9 settembre - 25 ottobre
Mostra a cura di Daniela Magnetti Organizzazione Farart srl Ricerche storico critiche e saggi catalogo Franco Augelli Manuela Arese Stefano Causa Daniela Magnetti Annalisa Messina Paola Novaria Anna Maria Ricuperati Elisabetta Staudacher Filippo Timo
Comunicazione Susanna Bison, Elena Bravetta, Chiara Torta Direzione Generale Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Un particolare ringraziamento a
Analisi diagnostiche Thierry Radelet, Torino
Marta Mastroianni, Roberta Sabbatelli e Francesca Zappalà Laboratorio di Restauro Thierry Radelet, Torino
Allestimento e grafica Gwladys Martini Luca Bigiorno Luca Mutti Matteo Mutti Copertura assicurativa Sella Brocker Coordinamento organizzativo e catalogo Filippo Timo Catalogo Grafica Simonetti Studio Fotografie Andrea Guermani Stampa catalogo La Terra Promessa
Archivio Storico Università degli Studi di Torino Direzione Edilizia, Logistica e Sostenibilità Area Patrimonio, Università degli Studi di Torino
Cinzia Augelli, Sergio Demarchi, Leonardo Leuci, Gianluca Procopi, Simone Pucillo, Martino Revelli, Claudio Ruggeri Paola Rubatto, Claudio Zucca
La scorretta quanto strumentale rappresentazione delle Università, e più in generale dei luoghi di ricerca ed insegnamento, come “torri d’avorio”, separate dalla società, è, auspichiamo, definitivamente superata. Una intensa opera di comunicazione della propria Utilitas, attraverso le azioni di divulgazione scientifica che rientrano nella denominazione di “terza missione” -che si affianca alle due missioni centrali, la ricerca e la didattica- ha condotto gli Atenei, in Italia, come nel resto d’Europa, a tessere un dialogo sempre più intenso con i territori che le ospitano. Questo è sicuramente il caso dell’Università di Torino, che negli anni recenti ha intrapreso un percorso di avvicinamento anche con i cittadini dei siti che la ospitano, in Torino e nei suoi quartieri, e in diversi territori della regione che la vedono presente. Esito di questa opera è una maggiore e diffusa consapevolezza dell’impatto positivo che la presenza di migliaia e migliaia di studenti, e con loro di aule, laboratori, strutture universitarie ha sui luoghi. Abitualmente, le connessioni fra Università e città si svolgono nel segno della contemporaneità, delle necessità del presente, siano queste una richiesta diffusa di conoscenza al fine di meglio comprendere le complessità attuali, siano una domanda dei soggetti produttivi di una presenza nella ricerca innovativa. Essere nella contemporaneità, tuttavia, non significa obliterare la memoria. E carichi di memoria sono i grandi Atenei storici italiani, fra i quali è senza dubbio presente l’Università di Torino. Segni importanti di questa memoria sono le collezioni museali, che si offrono quotidianamente alla presenza del pubblico nelle loro diverse sedi, combinando in una singola azione la didattica, la ricerca sui reperti, la divulgazione. Segni altrettanto rilevanti, ma meno noti, sono le opere d’arte che appartengono al patrimonio dell’Ateneo, essendo a questo pervenute ora per lascito testamentario, ora per acquisto. A distanza di 15 anni dalla esposizione al pubblico, curata da Ada Quazza e da Giovanni Romano, e raccolta in un importante volume, Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, la mostra dell’autunno 2019 Le Collezioni (in)visibili dell’Università di Torino, riapre le porte dello storico Palazzo rettorale di via Po, per offrire ai visitatori una serie di opere rimaste, negli anni, in luoghi di rappresentanza dell’Ateneo, generalmente preclusi al pubblico. Accanto al più diretto significato di questa esposizione -portare a conoscenza dei visitatori un patrimonio ai più non conosciuto- vi sono, poi, altri racconti che la mostra propone. Primo fra tutti il racconto della filantropia che ha generato la collezione: donazioni effettuate nei due secoli passati da docenti illustri, così come da ex-studenti, o dalle loro famiglie, a testimonianza della affezione verso l’Istituzione che ne ha formato i successi, nella scienza, come nelle professioni. Ma un ulteriore e diverso filo unisce questa mostra al tema della cura delle opere d’arte: si tratta del tema della diagnostica, conservazione e restauro. Tema centrale per l’intero nostro Paese dove, seppur tardi, si è infine compreso quanto la identificazione e tutela dell’immenso patrimonio culturale che ci è giunto in “consegna” dai secoli passati rappresentino non solo un investimento “utile”, ma innanzitutto un dovere politico e civile, verso noi stessi e più ancora verso le generazioni future. Ed è nel segno di quel dovere che consegniamo questa esposizione ai visitatori tutti.
Nella primavera del 2018 Banca Patrimoni Sella & C. inaugurava una nuova stagione di impegno e partecipazione nel mondo dell’arte e della cultura presentando al pubblico un capolavoro ritrovato del Rinascimento piemontese: la grande pala di Gerolamo Giovenone, oggi al Museo Borgogna di Vercelli. Fedele alla vocazione artistica e culturale insita nella storia di Palazzo Bricherasio, scelta come sede istituzionale, Banca Patrimoni Sella & C. ha investito nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico pubblico e privato, in stretta sinergia con l’Università degli Studi di Torino, la Soprintendenza e il sistema museale cittadino. Nel marzo 2019 Banca Patrimoni Sella ha promosso un progetto culturale che ha visto protagonista uno dei capolavori della pittura caravaggesca: il Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo, di proprietà dell’Università di Torino, esposto anche in questa mostra. Il contributo di Banca Patrimoni Sella al progetto espositivo e di studio si è concretizzato nel supportare la campagna diagnostica condotta su alcune delle opere esposte, tesa a monitorare lo stato di salute dei dipinti e a indagarne tecnica compositiva e storia da un punto di vista scientifico. Questo impegno si pone nel solco di un progetto articolato e continuativo, nell’ambito del quale Banca Patrimoni Sella sta finanziando attività di ricerca diagnostica sulla pittura italiana dal XV al XIX secolo, e che ha permesso, oltre un anno fa, di portare in Italia uno strumento di avanguardia per la riflettografia infrarossa a 1700 nanometri, in sinergia con il laboratorio Radelet di Torino. La mostra, presentata presso la sala Athenaeum della Biblioteca storica d’Ateneo Arturo Graf, è un nuovo esempio di una virtuosa collaborazione fra Banca Patrimoni e le istituzioni cittadine, voluta dal Magnifico Rettore prof. Ajani in occasione della conclusione del proprio mandato e da noi accolta con l’auspicio che questa fruttuosa collaborazione possa proseguire anche nel prossimo futuro.
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Sommario 9
Tra Battistello e Previati. Nuovi sguardi sulle collezioni (in)visibili dell ’Università di Torino. DANIEL A MAGNE T TI
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Benefattori, eredità, antichi quadri e moderne opere d’arte. Memoria e (ri)scoperta dei tesori dell ’Università. M A N U E L A A R ES E, F R A N C O A U G E L L I , PA O L A N O VA R I A
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Battistello disvelato. ST EFA N O CAUSA
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L’intemperanza del giovane Previati: la complessa gestazione del Torquato Tasso E L I S A B E T TA S TA U D A C H E R
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Le perle di Giovanni Battista Crosato. Suggestioni pittoriche nel Rococò tra Veneto e Piemonte FILIPPO TIMO
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Opere mostra
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La Biblioteca Storica di Ateneo “Arturo Graf ”: cenni storici e nuova identità A N N A L I S A R I C U P E R AT I
Tra Battistello e Previati. Nuovi sguardi sulle collezioni (in)visibili dell’Università di Torino
sue collezioni 1, la maggior parte delle opere ivi pubblicate vengono oggi presentate agli occhi del pubblico, con l’aggiunta di qualche inedito e di alcune approfondite ricerche diagnostiche. Si tratta di opere che, nel corso dei decenni, sono entrate a far parte del ricco patrimonio di UniTo per acquisto, donazione o lascito testamentario e che, da quel 2004, sono rimaste per la maggior parte inaccessibili, custodite per lo più in Rettorato e negli studi di alcuni docenti nelle diverse sedi dell’Università.
DANIEL A MAGNE T TI
Secondo il principio del «collezionare per condividere», questa mostra nasce innanzitutto con l’intento di rendere fruibile, seppur per un periodo limitato, una raccolta d’arte che normalmente non è pubblicamente accessibile. Inoltre vuole essere il punto di partenza per un rilancio degli studi su una piccola parte di quel prezioso patrimonio “consegnato” da privati cittadini a un’istituzione votata a conservare, tutelare e valorizzare il bene acquisito. La mostra diventa così l’occasione per comunicare i primi risultati di una ricerca, per ora solo “in superficie”, che si auspica possa proseguire. Pur consapevole delle criticità legate all’inserire nel percorso anche opere non “in perfetta salute”, che avrebbero bisogno di un intervento di restauro più o meno approfondito a seconda del caso, in qualità di curatrice, ho fatto prevalere il desiderio “di rendere visibile” quel quotidiano (in)visibile che nasconde le tele agli occhi della critica e dei visitatori. Anche se l’impatto estetico di un’opera dalla vernice ossidata può creare dissonanze e disarmonie - come sostengono giustamente i detrattori di questa scelta - la finalità del progetto è stata quella di dare vita a un punto di partenza e non certo di giungere a un arrivo, spinti dal desiderio di raccontare ciò che forse, per le ragioni più diverse, si è da tempo dimenticato.
Il progetto espositivo, allestito nella Sala Athenaeum della Biblioteca Storica di Ateneo Arturo Graf - che conserva un patrimonio di circa 200.000 libri e 520 testate - vuole essere un punto di partenza per nuovi e aggiornati studi storico-artistici, prosecuzione della virtuosa strada intrapresa con il restauro e lo studio diagnostico del capolavoro di Battistello Caracciolo che ha trovato conclusione nella suggestiva esposizione Battistello Caracciolo. Dialogo all’ombra di Caravaggio, presentata lo scorso marzo alla Galleria Sabauda di Torino e il cui studio critico, a firma di Stefano Causa, trova spazio anche tra le pagine di questo catalogo. Se il capolavoro caravaggesco è indiscutibilmente punto di eccellenza di questo excursus espositivo, che copre un arco cronologico di quattro secoli, dal Cinquecento al Novecento, non mancano tra le 34 opere presentate, dipinti il cui racconto storico artistico contribuisce al piacere della lettura. Il saggio di Elisabetta Staudacher dedicato alla grande tela di Gaetano Previati, La morte di Torquato Tasso, opera pressoché sconosciuta agli storici dell’arte, e quello di Filippo Timo sull’analisi del dipinto Antonio e Cleopatra di Giovanni Battista Crosato ne sono un esempio e nulla voglio anticipare in merito alle loro letture, se non che queste sono state supportate da analisi diagnostiche sofisticate, realizzate dal laboratorio
A quindici anni dalla pubblicazione del volume edito in occasione del sesto centenario dell’Ateneo torinese a cura di Ada Quazza e Giovanni Romano, Il Palazzo dell’Università di Torino e le
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dro Vita Finzi, nato nel 1817» 2 . Il fatto che tra i quadri esposti provenienti dall’eredità Cavalieri-Ottolenghi figuri un Ritratto di (Ginella?) Finzi, firmato “A. Finzi” e datato 1865 dice del legame tra queste figure. «Non sembra da escludere, benché il poco tempo a disposizione per le ricerche non abbia consentito di provarlo, che anche La morte di Torquato Tasso di Gaetano Previati, pervenuta all’Università dall’eredità Cavalieri-Ottolenghi, possa essere ricondotta al medesimo contesto»3. Sul Ritratto di (Ginella?) tornerò in seguito, ascrivendone la paternità ad Annetta Vita Finzi.
di restauro Thierry Radelet di Torino, grazie al contributo di Banca Patrimoni Sella. La ricerca, condotta in stretta collaborazione con l’Area Patrimoni e l’Archivio Storico dell’Università, è partita dall’aggiornamento dell’inventario: una ricognizione resa necessaria dai vari spostamenti delle opere avvenuti nel corso degli anni e divenuta occasione anche per la verifica dei dati fisici (misure, titoli e iscrizioni) e delle provenienze. Se, come si è detto, i quadri esposti coprono un arco cronologico di quattro secoli, tutta novecentesca è la storia del loro inserimento nelle collezioni da parte dell’ateneo, avvenuta per acquisto, donazione o eredità, tra il 1930 e la fine del secolo. L’approfondito saggio Benefattori, eredità, antichi quadri e moderne opere d’arte. Memoria e (ri)scoperta dei tesori dell’Università a cura di Manuela Arese, Franco Augelli, Paola Novaria che qui si pubblica ha messo in evidenza il ruolo dei donatori, la scelta degli acquisti e la gestione dei lasciti e dei loro vincoli testamentari.
I due artisti menzionati nel titolo della mostra, Battistello Caracciolo e Gaetano Previati, rappresentano emblematicamente la compresenza di quadri acquistati dall’ateneo e di quadri pervenuti all’Università da lasciti ereditari. La mostra è stata occasione per un check up delle opere esposte, che in alcuni casi ne ha rivelato il cattivo stato conservativo, rimarcando l’urgenza di un intervento di restauro. Su sei opere, tra cui i tre dipinti cinquecenteschi, sono stati fatti approfondimenti diagnostici impiegando lo spettro infrarosso per penetrare maggiormente nella stratificazione pittorica e per aumentare la lettura dei contrasti tra le campiture. Le indagini si sono focalizzate sulla ricerca del disegno preparatorio o di pentimenti, ben individuabili attraverso la scansione in riflettografia infrarossa a 1700 nanometri. Nel dipinto di Battistello Caracciolo, come in altre opere analizzate, questa tecnica ha permesso infatti di leggere dei tratti preparatori stesi a pennello con pigmento a base carboniosa e alcuni pentimenti; indizi utili per un auspicato proseguo della ricerca sull’artista napoletano.
La provenance è quasi sempre occasione di indizi preziosi per lo storico dell’arte, capace di aggiungere tasselli importanti che possono portare a nuove scoperte. È il caso delle opere ascrivibili al lascito Cavalieri-Ottolenghi. La maggior parte dei quadri paiono associarsi, per provenienza, alla rete famigliare di Annetta Cavalieri (Roma, 1889 – Biella, Cossila, 1958) piuttosto che a quella del coniuge, l’avvocato biellese Emilio Ottolenghi (Biella, 1879 – Biella, Cossila 1933). «Potrebbe rivelarsi molto fertile, a tale proposito, uno studio approfondito sulla famiglia Finzi, a partire da Fanny Finzi (Mantova, 1832 – Milano 1919), madrina di Anna Cavalieri, da lei menzionata più volte nel testamento, e ultima proprietaria di Villa Finzi a Gorla - Milano. Anna aveva due pittori tra gli zii materni: Annetta Vita Finzi, nata nel 1812, e Alessan-
Si è cercato di distribuire le opere nell’ampio spazio espositivo rispettando il più possibile un ordine cronologico, così come si fece
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modo episodico, anche da grandi artisti, ha portato l’anno scorso il museo del Prado di Madrid a svolgere, durante la fase di restauro di alcune opere, interessanti approfondimenti diagnostici finalizzati a capire il motivo per il quale gli artisti scelsero di utilizzare questo particolare e difficile supporto. I risultati della ricerca riflettono il consolidamento di un cambiamento nelle tecniche artistiche di quell’epoca, avvenuto nei primi decenni del XVI secolo, che vedono l’assestarsi e il diffondersi della pittura ad olio come tecnica dominante. Il lavoro dei conservatori del Museo del Prado è poi confluito nella mostra In lapide depictum, Pittura italiana su pietra 1530-1555, 17 aprile - 5 agosto 2018 che ha offerto una selezione di nove opere in ardesia, pietra monocromatica e marmo bianco di artisti come Sebastiano del Piombo, Tiziano, Daniele da Volterra e Leandro Bassano. L’analisi e la riproduzione della procedura in laboratorio hanno rivelato che il lavoro della pittura su pietra era applicare al supporto con calore una miscela di olio, resine e cera fusa che assicurava il pigmento. La presenza di resine, al di là dell’aderenza, consente una sorta di cristallizzazione e trasformazione dei colori in polvere, terre e ossidi, in smalti preziosi. Anche questi potrebbero essere nuovi spunti per ulteriori indagini sul dipinto su pietra dell’Università di Torino.
nel volume del 2004, compatibilmente con la loro dimensione e le necessità architettoniche e logistiche della Biblioteca Graf che, seppur momentaneamente trasformata in luogo espositivo, deve poter mantenere la sua piena funzionalità bibliotecaria. Il percorso espositivo si apre con tre opere cinquecentesche, provenienti da ambiti geografici diversi, come diverso è il soggetto raffigurato. Si tratta di due opere su tavola e di un raro dipinto su pietra di alta qualità pittorica, l’Adorazione dei Magi, realizzato da un maestro non ancora identificato. Malgrado una frattura verticale sul lato destro, già esistente nel 2004, come attesta la riproduzione fotografica presente sul volume4, l’opera appare in ottimo stato di conservazione. Il dipinto è stato realizzato su un sottile supporto di pietra calcarea concrezionale, le cui striature di vari colori di calcite e aragonite, traslucide, creano suggestive forme che il pittore ha utilizzato come fondo senza dover intervenire con pigmenti di colore. Questa lavorazione è ben visibile nella riproduzione dell’immagine realizzata con la telecamera infrarossa, esposta nella teca di fronte al dipinto. In questo caso il lavoro di studio ha permesso di correggere un’indicazione che compariva nel catalogo del 2004, dove il supporto del dipinto era identificato come “pietra di paragone”: una varietà di diaspro nero (lidite) adoperata in antichità per saggiare l’oro, per determinarne cioè il titolo - «cavasi del medesimo Egitto, e di alcuni luoghi di ancora, certa sorte di pietra nera detta paragone; la quale ha questo nome, perché volendo saggiar l’oro, s’arruota su quella pietra, e si conosce il colore» scriveva il Vasari 5 - e che nulla ha a che fare con la pietra usata per l’Adorazione dei Magi.
La tavola dedicata al tema della Venere e Cupido è una delle opere più interessanti del percorso espositivo. Seppur in condizioni conservative non certo soddisfacenti e bisognosa quantomeno di una profonda pulitura, la tavola mostra la sua alta qualità pittorica di chiara derivazione raffaellesca. In prima istanza l’opera era stata ricondotta alla cerchia di Innocenzo Francucci detto Innocenzo da Imola, seguace di Raffaello, che conosce il maestro urbinate soprattutto attraverso il magistero di Giulio Ro-
La rarità delle opere dipinte su pietra, tecnica utilizzata in Italia nel XVI secolo, seppur in
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tende inserirsi l’attività del Laboratorio Diagnostico per i Beni Culturali che si avvia a indagare la figura, il corpus e la tecnica pittorica dell’eclettico pittore emiliano e del suo contesto. Il progetto bolognese, a cui hanno aderito, oltre a numerose istituzioni di prestigio, anche tanti collezionisti privati, è un esempio virtuoso della collaborazione di soggetti pubblici e privati che, mettendo generosamente a disposizione le opere delle loro raccolte, contribuiscono alla creazione di una banca dati, strumento sempre più necessario per una ricerca storico-artistica che guarda con favore alla tecnologia.
mano. Tuttavia le indagini diagnostiche condotte sul dipinto, in particolare l’analisi a luce infrarossa a 1700 nanometri che ha permesso la lettura delle linee del disegno preparatorio, evidenziano difformità stilistica e tecnica con Innocenzo e la sua stretta cerchia e ci permettono sin da ora di ipotizzare una mano diversa dal Francucci, ma di qualità pari se non superiore, aprendo una nuova strada verso un percorso di attribuzione.
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Particolare IR La Sacra Famiglia con San Francesco e San Giovannino, Innocenzo da Imola
La comparazione delle analisi IR fatte sulla tavola con alcuni risultati della campagna di ricerca di diagnostica analitica sulle opere di Innocenzo da Imola avviata nel 2016 dal Laboratorio Diagnostico del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, si è rivelata di grande utilità soprattutto nel raffronto con le analisi RX fatte sul dipinto La Sacra Famiglia con San Francesco e San Giovannino, conservato nei depositi della Galleria Estense di Modena, un’opera di elevata qualità esecutiva collocabile entro il terzo decennio del Cinquecento, di cui possiamo osservare un particolare dell’indagine radiografica. Attualmente non esiste nessun catalogo tecnico ragionato delle opere di Innocenzo Francucci e in questo vuoto di studi in-
Esposta nel pannello successivo troviamo la tavola raffigurante L’orazione nell’orto, tema tipico dell’iconografia sulla storia di Cristo, presente nella pittura italiana sin dai primi secoli. L’opera rivela tratti di buona qualità pittorica con un’accurata ricerca da parte del pittore delle pose dei personaggi. La scena è impostata secondo uno schema piramidale e piacevole, in cui paesaggio e personaggi interagiscono creando una composizione accuratamente bilanciata, con rispondenze simmetriche e un’ordinata scansione dei piani. Già attribuito ad anonimo pittore toscano, in questa sede si mantiene la condivisibile indicazione geografica di afferenza, ma si preferisce non riproporre la datazione a suo tempo suggerita, che riferiva l’opera al decennio 15601570: in assenza dell’identificazione del pittore, pare davvero troppo insidioso proporre una datazione tanto precisa6. Per tale ragione si è preferito ampliare alla seconda metà del XVI secolo. L’opera presenta un degrado della superficie pittorica rimarcato e necessita di un puntuale intervento di restauro. La riflettografia infrarossa evidenzia un uso massiccio del bianco di piombo in fase di underpainting. Da un punto di vista compositivo, l’opera pare mostrare un debito verso l’omonimo capolavoro del Perugino.
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snaturando un dipinto che, probabilmente, una volta pulito riserverebbe interessanti sorprese, viatico di una più completa attribuzione. Per fortuna molto ben conservato e ravvivato da un restauro moderno è il dipinto del Profeta, nelle cui fattezze i compilatori del catalogo del 2004 videro una mano di origine nordica, probabilmente ascrivibile al novero degli artisti che dalla Francia e dei Paesi Bassi scendevano in Italia per formarsi e lavorare sugli straordinari modelli del Caravaggio. Benché privo del carattere e dell’energia di certe correnti del caravaggismo in chiave europea come quello nato intorno alla scuola di Utrecht o quello legato ai maestri francesi della luce, fra Trophime Bigot e George de la Tour, questo dipinto presenta una solida impostazione compositiva e un’eccellente capacità di modellato, che gestisce in modo maturo e consapevole la luce per definire volumi di grande plasticità. A seguire il nostro percorso espositivo presenta, l’uno accanto all’altro, il capolavoro di Battistello Caracciolo Qui vult venire post me e La morte di Torquato Tasso di Gaetano Previati. Ai due dipinti eponimi della mostra si è deciso di riservare un ruolo centrale anche da un punto di vista dell’organizzazione del percorso, facendo così un’infrazione al principio di distribuzione cronologica che sovraintende a tutto il resto dell’esposizione.
Benché la cromia sia ormai spenta dal deterioramento del tempo e dalla vernice protettiva molto ossidata, emergono i volumi ben modellati dei personaggi e la spazialità profondissima, grazie all’espediente del paesaggio che schiarisce in lontananza. Al centro della composizione campeggia Cristo inginocchiato su una roccia dell’orto del Getsemani. La sua figura si staglia contro il cielo e forma uno schema triangolare con i tre apostoli addormentati alla base (da sinistra Giovanni, Pietro e Giacomo il maggiore). Al cambio di secolo è il caravaggismo a diventare protagonista, con due dipinti che guardano uno ad Aniello Falcone e l’altro al caravaggismo di stampo nordeuropeo. Il Seneca ricondotto alla cerchia del Falcone, pittore partenopeo che ha compiuto la propria parabola biografica nella prima metà del Seicento, è un imponente dipinto a figura intera, dominato dalle anatomie del personaggio maschile unico protagonista della scena. L’attribuzione ad un seguace di Aniello Falcone centra in modo convincente l’ambito di afferenza del dipinto, perfettamente rispondente ai canoni di una pittura partenopea di primo Seicento debitrice a Caravaggio e soprattutto a Ribera. Nel ritratto di questo Seneca riecheggiano i volti rugosi di molte prove dello Spagnoletto, primo interprete e capostipite del caravaggismo napoletano, ma la lettura complessiva dell’opera, specialmente nella più minuta analisi stilistica, è resa difficilissima da uno stato di deterioramento avanzato. Il dipinto è interessato da una spessa patina di vernice ossidata che, specialmente in corrispondenza delle campiture in ombra, risulta molto riflettente impedendo una corretta lettura del tratto, mentre negli strati inferiori si notano interventi di restauro antichi che appaiono oggi cromaticamente alterati. Altri restauri velano le campiture più chiare in corrispondenza delle anatomie, appiattendo e
Del Battistello Caracciolo si è già parlato: a partire dal 2018 è stato protagonista di una vera e propria riscoperta: prima un check up diagnostico orientato espressamente agli aspetti conservativi, con la principale finalità di progettare e guidare un’attenta opera di pulitura e sapiente restauro che hanno restituito luce e vigore a questa tela stilisticamente straordinaria. Poi un nuovo approfondimento diagnostico, questa volta con l’obiettivo di ricavare una serie di dati utili allo studio storico-critico: studio del disegno preparatorio, indagine approfondita del-
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battaglia, fu ideato da Leonardo da Vinci nel suo cartone della Battaglia di Anghiari, di cui al Museo del Louvre di Parigi si conserva la copia di un frammento eseguito dal Rubens. Egli è il creatore della mischia di cavalleria che poi fu sviluppata per tutto il Seicento come la scena madre di tutto il dramma del quadro di battaglie”7 .
la tecnica pittorica negli strati preparatori e inferiori, ricerca di eventuali pentimenti e stadi filologicamente significativi, raccolta di dati utili a studi diagnostici comparativi con altre opere del maestro e del suo contesto. Di tutto questo ampio lavoro esiste un’accurata relazione tecnica a firma di Thierry Radelet, pubblicata sul catalogo “Battistello Caracciolo - Dialogo all’ombra di Caravaggio” (Silvana Editoriale per Banca Patrimoni Sella & C., 2019) accanto ad altri tre preziosi contributi specificamente dedicati al dipinto: quello di Stefano Causa, che ripercorre l’esperienza artistica di Battistello in relazione a questa tela; quello di Filippo Timo, che affronta il complesso problema dell’interpretazione della scena rappresentata, fornendo nuove e sorprendenti chiavi di lettura; quello di Paola Novaria, che ricostruisce in modo puntuale la provenienza del dipinto sino al presente.
Dei due dipinti esposti in mostra, il primo è stato pubblicato nel citato volume del 2004, mentre il suo pendant, già presente in collezione, era rimasto curiosamente inedito. Le battaglie, dipinte in ambito romano ma non prive di una matrice nord-europea, presentano una qualità tecnica e stilistica assolutamente rilevanti, tanto da rendere plausibile l’ipotesi della mano di un caposcuola. L’idea di ricondurre queste tele a una bottega di primo livello pare anche confermata dall’abbondante presenza di lapislazzuli come pigmento per il blu: una materia ricercata e soprattutto molto costosa e difficile da reperire, il cui utilizzo era concesso unicamente ai maestri, mentre era impossibile ai pittori di più modesta levatura. Una bottega prestigiosa, dunque, e una ricca committenza. Nell’armonia che sovrintende la pur caotica scena, spicca la torsione dei corpi e l’evidenza degli sforzi muscolari sia dei soldati che dei cavalli. Dal punto di vista tematico, siamo ad un’altezza cronologica in cui la battaglia è ormai diventato genere: non è dunque lecito cercare alcun riferimento storico reale nella scena rappresentata, ma piuttosto osservarla come una battaglia ideale e metastorica, in cui a fronteggiarsi sono una cavalleria della Roma imperiale e un’armata abbigliata con vesti di sapore turco contemporaneo al pittore. A seguire un grande dipinto di soggetto biblico già attribuito a “pittore affine a Carlo Dolci”: opera di ampio respiro e di impegno, ma priva di quella sicurezza e qualità, specialmente nella resa delle anatomie e nella gestione dei volumi, che può farci pensare alla mano diretta di un
Il dipinto di Gaetano Previati, qui oggetto di un approfondito contributo a firma Elisabetta Staudacher, è stato fra quelli sottoposti a diagnostica nell’ambito della preparazione dell’attuale esposizione. Così, insieme al ricorso a preziosi materiali d’archivio, la diagnostica è stata la base di questo nuovo contributo che porta luce a un dipinto di cui si erano praticamente perse le tracce, tanto da decretarne l’esclusione dalle più recenti pubblicazioni e mostre dedicata a Gaetano Previati. Il percorso espositivo riprende la progressione cronologica e storico-critica giungendo a un prezioso pendant di battaglie. Il tema delle battaglie torna più volte nella collezione UniTo a testimonianza della fortuna e della diffusione che questo genere ebbe nella storia dell’arte tra il XVII e il XVIII secolo, sfociando probabilmente da rari ma eccezionali esempi quattrocenteschi e primo-cinquecenteschi. “Il primo vero cozzo di cavalieri in un groviglio unitario che dia alla nostra mente la sensazione di
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Legnano denuncia evidentissimi debiti e legami con la pittura di Francesco Hayez. Questa circostanza ha indotto i curatori a inserire l’opera fra quelle sottoposte a diagnostica. In particolare si è fatta una verifica della compatibilità della materia con l’ipotesi di datazione, che ha dato esito positivo, dopodiché si è sottoposta la tela ad una riflettografia infrarossa 1700 nanometri per ottenere informazioni sul disegno preparatorio e sugli strati profondi. I risultati così ottenuti sono stati letti in senso comparativo con una serie di indagini effettuate sulle opere di Francesco Hayez: Questo ha permesso di rilevare una sostanziale differenza fra la tecnica dell’ignoto pittore in oggetto e quella di Hayez, escludendo così l’esistenza di un legame diretto, ad esempio maestro-allievo, fra l’artefice di questo dipinto e Francesco Hayez. Si tratta dunque di una “parentela” più indiretta, o forse anche solo della partecipazione ad un comune ambiente d’ispirazione.
grande maestro. Sicurezza e qualità che invece non mancano nella tela successiva, serenamente ascrivibile tra le più interessanti opere di Giovanni Battista Crosato, pittore di origine veneta che a Torino visse la fase più prolifica e fortunata della propria carriera, lavorando i grandi cantieri delle residenze reali è al Teatro Regio. All’Antonio e Cleopatra di Crosato, terzo fiore all’occhiello di questa mostra, è dedicato l’ampio contributo a firma di Filippo Timo al quale si rimanda. Un’anticipazione del tema della ritrattistica che, per ovvie ragioni storiche, risulta naturalmente uno dei più rappresentati nella collezione dell’università si presenta con una prima tela ascrivibile a questa categoria, anche se ancora sospesa a metà fra il ritratto vero e proprio e la scena di genere: Il suonatore di fagotto correttamente ricondotto, già nella pubblicazione del 2004, alla cerchia del Crespi. Questo dipinto, in effetti, lascia lo spettatore contemporaneo incerto se considerarsi di fronte al ritratto di una figura storica con un’identità reale oppure a un ritratto di genere il cui protagonista è una figura immaginaria connotata come musicante per la presenza dello strumento del fagotto.
La Battaglia di Legnano, come già accennato, è un esempio di quella fase della pittura risorgimentale che guarda alla storia italiana antica per dialogare con i contemporanei, fase della quale furono eccellenti interpreti Domenico e Gerolamo induno. E proprio a Domenico Induno va ricondotto il piccolo ritratto femminile che segue. Opera da ascrivere alla fase matura del pittore, quando i temi risorgimentali, in tempo ormai di Italia unita, lasciano il posto alla pratica della pittura di genere in linea con i gusti raffinati e leziosi dell’alta borghesia lombarda.
Con l’opera successiva, La battaglia di Legnano, siamo ormai nel pieno diciannovesimo secolo. Ancora una battaglia come soggetto, ma concettualmente del tutto diversa dalle due battaglie sei-settecentesche viste in precedenza. Qui siamo nell’ambito di una pittura storica amata e praticata nel cuore dell’Ottocento, riscoperta sull’onda di una sensibilità romantica che aveva una naturale propensione verso le atmosfere cortesi e i fatti eroici dell’Italia medievale, ma presto declinata in chiave risorgimentale come strumento per ammonire ed ispirare i contemporanei. Da un punto di vista stilistico, La battaglia di
In un contesto analogo si colloca l’opera di Michelangelo Pittatore (Asti 1825-1903). Tornato nella sua città natale dopo un formativo e fruttuoso soggiorno romano che gli diede notorietà, Pittatore ottenne numerose commissioni per la borghesia locale. “Nel campo della ritrattistica egli diede il meglio del suo talento, rivelò un’impronta personalisti-
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te buio. La seconda è il già ricordato Ritratto di (Ginella?) firmato A. Finzi, che qui si vuole ricondurre ad Annetta, come riportato sul retro della tela. Con il pannello successivo veniamo ormai alla pittura del secondo Ottocento italiano, dapprima con un’incursione nella pittura veneta, anzi veronese, di Angelo Dall’Oca Bianca, e poi con un tuffo fra i maestri piemontesi. Il dipinto di Dall’Oca Bianca è una gradevole tavoletta che potremmo definire ancora come schizzo. Ritrae una figura femminile con vesti umili, forse di domestica, ferma sul ciglio di una strada urbana innevata. Sullo sfondo un’altra figura regge
ca e l’attenzione al dato strettamente pittorico. I volti dei personaggi sono indagati analiticamente e la meditazione introspettiva è condotta con carezzevole amore per gli impasti lisci, le pennellate fluide e una matura sensibilità per l’interpretazione realistica, a scapito della mediazione idealizzante”8. Il grande ritratto matronale, denominato Ritratto di signora con fazzoletto è l’espressione di un’arte che cerca una sorta di “solennità discreta” senza indulgere ad abbellimenti del soggetto, celebrando con sobrietà la forza e il decoro di una classe borghese emergente anche in Italia, qui declinata in chiave piemontese. Da un punto di vista stilistico, il dipinto in oggetto si avvicina al Ritratto della Signora Clava, olio su tela, cm.101 x 82,5, datato 1865, in collezione a Palazzo Mazzetti di Asti. Anche nel nostro caso si tratta di un ritratto imponente, dove la signora in età matura viene raffigurata con un ampio abito di velluto nero, orlato di pizzi e di preziosi ricami. Al centro del vestito il filo di perle attrae lo sguardo. La massa scura dei capelli incorniciano il volto, di colorito intenso, acceso dagli occhi neri che esprimo fiera consapevolezza di sé. È una pittura che si avvicina a una ricerca di maggiore verità in una sintesi di segno e colori, di impasti fluidi e campiture luminose. Di qualità pittorica inferiore, ma del tutto in linea con la ritrattistica promossa da Pittatore, il Ritratto di signora con tenda rossa, firmato e datato 1878, olio su tela, dipinto da Carlo Lusardi e non esposto in mostra poiché è visibile a pochi metri di distanza, in una delle sale della Biblioteca Graf.
un ombrello, innovazione ancora poco diffusa ed affermata nell’Italia del tempo, e per questo eletto a curiosità da diversi artisti proprio in ambito veneto (come nella pittura di Favretto). La pittura piemontese di fine Ottocento è ben rappresentata con le opere di Bistolfi, Dellani, Calderini, Sobrile. L’inconsueto piccolo dipinto di Bistolfi è un denso paesaggio dedicato all’amico pittore Cesare Ferro, mentre il Delleani sorprende lo spettatore più esperto per una scelta tematica del tutto inconsueta per l’artista di Pollone. Non le cam-
A seguire, il viaggio nel cuore dell’Ottocento prosegue con due opere del lascito Ottolenghi. La prima è un interessante esercizio di stile di matrice probabilmente accademica che raffigura due teste, una ovina e l’altra caprina, che fanno capolino da un fondo completamen-
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Annetta Finzi, Ritratto, 1865 particolare della iscrizione sul retro.
pagne biellesi, non i pascoli di quota sui monti di Oropa o le vedute del lago del Mucrone, ma un luminosissimo scorcio di spiaggia che sembra rubare la tavolozza ai macchiaioli e un respiro vedutista ai veneti. A seguire i numerosi piccoli dipinti di Marco Calderini, testimoniano la presenza di un pittore che, dopo essersi laureato in Lettere proprio in questo ateneo, si volge alla pittura frequentando i corsi dell’Accademia Albertina. «In verità nell’indirizzarsi all’arte aveva pensato di darsi ad una sorta di colto passatempo. Se ne trovò invece preso, dopo l’incontro con Antonio Fontanesi, il maestro per il quale nel ‘69 , venne istituita apposta la cattedra di Paesaggio a Torino»9. Sono proprio i paesaggi dai verdi accesi e le due vedute marine che allietano la sala con il loro linguaggio cromatico delicato e luminoso. La sezione dei pittori del secondo Ottocento e del primo Novecento prosegue poi con due altri lavori di ambito lombardo e napoletano: una piccola ma elegantissima prova di Ludovico Cavaleri avente a soggetto la campagna romana ( Monte Mario), firmato e datato in basso a destra, mentre sul verso si legge “Monte Mario, Roma novembre 1929”, e infine una piccola tavola firmata Leopoldo Galeota, raffigurante il porto di Baia a Napoli, proveniente dall’eredità Cavalieri-Ottolenghi. Chiude la mostra il colorato e vivace Pierrot e Colombina del pittore di origine ungherese Richard Geiger (1870-1945), acquistato dall’ateneo torinese nel 2002 10, che tante volte nella sua carriera artistica rivisita questo tema.
1 Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, a cura di Gianni Romano e Ada Quazza, Torino, Comitato per le celebrazioni del Sesto Centenario dell’Università di Torino, 2004 2 Benefattori, eredità, antichi quadri e moderne opere d’arte. Memoria e (ri)scoperta dei tesori dell’Università a cura di Manuela Arese, Franco Augelli, Paola Novaria, pag. XX di questo catalogo. 3 Benefattori, eredità, antichi quadri e moderne opere d’arte. Memoria e (ri)scoperta dei tesori dell’Università a cura di Manuela Arese, Franco Augelli, Paola Novaria, pag. XX di questo catalogo. 4 Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, pag.193 tav.33 5 treccani.it/enciclopedia/paragone 6 La stessa cosa avviene per l’attribuzione dell’adorazione dei Magi, la cui didascalia riporta: Pittore veneto (15901600), Adorazione dei Magi, olio su pietra di paragone 7 L. Ozzola, I pittori di Battaglie nel Seicento e Settecento, Mantova 1951 p.8 8 F. Varallo, La committenza privata: i ritratti, in catalogo mostra Michelangelo Pittatore (1825-1903), Pinacoteca Civica di Asti, settembre-novembre 1983, pag.34 9 A. Dragone, in Pittori dell’Ottocento. Omaggio a Marco Calderini nella ricorrenza del cinquantenario della morte, Torino 1991 10 La didascalia della riproduzione fotografica edita nel citato catalogo 2004 riporta erroneamente la dicitura “F.Geicer, Pierrette e Pierrot. Tela, 100 x 75. Firmato in modo non chiaramente leggibile, in basso a sinistra”
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Pittore veneto seconda metĂ XVI secolo Adorazione dei Magi olio su pietra, cm 24,5x30 Segreteria del Rettorato EreditĂ Girardi
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IR generale 1700 nm dell’Adorazione dei Magi
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Anonimo (già att. alla cerchia di Innocenzo da Imola) prima metà XVI secolo Venere e Cupido olio su tavola cm 77x57 Segreteria del Rettorato Eredità Girardi
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IR generale 1700 nm di Venere e Cupido
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Pittore toscano seconda metà XVI secolo Orazione nell’orto olio su tavola cm 87x64 Segreteria del Rettorato Lascito Parini-Chirio
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IR generale 1700 nm dell’Orazione nell’orto
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Seguace di Francesco Hayez metĂ XIX secolo Battaglia di Legnano olio su tela, cm 78x99 Segreteria del Rettorato EreditĂ Cavalieri-Ottolenghi
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IR generale 1700 nm della Battaglia di Legnano
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Domenico Induno (Milano, 1815 – Milano, 1878) Donna sdraiata olio su tavola, cm 25,3x33 Ufficio del Rettore Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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IR generale 1700 nm di Donna sdraiata
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Benefattori, eredità, antichi quadri e moderne opere d’arte
I quadri in mostra Se i quadri esposti coprono un arco cronologico di quattro secoli, dal Cinquecento al Novecento, tutta novecentesca è la storia dell’acquisizione di essi da parte dell’Ateneo, per acquisto o eredità, tra il 1930 e la fine del secolo. I due artisti menzionati nel titolo della mostra, Battistello Caracciolo e Gaetano Previati, rappresentano emblematicamente la compresenza di quadri acquistati dall’Ateneo e di quadri pervenuti all’Università da quattro diverse eredità: uno dall’avvocato Benedetto Parini, tre dall’avvocato Carlo Marangoni, dieci da Anna Cavalieri, dodici dal professor Pietro Girardi. Tre dei dipinti esposti, Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo e due quadri anonimi pubblicati nel 2004 come Profeta di Caravaggesco nordico e Davide e Abigail di Pittore affine a Carlo Dolci, furono certamente acquistati tra febbraio e maggio del 1952, il primo dal pittore e collezionista Ugo Martinotti di Casale Monferrato, gli altri due da Cecilia Gaia, vedova Berto. Sono i mesi che precedono la solenne riapertura del Palazzo del Rettorato, che avverrà il 13 dicembre alla presenza del presidente della Repubblica Luigi Einaudi, dopo la radicale ristrutturazione resasi necessaria per porre rimedio alla devastazione recata dai bombardamenti del 1942-43 2. Di altri due quadri, di autori anonimi, Assalto alla porta di una città e Ritratto di suonatore di fagotto, non è stato al momento possibile ricostruire puntualmente il momento e il titolo di provenienza, mentre per il quadro di soggetto teatrale del pittore viennese Richard Geiger, Pierrette e Pierrot, è certo l’acquisto nel 2002 da parte della Facoltà di Scienze della Formazione presso una galleria antiquaria cittadina 3. Diverso è il discorso per quanto riguarda eredità e donazioni. Sovente il lascito ereditario, oltre a immobili e investimenti, è costituito anche da arredi e oggetti d’arte; tale è effettivamente la provenienza della maggior parte dei dipinti esposti. È accaduto in passato, e perdura tutt’oggi, che
Memoria e (ri)scoperta dei tesori dell’Università MANUEL A ARESE FRANCO AUGELLI PAO L A N OVA R I A
Premessa Da oltre sei secoli depositaria del sapere, luogo di cultura e di ricerca, promotrice della trasformazione sociale, l’Università di Torino si svela ora agli occhi dei visitatori della mostra quale prezioso scrigno di opere d’arte che, nel tempo, sono entrate a far parte del suo patrimonio e la cui invisibilità è evocata nel titolo dell’evento1. Quella che segue è una breve nota storico istituzionale che accompagna l’esposizione al pubblico, per la prima volta, di trentaquattro quadri facenti parte delle collezioni dell’Ateneo, mettendo in evidenza soprattutto i rispettivi titoli di provenienza, nell’intento di dare a ciascuno una connotazione, una storia e un’identità il più possibile precise. Sono stati talvolta gli eventi esterni o la semplice volontà del singolo a scandire i passi per giungere all’acquisto di un quadro o di un bene di pregio, in altri casi è stato il segno concreto dell’individuale liberalità, manifestatasi attraverso il lascito testamentario o la donazione, ad accrescere il bagaglio artistico, ma pure la concessione alla fruizione collettiva dell’opera di proprietà di un privato o di un’istituzione ha determinato un prezioso arricchimento intellettuale. Ed è proprio l’assenza di un’origine univoca, di una voluta e studiata progettazione, a rendere particolarmente interessanti queste opere che rivelano e tramandano il pensiero, la cultura, il gusto e la sensibilità dei loro autori e degli originari possessori.
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persone più o meno legate al mondo universitario – principalmente professori o loro familiari, o semplicemente benestanti desiderosi di contribuire allo sviluppo scientifico e culturale della società – decidessero di lasciare, in tutto o in parte, il proprio patrimonio all’Ateneo, generalmente premettendo l’onere di effettuare ricerche o di erogare borse di studio in specifici campi di attività accademica. Pare che il rettore Mario Allara molto si prodigasse affinché le personalità legate al mondo accademico ricordassero nelle loro ultime volontà l’istituzione universitaria. Ed è per onorare pubblicamente la memoria dei propri benefattori che, nel dicembre del 2012, l’Università volle apporre, in uno dei suoi spazi più aulici, una grande targa celebrativa con iscritti i loro nomi, con l’auspicio che altri se ne vorranno aggiungere. Procedendo per ordine, occorre menzionare per primo il lascito dell’avvocato Benedetto Parini 4, che nominò l’Università propria erede universale. Figlio del capitano Giovanni Luigi e di Carolina Galvano Chirio, nacque a Torino il 23 luglio 1884, frequentò il Regio Liceo Gioberti di Torino e si iscrisse nel 1902 alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dove si laureò nel 1906. Morì prematuramente il 27 ottobre 1930. Abitò in vita a Torino, nella casa di famiglia in piazza Gran Madre 14, ma anche a Cannes. Un interesse per l’arte è documentato dalla condizione di soci della Società Promotrice delle Belle Arti sia di Giovanni Luigi che di Benedetto, che nel 1902 visitarono l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna. Di un grande amore per la cultura umanistica dice la destinazione del reddito del proprio patrimonio alla costituzione del “Fondo di Studi Parini-Chirio”, in memoria dei propri genitori, “a scopo specifico di istruzione, e cioè alle spese per l’annua pubblicazione di opere originali, ed eventualmente ad aiuti a ricerche” in un amplissimo spettro di indirizzi disciplinari: “studi di Antichità orientali, origini Cristiane, Archeologia dei Paesi mediterranei, studi ispanici,
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“Scrittura privata per l’acquisto di quadri e di stoffe”, 15 febbraio 1952. Si tratta dell’acquisto dei quadri anonimi Profeta e Davide e Abigail.
di letteratura e storia del Settentrione d’Europa, – storia dell’arte (e specialmente della pittura e della musica), della Filosofia (specialmente del Cinque e Seicento) e delle Scienze: Studi Medioevali, vite d’Italiani, pubblicazione di manoscritti e autori antichi, fac-simili di testi e disegni e riproduzioni di pittura e di opere d’arte, studi di agiografia e di materie relative al progresso, alla civiltà e alla fratellanza umane, storia del diritto greco, commenti ecc.”. A questo fine fu dapprima istituito il suddetto Fondo di studi 5, e poi, dal 2014, la Fondazione che porta lo stesso nome, oggi titolare, tra altre, di un opera esposta nella mostra: l’Orazione nell’orto di pittore toscano del 1500. Il nome certamente più rilevante, tanto ai fini di questa mostra quanto nella storia dei lasciti, è quello di Anna (detta Annetta) Cavalieri (Roma, 1889 – Biella-Cossila, 1958), figlia di Enea e di Fanny Leonino, vedova dell’avvocato biellese
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trebbe rivelarsi molto fertile, a tale proposito, uno studio approfondito sulla famiglia Finzi 9, a partire da Fanny Finzi (Mantova, 1832 – Milano 1919), madrina di Anna Cavalieri, da lei menzionata più volte nel testamento, e ultima proprietaria di Villa Finzi a Gorla-Milano. Figlia di Marco Finzi e di Fanny Vita Finzi, sposò nel 1861 l’avvocato Salvatore Ottolenghi (Asti, 1831- Milano, 1895), dal 1891 senatore del Regno10. Aveva due pittori tra gli zii materni: Annetta Vita Finzi, nata nel 1812, e Alessandro Vita Finzi, nato nel 1817. Una sorella di Fanny Finzi, Adelina, sposò Sabino Leonino Sacerdote di Genova, forse fratello di Fanny Leonino, madre di Anna Cavalieri. Il fatto che tra i dieci quadri esposti provenienti dall’eredità Cavalieri-Ottolenghi figuri un Ritratto, dipinto da Annetta Finzi nel 186511 dice del legame tra la testatrice e la famiglia Finzi, nella quale, come già evidenziato, la pittura era praticata. Non sembra da escludere, benché il poco
Emilio Ottolenghi (Biella, 1879 – Biella-Cossila, 1933) 6. Di eminente famiglia, unita da legami di parentela con i Finzi e gli Ottolenghi, con frequentazioni milanesi e romane, scelse di nominare l’Università di Torino erede universale del proprio cospicuo patrimonio, “con l’incarico di approfondire le attuali cognizioni sull’interdipendenza fra stato fisico-chimico del corpo umano e manifestazioni della psiche: cioè sulla causa e la cura dell’insanità mentale” 7. Questo suo desiderio è stato compiutamente onorato nel 1995 con l’istituzione della Fondazione Cavalieri-Ottolenghi, oggi centro di eccellenza nel campo della ricerca neurologica 8. Alla Fondazione appartengono molti dei quadri esposti, che residuano dalle vendite all’asta compiute nel corso del tempo per finanziare le disposizioni testamentarie. Questi quadri paiono ascrivibili, per provenienza, alla rete famigliare di Annetta Cavalieri piuttosto che a quella del coniuge. Po-
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tempo a disposizione per le ricerche non abbia consentito di provarlo, che anche la Morte di Torquato Tasso di Gaetano Previati, pervenuta all’Università dall’eredità Cavalieri-Ottolenghi, possa essere ricondotta al medesimo contesto. Al lascito ereditario di Carlo Marangoni (Torino, 1880 – Torino, 1961) si ascrivono due scene seicentesche di battaglia di ambito romano, e l’Antonio e Cleopatra di Giovanni Battista Crosato. Figlio di Alessandro ed Elisa Müller, dopo gli studi al Liceo di Vigevano, si iscrisse a Legge nel 1898, per laurearsi nel 1902 12. Istituì erede universale l’Ateneo, con l’onere di impiegare le sostanze del proprio patrimonio per “scopi culturali e di istruzione nel campo medico scientifico da parte di Cliniche ed istituti della Facoltà di medicina e chirurgia”, oltre alla manutenzione della tomba di famiglia presso il Cimitero Monumentale di Torino13. La mostra presenta infine dodici quadri provenienti dall’eredità di Pietro Girardi (Torino, 1882 – Torino, 1964). Studente del Liceo Gioberti, si iscrisse alla Facoltà di Medicina e chirurgia nel 1902, per laurearsi nel 1908. Assistente volontario presso la Clinica Medica Generale, trascorse un anno a Berlino (1910-11), poi entrò in ruolo come assistente nel 1914. Prestò servizio come ufficiale medico durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1918). Dopo aver conseguito la libera docenza in Patologia speciale medica con D.M. 16-12-1925, ottenne la qualifica di aiuto dal 1926. Ebbe confermata la libera docenza nel 1932 e la esercitò fino al 1959 14. Lasciò la quasi totalità delle proprie sostanze all’Università, con l’onere di destinare gli interessi degli investimenti a beneficio dell’Istituto Universitario di Clinica Medica e Terapia15. L’eredità comprende anche una cospicua collezione di quadri di piccole dimensioni del periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento, di soggetto paesaggistico e figurativo, tra cui spiccano le opere del pittore piemontese Marco Calderini. A questi si aggiungono anche opere di maggiore antichità, come la Venere
e Cupido di pittore affine a Vincenzo da Imola, l’Adorazione dei Magi di pittore veneto della fine del 1500 e la Madonna con Bambino di pittore emiliano databile tra il 1620-30.
Una mappa dei tesori d’arte dell’Ateneo Proseguendo nella presentazione dei tesori d’arte dell’ateneo, è ora essenziale focalizzare l’attenzione su quella che è l’espressione dell’autorevole presenza dell’Università nel tessuto sociale, la co-
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Epigrafe celebrativa dei benefattori dell’Università, posta il 20 dicembre 2012. In essa figurano i nomi di Benedetto Parini, Annetta Cavalieri, Carlo Marangoni e Pietro Girardi.
siddetta “terza missione” e cioè il ruolo culturale e partecipativo svolto a favore della cittadinanza, del territorio e quindi non esclusivamente finalizzato agli obiettivi squisitamente istituzionali. Infatti, se da un lato si prova a valorizzare il patrimonio “celato” negli ambienti non abitualmente aperti al pubblico mediante giornate a “porte aperte” o mostre come questa attuale, dall’altro, in spazi correntemente accessibili, vengono ospitate opere d’epoca più vicina a noi, donate o concesse all’ateneo a fini espositivi. Ed è per offrire ai lettori, soprattutto se estranei alla realtà universitaria, una “mappa” con cui andarle a ricercare e (ri)scoprire, che si menzionano, nella Corte del Rettorato, la statua della Minerva di Vincenzo Vela 16, celebre scultore ticinese dell’Ottocento, in prestito dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino, ormai diventata uno dei simboli del nostro ateneo e riprodotta in infiniti modi (non ultimo quello dei neolaureati, per i quali farsi fotografare davanti alla Dea pare essere considerato di buon auspicio); il nome di Vela ritorna anche per altre due sculture poste nello stesso spazio, nell’ambito del cospicuo patrimonio di statuaria commemorativa e celebrativa di personalità illustri dell’Ateneo: il chirurgo Luigi Gallo, al pianterreno; e il professor Giovan Battista Vasco, sul loggiato al piano superiore. Nella stessa corte, in armonioso contrasto, le sculture metalliche in stile industriale di Massimo Ghiotti 17 Esprit de Géometrie e Tristan Und, donate dall’autore. Sempre sul loggiato, sovrastante l’accesso da via Po, trova posto il gruppo marmoreo allegorico La Fama che incatena il tempo realizzato dai fratelli Ignazio e Filippo Collino 18. Ruotano nell’orbita dell’arte contemporanea le opere che si presentano nell’agorà del Campus Luigi Einaudi, destinato agli studi economico-sociali, politici e giuridici in Lungo Dora Siena 100, di fatto uno spazio espositivo a cielo aperto in cui è possibile ammirare la fusione in bronzo della Campana di Luigi Mainolfi 19, anch’essa in presti-
to dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino, il Toro rampante di Mario Ceroli 20, opera in legno donata dalla Fiat S.p.A, ed il Movimento dal blu del mare dell’artista Claudio Rotta Loria 21, installazione dedicata ai migranti del Mediterraneo. Nel passaggio che conduce dall’agorà verso corso Regina Margherita è possibile percorrere l’installazione Principio. Cosmo-lunare di Marcella Tisi 22. Nell’atrio principale dell’edificio, invece, è ospitato l’affresco Homo Tecnosapiens di Richi Ferrero 23. Nella palazzina degli Istituti Chimici in corso Massimo d’Azeglio, sul loggiato del primo piano al termine dello scalone monumentale, trova posto un altorilievo in bronzo, realizzato dall’artista Enzo Sciavolino 24, dedicato al chimico e scrittore Primo Levi che qui effettuò i suoi studi. Sul fronte dell’Orto Botanico che affaccia su viale Virgilio, sede del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, a seguito della sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra città e Lavazza S.p.A., l’azienda ha realizzato il soggetto Acqua, simboleggiato da un giovane volto femminile segnato da gocce di colore azzurrino25. È una raffinata e delicata testimonianza di “street art”, sintesi tra architettura e rappresentazione pittorica, che decora e nobilita molti spazi urbani. Rientrando all’interno dei palazzi universitari, al piano terreno della Scuola di Management ed Economia di corso Unione Sovietica 218 bis, fa mostra di sé un grande pannello, realizzato in occasione dell’inaugurazione nel 1993, dall’eclettico artista Ugo Nespolo 26 ed allegoricamente ispirato agli studi che in quella sede hanno luogo. A Palazzo Campana, sede del Dipartimento di Matematica in via Carlo Alberto 10, è possibile apprezzare, incastonata in prossimità del pianerottolo dello scalone principale, una pregevole Madonna con bambino in bronzo, formella donata dall’autore, lo scultore Umberto Mastroianni 27.
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Su un’ampia parete tra due rampe di scale, nell’edificio di via Po 18 originariamente parte del complesso religioso di S. Francesco da Paola, in ambienti occupati anche dall’Accademia di Medicina, inaspettatamente compare un affresco del celebrato pittore Bartolomeo Guidobono 28: si tratta di una grande crocifissione, alta più di dieci metri, recentemente restaurata. Sono ritenuti da attribuirsi ancora al Guidobono gli affreschi nell’aula magna nella sede del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi in via Accademia Albertina 13, in origine sala capitolare o forse refettorio dell’antico convento di Santa Croce; invece nel corridoio dell’ex alloggio della Badessa, se ne possono ammirare altri con motivi trompe l’oil. Per concludere questo excursus sulle molteplici espressioni artistiche presenti in ateneo, una breve riflessione: l’eterogeneità delle opere presentate e l’ampiezza dell’arco temporale che ricoprono sono testimonianza della diversa sensibilità intellettuale delle generazioni che si sono susseguite, ma la vocazione e l’intento che tutte le accomuna sono promuovere e tramandare cultura, in qualsiasi forma questa si manifesti. Valorizzando e tutelando un patrimonio artistico, che orgogliosamente appartiene all’Università, ma che onora la città, lo si (ri)scopre integralmente e se ne (ri)prende concretamente consapevolezza e possesso.
La riconducibilità dell’attuale patrimonio artistico dell’Università non tanto alla “sua storia passata di espressione del potere regio”, quanto piuttosto al “ruolo di luogo della cultura e della ricerca e insieme di istituzione in cui è possibile riconoscere un fine e una funzione che dura nel tempo al di là delle esistenze individuali e delle vicende politiche” è stata ben sottolineata da Ada Quazza, Arredi, strumenti e riti, in Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, a cura di Gianni Romano e Ada Quazza, Torino, Comitato per le celebrazioni del Sesto Centenario dell’Università di Torino, 2004, p. 181. Questo contributo rappresenta tuttora un importante punto di riferimento per la trattazione del tema. 2 La ricostruzione puntuale del contesto in cui maturarono questi acquisti, completa di citazione di tutte le fonti archivistiche è disponibile nel contributo di Paola Novaria, “Per modo che la nostra università risorga a nuovo e più alto decoro, in una sede veramente degna”. L’acquisto del quadro di Giovanni Battista Caracciolo nel contesto della ricostruzione post-bellica del Palazzo del Rettorato in Battistello Caracciolo. Dialogo all’ombra di Caravaggio, a cura di Daniela Magnetti e Stefano Causa, Cinisello Balsamo, Silvana, 2019, pp. 69-73. È ivi menzionato anche l’acquisto, nel medesimo periodo e con le stesse finalità, del quadro La dama genovese, non esposto in mostra e pubblicato nel volume Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, a cura di Gianni Romano e Ada Quazza, Torino, Comitato per le celebrazioni del Sesto Centenario dell’Università di Torino, 2004, tavola 39. 3 I tre quadri sono pubblicati nel volume Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, a cura di Gianni Romano e Ada Quazza, Torino, Comitato per le celebrazioni del Sesto Centenario dell’Università di Torino, 2004, tavole 40, 42 e 63. 4 Le informazioni relative agli studi, disponibili anche on line, sono ricavate dai registri conservati dall’Archivio storico: <https://www.asut.unito.it/studenti/web/index.php?r=studenti%2Fview&id=17347>; del testamento si conserva copia presso la Direzione Affari generali, e in particolare presso l’ufficio che si occupa di partecipazioni esterne e fondazioni; altri particolari biografici risultano da frammenti dell’archivio privato di Benedetto Parini: <http://atom.unito.it/index.php/parini-benedetto>. Si ringrazia l’Archivio storico della Città di Torino, e in particolare la dottoressa Anna Braghieri, per aver effettuato le verifiche anagrafiche che hanno consentito di risalire al nome completo della madre dell’avvocato Parini. 5 Lo statuto del Fondo di Studi, a partire dallo schema elaborato dal Consiglio della Facoltà di Lettere e filosofia nella seduta del 18 giugno 1931 (ASUT, Lettere e filosofia, Adunanze, 1927-34, VII 67, pp. 219-220), dopo le modifiche apportate dalla Facoltà di Giurisprudenza e l’approvazione del Senato Accademico, fu definitivamente approvato dal Consiglio di Amministrazione nella seduta del 20 luglio 1931 (ASUT, Governo, Consiglio, Verbali 1931-32, p. 131). 6 Emilio Ottolenghi si laureò in Lettere e filosofia nel 1900, poi in Legge nel 1903 (cfr. le informazioni tratte dai registri dell’Archivio storico, disponibili anche on line: <https://www.asut.unito.it/studenti/web/index.php?r=1
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studenti%2Fview&id=972>). Ottenne la libera docenza in Diritto commerciale con D.M. 5-6-1908, confermata definitivamente nel 1929 (cfr. gli elenchi dei liberi docenti disponibili negli Annuari accademici; per la conferma il Fascicolo personale). Sposò Anna Cavalieri a Roma l’11 febbraio 1912 (cfr. il contratto nuziale redatto su pergamena in lingua ebraica, conservato in Archivio e non inventariato). 7 A queste problematiche era stata sicuramente sensibilizzata dai problemi di salute della sorella che, sopravvissuta alla deportazione nei lager nazisti, soffriva di gravi disturbi mentali. Il testamento è conservato negli uffici del Patrimonio. 8 Si tratta del “Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi” – N.I.C.O. – con sede presso l’Ospedale San Luigi di Orbassano, una realtà di un centinaio circa tra docenti e ricercatori, cui si devono più 50 pubblicazioni scientifiche all’anno. Per ripercorrere le vicende dell’eredità e dell’istituzione della fondazione, si veda la comunicazione del 1996 del prof. Mario Umberto Dianzani, rettore pro tempore dell’Università e primo Presidente della Fondazione, disponibile on line: <http://www.nico.ottolenghi.unito.it/content/download/1270/9416/version/1/file/StoriaFondazione_LetteraRettoreDianzani_1996.pdf>. 9 Le informazioni sulle famiglie Vita Finzi e Finzi sono ricavate principalmente da Germano Maifreda, La rubrica degli Israeliti dell’Archivio storico civico di Milano, La Rassegna Mensile di Israel, terza serie, Vol. 59, No. 3 (Settembre-Dicembre 1993), pp. 24-66, disponibile on line https://www.jstor.org/stable/41285945; e da Germano Maifreda, Scheda di Aron Vita Finzi, in Marco G. Bascapè, Paolo M. Galimberti, Sergio Rebora (a cura di), Il tesoro dei poveri. Il patrimonio artistico delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (ex Eca) di Milano, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2001, pp. 345-346. Sulla storia di Villa Finzi è utile anche la scheda a cura dell’Associazione Gorla Domani. Centro di documentazione e interpretazione: < http://www.gorladomani.it/ html/piccola-parigi.html>, consultato il 5 settembre 2019. 10 Un profilo di Salvatore Ottolenghi è disponibile on line, a cura dell’Archivio del Senato della Repubblica: <http://notes9.senato.it/web/senregno. nsf/1d672ffa11aafc3dc125711400599d00/d2fae0356aaddd864125646f005e0334?OpenDocument#>. 11 Il quadro è pubblicato nel volume Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, a cura di Gianni Romano e Ada Quazza, Torino, Comitato per le celebrazioni del Sesto Centenario dell’Università di Torino, 2004, tavola 49. 12 Un profilo dello studente, ricostruito a partire dai registri conservati dall’Archivio storico, è disponibile on line: <https://www.asut.unito.it/studenti/web/index.php?r=studenti%2Fview&id=15229> 13 Il testamento è conservato negli uffici del Patrimonio. 14 Le informazioni sulla carriera sono ricavate dal Fascicolo personale. 15 Il testamento è conservato negli uffici del Patrimonio. I tratti peculiari della collezione sono ben analizzati da Ada Quazza, cit., p. 183. 16 Nato a Ligornetto nel 1820 e deceduto a Mendrisio
1891. Nasce a Torino nel 1938. 18 Ignazio, nato a Torino nel 1724, deceduto a Torino nel 1793; Filippo, nato a Torino nel 1737 circa, deceduto a Torino nel 1800. Il monumento era originariamente destinato al mausoleo del Conte Umberto I Biancamano a St. Jean de Maurienne in Savoia. 19 Nasce a Rotondi (Av) nel 1948. 20 Nasce a Castel Frentano (Ch) nel 1938. 21 Nasce a Torino nel 1949. L’opera, di nove metri di diametro, è costituita da circa mille latte di inchiostro tipografico colorate all’interno in varie tonalità di blu, saldate secondo l’inclinazione dell’asse terrestre ad elementi portanti fissi. 22 Nasce a Genova nel 1962. 23 Nasce a Torino nel 1951. 24 Nasce a Valledolmo (PA) nel 1937. 25 Opera realizzata in seno ad un progetto di arte pubblica con artisti internazionali e nazionali chiamati ad interpretare i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, come definiti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e come recepiti nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. 26 Nasce a Mosso (Bi) nel 1941; nel mese di gennaio di quest’anno è stato insignito dall’Ateneo della laurea ad honorem in filosofia. 27 Nato a Fontana Liri (Fr) nel 1910 e deceduto a Marino (Roma) nel 1998. 28 Detto “il prete di Savona” (Savona 1654 - Torino 1709), attivo presso la corte sabauda intorno al 1685-88, nel 1706 realizzò varie opere, purtroppo andate perdute, nella la chiesa di San Francesco da Paola e annesso convento. 17
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Battistello disvelato
gesco per imboccare una scorciatoia di stile e cultura differente da quella della tela del Caravaggio a capo altare, le Opere di Misericordia, precedente di meno di un decennio (1607). Caravaggio è a due passi: ma suona poco meno che indecifrabile a quanti vogliano emularne scrittura e invenzioni. Battistello lo ha visto lavorare: il nostro quadro è ricco di rinvii a opere del maestro, a partire dalla Madonna del Rosario di Vienna. Quegli “straordinari pezzenti invitati alla distribuzione dei rosari”, evocati da Roberto Longhi, era difficile non pesassero, e non passassero, nella concezione delle figure impattanti del Caracciolo. I piedi sporchi squadernati in primo piano sono un indizio su cui lo spettatore è costretto a posare gli occhi (e il naso) 4. Caravaggio è alle spalle. Ma qui il linguaggio si è arricchito e appare più articolato se vediamo Battistello, ormai alle soglie dei quarant’anni, smorzare il rigore delle prime sortite caravaggesche. Allungare il vino è metafora che avrebbe potuto servire a uno scrittore e storico come Longhi: riscopritore di Battistello e divulgatore, tra le due guerre, di un primato del genio napoletano (sei e anche settecentesco) in una chiave esclusivamente caravaggesca. Quanto a noi, che pure siamo gli indegni nipotini di queste letture longhiane, il Battistello di Torino lo riproporremmo come di uno che sta guardando al Gentileschi, alle opere del Lanfranco e, sempre che il restauro non menta, al Ribera romano (prima del ’16, che coincide con il suo definitivo trasferimento a Napoli). Tempi, nomi di punta e geografia dell’arte mutavano rapidamente anche allora; e, mentre nell’agenda del Caracciolo e amici napoletani, si squaderna una rosa inedita di riferimenti, si scopre che Roma non è mai stata così vicina a Napoli, per quanto il comune denominatore tra le due città - la papale e la spagnola - dobbiamo riconoscerlo fuori delle strette cerchie caravaggesche.
ST EFA N O CAUSA
Un restauro è un atto critico. Conclusosi alla fine del 2018, il ripristino del cosiddetto Qui vult venire post me di Battistello Caracciolo (1578-1635) conservato al rettorato dell’Università di Torino segna la più importante novità degli ultimi anni sul corpo del caravaggismo napoletano. Nonché di un restauro rivelatore, si tratta di un’operazione di critica d’arte: come risulterà evidente a chi sfogli il dossier fotografico pubblicato in questo catalogo1. Il ductus del dipinto, uno dei vertici della maturità del pittore oltre che tra i più documentati della scena napoletana in trasferta, si è rivelato straordinariamente stratificato per la somma di pentimenti, di piste imboccate e poi abbandonate. La tela, dalle dimensioni di un quadro da stanza (183 x 132,8), è siglata sul margine destro. Il 31 luglio 1614 il procuratore a Napoli di Marcantonio Doria, Lanfranco Massa, paga ottanta ducati a Battistello “per prezzo di un quadro d’un Cristo che porta la Croce ed altre pitture di gente che lo seguivano che li ha fatto per servizio di Marcantonio Doria di Genova” (un soggetto inconsueto nel contesto meridionale)2. Sul retro, oltre alla scritta “Del Caracciolo”, figura una croce sovrastante tre lettere: MAD 3. Intorno a questa data, Battistello è a Roma dove frequenta il pisano Orazio Gentileschi, impegnato nella decorazione del Casino delle Muse. Se il dipinto ha un’accertata provenienza genovese fin dal 1614, vuol dire che siamo a un passo dalla Liberazione di San Pietro (1615) dell’aula del Pio Monte di Misericordia a Napoli, dove il Caracciolo smetterà la divisa di puro caravag-
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la sua strada come specialista di pittura murale nell’officina dell’impresario Belisario: impaginatore, in vernacolo, di storie devozionali e celebrative. Una sorta di Cavalier d’Arpino alla pizzaiola. Il nostro ‘6oo spicca sulle altre scuole per una non appannabile matrice caravaggesca. Questo durevole acquietamento critico avrebbe soddisfatto gli allievi di Longhi; lasciando nel dubbio se il restringimento della scena napoletana a un unico filone, non rischiasse di ricalcare, in contesto diverso, l’atto di riduzione dell’arte francese del secondo ‘8oo al solo Impressionismo. Battistello continuerà a praticare l’affresco fino alla fine. Ma come marcatura regina rispetto al Caravaggio, fu disegnatore assiduo. Anzi, egli è il battistrada della grafica moderna, in anticipo sui Ribera e sui Preti ai quali due, fino all’altro ieri, era imputata la nascita del disegno meridionale (“il miracolo del sangue” aggiunse, con traslato un poco blasfemo per i napoletani, il tedesco Walter Vitzthum); d’altronde, è sul corpus del Caracciolo, morto a Napoli nel 1635, che occorre misurare il valore del disegno nelle cerchie del Caravaggio. Ed è ormai irrinunciabile, per avvicinarsi al maestro, la porta d’ingresso della grafica, come dimostrò Marina Causa con una serie di rilanci sulla rivista Paragone, calibrati dal 1987. Nondimeno, Battistello scivolerà dalla foto dei naturalisti veraci già negli inoltrati anni ’20, allorché il ricordo del Caravaggio comincia a recedere sotto la pressione di nuove istanze. Nella Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli, stanno subentrando pittori e scultori forestieri (il bolognese Domenichino e il parmigiano Lanfranco; il satellite toscano di Bernini, Giuliano Finelli). Sono, se si vuole, precoci segnali di ricevuta del barocco storico. Ma nella tarda primavera del ‘16 si trasferisce, da Roma, lo spagnolo Ribera, che impone una repentina rottura degli argini. Non sbaglierebbe poi troppo chi provasse a rac-
Un caravaggesco infedele Napoletano, classe 1578, Battistello Caracciolo è il meno allineato dei caravaggeschi. Il numero di disegni che gli si attribuisce e che, stando ai rilanci recenti, pare destinato a crescere, è un decisivo indizio di infedeltà (Caravaggio non disegnava). Battistello ha poi un posto nell’evoluzione dell’incisione di gusto caravaggesco. Infine, alcune tra le sue prove napoletane di massimo impegno - in Palazzo Reale o nelle chiese di Santa Maria la Nova e San Martino - sono su affresco (mentre Caravaggio, come Ribera è, diremmo ideologicamente, refrattario alla pittura murale). Per ovviare a queste commissioni Battistello, cresciuto al passaggio tra i due secoli nella maggiore delle botteghe locali, deve imparare a ripartire il lavoro tra gli aiuti (laddove è proverbiale il solipsismo del Caravaggio). Come suddito dei viceré spagnoli ha un ruolo sociale definito: tiene famiglia e allievi. Perciò con lui sarebbe improprio metter mano ai fondi di magazzino del biografismo riappellandosi ai luoghi comuni dell’artista sradicato e sociopatico. Non ci aspetteremmo, per Battistello, la vita a colori del Caravaggio approntata dal Manara nel 2015 – in quello che, tre anni più tardi, sulla fascetta dell’edizione francese dell’albo, Le Caravage, è presentato come “la rencontre au sommet de deux artistes subversifs et sensuels”. L’incontro al vertice di due artisti sovversivi e sensuali. Mentre qui, nel dipinto del Caracciolo, di sovversivo c’è solo l’invito di Cristo a seguirlo (e, di sensuale o, meglio, di carnale, riusciremo a scoprire qualcosa affissando lo sguardo tra i seni pesanti della donna a sinistra).
Vernacolo napoletano Nelle pagine del 1915 Longhi, che aveva già scritto sul calabrese Mattia Preti, non volle enfatizzare il fatto che Battistello trovasse
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bera: che è soprattutto, nel massimo sollievo degli artefici locali, uno stilista incomparabile. Ribera pone all’ordine del giorno, riportandoli all’attenzione di maestri e intenditori, quei giochi di prestigio pittorici che l’ultimo Caravaggio, tra il 1606 e il 1610, aveva loro sottratto. A molti dovette parere una specie di risarcimento quando, nello spazio di pochi anni, lo spagnolo impiantò una vera scuola. Al dazio di un confronto non poteva certo sottrarsi il Caracciolo: lo rivela, nei dipinti degli
contare la pittura napoletana del ‘6oo come un sistema di glosse al linguaggio di Ribera.
L’insegnante di Realtà L’ultimo Caravaggio era apparso subito come un maestro non emulabile. Il quadro d’altare delle Opere di Misericordia segnerà pure il momento più rappresentativo dell’epos napoletano premoderno (sebbene, significativamente, non sia opera di un napoletano). Ma è un capolavoro arduo da copiare, quanto difficile persino da leggersi, per il linguaggio improvvisato, fuori da ogni creanza accademica, con cui è stato eseguito. Un manifesto suo malgrado; ed ellittico. In ogni caso, un manifesto senza eredi in un centro in cui avevano lavorato scultori e pittori di vaglia come Pietro Bernini (morto nel 1629), Francesco Curia o Girolamo Imperato. Nessuno dei dipinti tardi del Caravaggio può alleviare il disagio di un discorso fondato sull’ellissi e il troncamento dell’immagine. La scrittura contratta, gli spazi insondabili e l’avara gamma cromatica: quanti agognassero al trionfo del colore e a narrazioni comprensibili, rimasero sgomenti dinanzi ai contrassegni di questa strenua poetica della rinuncia, cui viene impegnandosi il maestro, ormai in dialogo solo con sé stesso. Perciò si ritrassero rinunciando alla sfida. Il fatto è che nel vicereame, la “bella pittura” sarebbe rimasta esigenza insopprimibile. Rinunciare alle lusinghe dello stile si sarebbe rivelato commercialmente sconsigliato per committenti e artisti. Ma ammesso che l’unico autentico caravaggesco sia stato il Caravaggio stesso, il caravaggismo è anche la fenomenologia di un addomesticamento. L’urgenza di ingentilire e chiarificare le storie, intervenendo con massicce “iniezioni di stile”. E mentre va sfumando la memoria del Caravaggio, ci si impegna nella decrittazione del verismo effettistico e illusivo del Ri-
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Battistello Caracciolo, Liberazione di San Pietro dal carcere, Napoli, Pio Monte della Misericordia
nostro dipinto. Due opere che alludono a Ribera. Come “insegnante di realtà” – una realtà scrutata e indagata pittoricamente in modo opposto al Caravaggio – è lui l’uomo nuovo, il personaggio centrale e accentratore della cultura napoletana prima dell’ascesa di Giordano. Qui il ‘6oo non è il secolo del Caravaggio, ma il secolo di Ribera, e l’evidenza di un passaggio del testimone si intravede nel Qui vult venire post me del rettorato torinese. Anche per questo, se ben condotto, un restauro è di ausilio alla critica - specie per la produzione di Battistello che si regge su di una cronologia ballerina e tra le più difficili del panorama locale.
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Michelangelo Merisi da Caravaggio, Opere della Misericordia, Napoli, Pio Monte della Misericordia.
Storia e immaginazione A dispetto di oltre un secolo di ricerche apparecchiate nell’officina di Longhi, non sappiamo granché del seguito napoletano del Caravaggio. Le date dei tentativi di rincorsa degli artefici, vivo il Maestro, sono incerte; e così le attribuzioni. Basterebbe considerare la bibliografia degli ultimi trent’anni. Per la somma di strade, anche secondarie, che ha contribuito ad aprire, quella sul Caracciolo e il naturalismo, tenutasi nel 1991, va ritenuta la maggiore esposizione napoletana degli ultimi trent’anni; mentre la lettura del catalogo continua a proporsi dentro un rinnovato atto di fede nelle possibilità della lettura dei documenti di prima mano5. Ma stilcritica a parte, bisogna ammettere che, per come si è venuto costruendo nel ‘9oo, il progetto critico del naturalismo si fonda su un miscuglio di elementi variamente dosati: dalla critica formalistica alla letteratura, dalla storia militante all’immaginazione. Nei casi migliori si è fatto appello a tutti e quattro gli arsenali, senza risparmiare sull’ultimo. Nel merito si è visto poi di come alcuni abbiano preso le distanze dal carattere asfaltante di tante mo-
inoltrati anni 1610, un gusto più accentuato per i risalti di superficie. È lo “Stile”, con la esse maiuscola, che gli riprende la mano. D’altronde i visi più caricati e una nuova, inedita attenzione per la rappresentazione dei santi vegliardi accendono la lampada-spia di Ribera nella Trinità Terrestre del 1617 e nella Madonna d’Ognissanti della collegiata di Stilo in Calabria del ’19. Due opere campione del percorso maturo di Battistello, da scalare dopo il
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Michelangelo Merisi da Caravaggio, Madonna del Rosario, Vienna, Kunsthistorisches Museum, particolare.
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correggere l’analisi formale, da esercitare con raddoppiata cautela sullo stipato, ma sdrucciolevole terreno degli studi caravaggeschi. Ora che questa operazione con partenza napoletana e finale ligure piemontese (l’Annunciazione di Orazio Gentileschi), sia stata celebrata nelle sale della Sabauda: questo periplo di geografia dell’arte potrà stupire solo chi non conosca le vicende della massima pinacoteca piemontese. Fu nel 1982, infatti, in occasione del centocinquantenario della Galleria (1832), che fu pubblicato un quaderno documentario su alcuni, e solo alcuni interventi di restauro6. La premessa era già una petizione di metodo7. Pure era da tempo che un caravaggesco della prima ora come Battistello, servito da una monografia ormai ventennale, attendesse una disamina scientifica. E i risultati non si sono fatti attendere: se è vero che un restauro obbliga, nel bene e nel male, a riconsiderare gli eventuali restauri precedenti; è altrettanto vero che sollecita innanzitutto a rivedere antiche posizioni.
stre riassuntive, cercando di ripartire da una lettura dello stile, servita da una scrittura che puntasse a una “minore aggettivazione e una maggiore oggettivazione”. Ci si chiede cosa sia filtrato, negli studi sul naturalismo napoletano, delle ricerche sul contesto romano (e di rimbalzo su quello di Napoli), tese a rimettere Ribera dove avrebbe dovuto sempre stare: al centro, cioè, della questione caravaggesca e, a Napoli, sul podio più alto avanti il decollo di Giordano. Ma la risposta non è semplice. Specie se si vorrà ammettere che, dopo la monografia del 2000, Battistello sia rimasto ai margini della ripartenza degli studi. Superfluo aggiungere che questo eccellente ripristino, condotto nel laboratorio di restauro e di analisi, aperto a Torino dal belga Thierry Radelet nel 2011, getta una luce chiara sul massimo momento di militanza caravaggesca del pittore.
Diagnostica e stilistica Dirli meri restauratori sarebbe un’approssimazione per difetto; e forse un’ingiustizia. Thierry e i suoi si sono mossi come veri storici d’arte. A nessuno occorre ormai ricordare che la fortuna della pittura caravaggesca è anche storia, scientificamente fondata, di agnizioni e rivelazioni tecniche. La mostra sul Caravaggio, curata a Firenze da Mina Gregori nel 1991, si fregiava di un sottotitolo programmatico: Come nascono i capolavori. Non si trattava solo di riportare le opere a una migliore leggibilità; ma di suggerire nuove piste di lettura. Sono passati quasi trent’anni e non è qui il caso di rimarcare quanto tutti dovrebbero sapere a memoria. L’ausilio della diagnostica accompagna la decifrazione dello stile, senza prevaricarne tensioni e funzioni. Anche dagli eloquenti dettagli riprodotti in questo catalogo, appare innegabile che l’analisi tecnico scientifica possa integrare ed eventualmente
La Storia dell’arte è anche storia di riletture Il Battistello del rettorato ha ora tutt’altra presenza: i visitatori di questa breve esposizione, fortemente voluta da una storica d’arte della sensibilità di Daniela Magnetti, s’imbatteranno quasi in un inedito. Mai sin qui s’erano potuti apprezzare, con eguale vivezza, particolari come il bambino vestito o coperto alla men peggio, da una complicata imbracatura di stracci a pelle, giocati su una dominante di bianchi sporchi. Uno strappo di pauperismo, che si ritrova nell’ultimo Caravaggio (ma che, a Napoli, odora già di Ribera). Ma erano apparsi così smaglianti dettagli di intelligenza figurativa come la manina dipinta a corpo sulla macchia rossa del panneggio dell’uomo, la cui schiena occupa la parte centrale e si accende, più che mai, come punto focale del dipinto. A rivederlo, nella dominante matrice cara-
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dria in adorazione del crocifisso, transitata sul mercato milanese nel 2009.
vaggesca, si conferma il rinvio al personaggio in primo piano nella Liberazione di San Pietro del Pio Monte del 1615: un dipinto di chiesa confezionato negli stessi mesi e di cui la tela di Torino sembra una sorta di anticipazione in taglio orizzontale e ravvicinato. È possibile, inoltre che, nel volto della vecchia individuato con nuova perspicuità fisiognomica, si sia già in zona di allerta Ribera. Tuttavia, diversamente dalla superficie densa di spessori del maestro spagnolo, in Battistello la materia si apre in lunghe pennellate, distendendosi a macchie. Questa condotta, culminante nella massa di capelli del pitocco di spalle, sta tra le matrici del linguaggio sintetico del Velázquez nel primo viaggio a Roma: si faccia un confronto tra il nudo quasi sagomato dal fondo e le figure nella Tunica di Giuseppe (1630), databile quindici anni dopo 8. Chiude il dipinto, a destra, il Cristo: dal volto simile a una maschera orientale (o piuttosto, dato il contesto, a una Sindone!) e sulla cui corona di spine sono riemerse poche virgolature di sangue. L’iterazione dei modelli è una prassi nelle officine caravaggesche (nonché un navigatore in situazioni scivolose come quelle poste dalla cronologia di Battistello). Il restauro ha permesso di assodare i confronti con altre opere del Caracciolo del secondo decennio. Innanzitutto con il Cristo e l’angelo oggi alla pinacoteca di Vienna del quale esiste una versione più ampia nella parrocchiale cremonese di Vho presso Piadena: un altro Caracciolo attestato nell’Italia del nord, rubato nel 1992 e ritrovato qualche anno dopo 9. Ugualmente ficcanti appaiono i rinvii al ciclo ad affresco, databile nel 1611, con Storie di Consalvo di Cordova nell’appartamento storico di Palazzo Reale a Napoli 10. Quanto al teschio in tralice nell’angolo destro, si tratta di un inserto di natura morta studiato in un gruppo di disegni e che Battistello ricalibrerà in almeno un altro dipinto coevo: nella Santa Caterina d’Alessan-
Il braccio corto della critica Nonostante la convocazione ad una rassegna prestigiosa (Civiltà del Seicento a Napoli, 1984), il dipinto torinese, pubblicato nel ‘51, resta tra i capolavori sommersi della maturità di Battistello. Non solo si tratta di uno dei rari napoletani acquisiti per tempo da una sede (semipubblica) piemontese, ma è tra i pezzi caravaggeschi più rilevanti conservati nel Nord Italia. Poco noto agli stessi specialisti, il Qui vult venire post me vanta una fortuna abbastanza recente. Fu illustrato dal vicentino di adozione piemontese Roberto Carità, su Paragone, tribuna consacrata alle aggiunte al Caracciolo e ai napoletani di ‘6 e ‘7oo. Lo studioso identificava il soggetto del dipinto, ritenuto “un incunabolo prezioso per la storia del caravaggismo napoletano”, con quello evangelico del Cristo e il cireneo. L’apparizione del Battistello coincide con la fioritura di ricerche sul naturalismo in seno all’officina longhiana, culminata nell’esposizione sul Caravaggio tenutasi a Milano nel ‘51. Nella prima decade della rivista (1950-’60), l’affrontamento al tema caravaggesco risulta di natura sovraregionale (mentre si trovano precoci escursioni sul terreno della diagnostica). Giovani studiosi inviano alla redazione materiale inedito, provando a tener dietro alle direttive longhiane - occorreva riarticolare il discorso caravaggesco tra dipinti sacri e di natura morta (né manca, in coda ai fascicoli iniziali, il riporto di pezzi rari dell’antologia critica, a prova di un’attenzione particolare alla letteratura artistica). È Longhi come di consueto a uniformare, con gesti direttoriali, il tessuto orchestrale di Paragone. L’ingorgo a centro tema (la Roma di Caravaggio) è massimo come pure, simmetricamente, l’attenzione ai margini (le periferie). “Margini” è termi-
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venne rifoderato molto tempo fa; la scritta originale era più larga e ancora traspare. Ma più ci illuminano le lettere dipinte sopra un sasso, nell’angolo inferiore destro: GBC” 13. Il contributo merita una rilettura anche per le annotazioni di carattere conservativo. L’aggiunta al pittore è tramata da un’inconsueta attenzione allo stato del dipinto, al punto che non sembra improprio riaprire il dossier diagnostico sul pittore da questo intervento su Paragone: ‘Il dipinto è nel complesso ben conservato. Esistono alcuni ritocchi, ma sparsi e di poca entità. La testa del Cireneo è rientrata, ed il fondo è assai incupito. La tela, rifoderata nel secolo scorso, aveva già subito – un tempo certo as-
ne squisitamente longhiano atto a connotare: non il carattere della ricerca - “non si tratta di studi marginali” - quanto la capillarità con cui si coprono tutti i lati del dossier sul maestro, nell’ambito di questa seconda primavera caravaggesca. La prima era caduta tra il 1910 e il ’20: ma da promotore, ora Longhi ne diventerà il gran cerimoniere. Specie perché esondati dal canale delle riviste, quegli affondi di critica e filologia erano sbocciati salendo alla ribalta delle mostre. Gli anni ’50 sono centrali anche nella fortuna del Caravaggio mentre, sulle pagine capitanate da Longhi si coglievano, a scoppio ravvicinato, i riverberi della mostra milanese di Palazzo Reale. Le prime foto bianco e nero del Battistello compaiono nel numero del luglio 1951, in un fascicolo che terremo come manifesto delle istanze longhiane in tema di meticciamento tra Antico e Moderno. Lo apre un contributo caravaggesco di Longhi e lo chiudono gli appunti di Attilio Bertolucci su Picasso; in mezzo, si dipanano le pagine di Giuseppe Raimondi sui metafisici Carrà e De Chirico e quelle di Francesco Arcangeli su De Pisis 11. Non mancano due contributi quattrocenteschi sui Vivarini. La rivista si muove tra storia e critica militante secondo un pencolamento che, lungo la dorsale specialistica degli studi odierni, verrebbe accusato di genericità. Il seguito della disciplina in Italia avrebbe vanificato la possibilità di una convivenza tra arte e letteratura, allontanando dalla storia dell’arte qualsiasi tentazione di racconto. Il Battistello fu pubblicato dall’allora trentottenne Carità, che lo aveva scoperto nella collezione Martinotti di Casale Monferrato12. L’anno dopo perviene per acquisto alla sede attuale: “Dubbi attributivi sull’opera – avverte Carità - non ne esistono. Oltre agli elementi di stile, un poco ci soccorre la scritta ‘Del Caracciolo’ che è stata riportata dalla prima tela sul rovescio della nuova tela con cui il quadro
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Roberto Longhi, fotomontaggio battistelliano, dopo il 1951, Firenze, Archivio della Fondazione di Studi di storia dell’arte Roberto Longhi
spicio longhiano, il dipinto di Battistello rimarrà a lungo misconosciuto. Prima ribalta pubblica importante fu la mostra Civiltà del ‘6oo a Napoli, nel 1984. In quell’occasione comparve tra i dieci Battistello (di cui uno discusso), dentro una schedatura del maggiore specialista americano del pittore. Il quale si accorse che il vero soggetto del dipinto non è l’illustrazione del Cristo e il cireneo, come supposto dal Carità; quanto la raffigurazione del motto evangelico, “Chi mi voglia seguire, prenda la croce” - come dimostra l’assiepamento delle figure, in una sorta di bassorilievo. A latere della mostra di Capodimonte, il dipinto figurò tra le illustrazioni del Caracciolo presenti nel repertorio sui napoletani del ‘6oo, uscito a Milano nel 1984 allorché, sotto i torchi di Longanesi, si avviò l’impresa di documentare fotograficamente la pittura sei e settecentesca di alcune regioni 17. Intanto, tra il 1988 e il ’92, il dipinto veniva restaurato “con l’ablazione di due aggiunte a sinistra e in alto”. Nella primavera del ‘92 il quadro si riaffaccia in Palazzo Spinola in una rassegna di arti varie del barocco genovese 18. Se in catalogo un ottimo studioso di cose liguri ne rileva la matrice principale (“anche la chiave cromatica del dipinto, trova fondamento e ragione nell’ultimo Caravaggio”); nel seguito, allunga la falcata in un esame che ricolloca ottimamente la tela in un giro romano, tra Gentileschi e i “raggiungimenti del circolo di Manfredi: (…) Se il vibrare della materia pittorica è ottenuto intersecando la larga pennellata a filamenti con i rincalzi scuri e l’ombra translucida, il colore è tramato da inflessioni fredde, trascorrenti, preziose…”19. Toccherà allo scrivente catapultare il dipinto in una monografia dal sottotitolo volontaristico e che, a distanza di vent’anni, risulta tanto onesta quanto emendabile: a partire dall’apparato iconografico 20. Come che sia, il libro sul Caracciolo provava a ritestare un tipo di scrittura militante, in qualche modo longhia-
sai antico – un taglio lungo la parte superiore, per l’altezza di circa 25 cm; in seguito la parte tolta fu nuovamente rimessa a posto. A sinistra è una striscia, di 7 cm, forse non originale, certo ridipinta’ 14. Non era scontato per i tempi, e non lo sarebbe stato per molti anni ancora che, tra i formalisti di matrice longhiana, si discettasse di ritocchi e rifoderature. In seguito allo smembramento della collezione di provenienza, Battistello viene comprato dall’Università di Torino nel 1952 15. Non ci sarebbe da meravigliarsi se la transazione fosse avvenuta con gli auspici di Longhi stesso: innamorato da sempre del Caracciolo, nonché piemontese di nascita (era nato ad Alba nel 1890). Che rimanesse folgorato dal quadro è confermato, non solo dalla decisione di ospitarne su Paragone la segnalazione di Carità, ma soprattutto da un esercizio di analisi delle forme che condusse per conto proprio. Si tratta di un montaggio di alcuni dettagli del quadro di Torino e di altri di Battistello16. Nella parte superiore del foglio l’uomo di spalle si moltiplica idealmente nel Miracolo di Sant’Antonio da Padova e nella Liberazione di San Pietro; nel registro centrale spicca il confronto tra la giovane madre e il San Sebastiano, a segno che Longhi stava navigando (letteralmente) a vista nel problema della cronologia del Battistello più caravaggesco (ma bisogna ricordare che, all’epoca, non era ancora emersa la datazione al 1615 del capolavoro del Pio Monte). Il fotomontaggio è conservato nella cartella intitolata al Caracciolo nella fototeca Longhi di Firenze. E appartiene alla storia della stilcritica in Italia del secondo dopoguerra, trattandosi di un campione puro del metodo longhiano maturo, come si andava divulgando tra gli allievi - se ne coglie un tramando diretto in uno dei titoli chiave della storiografia longhiana di ultima mandata, la Fortuna dei primitivi di Giovanni Previtali (1964). Ma torniamo a noi. Pervenuto nelle collezioni torinesi forse per au-
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i caravaggeschi). Quanto alla donna dal promettente davanzale che mette in moto l’intera composizione: è prova di un avvenuto contatto con i tipi e le atmosfere del Gentileschi. Come lui il Caracciolo è in grado di far vibrare corde più sensuali e, per così dire, preborghesi. Pure il dettaglio dello scollo, reso con una tornitura effettivamente degna di Orazio, sembra già presentire il passo, stilisticamente calante, della figlia. E si capisce: di lì a poco, nel chiuso dell’atelier, questa matrona meridionale che incita le folle si trasformerà in una Cleopatra o in una Venere. Non deve stupirci perciò che anche Battistello, “bronzeo e severo” patriarca del caravaggismo, si scontrasse con i paletti della censura. In un periodo imprecisato la profilatura di questi superbi seni torinesi scomparve sotto una camiciola bianca, prima che il restauro di fine anni ’80 provvedesse a rimuovere la pecetta. Nel primo volume del catalogo di Civiltà del ‘6oo, il décolleté è coperto per non offendere nessuno22. Rimangono celati i seni anche nelle riproduzioni calibrate nei due repertori fotografici sulla pittura napoletana e quella genovese 23. Solo nel discusso quanto visitato dossier sul caravaggismo europeo, 1990, il Caracciolo appena restaurato figura privo della banda occultante 24.
na; e, da questo punto di vista, lo si può recuperare in una presa di distanza dalle strettoie specialistiche che allora la critica cominciava ad imboccare.
Uno spettatore più coinvolto Nel dipinto viene adottato un taglio ravvicinato, affinché chi guardi venga arruolato a seguire il calvario di Cristo. Neanche per il moderato sperimentalismo della scena napoletana dei primi anni 1610, un tale livello di coinvolgimento dello spettatore appare frequente. Esso anzi dovette porsi come nuovo traguardo nella pittura da stanza del tardo caravaggismo. L’assetto compositivo appare studiato negli affreschi napoletani, di poco precedenti, e che però bisognava vedere dal basso, ad altezza media, con le Storie del Gran Capitano Consalvo di Cordova in Palazzo Reale (dopo il 1611); si guardi, soprattutto, la scena con la Presa della Calabria dove il gruppo dei personaggi inginocchiati si dispone come una prima idea per il quadro di Torino 21. Alle spalle dell’ultima figura si profila la sagoma di un personaggio, di cui s’indovinano un orecchio e la zonatura dei capelli (l’intromissione di personaggi nascosti è consueta tra
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del ciclo (S. Causa, Batti-stello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, passim). 11 R. Longhi, La Giuditta nel percorso del Caravaggio, in ‘Paragone’, 19, 1951. 12 Cfr. intervista a Roberto Carità in Tensionamento dei dipinti su tela. La ricerca del valo-re di tensionamento, in ‘Quaderno del Laboratorio di Restauro della Provincia di Viter-bo’, a cura di Giorgio Capriotti e Antonio Iaccarino Idelson, Viterbo, senza data, pas-sim. 13 R.Carità, Un Battistello ritrovato, in ‘Paragone’, 19, 1951, pp. 50-54. 14 Carità, ivi, pp. 50-51, nota 2. 15 R. Arena, in Percorsi caravaggeschi, Torino 1999, p. 93, nota. 52. 16 Causa 2000, pp. 152-153. 17 N. Spinosa, La pittura napoletana del ‘6oo, Milano 1984, fig. 568. 18 Genova nell’età barocca, a cura di E.Gavazza e G.Rotondi Terminiello, catalogo della mostra, Genova 1992. 19 F. R. Pesenti, ivi, p. 108, n. 18. 20 Stefano Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000. Infine, nello scorso anno il quadro è ricomparso a una bella e ficcante mostra milanese: L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, catalogo della mostra a cura di Alessandro Moran-dotti, Milano 2017. 21 Cfr. anche per le immagini, il saggio di S. Causa, Le Imprese di Consalvo. Battistello pittore di storia, in Battistello pittore di storia. Restauro di un affresco, catalogo della mostra, Napoli 1992, pp. 17.42. 22 Cfr. Napoli 1984, vol. 1, p. 201, n. 2.16. 23 La pittura napoletana del ‘6oo, a cura di Nicola Spinosa, Milano 1984, fig. 132; La pit-tura del ‘6oo a Genova, a cura di Piero Pagano e Maria Clelia Galassi, Milano 1988, fig. 69 (foto della Soprintendenza BAST (4031), con le misure indicate di 156x191). 24 Benedict Nicolson, Caravaggism in Europe, second edition, revised and enlarged by Luisa Vertova, vol. II, Torino 1990, fig. 542.
1 Il restauro, ricordava Maria Andaloro, ‘non è un’applicazione
tecnica per quanto sofi-sticata, ma un atto critico, il gesto di mani guidate dal pensiero’ come ricorda N. D’Arbitrio, I tessuti d’arte del Regno di Napoli, introduzione di L. Ziviello, Napoli 2018. 2 Cfr., alla data indicata, il regesto documentario in S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 367. 3 Vedi il regesto documentario, in Causa 2000, p. 352. Il dipinto è citato insieme ad altri nove, che restano da identificare, nella collezione di Agostino Doria a Genova (gli altri erano: Un moriente; il Martirio di San Lorenzo; San Giovanni Battista; San Giusep-pe; San Francesco; San Giovanni; infine, due ritratti: quello della figlia di Marc’Antonio Doria, Suor Maria Margherita e il ritratto a figura singola, cioè solo la testa, di Marc’Antonio stesso). 4 Caravaggio. L’ultimo tempo 1606-1610, catalogo della mostra, Napoli 2004. 5 Battistello Caracciolo e il primo naturalismo napoletano, catalogo della mostra a cura di F.Bologna (e di S.Causa per la parte monografica sul Caracciolo), Napoli 1991. 6 Galleria Sabauda. 150 anniversario (1832-1982): alcuni interventi di restauro, catalogo della mostra a cura di R. Tardito Armerio, Torino 1982. 7 “Non vuole essere una pubblicazione, una ricerca storico – artistica con conseguen-te risultato di nuovi elementi attributivi o di conferma di precedenti…La pubblicazione vuole dare piuttosto un’idea degli interventi di restauro compiuti alla Soprintenden-za…”, Tardito Armerio, ivi, p. 5. 8 Cfr. Velázquez, catalogo della mostra, Madrid 1990, pp. 168-169, n. 25. 9 W. Prohaska, in Caravaggio e l’Europa. Il movimento caravaggesco internazionale da Caravaggio a Mattia Preti, catalogo della mostra, Milano 2005, p. 416, n. VI.7. 10 Cfr. S. Causa, Le Imprese di Consalvo. Battistello pittore di storia, in Battistello Carac-ciolo pittore di storia, catalogo della mostra didattica, Napoli 1992. Da integrare con i successivi ripensamenti dello stesso autore sulla cronologia
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Giovanni Battista Caracciolo (Napoli, 1578 – Napoli, 1635) Qui vult venire post me circa 1614 olio su tela cm 132,8 x 183,3 Salone del Rettorato acquisto dell’Università nel 1952
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IR generale 1700 nm di Qui vult venire post me
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Giovanni Battista Caracciolo (Napoli, 1578 – Napoli, 1635) Qui vult venire post me circa 1614 olio su tela cm 132,8 x 183,3 Salone del Rettorato acquisto dell’Università nel 1952, particolare
IR particolare 1700 nm di Qui vult venire post me
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L’intemperanza del giovane Previati: la complessa gestazione del Torquato Tasso
totto, aveva suscitato l’ammirazione anche del re 2 ed era stato acquistato per una cifra importante dal conte Antonio Sauli Visconti per il suo castello di Bertinoro. Reduce dal successo degli Ostaggi di Crema, drammatica scena raffigurante i corpi dei prigionieri legati in cima a una torre mobile usata da Federico Barbarossa per l’assalto alla città assediata, che gli aveva garantito il riconoscimento del Premio Canonica all’Esposizione di Brera del 1879, all’epoca del Valentino il pittore ferrarese, da poco uscito dall’accademia braidense, era impegnato in una personalissima rivisitazione del quadro di storia nonostante potesse essere considerato fuori tempo. Il tema storico non deteneva più l’esclusiva tra quelli prediletti da una colta e attenta committenza. Il mercato del secondo Ottocento di un’Italia da poco unificata era ampiamente influenzato dai gusti del ceto borghese amante di quadri dal formato contenuto, dalle tematiche di piacevole impatto e di facile comprensione. Le gesta storiche preferite, lette in chiave verista, erano quelle legate al recente Risorgimento. Lo stesso Morelli, affermato pittore di storia a livello nazionale e autore, ben prima di Previati, di un Cesare Borgia a Capua (1853, Palermo, collezione privata), nel corso degli anni Sessanta aveva subìto una metamorfosi verso una pittura mistica e orientalista, di orientamento simbolista, che lo aveva allontanato da felici soggetti quali il Torquato Tasso legge la Gerusalemme Liberata a Eleonora d’Este. Ed è proprio a questo celebre dipinto a cui, come vedremo più avanti, sembra voglia ispirarsi in un primo tempo lo stesso Previati quando, nel 1880, sceglie anch’egli di immortalare le sembianze dell’infelice poeta, alle cui vicende umane egli stesso era forse legato da reminiscenze fanciullesche. Ferrara, infatti, era la città in cui Tasso aveva trascorso diversi anni di prigionia presso l’ospedale di Sant’Anna, luogo ampiamente
E L I S A B E T TA S TA U D A C H E R
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Gaetano Previati, Gli ostaggi di Crema, 1879, olio su tela, Milano, Pinacoteca di Brera, in deposito al Museo Civico di Crema
«Caro Morelli, sono tornato qui da Torino, ed ho visto per bene tutto quello che vi è all’Esposizione. […] Dopo i tuoi quadri, ve ne sono altri (parlo dei grandi quadri storici) che hanno successo: Il cadavere di Vittoria Colonna, La deposizione di Silverio papa, Galileo di Barabino, Borgia che vuol vedere nude le 40 donne, ecc. di Previati, giovane di 22 anni, a quel che si dice. Un intelligente vi troverà forse molto da dire, ma per un giovane di 22 anni, va bene assai: vi è dell’intemperanza, troppa foga, ma vi è sangue»1. Così scriveva Giuseppe Verdi a Domenico Morelli il 12 maggio 1880 al suo rientro a Sant’Agata dopo la visita all’Esposizione Nazionale di Torino. Il grande dipinto del Valentino Borgia a Capua, tratto dal V libro della Storia d’Italia di Guicciardini e compiuto in soli tre mesi su una tela di 3 metri per 6 da un impetuoso Previati, che di anni in verità ne aveva ven-
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le - ricordiamo ad esempio il Tasso in prigione (1839, collezione privata) di Eugène Delacroix -, era stata la riedizione, nel 1825, della Vita di Torquato Tasso, di Giambattista Manso, protettore e amico del poeta e suo primo biografo. Manso intitolava l’ultimo capitolo del primo libro Sua infermità e morte, e vi narrava l’arrivo, in una giornata piovosa dell’aprile 1595 di un Tasso cinquantunenne, già molto provato e consapevole di essere prossimo alla fine, al Convento di Sant’Onofrio in Roma, scelto volutamente quale luogo dove vivere gli ultimi giorni nel conforto delle preghiere dei frati, per essere poi là sepolto. L’incoronazione in Campidoglio, di cui lo stesso poeta aveva accennato in una lettera al Granduca di Toscana pochi mesi prima, sembrava ormai lontana dai suoi pensieri. L’ambiente della cella del convento si addiceva alla sua umiltà e alle sue ultime volontà. Rifiutatosi di fare testamento, non volle neanche scrivere un epitaffio per la sua tomba: «Sorrise Torquato, e disse, che alla sua fossa basterebbe una sola tavola per coperchio»3 . Niente fasti quindi, nessuna gloria, ma quiete, preghiere e la consapevolezza dei limiti umani di fronte alla morte. Questo è quello che si ritrova nel Torquato Tasso di Previati: un grande e alto letto che occupa quasi tutta la cella, una finestra di cui è accennata solo la strombatura inferiore nella parete, alla sua sinistra una spada appesa di modesta fattura, la luce che illumina il guanciale su cui è adagiato il volto cereo del poeta, le sue mani marmoree intrecciate a un crocifisso, un frate seduto su un basso sgabello intento a recitare il rosario voltando le spalle al defunto, sul pavimento due libri di cui uno aperto. Il dipinto, realizzato con pittura quasi monocroma, dai toni bigi, non entusiasma la critica, né la commissione del Premio Fumagalli a cui concorre in occasione della mostra braidense del 1880, che gli preferisce un ritratto di Camillo Rapetti commissionato da Vittore Grubicy. In effetti, l’opera si presenta ben diversa dalla ricchezza
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Domenico Morelli, Torquato Tasso legge la Gerusalemme Liberta a Eleonora d’Este, 1865, olio su tela, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna 3
Gaetano Previati, Cesare Borgia a Capua, particolare, 1880, olio su tela, Forlì, Cassa dei Risparmi di Forlì
raffigurato nell’iconografia ottocentesca assieme ad altri episodi chiave della vita tassesca sia da artisti ferraresi quali Gaetano Turchi, scomparso prematuramente nel 1851 (Torquato Tasso in Sant’Anna) che da altri italiani, come, oltre a Morelli, Bernardo Celentano (Il Tasso infermo a Bisaccia nell’Avellinese, 1863, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), Luigi Busi (Torquato Tasso e il Cardinale Cinzio Aldobrandini nel convento di Sant’Onofrio a Roma, 1863-64, Bologna, Pinacoteca Nazionale), Giuseppe Bertini, insegnante di pittura di Previati all’Accademia di Brera (Torquato Tasso presentato a Emanuele Filiberto, Torino, Palazzo Reale). Complice di questo interesse, esteso a livello internaziona-
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to dal cronista de Il Pungolo «un quadro storicamente sbagliato che ci commuove e vi fa pensare»5, era eclatante, non sarebbe più stato possibile per Previati tornare sui suoi passi. Come già accennato, nell’impostazione di questa grande tela il pittore ferrarese inizialmente sembra voglia ispirarsi al dipinto del Tasso e Eleonora di Morelli, un momento di condivisione di lettura e di ascolto, incupito dalla sofferenza fisica, ambientato in un luogo illuminato da una grande vetrata medievale. Lo si deduce dalla lettura radiografica della tela, effettuata in occasione di questo studio dal diagnosta Thierry Radelet, che ringrazio per il confronto costruttivo nella lettura dei dati emersi dall’indagine compiuta con tecniche non invasive. La radiografia ha infatti svelato quale fosse l’impostazione iniziale del quadro. All’altezza del lato sinistro del guanciale, sostenuto da un cuscino cilindrico, vediamo un altro profilo del poeta, maggiormente sollevato rispetto alla posizione attuale. L’uomo è ancora vivo e
di personaggi e di colore presenti nel Valentino, «un quadrone di cento figure», come lo definisce Filippo Filippi, con un «Borgia, torvo, truce, laido, lascivo, vestito di nero, […] seduto sopra una poltrona, e davanti a lui due belle Capuane, già denudate, in mezzo ad una folla di altre dame vestite e paurose, di soldati, gentiluomini, ubbriachi e un caos di mobili arrovesciati, di argenteria, di oggetti d’ogni specie, avanzo del saccheggio»4. A ben vedere, tuttavia, anche in questo caso, nonostante spicchino «una gran forza di colore […], delle figure bellissime, bene dipinte, […] dei contrasti efficaci di luce e d’ombre», emergono degli elementi di scarsa definizione dei dettagli. Il senso di non finito chiaramente palpabile in alcuni dettagli del Tasso è un passaggio necessario in Previati per superare le notazioni aneddotiche puntando a soluzioni compositive innovative che mettano in evidenza la drammaticità del momento del trapasso. La svolta segnata dagli Ostaggi di Crema, defini-
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Radiografia generale del Torquato Tasso
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Radiografia del particolare del volto di Torquato Tasso 6
Radiografia del particolare del cuscino 7
Radiografia del particolare del libro 8
Radiografia del particolare della vetrata
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chiare reminiscenze morelliane, dal letto di Otello e Desdemona, poi ripreso nel Paolo e Francesca (Bergamo, Accademia Carrara), alla figura del frate col cappuccio in testa, che rimanda al Sant’Antonio (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) visto all’Universale di Parigi del 1878 e, due anni dopo, alla mostra torinese, il giovane Previati si lascia affascinare anche dal Michelangelo e Vittoria Colonna di Francesco Jacovacci di Roma (Napoli, Museo di Capodimonte), presente anch’esso a Torino nell’80, che raffigura l’artista mentre rende omaggio alla donna morta, avvicinandosi al letto su cui giace il corpo inerme. Decide quindi di impostare la tela sulla sottile figura del poeta defunto, apportandovi numerosi cambiamenti. Elimina il cuscino sotto il guanciale accrescendone lo spessore e sostituisce la vetrata, più avanti utilizzata come sfondo nel quadro del Bacio (o Giulietta e Romeo), con una finestra non visibile, alla cui sinistra raffigura una spada dipinta con toni spenti e una corona d’alloro, a sua volta poi coperta. Al frate mette in mano il rosario, oggetto di un pentimento nel punto di appoggio sulle gambe e toglie il libro che sposta sul pavimento aggiungendone un secondo. Modifica infine l’andamento della coperta e la sua lunghezza per migliorare la prospettiva del letto rendendo visibili i due piedi. Questa continua rielaborazione dell’opera, testimoniata in gran parte dalle indagini diagnostiche, la si ritrova anche in alcuni appunti inediti di Previati, custoditi nell’archivio del pittore, poi ereditato dal figlio Alberto, ora in corso di riordino e di studio a cura di chi scrive e della collega e amica Monica Vinardi. Anche questi appunti sono caratterizzati da numerose modifiche e cancellature che ne ostacolano una fluida lettura: «[…] Ai piedi del letto sul pavimento un frate seduto che pregava tenendo il rosario in mano. Contro una parete della camera si vedea una corona d’alloro e una spada. Ben riuscita come la figura del fra-
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Cartolina storica di Giulietta e Romeo di Gaetano Previati, A. Grubicy editore, Milano, Archivio Previati, Chiavari
volge lo sguardo a una vetrata di vetri tondi, collocata alla sua destra, una fonte di luce eseguita con pennellate chiare. Tasso ascolta il frate intento a leggere il libro che tiene in mano, eseguito, nel perimetro superiore, con una pennellata materica di bianco di piombo per dare l’idea delle pagine colpite dalla luce. L’ampia coperta scende fino a toccare il pavimento coprendo quasi completamente i piedi del letto. Nonostante reputasse terminato il dipinto, tanto da firmarlo in basso a destra, il pittore decide di modificarlo raffigurando una scena di morte in un ambiente più cupo. Mostrando delle
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Particolare del rosario in infrarosso 1700 11
Particolare in luce radente dei libri
tanti nella tavolozza di Previati. La prima firma, ad esempio, poi coperta e ora visibile solo in luce radente, è stata apposta con terra rossa, mentre la seconda, in basso a sinistra, con bianco di piombo. Sulla tela non c’è alcuna traccia di zinco, che invece ritroviamo nella preparazione di un quadro non finito e coevo, Amor materno (collezione privata), dove, tra l’altro, si nota la presenza di una figura abbozzata in secondo piano in una posizione molto simile a quella del frate che veglia il Tasso. In certe zone si legge chiaramente l’utilizzo della spatola, sia per avere una nuova base da dipingere, sia per creare il contorno di certi dettagli, come, ad esempio, la pagina aperta del libro per terra. I volti dei due uomini, dipinti a velature con pigmenti a base di piombo, appaiono scuri in RX proprio per lo spessore della materia di contorno stesa con la spatola. La voluta trascuratezza dei particolari è uno degli elementi contestati dalla critica del tempo che boccia la presunzione del pittore nel proporre il quadro per il Premio Fumagalli introdotto alle mostre braidensi dal 1876. L’assenza di riproduzioni d’epoca del quadro, la scorretta ricostruzione delle sue vicende riportata da Nino Barbantini nella prima monografia sul pittore, edita nel 1919, che parla di distruzione della tela, la mancata documentazione riguardo le circostanze dell’acquisizione e della presenza nella loro collezione da parte della famiglia Cavalieri-Ottolenghi 6 prima della donazione all’ateneo di Orbassano avvenuta con la scomparsa, nel 1958, di Annetta Cavalieri vedova di Emilio Ottolenghi, hanno provocato una grande confusione sul quadro, secondo Alberto Previati eseguito addirittura in due versioni differenti. Il dipinto, in effetti, è stato esposto in due occasioni con titoli diversi, Torquato Tasso, a Milano nel 1880 e, l’anno seguente, A Sant’Onofrio morte di Torquato Tasso, alla Promotrice di Genova. Tuttavia, già la rassegna stampa sulla mostra milane-
te la testa del poeta. La fattura del dipinto era troppo frammentaria e lasciava intravedere la facilità con cui il lavoro era stato condotto. La sola figura del frate era eseguita magistralmente ma avendo voluto modificare le bianche pieghe della bianca coperta non bastò per interessare e convincere un acquirente». Il tormento di questo quadro, non apprezzato fino in fondo dalla critica e incompreso dal pubblico, tanto da rimanere «per un certo tempo […] nello studio del pittore» lo si evince dalle zone materiche che ricoprono la pittura sottostante alternate a raschiature. Dalla riflettografia in retroilluminazione, si è visto che nella parte del corpo di Torquato Tasso, la tela sembra essere stata lavata nel tentativo di cancellare i pigmenti, di cui rimane traccia solo in alcuni piccoli punti, pigmenti che non evidenziano sperimentazioni ecla-
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si sente in loro» 7 . Più di dieci anni prima, Previati è impegnato in una ricerca solitaria e coraggiosa, affrontata dipingendo quadri di storia contemporanea in una significativa evoluzione del linguaggio pittorico, con tonalità cupe, quasi monocromatiche e una fattura sommaria dalle pennellate, che contribuiscono ad evidenziare la sofferenza dei protagonisti prescelti. Passa infatti dal Tasso a soggetti estrapolati dalla storia contemporanea privi di magnificenza e ispirati a momenti di cronaca amara e disincantata: Carlo Alberto ad Oporto (1884, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), pone al centro della scena il senso di vuoto e di morte del sovrano esiliato, Dopo Novara (1884, Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi) raffigura il ritiro del re sabaudo dal campo di battaglia prima dell’abdicazione in favore del figlio Vittorio Emanuele II, mentre Tiremm inanz (1886) si ispira alle parole pronunciate sulla strada verso il patibolo dal patriota Amatore Sciesa, che si sacrifica per i compagni. I momenti scelti da Previati, tra i più toccanti delle vicende legate alla lotta per l’indipendenza, rispecchiano sicuramente una sofferenza personale dovuta in parte a un malessere fisico, causa di un forzato allontanamento da Milano dopo il compimento del Torquato Tasso, ma rimandano soprattutto al tormento interiore dell’artista in un periodo in cui la sua arte risultava incompresa e rifiutata, sofferenza e pathos che lo accompagneranno nella sua fuga e proiezione verso l’ideale, caratteristica della sua maturità artistica.
se riporta una descrizione pertinente alla tela che vediamo oggi. Difficile supporre, quindi, che esista una seconda versione, totalmente ignorata dalle fonti, della morte di Tasso. Anche dall’archivio fotografico degli eredi Previati, già citato, è emersa la presenza della lastra solamente di un altro soggetto: Torquato Tasso alla corte di Ferrara, opera esposta alla mostra Gaetano Previati. Vent’anni in Liguria (1901-1920) con il titolo generico Un pittore del ‘500 mostra a un sovrano e alla sua corte le sue opere (n. 24), eseguita successivamente alla nostra e di dimensioni più contenute. La superficie pittorica grumosa e ruvida, con il disegno sopraffatto dal colore steso con pennellate ampie rientra nelle caratteristiche di una nuova pittura, slegata dalle indicazioni accademiche, una pittura sincera, spontanea. Non dimentichiamo, a questo proposito, il punto di vista di Previati, riguardo la formazione dei nuovi artisti illustrato al fratello Beppe in una lettera del 13 febbraio 1891 prodiga di consigli rivolti a un certo signor Sani: «[…] non si lasci trascinare nelle grinfie dell’accademia […], rifugga sempre da tutto ciò che assume l’aspetto di metodo di sistema […]. Guardi osservi per proprio conto […]. A me pare che […] non resti più […] che osservare nelle esposizioni quelle opere che più rispondono alla natura del loro temperamento e cercare se nel vero trovino analogia di impressioni, ma meglio di tutto è che si abbandonino allo studio del vero incondizionato, senza alcuna prevenzione teorica senza specialmente la fregola di parer bravi facciano tutto quello che vedono e che li colpisce e commuove, proprio come il loro istinto e il loro occhio glielo mostra questo benedetto vero che è l’unica sorgente dell’arte. L’esercizio lo studio e la conoscenza della vita faranno il resto sicuramente perché è dimostrato anche agli orbi che l’arte non è che lo studio per rifare ciò che ha fatto un altro ma semplicemente il bisogno di dire e fare ciò che
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1 P. Levi L’Italico, Domenico Morelli nella vita e nell’arte, Casa
editrice nazionale Roux e Viarengo, Roma – Torino 1906, pp. 236-237. 2 L’Esposizione di Torino. Il Re fra gli artisti, in Corriere della Sera, 28 aprile 1880, pp. 1-2. 3 G. Manso, Vita di Torquato Tasso, Tipografia di Alvisopoli, Venezia 1825, p. 186. 4 F. Filippi, Le Belle Arti a Torino, 1880. Lettere sulla IV Esposizione Nazionale, Giuseppe Ottino Editore, Milano 1880, pp. 88-89. 5 F. Mazzocca, La fortuna di Previati tra pittura storica, simbolismo e Novecento, in Gaetano Previati 1852-1920, Un protagonista del simbolismo europeo, catalogo della mostra, a cura di F. Mazzocca, Palazzo Reale, Milano, 8 aprile – 29 agosto 1999, Electa, Milano 1999, p. 21. 6 Le ricerche in questa sede riguardo l’acquisizione del dipinto non hanno prodotto alcun risultato. Le famiglie Cavalieri e Ottolenghi, entrambe di origine ebraica e radicate in diverse città italiane, vantano diversi personaggi di spicco nella politica e nella cultura nazionali, impegnati anche in importanti opere di beneficenza. E’ possibile che il quadro sia stato acquisito dall’onorevole ferrarese Adolfo Cavalieri, proprietario anche di Una pia donzella ai tempi di Alarico, dipinto compiuto da Previati nel 1879 per il concorso triennale riservato agli allievi dell’Accademia di Brera. L’ultima proprietaria, Annetta Cavalieri (18891958), era figlia del capitano Enea (1848-1929), originario di Ferrara, ed era particolarmente legata a Fanny Finzi (18321919), nobildonna di origini mantovane e moglie di Salvatore Ottolenghi di Asti (1831-1895), senatore del Regno d’Italia dal 1891. 7 G. Previati, Lettere al fratello, a cura di S. Asciamprener, Editore Ulrico Hoepli, Milano 1946, pp. 51-52.
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Esposizioni Esposizione di Belle Arti, Brera, 1880, Sala delle opere presentate al concorso del premio Fumagalli, opera n. 50 Esposizione Promotrice di Genova 1881, Sala 4 opera n. 163 Bibliografia R. Accademia di Belle Arti di Milano, Esposizione 1880, Catalogo ufficiale, Tipografia Alessandro Lombardi, Milano 1880, p. 9 Athos, R. Accademia di belle arti in Milano. Esposizione 1880, II, in La Lombardia, 8 settembre 1880 L. Chirtani, Esposizione di Belle Arti a Brera, I, Giovani artisti e concorrenti minori, in Corriere della Sera, 14-15 settembre 1880 C. Romussi, A Brera, II, in Il Secolo, 15-16 settembre 1880 A. Bazzero, Nel Palazzo di Brera. Note col lapis, IV, in Il Pungolo 16-17 settembre 1880 Esposizione 30. anno 1881. Catalogo degli oggetti d’arte ammessi, Società promotrice di belle arti in Genova, Tipografia Gaetano Schenone, Genova 1881 Tizio, Belle Arti. III Esposizione della Società Promotrice, in Corriere Mercantile, 16 novembre 1881 D. Tumiati, Artisti contemporanei: Gaetano Previati, in Emporium, vol. XIII, n. 73, gennaio 1901, p. 8 N. Barbantini, Gaetano Previati, Casa Editrice d’Arte Bestetti & Tumminelli, Roma - Milano 1919, p. 27 A. Previati, Gaetano Previati nelle memorie del figlio, a cura di A. P. Torresi, Liberty House, Ferrara 1993, pp. 65-66 F. Mazzocca, La fortuna di Previati tra pittura storica, simbolismo e Novecento, in Gaetano Previati 1852-1920, Un protagonista del simbolismo europeo, catalogo della mostra, a cura di F. Mazzocca, Palazzo Reale, Milano, 8 aprile – 29 agosto 1999, Electa, Milano 1999, pp. 22-23 F. Tedeschi, Gaetano Previati: formazione a attività predivisionista, in Gaetano Previati 1852-1920, Un protagonista del simbolismo europeo, catalogo della mostra, a cura di F. Mazzocca, Palazzo Reale, Milano, 8 aprile – 29 agosto 1999, Electa, Milano 1999, p. 33 Il Palazzo dell’Università di Torino e le sue collezioni, a cura di A. Quazza, G. Romano, Fondazione CRT, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 2004, p. 213 (ill.) Fonti archivistiche G. Previati, appunti manoscritti, Archivio Previati, Chiavari A. Previati, manoscritto sulla vita del padre, 1937, p. 42, Archivio Previati, Chiavari
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Gaetano Previati (Ferrara, 1852 – Lavagna, 1920), Torquato Tasso, 1880 Olio su tela, 150 x 266 cm Firmato in basso a sinistra G. Previati Orbassano, Università di Torino, Facoltà di Medicina, Segreteria del Dipartimento di Scienze Biologiche e Cliniche Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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IR generale 1700 nm del Torquato Tasso
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Le perle di Giovanni Battista Crosato
di Stupinigi e di Villa della Regina, spesso in collaborazione con il pittore ferrarese Girolamo Mengozzi Colonna, eccellente maestro di quadrature e architetture a trompe l’oeil. Crosato divenne così a tutti gli effetti uno dei “pittori di casa Savoia”, come lo definirà lo studioso Giuseppe Fiocco nel titolo della prima monografia moderna a lui dedicata7. Incoraggiato da un’immediata popolarità che, evidentemente, potè tradursi fin da subito in commissioni di opere da camera, anche negli anni torinesi in cui era più assorbito dal lavoro dei grandi cicli di affresco, Crosato non abbandonò la pittura ad olio su tela, alternando tradizionali iconografie religiose a soggetti mitologici analoghi a quelli dei cicli che andava realizzando nei cantieri di corte. Com’era normale consuetudine, possiamo pensare che la pittura a cavalletto diventasse impegno preminente e utile soprattutto nei mesi in cui le condizioni climatiche rendevano troppo ardua la pratica dell’affresco: le rigide temperature di certi inverni torinesi avevano certamente l’effetto di rallentare i cantieri, gelando l’acqua destinata a miscelare le malte e i pigmenti, così come le dita dei pur temprati decoratori. Al contrario la pittura su tela poteva essere portata avanti nelle più confortevoli condizioni della bottega e diventava un modo per incrementare le entrate, farsi conoscere e guadagnare nuovi estimatori. Rientra in quest’ambito, con ogni probabilità, la genesi della tela oggi nelle collezioni dell’Università di Torino, avente a soggetto un episodio leggendario degli amori di Antonio e Cleopatra. La tela, di impostazione orizzontale8 e dominata da un potente effetto chiaroscurale, raffigura i due personaggi a mezzo busto, vestiti in maniera opulenta9 e legati da un gioco di intensi sguardi reciproci. Antonio sorregge una coppa che intuiamo essere appena stata sollevata dal vassoio del giovane paggio di colore in primo piano, ritratto in scorcio e in ombra. Cleopatra
Suggestioni pittoriche nel Rococò tra Veneto e Piemonte FILIPPO TIMO
Trevigiano di nascita, Giovanni Battista Crosato, come le pur esigue fonti sui suoi anni giovanili ci indicano, compì la propria formazione a Venezia e si sentì sin da subito “pittore veneziano”, ma fu a Torino che ottenne le grandi commissioni e i più alti riconoscimenti, affermandosi come maestro della pittura a fresco nei cantieri reali del tempo. Nato quasi certamente nel 16971, era coetaneo di altri due pittori della Serenissima, che furono i più celebrati interpreti del Settecento veneziano: Giambattista Tiepolo2 e Canaletto3. Col primo in particolare, Crosato istituì un dialogo artistico destinato a durare tutta la vita4: dialogo che spesso la critica vide come a senso unico, limitando il ruolo del pittore meno blasonato quasi a quello di epigono, mentre gli studi più recenti permettono di apprezzare meglio Crosato5 e anche in questo saggio si formuleranno ipotesi di un dialogo a doppio senso. Giunto nella città sabauda non ancora quarantenne, ottenne dapprima piccole commissioni per Palazzo Reale e poi per le scenografie del Teatro Regio, distinguendosi e comparendo presto in alcuni documenti amministrativi - recentemente scoperti in archivio - citato come esempio e riferimento di abilità6, anche se non direttamente ingaggiato per quella commissione. Forse proprio grazie al suo lavoro di pittore scenografo al Regio fu notato, fra gli altri, da Filippo Juvarra. Fu questo l’inizio del fortunato e lungo periodo che vide Crosato protagonista delle decorazioni a fresco della Palazzina di Caccia
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Giovanni Battista Crosato (Venezia, 1697 – Venezia, 1758) Antonio e Cleopatra olio su tela cm 93,5x107 Salone del Rettorato Eredità Marangoni, particolare.
protende la mano destra verso la coppa nell’atto di immergervi una perla montata su di un orecchino, identico a quello che indossa sull’orecchio sinistro visibile allo spettatore. Sta per sciogliere la perla nella coppa, che è colma di aceto, con l’intento di berla. La regina aveva infatti scommesso che avrebbe speso in una sola cena il valore del gioiello più prezioso al mondo. Sciogliendo e bevendo quell’orecchino di perla, vince la scommessa e viene fermata prima di sciogliere e bere anche il secondo. La vicenda è narrata da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (libro 9, paragrafo 121), ove si legge: «Gerebat auribus cum maxime singulare illud et vere unicum naturae opus. Itaque expectante Antonio, quidnam esset actura, detractum alterum mersit ac liquefactum obsorbuit. Iniecit alteri manum L. Plancus, iudex sponsionis eius, eum quoque parante simili modo absumere, victumque Antonium pronuntiavit omine rato.
Comitatur fama unionis eius parem, capta illa tantae quaestionis victrice regina, dissectum, ut esset in utrisque Veneris auribus Romae in Pantheo dimidia eorum cena»10. Grazie al suo inserimento in un’opera nota e importante come la Naturalis Historia, questo episodio, di matrice evidentemente leggendaria, doveva godere di una certa popolarità, ma di sicuro non rientrava fra i soggetti abitualmente praticati in pittura, né in quel preciso novero di anni né prima. La scelta di questo tema, dunque, non può essere vista come casuale o tradizionale, ma è invece individuale, voluta e significativa: rappresenta un’uscita dal contesto iconografico abituale verso un soggetto insolito e ricercato che, evidentemente, deve avere per l’artista un significato particolare. La leggenda di Cleopatra che celebra la propria ricchezza e lo sfarzo assoluto dei propri costumi “bevendosi” letteralmente il gioiello più prezioso al mondo, percepita nella sua dimensione più ludica e lieve, era certamente in linea coi gusti delle grandi corti del primo Settecento. La raffigurazione di un banchetto opulento, una regina dagli abiti ingioiellati, un patrizio soldato della lucida armatura, servitori in vesti sgargianti pronti ad assecondare ogni bizzarra richiesta dei signori: erano tessere di un mosaico perfetto per l’estetica rococò che la corte sabauda vedeva nascere in Francia facendola rapidamente sua. Ma per Crosato non è tutto qui: quel soggetto pare essere ancora più iconico. Lo si intuisce nel modo in cui veste la sua Cleopatra e soprattutto osservando l’intero suo corpus di opere. La protagonista di quella storia è una perla eccezionale, e le perle per Crosato paiono suscitare un interesse particolare, poiché le sue opere ne sono letteralmente invase, ben oltre quel che possa essere lecito considerare casuale e normale. Per tutti i secoli dell’età antica, nel secolo del Crosato e oltre - ovvero finché non si comprese il metodo per coltivarle allevando
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punto di luce all’interno della composizione, a chi vi attribuisce un valore simbolico e oltre. In ogni caso, l’orecchino di perla resta una presenza centrale ma discreta, ben lontana dal tripudio di perle del Crosato. Venendo al tempo del nostro pittore, l’unica figura che è forse opportuno ricordare a proposito di perle è Rosalba Carriera, veneziana ma anche autenticamente europea, interprete importante della ritrattistica del primo Settecento e creatrice di un’estetica del ritratto femminile che ebbe fortuna vastissima nel tempo e nello spazio. Nei suoi lavori le perle compaiono spesso, protagoniste di gioielli più complessi oppure come semplici pendenti all’orecchio, elette a punto di luce con un virtuosismo tecnico che l’uso del pastello rendeva ancora più significativo16. Ma ancora, siamo lontani dall’uso che delle perle fece il Crosato. Indagando fra i pittori e le opere che certamente agirono da modello diretto per il nostro artista, con un occhio particolare all’eventuale presenza di perle, va ricordato il Mosè salvato dalle acque dipinto in età matura, attorno al 1580, da Paolo Veronese17. Sapendo come le opere del Caliari abbiano influenzato la pittura veneta dei due secoli successivi, anche agendo da modello per Tiepolo e la pittura rococò nella definizione dei costumi e delle ambientazioni, questo dipinto non può essere dimenticato18. Interessante notare come la figlia del faraone che salva il neonato dalle acque del Nilo - ovviamente abbigliata con abiti regali del XVI secolo italiano anziché dell’antico Egitto - porti un diadema, un girocollo e una spilla fra i seni tutti di perle, ed anche una dama del suo seguito ha fili di perle intrecciati all’acconciatura. Gioielli simili compaiono qua e là anche sulle dame del capolavoro del Veronese: le Nozze di Cana dipinte per il refettorio benedettino di Andrea Palladio sull’Isola di San Giorgio19, ma decisamente si perdono nell’eccezionale complessità e vastità della tela. Per quanto lacunoso e sommario, questo breve
le ostriche e nucleandole artificialmente - le perle erano rarissime e preziose forse più dei diamanti. E com’erano rare in natura, così lo erano in pittura: un tripudio di perle come quello messo in scena dal Crosato nella sua produzione di soggetti pagani è davvero caso unico ed eccezionale. Guardando alla storia dell’arte precedente, un’amante delle perle è certamente l’Eleonora di Toledo ritratta insieme al figlio Giovanni dal Bronzino nel 154411, che sfoggia una parure completa: cuffia, orecchini a pendente, collier, collana maggiore, tutto indossato su di un abito eccezionale - vero esercizio di stile del pittore, divenuto giustamente celebre - a sua volta arricchito da perle nella trama coprispalle e nella nappina della cintura. Ma, come anticipato, il ritratto di Eleonora resta un unicum e nel resto della produzione di Bronzino le perle non compaiono che in qualche semplice girocollo o diadema, come già in diversi pittori del Rinascimento. Nel secolo successivo sembra avere un interesse più spiccato verso le perle Rembrandt, che fa indossare orecchini di quel materiale a più di una delle sue dame e persino al Nobiluomo Polacco protagonista di un ritratto del 1637 12, a testimonianza di una moda maschile che evidentemente non doveva essere solo invenzione dell’artista. Pochi anni dopo lo stesso interesse si ritrova in Jan Vermeer: al di là della Ragazza col turbante13 del 1665, dipinto divenuto celeberrimo negli ultimi vent’anni anche grazie a letteratura e cinema col titolo La ragazza con l’orecchino di perla14, nella produzione del pittore di Delft le perle vanno a soggetto nell’altro capolavoro La pesatrice di perle15 del 1664, mentre l’orecchino è un attributo molto ricorrente in tutta la sua ritrattistica femminile. Sul significato di questo attributo per Vermeer, in particolare nel capolavoro dell’Aia, si è scritto molto: da chi lo considera mero espediente tecnico per creare un
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spalle, disegnano festoni sul petto e sulle braccia. Grandi perle solitarie ornano i copricapo al centro, mentre perle più piccole montate in filo si intrecciano ai capelli in giri multipli legando diademi e pendenti. In opere come il Ritrovamento di Mosè, in tutte le versioni note23, le perle connotano le figure più nobili e di alto rango, ma si ritrovano anche negli abiti delle dame di compagnia e delle ancelle, come nel modello veronesiano. Veri e propri gioielli e non inserti di abiti sono quelli della Giuditta con la testa di Oloferne del Museo del Territorio Biellese24, dove l’eroina biblica indossa due bracciali di perle, orecchini e coroncina con pendenti. Nelle figure femminili del ciclo di affreschi Apollo illumina i continenti di Ca’ Rezzonico a Venezia25 tornano gioielli simili a quelli già descritti e torna anche il motivo delle perle attorno alla manica degli abiti. Ve ne sono moltissime nella mise di una Sofonisba sempre a Ca’ Rezzonico26, FOTO e in quella di una Lucrezia romana27 oggi in collezione privata, che indossa orecchini a pendente unico e fili di perle intrecciati ai capelli. Sono adorne di perle anche la regina di Saba e le giovani donne della sua corte in Salomone e la regina di Saba28. Inoltre qui, fra i doni offerti dalla regina a Salomone, compare un grande catino a foggia di conchiglia ricolmo di perle, retto a braccia da un servitore in primo piano. Dal bordo pende una collana come rimasta impigliata, mentre molte altre sono al suo interno ben visibili e riconoscibili per lo spettatore, benché il testo biblico, in questo passo preciso a tal punto da indicare le essenze di certi legni, non parli mai di perle ma di pietre preziose29. In questo dipinto persino la corona di Salomone è tempestata da gemme che, piuttosto che di pietre dure, hanno l’aspetto delle perle. Ancora un tripudio di perle si trova nei costumi dei personaggi mitologici protagonisti dei caroselli e dei trionfi raffigurati negli affreschi di Villa
excursus valga a mostrare come non esistano precedenti, nella storia della pittura italiana, di una presenza delle perle tanto massiccia quanto lo è nell’opera di Giovanni Battista Crosato. Passando in rassegna il catalogo dei suoi lavori si potrà comprendere meglio le proporzioni di tale presenza. Già nelle sue primissime opere, come l’Allegoria della pittura e l’Allegoria della scultura20, le figure femminili che incarnano le due arti fanno copioso sfoggio di perle. La Pittura indossa orecchini con un pendente a singola perla e un copricapo in stoffa, assicurato da una sorta di cerchietto, sul quale si incrociano almeno due fili di perle. La Scultura non indossa orecchini ma ha un diadema perlato sulla fronte, con una perla più grande al centro di un filo sottile che sembra scendere dal lato sinistro della testa sin sul collo, mentre di perle sono arricchiti anche i risvolti delle maniche corte della veste e la parte posteriore del copricapo. Assenti nei pochi oli su tela di tema sacro compiuti negli anni giovanili, le perle ricompaiono alla prima occasione di tema pagano negli affreschi di Ca’ Pesaro a Venezia. Fanno sfoggio di questi gioielli l’Allegoria della vigilanza e l’Allegoria della nobiltà21: due grandi perle adornano il centro del copricapo scendendo sulla fronte delle figure, completando un costume dagli evidenti echi orientali e di una modernità possibili solo in una città come Venezia. A Torino troviamo subito le perle negli affreschi della Camera del trucco di Villa della Regina, presenti in modo discreto nelle acconciature delle figure femminile delle scene di Teti e del Ratto di Europa22. Da questa altezza cronologica in poi, nel Crosato la presenza delle perle diventa davvero dilagante. Ne sono pieni gli abiti e le acconciature di tutte le figure femminili mitologiche, allegoriche, di storia pagana e persino alcune di derivazione veterotestamentaria. Fili, anzi cordoni di perle chiudono le vesti sui seni, scendono dalle
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vestire la protagonista di un attributo che possa distinguerla e identificarla come tale, e questa funzione è assolta dalle perle. A lei e solo a lei è concesso un diadema, in parte nascosto dall’inquadratura di scorcio dal basso ma comunque visibile per quel filo di perle che scende accanto all’orecchio, parallelo alle elegantissime linee del collo. Dunque, ancora una volta, le perle giocano un ruolo centrale, in questo caso non per quantità ma per qualità. Ma ad una rinuncia da una parte corrisponde una licenza dall’altra, e così l’osservatore attento, passeggiando per le sale di Stupinigi, noterà che persino la giovane donna della Coppia di Cacciatori negli affreschi della stanza dei Buf-
Maruzzi, già Villa Marcello, di Levada, Padova30. Questa particolare predilezione del Crosato per le perle si mantiene per tutta la carriera, sino agli anni cinquanta inoltrati, cui risale ad esempio l’ultima redazione del Ritrovamento di Mosè31. Qui la figlia del faraone indossa un bustino con festoni di fili di perle e ha altri fili intrecciati ai capelli, in una tale quantità che quasi il suo gesto sembra impacciato dal peso eccessivo delle perle, come se la scena che si realizza nella mimesi avesse conquistato autonomia di realtà e la protagonista, gravata da un costume così ridondante, non avesse potuto evitare di apparire goffa e pesante. Per finire questa rassegna, non possiamo dimenticare l’opera che è considerata il capolavoro di Giovanni Battista Crosato, il grande affresco del Sacrificio di Ifigenia che adorna l’anticamera della Regina alla Palazzina di Caccia di Stupinigi32. Anche qui compaiono le perle, ma riservate alla sola eroina di Euripide: questa scelta, che in prima battuta potrebbe apparire in controtendenza con il consueto tripudio di perle messo in scena da Crosato, in realtà risponde ad una logica ben precisa. Il Sacrificio di Ifigenia è il più importante brano a fresco dipinto dall’artista, peraltro senza una quadratura di cornici e false architetture a dividere e razionalizzare gli spazi guidando la mano dell’artista e l’occhio dello spettatore. La volta dell’anticamera della Regina nasce come un grande palcoscenico vuoto la cui gestione resta interamente affidata alla scena del Sacrificio: così il pittore immagina un orizzonte di terre e acque che corre lungo il cornicione perimetrale e da questo innalza le scenografie e i personaggi verso il centro della scena, organizzandoli in molteplici gruppi a struttura piramidale. Questa organizzazione dello spazio crea diversi punti focali e una molteplicità di scene quasi equipollenti, fra le quali non è immediato comprendere quale sia la scena “dominante”. Così, evidentemente, l’artista sente il bisogno di
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Giovanni Battista Crosato (Venezia, 1697 – Venezia, 1758) Antonio e Cleopatra olio su tela cm 93,5x107 Salone del Rettorato Eredità Marangoni, particolare.
corte delle grandi monarchie assolute del Settecento, ma insieme divora la propria ricchezza scegliendo una via che porta alla sventura. E se non è lecito pensare che Crosato possa intuire già quel che sarebbe accaduto a Parigi trent’anni dopo la sua morte, è però verosimile che percepisca l’effimera transitorietà dei fasti delle corti del suo tempo. Tutto questo fa dell’Antonio e Cleopatra - che forse sarebbe preferibile identificare col titolo Le perle di Cleopatra - un’opera chiave della produzione del Crosato, seppure questo valore sia dissimulato e nascosto, anzi disseminato in una miriade di indizi che sono le onnipresenti perle. A riprova dell’importanza e del valore di quest’opera e del suo soggetto sarà interessante notare come proprio lo stesso tema viene ripreso dal Tiepolo in una serie di lavori databili a poco più di cinque anni più tardi rispetto alla tela del Crosato, che risale alla seconda metà degli anni ‘30. Tiepolo sviluppa vari bozzetti e studi del suo Banchetto di Cleopatra nei primi anni ‘40 per poi realizzarne tre versioni monumentali: la prima è un olio su tela oggi a Melburne34 documentato dal 1744, la seconda è un affresco realizzato a Palazzo Labia a Venezia a partire dal 1747, il terzo è un altro olio conservato all’Arkhangelskoye Palace, presso Mosca, insieme alla tela di pendant L’incontro di Antonio e Cleopatra35. Al cantiere di Palazzo Labia Tiepolo lavora a contatto con Gerolamo Mengozzi Colonna, il maestro quadraturista che a Torino aveva legato la miglior parte del proprio lavoro al Crosato, e già solo questo elemento potrebbe farci pensare come si era anticipato in apertura di saggio - ad uno scambio di influenze fra Tiepolo e Crosato per il Banchetto di Cleopatra, col Tiepolo, questa volta, a trarre ispirazione dal lavoro di Crosato. In ogni caso, la tela di Torino resta una prova di alto interesse storico-critico, oltre che di eccellente qualità esecutiva, certamente ascrivibile fra le opere da cavalletto più interessanti dell’intero catalogo di Giovanni Battista Crosato.
fetti33, pur indossando calzari alti come stivali e un’abito da amazzone, non si fa mancare due bellissimi orecchini di perla che le illuminano il volto mentre guida il cane alla caccia. In conclusione possiamo ben dire che le perle attraversano tutta la produzione artistica di Corsato con una presenza a tratti incontenibile, capace di collegare trasversalmente personaggi della mitologia, della storia e delle sacre scritture trascinandoli tutti fra gli sfarzi del bel mondo delle corti settecentesche. Con la sua intrinseca natura di unità, singola e finita, semplice ma perfetta, la perla rappresenta una tessera adeguatissima al linguaggio estetico del mosaico rococò. Ma l’uso che Crosato ne fa è tale da indurci a cercare un significato ulteriore, o meglio da autorizzarci a immaginare che le sia attribuito anche un valore semantico: non solo forma, ma anche significato. E allora la perla può diventare in qualche modo simbolo di ciò che è prezioso e raro. Possiede la forma più perfetta che esista in natura - quella della sfera - ed è attributo di regine ed eroine: l’artista ne fa, forse inconsapevolmente, il simbolo del mondo che vuole rappresentare. Sulla scorta di queste riflessioni, è chiaro come l’opera di Torino, l’Antonio e Cleopatra, assuma un valore iconico. Con essa Crosato mette a tema, anzi rende protagonista della composizione quella perla che ha riprodotto e riprodurrà in quasi tutti i dipinti della propria carriera. L’episodio della Naturalis Historia sceglie la perla come l’oggetto più prezioso al mondo e racconta il modo strabiliante in cui la regina più celebrata dell’antichità decidette di usarla. Quella maniera così fisica ed estrema di possederla - scioglierla e berla, per dimostrare la propria ricchezza ma anche per “consumare” egoisticamente un bene che altrimenti sarebbe rimasto al mondo e ai posteri - è colma di risvolti psicologici dalle molte possibili interpretazioni che evidentemente Crosato percepiva come presenti e attuali. Cleopatra dimostra il proprio potere in un edonismo sconfinato che ben s’accorda al gusto di
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da scartare l’ipotesi che lo voleva nato nel 1686, scaturita da un necrologio impreciso e ripresa dalla monografia di Giuseppe Fiocco, Giambattista Crosato: pittore di Casa Savoia, Venezia, Le Tre Venezie, 1941, e dalla voce Crosato Giovanni Battista di Francesca D’Arcais in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, Volume 31, 1985. Si veda invece Denis Ton, Giambattista Crosato: pittore del Rococò europeo, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Verona, Scripta, 2012, pag. 21. 2 Giambattista Tièpolo, Venezia 1696 - Madrid 1770. 3 Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto, Venezia, 1697 – ivi, 1768. 4 Crosato si spegnerà a Venezia nel 1758. 5 Fondamentale nella comprensione dell’esperienza artistica del Crosato è il lavoro di studio e catalogazione del corpus delle opere compiuto da Denis Ton nel già citato Giambattista Crosato: pittore del Rococò europeo, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Verona, Scripta, 2012. 6 Si veda Ton 2012, pag. 7 Fiocco 1941, citato. 8 L’attuale formato potrebbe essere il frutto di un ridimensionamento della tela originale. In particolare sembra improbabile che l’artista abbia inquadrato la scena tagliando la mano sinistra di Cleopatra come appare oggi: è verosimile che la tela fosse più ampia almeno in corrispondenza del bordo inferiore, e che sia stata ridotta eliminando una porzione forse deteriorata. Gli esami diagnostici dimostrano la presenza di un ampio deterioramento in prossimità del bordo inferiore avvalorando questa ipotesi. 9 Il costume di Antonio, con l’elmo, la corazza e il mantello rosso sulle spalle, cerca una verosimiglianza storica che invece manca del tutto nel costume di Cleopatra. 10 «Si toglieva dalle orecchie proprio quello straordinario e veramente unico tesoro della natura. Quindi, mentre Antonio attendeva cosa lei stesse per fare, lei immerse quella che era stata tolta e, una volta sciolta, la bevve. Lucio Planco, giudice di quella scommessa, pose la mano sull’altra perla, proprio mentre lei si accingeva a ingerirla nello stesso modo, e dichiarò che Antonio era stato vinto, in quanto il pronostico si era realizzato. La fama accompagna la gemella di quella coppia, che, dopo che la regina vincitrice di tale sfida fu catturata, venne tagliata affinchè su entrambe le orecchie di Venere a Roma nel Pantheon ci fosse la metà della loro cena» (traduzione di Massimo Murace). 11 Olio su tavola oggi conservato alla Galleria degli Uffizi, Firenze.
Olio su tavola oggi conservato alla National Gallery of Art, Washington DC. 13 Olio su tela oggi conservato al Mauritshuis, L’Aia, Paesi Bassi. 14 Il dipinto è protagonista del romanzo omonimo di Tracy Chevalier del 1999 e poi del film di Peter Webber del 2003 con Scarlett Johansson e Colin Firth. 15 Olio su tela oggi conservato alla National Gallery of Art, Washington DC. 16 Volendo citare alcuni casi specifici, ricordiamo i ritratti femminili della Gemaldegalerie di Dresda, la Flora della Galleria degli Uffizi, Firenze, e la Diana della National Gallery of Ireland, Dublino. 17 Olio su tela oggi conservato al Museo Nazionale del Prado, Madrid. 18 Il tema stesso del dipinto, Mosè salvato dalle acque, fu ampiamente praticato dal Crosato. 19 Olio su tela oggi al Museo del Louvre, Parigi. 20 Ton 2012, cat. n. 1, pag 177 e seguenti. 21 Ton 2012, cat. n. 8. 22 Ton 2012, cat. n. 11. 23 Il ritrovamento di Mosè è un soggetto che l’artista ha praticato più volte declinandolo in opere differenti. Si ricordi qui: l’olio su tela cm 234 x 324, collezione privata di Milano, Ton 2012, cat. n. 22; l’olio su tela cm 160 x 121, Mosca museo Pushkin, Ton 2012, cat. n. 23; l’olio su tela cm 72,5 x 108,5, Torino Palazzo Madama, Ton 2012, cat. n. 24. Inoltre una versione più matura, olio su tela cm 65 x 95 oggi in collezione privata a New York, Ton 2012, cat. n. 73. 24 Olio su tela 57 x 108, Ton 2012, cat. n. 32. 25 Affreschi del salone, Ton 2012, cat. n. 65. 26 Olio su tela cm 218 x 128, Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano, Ton 2012, cat. n. 46. 27 Olio su tela cm 59 x 47, collezione privata, Ton 2012, cat. n. 47. 28 Olio su tela cm 88 x 90,5, collezione privata, Ton 2012, cat. n. 54. 29 Libro dei Re, I, 10, 1-13; Cronache, II, 9, 1-12. 30 Ton 2012, cat. n. 70. 31 Olio su tela cm 65 x 95, New York mercato antiquario, Ton 2012, cat. n. 73. 32 Ton 2012, cat. n. 12. 33 Ton 2012, cat. n. 12. 34 National Gallery of Victoria in Melbourne, Australia. 35 Arkhangelskoye Palace, Krasnogorsky District, Moscow Oblast. 12
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Caravaggesco nordico Profeta inizio XVII secolo olio su tela cm 116x104,3 Ufficio del Rettore acquisto dell’Università nel 1952 2
Seguace di Aniello Falcone XVII secolo Suicidio di Seneca olio su tela cm 230x135 Palazzo del Rettorato dono dell’Istituto Bancario San Paolo
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Pittore di ambito romano metà XVII secolo Scena di battaglia olio su tela cm 108,4x131,8 Salone del Rettorato Eredità Marangoni
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Pittore di ambito romano metà XVII secolo Scena di battaglia olio su tela cm 107x132 Palazzo del Rettorato Eredità Marangoni
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Già attribuito alla cerchia di Carlo Dolci seconda metà XVII secolo Davide e Abigail olio su tela cm 144x197 Salone del Rettorato acquisto dell’Università nel 1952
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Cerchia di Luigi Crespi XVIII secolo Ritratto di suonatore di fagotto olio su tela cm 86x68 Ufficio ex presidenza FacoltĂ Scienza della Formazione
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Pittore di ambito lombardo seconda metà XIX secolo Studi di due teste di ovini olio su tela, cm 40x30 Dipartimento Scienze biologhiche e cliniche - Orbassano Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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Annetta Vita Finzi Ritratto di donna con occhiali in mano 1865, olio su tela cm 50x40 Dipartimento Scienze biologhiche e cliniche - Orbassano Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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Michelangelo Pittatore (Asti, 1825 – Asti, 1903) Ritratto di signora con fazzoletto 1867, olio su tela cm 147x107,5 Presidenza Lingue e Letterature Straniere
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Angelo dall’Oca Bianca (Verona, 1858 – Verona, 1942) Donna con scialle in una strada d’inverno olio su tavola, cm 33,8x18,6 Ufficio del Rettore Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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Leopoldo Galeota (Napoli, 1868 – Quinto al Mare, 1938) Porto di Baia a Napoli olio su tavola cm 30x40,2 Ufficio del Rettore Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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Marco Calderini (Torino, 1850 - 1941) A Varigotti 1927, olio su cartone cm 22,7x36,5 Ufficio del Rettore Eredità Girardi
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Marco Calderini (Torino, 1850 - 1941) Bosco di betulle 1870,olio su cartone cm 27x35,5 Ufficio del Prorettore EreditĂ Girardi 14
Marco Calderini (Torino, 1850 - 1941) Paesaggio alpino con mucche olio su cartone cm 28,5x39 Ufficio del Prorettore EreditĂ Girardi
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Marco Calderini (Torino, 1850 - 1941) Bosco con prato in pendio 1936 olio su cartoncino cm 27,5x36,5 Segreteria del Rettorato
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Marco Calderini (Torino, 1850 - 1941) Varigotti - Barca a remi 1927 olio su tavola cm 30x38 Ufficio del Rettore EreditĂ Girardi
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Marco Calderini (Torino, 1850 - 1941) Paesaggio boschivo di castagni 1931 olio su cartone cm 40x48,8 Ufficio del Prorettore EreditĂ Girardi
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Lorenzo Delleani (Pollone, 1840 – Torino, 1908) Sulla spiaggia (Lido di Venezia) 1887 olio su tavola, cm 31,3x44,7 Ufficio del Rettore Eredità Cavalieri-Ottolenghi
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Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, 1859 – La Loggia, 1933) Lago alpino olio su tavola cm 16,6x27,5 Segreteria del Rettorato Eredità Girardi
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Giuseppe Sobrile (Torino, 1879 - Forno Alpi Graie, 1956) Studio di pittore olio su tavola cm 14x20 Ufficio del Rettore
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Ludovico Cavaleri (Milano, 1867 â&#x20AC;&#x201C; Cuvio, 1942) Campagna romana (Monte Mario) 1929 olio su cartoncino cm 17,5x17,5 Ufficio del Rettore EreditĂ Cavalieri-Ottolenghi
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Richard Geiger (Ungheria, 1870 1945) Pierrot e Colombina olio su tela cm 98,5x75 Ufficio ex presidenza FacoltĂ Scienza della Formazione
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Biblioteca Storica di Ateneo Arturo Graf
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La Biblioteca Storica di Ateneo “Arturo Graf”: cenni storici e nuova identità
aggiunse con le Costituzioni di Sua Maestà, pubblicate nel 1723 e successivamente nel 1729, l’obbligo per gli stampatori del Regno di depositarvi le opere da loro pubblicate.
A N N A L I S A R I C U P E R AT I
Con il Regio Decreto del 20 gennaio 1876 la Biblioteca Universitaria ha assunto il ruolo, unica tra le biblioteche accademiche italiane, di Biblioteca Nazionale. Purtroppo parte del prezioso patrimonio è andato perduto a seguito dell’incendio del 1904.
Cenni storici Il Palazzo dell’Università voluto da Vittorio Amedeo II ha ospitato fin dalla propria inaugurazione, nel 1720, “un’ampia e scelta Biblioteca per commodo sì delli studenti, che del pubblico” (Regia Costituzione, 25 ottobre 1720), centro di raccolta di un patrimonio librario multidisciplinare e di preziosissimi fondi manoscritti: alla Libreria Ducale, alla Libreria Civica, alla raccolta della Regia Università si
Dopo il trasferimento della Biblioteca Nazionale Universitaria nell’attuale sede di piazza Carlo Alberto, avvenuto nel 1973, ha accolto la collezione della Biblioteca della Scuola di Magistero della Facoltà di Lettere e Filosofia, poi Biblioteca Centrale della medesima Facoltà. La Biblioteca di Lettere e Filosofia dalla sua costituzione ha accompagnato la vita della Facoltà, seguendo il formarsi e il consolidarsi di scuole e tradizioni e il sorgere di nuovi indirizzi di studio e ricerca. L’opera di promozione culturale dei direttori che si sono succeduti ha reso possibile l’acquisto di importanti collezioni che hanno costituito la base dell’attuale patrimonio librario, in cui spiccano alcune biblioteche personali. Alcuni di questi nuclei documentari - i libri donati da Carlo Passaglia, Rodolfo Renier, Ernesto Schiaparelli, Ettore Stampini - sono stati assorbiti all’interno del patrimonio della Biblioteca. Altri - le biblioteche di Arturo Graf, Emanuele Artom, Matteo Giulio Bartoli, Vittorio Cian, Pasquale D’Ercole, Arturo Farinelli, Piero Martinetti, Benedetto Parini Chirio, Annibale Pastore, Augusto Rostagni, fra i fondi più antichi, le biblioteche di Paolo Murialdi, Franco Carrata Thomes, Lionello Sozzi, Arnaldo Pizzorusso fra le acquisizioni più recenti - sono stati conservati come nucleo a se stante e hanno mantenuto la loro integrità e identità.
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nio Civile, che dopo i danni causati dai bombardamenti del 1942 ha mirato a riproporre il fascino e la suggestione di questi ambienti, tra le scaffalature e i ballatoi di legno delle sale storiche e i ballatoi su tre e quattro piani delle sale di lettura e studio.
La Biblioteca oggi possiede circa 200.000 libri e 520 testate di periodici, che offrono la più ampia documentazione bibliografica in ogni ramo delle scienze letterarie, storico-filosofiche, filologico-letterarie e storico-artistiche. L’insieme di tali raccolte offre una documentazione ricchissima della produzione italiana dell’Ottocento e del Novecento nei settori della letteratura, della filologia e della linguistica, della storia, della filosofia, dell’arte, del giornalismo e della comunicazione, con significative estensioni anche all’editoria francese, inglese, spagnola e tedesca e con rare prime edizioni e testi del Cinquecento, Seicento e Settecento. L’arredo attuale dei saloni, ultimato nel 195354 dalla ditta Lips Vago, è stato realizzato su un progetto probabilmente elaborato dal Ge-
La nuova identità della Biblioteca Arturo Graf A seguito della riforma dell’organizzazione delle università del 2012, la Biblioteca è stata affidata prima al Dipartimento di Studi Umanistici e successivamente è stato predisposto un progetto biblioteconomico di gestione e valorizzazione della Biblioteca, sottoposto all’approvazione del Consiglio di Amministrazione il 30 giugno 2015, in relazione agli obiettivi derivanti dalla trasformazione della stessa in
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le attività della Biblioteca negli anni più recenti sono state rivolte a costruire una struttura in grado di sfruttare pienamente le proprie potenzialità, in quanto luogo di convergenza di servizi tradizionali e innovativi. Con la rivalutazione degli ambienti e del patrimonio posseduto la Biblioteca Storica di Ateneo Arturo Graf, in una logica di passaggio alla cura dell’insieme senza perdere di vista quella del singolo esemplare, riveste ora un ruolo unico all’interno dell’ateneo per la collocazione geografica, la bellezza del contesto, la ricchezza del materiale bibliografico posseduto che la rendono un polo di attrazione poliedrico. Non solo ha potenziato i propri servizi bibliotecari ampliando l’orario di apertura, incrementando ulteriormente il patrimonio di opere in pubblico dominio digitalizzate e gratuitamente fruibili e investendo risorse nel supporto alle ricerche bibliografiche degli studiosi universitari e non, ma si è aperta al territorio con l’organizzazione di visite guidate, anche in collaborazione con la Regione Piemonte, e la partecipazione ad eventi come la Notte dei Ricercatori, nonché l’allestimento di importanti mostre ed eventi all’interno della sala Athenaeum della Biblioteca.
Biblioteca Storica di Ateneo. Nella prospettiva di un ridisegno dell’identità della biblioteca Arturo Graf l’anima, in senso metaforico e figurato, della Biblioteca è stata individuata nell’orientamento verso un’utenza ampia e diversificata, composta non solo da docenti e studenti, ma anche da semplici cittadini, finalizzando a questi segmenti di pubblico l’offerta documentaria della Biblioteca, la sua struttura, i suoi servizi e le competenze degli operatori in essa impiegati. Sebbene ricca di materiali bibliografici e di arredi storici, muovendoci lungo questa prospettiva di riferimento, la Biblioteca Arturo Graf non si identifica infatti oggi solo come luogo di conservazione, studio, consultazione, ma anche spazio aperto per comunità di interesse non specificamente legate a contesti disciplinari accademici, a cui offrire risorse e servizi documentari di alto livello, espressione di quella “terza missione” dell’Università - ulteriore rispetto alla ricerca e alla didattica - che è finalizzata proprio allo sviluppo culturale, sociale ed economico della società, tramite la comunicazione e la divulgazione della conoscenza in una relazione diretta con il territorio e con i suoi attori. In tale prospettiva pertanto la progettualità e
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Il ripensamento dell’identità della Biblioteca ha avuto come scopo quello di dar vita a un’istituzione che fosse specchio dinamico del proprio contesto di riferimento, e che fosse dunque in grado di valorizzare la propria fisionomia storicamente determinata innestandola consapevolmente nell’ambiente informativo, documentario e comunicativo di cui è parte ed espressione. Per questo si qualifica come una biblioteca nello stesso tempo tradizionale e digitale, luogo di riferimento per le funzioni di conservazione e digitalizzazione del patrimonio bibliografico e di integrazione delle attività e dei servizi delle realtà bibliotecarie accademiche e pubbliche, in un’ottica di estensione dei servizi bibliotecari all’intera città e alla sua area metropolitana.
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