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Wes Anderson Il cinema è un’isola
L.ink Festival Il giornalismo ai tempi dell’ePub
Le nuove sfide formative Uniba presenta il piano strategico Focus sull’inaugurazione dell’anno accademico
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L’Università del futuro: ecco i nostri progetti Uniba: inaugurazione Anno Accademico 2013-14 – Una festa per gli Studenti Vita da fuorisede – Guida ai tipi che non vorreste mai incontrare in treno
L.INK
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L.ink Festival – Il giornalismo ai tempi dell’ePub
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Giramondo – L’Europa e la musica: alla scoperta dei grandi festival
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La nostalgia colorata – Viaggio nel cinemondo di Wes Anderson Asparagi, vagoni e case di bambole – Il sesso e le donne nel cinema d’animazione d’autore Fratto_X – :Il nuovo spettacolo di Rezza-Mastrella The Walking Dead – Il nemico cammina dentro di te Visioni a confronto – Walter Mitty: da outsider a eroe
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L’inattuale è indispensabile – La letteratura secondo Antonio Moresco Narrazioni: siate serie! La letteratura ha bisogno di pirati – Intervista ai Bookaneers Book Geeks – A spasso con la biblioteca Aerei di carta
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Il Guaio della nostra musica – Il festival Push Up premia la band Minus Habens
Editoriale #006 Per una sussidiarietà accademica Iniziare un nuovo corso, una nuova esperienza universitaria nel nome della sussidiarietà e della coesione sociale é segno della grande attenzione che l’Università di Bari desidera riconoscere a un ambito della società civile sempre più in espansione e attento ai bisogni primari delle persone. Significa guardare fuori di sé, guardare al proprio esterno, rivitalizzare quel rapporto tra ambito istituzionale e società civile, soggetti entrambi pubblici, che spesso non riescono a trovarsi in sintonia. Il principio della sussidiarietà, sancito dalla nostra Costituzione e riconosciuto dal trattato dell’Unione Europea di Maastricht, comporta, tuttavia, una scelta radicale per chiunque voglia riaffermarla e seguirla: indica un percorso di libertà e democrazia nel quale lo Stato, le varie istituzioni statali – tra cui la nostra Università – non devono compiere ciò che può essere realizzato dalle singole persone o gruppi sociali; anzi, devono creare quelle condizioni favorevoli che permettano alla stessa società civile di agire liberamente per il bene della persona. E questo per un motivo originario ben preciso: non lo Stato rappresenta il fine della società, bensì la persona, l’uomo, è principio, soggetto e fine della società. Ogni ordinamento statale non può che essere al servizio dell’uomo, a servizio della collettività. Se, dunque, la sussidiarietà significa creare condizioni per favorire la libertà e la responsabilità del singolo e dell’intera società, come può essere tradotta all’interno di un sistema universitario complesso come quello dell’Ateneo barese? A questa domanda, speriamo possano rispondere gli autorevoli studiosi invitati alla cerimonia di apertura dell’anno accademico, il prossimo 24 marzo. E tuttavia, ci sembra utile poter avanzare due semplici indicazioni, una interna al sistema universitario e una esterna a essa. Sussidiarietà interna vuol dire sempre innanzitutto dialogo, comunicazione, messa in rete delle informazioni, trasparenza, aiuto reciproco tra i vari comparti che partecipano a un’azione istituzionale complessa. Ma una sussidiarietà così concepita non può essere imposta dall’alto, perché nasce dal frutto della libertà di ognuno. E del resto, a ben vedere, l’università stessa nasce proprio a partire da un’idea sussidiaria: il mutuo soccorso tra studenti e maestri che, associandosi tra loro, crearono quelle prime scuole autonome che chiamarono università. Sussidiarietà esterna indica, invece, una tensione continua a valorizzare ciò che accade intorno a noi, nella nostra città, nei nostri quartieri. Si parla spesso – a volte non sempre adeguatamente – di città universitaria: ma Bari non diverrà universitaria per decreto, per una volontà politica superiore, bensì per osmosi, per una politica culturale dal basso, per aver creato noi, comunità universitaria barese, le condizioni di questo riconoscimento da parte della nostra città. Non attendiamo un ordinamento giuridico che sancisca il riconoscimento dell’università e il suo valore, non pretendiamolo, meritiamolo. Paolo Ponzio
REDAZIONE Michele Casella Direttore Responsabile Paolo Ponzio Direttore Editoriale Carlotta Susca Caporedattrice Irene Casulli Fashion Editor DIREZIONE CREATIVA Vincenzo Recchia Creative Director Giuseppe Morea Multimedia Developer COMITATO SCIENTIFICO UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ‘ALDO MORO’ Michele Baldassarre Angela Carbone Marina Castellaneta Grazia Distaso Giuseppe Elia Daniele Maria Pegorari Ines Ravasini Annarita Taronna Paola Zaccaria Giovanna Zaccaro MANDACI I TUOI RACCONTI BREVI scritture@ipool.it PER COLLABORARE SCRIVICI A academy@ipool.it
COLLABORATORI Bianca Chiriatti Daria D’Acquisto Giovanni Boccuzzi Stella Dilauro Antonella Di Marzio Saba Ercole Enrico Godini Leonardo Gregorio Gabriella Indolfi Antonella Mancini Lello Maggipinto Valeria Martalò Michela Panìco Lorena Perchiazzi Laura Rizzo Luca Romano Serena Sasanelli Marianna Silvano Marilù Ursi STAMPATO PRESSO Ragusa Service srl Bari POOL Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Tribunale di Bari www.ipool.it PUBBLICITÀ - IMood Via Cristoforo Colombo, 23 - Putignano (BA) Tel. 080.4054243 www.imood.it CERCACI SU Facebook, Twitter, Issuu
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L’Università del futuro: ecco i nostri progetti Intervista al Rettore dell’Uniba, Antonio Uricchio «Dovere di un Ateneo è redigere un Piano strategico che abbia coerenza e realismo, che preveda scadenze credibili e risultati comprovabili»: per ogni triennio,la stesura di un documento di questo tipo è uno strumento per mettere a fuoco l’esistente e progettare linee di intervento future. Stilare un Piano strategico è molto diverso dall’esprimere linee di orientamento generali; occorre valutare attentamente lo stato effettivo dell’Università, analizzarne lucidamente gli aspetti positivi, da potenziare, e quelli carenti, da migliorare. Una agenda triennale, con elenchi di attività da svolgere e obiettivi da spuntare, insomma. Una sfida da affrontare con coraggio e determinazione. Quando, poi, il Piano strategico è stilato da un Rettore appena insediatosi, l’impegno si fa ancora maggiore, così come le energie da utilizzare per la causa. Innanzitutto occorre individuare le direttive di base, gli assi portanti di un progetto che coinvolge una istituzione di importanza centrale per la città di Bari e per la regione Puglia, oltre che per migliaia di studenti (ma anche ricercatori, docenti e personale amministrativo). E allora come non porre al centro proprio formazione e ricerca, gli aspetti peculiari dell’Università? A questi nodi imprescindibili il neo Rettore accosta infrastrutture e servizi, per garantire in
prospettiva agli studenti, punto di partenza e fulcro di ogni progetto, una migliore accoglienza logistica e organizzativa nel mondo universitario, affinché si possa continuare a considerare gli anni dello studio i migliori della propria vita. Antonio Uricchio, nell’introduzione al Piano triennale, sottolinea anche l’intenzione di prestare particolare attenzione ai poli di Taranto e Brindisi, e su questi e su tutti i punti evidenziati prevede un «confronto sistematico e continuativo nel tempo», con «monitoraggio e valutazione in itinere degli obiettivi prefissati». Propedeutica al dettaglio degli impegni futuri è l’analisi dell’esistente, e così fra i punti di debolezza dell’Ateneo si evidenziano l’alto tasso di abbandono studentesco, le difficoltà nelle politiche di orientamento all’entrata e nel post lauream, la complessità delle procedure amministrative ed i ritardi nella digitalizzazione; questo a fronte degli aspetti in cui l’Università già si distingue come esempio virtuoso; fra questi l’eccellenza della ricerca in vari settori, gli spin off e le attività brevettuali, la proficua collaborazione con partner pubblici e privati. L’approccio del Piano strategico è positivo e propositivo: «Nonostante la condizione di crisi, il territorio su cui opera il nostro Ateneo presenta comunque una buona propensione all’innovazione; attraverso i nuovi Distretti
tecnologici e produttivi e i cluster tecnologici; attraverso la strategia Smart Puglia, che interesserà sempre più il territorio, sostenendo la creazione di prodotti e servizi innovativi; attraverso un programma di incentivazione della creatività giovanile». La ‘Mappa strategica’ per il periodo 2014-2016 si articola in cinque aree strategiche: Formazione; Ricerca; Terza missione; Governance e amministrazione; Equilibrio economico-finanziario. Sicuramente i primi tre sono quelli dai riverberi più diretti sugli studenti, anche se il lavoro sugli ultimi due aspetti (con dematerializzazione, legalità e trasparenza, sicurezza e lotta agli sprechi) è fondamentale per garantire un’infrastruttura funzionante di supporto e sostegno all’intera struttura. L’area strategica della formazione è stata analizzata nel dettaglio per poter individuare i punti su cui intervenire con maggiore efficacia, e quindi si tenderà a offrire una formazione di primo livello più solida e che non si sacrifichi sull’altare di una precoce professionalizzazione, ma allo stesso tempo i corsi di laurea dovranno ripensarsi anche in funzione dei bisogni del territorio, per far sì che l’Università dialoghi sempre di più e sempre meglio con il mondo del lavoro. Uno degli aspetti da sottolineare del Piano è quello – su cui il Rettore ha insistito molto anche nella precedente intervista a «Pool Academy» – del potenziamento dei servizi offerti agli studenti, per cui verranno incrementati una serie di aspetti che vanno dall’orientamento per i maturandi al tutoring degli studenti universitari, che potranno ottenere durante il percorso di studi certificazioni integrate e potranno usufruire di servizi bibliotecari più estesi e di una maggiore digitalizzazione delle attività amministrative. Per comprendere meglio le intenzioni del Piano strategico intervistiamo a tal proposito il Rettore Antonio Uricchio. Nel Piano strategico 2014-2016 approntato dall’Università degli Studi di Bari ci sono delle frasi che colpiscono a fondo: «offrire ai propri studenti un’esperienza straordinaria». Quali sono i punti fondamentali del lavoro che state sviluppando? Il Piano strategico assume particolare rilievo in quanto esprime la missione, gli indirizzi strategici e gli obiettivi
dell’Ateneo. Esso quindi si rivolge in primo luogo agli studenti, delineando gli interventi da porre in essere per rendere attrattivo il nostro Ateneo sia nella didattica che nella ricerca e in quella che viene definita ‘terza missione’, ma che per noi è importante come e più delle altre, riguardando il placement, gli interventi nel sociale e nel volontariato e quelli a tutela dell’ambiente e dello sviluppo del territorio. Il Piano strategico è quindi una risposta concreta alla sfida della competizione fra modelli e istituzioni formative, sfida che la nostra Università vuol raccogliere e vincere, ponendo alla base della propria azione valori e princìpi di legalità, merito, sostenibilità, responsabilità. C’è chi ritiene che il percorso di studi universitario sia troppo spesso lontano dalle necessità del mondo del lavoro: in che modo gli stakeholder esterni (enti pubblici territoriali, associazioni imprenditoriali ecc.) diventano essenziali in questo rinnovamento? I percorsi formativi non devono e non possono essere sganciati dagli sbocchi occupazionali e dalle esigenze del mondo del lavoro. L’università è chiamata a formare competenze che possano essere valorizzate dal sistema produttivo pubblico e privato e che possano offrire il proprio contributo allo sviluppo. Fondamentale è quindi il rapporto con le parti sociali e tutti gli stakeholder. Stiamo infatti rilanciando l’agenzia per i rapporti con l’esterno, e soprattutto avviando la costituzione di un’agenzia regionale per il placement che possa studiare le new skills e i bisogni del mercato del lavoro, e possa quindi orientare i giovani verso gli sbocchi occupazionali. L’informazione è fra i punti fondamentali della vision dell’Università, attraverso cui realizzare un’effettiva partecipazione degli studenti (e dei docenti) alla vita accademica. Quali strumenti saranno i primi ad essere utilizzati per rendere efficace questa modalità di interazione? Comunicare e informare le attività poste in essere, nella didattica, nella ricerca e nel sociale costituisce un impegno forte per la nostra istituzione accademica. Oltre a rivedere il sito istituzionale, ci stiamo dotando di una serie di strumenti come una newsletter e un paper periodico, oltre che di social e new media. Nelle attività da porre in essere gli studenti sono pienamente coinvolti e partecipano pienamente.
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Da anni si cerca di pensare a Bari come a una città universitaria, ma non sempre i servizi del capoluogo forniscono il necessario supporto agli studenti. In che modo l’interazione fra Università e amministrazione cittadina può portare a un miglioramento di questa funzionalità? Bari è una città che ha istituzioni universitarie ma non è ancora e forse non è mai stata una città universitaria. Occorre riportare i bisogni degli studenti al centro dell’agenda politica cittadina, individuando strumenti concreti per soddisfarli (penso ai temi della mobilità urbana, dei luoghi della cultura ecc.). Ci attendiamo risposte anche dai candidati sindaci impegnati nella campagna elettorale in corso. Da un profilo formativo di base, l’Università cerca di favorire la specializzazione dei propri iscritti attraverso un percorso di studio sempre più sostenibile e razionalizzato: quali scelte in questo senso sta effettuando la nuova Università di Bari? Occorre prioritariamente razionalizzare i percorsi formativi di primo livello, in particolare prevedendo una adeguata presenza di percorsi generalisti che permettano il raggiungimento di una solida formazione di base e possano garantire altresì l’accesso a corsi di laurea magistrale anche di classi diverse. Per i percorsi formativi di secondo livello e a ciclo unico specializzanti occorre promuovere l’interazione fra contenuti disciplinari didattici e attività di ricerca svolta nei Dipartimenti, con particolare attenzione agli sbocchi professionali consentiti da ciascuna laurea. Di sicura utilità può essere la partecipazione nei processi formativi specializzanti di figure professionali provenienti dal mondo del lavoro e l’induzione all’utilizzo da parte dei docenti di metodologie didattiche che favoriscano negli studenti la partecipazione e l’acquisizione di dimestichezza con gli strumenti della professione.
Il Piano strategico presenta anche un’interessante apertura a nuovi corsi di studio. Oltre ai controlli di sostenibilità economico-finanziaria, quali saranno i parametri che serviranno a operare la scelta? Per l’offerta formativa occorre lavorare sulle criticità già evidenziate dal Presidio di Qualità nella propria elaborazione a regime dei requisiti di sostenibilità dell’offerta formativa d’Ateneo, anche attraverso l’individuazione di una offerta che punti strategicamente, e se è il caso privilegi, le necessità di una formazione professionalizzante e attenta anche ai bisogni del territorio: opportunamente, le diverse strutture dipartimentali devono progressivamente intensificare le occasioni di incontro anche attraverso conferenze pubbliche, che andranno incentivate, aperte a rappresentanti delle istituzioni, del mondo del lavoro e delle forze sociali, di illustrazione e confronto della propria offerta con le richieste che da quelle realtà provengono. Utile a tale proposito sarà l’istituzione di un database unico, da intendersi quale vera e propria ‘anagrafe dei corsi di studio’ in cui raccogliere in termini di sintesi tutti i dati storici ed evolutivi di ciascun corso di studio: da quelli sulla numerosità degli iscritti a quelli sulla docenza di riferimento, nonché anche quelli sul ricorso a docenze esterne all’Ateneo. Parte importante del riassetto dell’offerta formativa dovrà essere il raggiungimento di adeguati standard di sostenibilità (finanziaria, di numerosità degli studenti, di docenza, delle infrastrutture, della qualità della ricerca e della didattica), in particolare – ma non solo – per i corsi attivati presso le sedi decentrate; a tale scopo, si dovrà verificare la capacità dell’Ateneo di garantire un miglioramento di tali standard, per esempio incrementando il numero dei docenti affidatari di incarichi didattici istituzionali presso le suddette sedi e/ovvero quello dei docenti ivi incardinati, privilegiando i SSD di base e caratterizzanti per i corsi di studio in quelle sedi attivati.
Perché la formazione post laurea e il Life long learning hanno da alcuni anni un valore così essenziale per il mondo del lavoro? Come risponde l’Università di Bari a questa esigenza professionale? Nell’economia della conoscenza, il capitale umano riveste un’importanza fondamentale. Esso peraltro deve essere sottoposto a formazione e ad aggiornamento continuo. L’Università di Bari deve raccogliere e impegnarsi in questa sfida, soddisfacendo la necessità crescente di un aggiornamento continuo delle proprie conoscenze (Life long learning), ampliando in modo significativo la propria offerta formativa. Come dovrà accadere per i dottorati di ricerca, anche l’impegno nella formazione post laurea dovrà essere selezionato strategicamente in ragione del contesto lavorativo e del mercato del lavoro così come strutturato nel territorio di riferimento; andranno particolarmente valorizzate e incentivate tutte le iniziative frutto di compartecipazioni fra Università, enti di ricerca e mondo produttivo, in grado di offrire le maggiori opportunità dal punto di vista della occupabilità dei partecipanti. In tale contesto l’offerta didattica dovrà essere, ove strategicamente utile, orientata anche al mercato locale e internazionale, in particolare mediante la previsione di corsi brevi (short master). Anche l’aggiornamento continuo obbligatorio degli iscritti agli ordini professionali, previsto dalla riforma del 2012 (Dpr 137/2012), può essere erogato dall’Università sotto forma di corsi di aggiornamento permanente. Dematerializzazione, semplificazione e formazione del personale sono delle parole-chiave per il rapporto fra studenti e Università: in che modo si vuol dare una risposta a questi temi? Il processo di dematerializzazione, già a buon punto con la gestione via web delle immatricolazioni/iscrizioni e con la gestione digitale delle carriere studentesche (dai corsi di primo livello sino ai percorsi formativi abilitanti TFA/PAS), va ulteriormente rafforzato e completato con l’introduzione di ulteriori processi (per esempio per il
rilascio di certificati on line e via web); deve costituire una assoluta priorità, anche per gli effetti di efficienza economica, l’assicurazione a studenti e corpo docente di un pieno accesso a servizi digitali nel segno della smart education. In un periodo così difficile da punto di vista finanziario, la ricerca rimane un elemento cardine per lo sviluppo del nostro capitale umano. Quali soluzioni propone l’Università di Bari? Il nostro Ateneo guarda a questo aspetto con particolare attenzione, promuovendo progetti di ricerca strategici e multidisciplinari, incentivando le capacità di iniziativa di singoli, di gruppi e/o di Dipartimenti su finanziamenti gestiti direttamente dall’Ateneo. Si intende così favorire, all’interno dell’Ateneo, attività che aggreghino i ricercatori attorno a una idea progettuale coerente con le linee programmatiche definite nella strategia H2020, la creazione di un sistema di sostegno alla ricerca scientifica volto al rafforzamento della collaborazione scientifica interna, nonché la crescita dei gruppi di ricerca e della loro capacità ad acquisire finanziamenti competitivi. Il rapporto con l’estero e l’internazionalizzazione dell’offerta sono elementi fondamentali per risultare competitivi. In che modo il Ministero fornisce un supporto a quel che viene realizzato dall’Università? L’Università di Bari si colloca in un contesto mediterraneo e internazionale: deve essere in grado di coglierne le opportunità e i vantaggi. I processi di internazionalizzazione assumono quindi particolare importanza strategica per il nostro Ateneo. Essi riguardano tanto la didattica (penso a lauree, dottorati e master a titolo congiunto) quando la ricerca. Per quanto concerne il supporto del Ministero, credo che questo possa e debba fare molto di più, sia attraverso il sostegno alle iniziative più meritevoli sia semplificando processi amministrativi.
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Una festa per gli studenti dell’Università di Bari Foto di Carlo Cofano
“L’inaugurazione dell’anno accademico vuole essere un momento di appartenenza e di orgoglio – racconta il nuovo Rettore prof. Antonio Uricchio – per riportare gli studenti e la loro creatività al centro delle politiche di Ateneo”. Ecco perché il pomeriggio del 24 marzo saranno artisti e band universitarie i protagonisti dello spettacolo che si terrà al Teatro Petruzzelli. Tante le domande di partecipazione arrivate, ma solo in pochi hanno superato le prove selettive e porteranno in scena differenti generi musicali, dal pop al jazz, alla musica classica. Si esibiranno gli Acoustic Trio, con arrangiamenti di cantautori italiani, Arianna Turchiano, voce solista, i Camera 133, un gruppo pop-rock italiano, Domenico Triggiani, pianista che eseguirà musiche di Shubert, i Mamma Mia!, cover degli Abba, i Pangea, gruppo pop italiano, The Wonders, cover dei britannici Beatles, Vitanio Palmisano, pianista che eseguirà musiche di Chopin e Beethoven.
Gli studenti sono protagonisti anche della cerimonia di premiazione nella quale i migliori laureati nelle cinque aree disciplinari dell’Università di Bari, più uno studente di Brindisi ed uno di Taranto, otterranno un importante riconoscimento. Sono stati selezionati sulla base del voto di laurea, del tempo impiegato a finire gli studi, e della migliore media degli esami superati. A consegnare il premio ci saranno vari protagonisti dello spettacolo, quali gli attori Sergio Rubini ed Emilio Solfrizzi, Nicola Serra (produttore della fiction Braccialetti Rossi), giornalisti come Attilio Romita (Rai 3) e Giuseppe De Tomaso (direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno), oltre a imprenditori come Luca Montrone, patron di Telenorba. Nella serata si esibiranno anche artisti del nostro territorio come Nicola Pignataro, Teodosio Saluzzi e Giuliano Ciliberti, oltre , naturalmente, al coro dell’Università Harmonia. Una importante “voce” della Puglia, sarà presente anche durante la manifestazione istituzionale che si terrà la mattina, quando Albano interpreterà alcuni brani del repertorio classico
Inaugurazione Anno Accademico 2013-14 Sussidiarietà, Coesione territoriale e Diritto allo Studio Bari, Teatro Petruzzelli 24 marzo 2014 Programma della mattina
Programma del pomeriggio: Gli studenti in festa
Coro HARMONIA O Fortuna dai Carmina Burana - Gaudeamus Igitur
Coro HARMONIA
Saluti Angela D’ONGHIA - Sottosegretaria di Stato per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca Nichi VENDOLA - Presidente della Regione Puglia Stefano PALEARI - Presidente della CRUI Discorso Inaugurale Antonio Felice URICCHIO - Rettore dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Gaetano PRUDENTE - Direttore Generale dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Interventi Franco GALLO - Presidente Emerito della Corte Costituzionale Filippo PATRONI GRIFFI - Consigliere di Stato Alberto Quadrio CURZIO - Vice Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei Giorgio VITTADINI - Presidente della Fondazione per la Sussidarietà Antonio INCAMPO - Università degli Studi di Bari Aldo Moro Marco VOLPE - Presidente Consiglio Studenti dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Presentano Donatella AZZONE e Antonio STORNAIOLO Saluti Antonio Felice URICCHIO - Rettore dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Gaetano PRUDENTE - Direttore generale dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro Premiazione degli studenti più meritevoli Consegna dei riconoscimenti da parte di Giuseppe DE TOMASO Luca MONTRONE Attilio ROMITA Sergio RUBINI Nicola SERRA Emilio SOLFRIZZI Letture Da Eduardo e Totò di Teodosio SALLUZZI Sketch di Nicola PIGNATARO Esibizioni musicali studentesche Acoustic Trio, Arianna Turchiano, Camera133, Domenico Triggiani, Giuliano Ciliberti, Mamma Mia!, Pangea, The Wonders, Vitanio Palmisano
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I numeri dell’Università degli Studi di Bari 50.000
Iscritti a Uniba
12.000
Iscritti per il nuovo anno accademico
7882
Laureati nel 2013
1509 Docenti
246 Dottorandi iscritti nel 2012 168 Dottorandi iscritti nel 2013 127 Dottorandi iscritti nel 2014
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Tirocini retribuiti attivati nel 2014 per inserimento nel mondo del lavoro
300
Iscritti ai Master istituiti ed attivati da Uniba
1481
Personale tecnico amministrativo
437
Studenti partecipanti al progetto Erasmus in outgoing
220
accordi internazionali di cooperazione stipulati o in fase di rinnovo
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VITA DA FUORISEDE Guida ai tipi che non vorreste mai incontrare in treno
Rubrica pratica di consigli di sopravvivenza per Cenerentoli e Cenerentole di provincia a cura di Antonella Di Marzio Illustrazione a cura di Francesca Chilà
Studi recenti hanno rilevato un’impennata di attacchi di misantropia in concomitanza con le uscite di questa rubrica. Non saremo così ipocriti da sottrarci alle accuse, ma con eleganza apporteremo qualche ritocchino politically correct alle nostre indefettibili – volevamo dire, pur sempre opinabili – posizioni. Siamo dunque disposti a riconoscere la poesia del tempo sospeso del treno – contatto fortuito tra spiriti affini, movimento comune verso una meta condivisa, dormita collettiva come metafora sociale: la vita (del treno) è bella, chiosate voi. Lasciateci però appiccicare una postilla: a meno che non incontriate…
LA SIGNORA NON-TROPPO-ANZIANA Cammina ricurva, ma le invidiate i jeans in cui è fasciata; il taglio sportivo dei capelli bianchissimi sormonta un volto segnato dalle rughe. Sprofondati nel vostro sedile, ponderate da ogni lato il dilemma morale: rischiare una figuraccia o venir meno al dovere civico? Vi alzerete imbarazzati (assomiglia a vostra nonna!) e le ammiccherete orribilmente alludendo al posto che avete liberato. Nove volte su dieci, si sentirà oltraggiata: la dolce vecchina ha in un solo braccio più energia di voi tutti interi. Può darsi che si sieda per compiacervi, ma non mancherà di sbuffare e di rivolgervi occhiate infamanti.
L’INDECISO «Sarà meglio il posto-finestrino ma in direzione contraria, o il posto-corridoio nel senso di marcia? Vada per il primo, anzi no ché mi dà nausea, dov’è finito il mio amico, ah ecco mio cugino, mi siedo vicino a lui, ma così perdo di vista le ragazze…». A ogni pensiero l’indeciso azzarda qualche passo, per poi incepparsi nel bel mezzo del corridoio. Alla fine non reggerà alla pressione autoprodotta, e si fionderà sul primo (e unico) posto libero accanto a sé: proprio quello che avevate puntato da tempo. Va da sé che l’indeciso sia di solito alto e possente, in modo da impedirvi ogni tipo di sorpasso.
IL CONOSCENTE ZELANTE Vi vede sciupato, sicuro che sia tutto a posto? E gli esami come vanno, a quando la laurea? Se pure il conoscente dovesse evitare gli argomenti personali, siate certi che attingerà ai grandi classici come il tempo («Ieri le maniche corte, oggi già il cappotto»), la situazione politica («Di destra o di sinistra, sono tutti uguali»), o opterà per una combinazione di entrambe («Piove, governo ladro»). Gli leggete negli occhi che preferirebbe dormire, e a quel punto intuite la verità: la vostra aria spettrale gli ha fatto pena e si è immolato pur di farvi compagnia. Spiegarglielo, che quella è la vostra espressione mattutina di default!
DOs & DON’Ts dell’Università a cura di Antonella Di Marzio Scontatezze e ovvietà di cui la vita vera non potrà mai fare a meno Matricole DO: Imparare quanto prima il gergo dipartimentale, con una particolare attenzione alle abbreviazioni in uso. Risparmierete fiato e non passerete per matricole precisine.
L’AGENTE SEGRETO Vi guardate intorno, non c’è nessuno che conosciate: via libera alle confidenze! Tenete la voce bassa, evitate di far nomi, ricorrete persino a quelli in codice; ma se state parlando male di qualcuno, quel qualcuno prima o poi lo scoprirà. E lo farà tramite il passeggero sulla destra, forse l’unica persona al mondo in grado di seguire – e riferire – tutta la conversazione al diretto interessato; le cuffie sono solo ornamentali, ha silenziato la musica appena vi ha visti aprir bocca. Sì, perché sa benissimo della vostra esistenza, mentre voi continuate a ignorare la sua… IL DOPPIOGIOCHISTA Variante più infida dell’agente segreto: è il conoscente che, sedendosi per caso accanto a voi, butterà lì con nonchalance domande mirate e apparentemente innocue allo scopo di scoprire quel che gl’interessa. Collegherà le informazioni in suo possesso, e la cosa non rimarrà tra voi. IL CLUB DELLA CUCINA Si scambiano ricette a voce alta, sono in grado di descrivere nel dettaglio il menu di Pasqua ’99 con relative varianti. Mescolano il puntiglio di Gordon Ramsay col senso pratico della Casalinga di Voghera; e lo fanno a ora di pranzo o di cena, quando tra voi e il vostro desco è questione di chilometri lenti e tardi. Altre volte ingolfano i primi treni della giornata, quando le vostre nausee mattutine hanno solo bisogno di un pretesto per venir fuori.
DON’T: Scimmiottare il suddetto gergo, ostentando familiarità con insegnamenti e professori che non vedrete fino alla Magistrale. DO: Relativizzare. Gli studenti più grandi spesso si divertono a gonfiare le difficoltà a cui andrete incontro; e persino gli esami-spauracchio non sempre sono temibili come si racconta. DON’T: Considerare automatico l’andare fuori corso. Finirete per convincervene, alimentando l’automatismo. DO: Raffreddare l’ego di chi millanta i propri voti. Siate parsimoniosi nei complimenti, ricorrete piuttosto al vostro agonismo per annientare al prossimo giro il saputello di turno. DON’T: Cadere nel tranello del voto esibito – con conseguente foto del libretto. Lasciate piuttosto che siano gli altri a dire in giro quanto siete bravi: tra ammirazione e odio il confine è molto sottile. DO: Farvi un esame di coscienza: quel che state facendo vi interessa davvero? Meglio che la risposta salti fuori adesso e non a un passo dalla laurea. O dopo. DON’T: Ostentare la posa dello studente annoiato e sfiduciato. Siete i primi a dovervi dare degli stimoli, e dopo l’Università rischia di andare ancora peggio.
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L’editoria ai tempi dell’ePub a cura di Michele Casella
Torna a Bari il festival dedicato alla realtà mediatica contemporanea. Dal 1° al 4 aprile il Salone degli Affreschi dell’Ateneo di Bari diventa il fulcro del giornalismo italiano per raccontare il mutamento dell’informazione attraverso i mestieri che ruotano attorno a una redazione. Un evento realizzato da Pool per conoscere i nuovi modelli lavorativi di questi anni ’10 grazie alle esperienze delle grandi firme del giornalismo. Cinema, musica, digitale e design per un festival completamente social!
Destabilizzata, mutevole, sempre più digitalizzata e talvolta superficiale. Ma anche avventurosa, sorprendete, multimediale e imprevedibile. Da anni l’editoria giornalistica viene descritta attraverso le sue problematiche, quasi avvinghiata ad una criticità dalla quale sembra impossibile fuggire. Eppure il panorama italiano e internazionale propongono quotidianamente start-up produttive che forniscono delle risposte dirette ed efficaci a questo crollo di fiducia e introiti. In uno scenario che ci viene dipinto come catastrofico e irreversibile, sembra però indispensabile fare le necessarie distinzioni: prima fra tutte quella tra i grandi gruppi editoriali e le realtà più piccole e dinamiche. Perché sembrano proprio le prime a non essere state in grado di fronteggiare il cambiamento e coordinare una coerente trasformazione delle proprie strategie di marketing. Sono queste strutture pachidermiche a non aver governato le sfide della digitalizzazione e ad aver male interpretato l’integrazione fra informazione online e approfondimento offline. La seconda edizione di L.ink – Il giornalismo ai tempi dell’ePub vuole affrontare questi temi, insistendo sulle contingenti necessità del presente ma cercando un afflato verso le possibilità del futuro. Perché se la professione del giornalista sta mutando, allora dovranno mutare le necessità formative dei futuri operatori, così come le modalità di interazione fra le redazioni ed i propri collaboratori. Per analizzare questi effervescenti cambiamenti, L.ink propone quattro giornate di analisi e
confronto con alcuni dei più titolati professionisti del settore. Dai new media al design, dalla critica musicale a quella cinematografica, l’evento barese propone i seminari di 14 esperti provenienti da redazioni di tutta Italia. Assieme a loro analizzeremo le modalità di interazione fra carta stampata e digitale, provando a integrare questi due mondi attraverso la realtà aumentata e l’uso dei social media. Approfondiremo le professioni correlate al lavoro redazionale e comprenderemo come nasce un progetto editoriale a cavallo fra contenuti e design. Ci occuperemo inoltre di due branche del giornalismo legate alla cultura, la critica musicale e quella cinematografica. Ma soprattutto proveremo a tracciare un filo rosso tra le esperienze dei relatori per comprendere il flusso di informazioni che passa fra i diversi media e le eccezionali possibilità di questo lavoro. Il 2014 è partito all’insegna delle cattive notizie, con una filiera editoriale ridotta ai minimi storici ed un dato apparentemente definitivo: il 2013 ha rappresentato il nuovo minimo raggiunto dall’inizio del nuovo millennio. A farne le spese sono innanzi tutto coloro che da anni lavorano nell’informazione, privati di una professione a cui hanno dedicato anima e corpo. E sarebbe tempo di smetterla di parlare di “congiuntura negativa” e “crisi diffusa”. Il lavoro del giornalista è arrivato a un punto di non ritorno e deve essere ripensato secondo nuovi modelli realmente contemporanei. In questo senso ben si innesta il “Fondo straordinario per gli interventi di
sostegno all’editoria” con cui la Legge di Stabilità 2014 incentiva gli investimenti delle imprese editoriali, anche di nuova costituzione, orientati all’innovazione tecnologica e digitale e all’ingresso di giovani professionisti qualificati nel campo dei nuovi media. Ma ancor più fondamentale si rivela il necessario cambio di prospettiva con cui i più giovani dovranno avvicinarsi a questo lavoro. È infatti impensabile che la loro formazione possa ancora essere strutturata in funzione di metodi e approcci assolutamente decontestualizzati dalle realtà produttive del nostro tempo. Il giornalismo di oggi prevede competenze eterogenee, lavoro di squadra, compenetrazione di talenti, reale interazione fra nuovi e vecchi media. Richiede contenuti di concreto interesse per i lettori, che siano concepiti, strutturati e prodotti in maniera differente a seconda dei media su cui verranno fruiti. Padroneggiare le tecnologie del nostro tempo significa fornire strumenti sempre più personalizzati in base alle esigenze di singoli gruppi di lettori. Il che, innanzi tutto, deve portare a una diversificazione dei contenuti a seconda che si pubblichi su carta, su web, tramite app o augmented reality. Proprio come hanno fatto gli ospiti della seconda edizione di L.ink, persone che hanno interpretato la loro professione con la necessaria originalità, il giusto spirito di intraprendenza e l’essenziale capacità di lavorare in squadra. Tutti elementi di cui oggi abbiamo davvero enorme bisogno.
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APRILE 2013 Salone degli Affreschi Ateneo dell’Università degli Studi di Bari Piazza Umberto I, Bari
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GIORNALISMO E NEW MEDIA
GIORNALISMO E MUSICA
GIORNALISMO E DESIGN
GIORNALISMO E AUDIOVISIVO
Il futuro del giornalismo e lo strano caso della carta :: dalle ore 9 alle 13 Christian Rocca Direttore del magazine IL del Sole 24 Ore
L’informazione e la critica musicale tra fanzine, riviste e Internet :: dalle ore 9 alle 12 Stefano Isidoro Bianchi Direttore del magazine Blow Up
Giornalismo e design: la progettazione condivisa :: dalle ore 9 alle 11 Giovanni Anceschi Designer e fondatore del Gruppo T
La grande bellezza del giornalismo :: dalle ore 9 alle 12 Piera Detassis Direttrice di Ciak
Carta stampata e web: come si rinnova il linguaggio giornalistico :: dalle ore 15 alle 17 Luca Valtorta direttore di Xl di Repubblica
Le mutazioni in atto nel mondo radiofonico :: dalle ore 12 alle 13 Francesco Adinolfi RadioRai2
La realtà aumentata e il futuro dell’editoria multimedia :: dalle ore 11 alle 13 Vincenzo Recchia Direttore creativo Pool Giuseppe Morea Multimedia directore imood Italo Spada Consorzio CETMA
Il sistema editoriale: le sfide del nostro tempo :: dalle ore 17 alle 19 Emanuele Bevilacqua direttore di Pagina 99
Crossmedialità: il radioshow scorre sul web :: dalle ore 15 alle 19 Alessio Bertallot Conduttore radiofonico e televisivo
Post-editoria e editoria multimediale :: dalle ore 15 alle 18 Antonio Barrese Artista italiano di arte cinetica
Di cosa parliamo quando scriviamo di cinema? :: dalle ore 14 alle 17 Gianni Canova Giornalista, scrittore e direttore della rivista 8 1/2 Il web e la nuova frontiera del giornalismo cinematografico :: dalle ore 17 alle 19 Giancarlo Zappoli Direttore di MyMovies.it
ANTONIO BARRESE Artista italiano di arte cinetica
Verso un nuovo concetto di polimedialità L’informazione è il risultato di un connubio fra diversi linguaggi, in primis fra testo e immagine: quale deve essere il punto cardine nel lavoro di un designer nella realizzazione di un progetto editoriale? Ho l’impressione che l’editoria classica sia finita – o finirà tra poco –, che si sia evoluta in tempi velocissimi specialmente con le possibilità offerte da Html5. E non è che l’inizio! Nulla di nuovo sotto il sole, beninteso, anche i codici miniati, a modo loro, erano polimediali. Oggi non credo esista la centralità di un media o di uno “specifico”, in nessun’area della comunicazione. Per esempio non è più ravvisabile lo “specifico filmico”, essendosi il cinema trasformato in “video”, che è bel altra cosa. Da quando la musica si ascolta “guardandola” in Youtube, si è perso anche lo “specifico musicale”. Per questo il design editoriale si sta aprendo alla polimedialità, declinata in pluralità di media (multimediale) e di modi (multimodale). Informazione e social media sono ormai in strettissima connessione ed hanno rivoluzionato il concetto di storytelling, dunque di narrazione. Quali differenze trova rispetto al modo di presentare l’informazione nel passato? Lo storytelling non è stato “rivoluzionato” dai social media. È vero piuttosto che prima dei social media esso non esistesse, quindi non si può rivoluzionare qualcosa che ancora non esiste. Lo storytelling nasce dal volume informativo oggi reso possibile e dalle caratteristiche del “social”, basate su un’apparente immediatezza, veridicità, cordialità e familiarità: siamo tutti “amici”… Fino a pochi anni fa, una ventina, il segmento di comunicazione d’impresa affidato ai designer – la corporate image – si limitava ad elaborare,
trasmettere e certificare, in modo metaforico e simbolico, un sistema di valori, in genere sempre uguale: stima, affidabilità, competenza ecc. I tratti “narrativi” dell’azienda erano affidati agli uffici stampa che non sempre erano capaci di elaborare una storia coerente, fluida e rispondente. Spesso si limitavano a “narrare” momenti, eventi significativi, episodi e condizioni di crisi… Quindi l’identità, l’immagine e la narrazione erano largamente condizionati dalla rapsodicità, dall’occasionalità, dall’estemporaneità ed era più dovuta alla sommatoria di quel che il pubblico assemblava e capiva piuttosto che deliberatamente elaborata. Oggi, in ogni area della comunicazione, anche nell’area editoriale, siamo passati dalla metafora alla cronaca, dall’elaborazione alla chiacchiera spicciola (Facebook, Twitter). La frammentarietà è diventata un “meta-linguaggio”, una cifra e uno “stile”, una modalità che solo illusoriamente si controlla. Oggi è possibile arricchire ed esemplificare il sistema valoriale dell’emittente (azienda o media editoriale che sia) tramite un cumulo informativo che si configura, solo in parte deliberatamente, in una vera e propria storia (più o meno “veritiera”), rendendo le aziende molto simili alle persone, avvicinandole e facendole più amichevoli. Il concetto di verità, ovviamente, va preso con le pinze: nulla è oggettivo, tutto è costruito in modo artificiale e mediato. Lo storytelling più che reale è verosimile, più che “oggettivo” è plausibile… La verità non esiste prima del social media. Le domande ontologiche non si pongono al padreterno, ma alla rete. A Facebook si chiede chi siamo. Antonio Barrese sarà ospite del L.ink Festival dalle ore 15 di giovedì 3 aprile con il seminario Posteditoria e editoria multimediale
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STEFANO ISIDORO BIANCHI Direttore del magazine Blow Up
Web VS offline: due mondi in netta distinzione Il digitale è a tutti gli effetti il presente dell’informazione, in che modo può favorire la conoscenza e la divulgazione nell’ambito artistico? Per quanto riguarda l’informazione non ci sono dubbi che essa passi e passerà sempre più per vie digitali. Ciò che viene elaborato in ambiti artistici però non necessita solamente di informazione ma anche di critica, e sotto questo aspetto ho dubbi che il digitale, almeno per come si è profilato finora, sia in grado, per le sue specifiche caratteristiche, di eludere o sostituire l’informazione cartacea classica. La critica musicale - ed in particolare quella rock ha attraversato diversi momenti nella storia degli ultimi 40 anni. In un mercato così dispersivo, quale ruolo può ancora avere il critico? Il ruolo che può avere (che deve avere) il critico è quello dell’approfondimento e della ricerca sganciata dalle impellenze informative più immediate, che ormai passano per la rete. Informazione e social media sono ormai in strettissima connessione, quanto è importante il rapporto diretto coi propri lettori? Quanta influenza ha nella scelta dei contenuti? Su questo aspetto credo che la mia posizione sia un po’ defilata rispetto a quella maggioritaria che ritiene l’interazione diretta tra lettori e social media una caratteristica distintiva e persino inevitabile dei nostri tempi. Credo infatti che più andiamo avanti e più la distinzione tra lettori dell’uno e dell’altro medium stia diventando così netta e marcata da caratterizzarsi come una separazione. Più il tempo passa e più il pubblico, che ovviamente è partito dal medesimo background, si sta dividendo tra pubblico
della rete e pubblico cartaceo ‘tradizionalista’. Questo, naturalmente, dati alla mano, perché non si tratta di intuizioni o supposizioni ma della lettura delle statistiche nude e crude Stefano Isidoro Bianchi sarà ospite del L.ink Festival dalle ore 15 di mercoledì 2 aprile con il seminario L’informazione e la critica musicale tra fanzine, riviste e Internet
CHRISTIAN ROCCA Direttore del magazine IL del Sole 24 Ore
L’informazione digitale in Italia? Indietro anni luce. Al contrario di molti altri giornali italiani, IL del Sole 24 Ore riesce a integrare alla perfezione i contenuti con il progetto grafico. Quanto conta l’interazione fra la parte redazione e quella creativa nel lavoro giornalistico? La grande novità di IL è che nel lavoro redazionale non c’è alcuna divisione tra la parte tradizionalmente giornalistica e quella graficocreativa. La rivista viene creata e realizzata insieme. L’art director di IL, Francesco Franchi, è una specie di condirettore. I device multimediali, specie quelli in mobilità, stanno cambiando sia la creazione dei contenuti sia la fruizione dell’informazione: l’Italia è al passo coi tempi rispetto a quanto accade in Europa? Qual è lo stato della nostra informazione nel difficile lavoro di integrazione fra offline e online? Con l’eccezione dell’informazione tematica del Sole 24 Ore, strumento di lavoro sia su carta sia online, l’offerta digitale dei grandi giornali italiani è molto carente, decisamente più scarsa rispetto a quanto offrono su carta e non paragonabile a quanto succede all’estero. Il New York Times se ha una notizia o un’analisi o un commento la scrive subito sul sito, e la aggiorna costantemente, la diffonde sui social network, manda gli update nelle app e poi l’ultima versione viene pubblicata sul giornale di carta del giorno successivo. E se leggi l’app del NYT, come quella di altri grandi quotidiani, non distingui tra articoli usciti sul sito o sul giornale. È la stessa cosa. Noi siamo ancora all’età della pietra: le app sono sfogliatori di pdf statici, solo minimamente interattive; sui siti non trovi gli articoli del giornale, se non una manciata a discrezione della redazione
online; le home page sono stracolme di quelli che in gergo si chiamano boxini morbosi, gallery e video di donne e di ammiccamenti sessuali da tabloid, non da grandi giornali di qualità. Nessuno dei grandi giornali anglosassoni ci punta, solo noi. La roba seria, le grandi firme, gli scoop si trovano solo sul giornale di carta. Il gruppo del Sole 24 Ore sperimenta già da anni lo sviluppo di app per la fruizione dell’informazione. Quali elementi, a suo parere, si rivelano fondamentali nella redazione di articoli e contenuti multimediali per smartphone e tablet? In che modo l’informazione si sta evolvendo nell’utilizzo di questi device? Ovvio che se scrivi per il web devi scrivere in modo più diretto e asciutto; ed altrettanto ovvio che la carta si presta molto di più del web a una presentazione grafica più articolata capace di rendere unico ed emozionale l’oggetto che tieni in mano, ma in generale non vedo grande differenza nello scrivere gli articoli. Christian Rocca sarà ospite del L.ink Festival dalle ore 9 di martedì 1 aprile con il seminario Il futuro del giornalismo e lo strano caso della carta
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LUCA VALTORTA Direttore di XL di Repubblica
Informazione e social media: una rapporto da tenere in costante equilibrio Quale risorsa può rappresentare la promozione digitale per i musicisti che si accostano al mercato contemporaneo? Il digitale può costituire una possibilità incredibile per le giovani band consentendo di travalicare i confini geografici e di farsi apprezzare in ambito mondiale. È ovvio che la concorrenza è spietata ma esistono ormai molti esempi anche italiani di band magari sconosciute nel nostro paese che sono vere e proprie star in Giappone o negli Stati Uniti. L’altra faccia della medaglia è la dispersione: l’enorme disponibilità finisce per annullare la possibilità di una fruizione reale. Per questo ritornerà ad essere importante il filtro della critica. La critica musicale, a cavallo fra online e offline, mantiene ancora il grado di autorevolezza del passato? Scrivere di musica può ancora rappresentare un lavoro ben retribuito? Credo che il ruolo del critico tornerà ad essere fondamentale nel digitale ma ci vorrà tempo. Adesso siamo nella fase della dispersione in cui blogger e webzine cercano di trovare uno spazio spesso in maniera esageratamente aggressiva. Nel tempo torneranno a vincere i contenuti e questo determinerà una meritocrazia. Resteranno le realtà più serie e motivate ma è innegabile che una difficoltà esiste: al momento non si intravvede un modello di business in grado di supportarle permettendo di farle diventare realtà retribuite. Il rischio in effetti è che in questa fase di trapasso venga meno un certo tipo di giornalismo che non è solo quello della critica ma quello dell’esperienza su strada raccontata mirabilmente da film come Almost Famous di Cameron Crowe. Questa
mancanza rischia di essere molto penalizzante anche per gli aspiranti critici a cui viene a mancare un elemento caratterizzante dell’esperienza fondativa su cui poi esercitare le armi della speculazione. Quanto conta il rapporto fra una rivista e i propri lettori sui social? Che ruolo hanno oggi i media manager in una redazione? Credo che i social media siano ormai inestricabilmente connessi al media stesso. Per il momento davvero pochi in Italia riescono a utilizzarli in maniera proficua spesso a causa dell’impossibilità delle grosse strutture di utilizzare una voce univoca per costruire un dialogo. È e sarà sempre di più un lavoro difficile e di grande responsabilità ma anche in Italia nel futuro prossimo si comprenderà quanto importante sia utilizzare il social sia come veicolo di lancio delle iniziative del media ma anche come motore propulsivo del media stesso. Lavorare su un social significa prendere decisioni in continuazione. Decisioni delicate spesso su temi delicati. È un profilo giornalistico di tipo diverso da quello a cui i giornali sono soliti pensare ma non c’è dubbio che questo sarà uno dei lavori del futuro. Luca Valtorta sarà ospite del L.ink Festival dalle ore 15 di martedì 1 aprile con il seminario Carta stampata e web: come si rinnova il linguaggio giornalistico
GIANCARLO ZAPPOLI Direttore di MYmovies
Bene internet, ma l’incontro coi lettori rimane insostituibile In che modo il digitale può favorire la conoscenza e l’informazione nell’ambito artistico? Come è mutato l’uso di Internet in riferimento alla scrittura giornalistica? Può farlo solo se abbandona l’occasionalità degli interventi e la struttura secondo modalità che creino un’affezione da parte degli utenti. Troppi siti, in particolare in campo artistico, si sono fatti ammaliare nel passato dall’autoreferenzialità. Chi ci scriveva lo faceva soprattutto per dare uno sfogo, peraltro legittimo, al proprio bisogno di esprimersi. Quelli che sono sopravvissuti (al di là dell’utenza di amici e conoscenti) hanno dovuto modificare l’impostazione iniziale per aprirsi a un’ampiezza di contributi che fornissero a chi ne usufruiva un panorama il più ampio possibile. Quale ruolo ha oggi il critico cinematografico e quale grado di autorevolezza mantiene la sua firma? Nel film Quartet (regia di Dustin Hoffman) un tenore in pensione afferma che le opere d’arte sono destinate alla solitudine perché l’opinione del critico non riuscirà mai a raggiungerle. C’è del vero nell’affermazione ma c’è del vero anche nel fatto che le opere d’arte assolute sono sempre più rare. Quindi il critico un ruolo lo conserva ed è quello di fornire al lettore il proprio punto di vista motivandolo ogni volta. La stroncatura tout court non ha (e non ha mai avuto) senso così come la lode entusiastica. Entrambe (e anche tutte le variazioni che stanno tra questi due estremi) debbono essere accompagnate dall’esplicitazione del perché quel giudizio è stato formulato in quei termini. La ‘firma’ ha ancora un suo peso se, come
in tanti altri campi, l’utente percepisce l’onestà del recensore (anche quando sbaglia nel giudizio). Il digitale può migliorare il rapporto con i propri lettori? Internet colma la distanza fra una testata giornalistica e il suo pubblico? So di andare controcorrente ma non credo alla personalizzazione virtuale. Sarà perché ho una pluridecennale esperienza di conduzione nei cosiddetti cineforum e verifico ogni volta che il contatto diretto ‘reale’ crea opportunità di scambio assolutamente insostituibili. Quello virtuale (per cui il critico sembra comunicare direttamente al proprio interlocutore le proprie valutazioni) resta comunque privo della ricchezza e molteplicità di aspetti (anche gestuali) che solo l’incontro può fornire. Se il critico ha saputo impegnarsi ad esprimere i propri concetti in modo chiaro e comprensibile nella recensione ha già adempiuto al proprio compito senza dover creare ulteriori fidelizzazioni. Giancarlo Zappoli sarà ospite del L.ink Festival dalle ore 17 di venerdì 4 aprile con il seminario Il web e la nuova frontiera del giornalismo cinematografico
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Giramondo Keep Your Ears Peeled L’Europa e la musica: alla scoperta dei grandi festival
a cura di Lello Maggipinto
Un festival musicale è ben più della somma degli artisti che ospita. Gli incontri, l’atmosfera, la location e la line up concorrono a un risultato difficilmente spiegabile a chi non ha mai fatto un’esperienza del genere. L’Europa vanta una ricchissima tradizione festivaliera capace di attrarre giovani e meno giovani da ogni dove. Dall’esplosione del fenomeno, negli anni Sessanta, a oggi, lo slogan lanciato da Woodstock, «Pace, amore e musica», ha mantenuto intatta la sua attualità. La possibilità di scelta è vastissima ma, se si volesse restringere il campo, ecco i festival da non lasciarsi sfuggire per nessuna ragione.
Primavera Sound Festival Il primo appuntamento in ordine cronologico si svolge a Barcellona. Concepito nel 2001 per essere un festival di musica elettronica, il Primavera negli anni ha trovato una dimensione completamente diversa. Oggi, infatti, raccoglie il meglio della musica indie-rock e d’avanguardia. A partire dal 2005 la manifestazione si tiene al Parc del Fòrum e deve il suo nome al periodo in cui si svolge, che coincide con la fine della primavera. Nel suo genere è indubbiamente tra i più importanti festival in Europa, e lo confermano non solo una media di centocinquantamila spettatori all’anno, ma, soprattutto, line up irresistibili. L’edizione 2014 andrà in scena dal 28 al 31 maggio; in cartellone si leggono nomi come The National, Arcade Fire, Queens of the Stone Age, Pixies, Nine Inch Nails. Gli Slowdive si riuniscono per l’occasione, i Television suoneranno per intero il capolavoro Marquee Moon, e poi ancora ci saranno St. Vincent, Disclosure, Volcano Choir e tanti altri. La line up è stata presentata quest’anno per la prima volta all’interno di un cortometraggio. www.primaverasound.com
Isle of Wight Festival Il festival in questione prende il nome dall’omonima isola britannica situata nel canale della Manica. Nato nel 1968, dopo la terza edizione fu sospeso, per rinascere nel 2002. L’edizione del 1970 è passata alla storia: contò un seguito di seicentomila persone (Murray Lerner ne ha fatto il documentario Message To Love: The Isle Of Wight festival) e ha ospitato le ultime esibizioni di Jimi Hendrix prima della morte e dei Doors in Europa con Jim Morrison. Il festival dell’isola di Wight si caratterizza per la musica rock, ma eventi collaterali in giro per l’isola trattano anche altri generi. La manifestazione 2014 si svolgerà dal 12 al 15 giugno e ospiterà tra gli altri: Kings of Lion, Red Hot Chili Peppers e Biffy Clyro. www.isleofwightfestival.com Pukkelpop Festival In Belgio, a 7 km a nord di Hasselt, nella cittadina di Kiewit, ha luogo annualmente nel mese di agosto il Pukkelpop. La sua prima edizione è datata 1985 e, nonostante la giovane età, i suoi palchi hanno ospitato i migliori artisti della scena internazionale. Si distingue per la proposta ampissima di generi musicali: rock, pop, elettronica, hip hop, punk e heavy metal. La line up della prossima edizione (14-16 agosto) non è ancora completa, ma sono stati già annunciati i primi artisti: The National, Queens of the Stone Age, Editors, Macklemore, Portishead, Outkast ecc. www.pukkelpop.be/en
Glastonbury Festival La sua prima edizione risale al 1970 ed è figlio del movimento hippie e della controcultura inglese. Conosciuto prevalentemente per la musica, non vanno comunque sottovalutate le varie sfere di spettacolo che i 3,6 km quadrati di Pilton, villaggio nel Somerset, in Inghilterra, ospitano fra danza, commedia, teatro, circo e cabaret. Oggi rappresenta il festival europeo per eccellenza, e anche il più ricercato. Le ultime edizioni sono andate sold out nel giro di poche ore dall’apertura delle vendite – e a line up assolutamente sconosciute. La cosa non sorprende se si considera che il programma del Glastonbury non ha eguali. Dai confini ampissimi, ospita annualmente il meglio della scena musicale di ogni genere: dal rock all’elettronica, dall’underground al mainstream. La scaletta dell’edizione 2014, che si svolgerà dal 25 al 29 giugno, è ancora un mistero, ma per farsi un’idea basterà dare uno sguardo alle precedenti manifestazioni. Nel cartellone della scorsa edizione, tra i tantissimi, il nome dei Rolling Stones non lascia certo indifferenti.
Sziget Festival Il nostro giro europeo alla scoperta dei più importanti festival musicali continua sull’isola di Obuda, tra le acque del Danubio, precisamente a Budapest, in Ungheria. Lo Sziget nasce nel 1993 come rassegna di gruppi locali. Negli anni è cresciuto incessantemente: oggi offre un cast mozzafiato e vanta il primato di presenze in assoluto al mondo. A rendere unico il festival ungherese ci pensa anche la durata di ben una settimana (quest’anno la manifestazione andrà in scena dall’11 al 18 agosto). Oltre a proporre il meglio della scena musicale d’ogni genere, la manifestazione sa essere un evento multimediale aperto a ogni forma artistica, di tendenza e d’incontro culturale. La settimana alterna relax, momenti d’interesse e divertimento sfrenato con teatro, proiezioni video-cinematografiche, danza, esibizioni circensi, artisti di strada e manifestazioni sportive, attrazioni di ogni genere e concerti. Tra gli headliner già annunciati: Queens of the Stone Age, Placebo, Prodigy, Calvin Harris, Bastille, London Grammar e tanti altri.
www.glastonburyfestivals.co.uk
www.szigetfestival.com
Hurricane Festival Giungiamo così in Germania, a Scheeßel, un paesino vicino Brema, che sul finire di giugno ospita l’Hurricane. Nato nel 1973 con il nome di Es rockt in der Heide, la successiva edizione si svolse solo quattro anni dopo sotto altro nome (First Rider Open Air), ma si concluse in scontri e manifestazioni dei partecipanti. Gli ampi spazi della cittadina tedesca tornarono a ospitare musica solo nel 1997, proprio con il nome di Hurricane. Le ultime diciassette edizioni hanno conosciuto una continua evoluzione della manifestazione, e da line up di nicchia si è passati a cartelloni sempre più importanti. L’edizione 2014 avrà luogo dal 20 al 22 giugno, e tra gli headliner ci sono: Arcade Fire, Volbeat, Macklemore, The Black Keys, Franz Ferdinand e Pixies. www.hurricane.de/en
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La nostalgia colorata Viaggio nel cinemondo di Wes Anderson a cura di Leonardo Gregorio
«Vedo una volpe su una motocicletta, con una volpe più piccola e quello che sembra essere un opossum nel sidecar. Sono diretti a nord… Vi sembra che possa essere importante?», chiede un tizio, via radio, da un elicottero, al suo boss capitalista senza scrupoli che vuole in tutti i modi eliminare quel Fantastic Mr. Fox (2009) in stop motion, marito e padre, povero ed ex ladro di galline, poi giornalista ma consapevole di essere pur sempre «un animale selvatico» che alle galline prelibate proprio non riesce a resistere. E magari potrebbe davvero bastare questo per (cercare di) capire dove siamo, forse non servirebbe aggiungere altro, come se semplicemente questa immagine, queste battute, in pochi secondi, racchiudessero in una strana, misteriosa sintesi il cinema di Wes Anderson, la diversità, che è la stessa dei suoi personaggi, lo stare da un’altra parte. Perché, come scrive Carlo Chatrian su «Duellanti» (dicembre, 2012), «per Wes Anderson il cinema è un’isola. Uno spazio separato dalla terra che si calpesta ogni giorno, e che coltiva la propria indipendenza. Ciò che può essere scambiato per stravaganza, humour lunare o gusto retrò è invece una condizione essenziale, una lingua comune che rinsalda l’identità della piccola nazione costruita film dopo film». Così lontano, dunque, eppure così vicino è il mondo, e così il cinema del regista texano assomiglia a un segreto incastrato fra la realtà e la finzione, è una storia, un’avventura, la necessaria materializzazione di un immaginario fuori norma, dondolante. E l’avventura è di certo territorio della mente. E del cuore: «Quando un uomo, per qualunque ragione, ha l’opportunità di condurre una vita straordinaria, non ha alcun diritto di tenersela per sé», sono le parole in un libro dell’oceanografo e cineasta francese Jacques-Yves Cousteau che catturano l’attenzione dello studente dalle mille attività
(tranne lo studio) Max Fischer – ammesso, ovvio, alla scuola dei ricchi per aver scritto un atto unico sul Watergate ai tempi della seconda elementare – e lo conducono poi all’amore per la bella insegnante in Rushmore (1998). Ma è un’avventura che inizia ancora prima, già dagli improbabili protagonisti di Un colpo da dilettanti (1996), in precedenza un corto, e che diventa successivamente un ritrovarsi, un riavvicinamento (della famiglia), e infine una nuova ricerca nel fortunato I Tenenbaum (2001), per proseguire poi sulle rotte stabilite da Bill Murray, deciso a catturare lo ‘squalo giaguaro’ nelle Avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), omaggio ironico a Cousteau, sorta di figura mitica, di leggenda; poi l’avventura arriva fino alle rotaie, e all’India che rimette insieme i tre fratelli del Treno per il Darjeeling (2007), fino ancora al mondo di animazione in Fantastic Mr. Fox, per arrivare alla fuga, all’isola di Moonrise Kingdom (2012). Cinema che si dipana come (il racconto di) una scoperta, luogo inventato dove abitano alla fine sempre gli stessi umori cangianti, volti e corpi o anche solo voci di attori che ritornano (Bill Murray, Luke e, soprattutto, Owen Wilson, Jason Schwartzman, Anjelica Huston, Willem Dafoe ecc.), il sentimento e la lontananza di ogni cosa, il tentativo di colmare i vuoti, l’agrodolce teatro di figure ora in posa ora in movimento, il feticismo degli oggetti che porta il mood del disincanto a specchiarsi nelle zone di un incanto tutto privato, di tende che si aprono e si chiudono, nella messa in scena di un altro mondo, disegno di geometrie compositive a nascondere sempre qualcosa. L’inquadratura è sempre una domanda velata, mentre la fantasia, quel cinema così serio da diventare gioco, cerca ingenuamente di darsi dei perché: «Io creo regole in maniera ossessiva. Ho delle regole strane, inutili. Pretendo che i film siano quasi come la matematica. Ma solo per quanto
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riguarda gli aspetti che hanno a che vedere con la macchina da presa, i tagli, il modo in cui viene usata la musica e cose del genere; non quando si tratta dell’interpretazione». Dichiarazioni del regista rilasciate diversi anni fa a Rick Lyman del «New York Times», nell’ambito di un’intervista confluita, insieme ad altre conversazioni con varie personalità del cinema USA, in un’antologia uscita poi anche in Italia (Il mio film preferito. Al cinema con le star, Elleu Multimedia, 2004). Parole, quelle di Anderson, qui ruotanti attorno al suo film del cuore, Gli anni in tasca, di un Truffaut che torna al ricordo, all’infanzia, ai rapporti con gli adulti, al cinema… «Sembra quasi», racconta Wes, «il tipo di film che si guarda con un proiettore a 16 millimetri in una biblioteca scolastica, o qualcosa del genere. E poi, c’è una sorta di legame che nasce dal fatto che io ho quasi la stessa età di molti dei ragazzini del film. Anche se il film si svolge in Francia e io sono cresciuto a Houston, risale allo stesso identico periodo della mia infanzia». Ma è soprattutto in un punto, proprio quel punto che considera l’unico svincolato dalle regole che si dà come cineasta, applicate altrove nelle sue opere, che Anderson, fra le forme e i tempi così diversi e distanti, sente il contatto con Truffaut. Sempre a proposito degli Anni in tasca, spiega, infatti: «C’è un aspetto di questo film verso il quale sento un’affinità totale. Si tratta della libertà degli attori. Tranne in quei casi strani in cui faccio piegare gli attori per farli restare nell’inquadratura, quando gli attori recitano una scena, cerco di girarla in modo che siano quanto più liberi». Ed ecco che, all’improvviso, Fantastic Mr. Fox potrebbe apparire come il reale proseguimento, anzi la radicalizzazione di questo discorso, una sorta di compimento, di (ri) definizione di un’idea, di una immagine dentro il
pensare il cinema. Se fosse davvero questo, insomma, oltre i corpi e gli attori, il suo lavoro più ‘truffautiano’, dove l’animazione consente, per citare ancora Chatrian, «una relazione più libera con gli spazi»? Forse. Ma poi poi arriva Moonrise Kingdom, e Truffaut diventa il desiderio; la fuga è un viaggio à Le Temps de l’Amour di Françoise Hardy, perché l’amore fugge nelle gambe dei piccoli Susy e Sam, mentre le labbra iniziano a parlare la lingua del french kiss. È l’avventura più bella e più coraggiosa, l’Anderson più anarchico e libero, mai così dolce come qui, dove la levità assurge a meraviglia in un cinema che sa perdersi come i suoi protagonisti, che è in grado di guardare con i loro occhi. E, sempre, i suoi occhi li spalanca anche quando il mondo, ovunque si trovi, qualunque esso sia, diventa per un attimo più piccolo di ciò che è, contenuto nei cortometraggi Hotel Chevalier (2007) e Cousin Ben Troop Screening with Jason Schwartzman (2012), o rintanato negli spot/corti per Prada. E, allora, anche passare dall’Italia anni Cinquanta negli 8 minuti di Castello Cavalcanti (2013) all’immaginaria Repubblica di Zubrowka in una Europa tra le due guerre mondiali nel lungometraggio Grand Budapest Hotel (Gran premio della giuria a Berlino 2014 e nelle nostre sale dal 10 aprile) è in fondo un ritorno o un rimanere, alla fine, sempre sulla stessa isola. Perché il viaggio è sempre altrove.
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Asparagi, vagoni e case di bambole Il sesso raccontato dalle donne nel cinema d’animazione d’autore a cura di Saba Ercole
Blog: lascatolablu.tumblr.com Facebook: www.facebook.com/lascatolablu In alto, un disegno di Sawako Kabuki
Il sesso, trattato e mostrato in modo esplicito, ha fatto il suo ingresso nel mondo del cinema d’animazione sin dai primi anni Venti del Novecento: del 1929 è l’infamous Eveready Harton in Buried Treasure, storia delle bizzarre avventure di un uomo dagli appetiti decisamente insaziabili. Da allora, sia lungometraggi (si pensi a un capolavoro raffinato come Kanashimi No Belladonna di Eiichi Yamamoto) che prodotti seriali, sia opere spiccatamente commerciali che più decisamente sperimentali hanno affrontato l’argomento.
Più recentemente, una casa di produzione francese, la Sacrebleu Productions, ha deciso di lanciare una vera e propria serie di cortometraggi animati tutti dedicati a questo tema. Niente di nuovo sotto il sole, se non si considera la vera novità di questo progetto, chiamato ‘Sexperience’: ad essere contattate sono state esclusivamente donne che lavorano come animatrici, e questo perché il progetto è spiccatamente orientato a dare spazio alle fantasie erotiche del genere femminile. Perché si sa che le donne di sesso parlano, ne leggono, e lo ricercano anche nelle opere cinematografiche, ma ancora poche volte hanno potuto dire la loro su di un argomento a proposito del quale, anche in animazione, il punto di vista è sempre stato prevalentemente maschile. Quando l’animatrice Suzan Pitt, nel lontano 1979, inizia a far circolare Asparagus nelle sale (per due anni il suo cortometraggio è
stato proiettato con il film di David Lynch Eraserhead), porta all’attenzione del pubblico non solo una delle opere più surrealiste e misteriche della storia dell’animazione, ma realizza altresì uno dei primi corti animati girati da una donna che parla esplicitamente di sesso. Sesso e pulsioni sessuali, ma in un contesto così intriso di riferimenti simbolici e atmosfere oniriche da far venir meno qualsiasi mero piacere voyeuristico, a vantaggio di una riflessione che si amplia ad ogni nuova visione dell’opera. Una donna misteriosa si aggira in una casa dove il senso di horror vacui è accentuato dall’utilizzo di colori accesi e saturi. Rosso soprattutto, come il sesso femminile, che contrasta volutamente con il verde dei gambi di asparago o con il corpo di un serpente, elementi dal chiaro simbolismo fallico. Gambi di asparago compongono il titolo, si nascondono dietro la poltrona di una casa di bambole, spuntano nel misterioso giardino
della donna, colorato, pacchiano e pieno come una ricca natura morta seicentesca. Gambi di asparago vengono accarezzati e afferrati lascivamente da questa signora senza volto, che si aggira in stanze misteriose mentre sembra ingannare l’attesa prima che inizi lo spettacolo teatrale a cui si recherà, per riversare sugli spettatori colori e figure mostruose. Il film di Suzan Pitt riesce, come poche opere, a infondere un senso di inquietudine reale e profondo, accentuato anche dalla colonna sonora, composta da poche note elettroniche che si ripetono nel loro corpo principale e collocano l’opera in una dimensione che non si saprebbe definire di sogno o di incubo. Dei sogni più intensamente spaventosi Asparagus condivide il senso di enigma senza fine e una specie di bulimia dell’immagine, che porta costantemente alla replica di se stessa. Tutto è bulimico in quest’opera: i
colori saturi, i fiori giganteschi del giardino, il corpo e la capigliatura della donna, la casa di bambole che riproduce fedelmente l’abitazione. Anche il volto della misteriosa signora, musa inquietante che ricorda i quadri di De Chirico, è eccessivo nel suo vuoto assoluto. In Asparagus il sesso è una pulsione, indefinita come il volto della donna, più simile al processo creativo che a un primordiale istinto. Da questo punto di vista è indicativo che il teatro e i suoi spettatori vengano rappresentati in modellini e pupazzi animati in stop motion, a differenza del resto dell’opera, animata in 2D: il teatro è il reale, il tangibile, in cui questa Lilith senza occhi riversa sugli uomini la sua eredità di sogni e di terrori. Ancora di sesso, senza alcun riferimento metafisico, parla la serie di quindici brevissimi cortometraggi (della durata di un minuto ciascuno) girati dall’animatrice Signe Baumane, Teat Beat of Sex. Protagonista di
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A destra, un disegno di Suzan Pitt Sotto, un disegno di Sawako Kabuki
tutta l’opera è Cynthia, definita dalla stessa animatrice una «ragazza della porta accanto», che mette a disposizione degli spettatori le sue esperienze sessuali con humour e leggerezza. Ciò che ha di realmente sovversivo questa serie è il fatto che Cynthia parli senza alcuna remora o pudore di argomenti che espressi dalle labbra di una donna costituiscono per molti ancora un tabù in quanto, malgrado tutte le rivoluzioni culturali possibili, la condotta morale difficilmente viene dissociata da quella sessuale, quando si tratta di una donna. La protagonista di Teat Beat of Sex, però, con schiettezza e ironia, dimostra proprio il contrario, ed emblematico è l’episodio dedicato alla masturbazione: pur di non cedere a qualcosa che le hanno detto essere una colpa, Cynthia cerca sfogo tra le braccia di un uomo conosciuto a una festa. I due si sposano, ma ben presto quello che sembrava essere il principe azzurro si rivela un uomo spregevole. Morale della favola: la
masturbazione le avrebbe evitato un incontro sfortunato! Anche lo stile di questi cortometraggi, a un primo approccio, finisce per cogliere di sorpresa lo spettatore prima di metterlo a suo agio. I disegni della Baumane sono volutamente semplificati, coloratissimi, infantili. La stessa Cynthia, pur non risparmiandosi e non risparmiandoci nulla delle sue esperienze, rende il tutto meno ‘scabroso’ di quello che potrebbe sembrare grazie al suo irresistibile senso dell’ironia: dovendo parlare delle sue paranoie per un fidanzato fin troppo dotato, Cynthia lo rappresenta come attaccato a un’enorme, ingombrante valigia, e a lui preferisce un ragazzo di ben più modeste virtù fisiche. Il senso di straniamento, dunque, non è solo nel sentire la ragazza della porta accanto parlare così spudoratamente delle sue fantasie o nel vedere un disegno così ‘bambinesco’ associato a argomenti così
espliciti, ma anche nel modo in cui certi canoni dell’immaginario sessuale comune vengono completamente sovvertiti. Se Cynthia destabilizza con la sua schiettezza senza pudore, ma proprio per questo estremamente pura, ancor più di sorpresa ci coglie la protagonista di Tram, cortometraggio dell’animatrice Michaela Pavlatova, vincitore del festival di Annecy 2013 nonché primo titolo del progetto ‘Sexperience’ della Sacrebleu Productions. In Tram le fantasie sessuali di un’autista simpatica e grassottella, ingabbiata in una routine grigia e anonima, diventano strumento di totale trasfigurazione della realtà. Una trasfigurazione erotica, in cui il metallo e la plastica del veicolo diventano carne pulsante che ricerca il piacere, palcoscenico di virilità mostrate in cui questa donna si aggira felicissima. In questo corto, decisamente divertente, è interessante notare il lavoro che la
A sinistra, un disegno di Michaela Pavlatova Sotto, un disegno di Signe Baumane
Pavlatova fa con i colori: in un’animazione dove tutto è completamente dominato dai toni del grigio e dalle linee lunghe e sottili, a stagliarsi come una pozza di colore è proprio il corpo morbido e generoso dell’autista, unica fonte di colore vivo, caldo e squillante, a cui però nessuno bada. E il sesso, questa danza di blu, fucsia e rosa che avvinghia la donna, è l’unico reale momento di colore, di vita, che solo un viaggiatore è in grado di cogliere. Non abbiamo qui una carnalità sublimata dal simbolismo come in Asparagus; piuttosto, c’è in questa visione della sessualità come momento di puro piacere e divertimento qualcosa che accomuna Tram ai cortometraggi di Signe Baumane: sia Cynthia che questa autista sono donne che, come mille altre, sognano ad occhi aperti le proprie fantasie alle quali, con piacere, soccombono. Il sesso come divertissement nel grigiore
del reale, dunque, ma non ci vuole nulla a trasformarlo in uno strumento di vendetta osceno e terribile, come quella che ha architettato l’animatrice giapponese Sawako Kabuki ai danni del suo ex fidanzato nel cortometraggio Ketsujiru Juke, prodotto nel 2013. Solo pochi mesi prima, nell’opera Ici, là e partout, la Kabuki aveva tracciato con un disegno sottile ed elegante una storia d’amore e di poesia, inneggiando a quel sentimento che «è una cosa meravigliosa che abbellisce la vita ma non è sempre visibile». Troppo fugace, come dimostra il film successivo, Ketsujiru Juke, in cui vengono meno le note dolci, i cuoricini rossi e le eteree figurine che si baciano per cedere il posto a un film che sembra un video musicale. La colonna sonora è un motivo elettronico da discoteca; i disegni, pur conservando il tratto stilizzato del precedente cortometraggio, si colorano di campiture acide e vibranti (verde, giallo, celeste,
fucsia). Il sesso qui è usato per tracciare il ritratto impietoso, furioso, di un amore finito; un amore in cui i giorni passati altro non sono che ‘merda’ e la figura dell’amato è ridicolizzata, volgarizzata all’estremo, diventando una ‘faccia di culo’. La sessualità anale e oscena di Sawako Kabuki è volutamente sgradevole e, a fine corto, è difficile stabilire esattamente che cosa si sia guardato oltre a un grido furioso, una serie di improperi, una esaltazione del contrario dell’amore. Se in Ici, là e partout la dimensione sessuale appare come un suggello, delicato e prezioso, di due anime che si incontrano, in Ketsujiru Juke si ha un brutale ribaltamento: la dolcezza è sostituita dal furore e la sensualità da un sesso volgare e privo di piacere, volutamente pornografico, esaltazione di quel sesso senza amore che i più ritengono impossibile per una donna ritrarre.
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L’incolumità del pubblico è un’incognita Fratto_X: il nuovo spettacolo della coppia Rezza-Mastrella a cura di Marilù Ursi Definire uno spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è di per sé una contraddizione per motivi, ancor prima che pratici, meramente estetici. Tracciare dei contorni che delimitino e definiscano l’incontenibile genialità e la strabordante energia fisica di Fratto_X sarà un’esperienza limitata, frammentaria e incompleta poiché rimane un mero tentativo. Come già per le produzioni precedenti della coppia artistica romana, il materiale di lavoro è pura energia del corpo nello spazio che rinuncia a una pretesa di narratività e si apre a soluzioni infinite; il filo del discorso narrativo viene considerato «lo stesso filo che ti impicca» quindi sfilato e destrutturato. Fratto_X contribuisce a creare, dopo il precedente 7-14-21-28, un codice di ideogrammi spezzettato, ancora un tentativo di linguaggio, un’apertura verso qualcosa di sensato che rimane però lontano e indecifrabile. La X dell’incognita è posta dopo un fratto che semplifica la natura del soggetto, riducendola a minimi termini. La X come incrocio di due linee è la forma in cui abitano due corpi in corsa sul posto durante lo spettacolo: «una forma del genere sarebbe stata inconcepibile senza la demenza, senza la demenza sarebbe stata solo una buona forma, senza la forma saremmo sembrati
due dissociati», e qui crolla anche l’ultima certezza, ovvero la forma. Cosa rappresenta in definitiva questa frazione? L’incognita, la risposta a tutte le domande che vengono poste durante la messa in scena, una risposta che non c’è, un punto agli interrogativi, dall’esilarante fascino comico, sempre legati alla duplicazione e moltiplicazione dei piani fisici e vocali di Antonio Rezza, vero e proprio performer – come ama definirsi. Un’esperienza creativa che non ha nulla a che vedere con il mestiere dell’attore tradizionale: il riportare, riferire e interpretare sentimenti, stati d’animo. Si tratta di mutarsi in materia dall’energia travolgente, abbandonare la narrazione in funzione dello sfinimento del corpo, togliendo ogni sovrastruttura di messaggi e interpretazione e prendendo letteralmente a schiaffi il pubblico, che è perfettamente inserito nella dimensione che Antonio Rezza gli assegna: «qui si paga e si subisce». L’ultima fatica creativa della coppia Rezza-Mastrella parla della dell’induzione e della manipolazione; in questo modo l’habitat creato da Mastrella coercizza e manipola il corpo di Rezza eliminando ogni sintomo di naturalezza e creando una perfetta occasione per iniziare il gioco di ruoli che modifica, sdoppia e moltiplica la personalità del performer,
dimezzato o defraudato da parti del corpo, quindi indotto a una monomania compulsiva e sfrenata. In scena anche Ivan Bellavista, marionetta dal corpo deformato, mummificato, e voce costantemente diretta dal performer dalle velleità ventriloque, vittima prediletta dell’esilarante personaggio dell’Ansia e doppio della sindone a confronto con una versione nana della stessa. Un altro ‘attore’ fa deflagrare definitivamente ogni tentativo di mettere in scena un’umanità integra e sana. Si tratta di un essere meccanico e telecomandato, vittima del comico e atroce prologo dello spettacolo che si apre sull’affermazione: «La spensieratezza va stroncata alla nascita». Taxi persi che causano disperazioni esagerate; crisi identitarie di un qualsiasi Mario, Rocco e Rita che si scambiano le parti fino a parodiare loro stessi; la persecuzione dell’ansia; forma e demenza sempre a braccetto; la metamorfosi di due uomini in uccelli; saluti deformati da braccia con lunghezze diverse; crisi di coppia causate da doppiaggi reiterati; Rita da Cascia che si interroga sulle sue origini; Barbapapà e la sacra sindone che scoprono parentele impensabili; paradossali guerrieri armati di specchi che illuminano il pubblico rendendolo protagonista di vicende assurde: queste le picaresche avventure
che si alternano sulla scena. Il successo della coppia artistica Rezza-Mastrella sta proprio nel rapporto che riesce a instaurare con il pubblico, un pubblico al quale non viene risparmiato nulla ma che è parte integrante e imprescindibile dello spettacolo. Rezza provoca continuamente gli spettatori, li lascia al buio in balia di loro stessi senza che accada nulla e poi si pavoneggia del fatto che «facendo lo stronzo» li soddisfa pienamente; li insulta e li coinvolge in situazioni del tutto paradossali e imbarazzanti eppure non può fare a meno di loro perché ammette che è «il riso l’energia propedeutica allo spettacolo», il cuore pulsante della sua performance sono proprio quegli spettatori spesso oggetto di insulti e rimproveri. Si crea in questo modo un rapporto davvero unico tra Rezza e il pubblico in sala, un rapporto che esplode a fine spettacolo con applausi a scena aperta, urla di approvazione e abbandono di ogni formalismo retorico, di inchini e ringraziamenti convenzionali: Rezza come una rockstar alza le mani al cielo saltellando esaltato dall’esito della performance senza mai tralasciare la sua verve provocatoria e magari mostrando il sedere alla signora impellicciata in prima fila.
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Intervista ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella a cura di Marilù Ursi «Io sono il mio tamburo e mi suono a modo mio»: è una nota allo spettacolo Bahamut, che state riproponendo in giro per l’Italia con il resto dell’Antologia. Antonio, puoi spiegare questa definizione? Antonio Rezza: Se la spiego è finita, è una semplice presa di proprietà. Siamo noi i padroni della nostra disfatta. Flavia, hai parlato del vostro modo di fare teatro come qualcosa che si basa in primis sul vostro gioco e sul vostro diletto: «Non è mai una realtà stabile, ma aperta ad altre interpretazioni». Credi sia questo il segreto del vostro successo con un pubblico così eterogeneo? Flavia Mastrella: In parte; è il metodo in realtà che porta a una comunicazione stratificata. Noi facciamo una comunicazione che si avvale dell’arte figurativa in tutte le sue parti, si tratta di una serie di linguaggi che coincidono e lasciano poi a ognuno la possibilità di interpretare la sua realtà. È molto più complesso il discorso della comunicazione per più strati di età. Non nasce dal nostro rapporto, questo fatto di ipercomunicazione, nasce da un lavoro di attenzione alla comunicazione in sé. Sulla funzione degli habitat Flavia ha parlato di «arte applicata alla drammaturgia»: come si manifesta questa definizione al momento della creazione di uno spettacolo? L’atto performativo nasce in funzione di quello scenografico o viceversa? (A.R.) Io inizio a creare prima che Flavia mi offra degli habitat, ma sono pronto alla rinuncia di quello che sarà inutile. Io faccio cose che non vedranno mai la luce. La nostra è una creazione relazionale…
(F.M.) …un percorso creativo che si va a collegare alla fine. Viene prima l’ambiente, l’habitat, poi Antonio rinasce in un nuovo mondo; l’atto performativo è legato all’habitat come la vita che trascorre in un luogo: sono due elementi intimamente legati. Se la terra fosse disabitata non ci sarebbe nessuno a interpretarla. Copeau parlava di contrainte come effetto di resistenza utile alla creazione; considerare le strutture sceniche di Flavia come uno strumento che offre al performer questo tipo di contrasto creativo potrebbe essere un modo per leggere la struttura dei vostri spettacoli? (F.M.) Io preferisco l’ipotesi della macchia di Rorschach, una libera interpretazione senza induzioni. (A.R.) Queste macchine, questi spazi che Flavia realizza, inducono effettivamente a delle difficoltà, è come trovarsi in un posto da dove non si può uscire rifiutando ogni possibilità all’interazione. Lo spazio funge da contrasto o problema per i personaggi in scena? (A.R.) In fondo non c’è bisogno che lo spazio crei problemi ai personaggi perché i personaggi se ne creano già abbastanza da soli. Flavia ha dichiarato di ispirarsi ai tagli di Lucio Fontana e alle immagini antropomorfe dei grilli medievali; quali sono, se ci sono, riferimenti per Antonio Rezza? (A.R.) Non posso dire di avere dei riferimenti precisi, ammetto che alla lunga alcuni nomi tornano, come ad esempio una vicinanza all’idea di teatro che aveva Artaud, un nome che sono spesso gli altri ad accostare al nostro modo di fare teatro; io, personalmente,
ritengo che Artaud sia talmente affascinante da non doverlo neanche leggere! Il vero dato di fatto è che non ho riferimenti precisi anche perché, fino a prova contraria, non c’è nessuno a parte noi in questo momento che abbia invaso lo spazio con qualcosa che fosse paragonabile alla nostra anarchia. Vorrei sapere chi lotta come facciamo noi, la nostra unicità è dovuta anche al fatto di avere un pubblico che ci segue da anni solo per merito nostro. Un pubblico che abbiamo coltivato per ventisette anni perché questo Paese di merda non tutela il genio e ha orrore di chi ha idee diverse. Hai parlato di riconoscimenti «arrivati con ventisei anni di ritardo» a proposito dell’Ubu e del premio ‘Hystrio’; l’Italia è un Paese su cui grava il peso di un ritardo cronico: come vivi questa condizione? (A.R.) I premi non servono a niente. In questo Paese se sei un genio e fai cose uniche, che altrove non esistono, non trovi spazio. Non vengono dedicate le prime pagine dei giornali a ciò che è realmente innovativo, si fa fatica ed essere intervistati dai canali istituzionali senza capire che la novità è importante. La questione è ben più grande, non è un problema solo nostro, investe tutti i campi perché chi ha delle idee innovative dovrebbe essere facilitato nella comunicazione, e invece la paura del nuovo è tale che molti geni restano nelle retroguardie. Il vostro teatro abbandona la narrazione e la supremazia dell’autore; gli spettacoli che concepite sono contro questa idea performativa tradizionale? (A.R.) Direi che non ci muove l’abbandono di un certo tipo di teatro ma il fare al massimo quello che sappiamo fare. Non andiamo contro qualcosa in
maniera aprioristica, le nostre creazioni sono ciò che in noi è spontaneo, sono la nostra natura. (F.M.) Di certo non amiamo l’estetica corrente, non ci riconosciamo in questa, mettiamo in moto delle energie nei nostri spettacoli e lo facciamo con consapevolezza e serietà. …questa energia è sprigionata da una fisicità strabordante in scena: come affrontate l’idea del corpo che cambia e invecchia? Come pensate si evolverà il vostro teatro tenendo presente questo aspetto? (F.M.) Probabilmente ci muoveremo verso un panorama elettronico, e comunque già ora entrambi ci rivolgiamo anche altrove; facciamo cinema, Antonio scrive romanzi, io mi occupo di arte figurativa. (A.R.) Il mio corpo ancora non invecchia, resiste, me ne rendo conto ogni volta che metto in scena l’Antologia: per ora non cede, e quando cederà vedremo; ci trasformeremo. Ci fermeremo solo se dovesse calare la vena artistica, se non dovesse più piacerci quello che facciamo.
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The Walking Dead: il nemico cammina dentro di te La serie tv metafora dell’età della prestazione a cura di Valeria Martalò
The Walking Dead, serie tv vincitrice di numerosi premi, non è solo l’ennesima riproposizione splatter di una storia sugli zombie, e non risiedono forse solo nelle scene cruente le ragioni del suo successo di pubblico: a ben vedere, può essere anche una cartina al tornasole dei cambiamenti più profondi della nostra società. Innanzitutto il tema dell’epidemia zombie si declina, qui come altrove, nella riflessione sull’umanità abbandonata a se stessa, che pian piano cerca di ricostruire una vita degna di essere chiamata tale. I protagonisti (tre o quattro – gli altri vengono prontamente decimati nel corso delle puntate) sono degli umanissimi eroi, uomini semplici che tentano di mantenere una parvenza di umanità pur in tanta desolazione. Ma ci sono anche i cannibali, i predatori, e tutte le sfumature di atteggiamenti di chi fa proprio il detto mors tua vita mea: come in ogni pandemia che si rispetti, non c’è né legge né giustizia. Ma se le epidemie sono sempre state motivo di trattazione artistica, Walking Dead si può ricondurre a un filone che intende la malattia come connaturata all’uomo: minaccia interna e non esterna. Lo schema è sempre lo stesso: contagiodisperazione-perdita di umanità-decadenza e corruzione-rinascita (?). È un modello che si ripete
nei secoli; d’altra parte la peste è una costante nella letteratura greca e latina, la ritroviamo in Omero e in Tucidide, in Lucrezio e in Virgilio; facendo un salto temporale, oltre al morbo in Manzoni, La peste di Camus è un caposaldo della letteratura del Novecento. Nella maggior parte dei casi citati, il ‘nemico’ è sempre esterno: in Omero il «feral morbo» è una punizione divina, in Tucidide proviene dall’Etiopia; per Virgilio si diffondeva nell’aria, in Lucrezio è manifestazione della natura indifferente. Nel caso di Walking Dead, invece, il nemico è interno, e lo è per due volte: sia perché i protagonisti si trovano ben presto a temere più i vivi che i morti viventi (ci sono cannibali e predatori ovunque, ben organizzati e carichi di armi), sia perché l’origine della malattia questa volta è connaturata all’uomo stesso. Come ha dichiarato il creatore della serie a fumetti, Robert Kirkman: «La regola è: qualunque sia la cosa che ci trasforma in zombie, è qualcosa che ognuno ha già dentro di sé». In effetti, a differenza di tanti altri zombie movie, qui gli umani muoiono perché sono già infetti, ciascuno di loro è portatore sano di un morbo che si manifesta non appena sopraggiunge la morte. Il nemico allora in questo caso non è più esterno, ma interno all’uomo stesso. Sulla scia di Romero, la malattia non è qualcosa che minaccia la società, ma la manifestazione di una corruzione esistente.
Così anche nel romanzo di Saramago Cecità (1995), la pestilenza era più morale e interiore che esterna: si trattava di una cecità bianca che colpiva tutti indistintamente. Una sorta di indifferenza sovrana, che esplode con il dilagare della cecità, ma che era già presente all’interno di ognuno: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono». Il saggio di Byung-Chul Han La società della stanchezza (Nottetempo) è illuminante da questo punto di vista. Secondo il filosofo tedesco ogni epoca ha le sue malattie; se fino al termine della Guerra fredda vivevamo in un’epoca ‘immunologica’, in cui era netta la distinzione tra interno ed esterno, tra nemico e amico, (e quindi la malattia era qualcosa di estraneo che ci minacciava), oggi i mali hanno prevalentemente origine interna (si pensi a depressione, sindrome da deficit di attenzione e iperattività). Il soggetto si trova dunque in conflitto, per la prima volta, con se stesso. Questo, a detta del filosofo, dipende dal fatto che viviamo nell’età della prestazione: ciascuno impone a se stesso una schiavitù volontaria al lavoro, perché l’imperativo è l’autorealizzazione. I lavoratori sono imprenditori di se stessi, al tempo stesso vittime e carnefici, e votano la loro vita al ‘fare’. Non il diverso, ma l’Eguale è il nemico. Proprio come in The Walking Dead.
Nel periodo della Guerra fredda, invece, il nemico era il Diverso, l’altro da sé: possiamo ravvisarlo in tante serie tv degli anni Ottanta, come Visitors, dove sono gli alieni a fare la parte del Diverso, apparentemente venuti in pace ma in realtà con ben altre intenzioni: la stessa riflessione vale per la precedente serie The invaders (1967-1968). Un ritorno alla paura del diverso è ravvisabile nel recente The Americans, ambientato negli anni Ottanta, che racconta di due spie russe all’interno degli Stati Uniti: dopo l’11 settembre, la paura del Diverso è tornata nell’animo degli americani, come dimostra anche Homeland (qui si seguono le vicende di spie islamiche all’interno del territorio statunitense). Il ritorno al filone paranoico, specchio dei tempi, è però tuttora e con forza affiancato dalla riflessione sul tema della malattia interna agli organismi: citando Byung-Chul Han, potremmo dire che il peggior nemico è dentro di noi: «Il soggetto di prestazione si trova in guerra con se stesso. Il depresso è l’invalido di questa guerra intestina. La depressione è la malattia di una società che soffre dell’eccesso di positività. Rispecchia quell’umanità che fa guerra a se stessa».
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Visioni a confronto
Walter Mitty: da outsider a eroe a cura di Antonella Di Marzio Coniare neologismi è forse il sogno segreto di ogni autore, e allo statunitense James Thurber dobbiamo l’aggettivo mittyesque; inesistente in italiano, è attestato nella lingua inglese per designare il daydreamer (‘sognatore a occhi aperti’) più estremista. Il protagonista della short story del 1939 The Secret Life Of Walter Mitty (originariamente pubblicata sul «New Yorker», la troviamo nella raccolta di Rizzoli La Vita segreta di Walter Mitty) diventa quindi un archetipo generatore di narrazioni successive; lo evidenziano i due remake cinematografici Sogni proibiti (Norman Z. McLeod, 1947) e I sogni segreti di Walter Mitty (Ben Stiller, 2013) – nel mezzo, anche una commedia di Neri Parenti con Paolo Villaggio (!), Sogni mostruosamente proibiti (1982). E se i punti in comune tra il racconto e i due film si riducono al nome del protagonista e alla sua tendenza all’estraniamento, un confronto tra le tre narrazioni evidenzia le possibili evoluzioni della figura del sognatore.
La Vita segreta di Walter Mitty di JamesThurber
I l Mitty di Thurber è un uomo mite, vittima della routine eppure distaccato da essa; la realtà circostante acquista senso solo se funge da innesco per le sue fantasie – impenetrabili persino da Mrs. Mitty, per cui sono il sintomo di un generico malessere. Le vere e proprie visioni di Mitty complicano notevolmente azioni semplici, come portare a termine gli acquisti commissionati dalla moglie; allo stesso tempo, lo mettono al riparo dalla meccanicità della vita moderna. Non c’è condanna per l’escapismo del protagonista; si constata, con partecipata amarezza, quanto le due vite possano sovrapporsi ma non compenetrarsi. In un’epoca schiacciata tra la fine della Grande depressione e l’inizio della Seconda guerra mondiale, non stupisce la ricerca di un rifugio; ma colpisce l’impossibilità di condividerlo. L’orrore della guerra è ormai alle spalle nella commedia noir di McLeod, ma i suoi cascami trascinano il protagonista – un comunissimo correttore di bozze – nel mistero dei gioielli della Corona olandese, trafugati dai nazisti. La stessa vita di Mitty è a rischio, ma al protagonista è negato ogni tipo di comprensione: tutti, dai familiari al datore di lavoro, lo credono in preda alle consuete fantasticherie. Sarà uno scatto di coraggio a dimostrare, persino a Mitty stesso, di non sognare: fuggendo dall’altare per salvare una ragazza, anch’essa coinvolta nell’affare suo malgrado, Mitty sgomina una banda di criminali, scampa a un matrimonio asfittico e distrugge l’immagine cucitagli addosso. Cessano qui le fantasie del Mitty di McLeod , sintomo di una fase di transizione che, se protratta troppo a lungo, rischia di intrappolarlo in un ruolo indesiderabile. Ribaltando le premesse di Thurber, l’immaginazione diventa accettabile solo nel momento in cui genera profitto:
I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller
l’editore, che per lungo tempo si è impossessato delle idee partorite da Mitty, ne riconosce il valore e gli offre un’importante promozione. Anche il Mitty di Stiller lavora nell’editoria: è il photo editor di «Life», giunta al capolinea come rivista cartacea. Un celebre e solitario fotografo – che stima molto Mitty, pur non avendolo mai visto di persona – firmerà l’ultima copertina; ma il negativo designato non appare tra quelli inviati, e pur di recuperarlo Mitty intraprenderà dei viaggi impensabili per un uomo che ha volato sempre e solo di fantasia. Le fantasticherie si diradano all’intensificarsi dell’avventura; ma la vita segreta di Walter Mitty aveva denotato, più che chiusura o immaturità, un potenziale soffocato dalle circostanze. Il percorso di crescita non avviene nonostante i sogni a occhi aperti, ma proprio a causa di essi; e se Mitty verrà licenziato, invalidando la tesi del ritorno economico, alle sue doti verrà riconosciuto un ampio tributo. Ed è proprio la sensibilità fotografica del protagonista, se si perdona alla trama un certo sentore motivazionale, a costituire un aspetto interessante: l’attenzione per le vite altrui è fatta della stessa materia dei suoi sogni segreti. Non è auspicabile che Mitty perda la capacità d’incantarsi, e il finale del film lo rende chiaro; piuttosto, che la utilizzi per accedere al mondo. Il sognatore diventa quindi la figura più concreta sul piano sociale, e l’immaginazione non è solo un medium tra il sé e l’esterno; se diventa così forte da venire praticata, è ciò che gli permette d’intervenire sulla realtà.
Sogni proibiti di Norman Z. McLeod
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L’inattuale è indispensabile La letteratura secondo Antonio Moresco a cura di Carlotta Susca Quante volte vi è capitato – sinceramente – di incontrare uno Scrittore? Il proliferare di iniziative di Presentazione di Libri, di Incontri con l’Autore, di Cene Letterarie e svariate altre declinazioni dello stesso concetto (Tizio ha scritto X, pubblicato dalla casa editrice Y, e l’umanità avrebbe potuto farne tranquillamente a meno) ha forse reso qualcuno di voi più fiducioso nei confronti del pessimo stato della Letteratura? A un certo livello di consapevolezza sembra appurato che autori, editori, critici letterari facciano tutti parte di un meccanismo che si autoalimenta, e che nessuno ci creda più davvero. Come se il passato fosse un conto, mentre nel presente fosse quasi naïf pretendere di dedicarsi alla Letteratura. E poi si incontra Moresco. Antonio Moresco, mantovano, è schivo e profondo come pochi(ssimi). Ogni sua affermazione sembra provenire da un abisso di riflessione ed esperienza, ogni frase che pronuncia è evidentemente estratta da una visione d’insieme lucida. Non ama andare in giro a promuovere sé stesso: crede ancora che ciò che conta davvero è quello che scrive, e se deve viaggiare per farsi intervistare in una libreria lo fa perché crede che possa fare bene al suo libro, che possa servire a fargli raggiungere più persone. La sua ultima pubblicazione, Fiaba d’amore (Mondadori), come la precedente La lucina, è scritta a margine del volume a cui Moresco sta lavorando,
Gli increati, che concluderà la trilogia iniziata con Gli esordi e proseguita con I canti del caos. L’autore stesso sottolinea la «disarmante semplicità, da collezione Harmony», del titolo del suo ultimo libro, che ogni editore sarebbe tentato di rifiutare perché «è l’equivalente di aprirsi l’impermeabile». Moresco spiega che inizialmente il titolo sarebbe dovuto essere Fiaba d’amore del vecchio pazzo e della meravigliosa ragazza morta ma – e questo fa capire molto dell’autore –, nonostante all’editore piacesse molto e nonostante una certa aria sudamericana, «sarebbe sembrato un arruffianarsi il lettore, voler spiegare troppo». E invece il titolo giusto per Moresco non ha bisogno di ammiccare al lettore, ma deve calzare perfettamente alla storia, che è una fiaba e che parla d’amore. Il recupero dell’inattuale, con il genere della fiaba e con l’argomento della relazione fra un uomo e una donna, fa parte del motivo per cui Antonio Moresco scrive. «La fiaba mi permette di scardinare le pareti della prigione, in questo libro si parla di amore in maniera esagerata, inattuale, controcorrente, a me interessa l’impossibile, o meglio quello che ci hanno detto essere impossibile. Si parla di amore come una forza del passato e del futuro da cui ripartire per inventare una nuova forma di vita. Due persone in una piccola scatola nera che, inventando se stessi, inventano una nuova visione del mondo».
Non amando i riflettori e non avendo bisogno di gratificare il proprio ego, questo scrittore – cosa straordinaria – scrive perché ha qualcosa da dire. E vuole comunicarlo con tanta forza, vuole così fortemente servire la letteratura, che ha sofferto per anni il rifiuto del mondo editoriale, e ha perseverato in condizioni avverse. Raccontare l’impossibile è quello che interessa allo scrittore mantovano, recuperare un senso per l’inesprimibile: per questo non vede di buon occhio il ritorno al realismo («Nuovo realismo, nuovo neorealismo: non inventano neanche parole nuove per concetti vecchi»), che serve solo a descrivere la prigione in cui viviamo, a renderla rassicurante, familiare; «Io rompo le sbarre della prigione anche a rischio di confrontarmi con il dolore». E la fiaba è funzionale allo scardinamento delle sbarre. Se il pensiero corrente è che ci sia bisogno di «libri onesti» e per ‘onestà’ si intende una aderenza al vero o presunta tale, Moresco si ribella. Quello che crede della Letteratura è che debba avere uno scopo nella società, e che la maggior parte della letteratura in circolazione non stia assolvendo al suo scopo: «I libri dell’Ottocento mi spalancano degli scenari della vita, creano delle slavine nella concezione del mondo. Nel Novecento il livello della letteratura si è stabilito nella chiusura: lo scrittore che chiudeva di più e meglio era più apprezzato, ma perché il senso della letteratura dovrebbe essere quello di dirmi che sono morto e che non c’è più niente da cercare? È una questione di vita o di morte riconquistare certi spazi nella letteratura. Non accettare la chiusura epocale è un gesto di libertà. Il mio lavoro di scrittore nasce da questa insubordinazione». In che modo uno scrittore può servire il proprio tempo senza rimanere nella gabbia e senza contribuire a descriverla per farla apprezzare? Quali prospettive può spalancare nel lettore? «Nel passato esistevano pittori fortemente mimetici, che hanno avuto più successo nel proprio tempo (i pittori dei ritratti, quelli per cui la pittura è come uno specchio, e che si concentravano molto sui dettagli) e
quelli come Rembrandt e Goya, che tiravano fuori l’anima e le budella di chi ritraevano, pur non avendo l’attenzione al dettaglio. Anche in letteratura c’è chi riproduce il gergo delle persone in maniera mimetica, io non lo faccio. Nei miei libri c’è una voce che va avanti, non mi interessa riproporre la voce di questo o quello, fare le mossette. In Kafka un bambino parla nello stesso modo in cui parla un altro personaggio. La mimesi è un ammiccamento, ma non rispecchia quello che succede veramente nel mondo. Non mi interessa avere a che fare con le cose transitorie che ci circondano, che dopo qualche anno sono già disperse. A me sembra che facendo in questo modo, cogliendo qualcosa oltre quello che si vede, si riesca a fotografare meglio la contemporaneità». «La cultura è diventata la custode dell’esistente nel campo dell’immaginario e contribuisce a tenere le persone chiuse in prigione»: e invece in Moresco la storia giunge sempre in luoghi inaspettati, ed esplora i confini e gli sconfinamenti fra vita e morte; la constatazione di trovarsi in un vicolo cieco è solo il punto di partenza: «Allora ero completamente infelice. Nella mia vita avevo sbagliato tutto, fallito tutto. Ero solo» (Gli incendiati); «Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante» (La lucina); «C’era una volta un vecchio che si era innamorato di una meravigliosa ragazza. Che poi non era solo un vecchio, era anche uno straccione, uno di quelli che dormono per strada sopra i cartoni, un uomo perduto, un rifiuto umano» (Fiaba d’amore). Ecco, se la letteratura si riducesse a questo, alla constatazione di una situazione disperata e senza via d’uscita, secondo Moresco non avrebbe alcun senso. E con il suo lavoro di Scrittore si oppone al nichilismo, scardina le inferriate della gabbia, racconta l’impossibile amore fra due persone, descrive la natura senza essere mimetico ma «tirando fuori l’anima e le budella di chi ritrae».
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Un frame di Sherlock
Narrazioni: siate serie! Gli studenti dell’Uniba e l’editoria del futuro a cura di Giovanni Boccuzzi
Sfoglia la pubblicazione Ipertesti Seriali http://bit.ly/NuJSEf
La narrazione è connaturata all’uomo: sono storie, racconti, vicende anche complesse quelle inventate per dare una spiegazione ai fenomeni naturali e all’esistenza dell’uomo sulla terra. La capacità di dare un’interpretazione unitaria alla propria esistenza, di mettere in correlazione le cause e gli effetti in un racconto con uno sviluppo comprensibile, rassicurante, è quanto caratterizza l’umanità. Le forme narrative si evolvono, le innovazioni tecnologiche hanno da sempre concretamente influenzato la struttura stessa del racconto, e se miti e leggende hanno accompagnato gli albori dell’umanità, già il passaggio dall’oralità alla scrittura ha segnato un momento di svolta per la possibilità di creare forme narrative di complessità crescente. Dal volumen al codex, fino al testo a stampa, il racconto ha beneficiato delle potenzialità offerte dai nuovi supporti, diffondendosi grazie all’invenzione dei caratteri mobili, quindi esplodendo nell’Ottocento con la forma del romanzo grazie alla pubblicazione di storie a puntate sui quotidiani. L’evoluzione della narrazione si è quindi mossa per successivi ampliamenti di pubblico: ogni miglioria tecnologica, ogni nuovo supporto consentivano di raggiungere più persone e comunicare a più vasto raggio. Difficile dire dove andrà la narrazione con le innovazioni digitali, ma c’è una forma di racconto che, sebbene su altro medium, è assimilabile più al romanzo che al cinema. Stiamo parlando delle serie televisive. Nell’ambito del Laboratorio di editoria libraria e multimediale tenuto da Carlotta Susca e rivolto agli
studenti di Scienze dell’informazione editoriale, pubblica e sociale è stata ideata e realizzata la pubblicazione digitale Ipertesti seriali. Dal piccolo schermo alla multimedialità, che prende in esame tre serie televisive: Sherlock, C’era una volta e Il trono di spade. Partendo dalle somiglianze fra la diffusione del romanzo nell’Ottocento e quella delle serie televisive (alcune di grandissimo pregio) oggi, gli studenti hanno portato avanti un lavoro di analisi che, aprendosi a raggiera e diramandosi in più campi, ha esplorato anche il cinema, la musica e la letteratura. Compiendo un percorso a ritroso, inoltre, si è giunti inevitabilmente alla matrice letteraria, comune a tutte e tre le serie tv: i romanzi di Conan Doyle, le trascrizioni dei fratelli Grimm e i fantasy di Martin. Un percorso che parte dal libro per tornare al libro, dunque, perché il prodotto finale realizzato dagli studenti è un testo (digitale). Riflettere sulle modalità di evoluzione dei racconti, sulla loro migrazione dalla carta allo schermo (piccolo e grande) è un esercizio utile, se si considera che operare in campo editoriale oggi (e ancor più domani) significa (e significherà) confrontarsi sempre più con la multimedialità e l’intertestualità, tenendosi pronti a captare ogni evoluzione e trasformazione in atto.
La letteratura ha bisogno di pirati Intervista ai Bookaneers a cura di Carlotta Susca Se ‘fare rete’ è da anni l’imperativo in ogni campo – da quello culinario a quello politico –, perché non declinare il must in senso piratesco e costruirne una per catturare lettori e non lettori? Da tre blog e un portale di scrittura condivisa nasce il progetto The Bookaneers – Pirati della letteratura. Pronti a veleggiare con loro per il periglioso mare della letteratura? «Quindici uomini…»: voi quanti siete, fra Finzioni, ConAltriMezzi, Lahar e 20lines? E, soprattutto, cosa fate esattamente? Ahoy! Al momento siamo sei pirati – Alberto, Andrea, Marco, Michele, Pietro e Riccardo – e abbiamo in comune la passione per i libri e l’area di provenienza (il Veneto, per nascita o adozione). Ma ci teniamo a sottolineare che The Bookaneers è un progetto inclusivo, non esclusivo. Per dire, ora ci piacerebbe arruolare qualche piratessa… ma solo se sa apprezzare il buon rum! :) Cosa facciamo? Per ora diciamo solo che sentiamo il bisogno di liberare la letteratura, traendola fuori dalla bonaccia della seriosità e della pedanteria. «Pendagli da forca»: promuovere la lettura è un’attività sovversiva? Ma con tutte le presentazioni che ci sono in giro, cos’è che volete fare per onorare il motto: «Leggere è fico»?
Certo che può essere sovversivo, anzi, deve esserlo! Pensiamo che ‘leggere è fico’, certo, ma soprattutto che i libri devono essere vissuti come un piacere e, perché no, un divertimento. Tra gli addetti ai lavori ci sono troppi ufficiali di marina impostati, mentre per andare tra la gente bisogna togliere il vestito buono e indossare i panni del pirata. Per questo vogliamo divertirci e far divertire: cominceremo creando degli eventi in location non istituzionali, inventando dei concept pazzi e dei format mai visti, ma sempre partendo dai libri. Ce lo permettono la nostra fedina penal-culturale e il cameratismo massonico. «Su questa lurida nave»: la vostra filibusta è virtuale (la pagina Facebook e il sito) ma approda in locali in cui organizzare feste. Quali porti intendete raggiungere e per combinarci cosa? Per la barba di Nettuno! Per ora vogliamo girare la penisola per organizzare delle fighissime feste letterarie. Per il futuro abbiamo una grande meta – l’isola del tesoro – ma non possiamo svelarne ancora le coordinate. Per scoprirle, salpate insieme a noi! Potete seguirci su Facebook (The Bookaneers) o rimanere aggiornati iscrivendovi al sito www.thebookaneers.it.
«Il tesoro»: promuovere la lettura vuol dire molte cose. Per voi conta che si legga a qualsiasi costo o date in pasto ai pesci chi fa letture disonorevoli? Fosse per noi, il mare sarebbe pieno di pesci con la pancia piena e di navi con le stive colme. Ma i pesci, come i marinai, vanno nutriti; il più zuccone dei mozzi potrà anche apprezzare certa letteratura da mezza tacca, per dire, ma la gavetta lo può portare in alto: un posto da ufficiale e un domani, magari, uno al fianco dei grandi pirati della storia. «Il mar dei Sargassi»: quanto è pericoloso veleggiare lungo le italiche coste? Quali sono i problemi principali (e quali le opportunità) nel fare promozione culturale nel nostro Paese? Il problema principale, per qualsiasi cosa nel nostro Paese, è la paura. Ma pensare ai pericoli distoglie l’attenzione dal premio finale… davvero volete che vi parliamo di cosa bisogna fare, nel concreto, per riuscire a raggiungere il tesoro? Per ora ci basta convincere la gente a divertirsi insieme a noi con la letteratura. Un consiglio da pirata? «Il mare non ha Paese ed è di tutti quelli che lo sanno ascoltare», diceva Verga. Mentre Lorella Cuccarini dice: «Mordila, la tua fantasia. Non morire aspettando il domani». Due pirati, a modo loro.
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BOOK GEEKS A spasso con la biblioteca Intervista alla responsabile marketing di ReteINDACO a cura di Michele Marcon
Cari geek col pallino dei libri, bentornati a Book Geek, la rubrica talmente avanti che quando fissa il futuro, rivede il passato della letteratura. Nella nostra continua ricerca di innovazione e innovatori letterari ci siamo imbattuti in ReteINDACO, un progetto molto molto interessante che coinvolge già più di 800 biblioteche in tutta Italia. Abbiamo fatto la nostra classica intervista ad Anna Busa, responsabile marketing. Ecco le sue risposte! (E per saperne di più, fiondatevi su «Finzioni Magazine!»). Visita il sito di Finzioni Magazine http://bit.ly/13Dlq9a
Nome Anna. Età Ma la devo proprio dichiarare?! :) Lavoro Marketing manager. Spiega ai lettori cos’è ReteINDACO in 250 battute ReteINDACO è una grande piattaforma di risorse digitali: ebook, audiolibri, video, film, musica, portali, quotidiani, corsi di lingue, e-learning, videogiochi… disponibili quando e dove vuoi – su PC o mobile – gratuitamente, direttamente dalla tua biblioteca di fiducia (www.sebina. it). Fra le biblioteche pugliesi aderenti, la Teca del Mediterraneo, a Bari. L’ultimo libro che hai letto? Il ballo, di Irène Némirovsky, una delle mie autrici preferite. Quale libro vorresti aver scritto? Harry Potter… e me ne basterebbe anche solo uno della serie, eh! Meglio carta o digitale? La sera, quando torno a casa, preferisco leggere su carta, seduta sul divano o stesa a letto; mentre di giorno, quando sono in giro, solo ed esclusivamente digitale. Qual è il tuo social preferito? Sono una aficionada di Facebook.
Qual è, secondo te, il futuro del libro (se ha un futuro)? Il libro è il futuro. In fondo, concordo con quella vignetta in cui la scopa dice al libro: «Rilassati amico, hanno inventato l’aspirapolvere ma io sono ancora qui». E sarà così… libro ed ebook saranno e sono complementari. Editoria 2.0… ma non era meglio aprire una gelateria? Ma vuoi mettere? Se non altro perché in digitale non c’è bisogno di far le pulizie! David Foster Wallace o Dan Brown? Quando torno a casa la sera, stanca dopo una giornata di lavoro, proprio non ce la faccio a leggere Wallace... mi tocca dire Dan Brown. Mark Zuckerberg o Steve Jobs? Steve. Cosa fai quando non sei una ‘innovatrice letteraria’? Faccio il lavoro più bello del mondo: la mamma.
Aerei di carta a cura di Ottilia DeGiovanni Walter Siti Exit strategy Rizzoli Euro 17 – 210 pagine marzo 2014
Ancora un protagonista omonimo: il Walter Siti di Exit strategy ha un nuovo compagno e vive in una nuova città: Milano. Ma il Paese vive un periodo di recessione, e l’annunciata fuoriuscita dalla crisi potrebbe essere solo un’illusione. Dal premio Strega 2013, una nuova, amara riflessione sul presente.
Jonathan Lethem Il giardino dei dissidenti Bompiani Euro 19 – 380 pagine marzo 2014
Dal comunismo degli anni Trenta al movimento Occupy, una storia politica degli Stati Uniti attraverso le vicende di Rose Zimmer e di sua figlia Miriam, a suggerire forse che le figure femminili siano capaci di azioni politiche più radicali. Mosso alla letteratura dalla passione per Philip K. Dick, Lethem approda al romanzo realistico nella ricerca del great American novel.
I bassifondi dell’America Nuova edizione dei racconti di Tennessee Williams a cura di Francesco Panunzio
John Niven Maschio bianco etero Einaudi Euro 18,50 – 300 pagine aprile 2014
«Un libro che conquista» è il parere di Irvine Welsh. Dopo la storia di Gesù in A volte ritorno, John Niven crea un nuovo personaggio iperbolico, costretto dall’Agenzia delle Entrate a insegnare scrittura creativa a dei pivelli.
Il suo Un tram chiamato desiderio è stato fonte di innumerevoli citazioni dopo la trasposizione cinematografica di Elia Kazan con Marlon Brando come protagonista: infatti i Simpson, compendio parodico dei nostri tempi, hanno dedicato una puntata alla storia di Blanche e Stanley (interpretato da Ned Flanders). Edizioni e/o pubblica ora la raccolta di racconti di Tennessee Williams L’innocenza delle caramelle: e vi ritroviamo l’umanità da bassifondi che si trascina per le strade alla ricerca di sostentamento, di una collocazione nelle città, nel mondo. Il due volte premio Pulitzer Williams racconta degli Stati Uniti popolati da chi non ha visto realizzarsi il ‘Sogno
americano’, un’umanità senza speranza, sconfitta, degradata, che fa della bellezza merce di scambio. I racconti, tradotti da Giuliana Gadola Beltrami e Nora Finzi, e precedentemente pubblicati in due raccolte, hanno perfino superato il vaglio della temibile critica del «New York Times» Michiko Kakutani: «Queste storie inquietano, commuovono e ampliano la tragica visione del mondo di Tennessee Williams». Un autore classico imperdibile.
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Il Guaio della nostra musica Il festival Push Up premia la band pubblicata dalla Minus Habens a cura di Anna De Mauro La musica oggi può davvero rappresentare un lavoro? E quali dinamiche si incrociano nel lancio di un artista nel music business? La seconda edizione di Push Up ha provato a dare una risposta a questi interrogativi, sviluppando un contest nazionale non più rivolto alle band nostrane, bensì pensato per le etichette discografiche indipendenti. Un cambio di prospettiva quasi rivoluzionario per il nostro Paese, che ribalta l’approccio alla musica come esperienza esclusivamente creativa e la identifica all’interno di un panorama ben più ampio ed interessante. La fase finale di Push Up 2.0 si è svolta dal 17 al 19 gennaio nel comune pugliese di Bisceglie ed ha visto gareggiare sei band affiancate dalle relative label. A trionfare sul palco del Teatro Garibaldi è stata la formazione de Il Guaio, che pubblicherà il nuovo album su etichetta Minus Habens grazie ad un premio di 12.400 euro. Abbiamo intervistato il trio pugliese composto da Michelangelo Angiulli, Tatiana Ariani e Alessandra Costantiello nel mezzo del loro lavoro con la Minus Habens, ormai a un passo dalla pubblicazione del loro primo album su lunga distanza. Non accade spesso di trovare un progetto sonoro che parte da uno spettacolo audiovisivo a sua volta ispirato a un libro di poesie… qual è la formula che avete scelto per miscelare delle forme artistiche così differenti? Beh, di sicuro è stato un percorso inaspettato anche
per noi. Il progetto è nato proprio dallo spettacolo di presentazione del libro di poesie Sono un vulcano, una performance che accompagnava il reading con la musica di Michelangelo e i disegni di Tatiana. Alessandra era nel pubblico e si è subito innamorata di quello che di lì a qualche mese sarebbe diventato Il Guaio. Il nostro tentativo mirava sin dall’inizio a dare più forza al messaggio artistico della poesia, coinvolgendo i sensi dello spettatore in un vero e proprio viaggio onirico. Perché vi definite “Electro-domestic indie”? La definizione è nata scherzando, ma in realtà delinea perfettamente il mood con cui tutto è nato. La nostra musica non nasce in una sala prove, ma nell’appartamento di nonna Lucia. È, come si suol dire, un’elettronica da cameretta. Inoltre ci siamo davvero impegnati nel proporre un genere di musica non tipicamente “nostrano” proprio in italiano, presentandolo come un’evoluzione del cantautorato. La vittoria al Festival Push Up significa due cose: la conferma del valore della vostra musica e la coerenza del progetto editoriale sviluppato con l’etichetta Minus Habens. Come si sta svolgendo il lavoro con Ivan Iusco e con il team della label? La vittoria di Push Up è stata sicuramente il primo grande passo compiuto con la Minus Habens. Ed ha senz’altro inaugurato al meglio l’inizio della nostra collaborazione. Essere, poi, premiati da personalità del calibro di Stefano Senardi è stato in un certo senso il coronamento di un impegno assiduo di tutto il team.
Con la Minus il lavoro si svolge nella più completa armonia e nella piena consapevolezza di poter proporre un progetto che è esattamente lo specchio delle nostre attitudini e interpretazioni. Cosa che magari una major non ti permetterebbe facilmente, soprattutto durante i primi passi. In un panorama discografico in crisi, anche i convenzionali contest per gruppi hanno perso il loro scopo di talent scouting; Push Up dà un nuovo senso ai concorsi musicali, perché sceglie un progetto discografico non solo per il suo valore sonoro. Per voi la musica, nel 2014, può rappresentare un vero lavoro? Un festival del calibro di Push Up dimostra innanzitutto a tutti gli scettici che anche la Puglia ha molto da dire in materia di supporto alla musica indipendente. Ed è forse stata questa la soddisfazione maggiore, avervi preso parte. Perché è di supporto e fiducia che ha bisogno oggi la musica. La “musica come lavoro” è sempre il primo dubbio di un giovane musicista. All’inizio di una carriera artistica le certezze sono le prime a mancare, ma è proprio l’incontro di persone come Ivan Iusco o Daniele Abbinante che ti dà la caparbietà giusta per accettare la sfida. Quali sono le caratteristiche fondamentali del vostro album in uscita? Come lo descrivereste ad un ascoltatore non italiano? Abbiamo sempre ammesso che quello del Guaio è un genere non prettamente italiano, che magari in Germania o Francia ha già lasciato il segno così come la musica leggera in Italia. Ad un ascoltatore straniero
lo descriveremmo come l’album di tre “electronic crooners”. Il mondo si evolve e la musica pure. E allo stesso modo non dobbiamo pensare necessariamente al cantautorato come qualcosa di rinchiuso sempre nei limiti di una sfera acustica. Il cantautorato è una poesia in musica che rivela qualcosa di intimo. Ed è questo che abbiamo preso della grande eredità della canzone italiana. Partire dalla Puglia per lavorare nel campo della musica non è cosa facile, a vostro parere quali sono le differenza maggiori fra il sud e il nord dell’Italia? Paradossalmente ti risponderò così: partire dalla Puglia è facile. Questa è una terra davvero piena d’artisti (penso anche al Sean Penn di This must be the place e cito “qui nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico”) e penso sempre più che la geografia fisica di un posto detti a suo modo una geografia dei sentimenti. La Puglia, dunque come lembo di terra proteso sul mare ha già in sé della poesia inevitabile. Qual è il gruppo o l’artista con cui vi piacerebbe sviluppare un progetto discografico? Sarebbe bello creare un progetto con un artista che sia diametralmente opposto al nostro sound. Penso che fondere diversi generi, trovando il giusto equilibrio, dia sempre vita a qualcosa di interessante. Sognando così su due piedi, mi viene in mente Antony Hegarty, per la forte intimità che imprime nelle sue interpretazioni. E poi come non parlare di Damon Albarn? Il suo Everyday Robots è a dir poco un capolavoro.
20lines è la piattaforma digitale in cui lettori e scrittori s’incontrano per creare, leggere e condividere racconti brevi.
LA BAMBINA CON GLI OCCHI DA DONNA Un racconto di Sara Locchi
Era una leggenda, dicevano. Solo favole per bambini, dicevano. Il bosco tace, un gelido soffice manto lo ricopre. Alberi spogli a reclamar luce fredda tutto intorno. Una candela. Anzi, più che una candela una piccola lanterna di carta, di quelle colorate per le feste che i bambini lasciano andare al vento. Due mani, mani piccole, mani fragili. Una timida luce rossastra si spande tra i rami, si porta fino al centro del bosco, dove tutto è più buio, dove da mesi nemmeno la luce osa entrare. La piccola lanterna posata su una roccia, bassa e piatta. Luce rossa che illumina la radura, alle piccole mani s’agganciano piccole braccia, piccolo corpo pallido e immobile, piccoli piedi che non lasciano traccia nella neve fresca. Un viso da bambina con occhi da donna, capelli ondulati del colore del legno, un vestito color della foresta: verde come l’erba delle radure, marrone come gli alberi, rosso, giallo e arancio, come le foglie d’autunno, nero come l’ombra spettrale di un sasso in una notte d’inverno. La bambina non parla, non lo fa mai. In realtà non si sa nemmeno se l’abbia, la voce, questo le favole non l’hanno mai detto. Muove le mani, le alza fino alle spalle, i palmi verso la lanterna, le dita chiuse. Chiude gli occhi. Anche il vento si ferma in un silenzio carico d’attesa, il bosco si prepara, sa cosa è venuta a fare la bambina con gli occhi da donna. Sembra, per un secondo, che i rami si distendano verso la radura. Luce rossa che diventa arancio, vira al giallo, si mescola ad un verde brillante e torna, infine, rossa. La bambina apre gli occhi, li fissa nella luce e apre le dita. Piano. Dalla lanterna di carta iniziano ad uscire sbuffi di fumo, fumo rosso, fumo che assume la forma di piccole foglie. Mentre le dita della bambina si aprono le foglie si sparpagliano, mosse da un vento che non fa rumore, in tutto il bosco, su tutti gli alberi, da quelli secolari ai piccoli arbusti. Per un secondo, ancora, il bosco sembra tornato alla vita. Alberi
rossi come d’autunno, su un tappeto d’inverno. Poi, il fumo svanisce, la lanterna torna alla sua timida luce, della bambina si intravedono di nuovo solo le mani. Ma c’è qualcosa di diverso, nella foresta e persino nel cielo. Ecco, dal cielo son scappate le nuvole, dall’aria è fuggito il vento gelido. Ora la notte è calma, una per una si fanno avanti le stelle. È la Notte di Fine Inverno, la notte in cui agli alberi vengono restituite le foglie, in cui all’aria viene restituita una brezza tiepida. La notte in cui la neve inizia a sciogliersi. La bambina ha concluso il suo compito, ma tornerà. Fra sei mesi esatti, a prender di nuovo le foglie agli alberi per rinchiuderle nella lanterna di carta durante il prossimo inverno. E sarà così, fino alla fine dei giorni. Era una leggenda, dicevano. Solo favole per bambini, dicevano. Ma quella notte, dietro un albero spoglio nei pressi della radura, piccole impronte di scarpe rimangono ad osservare la bambina con gli occhi da donna, che dolcemente, come è apparsa, svanisce tra le ombre della foresta.
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