BATTISTELLO CARACCIOLO DIALOGO ALL’OMBRA DI CARAVAGGIO
BATTISTELLO CARACCIOLO DIALOGO ALL’OMBRA DI CARAVAGGIO
BATTISTELLO CARACCIOLO DIALOGO ALL’OMBRA DI CARAVAGGIO
Presidente Maurizio Sella
MagniďŹ co Rettore Gianmaria Ajani
Direttrice Enrica Pagella
Vicepresidente Massimo Coppa Mario Renzo Deaglio
Prorettrice Elisabetta Barberis
Coordinamento per la Galleria Sabauda Anna Maria Bava, direttore
Direttrice Generale Loredana Segreto
Allestimenti Barbara Vinardi con Alessandra Curti Tiziana Sandri
Amministratore Delegato e Direttore Generale Federico Sella Direttore Affari Societari e Risorse Umane Giorgio Manca Direttore commerciale Paolo Giorsino Direttore Artistico Daniela Magnetti Responsabile Marketing Ilaria Miorin Responsabile Relazioni con i media Marco Palmieri
Documentazione Simona Contardi Valentina Faudino Promozione e comunicazione Barbara Tuzzolino, responsabile Francesca Ferro UfďŹ cio stampa La White – press and more
BATTISTELLO CARACCIOLO DIALOGO ALL’OMBRA DI CARAVAGGIO Torino, Musei Reali - Galleria Sabauda 28 marzo - 26 giugno 2019
Progetto ideato e promosso da Banca Patrimoni Sella & C. Curatela Daniela Magnetti Stefano Causa Comitato scientifico Annamaria Bava Stefano Causa Mario Epifani Daniela Magnetti Paola Novaria Thierry Radelet Filippo Timo Coordinamento organizzativo e catalogo Filippo Timo Restauro e analisi diagnostiche Thierry Radelet, Torino Il restauro dell’opera Qui vult venire post me è stato realizzato con il contributo del Progetto Cultura di
Un particolare ringraziamento a Giuliana Borghino Sinleber, Marco Testa Archivio Storico Università degli Studi di Torino Manuela Arese, Franco Augelli, Annalisa Messina Direzione Edilizia, Logistica e Sostenibilità Area Patrimonio, Università degli Studi di Torino Susanna Bison, Elena Bravetta, Chiara Piga, Chiara Torta Direzione Generale - Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino Marta Mastroianni, Roberta Sabbatelli e Francesca Zappalà Laboratorio di Restauro Thierry Radelet, Torino Paolo Benassai, Luigi Corio, Giuseppe Dardanello, Loredana Gazzarra, Silvia Martinetti, Simone Pucillo, Maria Cristina Terzaghi
Allestimento e grafica Gwladys Martini Copertura assicurativa a cura di
Solo in anni recenti alcuni Tesori d’Arte, custoditi in dimore private, così come in sedi istituzionali, sono divenuti oggetto di studio, di interventi di conservazione e restauro, di commento critico e di esposizione al pubblico; ammirevole, in tal senso, è l’opera svolta dal FAI, dalla filantropia, di concerto con le autorità preposte alla cura e sorveglianza del patrimonio culturale. Non di minor rilievo è l’azione esercitata da grandi e storici Atenei del Paese, custodi di un esteso patrimonio culturale, che non solo è raccolto, come ovvio, in biblioteche ricche di testi antichi e rari, o in Musei, divenuti luogo di divulgazione della storia del pensiero scientifico, ma che si estende anche a collezioni di opere pittoriche. Frequentemente si tratta di lasciti, ora di singoli manufatti, ora di intere collezioni, sovente di notevole importanza, ma – proprio a causa della loro origine – privi di quella “intenzione”, di quello specifico “indirizzo” di chi colleziona seguendo un progetto. In questo contesto, risulta di significato particolare la presenza nel Palazzo del Rettorato dell’Università di Torino di un’opera di Giovanni Battista Caracciolo, detto il Battistello (Napoli, 1578-1635). Particolare significato, per due ordini di ragioni: l’ingresso del Qui vult venire post me nel patrimonio dell’Ateneo torinese avvenne non in seguito a una donazione, ma a esito di un acquisto, voluto nel 1952 dal rettore Mario Allara, in occasione della ricostruzione della sede storica dell’Ateneo, gravemente danneggiata durante la guerra. Un acquisto segno di una rinascita, pertanto, ma anche un acquisto assai peculiare: poche erano, infatti, le testimonianze di Battistello in Piemonte. L’occasione di un prestito dell’opera alla mostra L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, tenutasi alle Gallerie d’Italia di Milano fra il novembre 2017 e l’aprile 2018, ha condotto l’Ateneo a un intervento di studio, diagnostica e restauro volto alla valorizzazione del dipinto e la mostra nelle splendide sale della Galleria Sabauda si è concretizzata grazie all’impegno profuso dalla direzione artistica diBanca Patrimoni Sella & C., che ne ha curato l’organizzazione, al supporto di Intesa Sanpaolo e alle competenze del Laboratorio di restauro e analisi Thierry Radelet. Riportata la tela alle sue luci originarie, esaminata per la prima volta l’azione della mano d’artista nel progredire del progetto, e ripulita l’importante cornice coeva, l’opera viene ora presentata al pubblico, in uno scenario, quello delle collezioni barocche dei Musei Reali, che non può che esaltarne il significato. Una restituzione di conoscenza al pubblico che rappresenta un caso esemplare della sempre più fertile relazione fra la ricerca, svolta anche in campo storico-artistico, da parte dell’Università di Torino e quella presente presso i Musei della Città, e la divulgazione di un sapere che, anche per le opere classiche, non cessa di trovare, grazie alla critica comparata e agli strumenti diagnostici, nuovi percorsi.
GIANMARIA AJANI
Rettore dell’Università di Torino
Lo storico Palazzo dell’Università degli Studi della via di Po, che fu nel XVIII secolo la prima sede di esposizione al pubblico delle collezioni reali, custodisce ancora oggi un’importante raccolta di opere d’arte; una delle ultime a essere acquisite (nel 1952, da una collezione privata) è uno straordinario dipinto di Battistello, il Cristo portacroce, realizzato per Marcantonio Doria, che oggi viene presentato ai Musei Reali. L’opera è stata oggetto di un accurato e raffinato restauro, promosso e sostenuto da Banca Patrimoni Sella & C. e da Banca Intesa Gallerie d’Italia, cui va riconosciuto non solo il merito della liberalità, ma anche una sensibilità particolare nei confronti del patrimonio culturale torinese meno noto e fruibile. L’intervento, seguito con attenzione in tutte le sue complete fasi diagnostiche e conservative dalla Soprintendenza, ha rimosso le velature che offuscavano la superficie e ha consentito di conoscerne e apprezzarne tutti i dettagli; ora il dipinto si rivela in mostra con i suoi colori originali e con una ricchezza di particolari nuova, che ne conferma l’importanza nel ciclo artistico di Battistello. Il confronto con le molte altre opere caravaggesche della Galleria Sabauda – dallo Spagnoletto, ad Antiveduto Gramatica, a Nicolò Musso, a Orazio Gentileschi – esalta la potenza espressiva delle figure e la ricchezza della composizione, che descrive con mano ferma e tratto drammatico la scena evangelica della Croce. La mostra rinnova la collaborazione istituzionale tra istituti universitari, fondazioni di origine bancaria e uffici del MiBAC e offre al pubblico un dipinto dalla visibilità piuttosto ridotta; è infatti stato esposto soltanto a Napoli nel 1984, poi di nuovo a Genova nel 1992 e a Milano lo scorso anno, essendo normalmente conservato nell’Ufficio del Rettore dell’Università. Rappresenta quindi un’opportunità unica per il pubblico non soltanto di conoscere le fasi più recenti del collezionismo dell’Università torinese, ma anche di avvicinarsi all’opera di uno dei più straordinari interpreti della stagione artistica secentesca napoletana, cui anche i Savoia riservarono attenzione e apprezzamento, come è ben documentato in un saggio di questo volume. I Musei Reali, con la ricchezza delle collezioni e degli apparati decorativi che racchiudono, confermano anche in quest’occasione il loro ruolo importante in città, non soltanto come sito museale, ma anche come luogo di connessione e confronto, indispensabile per il proseguire degli studi e della ricerca.
L U I S A PA P O T T I
Soprintendente archeologia, belle arti e paesaggio per la la città metropolitana di Torino
Nel 1612, con le opere acquistate dai Savoia sul mercato antiquario di Roma, arrivava a Torino anche un San Sebastiano attribuito a Michelangelo da Caravaggio, pagato una cifra di rilievo. L’opera potrebbe essere identificata con il dipinto inventariato nel 1635 come “S. Sebastiano steso sopra un panno rosso, medicato da due donne”, con attribuzione al pittore napoletano Battistello Caracciolo e giudicato di buona fattura. All’epoca, la tela era esposta in un ambiente di rappresentanza del Palazzo Ducale insieme a quadri di Gentileschi, Manfredi, Baglione, Guercino, Valentin e Mattia Preti. L’opera, forse riconoscibile ancora a metà Settecento nella Galleria del Beaumont in una tela impiegata come sovrapporta attribuita a Orazio Gentileschi, non pare al momento più rintracciabile. Fin dai primi anni del Seicento Carlo Emanuele I si era dimostrato sensibile verso le novità artistiche romane e il settore della Galleria Sabauda costituito dai dipinti caravaggeschi di maestri italiani e stranieri bene testimonia un significativo aggiornamento della quadreria sabauda sulla moderna pittura di realtà. Se il collezionismo di corte riveste un ruolo di primo piano per il fenomeno del caravaggismo in Piemonte, il percorso in Galleria dà conto anche di altri canali che determinarono a più riprese la sua fortuna nel territorio: dal viaggio di aggiornamento a Roma di pittori come Molineri, Tanzio, Vermiglio e Nicolò Musso, alle importanti collezioni nobiliari che si formarono per tempo nel ducato sabaudo con gusti affini a quelli della corte, o ancora a nuove importanti acquisizioni nel corso dell’Ottocento. Nell’ambito degli interessi intorno a queste tematiche, i Musei Reali di Torino sono lieti di ospitare al primo piano della Galleria Sabauda la bella tela di Battistello Caracciolo raffigurante Cristo portacroce, di proprietà dell’Università di Torino, dopo il restauro diretto dalla Soprintendenza e sostenuto da Intesa Sanpaolo. La sua presenza all’interno del percorso di visita della Galleria potrà offrire nuovi spunti di riflessione, grazie anche allo studio eseguito sulla tecnica pittorica, con un’approfondita indagine diagnostica, promossa da Banca Patrimoni Sella & C., che ha coinvolto per confronto anche alcuni capolavori caravaggeschi della Galleria Sabauda come l’Andata al Calvario di Nicolò Musso, il San Girolamo di Valentin, l’Annunciazione di Orazio Gentileschi, il Cristo flagellato di Ribera e il Suonatore di liuto di Antiveduto Grammatica.
A N N A M A R I A B AVA
Direttore della Galleria Sabauda E N R I C A PA G E L L A
Direttore dei Musei Reali
Nella primavera del 2018 Banca Patrimoni Sella & C. inaugurava una nuova stagione di impegno e partecipazione nel mondo dell’arte e della cultura presentando al pubblico un capolavoro ritrovato del rinascimento piemontese, la grande pala di Gerolamo Giovenone, oggi al Museo Borgogna di Vercelli. Fedele alla vocazione artistica e culturale insita nella storia di Palazzo Bricherasio, divenuta sua sede istituzionale, in questi anni Banca Patrimoni Sella & C. ha investito nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico pubblico e privato. Perseguendo questo scopo, in stretta sinergia con l'Università degli Studi di Torino, la Soprintendenza e i Musei Reali abbiamo promosso un progetto culturale che ha visto protagonista uno dei capolavori del caravaggismo napoletano: il Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo. Originalmente presente nella storica collezione genovese di Marcantonio Doria, dopo alcuni passaggi di proprietà, l'opera confluisce nel patrimonio dell’ateneo torinese nel 1952 grazie a un acquisto lungimirante che ha portato per la prima volta in una collezione pubblica piemontese l’opera dell’illustre napoletano. Gli interventi di restauro e le analisi diagnostiche, condotte nel laboratorio di Thierry Radelet con cui Banca Patrimoni Sella & C. ha stretto una fattiva collaborazione investendo nell’acquisto di nuove tecnologie per le analisi sulle opere d’arte, hanno restituito al dipinto splendore e facilità di lettura. L’opera si è così rilevata sotto una nuova luce agli occhi degli studiosi, consentendo di aggiungere preziose tessere al mosaico della produzione artistica battistelliana. Questa mostra nasce dal desiderio, maturato e condiviso con il rettore Gianmaria Ajani e con la soprintendente Luisa Papotti, di mostrare il dipinto ‘ritrovato’ ai torinesi, esponendolo al pubblico prima del suo rientro post restauro nelle auliche sale del rettorato di via Po, inserito per l’occasione in un meditato percorso di tele caravaggesche presenti nella collezione della Galleria Sabauda, tra le opere di Jusepe de Ribera, Valentin de Boulogne, Niccolò Musso, Antiveduto Gramatica e Orazio Gentileschi, il dipinto, per volontà dei curatori Stefano Causa e Daniela Magnetti, dialoga in concerto con artisti che di quel contesto storico e biografico sono stati parte preziosa. L’attenzione, la disponibilità e la collaborazione che la nostra iniziativa ha riscosso con le istituzioni e con i professionisti del settore sono il segno tangibile di un sistema sinergico tra pubblico e privato capace di far convergere le proprie risorse a favore del nostro ineguagliabile patrimonio artistico. Un riscontro positivo e un ampio consenso da parte degli storici dell’arte e, auspichiamo, del pubblico, ci incoraggiano a proseguire nei nostri prossimi impegni culturali.
FEDERICO SELLA
Amministratore delegato e direttore generale Banca Patrimoni Sella & C. MAURIZIO SELLA
Presidente Banca Patrimoni Sella & C.
Sommario
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Dialogo all’ombra di Caravaggio DANIELA MAGNETTI
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Battistello disvelato S T E FA N O C A U S A
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Da Napoli a Torino: la fortuna della pittura napoletana nei territori sabaudi tra Sei e Settecento M A R I O E P I FA N I
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˝Un quadro d’un Christo che porta la Croce ed altre pitture di gente che lo seguivano˝. Appunti di lavoro sul problema dell’interpretazione iconografica del Qui vult venire post me di Battistello FILIPPO TIMO
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“Per modo che la nostra università risorga a nuovo e più alto decoro, in una sede veramente degna”. L’acquisto del quadro di Giovanni Battista Caracciolo nel contesto della ricostruzione post-bellica del palazzo del Rettorato PA O L A N O V A R I A
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Diagnostica e restauro del dipinto raffigurante Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo THIERRY RADELET
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Biografia
Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me. Torino, Rettorato dell’Università degli Studi
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Dialogo all’ombra di Caravaggio
biografo Bernardo De Dominici, che nelle Vite dei pittori scultori ed architetti napoletani narra della “Vita di Gio: Battistello Caracciuolo. Così volgarmente appellato Pittore”5, sono risultate prive di fondamento. Certo è che fu il De Dominici a introdurre il legame tra Caracciolo e Caravaggio. Quando il Merisi si affacciò sulla scena napoletana molti ammirarono la nuova maniera di quel terribile modo di ombreggiare, la verità dei suoi nudi, il risentito lumeggiare senza molti riflessi; e fra questi vi fu il Caracciolo che, “lasciate in abbandono tutte quelle da lui per l’innanzi seguitate maniere, a questa tutto si volse ed assolutamente si propose seguitarla: anzi si dice, copiò molte opere del Caravaggio”6. Non si trattò di copie nel senso più etimologico del termine, ma di punti di partenza, di stili e modelli a cui ispirarsi, talvolta con piena adesione talvolta con proprie interpretazioni sul tema: “il copista di Catania si rivela studioso assiduo delle opere napoletane del Caravaggio, poche ore dopo la creazione degli originali”7. Ne sarà dimostrazione, in questo saggio, l’analisi sul bambino del Qui vult venire post me, dove la cura dei dettagli allontana la copia dal modello del maestro. L’inizio degli anni della maturità artistica di Battistello viene fatto risalire al 1607, con la realizzazione della pala per l’altare maggiore commissionatagli in una cappella privata in Santa Maria della Stella raffigurante l’Immacolata Concezione, di cui parleremo in seguito. Quest’opera colloca a pieno titolo il Caracciolo come il primo e più importante caravaggista napoletano. “A dispetto di oltre un secolo di ricerche apparecchiate nell’officina di Longhi, non sappiamo granché del seguito napoletano del Caravaggio”, ricorda Causa nel suo contributo critico a questo catalogo; certo è che il Caracciolo, facendo un sapiente uso del chiaroscuro e di quel realismo proprio del lombardo, si pone tra i seguaci italiani a lui più vicini dimostrando una profonda comprensione del messaggio artistico del Merisi. Nel loro lento progredire, gli studi, di qualsiasi disciplina si voglia, hanno spesso bisogno di due ingredienti che, apparentemente, esulano dal
DANIELA MAGNETTI
“Vi fu tuttavia un pittore che a Napoli tenne fede al Caravaggio più che qual sia caravaggesco d’Italia; che fu di lui più puro discepolo che quanti mai Saraceni, Manfredi o Valentin: che infine anche sviandosi fu in un senso così caratteristico e degno da mantenere anche allora più che molt’altri dello spirito del maestro. Si tratta di Battistello – è così che i paesani chiamavano il nobile Giovanni Battista Caracciolo, pittore”1. È il 1915 quando, con queste parole, il giovane Roberto Longhi riporta all’attenzione storico-critica l’opera del Caracciolo. Riaperta la strada, da quella data hanno preso avvio numerosi e sempre più approfonditi studi sull’artista, tra cui ricordiamo il contributo di Ferdinando Bologna (1991)2 e la monografia redatta da Stefano Causa (2000)3, che hanno portato a nuove scoperte storiche, stilistiche e attributive. Non me ne vogliano costoro se nelle poche righe a seguire indicherò al lettore qualche spunto suggestivo della vita e della produzione di Battistello, per renderlo più agevolmente partecipe del nostro operato. Nel 1606, al tempo in cui Caravaggio giunse a Napoli, Caracciolo era già un artista affermato. Il suo più antico lavoro documentato rimane l’affresco dei sei putti eseguito nel 1601, facente parte della decorazione della facciata del Monte di Pietà, di cui sono ancora visibili tracce significative. “Egli incise l’intonaco con uno strumento appuntito e i contorni che rimangono rivelano che questo tipo di putto restò invariato durante tutta la sua carriera”4. Aveva ventitré anni appena il Battistello, nato nel 1578, e portava con sé la notorietà di altri lavori eseguiti precedentemente. Poco sappiamo di questa fase iniziale. Molte notizie sono riportate dal suo primo
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Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me. Foto dell’opera “moralizzata” come appariva prima del penultimo restauro. Archivio fotografico della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino
“prendere per mano” e, a fine mostra, prima che rientrasse a casa nel prestigioso Ufficio del Rettore dell’Università di Torino, l’ho accompagnato nella sua lunga sosta presso il laboratorio di restauro e diagnostica di Thierry Radelet. Per molti mesi ci siano presi cura a vicenda: io di lui e, mi piace pensare, anche un po’ lui di me. Del resto, la mia professione mi accolla spesso l’arduo ruolo di “curatrice”. A pieno titolo mi sono dunque curata di lui, con la passione e l’amore che tante volte le fredde parole del mestiere non lasciano trasparire. Quella mano in primo piano, che poggia con la forza di un netto contrasto cromatico e la dolcezza propria dell’essere bambino, è un invito per lo spettatore a entrare in scena. Lo è stato
contesto accademico: un pizzico di coraggio e qualche grammo di fortuna. Formula alchemica azzardata e vincente, anche questa volta ha sortito il suo magico effetto riuscendo a far convergere sullo stesso dipinto l’attenzione di critici e studiosi. Come tanti torinesi, il Qui vult venire post me, noto anche come Cristo e il Cireneo8, l’ho incontrato per la prima volta lontano dalla mia città, in una delle tante prestigiose esposizioni sui caravaggeschi a cui, da tempo, viene chiamato a partecipare. È successo a Milano, in occasione della mostra L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri. Napoli, Genova e Milano a confronto (1610-1640), inauguratasi alle Gallerie d’Italia del Gruppo Intesa Sanpaolo a fine novembre 2018. Tra noi è nata un’empatia. Mi sono lasciata
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Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me, particolare dopo la rimozione della aggiunta apocrifa sulla scollatura della donna
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me opere di Battistello, Manfredi è un verniciatore di quadri, Saraceni un invertebrato, Valentin un classico francese, Gentileschi un sarto di lusso”9. Il dipinto, firmato con un solo monogramma siglato su una roccia nell’angolo in basso a destra “GB.C.”, confluisce nelle raccolte dell’Università di Torino nel 195210 e, a oggi, è l’unica opera di Battistello presente in Piemonte. Un grande assente nelle collezioni reali. La sigla, ripresa nell’allestimento della mostra come elemento distintivo per segnalare ai visitatori i caravaggeschi sabaudi con cui il nostro è posto in dialogo, è “un poco diversa, e più chiara” di quella presente sul dipinto di Brera, Cristo e la Samaritana, “che servì al Voss per dare a Battistello un gruppo di bellissime incisioni, prima attribuite ad Annibale Carracci, e per assegnargli, inoltre, il dipinto di SS. Cosima e Damiano (Berlino, Kaiser Friedrich Museum) recante anch’esso una sigla identica a quella di Brera”11. Trattasi queste di opere assi più tarde che giustificano una leggera variante nel modo di contrassegnare la tela. Se Longhi dedica poche righe appena al dipinto torinese (che, al tempo del suo saggio critico, torinese non era)12, identificandolo come Cristo portacroce, i critici che seguirono ne approfondirono la descrizione e lo studio riconoscendo le intenzioni e le delicatezze del pennello del Caracciolo. È proprio Roberto Carità che nel suo saggio Un Battistello ritrovato, pubblicato sulla rivista longhiana “Paragone” pochi mesi prima dell’acquisizione dell’opera da parte dell’Università di Torino, riconosce nel dipinto l’iconografia di Cristo e il Cireneo ed erroneamente così lo denomina. A noi basti dire che l’impatto della rappresentazione è drammatico: “l’andata al Calvario avvenne in pieno mezzogiorno. Ma qui la verità storica cede ad inoppugnabili ragioni pittoriche, motivi di lume, ed il fatto è trasportato nella tarda sera: un’atmosfera verdastra, trasparente seppur quasi nera, dilaga dalle lontananze fino a lambire i piani più vicini”13. Dall’ombra emerge Cristo, con il volto livido, caduto in ginocchio sotto il peso della croce che indica con l’indice della mano destra; porta lo sguardo, “di intensità al-
anche per me, attratta da quell’incarnato roseo e paffuto, dove le fossette tipiche dei bambini di quell’età si intercalano tra le nocche. Gli interventi di restauro, condotti sotto la guida della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino, congiuntamente alle indagini diagnostiche eseguite con strumenti unici in Italia, hanno restituito al dipinto splendore e facilità di lettura consentendo di cogliere indizi stilistici preziosi. L’opera si è disvelata, come Causa sottolinea nel titolo del suo saggio, consentendo di aggiungere nuove tessere al mosaico della produzione artistica battistelliana. È stata occasione per ripercorrere la storiografia critica della tela, analizzare le vicende conservative e le peculiarità della tecnica esecutiva, ricostruire il contesto storico e artistico nel quale venne realizzata, indagare sul suo significato nascosto e far emergere le vicende storiche che hanno portato il dipinto ad arricchire il patrimonio artistico dell’Università di Torino. Questa mostra nasce dal desiderio, maturato e condiviso con il rettore Gianmaria Ajani e con la soprintendente Luisa Papotti, di mostrare il dipinto ‘ritrovato’ ai torinesi, esponendolo nella nostra città. Porlo in dialogo con i dipinti caravaggeschi della Galleria Sabauda ha trovato parere unanime tra gli studiosi e grazie alla disponibilità dei Musei Reali di Torino il desiderio si è concretizzato. Oggi, a percorso compiuto, l’opera del Caracciolo si presenta al pubblico, prima di tornare nelle auliche sale del rettorato di via Po, mostrando a pieno la sua articolata e suggestiva composizione. Inserito per l’occasione in un meditato percorso di tele caravaggesche presenti nella collezione della Galleria Sabauda, tra le opere di Jusepe de Ribera, Valentin de Boulogne, Niccolò Musso, Antiveduto Gramatica e Orazio Gentileschi, il dipinto dialoga in concerto con artisti che di quel contesto storico e biografico sono stati parte preziosa. La straordinaria qualità dei dipinti trova riscontro nella pungente penna del Longhi che, in chiusura del suo saggio giovanile, pone il pittore di Catania un passo avanti rispetto a ogni altro discepolo del Caravaggio: “di fronte alle pri-
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pleta adesione alle innovazioni del linguaggio del maestro. Riconosciuta dalla critica come il capolavoro del Caracciolo, la Liberazione di san Pietro trova ampia corrispondenza con l’opera di misericordia verso i carcerati, raffigurata da Caravaggio nel quadro dell’altare maggiore come Caritas romana. Ma è sul bambino che i miei occhi si sono posati più che altrove, catturati da quell’attenzione di dettagli di cui è capace il Caracciolo. Con leggerezza attributiva Carità vi riconosce Rufo, figlio minore di Simone il Cireneo: “il piccolo Rufo – che diventò più tardi persona insigne nella cristianità di Roma – è qui ancora uno scugnizzo in giubbetto biancastro, punteggiato di scuro, e calzoni color tabacco – prudenzialmente aperti – dal cui strappo pende uno straccio lurido di camicia”19. L’esecuzione stilistica ci induce a seguire la linea scura che delinea l’incurvatura della schiena, mentre l’attento gioco di luci e ombre rimarca il profilo del volto che per Michael Stoughton deriva dallo stesso modello dell’Angelo che regge le rose senza le spine nell’Immacolata Concezione. Il bambino del dipinto torinese presenta modelli che possiamo riconoscere in due capisaldi del dettato battistelliano: il San Giuseppe e Gesù Bambino del Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna e la Madonna col Bambino e san Giovannino del Quarto Priorale del Museo di San Martino20. Emerge con evidenza che trattasi dello stesso infante. L’attaccatura del capelli al cuoio capelluto, la conformazione dell’orecchio destro, gli zigomi alti e pieni, il taglio degli occhi, la profondità dello sguardo fanno pensare a un unico modello. I particolari dell’abito sono un richiamo esplicito al bambino della Madonna del Rosario del Caravaggio21: “non può essere solo una coincidenza che il ragazzo nell’opera di Battistello indossi esattamente lo stesso tipo di calzoni, strappati dietro, che indossa il bambino inginocchiato del dipinto di Caravaggio”22. Non è strappato, ma aperto volutamente, come tipico dei calzoni dell’epoca. Il taglio della stoffa è netto e non ci sono sfilacciature. La stoffa sbrindellata la ritro-
lucinante, ridotti come sono gli occhi due cavità nere”14, sull’uomo inginocchiato di fronte. Battistello pare invitare a fare altrettanto, attirandoci nel dipinto con il rosso vivo del panneggio morbido sull’incarnato. I personaggi, gli “altri”, quelli che il Carità vuole riconoscere “nella famigliola di Simone da Cirene”, rappresentano la folla, il popolo, e sono volutamente abbigliati alla maniera del tempo di Battistello: un bambino e una giovane donna rubano la scena al soldato e alla donna anziana che gli è a fianco. Come osserva Michael Stoughton nella scheda critica del dipinto presentato nella grande mostra napoletana del 198415, il modellato delle figure richiama con forza l’opera dell’Immacolata Concezione con san Domenico e san Francesco da Paola di Battistello16, il più antico dipinto a olio documentato che ci rimanga sull’artista. “In particolare la testa dell’angelo tra Dio e la Vergine dell’Immacolata Concezione corrisponde esattamente al volto della donna di sinistra dell’altro quadro. Tutte e due le figure hanno un’ombra sottile che mette in risalto lo zigomo e crea l’effetto dell’occhio un po’ sporgente”17. Un’affinità di linguaggio che mi par di riconoscere nel più tardo dipinto del Giudizio di Salomone, dove le acconciature delle due donne, il taglio della luce proveniente da sinistra e la generosa scollatura, un tempo censurata, sulla quale si sofferma Causa nel suo saggio, sono elementi di evidente continuità18. Non c’è più traccia del pudico posticcio settecentesco neppure all’occhio di immagini diagnostiche; emerge invece, dopo la pulitura, la ciocca dei capelli che, dal quel crocchio sapientemente intrecciato in un nastro carico di luce, ricade morbida sull’incarnato fino a confondersi nell’oscurità della veste. L’uomo in primo piano è un adattamento delle due figure inginocchiate davanti a san Domenico nella Madonna del Rosario (hanno entrambi le piante dei piedi sporche rivolte verso lo spettatore); il suo corpo, l’anatomia puntuale raccontata da quella schiena incurvata che torna più volte nel corpus pittorico del Caracciolo, come nella Liberazione di san Pietro dal carcere, al Pio Monte della Misericordia in Napoli, mostra una com-
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Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me, particolare
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Giovanni Battista Caracciolo, San Giuseppe e GesĂš bambino. Losanna, MusĂŠe cantonal des Beaux-Arts
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ri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, dai lineamenti e dalle espressioni del volto non è argomento proprio della storia dell’arte. Diverso è stato applicare le conoscenze della fisionomia estetica, capace di dedurre attraverso l’osservazione morfologica somiglianze fisiche ed espressioni emotive. Certo è che, se a partire dal Rinascimento, non pochi artisti hanno riservato uno sguardo speciale ai bambini della nobiltà, il bambino del Caracciolo, di matrice caravaggesca, è finestra di straordinario dettaglio sul quotidiano realismo del primo Seicento napoletano. “Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo e spesso madre dei nostri sentimenti”23: con questa semplicità profonda vale la pena approcciare il Qui vult venire post me, lasciando a quella peculiarità che ci è propria che chiamasi emozione l’incontro con il caravaggismo di Battistello, capace, al di là di ogni parola critica e di qualsiasi occhio tecnologico, di “far vibrare le corde della nostra anima”24.
viamo invece nell’abito indossato dal bambino del Caracciolo, più ricco di dettagli descrittivi. Tra quella che Causa nel saggio in catalogo descrive come “una complicata imbracatura di stracci a pelle, giocati su una dominante di bianchi sporchi”, attraverso un particolare della riflettografia si delinea evidente la presenza di un grembiule, allacciato a un occhiello di una cintura di stoffa arrotolata, il cui lembo ricade morbido sulla parte destra delle braghe. Questo dettaglio, sommato ai particolari fisionomici, ci fa desumere un’età approssimativa del soggetto di circa quattro anni. In età successiva, infatti, i bambini generalmente smettevano di indossare il grembiule e venivano abbigliati con indumenti da adulto. Le scarpe fanno da contrappasso alla pianta sporca dei piedi del personaggio inginocchiato. Sono piccoli calzari in cuoio, pedule tipiche dei bambini di quell’età. Non è mia intenzione addentrarmi negli ardui meandri di una disciplina pseudoscientifica quale la fisiognomica. Pretendere di dedurre i caratte-
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1 R. Longhi, Battistello, in “L’Arte”, 1915, pp. 58-75; 120137. Ried. in Studi caravaggeschi. 1943-1968, Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, Firenze 1999, vol. 11/1, p.179. 2 Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, a cura di F. Bologna, catalogo della mostra (Napoli, Castel Sant’Elmo, 9 novembre 1991 - 19 gennaio 1992), Napoli 1991. 3 S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 26. 4 In Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 24 ottobre, 1984 - 14 aprile 1985), 2 voll., Napoli 1984, pp. 118-119. 5 B. De Dominici, Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani, 2 voll., Napoli 1742-1743, vol. II, 1743, p. 273 sgg. 6 De Dominici, Vite de pittori cit., ristampa anastatica, Bologna 1979, p. 213. 7 Longhi, Battistello cit., p.183. 8 Sulle diverse titolazioni del dipinto si veda il saggio in catalogo di Filippo Timo. 9 Longhi, Battistello cit., p. 200. 10 In proposito si veda il saggio in catalogo a cura di Paola Novaria. 11 R. Carità, Un Battistello ritrovato, in “Paragone. Arte”, 1951, II, 19, pp. 50-54: p. 53. 12 “Il Cristo con la croce, lievemente mitigato nel tipo, si ripete nella mezza figura isolata nella Quadreria dei Girolamini, ove ritorna anche, ma più olograficamente, il tipo del Cristo di Vienna”. In Longhi, Battistello cit., p. 197. 13 Carità, Un Battistello ritrovato cit., p. 51. 14 Ibidem.
M. Stoughton, Qui vult venire post me, in Civiltà del Seicento a Napoli cit., vol. I, p. 202, n. 216. 16 Chiesa di Santa Maria della Stella, Napoli. “La Pala della Stella fu una delle prime sortite di grande impegno del pittore che si è sottoscritto per esteso, ritraendosi nelle sembianze di Adamo”, in Causa, Battistello Caracciolo cit., p. 16. 17 Stoughton, Qui vult venire post me cit. 18 Il giudizio di Salomone, olio su tela, in collezione privata, è fra i più importanti dipinti a olio degli ultimi anni di Caracciolo, probabilmente datato 1632-1634. 19 Carità, Un Battistello ritrovato cit., p. 51. 20 Per le schede e le riproduzioni delle opere citate, cfr. Causa, Battistello Caracciolo cit., pp. 24-25, figg. 20-21; p. 175, A2, Getsemani; pp. 176, A11, 215, fig. 169, San Giuseppe e Gesù Bambino; pp. 178, A17, 225, fig. 178, Madonna con il Bambino e san Giovannino. 21 “Appaiono più sostanziali i riscontri con il Rosario, come sostenne a suo tempo Longhi, e come si è ribadito rilevando la coincidenza cronologica con la presenza dell’opera a Napoli. Non vi è unanimità sulla datazione di questo immenso dipinto caravaggesco, che l’ineffabile Berenson giudicò accademico e insulso. […] In ogni caso il Rosario era in vendita a Napoli nel 1607, presso lo studio di due notevoli pittori e faccendieri fiamminghi. Fu lì che il Battistello poté studiare il dipinto magari nei mesi in cui preparava la tela per l’Immacolata Concezione”, in Causa, Battistello Caracciolo cit., p. 26. 22 Ibidem. 23 W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, traduzione di G.A. Colonna Di Cesaro,Bari 1968. 24 Ibidem. 15
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Battistello disvelato
san Pietro dal carcere (1615) dell’aula del Pio Monte di Misericordia a Napoli, dove il Caracciolo smetterà la divisa di puro caravaggesco per imboccare una scorciatoia di stile e cultura differente da quella della tela del Caravaggio a capo altare, le Opere di Misericordia, precedente di meno di un decennio (1607). Caravaggio è a due passi: ma suona poco meno che indecifrabile a quanti vogliano emularne scrittura e invenzioni. Battistello lo ha visto lavorare: il nostro quadro è ricco di rinvii a opere del maestro, a partire dalla Madonna del Rosario di Vienna. Quegli straordinari pezzenti invitati alla distribuzione dei rosari, evocati da Roberto Longhi, era difficile non pesassero, e non passassero, nella concezione delle figure impattanti del Caracciolo. I piedi sporchi squadernati in primo piano sono un indizio su cui lo spettatore è costretto a posare gli occhi (e il naso)4. Caravaggio è alle spalle. Ma qui il linguaggio si è arricchito e appare più articolato se vediamo Battistello, ormai alle soglie dei quarant’anni, smorzare il rigore delle prime sortite caravaggesche. Allungare il vino è metafora che avrebbe potuto servire a uno scrittore e storico come Longhi: riscopritore di Battistello e divulgatore, tra le due guerre, di un primato del genio napoletano (sei e anche settecentesco) in una chiave esclusivamente caravaggesca. Quanto a noi, che pure siamo gli indegni nipotini di queste letture longhiane, il Battistello di Torino lo riproporremmo come di uno che sta guardando al Gentileschi, alle opere del Lanfranco e, sempre che il restauro non menta, al Ribera romano (prima del 1616, che coincide con il suo definitivo trasferimento a Napoli). Tempi, nomi di punta e geografia dell’arte mutavano rapidamente anche allora; e, mentre nell’agenda del Caracciolo e amici napoletani si squaderna una rosa inedita di riferimenti, si scopre che Roma non è mai stata così vicina a Napoli, per quanto il comune denominatore tra le due città – la papale e la spagnola – dobbiamo riconoscerlo fuori delle strette cerchie caravaggesche.
S T E FA N O C A U S A
Alla cara memoria di Nicoletta D’Arbitrio e Luigi Ziviello
Un restauro è un atto critico Conclusosi alla fine del 2018, il ripristino del cosiddetto Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo (1578-1635) conservato al rettorato dell’Università di Torino segna la più importante novità degli ultimi anni sul corpo del caravaggismo napoletano. Nonché di un restauro rivelatore, si tratta di un’operazione di critica d’arte: come risulterà evidente a chi sfogli il dossier fotografico pubblicato in questo catalogo 1. Il ductus del dipinto, uno dei vertici della maturità del pittore oltre che tra i più documentati della scena napoletana in trasferta, si è rivelato straordinariamente stratificato per la somma di pentimenti, di piste imboccate e poi abbandonate. La tela, dalle dimensioni di un quadro da stanza (132,8 × 183 cm), è siglata sul margine destro. Il 31 luglio 1614 il procuratore a Napoli di Marcantonio Doria, Lanfranco Massa, paga ottanta ducati a Battistello “per prezzo di un quadro d’un Cristo che porta la Croce ed altre pitture di gente che lo seguivano che li ha fatto per servizio di Marcantonio Doria di Genova” (un soggetto inconsueto nel contesto meridionale) 2. Sul retro, oltre alla scritta “Del Caracciolo”, figura una croce sovrastante tre lettere: MAD3. Intorno a questa data, Battistello è a Roma dove frequenta il pisano Orazio Gentileschi, impegnato nella decorazione del Casino delle Muse. Se il dipinto ha un’accertata provenienza genovese fin dal 1614, vuol dire che siamo a un passo dalla Liberazione di
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nella maggiore delle botteghe locali, deve imparare a ripartire il lavoro tra gli aiuti (laddove è proverbiale il solipsismo del Caravaggio). Come suddito dei viceré spagnoli ha un ruolo sociale definito: tiene famiglia e allievi. Perciò con lui sarebbe improprio metter mano ai fondi di magazzino del biografismo riappellandosi ai luoghi comuni dell’artista sradicato e sociopatico. Non ci aspetteremmo, per Battistello, la vita a colori del Caravaggio approntata dal Manara nel 2015 – in quello che, tre anni più tardi, sulla fascetta dell’edizione francese dell’albo, Le Caravage, è presentato come “la rencontre au sommet de deux artistes subversifs et sensuels”: l’incontro al vertice di due artisti sovversivi e sensuali. Mentre qui, nel dipinto del Caracciolo, di sovversivo c’è solo l’invito di Cristo a seguirlo (e, di sensuale o, meglio, di carnale, riusciremo a scoprire qualcosa affissando lo sguardo tra i seni pesanti della donna a sinistra).
Vernacolo napoletano Nelle pagine del 1915 Longhi, che aveva già scritto sul calabrese Mattia Preti, non volle enfatizzare il fatto che Battistello trovasse la sua strada come specialista di pittura murale nell’officina dell’impresario Belisario: impaginatore, in vernacolo, di storie devozionali e celebrative. Una sorta di Cavalier d’Arpino alla pizzaiola. Il nostro Seicento spicca sulle altre scuole per una non appannabile matrice caravaggesca. Questo durevole acquietamento critico avrebbe soddisfatto gli allievi di Longhi; lasciando nel dubbio se il restringimento della scena napoletana a un unico filone non rischiasse di ricalcare, in contesto diverso, l’atto di riduzione dell’arte francese del secondo Ottocento al solo Impressionismo. Battistello continuerà a praticare l’affresco fino alla fine. Ma come marcatura regina rispetto al Caravaggio, fu disegnatore assiduo. Anzi, egli è il battistrada della grafica moderna, in anticipo sui Ribera e sui Preti ai quali due, fino all’altro ieri, era imputata la nascita
Un caravaggesco infedele 1
Roberto Longhi, fotomontaggio battistelliano, post 1951. Su concessione dell’Archivio della Fondazione di Studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Firenze
Napoletano, classe 1578, Battistello Caracciolo è il meno allineato dei caravaggeschi. Il numero di disegni che gli si attribuisce e che, stando ai rilanci recenti, pare destinato a crescere, è un decisivo indizio di infedeltà (Caravaggio non disegnava). Battistello ha poi un posto nell’evoluzione dell’incisione di gusto caravaggesco. Infine, alcune tra le sue prove napoletane di massimo impegno – in Palazzo Reale o nelle chiese di Santa Maria la Nova e San Martino – sono su affresco (mentre Caravaggio, come Ribera è, diremmo ideologicamente, refrattario alla pittura murale). Per ovviare a queste commissioni Battistello, cresciuto al passaggio tra i due secoli
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allorché il ricordo del Caravaggio comincia a recedere sotto la pressione di nuove istanze. Nella cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, stanno subentrando pittori e scultori forestieri (il bolognese Domenichino e il parmigiano Lanfranco; il satellite toscano di Bernini, Giuliano Finelli). Sono, se si vuole, precoci segnali di ricevuta del barocco storico. Ma nella tarda primavera del 1616 si trasferisce, da Roma, lo spagnolo Ribera, che impone una repentina rottura degli argini. Non sbaglierebbe poi troppo chi provasse a raccontare la pittura napoletana del Seicento come un sistema di glosse al linguaggio di Ribera.
L’insegnante di Realtà
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Giovanni Battista Caracciolo, Liberazione di san Pietro dal carcere. Napoli, Pio Monte della Misericordia
L’ultimo Caravaggio era apparso subito come un maestro non emulabile. Il quadro d’altare delle Opere di Misericordia segnerà pure il momento più rappresentativo dell’epos napoletano premoderno (sebbene, significativamente, non sia opera di un napoletano). Ma è un capolavoro arduo da copiare, quanto difficile persino da leggersi, per il linguaggio improvvisato, fuori da ogni creanza accademica, con cui è stato eseguito. Un manifesto suo malgrado; ed ellittico. In ogni caso, un manifesto senza eredi in un centro in cui avevano lavorato scultori e pittori di vaglia come Pietro Bernini (morto nel 1629), Francesco Curia o Girolamo Imperato. Nessuno dei dipinti tardi del Caravaggio può alleviare il disagio di un discorso fondato sull’ellissi e il troncamento dell’immagine. La scrittura contratta, gli spazi insondabili e l’avara gamma cromatica: quanti agognassero al trionfo del colore e a narrazioni comprensibili rimasero sgomenti dinanzi ai contrassegni di questa strenua poetica della rinuncia, cui viene impegnandosi il maestro, ormai in dialogo solo con sé stesso. Perciò si ritrassero rinunciando alla sfida. Il fatto è che nel vicereame la bella pittura sarebbe rimasta esigenza insopprimibile. Rinunciare alle lusinghe dello stile si sarebbe rivelato commercialmente sconsi-
del disegno meridionale (“il miracolo del sangue” aggiunse, con traslato un poco blasfemo per i napoletani, il tedesco Walter Vitzthum); d’altronde, è sul corpus del Caracciolo, morto a Napoli nel 1635, che occorre misurare il valore del disegno nelle cerchie del Caravaggio. Ed è ormai irrinunciabile, per avvicinarsi al maestro, la porta d’ingresso della grafica, come dimostrò Marina Causa con una serie di rilanci sulla rivista “Paragone”, calibrati dal 1987. Nondimeno, Battistello scivolerà dalla foto dei naturalisti veraci già negli inoltrati anni venti,
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all’ordine del giorno, riportandoli all’attenzione di maestri e intenditori, quei giochi di prestigio pittorici che l’ultimo Caravaggio, tra il 1606 e il 1610, aveva loro sottratto. A molti dovette parere una specie di risarcimento quando, nello spazio di pochi anni, lo spagnolo impiantò una vera scuola. Al dazio di un confronto non poteva certo sottrarsi il Caracciolo: lo rivela, nei dipinti degli inoltrati anni dieci del Seicento, un gusto più accentuato per i risalti di superficie. È lo Stile, con la esse maiuscola, che gli riprende la mano. D’altronde i visi più caricati e una nuova, inedita attenzione per la rappresentazione dei santi vegliardi accendono la lampada-spia di Ribera nella Trinità Terrestre del 1617 e nella Madonna d’Ognissanti della collegiata di Stilo in Calabria del 1619. Due opere campione del percorso maturo di Battistello, da scalare dopo il nostro dipinto. Due opere che alludono a Ribera. Come insegnante di realtà – una realtà scrutata e indagata pittoricamente in modo opposto al Caravaggio – è lui l’uomo nuovo, il personaggio centrale e accentratore della cultura napoletana prima dell’ascesa di Giordano. Qui il Seicento non è il secolo del Caravaggio, ma il secolo di Ribera, e l’evidenza di un passaggio del testimone si intravede nel Qui vult venire post me del rettorato torinese. Anche per questo, se ben condotto, un restauro è di ausilio alla critica – specie per la produzione di Battistello che si regge su di una cronologia ballerina e tra le più difficili del panorama locale.
gliato per committenti e artisti. Ma ammesso che l’unico autentico caravaggesco sia stato il Caravaggio stesso, il caravaggismo è anche la fenomenologia di un addomesticamento. L’urgenza di ingentilire e chiarificare le storie, intervenendo con massicce iniezioni di stile. E mentre va sfumando la memoria del Caravaggio, ci si impegna nella decrittazione del verismo effettistico e illusivo del Ribera: che è soprattutto, nel massimo sollievo degli artefici locali, uno stilista incomparabile. Ribera pone
Storia e immaginazione A dispetto di oltre un secolo di ricerche apparecchiate nell’officina di Longhi, non sappiamo granché del seguito napoletano del Caravaggio. Le date dei tentativi di rincorsa degli artefici, vivo il maestro, sono incerte; e così le attribuzioni. Basterebbe considerare la bibliografia degli ultimi trent’anni. Per la somma di strade, anche secondarie, che ha contribuito ad aprire, quella sul Caracciolo e il naturalismo, tenutasi
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Michelangelo Merisi da Caravaggio, Sette opere di Misericordia. Napoli, Pio Monte della Misericordia
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Michelangelo Merisi da Caravaggio, Madonna del Rosario. Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Giovanni Battista Caracciolo, Il Gran Capitano si impossessa di tutta la Calabria. Napoli, Palazzo Reale 6
Giovanni Battista Caracciolo, La disfida di Barletta. Napoli, Palazzo Reale 7
Giovanni Battista Caracciolo, Incontro degli ambasciatori. Napoli, Palazzo Reale
riassuntive, cercando di ripartire da una lettura dello stile, servita da una scrittura che puntasse a una minore aggettivazione e una maggiore oggettivazione. Ci si chiede cosa sia filtrato, negli studi sul naturalismo napoletano, delle ricerche sul contesto romano (e di rimbalzo su quello di Napoli), tese a rimettere Ribera dove avrebbe dovuto sempre stare: al centro, cioè, della questione caravaggesca e, a Napoli, sul podio più alto avanti il decollo di Giordano. Ma la risposta non è semplice. Specie se si vorrà ammettere che, dopo la monografia del 2000, Battistello sia rimasto ai margini della ripartenza degli studi. Superfluo aggiungere che questo eccellente
nel 1991, va ritenuta la maggiore esposizione napoletana degli ultimi trent’anni; mentre la lettura del catalogo continua a proporsi dentro un rinnovato atto di fede nelle possibilità della lettura dei documenti di prima mano5. Ma stilcritica a parte, bisogna ammettere che, per come si è venuto costruendo nel Novecento, il progetto critico del naturalismo si fonda su un miscuglio di elementi variamente dosati: dalla critica formalistica alla letteratura, dalla storia militante all’immaginazione. Nei casi migliori si è fatto appello a tutti e quattro gli arsenali, senza risparmiare sull’ultimo. Nel merito si è visto poi di come alcuni abbiano preso le distanze dal carattere asfaltante di tante mostre
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Giovanni Battista Caracciolo, L’entrata del Gran Capitano in Napoli. Napoli, Palazzo Reale
ripristino, condotto nel laboratorio di restauro e di analisi, aperto a Torino dal belga Thierry Radelet nel 2011, getta una luce chiara sul massimo momento di militanza caravaggesca del pittore.
storia, scientificamente fondata, di agnizioni e rivelazioni tecniche. La mostra sul Caravaggio, curata a Firenze da Mina Gregori nel 1991, si fregiava di un sottotitolo programmatico: come nascono i capolavori. Non si trattava solo di riportare le opere a una migliore leggibilità; ma di suggerire nuove piste di lettura. Sono passati quasi trent’anni e non è qui il caso di rimarcare quanto tutti dovrebbero sapere a memoria. L’ausilio della diagnostica accompagna la decifrazione dello stile, senza prevaricarne tensioni e funzioni. Anche dagli eloquenti dettagli riprodotti in questo catalogo, appare innegabile che l’analisi tecnico-scientifica possa integrare ed eventualmente correggere l’analisi formale, da esercitare con raddoppiata cautela sullo stipato, ma sdrucciolevole terreno degli studi caravaggeschi. Ora, che questa operazione con partenza napoletana e finale ligure piemontese (l’Annunciazione di Orazio Gentileschi) sia stata celebrata nelle sale della Sabauda, questo periplo di geografia dell’arte potrà stupire solo chi non conosca le vicende della massima pinacoteca piemontese. Fu nel 1982, infatti, in occasione del centocinquantenario della Galleria (1832), che fu pubblicato un quaderno documentario su alcuni, e solo alcuni, interventi di restauro6. La premessa era già una petizione di metodo7. Pure era da tempo che un caravaggesco della prima ora come Battistello, servito da una monografia ormai ventennale, attendeva una disamina scientifica. E i risultati non si sono fatti attendere: se è vero che un restauro obbliga, nel bene e nel male, a riconsiderare gli eventuali restauri precedenti; è altrettanto vero che sollecita innanzitutto a rivedere antiche posizioni.
Diagnostica e stilistica
La Storia dell’arte è anche storia di riletture
Dirli meri restauratori sarebbe un’approssimazione per difetto; e forse un’ingiustizia. Thierry e i suoi si sono mossi come veri storici d’arte. A nessuno occorre ormai ricordare che la fortuna della pittura caravaggesca è anche
Il Battistello del rettorato ha ora tutt’altra presenza: i visitatori di questa breve esposizione, fortemente voluta da una storica d’arte della sensibilità di Daniela Magnetti, s’imbatteranno quasi in un inedito. Mai sin qui s’erano
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Orazio Gentileschi, Annunciazione (intero e dettaglio a pagina 37), 1623, olio su tela, 289 Ă— 198 cm. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, inv. 161. Su concessione del Ministero per i beni e le attivitĂ culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
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nell’Italia del Nord, rubato nel 1992 e ritrovato qualche anno dopo9. Ugualmente ficcanti appaiono i rinvii al ciclo ad affresco, databile nel 1611, con Storie di Consalvo di Cordova nell’appartamento storico di Palazzo Reale a Napoli10. Quanto al teschio in tralice nell’angolo destro, si tratta di un inserto di natura morta studiato in un gruppo di disegni e che Battistello ricalibrerà in almeno un altro dipinto coevo: nella Santa Caterina da Siena in adorazione del Crocifisso, transitata sul mercato milanese nel 2009.
potuti apprezzare, con eguale vivezza, particolari come il bambino vestito, o coperto alla men peggio, da una complicata imbracatura di stracci a pelle, giocati su una dominante di bianchi sporchi. Uno strappo di pauperismo, che si ritrova nell’ultimo Caravaggio (ma che, a Napoli, odora già di Ribera). Mai erano apparsi così smaglianti dettagli di intelligenza figurativa come la manina dipinta a corpo sulla macchia rossa del panneggio dell’uomo, la cui schiena occupa la parte centrale e si accende, più che mai, come punto focale del dipinto. A rivederlo, nella dominante matrice caravaggesca, si conferma il rinvio al personaggio in primo piano nella Liberazione di san Pietro dal carcere del Pio Monte del 1615: un dipinto di chiesa confezionato negli stessi mesi e di cui la tela di Torino sembra una sorta di anticipazione in taglio orizzontale e ravvicinato. È possibile inoltre che, nel volto della vecchia individuato con nuova perspicuità fisiognomica, si sia già in zona di allerta Ribera. Tuttavia, diversamente dalla superficie densa di spessori del maestro spagnolo, in Battistello la materia si apre in lunghe pennellate, distendendosi a macchie. Questa condotta, culminante nella massa di capelli del pitocco di spalle, sta tra le matrici del linguaggio sintetico del Velázquez nel primo viaggio a Roma: si faccia un confronto tra il nudo quasi sagomato dal fondo e le figure nella Tunica di Giuseppe (1630), databile quindici anni dopo8. Chiude il dipinto, a destra, il Cristo: dal volto simile a una maschera orientale (o piuttosto, dato il contesto, a una Sindone!) e sulla cui corona di spine sono riemerse poche virgolature di sangue. L’iterazione dei modelli è una prassi nelle officine caravaggesche (nonché un navigatore in situazioni scivolose come quelle poste dalla cronologia di Battistello). Il restauro ha permesso di assodare i confronti con altre opere del Caracciolo del secondo decennio. Innanzitutto con il Cristo e l’angelo oggi alla pinacoteca di Vienna, del quale esiste una versione più ampia nella parrocchiale cremonese di Vho presso Piadena: un altro Caracciolo attestato
Il braccio corto della critica Nonostante la convocazione a una rassegna prestigiosa (Civiltà del Seicento a Napoli, 1984), il dipinto torinese, pubblicato nel 1951, resta tra i capolavori sommersi della maturità di Battistello. Non solo si tratta di uno dei rari napoletani acquisiti per tempo da una sede (semipubblica) piemontese, ma è tra i pezzi caravaggeschi più rilevanti conservati nel Nord Italia. Poco noto agli stessi specialisti, il Qui vult venire post me vanta una fortuna abbastanza recente. Fu illustrato dal vicentino di adozione piemontese Roberto Carità, su “Paragone”, tribuna consacrata alle aggiunte al Caracciolo e ai napoletani di Sei e Settecento. Lo studioso identificava il soggetto del dipinto, ritenuto “un incunabolo prezioso per la storia del caravaggismo napoletano”, con quello evangelico del Cristo e il Cireneo. L’apparizione del Battistello coincide con la fioritura di ricerche sul naturalismo in seno all’officina longhiana, culminata nell’esposizione sul Caravaggio tenutasi a Milano nel 1951. Nella prima decade della rivista (1950-1960), l’affrontamento al tema caravaggesco risulta di natura sovraregionale (mentre si trovano precoci escursioni sul terreno della diagnostica). Giovani studiosi inviano alla redazione materiale inedito, provando a tener dietro alle direttive longhiane – occorreva riarticolare il discorso caravaggesco tra dipinti sacri e di natura morta (né manca, in
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coda ai fascicoli iniziali, il riporto di pezzi rari dell’antologia critica, a prova di un’attenzione particolare alla letteratura artistica). È Longhi come di consueto a uniformare, con gesti direttoriali, il tessuto orchestrale di “Paragone”. L’ingorgo a centro tema (la Roma di Caravaggio) è massimo come pure, simmetricamente, l’attenzione ai margini (le periferie). Margini è termine squisitamente longhiano atto a connotare: non il carattere della ricerca – non si tratta di studi marginali – quanto la capillarità con cui si coprono tutti i lati del dossier sul maestro, nell’ambito di questa seconda primavera caravaggesca. La prima era caduta tra il 1910 e il 1920: ma da promotore, ora Longhi ne diventerà il gran cerimoniere. Specie perché esondati dal canale delle riviste, quegli affondi di critica e filologia erano sbocciati salendo alla ribalta delle mostre. Gli anni cinquanta sono centrali anche nella fortuna del Caravaggio, mentre sulle pagine capitanate da Longhi si coglievano, a scoppio ravvicinato, i riverberi della mostra milanese di Palazzo Reale. Le prime foto bianco e nero del Battistello compaiono nel numero del luglio 1951, in un fascicolo che terremo come manifesto delle istanze longhiane in tema di meticciamento tra Antico e Moderno. Lo apre un contributo caravaggesco di Longhi e lo chiudono gli appunti di Attilio Bertolucci su Picasso; in mezzo, si dipanano le pagine di Giuseppe Raimondi sui metafisici Carrà e de Chirico e quelle di Francesco Arcangeli su de Pisis11. Non mancano due contributi quattrocenteschi sui Vivarini. La rivista si muove tra storia e critica militante secondo un pencolamento che, lungo la dorsale specialistica degli studi odierni, verrebbe accusato di genericità. Il seguito della disciplina in Italia avrebbe vanificato la possibilità di una convivenza tra arte e letteratura, allontanando dalla storia dell’arte qualsiasi tentazione di racconto. Il Battistello fu pubblicato dall’allora trentottenne Carità, che lo aveva scoperto nella collezione Martinotti di Casale Monferrato12. L’anno dopo perviene per acquisto alla sede attuale: “Dubbi attributivi sull’opera”, avverte Carità,
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Giovanni Battista Caracciolo, Santa Caterina da Siena in adorazione del Crocifisso, particolare. Collezione privata
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Diego Velázquez, La tunica di Giuseppe. Real Monastero dell’Escorial
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Longhi stava navigando (letteralmente) a vista nel problema della cronologia del Battistello più caravaggesco (ma bisogna ricordare che, all’epoca, non era ancora emersa la datazione al 1615 del capolavoro del Pio Monte). Il fotomontaggio è conservato nella cartella intitolata al Caracciolo nella fototeca Longhi di Firenze. E appartiene alla storia della stilcritica in Italia del secondo dopoguerra, trattandosi di un campione puro del metodo longhiano maturo, come si andava divulgando tra gli allievi – se ne coglie un tramando diretto in uno dei titoli chiave della storiografia longhiana di ultima mandata, la Fortuna dei primitivi di Giovanni Previtali (1964). Ma torniamo a noi. Pervenuto nelle collezioni torinesi forse per auspicio longhiano, il dipinto di Battistello rimarrà a lungo misconosciuto. Prima ribalta pubblica importante fu la mostra Civiltà del Seicento a Napoli, nel 1984. In quell’occasione comparve tra i dieci Battistello (di cui uno discusso), dentro una schedatura del maggiore specialista americano del pittore. Il quale si accorse che il vero soggetto del dipinto non è l’illustrazione del Cristo e il Cireneo, come supposto dal Carità; quanto la raffigurazione del motto evangelico Chi mi voglia seguire, prenda la croce – come dimostra l’assiepamento delle figure, in una sorta di bassorilievo. A latere della mostra di Capodimonte, il dipinto figurò tra le illustrazioni del Caracciolo presenti nel repertorio sui napoletani del Seicento, uscito a Milano nel 1984 allorché, sotto i torchi di Longanesi, si avviò l’impresa di documentare fotograficamente la pittura sei e settecentesca di alcune regioni17. Intanto, tra il 1988 e il 1992, il dipinto veniva restaurato “con l’ablazione di due aggiunte a sinistra e in alto”. Nella primavera del 1992 il quadro si riaffaccia in palazzo Spinola in una rassegna di arti varie del barocco genovese18. Se in catalogo un ottimo studioso di cose liguri ne rileva la matrice principale (“anche la chiave cromatica del dipinto, trova fondamento e ragione nell’ultimo Caravaggio”); nel seguito, allunga la falcata in un esame che ricolloca ottimamente la tela in un giro romano, tra Gentileschi e i “raggiungi-
“non ne esistono. Oltre agli elementi di stile, un poco ci soccorre la scritta ‘Del Caracciolo’ che è stata riportata dalla prima tela sul rovescio della nuova tela con cui il quadro venne rifoderato molto tempo fa; la scritta originale era più larga e ancora traspare. Ma più ci illuminano le lettere dipinte sopra un sasso, nell’angolo inferiore destro: GBC”13. Il contributo merita una rilettura anche per le annotazioni di carattere conservativo. L’aggiunta al pittore è tramata da un’inconsueta attenzione allo stato del dipinto, al punto che non sembra improprio riaprire il dossier diagnostico sull’artista da questo intervento su “Paragone”: “Il dipinto è nel complesso ben conservato. Esistono alcuni ritocchi, ma sparsi e di poca entità. La testa del Cireneo è rientrata, ed il fondo è assai incupito. La tela, rifoderata nel secolo scorso, aveva già subito – un tempo certo assai antico – un taglio lungo la parte superiore, per l’altezza di circa 25 cm; in seguito la parte tolta fu nuovamente rimessa a posto. A sinistra è una striscia, di 7 cm, forse non originale, certo ridipinta”14. Non era scontato per i tempi, e non lo sarebbe stato per molti anni ancora che, tra i formalisti di matrice longhiana, si discettasse di ritocchi e rifoderature. In seguito allo smembramento della collezione di provenienza, Battistello viene comprato dall’Università di Torino nel 195215. Non ci sarebbe da meravigliarsi se la transazione fosse avvenuta con gli auspici di Longhi stesso: innamorato da sempre del Caracciolo, nonché piemontese di nascita (era nato ad Alba nel 1890). Che rimanesse folgorato dal quadro è confermato, non solo dalla decisione di ospitarne su “Paragone” la segnalazione di Carità, ma soprattutto da un esercizio di analisi delle forme che condusse per conto proprio. Si tratta di un montaggio di alcuni dettagli del quadro di Torino e di altri di Battistello16. Nella parte superiore del foglio l’uomo di spalle si moltiplica idealmente nel Miracolo di sant’Antonio da Padova e nella Liberazione di san Pietro; nel registro centrale spicca il confronto tra la giovane madre e il San Sebastiano, a segno che
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mente degna di Orazio, sembra già presentire il passo, stilisticamente calante, della figlia. E si capisce: di lì a poco, nel chiuso dell’atelier, questa matrona meridionale che incita le folle si trasformerà in una Cleopatra o in una Venere. Non deve stupirci perciò che anche Battistello, bronzeo e severo patriarca del caravaggismo, si scontrasse con i paletti della censura. In un periodo imprecisato la profilatura di questi superbi seni torinesi scomparve sotto una camiciola bianca, prima che il restauro di fine anni ottanta provvedesse a rimuovere la pecetta. Nel primo volume del catalogo di Civiltà del Seicento, il décolleté è coperto per non offendere nessuno22. Rimangono celati i seni anche nelle riproduzioni calibrate nei due repertori fotografici sulla pittura napoletana e su quella genovese23. Solo nel discusso quanto visitato dossier sul caravaggismo europeo, 1990, il Caracciolo appena restaurato figura privo della banda occultante24.
menti del circolo di Manfredi: […] Se il vibrare della materia pittorica è ottenuto intersecando la larga pennellata a filamenti con i rincalzi scuri e l’ombra translucida, il colore è tramato da inflessioni fredde, trascorrenti, preziose […]”19. Toccherà allo scrivente catapultare il dipinto in una monografia dal sottotitolo volontaristico e che, a distanza di vent’anni, risulta tanto onesta quanto emendabile: a partire dall’apparato iconografico20. Come che sia, il libro sul Caracciolo provava a ritestare un tipo di scrittura militante, in qualche modo longhiana; e, da questo punto di vista, lo si può recuperare in una presa di distanza dalle strettoie specialistiche che allora la critica cominciava a imboccare.
Uno spettatore più coinvolto Nel dipinto viene adottato un taglio ravvicinato, affinché chi guardi venga arruolato a seguire il calvario di Cristo. Neanche per il moderato sperimentalismo della scena napoletana dei primi anni dieci del Seicento, un tale livello di coinvolgimento dello spettatore appare frequente. Esso anzi dovette porsi come nuovo traguardo nella pittura da stanza del tardo-caravaggismo. L’assetto compositivo appare studiato negli affreschi napoletani, di poco precedenti, e che però bisognava vedere dal basso, ad altezza media, con le Storie del Gran Capitano Consalvo di Cordova in Palazzo Reale (dopo il 1611); si guardi, soprattutto, la scena con la Presa della Calabria dove il gruppo dei personaggi inginocchiati si dispone come una prima idea per il quadro di Torino21. Alle spalle dell’ultima figura si profila la sagoma di un personaggio, di cui s’indovinano un orecchio e la zonatura dei capelli (l’intromissione di personaggi nascosti è consueta tra i caravaggeschi). Quanto alla donna dal promettente davanzale che mette in moto l’intera composizione: è prova di un avvenuto contatto con i tipi e le atmosfere del Gentileschi. Come lui il Caracciolo è in grado di far vibrare corde più sensuali e, per così dire, preborghesi. Pure il dettaglio dello scollo, reso con una tornitura effettiva-
Napoletani a Torino Abbiamo detto dei Gentileschi padre e figlia. Ora questa congiuntura che allarga le rette del compasso napoletano è una delle ragioni che ci hanno spinto ad affiancare, al Battistello disvelato, pochi compagni di strada: torinesi e non, ma che avessero rapporti con il clima stilistico maturo del pittore e, senza forzature, qualche aria di famiglia con il dipinto del rettorato. A cominciare dallo stesso Ribera, presente in Sabauda con un Cristo di profilo a mezza figura dei primi anni venti, che ha tutti i requisiti per rimpinguare questa minima antologia caravaggesca25. Ma che dire della Samaritana al pozzo del milanese Giuseppe Vermiglio, eseguita per la sede alessandrina della Congregazione dei canonici ne 1626?26 Oppure del San Girolamo del Valentin (1591-1632), attestato nelle collezioni sabaude fin dal 1635? Quanto al Suonatore di tiorba di Antiveduto Gramatica (olio su tela, 119 × 85 cm), non vi sarebbe altro da aggiungere a una lunga scheda che lo ripresentava
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Giuseppe Vermiglio, La Samaritana al pozzo, olio su tela, 288 Ă— 408 cm. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, inv. 832. Su concessione del Ministero per i beni e le attivitĂ culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
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Jean de Boulogne detto il Valentin, San Girolamo, 1618-1622, olio su tela, 103 Ă— 145 cm. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, inv. 144. Su concessione del Ministero per i beni e le attivitĂ culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
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Nicolò Musso, Cristo porta la croce al Calvario, 1620-1624, olio su tela, 265 × 177 cm. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, inv. 1086. Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
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Emanuele, nell’aprile 1623. Gentileschi era a Genova da due anni e non è escluso avesse potuto vedere opere del Caracciolo, tra affreschi e tele. È sintomatico che il giovane Longhi si misurasse sui due maestri nello stesso torno di tempo (il saggio sul toscano cade giusto un anno dopo quello di apertura sul Caracciolo31). Ed è proprio in Sabauda che egli ebbe un’uscita ritenuta infelice, ma che restituisce con garbo malizioso il decorso narrativo del post-caravaggismo32. Come “una dama dell’aristocrazia”, vede Longhi la Vergine, “che ascolta attentamente le parole di un giovine gentiluomo e nella sua stanza da letto”. Longhi descrive l’Annunciazione di Gentileschi ma si capisce che sta pensando a una scena d’interno di Vermeer. Quando, al principio degli anni settanta, Giovanni Romano pubblicò il Calvario del Musso, non ebbe difficoltà a presentarlo in relazione al Battistello maturo con cui, in effetti, il maestro mostra di intendersi bene: “A Roma”, annotava lo studioso, “Nicolò fu subito di un partito soltanto, quello dei caravaggeschi, anzi, nel corso del secondo decennio, è quello che si avvicina di più ai contrasti gagliardi dell’ultimo tempo del Merisi. Questa parzialità per le ombre ha già fatto pensare al Caracciolo che però appare sempre padrone di un mestiere più scaltrito che non il Musso, e affascinato da forme più dilatate e imponenti (non senza ragione troverà modo di accordarsi con il Lanfranco). Musso è di composizione meno collaudata, di figure meno imminenti […]”33. Non si saprebbe dirlo meglio (quando si pensi anche all’allusione alla moderata ipertrofia di forme del finale di Battistello). Pure non si fa torto a nessuno – e men che mai a un maestro dei nostri studi moderni come Gianni Romano – se si aggiunge che il Musso è rimasto tra i capolavori sommersi della pinacoteca piemontese e, in definitiva, tra i tesori meglio custoditi del primo caravaggismo.
come databile “tra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio”27. Ma se l’Annunciazione del Gentileschi, uno dei vertici del primo Seicento, è successiva di almeno un decennio al Caracciolo e segna il coronamento cronologico del percorso; sono da valutare con raddoppiata attenzione i contatti che, al tempo del dipinto di Torino, poterono verificarsi col pittore casalese Nicolò Musso, a Roma nel 1607 (rientrato poi a Casale nel 1618). Il Cristo che porta la croce al Calvario si trovava nella collezione del marchese Giustiniani (dove, nel 1638, è citato come Cristo con la Veronica): ed è su questo dipinto che occorre intavolare la questione delle “possibili frequentazioni napoletane” del Musso, servita da una letteratura esigua ma qualificata28. Quanto a me, in una nota nel libro sul Caracciolo, notavo che “i rossi carichi della veste del Cristo nel dipinto del casalese vanno accostati a quelli del nudo di spalle nel Qui vult venire post me, documentato nel 1614. Il mezzo profilo del vecchio a sinistra ricalca il volto costruito sommariamente nella riduzione operata dal pittore napoletano”29. L’esigenza di un confronto era nell’aria da tempo. Per tutti e per Battistello, Roma rimane il punto d’incontro e svolta. Ora, benché la Sabauda non sia tra le prime stazioni consacrate nei tour napoletani, si è rivelata come il luogo più acconcio per questa riunione di famiglia con svariati addentellati genovesi e romani. Intanto, occorre ricordare che, nel 1635, è citato, nella collezione di Carlo Emanuele I, nelle stanze del palazzo di Torino a Mirafiori, con il riferimento al “Caracciolo napoletano” un “San Sebastiano steso sopra un panno rosso, medicato da due donne” (con la misura di palmi 3 e mezzo per quattro)30. S’intende che non avremmo avuto bisogno di un’occasione del genere per testare la qualità dei fondi caravaggeschi della pinacoteca, culminanti nell’Annunciazione, una tela di quasi tre metri di altezza inviata al duca di Savoia, Carlo
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Il restauro, ricordava Maria Andaloro, “non è un’applicazione tecnica per quanto sofisticata, ma un atto critico, il gesto di mani guidate dal pensiero”, cfr. N. D’Arbitrio, I tessuti d’arte del Regno di Napoli, introduzione di L. Ziviello, Napoli 2018. 2 Cfr., alla data indicata, il regesto documentario in S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 367. 3 Si veda il regesto documentario, in Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa cit., p. 352. Il dipinto è citato insieme ad altri nove, che restano da identificare, nella collezione di Agostino Doria a Genova (gli altri erano: Un moriente; Martirio di san Lorenzo; San Giovanni Battista; San Giuseppe; San Francesco; San Giovanni; infine, due ritratti: quello della figlia di Marc’Antonio Doria, suor Maria Margherita, e il ritratto a figura singola, cioè solo la testa, di Marc’Antonio stesso). 4 Caravaggio. L’ultimo tempo 1606-1610, a cura di N. Spinosa, catalogo della mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 23 ottobre 2004 - 23 gennaio 2005), Napoli 2004. 5 Battistello Caracciolo e il primo naturalismo napoletano, a cura di F. Bologna (e di S. Causa per la parte monografica sul Caracciolo), catalogo della mostra (Napoli, Castel Sant’Elmo, 9 novembre 1991 - 19 gennaio 1992), Napoli 1991. 6 Galleria Sabauda. 150 anniversario (1832-1982): alcuni interventi di restauro, a cura di R. Tardito Amerio, Torino 1982. 7 “Non vuole essere una pubblicazione, una ricerca storico-artistica con conseguente risultato di nuovi elementi attributivi o di conferma di precedenti […]. La pubblicazione vuole dare piuttosto un’idea degli interventi di restauro compiuti alla Soprintendenza […]”, R. Tardito Armerio, ivi, p. 5. 8 Cfr. Velázquez, catalogo della mostra (Madrid, Museo Nacional del Prado, 23 gennaio - 31 marzo 1990), Madrid 1990, pp. 168-169, n. 25. 9 W. Prohaska, in Caravaggio e l’Europa. Il movimento caravaggesco internazionale da Caravaggio a Mattia Preti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 15 ottobre 2005 - 6 febbraio 2006), Milano 2005, p. 416, n. VI.7. 10 Cfr. S. Causa, Le Imprese di Consalvo. Battistello pittore di storia, in Battistello Caracciolo, pittore di storia, catalogo della mostra didattica (Napoli, Palazzo Reale, 29 giugno - 30 settembre 1992), Napoli 1992. Da integrare con i successivi ripensamenti dello stesso autore sulla cronologia del ciclo (Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa cit., passim). 11 R. Longhi, La Giuditta nel percorso del Caravaggio, in “Paragone”, II, 19, 1951, pp. 10-18. 12 Cfr. intervista a Roberto Carità, in Tensionamento dei dipinti su tela. La ricerca del valore di tensionamento, in “Quaderno del Laboratorio di Restauro della Provincia di Viterbo”, a cura di G. Capriotti e A. Iaccarino Idelson, Viterbo, senza data, passim. 13 R. Carità, Un Battistello ritrovato, in “Paragone. Arte”, II, 19, 1951, pp. 50-54. 14 Carità, Un Battistello ritrovato cit., pp. 50-51, nota 2. 15 R. Arena, in R. Romano (a cura di), Percorsi caravaggeschi tra Roma e Piemonte, Torino 1999, p. 93, nota. 52. 16 Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa cit., pp. 152-153.
N. Spinosa (a cura di), La pittura napoletana del ’6oo, Milano 1984, fig. 568. 18 Genova nell’età barocca, a cura di E. Gavazza e G. Rotondi Terminiello, catalogo della mostra (Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola - Galleria di Palazzo Reale, 2 maggio - 26 luglio 1992), Genova 1992. 19 F.R. Pesenti, in Genova nell’età barocca cit., p. 108, n. 18. 20 Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa cit. Infine, nello scorso anno il quadro è ricomparso a una bella e ficcante mostra milanese: L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, a cura di A. Morandotti, catalogo della mostra (Milano, Gallerie d’Italia - Piazza Scala, 30 novembre 2017 - 8 aprile 2018), Milano 2017. 21 Cfr., anche per le immagini, il saggio di S. Causa, ‘Le Imprese di Consalvo’. Battistello pittore di storia, in Battistello Caracciolo, pittore di storia cit., pp. 17-42. 22 Cfr. Civiltà del Seicento a Napoli, a cura di R. Causa e G. Galasso, catalogo della mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 24 ottobre 1984 - 14 aprile 1985), Napoli 1984, vol. I, p. 201, n. 2.16. 23 Spinosa, La pittura napoletana del ’6oo cit., fig. 132; P. Pagano, M.C. Galassi (a cura di), La pittura del ’6oo a Genova, Milano 1988, fig. 69 (foto della Soprintendenza BAST [4031], con le misure indicate di 156 × 191). 24 B. Nicolson, Caravaggism in Europe, seconda edizione, rivista e ampliata da L. Vertova, II, Torino 1990, fig. 542. 25 N. Spinosa, Ribera. L’opera completa, Napoli 2003, n. A49. Sul dipinto si veda Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa cit., p. 137, nota 93. 26 Cfr. M.C. Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio. Un pittore caravaggesco tra Roma e la Lombardia, a cura di D. Pescarmona, catalogo della mostra (Campione d’Italia, Galleria Civica, 10 settembre 2000 - 12 marzo 2009), Campione d’Italia 2000, p. 29, fig. 13. 27 G. Papi, Antiveduto Gramatica, Cremona 1995, p. 89, n. 8. 28 “Spiraglio su possibili frequentazioni napoletane da parte di Musso”, è considerato, da M.C. Terzaghi, nella voce del Dizionario Biografico (2012), il Crocifisso adorato da san Francesco di Sant’Ilario a Casale. 29 Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa cit., pp. 143-144, nota 40. 30 Ivi, p. 349, n. P85, con bibliografia precedente. 31 “La bizzarra descrizione che ne dà Longhi non sembra affatto cogliere nel segno, e sembra il frutto di una singolare eclissi delle sue facoltà critiche, di norma tanto acute”: cfr. M. Newcome Schleier, in Orazio e Artemisia Gentileschi, a cura di K. Christiansen, J.W. Mann, catalogo della mostra (Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, 20 ottobre 2001 - 20 gennaio 2002), Roma 2001, p. 198. 32 “Nonsenso è quest’ambiente patrizio dove avviene una scena impossibile tra una dama serissima e un giovinotto scalzo ma vestito di seta e con due ali enormi d’avvoltojo [sic] applicate alle scapole! […]. Una dama dell’aristocrazia che ascolta attentamente le parole di un giovine gentiluomo e nella sua stanza da letto […]”: R. Longhi, Gentileschi padre e figlia (1916), ed. cons. Firenze 1961, pp. 241-242. 33 G. Romano, Nicolò Musso a Roma e a Casale, in “Paragone”, XXI, 255, 1971, p. 46.
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Da Napoli a Torino: la fortuna della pittura napoletana nei territori sabaudi tra Sei e Settecento
lenza e per lo stile fortemente connotato della sua produzione artistica. Capitale dei territori a sud dello Stato della Chiesa, confluiti fin dal Cinquecento nel viceregno spagnolo e dopo il 1734 nel regno borbonico, la città era già allora riconosciuta come imprescindibile punto di riferimento per l’arte di tutta l’Italia meridionale; diverso è il caso della Sicilia, che pur seguendo analoghe vicende storiche mantenne sempre una propria specifica identità, che si riflette anche nella produzione artistica. Al tempo di Battistello, a Napoli si stava avviando una fortunata stagione che svincolò definitivamente gli artisti locali da ingombranti influenze esterne, in particolare dell’arte toscana e fiamminga, determinanti e spesso schiaccianti fino al XVI secolo. Il passaggio in città del Caravaggio, nel primo decennio del Seicento, sollecitò gli artisti e i collezionisti del viceregno, aprendo la strada alla pittura del Barocco napoletano: una pittura caratterizzata da netti contrasti di luce e ombra, da una sorprendente scioltezza esecutiva e dall’estrema sensualità della resa pittorica, fatta di decisi quanto raffinati accordi cromatici e di pennellate dense e materiche. Il virtuosismo della scuola napoletana spesso trascura la correttezza accademica, com’è particolarmente evidente nella peraltro non vastissima produzione disegnativa. Alla definizione di questo stile diede un contributo fondamentale lo spagnolo Jusepe de Ribera, giunto alla metà del secondo decennio da Roma, dove si era precocemente inserito nella koinè caravaggesca. Già nel Seicento, dunque, la pittura napoletana – grazie ad artisti quali Massimo Stanzione, Salvator Rosa e Mattia Preti – s’impose a livello europeo per il suo alto livello qualitativo e per i suoi inconfondibili tratti stilistici. All’interno della scuola napoletana sono tradizionalmente inclusi pittori non napoletani per nascita, ma che indubbiamente contribuirono a formarne il carattere, apportando esperienze maturate altrove: oltre al già citato Ribera, è il caso del calabrese Mattia Preti, che prima di approdare a Napoli nel 1653 (per poi trasferirsi definitivamente a Malta nel 1661) aveva lavorato tra Roma e Modena.
M A R I O E P I FA N I
L’acquisto del Cristo portacroce di Battistello Caracciolo da parte dell’Università di Torino, nel 1952, segna l’arrivo nel capoluogo piemontese di una delle più importanti testimonianze della pittura del Seicento napoletano oggi presenti nelle collezioni pubbliche cittadine (pur non trattandosi, in questo caso, di un’istituzione museale). Già in precedenza, del resto, il dipinto si trovava in Piemonte, provenendo dalla collezione Martinotti di Casale Monferrato1. La presenza di dipinti di scuola napoletana in territorio piemontese, tuttavia, è attestata fin dal XVII secolo. È opportuno premettere che quello che oggi chiamiamo Piemonte, in quanto regione dell’Italia repubblicana, rispecchia solo in parte la storia politica e culturale del territorio che con tale nome s’identifica. Ai fini di questo saggio si considera l’area geografica che al tempo di Battistello Caracciolo era governata dai duchi di Savoia e che nel Settecento assunse la denominazione di Regno di Sardegna; si tratta dunque di una regione storica che non corrisponde a quella attuale, ma che sviluppò una propria identità per quanto riguarda le vicende artistiche, sia per la produzione che per il collezionismo di opere d’arte. Proprio a partire dal Seicento cominciò a formarsi quella coscienza di un’omogeneità culturale per aree geografiche, riconosciuta anche a livello europeo, che è alla base della più tarda, consapevole definizione di “arte d’Italia”2. In particolare, Napoli si distinse a livello internazionale per l’eccel-
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pittura del Caravaggio, il biografo settecentesco riconobbe comunque a Battistello un ruolo fondamentale nel contesto artistico partenopeo. Le “rozze forme” caravaggesche erano invece apprezzate, all’inizio del Seicento, da Carlo Emanuele I di Savoia (1562-1630), che com’è noto raccolse nel palazzo ducale di Torino una collezione di dipinti aggiornata sulle ultime tendenze della pittura romana, manifestando uno specifico e precoce interesse per i seguaci del Caravaggio4. Proprio da questa predilezione per la pittura caravaggesca deriva verosimilmente la presenza di alcuni dipinti di scuola napoletana – che nei primi decenni del Seicento manifestava una forte dipendenza dall’opera di Michelangelo Merisi – nell’inventario delle collezioni ducali compilato da Antonio della Cornia nel 1635, cinque anni dopo la morte di Carlo Emanuele I. In quell’elenco compaiono due dipinti (I quattro dottori della Chiesa e due teste di San Pietro e San Paolo) attribuiti a “Cico Napolitano”, da identificare forse con Francesco Fracanzano (detto Ciccio); un San Giuseppe “con la verga fiorita”, una Madonna “con la corona di spine in mano” e un Suicidio di Catone Uticense dello Spagnoletto (Ribera); un San Sebastiano “del Carracciolo Napolitano”; un Tobiolo e l’angelo di un “pittor napolitano ordinarissimo”; nel castello di Rivoli era registrato un Ratto di Elena attribuito a “Filippo Ventura napoletano” (forse Filippo Vitale?)5. Solo il San Sebastiano curato dalle pie donne si ritrova nel successivo inventario del 1682, ancora con l’attribuzione a Caracciolo6. A giudicare dalle citazioni inventariali, per i collezionisti torinesi del Seicento la scuola napoletana era incarnata essenzialmente da Ribera: oltre che nelle raccolte ducali, dipinti a lui attribuiti figuravano nella celebre raccolta di Amedeo dal Pozzo, marchese di Voghera (1579-1644), e in quella del medico Giacomo Francesco Arpino (1607-1684)7. L’unico dipinto oggi riconosciuto come autografo di Ribera nella Galleria Sabauda è il Cristo flagellato, verosimilmente presente nelle collezioni ducali già nel Seicento, benché allora non attribuito al pittore spagnolo8 (fig. 1).
Il ruolo egemone di centro politico e culturale esercitato da Napoli sull’Italia meridionale si riflette nella convenzionale inclusione di tutta la produzione artistica dei vasti territori del viceregno (e poi del regno borbonico) sotto la denominazione di scuola napoletana: indubbiamente tra Sei e Settecento regioni come la Puglia e la Calabria esprimono un’identità subalterna rispetto alla capitale, da dove i pittori più celebrati inviavano opere fin nelle più remote province, alimentando la sudditanza degli artisti delle aree periferiche di fronte a quei prestigiosi modelli. Il contesto appena delineato costituisce il quadro di riferimento delle Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani pubblicate in tre tomi da Bernardo De Dominici tra il 1742 e il 1745, risposta della storiografia locale alla visione fiorentinocentrica dell’arte italiana che caratterizza le Vite pubblicate da Giorgio Vasari nella loro edizione definitiva nel 15683. All’interno del testo che consacrò la fortuna europea della scuola napoletana e che rappresenta tutt’oggi un riferimento imprescindibile per lo studio delle arti a Napoli e nell’Italia meridionale fino alla prima metà del Settecento, l’estesa biografia di Battistello Caracciolo occupa l’ultima parte del secondo tomo, a chiudere la narrazione delle vicende artistiche locali nel Cinquecento. De Dominici decise dunque di estromettere uno dei maggiori caravaggeschi napoletani dal terzo tomo delle Vite, che segue la vertiginosa ascesa della produzione artistica dell’Italia meridionale tra Sei e Settecento, aprendosi con la biografia di Jusepe de Ribera e dedicando ampio spazio a Mattia Preti e a Francesco Solimena. In parallelo all’impostazione delle biografie di Vasari, che vedeva in Michelangelo il punto d’arrivo della “maniera moderna”, la visione evoluzionistica di De Dominici individua in Solimena il raggiungimento del perfetto equilibrio tra le due opposte tendenze rappresentate da un lato dal “buon naturale” e dall’“ottimo chiaroscuro” di matrice caravaggesca, mediati dalla pittura di Mattia Preti, e dall’altro dal “perfetto disegno” d’impostazione accademica. Pur condannando le “rozze forme d’ignobili naturali” derivate dalla
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Jusepe de Ribera, Cristo flagellato, 1616-1618, olio su tela, 99 × 81 cm. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda, inv. 95. Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
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Salvator Rosa, Battesimo di Cristo. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda. Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
marcatamente orizzontale, analogo a quello dei due “baccanali” già nelle raccolte sabaude; l’iscrizione sul retro attesta che essa fu donata all’ospizio nel 1738 dal canonico Gregorio Balbo, attribuendone la paternità a “Frater Mathias Eques Ierosolymitanus”. Nonostante la chiara ispirazione pretiana del dipinto, che riprende gli sbattimenti di luce e i toni lividi del “Cavalier Calabrese” pur senza rifarsi a nessuna sua composizione nota, l’attribuzione antica non regge il confronto con le opere sicuramente autografe del pittore. Il Cristo e la Veronica potrebbe essere stato dipinto da un seguace diretto di Preti, forse proprio a Malta, ma non è da escludere che si tratti dell’opera di un pittore piemontese; in ogni caso il dipinto è interessante in quanto testimonianza della fortuna di Preti nel territorio sabaudo, che avrebbe addirittura potuto alimentare una produzione di quadri à la manière de. In un contesto come quello torinese, dove il pittore di Taverna era scarsamente rappresentato (se si escludono appunto le tele già in Palazzo Reale), simili imitazioni potevano indubbiamen-
Nell’inventario del “Real Palazzo e Castello di Torino” redatto nel 1754, all’interno di una collezione in cui ormai predominavano le opere dal classicismo bolognese e soprattutto la pittura fiamminga e olandese, spiccano nuovi dipinti attribuiti a Ribera (oltre al San Giuseppe, identificabile con quello già registrato nel 1635, un San Girolamo, un San Giacomo e un Martirio di sant’Andrea), un “paese con figure” di Salvator Rosa (fig. 2), alcuni Baccanali e una Caduta della manna del “Cavalier Calabrese”, ovvero Mattia Preti (1613-1699)9. Due dei dipinti di Preti sono stati identificati con il Mosè sul monte Sinai (fig. 3) e con il Trionfo di Sileno, requisiti dall’armata napoleonica che occupò Torino nel 1799 e oggi conservati rispettivamente nei musei di Montpellier e di Tours10. La presenza di queste opere giovanili di Preti nel Palazzo Reale poté favorire l’apprezzamento per il suo stile presso i collezionisti piemontesi del Settecento, come dimostra il Cristo e la Veronica del Regio Ospizio di Carità (oggi casa di riposo Giovanni XXIII) di Chieri11 (fig. 4). La tela ha un formato
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Mattia Preti, Mosè sul monte Sinai. Montpellier, MusÊe Fabre
Seguace di Mattia Preti, fine XVII - inizio XVIII secolo, Cristo e la Veronica. Chieri, casa di riposo Giovanni XXIII
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tello minore, si deve la grande tela raffigurante un Concerto con scena di buona ventura, pervenuta all’Accademia Albertina nel 1828 con la collezione dell’arcivescovo casalese Vincenzo Maria Mossi di Morano (1752-1829), già attribuita al Caravaggio e poi al solo Mattia Preti13. Ancora a Gregorio è riconducibile l’Istituzione dell’eucaristia conservata – come il Cristo portacroce di Battistello Caracciolo – presso l’Università di Torino, parte del lascito Parini Chirio14. Solo dopo l’istituzione della Reale Galleria (l’attuale Galleria Sabauda) da parte di Carlo Alberto giunse a Torino il San Francesco d’Assisi in
te essere accettate come opere autografe anche dagli intenditori. Meno celebre del “Cavalier Calabrese” è il fratello maggiore Gregorio Preti, stabilmente attivo a Roma nei decenni centrali del Seicento. Nella pittura di Gregorio, le suggestioni caravaggesche – comuni ai due fratelli – si risolvono in un linguaggio più affine a quello dei seguaci napoletani del Merisi, come dimostra il Martirio di san Bartolomeo della Galleria Sabauda a lui restituito solo in tempi recenti12 (fig. 5). Curiosamente, Gregorio è oggi meglio rappresentato di Mattia nelle collezioni pubbliche torinesi: a lui, con il probabile intervento del fra-
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Gregorio Preti, Martirio di san Bartolomeo. Torino, Musei Reali, Galleria Sabauda. Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali Torino, Musei Reali Galleria Sabauda
di Sicilia, nel 1713, titolo sostituito nel 1720 con quello di re di Sardegna. Già nel 1720 Vittorio Amedeo II aveva richiesto a Francesco Solimena – indiscusso caposcuola del Settecento napoletano, la cui fama sarebbe stata consacrata anni dopo dalle Vite di De Dominici – quattro Storie dell’Antico Testamento destinate al castello di Rivoli, allora oggetto di un radicale intervento di ampliamento e decorazione che mirava a fare dell’antico edificio una grandiosa residenza, alternativa al Palazzo Reale di Torino17. Lo stesso Juvarra, che aveva diretto la ristrutturazione (lasciata incompiuta) del castello di Rivoli, dopo il 1730 riallestì le quattro tele di Solimena in un ambiente dell’appartamento del nuovo re Carlo Emanuele III nella reggia torinese: in quella camera, da allora chiamata “del Solimena”, Juvarra volle mettere a confronto l’opera del più celebre pittore napoletano vivente con altre tele appositamente commissionate al romano Agostino Masucci, al bolognese Francesco Monti, al veneto Giambattista Pittoni e a Sebastiano Conca, attivo a Roma ma nato a Gaeta (allora nel Regno di Napoli) e allievo di Solimena18. Conca, in virtù delle sue origini, poteva essere e generalmente era considerato un rappresentante della
estasi, venduto nel 1842 insieme ad altri dipinti dal “regio disegnatore” Angelo Boucheron, con un’attribuzione ad Annibale Carracci; successivamente assegnato al Cerano, dopo il recente restauro il dipinto è stato restituito da chi scrive a Luca Giordano, con una datazione al settimo decennio del Seicento. Si tratta dell’unica opera del celebre pittore napoletano oggi presente in una collezione pubblica torinese: significativamente, il San Francesco fu travisato dai conoscitori sabaudi dell’Ottocento, forse anche per l’assenza di opere autografe di Giordano nella capitale del Regno15. Alla metà del Settecento l’interesse della corte sabauda per la scuola napoletana era stato nuovamente sollecitato da Filippo Juvarra, architetto di corte a Torino dal 1714 al 173516. Grazie al suo ruolo di vero e proprio regista non solo nella progettazione, ma anche nella decorazione d’interni di chiese e palazzi, in quegli anni giunsero a Torino opere di pittori contemporanei tra i più rappresentativi delle migliori scuole regionali italiane; la scuola napoletana ebbe un ruolo fondamentale in questo processo di rinnovamento della cultura artistica locale, che seguì l’elevazione del duca Vittorio Amedeo II di Savoia a re 6
Francesco De Mura, Allegoria dell’America. Torino, Palazzo Chiablese - Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino
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Giovanni Ricca, Santa Caterina. Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica
sidenza dell’ultimogenito di Carlo Emanuele III, Benedetto Maurizio di Savoia, duca del Chiablese (fig. 6). L’età dell’oro della scuola napoletana si chiuse non molto tempo dopo la pubblicazione delle Vite di Bernardo De Dominici: morto Solimena nel 1747, venuto a mancare nel 1782 anche De Mura, Napoli restò un importante centro di produzione artistica, ma la pittura locale perse quei tratti peculiari che l’avevano contraddistinta tra Sei e Settecento. La corte sabauda, come si è visto, era riuscita ad assicurarsi alcuni tra i migliori frutti di quella stagione particolarmente felice, ma anche nell’ultimo secolo non sono mancati gli arrivi a Torino d’importanti opere di pittori del Seicento napoletano, essenzialmente ormai attraverso il collezionismo privato: oltre al dipinto di Battistello Caracciolo nelle raccolte universitarie, è il caso della Santa Caterina appartenuta alla collezione Einaudi, acquistata nel 2006 dal Museo Civico d’Arte Antica (fig. 7). Già attribuita a Bartolomeo Bassante e recentemente ricondotta a Giovanni Ricca, la Santa Caterina di palazzo Madama è stata al centro di una mostra dedicata nel 2016 alla pittura napoletana del Seicento, a conferma del perdurante apprezzamento per tale scuola nell’ambito del collezionismo pubblico e privato torinese21.
scuola napoletana, benché la sua lunga carriera romana abbia fatto di lui, nel giudizio dei posteri, un prosecutore del linguaggio classicista del tardo Barocco, che a Roma nel passaggio tra Sei e Settecento s’identificava con l’opera di Carlo Maratti e dei suoi allievi. Dopo gli invii da parte di Solimena, negli anni in cui Juvarra lavorò alla corte sabauda giunsero a Torino diverse opere di Conca e di Corrado Giaquinto, pittore pugliese passato come Conca a Napoli durante il suo apprendistato e poi trasferitosi a Roma nel 1727; tradizionalmente ritenuto anch’egli un allievo diretto di Solimena, Giaquinto fu chiamato a Torino da Carlo Emanuele III per decorare la Villa della Regina e la cappella di San Giuseppe nella chiesa di Santa Teresa19. Qualche anno dopo, tra il 1741 e il 1743, fu la volta del napoletano Francesco De Mura, il miglior allievo di Solimena: interessato a trovare nuove e prestigiose opportunità di lavoro, anche per sottrarsi all’egemonia del suo maestro sulla scena partenopea, il “Franceschiello del Solimena” accettò l’invitò del re di Sardegna e a Torino lavorò alla decorazione dei nuovi appartamenti nel Palazzo Reale20. Anche dopo il suo ritorno a Napoli, De Mura continuò a inviare tele e modelli per arazzi per la reggia torinese e per l’adiacente palazzo Chiablese, rinnovato a partire dal 1753 come re-
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daglie, Giacomo Francesco Arpino, archiatra dei duchi di Savoia, possedeva anche una raccolta di dipinti e sculture, tra cui un San Girolamo “stimato di mano del Spagnoletto” (F. Monetti, A. Cifani, Arte e artisti nel Piemonte del ’600. Nuove scoperte e nuovi orientamenti, Cavallermaggiore 1990, pp. 47, 65; su Arpino cfr. da ultimo C. Cavallaro, Storie di biblioteche a Torino. Giacomo Francesco Arpino nel tempo di Federico Patetta, Manziana 2017). 8 Spinosa, Ribera cit., p. 265, n. A49. Nella scheda OA 350813 (Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici del Piemonte), Germano Boffi propone di identificare il Cristo flagellato con dipinti di analogo soggetto, non attribuiti negli inventari del 1635 e del 1682. Negli inventari ottocenteschi il quadro figurava come opera di Valentin de Boulogne. 9 Musei d’arte a Torino. Cataloghi e inventari delle collezioni sabaude, a cura di S. Pinto, III, Torino s.d., pp. 4 (nn. 50, 53), 5 (n. 151), 6 (n. 214), 8 (nn. 285, 292, 295 e 298). Un San Girolamo, ritenuto da Spinosa replica di un originale datato 1648, pervenne alla Galleria Sabauda nel 1842 (Spinosa, Ribera cit., p. 339, al n. A291); nello stesso anno giunse un San Paolo eremita che Spinosa ritiene una copia antica (ivi, p. 341, al n. A297). Il “paese con figure” di Rosa corrisponde al Battesimo di Cristo tuttora conservato nella Galleria Sabauda ed è l’unica opera di uno dei più celebri pittori napoletani del Seicento attestata nelle collezioni sabaude (C. Volpi, Salvator Rosa [1615-1673] “pittore famoso”, Roma 2014). 10 M. di Macco, La quadreria, in Diana trionfatrice. Arte di corte nel Piemonte del Seicento, a cura di M. di Macco e G. Romano, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 27 maggio - 24 settembre 1989), Torino 1989, pp. 96-98: 98; M. Utili, in Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta, a cura di M. Utili, catalogo della mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 28 marzo - 6 giugno 1999),
1 Sulla provenienza della tela di Battistello Caracciolo si veda il saggio di Paola Novaria. 2 Sul concetto di arte italiana e sull’origine della sua divisione in scuole si rimanda al fondamentale testo di F. Bologna, La coscienza storica dell’arte d’Italia, Torino 1982. 3 B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, a cura di F. Sricchia Santoro e A. Zezza, 3 voll., Napoli 2003-2008. 4 Sulla cospicua presenza di pittori caravaggeschi nella collezione di Carlo Emanuele I cfr. A.M. Bava, La fortuna del caravaggismo alla corte sabauda e nel territorio piemontese, in A. Zuccari (a cura di), I Caravaggeschi. Percorsi e protagonisti, Milano 2010, I, pp. 127-139. 5 Musei d’arte a Torino. Cataloghi e inventari delle collezioni sabaude, a cura di S. Pinto, Torino s.d., I, pp. 10 (n. 130), 13 (n. 209), 16 (n. 267), 17 (nn. 294, 303), 18 (n. 323), 27 (n. 537), 42 (n. 806). Solo per il San Giuseppe di Ribera è possibile proporre un confronto con opere note del pittore, cfr. N. Spinosa, Ribera, Napoli 2003, p. 295, n. A147 e p. 317, n. A221. 6 Musei d’arte a Torino. Cataloghi e inventari delle collezioni sabaude, a cura di S. Pinto, Torino s.d., II, p. 9, n. 133. Il dipinto attribuito a Battistello nelle collezioni ducali non è stato rintracciato, cfr. S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 349, n. P85. 7 Nell’inventario dei quadri di Amedeo dal Pozzo (1634) compare un Ecce homo di “Francesco [sic] Ribera detto il Spagnoletto”, cfr. A. Cifani, F. Monetti, “L’Illustrissimo cugino”: Cassiano e Amedeo Dal Pozzo. Le relazioni artistiche del Marchese di Voghera e la storia della sua quadreria, in I segreti di un collezionista. Le straordinarie raccolte di Cassiano dal Pozzo, a cura di F. Solinas, catalogo della mostra (Biella, Museo del Territorio Biellese, 16 dicembre 2001 16 marzo 2002), Roma 2001, pp. 29-52: 34, 36, 45 n. 150. Oltre a una ricca biblioteca e a una collezione di me-
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del 1822, in Conoscere la Galleria Sabauda. Documenti sulla storia delle sue collezioni, Torino 1982, pp. 87-[267]: 111, 177, 185. 16 Sull’attività di Juvarra presso la corte sabauda cfr. A. Griseri, G. Romano (a cura di), Filippo Juvarra a Torino. Nuovi progetti per la città, Torino 1989 (e in particolare sulla fortuna della scuola napoletana M. di Macco, I pittori “napoletani” a Torino: note sulla committenza negli anni di Juvarra, pp. 269-322); P. Cornaglia, A. Merlotti, C. Roggero (a cura di), Filippo Juvarra 1678-1736, architetto dei Savoia, Roma 2014. 17 G. Dardanello, Per il prototipo del ‘palazzo reale’. Le scelte di Juvarra alla prova nel Castello di Rivoli, in G. Dardanello (a cura di), Palazzo Reale a Torino. Allestire gli appartamenti dei sovrani (1658-1789), Torino 2016, pp. 53-87: 69-70. 18 G. Dardanello, Juvarra e Beaumont: l’ornato e la pittura per il Palazzo Reale, in Dardanello, Palazzo Reale cit., pp. 95-114: 111-112. 19 M. di Macco, Corrado Giaquinto a Torino, in Corrado Giaquinto. Il cielo e la terra, a cura di M. Scolaro, catalogo della mostra (Cesena, Biblioteca Malatestiana, 9 dicembre 2005 - 15 marzo 2006), Argelato 2005, pp. 53-62. 20 G. D’Alessio, Nuove osservazioni sulle committenze reali per Francesco De Mura tra Napoli, Torino e Madrid, in “Prospettiva”, 69, 1993, pp. 70-87; F. Speranza, Francesco De Mura per l’Appartamento d’Estate e la manica dei Regi Archivi, in Dardanello, Palazzo Reale cit., pp. 143-149. 21 Intorno alla Santa Caterina di Giovanni Ricca. Jusepe de Ribera e la pittura a Napoli, a cura di C. Arnaldi di Balme e G. Porzio, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, 12 dicembre 2015 - 14 gennaio 2016), Torino 2015.
Napoli 1999, pp. 100-103. Michela di Macco segnalava la presenza di due Baccanali del “Cavaglier Calabrese” già nell’inventario del 1682 (cfr. Musei d’arte a Torino cit., II, p. 18, nn. 398, 405). 11 Il dipinto (olio su tela, 80 × 240 cm), recentemente restaurato, non figura nel catalogo dell’opera di Mattia Preti (J.T. Spike, Mattia Preti. Catalogo ragionato dei dipinti, Firenze 1999), né è possibile qualificarlo come copia da un modello noto del pittore; cfr. scheda OA n. 17820 della Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici del Piemonte. 12 G. Leone, in Gregorio Preti calabrese (1603-1672), un problema aperto, a cura di R. Vodret e G. Leone, catalogo della mostra (Cosenza, Galleria Nazionale di Palazzo Arnone, 11 maggio - 25 luglio 2004), Cinisello Balsamo 2004, p. 138. Il dipinto, già attribuito a un anonimo pittore caravaggesco, è indicato come dalle collezioni sabaude. 13 Cfr. da ultimo Y. Primarosa, in Il trionfo dei sensi. Nuova luce su Mattia e Gregorio Preti, a cura di Y. Primarosa, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Barberini, 22 febbraio - 16 giugno 2019), Roma 2019, pp. 128-135, n. 2; sulla formazione delle collezioni dell’Accademia cfr. R. Vitiello, Istruire alla bell’arte del disegno e della pittura, in La pinacoteca dell’Accademia Albertina, a cura di F. Petrucci e R. Vitiello, Torino 2009, pp. 4-11. 14 M. Epifani, Il percorso di Gregorio e di Mattia Preti tra echi caravaggeschi e retorica barocca, in M. Epifani, F. Giannini (a cura di), Mattia e Gregorio Preti. Due stili a confronto, Milano 2015, pp. 9-17: 15. 15 M. Epifani, Presenze foreste in Piemonte: Luca Giordano a Torino, in “Nuovi Studi”, 24, 2019 (in corso di stampa). Tre dipinti – oggi non identificabili – erano attribuiti a Giordano o alla sua scuola in un inventario della “Galleria di S.M. il Re di Sardegna” risalente al 1822, cfr. L. Levi Momigliano, Per la storia delle collezioni sabaude: due inventari
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˝Un quadro d’un Christo che porta la Croce ed altre pitture di gente che lo seguivano˝. Appunti di lavoro sul problema dell’interpretazione iconografica del Qui vult venire post me di Battistello
contemporanei, costituiscono un ottimo indizio nella ricerca della lettura iconografica più vicina all’originale intentio auctoris, benché il concetto stesso di intentio auctoris non esaurisca di fatto il problema dell’interpretazione: le grandi opere sono proprio quelle capaci di comunicare ben oltre le coordinate semiotiche verosimilmente definite al momento della creazione artistica. Poi, in un contesto storico come quello in esame, il problema della volontà autoriale è reso ancor più complesso dalla presenza e dal ruolo della committenza che, se partecipa al processo creativo, lo fa intervenendo proprio sulle scelte iconografiche. Dunque occorre sempre chiedersi se certi elementi derivino dalla visione del pittore o piuttosto dalle indicazioni dei committenti, specie quando questi siano uomini di dottrina e cultura. In ultimo, non è detto che l’artista, alla prova dei fatti, rispetti le eventuali indicazioni ricevute, o che invece tenti di inserire nell’opera messaggi e significati profondamente autonomi, non cercati o addirittura non accettabili dalla committenza. Sono celebri i casi delle opere che il vicinissimo Merisi si vide rifiutare dai committenti per le troppo ardite scelte iconografiche. Le premesse generali sin qui tracciate trovano tutte conferma nel caso del dipinto di Giovanni Battista Caracciolo oggi di proprietà dell’Università degli Studi di Torino, opera dall’iconografia complessa che presenta molteplici possibilità interpretative e lascia diverse questioni aperte. Scopo di questo contributo è ripercorrere le conoscenze acquisite al proposito, rileggerle col confronto diretto delle fonti e proporre alcuni spunti di riflessione utili, ci si augura, a una più cosciente comprensione del soggetto e del messaggio del quadro. Come già accennato, e come vero per molti altri casi, lo sforzo interpretativo per decifrare la scena raffigurata in questo dipinto si è legato da subito all’esigenza di fissarne il titolo. La prima trattazione dell’opera nella letteratura critica moderna si deve allo studioso Roberto Carità, che vi dedica l’articolo Un Battistello ritrovato su “Paragone” n. 19 del 1951, rivista nata appena l’anno precedente ma sede perfetta per
FILIPPO TIMO
Non c’è bisogno di sottolineare come, in qualunque sede storica e critica, la corretta interpretazione iconografica di un dipinto sia un aspetto fondamentale cui dedicare inesauste attenzioni ed energie. Anche nelle composizioni apparentemente più semplici e canoniche, come le innumerevoli raffigurazioni della Madonna con il Bambino che costellano la storia dell’arte cristiana antica, possono celarsi molteplici significati e piani di lettura, talora affidati a singoli gesti o sguardi o pose. Per questo non è mai superfluo indagare a fondo cosa voglia comunicare realmente l’artista attraverso la scelta del soggetto e il modo di rappresentarlo. A questo processo esegetico s’intrecciano necessariamente tutte le problematiche legate al titolo, che talora resta incerto o incapace di descrivere opportunamente la complessità di contenuto di un dipinto, specialmente per un’epoca in cui non conosciamo i titoli d’autore se non in casi eccezionali di fonti documentali coeve. I rari titoli “autografi”, o comunque tramandati dai
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Anche quei modelli che ci si aspetterebbe più attivi in realtà sono irrilevanti, e neppure dai biografi antichi ci vengono indicazioni utili. Nella sua Vita di Battistello Caracciuolo4 il biografo Bernardo De Dominici – cui sia concessa l’attenuante di scrivere nel Settecento, troppo “tardi” per avere informazioni di prima mano e troppo “presto” per avere un approccio scientifico all’analisi – inserisce fra gli esempi più importanti per Battistello il pittore napoletano cinquecentesco Giovan Bernardo Lama, autore fra l’altro di una Andata al Calvario oggi a Capodimonte5: nell’opera di Battistello non c’è nulla che possa dirsi ricavato da questa. Sempre il De Dominici insiste più volte sull’importanza del magistero di Tiziano: anche in questo caso il Cristo e il Cireneo maestro veneto6 non influenza in alcun modo le scelte iconografiche della tela di Battistello. E ancora, restando nell’ambito dei capiscuola, una scena affollata costruita attorno al Cristo che porta la croce è quella della celebre Andata al Calvario di Raffaello7. Anche qui la lettura iconografica dell’opera risulta molto più trasparente rispetto al dipinto di Battistello, che certo non può aver derivato di qui il suo tema. Un passo fondamentale verso una più ampia comprensione dell’iconografia del dipinto si compie nel 1980, quando la pubblicazione a stampa8 rende accessibili a tutti gli studiosi alcune preziosissime carte conservate all’Archivio di Stato di Napoli e relative al genovese Marcantonio Doria, committente e primo proprietario dell’opera. Fra queste carte sopravvive un inventario dei dipinti di proprietà del Doria redatto nel 1620: “Libro a 19 maggio / Inventario delli quadri che stanno in casa di Genova e prima nel mezzano grande del Tracco”9. Al ventinovesimo punto in elenco si legge: “Qui vult venire post me, con la croce in spalla di Battistello”. “Qui vult venire post me” è un versetto tratto, con varianti minime, dai testi dei Vangeli sinottici: si tratta dell’incipit di un passo della predicazione di Cristo ai discepoli10. L’identificazione del dipinto è certa e il modo particolare in cui questa riga è formulata ci permette
quel testo e già punto di riferimento grazie alla preziosa “antologia caravaggesca” che il fondatore e direttore Roberto Longhi vi andava pubblicando in quei mesi1. Nel suo testo, Carità identifica la scena con quella di Simone di Cirene costretto ad aiutare Cristo a portare la croce durante la salita al Calvario – episodio narrato dai Vangeli di Matteo, Marco e Luca2 – e attribuisce al dipinto semplicemente il titolo di Cristo e il Cireneo. Lo stesso titolo viene ripreso nel 1967 da Alfred Moir per le brevi citazioni che dedica al dipinto battistelliano nel suo Italian followers of Caravaggio3: il testo è in lingua inglese e il quadro è chiamato Christ and the Man of Cyrene. In effetti, se cerchiamo di riconoscere il soggetto raffigurato in uno dei momenti della Passione di Cristo come viene narrata dai Vangeli, l’identificazione con l’episodio del Cireneo è la più plausibile. Ma è pur subito evidente che la scena descritta da Battistello si differenzia da tutte le altre raffigurazioni canoniche del passo di Cristo e il Cireneo, come da qualunque altra scena nota della storia della Passione e Crocifissione. Nell’epoca in cui Battistello dipinge, la tradizione figurativa ispirata alla Via Crucis è ormai ampiamente diffusa e consolidata da almeno tre secoli: il culto della Via Crucis, intrecciandosi alla pratica di quelle sacre rappresentazioni che costituiscono la più diffusa forma di rappresentazione teatrale del Medioevo, definisce una serie di momenti dai connotati precisi e costanti, a cui corrispondono altrettanto precisi passi evangelici. Sono quei momenti che definiamo “stazioni”, ricorrenti in modo analogo tanto nelle sacre rappresentazioni inscenate dai fedeli quanto nelle raffigurazioni iconografiche. Se diamo uno sguardo ai modelli pittorici cui Battistello avrebbe potuto ispirarsi dal punto di vista iconografico, notiamo che non è possibile individuare alcuna fonte che rappresenti una scena dai connotati analoghi. Le moltissime raffigurazioni di stazioni quali il Cireneo, la caduta di Cristo sotto il peso della croce, la Veronica, diffuse nei luoghi e nel tempo del nostro pittore, poco o nulla hanno in comune con la scena da lui immaginata.
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Questo personaggio insieme agli altri rappresenta la folla, il popolo: un bambino, un uomo e una donna anziani”11. Nella sintesi di poche righe Stoughton focalizza perfettamente il problema della complessità iconografica di questo dipinto e offre una propria lettura: Battistello parte da un soggetto – o meglio da un tema – consolidato e lo amplia al fine di rappresentare un concetto teologico, quello espresso nel passo del “Si quis vult post me venire, […]”. Questa posizione è assolutamente condivisibile e può essere il punto di partenza per ulteriori riflessioni e approfondimenti, ma prima è bene ricordare un altro elemento che ci viene dalle fonti documentali coeve, ancora sul problema della definizione del titolo. Se nel 1620, a dipinto acquisito, il compilatore dell’inventario registra un titolo complesso come Qui vult venire post me, che certamente deve essergli stato fornito dal committente o da documenti dello stesso Battistello oggi perduti, qualche anno prima, all’altezza dei primi contatti intercorsi per questo quadro fra il pittore e il suo committente, l’esatta intitolazione doveva non essere così definita. Ce lo dimostra una lettera di Lanfranco Massa, procuratore a Napoli di Marcantonio Doria, datata 31 luglio 1614 e inerente il pagamento di 80 ducati al Caracciolo per la nostra tela. In questa missiva l’opera è così definita: “un quadro d’un Christo che porta la Croce ed altre pitture di gente che lo seguivano che [Battistello] li ha fatto per servizio di Marc’Antonio Doria di Genova”12. Questo importante documento offre una puntuale descrizione del dipinto e contiene quello che, di fatto, può essere considerato il primo titolo dell’opera, o per lo meno il primo modo in cui essa viene definita: Cristo che porta la croce. Ragionando in termini filologici, l’eccezionale prossimità della lettera alla genesi della tela ne rende il contenuto estremamente attendibile anche a proposito del modo di definire la scena. Dunque potremmo affermare che Qui vult venire post me, in quanto evidente lectio difficilior, vada ragionevolmente considerato titolo d’autore, mentre la variante Cristo che porta la croce
ragionevolmente di affermare che Qui vult venire post me sia percepito propriamente come titolo, cui il compilatore fa seguire le parole “con la croce in spalla” come annotazione descrittiva utile al riconoscimento del dipinto da parte di lettori eventualmente poco avvezzi ai testi evangelici e alla lingua latina. Che le parole Qui vult venire post me rappresentino un vero e proprio titolo ci è confermato dal fatto che la forma in cui compaiono non è una trascrizione letterale del testo evangelico, ma è piuttosto una rimodulazione con piccole varianti sintattiche e grammaticali che conferiscono autonomia all’estratto. La Vulgata di Gerolamo infatti recitava “Si quis vult post me venire, […]”, identica in Matteo e Luca, e “Si quis vult post me sequi, […]” in Marco, che tradotto letteralmente suona “Se qualcuno vuole venire dietro a me, […]”: una premessa che presuppone una continuazione del discorso. Al contrario la forma “Qui vult venire post me” riportata nell’inventario – in versione italiana “Chi mi vuole seguire” – suona più iconica e compiuta in sé, perfetta come titolo. Le preziose informazioni offerte dalla pubblicazione dell’inventario di Marcantonio Doria vengono recepite ed esaustivamente elaborate dallo studioso americano Michael Stoughton, che in una propria scheda dedicata all’opera scrive: “il quadro di Caracciolo, che è stato ben poco studiato, è stato pubblicato come una Via Crucis o come Cristo e il Cireneo, ma nessuno dei due titoli comunica appieno il significato dell’evidenza visiva. Infatti le vere implicazioni della rappresentazione diventano chiare alla luce del titolo riportato nell’inventario Doria. Piuttosto che il significato specifico di una delle stazioni della Via Crucis o di Simone di Cirene, possiamo ora capire che Caracciolo ha ampliato il soggetto fino ad abbracciare il concetto teologico espresso nel passo evangelico di Marco 8,34, ‘e chiamata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: se qualcuno vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua’, Con l’indice della mano destra Cristo indica la croce, voltandosi verso la figura inginocchiata al suo fianco.
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vult venire post me racconta un momento della predicazione di Gesù ai discepoli, nella regione di Cesarea di Filippo. L’episodio compare solamente nei tre Vangeli sinottici e le parole di Cristo sono riferite in modo pressoché identico dai tre evangelisti. Leggiamo la versione di Matteo (16,24-27): “Allora Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni’”17. All’orecchio del lettore del tempo, trascurando incursioni verso più profonde esegesi del testo, le parole di Gesù dovevano suonare come un invito a rinnegare tutti i desideri mondani, le pulsioni carnali, le prerogative terrene e l’egoismo per seguire il suo insegnamento. In quel “prendere la propria croce” stava l’idea di predisporsi alla sofferenza con umiltà, spirito di sacrificio e fede. Tutto ciò in nome di una ferma consapevolezza: il Signore ripagherà ciascuno secondo i propri meriti e le proprie azioni, dunque scegliere la via indicata da Gesù rappresenta la salvezza della vita (quella interiore e quella eterna), ignorarla rappresenta la ‘perdizione’. Questo passo, dunque, realizza una potente sintesi di alcuni dei fondamenti del messaggio cristiano, catalizzata attorno all’immagine simbolica della croce e del condividerne con Cristo il peso. Ma il passo evangelico in sé, cioè quel momento specifico del discorso di Gesù ai discepoli, resta irrappresentabile, o meglio non ha alcun elemento narrativo che possa distinguerlo, nella rappresentazione, da decine e decine di altri momenti della predicazione. Da ciò deriva che l’unico modo di dare una concretezza scenica e una riconoscibilità visiva, in un dipinto, al passo del “Si quis vult post me venire, […]” , è drammatizzarlo e trasformarlo in azione. Questo innesca
è una sorta di titolo ‘spontaneo’ derivato dalla più semplice descrizione visiva della scena, ma comunque validato dalle fonti coeve. Quello che non compare nelle fonti antiche, invece, è il riferimento al Cireneo, segno piuttosto evidente che né il committente né l’artista ritenevano che l’opera dovesse raffigurare la specifica scena della Via Crucis di cui è protagonista Simone di Cirene. Quand’anche il personaggio in primo piano, di schiena, possa essere identificato con Simone, tale identificazione va letta nell’ambito di un complesso iconografico più ampio, come nell’idea di Stoughton. Questo indizio, insieme ad altri che vedremo, ci suggerisce di leggere la scena non tanto in senso narrativo, quanto in senso simbolico. In margine all’argomento del titolo nelle fonti antiche è opportuno, per completezza d’informazione, fare ancora un inciso: il citato Lanfranco Massa, procuratore e socio di Marcantonio Doria a Napoli, era anch’egli collezionista d’arte e anche della sua raccolta si conserva un inventario d’epoca13, datato 1630. In questo elenco si citano sei opere ascritte al Battistello (a oggi tutte non reperite) fra le quali c’è un “Quadro di Nostro Signore con la Croce in collo con cornice, di Giovanni Battista Caracciolo”. Se per Stefano Causa14 di tratta semplicemente di un dipinto autonomo perduto, per Maria Cristina Terzaghi15 potrebbe trattarsi invece di una copia identica del nostro Qui vult venire post me16, col che avremmo nell’inventario Massa l’attestazione di un terzo modo di definire la medesima immagine. Questa terza formulazione confermerebbe l’assenza di ogni riferimento a Simone di Cirene e rappresenterebbe una variante, forse più colloquiale, del titolo Cristo che porta la croce. Tornando al tema di come leggere in modo specifico la scena rappresentata, si è detto che il testo di Stoughton suggerisce la direzione interpretativa più condivisibile, ma lascia aperte molte questioni. Per riprendere correttamente in mano le fila di questa complessa esegesi, sarà utile innanzitutto rileggere con attenzione il dettato evangelico di partenza. Il passo da cui deriva la frase Qui
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Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me, particolare
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la schiena allo spettatore, ha, come tutti gli altri, ben pochi connotati che la possano identificare in modo certo con uno dei personaggi citati specificamente nei testi evangelici. Simone di Cirene tradizionalmente è rappresentato mentre sostiene il peso della croce di Cristo: in questo caso, al contrario, l’uomo è semplicemente inginocchiato dinanzi a Gesù, con la mano destra protesa a lui. Anche il bambino che appare poco più indietro non sembra poter avere una corrispondenza specifica nelle Sacre Scritture. La prima suggestione rimanda nuovamente alla scena del Cireneo, dal momento che il Vangelo di Marco, l’unico dei sinottici a descrivere la comparsa di Simone di Cirene con qualche variante, lo ricorda come padre di Alessandro e Rufo19. Tale circostanza potrebbe indurci a vedere in questo bimbo proprio uno dei figli di Simone, ma l’ipotesi è poco convincente: se il pittore avesse voluto realmente connotare il Cireneo inserendo i suoi figli, li avrebbe rappresentati entrambi. Col bimbo interagisce la donna in secondo piano, che trattiene il piccolo con la mano sinistra. Questa figura femminile ha una presenza rilevante nell’economia complessiva della scena ma non sembra poter corrispondere a nessuna delle donne citate individualmente nei testi evangelici. Una figura femminile ricorrente nella Via Crucis è quella della Veronica, che deterge il viso di Cristo con un tessuto sul quale si imprime l’immagine del volto di lui. Proprio questo tessuto diventa l’attributo caratterizzante dell’identità della Veronica in tutta l’iconografia, e qui evidentemente manca. Luca nel proprio Vangelo riferisce di molte altre donne che seguivano il corteo verso il Calvario20, ma l’identità e il ruolo di queste resta indefinito. Ancora in secondo piano, quasi nascoste dall’ombra, si intravedono altre due figure, una maschile e una femminile. L’uomo potrebbe ragionevolmente essere visto come un soldato, per quei bagliori in corrispondenza del collo e del polso che lo dimostrano vestito da una sorta di armatura. Ma il suo atteggiamento è di partecipazione emotiva e quasi di contrizione, non certo impositivo e violento come quello dei soldati che scortavano Cristo
il meccanismo creativo che porta l’artista a costruire l’iconografia che vediamo. Il pittore non rappresenta Gesù che parla ai discepoli, ma dà sostanza diretta alle sue parole: lo raffigura mentre porta la croce e col gesto invita coloro che lo osservano a condividere quella fatica e quella strada. Così l’artista crea un cortocircuito che corre dal momento della predicazione al momento della Passione, rubando a quest’ultimo – che è tutto azione drammatica – le tessere visive per costruire l’opera d’arte. Con questa scelta, del resto, non fa altro che sfruttare un altro elemento già insito nel testo oltre al valore simbolico, ovvero il contenuto profetico. È evidente che, nell’intenzione degli evangelisti, il ricorso di Cristo all’immagine simbolica del portare la croce assume anche il valore di una profezia, fil rouge che attraversa tutto il testo sacro e collega il Vecchio e il Nuovo Testamento. Basterà allargare l’analisi al passo precedente per constatare come il contenuto profetico sia dichiarato apertis verbis. In Matteo, Marco e Luca il paragrafo del “Si quis vult post me venire, […]” è preceduto da queste righe: “Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: ‘Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai’. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: ‘Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!’”18. Gli eventi della Passione e Crocifissione intesi come fatto storico, dunque, parrebbero entrare in questo passo solo attraverso un’eco profetica, mentre l’interesse maggiore sembra orientato al valore simbolico dell’immagine di “portare la propria croce”, ed è proprio questo valore simbolico che è divenuto tema del dipinto. Ulteriori prove a favore di un’interpretazione allegorica della scena vengono dall’analisi minuta dei personaggi. La figura che domina la scena, collocata al centro della tela mentre rivolge lo sguardo a Cristo e
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Le donne e gli uomini ritratti sono figure assolute e quello che conta è il dialogo gestuale che si instaura fra di loro: Cristo si rivolge a coloro che lo guardano e con la mano indica la croce. “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” sono le parole contenute in quel gesto. I personaggi in secondo piano sembrano non essere pronti a quell’invito: la donna anziana inarca le sopracciglia e socchiude le labbra in una risposta che resta muta, il soldato porta le mani al petto come a chiedere conferma, in un gesto di grande coinvolgimento e insieme di timore. Il bambino muove verso Cristo ma la donna più giovane lo trattiene e con la mano destra indica la scena centrale: è ancora troppo piccolo per comprendere il peso di quella chiamata, non è a lui che Cristo si rivolge. Solo un personaggio sembra essere pronto a raccogliere l’invito di Gesù: è inginocchiato – posa che lo identifica come uomo di fede – e con la mano aperta protesa a Cristo ha già scelto la strada che gli è stata indicata. Ma dunque chi è questo giovane? Egli certamente rappresenta tutti coloro che accolgono l’insegnamento di Cristo, ma non è escluso che nel caso specifico sia lecito riconoscervi il committente. Non è escluso, in altre parole, che ordinando questo dipinto Marcantonio Doria volesse identificare se stesso in quell’uomo di fede. È lui il vero protagonista della tela, inginocchiato di fronte a Cristo e pronto a seguirlo facendo proprio quel sacrificio e quella missione. Questa lettura, del resto, è perfettamente in linea con la personalità del Doria come emerge dalle fonti: nella sua accurata ricostruzione del genovese, Viviana Farina scrive “il suo spirito religioso sembra essere andato un po’ oltre le normali usanze dell’aristocrazia del tempo” e sottolinea “non solo la severità e l’integrità morale e spirituale di Marcantonio […] ma anche forme che si definirebbero vagamente fanatiche”23. Questa attitudine fa di lui un committente ‘attivo’ e ci legittima a suggerirne il possibile riconoscimento nell’identità dell’uomo inginocchiato. Un altro spunto su cui lavorare.
al Calvario e che costrinsero Simone di Cirene a portare la croce. Pure le molte altre identificazioni possibili pescando nel novero dei personaggi che si sanno presenti alla Passione, a una più attenta analisi, risultano poco convincenti. L’uomo potrebbe essere forse Giuseppe d’Arimatea, ma la sua presenza in questa scena non rivestirebbe comunque un particolare significato. Infine la seconda donna, più anziana e nascosta, ha un ruolo troppo marginale per essere la Vergine e non ha connotati che ci permettano di identificarla con un’altra delle pie donne. È evidente, insomma, che nel delineare questi personaggi il pittore non ha voluto in alcun modo rappresentare figure specifiche: quello che conta non è l’identità degli individui ma il loro ruolo all’interno della scena, cosa che ci rimanda all’intenzione di creare una raffigurazione simbolica. Anche il luogo e il tempo in cui si muovono i personaggi restano indefiniti, come a voler sottolineare che quanto si vede non è un evento specifico avvenuto in un luogo determinato, ma è una scena dal valore allegorico, fuori dal tempo e dallo spazio. Se il Lama, ad esempio, contestualizzava la sua Salita al Calvario e si sforzava di immaginare abiti e armature del tempo di Pilato, Battistello veste la donna e il bambino con abiti chiaramente dell’Italia del primo Seicento, perché quelle figure non rappresentino soltanto i contemporanei di Cristo, ma le donne e gli uomini di ogni tempo21. L’unica identificazione topografica che potremmo, con impegno, derivare dalla scena, risulterebbe anch’essa da una lettura simbolica: il teschio collocato a terra sulla destra, anziché un semplice memento mori, potrebbe voler identificare il luogo del monte Calvario, giacché in aramaico, ebraico e latino il nome del monte deriva appunto della parola che significa “teschio”22. In conclusione, tutte le più concrete indicazioni interpretative sono orientate nel senso di una lettura prettamente simbolica del dipinto: esso non raffigura un momento specifico della Via Crucis come evento storico, ma rappresenta per allegoria l’invito proferito da Cristo con le parole “Si quis vult post me venire, […]”.
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Il Qui vult venire post me, insomma, pare proprio da leggersi come un dipinto altamente simbolico, che rinuncia all’adesione a un’iconografia tradizionale per realizzare una ben più
profonda densità di significato, come solo può accadere quando la volontà di una committenza particolare incontra la sensibilità di un grande artista24.
R. Carità, Un Battistello ritrovato, in “Paragone. Arte”, II, 19, 1951, pp. 50-54. A proposito dell’antologia caravaggesca, si vedano gli articoli di Roberto Longhi e vari collaboratori in “Paragone”, 1951, nn. 17, 19, 21 e 23. La rivista alternava uscite dedicate all’arte nei numeri dispari e uscite dedicate alla letteratura nei numeri pari. 2 Matteo 27,32; Marco 15,21; Luca 23,26. 3 A. Moir, Italian followers of Caravaggio, Cambridge (Massachusetts) 1967, I, p. 161, nn. 24-25, p. 256, n. 7. Dopo
il Moir il dipinto viene citato anche in W. Prohaska, Beitrage zu Battistello Caracciolo, in “Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien”, LXXIV, 1978, p. 209, fig. 145, ma pure in questo caso ci si limita a ricondurre la scena a un episodio della Via Crucis. 4 B. De Dominici, Vita di Gio: Battistello Caracciuolo, così volgarmente appellato pittore, e di Giacomo di Castro suo discepolo, in Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742-1743, vol. II, 1743, in particolare p. 274.
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5 Giovan
Bernardo Lama, Andata al Calvario, olio su tavola, 211 × 205 cm, Napoli, Museo di Capodimonte. 6 Tiziano Vecellio, Cristo e il Cireneo, olio su tela, 98 × 116 cm, Madrid, Museo Nacional del Prado. 7 Raffaello Sanzio, Andata al Calvario (Spasimo di Sicilia), olio su tavola trasportata su tela, 318 x 229 cm, Madrid, Museo Nacional del Prado. 8 F. Bologna, V. Pacelli, Caravaggio 1610: la Sant’Orsola confitta dal tiranno per Marcantonio Doria, in “Prospettiva”, 23, 1980, pp. 24-44. 9 Archivio di Stato di Napoli, sezione Casa Reale - Archivi privati, fondo della famiglia genovese Doria d’Angri. Le carte relative alle vicende del casato a Genova, fra cui quelle di nostro interesse, restano fra i beni di famiglia e vengono trasferite a Napoli, dove i discendenti vivono stabilmente a partire da inizio Ottocento. Il fondo documentale, custodito a Napoli nel palazzo Doria d’Angri progettato da Vanvitelli, viene ceduto allo Stato italiano nel 1948. Benché l’inventario sia stato pubblicato la prima volta nel 1980 [cfr. nota precedente], per questo contributo si fa riferimento alla pubblicazione e allo studio in V. Farina, Giovan Carlo Doria promotore delle arti a Genova nel primo Seicento, Firenze 2002. 10 Matteo 16,24; Marco 8,34; Luca 9,23. 11 M. Stoughton, scheda del dipinto Qui vult venire post me, in Civiltà del Seicento a Napoli, a cura di R. Causa e G. Galasso, catalogo della mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 24 ottobre 1984 - 14 aprile 1985), Napoli 1984, I, pp. 201-202. Al proposito si faccia riferimento anche alle parole di Stefano Causa che, nel contributo pubblicato oggi su queste pagine, sottolinea: “[Stoughton] si accorse che il vero soggetto del dipinto non è l’illustrazione del Cristo e il Cireneo, come supposto dal Carità; quanto la raffigurazione del motto evangelico, Chi mi voglia seguire, prenda la croce – come dimostra l’assiepamento delle figure, in una sorta di bassorilievo”. 12 Il documento, conservato all’Archivio Storico del Banco di Napoli, compare in E. Nappi, Catalogo delle pubblicazioni edite dal 1883 al 1990 riguardanti le opere di architetti, pittori, scultori, marmorari ed intagliatori per i secoli XVI e XVII, pagate tramite gli antichi banchi pubblici napoletani, in Ricerche sul ’600 napoletano, Milano 1992, ed è ricordato da S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 352. 13 Inventario di robbe lasciate dal signor Lanfranco Massa alli signori Giovanni Battista et Oratio Massa quondam Paulo Battista suoi Nepoti et heredi Universali: 1630, pubblicato in A. Delfino, Documenti inediti per alcuni pittori napoletani del ’600 e l’inventario dei beni lasciati da Lanfranco Massa con una sua breve biografia, tratti dall’Archivio Storico del Banco di Napoli e dall’Archivio di Stato di Napoli, in Ricerche sul ’600 napoletano, Milano 1985. 14 Causa, Battistello Caracciolo cit., p. 347, n. P60. 15 M.C. Terzaghi, Le prime copie da Caravaggio, quando e perché attraverso nuovi documenti Costa, in Caravaggio e l’Europa, L’artista, la storia, la tecnica e la sua eredità, a cura di Luigi Spezzaferro, atti del convegno di studi (Milano, 3-4 febbraio 2006), Cinisello Balsamo 2009, p. 107. 16 Tale ipotesi sorge dal fatto che nella collezione di Lan-
franco Massa sono presenti molteplici dipinti descritti come di autore e soggetto analogo a quelli che Lanfranco commissionava o acquistava per Marcantonio Doria, per cui Terzaghi scrive: “difficile che si tratti in tutti i casi di una coincidenza: evidentemente Massa, al momento dell’acquisto dei quadri per conto di Marcantonio, era solito fare eseguire una copia anche per la propria collezione”. Terzaghi, Le prime copie da Caravaggio cit., pp. 96, 107. 17 Matteo 16,24-27; Marco 8,34-38; Luca 9,23-27. 18 Matteo 16,1 sgg. Testo analogo in Marco e Luca. 19 Marco 15,21. 20 Luca 23,27. 21 La scelta di abiti del tempo da parte del pittore è sottolineata già da Stoughton, che la interpreta così: “L’impatto della rappresentazione è tanto più drammatico in quanto, mentre l’invito di Cristo era esteso genericamente a tutti, qui è reso concreto in modo manifesto dalla presenza di specifici personaggi contemporanei all’artista”, M. Stoughton, Qui vult venire post me, in Civiltà del Seicento a Napoli cit., p. 201. Sia detto però che la scelta di vestire personaggi biblici e mitologici con gli abiti del tempo presente è comune a molti artisti, soprattutto durante il Cinque e Seicento. A tale proposito, sempre sugli abiti del nostro dipinto, il citato Stoughton ricorda come Battistello riprenda i vestiti del bambino della Madonna del Rosario di Caravaggio (“non può essere solo una coincidenza che il ragazzo dell’opera di Battistello indossi esattamente lo stesso tipo di calzoni, strappati dietro, che indossa il bambino inginocchiato del dipinto di Caravaggio”, Stoughton ivi, p. 202; ma a tale proposito si veda il saggio di Daniela Magnetti nel presente volume, che mette a fuoco alcune precise e volute differenze). 22 In Matteo, Marco e Giovanni il monte della Crocifissione è chiamato Golgota, in Luca è detto Calvario, ma entrambi i nomi derivano da parole che significano “teschio” (in aramaico אתלגלוג, pronuncia “gulgltā”; in ebraico תֶלֹּגְלֻּג \ תלוגלוג, pronuncia “gulgólet”; in latino calvariae). 23 Farina, Giovan Carlo Doria promotore cit., p. 24 e p. 60, nota 96. 24 Pur con tutta la cautela che deve sempre accompagnare il critico e tener lontana l’insidia della sovrainterpretazione, a margine del percorso delineato occorre notare come dentro questo dipinto potrebbero nascondersi innumerevoli altri stimoli culturali. Ad esempio l’idea di portare la croce di Cristo, come nell’episodio del Cireneo, induce all’idea non solo di seguirne l’esempio, ma quasi di sostituirsi a lui. Questo concetto si estremizza in alcune letture di matrice gnostica, secondo cui l’episodio del Cireneo nasconde una vera e propria sostituzione della persona di Gesù con quella di Simone poco prima della Crocifissione, così che a finire sulla croce sarebbe stato quest’ultimo. Ne parla diffusamente Ireneo di Lione nel suo Adversus haereses (ringrazio Marco Calvi per la segnalazione). Guardando il nostro dipinto l’idea della ‘sostituzione’ pare altamente suggestiva: il Cristo quasi scompare nell’ombra del piano arretrato, mentre l’uomo inginocchiato sembra davvero accingersi a prenderne il posto, coperto solo da quel manto rosso che tanto ci ricorda la tunica di Cristo che di lì a poco i soldati si giocheranno (Giovanni 19,23-24).
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“Per modo che la nostra università risorga a nuovo e più alto decoro, in una sede veramente degna”. L’acquisto del quadro di Giovanni Battista Caracciolo nel contesto della ricostruzione post-bellica del palazzo del Rettorato
zione di far gravare la spesa “sul fondo stanziato per le spese di arredamento della nuova sede di via Po”. A fronte della perdita pressoché totale della corrispondenza istituzionale dal 1946 agli anni settanta del Novecento e, in particolare, della documentazione istruttoria delle sedute degli organi di governo, distrutte a causa dell’alluvione del 20007, la ricostruzione del contesto non può che essere sommaria ed esaurirsi nell’analisi del momento di storia istituzionale in cui fu deciso l’acquisto e nella presentazione dei tre principali attori coinvolti.
Il contesto storico istituzionale L’Ateneo del cui patrimonio il quadro entra a far parte ha subito gravi ferite durante la guerra, come il resto della città, fatta oggetto di decine di attacchi aerei da parte delle forze alleate tra l’11 giugno 1940 e il 5 aprile 19458. I bombardamenti che interessarono il palazzo del Rettorato furono soprattutto due: il primo l’8 dicembre del 1942, il secondo il 13 luglio 1943. Già dopo le incursioni del 1942 si dovette procedere al trasferimento di gran parte degli uffici, del materiale amministrativo, scientifico e librario fuori Torino9, ma la situazione precipitò dopo il secondo, dalle conseguenze ben più drammatiche: “Comunico a codesto Ministero che, in seguito all’incursione aerea nemica del 13 corrente, è crollata tutta l’ala sinistra del Palazzo Universitario, tra via Po e via Virginio, con la distruzione completa dei locali del Rettorato e della Direzione Amministrativa […]. L’incendio […] ha devastato tutti i mobili esistenti nei locali predetti […]”10. Nel proprio discorso inaugurale dell’anno accademico 1945-1946 Mario Allara definisce “le condizioni materiali del nostro ateneo […] disastrose” e “incendiato e reso inabitabile il palazzo centrale di via Po”. Ricorda, inoltre, il trasferimento di “tutti gli uffici universitari, quasi quattro facoltà, comprese le due biblioteche di matematica e della facoltà di magistero” nel palazzo di San Filippo, assegnato all’Ateneo per volontà “del Governo Militare Alle-
PA O L A N O V A R I A
Gli atti ufficiali Il giorno 13 maggio 1952, a Torino, nel palazzo di San Filippo, Ugo Martinotti, venditore, e Mario Allara, rettore dell’Università di Torino, acquirente, sottoscrivono una “scrittura privata per acquisto di quadro a olio”1. Il quadro di Battistello Caracciolo raffigurante “un Cristo portacroce con famiglia del Cireneo” è consegnato in quella che allora era la sede ufficiale dell’Ateneo2, per le ragioni di seguito esposte. Il prezzo di acquisto è di lire 950.0003, valore con cui il bene è preso in carico in data 11 giugno, col numero di inventario 10544. Il rettore Mario Allara era stato autorizzato alla stipula del contratto e alla spesa dal Consiglio di Amministrazione, nell’adunanza del 2 maggio 19525. Dal verbale emergono due ulteriori elementi meritevoli di attenzione: il coinvolgimento di Anna Maria Brizio6 in qualità di esperta, per valutare la congruità dell’acquisto; e la destinazione del quadro, che si intuisce dalla delibera-
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ato e della autorità cittadine”11. Si tratta del luogo in cui avvennero la stipula del contratto e la consegna del quadro. Se, in apertura dell’anno accademico 19481949, il rettore registra “l’inizio dell’opera di ricostruzione del palazzo centrale dell’università”12 e auspica che non sia troppo ottimistica la previsione di una durata di due anni di lavori, si dovrà attendere fino al 1952 per “la inaugurazione del ricostruito palazzo di via Po”. La solenne cerimonia si tenne il 13 dicembre, alla presenza del presidente della Repubblica Luigi Einaudi e di numerosi deputati e senatori, tra cui il sottosegretario Carlo Vischia, Federico Marconcini in rappresentanza del Senato e Giuseppe Chiostergi in rappresentanza della Camera13. Davanti al capo dello Stato, il rettore diede conto della “imponenza dell’aiuto dello Stato”, pari a circa un miliardo, di cui oltre 330 milioni di lire per il solo Rettorato. Menzionò inoltre i contributi del Comune, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Unione Industriale, della Fiat. Nel riconoscere i diversi livelli di complessità che la ricostruzione del palazzo aveva portato con sé, tecnico, artistico14 e organizzativo, Allara tocca il punto decisivo ai fini del nostro discorso, “quello dell’arredamento. Assolute esigenze, non di lusso, ma di decoro, il confronto con le maggiori, ed anche le minori Università italiane, nonché l’architettura e la grandiosità stessa del palazzo, imponevano una soluzione adeguata. […] la Università si è accollato l’onere dell’arredamento dei locali di rappresentanza, esclusa l’aula magna”15. Fin dal 1950 i verbali delle adunanze del Consiglio di Amministrazione menzionano la necessità di provvedere all’arredamento del Rettorato16 e riportano con continuità gli acquisti di mobili e oggetti di pregio via via autorizzati, che trovano corrispondenza nelle registrazioni inventariali17. Desta l’attenzione, in data 18 febbraio 1952, la presa in carico di due quadri “di scuola toscana del principio del secolo XVII”18, così come, in data 28 marzo 1952, la ratifica della “spesa di £ 220.000 sostenuta per l’acquisto dal sig. Eugenio Ferrero di Torino del quadro ‘La dama genovese’ attribuito al pittore
Documento di acquisto del dipinto da parte dell'Università di Torino, 1952
Carboni di Genova”19. In questo contesto ben si comprende anche l’acquisto del quadro di Caracciolo, al fine di conferire prestigio al palazzo prossimo alla riapertura. Dai verbali del Consiglio di Amministrazione si può forse cogliere una prima ipotesi di destinare questi quadri alla nuova aula magna. Questo progetto, tuttavia, non si realizzò e sulla parete di fondo fu, invece, collocato un bassorilievo in bronzo di Giuseppe Tarantino che rievoca la fondazione dell’Ateneo20. Il quadro di Caracciolo e gli altri tre acquistati nello stesso anno furono, dunque, destinati alle altre sale di rappresentanza, che tuttora li ospitano.
I protagonisti Quanto sin qui esposto dà evidenza all’operato di Mario Allara (Torino, 1902-1973), rettore della ricostruzione21. Professore di Diritto civile dal 1935 al 1972, al vertice dell’Ateneo dal 1945 al 1971, dopo la Liberazione svolse il proprio ruolo con l’intento di favorire la ricomposizione delle
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medioevale e moderna nel 1932 e rimase a Torino fino al gennaio del 1957. I suoi pareri sono menzionati in almeno due documenti ufficiali, già citati24. Esula dai fini di queste note una ricostruzione degli interessi di studio della docente, ma pare significativo che proprio nell’anno accademico 1951-1952 Brizio abbia incentrato il proprio corso di Storia dell’arte medioevale e moderna nella Facoltà di Magistero sulla pittura del Seicento e in particolare su Caravaggio25. È l’anno, il 1951, della Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi a Milano, curata da Roberto Longhi26, che segnò un momento fondamentale per gli studi sulla pittura del Seicento in Italia e presentò cinque lavori di Caracciolo. Nel medesimo anno, su “Paragone”, Roberto Carità presentò Un Battistello ritrovato: proprio il nostro Cristo e il Cireneo27. Non stupisce, in un momento di così grande attenzione per Caravaggio e i caravaggeschi, che l’opera di Battistello sia stata proposta all’Università da Ugo Martinotti, “nato a Casale Monferrato e residente a Casale Monferrato, via Cavour n.
ferite e la riconciliazione all’interno della comunità accademica. Nel suo primo discorso volle ricordare i caduti su entrambi i fronti e, soprattutto, tributare un pubblico riconoscimento all’opera che il proprio predecessore Azzo Azzi svolse “con vivo senso di sacrificio, di responsabilità, di onestà”22: parole dettate dalla preoccupazione di sanare il vulnus anche istituzionale venutosi a creare con la nomina a rettore di Luigi Einaudi disposta dal governo Badoglio alla fine di agosto del 1943 e la nomina a rettore di Azzi da parte del governo di Salò alla fine di ottobre 1943. Nel momento in cui, collocato fuori ruolo dal 1° novembre 1957, lasciò l’Istituto di Igiene e Torino, Azzi ringraziò Allara per quanto volle e seppe fare per lui “in difficili circostanze” e Allara gli ribadì la propria gratitudine per aver guidato l’Università “in momenti delicati e difficili”23. A fronte dell’obiettivo di impreziosire il palazzo restaurato, è certo che il rettore si sia avvalso, innanzitutto per ragioni istituzionali, della consulenza di Anna Maria Brizio, che successe a Lionello Venturi nell’insegnamento di Storia dell’arte
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11”28. Il venditore è certamente da identificare col pittore, antiquario e collezionista Ugo Martinotti (Casale Monferrato, 1905 - Torino 1989)29, legato da rapporti di amicizia con numerose personalità dell’arte e della cultura non solo piemontesi, tra cui anche Anna Maria Brizio. Senza poter ricostruire in dettaglio la storia collezionistica della tela, la sua provenienza dalla collezione Doria di
Genova30 si incontra con le frequentazioni di Martinotti, che con la città aveva saldi legami, anche grazie alla moglie, Giacinta Cavalli d’Olivola31.
1 Cfr. Archivio storico dell’Università di Torino (d’ora innanzi ASUT), Gestione patrimoniale, Repertorio degli atti, “Scrittura privata per acquisto di quadro ad olio” (Repertorio n. 183). L’atto è registrato nel Repertorio degli atti soggetti a tassa registro, 1925-1964, conservato ivi. 2 Palazzo San Filippo, oggi Campana dal nome di battaglia del partigiano Felice Cordero di Pamparato, è attualmente sede del Dipartimento di Matematica “Giuseppe Peano”. 3 Per una stima della cifra si consideri, a titolo di esempio, che lo stipendio annuo del rettore Mario Allara nel 1952 era pari a lire 778.800 (cfr. lo Stato di Servizio in ASUT, Fascicolo personale di Mario Allara) e quello di un usciere appena assunto pari a lire 149.000 (cfr. la Legge 8 aprile 1952, n. 212 Revisione del trattamento economico dei dipendenti statali, Allegato II). 4 Cfr. ASUT, Gestione patrimoniale, Recapitolazioni inventariali 1946-83, Amministrazione universitaria, 1951-52. Il numero di inventario odierno è 004488. 5 Cfr. il verbale della seduta in ASUT, Governo, Consiglio di Amministrazione, Verbali delle sedute dal 17 gennaio 1950 al 19 maggio 1952, p. 470. 6 Anna Maria Brizio (Sale, 1902 - Rapallo, 1982) era allora titolare della cattedra di Storia dell’arte medioevale e moderna nella Facoltà di Magistero e incaricata del medesimo insegnamento nella Facoltà di Lettere e filosofia. Si trasferì alla medesima cattedra della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Milano dal 1° febbraio 1957 (cfr. ASUT, Fascicolo personale di Anna Maria Brizio). 7 Tra il 15 e il 16 ottobre del 2000, l’esondazione della Dora Riparia causò l’allagamento del deposito semi-interrato, ubicato in corso Svizzera 185, in cui aveva trovato collocazione dal mese di luglio del medesimo anno l’archivio delle segreterie studenti, oltre a documentazione dei settori Organi collegiali, Tecnico e Finanza, per un totale di 11 km di scaffalatura. L’intervento di salvataggio e recupero prese il via all’indomani della calamità, sotto la direzione del commissario straordinario all’emergenza alluvione Alfiero Battistoni, con il coordinamento scientifico della Soprintendenza archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta. Mentre furono salvate circa 115.000 tesi di lau-
rea, documentazione edilizia di natura progettuale, registri contabili, decreti rettorali, non poterono essere recuperati i fascicoli degli studenti, i registri delle lezioni, la documentazione preparatoria delle sedute degli organi di governo. Chi scrive queste note ha memoria delle scelte effettuate allora, su indicazione della Soprintendenza. Sull’emergenza alluvione si conserva una Relazione sullo stato dei lavori relativi al recupero del materiale alluvionato (20 maggio 2002); cfr. inoltre P. Novaria, L’Archivio generale dell’Università di Torino: progetti in corso, in “Annali di storia delle università italiane”, Bologna 2006, pp. 395-396. 8 Cfr. Bombardamenti a Torino, ultimo accesso 11 febbraio 2019, http://www.museotorino.it/view/s/acb7d7d49d6147e188377fb9e9c491ef. 9 Cfr. Asut, Corrispondenza, 1943, fasc. 9.5 Varie, lettera del rettore Azzo Azzi al Ministero dell’Educazione Nazionale in data 9 aprile 1943. 10 Ivi, lettera del rettore Azzo Azzi al Ministero dell’Educazione Nazionale in data 20 luglio 1943. 11 Cfr. la Relazione del rettore per l’anno accademico 1945-1946, pubblicata nell’Annuario per l’anno accademico 1945-46, Asti 1947, pp. 9-10. Il volume è disponibile on line: L’Archivio in mostra, ultimo accesso: 08 febbraio 2019, https://www.asut.unito.it/mostre/items/show/130. 12 Cfr. la Relazione del rettore per l’anno accademico 1948-1949, pubblicata nell’Annuario per l’anno accademico 1948-49, Torino 1949, p. 9. Il volume è disponibile on line: L’Archivio in mostra, ultimo accesso il: 08 febbraio 2019, https://www.asut.unito.it/mostre/items/show/132. Dal medesimo discorso, a p. 10 dell’Annuario, è tratta la citazione che funge da titolo dell’articolo. 13 Sull’inaugurazione del palazzo restaurato dai danni di guerra cfr. la Relazione del rettore per l’anno accademico 1952-1953, pubblicata nell’Annuario per l’anno accademico 1952-53, Torino 1953, pp. 9-12. Il volume è disponibile on line: L’Archivio in mostra, ultimo accesso: 08 febbraio 2019, https://www.asut.unito.it/mostre/items/show/136. Cfr. inoltre il verbale della seduta del Senato Accademico in data 9 dicembre 1952 in ASUT, Governo, Senato Accademico, Verbali delle adunanze dal 6 luglio 1950 al
Nella stesura di queste note, per i riferimenti storico-artistici indispensabili, mi è stato prezioso il contributo di Marco Testa, collaboratore dell’Archivio storico.
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Verbali cit. alla nota 5, p. 470). In merito alla scelta di “un bassorilievo di stile moderno” Anna Maria Brizio espresse un parere negativo. 21 L’impegno che Allara dedicò “alla ricostruzione dell’Università di Torino dalle rovine della guerra” è sottolineata da G. Grosso, Mario Allara. Commemorazione letta nell’Aula Magna dell’Università di Torino il 9 luglio 1973, Torino 1973, p. 16. 22 Cfr. la Relazione del rettore per l’anno accademico 1945-46, cit. alla nota 11, pp. 9 e 14. 23 Cfr. ASUT, Fascicolo personale di Azzo Azzi. 24 Cfr. le note 5 e 20. 25 Cfr. il Registro di Storia dell’arte medioevale e moderna dell’anno 1951-52 in ASUT, Magistero, Lezioni 1951-52. Non sono conservati i registri delle lezioni della Facoltà di Lettere e filosofia, distrutti nell’alluvione del 2000. Nel 1958-1959, sempre nella Facoltà di Magistero, sarà Andreina Griseri a svolgere un corso su Caravaggio e i primi caravaggeschi, tra cui Battistello Caracciolo (cfr. il programma del corso di Storia medioevale e moderna, pubblicato in Annuario per l’anno accademico 1958-59, Torino 1959, p. 233. Il volume è disponibile on line: L’Archivio in mostra, ultimo accesso: 12 febbraio 2019, https://www. asut.unito.it/mostre/items/show/142). 26 Cfr. il catalogo Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, Firenze 1951. Della mostra Longhi fu commissario esecutivo e componente della commissione per la scelta delle opere; del catalogo scrisse l’introduzione e revisionò le schede. L’anno successivo uscì il suo studio Il Caravaggio, Milano 1952. 27 Cfr. R. Carità, Un Battistello ritrovato, in “Paragone. Arte”, II, 19, 1951, pp. 50-54. Devo la segnalazione alla scheda redatta da G. Porzio, in L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, a cura di A. Morandotti, catalogo della mostra (Milano, Gallerie d’Italia - Piazza Scala, 30 novembre 2017 - 8 aprile 2018), Milano 2017, p. 120. Già l’anno precedente un contributo aveva riguardato Battistello: cfr. R. Causa, Aggiunte a Battistello, in “Paragone. Mensile di arte figurativa e letteratura”, I, 9, settembre 1950, pp. 42-45. L’autore (p. 42) richiama due interventi di Longhi su Battistello nel 1915 e nel 1943. Devo la segnalazione dell’articolo a S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 7. 28 Cfr. la “Scrittura privata”, già citata nella nota 1. 29 Sulla sua figura cfr. E. Colombotto Rosso, M. Viale Ferrero, S. Martinotti, S. Martinotti, R. Severino, Janus, M. Pinottini (testi di), Io sono un pittore. Ugo Martinotti, Omegna 2005, e M. Cerutti Marocco, M. Grassano, D. Molinari (testi di), Ugo Martinotti. Il Monferrato paesaggio dell’anima. Luoghi, volti, luci, Omegna 2006. Un profilo biografico essenziale si legge a p. 153. 30 Cfr. la scheda redatta da G, Porzio, in L’ultimo Caravaggio cit., p. 120. 31 Sono grata alla dottoressa Silvia Martinotti, figlia di Ugo, che si è resa disponibile a un incontro e ha condiviso i propri ricordi personali relativi alla tela, già collocata nel “sacrario”, la Sala Rossa dell’appartamento al piano nobile di palazzo Sannazzaro, dove “a partire dagli anni ’40 [Ugo Martinotti] ha stabilito […] la propria abitazione, mentre già prima vi teneva il suo studio al piano terreno” (cfr. il catalogo Ugo Martinotti. Il Monferrato cit., p. 31).
17 marzo 1954 e l’articolo La cerimonia inaugurale alla presenza di Luigi Einaudi, in “La Stampa”, 14 dicembre 1952, n. 296, p. 2, disponibile on line: http://www.archiviolastampa.it, ultimo accesso: 11 febbraio 2019. Per un resoconto dal punto di vista degli studenti cfr. l’articolo di apertura Einaudi inaugura il Palazzo di via Verdi, in “Ateneo”, IV, 3, 15 dicembre 1952, p. 1. 14 Tutta da scrivere la storia della ricostruzione del palazzo, la riprogettazione degli spazi interni e degli apparati decorativi, la riallocazione di busti e lapidi. A questo scopo risulterà di fondamentale importanza la documentazione edilizia recuperata dopo l’alluvione del 2000: cfr. in particolare ASUT, Ufficio Tecnico Alluvionato, n. 4 (dicitura attribuita nel corso del salvataggio. Le carte non sono inventariate). 15 Cfr. la Relazione del rettore per l’anno accademico 1952-1953 cit. alla nota 13, pp. 11-12. Si noti, per inciso, che, in tutta probabilità, all’aula magna furono assegnati gli spazi dell’ex Teatro anatomico solo a seguito dei lavori posti in essere tra 1948 e 1952 (cfr. ASUT, Ufficio Tecnico Alluvionato, n. 4). 16 Cfr. il verbale della seduta 15 marzo 1950, nei Verbali cit. alla nota 5, p. 16. Le attribuzioni come riportate sui documenti amministrativi qui citati sono da intendersi come note sommarie a cura degli uffici, strumentali alla presa in carico del bene, ma non sempre attendibili dal punto di vista storico-artistico. 17 Cfr. in particolare la Recapitolazione dell’anno 19511952, cit. alla nota 4. 18 Ibidem. I due quadri sono acquistati, insieme a stoffe di pregio, da Cecilia Gaia vedova Berto, con atto sottoscritto il 15 febbraio 1952: cfr. “Scrittura privata per l’acquisto di quadri e di stoffe” (Repertorio n. 181), conservato nel Repertorio degli atti cit. in nota 1. Il Consiglio di Amministrazione autorizzò la spesa nella seduta dell’8 febbraio 1952 (cfr. i Verbali cit. alla nota 5, p. 441). I quadri si trovano rispettivamente nell’ufficio del rettore e nel salone del Rettorato, coi numeri di inventario 004484 (ex 1050) e 004483 (ex 1049). Sono riprodotti nelle tavole 36 (Caravaggesco nordico, Profeta) e 37 (Pittore affine a Carlo Dolci, Davide e Abigail) in A. Quazza, G. Romano (a cura di), Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, Torino 2004, pp. 196-197. 19 Cfr. il verbale della seduta del 28 marzo 1952, nei Verbali cit. nella nota 5, p. 455. Il quadro si trova nell’ufficio del rettore, col numero di inventario 004489 (ex 1055). Vi si fa riferimento come a Ritratto di giovinetta di pittore affine a Pier Francesco Cittadini nella tavola 39 pubblicata in Quazza, Romano, Il Palazzo dell’Università di Torino cit., p. 199. 20 Cfr. le comunicazioni del rettore al Consiglio di Amministrazione “circa l’arredamento dell’aula magna” nella seduta del 24 settembre 1952 in ASUT, Governo, Consiglio di Amministrazione, Verbali delle sedute dal 19 maggio 1952 al 21 luglio 1954. Alle spese per l’arredamento della nuova aula magna fu destinato il contributo di 10 milioni di lire da parte della Unione degli industriali della provincia di Torino, avendo essa espresso il desiderio che la somma fosse “destinata ad uno scopo ben determinato e circoscritto” (cfr. verbale della seduta del 2 maggio 1952, nei
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Diagnostica e restauro del dipinto raffigurante Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo
re la fluorescenza verdastra caratteristica di una vernice a base di resina naturale, stesa in un precedente intervento di restauro. Per il riconoscimento dei pigmenti impiegati dall’artista, è stata realizzata innanzitutto l’immagine in infrarosso falso-colore 500-950 nm ottenuta in post-produzione da una foto in luce visibile e una foto in infrarosso bianco-nero (fig. 2). Questa tecnica ha permesso di dare delle prime indicazioni sulla natura chimica dei pigmenti. Inoltre la fluorescenza ultravioletta ha permesso di valutare l’eventuale presenza di pigmenti organici, come la lacca rossa, riconosciuta in questo caso per la sua caratteristica fluorescenza rosata, e individuare precedenti interventi di restauro. Ottenuti i primi risultati con queste tecniche è stato poi possibile eseguire dei punti in fluorescenza a raggi X, per determinare i pigmenti inorganici impiegati dall’artista. I principali dati emersi hanno permesso di individuare l’uso di: cinabro per la realizzazione delle campiture rosse e rosa degli incarnati, un pigmento a base di rame per le campiture verdi e bianco di piombo impiegato puro o in mescolanza per lumeggiare le campiture. La presenza di calcio e ossidi di ferro in tutti i punti analizzati è invece da attribuire alle stesure preparatorie della tela (fig. 3).
THIERRY RADELET
Il dipinto è giunto nel mio laboratorio per essere sottoposto a una campagna di analisi e al restauro. Si è proceduto inizialmente con lo studio diagnostico per il riconoscimento della tecnica esecutiva impiegata dall’artista e la valutazione dello stato di conservazione dell’opera. Tutti i dati emersi sono stati successivamente messi a confronto per trovare il metodo di restauro più adeguato e mettere in nuova luce l’alta qualità della materia pittorica, alterata dal tempo e da precedenti interventi di restauro. Lo studio preliminare del quadro è avvenuto per mezzo di tecniche di diagnostica non invasiva che hanno permesso di studiare i vari strati che compongono l’opera impiegando diverse lunghezze d’onda (luce visibile, ultravioletti, infrarossi e raggi X). Prima di tutto, osservando il retro in luce visibile, è stato possibile notare che l’opera era stata oggetto di rifoderatura in un recente restauro, anche se la tela originale risulta integra e non presenta tagli o strappi. Anche il telaio non è più quello originale, ma sostituito durante un precedente intervento di restauro, probabilmente negli anni settanta. Sul fronte si poteva invece riconoscere un’alterazione della percezione cromatica delle campiture, soprattutto l’ingiallimento degli incarnati e una perdita del contrasto tra chiari e scuri. Questo era dovuto alla foto-ossidazione del film protettivo, come è stato possibile mettere in risalto dalle indagini in ultravioletto (fig.1). Questa tecnica ha permesso infatti di riconosce-
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Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me. Generale in fluorescenza ultravioletta
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Particolare in infrarosso falso-colore 500-950 nm
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Spettro in fluorescenza a raggi X del punto verde
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4
Generale in riflettografia infrarossa 1700 nm
disegno preparatorio è stato poi ampliato con l’esecuzione della stessa tecnica di indagine su opere di altri artisti caravaggeschi messe a disposizione dalla Galleria Sabauda, quali: Il suonatore di tiorba di Antiveduto Gramatica, l’Annunciazione di Orazio Gentileschi, Cristo porta la croce al Calvario di Nicolò Musso, La Samaritana al pozzo di Giuseppe Vermiglio, Cristo flagellato di Jusepe de Ribera e San Girolamo di Valentin de Boulogne (fig. 6). In particolare l’opera di Valentin de Boulogne ha permesso di riconoscere un tratto di disegno steso a pennello
Successivamente sono state impiegate le onde infrarosse per cercare di penetrare maggiormente nella stratificazione pittorica e per aumentare la lettura dei contrasti tra le campiture. Le indagini sono state focalizzate anche sulla ricerca del disegno preparatorio, individuato per mezzo della nuova strumentazione di analisi acquisita per la riflettografia infrarossa fino a 1700 nm (fig. 4). Questa tecnica ha permesso infatti di individuare dei tratti preparatori stesi a pennello con pigmento a base carboniosa, soprattutto in corrispondenza della mano del bambino (fig. 5). Lo studio del
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5
Particolare della mano in riflettografia infrarossa 1700 nm
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Particolare della mano in riflettografia infrarossa 1700 nm nel dipinto raffigurante San Girolamo di Valentin de Boulogne conservato alla Galleria Sabauda
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7
Particolare del volto in riflettografia infrarossa 1700 nm
Il generale radiografico è stato ottenuto in post-produzione con il montaggio di 24 immagini, acquisite da lastre digitali di dimensioni 35 × 43 cm inserite tra la tela e il telaio per evitare di avere quest’ultimo impresso nelle lastre (fig. 8). Lo studio, realizzato prima dell’intervento di restauro, ha permesso in questo caso di mettere in evidenza campiture maggiormente radiopache, come quelle eseguite con il bianco di piombo dando risalto a dettagli non più individuabili e che è stato possibile riportare in luce solo a restauro ultimato, come i lineamenti del volto della figura inginocchiata messi in evidenza dal contrasto con il cielo sullo sfondo. La radiografia ha fatto emergere inoltre un leggero pentimento al margine tra la schiena e il panneggio rosso; quest’ultimo risulta infatti dipinto più in alto rispetto all’impostazione originale. Anche il bambino presenta alcuni pentimenti
molto simile a quello identificato nell’opera di Battistello Caracciolo. Questo primo confronto stimola la prosecuzione dello studio della tecnica esecutiva con altri dipinti di artisti caravaggeschi, per l’ottenimento di una futura banca dati. La tecnica permette inoltre di riconoscere eventuali pentimenti di disegno o pittorici dell’artista. Nel caso del dipinto oggetto di studio è apparso, nella zona in alto a sinistra, un volto appena abbozzato che prima del restauro dell’opera non era più riconoscibile in luce visibile (fig. 7). Le successive fasi di pulitura dalla vernice ossidata hanno permesso di rendere questo dettaglio nuovamente visibile anche a occhio nudo. La riflettografia infrarossa ha permesso infine di mappare lo stato di conservazione del dipinto, individuando precedenti ritocchi eseguiti con materiale pittorico di diversa opacità agli infrarossi rispetto a quello originale.
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ossalati. Inoltre sono stati identificati dei segnali attribuibili a un olio o una resina naturale. Dall’incrocio dei dati con la fluorescenza a raggi X si può confermare che il verde scuro era all’origine molto più chiaro e brillante come lo è il resinato di rame appena steso. Terminata la campagna diagnostica sull’opera, si è proceduto con la realizzazione di piccoli saggi di pulitura (fig.10), partendo dalla valutazione preliminare del grado di solubilità da raggiungere per la rimozione dello strato filmogeno alterato. Questo procedimento avviene tramite l’ausilio del “test di Wolbers”, in quanto è composto da miscele di solventi a polarità crescente, che
pittorici, come quello identificabile nell’esecuzione della veste lungo la schiena (fig. 9). Dopo le indagini non invasive, con la direzione lavori si è concordato di effettuare un micro-campionamento eseguito in corrispondenza del pigmento verde scuro del panneggio del donna sulla sinistra, per avere informazioni aggiuntive sulla composizione chimica degli strati preparatori. Il campione è stato successivamente consegnato a TecnArt S.r.l. che ha proceduto ad eseguire delle misure mediante FT-IR (Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier) sulla parte di preparazione. È stato così possibile identificare la presenza di silicati, caolino, carbonato di calcio e
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Generale in radiografia digitale
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Particolare del bambino e della figura inginocchiata in radiografia digitale
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Particolare con tasselli di pulitura in fluorescenza ultravioletta
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Generale in luce diffusa con cornice prima/dopo il restauro
lacune di preparazione e di pellicola pittorica con stuccature a base di gesso di Bologna (solfato di calcio biidrato) e colla Lapin. Le stuccature sono state prima levigate a livello della superficie originale e in seguito sono state lavorate in modo da ricostruire una texture superficiale simile a quella originale. Una volta essiccate, su di esse sono poi state eseguite le basi cromatiche ad acquerello. Dopo una prima verniciatura a pennello, sono
permettono di individuare l’fd necessario alla solubilizzazione dello strato resinoso ossidato, evitando d’intaccare la cromia originale. Individuata la composizione ottimale, una miscela a base di solventi con la giusta polarità addensati in Solvent gel, si è proceduto con la pulitura integrale della superficie pittorica asportando, insieme alla vernice, anche i ritocchi alterati riconducibili all’intervento di restauro più recente. Successivamente si è provveduto a colmare le
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damento in corrispondenza dei sollevamenti di gesso e argento meccato. Successivamente è stata eseguita la pulitura, durante la quale si sono asportati i depositi di particolato atmosferico e le patine resinose mantenendo la meccatura originale. Per le parti maggiormente lacunose si è poi proceduto alla stuccatura e la ri-applicazione di una mecca di tonalità analoga a quella originale mentre le parti solo abrase od ossidate sono state ritoccate con polvere d’argento. Infine la cornice è stata verniciata a nebulizzazione con vernice a basso peso molecolare con protezione agli ultravioletti (fig.11). In complesso il lavoro di restauro dell’opera ha permesso di rivalorizzare i contrasti cromatici caratteristici della pittura seicentesca. Attraverso le analisi è stato inoltre possibile mettere nuovamente in risalto la tecnica pittorica di questo artista, stimolando così lo studio e la comparazione con opere coeve di altri autori.
stati eseguiti i ritocchi puntuali con colori a base di una vernice a basso peso molecolare di ultima generazione, facilmente reversibili e con caratteristiche di resistenza ottimali ai fattori d’invecchiamento. La stesura dei ritocchi è stata eseguita a mimetico esclusivamente nei punti in cui mancava il colore originale. L’intervento di restauro del dipinto è terminato con la verniciatura finale del quadro, realizzata a nebulizzazione tramite l’applicazione di una vernice con il giusto grado di rifrazione, simile a quella originale, in modo da non snaturare la leggibilità dell’opera. La vernice utilizzata contiene al suo interno un antiossidante che rallenta la formazione di radicali liberi, ovvero legami a doppia catena foto-ossidativi, i quali creano nel tempo l’ingiallimento a cui sono soggette le vernici esposte ai raggi ultravioletti. Anche la cornice è stata oggetto di intervento di restauro, richiedendo innanzitutto il consoli-
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Biografia
1578 Giovanni Battista nasce a Napoli da Cesare Caracciolo.
mittenze. Passa per Roma, dove tornerà molte altre volte frequentando anche l’Accademia di San Luca, e verso fine anno arriva a Firenze.
1598 Sposa Beatrice di Mario da Gaeta e stabilisce la propria casa nella parrocchia di Santa Maria della Carità. Secondo quanto riportato da un documento testamentario, la coppia ha dieci figli: sei nati tra il 1600 e il 1612, altri due nel 1622 e 1624, gli ultimi due in anni successivi.
1618 È a Firenze certamente nei primi mesi dell’anno e poi a ottobre, come prova una serie di pagamenti per opere realizzate su commissione. 1620 Alcune fonti documentali provano che Battistello è nuovamente presente a Napoli, dove risulta avere rapporti ampi e profondi con i maggiori artisti dell’epoca.
1601 Realizza i primi affreschi: il lavoro più antico è probabilmente la raffigurazione dei Cherubini al Monte di Pietà. Battistello si dedica a questa pratica pittorica durante tutta la carriera producendo molte opere a fresco, sempre a Napoli.
1622 Risale a questo anno La lavanda dei piedi (Napoli, Museo di San Martino), considerato uno dei capolavori di Battistello.
1606 Altri lavori ad affresco provano la presenza di Battistello a Napoli. In questo stesso anno approda nella città partenopea anche Caravaggio, che vi resta quasi un anno influenzando profondamente molti artisti, fra cui ovviamente Battistello. Il Merisi morirà quattro anni più tardi.
1623 Compare in un antico documento come padrino di uno dei fratelli del pittore Bernardo Cavallino, allievo di Andrea Vaccaro. 1626 Ancora un documento d’archivio ecclesiastico lo dà come testimone di nozze insieme a Jusepe de Ribera al matrimonio d’un allievo di quest’ultimo.
1614 Lanfranco Massa, procuratore a Napoli della famiglia genovese Doria, paga a Battistello 80 ducati per “un quadro d’un Christo che porta la Croce ed altre pitture di gente che lo seguivano che [Battistello] li ha fatto per servizio di Marc’Antonio Doria di Genova”. Questo dipinto è il Qui vult venire post me oggi di proprietà dell’Università di Torino.
1630-1635 È pittore affermato e molto attivo, come provano i documenti d’archivio e le importanti opere oggi individuate. 1635 Muore a Napoli negli ultimi giorni di dicembre. Poco prima di Natale aveva steso un testamento e chiesto di essere sepolto nella chiesa di San Tommaso d'Aquino, oggi non più esistente.
1617 Battistello viaggia per l’Italia per approfondire lo studio dei maestri e ricevere nuove com-
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In copertina Giovanni Battista Caracciolo, Qui vult venire post me, intero e particolare in riflettografia infrarossa 1700 nm. Torino, Rettorato dell’Università degli Studi
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Una lungimirante acquisizione dell’Università degli Studi, risalente al 1952, ha portato a Torino uno dei capolavori del pittore napoletano Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello: il dipinto Qui vult venire post me, noto anche come Cristo portacroce. Oggi, dopo un attento percorso di studio, analisi diagnostica e restauro, il dipinto splende di nuova luce. Questa pubblicazione ripercorre la storiografia critica della tela, analizza le vicende conservative e le peculiarità della tecnica esecutiva, ricostruisce il contesto storico e artistico nel quale viene realizzata, indaga sul suo significato nascosto e fa emergere le vicende storiche che hanno portato il dipinto ad arricchire il patrimonio artistico dell’Università. La preziosa opera di Battistello, realizzata nei primi anni del secondo decennio del Seicento, è stata inserita per l’occasione in un meditato percorso di opere caravaggesche presenti nella collezione permanente della Galleria Sabauda: dipinti di Jusepe de Ribera, Valentin de Boulogne, Niccolò Musso, Antiveduto Gramatica e Orazio Gentileschi. Infine un’inedita sezione di immagini diagnostiche, eseguite grazie all’impegno di Banca Patrimoni Sella & C., mette in luce il modus operandi dell’artista napoletano e apre nuovi percorsi di lettura per questa importante pagina della storia dell’arte italiana.
Particolare della mano in riflettografia infrarossa 1700 nm
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