lo schermo del vostro palmare, smartphone, pc, tablet. Quando sono spenti, sono tutti specchi neri – tanto che il 90% dell’utenza femminile (ma non solo) utilizza il cellulare anche per rimirarsi. Black Mirror, infatti, ci parla di tecnologia, e di come questa ci ha trasformato, rendendo la nostra vita un perpetuo streaming: ci si fotografa al mare, si fanno video di un evento, e il tutto viene postato in tempo reale su Facebook. Sembra che vivere davvero non abbia valore se non lo si amplifica attraverso uno schermo. Lo specchio nero, allora, mostra il lato peggiore del nostro rapporto con la tecnologia, quello che riflette i nostri più grandi difetti: dietro allo schermo diamo dunque tutti il
peggio di noi stessi? Abbiamo davvero venduto l’anima alla tecnologia, o piuttosto l’autore della miniserie vuole metterci in guardia dai rischi che l’abuso tecnologico porta con sé? Guardarsi allo specchio è spesso difficile, e guardare i nostri peggiori difetti in una serie tv fa ancora più male. Ma fa anche riflettere. La seconda stagione di Black Mirror, come la prima, consta di tre episodi. Rispetto alle puntate d’esordio, che dovevano catturare lo spettatore, ora l’autore si fa più riflessivo. Non possiamo anticiparvi molto, poiché ogni episodio è una piccola bomba pronta a esplodere, e raccontarne la storia rovinerebbe il gusto della sorpresa. Charlie Brooker sa come conquistare lo spettatore, e come sorprenderlo a ogni inquadratura. Il primo episodio della seconda serie, Be Right Back (Torna da me) racconta la storia di Martha: sconvolta dalla morte del fidanzato, Ash, cercherà una soluzione alla sua solitudine, e la troverà nella
Black Mirror e il voyeurismo del XXI secolo
mania del suo defunto compagno per i social network. Con White Bear (Orso bianco), invece, viene affrontato il tema della colpa e della punizione: tutto può trasformarsi in un reality show, anche il crimine più efferato? Qual è il limite che separa il voyeurismo dall’indifferenza nei confronti di ciò a cui assistiamo? Siamo davvero capaci di fermarci a girare un video mentre i più atroci delitti vengono consumati davanti ai nostri occhi? The Waldo Moment (Vota Waldo!) è invece il più politico tra gli episodi di questa stagione, e anche quello che ci riguarda più da vicino. Non sono pochi, infatti, i critici che hanno riconosciuto un riferimento a Beppe Grillo nella trama di questa terza puntata. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa, la visione politica dei candidati diventa insignificante: ciò che conta davvero è la loro popolarità, la loro capacità istrionica di stare sul palco. Come dice infatti un personaggio, «Non c’è più bisogno dei politici, bastano un iPhone e un computer. Per le decisioni da prendere o le scelte da approvare
faremo tutto on line!». Vi ricorda qualcuno? D’altronde Beppe Grillo, pur snobbando i media italiani, ha rilasciato diverse interviste in Inghilterra: che Brooker si sia ispirato proprio a lui per il personaggio principale? Charlie Brooker, definito già il nuovo George Orwell, ha creato, secondo alcuni, un nuovo 1984. Di sicuro sa come mettere in scena i pericoli che l’eccesso di tecnologia porta con sé. Già nel 2011, d’altronde, aveva mostrato nel documentario How TV Ruined Your Life i pericoli della televisione. Oggi, con tutti i device esistenti, Charlie ha solo l’imbarazzo della scelta.
Se la seconda serie di Black Mirror concede allo spettatore un’interessante interpretazione dei mutamenti sociali che le nuove tecnologie stanno portando nella nostra esistenza, i tre episodi della prima stagione rappresentano un vero e proprio evento per i format televisivi internazionali. Il loro principale merito è quello di unire il piacere di uno screenplay eccellente ad un rapporto di rara intensità con lo spettatore, qui davvero messo di fronte ad uno specchio leggermente deformato della realtà contemporanea. Immergersi in queste storie significa porsi necessariamente in posizione critica rispetto al potere dei media ed alla loro influenza nelle relazioni sociali. I temi del controllo sociale e del mutamento delle relazioni, il confronto fra autenticità e finzione, così come il continuo ribaltamento fra fiction ed esperienze personali diventano parte integrante della narrazione. Ed è attraverso questo fil rouge che lo spettatore si trova avvinto in storie appassionanti e ricche di pathos, in cui il piacere della visione si intreccia ad un’imprescindibile riflessione critica sui nostri comportamenti e le nostre abitudini socialmediatiche. Uno specchio, dunque, nero (come da titolo), infranto (come da opening credits), ma pur sempre rifrangente. È appunto questo l’elemento focale di Black Mirror: la sua capacità di porre lo spettatore dinanzi a sé stesso. Ed in questo senso il primo episodio The National Anthem è una delle più straordinarie prove cinematografiche degli ultimi anni. In quelle lente carrellate all’interno di pub, ospedali e luoghi domestici ciascuno di noi è costretto a guardare il proprio io più intimo, quello che ha fatto del voyeurismo la prima forma di intrattenimento del pianeta. A poco serve la consapevolezza di assistere a qualcosa di assolutamente sgradevole, sporco, inaccettabile, così come risultano inutili i segnali acustici dissuasori o gli appelli degli annunciatori televisivi affinché gli schermi vengano spenti. Quel che è venuto a mancare è il pudore, ormai scomparso ad una velocità direttamente proporzionale alla desensibilizzazione dei nostri occhi ed al profondo, devastante senso di noia che proviamo ogni giorno. Il merito di Black Mirror sta nel non dare giudizi, nel non fornire una morale, ma nel mostrarci la nostra condizione in maniera (quasi) oggettiva. Come di fronte a uno specchio rotto. Michele Casella
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Visioni a confronto Il dottor Caligari a cura di Marilù Ursi
Das Cabinet des Dr. Caligari di Robert Wiene Guarda il film Il Gabinetto del Dottor Caligari http://bit.ly/12XIqBt
Dove si trova il dottor Caligari? In una Minneapolis contemporanea ricca di fermenti musicali oppure in una sonnambolica Germania, al tempo della Repubblica di Weimar? O forse nell’America di inizio anni Sessanta? Il nostro dottore attraversa tempo e spazio per trovarsi sempre nei posti più inaspettati: nella recentissima sonorizzazione – a opera delle Brute Heart – del film espressionista per eccellenza Il gabinetto del dottor Caligari, e nell’esordio letterario di uno dei padri della narrativa postmoderna, Donald Barthelme, con il suo Ritorna, dottor Caligari (pubblicato in Italia tra i ‘classici’ della minimum fax). Il gabinetto (1920), capolavoro espressionista di Robert Wiene, torna a far parlare di sé grazie al Walker Art Center di Minneapolis, centro polifunzionale di arte contemporanea, che ne ha commissionato la sonorizzazione alle Brute Heart, trio locale nato nel 2007, composto da Crystal Myslajek, Jackie Beckey e Crystal Brinkman (tre voci, basso, batteria, viola e tastiera). La rivisitazione sonora, grazie a distorsioni, echi e sovrapposizioni vocali, valorizza le atmosfere cupe e inquietanti della pellicola, restituendole, dopo quasi cento anni, uno smalto del tutto moderno. Un’operazione che rende le atmosfere oniriche originali tramite una musica allucinata e perfettamente in sincrono con le immagini sin da There Are Spirits (traccia 1), che ci introduce nel manicomio in cui Francis è rinchiuso e in cui narrerà la sua delirante esperienza di omicidi e violenze opera del sonnambulo Cesare – a sua volta manovrato dal diabolico dottor Caligari, giunto nella cittadina di Holstenwall per una fiera di paese. Magnifica rimane la sequenza dell’uccisione di Alan, in cui le ombre, ingigantite sulla parete, vengono accompagnate dal lacerante suono della viola di Prophecy (traccia 6). La violenza immotivata e l’atmosfera di irrazionale inquietudine traspaiono continuamente nelle scenografie espressioniste del film – create da Hermann Warm, Walter Röhrig e Walter Reimann –, nella reiterazione di immagini ricche di angoli acuti, nella sproporzione fra le dimensioni degli attori e della città in cui essi si muovono; la prospettiva è a volte appiattita tramite linee a zigzag; altre, invece, ampliata a dismisura tramite giochi ottici in cui la fotografia si pone a servizio di quello che è stato definito un «universo stereoscopico». Il cinema espressionista ha dato voce alle inquietudini e alla crisi sviluppatesi all’interno della società tedesca negli anni instabili della Repubblica di Weimar, manifestando sul grande schermo i temi della follia e della violenza irrazionale, espressioni del periodo di transizione dal traumatico primo
The Cabinet of Dr. Caligari di Brute Heart l’irrazionale vortice di una società disumanizzante non lascia scampo neppure a un povero artista fallito, pronto a svendersi al nuovo medium televisivo. L’assurdo regna sovrano in questa società da cui nessuno può sfuggire: «Può darsi che a voi non interessi l’assurdo […] ma all’assurdo interessate voi», viene spiegato al protagonista. Come non considerare quest’ultima affermazione una profezia? Quello strano personaggio del dottor Caligari, nato nel 1920, è davvero tornato e si aggira tra noi.
dopoguerra all’avvento del nazismo. Una violenza che dal silver screen si trasferisce alla realtà. La stessa compenetrazione tra realtà e finzione è oggetto del racconto di Barthelme Un uomo si nasconde: il protagonista, minacciato da una società persecutoria, è costretto a rintanarsi in un cinema, luogo in cui le fantasie prendono forma, e per questo ancor meno sicuro della realtà lasciata fuori dalla sala; lo schermo è considerato qui rivelazione da non sottovalutare: «La gente crede che questi siano scherzi ma ha torto, è pericoloso ignorare le visioni». Il dottor Caligari, che nel 1920 rispecchiava la violenza latente della Germania pre-hitleriana, nel 1964 si confronta con l’ottimismo statunitense. Non è Caligari il protagonista dei quattordici racconti presenti nel libro a lui intitolato, eppure la caustica ironia della narrazione evidenzia un’atrocità pari a quella del film di Wiene. Il nome ‘Caligari’ viene citato en passant solo in Sospesi nell’aria, in cui una riunione della Società di Medicina di Toledo annovera tra i partecipanti proprio lui (insieme a un altro dottore cinematograficamente rilevante, Mabuse), e tutti sono impegnati in una mozione di censura contro l’alter ego dell’amatissimo poeta Konstantinos Kavafis. È il rapporto conflittuale tra società e individuo il fil rouge che unisce la pellicola del 1920 ai racconti di Barthelme, con la società rappresentata nella sua effimera inconsistenza. La fiera di Holstenwall non differisce molto dal Ballo dell’Opera di Vienna o dal quiz televisivo di cui sono vittime più che protagonisti i personaggi di Una pioggia d’oro, dove
Ritorna, dottor Caligari di Donald Barthelme Leggi un estratto dal libro Ritorna, dottor Caligari http://bit.ly/187PjOP
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Il primo Kubrick non si scorda mai
Torna nelle sale e in blu-ray Paura e desiderio, l’opera d’esordio di Stanley Kubrick a cura di Stella Dilauro
A quindici anni dalla sua scomparsa, Stanley Kubrick torna ad entusiasmare il pubblico con la sua opera d’esordio Paura e desiderio (Fear and desire, USA, 1953), finalmente doppiata in italiano e per la prima volta proiettata nelle sale della penisola in una nuova versione restaurata dalla Library of Congress di Washington. Un’operazione di recupero che nei prossimi mesi renderà la pellicola disponibile in DVD e blu-ray grazie al lavoro della RaroVideo. Uscito il 31 marzo 1953 negli Stati Uniti, Fear and desire ebbe scarso successo e, da allora, risultava introvabile. Lo stesso Kubrick – genio perfezionista – tentò di impedirne la diffusione e lo svalutò duramente, definendolo noioso, pretenzioso e amatoriale. Del resto, si tratta di un lungometraggio di appena 62 minuti, completamente autoprodotto con un budget complessivo di 40.000 dollari, girato nel Kentucky senza presa diretta per il sonoro, con una troupe di 14 persone tra attori e tecnici. La trama si sviluppa intorno ad una guerra allegorica. Quattro soldati precipitano con il loro aereo in una foresta in territorio nemico e costruiscono una zattera per ritornare dagli alleati attraverso il fiume, ma la scoperta di una casamatta nemica sconvolge l’esecuzione del piano e le loro stesse esistenze. In un crescendo di follia e violenza, i due protagonisti, Corby e Fletcher, affrontano il generale nemico e il suo attendente e si accorgono che si tratta dei loro doppi, proiezioni delle loro paure e della loro ferocia. La tecnica di scrittura visiva, alcune parti della sceneggiatura e dei dialoghi invitano a una lettura del film in chiave filosofica. Nelle parole dei protagonisti e dei loro doppi sono espressi i dubbi esistenziali dei soldati di ogni tempo e di ogni guerra, che si interrogano sulle ragioni del vivere e dell’agire umano. Lo stesso titolo del film allude ad una risposta che concepisce l’azione dell’individuo come orientata non solo da fattori di tipo sistemico o strutturale, inscritti in una società crudele e autoriferita, ma anche da un’intenzionalità ancestrale e universale, mossa essenzialmente da sentimenti di paura e desiderio. Kubrick descrive la solitudine esistenziale, lo smarrimento e il paradosso della guerra: «Nessun uomo è un’isola: forse questo era vero molto tempo fa, prima dell’era glaciale, i ghiacciai si sono sciolti e ora siamo tutti isole, parti del mondo fatti solo di isole», pensa il tenente Corby contemplando i corpi dei nemici appena uccisi. «Cerchiamo di restare civilizzati!» esorta i suoi compagni, mentre in ripetute immagini di comportamenti regressivi e violenti emerge la capacità della guerra di ridurre l’umanità alla barbarie. Il film anticipa molte delle tematiche antimilitariste che troveranno più piena e matura realizzazione nei celebri Full Metal Jacket, Orizzonti di gloria e Barry Lyndon e, in questo, riesce a regalare l’emozione di veder nascere una stella che per sempre illuminerà la storia del cinema.
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Sessanta secondi di bellezza La rivista fotografica «C-41» alla ricerca di un immaginario condiviso a cura di Alessandro Bucci e Antonella Di Marzio Di sicuro, Internet ha trasformato qualsiasi possessore di reflex in un fotografo potenziale. Bene, ci uniamo al coro delle lamentele o andiamo avanti? La prima opzione è ormai troppo sdoganata, ma non è per essere elitari che la seconda c’interessa. E non è questo lo scopo di «C-41» (www.c-41.it/), una rivista fotografica on line che «non somiglia né a una galleria d’arte né a una nicchia»; si tratta piuttosto di un magazine in cui le diverse sensibilità intellettuali ed emozionali di fondatori ed editor producono un risultato dinamico, interattivo e di grande impatto visivo. L’importanza di un filtro soggettivo si può intuire già dal nome: con ‘C-41’ si indica infatti il processo cromogenico di sviluppo fotografico più popolare e maggiormente adoperato. Su un rullino a colori C-41 sono presenti diversi livelli, ognuno dei quali è sensibile a un diverso colore di luce; quando si utilizza questo processo, è colui che sviluppa il rullino a determinare le sfumature che saranno
presenti sul risultato finale, caratterizzando il processo come un lavoro emozionale, intellettuale, o – nella maggior parte dei casi – entrambe le cose. Se l’allusione rimane per intenditori, il target è invece da intendersi più ampio: ed è proprio sulla condivisione sui social network che punta la rivista. Ciò che viene presentato al pubblico è il risultato di un lavoro di ricerca che parte dallo scambio con gli artisti coinvolti; il dialogo combina, in maniera equivalente, un meticoloso lavoro di scouting con la disponibilità a offrire degli spazi che non si limitano necessariamente al web. In cantiere ci sono infatti dei progetti tematici che, investendo tutte le fasi del lavoro, culmineranno nell’allestimento di mostre e incontri con l’autore. Più che esporre delle immagini, l’obiettivo dichiarato è delineare un immaginario; in una maniera che sia dialettica, s’intende. Con queste premesse nasce ‘A coffee with’, un progetto video in cui ogni artista coinvolto ha a
Visita il sito di «C-41» http://bit.ly/13Dlgyw
In alto: Foto di Paco Matteo Li Calzi A sinistra: Due foto di Anna Di Prospero Nella pagina precedente: Foto di Nata Vasilishina disposizione sessanta secondi per definire il suo personale concetto di bellezza, senza cedere a formalismi o a pose eccessive, dal momento che il tutto si svolge davanti a una tazza di caffè – o al massimo di tè. Nato da poco, il progetto conta già tre proposte: Paco Matteo Li Calzi, fashion photographer siciliano; Anna di Prospero, ‘Discovery of the year’ 2011 ai Lucie Awards; la fotografa moscovita Nata Vasilishina. Per il futuro, gli hard disk degli editor promettono nomi internazionali quali Ronen Goldman da Tel Aviv, Ren Hang da Pechino, e Annie Conninge da New York. Ma, che si tratti di artisti affermati o di nomi sconosciuti,
nessuno di loro ha pretese universali di illustrare la bellezza; si tratta, piuttosto, di portare alla luce le suggestioni che ispirano la loro opera. L’invito finale si rivolge poi a chi vede e ascolta: qual è la bellezza da ricreare nel presente?
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Visita il sito di Finzioni Magazine http://bit.ly/13Dlq9a
BOOK GEEKS Il futuro dell’editoria è social Intervista a due dei fondatori di 20lin.es a cura di Michele Marcon Quella che state leggendo è una nuova rubrica, in collaborazione con «Finzioni Magazine», in cui si parla del futuro del libro e dell’editoria attraverso una serie di interviste ai veri protagonisti dell’innovazione letteraria. Perciò benvenuti alla prima puntata di Book Geeks, l’unica rubrica così avanti che per leggerla bisogna fare due passi indietro. Anzi, oggi andiamo indietro di venti righe, perché parliamo di 20lin.es.com, la start up che permette a tutti di contribuire alla stesura di racconti in maniera collaborativa e social. Intervistiamo Pietro e Alessandro, due delle quattro menti che alimentano il sogno 20lin.es.
Nome P: Pietro. A: Alessandro. Età P: 26. A: 25. Lavoro P: Founder di 20lin.es. A: Dreamer @ 20lin.es. Spiegate ai lettori cos’è 20lin.es in 250 battute P: 20lin.es è il più bel luogo della Rete, dove scrittori, lettori e sognatori s’incontrano per dare vita a fantastici racconti grazie alla scrittura collaborativa. A: 20lin.es offre a tutti gli amanti della scrittura un luogo dove potersi esprimere e dar vita a meravigliosi racconti brevi attraverso la scrittura collettiva, e allo stesso tempo propone ai lettori un ampissimo archivio di storie sempre gratuite e in continua evoluzione. Ne ho usati 272, va bene lo stesso? :) [va bene] L’ultimo libro che hai letto? P: In territorio Nemico, di Scrittura Industriale Collettiva. A: Una specie di solitudine, di John Cheever. Quale libro vorresti aver scritto? P: Praticamente tutti quelli che mi sono piaciuti! Su tutti, forse, L’Espoir, di André Malraux. A: Il piccolo principe. Meglio carta o digitale? P: Digitale, oramai da un po’. A: Digital rocks!
Qual è il tuo social preferito? P: 20lin.es, of course! A: Che domande… 20lin.es! [Eggià, che domande!] Qual è, secondo te, il futuro del libro (se ha un futuro)? P: Digitale, e per la circolazione dei libri, degli autori e delle rispettive idee, social. Un futuro così roseo non si vedeva dall’invenzione della stampa. A: Negli ultimi cinque anni abbiamo parlato di editoria digitale. Nei prossimi cinque si parlerà di editoria social. Editoria 2.0… Ma non era meglio aprire una gelateria? P: Ahah! Non avrebbe lo stesso fascino, né darebbe le stesse soddisfazioni! A: Magari una gelateria dove, mentre ti mangi un buon gelato, ti leggi una bella storia connesso al wi-fi. David Foster Wallace o Dan Brown? P: Non ho mai letto Wallace. Dan Brown credo abbia il pregio di aver avvicinato tanta gente a letture più impegnative dei suoi romanzi. A: Sto leggendo Infinite Jest e sono molto preso. Direi DFW. Mark Zuckerberg o Steve Jobs? P: Elon Musk! A: Il buon Steve. Cosa fai quando non sei un ‘innovatore letterario’? P: Volo, con la fantasia e con gli aeroplani! A: Ascolto musica, la ballo, mangio gelato, viaggio appena possibile.
Aerei di carta a cura di Cristò
David Foster Wallace Un antidoto contro la solitudine minimum fax Euro 13 – 260 pagine settembre 2013 Lo scrittore statunitense di culto morto nel 2008 torna a far sentire la sua voce in queste conversazioni e interviste inedite in Italia che ne ripercorrono la carriera e l’opera. Il ritratto di un intellettuale curioso, appassionato e generoso con i suoi lettori.
Visita il sito di Festivaletteratura http://bit.ly/19L37mj
Mantova: una città a misura di lettore Alessandra Rizzo Frank e il resto del mondo Armando Curcio Euro 14,90 – 128 pagine ottobre 2013 Un omaggio a vent’anni dalla morte di Frank Zappa, che è stato l’Andy Warhol della musica rock americana. Un libro-intervista che svela i rapporti tra il musicista e il resto del mondo e la carica rivoluzionaria della sua musica.
Flavio Santi Aspettando Superman Gaffi Euro 15 – 250 pagine novembre 2013 Una guida colta e irriverente alla scoperta della figura del supereroe nelle sue più disparate accezioni: non solo Superman, Batman e Spiderman, ma anche Ulisse, Gesù, Harry Potter e persino i kamikaze islamici.
4-8 settembre: nuova edizione del Festivaletteratura a cura di Carlotta Susca Se in campo musicale l’Italia non è un Paese per festival (si veda l’articolo a p. 40), esiste almeno un evento di cui i lettori possano essere fieri: il Festivaletteratura. Dal 4 all’8 settembre per la diciassettesima volta Mantova tornerà a essere l’isola felice in cui una marea di volontari si attiverà per la miglior riuscita di un festival con un pubblico numeroso, interessato e, per molti eventi, pagante (!). Non è facile capire quale somma di fattori possa contribuire alla buona riuscita di un evento come questo (la cui organizzazione è un lavoro vero e proprio – carmina dant panem, alle volte): tutta la città si fa festival, e ciascuno può costruire il proprio percorso tematico fra centinaia di iniziative. Un popolo di lettori trova cittadinanza per cinque
giorni nel luogo che ha dato i natali a Virgilio, programma alla mano, con gli eventi più interessanti evidenziati e incastrati a tutte le ore. Per il secondo anno, anche i blogger sono stati invitati a raccontare il festival: live tweeting e post giornalieri garantiti (ci sarà anche «Pool»). Quindi, da bravi internauti, tutti potrete leggere citazioni in diretta, ma il mio spassionato consiglio è di fare del Festivaletteratura la conclusione e l’acme delle vostre vacanze.
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«McSweeney’s»: carta vincente La rivista USA non teme la rivoluzione digitale a cura di Marianna Silvano Come descrivere quel senso di frustrazione, misto ad ansia e shakerato con l’amarezza quando si sente ripetere per l’ennesima volta: «Siamo giunti a una svolta epocale, come quella di Gutenberg; l’era del libro sta per finire»? Benvenuti, dunque nell’era digitale, l’era dell’ebook. Il tempo del cartaceo è davvero finito? [La domanda mi assale, soprattutto perché in questo momento sto scrivendo un articolo per un giornale cartaceo]. Eppure al mondo ci sono ancora ottime argomentazioni per dimostrare quanto il cartaceo sia un duro a morire. Diamo un’occhiata, per esempio, al «Timothy McSweeney’s Quarterly Concern». Si tratta di una rivista poco nota qui in Italia (anche se minimum fax anni fa ne ha pubblicato degli estratti in volume), ma di grande culto negli States. Fondata nel 1998 da Dave Eggers, una delle pietre miliari della letteratura americana contemporanea, si è trasformata lentamente in un progetto editoriale di ampio respiro. Nel primo numero furono raccolti tutti gli scrittori rifiutati dalle altre riviste letterarie. Da allora la testata è cresciuta, diventando anticonformista, innovatrice; ora oggetto di culto, ora di contestazione. Ma, soprattutto, «McSweeney’s» è una rivista capace di grande abilità di adattamento: ogni numero presenta, infatti, un progetto grafico diverso e una differente struttura (nel #42 i testi sono stati stampati a più livelli per poter usufruire di più versioni dello stesso testo letterario contemporaneamente; il #36 è un cubo, sul quale è rappresentato un volto, al cui interno si trovano gli articoli). Ad aver collaborato a questa rivista, gli scrittori più importanti del panorama letterario americano e anglofono: da John Updike a Jonathan Franzen, da
David Foster Wallace a Zadie Smith (e certo la lista non terminerebbe qui). Si sta parlando, quindi, di una rivista dal fortissimo rilievo culturale, che fa da padrona all’interno del panorama letterario americano. Inoltre, proprio perché non teme alcun confronto, pubblica costantemente contenuti on line. I temi sono i più svariati ma il punto di partenza rimane lo stesso: sondare ogni nuova possibilità all’interno dei generi più conosciuti, porsi alle frontiere della sperimentazione e condurre una battaglia spietata al canone, abbracciare la causa dell’ironia e della parodia. La rivista sa stimolare il lettore sotto ogni punto di vista, galvanizzando l’occhio e la mente; il punto di forza sta proprio in questo: ciò che al mondo virtuale manca è proprio la capacità – si può dire tattile – di impressionare il fruitore dell’opera letteraria. È la dimostrazione che il cartaceo può reggere benissimo il confronto con il virtuale, che non è affatto statico e incapace di innovazione. Sebbene il mondo virtuale può proporre prospettive nuove, queste non vanno per nulla ad adombrare un campo di applicazione della cultura che ha dalla sua parte una tradizione millenaria di sperimentazione e collaudo delle tecniche. E se i contenuti on line puntano sulle possibilità di formattazione del testo (come l’uso di diverse font a seconda delle necessità) e sull’ipertestualità, anche la carta stampata rende possibile diversi percorsi (quasi, anch’essi, ipertestuali) nella lettura, e può sfruttare la matericità a proprio vantaggio, in maniera creativa. Insomma, il pericolo non sussiste. Di fronte alla genialità di certi progetti letterari le innovazioni non fanno paura.
Di carne, fantasmi e antidoti Un autunno con David Foster Wallace a cura di Carlotta Susca
Non si può amare indiscriminatamente la Letteratura, né tantomeno venerare i libri in quanto oggetti. No, al di là dei verbosi e inconcludenti discorsi sulla lettura, che non rafforzano i lettori già compulsavi e non scalfiscono minimamente il granitico rifiuto dei non lettori alla fruizione di testi scritti, quello che si può amare è un Autore. Una corrente letteraria, ma non per intero, una casa editrice, se è affidabile e se le si perdona qualche scivolone. I libri no, non si possono amare. Ma se si è incontrato un Autore che dia la particolarissima, rara impressione di parlare direttamente a chi lo legge, e di comunicargli idee che confusamente si erano già affacciate alle porte della sua percezione, allora si ha inevitabilmente voglia di leggere tutto quello che ha scritto, e di più. Capita anche, a questo punto, che gli editori un po’ ne approfittino, ma alla fine vincono tutti: la casa editrice vende le copie, e il lettore affezionato può continuare a sentire nella testa la voce del suo Autore. Con David Foster Wallace accade questo: il suo pubblico adorante (gli howling fantods che ne sono gelosi come di un amico intimo) può continuare ad avere a che fare con lui anche dopo che la sua mappa è stata eradicata. Due anni fa sono stati pubblicati il reportage di Lipsky (Come diventare se stessi, minimum fax) e l’attesissima postuma ‘Cosa lunga’ Il re pallido (Einaudi); quest’anno la biografia Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, di D.T. Max (Einaudi) precede ben due pubblicazioni settembrine – Di carne e di nulla (Einaudi) e Un antidoto contro la solitudine (minimum fax) – che continuano a proporre inediti e a raccogliere articoli e saggi non ancora presentati in volume. (Einaudi ha poi recentemente pubblicato in Super ET Il re pallido, con l’aggiunta di
quattro scene inedite a solleticare il collezionista). Possibilità 1. (poco auspicabile): Tu che leggi non conosci DFW Sei perdonato/a. Questo articolo ti ha fornito tante informazioni, e al momento non ti servono. Wallace va conosciuto per i testi di cui ha approvato la redazione definitiva – dopo aver dato molto filo da torcere agli editor, come ci conferma la biografia di D.T. Max . Per l’accumulo maniacale di testi postumi e di saggi su di lui c’è tempo (dovranno farti smettere). Comincia da Una cosa divertente che non farò mai più (approccio facile), oppure dal suo primo romanzo La scopa del sistema; se preferisci i racconti, parti dalla Ragazza dai capelli strani. Poi datti il tempo per amare Infinite jest, quindi approda anche all’Archivio DFW Italia (http://archiviodfw.tumblr.com/). Ne riparliamo. Possibilità 2. (preferibile): «Mi prendi in giro? Lo chiamo ‘Dave’» Non trovi che la biografia di D.T. Max sia fastidiosa? Sembra cha l’autore non riesca a eliminare i fattoidi, come Claude Sylvanshine del Re pallido. E poi continua la battaglia minimum fax-Einaudi per la conquista del popolo wallaciano, e a perdere è solo il nostro portafoglio (ma quanto siamo felici!). Hai più trovato un autore al suo livello? Io lo sto ancora cercando, e siccome sono costantemente delusa, temo che la gente cominci a pensare che non legga più nulla, dato che continuo a nominare ‘David’ e nessun altro. Credo sia il caso di fondare una Ennet House per le dipendenze wallaciane, o di capire che devo smettere di preoccuparmi di cosa la gente pensi di me, per accorgermi di quanto poco pensi a me. Stay pale.
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Non è un Paese per festival Dell’Italia e dell’impossibilità di avere un festival musicale di rilevanza europea a cura di Michele Casella Accade ogni anno, un po’ come per i flussi migratori. Con l’arrivo della bella stagione, il richiamo della musica internazionale apre gli orizzonti degli ascoltatori italiani, che in migliaia si rivelano pronti a valicare i patrii confini per sentirsi parte della scena sonora del nostro tempo. Spagna, Inghilterra, Belgio, Ungheria, Danimarca, Svezia, qualunque luogo sembra andar bene pur di lasciarsi alle spalle le mortificanti line-up dei nostri festival, quegli inappropriati intrecci che solitamente ci propinano classic rock (perlopiù in stile anni ’70), cantautorato stracciapalle, elettronica post-jungle e (ahimè, immancabile) reggae… basta una scorpacciata di 5/7 giorni per tornare a testa bassa in Italia, felicemente saturi di freschi stimoli uditivi ed allo stesso tempo sfiancati dagli inevitabili raffronti culturali. A quel punto, la domanda che ci si pone è sempre la stessa. E in quella settimana di luna park musicale, tra un boccale di birra ghiacciato ed un smodato consumo di churro ricoperti di cioccolata, ti viene in mente circa un migliaio di volte, ad esempio quando arrivi ai cancelli del festival; quando ritiri il tuo pass; quando vedi lo stand del merchandising ufficiale; quando vedi lo stand del merchandising non ufficiale; quando arrivi al primo concerto delle 3 del pomeriggio; quando entri nel backstage; quando mangi il quinto hotdog con
senape e cipolla secca; quando prendi un calcio in faccia dallo stage diver di turno mentre arranchi immarcescibile verso la zona del pogo violento; mentre ti scoli l’ennesimo vodka-redbull (così, per riprenderti); mentre scatti un’inutile foto a 100 metri di distanza dal palco; mentre giri un video dall’audio pessimo con tuo smartphone per postarlo su Facebook; mentre collezioni immagini di ragazzi hipster con gli occhialoni e i pantaloni troppo corti; mentre canti in coro con altre 10.000 persone le canzoni che nella tua città di residenza nessuno ha mai osato sentire. Insomma, la domanda è sempre la stessa:
“perché in Italia non esiste nulla del genere?” Everything in its right place
Per realizzare un festival davvero eccellente, la questione location diventa di primaria importanza. In effetti non basta avere a disposizione uno spazio enorme e delle strutture a norma, è anche necessario che la manifestazione sia ben collegata con la città, con le strutture ricettive e con i mezzi di trasporto. Un’area attrezzata per il campeggio è solitamente ben accolta dal pubblico più giovane,
Il Primavera Sound fotografato da Dani Canto
Ticket to Ride
Varcare i cancelli di un festival comporta generalmente una spesa che va dai 100 ai 250 euro, con differenze che dipendono dalla nazione, dalla line-up, dal numero di giornate, dal tipo di biglietto e da tante altre variabili. A fronte di questa spesa non indifferente, uno spettatore medio può trovare decine di performance degne di interesse, spesso intrecciate fra i grandi nomi del mainstream mondiale e le next big thing sulla scena da un paio di stagioni. Anche in questo senso, l’Italia non dovrebbe avere problemi a mantenere un costo medio per il full ticket festival, possibilmente adottando una politica dei prezzi finalizzata a far crescere l’evento nel corso degli anni.
You got the money, I got the soul
Il coinvolgimento di finanziatori privati nella creazione di un grande festival si rivela sempre più essenziale, specie in un periodo in cui il FUS subisce tagli continui e le amministrazioni locali possono a malapena permettersi il sovvenzionamento di qualche sagra culinaria. Ma se l’ambito sportivo vede un interesse chiaro e diretto da parte di marchi blasonati e di ambito internazionale, la cultura e lo spettacolo restano investimenti di serie B, ristretti ad un parco numero di imprenditori e mecenati. Fondamentalmente il problema è tutto di natura sociale, per una comunità nazionale che non è in grado di guardare alla cultura come ad una realtà dallo slancio produttivo. Peccato che in altre lande i festival musicali (dati alla mano) diano lavoro a migliaia di persone (spesso giovani) e creino un eccezionale indotto per l’intera filiera cittadina/ regionale. E tutti questi consumi culturali possono trovare sponsor e stakeholder con interessi concreti nel finanziamento di un grande evento sonoro. mentre un efficace servizio navetta è decisamente indispensabile se non si vuole tramutare il festival in un film horror per coloro che vogliono raggiungere le meritate tre ore di riposo quotidiano. In Italia ci sarebbero molti spazi facilmente attrezzabili per un evento di grandi dimensioni, magari immersi nella natura delle nostre valli o a pochi chilometri dalle maggiori città. Di conseguenza non si tratta certo di un problema di location, dato che anche le nostre tristi imitazioni festivaliere hanno sempre beneficiato di grandi spazi e buona logistica.
It’s better to travel
Sebbene decentrata dalle zone “calde” della scena musicale europea – focalizzate al centro-nord piuttosto che nella zona del Mediterraneo – l’Italia non può certo dirsi in una situazione di netto svantaggio rispetto ad altre nazioni. Le maggiori compagnie aeree hanno numerose destinazioni in buona parte della penisola, sia fra le più blasonate che fra quelle low-cost. L’arrivo di ascoltatori comunitari non dovrebbe, infatti, prevedere più scali di quelli che noi italiani affrontiamo per raggiungere questi mitici luoghi di intrattenimento. Né i costi si potrebbero rivelare più alti rispetto a quelli affrontati dai nostri cugini europei.
In media stat virtus
Se parliamo di distanze culturali, il ruolo dei media italiani diventa di primaria responsabilità. Da sempre orientati verso una insana necrofilia per icone sociali che appartengono ad un retaggio a dir poco vetusto, i maggiori network di informazione nazionale non concedono alcuno spazio alle nuove istanze della cultura europea e mondiale. Da Mollica a Luzzato Fegiz, i vetero-giornalisti che dettano le tendenze del nostro Paese restano ancorati ad una realtà vecchia ed ammorbante. Gli schermi e le pagine dedicati alla musica vengono riempiti da produzioni appartenenti ad un’altra generazione, con artisti sulla scena da oltre 50 anni che letteralmente bloccano la visibilità di un giovane sottobosco culturale in perenne animazione e mutamento. A questo complesso universo indipendente vengono invece concesse poche briciole di visibilità, fugaci passaggi televisivi, singole sortite radiofoniche e sparute pagine di webzine misconosciute. Una scelta in netta controtendenza rispetto a quanto accade nel resto del continente, per una colpevole (e condivisa) cecità verso il nuovo. Sarà anche per questo che in Italia è così difficile trovare un negozio di dischi che non abbia un catalogo irreggimentato e che permetta ad un curioso ascoltatore di lanciarsi in avventurosi e stimolanti percorsi sonori.
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Big in Japan
A guardar bene, però, l’estate porta anche nel bel Paese una manciata di concerti fondamentalmente divisi in due tipologie: 1) i big della musica internazionale, il meglio (ma spesso anche il peggio) della scena mainstream che riempie quelle tre o quattro location fondamentali della nostra penisola. Per farla breve, una carrellata dei nomi che controllano la heavy rotation delle radio commerciali e che ripropongono una scaletta spesso vecchia di 15 anni. Naturalmente, il tutto ad appannaggio di un’Italia che (ad esclusione di pochissime esperienze) parte da Milano e si ferma al Grande Raccordo Anulare di Roma. 2) Centinaia di live di band microscopiche, buona parte delle quali ferme alla terza autoproduzione ed in perenne ricerca dell’etichetta che possa lanciarle. Una pletora di simpatici gruppetti, solitamente smistati nei vari concorsi regionali ed affiancati da un headliner che si esibisce (magari nello stesso club per la terza volta in un anno) davanti ad un pubblico più interessato alla birra che alla musica. Nel mezzo, manca la linfa dei veri festival internazionali, quelle band pubblicate dalle migliori indie-label del nostro tempo e che riescono a riempire le location di tutta Europa girando a cachet assolutamente abbordabili anche per l’Italia. La colpa, dunque, è dei direttori artistici troppo miopi? O della difficoltà di trovare il budget necessario per creare una manifestazione di grido? Possibile che solo gli impresari italiani dello spettacolo mancano di quella necessaria scintilla creativa che serve a rendere remunerativa un’attività legata alla musica dal vivo? Qual è, allora, il carattere unico che contraddistingue il panorama di ascolto italiano?
Public: enemy
E qui veniamo al tema più spinoso, quello che in pochi vogliono confessare ma che è sotto gli occhi di tutti: il pubblico italiano. Si tratta di un enorme numero di persone vittime da anni di un lavaggio del cervello basato sulla top 40 di Tv Sorrisi e Canzoni. Una comunità arrendevole, che ritiene realmente di poter creare una sua discoteca (ed un percorso di ascolto) attraverso la pirateria digitale, che giudica un cretino chi ancora esce da un negozio di dischi con un album acquistato. Un pubblico che da oltre 30 anni si riunisce in spiaggia per cantare (di nuovo, senza sosta, come se il tempo si fosse fermato) Baglioni, De Gregori, Vasco Rossi e Battisti. Gente che si fa guidare negli ascolti dai jingle delle pubblicità, che dopo 60 secondi di canzone senza un ritornello passa al brano successivo, che compra quattro felpe firmate ma non spende più di 10 euro per un concerto. Il pubblico italiano è quello che si incazza per le politiche di Facebook sulla proprietà delle immagini ma che adotta la pirateria digitale come unica fonte di fruizione culturale (alla faccia di chi vive della propria creatività). Un pubblico che ha formato le sue competenze musicali sui dischi dei cugini e dei fratelli maggiori, incapace di pigiare il bottone di ricerca delle frequenze radio un numero sufficiente di volte per trovare una trasmissione interessante. Insomma, il pubblico italiano manca di curiosità, di voglia di scoprire, di quell’insostituibile desiderio di interagire con il contemporaneo. E allora possiamo avere i più dinamici direttori artistici del mondo, possiamo raggiungere qualunque artista sulla faccia della terra, possiamo coinvolgere il maggior numero di investitori possibile, ma il risultato sarà sempre insoddisfacente. Perché manca il pubblico di
Il Primavera Sound fotografato da Eric Pamies
Non è tempo per noi
riferimento, quello che prima di arrivare al concerto si compra il disco e lo ascolta fino ad impararne i testi, quello che è pronto a pagare 200 euro per tre giorni di immersione sonora, quello che non tiene costantemente la bocca aperta mentre il songwriter di turno suona il suo brano più struggente, quello che una settimana dopo la fine del festival compra in prevendita il ticket per l’anno successivo.
Morale della favola, è per questo che in Italia non abbiamo festival altrettanto validi rispetto a quelli europei. Perché i conti non tornano mai! Perché realizzare un investimento su un festival musicale nella terra del mandolino è un azzardo a dir poco suicida, dato che è quasi impossibile raccogliere il pubblico necessario per una tre giorni di musica – indipendente, rock, elettronica, sperimentale – di livello europeo. Perché l’Italia non è il posto in cui avere come headliner Tame Impala, Postal Service, Deerhunter, Animal Collective, Daniel Johnston, The Knife, The Breeders, Swans, Shellac, My Bloody Valentine and so on… Viviamo in un Paese ripiegato su sé stesso, figlio di una cultura tanto ancorata al proprio passato quanto colonizzata da un sapere dominante e globalizzato: quello dei libri a 99 centesimi, delle sale cinematografiche in continua diminuzione, dell’accredito come forma di status sociale, delle musiche per gli spot dei gestori di telefonia mobile, di frequentatissimi festival letterari in città senza l’ombra di una libreria, dell’iva al 21%, delle scuole in cui non si impara a suonare… insomma, viviamo in un’Italia in cui la musica è ridotta a mero intrattenimento e dove il suo valore socio-culturale è quasi pari allo zero. Ci sono voluti decenni per arrivare a questo stato di cose, ma oggi la speranza va riposta in coloro che fanno dello spettacolo dal vivo la loro fonte di soddisfazione e di reddito. In chi, avventatamente e forse eroicamente, rischia in proprio per far assomigliare un po’ più l’Italia a quei Paesi in cui suoni, immagini e parole sono fondamentali strumenti di condivisione e di esperienza, insostituibili caleidoscopi della quotidianità.
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Gli xx ridisegnano le coordinate dei festival Tre date per un Night + Day d’eccezione
a cura di Lello Maggipinto
Guarda il video relativo al live di Berlino http://bit.ly/17wWca7
Correva l’anno 2005 quando Romy Croft, Oliver Sim e Jamie Smith, tre studenti della Elliott School (già famosa per aver ospitato, tra gli altri, Four Tet e Hot Chip) si incontrarono e diedero vita a un sodalizio destinato a fare scuola: The xx. Ma questo articolo non è stato scritto per raccontare la loro storia o la loro musica, che immagino conosciate tutti. È stato scritto perché gli xx hanno ancora stupito tutti, dimostrando una strepitosa capacità di innovazione con il nuovo progetto Night + Day. Si tratta di un minifestival giornaliero, organizzato dagli stessi xx, in cui ogni singolo dettaglio è curato con meticolosità, e che si propone, riuscendoci, di diffondere cultura a largo spettro. L’iniziativa è per il momento sperimentale, ma considerando i primi appuntamenti, pare sia destinata a fare il giro del mondo. Cosa c’è di tanto particolare? Innanzitutto la scelta delle location, posti di travolgente bellezza: le prime tre date si sono svolte a Lisbona alla Torre di Belém; allo Spreepark di Berlino; infine al London Hatfield House, nella capitale britannica. Tre posti magici, con atmosfere in grado di lasciare con il fiato sospeso. Ancora, abbiamo detto che la manifestazione guarda alla diffusione
culturale in vari ambiti: ci riesce, e parecchio bene, proponendo durante il giorno postazioni di artisti di ogni genere e una scelta culinaria, funzionale al luogo, curata dai tre ragazzi di Londra. Manca ancora un aspetto, il più importante: quello musicale. Dei tre appuntamenti, quello di Londra è stato sicuramente il più affascinante e completo. Non che quelli precedenti fossero di scarso livello, però la line up inglese è stata degna del massimo rispetto. Poco mainstream, artisti di nicchia, musica che guarda al futuro e di una qualità sorprendente, nonché varia: si è passati dall’elettronica di Jon Hopkins al dubstep dei Mount Kimbie, fino al post dubstep di Jamie xx, al synthpop di Kindness, per raggiungere l’indie pop di Poliça e di una stella nascente britannica, i consigliatissimi London Grammar (con un solo EP pubblicato, il loro primo disco è tra i più attesi in Inghilterra); a chiudere lo show, il live degli xx. Per il momento non sono previste nuove date del Night + Day. Aspetteremo, con la speranza che passi dall’Italia, dove, tra l’altro, location d’eccezione e buon cibo proprio non mancano.
a cura di Kevin Arnold
NINE INCH NAILS Hesitation Marks Columbia
CRYSTAL STILTS Nature Noir Sacred Bones/Goodfellas
Musicista, produttore e grande manipolatore di suoni digitali, Trent Reznor si è imposto come uno degli artisti più influenti della scena alternativa contemporanea. Il suo originale approccio all’industrial e la sua particolare sensibilità cinematografica (che gli è valsa il premio Oscar per l’OST di The Social Network) lo hanno guidato attraverso un’eccezionale carriera solista e nel viaggio luciferino della sua creatura sonora Nine Inch Nails. A cinque anni dalla precedente prova su lunga distanza, il progetto NIN torna con il nuovo Hesitation Marks. Un disco in cui Reznor sviluppa ritmi assolutamente fluidi e gli elementi digitali si intrecciano ad una persuasiva concitazione elettrorock. Con il nuovo lavoro, ritroviamo i Nine Inch Nails nel pieno della loro aggressività melodica, tanto affascinanti quanto inquieti, dotati di una sensualità corrotta e smaniosa. Hesitation Marks non manca neppure di quell’ammaliante agitazione creata da bpm in continua accelerazione, atmosfere fieramente notturne e climax capaci di esaltare folle urlanti per concerti straripanti di spettatori. Non mancano neppure dei riferimenti diretti all’indie americano di fine anni ‘90, quel sound che ha marchiato a fuoco la musica di questi anni ‘10 e che unisce lo stridore delle chitarre elettriche, la battuta secca e costante della batteria con il pop dei migliori brani alternativi. Un disco che rilancia i NIN a livello planetario e che riserva anche delle hit dalla forte appetibilità radiofonica.
Attitudine garage, strumentazione vintage ed eccellente songwriting, sono queste le armi vincenti dei Crystal Stilts, una delle poche band planetarie a rendere efficaci i suoi innesti sixties in un progetto sonoro assolutamente moderno. Procedendo in perfetta continuità musicale con i due precedenti album, il quintetto di Brooklyn sceglie nuovamente la Sacred Bones come sua label di riferimento per la pubblicazione di queste dieci nuove tracce. Il cantato scanzonato di Brad Hargett si sovrappone ad una felice confluenza di generi che unisce aggressività proto-punk, fluidità soul e allucinazioni psych. A garantire la riuscita di Nature Noir ci pensa la coerenza interna dei pezzi, dove sognanti ballate si intrecciano a schitarrate in puro stile statunitense e rivisitazioni country si sciolgono in cavalcate lisergiche sorrette da tastiere e batteria. Un disco di polvere e memoria, non per questo privo di ironia e fascino, ma soprattutto dotato di grandissimo stile. Con Nature Noir i Crystal Stilts si allontanano dal lo-fi in favore di una maggior cura per composizione e testi, proponendosi come una delle più interessanti realtà indie di questo 2013.
CALIFONE Stitches Dead Oceans/Goodfellas Con la pubblicazione di All Of My Friends Are Funeral Singers i Calfone si sono imposti fra le più importanti realtà musicali del roots-rock, quel genere che raccoglie l’eredità della tradizione statunitense per evocare mondi sonori sorprendenti ed attualissimi. A distanza di quattro anni, il leader Tim Rutili licenzia dieci nuovi brani in cui songwriting, atmosfere intimiste e grandi collaborazioni contribuiscono alla creazione di tracce di incredibile forza evocativa. Concepito lontano da Chicago, città dove Rutili ha svolto tutta la sua carriera, Stitches tiene in sospensione l’ascoltatore fra dilatazioni strumentali e dissonanze elettriche, ponendo comunque il suono di chitarra in primissimo piano. Un disco di rara intensità, perfettamente calibrato negli intarsi sonori e romanticamente proiettato verso un ricercato trasporto emotivo.
Disfunzioni Musicali
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La musica al bando! Puglia Sounds: prima in Italia per la promozione di progetti discografici a cura di Alessia Marzovilla Undici nuove produzioni discografiche, trentotto festival (raccolti in nove reti) per un totale di circa trecento concerti. La Puglia investe sulla musica e lo fa attraverso Puglia Sounds, il programma della Regione Puglia per lo sviluppo del sistema musicale. L’idea di bando pubblico associato alla musica lascia accesa la speranza in coloro che non vogliono cedere alla convinzione che in Italia le possibilità finiscano dove finisce il denaro e dove non possono arrivare le conoscenze personali. Il progetto, operativo dal 2010 e finanziato attraverso il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), sostiene la filiera musicale locale attraverso l’erogazione di servizi e finanziamenti disciplinati da bandi (pubblicati sul sito www. pugliasounds.it) destinati unicamente a soggetti giuridici residenti in Puglia o che svolgano le proprie attività di produzione, distribuzione e promozione musicale sul territorio regionale. L’ambiziosa mission di Puglia Sounds è quella di promuovere, sviluppare e valorizzare il comparto musicale regionale investendo sull’intero sistema, partendo dagli artisti, passando per gli addetti ai lavori e arrivando dritti al pubblico, concretizzando così lo slogan: «La musica è lavoro». C’è di che vantarsi, perché per la prima volta in Italia si produce musica accedendo a bandi pubblici, e si guarda alla musica come a un’opportunità di investimento e di profitto partendo dal basso, proprio da quella generazione di startupper e
freelancer che si riconoscono uguali davanti alla legge del web, in quell’utopico mondo democratico chiamato Internet. Numeri da Record A partire dal 1° agosto, nuove produzioni discografiche verranno finanziate dalla sezione Puglia Sounds Record, il cui scopo è quello di dar voce, in tutti i sensi, alla musica made in Puglia, ormai riconosciuta, anche al di fuori dell’Italia, come un marchio di garanzia. Inoltre, per il terzo anno consecutivo, è stato sviluppato un progetto che sostiene il segmento festivaliero estivo attraverso la creazione di nove reti di festival, che concentrano circa trecento concerti dislocati in quarantaquattro comuni pugliesi. Un intervento di cinquemila euro sta finanziando la fase di creazione, produzione e promozione, investendo sugli artisti, sulle loro idee, sul loro sound; il ventaglio dei generi è ampio e variegato: ballate della tradizione pugliese, pop melodico, elettronica, jazz. Una commistione di sperimentazioni sonore e istinti locali che incontrano atmosfere dal respiro internazionale. Voci dalla Puglia Puglia Sounds Record promuove progetti come quello dei Fabryka, band barese contraddistinta da un’anima tutta europea: il loro folk-pop torna con il disco Echo (etichetta Faro Records) con brani in
italiano e in inglese e collaborazioni con Tommaso Cerasuolo (Perturbazione) e Max Casacci (Subsonica); è attualmente in corso il tour estivo del nuovo disco, che sta circolando in una modalità virale e social. Tra le nuove promozioni di Puglia Sounds spicca Girl with the Gun, il progetto electro-pop psichedelico dei salentini Andrea ‘Populous’ Mangia e Matilde Davoli, che stanno per dare alla luce Ages (etichetta Intebang), un disco più sfaccettato, più pop e cresciuto nell’arrangiamento. 88’ è il progetto – ideato e guidato da un giornalista e da un produttore che per il momento preferiscono restare anonimi – che esporterà oltralpe i suoni tradizionali pugliesi stravolti in una dimensione club: il prossimo disco Fu**ing Dancers (etichetta Fridge) vedrà numerose collaborazioni con vari protagonisti – tra gli altri, Terron Fabio (Sud Sound System) e Bunne (Africa Unite). I festival fanno rete È chiara la volontà di Puglia Sounds di creare dei progetti che siano in grado concretamente di divulgare la nostra cultura musicale, unendo il local al global, per creare sinergie sonore e lavorative in grado di promuovere ed esaltare i nostri talenti. Musica classica, hip hop, rock, world music, elettronica, musica antica: sono solo alcuni dei generi contenuti nella fitta Rete dei Festival di Puglia Sounds, il programma che raccoglie trentotto
festival sviluppato con un file rouge ben preciso, la coerenza di fondo che dimostra quanto sia possibile una razionalità artistica nell’occuparsi di cultura – di musica, in questo caso. Non lasciando niente al caso. Un progetto che si materializza in una programmazione di concerti che fino al 15 ottobre offrirà al pubblico pugliese (e non solo) prime nazionali e ospiti internazionali, snodandosi attraverso nove nuclei: Apulia Jazz Network, Apulia Suoni e Danze, Daunia Felice, Feste Musicali in Puglia, Mediterranea Network, Momart Network, ReMAOP, Social Sounds, Summer Music Network. Vieni a ballare in Europa (e USA) La vera ambizione di export musicale di Puglia Sounds sta nell’intento di creare collaborazioni che vanno oltre il confine nazionale; i nostri festival saranno coinvolti in numerose fiere, sia in Europa, come il Womex (Gran Bretagna e Spagna), il Midem (Francia), il PrimaveraPro, il Fira Mediterrània de Manresa, il Mercat de Mùsica Viva de Vic (Spagna) e il Jazzahead! (Germania), sia Oltreoceano, come il SXSW (USA). Queste modalità rivelano una mossa strategica lungimirante che moltiplica le opportunità di visibilità della nostra musica nel sovraccarico mercato internazionale.
Visita il sito di Puglia Sounds http://bit. ly/16rX6Wm I Fabryka fotografati da Paolo Zuf
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Quando il loop diventa arte L’approccio filosofico di Vine al video sharing a cura di Luca Romano
Scarica l’applicazione Vine http://bit.ly/1b9raJq
Spiegare Vine è semplicissimo. È un social network – esattamente come Instagram e Twitter –, ma nato per condividere esclusivamente video della durata di sei secondi. A pochi mesi dalla sua nascita, Vine è la app più scaricata e usata per il video sharing. Ma qual è la novità rispetto a Youtube, Vimeo o altri social basati sul video sharing? La durata dei video e la ripetizione. Ogni video in visualizzazione viene riprodotto automaticamente in loop, quindi in teoria un utente qualsiasi potrebbe vedere un breve filmato di sei secondi per sempre. Ma detto così sembra tutto eccessivamente semplice; la straordinarietà (chissà se voluta o meno) di Vine è il suo approccio estremamente filosofico alla creazione. Ponendo il vedere come un atto creativo di per sé (esattamente come lo intendeva Matisse), in Vine la visione è ripetitivamente identica e diversa. L’opera rimane fedele a sé stessa, non cambiando mai, nei suoi sei secondi. Ma questo non basta per accostarla alla fotografia, perché anche una fotografia rimane identica a sé; né l’essere in movimento permette di paragonarla a un film, che per sua natura ha un inizio e una fine predeterminati. In Vine tutto questo non succede: una volta realizzato il video, esso non ha più una fine. È il fruitore a decidere di interromperne la visione, mentre il video, accostandosi continuamente a sé stesso, diventa altro, costantemente altro dall’idea iniziale dell’autore. Il video è così in movimento e in
riposo contemporaneamente. Heidegger ha sottolineato lo storicizzarsi dell’opera d’arte all’interno di un riposo che non esclude il movimento, che, anzi, lo include. Caratteristica unica dei video di Vine è quindi quella di avere un inizio, ma in assenza di un finale predeterminato: l’opera d’arte non è più quindi un oggetto, ma un processo. Il video si storicizza, in quanto è nel tempo, ma concettualmente è anche fuori dal tempo, perché entra in un circolo che non prevede più la fine: noi non clicchiamo sul monitor per rivederlo; potremmo (in teoria) vederlo fino alla fine della nostra vita, del mondo, persino del tempo: l’opera su Vine si colloca così al di là del tempo stesso – come messa in riposo –, e fuori dal tempo – come progettazione –, ma nel tempo – a causa dell’essere storico del fruitore. Su Vine, quindi, al di là di ogni definizione di bellezza artistica, il video diventa arte. L’idea di far riprodurre sei secondi in loop, senza la possibilità di una visione lineare, non consente a chi lo utilizza di guardare un video come è accaduto sino a oggi con YouTube o altri social network; chi guarda un video su Vine osserva una riproduzione che oltrepassa, per sua stessa natura, la storicità della creazione e del creatore. Chissà che in futuro alcuni grandi registi non decidano di dedicare attenzione e tempo alla creazione di video per un social network.
Un salto come si deve Breve viaggio nel futuro del libro a cura di Cristò Proviamo per una volta a fare un salto in avanti. Un bel respiro profondo per darci coraggio, qualche passetto indietro per allungare la rincorsa e tutta la forza possibile nelle gambe per fare un salto come si deve. Non uno di quei salti che tutti sono capaci di fare e che ci fanno avanzare di pochi metri, ma un salto memorabile che ci porti oltre tutte le considerazioni più o meno condivisibili sul futuro del libro, oltre le lamentele dei librai e degli editori, oltre gli entusiasmi degli integrati e gli allarmi degli apocalittici, fuori dalla logica delle nostre abitudini analogiche e dentro le teste dei nativi digitali. Proviamo, per una volta, a immaginare cosa sarà l’ebook quando si chiamerà semplicemente ‘libro’. Perché questo prima o poi succederà, come è già successo per il libro a stampa, che noi chiamiamo semplicemente ‘libro’ ma che è il frutto di innovazioni tecnologiche che hanno scatenato dibattiti in tutto simili a quelli attuali, con apocalittici, integrati, nostalgici ed entusiasti, proprio come adesso. Proviamo a guardare il nostro iPad di ultima generazione come un oggetto vintage esposto dietro la teca di un museo, come la versione antica e primitiva di quello che tutti chiamano semplicemente ‘libro’. Proviamo a farlo insieme questo volo, e
cerchiamo di pensare al contenuto, non alla forma, perché una volta che la forma del libro sarà definitivamente cambiata ci accorgeremo che sarà cambiato per sempre anche il contenuto. È già successo con il passaggio da manoscritto a libro a stampa e succederà anche con il libro elettronico. Quello che cambierà lo sappiamo già anche senza fare grandi salti (contenuti multimediali, collegamenti ipertestuali, realtà aumentata); quello che non sappiamo, il motivo vero della necessità del salto, è come tutto questo cambierà il mestiere delle scrittore, saggista o narratore che sia. Si parla molto della democratizzazione del mercato editoriale attraverso l’ebook: quando stampare su carta e distribuire fisicamente i libri non sarà più necessario per raggiungere davvero i lettori, si dice, l’editoria perderà il potere decisionale e la qualità dello scritto, si dice, sarà l’unico vero metro di giudizio. Questo significa fare un salto piccolo. Se provo a prendere la rincorsa e a saltare io, vedo libri elettronici in cui il testo scritto rappresenta solo una parte, importante ma non più predominante, della narrazione. Vedo animazioni, filmati, musica che rendano l’esperienza della lettura totalmente nuova, e penso anche che la produzione di questi contenuti
imporrà (forse già impone) competenze nuove per lo scrittore, e di fatto trasformerà il libro sempre più in un prodotto di équipe. Ci vorranno musicisti, animatori e programmatori per confezionare un romanzo, non soltanto uno scrittore, un editor e un ufficio stampa. Lo scrittore diventerà una sorta di regista. Ci vorranno degli investimenti per produrre un romanzo. L’autoproduzione diventerà più difficile e non più facile perché naturalmente i grandi gruppi editoriali avranno la capacità economica e di forza lavoro per confezionare prodotti più sfavillanti, più coinvolgenti, più commerciali. Per il momento, insomma, nulla è cambiato veramente. Stiamo assistendo a esperimenti che non mutano la sostanza delle cose, e credo che il libro rimarrà come lo conosciamo ancora per molto tempo, ma facendo questo grande salto in avanti l’impressione è che i facili entusiasmi siano troppo facili. Per il momento non ci resta che continuare a scrivere e a leggere come abbiamo sempre fatto; in fondo quando facciamo un salto troppo lungo non si può mai sapere quale sarà il punto esatto dell’atterraggio.
IL BORSELLINO
Un racconto di Claudia Colonna
«Dove sei stata tutto questo tempo? Ti cercavo…» «Scusami, il cellulare mi ha abbandonata proprio stamattina…». Non mi piaceva parlare agli altri dei fatti miei, dei miei pensieri, dare spiegazioni su quello che facevo della mia vita. Quindi tagliavo corto, sempre. Ero così: mi chiudevo, mi difendevo dal mondo. In quel periodo facevo l’università a Bari, con buoni risultati, a parte qualche arretrato rispetto ai programmi. Ho i capelli rossi e gli occhi castani; sono snella. Zoppico un po’ per via di un incidente in motorino. Mi hanno tagliato la strada. Non è stata colpa mia. Chiaro! La mia vita scorreva normalmente, ma oltre questa norma non andava. Tutto era calcolato e sperimentato su di me: circondavo il mio orizzonte di tranquillità e sicurezze: me stessa, le mie amicizie, mia madre, lo studio, la disposizione degli oggetti sulla scrivania, le cose che mi portavo sempre dietro: il mio borsellino con i trucchi, lo specchio e il cellulare. Ciò che sconvolse un po’ i miei equilibri fu scoprire voci poco carine sul mio conto, cose che si dicevano di me, su aspetti del mio carattere che io non credevo di avere. «Non sono io, non sono io! – ripetevo – Come fanno a dire queste cose se sto sempre zitta?». «Sei cambiata in questo periodo, Silvia, sembri migliorata», mi dicevano ridacchiando. Il mio sguardo fermo era più che una risposta: vediamo se riuscite a scherzare ancora! Una mattina, camminando per i corridoi che portano in biblioteca, intravidi una curiosa figura. Nonostante fosse di spalle, il suo stile era inconfondibile: camminata risaputa, quasi claudicante, come la mia. Mi fermai per studiarla meglio. Si voltò all’improvviso, fu un attimo. Era uguale a me, capelli, occhi, naso. Lei non mi vide, ma dal modo in cui gesticolava, sembrava abbastanza gioiosa e aperta. Chinai la testa, scappai in biblioteca e iniziai a studiare. Chi era quella ragazza? Tornai a casa. Quella sera dormii poco e male. Nella testa avevo la sua immagine, identica alla mia. La mattina seguente arrivai in biblioteca presto. La aspettavo, o meglio, speravo ricomparisse. Lei poteva essere la causa di tutto. Mi avevano
scambiato per lei, certo. Tutte le voci sul mio nuovo carattere avevano improvvisamente un senso. Passò qualche ora, era quasi mezzogiorno, stavo pensando di andare via quando a un tratto: «È tuo quello?»; mi voltai, era lei. Rimasi attonita a fissarla per un po’, anche lei mi guardava. Ripeté: «Credo ti sia caduto il borsellino, è lì, sotto la tua sedia». Insomma cominciammo a parlare: frequentava Lettere, faceva qualche lavoretto saltuario e, incredibilmente, si chiamava Silvia, come me. Anche lei sembrava essere interessata a me. «Che fai del tuo tempo?», «Che aspirazioni hai?», «E poi?». Tutte domande a cui non mi sottrassi, a cui stranamente risposi senza risparmiarle particolari. «Chi è Silvia?», «Com’è Silvia?». Parlarle fu bello per me e, così sembrava, anche per lei. Non me lo sarei mai aspettato. Era ora: doveva andare, la nonna la aspettava per il pranzo. Eravamo già per strada. Ci salutammo all’incrocio, sorridemmo molto, lei attraversò sulle strisce. «Il tuo borsellino, Silvia!» La macchina e uno squarcio la investirono. Si era distratta per restituirmi il borsellino. Era corsa verso la sua nuova amica, nonostante il problema alla gamba. Corsi anche io verso il suo corpo immobile sull’asfalto e i suoi capelli sporchi di sangue. Più avanti un’automobile ferma e un motorino ribaltato. Un ragazzo si stava rialzando con difficoltà. Non ho mai conosciuto una ragazza così, una di cui a primo impatto sai di poterti fidare, come se sapessi già tutto di lei, come se si trattasse di te. Mi viene il dubbio di non aver conosciuto bene neanche me, Silvia. Aprii il borsellino e mi ferii un dito con un pezzo dello specchietto rotto.
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