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TALP N 50, giugno 2015 Rivista della Federazione Speleologica Toscana Pubblicazione semestrale Spedizione in A.P. Art.2 Comma 20/c Legge 662/96 Filiale di Lucca 55100 Aut.Trib. Lucca N.499 del 31/05/1989 Direttore Responsabile PAOLO MANDOLI Redazione DANIELE ANTONETTI GIONNI BERNABINI ELEONORA BETTINI LUCA DERAVIGNONE ELENA GIANNINI LUCIA MONTOMOLI SIRIA PANICHI ADRIANO RONCIONI
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SOMMARIO 2
EDITORIALE
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25 ANNI DI TALP
ATTI TOSCANAIPOGEA
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Sabato (interventi brevi)
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giugno
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Primi monitoraggi alla Grotta del Vento (Alpi Apuane). Gli insediamenti rupestri nella contea degli Ottieri, tra Toscana e Lazio. Le esplorazioni al salone del Centenario in Corchia: una nuova via per il Ramo del Fiume. Il primo Corso di Introduzione alla Speleologia svolto in Etiopia. Progetto (geo)salamandra. Progetto ORSO-3D: Operazione Rilievo con Sensore Ottico in 3D. Disabilità e Speleologia: incontrarsi sottoterra. Il carsismo nell’area di Massa Marittima. La Buca dell’olocco o della rinascita, area carsica: Monti di Castell’Azzara. Primo censimento delle grotte marine della Toscana. Dentro la Montagna. Alla Scoperta del mondo ipogeo apuano. Ritorno a scuola. Fotografati con il dovuto rispetto. Il monitoraggio della composizione isotopica delle acque di pioggia e di stillicidio dell’Antro del Corchia: implicazioni idrologiche e paleoclimatiche.
102 Grotte dei Monti Pisani, in volo d’uccello. 103 Le grotte della Montagnola senese. 105 Speleobox per la didattica speleologica: analisi, criteri progettuali e linee guida. 106 Buca Del Campo: Ingresso Lorenzo Brizzi al sistema del Monte Corchia. Domenica (aree carsiche) 107 Rilevamento geologico sotterraneo di skarn e mineralizzazioni a Pb-Fe, Buca Grande di Montorsi. 108 Cavità di origine ipogenica nelle aree carsiche minori della Toscana centro-meridionale. 118 Grotte d’Amiata. 141 ToscoBat: il monitoraggio dei Chirotteri nelle grotte toscane. 147 Studi paleoclimatici sugli speleotemi toscani: ultimi dati e nuove prospettive. 154 Grotte, storie e paesaggi della Media Val di Lima. 175 Area carsica della Calvana. 178 Analisi di facies epi-ipogea e carsismo dei depositi pleistocenici dell’area di Perolla. 190 Dal 2001 ad oggi nell’Alta valle dell’Acqua Bianca. 194 Il carsismo di tipo “ghost-rock weathering” nelle grotte della Montagnola senese. 196 Il sistema minerario della Valle in lungo, San Vincenzo.
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Editoriale Ce l’abbiamo fatta! Dopo tredici anni la speleologia Toscana si ritrova di nuovo per confrontarsi e condividere esperienze e progetti. L’VIII congresso della Federazione Speleologica Toscana è stato anche un banco di prova per questo nuovo CF. Dopo appena cinque mesi di attività ci confrontiamo con il comitato organizzatore, senza il quale non avremmo avuto nessun congresso, e con 22 gruppi speleo. A differenza delle assemblee, dove per la maggior parte il CF parla ed i gruppi ascoltano, qui è successo il contrario, quasi tutti i gruppi hanno portato progetti e hanno avuto il piacere e l’onore di presentarli a tutti i presenti. A queste presentazioni non è mancato l’apporto di esperienze da parte dei singoli, che oramai fanno parte attiva della FST anche se ancora non inquadrati nell’organizzazione della Federazione stessa. Proprio questo aspetto è stato lo spunto per parte della tavola rotonda sul nuovo associazionismo in FST. Occasione interessante e costruttiva di confronto tra tutti che oltre a parlare dei singoli come parte attiva e integrata in un futuro della FST ha dato spunto per parlare anche dei gruppi e della speleologia in Toscana. Peccato che il tempo non sia stato sufficiente per affrontare tutta la scaletta proposta. Particolare attenzione inoltre è stata data anche alle altre due tavole: nuova didattica ed impatto ambientale dell’attività speleologica . La prima, fondamentale, per trasmettere ai nuovi speleologi, durante i corsi, i concetti basilari della nuova speleologia, che non può esimersi dall’affrontare nel modo didatticamente corretto argomenti attuali come il rispetto per l’ambiente, sia carsico ipogeo che di superficie; la seconda, che proprio da questo aspetto trae lo spunto, l’impatto ambiente degli speleo che non è solo cave o rifiuti ma anche flora e fauna ipogea, argomenti quest’ultimi che forse sono stati poco considerati finora. Da questa giornata ne è uscita una lettera di intenti, da applicare in questo triennio, concentrata sullo sviluppo di progetti ed attività rivolte alla biospeleologia. Come Presidente della Federazione Speleologica Toscana ho provato un’immensa felicità ed orgoglio nel presiedere questo congresso, vedere tutti i gruppi partecipare, non avere tempo per finire di discutere tutti i temi affrontati, avere una scaletta gremita di interventi e avere la partecipazione di più di cento speleo toscani, questo è stato un chiaro segnale che la speleologia toscana è viva. Colgo l’occasione per ringraziare il comitato organizzatore, i gruppi grotta ed i singoli speleo toscani, ed i due nostri invitati speciali Max Goldoni e Luca Calzolari sempre presenti nella vita speleologica toscana. Un ringraziamento speciale vaalla Regione Toscana, alla Provincia di Livorno, ai I Parchi della Val di Cornia, alla SSI, al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e all’assessore Ambiente e Energia Anna Rita Bramerini, che anche se impossibilitati ad essere presenti hanno mandato i loro saluti, la giunta comunale del comune di Campiglia Marittima con la partecipazione del vicesindaco, il Museo di Storia Naturale della Provincia di Livorno, al Parco Archeominerario di San Silvestro che ci ha ospitati in un paesaggio davvero unico nel suo genere. Il Presidente Marco Innocenzi
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Siamo Arrivati a 50! di Adriano Roncioni
settembre
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Campiglia M.ma 27-28
Buona lettura e auguri a Talp!
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Questo che state leggendo è il numero 50 di Talp. Talp, l’ALP del sottoterra, questa è l’origine del nome, è arrivata al 25° anno consecutivo di pubblicazione, il che non è poco. Per me, che faccio parte della redazione dal secondo numero, vuol dire che con Talp ci sono invecchiato e che sono stato protagonista (nel bene e nel male) e testimone della sua nascita e crescita. Per dovere di cronaca occorre specificare che Talp, nata nel 1989, è la rinascita e la prosecuzione del primo tentativo di fare una pubblicazione periodica su e per la speleologia toscana. Nel 1986 uscirono infatti due numeri della “Rivista Speleologica Toscana”, che però non riuscì ad avere un seguito negli anni seguenti. Talp partiva dunque con la paura di fallire e questo è evidente leggendo gli editoriali dei primi numeri. Il maggior pericolo, fra l’altro mai venuto a cessare completamente, era quello di ottenere dagli speleologi il “materiale” da pubblicare in tempo utile per raggiungere le fatidiche 48 pagine alle scadenze semestrali che ci eravamo dati. Uno dei vincoli più stringenti che ci ha “costretto” a rispettare le scadenze è stato un motivo esterno alla redazione: la necessità di rispettare la cadenza semestrale era la condizione necessaria per mantenere la spedizione in abbonamento postale. Mi ricordo di diversi viaggi avventurosi alla sede delle Poste, fatti con un paio di auto cariche di scatoloni, nei giorni tra Natale e Capodanno! Ripercorrendo a ritroso la storia di Talp non posso non evidenziare quante cose siano cambiate in questo quarto di secolo nel modo di comporre e stampare una rivista. All’inizio il ruolo dell’informatica era del tutto marginale. I testi da pubblicare erano richiesti “dattiloscritti in formato A4” e le foto “stampate su carta”. La tipografia, da questi produceva, sempre su carta, dei testi stampati in colonne che noi della redazione provvedevamo a tagliare e incollare, ovviamente con le forbici e la Coccoina (sì, quella col pennello!) per produrre la bozza di impaginato che poi tornata in tipografia serviva come modello per montare con procedimento analogo, le pellicole di acetato. Questo lavoro, insieme al ritaglio degli indirizzi di spedizione e la loro divisione per “cap” erano cose che ci facevano far nottata, anche se socializzanti a volergli trovare un pregio. Poi è venuto l’uso diffuso del computer, dei software specifici di composizione, della posta elettronica e infine della fotografia digitale che hanno profondamente modificato la realizzazione e il risultato della stampa della rivista e del suo confezionamento e spedizione. Ripercorrendo i numeri usciti in questi anni voglio ricordare i numeri speciali a tema (come il 19 sulle cavità artificiali) i vari allegati (il rilievo del Corchia, i “Talp Appunti”, il Catasto) e le cartine delle grotte in grande formato. Poi le varie evoluzioni dell’aspetto grafico, la stampa delle immagini ad alta definizione e quant’altro ha contribuito a raggiungere l’aspetto attuale che ci pone, insieme ai contenuti, ad un ottimo livello nell’ambito della stampa speleologica nazionale. Non posso in questa sede ricordare e ringraziare tutti gli speleologi dei vari Gruppi Grotte che dalla nascita nel 1989 ad oggi hanno fatto nascere e crescere la nostra rivista, ma mi permetto di ringraziare, a nome di tutti, i titolari e i dipendenti della “Nuovastampa” di Ponsacco, che realizza Talp dal secondo numero, e il grafico Antonio Tregnaghi che ne ha curato dal 1992 al 2006 l’aspetto grafico e l’impaginazione, non speleologi, che però hanno messo a disposizione della rivista la loro professionalità con passione.
Sabato, Interventi Brevi
Primi monitoraggi alla Grotta del Vento (Alpi Apuane)
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Commissione Scientifica FST
Nel gruppo delle Panie (Pania della Croce, Pania Secca e Pizzo delle Saette), sono ben evidenti gli effetti del carsismo sia superficiale sia sotterraneo. Il versante nord del massiccio roccioso è caratterizzato da una zona di carso nudo in cui, grazie anche alle particolarità lito-strutturali, si ha il diretto assorbimento delle acque superficiali, le quali scompaiono nel sottosuolo attraverso le fessure presenti nella roccia, impedendo così la presenza di un’idrografia superficiale. Le caratteristiche peculiari di questa zona sono ben evidenti sull’altopiano della Vetricia, dove lunghi crepacci si incrociano lasciando blocchi calcarei squadrati e isolati tra loro (campi solcati). Su questo versante si aprono ingressi di cavità che hanno una morfologia prevalentemente verticale, a pozzo, e tra questi si possono ricordare i più profondi, come l’Abisso Revel (numero di catasto T/LU 102) con un dislivello di 300 m, l’Abisso del Giglio (T/LU 1073), che raggiunge i 281 m, o l’Abisso Specchio Magico (T/LU 1283), che con una sequenza di pozzi guadagna un dislivello di 420 m. La cresta calcarea dell’Uomo Morto che unisce la Pania della Croce con la Pania Secca, rappresenta lo spartiacque topografico e nei ripidi versanti a sud si può ritrovare un’idrografia superficiale confermata dalla presenza del Canale Porretta e del Canalone del Trimpello. In particolare in quest’ultimo, a quota 642 m s.l.m., si trova l’ingresso turistico della Grotta del Trimpello (T/LU 19), meglio conosciuta come Grotta del Vento. Questa cavità presenta il maggiore sviluppo spaziale (circa 4600 m) delle grotte del massiccio ed è caratterizzata sia dall’arrivo di acque d’infiltrazione proveniente dai pendii al di sopra dell’ingresso sia da un modesto corso d’acqua sotterraneo di cui si ignora il punto di emergenza.
Investigazioni idrogeologiche Da qualche anno la Federazione Speleologica Toscana sta portando avanti, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, un’indagine idrogeologica degli acquiferi carsici delle Alpi Apuane attraverso la realizzazione di prove di tracciamento ed il monitoraggio delle sorgenti. Il progetto attualmente in atto alla Grotta del Vento prevede l’installazione di strumenti per il monitoraggio in continuo di alcuni parametri chimico-fisici delle acque che circolano nella grotta e delle sorgenti limitrofe. Gli strumenti attualmente installati all’interno della cavità sono: - due drip counter (modello Stalagmate) posti sotto a stillicidio diretto, con
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Fig. 1. Inquadramento geografico dell’area di indagine.
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Allo stesso tempo viene portata avanti anche una ricerca delle varie forme di vita che popolano le acque. Per questo sono state posizionate sotto stillicidio diretto delle trappole per campionare organismi stigobi (in particolare crostacei della sottoclasse Copepoda) che potrebbero fornire importanti indicazioni sull’idrodinamicà del sistema. Contemporaneamente sono previsti ripetuti campionamenti, mediante l’utilizzo di appositi retini, nelle vaschette
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Investigazioni biologiche
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il compito di registrare il numero di gocce che cadono su di essi; - un pluviometro (modello Pluvimate) posto sotto ad uno stillicidio copioso; - una sonda multiparametrica (modello CTD Diver) che effettua misure di livello, temperatura e conducibilità dell’acqua; - un barometro (modello Baro Diver) che ha lo scopo di misurare la pressione ambiente, consentendo così di compensare le misure rilevate dalla sonda inserita in acqua. Una sonda “gemella” a quella posizionata in grotta è stata al momento posizionata, per una prima analisi, alla sorgente Stroscia, collocata nel Canalone di Trimpello a quote minori rispetto all’ingresso delle grotta. Altra sorgente oggetto del monitoraggio è quella del Fontanaccio, sulla Turrite Secca, che probabilmente è alimentata da sistemi di circolazione idrica appartenenti al gruppo delle Panie.
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Fig. 2. Esemplare di femmina adulta di Moraria sp. (Copepoda Harpacticoida), mentre si muove intorno ad un grumo di sostanza organica, per alimentarsi. Le appendici cefaliche ben visibili, servono all’animale per muoversi nell’ambiente circostante ed individuare il cibo, foto di T. Di Lorenzo.
alimentate da stillicidio, nei torrenti ipogei e nelle sorgenti esterne al sistema idrogeologico delle Panie. Questo monitoraggio biologico viene fatto perché gli habitat acquatici sotterranei come le grotte sono popolati da un nutrito numero di specie animali appartenenti a svariati gruppi tassonomici. Le dimensioni di questi organismi sono molto piccole (da poche centinaia di micrometri a circa un centimetro) e poche specie raggiungono dimensioni superiori. Gli organismi stigobi (o stigobionti) sono quelle specie animali strettamente legate all’ambiente acquatico sotterraneo, ovvero ne dipendono per il completamento del ciclo vitale. Si presentano depigmentati, anoftalmi (senza organi visivi), provvisti di lunghe appendici sensoriali che consentono loro di trovare al buio cibo e partner sessuali e di scappare dai predatori. La loro dieta è basata su sostanza organica proveniente dall’esterno e presentano un metabolismo lento e una bassa fertilità. L’importante ruolo investito da questi organismi sta nel fatto che attraverso il loro movimento essi agiscono come “manutentori ambientali”: allargano interstizi favorendo il passaggio di acqua e l’ossigenazione dei sedimenti. Per alimentarsi raschiano il biofilm batterico che ingloba la sostanza organica favorendo il rinnovamento delle comunità microbiche che costituiscono i sistemi di depurazione dell’ambiente sotterraneo.
Conclusioni Il progetto di studio della Grotta del Vento si pone l’obiettivo di fornire un primo contributo per la comprensione di uno dei sistemi idro-carsici del gruppo della Panie. I campionamenti biologici preliminari sono incoraggianti e testimoniano una ricchezza biologica degli acquiferi, sia a livello della zona vadosa che di quella satura, che è ancora tutta da studiare. Per quel che concerne l’idrogeologia del sistema siamo ancora in una fase di raccolta dei dati ed è necessario uno studio approfondito ed interdisciplinare del sistema carsico.
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Gli insediamenti rupestri nella Contea degli Ottieri, tra Toscana e Lazio Odoardo Papalini (Gruppo Speleologico l’Orso)
Introduzione Abbiamo deciso di intraprendere questa ricerca perché tutto il territorio che insiste sulle vulcaniti vulsine, la cui estensione nella sola Toscana supera i 300 kmq, ospita un numero incredibile di cavità. Sono acquedotti, passaggi militari, tombe, magazzini e abitazioni. In seguito alle prime esplorazioni e dopo avere raccolto la prima documentazione storica, ci siamo resi conto che le cavità erano raggruppate in “insediamenti” e che un indicativo gruppo di questi era collocato nella antica Contea degli Ottieri. Dopo esserci documentati, adottammo il criterio di compiere la ricerca solo all’interno dei confini della Contea. Gli insediamenti di allora corrispondono ai poderi ed alle attività industriali di oggi, con capannoni, stalle, ecc., che sono rimasti attivi fino quasi alla fine del XIX sec. Un gruppo di cavità sappiamo essere stato abitato fino al 1952. Abbiamo ricavato l’elenco dei siti dalla documentazione storica e dalle informazioni ricavate dagli abitanti del luogo.
Dove siamo
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L’antica Contea degli Ottieri si trova quasi tutta compresa nel comune di Sorano (GR), addossata al confine con la regione Lazio. Questo confine è storico perché, salvo qualche leggero spostamento, divide da più di un millennio gli stati che si sono succeduti dalle due parti e oggi le due regioni.
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Fig. 1. Le valli, che scendono verso nord, separano strette meseta che spesso si presentano “digitate”.
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La famiglia Ottieri e il loro feudo: note storiche La famiglia Ottieri prende il nome dal Castello (Castrum Lotharii, oggi Castell’Ottieri). Il gruppo d’individui (o banda) da cui si è originata la famiglia era già presente all’inizio del 1000, per cui è presumibile che facesse parte di quei longobardi che, arrivati nella regione da alcuni secoli, furono dominati dagli Aldobrandeschi. Si sa anche che il piccolo nucleo del futuro feudo faceva già parte della Contea Aldobrandesca prima della divisione avvenuta nel 1274 in Orvieto. Erano provetti allevatori di bestiame vaccino: caratteristica tipicamente longobarda; d’altra parte il territorio che avevano occupato si prestava in maniera egregia. Il luogo in cui probabilmente s’insediò il primo gruppo, che vi costruì il castello di Sopano, la cui costruzione precede quella di C. Montorio, residenza più tarda, appare oggi certamente fuori mano rispetto all’attuale viabilità. Probabilmente vi abitarono per almeno un centinaio di anni. Fu poi abbandonato perché è più un luogo dove nascondersi che uno in cui comandare e trafficare. Inoltre era troppo fuori mano rispetto alla via che univa la Valle del Paglia (Siena) con Sorano-Pitigliano e perché sono intervenuti eventi franosi tali da ridurre significativamente lo spazio urbano. Il letto di questo torrente, su cui si affacciava il castello, è di difficile percorribilità perché stretto, invaso da grossi blocchi di roccia e spesso carico di acqua per alcuni metri di altezza: scorre, infatti, in una gola profonda e manca di riferimenti all’orizzonte. Qualche tempo dopo, la divisione della Contea Aldobrandesca tra i due rami della famiglia, avvenuta nel 1274, determina la nascita di due nuovi soggetti: la Contea di Santa Fiora a nord e quella di Sovana a sud. Gli Ottieri rimangono a far parte della Contea di Sovana, di cui costituiscono la difesa dalle mire di Acquapendente e di Orvieto. Con l’indebolimento della Contea di Sovana (inizio 1300) iniziano il loro gioco più proficuo, quello delle alleanze tra Orvieto e Siena, condotto con matrimoni, disponibilità di soldati e di derrate. Il passaggio di Pitigliano e Sorano agli Orsini (1293) li avvantaggia sia perché si rendono più indipendenti, sia perché sfruttando l’alleanza con Siena, riescono a portare il loro confine meridionale sul corso del f. Lente. Castelvecchio si contrappone alla fortezza degli Orsini in Sorano, proprio di qua dal fiume Lente (v. Atti del XX Congresso Nazionale di Speleologia, Iglesias 27-30 aprile 2007). A Orvieto e Siena si sostituiscono nel tempo lo Stato Pontificio e quello Fiorentino con i Medici, ma rimane inalterata la politica della famiglia, i cui membri ricoprono incarichi importanti sia da una parte sia dall’altra. La famiglia mantiene il cognome e il titolo fino all’epoca moderna ma poi, per mancanza di discendenza diretta (inizio ‘800), s’imparenta con famiglie di Chiusi che poi si distaccano da Castell’Ottieri e da C. Montorio. La fine dell’ultimo residuo d’indipendenza la decreta Napoleone Bonaparte quando, costituendo il regno di Toscana nel 1815, abolisce per legge i feudi e quindi anche
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questo piccolo stato che era sopravvissuto salvaguardando la sua indipendenza per secoli. Della contea sopravvive la proprietà che, giunta indivisa alla fine della II Guerra mondiale, subisce una notevole riduzione con l’espropriazione e la realizzazione dell’appoderamento moderno operato dalla riforma fondiaria dell’Ente Maremma. Quello che rimane, e non poco, passa all’Az. Mineraria Siele (che aveva concessioni minerarie nel comune di S. Fiora poi Castell’Azzara, e Piancastagnaio), in seguito al sig. Carlo Goria e oggi ai suoi eredi come “Azienda Agricola Castelmontorio Eredi di Goria Carlo”. La contea comprendeva inizialmente quattro località situate ora nella parte settentrionale del territorio comunale di Sorano. Oltre alla capitale Castell’Ottieri erano incluse San Giovanni delle Contee, il Castello di Montorio (luogo di residenza della famiglia) e il Castello di Sopano, ridotto oggi a pochi ruderi. Nel 1797 il conte Lotario II, a seguito del censimento da lui ordinato per sapere come vivevano i suoi affittuari, si rese conto che ancora un gruppo cospicuo abitava nelle grotte. Pertanto ordina loro di costruirsi un’abitazione in muratura. Questo elenco (Fig. 2), ci ha spinto a inquadrare meglio questo lavoro.
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Fig. 2.
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Fig. 3. Carta geologica del territorio con indicato, nel riquadro in giallo, quello della Contea.
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Posizione geografica del feudo Il territorio della Contea si estende sul versante settentrionale dei Monti Vulsini, è quasi tutto tributario del T. Fiume (F. Paglia - Tevere), in parti marginali e trascurabili del fiume Lente (F. Fiora) e del torrente Siele (F. Paglia - Tevere). Questo versante, a forma di altipiano leggermente inclinato, è solcato da lunghissime valli che partendo dal crinale delle caldere (663 m Poggio Evangelista), scende fino al torrente Fiume (328,69 m sul confine Toscana/ Lazio). Il torrente, poiché scorre da occidente verso oriente per confluire nel fiume Paglia, lo taglia e limita sul lato settentrionale. Le valli sono a fondo piatto perché raramente portano acqua: le rocce piroclastiche, infatti, sono permeabili e non permettono un significativo scorrimento superficiale. A queste, sul lato orientale, fa eccezione il fosso della Caduta (cascata) perché sotto i tufi e alle pomici vi è un’estesa colata di basalto che non permette all’acqua di scendere più in profondità e la mette allo scoperto. I versanti sono di solito molto ripidi; si distanziano e s’innalzano man mano che scendono verso il t. Fiume. Il territorio in oggetto si estende in Toscana, comune di Sorano, provincia di Grosseto.
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Fig. 4. Carta geologica di dettaglio del riquadro evidenziato nella Fig. 3. nella pagina a fianco. In rosso, rosa, violaceo: unità vulcaniche del complesso BOLSENALATERA che si sono sovrapposte nel Pleistocene. CAN: unità di Canino; FAR: unità di Farnese; SOR: unità di Sorano; SOV: unità di Sovana. In verde: depositi alluvionali; in giallo: affioramenti di argille (Pliocene). Carta Geologica della Regione ToscanaDB Geologico.
I confini della Contea
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I confini della Contea Ottiera nella massima espansione dovevano essere questi: a meridione il corso del F. Lente, comprendente talvolta anche Vitozza; a oriente il profondo vallone che forma il fosso di Onano e quello della Caduta. Capita, che rimane fuori, viene venduta dalla contessa Margherita nel 1297 ai Monaldeschi di Orvieto, ma poi alla fine del XVIII secolo la ritroviamo nel possesso della famiglia, forse per passaggi matrimoniali. In seguito ripassa sotto il dominio del Pontefice e infine oggi nella regione Lazio, comune di Acquapendente. A settentrione è presente anche lì un confine naturale, i calanchi che vanno dal fosso delle Gorgacce fino a quello dei Nardoni, passando sotto S. Giovanni delle Contee e poi verso la Torretta, l’Osteriola fino a raggiungere poi il fosso Mattarello, affluente in sinistra del T. Fiume e che vi confluisce di fronte al vecchio insediamento di Sopano. Castell’Azzara sembra che abbia fatto parte occasionalmente del feudo, ma la contea di S. Fiora (stato feudale ben più grande e potente di quello degli Ottieri) se l’è sempre ripresa. Sembra che però sia stata usata come luogo di
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Fig. 5. Sezione di una cavità.
villeggiatura da parte di alcuni membri della famiglia. Singolare il toponimo del luogo di confine (oggi sulla SP che da Sorano porta a Castell’Azzara): “Fossa del morto”. A occidente si trova il rilievo di Montevitozzo che, dopo aver fatto parte della Contea, passa sotto il dominio degli Orsini. Poi andrà a costituire il Marchesato della famiglia Montauto. Il confine, partendo da Castelvecchio, risaliva il corso della Picciolana fino a Valle Castagneta, la Crocina e il Puntone [fino al Podere Carrente], raggiungendo poi il corso del Fosso grande e il Sordino. La forma in pratica quadrangolare della Contea ne rende facile anche il calcolo della superficie che si aggira intorno ai 100 kmq. A confronto, il comune di Sorano che la comprende quasi tutta e ne costituisce la parte nord-orientale, ha una superficie di 364 kmq.
La geologia Il territorio che si estende sul versante settentrionale dei Monti Vulsini è costituito da materiali diversi: tufi, pomici, pozzolane, colate di basalto a leucite e dicchi di basalto. Il materiale vulcanico oltrepassa il corso del t. Fiume che è stato più volte sbarrato da lahar, colate, dicchi. Questo è riuscito sempre a inciderli e a riprendere il suo corso senza deviare (ultima attività della Caldera di Latera: 50.000 anni fa). Oltre il corso di questo torrente, che scorre da ovest a est fino a immettersi nel F. Paglia e mantiene sempre la stessa direzione, le coperture vulcaniche si assottigliano e si strappano, lasciando vedere la sottostante formazione argillosa del Pliocene. A nord di S. Giovanni delle Contee le argille formano calanchi profondi. Il territorio si presenta come un altopiano a debole inclinazione verso il
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bacino del F. Paglia la cui altezza declina dai 663 m del Poggio Evangelista sull’orlo della Caldera di Latera, fino ai 480,5 m di Castel Montorio. La copertura di tufi, ha determinato la formazione di mesetas separate da vallette a fondo piatto, coltivate, mentre i versanti sono tutti coperti dal bosco. Rari sono i corsi d’acqua giacché i materiali piroclastici sono molto assorbenti. Dalla cresta della caldera le acque meteoriche sono drenate da valloni che scendendo in posizione radiale e diventano via via più profondi. I prodotti piroclastici costituiscono depositi permeabili per cui questi valloni hanno in generale un fondo piatto dove solo raramente scorre un ruscello temporaneo. Talvolta, come nei fossi di Onano e della Caduta, affiora la colata di basalto e allora le acque escono allo scoperto. I versanti delle vallette sono di solito ripidi se non aggettanti, per la presenza in alto di tufi compatti che coprono spessi depositi di pomici. Questi, hanno costituito il luogo ideale per la realizzazione di rifugi, abitazioni, magazzini, depositi ecc. Ed è proprio qui che noi troviamo gli insediamenti, soprattutto sui versanti esposti a mezzogiorno o nei pressi di qualche sorgente. Le pomici si potevano scavare facilmente (con un piccone di basalto) e il materiale scavato andava a costituire o ad ampliare il ripiano davanti all’abitazione (sparna).
Gli insediamenti
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Gli Etruschi non abitavano nelle grotte ma sui ripiani (mesetas) posti tra una valletta e l’altra in capanne di pali e frasche. Dotati di un elevato senso dell’aldilà, avevano scavato tombe, sempre esposte a mezzogiorno, a forma di casa o di colombario per seppellire i loro morti. A loro succedono i Romani che non hanno esercitato in questo territorio una forte presenza: la via Cassia passava lungo la val di Chiana. Localmente la viabilità non era facile. Con le invasioni barbariche (Longobardi in testa) e la dispersione di “bande”, si ha forse la ripresa dell’utilizzazione delle sepolture “stranamente” somiglianti ad abitazioni proprio come abitazioni. Di lì l’evoluzione a insediamenti stabili fu breve. Era facile scavare pomici e tufi, bastava una scheggia di basalto (reperibile ovunque), mettergli un manico rudimentale o anche senza e avere così un piccone formidabile. Uno di questi l’ho trovato nei pressi del castello di Sopano. Le primitive tombe furono trasformate in ampie abitazioni, stalle, magazzini. Il materiale estratto, depositato all’esterno, contribuiva a formare un terrazzo più ampio (la “sparna”). Un periodo climatico poco piovoso ha forse favorito questo tipo d’insediamento. Occorre ricordare che dal 1100 a tutto il 1800 e quindi per circa sette secoli l’Europa ha vissuto un periodo climatico piuttosto freddo, chiamato la piccola era glaciale. Le grotte in parte ricalcano la forma di una casa, dove la roccia (tufo o ceneri) è più compatta, con volta a capanna. Dove la roccia è più friabile (pomici) la sezione della volta è di solito semicircolare o ellittica. I poderi in muratura non credo che furono costruiti tutti, come desiderato
dal Conte Lotario, e sono convinto che quelli costruiti fossero poco più che catapecchie (oggi, infatti, non ve n’è più traccia alcuna). Il tufo, infatti, non si presta in tutti i posti a essere tagliato in blocchi e trasportarli non era impresa da poco. Alcuni furono costruiti poco lontano o addirittura sopra alle grotte, in modo da poter ancora adoperarle come ricovero per gli animali e come magazzini. Oltre agli insediamenti abitativi indicati nel bando del Conte, ne abbiamo trovati molti altri e anche complessi, dove erano svolte attività artigianali quali la Cocceria di Castell’Ottieri e alcune fornaci per la produzione di laterizi: mattoni, tegole e canali toscani. A Castell’Ottieri una galleria di comunicazione tra i due versanti su cui è costruito il paese, forse un passaggio militare. Pertanto, all’elenco del conte Lotario si sono aggiunti gli insediamenti e le cavità riportate in Fig. 6.
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Fig. 6. Nuovi insediamenti e cavità aggiunti all’elenco del conte Lotario.
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Fig. 7. L’insediamento di Vallorciana-CA 117 T/GR è costituito da due cavità di cui una per il ricovero di animali a forma di ventaglio e una con funzioni di abitazione. In questa si era resa necessaria la risistemazione della facciata con blocchi di tufo litoide.
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Anche l’insediamento di Poggio Felcioso è semplice perché è costituito da due cavità come il precedente. Queste sono scavate nel tufo litoide e si sono mantenute nonostante siano a poca distanza dalla superficie agraria, forse meno di un metro. Oggi, infatti, il terreno viene arato con i trattori moderni e quindi è facile prevederne a breve, lo sfondamento. Intanto l’acqua ha iniziato a infiltrarsi. Forse, nella scarpata su cui si trovano, vi erano altre cavità più antiche che sono andate distrutte. Le cavità che costituiscono l’insediamento delle Riparelle (cinque) sono allineate lungo una scarpata esposta a sud. Queste cavità sono talvolta ancora utilizzate; nella maggior parte dei casi sono abbandonate e spesso contengo-
no attrezzi agricoli non più utilizzati (Fig.10). Questa cavità in particolare è ricordata dagli abitanti del vicino e omonimo podere perché al passaggio della guerra nel 1944, vi si erano riparate delle famiglie con molti bambini. Un proiettile di cannone sparato dalla strada sottostante, centrò la porta della grotta facendo dodici vittime e ferendone gravemente altre. Queste furono poi ricordate con la costruzione, all’inizio della scarpata in cui si aprono le cavità, di una cappella.
Fig. 8. A sinistra facciata dell’abitazione di Vallorciana. Accanto all’ingresso l’uscita rovinata del focolare. A destra l’ingresso visto dall’interno. Da notare l’ampio soffitto a capanna che si estende anche sul vano del focolare.
Conclusioni
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Il lavoro, a oggi, è in corso di attuazione. Ci vorrà ancora del tempo per riuscire a completarlo, perché i ritrovamenti aldilà dell’elenco di partenza si sono moltiplicati. Tuttavia sono stati rilevati e messi a catasto i complessi e le cavità singole di Fig. 12.
Fig. 9. Le Grotte di Poggio Felcioso, 118 T/GR.
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Fig. 10. La cavità n. 3 del complesso “ Grotte delle Riparelle-Mulino alto”.
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Fig. 11. La cavità a sinistra ha sezione ellittica e banchine lungo le pareti che costituivano la base delle mangiatoie. A destra cavità divisa in due parti da un setto centrale con funzioni di separazione e di sostegno.
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Altri sei insediamenti sono stati esplorati ma non ancora rilevati. Perché ci siamo impegnati in questo lavoro? Innanzi tutto ci piace conoscere quello che c’è in questo territorio: la passione mai sopita per la Speleologia è la molla che ci ha spinto alla conoscenza di questi luoghi. Già molte cavità sono franate nella parte anteriore o nascosta da una vegetazione particolarmente vivace. La frequentazione umana così prolungata ha prodotto un terreno particolarmente fertile per cui i rovi e le ortiche vi raggiungono altezze incredibili. Lo sforzo di documentare un patrimonio che riteniamo importante ci gratifica e ci auguriamo di riuscire a portarlo a termine. Un ringraziamento va al Gruppo, in particolare al socio Pinzi Giuseppe motore insostituibile di questa ricerca e alla Federazione Speleologica Toscana che, attraverso l’VIII Congresso “TOSCANAIPOGEA”, ci ha permesso di mettere in evidenza i risultati ottenuti.
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Fig. 12. Le Grotte di Poggio Felcioso, 118 T/GR.
BIBLIOGRAFIA
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Le esplorazioni al salone del Centenario in Corchia: una nuova via per il Ramo del Fiume Simone Rastelli, Nicola Zuccherini (Gruppo Speleologico Pistoiese)
n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract
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L’esplorazione del salone del Centenario in Corchia nasce dall’idea di rivedere un luogo potenzialmente promettente, vicino all’ingresso e di facile accesso che potremmo definire da gita domenicale. Questo ha consentito di far partecipare all’iniziativa tutti i membri del Gruppo GSPT, compresi i neofiti, in modo da stimolare l’aggregazione e l’interesse per una attività speleologica che rimane per sua natura di interesse per poche persone. L’esplorazione ha consentito di ottenere dei risultati contenuti per il Corchia ma comunque significativi. Sono stati esplorati tre rami per quasi un chilometro di sviluppo spaziale. Il Pozzo del Centenario, con una verticale di 110 metri, alla sua sommità non ha probabilmente continuazioni significative. Si è formato a seguito della riunione di vari pozzi, che prendevano acqua sia dal canale delle Volte che dall’altro canale a sinistra dell’ingresso turistico. Sono stati risaliti cinque camini e tutti chiudono in ambienti con una formazione ipotizzabile per percolamento delle acque dall’esterno non troppo lontano. È stato chiarito che i legnetti che vengono trovati alla base del Centenario, arrivano direttamente dagli sfondamenti presenti nel meandro di ingresso del Serpente. Il ramo più interessante è il Serendipity che si sviluppa alla base del Centenario, finendo con una serie di pozzi nel ramo del fiume nella sua parte terminale. Costituisce una via molto più breve per il Lago Paola che si raggiunge in periodo estivo in un paio di ore dall’ingresso della turistica. Sono state riscoperte le gallerie dei Veronesi, che si sviluppano oltre il lago Paola in direzione dei saloni fossili della via per il fondo. Sfortunatamente chiudono in un lago terminale, il “Pagannelli”, che sifona. La sfida avvincente è capire se vi sia la possibilità di trovare un passaggio alternativo che consenta di proseguire. Ad ogni buon modo favoriti anche dalla vicinanza è ipotizzabile l’esplorazione del sifone da parte di speleosub.
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Il primo Corso di Introduzione alla Speleologia svolto in Etiopia Carlo Cavanna (Società Naturalistica Speleologica Maremmana)
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n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract La Società Naturalistica Speleologica Maremmana frequenta l’Etiopia dal 1995, alternando ricerche archeologiche a ricerche antropologiche ed etnologiche. Durante le 15 spedizioni effettuate in questa terra si è sempre avvertito il fascino, congenito fra i componenti del gruppo, di esplorare le cavità naturali. La nostra guida Nasir, dipendente del Ministero del Turismo dell’Oromia, da anni cerca di esplorare queste cavità naturali con mezzi di fortuna e con rischi elevatissimi. Vedendo e provando le nostre attrezzature speleologiche, negli anni si è reso conto della diversa potenzialità che queste offrono, specialmente per quanto concerne la sicurezza. Nasce così l’idea di recuperare alcune attrezzature complete da poter regalare ad un gruppo di futuri speleologi etiopi e di svolgere un Corso di Speleologia. Un buon incoraggiamento viene dall’ottenimento del Patrocinio della SSI e da un sostegno ottenuto dalla Federazione Speleologica Toscana. Vengono così recuperate quattro attrezzature complete più un discreto numero di corde, sacche e moschettoni e il 26 novembre mi ritrovo ad Addis Abeba con Gildo Lombardi e Igino Castelli. Qui siamo attesi dall’amico Nasir Ahmed Mumed e altri tre etiopi intenzionati ad avvicinarsi alle tecniche speleologiche: Abas Abdulnasir Hasan, Farahan Ahmed Nageye e Fezel Ahamed Mumed. Dopo un trasferimento di 300 chilometri, 50 dei quali su strada sterrata disastrata, giungiamo a Gelemso. Decidiamo di utilizzare uno di quei grandi alberi che caratterizzano il paesaggio etiope, e ne troviamo uno adatto all’interno di una Scuola Superiore della città di Gelemso, frequentata da 2000 allievi divisi metà la mattina e metà il pomeriggio. Ottenuto il permesso del Direttore della Scuola, Igino “arma” l’albero creando frazionamenti e traversi, e simulando tutti gli ostacoli da superare per poter utilizzare al meglio gli attrezzi in dotazione. Iniziano così le esercitazioni dei quattro allievi che durano ben quattro giornate complete. Spesso, negli intervalli, una folla di studenti circonda il grande albero assistendo a quelle “strane manovre” dei ragazzi appesi alle corde. Dopo le consuete richieste di autorizzazioni negli uffici della provincia di Worada e del comune di Kabelè, raggiungiamo l’ingresso della Worabesa Cave, a 1638 metri s.l.m. La grotta si apre all’interno di una dolina ed è adatta allo scopo perché costituita da lunghi e ampi cunicoli collegati fra loro da una serie di pozzi, anche se a tratti la grande quantità di fango e la carenza di ossigeno mettono in difficoltà i partecipanti. La cavità inoltre è frequentata da ortotteri dolichopode e da una numerosa colonia di pipistrelli: per proteggerci
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dall’istoplasmosi, che in questa terra è un rischio concreto, utilizziamo delle mascherine. Ancora una giornata in una seconda grotta per trasmettere le nozioni base per armare una discesa e per eseguire correttamente tutti i nodi necessari e terminiamo il Corso. Come Società Naturalistica Speleologica Maremmana proviamo tanta soddisfazione per il progetto portato a compimento. Ora resta solo da sperare che questi ragazzi, che hanno appena costituito “The First Ethiopian Oromian Speleological Group” continuino ad allenarsi per non dimenticare gli insegnamenti ricevuti e che comincino ad esplorare e documentare seriamente il ricco patrimonio speleologico che li circonda.
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Progetto (geo)salamandra Enrico Lunghi (Unione Speleologica Calenzano)
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Negli ultimi decenni l’aumento del numero e dell’intensità delle attività antropiche ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo del concetto di Conservazione. La Conservazione è la disciplina che ha come obiettivo principale quello di salvaguardare la biodiversità in quanto elemento indispensabile per mantenere sano e vitale il nostro pianeta. Salvaguardare la biodiversità significa proteggere e mantenere vitali le singole specie, in modo tale che ognuna possa continuare a svolgere il suo ruolo all’interno del nostro “ecosistema” Terra. Affinché possano essere adottate le giuste misure precauzionali, è necessario conoscere adeguatamente la specie ed il contesto in cui vive: in particolare è necessaria una profonda conoscenza della sua biologia, della sua distribuzione e del suo ruolo all’interno del contesto in cui vive. Non tutte le specie però sono facilmente individuabili, fenomeno che impone un grosso limite alla possibilità di poter effettuare studi approfonditi: come esempio possiamo citare i nostri geotritoni (Hydromantes italicus). I geotritoni passano gran parte della loro vita all’interno degli ambienti ipogei, luoghi in cui
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Fig. 1. “Maschio di S. italicus, Grotta del Tasso di Sofignano, Prato, foto di E. Lunghi.
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trovano le condizioni ideali per la loro sopravvivenza. La localizzazione e l’esplorazione di questi ambienti non sempre risulta essere alla portata di tutti e molto spesso sono necessarie persone esperte che sanno come affrontare questi ambienti: in poche parole, gli speleologi. L’attività speleologica potrebbe infatti fornire un enorme contributo sulla conoscenza dei geotritoni: i dati raccolti durante le varie attività speleologiche possono essere utilizzati per implementare tutte le informazioni che ancora presentano delle lacune. Il progetto (geo)salamandra nasce proprio con l’obiettivo di implementare le informazioni relative ad una particolare specie che è esclusiva del nostro paese: l’Hydromantes italicus. Grazie alla collaborazione con la Federazione Speleologica Toscana ed al patrocinio della Societas Herpetologica Italica, è stato possibile organizzare questo progetto, ponendo come obiettivo principale il censimento delle cavità ipogee presenti nel territorio toscano. Attraverso il contributo dei gruppi speleologici sarà possibile ottenere informazioni dettagliate sulla presenza e sulla distribuzione dei geotritoni: in questo modo, oltre a ridefinire l’home range della specie, sarà possibile creare un data base che potrà essere utilizzato come punto di partenza per gli studi futuri.
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Fig. 2. Due maschi di S. italicus che presentano una diversa tonalità di colore, Grotta della Pollaccia, Lucca, foto di E. Lunghi.
Progetto ORSO-3D: Operazione Rilievo con Sensore Ottico in 3D Luca Deravignone, David Fucile, Michela Croci (Gruppo Speleologico Maremmano CAI)
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Negli ultimi anni sono state fatte molte sperimentazioni riguardanti il rilievo 3D, anche in ambienti ipogei (Hämmerle et al. 2014). Il presente contributo si propone di presentare una metodologia economica e semplice da usare, affinché tutti possano provare a realizzare rilievi tridimensionali in grotta. Con l’avvento dei moderni laser scanner si è assistito ad un vero e proprio salto tecnologico, sia per quanto riguarda la semplicità di utilizzo che la qualità del risultato finale. D’altro canto queste apparecchiature hanno alcuni aspetti che le rendono inadatte all’uso speleologico: innanzitutto i costi proibitivi, soprattutto per le piccole realtà non commerciali, ed anche l’ingombro dei macchinari necessari, spesso pesanti e difficili da trasportare, specialmente su corda. La tecnologia degli ultimissimi anni è andata sicuramente avanti su questo versante, creando sensori di vario tipo, poco ingombranti e leggeri, adatti quindi anche al trasporto in grotta, tra cui il sensore Kinect, oggetto di questa sperimentazione. Il progetto ORSO-3D, portato avanti dal Gruppo Speleologico Maremmano,
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Fig. 1. Momento del rilievo della cavità tramite il Kinect. Sullo sfondo è possibile vedere una delle scatole utilizzate come marker, foto di P. Bartolini.
Fig. 2. Modello 3D dell’area con i resti di Ursus spelaeus.
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è l’acronimo di Operazione Rilievo con Sensore Ottico in 3D, ma si riferisce anche alla caratteristica peculiare della grotta in cui è stato effettuato un primo rilievo, cioè la presenza di resti concrezionati di Ursus spelaeus o orso delle caverne. La cavità scelta per una prima sperimentazione della metodologia è stata la Grotta Gianninoni (T/GR 1594 presso il Catasto delle grotte della Toscana, vedi Cavanna 2007 e Sgherri Costantini 2004), situata a N della località di Talamone, all’interno del Parco Regionale della Maremma. La grotta si origina in prossimità di una frattura nella formazione geologica di Calcare Cavernoso, con ingresso costituito da una buca quasi verticale che immette nell'angusto piano di frattura sul quale si sviluppa la cavità. Dopo una breve discesa su corda l'ambiente si allarga e mostra numerose stalattiti tra cui la cosiddetta "Spada di Damocle", una stalattite di dimensioni e lucentezza notevoli. Proseguendo si arriva alla "Sala dell'Orso" dove si possono ammirare i già citati resti di Ursus spelaeus, cementati a terra da uno spesso strato di calcite. Con molta probabilità la grotta presentava in antichità un andamento pressoché orizzontale, tale da permettere il facile accesso di orsi, cervidi ed altri animali, di cui la grotta presenta numerosi resti. La metodologia si basa su un utilizzo “alternativo” del sensore ottico Kinect, accessorio della console per videogiochi Microsoft Xbox, del costo di poche decine di euro. Per favorire la replicabilità dell’esperienza, si è scelto di utilizzare per l’intera procedura solamente software gratuiti e open source di facile utilizzo.
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L'attrezzatura necessaria si riduce al piccolo sensore Kinect, un computer portatile, una adeguata sorgente luminosa ed una batteria per alimentare il tutto. Da notare che la modalità di rilievo è totalmente non invasiva, in quanto non è necessario il minimo contatto con pareti e concrezioni. Utilizzando il sensore Kinect ed il software gratuito FARO Scenect, è stato possibile effettuare una scansione delle superfici interessate dal rilievo, in particolare l'area con i resti di Ursus spelaeus. Al fine di unire le varie scansioni sono stati creati dei marker, nella fattispecie costituiti da scatole (Fig. 1). Grazie a questi è stato possibile, durante la successiva fase di processamento dati, sfruttare le diverse facce per allineare le nuvole di punti acquisite in grotta. Per effettuare questa operazione, e per la creazione del modello 3D, è stato usato il noto software open source Meshlab, che ha permesso di passare dalla nuvola di punti ad una mesh, ovvero un vero e proprio oggetto poligonale formato da piccole figure geometriche semplici che ne compongono la superficie. La sperimentazione si proponeva un duplice approccio che andasse da un lato a documentare la cavità e il suo contenuto, dall’altro a creare un modello 3D a colori e di estremo dettaglio che permettesse una sorta di “visita virtuale” della grotta tale da essere utilizzato per attività di tipo didattico e divulgativo. La prima scansione, costituita dalla cosiddetta "nuvola di punti" ha permesso di creare un modello che, grazie alle caratteristiche del sensore, ha conservato anche i colori originari. In Fig. 2 si può vedere un montaggio della visualizzazione wireframe e di una elaborazione a colori della zona con i resti concrezionati di orso, messi in risalto da una colorazione che ne facilita così la leggibilità. Un’altra soluzione possibile, oltre ad una colorazione manuale o automatica, è ovviamente quella di applicare una texture fotorealistica che rispecchi il più possibile i materiali originali. In Fig. 3 è invece rappresentato uno spaccato di un ambiente della Grotta Gianninoni realizzato con lo stesso metodo. In questo caso la nuvola di punti è
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Fig. 3. Spaccato di un ambiente della grotta ricostruito in 3D.
stata trattata in modo da alleggerire il modello e rendere possibile il suo utilizzo anche su computer non troppo performanti. I modelli così creati possono essere pubblicati online grazie a sistemi open source basati su HTML5 o plugin dedicati. In questo modo i singoli rilievi potrebbero inoltre essere raggiungibili pubblicamente e linkati, ad esempio, dai vari catasti grotte. Oltre ai possibili utilizzi in ambito divulgativo e didattico, partendo dai modelli tridimensionali così creati, è possibile generare automaticamente, ad esempio, sezioni e piante delle cavità rilevate. A tal proposito la metodologia utilizzata permette infatti di immagazzinare le distanze tra i punti, in modo da poter eseguire misurazioni su distanze reali. Altri utilizzi potrebbero essere fatti nell’ambito della tutela, ad esempio andando a ricostruire ambienti concrezionati per poter poi effettuare controlli su parti danneggiate o, come purtroppo talvolta succede, addirittura “rubate”. I risultati, ottenuti al momento con uno sforzo minimo, sono stati tali da indurre un proseguimento della sperimentazione che al momento mira ad unire al metodo già tentato un approccio basato su metodi di fotogrammetria.
Ringraziamenti Si desidera ringraziare tutto il Gruppo Speleologico Maremmano ed in particolare Simone Bertelli, Giuseppe Stifano, Pietro Bartolini, Gionni Bernabini e Stefano Innocenti per il supporto logistico e tecnico. Un ringraziamento particolare va inoltre al Parco Regionale della Maremma che ha autorizzato il Gruppo Speleologico Maremmano ad operare questa sperimentazione in una delle più interessanti grotte tra quelle situate nel suo stupendo territorio. BIBLIOGRAFIA
50 Federazione Speleologica Toscana, Catasto Online delle Grotte della Toscana, http://www.speleotoscana.it/programmi_php/catasto/menu.php Hämmerle M., Höfle B., Fuchs J., Schröder-Ritzrau A., Vollweiler N., Frank N. (2014) Point clouds of measurements in the Dechen Cave near Iserlohn, Germany. doi:10.1594/pangaea.830567 Sgherri D., Costantini A. (2004) Piedi a terra, guida geologica ai sentieri del Parco Regionale della Maremma, Polar Edizioni, Grosseto.
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Cavanna C. (2007) La grotta Gianninoni. In: Cavanna C. (a cura di), La preistoria nelle grotte del Parco Naturale della Maremma. Atti del Museo di Storia Naturale della Maremma, supplemento al n. 22, Grosseto, 259-269.
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Disabilità e Speleologia: incontrarsi sottoterra Eleonora Bettini (Unione Speleologica Calenzano)
n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract
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Mi è stato chiesto quale sia il senso di portare un tetraplegico in grotta. Può sembrare un quesito banale e ognuno può rispondere secondo la propria coscienza e le proprie conoscenze. Certamente non esiste una risposta sbagliata e una giusta, ma solo più modi di affrontare l’argomento. Per chi vuole intraprendere l’attività speleologica occorrono capacità fisica e nozioni tecniche, che poi con la pratica si affinano. Per il ragazzo sulla sedia a rotelle o per il non vedente desiderare un’esperienza in ambiente ipogeo può rimanere un sogno irraggiungibile. Da qui nasce un percorso di sperimentazione ambientale, di integrazione con un territorio sconosciuto, che genera una spinta interiore ad affrontare l’incontro con se stessi e gli altri, e a cui si aggiunge il valore della condivisione, dell’accoglienza e dell’integrazione. Il contesto sociale della montagna nei secoli è cambiato: da duro e complicato luogo di vita è divenuto luogo di benessere, di attività economica, sportiva, di cura e di divertimento. Così come è variato secondo gli studi antropologi il vivere la montagna, si riscontrano alcune analogie per il mondo delle cavità. Nei millenni le grotte sono passate da essere anfratti misteriosi e non percorribili nelle profondità a luoghi sacri, della vita quotidiana, a luoghi di ricerca scientifica, attività esplorativa, ludico-fisica, didattica e curativa. Da queste considerazioni e dalla voglia di contaminazioni culturali si è iniziato negli ultimi anni ad abbattere le barriere, sia quelle generate dal pensiero che quelle dell’impedimento fisico. Mentre queste ultime sono risolvibili con accorgimenti tecnici, ben più difficile è scardinare quelle mentali che impongono il modello dell’impossibile. Per promuovere l’esperienza ipogea è importante far parte di una rete di contatti sul territorio con istituzioni, scuole e associazioni; questo particolare tipo di divulgazione deve nascere dalla curiosità e dall’interesse, non si può presentare un pacchetto predefinito perché ogni fase progettuale necessita di studio e della conoscenza dei limiti specifici della disabilità e delle capacità di ogni persona. Entrare in grotta accompagnando persone con disabilità rafforza nei partecipanti il sentirsi parte di un gruppo, si agisce con tempi più lenti ma necessari, si impara ad apprezzare particolari che prima sfuggivano, sorpresi da quanto si possa vedere utilizzando occhi diversi. Cambiano notevolmente le valutazioni
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sulle proprie capacità e su quelle dei compagni in quanto ci si deve immedesimare nell’altro e valutarne le capacità, fino a spostare il punto e il mezzo di osservazione dell’ambiente: con un non vedente daremo importanza all’esperienza tattile e olfattiva, mentre con una persona con disagio psichico si cercheranno altri stimoli. Ed ecco che la grotta viene nuovamente esplorata non solo per trovarne il fondo o la congiunzione, ma per promuovere la divulgazione e quindi le conoscenze del nostro territorio. Percorrere, attraversare il mondo sotterraneo con il disabile, e non importa se mentale o fisico, significa dare la possibilità di vivere emozioni di libertà e riconoscere il diritto di ognuno di assaporare questo mondo nascosto e meraviglioso.
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Il carsismo nell’area di Massa Marittima Maurizio Negri (Gruppo Speleologico Massa Marittima)
Inquadramento geografico, cartografico e
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geomorfologico
Massa Marittima è la città più importante di quel settore dell’alta Maremma conosciuto come Colline Metallifere. Il comune si estende nella parte settentrionale della Provincia di Grosseto e confina anche con la provincia di Livorno. Il territorio è compreso in 4 fogli della Carta Topografica d’Italia alla scala 1/100.000 (fogli numero 119, 120, 127 e 128 della serie 100 dell’Istituto Geografico Militare). Per l’inquadramento geologico dell’area è stata utilizzata la Carta Geologica d’Italia alla scala 1/100.000 (foglio 119 Massa Marittima, foglio 120 Siena, foglio 127 Piombino e foglio 128 Grosseto) ormai datata ma pur sempre un documento ufficiale, con le relative note illustrative, la più recente Carta Geologica d’Italia alla scala 1/50.000, nella quale si sono concentrate le conoscenze geologiche più recenti (fogli 306-Massa Marittima e 318-Follonica con le relative note illustrative) e la cartografia geologica regionale nelle sezioni alla scala 1/10.000 con lo stesso taglio della Carta Tecnica Regionale (C.T.R.), oltre che i lavori “storici” di Bernadino Lotti e di altri Autori. L’altezza media del territorio massetano è di 380 m s.l.m., con la massima di 914 m s.l.m. circa a Il Poggione, rilievo situato 1,2 km a nord della frazione di Prata (quota da C.T.R. 1/10.000, sezione 306080) e la minima al limite occidentale del comune a sud-ovest dell’abitato di Cura Nuova, nella zona di confluenza della gora delle Ferriere con il fiume Pecora e presso il tracciato della S.S. n. 1 “Aurelia”, dove si trovano quote di 18-20 m s.l.m. (quote da C.T.R. 1/10.000, sezione 318020). In generale si ha una diminuzione dell’altezza del rilievo da est verso ovest, in direzione della costa tirrenica. L’idrografia superficiale è impostata su due fiumi principali: il fiume Pecora, con bacino a drenaggio occidentale, e il fiume Bruna, con bacino a drenaggio meridionale che comprende anche il lago dell’Accesa. Di minore importanza, vista la limitata estensione del loro bacino nel territorio comunale, sono il torrente Milia-fosso Ritorto (bacino del fiume Cornia), il torrente Pavone (bacino del fiume Cecina), il torrente Mersino (bacino del fiume Merse).
La geologia e il carsismo Le formazioni geologiche presenti a Massa Marittima e dintorni, secondo la schematizzazione riportata nelle note dei fogli al 100.000 della Carta Geologica d’Italia, possono essere associate in cinque successioni, quattro delle quali mostrano facies diverse nella stessa unità cronologica, indicando quindi
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bacini di sedimentazione diversi. La quinta successione comprende terreni recenti (neoautoctoni) che indicano l’inizio di una fase lacustre precedente la trasgressione marina del Miocene superiore (Messiniano). I terreni neoautoctoni si trovano in discordanza sui sedimenti delle successioni precedenti, che sono sovrapposte e separate fra loro da superfici di scorrimento tettonico. A partire dal basso le quattro successioni sono: - Formazioni di tipo toscano - Gruppo dell’Alberese - Gruppo del Flysch cretaceo - Gruppo delle argille scagliose ofiolitifere A grandi linee l’assetto tettonico dell’area vede alla base le formazioni di tipo toscano, sedimentate dal Trias superiore all’Oligocene, alle quali sono sovrapposti il Gruppo dell’Alberese (Paleocene-Eocene), il Gruppo del Flysch cretaceo (Cretaceo superiore) ed il Complesso delle argille scagliose ofiolitife-
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Fig. 1. 1-Grotta Prato, 2-Grotta della Fonticella, 3-Grotta del Sambuco, 4-Buca del Granchio, 5-Buca dei Bambini, 6-Buca del Setaccio, 7-Buca delle Voci, 8-Grotta Giulia, 9-Grotta della Spinosa di Perolla, 10-Grotta dei Partigiani, 11-Buca n.6 di Poggio al Dolago, 12-Grotta la Bucona, 13-Grotticella destra del Montone, 14-Grotta del Pesce, 15-Grotta di Vado all’Arancio, 16-Grotticelle del Castello di Perolla, 17-Grotta della Comunità Montana, 18-Grotta del Gallo, 19-Le Tane, 20-Ripari del Trecina/Pecora, 21-Grotta dell’Infernuccio, 22-Grotta Prato 2, 23-Grotta del Frate, 24-Buca dei Suoni, 25-Buca del Troscione, 26-Grotta dei Pipistrelli, 27-Buca del Cinghiale.
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Fig. 2. Carta geologica schematica dell’area di indagine.
re (Giurassico superiore-Cretaceo inferiore) che presenta alla sommità, dopo una lacuna di sedimentazione che si estende per quasi tutto il Cretaceo superiore, la Formazione di Lanciaia (Paleocene-Eocene), discordante sui terreni della serie ofiolitifera e costituita principalmente da brecce e conglomerati con elementi provenienti dalle formazioni sottostanti. Fra i terreni neoautoctoni che sovrastano le quattro successioni descritte sopra sono da citare in particolare i travertini, rocce deposizionali di origine chimica ed ambiente continentale nelle quali si sono sviluppati fenomeni carsici, sia superficiali che sotterranei, molto complessi ed estesi. L’evoluzione delle conoscenze geologiche locali e regionali per l’area d’interesse, dovute soprattutto a finalità minerario-geotermiche, ha contribuito alla realizzazione della più recente Carta Geologica d’Italia alla scala 1/50.000 (fogli 306-Massa Marittima e 318-Follonica con le relative note illustrative). In questa pubblicazione è riportato che nelle Colline Metallifere è riconoscibile un tratto di catena montuosa, il paleoappennino, generatosi nell’intervallo Eocene superiore-Miocene inferiore per effetto della collisione fra il margine continentale europeo e la microplacca Adria, parte della futura penisola italiana, entrato in regime di collasso post-collisionale ad iniziare dalla parte finale del Miocene inferiore. Nelle Colline Metallifere sono individuabili effetti di eventi deformativi succedutisi a partire dalla fine del Cretaceo inferiore in domini paelogeografici diversi, con polarità orogenetica verso l’avampaese adriatico. I movimenti tettonici verificatisi durante gli eventi pre e sin-collisionali che hanno portato alla formazione dell’attuale Appennino, sono responsabili della creazione di una catena “a falde” nella quale l’Unità della Falda Toscana è soprastata da quattro unità alloctone delle quali le tre superiori si sono originate dal Dominio Ligure mentre quella inferiore dal Domino Subligure. L’impilamento di queste unità si è verificato procedendo da ovest verso est, con eventi
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di deformazione (dette “fasi liguri”) che hanno portato alla chiusura del bacino oceanico ligure e alla collisione fra il margine continentale europeo e la microplacca Adria. L’edificio tettonico dell’Appennino settentrionale ha subito, dall’Oligocene al Quaternario, uno spostamento verso est con conseguente migrazione verso tale direzione delle aree di sedimentazione, con graduale ricoprimento e corrugamento dei settori di avanfossa più occidentali. Gli eventi deformativi di questo periodo sono spesso indicati come “fasi appenniniche”. Durante il Miocene inferiore si determina l’accavallamento delle unità sub-liguri e liguri sul Domino Toscano, che a sua volte subisce un forte corrugamento e si sovrappone al Dominio Umbro-Marchigiano. Le Colline Metallifere si configurano, nel Miocene inferiore, come un edificio a falde che più tardi sarà smantellato per effetto dell’instaurarsi di un regime tettonico distensivo, comune a tutto il margine tirrenico dell’Appennino Settentrionale. L’originaria configurazione è ricostruita in maniera approssimativa secondo lo schema di sovrapposizioni che vede, a partire dall’alto: - Unità Liguri - Unità Subliguri - Unità della Falda Toscana - Unità di Monticiano-Roccastrada - Unità degli Gneiss L’assetto strutturale attuale della Toscana meridionale è dovuto sulle deformazioni tettoniche distensive che si sono generate in seguito alla fase postcollisionale che nel Neogene e nel Quaternario ha determinato il collasso e lo smembramento di questo settore della catena nord-appenninica. Recenti studi sul mare Tirreno settentrionale e sui depositi epiliguri della Toscana meridionale indicano il Miocene inferiore come periodo d’inizio delle deformazioni distensive. Ad iniziare da tale momento si sarebbero avuti due diversi eventi distensivi: nel primo evento (Miocene inferiore-Tortoniano superiore) si sarebbe verificata una delaminazione della parte superiore della crosta ad opera di faglie dirette, a basso angolo e geometria complessa che avrebbe generato una “serie ridotta”, cioè una condizione di elisione di forti spessori della successione stratigrafica originaria e sovrapposizione anomala delle Unità Liguri sulla formazione anidritica triassica (alla base della Falda Toscana) o sui termini superiori dell’Unità di Monticiano-Roccastrada. Il secondo evento distensivo sarebbe iniziato nel Tortoniano superiore e terminato nel Pleistocene medio ed avrebbe visto la formazione di faglie listriche che avrebbero determinato un sistema di fosse tettoniche sub-parallele allungate in direzione nord-ovest/sud-est, la cui apertura non si sarebbe verificata contemporaneamente ma sarebbe proceduta gradualmente da occidente verso oriente. Per il primo evento distensivo è stato calcolato un grado di estensione del 60%, mentre per il secondo evento distensivo il grado di estensione sarebbe stato solo del 7% circa. Nel comune di Massa Marittima il carsismo è presente ed attivo in varie formazioni, a partire da quelle di base della Falda Toscana (Dominio Tosca-
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no) fino a quelle recenti ed attuali della Successione neogenico quaternaria del versante tirrenico dell’Appennino settentrionale, interessando affioramenti carbonatici con età estremamente variabili che vanno da oltre duecento milioni a poche migliaia di anni e fino all’attuale. La tettonica ha svolto e svolge un ruolo importante nello sviluppo dei fenomeni carsici. In particolare nella zona di Massa Marittima e dintorni si sono avuti episodi tettonici, in periodi relativamente recenti dal punto di vista geologico, che hanno caratterizzato l’intero territorio...e non solo per i fenomeni carsici. Si pensi, per esempio, ai giacimenti minerari che hanno rappresentato per secoli la maggiore risorsa economica di questa porzione d’Italia suddivisa fra le province di Grosseto, Livorno e Siena conosciuta come Colline Metallifere. Le mineralizzazioni, con origine epigenetica idrotermale, si sono formate grazie agli eventi magmatici, metamorfici e tettonici avvenuti nel tardo-terziario (Miocene-Pliocene) nella Toscana meridionale, nelle fasi finali dell’orogenesi appenninica. Al momento nel comune di Massa Marittima sono conosciute quasi una trentina di grotte (vedi Fig. 1), in alcuni casi modificate dall’opera dell’uomo ed affiancate/inglobate in cavità artificiali come nel caso delle cavernette sotto il castello di Perolla, dove lungo i versanti della collina si trova un insediamento rupestre con 29 cavità di varie dimensioni (31 se si considerano anche due scavi in parete definibili poco più di “nicchie”). Le grotte sono particolarmente concentrate negli affioramenti di travertino, in particolare nella zona dei Pianizzoli, e nello stesso litotipo si trovano anche gli esempi più belli di carsismo epigeo.
Il carsismo nelle formazioni di base della Serie Toscana Le formazioni di base della Serie Toscana non metamorfica affiorano estesamente nella parte settentrionale del territorio comunale e formano le colline a nord del capoluogo e intorno a Prata e Niccioleta, fino al confine con Montieri e Monterotondo Marittimo. Un altro affioramento si trova nella parte centrale del
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comune e forma una dorsale con direzione nord-sud fra Valpiana e Capanne. Si noti che in alcune carte geologiche ormai datate, la Breccia di Grotti (Brecce e conglomerati ad elementi di Calcare Cavernoso) del Turoliano superiore, non era distinta dal Calcare Cavernoso (Trias superiore). Dal punto di vista carsico il comportamento delle due formazioni è paragonabile e quindi si è optato, nella carta geologica schematica di Fig. 2. per il loro accorpamento. Nella maggior parte dei casi le cavità si sviluppano nel Calcare Cavernoso s.s. (Trias sup.) con profondità che nel contesto speleologico massetano sono significative. Principali esempi di grotte nel Calcare Cavernoso sono la “bucona” (località Campo al Santo, in proprietà recintata), la grotta dei Partigiani (poggio Mandriacce), la grotta della Comunità Montana, la Grotta del Pesce (Soda Cavalli) e la grotta dell’Infernuccio (l’Infernuccio-poggio Lecceta). La “bucona” (vedi pianta e sezione nella pagina a lato) è una cavità naturale che si apre nel fondo chiuso del podere Campo al Santo, all’interno della proprietà della famiglia Niccolini, alla quale dev’essere richiesto il permesso d’accesso. Il nome della grotta è un nome d’uso dei proprietari, che in effetti richiama la morfologia della cavità, visto che si tratta di una grotta ad andamento orizzontale, praticamente monocamerale anche se con brevi condotte che verranno descritte in seguito, e con ampio ingresso ad arco. Dall’ingresso, che si apre verso nord-est, proviene il materiale di riempimento che forma il pavimento attuale. Il materiale detritico, in prossimità di alcuni tratti delle pareti orientali, forma delle zone di vuoto che permettono di vedere una sezione del riempimento. Sono stati fatti tentativi di ricerca di prosecuzioni della grotta. I due punti di indagine più vicini all’ingresso, sulla parete orientale, hanno messo in evidenza la presenza di fratture che esercitano un’azione di “drenaggio concentrato” alla quale deve essere imputato l’avvallamento rilevabile nel pavimento in corrispondenza dei punti suddetti. Nelle condizioni meteoclimatiche attuali non sembra che questa parte della grotta possa essere considerata attiva se non in occasione di eventi di precipitazione consistenti e persistenti, pertanto le morfologie rilevate (modesti avvallamenti), potrebbero essere indicate come morfologie quasi-relitte, fermo restando la già accennata possibilità di riattivazione del passaggio di acqua in occasioni particolari. Al di sotto di uno dei due blocchi rocciosi, in parte concrezionati, presenti sul fondo della cavità, si trova una condotta accessibile da un piccolo inghiottitoio situato dietro al blocco medesimo. All’interno della condotta, estremamente stretta e bassa, sono stati eseguiti tentativi di scavo per verificare la possibilità di prosecuzioni. Il risultato è stato negativo perché sul fondo non è stata individuata nessuna direzione preferenziale di prosecuzione pertanto, vista l’impossibilità e l’illogicità di eseguire uno scavo a 360 gradi, che avrebbe portato alla creazione di una cavità artificiale, e non alla prosecuzione di una cavità naturale, si è desistito dall’opera. Nella parte più interna della grotta è presente un arrivo di acqua che ha formato una colata stalagmitica. L’acqua proviene da una condotta in leggera salita ed in parte concrezionata, sviluppata lungo la direzione sud-ovest. Un tentativo di disostruzione ha portato alla prosecuzione
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nella condotta per circa 2 metri, prima di entrare in una strettoia in roccia viva che al momento non è stato possibile superare. Il colle al di sopra della grotta arriva alla quota di 493,1 m s.l.m., mentre la grotta si apre alla quota di circa 455 m s.l.m.. La potenzialità massima di roccia carsificabile soprastante è modesta, circa 38 metri. La grotta dei Partigiani deve il nome a vicende avvenute durante l’ultimo conflitto mondiale e si trova ad est di poggio Mandriacce. La grotta si presenta con un unico ampio ingresso che immette in una grande sala dal pavimento fortemente inclinato, costituito da una china detritica che dall’esterno prosegue più o meno uniformemente fino al fondo dell’ambiente. Un’area pressoché pianeggiante è presente in prossimità dell’ingresso, sulla sinistra scendendo, nella quale si riconoscono tracce di “sistemazioni” quali la regolarizzazione del fondo e l’asportazione di materiali detritici grossolani. Durante una ricognizione nella grotta, effettuata nel 1998 da membri dell’Unione Speleologica Pratese, fu notato che da un piccolo cumulo di pietre situato dietro ad uno dei massi sul fondo della cavità affiorava un oggetto appuntito che risultò essere una punta di un palco di cervo. Insieme al primo palco individuato, sotto al piccolo cumulo, erano presenti altri pezzi di palco, per un totale di 12 frammenti, fra grandi e piccoli. (Fig. 3) In seguito alla segnalazione del ritrovamento alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana sono state effettuate delle ricognizioni con l’Ispettore Archeologo responsabile della zona ed è stata rilevata l’opportunità di eseguire delle operazioni di distruzione per verificare la possibile presenza di altri ambienti della cavità, resi inaccessibili dal cumulo di detriti provenienti dall’esterno attraverso l’ampio ingresso. Fig. 3. L’entrata della Grotta dei Partigiani e i palchi di Cervo in essa ritrovati, foto di M. Negri.
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Le indagini effettuate hanno portato alla scoperta di piccoli vani, in alcuni dei quali è possibile penetrare, anche se strisciando, situati fra il deposito detritico e le pareti della cavità. Tali vani sono dovuti al riempimento irregolare da parte del detrito, che ha formato delle “sacche” di vuoto a ridosso delle pareti della cavità. La loro genesi deve quindi essere imputata ad azioni gravitative e non ad azioni carsiche. Nel corso degli anni si sono susseguite più ricognizioni sul sito che nel 2009 portarono ad individuare nuovi palchi di cervo con deposizione simile a quelli già rivenuti. Durante il sopralluogo effettuato con l’Ispettore di zona della S.B.A.T. nel gennaio 2010 è stato documentato fotograficamente il deposito ed è stato prelevato un palco per analisi paleontologiche. Nelle strutture dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Laboratorio di Tecniche Nucleari per i Beni Culturali-LABEC) del Polo Scientifico di Sesto Fiorentino (FI), la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana ha avuto la possibilità di far eseguire, sul palco prelevato, una datazione radiometrica in maniera gratuita grazie ad una convenzione regionale (TEMART) fra Enti operanti nel settore beni culturali ed I.N.F.N.. Il reperto è stato consegnato ai laboratori I.N.F.N. ad inizio primavera 2010, la datazione C14 è stata eseguita in luglio 2010 ed i risultati sono stati disponibili ai primi d’agosto 2010. Le analisi hanno rilevato per i due campioni ottenuti dal palco di cervo proveniente dalla grotta dei Partigiani, un’età compresa fra il 1303 e il 1434 (cal. AD). La grotta della Comunità Montana (vedi rilievo alla pagina precedente) si apre con un ingresso a pozzo, di forma ellittica irregolare, con lunghezza degli assi, rispettivamente, di circa 5 m e 3 m. Il nome deriva dal fatto che la cavità è stata segnalata da personale della Comunità Montana (ora Unione dei Comu-
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ni) delle Colline Metallifere, che ha provveduto anche alla messa in sicurezza della zona con una recinzione in pali e rete metallica intorno all’ingresso. La profondità del pozzo di accesso è di circa 5 metri e per la sua discesa è necessaria l’attrezzatura da progressione su corda. L’ampiezza dell’ingresso permette che luce esterna penetri per buona parte della cavità. Disceso il pozzo, ci si trova alla sommità di una china detritica inclinata verso la parte più profonda dell’ipogeo, costituita dal materiale lapideo derivante dal crollo del tetto della caverna in corrispondenza della zona dell’ingresso attuale e, in misura minore, da detriti provenienti dall’esterno. L’apporto dall’esterno appare, infatti, estremamente limitato anche in conseguenza del fatto che la grotta si apre praticamente sulla sommità del colle denominato Campo alla Cappella, alla quota di circa 650 m s.l.m. Due cunicoli si trovano in corrispondenza della base del pozzo di ingresso ma, in entrambi i casi, dopo una breve opera di disostruzione è stato interrotto il lavoro per la presenza di roccia viva sulle pareti dei condotti, che tendevano a restringersi sempre di più rendendo impossibile la prosecuzione. Discendendo la china detritica si arriva in una stanza con dimensioni sub circolari e diametro di circa 10 metri. La zona a sud non ha portato a nessun risultato per quanto riguarda la prosecuzione, trattandosi probabilmente di un settore della cavità nel quale per l’elevato numero di diaclasi si era formata una zona di assorbimento diffuso. Alla destra della zona sopra descritta (volgendo le spalle all’ingresso), in corrispondenza della parete sud della grotta, è presente una colata di concrezione che prende origine da un piccolo arrivo d’acqua poco più in alto del pavimento. Spostandosi nella parete nord della cavità è stata eseguita una disostruzione in prossimità della fine della china detritica dell’ingresso che ha permesso di ricavare uno spazio di circa 2 metri di lunghezza fra il deposito detritico e la parete della cavità, senza permettere ulteriori prosecuzioni. Un ulteriore intervento, che ha richiesto notevole impegno, è stato effettuato sempre sulla parete nord della grotta. Questa volta la disostruzione è stata eseguita su una condotta in salita, facendo franare, in maniera controllata, il materiale scavato. Con l’uso di attrezzi dotati di manico appositamente allungato, si è pro-
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dotto un’apertura alla base del materiale che ostruiva il condotto in salita fino a farle assumere dimensioni sufficienti al passaggio di una persona. Una volta superato l’ostacolo è stato possibile entrare in una saletta di circa 3 metri per 2, molto concrezionata ed impostata lungo una diaclasi della roccia. La saletta presenta tracce di scorrimento di acqua che ha prodotto anche una colata di concrezione sul pavimento del condotto che la collega alla sala principale della grotta. Per lasciare in sicurezza la cavità una volta penetrati nella nuova saletta, è stata completata l’opera di disostruzione su tutto il diametro della condotta in salita per evitare che materiali instabili possano costituire un pericolo per i futuri visitatori della grotta. Spostandosi verso la parte centrale del comune troviamo l’area dell’Infernuccio-poggio Lecceta-Accesa, che è riconducibile allo schema classico di massiccio carsico, con una zona di assorbimento (le parti più elevate delle colline) dove si trovano cavità a prevalente andamento verticale (la grotta dell’Infernuccio, ad esempio), ed una zona di risorgenza delle acque, ormai non più attiva, con cavità a prevalente sviluppo orizzontale (la Grotta del Pesce a Soda Cavalli). Attualmente il livello di risorgenza è più basso di quello della Grotta del Pesce che in pratica è una cavità fossile non essendo più interessata dallo scorrimento delle acque, se non in occasione di eventi di precipitazione importanti. Nella situazione odierna infatti le acque di infiltrazione della zona dell’Infernuccio-poggio Lecceta seguono un percorso verticale fino ad una quota inferiore rispetto a quella del piano di Soda Cavalli, e sono probabilmente in contatto diretto con il lago dell’Accesa. Al limite fra il piano di Soda Cavalli e il versante nord-est di poggio Lecceta si trova la Grotta del Pesce. La cavità si apre con un vasto ambiente di forma irregolare, ingombro di grossi massi di crollo che in prossimità delle pareti, soprattutto sul lato orientale, hanno in parte ostruito l’accesso alle zone più profonde creando diverticoli di varie dimensioni e profondità. Alla grotta si accede solo attraverso un’ampia apertura in corrispondenza della volta, al di sotto della quale si è formato nel tempo una conoide fortemente scoscesa di terreno e pietrame scivolati dall’esterno, che consente la discesa alla sala principale. Questo ambiente ha una lunghezza di circa m 20 secondo l’asse nord-sud, circa m 24 secondo l’asse est-ovest, mentre l’altezza massima è stimabile a circa m 9. Il deposito che forma il pavimento, costituito da terreno e da numerosi massi di varie dimensioni, è in pendenza verso sud e verso est. Nella parte meridionale del salone principale si trovano due colate di concrezione a testimoniare la presenza di scorrimenti di acqua, che si riattivano anche attualmente, con portate non significative, in occasione di precipitazioni importanti. Sul lato occidentale sono presenti due conoidi costituite da limo argilloso di colore giallo proveniente da fenditure nella roccia, ora parzialmente ostruite, al quale si aggiungono apporti di terreno vegetale provenienti dall’ingresso principale. La conoide più settentrionale presenta una superficie in netta pendenza da
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ovest ad est, che procedendo verso Oriente assume un andamento quasi orizzontale, ottenuto in parte artificialmente come evidenzia una struttura in pietre, simile ad un muretto a secco di contenimento, risalente all’epoca della Seconda Guerra mondiale, quando la grotta era adibita a rifugio temporaneo. La grotta prosegue verso il basso in direzione nord-est, dove scendendo e passando su di un accumulo detritico, si arriva a due ambienti: in quello posto più a nord si trova una colata di concrezione simile, anche se di dimensioni minori, a quelle presenti nella parte meridionale del salone principale, nell’altro sono evidenti i segni del passaggio di clandestini, che hanno rovistato sul fondo composto da pietrame. La grotta era stata segnalata alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana nel 1999 ma era già nota sia a studiosi di Preistoria che ad appassionati locali: al momento del primo sopralluogo erano già ben evidenti numerosi interventi di tombaroli. Il nome Grotta del Pesce deriva dal ritrovamento, negli anni ‘80 del secolo scorso, di frammenti ossei attribuiti ad un non meglio precisato “pesce” (c’è chi dice un luccio...) da parte di un noto paleontologo dell’Università di Firenze. I reperti sono andati persi! Un primo rilievo topografico della grotta fu effettuato nel 2001 nell’ambito del Progetto del Ministero per i Beni e le Attività culturali 2000-2002 denominato “Massa Marittima - Grotte di interesse archeologico - censimento e documentazione”. In quest’occasione vennero osservati ulteriori interventi di tombaroli e raccolti nel terreno di risulta degli scavi abusivi resti osteologici e materiali ceramici riferibili all’Eneolitico. Avendo constatato tuttavia durante un successivo sopralluogo nel gennaio 2005 la completa devastazione anche del settore della grotta occupato dalla struttura in pietre costruita durante l’ultima guerra, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana decise un intervento per verificare la consistenza residua del deposito archeologico. Alla campagna archeologica del 2005 ne è seguita un’altra nel 2007: le indagini hanno evidenziato come la grotta sia stata utilizzata a scopo sepolcrale fin dall’Eneolitico.
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La grotta dell’Infernuccio è una delle grotte più profonde del comune di Massa Marittima ed arriva a circa 70 m di profondità. La cavità si apre con un inghiottitoio di forma ellittica irregolare (5x7 m circa) generato dal crollo del soffitto di una grande stanza. L’accesso può avvenire solo con l’ausilio di tecniche speleologiche su sola corda, che permettono di “atterrare” su un cumulo di materiale costituito dal detrito del vecchio soffitto e dai successivi crolli, oltre a quanto lanciato nell’interno da chi considera la cavità alla stessa stregua di una discarica. La grotta continua con una galleria in discesa piena di massi di crollo che deve essere individuata, con qualche difficoltà, fra le numerose aperture che si trovano fra la parete della grande stanza di crollo ed i massi franati che creano innumerevoli passaggi. La prosecuzione è impostata lungo una discontinuità tettonica che probabilmente costituisce una delle tante linee di risalita dei fluidi mineralizzanti che hanno arricchito l’intera zona dei giacimenti sfruttati in passato. L’Infernuccio è quindi una cavità nella quale si trovano tracce di mineralizzazioni ed ossidazioni ad opera dei fluidi di risalita. Non è impossibile che la grotta, d’origine naturale, possa essere una cosiddetta grotta-miniera. L’Infernuccio presenta caratteristiche geomorfologiche che potrebbero indicare tale condizione. In particolare il fatto che la cavità si sviluppi in profondità con una galleria discendente, in prima approssimazione rappresentabile come un cunicolo e non come una struttura ipogea prevalentemente bidimensionale secondo la superficie di faglia, come ci si potrebbe aspettare, lascia pensare che l’intervento dell’uomo potrebbe avere contribuito con opere di scavo alla formazione di una tale morfologia. Non sono ancora state trovate evidenze inoppugnabili di antichi lavori d’estrazione ma questo non può escludere con certezza la possibilità che l’Infernuccio possa essere una grotta-miniera.
Il carsismo nel Travertino e la questione dei travertini
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Il processo di formazione dei travertini permette di classificarli geneticamente come rocce di origine chimica. Essi si formano in ambiente continentale per deposizione di sali (in prevalenza carbonato di calcio), originariamente solubilizzati in acque dolci. La mineralizzazione di tali acque, di origine meteorica e successivamente infiltratesi al di sotto della superficie terrestre, avviene per dissoluzione delle rocce incassanti. In particolare i litotipi carbonatici sono facilmente solubili e pertanto in grado di fornire carico salino (sotto forma di bicarbonato di calcio) alle acque percolanti. Con la permanenza in ambiente ipogeo può inoltre avvenire l’acquisizione di proprietà termali da parte della soluzione, grazie alla miscelazione con fluidi endogeni od al passaggio attraverso zone di anomalia termica. La risorgenza determina una variazione delle caratteristiche fisiche delle acque (temperatura e pressione), e conseguentemente la deposizione dei sali trasportati. I depositi, che si presentano come incrostazioni, possono inglobare detriti di varia provenienza e resti vegetali come
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fogliame, frustoli o tronchi in assetto caotico (facies fitoclastica) o in assetto vitale (facies fitoermale), arrivando talora a formare placche con estensione chilometrica e spessori in grado di coprire gli affioramenti geologici sottostanti. Le deposizioni di travertino non si limitano alle zone vicine alle sorgenti (che nel frattempo possono anche essere non più attive) ma anche a quelle aree dove i fiumi o i torrenti formano cascate, nelle quali il flusso turbolento provoca una rapida perdita di anidride carbonica dalle acque e la deposizione localizzata di carbonato di calcio. In alcuni casi esiste una componente biologica, dovuta alla presenza di batteri e di alghe capaci di fissare l’anidride carbonica (CO2) che favorisce la deposizione del carbonato di calcio (CaCO3) dalle acque. Tali depositi, di acque calme o meno turbolente, assumono un aspetto a più strati con andamento più o meno parallelo e caratteristiche tessiturali e di colore che sono funzione delle condizioni biochimiche e fisiche delle varie fasi di accrescimento (facies stromatolitica). Nel caso di acque termali ricche in carbonato di calcio la deposizione del calcare, e quindi la formazione di travertino, è favorita anche dell’abbassamento della temperatura della soluzione a seguito alla risorgenza. Possono quindi aversi travertini più o meno “cariati” (o vacuolari, ovvero “con fori”) a seconda di dove si sono formati: da un ambiente ricco di resti vegetali (sorgente, cascata di fiume o torrente etc.) nascono in genere travertini molto vacuolari, da un ambiente di tipo termale in genere nascono travertini più compatti. Di seguito, per completare, si riporta la descrizione del travertino ripresa dall’Enciclopedia Italiana edita dalla Treccani (1937): “Varietà di calcare, denominato da Lapis Tiburtinus “pietra di Tibur”, antico nome di Tivoli, e formato per incrostazione da acque dolci calcarifere presso le cascate, nel fondo stesso dei bacini e ai margini delle sorgenti calcarifere. Di colore bianco o giallognolo chiaro, di rado rossastro per la presenza di idrati di ferro o bruno fino a nero per quella di sali di manganese. Più o meno compatto con strati-
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Fig. 4. Carta geologica differenziata dell’area.
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ficazione evidente, poroso o cavernoso, per vacui dovuti a vegetali intervenuti indirettamente nella formazione del travertino e poi scomparsi lasciando le cavità. Alcune batteriacee concorrono invece direttamente alla sua formazione fissando il CO2 e facilitando così la deposizione del CaCO3...”. Se nella massa di travertino già formato e più o meno cariato (o vacuolare) inizia a circolare acqua proveniente da un fiume, torrente, o semplicemente da pioggia che si è infiltrata nel sottosuolo, allora possiamo avere fenomeni carsici con la formazione di grotte o cavità, diverse da quelle originate dai resti vegetali ma dovute a corrosione ed erosione. In altri casi, variando le caratteristiche chimiche e fisiche delle acque che circolano nella massa di travertino, anziché la formazione di “vuoti” possono aversi fenomeni di concrezionamento, con la creazione, sia all’interno delle cavità primarie ed originali (quelle dovute ai resti vegetali), sia in quelle carsiche secondarie (formatesi in tempi successivi e dovute ad erosione e corrosione), di stalattiti, stalagmiti e crostoni di concrezionamento. Nel massetano il carsismo nel travertino è molto sviluppato ed in modo particolare nell’area dei Pianizzoli, qualche chilometro ad est del capoluogo (Fig 4). Secondo alcuni Autori la genesi dei travertini dei Pianizzoli è attribuibile al Quaternario (Pleistocene), mentre per altri al Pliocene superiore in base alla presenza di resti vegetali delle specie Cinnamophyllum polymorphum (Braun) e Fagus sylvatica Linneo. La questione dei travertini massetani è da lungo tempo dibattuta. La maggior parte degli studiosi riconosce due fasi di deposizione: una nel Pliocene superiore (travertini antichi Auctt.) ed una nel Pleistocene medio e superiore. Alla prima fase è attribuibile la formazione delle placche di Massa Marittima (400 m s.l.m.), di poggio al Montone (361 m s.l.m) di monte Arsenti (535 m s.l.m.) e di Pianizzoli (286 m s.l.m.), mentre alla seconda appartengono quelle di piano del Padule e di Valpiana, nella valle del Pecora. Per quanto riguarda le placche più antiche, la loro posizione su alture isolate e la notevole altezza sul livello del mare poneva difficoltà di interpretazione riguardo la paleo-morfologia dell’ambiente di formazione, oltre che sollevare problemi interpretativi in considerazione del contesto orografico attuale che veniva descritto nell’ambito di un quadro geodinamico di tipo distensivo. In tempi relativamente recenti (1990) un gruppo di studiosi dell’Università di Firenze riconobbe episodi di compressione neogenico-quaternari nell’area tirrenica, generalmente fino a quel periodo indicata essere in regime tettonico distensivo, al contrario dell’area adriatica indicata in regime tettonico compressivo. Inoltre, per l’area delle Colline Metallifere, occorre considerare che il quadro tettonico è stato anche influenzato e complicato dagli episodi che hanno dato luogo alla messa in posto delle mineralizzazioni e dagli eventi successivi. In questo contesto geodinamico, non più da considerarsi esclusivamente dominio di tettonica di tipo estensivo, gli innalzamenti delle placche di travertino a quote più elevate rispetto a quelle dei fondovalle originari trovano una loro giustificazione ed anche le datazioni relative che attribuivano una maggiore antichità alle placche poste alle quote maggiori non è detto che siano corrette in tutti i casi.
La placca di Travertino dei Pianizzoli
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La placca di travertino dei Pianizzoli presenta delle particolarità che non si rilevano in altre parti dell’area carsica di Massa Marittima. In quest’affioramento la densità di fenomeni carsici epigei ed ipogei è la più elevata fra le placche della stessa formazione situate in zone vicine a quella oggetto di studio e che, almeno a grandi linee, hanno avuto una storia geologica simile. In un articolo di M. Tongiorgi (Evoluzione della rete idrografica degli alti bacini della Bruna e della Pecora nei dintorni di Massa Marittima, pubblicazione n. 50 del Centro di Studi per la Geologia dell’Appennino del C.N.R., edita nel 1958 all’interno del volume 77-secondo fascicolo, del Bollettino della Società Geologica Italiana) si ricostruisce la storia dell’idrografia di superficie dall’inizio del Quaternario, affermando che a seguito di catture e tracimazioni il bacino del Pecora si è ridotto in estensione a favore di quello del Bruna. Queste variazioni, testimoniate da depositi sedimentari e valli morte, avrebbero interessato anche i corsi di Gavosa e Carsia, che oggi si trovano, praticamente, ai limiti occidentali ed orientali della placca travertinosa (si noti che il Gavosa scorre in parte in un alveo artificiale scavato nel travertino allo scopo di evitare impaludamenti nei campi ad ovest del podere Pianizzoli). Le modifiche avvenute nella rete idrografica superficiale hanno lasciato testimonianze anche in sotterraneo e fra queste, probabilmente, i depositi conglomeratici che
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Fig. 5. Deposito conglomeratico nella Grotta Prato 2, foto di G. Dellavalle.
Fig. 6. Laghetto carsico presso la dolina del Frate, foto di M. Negri.
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si trovano in grotta Prato 2 rappresentano un possibile spunto per futuri studi paleoambientali (Fig 5). La concentrazione elevatissima dei fenomeni carsici nella zona dei Pianizzoli potrebbe quindi essere spiegata con la disponibilità di acque in un passato relativamente recente, con il travertino almeno in parte già messo in posto, in una fase evolutiva della rete idrografica precedente l’assetto attuale. La presenza di doline di varia morfologia e dimensione, di valli cieche e di inghiottitoi, si veda la carta geologica schematica dell’area, comprova lo sviluppo del fenomeno carsico in ambiente epigeo. Al di sotto della superficie del terreno il grado di evoluzione del carsismo profondo è ben testimoniato dalla presenza di numerose grotte, la maggiore delle quali, la Prato 2, ha uno sviluppo di circa 1400 metri ed è una delle cavità naturali più estese della Toscana al di fuori delle Alpi Apuane. Sono in corso tentativi di giunzione con la grotta del Frate. Il sistema ipogeo risultante avrebbe uno sviluppo prossimo ai 2 chilometri e consentirebbe l’attraversamento della placca per buona parte della sua estensione secondo l’andamento nord-ovest/sud-est, passando, all’interno del massiccio carsico, dalla zona di assorbimento idrico a quella di risorgenza. Le sorgenti principali attuali sono, sul lato del torrente Carsia, quelle del “Defizio”, originato dall’acqua della grotta Prato 2, ed una piccola venuta d’acqua convogliata in una cisterna situata nell’area della ex Miniera di Pirite (toponimo da cartografia I.G.M.I.). La zona di assorbimento del sistema carsico è identificabile con le località podere Pianizzoli-piano del Troscione, due aree pressoché pianeggianti, fra i 290 ed i 270 m s.l.m., separate dalla strada provinciale “n. 28-Perolla”. Nel piano del Troscione si trovano uvala, doline ed inghiottitoi, ad iniziare dal limite settentrionale della pianura alla base delle
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pendici meridionali del colle di case Concordia. Qui, in prossimità della strada vicinale, si apre un inghiottitoio con diametro di circa 5 metri e profondità di 6 metri. Un altro inghiottitoio si trova a sud del laghetto artificiale situato sempre lungo la strada vicinale che costituisce il limite settentrionale del piano del Troscione, ed è utilizzato per fare defluire le acque in eccesso del vicino laghetto. In questo caso le dimensioni sono di circa 7 metri per 10, con una profondità di 10 metri rispetto al piano di campagna. In entrambi i casi, per adesso, non sono stati individuati accessi a cavità praticabili. Un laghetto naturale semipermanente occupa un avvallamento carsico poco accentuato a breve distanza dalla provinciale e nelle vicinanze si rilevano due doline di grandi dimensioni (Fig. 6). Il diametro (50 metri) e la profondità (5 metri) sono simili in entrambi i casi ed è possibile classificarle come doline a piatto; nella dolina più a nord si nota la presenza di un punto evidente di assorbimento, costituito da una depressione in terra di circa un metro di profondità. Avvicinandosi al podere Pianizzoli lungo una strada vicinale che collega il laghetto naturale alla provinciale n. 28, a circa 100 metri da questa si trova, inoltrandosi per poche decine di metri nel bosco sulla sinistra, una dolina di crollo con diametro massimo di circa 25 metri ed una profondità di 10 m. Questa dolina è una delle più famose forme carsiche epigee della zona ed è conosciuta come dolina del Frate. Sul suo fondo, raggiungibile senza necessità di attrezzature speleologiche scendendo su di un ripido sentiero sul lato di nord-est, si apre il pozzo d’accesso alla grotta del Frate. Sempre nel lato di nord-est si trova un’altra cavità che scende verso il basso con un’inclinazione costante di circa 30°. Percorrendo questa galleria per pochi metri si arriva ad uno specchio di acqua ferma alimentato da un corso d’acqua superficiale che ha il suo bacino idrografico epigeo nell’area compresa fra la strada provinciale, la dolina del Frate ed il laghetto naturale citato in precedenza. Questo torrente forma nella parte finale del suo corso una valle cieca che termina con una brusca controtendenza, una vera e propria parete verticale nel travertino alla base della quale si apre la cavità assorbente. L’inghiottitoio è posto immediatamente a destra della vicinale che porta verso i Pianizzoli, alla stessa altezza della dolina del Frate. La valle cieca e la dolina del Frate sono quindi collegate fra loro da una cavità carsica parzialmente occupata dall’acqua, praticabile in condizioni di siccità prolungata, e che passa al di sotto della strada vicinale. Nelle adiacenze della dolina del Frate, poche decine di metri a nord-est, si trova una piccola dolina, con diametro di 4 metri e profondità di 1,5, che presenta al suo interno un evidente inghiottitoio in terra. Spostandosi sull’altro lato della provinciale n. 28 una grande dolina a piatto (diametro medio 50 metri per 5 di profondità) costeggia a sinistra il viale che porta verso il podere Pianizzoli, all’interno di un recinto usato per maneggio di cavalli. Dalla parte opposta del medesimo viale si trova un’altra dolina, con morfologia simile alla precedente e profondità analoga ma con diametro leggermente maggiore (60 metri). Qualche decina di metri a nord-ovest di questa struttura carsica, all’interno di una piccola area boscata, si apre una dolina di crollo con morfologia a pozzo, diametro di circa 10 metri e profondità di 4. A sud del podere Pianizzoli, al limite dell’area coltivata, si trovano altri esempi
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di carsismo superficiale. Una grande dolina a scodella, del diametro di circa 20 metri, si apre in un terreno boschivo poche decine di metri a nord degli ingressi delle grotte del Cinghiale e dei Pipistrelli, mentre poco ad ovest si trova un altro sprofondamento carsico con diametro medio di 20 metri e profondità totale di 7. Da segnalare, in quest’ultima struttura, la presenza di un inghiottitoio in terra situato nella parte più bassa della dolina. L’inghiottitoio, a pareti verticali, si apre nel terreno con un diametro di circa tre metri per uguale profondità. Sul fondo si trova roccia, indicatore potenziale della presenza di una cavità praticabile. In quest’area a sud dei Pianizzoli potrebbe essere ipotizzata la presenza di due valli cieche, il cui punto di inghiottimento corrisponderebbe alle grotte del Cinghiale, dei Pipistrelli e del Sambuco, quest’ultima situata poco più ad est rispetto alle prime due. Le cavità si aprono alla base di un costone di travertino con andamento perpendicolare rispetto alla direzione di drenaggio superficiale. Un esame topografico dell’area evidenzia come le grotte si trovino in punti di minimo dei rispettivi microbacini idrografici epigei. Le variazioni occorse al torrente Gavosa, per cause sia naturali (si veda quanto scritto precedentemente riguardo l’articolo di Tongiorgi) sia artificiali, hanno modificato le condizioni idrologiche della zona rendendola, dal punto di vista carsico epigeo, quasi fossile. Il rapporto fra uomo e grotte, in quest’area del comune come a Rigalloro-la Camilletta (le Tane), Cura Nuova-Vado all’Arancio (riparo di Vado all’Arancio) e a Soda Cavalli (Grotta del Pesce), inizia dalla Preistoria: sono innumerevoli le testimonianze che i nostri progenitori ci hanno lasciato a prova della loro presenza stabile e continuativa in questo ambiente. Molte grotte dei Pianizzoli sono state usate per scopi sepolcrali, altre per usi abitativi e in alcuni casi, in tempi diversi, per entrambi gli scopi. Purtroppo i tombaroli hanno danneggiato i siti e rubato gli oggetti depositati da millenni...una buona parte di quello che è stato possibile salvare si trova in esposizione presso il Museo Archeologico di Massa Marittima. Per rendere un’idea dell’interesse archeologico dell’area si veda la Fig. 7 alla pagina successiva. Di seguito verranno descritte le più significative cavità naturali conosciute, fino ad oggi, nell’area dei Pianizzoli. Alcune grotte sono note con più nomi, in genere due: uno con il quale sono state registrate presso il catasto regionale delle cavità, curato dalla Federazione Speleologica Toscana, ed uno d’uso, mantenuto per consuetudine. Per chiarezza nel presente lavoro sono citati entrambi. La caverna di Pianizzoli (grotta del Sambuco) si apre a circa 200 metri a sud del podere Pianizzoli, appena all’interno dell’area boschiva che circonda la zona coltivata. La cavità è catastata con il nome di “Caverna di Pianizzoli” ed il numero 0783 T/GR, si presenta con un ampio ingresso che si apre nella parte inferiore di una vallecola carsica, alla quale, in passato, corrispondeva una zona attiva di assorbimento. L’apertura d’ingresso immette in una sala avente la dimensione massima di circa 15 metri. La grotta del Sambuco ha un particolare interesse archeologico; al suo interno, infatti, gli scavi effettuati nel 1978 e nei successivi anni ’80 hanno portato al rinvenimento di reperti attribuiti ad industria litica dell’Epigravettiano italiano. Dopo decenni di stasi l’Università
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di Siena ha recentemente ripreso gli scavi nella grotta. La cavità catastata con il nome Buca di Pianizzoli n. 1 ed il numero 0784 T/ GR, è conosciuta anche come Buca dei Pipistrelli. È situata a sud del podere Pianizzoli, superato di poco il margine dell’area coltivata. Si apre come un inghiottitoio nel travertino, in forma di una piccola valle chiusa che potrebbe essere una valle cieca. Dopo uno scivolo di circa 8 metri si giunge in una saletta dalla quale, superato un cunicolo, è possibile accedere ad una sala più ampia, con il fondo in leggera pendenza e che ospita una numerosa colonia di pipistrelli. La temperatura degli ambienti della Buca dei Pipistrelli è maggiore, rispetto a quella delle grotte circostanti, per la presenza di notevoli quantità di materiale organico in fermentazione. La grotta catastata con il nome Buca di Pianizzoli n. 2 e con il numero 0785 T/GR al catasto regionale delle cavità, è conosciuta anche come Buca del Cinghiale. Si trova nelle immediate vicinanze della Buca dei Pipistrelli e, nonostante ad oggi non siano conosciuti collegamenti fra le due cavità, dal punto di vista morfo-carsico fa parte del medesimo sistema di assorbimento. L’accesso è dato da un’apertura di circa 50 centimetri sul fondo di un piccolo inghiottitoio che immette in un pozzetto della profondità di 5 metri circa, per la discesa del quale è consigliabile la progressione su corda. La grotta Prato, catastata con il numero 1353 T/GR, è stata scoperta dal Gruppo Speleologico Pratese, oggi Unione Speleologica Pratese, nel 1978. Si trova alcune centinaia di metri a sud del podere Pianizzoli. Da un piccolo inghiottitoio nel travertino, dopo un breve salto di circa 2 metri che non richiede
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Fig. 7. Grotte Preistoriche dell’area di Pianizzoli.
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l’uso di attrezzature da progressione su corda, si accede ad una stanza di circa 10 metri per 12, con il pavimento occupato da massi di crollo e vario detrito eterodimensionale. Dalla parte opposta della stanza rispetto all’apertura di ingresso si trova un cunicolo concrezionato, dove attualmente non si rileva il passaggio di acqua, che immette, sulla sinistra, in una diaclasi inclinata e parzialmente occupata da crolli e franamenti che porta verso la parte più bassa della cavità. La grotta fu usata nell’Eneolitico come luogo sepolcrale. Gli scavi archeologici condotti negli anni 1979 e 1981 dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana e dall’Università di Pisa hanno permesso di recuperare materiale osteologico e di corredo, in parte oggi visibile al Museo Archeologico di Massa Marittima. Gli studi antropologici condotti sui reperti osteologici hanno portato a capire che nella cavità sono stati sepolti oltre 90 individui, con altezza media piuttosto elevata: 164 cm per i maschi e 156 per le femmine. La fascia di mortalità era concentrata fra 20 e 25 anni. La grotta del Somaro, catastata con il numero 1354 T/GR, è conosciuta anche con il nome di Buca dei Bambini. Si trova ad ovest del torrente Gavosa, sulle pendici orientali del poggio del Pidocchio, circa 700 metri, in linea d’aria, a sud-ovest del podere Pianizzoli. La grotta si apre in un pianoro dalla morfologia irregolare che la placca di travertino forma a circa 270 metri s.l.m., delimitato sia a monte che a valle da due ripide scarpate. L’accesso è costituito da uno scivolo di circa 3 metri che immette in un primo ambiente dal quale si può inoltrarsi, attraverso un passaggio fra massi di frana, in una saletta a quota leggermente inferiore o salire verso un settore superiore della grotta, che è in comunicazione diretta con l’esterno. La cavità, con sviluppo totale di poche decine di metri, si è formata principalmente per effetto di crolli e non per effetto della dissoluzione, anche se sono presenti tracce di carsificazione. Si tratta di una cavità sepolcrale usata durante la prima età dei metalli e studiata dall’Università di Pisa negli anni 1979-1980. Il nome “Buca dei Bambini” è stato dato perché ad un primo esame sembrava che le ossa facenti parte del deposito archeologico fossero in prevalenza di bambini, cosa che successivamente non è risultata esatta. La Buca di Loris si trova sul lato occidentale della placca dei Pianizzoli, sul versante alla sinistra orografica del torrente Gavosa in corrispondenza del poggio la Leccetella, circa alla metà della congiungente podere Pianizzoli - fattoria di Perolla. La cavità, conosciuta anche con il nome di Buca del Cane è stata inserita nel catasto regionale delle cavità naturali come Buca di Loris e con il numero 1189 T/GR, su segnalazione della Società Naturalistica Speleologica Maremmana. L’accesso è dato da un salto di circa 2.5 metri che immette in un piccolo ambiente dal quale, mediante un cunicolo piuttosto stretto si arriva ad affacciarsi su di un pozzo profondo circa 10 metri. Il pozzo ha un diametro approssimativo di 1 metro, che si mantiene pressoché costante per tutta la sua lunghezza. Percorrendolo, con l’uso di attrezzature da progressione su corda, si scende praticamente al centro di una stanza del diametro di circa 10 metri, con il pavimento in pendenza. Il pozzo risulta essere uno sfondamento nel soffitto della stanza, che presenta un’altezza massima di circa 3 metri. Nella
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parte più elevata di questo ambiente si trova un accumulo clastico derivante da un fenomeno franoso, mentre nella parte più bassa sono presenti concrezioni (stalattiti, stalagmiti, crostoni e colonne). In questo settore della grotta, sulla sinistra guardando la parte bassa della stanza, si apre un cunicolo a sezione semicircolare e fondo piatto, percorribile per una decina di metri e nel quale si trovano ancora concrezioni. La Buca della Spinosa di Perolla si apre sul versante occidentale del poggio La Leccetella, poche decine di metri a sud della Buca del Cane, sullo stesso costone di travertino. Il nome con il quale è stata catastata è Buca della Spinosa di Perolla, con numero catastale 1194 T/GR, ma è conosciuta anche come Buca del Gatto. Spinosa, si ricorda, è il nome locale dell’istrice, animale le cui tracce si incontrano piuttosto frequentemente aggirandosi per i boschi di Maremma. Si tratta di una cavità dal pavimento debolmente inclinato verso l’interno, formatasi per allargamento orizzontale di una frattura nella massa travertinosa, probabilmente per effetto di una risorgenza idrica che dava luogo ad una paleo-sorgente e della quale non è rimasta traccia se non nella morfologia della cavità. Il pavimento era formato da un riempimento costituito da detrito eterodimensionale, in prevalenza delle dimensioni limo-sabbiose, nel quale si trovano immersi clasti di travertino eterodimensionali. All’interno, verso la fine degli anni ‘90 del secolo scorso, fu individuato un deposito archeologicio costituto da materiale osteologico e di corredo, che consentì di accertare l’uso funerario della cavità, almeno per un certo periodo della Preistoria. I tombaroli, anche in questo caso, erano già entrati in azione procurando evidenti danni ad alcuni settori del sito tanto che, per salvaguardare ciò che restava, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana decise un intervento d’urgenza. Lo scavo archeologico eseguito a più riprese fra il 2000 ed il 2002 ha cambiato in maniera significativa la morfologia interna della cavità, che in origine si presentava con un’altezza massima di circa 1 m. Attualmente l’altezza massima è di circa 1,90 m e l’ambiente, in generale, è notevolmente più ampio rispetto a quanto rilevato durante le prime esplorazioni speleologiche, soprattutto nelle parti iniziali. La grotta si sviluppa per circa 12 metri e si è formata anche grazie ad azioni graviclastiche, come testimoniato da massi di crollo che si trovano all’interno. Piccole disostruzioni eseguite per verificare l’andamento della cavità hanno portato alla scoperta di ambienti più profondi rispetto a quanto conosciuto. Gli scavi archeologici e gli studi successivi provano che in Preistoria la grotta ha avuto un doppio uso: - insediativo nel Neolitico, grazie al ritrovamento di un livello di frequentazione datato con tecniche radiometriche intorno al V millennio a.C. - sepolcrale, nell’Eneolitico, con una frequentazione che, sempre in base a datazioni radiometriche, si protrasse per circa mezzo secolo fra la fine del IV e l’inizio del III millennio a.C. I reperti trovati nelle campagne di scavo (armi, ceramiche, oggetti d’ornamento ed una parte dei resti antropologici degli almeno 36 individui rinvenuti
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nella grotta) sono visibili nelle sale del Museo Archeologico di Massa Marittima. La Buca dei Suoni è una cavità con andamento prevalentemente verticale e profondità di 18 m, scoperta nel 1991 dall’Unione Speleologica Pratese e catastata con il numero 1352 T/GR. Si trova sul versante lato Carsia della placca di travertino dei Pianizzoli. Si apre poco a monte della strada sterrata che porta verso il Gallerione, a circa un chilometro dall’intersezione con la provinciale che unisce Perolla a Ghirlanda. Il nome è dovuto alle “sonorità” emesse alcune stalattiti se per caso ci si impatta con moschettoni o con qualche altra “ferramenta” del corredo speleologico. La grotta del Frate, alla quale è stato attribuito il numero 0489 T/GR del catasto regionale delle cavità, si apre sul fondo di una grande dolina di crollo impostata su travertino e situata in prossimità della strada che da Ghirlanda porta verso Perolla, all’altezza della fattoria dei Pianizzoli. La grotta si apre con un pozzo profondo circa 7 metri situato a ridosso della parete più acclive della dolina ed in un punto diametralmente opposto rispetto alla galleria proveniente dalla valle cieca descritta in precedenza (Fig. 8). Disceso il pozzo si entra in un ampio salone di crollo il cui pavimento, in pendenza, è occupato da pietre che raggiungono le dimensioni di alcuni metri. Nel punto più basso del salone uno stretto passaggio fra i massi del fondo immette su di un saltino di circa 3 metri, affrontabile senza l’utilizzo di tecniche di progressione su corda, che porta in una stanza allungata con il pavimento completamente coperto da terriccio e detrito organico. La maggior parte di tale materiale proviene da un camino verticale sul soffitto della sala, in corrispondenza del quale si eleva un cumulo
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Fig. 8. La dolina del Frate vista dal pozzo d’ingresso, foto di G. Dellavalle.
di detrito fine, terriccio foglie e ramoscelli, oltre a buste di plastica ed altro materiale di scarto. L’alterazione del detrito organico può dare luogo a ristagni di CO2, si raccomanda di prestare attenzione ed in caso di difficoltà respiratorie ed affanno meglio interrompere la progressione, rimandando la visita di qualche tempo in attesa che l’anidiride carbonica venga smaltita. In questa stanza si aprono varie diramazioni, alcune totalmente ostruite dal materiale di riporto, altre praticabili per un certo tratto, ed una, denominata “sifone di sabbia”, da riaprire dopo acquazzoni particolarmente intensi che, riempiendola di ciottoli e ghiaia, rendono necessaria una periodica opera di disostruzione. Dopo il “sifone di sabbia” si trova un’altra sala, sul soffitto e sulle pareti della quale si aprono condotte che in occasione di piene scaricano detriti ed acqua in notevole quantità. Sul fondo di questa terza sala si apre un passaggio, anch’esso oggetto di periodiche disostruzioni, che porta in una saletta dal soffitto instabile e dalla quale partono due diramazioni. La prima, sulla sinistra rivolgendo le spalle verso l’uscita, è in salita, con il fondo coperto da clasti di travertino eterodimensionali, ed immette dopo circa 20 metri in un’ampia sala con il pavimento completamente coperto di argilla proveniente, presumibilmente, da un condotto che si apre nella parte più elevata dell’ambiente. Caratteristica della stanza è il fondo molto inclinato, per cui l’argilla viene drenata verso un unico punto, che si comporta da inghiottitoio, oltre il quale, fino ad ora, non è stato possibile proseguire. La seconda diramazione è una bassa condotta a fondo sabbioso, che immette in una galleria in pendenza avente un diametro tale da permettere agevolmente il passaggio di una persona. Al termine dalla galleria si trova una saletta ed un laghetto di circa 2 metri di diametro (Fig. 9). Immersioni eseguite nel 1997 hanno consentito di scoprire che oltre il laghetto si incontrano circa 5 metri di tratto sifonante, che con tutta probabilità in condizioni di siccità può essere oltrepassato senza bisogno di attrezzature subacquee, e hanno portato alla scoperta di oltre 40 metri di galleria semiallagata, prima di arrivare ad una nuova saletta dove per proseguire è necessaria una nuova immersione.
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Fig. 9. Il laghetto del primo sifone della Grotta del Frate, foto di G. Dellavalle.
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Fig. 10. Immagine satellitare dell’area dove si sviluppano le grotte Prato 2 e del Frate. Le linee rosse rappresentano la congiungente fra l’ingresso ed il punto di massima distanza rilevato delle cavità, nella direzione di congiunzione. Il cerchio giallo indica la zona di potenziale giunzione.
Questo secondo sifone, lungo circa 6 metri, permette di arrivare in un laghetto sub-circolare di circa 1,5 metri di diametro, per uscire dal quale è necessario arrampicare per alcuni metri in una condotta inclinata, avente diametro simile al laghetto e con le pareti coperte di fango, segno delle notevoli variazioni di livello del sifone e della scarsa, o nulla, velocità dell’acqua in quel tratto. Terminata la salita si arriva ad una zona pianeggiante, dove la galleria continua verso sinistra. In questo stesso punto, nel periodo estivo, si nota un arrivo d’aria da un cunicolo laterale posto sulla destra dando le spalle al sifone, praticabile per circa 2 metri oltre i quali è impossibile proseguire a causa del restringimento della condotta. Proseguendo nella galleria di sinistra si percorrono 10 metri in orizzontale prima di raggiungere una china detritica. Si tratta di una frana, composta da massi anche di grandi dimensioni, che ostruisce completamente la galleria per tutto il suo diametro. La grotta Prato 2, in base ai rilievi topografici eseguiti, si trova oltre questa frana. Tentativi di unire le due grotte, come già precisato, sono stati fatti dall’Unione Speleologica Pratese e più recentemente dal Gruppo Speleologico Massa Marittima insieme al Gruppo Speleologico Archeologico Livornese e
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alla Società Naturalistica Speleologica Maremmana. La grotta Prato 2 è stata, fino dal momento della sua scoperta (avvenuta negli anni ‘80 del secolo scorso da parte di speleologi del Gruppo Speleologico Pratese), la maggiore cavità carsica presente nel territorio di Massa Marittima. La fase di esplorazione iniziata con il superamento di un sifone nel 1996 da parte di tre speleosub, fra i quali lo scrivente, ha fatto di questa grotta una delle più estese della Toscana, al di fuori dell’area apuana, con 930 metri di lunghezza del ramo principale e oltre 1300 metri di sviluppo planare totale. Risulta catastata con il numero 1266 T/GR presso il catasto regionale. La grotta termina con una galleria che immette in una sala concrezionata e poi, dopo un passaggio fra blocchi di frana, si trova un ambiente di crollo con il pavimento in salita occupato da grandi massi. Questo tratto di cavità è di grandi dimensioni, con larghezze comprese fra i 12 ed i 15 metri, altezza di circa 20 metri e lunghezza di 100. Un ambiente simile è estremamente raro anche in complessi carsici ben più estesi di quello dei Pianizzoli, e costituisce in assoluto una particolarità geologica e speleologica anche per il litotipo in cui si è sviluppato che, ricordiamo, è travertino. Sulla parete terminale della grande galleria, a circa 15 metri di altezza, si trova un foro carsico di 3 metri di diametro dal quale, probabilmente, in occasione di precipitazioni esterne, si ha una venuta di acqua. Alla base della parete finale si trova un sedimento delle dimensioni di ghiaia che fa pensare ad un’azione dilavante dell’acqua. Nel corso del 2006 e del 2007 sono state effettuate delle risalite nel salone terminale della grotta Prato 2, verso il grande foro descritto in precedenza, grazie ad una collaborazione fra speleologi del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese, della Società Naturalistica Speleologica Maremmana e del Gruppo Speleologico Massa Marittima. I lavori hanno portato alla scoperta di nuovi tratti e di un camino che potrebbe essere, previa ricerca all’esterno ed eventuale disostruzione, un nuovo ingresso
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Fig. 11. Colonna stalagmitica crollata nella Grotta Prato 2, foto di G. Dellavalle.
Fig. 12. Le sezioni mettono in evidenza il rapporto tra la Grotta del Frate e la Prato 2.
della Prato 2. In esterno sono state fatte ricerche sopra la zona terminale della cavità in previsione di un lavoro di disostruzione per raggiungere dall’esterno le parti della grotta scoperte con le ultime risalite (Fig. 12). Le ricognizioni non hanno portato all’individuazione di nessun indizio rappresentativo di una zona più promettente per eventuali scavi. Allo stato attuale la grotta ha uno sviluppo totale di oltre 1357 m ed una estensione di oltre 1296 m; ha un dislivello positivo di 94 m e negativo di 15 m rispetto all’ingresso, per un dislivello interno totale di 109 m.
Il lago dell’Accesa
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Il lago dell’Accesa è uno specchio d’acqua alimentato in prevalenza da sorgenti situate nel bacino lacustre e che ha come emissario il fiume Bruna. Si trova presso la località La Pesta, nella parte meridionale del comune, ad una quota di circa 158 m s.l.m. Lo specchio d’acqua ha una forma lobata irregolare, con diametri massimi di 550 m (direzione est-ovest) e 400 m (direzione nord-sud) circa, ed il perimetro è poco superiore a 1,5 km. Il bacino principale, dal quale esce il Bruna, è collegato con un tratto di basso fondale ad un bacino secondario posto a sud-ovest (sotto poggio Corbello), con profondità massima di circa 16 m e nel quale si trovano sorgenti subacquee attive e affioramenti rocciosi. La morfologia del bacino lacustre è dovuta, con ogni probabilità, alla coalescenza di più doline. In passato le dimensioni del lago sono variate anche in maniera significativa a causa dell’intervento umano in quanto le acque venivano utilizzate per le lavorazioni del materiale estratto dalle vicine miniere ed il lago era considerato non come bene naturalistico ma, principalmente, per la sua capacità di fornire acqua. Il bacino idrografico del lago dell’Accesa si sviluppa per una superficie di 4,5 kmq ed al suo interno si ritrovano diverse litologie appartenenti sia alla Serie Toscana sia a quella Ligure. Le rocce più antiche sono del Carnico ed appartengono alla formazione del Verrucano. L’affioramento, ben visibile lungo la strada che dal bivio della Tabaccaia
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Fig. 13. Panorama del Lago dell’Accesa, foto di M. Negri.
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Fig. 14. Gli avvallamenti (a sinistra) e gli scallops (a destra) individuati sul fondale del lago, foto Carabinieri Subacquei.
porta verso Capanne Vecchie, occupa la parte orientale del bacino. Nei settori occidentali è presente il Calcare Cavernoso, del Retico, che costituisce i rilievi del poggio Lecceta e di case Infernuccio. Il contatto più vicino al lago lo si ritrova presso una collinetta (quota 179), immediatamente ad occidente dello specchio d’acqua. Al margine meridionale del bacino sono presenti i litotipi delle Argille Scagliose Ofiolitifere, appartenenti alla Serie Ligure, di età Cretaceo-Eocenica, che costituiscono i rilievi di poggio Corbello e del podere del Montino. Delle formazioni affioranti quella che si presta maggiormente allo sviluppo del fenomeno carsico è il Calcare Cavernoso: il lago stesso è impostato su questo tipo di roccia. La parte topograficamente più bassa del bacino idrografico è occupata da sedimenti quaternari e recenti, di origine gravitativa, alluvionale e lacustre. Il lago dell’Accesa è un bellissimo esempio di lago carsico, studiato in maniera scientifica fin dagli inizi del XX secolo, oltre che un sito di notevole interesse naturalistico e archeologico (si ricordi che sulle sue sponde è stato ritrovato un insediamento etrusco in parte reso visitabile mediante percorsi attrezzati e che ha restituito reperti conservati presso il Museo Archeologico di Massa Marittima). Gli studi più recenti sono stati fatti nel 1995 e nel 2006/2007 con rilevamenti batimetrici dalla superficie ed immersioni di ricognizione. Grazie alla collaborazione dei Carabinieri di Massa Marittima è stato possibile far intervenire da Genova una squadra di Carabinieri Subacquei, che hanno eseguito una documentazione video e fotografica di vari punti dei fondali. Le difficoltà incontrate alle profondità maggiori sono state principalmente la bassa temperatura (circa 7 °C) e la visibilità limitata (intorno a 70 cm). Nel 2006 sono state ripetute le batimetrie seguendo le direzioni di rilievo del 1995, che hanno fatto notare una leggera diminuzione della profondità massima, passata da 37,60 m a 37,50 m, e delle modifiche nei versanti immersi del bacino lacustre. La diminuzione di profondità è normale in un lago come quello dell’Accesa, e 10 anni erano proprio l’intervallo di tempo minimo che nel 1995, quando furono eseguiti i primi rilievi “moderni”, venne giudicato necessario per accorgersi delle eventuali differenze. Durante le immersioni del 2007 sono stati documentati con fotografie e filmati dei piccoli avvallamenti nel sedimento dei fondali di sud-est (primo sito
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d’immersione), fra i 27 ed i 32 m di profondità e le sorgenti attive presenti nel bacino di sud-ovest, oltre ad affioramenti rocciosi che emergono dai materiali finissimi che coprono i fondali (secondo sito d’immersione). I piccoli avvallamenti documentati nel primo sito d’immersione sono stati individuati anche in altri settori del lago e potrebbero essere sorgenti con attività intermittente, normalmente coperte di sedimento ma che in occasione di eventi particolari di precipitazione possano “stapparsi” e tornare ad alimentare il lago. Nel bacino di sud-ovest le sorgenti sono sempre attive e il fondo, nella parte più profonda del bacino (intorno ai 16 m) ha una morfologia caratteristica di uno sprofondamento carsico. Sulle rocce delle pareti si trovano scallops (Fig. 14) e questo avvalora la possibilità che il lago dell’Accesa, almeno in parte, si sia originato come un sinkhole. Esempi di queste forme, definite anche voragini catastrofiche e che hanno spesso un’evoluzione molto veloce, si trovano sovente legate ad affioramenti di Calcare Cavernoso, che è la formazione sulla quale è impostato il lago. In Toscana si sono verificati recentemente fenomeni di crollo con formazione di sinkholes a Camaiore (LU) nel 1995 e a Braccagni (GR) nel 1999. Condizioni per la formazione di sinkholes sembra siano: - bedrock carbonatico (o carsificabile in senso lato) sepolto anche a profondità superiori a 100 metri; - copertura di origine continentale a granulometria variabile, con scarse proprietà geomeccaniche sebbene possano anche essere presenti spessori rilevanti di depositi coerenti o coesi; - potente circolazione idrogeologica, nel bedrock, con regime carsico, notevoli carichi idraulici, elevate portate e rilevante velocità; - presenza di fluidi mineralizzati, che possono anche essere termominerali, in risalita da settori profondi che possono sia miscelarsi con le acque di circolazione carsica, sia assumere più classiche forme di convogli gassosi in upwelling; - esistenza di lineamenti tettonici di carattere regionale che svolgono il ruolo di “canalizzazione” della risalita dei fluidi e linee di sviluppo preferenziale delle deformazioni. Nel lago dell’Accesa e nelle aree circostanti si ritrovano le condizioni suddette, con rocce carsificabili, mineralizzazioni lungo strutture tettoniche (oggetto in passato anche di sfruttamento minerario) ed anche presenza di elementi morfologici tipo “gradino” sul fondo del bacino individuabili nella stessa posizione sia nelle indagini del 1995 che in quelle del 2006 e che sono compatibili con un’origine tettonica dell’elemento stesso, probabilmente una scarpata di faglia. Curiosamente una leggenda locale sull’origine del lago parla di uno sprofondamento avvenuto per punizione divina verso contadini che non onoravano le festività; addirittura in una versione si indica il giorno (26 luglio, data nella quale si festeggia S. Anna) in cui i villici furono inghiottiti da una voragine insieme alle loro case ed ai campi che lavoravano. In realtà non abbiamo notizia di sprofondamenti avvenuti in periodi storici all’Accesa...forse l’uomo preistorico ha mentenuto nella sua memoria e tramandato fino a noi un evento
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eccezionale, descrivendolo e giustificandolo, con il passare del tempo e delle generazioni, secondo le conoscenze del periodo. Le rilevazioni batimetriche e le immersioni hanno dimostrato che il lago dell’Accesa è un bacino attivo, le cui variazioni non sono solo legate a fenomeni come gli apporti sedimentari dalle sponde per ruscellamento superficiale o per afflusso degli immissari, peraltro modestissimi, ma anche e soprattutto a dinamiche ipogee legate al sistema carsico che vede la zona di assorbimento nelle colline a nord e ad ovest del bacino, essendo costituite a rocce carsificabili, e del quale il lago dell’Accesa è una delle componenti più importanti e peculiari. Per il 2016-2017 sono previste nuove misurazione di profondità e ricognizioni per continuare lo studio di questo meraviglioso lago ed avere la possibilità di confrontare i dati del 1919 con quelli del 1995 e 2006, questi ultimi rilevati da un gruppo di lavoro del quale fa parte anche lo scrivente, per arrivare a vedere come si è modificato il bacino nell’arco, praticamente, di un secolo.
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La “Buca dell’olocco (allocco) o della rinascita” T/GR 2026. Area carsica: Monti di Castell’Azzara Odoardo Papalini (Gruppo speleologico l’Orso)
Storia dell’esplorazione
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L’attività speleologica nella zona inizia nel 1987, qualche anno prima della fondazione del Gruppo Speleologico l’Orso e grazie al parroco di Montebuono e Sorano Don Enzo Baccioli, al quale vanno la nostra gratitudine e un affettuoso ricordo. Dietro alle sue informazioni, trovammo il Pozzo Luisa (779 T/GR), non lontano dalla grotta che andiamo a descrivere. Sul bordo della dolina a monte del Pozzo, fu rinvenuta una piccola ammonite piritizzata che ci confermò il tipo di formazione calcarea in cui operavamo. Infatti, come scoprimmo dopo, la parte centrale del Pozzo L. è costituita da rosso ammonitico. Da come abbiamo verificato nelle visite successive, la roccia è in rapido disfacimento, tanto che il Pozzo si era allargato sensibilmente. Riuscimmo a sapere che nella zona c’era un’altra cavità, ma non fummo mai in grado di dare seguito a una ricerca seria. Credevamo che questa grotta sconosciuta facesse parte di quel sistema carsico che avevamo individuato. Si era innescata una situazione particolare per cui non la cercavamo in maniera determinata, ma continuavamo a curiosare in qua e in la seguendo criteri diversi e soprattutto con interventi molto distanti nel tempo. Intanto lo studio e l’esplorazione dell’area portano nel 2000 alla pubblicazione su TALP n. 22 dell’articolo: Note geomorfologiche sul complesso calcareo mesozoico del Monte Rotondo-Monti di Castell’Azzara (Grosseto). A partire, infatti, dal M. Rotondo, la cima più alta della zona con 951 m slm, una lunga serie di doline porta all’area in cui si trova il Pozzo Luisa. La quantità di acqua assorbita dal sistema carsico ricompare alla sorgente del Reto, m 399 slm e valutata al minimo di 130 l/sec. A riprova di ciò è accertato sia da lavori dell’ENEL sia da un mio ritrovamento sia il basamento metamorfico dei Monti di Castell’Azzara arriva intorno ai 400 m slm. Dal 2000 al 2013 è continuata l’esplorazione dell’area del M. Rotondo, ma senza particolari risultati, se non la conferma di quello che avevamo già fatto. Abbiamo mantenuto ottimi rapporti con gli abitanti del luogo, tanto che nel 2013 ci riconfermano l’esistenza di una grotta, sempre su quel versante, non lontano dal Pozzo Luisa e con l’invito a esplorarla. Ripassa altro tempo, ma poi la situazione all’improvviso e in modo completamente fortuito si sblocca; avvengono l’individuazione e una prima esplorazione con personaggi completamente “nuovi”: sono passati ben ventisei anni!
Fig. 1, La carta topografica della zona con la scarpata del rilievo e alla base l’ampia falda di detriti. Indicata in rosso la posizione della grotta; in alto a destra il Pozzo Luisa; si nota nel rilievo la leggera incisione in cui è inserita.
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Localizzazione Ci troviamo nell’area carsica dei Monti di Castell’Azzara e nel comune di Sorano, nel quale l’area si estende con un’equivalente superficie ma per una minore altitudine. Qui il rilievo è delimitato a occidente da una faglia di tipo appenninico che ha un rigetto di circa 350-400 m. Il versante così formato e in cui si apre la grotta, costituisce la parte orientale della valle del fiume Fiora che in questo tratto ha una direzione “appenninica”. La località Casa Gabrielli, dalla famiglia che vi abitava o che vi abita ancora oggi (Fig. 1), è uno dei piccoli accentramenti di case che sono diffusi in questa zona e che viene comunemente indicata con il nome di Montebuono.
La geologia Il rilievo, che si presenta come una lunga e ripida dorsale, è costituito dall’affioramento del calcare selcifero inferiore (c. ammonitico del Lias medio-inf.) che solo in qualche luogo (Pozzo Luisa) si presenta come “rosso” ammonitico. Il versante s’innalza deciso su un’ampia falda di detriti che talvolta lascia scoperta la residua formazione dei calcari a nummuliti del Cretacico, indicati nella carta a WNW di Case Gabrielli. La roccia calcarea, in strati orizzontali e
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Fig. 2, La carta geologica dell’area carsica “ Monti di Castell’Azzara”; la freccia indica la posizione della cavità.
con frequenti lenti di terra gialla ocra spesse pochi dm ma lunghe da uno a 2 m, immerge in direzione ENE. La cavità si apre in una struttura che appare come una trincea a sezione rettangolare, profonda 2-3 m e larga 4-5 m. Nella carta geologica (Fig. 2) la trincea è indicata come frana attiva e in colore rosso. Alla base del rilievo si trova un’ampia falda di detriti, larga circa 100 m, costituita da breccia calcarea di dimensioni centimetriche, probabilmente liberata dai frammenti più grossi in modo da poter essere coltivata; la località sotto la strada che costeggia la falda alla base si chiama “la fornace”: sicuramente i pezzi più grossi di calcare sono stati raccolti e trasformati in calce viva. A valle e nella direzione della trincea, si trova la sorgente del Reto (399 m s.l.m. e 130 l/sec) che è ancora libera perché il capoluogo comunale, Sorano, si trova a una quota (400 m s.l.m.) che non permette la sua utilizzazione. La sezione del rilievo passante per la cavità (675 m s.l.m.) e portata fino alla grossa sorgente sottostante, ci dice che il sistema carsico potrebbe estendersi su un dislivello di duecentosettantasei metri.
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Fig. 3, Sezione del rilievo passante per la grotta.
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La cavità La cavità si presenta come un pozzetto di assorbimento posto al centro della, trincea ma il livello di scorrimento delle acque meteoriche è sicuramente molto più basso, perché in superficie non ve n’è traccia. Nel corso del 2014, nella prima esplorazione, fu intravisto un pozzo del diametro di 70-80 cm che sembrava promettere bene. Nell’esplorazione speleologica si è dimostrato, però poco profondo e chiuso alla base. Sul fondo, lateralmente, si apre uno stretto passaggio circolare (diametro 15 cm) che al momento (17 giugno 2014) non emetteva una significativa corrente d’aria. La sezione del rilievo passante per la cavità (675 m slm) e portata fino alla grossa sorgente sottostante, ci dice che il sistema carsico potrebbe estendersi su un dislivello di duecentosettantasei metri.
Conclusioni Tutto quel versante in cui si apre la grotta, continua a essere trascurato per diversi motivi quali la posizione periferica, la non facile raggiungibilità da monte per la presenza di recinti per il bestiame, la nostra non grande disponibilità di tempo e di persone. Questo lavoro è pertanto un incitamento per noi e per quelli che ci vorranno dare una mano, di riprendere l’attività speleologica che ci ha caratterizzato negli anni passati. Non a caso, le abbiamo aggiunto una seconda denominazione che speriamo augurale: Buca della rinascita.
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Primo censimento delle grotte marine della Toscana Fabrizio Serena1, Luigi Piazzi2 (1 Gruppo Speleologico Archeologico Livornese, 2 Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio, Università di Sassari)
Introduzione Geologia
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La storia geologica della Toscana è particolarmente complessa. Una prima schematizzazione può essere fatta considerando la porzione continentale, rappresentata da circa 400 km di sviluppo costiero, e la parte insulare con 230 km. Le isole maggiori dell’Arcipelago Toscano sono sette, da nord a sud: Gorgona, Capraia, Elba, Pianosa, Montecristo, Giglio e Giannutri; ad esse si aggiungono alcuni isolotti tra cui: le Formiche di Capraia, le Formiche della Zanca, Cérboli, Palmaiola, l’Isola dei Topi nei pressi dell’Elba, le Formiche di Grosseto, lo Scoglio d’Africa, e vari altri scogli più o meno grandi. Nel complesso l’arcipelago si estende per circa 300 km², dei quali ben 224 sono rappresentati dall’Isola d’Elba. Lazzarotto et al. (1995) considerano l’apertura del mare e dei fondali del Tirreno Settentrionale, da Capo Corso, Isola di Capraia - Monti di Piombino; da Aleria in Corsica - Isola di Giannutri - Torrente Chiarone in Toscana, come parte di una importante depressione strutturale neogenica (circa 20 Ma) originatasi per l’assottigliamento di quel settore di crosta precedentemente ispessitosi durante la collisione continentale tra la Placca Euroasiatica e la Microplacca Adriatica della Placca Afroiraniana. La presenza, nella Piattaforma del Tirreno Settentrionale, di depositi del Burdigaliano sup. - Tortoniano inf., parzialmente correlabili con quelli affioranti all’Isola di Pianosa, fa supporre che anche il settore fra l’Isola d’Elba e la costa toscana possa essere parte del bacino sedimentario miocenico ritenuto confinato al solo Bacino Corso. Quanto specificato sopra riguarda la sedimentazione neogenico-quaternaria nell’attuale Mar Tirreno Settentrionale. Invece per quanto concerne il substrato del fondale di questo mare bisogna risalire molto indietro nelle ere geologiche. Infatti, si tratta di rocce depostesi (tra 180 e -45 Ma) nel Dominio Ligure del Paleoceano Tetide, apertosi nel precedente unico Paleocontinente Pangea, tra le Placche continentali Laurasia settentrionale e Gondwana meridionale. Anzi più precisamente è sulla Microplacca Adriatica della Placca Gondwana che si sono deposte le rocce del Dominio Toscano (tra 230 e 23 Ma). Per quanto riguarda i complessi tettonici strutturati nelle Alpi e degli Appennini, le conoscenze, limitatamente all’area ligure orientale-tirrenica, provengono dagli affioramenti dell’Isola di Gorgona e di Capo Corso per i primi, e da quelli delle altre isole dell’Arcipelago Toscano e lungo alcuni tratti delle coste della Toscana e della Liguria di Levante, per i secondi.
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Idrologia L’intensità del vento e la temperatura dell’acqua sono due aspetti strettamente correlati tra loro e con il movimento delle grandi masse d’acqua sia di superficie, sia di profondità. Il regime correntometrico del Mediterraneo, e per quello che ci riguarda in particolare del bacino occidentale, può essere riassunto in tre principali settori: superficiale (0-200 m), intermedio (200-1000 m) e profondo (> 1000 m). Il più importante movimento di masse d’acqua profonde si genera proprio nel bacino Ligure-Provenzale, sottoposto ai forti venti provenienti dalla Valle del Rodano, mentre il settore superficiale, quello che a noi interessa di più, si genera in seguito all’ingresso delle acque atlantiche attraverso lo Stretto di Gibilterra, le cui acque, dopo vari “giri”, si riversano in parte nel bacino orientale passando attraverso il Canale di Sicilia e in parte, lambendo le coste meridionali dell’Italia, si portano verso la nostra area. (Millot, 2005). Il complesso delle isole dell’Arcipelago Toscano che caratterizza l’area settentrionale del bacino Ligure-Tirrenico, è distribuito su una piattaforma continentale relativamente ampia. In quest’area possono essere evidenziate due correnti principali, la prima denominata East Corsica Current (ECC) che corre verso nord tra le coste italiane continentali, Sardegna e Corsica, ed è caratterizzata da acque relativamente calde. Una seconda corrente, chiamata West Corsica Current (WCC), scorre anch’essa verso nord, ma al largo delle coste occidentali della Corsica e trasporta acque a temperatura più bassa. Queste acque hanno un flusso prima indirizzato verso nord e, successivamente, raggiunta la Liguria, girano ad ovest, condizionate dalla conformazione della linea di costa. Nella parte settentrionale dell’Arcipelago Toscano la dinamica è più complessa con fenomeni stagionali a microscala spaziale lungo la piattaforma continentale vincolati alle temperature medie superficiali (Astraldi et al., 1999). L’analisi delle isoterme medie superficiali consente di trarre varie deduzioni sul regime delle correnti, in particolare sulle caratteristiche della corrente costiera e di quella di compensazione nel Canale di Corsica. Nel bacino LigureTirrenico, le correnti superficiali costiere presentano una dominanza in direzione sud-nord, con flussi in spostamento verso il mare aperto e vortici locali dovuti principalmente alla presenza delle secche al largo (Vada e Meloria). La situazione delle correnti costiere è comunque molto variabile, vincolata ai fenomeni meteomarini generati dall’intensità del vento al momento. Proprio il vento è anche una delle maggiori cause del modellamento delle rocce. La sua azione unitamente alla forza del moto ondoso spesso determina situazioni favorevoli alla formazione di cavità naturali anche al livello della superficie del mare. L’Isola di Capraia, di origine vulcanica, ne è un chiaro esempio. L’osservazione dettagliata del periplo costiero di quest’isola, ha rivelato un numero nettamente più elevato di anfratti, di varie dimensioni con accessi praticabili, nella porzione di costa esposta ai forti venti provenienti dal terzo e quarto quadrante (ovest-nord-ovest). Del resto le grotte con un significativo sviluppo e maggiormente articolate sono dislocate proprio in questa parte dell’isola.
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Materiali e metodi L’attività di esplorazione ha richiesto, in via preliminare, l’osservazione diretta di tutti i perimetri delle coste rocciose della Toscana al fine di individuare anfratti e grotte di dimensioni tali da rispondere alle norme richieste dal Catasto Regionale (Fig. 1). Ciò è stato possibile utilizzando natanti e attrezzature ARA specifiche e dedicate all’immersione in ambienti ipogei allagati. Quando possibile sono state condotte osservazioni biologiche nell’intento di caratterizzare gli ambienti, per due grotte dislocate nelle isole di Gorgona e Montecristo è stato possibile eseguire anche il rilievo biologico (Bianchi e Morri, 1994, Balata et al., 2006). Benché le metodologie di studio siano state diverse, queste hanno permesso in ogni caso un confronto delle principali caratteristiche biologiche legate ai movimenti delle grandi masse d’acqua e del moto ondoso. L’impiego di strumentazione sofisticata quali il MultiBeam e Side Scan Sonar hanno consentito, a scopo sperimentale, di fare il rilievo tridimensionale di una piccola area (Calafuria) al fine di relazionarla con le cavità naturali censite.
Risultati Fig. 1. L’area di indagine.
Il lavoro di censimento condotto nell’area dell’Arcipelago Toscano e lungo
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la costa continentale, ha consentito l’esplorazione e il rilievo di cavità marine a cielo aperto e sommerse, per un totale di 76 cavità, alcune delle quali anchialine. Molte altre, benché individuate, sono rimaste, per il momento, inesplorate. Un piccolo paragrafo è stato dedicato alle grotte anchialine. Di seguito sono elencate in rassegna le principali e più significative grotte censite, rimandando anche a TALP n. 41.
Area insulare Gorgona
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L’Isola di Gorgona (2,23 km²) è formata da due unità litostratigrafiche, in contatto tettonico: l’Unità Metasedimentaria, che ne occupa la parte maggiore, è costituita da metareniti e calcescisti, mentre l’Unità Ofiolitica è formata da serpentiniti e da un’associazione di metavulcaniti e metagabbri con metamorfismo di alta pressione e relativamente bassa temperatura con presenza di “anfiboli azzurri” nelle loro associazioni mineralogiche. La costa meridionale dell’isola presenta numerose irregolarità e cavità legate all’azione selettiva del mare. La principale è la cosiddetta “Grotta del Bue Marino”, sul lato sudorientale dell’Isola, in realtà costituita da due cavità parallele che si aprono, rispettivamente verso sud-ovest e verso nord-est (Diviacco e Serena, 1994) (Fig. 2). Cavità subacquee di piccole dimensioni si aprono un po’ ovunque attorno all’isola. Tra le più rilevanti vi è la “Grotta di Punta di Cala Martina”, situata sull’omonima punta, nella costa orientale. Sulla scogliera di Cala di Pancia, alla profondità di circa 30 metri, sono situate alcune cavità profonde 5-6 metri (Piazzi e Naldi, 1999). Grotta del Bue Marino Si tratta in realtà di due cavità indipendenti con andamento sub-orizzontale, leggermente ascendenti impostate su fessure orientate da sud-est a nord-ovest Fig. 2. Grotta del Bue Marino.
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che si aprono sul lato sud-orientale dell’isola, immediatamente a nord dello Sperone di Cala Scirocco (Fig. 2a). Le due cavità, solo in parte sommerse, hanno un andamento prevalentemente sub-orizzontale, con aperture orientate a sud-est (grotta del Bue Marino I) e a nord-est (grotta del Bue Marino II). In base alla loro genesi le due cavità devono essere definite “secondarie di origine mista” (Colantoni, 1976), infatti, all’iniziale attività carsica, nel corso dei periodi glaciali si è aggiunta, durante le trasgressioni interglaciali, l’azione marina. In tal senso Gorgona è considerata il relitto di un’area orogenetica risalente al Miocene inferiore. La grotta di sud-ovest è costituita da una galleria parzialmente allagata, a sezione sub-triangolare con la volta appuntita. L’ingresso ha una sezione trapezoidale ed è alto 10 metri di cui 6 immersi con il fondo ricoperto di sassi. La cavità si sviluppa in direzione 330° ad eccezione di una deviazione per superare uno sperone roccioso posto a circa 15 metri dall’ingresso. Dopo un percorso di circa 55 metri si raggiunge il fondo che termina con una fessura impraticabile. Nella saletta terminale, a destra di una fessura, sono presenti alcune concrezioni, testimoni di una sia pur debole attività litogenica di tipo carsico. La grotta di nord-est è più lunga (60 m) e più larga della precedente inoltre è Fig. 2a. Le due cavità che formano la Grotta del Bue Marino.
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presente anche un ramo laterale sub-orizzontale in direzione sud-nord. L’esame della volta, caratterizzata da diaframmi e lame di roccia, arricchite da stalattiti, fa pensare all’unione di più gallerie iniziali per progressivo allargamento, dovuto all’azione carsica che ha provocato l’eliminazione delle pareti a contatto. L’ingresso ha una volta ad arco ed è largo 5 m e alto 6 m, dei quali 4 sommersi. La larghezza della cavità tende inizialmente a diminuire per poi allargarsi intorno ai 25 metri dall’ingresso in corrispondenza dell’apertura del ramo laterale. A 50 metri dall’ingresso il fondo emerge formando una piccola spiaggia che si insinua in una fessura verticale in direzione 300°. La volta emersa presenta stalattiti. Su queste grotte è stato condotto uno studio accurato da parte di Bianchi e Morri (1994). Ciò ha consentito di evidenziare una gradualità di ambienti dall’esterno, colonizzato da popolamenti fotofili soprattutto vegetali, verso l’interno con dominanza progressiva di specie algali sciafile, principalmente incrostanti e filtratori passivi, specialmente idroidi, associati a poriferi. Più nell’interno dominano i poriferi, soprattutto Petrosia ficiformis e madreporari che, insieme ai serpuloidei, diventano esclusivi. Grotta di Punta di Cala Martina La cavità si apre alla profondità di 23 metri immediatamente sotto la parte meridionale della Punta di Cala Martina. L’ingresso, esposto a sud-est (130°), ha una forma ad arco e misura 2 m di altezza e altrettanti di larghezza massima. La cavità è costituita da un’unica galleria ad andamento sub-orizzontale con uno sviluppo orizzontale di 14 metri. La parte terminale presenta un proseguimento ostruito da massi di crollo e un altro diverticolo sul soffitto, anch’esso di diametro ridotto. Il pavimento è ricoperto da sabbia. Sul pavimento sono presenti popolamenti a Sabella pavonina, mentre le pareti sono colonizzate principalmente da poriferi e serpuloidei. Tra la fauna vagile sono state censite specie tipiche di cavità, come il gobide Thorogobius ephippiatus e il decapode Herbestia condyliata. Grotte di Cala di Pancia Le cavità sono individuabili scendendo dalla punta ovest di Cala di Pancia in direzione sud-ovest, alla profondità di 30-32 m. La prima cavità si apre in corrispondenza di una piccola terrazza che interrompe la falesia che scende fino a 50 metri di profondità. L’ingresso a forma triangolare, presenta un’altezza di 1,5 m e una larghezza massima di 3,5 m. La cavità si compone di un’unica camera, con sviluppo orizzontale e una lunghezza di 5,5 m. sulla destra, in posizione mediana, si apre un camino che risponde all’esterno. Sul fondo, ricoperto di sabbia fine, è stata segnalata la presenza di Cerianthus membranaceus. La seconda cavità è stata solo velocemente esplorata e non si hanno rilevamenti disponibili. Si apre alla profondità di circa 30 metri, con un ingresso sub-triangolare alto circa 2 metri. È costituita da un’ampia sala e da una sala più piccola, non praticabile che si apre sul fondo.
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Capraia
L’Isola di Capraia (circa 20 km2) è di origine interamente vulcanica, costituita da colate di andesite, con tufi e brecce e da rocce basaltiche, datate rispettivamente a 7,6 e 4,7 Ma. L’isola ha una forma ellissoidale, ed è la terza per dimensioni dell’Arcipelago Toscano. Si sviluppa in direzione nord-est. La storia geologica dell’isola è strettamente legata al fenomeno di deriva che ha interessato nel Miocene inferiore la Placca Sardo-Corsa. L’isola emerse circa 9 milioni di anni fa, e è ricoperta da colate di lava e piroclastici a composizione latitica. Le fasi d’attività magmatica sono individuabili in due distinti periodi: il primo, più importante, datato 7,6-7,1 Ma (Tortoniano-Messiniano), ha dato origine a gran parte delle rocce affioranti quali andesiti, daciti e riodaciti originatesi in duomi; il secondo periodo (circa 4,6 Ma, Pliocene inferiore) è evidente nella porzione più meridionale di Capraia (Punta dello Zenobito), dove sono presenti sottili colate laviche intercalate a scorie, entrambe di colore rosso vivo, in cui è intruso un corpo shoshonitico di colore grigio. Data l’origine vulcanica, l’Isola di Capraia non ha importanti grotte sommerse, anche se numerose piccole cavità si aprono a livello del mare lungo tutto il perimetro dell’isola. Le principali cavità dell’isola sono quelle denominate Grotta du Bue Marinu, Grotta delle Barbice, Grotta della Garitta, il Grottone e Grotta di Mergonagghia.
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Grotta du Bue Marinu Negli elenchi del Catasto Speleologico della Federazione Speleologica Toscana la grotta è stata catastata con il codice 287T/LI fin dal 1963, definita come cavità costiera non rilevata e registrata con il nome di Mergonaia. Sulle carte la grotta è definita come Grotta della Foca (IGMI) e Grotta della Foca Monaca (carte nautiche), mentre gli abitanti dell’isola la chiamano grotta “Du Bue Marinu”, alcuni di essi, i più non tanto giovani, hanno italianizzato questo nome trasformandolo in Grotta del Bue Marino e in certi casi del Bove Marino. Rispetto al nome riportato dai registri del catasto vi siano delle incongruenze riguardo la denominazione e alla posizione; infatti, la Grotta di Mergonaia, o meglio di Mergonagghia si trova nella vicina Cala del Vetriolo, non molto distante, ma sicuramente su coordinate geografiche differenti. Le due grotte, di Mergonagghia e della Foca Monaca, sono le più articolate dal punto di vista dello sviluppo planimetrico e si aprono lungo un filone isolato trachiandesitico, la cui parte settentrionale è lambita da una faglia. La grotta della Foca Monaca si apre nel versante sud occidentale dell’isola con un percorso parallelo alla costa che dopo circa 20 m, con un angolo abbastanza stretto (100°), devia verso nord inoltrandosi all’interno e sviluppandosi in direzione nord-est. Dopo 20 metri dall’ingresso si incontra un vasto tetto che chiude la parte destra della grotta, dove si ha un’altezza tra il pavimento e la volta di circa 1,5 m. Il fondo può essere raggiunto sifonando questo tetto oppure nuotando a “pelo libero”, in un ambiente alquanto stretto, sul lato sinistro. La grotta termina con una piccola spiaggia di ciottoli e ghiaia dopo circa 40 metri dall’ingresso effettivo, un tempo frequentata dalla foca monaca (Fig.
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Fig. 3. Grotta du Bue Marinu.
3). La genesi della grotta è imputabile non a un semplice svuotamento dovuto ai marosi, bensì all’azione di questi lungo superfici di discontinuità preesistenti (fratture, contatto tra dicco e lava). Le pareti dell’ingresso sono colonizzate da popolamenti algali fotofili dominati da Dictyotales e Cystoseiraceae. Dopo 10 m dall’ingresso il popolamento algale è costituito esclusivamente da Corallinales calcaree e Peyssonnelyaceae. Tra gli animali sono dominanti i poriferi che tappezzano tutte le pareti dell’ingresso e buona parte della zona interna (Serena e Diviacco, 1994). Grotta di Mergonagghia Si apre nella Cala del Vetriolo, nella parte occidentale dell’isola, in pratica dalla parte opposta del filone isolato trachiandesitico dove si apre l’altra grotta del Bue Marino. È caratterizzata da tre ingressi, il più ampio dei quali costeggia la parete che scorre verso la parte meridionale dell’isola. Questo lato dell’isola spesso è soggetto a crolli e l’esplorazione deve tener conto di eventuali pericoli. Entrando dall’ingresso centrale, anch’esso molto ampio, si incontra a metà percorso un grande masso che dal pavimento risale fino alla superficie. Questo masso, nella sua parte esposta verso l’ingresso, è tipicamente colonizzato da associazioni fotofile, mentre nella parte posteriore da associazioni sciafile che costituiscono sede ottimale per le coppie della specie ittica Tripterygion tripteronotus in grado di marcare il proprio territorio. Superato questo grosso masso e raggiunto il fondo della grotta, sulla sinistra e vicino al pavimento, vi è una
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Fig. 4. Grotta di Mergonagghia.
diramazione molto angusta, che dopo un giro a sinistra riconduce all’esterno in immersione (Fig. 4). Grotta delle Barbice La Grotta delle Barbice è situata presso l’omonima punta, sul versante nordorientale dell’isola creatasi nelle rocce piroclastiche. Si sviluppa in direzione nord-sud per una lunghezza di circa 40 m; l’ingresso è alto 6 m, dei quali 1,5 sommersi. Sul pavimento si trovano numerosi blocchi sparsi e il fondo della cavità è costituito da una spiaggia di ciottoli completamente emersa (Fig. 5).
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Fig. 5. Grotta delle Barbice.
Grotta della Garitta Sotto il castello e in prossimità della “garitta”, si è formata una classica campana con l’ingresso a est e a cielo aperto. Provenendo in immersione dall’esterno si risale il fondo del mare fino a camminare su un ciottolato di sassi lavici, ma con i piedi nell’acqua. Abbassandosi, si entra in un ambiente il cui pavimento è allagato per pochi centimetri e la volta è a
circa sette metri sopra, la base circolare ha un diametro di altrettanti metri che in ogni caso chiude lungo tutto il suo perimetro terminando, nella parte più distante dall’ingresso, all’asciutto su un pavimento di detriti (Fig 6). Il Grottone È forse la grotta più frequentata dal punto di vista turistico, poiché quella più evidente e vicina al porto. La grotta è costituita da un ampio ingresso (7 m in orizzontale), il soffitto dista dalla superficie 6 m, mentre il pavimento è
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Fig. 6. Grotta della Garitta.
a 5,5 m sotto. La grotta si sviluppa in orizzontale senza alcuna articolazione e termina con una breve parete verticale dopo 20 m dalla soglia di ingresso con una profondità di appena 2 m. Il soffitto degrada fino a raggiungere i 2 m nella parte terminale. Altre cavità dell’isola Lungo tutta la costa dell’isola si aprono numerose piccole cavità naturali al livello del mare, piuttosto semplici, dovute all’azione erosiva del moto ondoso. Sono state censite in totale 45 cavità delle quali 26 situate sul versante occidentale e 19 su quello orientale dell’isola. Queste cavità presentano tipicamente un ingresso ampio e semicircolare e terminano dopo pochi metri con una spiaggia di origine vulcanica.
Elba
L’Isola d’Elba (224 km²) è stata interessata dalla fase collisionale del Miocene inferiore, che ha portato alla strutturazione fondamentale dell’Appennino; posteriormente è stata modellata da tettonica estensionale legata all’apertura
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del Tirreno e alla messa in posto del plutone granitico del Monte Capanne (6,2 Ma) e del Monzogranito di Porto Azzurro (5,1 Ma). La traslazione verso oriente dei compartimenti superiori dell’edificio è responsabile oltre che dell’alloctonia della porzione orientale dell’aureola termometamorfica del Monzogranito di Porto Azzurro, anche della replica dell’impilamento dei Complessi affioranti nell’Elba centrale e della tipica struttura a embrici troncati alla base. Tre isolotti minori si allineano dal Capo della Vita verso 180° est: L’Isola dei Topi, caratterizzata a oriente soprattutto da Scisti arenacei, argilloscisti carboniosi, mentre sul lato opposto, di occidente, compaiono dei calcari a liste di selce grigio chiari. L’Isola Palmaiola, completamente costituita da strati dell’arenaria Macigno, tetto del Dominio Toscano e unico affioramento nell’area elbana, anche se molto diffuso nel non lontano Promontorio di Piombino. L’Isola di Cerboli, corrispondente al prolungamento meridionale del Promontorio di Piombino presenta strati orizzontali in una successione del Dominio Toscano completa per il Giurassico ad iniziare dal livello del mare. Nonostante le dimensioni e la complessa struttura geologica, l’Isola d’Elba non presenta importanti cavità sommerse, queste sono presenti soprattutto nell’area meridionale: la Grotta dell’Innamorata presso Punta Calamita; la Grotta del Gatto, prima di Capo di Stella; la Grotta Buca dell’Acqua, presso Capo di Fonza; le Grotte del Bue Marino e del Vescovo a Capo di Poro e prima della spiaggia di Cavoli, la Grotta Azzurra e del Pino. Della maggior parte di queste grotte è fornito il riferimento geografico e molte sono ancora in via di esplorazione, pertanto solo di alcune siamo in grado di dare il rilievo. All’Enfola troviamo la Grotta dello Sbruffo. Nell’Isolotto di Cerboli è segnalato un lungo tunnel sommerso, ma che dobbiamo ancora confermare.
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Fig. 7. Grotta di Cala di Forno della Vecchia.
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Grotta di Cala di Forno della Vecchia La grotta si apre lungo la costa occidentale di Capo Vita, l’estrema punta settentrionale dell’isola, all’interno dell’omonima cala (Alvisi, 1997). La grotta è impostata fra strati verticali di calcare bianco. L’ingresso ha un’altezza di 5,7 m, dei quali 5,4 sommersi e 0,3 emersi. Di fronte all’ingresso si trova un grosso masso di crollo. Il pavimento, dopo un tratto sabbioso di 5 m, inizia a risalire con forme rocciose levigate dall’azione del mare fino a terminare in una camera emersa che si restringe sempre più e si chiude in una nicchia ricca di vaschette di concrezionamento. Il tratto aereo è caratterizzato dalla presenza di brevi stalattiti. La lunghezza totale è di 27 m, lo sviluppo
planimetrico di 23 m e la superficie di 86 m2 (Fig. 7). Grotta dell’Innamorata Questa grotta è facilmente raggiungibile dalla vicina spiaggia. Presenta due ingressi, uno dei quali è di piccole dimensioni, in quest’area la profondità è di 3 m. Si sviluppa in orizzontale per circa 10 metri, terminando in un ambiente angusto. Entrati dall’ingresso più agevole si gira a destra dopo solo 5 m e percorrendo per altrettanti metri un percorso orizzontale si guadagna il secondo ingresso di dimensioni molto ridotte (Fig. 8).
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Grotta di Ortano Questa grotta si apre sulla parte destra dell’omonoma spiaggia. È di facile accesso e quindi molto frequentata dai bagnanti. Non presenta alcuna particolarità, il suo sviluppo è orizzontale a pelo d’acqua e lineare. Termina dopo circa 30 metri dall’ingresso. Grotta Azzurra Provenendo dalla spiaggia di Cavoli, si incontra una piccola cavità emersa (Grotta del Pino), dopo circa un centinaio di metri, navigando verso est, si apre un ampio anfratto percorribile anche con l’imbarcazione, le cui pareti si immergono fino ad una profondità di circa 3-4 metri. Nell’isolotto dei Cerboli, costituito da roccia calcarea (Giura inf.), alla profondità di circa 45 m vi è l’ingresso di un tunnel che non abbiamo ancora esplorato.
Pianosa
L’Isola di Pianosa (circa 10 km²) è una piccola porzione emersa di una dorsale sottomarina che, in direzione NS, unisce l’isola allo Scoglio d’Africa. È questa l’unica località dell’Arcipelago nella quale affiorano sedimenti del Neogene. Tale dorsale, cui viene dato il nome di Dorsale di Pianosa, divide il Bacino Tirrenico in due parti; quella verso la Corsica raggiunge gli 800 m di profondità, quella verso il continente tocca la profondità massima di 400 m fra le isole di Montecristo e del Giglio. La conformazione piatta dell’isola deriva da un residuo di erosione di una placca suborizzontale di strati calcarei pliocenici che hanno salvato piccoli affioramenti sottostanti di strati del Miocene inferiore. Per la sua natura geologica, Pianosa presenta un’alta potenzialità carsica, tuttavia la particolare orografia dell’isola, con un’altezza che non supera i 30 m s.l.m. e con fondali che degradano dolcemente, non consente lo sviluppo di importanti cavità. Cavità sommerse sono presenti lungo le scogliere che
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Fig. 8. Grotta dell’Innamorata.
caratterizzano i fondali orientali dell’isola e che culminano nelle due secche denominate del Marchese e della Scola. Queste secche rocciose presentano scogliere sommerse che da oltre 40 m di profondità si portano fino a 5 m mostrando una certa potenzialità carsica. Sulla secca del Marchese si trova una grotta costituita da un’ampia sala alla profondità di circa 15 m, mentre una cavità più complessa è situata nella Secca della Scola, alla profondità di circa 25 m. Un ampio tunnel si apre sulla scogliera di fronte al porto, tra i 35 e i 23 metri di profondità. Piccole cavità in parte emerse sono presenti lungo tutto il perimetro dell’isola, in particolare sul lato occidentale, caratterizzato da falesie pressoché verticali, e su quello settentrionale.
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Fig. 9. La Grotta “Luigia” della Secca della Scola.
La grotta “Luigia” della Secca della Scola La cavità ha uno sviluppo totale in direzione nord-est-sud-ovest di 29,5 m. Si tratta di un’ampia sala di 20 m x 12 m, alta al centro 5 m, con tre aperture. La principale è orientata a 60° e situata alla profondità di 26 m. Un masso di crollo è posto davanti all’ingresso, le cui dimensioni sono di 6 m di larghezza per 4 m di altezza. Il pavimento della cavità è ricoperto di sabbia e si sviluppa alla profondità di 25,4 m per circa 11 m per poi risalire fino a 23,5 m all’estremità opposta. Gli altri due ingressi hanno sviluppo pressoché verticale. Il primo, situato sulla destra, è orientato a 320°. All’inizio del camino si trovano alcuni massi di crollo. Si sviluppa per 11 m, dalla profondità di 25,4 fino all’imboccatura posta a 18,4 m. Il camino è ampio inizialmente 8 m (l) x 4 m (h), mentre all’apertura è 3,5 m x 1,5 m. Il secondo ingresso si apre all’estremità opposta rispetto al principale, si sviluppa per 9,5 m portandosi dai -23,4 m fino ai -19,5 m. Si apre in direzione 240°. Le dimensioni sono inizialmente di 1,5 m x 3 m, mentre all’uscita sono di 1,6 m x 1,3 m (Fig. 9). Sul lato sinistro della cavità si trova un cunicolo di dimensioni 0,9 m x 0,5 m che sembra proseguire per un tratto piuttosto lungo. Altre piccole cavità si aprono lungo tutto il perimetro della grotta. Le pareti rocciose esterne alla grotta sono caratterizzate da un popolamento coralligeno tipico dominato da Peyssonnelia spp e Flabellia petiolata. Le pareti ed il soffitto della cavità sono colonizzate principalmente da briozoi (in particolare Sertella spp), spugne e dal madreporario Leptosammia pruvoti. Sui massi
di crollo si trovano anche il briozoo Myriapora truncata e la spugna Axinella sp. Dal fondo sabbioso sporgono alcune Pinna nobilis e Sabella spallanzani. Le cavità minori sono abitate da numerosi Plesionika narvalus. Per quanto riguarda la fauna ittica, sono stati rinvenuti all’interno della cavità esemplari di Throrogobius ephippiatus, Phycis phycis, Epinephelus marginatus, Apogon imberbis.
Montecristo
L’Isola di Montecristo (circa 10 km²) è caratterizzata da rilievi con forti pendenze. Le coste dell’isola sono alte e frastagliate, le falesie raggiungono anche i 50 metri di altezza e sono presenti soprattutto sul lato orientale e meridionale dell’isola. L’isola è un plutone quasi circolare di monzogranite peralluminica (Innocenti et al., 1997). Gli affioramenti rocciosi di campagna sono scarsi e soprattutto disposti sotto tetti di metagabbri e calcari silicei delle sequenze ofiolitiche appenniniche; da segnalarsi in particolare quelli affioranti nell’area di Punta Rossa e della Cala dei Ladri all’estremità meridionale dell’isola. Le rocce MM sono fortemente porfiriche, l’associazione attuale è composta da feldspato alcalino, quarzo, plagioclasio, biotite e, in minor misura, cordierite. La natura granitica dell’isola non consente la presenza di importanti cavità marine con sviluppo articolato.
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La Cattedrale Lungo la costa di sinistra di Cala Maestra, ad una profondità di circa 45 metri, si apre un’ampia cavità che rimane da rilevare in maniera sistematica. La grotta M2 di Cala Corfù La grotta si apre nella parte sud-orientale dell’Isola, al centro dell’omonima cala. L’ingresso è rivolto in direzione sudsud-est con il pavimento che sta 7 m più sotto caratterizzato da grandi pietre granitiche. Il soffitto, costituito da spaccati di roccia tagliente, è a circa 13 m. A 50 m dall’entrata la grotta sifona in due rami angusti e distinti, il cui diametro consente il passaggio di un solo sub. I due rami subacquei si riuniscono dopo un percorso di 10 metri, in un’ampia sala dove è possibile respirare. La sala subcircolare termina bruscamente in acqua bassa, ma senza spiaggia. Tenendo le spalle al sifone di sinistra vi è la possibilità, non facile, di arrampicare su una parte liscia di 3-4 metri, per accedere ad una cengia che consente di guadagnare l’esterno in un ambiente aereo le cui dimensioni sono alquanto ristrette. In totale la grotta ha uno sviluppo orizzontale di poco più di 100 m e una superficie in pianta di 350 m2 (Fig. 10). Su questa grotta sono state eseguite osservazioni di natura biologica (Balata et al., 2006). L’esposizione dell’ingresso permette il consolidamento di un popolamento algale fotofilo, mentre sul lato settentrionale prevalgono le specie sciafile. Nella parte terminale, prima del sifone, è stato rilevato un popolamento costituito principalmente da poriferi e serpulidi, mentre gli antozoi sono poco rappresentati (Balata et al., 2006).
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Fig. 10. La Grotta M2 di Cala Corfù.
La grotta M3 di Cala Corfù Uscendo dalla grotta M2 e girando a sinistra, nella rientranza della costa, immediatamente dopo la prima piccola sporgenza rocciosa, si apre un’altra cavità che abbiamo denominato M3 di Cala Corfù. M3 si apre ancora in direzione sudsud-est, non presenta alcuna articolazione e si risolve in un unico ambiente che si prolunga nel corpo dell’isola per circa 60 metri.
Isola del Giglio
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Grotte della Cappa Si tratta di tre cavità, due delle quali si presentano a forma di tunnel, mentre la terza è più articolata. Le cavità I e II si aprono su un fondo sabbioso a 12 m di profondità e risalgo-
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L’Isola del Giglio, la maggiore delle sei isole minori dell’Arcipelago (21,21 km2), è costituita da una dorsale montuosa allungata in direzione NNO-SSE. Ad eccezione del Promontorio del Franco, formato interamente da rocce sedimentarie, ritenute del Trias medio-superiore e da prasiniti, ritenute del Giurassico superiore (Lazzarotto et al., 1964), tutto il resto dell’isola è costituito da un monzogranito (GMI), caratterizzato dalla presenza di abbondanti xenoliti foliati e microgranulari, intruso a relativamente debole profondità nella copertura mesozoica imbricata. Tali caratteristiche non favoriscono lo sviluppo di cavità importanti, fa eccezione la parte più occidentale dell’Isola che è costituita da rocce calcaree. In ogni caso nella Cala dell’Allume, tre scoglietti prossimi al più grande Scoglio della Cappa, presentano altrettante cavità sommerse, denominate nell’insieme “Grotte della Cappa” (Alvisi et al., 1994).
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no fino a 9 m. La grotta I misura 10 m per 7,8 m ed ha l’uscita ostruita da massi di crollo. La grotta II ha dimensioni di 5 m per 14 m. La grotta III ha l’ingresso alla profondità di 13,9 m e presenta un cunicolo principale di circa 18 m. È costituito da una prima sala ampia 10 m direzionata verso nord-est e da una sala minore dalla quale parte un cunicolo che si sviluppa in direzione nord-sud per terminare ad un ingresso secondario alla profondità di 11,4 m. La sala minore prende luce anche da una finestra larga circa 3,8 m. Il pavimento è coperto da sabbia e blocchi di crollo (Fig. 11). All’esterno della grotta i popolamenti bentonici sono dominati da alghe fotofile (Dictyotales, Sphacelariales) che vengono sostituite da specie più sciafile (Halimeda tuna, Peyssonnelia spp, Lithophyllum stictiforme) in prossimità dell’ingresso. Le pareti dei due archi di ingresso sono colonizzate dalla Chlorophyta Palmophyllum crassum, mentre la volta presenta popolamenti a madreporari (Leptosammia pruvoti), briozoi (Myriapora truncata) e poriferi (Clathrina clathrus). L’idrodinamismo che caratterizza la grotta dotata di più aperture permette lo sviluppo di un popolamento bentonico relativamente abbondante. All’interno della grotta, le pareti sono colonizzate principalmente da spugne (Agelas oroides, Petrosia ficiformis), serpulidi (Protula tubularia). Nel soffitto della parte più confinata troviamo colonie del madreporario Madracis pharensis, tipico di tali ambienti; le colonie pendono dal soffitto sotto forma di glomeruli e tozze digitazioni. Tra la fauna vagile sono stati segnalati i decapodi Herbstia condyliata e Stenopus spinosus.
Giannutri
L’Isola di Giannutri, la più meridionale dell’Arcipelago Toscano (circa 2,62 km²), ha una forma ad anfiteatro, con tre rilievi, il principale è quello di Poggio di Capel Rosso a sud, che raggiunge la quota massima di 89 m slm. L’isola, come la Formica di Burano, rappresentano emergenze completamente formate da Calcare cavernoso, cioè da calcari dolomitici grigi sia chiari che scuri, brecciati o compatti ma più spesso vacuolari, da cui il nome della formazione attribuita al Trias sup. per la posizione sovrastante al Verrucano triassico (Trevisan, 1955). Lungo la costa si rinvengono scogli isolati e alcune grotte di chiara origine
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Fig. 11. Grotta n. 3 dello scoglio della Cappa.
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Fig. 12. Grotta Maurizio Sarra.
Grotta Maurizio Sarra La grotta si apre nella parte sud-occidentale dell’isola, sulla punta ovest di Cala dei Grottoni. Si tratta di un tunnel
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carsica, queste sono sottoposte alla dinamica del moto ondoso che spesso porta al crollo della volta, che restituisce una forma simile ad un piccolo anfiteatro costiero, il cui settore centrale ospita il materiale crollato. Questo è avvenuto anche nella parte meridionale dell’isola in località i Grottoni, dove si è formato un anfiteatro di dimensioni maestose. L’Isola di Giannutri è contraddistinta da un’unica formazione affiorante, il Calcare Cavernoso triassico, lo stesso affiorante nel Promontorio del Franco nell’Isola del Giglio. Questa formazione è caratterizzata da una struttura anticlinalica, interessata da rare discontinuità, probabilmente fratture, organizzate secondo tre direzioni principali: NNO-SSE, N-S e NE-SO. Grazie alla natura calcarea, Giannutri è l’isola dell’Arcipelago Toscano che presenta il maggior sviluppo di cavità sommerse. Fenomeni carsici hanno portato alla formazione di numerose cavità, successivamente rimodellate dall’azione del mare che costituisco oggi relitti la cui volta è stata fatta crollare dalla dinamica del moto ondoso, come presso Cala dello Spalmatoio e ancor di più ai grottoni la cui volta è circa 90 m s.l.m.; la base di questa grotta relitta si raggiunge partendo dalla sommità e armando uno scivolo che porta fino al livello del mare. Le cavità sono distribuite a diverse quote lungo le scogliere sommerse dell’isola, anche se si aprono principalmente intorno ai 50 metri di profondità, alla base delle falesie (Alvisi et al., 1987; Alvisi e Bruni 1988, 1989, 1994). La cavità più conosciuta è la Grotta Maurizio Sarra. Altre importanti cavità sommerse situate sempre nella parte meridionale dell’isola sono la Grotta del Parapandalo, la Grotta della Botte, la Grotta delle Finestre, la Grotta della Cupola e la Grotta dei Cocci. Si aprono invece a livello del mare, presentando una parte aerea facilmente osservabile dalle imbarcazioni, la Grotta di Agrippina, il Grottone di Cala Ischiaiola, la Grotticella del Soffione e la Grotta Senza Sosta.
di oltre 60 m che, dalla profondità di 48 m, permette l’uscita da un camino a 26 m di profondità. L’ingresso ha una volta ad arco e presenta un’altezza di circa 8 m e una larghezza massima di 26 m. La cavità si sviluppa in direzione nordnord-ovest e termina in una camera con il pavimento alla profondità di 34 m. Due camini si aprono sul soffitto ad una distanza di 15 m l’uno dall’altro e ad una profondità di 26 m; il primo camino dista 60 m dall’ingresso. Il fondo della cavità continua con due fessure impraticabili. Lo sviluppo planimetrico è di 117 m (Fig. 12 alla pagina precedente). Grazie alla sua morfologia che permette il movimento di acqua evitando un confinamento estremo, le pareti e il soffitto della grotta presentano popolamenti ricchi e diversificati. Oltre a organismi comuni alle altre cavità dell’isola, come madreporari (Leptosammia pruvoti) briozoi, poriferi e serpulidi, la volta ospita anche un bel popolamento di Corallium rubrum.
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Grotta di Agrippina La Grotta di Agrippina è presso Punta Scaletta sul versante nord occidentale dell’isola. L’ingresso è alto 9,5 m, dei quali 7,5 m sotto il livello del mare. La grotta è costituita da un’ampia sala, in parte emersa ed in parte sommersa, il cui fondo presenta una superficie rocciosa levigata dall’azione del mare. Oltre la camera d’ingresso, la cavità prosegue sulla sinistra per una decina di metri nella sala dei Misidiacei per terminare con uno stretto camino che risale fino quasi alla superficie. Lo sviluppo planimetrico è di 28 m. Il popolamento sessile è costituito da poriferi, serpulidi e madreporari. Molto interessante è il popolamento di fauna vagile, principalmente crostacei che colonizza la grotta. Sono stati segnalati, oltre ai Misidiacei, che danno nome all’omonima sala, i decapodi Dromia personata, Stenopus spinosus, Herbstia cindyliata, Palemon serratus, Lysmata seticaudata, Gnatophyllum elegans, Scyllarus arctus, Palinurus elephas. Grottone di Cala Ischiaiola Il Grottone di Cala Ischiaiola è situato nel centro dell’omonima cala nella parte occidentale dell’isola. Si tratta di una cavità completamente emersa che presenta uno sviluppo planimetrico di 19 m. Ha una struttura piuttosto semplice, con un’unica camera sub circolare, con molti massi di crollo disseminati sul pavimento. Grotticella del Soffione La Grotticella del Soffione è situata nella Cala dei Grottoni nella parte meridionale dell’isola Si tratta di una piccola cavità intensamente lavorata dal movimento del mare. Ha due ingressi, uno a pelo d’acqua e l’altro completamente subacqueo a 6,1 m di profondità. Presenta interessanti forme d’erosione, tra cui un solco di battigia tra i 4,3 e i 5 m di profondità e una piccola marmitta larga 50 cm. La cavità ha uno sviluppo planimetrico di 17 m.
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Grotta della Cupola La Grotta della Cupola è situata sul lato ovest della Cala dei Grottoni. È costituita da due parti morfologiche ben distinte, una sul lato sud, ampia e coperta dal mare e un’altra sul lato nord che penetra verso l’interno dell’isola. Quest’ultima conduce, con un netto gradone, in una saletta di circa 7 m per terminare in un cunicolo di risalita. I due ingressi sono situati a 26 m e 33 m di profondità. Lo sviluppo planimetrico totale è di 46 m. Altre cavità Tra le principali cavità sommerse, sono da considerare 3 cavità situate a Cala Brigantina, la Grotta del Parapandalo (con 2 ingressi posti alle profondità 49 m e 38 m, sviluppo planimetrico 30 m), la Grotta della Botte (ingresso a 15 m di profondità, sviluppo planimetrico 20 m), la Grotta delle Finestre (ingressi a 10,8 e 12 m di profondità, profondità massima 13 m, sviluppo planimetrico 102 m). Altra importante cavità è la Grotta dei Cocci, in prossimità di Punta di Capel Rosso (ingresso a 40 m di profondità, si sviluppa per circa 50 m a ridosso della parete rocciosa). Tra le più importanti cavità situate a livello del mare è da ricordare la Grotta Senza Sosta, vicino a Cala dello Scoglio sul versante nord-orientale dell’isola. Ha un largo ingresso rimaneggiato dai crolli, prosegue con bassi cunicoli e presenta concrezioni stalattitiche. La profondità massima è di 3 m.
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Il Monte Argentario ha una caratteristica impostazione insulare del territorio che ha conosciuto solo in tempi successivi (Pliocene medio) il collegamento al continente. È costituito da Calcare cavernoso. Il promontorio Argentario, a parte i sedimenti quaternari, indica cinque formazioni geologiche riunibili in tre complessi tettonici sovrapposti nel seguente ordine ad iniziare da quello più basso: Complesso I, Complesso II e Complesso III. Si tratta di una notevole semplificazione di quanto mostra la II Ediz. del F° 135 della CGI (Bertini et al., 1968). Nelle rocce carbonatiche del Promontorio si aprono diverse cavità soprattutto sommerse, 9 delle quali hanno un grande interesse speleologico: la Grotta del Turco, le 3 grotte dell’Argentarola (Grotta Grande dell’Argentarola, Grotta delle Cicaline, Antro delle Paramuricee), le 4 cavità dello Scoglio del
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Promontorio dell’Argentario
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L’area continentale è caratterizzata da zone rocciose di diversa origine e distribuite in maniera discontinua lungo la fascia litoranea. Il promontorio dell’Argentario costituisce, di fatto, la realtà di maggiore interesse dal punto di vista speleologico, quest’area presenta, infatti, affioramenti di rocce carbonatiche, quindi carsificabili. Gli affioramenti rocciosi sul continente sono sostanzialmente cinque: da SE a NW, promontorio Argentario, Talamone limite meridionale dell’Uccellina, Punta Ala, Monti di Piombino e Monti Livornesi.
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Corallo (Grotta Sifonante, Tunnel del Paragalene, Tunnel della Bocca, Grotta il Ponte) e la Grotta della Sirena (Alvisi e Bruni 1989, 1990, 1994). Grotta Grande dell’Argentarola La Grotta Grande dell’Argentarola ha una superficie in pianta di 720 m2. L’ingresso, posto a 6 m di profondità, prosegue con un tunnel di circa 7 m che conduce in una grande sala di 25m per 22m. Sulla sinistra una serie di colonne separa la camera principale da una sala laterale di 10 m per 15 m. Sulla destra della sala principale si apre un’ampia fessura. La grotta termina con uno scivolo di fango che è stato esplorato fino alla profondità di 22 m. Sul pavimento della sala principale, sulla destra, si apre un pozzo che è stato esplorato fino alla profondità di 28 m (Fig. 13). La grotta è abbondantemente concrezionata da formazioni stalattitiche, stalagmitiche e colonne. Tali formazioni costituiscono un esempio unico al mondo di deposizione marina-continentale conservata per più cicli climatici (Antonioli, 2003). Le stalagmiti hanno dato la possibilità di testimoniare le trasgressioni marine occorse durante gli ultimi 215.000 anni, i cui segni sono rimasti, all’interno di tali strutture, come alternanza di deposizioni di livelli marini e continentali. Ogni volta che il livello del mare è sceso sotto quello della grotta è ripresa la deposizione continentale di speleotemi, direttamente sopra i livelli marini a serpulidi depositati quando il mare era ad un livello simile o superiore all’attuale. Questa particolarissima caratteristica ha reso nota in tutto il mondo questa grotta ed il suo prezioso contenuto; infatti, le datazioni sulla durata e sulla quota raggiunta dal livello del mare nel corso del tempo hanno consentito (e consentiranno) un controllo sui dati teorici di numerosi modelli climatici. In particolare il livello raggiunto dal mare 200.000 anni fa ha costituito una scoperta di valenza mondiale. In prossimità dell’ingresso il popolamento è dominato da associazioni vegetali, che scompaiono bruscamente all’interno della cavità. Nella parte più vicina all’ingresso, il soffitto è colonizzato principalmente dal madreporaio Leptosammia pruvoti e da spugne incrostanti e massive. Nella parte più interna, le formazioni rocciose sono colonizzate quasi esclusivamente da serpulidi e spugne incrostanti. Sul pavimento sono presenti esemplari di Cerianthus membranaceus. Molte specie vagili, sia di invertebrati che di pesci trovano abitualmente rifugio nella cavità. Grotta delle Cicaline Si tratta di una cavità con uno sviluppo piuttosto semplice. L’ingresso, alto 8,5 m, si apre alla profondità di 10 m. La cavità prosegue verso nord-nord-est per 20 m per terminare in una sala che presenta il soffitto a +1,5 m sul livello del mare. La superficie in pianta è di 105 m2. Antro delle Paramuricee L’Antro delle Paramuricee si apre sulla punta ovest dell’Argentarola. Si tratta di un’ampia cavità posta a 31 m di profondità. Presenta un’altezza media di
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Fig. 13. Grotta Grande dell’Argentarola.
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Grotta del Turco La Grotta del Turco è situata a Punta Cacciarella, nella parte nord-occidentale del Promontorio dell’Argentario. L’ingresso è subaereo, la profondità massima è di 3,5 m. Si tratta di una sala che si sviluppa in direzione est per un totale di 33 metri e una superficie di 253 m2. La parte finale, sopra il livello del mare, piega verso nord-est.
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Grotte dello Scoglio del Corallo Lo scoglio del Corallo è localizzato a Cala Piccola, nella porzione più occidentale del Promontorio dell’Argentario. Quattro cavità sono state rilevate attorno all’ampia Secca sottostante lo scoglio. La Grotta il Ponte, la Grotta
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6 m, una profondità di 10 m e una superficie di 145 m2.
Sifonante (si apre a 25 m di profondità), il Tunnel del Paragalene (si apre a 29 m di profondità e termina dopo 40 m a 26,5 m), il Tunnel della Bocca (ha uno sviluppo di 38 m e ha i due ingressi a 30,5 m e 27 m di profondità). Grotta della Sirena La Grotta della Sirena è situata a Cala dell’Olio, sul versante sud-occidentale del Promontorio dell’Argentario. Si tratta di un tunnel lungo 78 metri situato a livello del mare. La profondità massima, in prossimità dell’ingresso occidentale, è di 4,2 m. Il pavimento in corrispondenza dell’ingresso orientale è posto alla profondità di 2,8 m. A partire dell’ingresso occidentale, la cavità si sviluppa in direzione nord-est per circa 30 m con una parte centrale interamente subacquea. In seguito piega verso sud-est.
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Monti dell’Uccellina Compresi tra Talamone e la Vacchereccia costituiscono un rilievo a falesia marina per oltre 10 km del lato occidentale e insieme al parallelo rilievo di Talamonaccio-Collecchio-Macchiese sono uno degli affioramenti più completi per lo studio delle rocce del Dominio Toscano e dell’Unità Subligure delle Argille e Calcari (Campetti et al., 1999). Promontorio di Piombino Era nel passato un’isola, annoverabile tra quelle dell’Arcipelago Toscano. Con il passare del tempo, seguendo lo stesso destino dell’Argentario, si è ritrovato collegato alla terraferma. Si sviluppa per circa 7 km ed è caratterizzato da coste alte e rocciose, con strapiombi che digradano in alcuni punti anche fino a 50 metri di profondità già in prossimità della linea di costa. Il Promontorio chiude a NE l’ampio Golfo di Follonica con la sua sottilissima spiaggia rimasta, a nord il Golfo di Baratti che si incastra tra il Promontorio vero e proprio e il suo prolungamento sul Poggio di S. Leonardo che nel Pleistocene superiore costituiva un isolotto del quale rimangono i sedimenti della fase marina tirreniana con mare più alto dell’attuale fino a circa 15 m (Boschian et al., 2006). Dal punto di vista stratigrafico nel Promontorio affiorano solo strati del Macigno, tetto della serie del Dominio Toscano, ai quali si sovrappongono strati di Argille e calcari di Canetolo del Dominio Subligure, al Poggio Batteria e immediatamente ad ovest della città oltre che nei poggi ricordati sopra che contornano il Golfo di Baratti. Il Macigno è costituito da arenarie quarzoso feldspatiche, a grana medio-grossolana, di colore grigio chiaro in frattura fresca, giallo ocra in quella alterata. Si raggiunge la Grotta delle Fate dopo un cammino in discesa che percorre un sentiero nel bosco della macchia mediterranea. La grotta altro non è che una spaccatura di circa 10 metri che si apre nella roccia in direzione ovest-sud ovest. Secche di Vada Risalendo il territorio continentale verso nord costituiscono il primo affioramento roccioso su un bassofondo roccioso segnalato dal Faro della Punta
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del Tesorino. Dal punto di vista morfologico queste secche formano un vasto promontorio sommerso sul prolungamento della piana di Vada; il fondale non supera generalmente i -20 m e giunge quasi ad emergere nelle vicinanze del faro. Il raccordo con la piattaforma circostante avviene intorno all’isobata dei -60 m con un pendio rettilineo assai ben individuabile. Sul corpo delle secche sono state riconosciute delle zone morfologiche isopiche da terra verso il largo e cioè (secondo la denominazione dei pescatori locali): i Catini o fondo con depressioni subcircolari; gli Spartiti caratterizzati da affioramento di rocce stratificate; le Ricadute o piccole scarpate collegate a costruzioni biogeniche del Coralligeno; i Cigli o scarpate maggiori delimitanti i bordi delle secche. La zona interna delle secche, da circa 2 km dal Faro fino a circa 1 km dal litorale è coperta da un’’mpia prateria a posidonia impiantata su mattes. Con lo studio geologico è stato riconosciuto che al fondo a catini corrisponde un substrato di Panchina del Tirreniano (= Pleistocene superiore marino), mentre agli spartiti corrispondono affioramenti di un Flysc calcareo marnoso del Cretacico superiore (Aiello et al., 1982; Bicchielli et al. 2010). Il Tunnel delle Secche di Vada Alla profondità di circa 38 metri in direzione ovest, probabilmente sulla linea di faglia su rocce dell’alberese, si apre un ampio ingresso che attraverso un tunnel per circa 10 metri guadagna l’uscita. L’ambiente è tipicamente in penombra, ma la visibilità è buona. Il pavimento è costituito da sabbia organogena e il soffitto è coperto da Parazoanthus Le biocenosi sono quindi quelle caratteristiche dei tunnel passanti che abbiamo descritto nella parte introduttiva.
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Monti Livornesi Si estendono tra Rosignano M.mo e Livorno e tra il mare, a occidente, e la depressione tettonica dei fiumi Fine e Tora, a levante. In base ai rapporti di giacitura le litofacies affioranti nell’area dei Monti Livornesi sono raggruppate in quattro unità stratigrafico-tettoniche che, a partire dalla più profonda: Unità del Dominio Toscano, successione non metamorfica; Unità del Dominio Ligure esterno; Unità del Dominio Ligure interno; Unità postparossismale del Neogene e del Pleistocene inferiore.
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Secche della Meloria Segnalate dalla torre settecentesca, si estendono per un ampio tratto di mare. Le conoscenze geologiche riportano una superficie di trasgressione che risale fino alla paleocosta dell’VIII secolo a.C. a iniziare da una profondità di circa -13 m, e divide i sottostanti Limi e torbe lagunari-palustri e fluviali dell’Olocene. Al largo della Torre e del Faro, malgrado in passato sia stata ammessa l’esistenza di numerosi affioramenti rocciosi, allo stato attuale delle ricerche non abbiamo scoperto finora alcun affioramento di roccia: la copertura della prateria a Posidonia fino verso i -20/-25 m e del Coralligeno al di sotto è apparsa completamente celante fin verso i -50 m dove i fondali divengono piatti e detritici.
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Immediatamente a sud della città di Livorno troviamo un’importante formazione rocciosa che si estende per circa 3 km e che è stata proposta come area marina da prendere in considerazione per una eventuale protezione, è il Romito, area compresa tra i due castelli del Boccale in Calafuria e di Sonnino in Calignaia. La natura geologica di quest’area non consente la formazione di cavità complesse, tuttavia, lungo la costa, sono state censite alcune grotte marine di dimensioni ridotte, altre devono ancora essere rilevate con accuratezza. Procedendo da nord verso sud si incontrano la Grotta del Boccale, il Camino, l’Arco e la Grotta del Grongo (AAVV 2009). Grotta del Boccale È situata davanti all’omonimo castello ed è raggiungibile anche dalla costa dopo una breve pinneggiata. In effetti, si tratta di un passaggio in roccia il cui ingresso basso, si apre in direzione ovest ad una profondità di 25 metri e con uno slargo orizzontale di circa 15 m. La sezione longitudinale è ellissoidale e ben presto si raggiunge l’uscita dopo aver percorso un tratto inclinato di circa 20 metri. L’uscita è a 14 metri e facilmente agibile (Fig. 14). Tutta l’area circostante è caratterizzata da numerose fratture e anfratti passanti. L’ingresso basso è caratterizzato dalla presenza di tipici popolamenti sciafili costituiti prevalentemente da alghe semincrostanti del genere Peyssonnelya, subito dopo aver superato un piccolo restringimento, questi popolamenti scompaiono e solo le spugne del genere Verongia colonizzano alcune parti della cavità. La visita di questa grotta è consigliabile al mattino presto, in tal modo c’è la possibilità di trovare le acque limpide. L’aspetto più interessante della grotta è la presenza del corallo rosso (Corallium rubrum) sulle pareti rivolte a est dell’uscita alta a soli 14 metri di profondità. Non è facile, infatti, trovare il corallo ad una profondità cosi ridotta. Il Camino È situato poco a sud rispetto alla Grotta del Boccale. L’ingresso è posto ai piedi della falesia verticale alla profondità di 35 m. La cavità è costituita da un tunnel che risale per oltre 10 m per finire ad un secondo ingresso a 20 m di profondità.
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Fig. 14. Grotta del Boccale.
L’Arco Posto a occidente del Camino, l’Arco è costituito da un passaggio sub orizzontale che si apre a 40 m di profondità. Grotta del Grongo La grotta del grongo è situata a nord-ovest della Torre di Calafuria. Si tratta di una grotta a tunnel con i due ingressi posti a 25 m e a 15 m. Dall’ingresso situato a 25 m si penetra in un’ampia camera, separata in due parti da blocchi rocciosi; in fondo alla seconda parte della camera si apre in camino che conduce al secondo ingresso. Il pavimento è ricoperto di sabbia fine; l’altezza massima è di 2 m. La cavità ha uno sviluppo di circa 20 m.
Grotte Anchialine e simili
Gli ambienti anchialini son corpi idrici a salinità variabile, poco esposti all’aria aperta, con comunicazioni sotterranee con il mare, in parte estese, in sostanza sistemi idrici sotterranei situati in prossimità del mare, con scarso accesso di fauna marina, ma presenza di tipici organismi stigobionti. Di fatto, costituiscono rifugi di antiche linee evolutive, che vedono spesso singole specie colonizzare cavità isolate. Da qui l’estrema fragilità degli ecosistemi che si sono formati e che richiederebbero adeguate misure di protezione e tutela al fine di evitare la possibile estinzione di specie o di interi gruppi animali di eccezionale valore scientifico.
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Fig. 15. Grotta di Punta degli Stretti.
Grotta di Punta degli Stretti Questa cavità, conosciuta fin dal 1841, inizia con una serie di cunicoli per arrivare al tunnel ferroviario e da qui passare ad un grande salone fossile concrezionato, occupato in gran parte da un laghetto di acqua limpida. Superato il lago si entra in una serie di cunicoli alternati a stanze di varie dimensioni, spesso occupate dall’acqua dove furono trovati numerosi esemplari di fauna acquatica: Ostracodi, Copepodi, Anfipodi e Termosbenacei (Fig. 15).
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Grotta del Romito Appena a cinque metri sul livello del mare, nel gabbro del Romito, si apre un portale di circa 2,5 m per 3 m. Risalendo il salone iniziale si arriva a una frattura che si sviluppa per circa 6 metri in linea con l’ingresso e in direzione 45° nord-est. Per raggiungere la parte finale, per un dislivello positivo di oltre 3 metri che svolta di 90° rispetto alla posizione precedente. Al termine il profilo della cavità si riduce sensibilmente fino a solo 1 metro. La cavita è fortemente interessata dagli spruzzi del mare soprattutto quando le condizioni meteomarine sono avverse. L’avvicinamento avviene in prossimità di un’apertura sulla strada statale Aurelia nelle vicinanze di Castel Sonnino. Si scende fino al livello del mare, si cammina sulla scogliera fino a superare il castello di 100 metri e si risale in parete per circa 5 metri fino ad accedere all’ingresso.
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Grotta di Cala dei Santi (Monte Argentario) Questa grotta si apre sul versante meridionale di Punta dell’Avoltore, uno dei promontori in calcare cavernoso del Monte Argentario. La grotta, di origine carsica, presenta una grande scarpata occupata da enormi blocchi di crollo sui quali si sono depositati crostoni stalagmitici. È formata da un unico grande ambiente, lungo 45 metri e largo circa 40 metri. La volta si trova a circa 18 metri sul livello del mare. Il lato sinistro della cavità appare parzialmente svuotato dall’azione delle onde marine (Fig. 16).
Fig. 16. Grotta di Cala dei Santi.
Grotta di Cala Finestra (Monte Argentario) L’ingresso si apre al livello del mare con due ingressi che hanno un’altezza di 12 m per 20 di larghezza. La grotta prosegue sviluppandosi in direzione nord-sud con un’inclinazione di 30° per un dislivello di circa 70 m. Dopo circa 150 m la grotta si restringe. Il pavimento e ricoperto di grandi massi di crollo. Probabilmente la grotta si è formata al contatto tra le brecce calcaree e le rocce filladi che sottostanti (Piccini, 2013). Grotta di Santa Caterina e Grotta Seconda Recentemente sono state catastate altre due piccole grotte situate a livello del mare e molto vicine tra loro, sul lato sud-est. Sono caratterizzate da brevi tunnel nei calcari brecciati e scavati dall’azione dell’acqua.
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Conclusioni
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Nell’ambito dell’anno di sperimentazione per l’applicazione dei Piani di Monitoraggio della Direttiva comunitaria 2008/56/CE, ARPAT ha mappato l’area di Calafuria in tridimensione. Tale attività è stata svolta con l’ausilio del Multi Beam e del Side Scan Sonar (Fig. 17). È stato cosi possibile ottenere il profilo di costa sul quale si sviluppa la grotta del Boccale, ciò ha consentito, in ultima analisi, di caratterizzare ancora meglio l’area di nostro interesse. Un aspetto molto complesso è la descrizione biologica degli ambienti che si incontrano, ciò richiede specialisti delle varie discipline. Abbiamo sempre cercato di definire e caratterizzare a sommi capi questi micro ecosistemi con descrizioni biologiche di sintesi. Solo in due casi, nell’isola di Gorgona e di Montecristo, sono stati condotti studi sistematici e dettagliati che hanno permesso di produrre contributi scientifici di un certo valore (Bianchi e Morri, 1994, Balata et al., 2006). Due situazioni distanti nell’ambito dell’Arcipelago Toscano, interessate da condizioni idrologiche molto diverse tra loro, poiché Gorgona, si trova nel bacino ligure e Montecristo in quello tirrenico. Benché le metodologie di studio siano state diverse, hanno permesso in ogni caso un confronto delle principali caratteristiche biologiche, ciò ha richiesto un’inevitabile riflessione sui movimenti delle grandi masse d’acqua e del moto ondoso, nel tentativo di correlare le modalità di sviluppo delle due cavità, nonché i popolamenti biologici presenti. Le grotte del Bue Marino di Gorgona sono state oggetto di uno studio bionomico coordinato dall’ICRAM (Bianchi e Morri 1994). L’ambiente immediatamente esterno alle cavità è colonizzato da popolamenti fotofili a dominanza vegetale. Presso gli ingressi, si ha una dominanza di specie algali sciafile, principalmente incrostanti. Poco dopo l’ingresso si ha la presenza di filtratori passivi, principalmente idroidi, associati a poriferi. La porzione centrale delle cavità è colonizzata da ricoprimenti nell’ordine del 15%, caratterizzati da poriferi, principalmente Petrosia ficiformis, e madreporari. Nella parte terminale rimangono solo madreporari e serpuloidei con ricoprimenti inferiori al 5%. L’ingresso della grotta M2 di Montecristo è rivolto a sud-sud-est, il lato meridionale dell’isola presenta un popolamento algale fotofilo dominato da Dasycladus vermicolaris, Padina pavonica e Cystoseira spp, mentre sul lato settentrionale prevalgono le specie sciafile, come Peyssonnelia spp, Halimeda tuna e Palmophyllum crassum. Uno studio sistematico condotto sulle pareti di destra e sinistra, fino all’interno della zona buia, ha consentito di caratterizzare la grotta dal punto di vista bionomico. Nella parte terminale, prima del sifone, è stato rilevato un popolamento costituito principalmente da poriferi e serpulidi, mentre gli antozoi sono poco rappresentati. Interessante è la differenza di colonizzazione tra le pareti destra e sinistra. Proprio in prossimità dell’ingresso del sifone di sinistra, in una piccola spaccatura verticale, risiedono alcune mostelle (Phycis phycis) (Balata et al., 2006). Sulla base delle conoscenze acquisite nel tempo il gruppo di lavoro del Prof.
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Carlo Nike Bianchi dell’Università di Genova, ha predisposto un modello teorico per spiegare la struttura e la funzionalità degli ecosistemi marini legati agli ambienti di grotta del Mediterraneo. Questo modello integra quasi tutte le componenti rappresentative dell’ecosistema grotta sia le composizioni faunistiche, sia le caratteristiche e le interazioni. Tutto questo costituisce la base dell’Ecosystem-Based Quality Index Quality (EBQI), della Direttiva europea sulla strategia marina (2008/56/CE), che mira a valutare la qualità ecologica dell’ecosistema marino (Rastorgueffa et al., 2015). Ciò che abbiamo esposto è un riassunto delle attività condotte in oltre venti anni di lavoro. Crediamo di essere riusciti a dare un quadro generale del potenziale speleologico marino della Toscana attraverso un’attenta analisi di tutte le componenti geologiche dell’area interessata. Tale inquadramento potrà essere utilizzato anche nell’ambito di una gestione razionale del territorio marino che la nostra Regione deve attivare in ottemperanza agli obblighi che l’Italia deve sostenere nel prossimo futuro in merito alla nuova Direttiva comunitaria sulle strategie del mare (2008/56/CE). Il nostro paese deve, infatti, rispondere alle richieste comunitarie in relazione ai Siti di interesse in special modo quelli che riguardano le grotte marine considerate ambienti a rischio. La Regione Toscana sta producendo un grande sforzo in tal senso mettendo tra le principali azioni del PAER 2012-2015 proprio specifiche considerazioni sull’ambiente marino in genere e le grotte marine in particolare. Il Target 11 (Grotte Marine), infatti, ha ottenuto in genere una classificazione molto alta per tutti valori di impatto considerati. Le cause di minaccia per le grotte marine possono essere molteplici (pesca, acquacoltura, ecc.), ma di impatto trascurabile ad eccezione degli effetti legati all’antropizzazione costiera. I valori standardizzati permettono il confronto di questi impatti (target 11 grotte marine), con quelli relativi ad altri target trattati. Siamo anche consapevoli che molto è ancora da fare, poiché l’esplorazione di questi ambienti è resa più difficile dalla presenza e dai capricci del mare, lo stesso agente che ha concorso alla formazione delle grotte. I problemi logistici hanno rappresentato il maggior impedimento all’esplorazione e molte grotte, pur visitate, ancora oggi, devono essere rilevate, è il caso, ad esempio, dell’Elba che richiederà, forse, il maggior sforzo per riuscire a censire le restanti cavità come la Grotta dei Gatti dopo Capo Stella, la Buca dell’Acqua prima di Capo Fonza, la Gotta Azzurra prima di Cavoli, la Grotta del Bue Marino a Punta Bardella e la Grotta del Vescovo, ecc. L’obiettivo finale è quindi quello di riuscire a censire e rilevare tutte le grotte dell’area toscana che si aprono al livello superficiale e profondo del mare; proprio l’esplorazione della parte profonda, sicuramente quella più difficoltosa da realizzare, ma anche la più stimolante, potrebbe rivelare importanti cavità oggi a noi sconosciute.
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Ringraziamenti Un sentito ringraziamento va ad ARPAT che ha consentito l’utilizzo della mappa tridimensionale di Calafuria. Si ricorda inoltre che la Regione Toscana ha finanziato la prima parte del progetto facendo riferimento ai fondi della L.R. 20/84 “Tutela e valorizzazione del patrimonio speleologico”. BIBLIOGRAFIA AAVV. 2009. Calafuria sommersa. Felici Editore. Aiello E., Bartolini C., Gabbani G., Smazzanti R., Pranzini E., Vaccari G. (1982) Morfologia e geologia delle Secche di Vada (Provincia di Livorno). Boll. Soc. Geol. It. 100 (1982): 339-368. Alvisi M., R. Bruni, 1994. Le grotte marine dell’isola di Giannutri (Grosseto). In: Alvisi M., Colantoni P., Forti P. (eds.) 1994. Atti del Convegno Speleomar 91 (Palinuro - SA), Memorie dell’Istituto Italiano di Speleologia, 6(2): 37-43. Alvisi M. 1997. La grotta di Cala di Forno della Vecchia all’isola d’Elba. Sottoterra 104: 16-18. Alvisi M., Bianchi C.M., Colantoni P. 1994. Le grotte sommerse dello scoglio della Cappa (Isola del Giglio). Ist. It. Speleol. Mem. 6: 25-30. Alvisi M., Bruni R. 1988. Le grotte sommerse di Cala Brigantina - Isola di Giannutri. Sottoterra, 81: 11-20. Alvisi M., Bruni R. 1989. Giannutri, nuove cavità marine. Sottoterra 82: 11-20. ALVISI M., BRUNI R. 1989. La Grotta del Turco: una grotta marina nel Promontorio dell’Argentario. Sottoterra 84: 16. Alvisi M., Bruni R. 1990. Le grotte sommerse dell’Argentarola. Speleologia 11/23: 17-22. Alvisi M., Bruni R. 1994a. Le grotte marine del Promontorio dell’Argentario (Grosseto). Ist. It. Speleol. Mem. 6: 37-44.
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Dentro la montagna. Alla scoperta del mondo ipogeo apuano. Danilo Pizzelli, Sira Cella, Rossana Tognoni (Gruppo Speleologico Archeologico Apuano)
n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract Per l’anno scolastico 2013 2014, il gruppo Speleologico Archeologico Apuano, ha deciso per la prima volta di inserirsi nel progetto proposto dal Comune di Massa alle scuole cittadine denominato “Realtà Locale, storica e Ambientale” che sostanzialmente prevede, per le realtà scelte dall’amministrazione, la possibilità di proporre da parte di Associazioni del territorio, laboratori su temi peculiari e legati al contesto di appartenenza. Il progetto, strutturato su tre incontri ed un’uscita sul territorio, ha avuto la finalità di far scoprire ai ragazzi coinvolti il mondo sotterraneo tipico della zona apuana, le cui montagne carsiche offrono occasioni di incontrare ambienti ipogei di elevato valore scientifico ed esplorativo. Nel corso delle attività, rivolte a tre classi delle scuole primarie e tre delle scuole medie cittadine, si è proposto di: - far conoscere l’ambiente ipogeo e le sue caratteristiche, - far scoprire la fauna della grotta, - far sperimentare ai bambini alcuni rudimenti di speleologia. I materiali utilizzati sono stati: computer, proiettore, pubblicazioni e foto. Reperti e materiali naturali della grotta.
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I temi sviluppati negli incontri sono stati: 1. Dentro la montagna. Com’è fatta una grotta e come si forma? Attraverso l’illustrazione del fenomeno carsico, è stato presentato il meccanismo che nei millenni ha portato alla formazione degli innumerevoli percorsi sotterranei presenti nel territorio apuano. 2. Chi vive nelle grotte - Biospeleologia. Attraverso giochi ed attività illustrative, sono stati introdotti gli animali presenti nelle grotte apuane (principalmente insetti ed anfibi). 3. La lunga strada dell’acqua - Ecologia. È stato trattato affrontato il tema dell’ambiente ipogeo come serbatoio idrico delle Alpi Apuane, con particolare attenzione all’importanza di un consumo consapevole della risorsa acqua L’uscita sul territorio finale è stata strutturata come un incontro fatto di giochi e attività a tema per le classi della scuola primaria, e di un uscita in grotta semplice per la scuola media. Purtroppo non è stato possibile svolgere l’uscita in grotta per criticità e pregiudizi con cui ci siamo scontrati nella relazione con i ragazzi ed i loro genitori. Anche questa difficoltà ha rappresentato all’interno del gruppo un momento di confronto e di riflessione per i futuri interventi formativi.
Ritorno a scuola Sabrina Tamburini (Unione Speleologica Calenzano)
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n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract L’unione Speleologica di Calenzano ha organizzato nel corso degli anni molte occasioni formative e divulgative, rivolte prevalentemente a bambini e ragazzi delle scuole del territorio. L’ultimo progetto organico attivato con l’Istituto Comprensivo di Calenzano ha impegnato l’associazione nella organizzazione di lezioni all’interno della scuola con l’obiettivo di sensibilizzare al rispetto dell’ambiente e degli equilibri ecologici, approfondire la conoscenza del territorio locale dei Monti della Calvana, promuovere la conoscenza del mondo ipogeo, descrivere il rapporto tra uomo e le grotte ed ha coinvolto oltre 150 alunni delle prime e terze classi delle scuole medie. Per l’attivazione del percorso formativo ci siamo interrogati quali fossero le tecniche comunicative più efficaci per raggiungere una platea di ragazzi che già stanno facendo un percorso formativo scolastico. Abbiamo ritenuto essenziale attivare un primo contatto con i docenti per condividere quale fosse il livello di conoscenza degli alunni. Affrontare argomenti già introdotti in classe dai docenti ci ha permesso di costruire una discussione sulle loro conoscenze acquisite e da quelle introdurre nuove informazioni fino ad arrivare a parlare di speleologia, mostrando loro quanto questa abbia un carattere multidisciplinare. I temi affrontati sono stati: l’acqua, intervento che abbiamo chiamato “Acqua di casa mia” e il mondo delle rocce, denominato “La terra ed i suoi materiali”. La tecnica che abbiamo utilizzato durante il nostro intervento è stata un mix tra lezione frontale e discussione aperta. Questo tipo di operazione adotta il concetto di zona di sviluppo prossimale, l’allievo apprende nuove nozioni appoggiandosi sulle sue vecchie conoscenze facilitato dall’aiuto di un docente. Una particolare attenzione deve essere posta ai “registri” che usiamo, ovvero il linguaggi impiegati nella esposizione e nella discussione. Sono apprezzabili le declinazioni la dove i concetti siano troppo complessi, ma una eccessiva riduzione del lessico non permette l’acquisizione, nel nostro caso, di parole scientifiche che hanno un significato già intrinseco. Per noi ritornare a scuola ha significato principalmente due cose: la prima, confrontarsi come individui in merito alle nostre conoscenze, approfondire le nozioni sia speleologiche che scientifiche e dunque accrescere la nostra cultura; la seconda, ma non meno importante, apprendere come comunicare efficacemente le conoscenze, le nozioni e la passione, in modo che il nostro intervento possa supportare la crescita di una generazione più sensibile e attenta all’ambiente in cui viviamo.
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Fotografati con il dovuto rispetto Fabrizio Darmanin (SST)
Etica di un naturalista-fotografo... in grotta Spinto dal rinnovato spirito di rispetto ambientale fortunatamente sempre più vivo nel mondo della speleologia moderna, il mio intervento è volto a suggerire i principi etici che ogni fotografo naturalista dovrebbe seguire. Con l’avvento della tecnologia digitale sempre più appassionati fotografi si avvicinano (troppo) frettolosamente al mondo della natura, saltando quella fase di osservazione e studio che normalmente viene a lungo praticata dagli appassionati più esperti. In questi casi può succedere che la scarsa conoscenza dei soggetti avvicinati possa causare un disturbo eccessivo e pericoloso solo per quella irrefrenabile voglia di voler “scattare” ad ogni costo... L’esperienza dell’esperto naturalista, oltre che permettere l’individuazione del soggetto (quasi mai facile), è indispensabile per capire quando è il momento più adatto per la ripresa fotografica, ma soprattutto per capire quando giunge il momento oltre il quale la presenza umana e la presenza dell’attrezzatura possono pesantemente interferire con la vita delle specie fotografate. In grotta tutto ciò si accentua: il fragile equilibrio delle specie che vivono lì è spesso alterato semplicemente dalla sola presenza dell’uomo. Durante l’intervento sono brevemente illustrate le tecniche di ripresa per la realizzazione delle fotografie dei pipistrelli in volo e soprattutto le accortezze messe in atto per limitare il più possibile il disturbo.
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Foto di F. Darmanin.
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Il monitoraggio della composizione isotopica delle acque di pioggia e di stillicidio dell’Antro del Corchia: implicazioni idrologiche e paleoclimatiche Ilaria Baneschi1, Ilaria Isola2,3, Eleonora Regattieri3,4, Massimo Guidi1, Gianni Zanchetta4 (1 Istituto di Geoscienze e Georisorse - CNR Pisa, 2 Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia sez. Pisa, 3 Gruppo Speleologico Lucchese, 4 Dipartimento Scienze della Terra Università di Pisa)
Introduzione
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Le composizioni isotopiche dell’ossigeno e del deuterio (δ18O e δ2H) contenuti nelle acque di pioggia sono parametri chiave per comprendere i processi che influenzano la circolazione atmosferica locale sia attuale che nel passato. In particolare, la variazione del δ18O delle piogge viene registrata nella composizione isotopica degli archivi utilizzati nelle ricostruzioni paleoclimatiche. Ad esempio, il valore della composizione isotopica della calcite degli speleotemi è determinato dalla composizione isotopica delle precipitazioni locali che alimentano gli stillicidi, cui si aggiungono poi i processi che avvengono nel suolo, nell’epicarso e nella grotta stessa (Fig. 1).
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Fig. 1. Processi principali che vanno a determinare e influenzare la composizione isotopica dell’ossigeno della calcite degli speleotemi (da Lachniet, 2009).
Fig. 2. Localizzazione della stazione pluviometrica e delle stazioni di monitoraggio degli stillicidi, CNR 1, CNR 2 e del Laghetto.
D’altra parte ogni grotta ha una sua risposta alle variazioni dell’ambiente esterno in termini di geochimica delle acque, tempi di residenza delle acque di stillicidio e processi legati alla cinetica della precipitazione della calcite (Fairchild e Baker, 2012), che influenzano direttamente la composizione stessa della calcite. Per cercare di capire la relazione tra ambiente esterno e composizione degli speleotemi, è quindi necessario effettuare monitoraggi prolungati ed accurati dei processi di formazione delle concrezioni nelle varie grotte ed in alcuni casi anche delle singole concrezioni all’interno della stessa grotta. Il nostro gruppo di ricerca, con il supporto della Federazione Speleologica Toscana, sta studiando speleotemi provenienti da diverse grotte delle Alpi Apuane e in particolare dall’Antro del Corchia. Fin dai primi risultati (Drysdale et al., 2004), è stato evidente che questo archivio paleoclimatico avrebbe riservato molte sorprese e avrebbe avuto un ruolo prominente anche a scala di tutto il bacino Mediterraneo. In questo contesto, considerata l’importanza di comprendere meglio la relazione tra la variazione della composizione delle acque di pioggia e degli stillicidi di grotta, per interpretare correttamente le variazioni a livello dello speleotema, è stato impostato un programma di monitoraggio dell’Antro del Corchia a lungo termine. I campioni analizzati in questo lavoro sono stati prelevati nel periodo da ottobre 2009 a dicembre 2010, al fine di caratterizzare la variabilità delle precipitazioni in un anno di campionamento e la relazione con le acque di stillicidio provenienti da tre stazioni di monitoraggio all’interno dell’Antro del Corchia (Fig. 2).
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Metodi di analisi I campioni di pioggia sono stati raccolti utilizzando un pluviometro appositamente allestito appena sopra l’ingresso artificiale della grotta (860 m s.l.m, Fig. 2). La quantità d’acqua campionata mensilmente è stata pesata in laboratorio per determinare l’ammontare delle precipitazioni e, un’aliquota di 50 ml, filtrata, è stata conservata a 4°C per le analisi isotopiche. All’interno del sistema carsico sono state campionate le acque di due stillicidi, CNR 1 e CNR 2 e del Laghetto alimentato dalle acque di stillicidio della Galleria delle Stalattiti. La stazione CNR 1, posizionata in prossimità del Ramo degli Inglesi, si trova ad una quota di circa 860 m s.l.m.; CNR 2 e il Laghetto sono localizzate nella parte più interna del sistema nella Galleria delle Stalattiti (Fig. 2), a pochi metri di distanza l’una dall’altra e ad una quota di circa 840 m s.l.m.. Le acque di stillicidio sono state raccolte mensilmente e un’aliquota conservata per le analisi isotopiche. Le acque del Laghetto sono state campionate in concomitanza con il prelievo delle acque di stillicidio. La composizione isotopica di ossigeno e idrogeno delle acque campionate è stata determinata presso i laboratori dell’IGG-CNR di Pisa secondo procedure standard. I risultati sono espressi come differenze relative dei rapporti isotopici del campione rispetto allo standard di riferimento internazionale. Dato che tali valori sono molto piccoli vengono dati in per mille (‰), come mostrato nella
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Fig. 3. Variazione della composizione isotopica mensile, δ18O, dell’acqua di pioggia (pallino blu), della quantità di pioggia mensile (barra nera), della TMM (losanga arancione) e della TMPP (losanga rossa) per i mesi monitorati.
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formula seguente: δ18O=((δ18Oc-δ18Os)/ δ18Os)∙1000 dove c si riferisce al campione e s allo standard di riferimento, che per le acque consiste nel contenuto isotopico medio delle acque dell’oceano, V-SMOW (Vienna Standard Mean Ocean Water, Craig, 1961). L’errore analitico è di 0.1 ‰ per l’ossigeno e 2 ‰ per l’idrogeno.
Fig. 4. Diagramma δ2H versus δ18O per le precipitazioni del Corchia e le acque di stillicidio campionate nell’Antro. Si riporta anche la retta meteorica globale (GMWL), la retta meteorica costruita con le precipitazioni per l’Italia centrale (da Longinelli e Selmo, 2003) e la retta meteorica costruita usando le acque superficiali nell’area delle Apuane (da Mussi et al., 1998).
Risultati
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Nell’intervallo di tempo analizzato, la composizione isotopica dell’ossigeno delle piogge mensili varia da un minimo di -8,21 ‰ (novembre 2010) a massimo di -5,39 ‰ (settembre 2010, Fig. 3), con un valore medio pesato del δ18O di -7,42. La maggior quantità di pioggia si è concentrata nel periodo tardo autunnale-invernale, quando sono stati misurati anche i valori più negativi di δ18O. Nonostante la non completa continuità e la brevità del periodo di indagine, si nota la presenza di una correlazione non elevata ma significativa (al 5%) tra quantità di pioggia e il δ18O, con un coefficiente di regressione di -0.467‰/100 mm. La Fig. 3 mostra anche come la temperatura media mensile (TMM) sia sostanzialmente più elevata della temperatura media mensile pesata per la quantità di pioggia mensile TMMP nel periodo estivo. Tuttavia, non è presente una correlazione significativa tra la composizione isotopica delle piogge e la TMM o la TMMP. La distribuzione dei valori di δ18O rispetto al δ2H delle precipitazioni è mostrata nel diagramma di Fig. 4, Questi sono confrontati con le rette di distribuzione delle piogge (rette meteoriche) disponibili per l’area di studio. Le piogge rilevate sul Corchia cadono lungo la retta meteorica con pendenza 7,14 definita da Mussi et al. (1998) per l’area delle Apuane, retta che coincide essenzialmente con quella definita per l’Italia centrale da Longinelli e Selmo (2003), con pendenza di 7,05. Queste precipitazioni si discostano invece, dalla retta meteorica globale (GMWL) costruita considerando la composizione isotopica delle acque di pioggia a livello mondiale (Craig, 1961) e avente una pendenza di 8.
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Fig. 5. Confronto della composizione isotopica mensile dell’ossigeno, δ18O delle acque di stillicidio delle stazioni CNR 1, CNR 2 e Laghetto.
Tutto ciò indica per il Corchia una forte incidenza di perturbazioni provenienti dal bacino del Mediterraneo. I risultati mostrati in Fig. 5 evidenziano che: - la stazione CNR 1 è caratterizzata da variazioni del δ18O di circa 2,1‰. In particolare, i valori relativamente più negativi di δ18O vengono registrati al termine della stagione invernale-inizio della primavera in corrispondenza dello scioglimento della copertura nevosa. - la stazione CNR 2 si caratterizza per la minore variabilità dei valori del δ18O, con un valore medio di -7,39 ± 0,08 ‰. - la stazione Laghetto mostra un comportamento analogo a CNR 2 e si caratterizza per valori medi di -7,43 ± 0,08 ‰ e -46 ± 2 ‰ per ossigeno e deuterio, rispettivamente. Si evidenzia quindi che i valori medi delle due stazioni non sono significativamente diversi.
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Osservazioni finali Questo lavoro rappresenta un primo tentativo, condotto su un periodo di tempo relativamente breve, di mettere in relazione la composizione isotopica delle precipitazioni sul Corchia e quella degli stillicidi monitorati in due diverse aree della grotta. I risultati evidenziano la relazione tra composizione isotopica delle piogge e quantità delle precipitazioni, mentre è non significativa la relazione con la temperatura anche pesata per le precipitazioni. BIBLIOGRAFIA Craig H. (1961) Isotopic variations in meteoric waters, Science, 133, 1702-1703. Drysdale R., Zanchetta G., Hellstrom J.C., Fallick A.E., Zhao J., Isola I., Bruschi G. (2004) Palaeoclimatic implications of the growth history and stable isotope (18O and 13C) geochemistry of a Middle to Late Pleistocene stalagmite from central-western Italy, Earth and Planetary Science Letters, 227, 215-229. Fairchild I. J., Baker A. (2012) Speleothem Science. From Process to Past Environment, WileyBlackwell, Chichester, UK, pp. 450. Lachniet M.S. (2009) Climatic and environmental controls on speleothem oxygen-isotope values, Quaternary Science Reviews, 28, 412-432. Longinelli A. e Selmo E. (2003) Isotopic composition of precipitation in Italy: a first overall map, Journal of Hydrology, 270, 75–88. Mussi M., Leone G., Nardi I. (1998) Isotopic geochemistry of natural water from the Alpi ApuaneGarfagnana area, Northern Tuscany, Italy, Mineralogica et Petrographica Acta, 41, 163-178.
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Grotte dei Monti Pisani, in volo d’uccello Andrea Russino, Marco Innocenzi, Roberto Giuntoli (Gruppo Speleologico CAI Pisa)
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n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract Grotte dei Monti Pisani, centocinque cavità in pochi chilometri, curiosamente concentrate quasi esclusivamente su un solo versante, quello pisano. A dispetto della sua ridotta estensione, l’area carsica dei Monti Pisani presenta una considerevole varietà di cavità naturali e non manca certo di stupire: sebbene nessuna di esse raggiunga i cinquecento metri di sviluppo, si passa da semplici ventaiole a veri e propri complessi in miniatura dai molteplici ingressi, cavità lineari e cavità dallo sviluppo ben più articolato, prettamente orizzontali o marcatamente verticali, grotte che si aprono appena sopra il livello di falda e altre che si aprono a quote ben superiori. Non mancano poi grotte finemente concrezionate, grotte di interesse archeologico e paleontologico per le loro frequentazioni preistoriche, grotte da tutelare per la presenza ancora cospicua di colonie di chirotteri, e grotte su cui investigare per la recente invasione del cosiddetto “gambero killer” (Procambarus Clarkii). Questo lavoro nasce dal desiderio di rinnovare l’interesse verso questa area carsica certamente minore, ma che di sicuro merita di essere riscoperta e valorizzata, oltre che dagli “addetti ai lavori” (biologi, archeologi e studiosi in genere), anche da chi va in grotta per pura curiosità e diletto. Quella che viene presentata è un’inedita visione d’insieme dell’intera area carsica per mezzo di moderni strumenti informativi territoriali, ponendo in risalto quelle grotte che per storia, estensione o bellezza possono essere di interesse speleologico, una sorta di riassunto visivo su quelle che sono le conoscenze attuali dell’area, utili anche per agevolare la pianificazione di semplici ma gratificanti escursioni domenicali in qualche grotta dei Monti Pisani.
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Le grotte della Montagnola Senese Ivan Martini, Giacomo Aurigi, Marco Bianchi (Commissione Speleologica “I Cavernicoli” CAI Siena)
n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract
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Questo contributo si prefigge di descrivere, attraverso un reportage fotografico, le caratteristiche di una vasta area carsica ancora poco conosciuta dal punto di vista speleologico, situata pochi chilometri ad ovest della città di Siena. Oltre 90 cavità naturali sono state esplorate a partire dagli anni ’60 e alcune di esse hanno una rilevante importanza scientifica a livello internazionale per gli studi a carattere geologico, paleontologico e geomorfologico che hanno interessato queste cavità negli ultimi anni. La Montagnola Senese è costituita in larga parte da rocce carsificabili, interessate da diffusi fenomeni carsici epigei ed ipogei. Tra i primi si annoverano le doline, di solito con forme circolari o sub-circolari, che risultano estremamente diffuse in tutta la Montagnola Senese anche se spesso concentrate in ristrette aree. L’unione successiva di doline adiacenti ha portato alla formazione di un grande polje pianeggiante (chiamato “Pian del Lago”, in quanto invaso dalle acque prima della sua bonifica avvenuta nel XVIII secolo da parte del Granduca di Toscana), elemento geomorfologico che contraddistingue un’ampia porzione di questa area.Le cavità, per lo più localizzate in corrispondenza di diaclasi della roccia, sono caratterizzate da modesti sviluppi planimetrici e presentano spesso un andamento verticale, raggiungendo tuttavia profondità modeste (fino a 77 metri dal piano di campagna). Grotte dominate da andamenti orizzontali e/o dalla presenza di ampie sale sono poco comuni. Le peculiarità geomorfologiche di queste cavità sono principalmente dovute a due fattori geologici: le caratteristiche della roccia ospitante, e la presenza di fratture e faglie. Le rocce che ospitano questi fenomeni carsici sono per loro natura molto porose, consentendo una circolazione diffusa delle acque e non facilitando la loro concentrazione. Questo ha portato a fenomeni di dissoluzione diffusi che hanno dato origine a molte piccole cavità piuttosto che a grandi cavità. La presenza di elementi strutturali (quali faglie e fratture) ha invece giocato un ruolo chiave nello sviluppo di queste cavità, che spesso si vanno ad impostare esattamente in corrispondenza degli elementi strutturali che ne determinano forme, dimensioni ed andamenti verticali. Solo raramente è possibile osservare grotte che morfologicamente si discostano da questo modello. Talvolta, per esempio, si osservano grotte costituite quasi esclusivamente da ampi saloni di crollo (con volumi anche di 20.000 m3, come nel caso della Buca del Chiostraccio) che si collegano all’esterno mediante pozzi e doline-pozzi. Questo tipo di grotte si trova tipicamente nei punti di intersezione tra sistemi di fratture, dove la roccia risulta indebolita in una ampia fascia areale facilitando fenomeni di dissoluzione concentrata. Il pavimento di tali saloni è spesso caratterizzato dalla presenza di detriti e grossi
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blocchi rocciosi derivanti dal collasso della volta della cavità. Le cavità attualmente conosciute non presentano al loro interno circolazione idrica attiva, eccezion fatta per un debole stillicidio, soprattutto nei periodi soggetti a intense precipitazioni meteoriche. Nelle volte delle camere più superficiali, è facile riconoscere l’orizzonte regolitico (strato di transizione tra roccia madre e suolo) per la presenza di suolo e radici.
Buca Chioma di Berenice (T/SI 1742) Secondo pozzo, all’interno della grotta sono presenti quasi esclusivamente concrezioni coralloidi con una forma “a cavolfiore”, foto di M. Bianchi.
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Speleobox per la didattica speleologica: analisi, criteri progettuali e linee guida Ferdinando Adorno (Gruppo Speleologico Fiorentino, Architetti Senza Frontiere Toscana)
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La dimensione didattica accompagna la speleologia sin dal suo essere divenuta attività scientifica. Condividere quanto faticosamente appreso e registrato all’interno delle grotte è un aspetto centrale sia in ambito accademico e specialistico sia nella generale sensibilizzazione sulle tematiche ambientali relative alla natura ipogea. A seguito della complessità e della molteplicità dei fenomeni naturali che concorrono a descrivere l’ambiente sotterraneo, la didattica speleologica è data dalla combinazione dei differenti metodi di insegnamento propri di ogni disciplina attinente alla speleologia (geologia, carsismo, topografia, fotografia, etc.). A questi aspetti si è aggiunta, a partire dagli anni ‘50, la necessità di preparare adeguatamente le numerose persone attirate dalle attività di ricerca esplorativa, portando alla realizzazione di specifiche attività di formazione teorico/pratica inerenti alle tecniche di progressione in grotta e di adattamento all’ambiente sotterraneo. Più recentemente, la necessità di avvicinare un numero maggiore di persone alla speleologia e di garantire il processo di ricambio generazionale all’interno dei numerosi gruppi speleologici, ha portato ad un progressivo processo di trasformazione delle forme di comunicazione della speleologia e di individuazione dei suoi destinatari. Insieme alle tradizionali attività divulgative (proiezioni, conferenze, congressi e mostre) e collaborazioni (musei, enti parco, università), un numero crescente di attività si rivolgono alle scuole e vedono l’inserimento della speleologia nelle attività scolastiche di sensibilizzazione ed educazione ambientale. Oltre alle classiche escursioni in grotta di tipo turistico, con minime ricadute sull’apprendimento curriculare e non, si riscontra un interesse crescente per attività sperimentali rivolte a bambini di differenti fasce d’età unitamente a portatori di handicap motori e sensoriali e per l’uso del gioco al fine di ottenere un effettivo coinvolgimento. Considerando il solo quadro dell’infanzia e della preadolescenza, le situazioni di gioco ricavabili dal mondo ipogeo sono numerose e ricadono principalmente nella categoria dei giochi di abilità motoria da svolgersi attraverso l’esecuzione di un percorso capace di attivare non solo capacità di coordinazione e dominio del corpo, ma anche sperimentazione, scoperta, esplorazione, coraggio e decisione. A tale scopo risponde la speleobox, un labirinto di dimensioni variabili da percorrere adattando i propri movimenti alle possibili asperità di una grotta (ad es. gattonando, strisciando, arrampicando). Attraverso un’indagine bibliografica e l’analisi di alcuni casi studio selezionati, l’obiettivo della ricerca proposta è di identificare le principali caratteristiche in uso delle speleobox, fornendo alcune linee guida riguardo i criteri per la loro realizzazione e le potenzialità applicative.
Buca Del Campo: Ingresso Lorenzo Brizzi al sistema del Monte Corchia Stefano Ratti (Gruppo Speleologico Lunense)
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Resoconto delle ricerche in corso da parte del Gruppo Speleologico Lunense nella zona del “retrocorchia” Iniziate per la ricerca di un accesso esterno ai pozzi risaliti in fondo al ramo dei maremmani in Fighiera, dapprima rivendendo l’Abisso Montemurlo - Bocciolix continuate in seguito con l’individuazione di vari punti in cui scavare. Proprio nei pressi del luogo in cui abitualmente si effettuava il campo (da cui il primo nome della grotta) viene individuata una apertura tra le pareti di una vecchia cava. Un minimo di lavori per consentire il passaggio e siamo riusciti ad entrare nella nuova grotta.
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Domenica, Aree Carsiche
Rilevamento geologico sotterraneo di skarn e mineralizzazioni a Pb-Fe, Buca Grande di Montorsi, Campiglia Marittima Luca Tinagli1, Sergio Rocchi1, Andrea Dini2, Simone Vezzoni3 (1: Dipartimento Scienze della Terra, Università di Pisa, 2: Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Geoscienze e Georisorse, Pisa, 3: Istituto di Geoscienze e Georisorse, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Pisa )
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Gli skarn (rocce metasomatiche silicatiche di Ca e Mg) e le mineralizzazioni idrotermali (Pb-Fe-Cu-Zn), del Campigliese (Toscana meridionale) sono associati in strutture e rapporti poco studiati e conosciuti, specialmente negli ambienti minori delle grotte-miniera. Tali cavità, oltre duecento, possono raggiungere volumi considerevoli, a prova dell’importanza economica di questi giacimenti dall’epoca Etrusca fino ad almeno al Rinascimento. Il Campigliese costituisce un horst principalmente costituito da formazioni carbonatiche della Falda Toscana, associate a rocce magmatiche neogeniche (plutone granitico di Botro ai Marmi, dicchi acidi e mafici del Temperino, e rioliti peralluminose di San Vincenzo). Le rocce carbonatiche sono interessate da cavità carsiche, associate a skarn e mineralizzazioni a solfuri di Pb-Fe. Queste cavità sono state sfruttate per lo sviluppo di miniere, e oggi offrono quindi una visualizzazione tridimensionale degli skarn e delle mineralizzazioni Pb-Fe a quarzo, che può dare un contributo considerevole alla comprensione del complesso meccanismo genetico degli skarn e dei loro processi di alterazione, nonché dei processi di formazione dei corpi quarzosi mineralizzati a Pb-Fe per veining-sostituzione. Questo studio ha permesso di caratterizzare una delle maggiori grotte-miniera (Buca Grande di Montorsi), tramite un rilievo geologico e strutturale sotterraneo implementato da uno studio petrografico, ricostruendo così le geometrie e i rapporti giaciturali tra le litologie. Per il rilevamento geologico in grotta-miniera si è fatto uso anche di tecniche di rilevamento speleologico, con il supporto tecnico e scientifico del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese e dell’IGG-CNR di Pisa. Lo studio petrografico è stato eseguito in microscopia ottica in luce riflessa e trasmessa. Il rilevamento di Buca Grande di Montorsi ha portato a redigere una carta dei rilievi topografico-geologici a diverse scale e individuando due principali litotipi: skarn hedenbergitico e quarzo a galena e pirite, con una struttura 3D con giacitura a “manto”. Lo skarn affiora in vene NNW-SSE ad alto angolo e corpi suborizzontali con grado d’alterazione variabile, ed è tagliato dal manto (oggetto di escavazione), orientato NW-SE ad immersione orientale; tre sistemi di vene di quarzo sono associate al manto, e messe in posto contemporaneamente o successivamente a questo.
Cavità di origine ipogenica nelle aree carsiche minori della Toscana centro-meridionale Leonardo Piccini (Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Firenze)
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Introduzione La maggior parte delle cavità sotterranee conosciute, cioè dotate d’ingressi accessibili all’uomo, è il prodotto di fenomeni di dissoluzione e secondariamente erosione, per opera di acque di origine meteorica che si muovono per gravità e il cui potere corrosivo è legato a processi che avvengono a livello della superficie terrestre, o poco al di sotto, e che pertanto sono detti epigenici. Esistono però anche cavità originate da fenomeni di dissoluzione innescati da componenti volatili in grado di acidificare un’acqua prodotti da processi che avvengono in profondità (endogeni) e quindi sostanzialmente svincolati dalla dinamica dell’atmosfera e della biosfera (Palmer, 1991). Tali processi sono detti ipogenici e sono frequentemente associati ad acque termali, cioè dotate di temperatura significativamente superiore a quella media delle acque d’infiltrazione e soggette a movimenti di risalita dal basso verso l’alto per fenomeni di tipo convettivo o artesiano (Forti, 1996). Sulla definizione di carsismo ipogenico esistono però diverse linee di pensiero. Oltre alla definizione appena data, alcuni autori considerano “ipogenico” qualsiasi processo di dissoluzione legato a risalita di acque, purché questa avvenga da un sistema acquifero non carsico sottostante (Klimchouk, 2007, 2009). Negli ultimi anni molti ricercatori che si occupano di carsismo sotterraneo stanno dando sempre maggiore attenzione ai fenomeni speleogenetici di tipo ipogenico. Le grotte formate da questi processi presentano, infatti, diverse peculiarità. Nonostante la loro minore accessibilità per la mancanza d’ingressi transitabili, esse potrebbero essere le più abbondanti, in termine di numero, e le più estese. Per la Wind Cave in South Dakota (USA), il cui sviluppo conosciuto è attualmente pari a 166 km, si ritiene ad esempio che lo sviluppo reale possa essere superiore a 1700 km (Horrocks e Szukalski, 2002). Si tratta inoltre di grotte di rilevante interesse scientifico, sia per la dinamica dei processi di formazione, legati spesso a particolari contesti geologici, sia per i particolari speleotemi che contengono che, al contrario di quelli presenti nelle grotte epigeniche, si formano anche in ambiente subacqueo e d’interfaccia aria/acqua (Forti, 1996). Le grotte di origine ipogenica in sè non hanno solitamente ingressi accessibili, perché legate a circolazione profonda e quindi sono prive d’inghiottitoi o risorgenti, come anche di cavità d’infiltrazione dall’epicarso. Gli accessi sono quindi di solito accidentali, legati cioè all’intercettazione di cavità sotterranee in seguito
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Contesti Geologici idonei alla speleogenesi ipogenica in Toscana
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La Toscana presenta un’elevata varietà di situazioni geologiche che possono aver dato origine a fenomeni speleogenetici di tipo ipogenico. Diversamente da quanto avviene in altre regioni, gli affioramenti carbonatici sono distribuiti in numerose aree carsiche di dimensioni medio-piccole (Piccini, 2001), a parte le Apuane, che hanno un’estensione di circa 700 km2 (Fig. 1). La maggior parte di queste aree carsiche è costituita da uno o più alti strutturali delimitati da faglie normali che frammentano la continuità delle unità tettoniche principali e in particolari di quella nota come “Falda Toscana”. Queste faglie si sviluppano sino a profondità anche di diversi chilometri e sono spesso
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a fenomeni di denudamento naturale, come l’incisione dei fiumi o fenomeni gravitativi (frane), oppure legati all’azione dell’uomo, come l’apertura di grandi cave o lo scavo di miniere. Molte delle grotte già conosciute si stanno rilevando, a un’indagine più approfondita, di origine ipogenica o parzialmente ipogenica (Galdenzi, 2009). In particolare la Toscana è una delle regioni potenzialmente più ricche di cavità di origine ipogenica, spesso legate a manifestazioni termali o sub-vulcaniche ancora attive.
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Fig. 1. Distribuzione delle principali aree carsiche della Toscana e delle più importanti sorgenti termali. Gli asterischi indicano la posizione delle aree delle Cornate e di Monticchiello, descritte nel testo con maggior dettaglio.
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sede di risalite di acque termali che circolano nelle parti sepolte di queste unità. Non a caso la Toscana è anche particolarmente ricca di sorgenti termali, in totale ne sono conosciute più di 80, alcune delle quali, come ad esempio quelle di Saturnia, hanno portate di diverse decine di litri il secondo. Il calore può essere legato al normale gradiente geotermico, oppure a fenomeni d’idratazione di solfati o più frequentemente, e specie nella Toscana meridionale, a fenomeni di vulcanismo. Non bisogna dimenticare che sebbene adesso in Toscana non vi siano vulcani attivi, nel recente passato geologico sono state numerose le manifestazioni vulcaniche, anche di carattere spiccatamente effusivo, e alcune di queste, come ad esempio il Monte Amiata, erano attive sino a poche centinaia di migliaia di anni fa. Tutta la zona delle colline metallifere e dell’Amiata presenta tuttora un gradiente geotermico particolarmente elevato. Rilevanti sono le manifestazioni vulcaniche della zona di Larderello, che si manifestano con i famosi “soffioni” boraciferi, che sono state le prime sfruttate a livello mondiale per la produzione di energia elettrica. Oltre a queste manifestazioni strettamente idrotermali, ne esistono altre che possono aver innescato fenomeni speleogenetici ipogenici, come ad esempio le esalazioni a biossido di carbonio presenti tra le provincie di Arezzo e Siena. Sempre di carattere ipogenico possono essere considerati i fenomeni di dissoluzione legati a fenomeni di alterazione profonda di giacimenti minerari. In sintesi, la maggior parte delle aree carsiche della Toscana può essere stata interessata da fenomeni carsici ipogenici con l’eccezione di quelle presenti sulla dorsale appenninica principale, come le zone di Soraggio, Pania di Corfino, Val di Lima e Monti della Calvana, e le Alpi Apuane, dove al momento nessuna delle oltre 1150 grotte conosciute presenta evidenti morfologie o depositi di origine ipogenica. Partendo da NW e scendendo verso SE, seguendo cioè l’andamento delle maggiori strutture tettoniche, la prima zona con possibile presenza di cavità di origine ipogenica è quella dei Monti Pisani, anche per la presenza di numerose manifestazioni idrotermali e di sorgenti a elevato contenuto di gas (come le famose acque di Uliveto). Più nell’interno troviamo la nota Grotta di Monsummano Terme, una delle prime grotte ipogeniche conosciute e studiate in Italia e in Europa (Piccini, 2000). Proseguendo verso sud troviamo diversi piccoli affioramenti carbonatici associati a fenomeni termali, come ad esempio a Casciana Terme, dove è possibile la presenza di cavità di origine idrotermale. Tra Arezzo e Siena sono presenti piccole cavità di probabile origine ipogenica nei pressi di Rapolano Terme e di Trequanda, così come cavità di origine ipogenica o mista potrebbero esserci nella Montagnola Senese. Le aree con la maggior concentrazione di fenomeni carsici legati a idrotermalismo sono però le Colline Metallifere e la Toscana Meridionale, soprattutto in relazione alla presenza dei campi geotermici di Larderello e dell’Amiata. Qui sono presenti numerose aree carsiche che hanno caratteristiche tali da poter ospitare grotte di origine ipogenica, tra cui, particolarmente im-
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Fig. 2. Depositi di gesso formati dall’azione di vapori sulfurei, ricoprono concrezioni calcaree nella Grotta di Montecchio, foto L. Piccini.
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Il monte Le Cornate (1059 m s.l.m.) rappresenta la più alta cima delle Colline Metallifere e una delle più alte dell’intera Toscana Meridionale, Si tratta di una stretta dorsale calcarea lunga circa 3 km che corre in direzione WNW-ESE poco a nord-ovest del paese di Gerfalco (Fig. 3). La dorsale è costituita quasi interamente da Calcare Massiccio, con ampi affioramenti di
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L’Area Carsica de Le Cornate-Poggio Mutti
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portante, quella dei Monti di Campiglia. Al momento però i fenomeni accertati sono quelli presenti nelle aree di Roselle, presso Grosseto e di Montecchio, presso Saturnia. In particolare, il piccolo affioramento di Montecchio ospita la grotta omonima, che è attualmente la più lunga in Toscana tra quelle di origine ipogenica. Questa grotta, oltre a chiare morfologie dovute a speleogenesi da acque solfuree, presenta anche ingenti depositi di gesso (Fig. 2) oltre a depositi carbonatici da acque termali ed è stata recentemente studiata e descritta in alcune pubblicazioni (De Waele et al. 2012; Piccini et al. 2015) cui si rimanda per ulteriori dettagli. Tra le zone invece minori in cui la presenza di cavità ipogeniche non era mai stata descritta, ci sono l‘area carsica dei monti de Le Cornate e di Poggio Mutti, presso Gerfalco, e la piccola area di Monticchiello, nella bassa valle dell’Orcia. Negli affioramenti carbonatici intorno ad Orbetello (Poggio del Leccio e Monte Argentario) invece, le grotte maggiori sembrano più legate ad un contesto di carso costiero, con fenomeni di miscelazione, piuttosto che di carattere strettamente ipogenico (Iandelli e Piccini, 2006).
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Rosso Ammonitico che sono stati in passato oggetto di attività estrattiva. La dorsale è delimitata verso SW da ripidi pendii e piccole pareti rocciose, impostate su di una evidente faglia normale a direzione WNW-ESE. In corrispondenza di questa faglia sono presenti piccole cavità a forma di condotta che presentano morfologie a cupole e morfologie a camere sferiche tipiche delle cavità di origine ipogenica (Fig. 4). Le cavità sono tutte di modeste dimensioni e al momento non catastabili. La condotta più ampia è occlusa
Fig. 3. Carta della zona de Le Cornate Poggio Mutti con riportata la posizione delle grotte catastate (cerchi rossi): in azzurro sono riportati gli affioramenti delle rocce carbonatiche (base cartografica da Regione Toscana, cartografia online).
Fig. 4. L’ingresso di una delle piccole cavità di probabile origine ipogenica che si aprono lungo la faglia che borda a SW l’affioramento calcareo de Le Cornate, foto G. Dellavalle.
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Fig. 5. Gli ambienti interni delle grotte di Poggio Mutti sono stati modificati da scavi minerari e la loro morfologia originaria non è riconoscibile, ma una loro origine ipogenica è altamente probabile, foto L. Piccini.
da detrito, ma potrebbe teoricamente avere qualche prospettiva di continuazione. Le cavità sembrano avere un’origine precedente o almeno parzialmente contemporanea alla formazione della faglia. In ogni caso si tratta di cavità relitte che testimoniano l’esistenza di fenomeni probabilmente più sviluppati in profondità. Poco a SW de Le Cornate si trova l’area di Poggio Mutti dove sono catastate una decina di grotte. Si tratta di cavità di origine naturale che sono state utilizzate in passato per scavi minerari per l’estrazione di solfuri a Fe e Cu, dall’epoca medioevale (Fig. 5). Gli scavi non permettono di riconoscere agevolmente le morfologie originali, ma alcuni indizi sembrano suggerire anche per queste una origine ipogenica. In ogni caso le mineralizzazioni, che impregnano depositi di calcite spatica, riempiono sicuramente cavità e fessure allargate per fenomeni di dissoluzione spinta in concomitanza con la deposizione dei depositi minerari.
L’area di Monticchiello e la Grotta del Beato Benincasa Nei pressi del paese di Monticchiello (SI) si trova un modesto affioramento di calcari, che formano una sorta di bastione tagliato da una profonda incisione scavata dal torrente Tresa (Fig. 6). Il luogo è molto suggestivo perché il torrente ha scavato una breve ma profonda gola, con alcuni salti e delle
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profonde marmitte. L’incisione ha incontrato una cavità che è nota da tempo e che è famosa per essere stata utilizzata come ricovero da un eremita nel XV secolo, di nome Beato Benincasa. La grotta, denominata Buca del Beato Benincasa (numero di catasto: T/SI 261), presenta tre ingressi, tutti sulla destra dell’incisione a
Fig. 6. Carta della zona di Monticchiello con riportata la posizione delle grotte catastate (cerchi rossi): in azzurro sono riportati gli affioramenti delle rocce carbonatiche (base cartografica da Regione Toscana , cartografia online).
Fig. 7. Rilievo topografico della Buca del Beato Benincasa (da Catasto Online della Federazione Speleologica Toscana).
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Fig. 8. Forme di corrosione tipo spongework, tipiche di cavità di origine ipogenica, foto L. Piccini.
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La Toscana è potenzialmente una delle regioni d’Italia più ricche di cavità di origine ipogenica, spesso legate a manifestazioni termali o sub-vulcaniche ancora attive. Le aree con la maggior concentrazione di fenomeni carsici legati a idrotermalismo sono le Colline Metallifere e la Toscana Meridionale, soprattutto in relazione alla presenza dei campi geotermici di Larderello e dell’Amiata. Il quadro che ne deriva è uno sviluppo dei fenomeni carsici che in buona
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Conclusioni
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diversa altezza sulla parete rocciosa (Fig. 7). L’ingresso superiore, di accesso più comodo, si presenta come uno sprofondamento probabilmente di origine gravitativa. L’ingresso intermedio si apre direttamente sul torrente, a ridosso di una suggestiva cascata. L’ingresso basso invece ha la forma di una condotta di forma rotondeggiante e si apre a pelo del torrente. Se si escludono gli ambienti iniziali, modificati da crolli, la grotta presenta subito morfologie di tipo freatico, originatesi quindi in condizioni di saturazione e con flussi lenti (Fig. 8). È quindi da escludere una qualche origine legata ad afflussi direttamente dal torrente, che ha trovato la cavità già formata durante l’incisione del bastione calcareo. In particolare, i passaggi che immettono al piano inferiore mostrano le morfologie a spongework (letteralmente a “spugna”) che sono tipiche di cavità di origine ipogenica legate a falde idrotermali soggette a lenti moti convettivi. Nelle sale iniziali sono presenti anche ampie cupole sul soffitto, che però possono anche essere legate a fenomeni di corrosione per condensazione in condizioni in cui si ha una falda termale in contatto con l’atmosfera (Fig. 9). Nella grotta non sono stati trovati depositi di gesso e quindi non si può ipotizzare un’origine da acque solfuree. Va detto che è possibile che allagamenti ripetuti in concomitanza della fase d’intercettazione da parte del torrente Tresa, potrebbero aver asportato completamente il gesso e altri minerali facilmente solubili. La grotta necessita comunque di studi morfologici e sedimentologici più approfonditi che si spera di compiere in un prossimo futuro.
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parte della Toscana centro-meridionale è strettamente legato a fenomeni correlati con la presenza di giacimenti minerari, fenomeni vulcanici e sub-vulcanici e risalita di acque termali, quindi ben diversi da quelli epigenici classici, legati alla circolazione gravitativa di acque di diretta provenienza meteorica. Lo studio di queste cavità è appena all’inizio e in pratica solo la Grotta di Montecchio è stata oggetto di una prima indagine accurata da un punto di vista speleogenetico e morfologico, mentre quasi tutte le altre grotte sono ancora da studiare e sicuramente molte altre aspettano ancora di essere riconosciute come di origine ipogenica. Di là dalle peculiarità morfologiche e dei depositi caratteristici che queste grotte presentano, le cavità di origine ipogenica si prestano, meglio di quelle di origine epigenica, a essere messe in relazione con l’evoluzione morfotettonica e con i fenomeni di origine vulcanica che hanno interessato la Toscana Meridionale durante il Quaternario e sono quindi di notevole interesse scientifico. BIBLIOGRAFIA De Waele J., Galli E., Piccini L., Rossi A. (2012) Descrizione morfologica e mineralogica della grotta ipogenica sulfurea di Montecchio, Grosseto, Toscana. Atti del XXI Congresso Nazionale di Speleologia, 2-5 giugno 2011, Trieste, pp.380-386. Forti P. (1996) Thermal karst system. Acta Carsologica, 25: 99-117. Galdenzi S. (2009) Hypogene caves in the Apennines, Italy. In: Klimchouk, A.B., Ford, D.C., Eds., Hypogene Speleogenesis and Karst Hydrogeology of Artesian Basins. Special Paper 1. Ukrainian Institute of Speleology and Karstology, Simferopol, pp. 101-116. Horrocks R.D. and Szukalski B.W. (2002) Using geographic information systems to develop a cave
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Fig. 9. Cupole di volta negli ambienti iniziali della Buca del Beato, foto L. Piccini.
potential map for Wind Cave, South Dakota. Journal of Cave and Karst Studies 64(1), pp. 63-70. Klimchouk A.B. (2007) Hypogene speleogenesis. Hydrogeological and morphogenetic perspective. National Cave and Karst Research Institute, Carlsbad, Special Paper Series, 1, 77 p. Klimchouk A.B. (2009) Morphogenesis of hypogenic caves. Geomorphology, 106, pp. 100-117. Iandelli N., Piccini L.,, 2006, Rapporti tra morfogenesi carsica ed evoluzione paleogeografica nelle aree costiere della Toscana Meridionale. Il Quaternario, Italian Journal of Quaternary Science, 19, 1, pp. 79-87. Palmer A.N. (1991) Origin and morphology of limestone caves. Geological Society of America Bulletin, 103, pp. 1-21. Piccini L. (2000) Il carsismo di origine idrotermale del Colle di Monsummano, Pistoia-Toscana. Le Grotte d’Italia, 1, pp. 33-43 Piccini L. (2001) Le aree carsiche della Toscana. Atti del VII° Congresso della Federazione Speleologica Toscana, 31 Marzo – 1 Aprile 2001, Gavorrano, GR, pp. 173-181. Piccini L., De Waele J., Galli E., Poljak V.J., Bernasconi S.M., Asmeron Y. (2015) Sulphuric acid speleogenesis and landscape evolution: Montecchio cave, Albegna river valley, Southern Tuscany, Italy. Geomorphology, 229, pp. 134-143.
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Grotte d’Amiata. Un vulcano spento pieno di piccole cavità ... profondamente interessanti Massimo Bardelli, Franco Fabrizi, Franco Rossi (Associazione Speleologica Senese)
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Nella Toscana meridionale, divisa tra le provincie di Siena e Grosseto, l’Amiata è “La Montagna”, presenza solitaria, immutabile, rassicurante, ricca di sorgenti, di vita animale e vegetale, di minerali…di energia. Riferimento certo sia per i residenti che per i viandanti, la sua sagoma è inconfondibile da ovunque la si osservi. Testimone muta ma partecipe, spettatrice ed attrice della storia che l’ha attraversata lasciandovi tracce profonde, ma non devastanti, ammantata di sacralità fin dalla notte dei tempi…vulcano. Vulcano spento, ricco di tutti quei fenomeni residuali (terremoti, fuoriuscite di gas, sorgenti termali, ecc.) che tanto hanno colpito e affascinato la fantasia degli uomini di tutti i tempi. L’Amiata, insieme alla più modesta Radicofani, rappresenta la parte toscana di quei complessi fenomeni magmatici che hanno interessato prevalentemente il Lazio. Le rocce vulcaniche amiatine coprono una superficie di circa 55 km2, con uno spessore massimo di circa 800 m, originate da 5 fasi eruttive principali (Fig. 1): 1) Colate iniziali trachibasaltiche e quarzolatitiche, che non sono visibili in
Fig. 1. Cartina mostrante l’estensione delle cinque fasi laviche e localizzazione delle grotte (rielaborata da Niccolai Lucio e Savini Gianluca, da: “Quanti anni ha la montagna. Amiata storia e territorio”.
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Amiata perché ricoperte dalle successive eruzioni. 2) Colate quarzolatitiche basali, prevalenti sia per superficie che per profondità. Molto interessante, per il nostro lavoro, è notare che i vari fronti delle colate che formano scogliere di altezze anche considerevoli, sono spesso profondamente fratturati e spezzati in grossi blocchi. 3) Colate a cupola di lava a composizione quarzolatitica, più basica dell’unità due. 4) Colate laviche quarzolatitiche molto simili all’unità due. 5) Colate finali da latitiche a quarzolatitiche rappresentate da due piccole colate in località Prato delle Macinaie e sul fianco est del cono superiore. Le età isotopiche, come risulta dagli studi più recenti, indicano che la sequenza vulcanica del monte Amiata è stata eretta in circa centomila anni, tra 290.000 e 180.000 anni fa. L’Amiata è un comprensorio amministrativo molto più ampio del cono vulcanico (Monte Amiata in senso stretto), speleologicamente interessante per la ricchezza di rocce carbonatiche con numerosi fenomeni carsici, su cui hanno svolto il loro lavoro di ricerca e di studio vari gruppi grotte tra i quali il nostro. Per quanto riguarda, invece, la ridotta superficie del cono vulcanico, nessuno aveva mai pensato di andare a cercarvi delle grotte. I fondatori della ASS ne avevano casualmente individuate alcune già negli anni ‘60 del secolo scorso. Nelle relazioni presenti in archivio si legge, infatti: “7 agosto 1966…da molto tempo con don Guglielmo (don Guglielmo Angiolini, parroco di Santa Colomba presso Siena, per molti anni presidente della ASS n.d.r.) dovevamo andare al Vivo d’Orcia a vedere alcune grotte già in precedenza visitate da me (le note furono redatte da Carlo Bindocci n.d.r.) e da Beppe (Giuseppe Magrini, originario di Abbadia san Salvatore e tra i fondatori della ASS n.d.r.). In queste caverne il professor Mazzeschi dell’A.R.A.S. (Associazione per le Ricerche Archeologiche di Siena) costituitasi di recente a Siena, aveva fatto dei sopralluoghi rinvenendo dei frammenti di ceramica…la grotta va a scivolo con alcune sbalze di poco più di un metro…essendo la grotta un insieme di spazi liberi tra pietroni accavallati…quindi raggiungemmo un’altra spaccatura simile alla precedente…”. Non fu data importanza alla particolarità del tipo di roccia (vulcaniti) su cui le grotte si aprivano, non ci fu nessun seguito esplorativo e non fu fatto alcun rilievo, solo una relazioni in archivio. Un secondo incontro con questo tipo di grotte avvenne negli anni ‘80. Nel 1987, infatti, uscì un articolo sul quotidiano La Nazione (Fig. 2, pag. successiva): “Arciere appare e scompare nella Grotta del Catarcione o dell’Arciere, una delle tante che esistono sulla montagna amiatina (…) la scoperta del dipinto che essa custodisce (…) viene raffigurato un arciere visto di profilo (…)”. La cosa ci solleticò, ne parlammo, progettammo di andare a vedere, ma era una grotticella su rocce vulcaniche, non dava prospettive esplorative, avevamo molto altro da fare e alla fine ritagliammo l’articolo e lo mettemmo in archivio!
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Nel 1989 un amico di Santa Fiora, il professor Ennio Sensi, ci sollecitò l’esplorazione di una grotta in località Poggio Biello, situata vicino al Monte Labbro, area carsica su cui avevamo operato sporadicamente e con poca fortuna. Sperando di avere, questa volta, maggior successo, organizzammo una rapida esplorazione; notammo e annotammo che la cavità si apriva su rocce vulcaniche e non carbonatiche, ne facemmo un disegno “a occhio”, lo allegammo a una breve relazione con tanti buoni proposti, ma il tutto, anche questa volta finì in archivio! Per altri vent’anni non ci siamo più interessati alle grotte vulcaniche dell’Amiata. Quando abbiamo iniziato il riordino dell’archivio, per completare il lavoro di esplorazione, rilevamento e accatastamento delle numerose cavità “minori” che spesso avevamo visitato con superficialità, è emersa anche la relazione sulle grotte del Vivo d’Orcia. Non è stato allora difficile rintracciarle e renderci conto che si aprivano su rocce vulcaniche. Mentre ne indagavamo la complessità, l’amico Barni Mario ci parlò di altre grotte in località Acque Gialle e ci accompagnò a visitarle. A questo punto della storia abbiamo cominciato a riflettere, a valutare il numero e la complessità di questo tipo di cavità e siamo stati quasi costretti ad abbandonare il nostro atteggiamento di indifferenza, superare la casualità e iniziare un percorso di ricerca sistematico su due direttrici principali: studio delle grotte vulcaniche, per capire e inquadrare quello che andavamo trovando, e ricerca sul campo, per definire il più possibile la tipologia, le dimensioni e le implicazioni del fenomeno. Ad oggi possiamo affermare che l’Amiata presenta una vasta casistica di cavità su vulcaniti, alcune classificabili come grotte vulcaniche singenetiche, molte invece epigenetiche, anche se, va detto, non sempre abbiamo l’esperienza sufficiente per distinguerle da quelle di origine tettonica. In molti casi è difficile dire se le fratturazioni e i massi si siano originati durante la fase eruttiva, oppure successivamente per fenomeni tettonici di varia origine. L’esistenza di grotte laviche su vulcani spenti al di fuori dell’Amiata, è documentata solo in tre casi: il pozzo del Diavolo di Montevenere a Caprarola (VT), la Buca della Franciola in comune di Proceno (VT) e la Buca delle Strette in comune di Sorano (GR), queste ultime due recentemente segnalate
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Fig. 2. L’articolo riportato sul quotidiano La Nazione inerente la Grotta del Tesoro.
dal Gruppo Speleologico l’Orso sul n. 45 di Talp. Un numero così limitato è abbastanza sorprendente se si pensa alla diffusa presenza di vulcani spenti nel confinante Lazio e in varie altre zone del nostro paese. Riteniamo che le motivazioni principali siano due: la carenza delle nostre informazioni e il fatto che non siamo stati i soli ad ignorare il fenomeno. Evidentemente stiamo parlando di cavità che possono raggiungere l’estensione e la profondità di poche decine di metri, e questo ha disincentivato un po’ tutti, non solo noi, dall’affrontare la ricerca. Per l’individuazione delle grotte sono state attivate tutte le risorse: amici, pubblicazioni, internet e l’attività diretta sul campo. I risultati ottenuti sono da considerarsi estremamente soddisfacenti; non riusciamo a verificare e indagare tutte le informazioni che ci arrivano e per di più stiamo individuando anche grotte su rocce carbonatiche e, di recente, anche su altri tipi di substrato, con implicazioni storiche, archeologiche e antropologiche di grande interesse. Le zone ad oggi individuate sono una decina, le cavità esplorate sono quasi il doppio. Data la specificità, la complessità e l’ampiezza del fenomeno e per riconoscerne a pieno la dignità, ci sentiamo, quindi, di proporre l’individuazione del cono vulcanico dell’Amiata come “sistema di grotte laviche”, o “area carsica speciale”, o altra definizione scientificamente più calzante che potrà essere trovata, l’ importante è che se ne individui e caratterizzi l’esistenza.
Descrizione delle grotte Buca delle Fate del Vivo d’Orcia N. 1 (T/SI 1673) Castiglione d’Orcia Buca delle Fate del Vivo d’Orcia N. 2 (T/SI 1674) Castiglione d’Orcia
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L’abitato del Vivo d’Orcia è collocato nel punto d’innesto di una stretta ed elevata collina di vulcaniti che fuoriesce dal cono vulcanico per circa 2 km in direzione NW, della larghezza di alcune centinaia di metri. Il versante NE degrada abbastanza dolcemente, mentre il lato SW, che ha subito il dilavamento del substrato argilloso dal torrente Vivo, le cui abbondanti sorgenti si trovano poco più a monte, per l’esattezza in località Ermicciolo, si presenta con pareti strapiombanti e in alcuni casi aggettanti. Nel primo tratto di questa collina, sul lato SW, tra la fine del paese del Vivo e il Castello Cervini, vi è un’ampia depressione in cui sono depositati gli enormi massi distaccatisi dal fianco sinistro della collina stessa, i quali formano un ammasso ampio, caotico e impressionante, in cui si collocano queste due cavità che per prime furono visitate dai nostri colleghi. Sono così descritte in un interessante volume sulla preistoria del Vivo: “In località bucarelle o buche delle fate (ne parlano tutti al plurale) situate a quota 820-830 m s.l.m., in un castagneto in vicinanza di Vivo d’Orcia (SI) dove si osservano numerose cavità sotterranee, talvolta anche piuttosto ampie, l’esplorazione di alcune di esse, ha permesso il ritrovamento di alcuni frammenti ceramici riferibili ad epoche diverse dall’eneolitico al bronzo, all’alto medioevo”. La n. 1 è più estesa ed entra abbastanza in profondità nell’ammasso; non vi abbiamo rilevato presenza di materiale archeologico ma solo materiali di discarica del sovrastante quartiere residenziale. La n. 2 è quella più piccola con tracce di antropizzazione; all’ingresso vi sono scolpiti degli scalini, ed è qui che dal professore Mazzeschi furono ritrovati i cocci. Mai nulla abbiamo saputo sul destino di questi ultimi e sui risultati di eventuali studi effettuati su di essi. Non vi sono leggende da noi conosciute legate
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Poco più a valle delle precedenti, sulla stessa collina e sullo stesso versante SW, ma in una posizione e con una genesi completamente diversa, si trova la Grotta della Sedia del Diavolo (Fig. 3, pag. successiva). Posta al margine della scogliera, sulla parte sommitale, è il residuo di una condotta lavica, la prima vera grotta “vulcanica singenetica” che abbiamo trovato. Tre elementi esterni collocati nelle immediate vicinanze della cavità la caratterizzano e la rendono particolarmente interessante. Il primo è quello da cui prende il nome la “Sedia del Diavolo”, masso lavico rielaborato dall’uomo. Quest’ultimo fa parte di una numerosa serie di manufatti che si rinvengono un po’ su tutto il territorio amiatino e sulla cui utilizzazione ci sono molte teorie ma poche certezze; c’è chi parla di forni fusori, chi di recipienti per la pigiatura delle uve, chi di uso sacrale. Per le sue caratteristiche intrinseche e per la sua collocazione, questo masso farebbe pensare a un’ara sacrificale. Il secondo elemento è un’ampia superficie di roccia lavica, che forma il piano di campagna al di sopra della
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a queste grotte, ma il nome tradizionale indica che dalle popolazioni residenti questo luogo è ritenuto sede di presenze misteriose e affascinanti. Altre cavità da noi individuate attendono di essere esplorate e rilevate. In tutta la zona, la presenza dell’uomo fin dalla preistoria è testimoniata da vari ritrovamenti sporadici e casuali. L’unico scavo scientifico, purtroppo successivo alla devastazione di scavatori clandestini, è quello del Riparo Cervini, collocato ai piedi della scogliera più a valle della grotta, in cui si è evidenziato un importante insediamento del paleolitico amiatino. Buca della Sedia del Diavolo (T/SI 1781) Castiglione d’Orcia
Fig. 3. Particolare della Buca della Sedia del diavolo, foto Archivio ASS.
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grotta e che si affaccia come una terrazza strapiombante, per alcune decine di metri, sulla vallata sottostante in direzione sud, ricoperta di coppelle (Fig. 4), (difficile dire se naturali, artificiali o rielaborate; anche un grande esperto toscano in materia, l’amico Giancarlo Sani, non ha voluto dare giudizi definitivi) e di alcune vaschette, queste, al contrario, quasi certamente artificiali. Pochi metri piÚ a valle, troviamo il terzo elemento caratterizzante: un ampio insediamento umano del neolitico, che purtroppo è stato sconvolto dalla costruzione del campo sportivo senza che fosse adeguatamente studiato. Con questi elementi potremmo far volare la fantasia, ma, anche rimanendo con i piedi per terra, risulta inevitabile pensare a un uso cultuale del luogo. Non si hanno notizie di leggende e la grotta non ha un nome tradizionale. Un’approfondita indagine archeologica in tutta la zona circostante potrebbe riservare sorprese molto interessanti.
Fig. 4. Particolare di masso con coppelle, foto Archivio ASS.
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Buca dell’Acqua Gialla n. 1 (T/SI 1782) Castiglione d’Orcia Buca dell’Acqua Gialla n. 2 (T/SI 1783) Castigline d’Orcia Fig. 5. Ingresso della Buca dell’Acqua Gialla n. 1, foto Archivio ASS.
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Al confine tra i territori di Castiglione d’Orcia e di Seggiano, subito a sud della strada vicinale di Capo Vetra e in prossimità della sorgente dell’Acqua Gialla, vi è una ripida scogliera in cui sono state individuate e catastate queste due grotte. La prima (Fig. 5) è collocata nella parte alta della scogliera (1060 m) e impostata su fratture e massi accatastati; difficile dire se sia singenetica o se le fratture e i massi siano originati da fenomeni successivi all’eruzione. Le parerti sono lisce, regolari e gli angoli abbastanza vivi. Non vi sono tracce di antropizzazione, anche perché all’interno, nei periodi piovosi, scarica, dai pianori soprastanti, un piccolo
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torrente che dilava sia le pareti che il pavimento, per cui non vi è deposito. La seconda (Fig. 6) è sicuramente la più interessante. Unico esempio, ad oggi conosciuto in Amiata, di grotta vulcanica di interstrato, formatasi per erosione atmosferica di una lente di materiale piroclastico poco coerente, incluso tra due strati di materiale più coerente. Anche questa è collocata nella parte alta della scogliera (1075 m) e forma un ampio riparo lenticolare. Non
Fig. 6. Ingresso della Buca dell’Acqua Gialla n. 2, foto Archivio ASS.
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vi si notano segni di antropizzazione. Nelle immediate vicinanze si trovano due enormi massi di notevole interesse: il primo, detta Pietra Pertusa (Fig. 7), ha alla base una stretta fessura di forma ogivale, l’altro, collocato di fronte al precedente, presenta un’incisione che raffigura un castello (a detta degli studiosi sarebbe un “segna confine” tra due comunità). La zona è ampia, interessante e merita sicuramente ulteriori indagini.
Fig. 7. La pietra Pertusa, foto Archivio ASS.
Grotta dell’Arciere (T/SI 1589) Abbadia San Salvatore
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Fig. 8. Ingresso della Grotta dell’Arciere, foto Archivio ASS.
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Questa grotta era tradizionalmente conosciuta come Grotta del Tesoro o del Catarcione (Fig. n. 8 e 9), dal nome del podere che si trova nelle sue vicinanze. È impostata su fratture e massi accatastati e anche in questo caso è difficile stabilirne con esattezza la genesi. La cavità è collocata a quota 1110 m, alla base di una lunga e alta scogliera che corre parallela alla strada che da Abbadia San Salvatore sale alla vetta dell’Amiata, ed esposta a est. Sulla scogliera occhieggiano numerosi accessi in attesa di esploratori e vicinissimo alla grotta si può ammirare il famoso (ed ennesimo) profilo di Dante Alighieri. Questa è sicuramente la cavità più interessante di tutto il complesso vulcanico dell’Amiata. Al suo interno vi è dipinta una figura antropomorfa (di cm 34x38) con copricapo a tre punte e arco con freccia. La pittura
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è realizzata con pigmenti neri, probabilmente carbone impastato con grasso. Alcuni autori attribuiscono la figura a un arco di tempo compreso tra il neolitico antico e l’inizio dell’eneolitico, soprattutto grazie al confronto effettuato con le figure dipinte di Porto Badisco. In anni recenti la soprintendenza ha scavato al di sotto del dipinto, ma il terreno è risultato totalmente sterile, per cui si può solo sperare che ulteriori lavori di ricerca consentano di individuare altre pitture, magari archeologicamente contestualizzate, per definire più precisamente la datazione e capire meglio il significato di questo eccezionale reperto. Solo a titolo di cronaca si ricorda che, nel 2012, è uscito su un sito internet un articolo di Niccolò Bisconti che individua nell’arciere raffigurato nella grotta una rappresentazione della costellazione di Orione.
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Fig. 9. Raffigurazione di arciere e ricostruzione del graffito originale, foto Archivio ASS.
Diaclasi dell’Ermeta (non catastata) Abbadia San Salvatore Una lunga diaclasi, di sicura origine tettonica, si sviluppa in allineamento NS tra la Grotta del Tesoro e l’antichissima chiesa dell’Ermeta. Alcuni studi geologici la descrivono come molto profonda e sede, in alcune occasioni, di emissioni gassose. La frattura per lunghi tratti è riempita di terra e si nota solo un avvallamento più o meno profondo, in altri punti vi sono massi accatastati e sprofondamenti anche recenti ma, ad oggi, nonostante vari tentativi, non siamo riusciti a trovare un punto dove si sviluppi una vera grotta. Il fenomeno è senza dubbio di grande interesse e connesso con la costruzione della chiesa, sicuramente edificata su un precedente luogo di culto. L’intitolazione della chiesa alla Madonna lascia presupporre che nel tempio pagano venissero venerate divinità femminili del mondo infero. La chiesa è così descritta dal Moretti nel volume “Romanico nell’Amiata”: “La chiesa che il Fatteschi dice antichissima, ricordata in numerosi testamenti tardo medioevali redatti in vari castelli amiatini, doveva essere in quel periodo meta di pellegrinaggi devozionali. Alla protezione della madonna dell’Ermeta ricorre anche il comune di Abbadia San Salvatore. Nel 1462 venne visitata da Pio II° che la ricorda nei suoi commentari (dicono che vi fosse stata sepolta la moglie, così credono, di Rotari). Lì vicino abitano gli eremiti, vi si arriva dopo una difficile salita”. La diaclasi si trova lungo la difficile salita che porta ad una pietra, detta Sasso del Romito, di cui abbiamo già parlato nell’articolo sugli eremiti uscito nel n. 36 di Talp. Grotta delle Lame (non catastata) Abbadia San Salvatore (SI)
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Ad oggi è l’ultima grotta che abbiamo trovato e sicuramente una delle più affascinanti. Avevamo letto della sua possibile esistenza alcuni anni fa, ma non ne avevamo attivato la ricerca perché la descrizione che ne fa Bonaventura Caprio nel suo libro sulla preistoria dell’Amiata è abbastanza ambigua: “(…) Abbadia San Salvatore, in un ripiano del versante est, a circa 940 metri s.l.m., in vicinanza del centro abitato e delle miniere di cinabro ora abbandonate, in un’area al confine tra le trachiti vulcaniche, le argille e le formazioni calcaree, detta Buca delle Lame, sono state ritrovate numerose cuspidi di freccia in selce (…)”. Fu, dunque, quasi per caso e per non lasciare nulla di intentato che chiedemmo a un amico: “Mica sai dove si trova la località Le Lame? Dovrebbe esserci una grotta”. Dopo pochissimi giorni un’insperata e precisa risposta: “L’ho trovata! La Buca delle Lame è nel giardino di un mio amico (Massimo Mambrini), ci prende l’acqua per innaffiare il giardino e ha detto che possiamo andarci quando vogliamo”. La domenica dopo eravamo sul posto. La grotta, ormai collocata all’interno del centro abitato, nel recinto di un giardino, esiste, è nelle vulcaniti, ha al suo interno una sorgente d’acqua con una buona portata, dicono i proprietari meno abbondante che nel passato, perché la vena fu intercettata da una galleria delle vicine miniere di cinabro, ed ha uno sviluppo di tutto rispetto per questo tipo di cavità. Tuttavia i motivi
che la rendono interessante sono anche altri: l’ingresso esposto ad est, proprio in faccia al sole che sorge e in perfetto allineamento con i rilievi di Radicofani e del Monte Cetona, e la posizione dominante, essendo l’ingresso localizzato nella parte alta della scogliera, con davanti un piccolo terrazzo e alle spalle un ampio pianoro che pare fatto apposta perché l’uomo vi si possa insediare. L’ingresso ha, inoltre, una forma perfettamente triangolare che richiama il triangolo pubico e immette in uno stretto corridoio di quattro metri, al termine del quale, sulla sinistra, si apre una finestrella che immette in un’ampia frattura il cui pavimento scende in forte pendenza per incontrare, dopo alcuni metri, l’acqua della sorgente che forma un laghetto. I ritrovamenti di selce scheggiata sarebbero la dimostrazione della frequentazione umana del luogo e la loro deposizione all’interno della grotta la dimostrazione dell’utilizzo sacrale della stessa. La fantasia ha cominciato a correre e a indurci a considerare questa una grotta sacra. La prova dovrebbe essere il fatto che al suo interno sono state trovate delle punte di freccia che venivano lasciate come offerte votive. Già, le punte di freccia. Chi le ha trovate in questa grotta? Partendo da questa domanda è iniziata una ricerca bibliografica ancora in corso. Nei lavori fino ad ora consultati nessuno parla in maniera specifica del ritrovamento delle selci nella grotta, anzi, nessuno parla in maniera specifica della grotta, cosicché viene quasi il dubbio che ne ignorino l’esistenza e si limitino a riferire di una località chiamata Buca delle Lame. Per essere sinceri, ad oggi, non abbiamo ancora trovato neanche chi testimoni il ritrovamento di selci in località le Lame, al massimo gli autori parlano di selci scheggiate tra Abbadia San Salvatore e Santa Fiora. Gli indizi sono comunque molto interessanti; vi sono ancora pubblicazioni da consultare e soprattutto l’esplorazione della grotta è solo all’inizio. La esploreremo con particolare attenzione e chissà che non sia lei a darci una risposta.
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Grotta oratorio della Maddalena (non più esistente) Abbadia San Salvatore (SI) Anche questa grotta è stata trovata su un libro e, purtroppo, come vedremo, continueremo a trovarla solo sui libri. Il primo a parlarne è un naturalista inglese di inizio ‘900, il cui lavoro è stato tradotto e pubblicato in Italia solo di recente. Così viene da lui descritta: “(…) l’Oratorio di S. Maria Maddalena, collocato com’è tra i boschi, su una piccola collina a destra, sopra la strada che porta a Piancastagnaio, dove prima gira verso ovest, distante dal villaggio meno di un quarto di miglio, è proprio una grotta naturale, formata dal vulcano quando eruttava le enormi rocce (…) queste pietre caddero formando una casa e una roccia più grande cadde sopra di esse, lasciando un piccolo spazio come una porta. Nel tredicesimo secolo, se non prima, sembra che la gente, avendo trovato questo santuario, lo ricopri internamente e anche esternamente di affreschi (…)”. La traduttrice, molto attenta, indica poi che in una pubblicazione degli anni ‘20 del secolo scorso, se ne trova una bella foto, ad oggi l’unica immagine esistente. La ricerca della grotta è iniziata subito e sembrava un’impresa fin troppo facile, ma già dalla prima telefonata ad amici
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di Abbadia San Salvatore sono iniziate le amare sorprese; nessuno ne sapeva niente. Poi, pian piano, è iniziata ad affiorare alcune notizie, tutte però vaghe e fumose; c’è chi parla di una frana, chi dice che fu abbattuta per far posto a un nuovo quartiere di Abbadia (effettivamente esiste un quartiere in loc. Maddalena), chi racconta che fu abbattuta per ricavarne materiale da costruzione, chi per farvi una cava di pietrisco, chi…Ma la cosa ancor più sorprendente è che questa realtà è stata completamente ignorata anche dagli studi e dalle numerose pubblicazioni storico-artistiche di Abbadia e dell’Amiata più in generale. Resta il fatto che la grotta, sul cui interesse è inutile spendere parole, non esiste più. Noi continueremo a cercare di capire. Buca del Vento di Tre Case (rilevata e non ancora catastata) Piancastagnaio (SI)
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La prima di queste due grotte fu scoperta ed esplorata, come abbiamo già detto, nel 1988 (Fig. 10, pag. successiva). La esplorammo dopo aver bonificato il pozzo di accesso da almeno una cinquantina di copertoni di ogni tipo e dimensione, e dopo aver attrezzato per la discesa il secondo pozzo in maniera quantomeno avventata. Non c’erano fessure per i chiodi da roccia tradizionali, quindi tagliammo due pali, li incastrammo alla bene e meglio e vi appendemmo la scaletta. Fu una giornata abbastanza entusiasmante, tanto che
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Buca del Diluvio o del Romito n. 1 (T/GR 1438) Santa Fiora Buca del Romito n.2 (non catastata) Santa Fiora (GR)
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Avevamo sentito parlare di questa grotta da un collega del gruppo dei Cavernicoli del CAI di Siena, in una giornata particolarmente fortunata: la riapertura della Grotta del Ferratore. Grazie alla loro ospitalità, partecipammo attivamente all’evento che avevamo spesso ipotizzato ma mai realizzato; entrare in quell’antica risorgiva del sistema idrocarsico della Montagnola Senese, da noi conosciuta, già ostruita dai residui di lavorazione di una cava di pietrisco dismessa. Durante la disostruzione parlammo del nostro lavoro sulle grotte dell’Amiata e qualcuno ci informò dell’esistenza di una grotta in località Tre Case. In quella zona non avevamo ancora individuato nessuna cavità, per cui la possibilità di colmare questa lacuna rendeva la notizia particolarmente interessante. Il buon proposito “una di queste domeniche ci andiamo insieme” è rimasto tale per alcuni anni, finché, a seguito della nostra insistenza, l’amico Catalucci Michele non ci ha indirizzato dal suo collega Cappelletti Enrico, il quale ci ha gentilmente accompagnati all’ingresso della cavità. È una piccola diaclasi, sicuramente di origine tettonica, ai piedi di un’alta scogliera. Lo sviluppo percorribile è poco più di 7 metri in leggera discesa, ma soffia come se fosse una “grotta grande”. Si vedono, infatti, sul fondo, delle lunghe fratture, non percorribili, che si inoltrano verso l’interno della montagna e che sono all’origine delle forti correnti d’aria. Nella zona ci sono buone probabilità di individuare altre cavità. Non si hanno notizie né di leggende né di ritrovamenti archeologici.
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progettammo di tornare per foto e rilievo il prima possibile, ma, come spesso succede nell’attività speleologica, rimasero solo buoni propositi. Non tornammo neanche a cercare altre possibili cavità di cui pure ci era stata data notizia. La visitammo di nuovo solo negli anni 2000 e scoprimmo che era stata catastata nel 1998 dai Vigili del Fuoco di Grosseto, i quali, con poca attenzione alla toponomastica tradizionale, l’avevano ribattezzata Grotta del Diluvio. Il suo vero nome, cioè il nome locale e tradizionale, è invece Buca del Romito, e questo fatto non è di secondaria importanza. È una diaclasi di oltre 30 metri di profondità, un piccolo record per grotte di questo tipo, impostata su due pozzi sfalsati di pochi metri. I massi incastrati non danno l’idea di una grande stabilità, ma i rischi vengono ripagati dalla particolarità dell’ambiente; il fondo della cavità è, infatti, di trachite rosso fegato con cristalli di calcite che, riflettendo la luce come gioielli, ne fanno un ambiente di grande fascino. La grotta fa parte di una lunga frattura che si sviluppa in direzione sud-est e su cui si apre, a poche decine di metri, la Grotta del Romito n. 2, non ancora catastata. È possibile che ulteriori indagini portino alla scoperta di altre grotte.
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Fig. 10. Ingresso Buca del Diluvio o del Romito n. 1, foto Archivio ASS.
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In uno stupendo anfiteatro naturale sopra la frazione di Bagnolo (Arcidosso), al limite dei castagneti, si trova un’ampia scogliera esposta a NW, su cui, ad oggi, con una sola visita, guidati dall’amico Nello Nanni, profondo conoscitore dell’Amiata, della sua storia e del suo territorio, abbiamo individuato due cavità; la n. 1 è sicuramente un residuo di condotta lavica, mentre la n. 2 è un ampio stanzone impostato su frattura. Non si hanno notizie di leggende e il nome è un riferimento dialettale alle irregolarità del luogo (Grinze = pieghe, Grinzoni = grandi pieghe).
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Grotta dei Grinzoni n. 1 (non catastata) Arcidosso (GR) Grotta dei Grinzoni n. 2 (non catastata) Arcidosso (GR)
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Il nome della grotta richiama una possibile valenza cultuale del luogo. C’è poi una leggenda che narra di un ricchissimo tesoro nascosto al suo interno, che solo chi avrà il coraggio di scavare fino a trovare uno strato di piume (spesso considerate un simbolo diabolico) potrà raccogliere. La cosa interessante è che la stessa identica leggenda ci è stata raccontata sulla Buca del Romito di Petroio in comune di Trequanda (T/SI 585). Non sapremo dare un significato esatto a questo fatto, ma ci pare quanto meno curiosa la precisa sovrapposizione di nomi e leggende, in località e contesti così distanti tra loro. Altra leggenda da metter in relazione con questa grotta è quella santafiorese che ci racconta del Cifero Serpente (non lontano dalla grotta c’è il fosso Serpentaio), un drago feroce e sanguinario che avrebbe vissuto in questa cavità; per la fantasia popolare la dimostrazione di ciò sta nel fatto che dalla grotta, nelle giornate fredde, esce un’abbondante colonna di vapore identificata come il fiato pestifero del mostro. Questi, quando usciva per nutrirsi, faceva strage di animali e anche di uomini. Fu ucciso da un eroe del luogo, il conte Sforza, che omaggiò della sua testa il convento della Selva. I legami tra le grotte, a volte reali a volte solo immaginarie, e le leggende, particolarmente numerose in Amiata, di draghi e cavalieri che li uccidono (San Giorgio, San Michele Arcangelo, varie figure minori di santi locali), andrebbero indagati meglio, per comprenderne l’origine e i percorsi evolutivi, in rapporto alle religiosità che si sono succedute nel tempo. Particolarmente interessante sarebbe studiare tutto questo in rapporto all’Amiata, alle sue cavità e alla religiosità etrusca, molto legata alla terra e alle divinità ctonie che la abitano. Nella sua mitologia, la lotta di Bellerofonte a cavallo del Pegaso con la Chimera, ha delle sorprendenti analogie con la lotta del cavaliere di turno e il drago nelle sue varie declinazioni. Nelle immediate vicinanze delle due grotte, vi sono i ruderi di un piccolo manufatto di cui sono visibili parti di muro a secco addossati a un masso, su cui è scavata una vaschetta, e sono stati scolpiti la soglia e la parte bassa degli stipiti di una porta, forse i ruderi di un insediamento eremitico. Solo uno scavo archeologico potrebbe chiarirne la funzione.
Fig. 11. Ingresso Buca delle Camere n. 1, foto Archivio ASS.
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Buca delle Camere n. 1 o del Capanno di Lamiera (non catastata) Seggiano (GR) Buca delle Camere n. 2 o Buca di Alvaro (non catastata) Seggiano (GR) Buca delle Camere n. 3 o del Pozzo (non catastata) Seggiano (GR) Buca delle Camere n. 4 (non catastata) Seggiano (GR) La prima notizia relativa a queste grotte la trovammo leggendo un racconto di Alvaro Giannelli sul passaggio del fronte a Castel del Piano, pubblicato sulla rivista “Amiata Storia e territorio”: “Vicino a Casa Marchi c’erano anche delle grotte naturali, nella zona delle “camere” e dei “pozzi”, in cui ci si poteva nascondere in caso di pericolo”. Non fu difficile rintracciare l’autore dell’articolo e scoprire una persona di grande simpatia e disponibilità. Pochi giorni dopo, infatti, ci accompagnò a visitare la zona, ma riuscimmo a iniziare la ricerca solo della zona delle Camere, perché una caduta banale procurò a uno dei nostri soci più attivi la frattura dei due malleoli del piede destro. Per un periodo tutt’altro che breve le attività sono rimaste in sospeso e non siamo ancora riusciti a visitare la zona dei Pozzi. Le quattro grotte ad oggi individuate nella zona delle Camere, sono state solo parzialmente esplorate e localiz-
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Fig. 12. Ingresso Buca delle Camere n. 4, foto Archivio ASS.
zate; la n. 1, 2 e 4 (Fig. 11 e 12) sono di probabile origine tettonica, la n. 3, invece, potrebbe essere un residuo di un camino magmatico. La scogliera dove si trovano è al limite di un ampio pianoro occupato da castagni e delimitato, a monte, da un’ulteriore scogliera. Sicuramente dovremo passarci un bel po’ di tempo a indagare. L’unica antropizzazione di cui si ha notizia è quella del periodo della guerra, durante il quale venivano utilizzate come rifugio da oltre quaranta persone. Buca del Diavolo della Pieve di Lamula (non rintracciata) Arcidosso (GR) Questa grotta, ad oggi, esiste solo sulla carta ( come tante altre) e su un libro di leggende (Lapucci, 2011), anche se ci sono buone probabilità che diventi reale. La leggenda riguarda la Pieve romanica di Lamula (Fig. 13), una delle più belle e affascinanti della Toscana, che meglio di altre ha conservato i suoi legami con la religiosità del passato. Lo dimostrano la sua localizzazione, l’esistenza di una sorgente detta “del Diavolino” (Fig. 14, pag. successiva), i simboli che vi sopravvivono, le ritualità che ancora vi si praticano e le leggende che la circondano, il tutto magistralmente descritto da Silvio Bernardini nei suoi libri sul romanico in Toscana. Stranamente quest’ultimo non accenna minimamente a questa leggenda che narra della Buca del Diavolo posta in località la Foresta, a monte della pieve. Tale cavità sarebbe l’ingresso degli inferi e da lì sarebbero uscite le entità demoniache che infestavano la zona, per difendersi dalle quali fu fondata la chiesa stessa. La fondazione di una chiesa o l’insediamento di un eremita sono delle costanti con cui la nuova religione usava “disinfestare” un dato luogo da presenze “demoniache”, che altro non erano che le divinità precedenti a cui la fede popolare continuava a
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Fig. 13. Pieve di Lamula, foto Archivio ASS.
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rivolgersi; non riuscendo ad estirparle ci si sostituiva ad esse. A testimonianza della veridicità dell’esistenza della grotta e del suo ruolo, si racconta, inoltre, che nell’Ottocento vi si rifugiarono dei ladri con la loro refurtiva, per sfuggire ai gendarmi che li inseguivano. Il mattino successivo gli inseguitori, che non avevano avuto il coraggio di penetrare nella grotta, ma si erano limitati a presidiarne l’ingresso, trovarono all’esterno la refurtiva ma nessuna traccia dei ladri che, alcuni giorni dopo, apparvero in sogno alle madri immersi nelle fiamme dell’inferno. Dato che siamo convinti che le leggende nascondano sempre delle verità, abbiamo iniziato la ricerca della grotta e, ad oggi, le informazioni raccolte ne danno per certa l’esistenza. Tuttavia non abbiamo ancora indicazioni univoche sulla localizzazione e la località “La Foresta” è piuttosto ampia. Una cosa, però, l’abbiamo scoperta, ovvero l’esistenza, attorno alla Pieve, di un sotterraneo costruito negli anni quaranta del ‘900 per la regimazione delle acque. Grotta di Mago Merlino (cavità artificiale non ancora catastata) Arcidosso (GR)
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La notizia di questa grotta la trovammo su internet, in un sito che raccoglie alcune storie e leggende amiatine. La prima, dal titolo “Il drago della Selva” (quella della Grotta del Diluvio), è una riscrittura arbitraria che assembla a quella tradizionale altre leggende, aggiungendovi vari personaggi. Nella leggenda originaria, si narra semplicemente di come il conte Guido (nato dal matrimonio tra l’ultima erede degli Aldobrandeschi e Bosio Sforza) uccise il Cifero Serpente, facendo omaggio della testa al convento della Selva. In questa versione (assemblaggio) il conte, dopo un primo tentativo non riuscito, chiama in aiuto “(…) il famoso Mago Merlino, che aveva preso dimora da
Fig. 14. La fonte del Diavolino, Pieve di Lamula, foto Archivio ASS.
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Tante grotte, tante storie, tante leggende, tantissimo ancora da fare, per esempio una delle ultime storie di grotta che ci hanno raccontato (potremmo definirla una leggenda metropolitana), narra di una grande grotta all’interno della quale i partigiani, dopo il passaggio del fronte, avevano nascosto le armi. Si racconta, poi, che una parte della grotta era crollata rendendo le armi irrecuperabili. Alla domanda sulla sua localizzazione hanno risposto in maniera decisa: “Lassù in montagna”. La montagna è solo 55 km2…trovala!
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Conclusioni
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tempo in una grotta sulla strada che da Arcidosso porta a San Lorenzo. Questa grotta pur parzialmente crollata e affogata da arbusti e vegetazione, esiste tuttora a riprova di una reale esistenza del mago (…) Non fu difficile per lui chiamare il cavalier Giorgio (poi San Giorgio). Organizzarono un piano per incastrare il malefico drago, che era rintanato nella sua grande caverna, nel folto del bosco (…)”. Il Mago Merlino in questione, secondo la tradizione orale di Arcidosso, che non ha nessun legame con la leggenda di Santa Fiora, sarebbe un nobile fiorentino che per sfuggire agli spagnoli (secolo XV-XVI) si era rifugiato in questo luogo e aveva preso dimora nella grotta. Alcuni dicono che avesse ispirato il poeta contadino Gian Domenico Peri (secolo XV), che ne aveva cantato le gesta nei suoi versi, e che fino a pochi anni fa all’ingresso vi fosse una lapide con la seguente dicitura “Questa è l’antica e memorabile grotta // che edificò Merlino, il savio mago // qui il Peri musa naturale indotta // spiegò il suo genio portentoso e vago”. Non ci crederete ma, la grotta esiste davvero, non è crollata, non è sopraffatta dagli arbusti ed è proprio in bella vista, sulla sinistra, lungo la strada che da Castel del Piano va ad Arcidosso, in località San Lorenzo. È una grotta artificiale, scavata nella roccia vulcanica, di cui è difficile individuare la funzione originale o l’epoca di realizzazione. È un ambiente ampio a cui si accede da un corridoio in leggera discesa. In origine può essere stata di tutto, da una tomba etrusca a una stalla, una ghiacciaia, o semplicemente la cantina della villa che vi si trova di fronte. Di recente è assurta agli onori della cronaca nazionale grazie (si fa per dire) alla trasmissione Misteri (Fig. 15), che l’ha collegata (con quale motivazione difficile capirlo, ma sicuramente con un grande sforzo di fantasia) a San Galgano e alla spada nella roccia, a re Artù e al Mago Merlino del ciclo arturiano. Misteri della televisione!
Se ci date una mano, noi siamo convinti che cercare è una cosa piacevole e conoscere il mondo di sotto ci aiuti a vivere meglio quello di sopra.
Ringraziamenti A tutti quelli che, pur non comparendo nel racconto, hanno contribuito a scriverlo vivendolo. Giulia Rossi, che ha reso questo testo più affine alla lingua italiana. Mauro Sini, grazie al suo lavoro la grafica non è un’opinione. Bibliografia AA.VV. (1971) Rendiconti della Società Italiana di Mineralogia e Petrologia “La Toscana Meridionale. Fondamenti geologico-minerari per una prospettiva di valorizzazione delle risorse naturali” Volume XXVII, Fascicolo Speciale Editrice succ. Fusi Pavia. AA.VV. (1978) “Manuale di Speleologia” Editrice Longanesi & c. Milano. AA.VV. (1993) “La storia naturale della Toscana meridionale” Amilcare Pizzi editore Siena. AA.VV. (1971) “La Toscana meridionale” Editrice Succ. Fusi Pavia. AA.VV. (2012) “I draghi di toscana” Edizioni Press & Archeos Firenze. AA.VV. (1975) “ Settimana speleologica catanese e seminario sulle grotte laviche” Edito da CAI Catania.
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Augello Andrea (2013) “I draghi d’italia” Gaffi editore in Roma S.r.l. Bernardini Silvio (2000) “Il serpente e la sirena” Editrice Don Chisciotte San Quirico d’Orcia (SI). Bernardini Silvio (1985) “Pievi Toscane” ERI Edizioni Rai Torino. Bianchi Bandinelli Ranuccio (1927) “Carta archeologica d’Italia al 100000. Foglio 129 (Santa Fiora)” Edizioni Istituto Geografico Militare Firenze. Bonelli Fiona (22/09/2011) “Nella galleria che porta ai Templari”, Il Tirreno. Boni Alessio (2012) “VerticalAmiata” Edizioni Youcanprint Tricase (LE). Cambi Franco (1996) (a cura di) “Carta archeologica della provincia di Siena. Il Monte Amiata” Edizioni Periccioli Siena. Caprio Bonaventura (1997) “La preistoria del Monte Amiata” Editrice Tipografia Ceccarelli Grotte di Castro (VT).
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Casi Carlo “Guida alla Selva del Lamone“ Nuova Immagine Editrice Siena. Cherubini Massimo (1987) “Arciere appare e scompare nella Grotta del Catarcione”, La Nazione del 1° Maggio. Cinquemani Claudia (2013) “La luce della dea” Edizioni Pellegrini dei Simboli. Cresti Matteo Cosimo (2012) “Draghi, streghe e fantasmi della Toscana” Lucia Pugliese Editore – Il Pozzo di Micene Firenze. Fabrizi Franco e Rossi Franco (2008) “Eremiti: gli speleonauti del passato” , Talp N° 36 del giugno. Fabrizi Franco e Rossi Franco “ Miti, leggende e tradizioni in alcune cavità sotterranee della provincia di Siena” Atti incontro internazionale di speleologia Bora 2000 Edito dalla Federazione Speleologica Triestina. Fedeli Fabio, Galimberti Attilio, Grandinetti Giuditta, Valenti Marco (1996) “La preistoria e la protostoria del territorio di Castiglione d’Orcia (Siena)” Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s. Firenze. Galletti Gino (2008) “Nel Montamiata” Edizioni Effigi Arcidosso (GR). Hutton Edward (2013) “Toscana sconosciuta” Edizioni Effigi Arcidosso (GR). Iozzo Mario (2009) “La Chimera di Arezzo” Edizioni Polistampa Firenze. Lapucci Carlo (2011) “Le leggende della terra toscana” Edizioni Polistampa Firenze.
Moretti Italo (1990) “Romanico nell’Amiata” Editrice Salimbeni Firenze. Negroni Catacchio Nuccia (1987) (a cura di) Il museo di preistoria e protostoria della valle del fiume Fiora” Tipo-lito Vieri Roccastrada (GR).
Niccolai Lucio (2005) “Di draghi e fate, santi e demoni, uomini, alberi e cose nella montagna incantata” Edizioni Effigi Arcidosso (GR).
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Niccolai Lucio e Savini Gianluca (A cura di) (1990) “Quanti anni ha la montagna?” Amiata storia e territorio N° 9 dicembre.
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Mantiloni Graziano e Ricciardiello Clelia (2014) “Le fate tra l’Amiata e la Maremma” Edizioni Effigi Arcidosso (GR).
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Lazzareschi Eugenio Le cento città d’Italia (1925) “L’Amiata” Fascicolo 63 Casa Editrice Sonzogno Milano.
Panerai Marco “Attraverso i paesaggi della Val d’Orcia fino ai boschi dell’Amiata” Editrice Le Balze Montepulciano (SI). Priolo Giuseppe (2003) “Manuale del corso di introduzione alla speleologia” Club Alpino Italiano – Sezione dell’Etna, Gruppo Grotte Catania. Romani Lauro (2013) “Una finestra aperta su Abbadia durante il governo dei Lorena” Tipografia Ceccarelli Grotte di Castro (VT). Santi Giuseppe (2008) “La Maddalena” Edizioni Effigi Arcidosso (GR). Santoni Ilvo (2012) “Le fonti e il sacro” edizioni Effigi Arcidosso (GR). Tavanti Bernardo (2013) “Merlino, un mito italico” Edizioni Press & Archeos Firenze. Trabucco Giacomo (1922) “Le sorgenti del Monte Amiata” Mondo sotterraneo anno XVII n° 1-2-34 e anno XVII n°5-6 e anno XVIII n° 1-2-3 Tipografia D. Del Buono & Figlio Udine. SITOGRAFIA www.Lorenzograss.it/niphargus/vico.doc “Il Pozzo del Diavolo di Monte Venere” www.sbresearchgroup.eu/index.php/it/articoli “L’arciere amiatino e la costellazione di Orione – Una possibile interpretazione”
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www.webamiata.it/tiraccon.htm “Il drago della Selva”
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ToscoBAT, il database dei Chirotteri nelle grotte della Toscana Paolo Agnelli1, Giacomo Maltagliati1, Laura Ducci1, Walter Santi2, foto di P. Agnelli (1 Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Sezione di Zoologia ‘La Specola’, Firenze, 2 IMSEO s.r.l., Roma)
Il progetto ToscoBAT, presentato in occasione dell’VIII Congresso FST, nasce con lo scopo di creare un atlante dei chirotteri presenti nelle cavità sotterranee toscane. Per realizzare questa innovativa ricerca partecipata, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, in collaborazione con la Federazione Speleologica Toscana, ha curato la realizzazione di un database online per la raccolta e la condivisione delle segnalazioni della presenza di pipistrelli nelle cavità ipogee della Toscana. La homepage del sito web di ToscoBAT che riunisce i loghi del Museo di Firenze e della Federazione Speleologica Toscana.
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In Italia sono conosciute ben 34 diverse specie di pipistrelli, una rappresentanza molto importante della nostra biodiversità. Nella sola Toscana sono 25 le specie segnalate, alcune più comuni e altre molto rare, ognuna legata ad un particolare ambiente per il rifugio o per la caccia notturna agli insetti. Tra le specie toscane, ben 7 sono quelle maggiormente legate agli ambienti ipogei. Quali sono le ragioni per cui ai pipistrelli piacciono così tanto le grotte? La principale è che negli ambienti ipogei le temperature sono costanti durante tutto l’anno e, una volta che il pipistrello ha trovato una grotta con la temperatura più adatta alle sue esigenze, può addormentarsi tranquillo, sicuro che non ci saranno grosse variazioni; importante è anche la presenza di un alto grado di umidità, dato che i pipistrelli disperdono molta acqua per traspirazione durante il volo; in ogni grotta esiste poi una grande quantità e varietà di nascondigli in fessure e cunicoli, con possibilità di appiglio in camere più o meno ampie, per cui a seconda delle proprie esigenze il pipistrello può trovare sempre il rifugio più adatto; infine in questi ambienti il disturbo ad opera di altri animali e i rischi di predazione sono assai ridotti.
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Quando è più probabile trovare i pipistrelli in grotta? Presenze occasionali di pochi esemplari si possono verificare durante tutto l’anno, ma, colonie particolarmente significative, si possono trovare da aprile a luglio (colonie riproduttive) e da novembre a marzo (colonie in letargo invernale). In funzione delle loro esigenze stagionali, i pipistrelli, infatti, si muovono da un rifugio all’altro durante l’anno. Per capire dunque come e quando utilizzano una grotta, occorrono numerosi rilievi in stagioni diverse. Ad oggi, il nostro gruppo di lavoro, presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, ha raccolto un gran numero di segnalazioni riguardanti i Chirotteri della Toscana a partire dal 1980. Si tratta di circa 2500 segnalazioni georeferenziate (la stessa località è considerata una sola volta per ogni specie rilevata), che sono molto importanti per capire quali sono le esigenze di questi animali e per impostare adeguate strategie per la loro conservazione. Circa il 25% di tali segnalazioni è riferita a rifugi, dove cioè gli animali trascorrono le ore diurne in attesa di andare a caccia di insetti durante la notte. Si tratta di 310 diversi rifugi e la maggior parte di questi sono edifici (palazzi, ruderi, ponti e altre costruzioni umane), mentre solo una ventina sono rifugi negli alberi (molto difficili da localizzare). I rimanenti, solo 33, sono grotte e miniere, dove è conosciuta la presenza di pipistrelli in determinate stagioni dell’anno. Se confrontiamo questa cifra con le circa 2050 grotte elencate nel Catasto Toscano, capiamo bene quanto le nostre conoscenze su questi rifugi siano decisamente lacunose! La raccolta dei dati sulla presenza di pipistrelli in grotte e miniere è, in effetti, un lavoro molto impegnativo e per questo è fondamentale l’aiuto degli speleologi. Grazie a questa collaborazione, anche gli zoologi riescono a esplorare le grotte di più difficile accesso, possono scoprire nuove colonie e tenere sotto controllo un maggior numero di cavità, abbattendo tempi e costi del monitoraggio. L’idea del progetto nasce dalla semplice constatazione del grande aiuto che negli ultimi anni i
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Esemplari di Rinolofi Maggiori in letargo.
Numero di segnalazioni di Chirotteri in Toscana per ogni quadrante UTM 10 x 10 km.
Miniotteri, 121 esemplari in riposo.
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Durante una campagna in grotta con l’aiuto del Gruppo Speleologico CAI Pisa.
diversi gruppi speleologici toscani hanno dato alle nostre ricerche. Che si tratti di ricerche faunistiche, valutazioni di impatto o studi ecologici, l’aiuto degli speleologi si è rivelato fondamentale sia per raggiungere le grotte più tecniche, sia perché le segnalazioni degli speleo, anche se occasionali, possono essere assai numerose e quindi costituire per i chirotterologi un prezioso materiale di studio. Grazie a IMSEO s.r.l. di Roma, una società che si occupa di servizi informatici, abbiamo allora realizzato un sito web per raccogliere in modo semplice le segnalazioni degli speleologi toscani. Il percorso di programmazione ha richiesto mesi di progettazione e sperimentazione, nei quali gli amici Eleonora Bettini, Sabrina Tamburini, Gianni Ledda e Fabrizio Darmanin ci hanno dato un grande aiuto con la loro esperienza e i loro consigli. Oggi finalmente il sito web ToscoBAT è attivo e raggiungibile all’indirizzo toscobat.msn.unifi. it. È sufficiente registrarsi con il proprio nome ed il gruppo speleo di appartenenza per entrare attivamente a far parte della ricerca. Si potranno così consultare le informazioni sui pipistrelli, che nelle varie stagioni sono presenti nella grotta che si va a
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visitare, e poi aggiungere e condividere le proprie personali bat-segnalazioni. Attenzione, per noi sono importanti anche le segnalazioni negative! Perché, anche il sapere in quali grotte o in quale stagione i pipistrelli non sono presenti, è davvero utile. In pratica, dopo aver visitato la cavità sotterranea, a prescin-
dere dall’aver incontrato o meno i pipistrelli, ogni “speleo-esploratore” può inserire online semplici ma utilissime informazioni sulla cavità sotterranea visitata. I dati richiesti sono: nome della grotta, data della visita, numero approssimativo di pipistrelli isolati o di colonie avvistate, numero di specie diverse osservate, specie eventualmente riconosciute, eventuale presenza e quantitativi di guano. A questo si aggiunge la possibilità di inserire eventuali fotografie e commenti che, di fatto, sono sempre molto utili per lo studio. Per gli speleologi più “bio”, che volessero imparare a distinguere le diverse specie di pipistrelli, è possibile scaricare dal sito web
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Nella foto, ritrovamento invernale di un esemplare inanellato durante l’estate dai ricercatori del Museo. Di lato, loghi utilizzati per facilitare l’inserimento delle segnalazioni sul sito web.
Copertina della guida per il riconoscimento delle diverse specie di pipistrello.
una guida completa ai chirotteri italiani, che vi mette in grado di riconoscerli, almeno per grandi gruppi. Ogni segnalazione inviata, dopo che è stata validata, va ad arricchire il grande database dei chirotteri delle grotte toscane. I dati di ogni cavità sono consultabili da tutti gli speleologi registrati sul sito web. Ogni utente può quindi sapere se esistono segnalazioni per le grotte che intende visitare, riconoscere poi le proprie segnalazioni e avere consapevolezza dell’importanza del proIl “Bat-semaforo”: verde, possibilità di accesso senza rischi per i pipistrelli; giallo, periodi in cui occorre muoversi con cautela per non disturbare; rosso, meglio evitare le frequentazioni in grotta.
prio contributo alla ricerca e alla conservazione dei pipistrelli. La scheda di ogni grotta viene via via arricchita dagli zoologi del Museo con informazioni “bat-ecologiche”. In base ai periodi di criticità dovuti all’eventuale presenza di grandi colonie di svernamento o riproduttive, per ogni grotta viene visualizzato una sorta di “semaforo”. Il diverso colore segnala la possibilità di accesso senza rischi per i pipistrelli, i periodi in cui occorre muoversi con cautela per
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Nella foto, particolare di un pipistrello appeso al suo appiglio durante il riposo diurno.
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non disturbarli, o quando sarebbe meglio evitare esplorazioni. Non ci sono certo divieti, ma sta alla coscienza di ogni speleologo informarsi prima di visitare una grotta, in modo da poter tenere il comportamento più corretto per non disturbare i pipistrelli proprio nel momento più critico. Al momento su ToscoBAT si sono già registrati 47 speleologi appartenenti a 19 diversi gruppi speleologici toscani e sono presenti 107 segnalazioni di pipistrelli in grotta. Collegati anche tu al sito e registrati! Aiutare i nostri amici pipistrelli non è mai stato così semplice… In cambio, noi chirotterologi del Museo di Storia Naturale offriamo le nostre conoscenze ai Gruppi Speleo toscani e volentieri siamo disponibili per lezioni ai corsi di biospeleologia o per incontri pubblici che richiamino il pubblico sull’affascinante mondo della speleologia. ToscoBAT, moderno bat-database speleologico georeferenziato, ha davvero una grande importanza per la conservazione del nostro patrimonio di biodiversità sotterranea. L’elaborazione dei dati permetterà, infatti, una migliore comprensione delle abitudini di questi fragili mammiferi, le cui popolazioni sono purtroppo in declino. Senza contare poi che la stretta collaborazione tra il mondo della ricerca e della speleologia non potrà che portare ad entrambi una maggiore consapevolezza sulla complessità dell’ambiente ipogeo e, per quanto possibile, un’ancor maggiore passione per la propria attività. Una volta che il progetto sarà messo a punto, potrà essere utilizzato anche in altre regioni italiane, coinvolgendo i relativi gruppi speleologici e le strutture di ricerca locali. Insomma, un’altra importante iniziativa della speleologia toscana! Per accedere a ToscoBAT basta collegarsi al sito http://toscobat.msn.unifi.it
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Fig. 1. a) A causa delle sfericità della superficie terrestre, ai tropici viene fornita una maggiore quantità di energia per unità di superficie rispetto alle zone polari; Fig. 1. b) Quando il sole è alto sull’orizzonte i suoi raggi arrivano sulla superficie terrestre con un angolo di incidenza maggiore e la quantità di energia assorbita è maggiore. Modificato da Ruddiman 2008.
Studi paleoclimatici sugli speleotemi toscani: ultimi dati e nuove prospettive Ilaria Isola1,2, Eleonora Regattieri2,3, Gianni Zanchetta3, Ilaria Baneschi4, Russell Drysdale5, Adriano Roncioni2 (1 Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia sez. Pisa, 2 Gruppo Speleologico Lucchese, 3 Dipartimento Scienze della Terra Università di Pisa, 4 IGG-CNR Pisa, 5 Melbourne University Australia)
Il sistema climatico terrestre, di per sé molto complesso e influenzato da numerose variabili, può essere, semplificando molto, schematizzato come una macchina ad energia solare. La terra, a causa della sua sfericità, riceve una maggior quantità di calore alle basse latitudini rispetto alle zone polari. L’angolo di incidenza dei raggi solari aumenta infatti man mano che ci spostiamo verso i poli, con una diminuzione della quantità di energia fornita per unità di superficie (Fig. 1a) e con un aumento dell’energia riflessa, rispetto a quella assorbita (Fig.1b). Nello stesso verso agisce ad esempio l’albedo, infatti, superfici bianche come quelle ricoperte da ghiacciai, che sono distribuite maggiormente nelle
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Fig. 2. La circolazione oceanica superficiale organizzata in correnti influenzate dai venti dominanti. Queste trasportano calore dai tropici verso i poli (linee rosse) e trasferiscono acque fredde dai poli verso
alte latitudini, hanno una maggiore la capacità di riflessione dei raggi solari, diminuendo quindi la quantità di calore assorbita. Questi ed altri fenomeni più complessi fanno sì che, sulla superficie terrestre, si crei un forte disequilibrio energetico dovuto all’accumulo di calore nelle zone intertropicali. Nel tentativo di compensare questo disequilibrio, nel sistema terra, si innesca un trasferimento globale di energia attraverso la circolazione di correnti marine ed atmosferiche che trasportano il calore dalle basse latitudini verso le alte latitudini (Fig. 2). Il clima, ovvero l'insieme delle condizioni atmosferiche, normali e anormali, che caratterizzano una determinata area per un lungo periodo di tempo, determina la distribuzione delle temperature, piogge, ghiacciai e vegetazione sulla terra. Esso deriva fondamentalmente dall’insieme di radiazione solare e trasferimento di calore, che a loro volta sono influenzati da una gran quantità di processi che possiamo semplificare e schematizzare in quattro grandi categorie identificate come “Forzanti climatici”: • Processi tettonici: la formazione di fondale oceanico nelle zone di dorsale e il vulcanismo nelle zone di subduzione, immettono grandi quantità di CO2 nell’atmosfera e determinano i lenti e continui spostamenti delle placche tettoniche modificando, alla scala dei milioni di anni, la disposizione reciproca di oceani e terre emerse sulla superficie del pianeta. • Variazione dei parametri orbitali: questi cambiamenti alterano la quantità di radiazione solare alle diverse latitudini nelle diverse stagioni, con variazioni a ciclicità variabile dalle decine alle migliaia di anni. • Variazioni dell’intensità della radiazione solare: la quantità di radiazione emessa dal sole, oltre ad essere andata lentamente aumentando durante i 4,55 miliardi di anni di vita della terra, varia in modo più repentino a scala da decennale a millenaria.
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le basse latitudini (linee blu). Modificato da Ruddiman 2008.
• Effetto antropico: pur non essendo strettamente parte del sistema climatico naturale, l’effetto dell’uomo sul clima è ormai accettato dalla maggior parte della comunità scientifica. Questo è essenzialmente dovuto all’involontaria emissione in atmosfera di grandi quantità di gas serra dovute sia alle attività agricole che industriali. Il clima, soggetto a forze per loro natura variabili, non può rimanere costante nel tempo e la sua variabilità, intesa come la variabilità media del tempo meteorologico, viene analizzata su un lasso di tempo compreso fra i mesi, le migliaia, fino ai milioni di anni. A partire dal XII secolo, con l’invenzione di termometro e barometro, si hanno le prime misure strumentali di pressione e temperatura, che, inizialmente discontinue nel tempo e nello spazio, andranno sempre più incrementandosi fino ad arrivare ai giorni nostri in cui le reti a terra e le osservazioni satellitari forniscono un quadro preciso delle fluttuazioni dei principali parametri climatici sulle terre emerse, in mare e alle diverse latitudini. Lo studio della variabilità climatica in periodi remoti, per i quali le misure strumentali non sono disponibili, è più complesso e richiede l’utilizzo di archivi paleoclimatici contenenti indicatori indiretti (proxy) dai quali sia possibile risalire alle variazioni di temperatura ed umidità. Gli archivi naturali più utilizzati sono le carote ottenute attraverso le perforazioni nei ghiacci delle grandi calotte artica ed antartica, nei sedimenti dei fondali oceanici e dei laghi continentali, negli anelli di accrescimento degli alberi ed infine, ma non ultimo, negli speleotemi.
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Poiché le concrezioni di grotta precipitano da acque di origine meteorica, sono parte del ciclo idrogeologico, che è controllato essenzialmente dal clima (Fig. 3, pag. successiva). Questi depositi quindi, registrano informazioni sulle condizioni ambientali presenti al momento della loro formazione. Dallo studio di diverse proprietà chimiche e fisiche della calcite è possibile ad esempio, ricostruire l’origine e la quantità delle piogge, le variazioni di temperatura, i processi di interazione tra le acque di percolazione e l’attività biologica nel suolo, e i processi di dissoluzione della roccia. Inoltre, poiché sugli speleotemi è possibile effettuare datazioni di tipo radiometrico (ad es. U/Th), le variazioni registrate possono essere inquadrate cronologicamente in modo preciso. Tutto ciò rende questi depositi un materiale eccellente per lo studio paleoclimatico (Zanchetta et al., 2006). Nel bacino del Mediterraneo, il parametro fondamentale in grado di fornire informazioni sulla variazione nella quantità
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Fig. 3. Le concrezioni di grotta fanno parte del ciclo idrogeologico e preservano al loro interno informazioni sul clima presente al momento dalla loro deposizione. I valori del rapporto isotopico fra 13C\12C (espressi come δ13C) e 18O\16O (espressi come δ18O) presenti nel carbonio e nell’ossigeno dei cristalli di calcite, riflettono condizioni di umidità e temperatura della zona di assorbimento al momento dell’infiltrazione delle acque di pioggia.
di precipitazioni, è il valore del rapporto fra gli isotopi 18O e 16O dell’ossigeno contenuto nella calcite, mentre il valore del rapporto fra gli isotopi 13C e 12C del carbonio può dare indicazioni sul grado di sviluppo dei suoli e del tipo di vegetazione presenti al di sopra della grotta, anch’essi legati al variare delle condizioni climatiche. Il nostro gruppo di lavoro studia da anni speleotemi provenienti da tre grotte delle Alpi Apuane, un massiccio carbonatico che raggiunge quasi i 2000 m distante pochi chilometri dalla costa tirrenica. La sua posizione geografica ne fa una barriera naturale ai venti umidi di provenienza atlantica che scaricano sulle sue vette circa 3000 mm di pioggia annua (Piccini et al., 2008). Gli speleotemi studiati fino ad adesso sono stati campionati in grotte situate a diversa quota e con diverse caratteristiche idrogeologiche: l’Antro del Corchia, la Tana che Urla e la Buca della Renella (per i risultati su quest’ultima
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Fig. 4. Grafico delle anomalie medie della stalagmite CC26, ottenuto dalla combinazione di diversi proxy (δ18O, δ13C e rapporto molare Mg/Ca). I rettangoli azzurri evidenziano periodi di clima più umido mentre i rettangoli gialli indicano periodi di riduzione delle precipitazioni e/o maggiore stagionalità delle stesse.
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si rimanda a Zanchetta et al., 2009). I campioni prelevati dall’Antro del Corchia provengono in particolare dalla Galleria delle Stalattiti, situata a 840 m s.l.m. e coperta da circa 400 m di roccia. Si tratta di una zona profonda, lontana dai numerosi ingressi di questo sistema carsico e caratterizzata da condizioni idrochimiche e microclimatiche molto stabili, come evidenziato dal monitoraggio in corso da diversi anni (Baneschi et al., 2011). Gli speleotemi della Galleria delle Stalattiti hanno già prodotto importanti risultati scientifici negli anni passati (e.g. Drysdale et al., 2009). Gli ultimi studi effettuati sulla stalagmite CC26, hanno evidenziato una serie di pulsazioni climatiche che si sono succedute a partire dall’ultima deglaciazione. In Fig. 4 il grafico derivato dalla combinazione statistica di diversi proxy 13 (δ C, δ18O e contenuto in magnesio, Regattieri et al., 2014a) mostra l’alternanza tra periodi di riduzione delle precipitazioni e/o maggiore stagionalità del clima (aree gialle) e periodi più umidi o con precipitazioni maggiormente distribuite durante tutte le stagioni (aree azzurre), suggerendo che il clima negli ultimi 12.000 anni sia stato tutt’altro che stabile. Molti di questi eventi sono registrati anche in altri siti nel bacino mediterraneo, a conferma che il Corchia racconta una storia non solo locale ma con valenza molto più ampia. Alla Tana che Urla lo studio si è concentrato nell’intervallo di tempo compreso fra la penultima glaciazione e l’ultimo interglaciale (159-121 ka). Le due carote studiate, provenienti dalla stessa colata stalagmitica, (Regattieri et al 2012a, b; Regattieri et al. 2014b), mostrano intorno ai 132 mila anni, un brusco cambiamento in tutte le proprietà indagate: diminuzione dei valori di δ13C, δ18O, aumento del tasso di crescita della concrezione e passaggio da calcite scura, ricca in materiale detritico, a calcite bianca povera di detrito. Le variazioni osservate indicano un netto cambiamento climatico verso condizioni più calde ed umide, corrispondenti al passaggio fra il periodo
glaciale e quello più caldo successivo (Fig. 5). Se nella tana che Urla si ha deposizione di calcite, anche se con caratteristiche diverse, sia durante i periodi caldi intraglaciali che durante il penultimo periodo glaciale, questo non avviene durante l’ultima glaciazione, infatti, la deposizione si ferma intorno ai 70 ka per riprendere solo circa 12.500 anni fa. Per riuscire a capire ciò che è avvenuto durante l’ultimo glaciale abbiamo avviato con la FST un progetto di ricerca e studio di speleotemi provenienti da quote minori o da zone più meridionali in cui la rigidità del clima glaciale non determinasse la completa assenza di deposizione (Isola et al., 2013). In questo contesto sono stati raccolti un campione alla Buca di Formentale (Lucca), quattro campioni alla grotta di Cala dei Santi (Monte Argentario) e quattro campioni alla Buca di Fonte Buia (Calvana). Fra questi ultimi solo le stalagmiti FB2 ed FB4 sono però state ritenute idonee allo studio e campionate sia per datazioni che per gli isotopi dell’Ossigeno e del Carbonio di cui siamo in attesa dei risultati. Confidiamo che lo studio di questi speleotemi e di quelli che andremo presto a campionare nell’ambito di questo progetto, possano aiutarci a capire in dettaglio le variazioni climatiche dall’ultimo glaciale ad oggi.
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Fig. 5. Variazione nel tempo del tasso di crescita (verde) e valori isotopici del flowstone TCUD4. Si noti come in prossimità dei 132 ka tutti i valori cambiano repentinamente indicando un brusco passaggio da condizioni più fredde ed aride a condizioni più temperate.
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Grotte, storie e paesaggi della media Val di Lima Siria Panichi
“Quando la Lima comincia a limare Lucca comincia a tremare” Proverbio lucchese L’ingresso della Tana a Termini, foto di F. Lunghi.
Ci sono dei luoghi in Italia dove la natura sta riprendendo pian piano possesso di un territorio modificato dall’uomo in molti secoli di storia. Nonostante la presenza di un’ampia cava di calcare selcifero e dolomie, la Media Val di Lima e le montagne circostanti, con le loro pendici impervie e nascoste da fitti boschi, fanno parte di questi paesaggi che stanno ritornando al loro stato naturale. E la presenza di molte cavità naturali lo rende ancora di più un luogo dove cercare rifugio nella natura selvaggia.
Inquadramento geografico
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Il torrente Lima nasce dalle pendici del Monte Maiori, uno dei monti
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che delimitano il confine fra Emila Romagna e Toscana, poco sopra l’abitato dell’Abetone, sede di una famosa stazione sciistica. Da qui, insieme alla strada statale 66 dell’Abetone e del Brennero, la Lima si snoda con andamento irregolare per circa 37 km, fino ad immettersi nel fiume Serchio a valle di Bagni di Lucca, nota stazione termale, frequentata da turisti anglosassoni e americani soprattutto nel corso del XIX secolo. Si tratta di luoghi molto conosciuti nella Toscana Settentrionale, molto più di quelli che il torrente Lima attraversa nel suo tratto di scorrimento mediano: dopo essere sceso a sud ed aver voltato decisamente ad ovest, appena fuori dall’abitato di Popiglio, il torrente attraversa e modella rocce nuove, che danno luogo ad un rapido mutamento di paesaggio, mentre la valle si fa stretta e incassata fra i pendii montuosi. Il cambiamento è dovuto all’incontro con formazioni appartenenti al nucleo mesozoico della Val di Lima, quasi esclusivamente rocce carbonatiche, che hanno favorito la formazione di un’area carsica, della Val di Lima appunto, ancora poco conosciuta, e spesso più per i suoi paesaggi e per i molti corsi d’acqua che la attraversano, che per la presenza di grotte. Ci troviamo fra le località di Tana a Termini, storico punto di confine fra Lucca Il torrente Lima prima delle strette di Còcciglia, foto di S. Panichi.
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e Pistoia, e di Astracaccio, poco a valle delle Strette di Còcciglia, un profondo solco scavato nei calcari frequentato dagli appassionati di rafting. L’area carsica ha in realtà un’estensione ben più ampia rispetto al tratto che incontriamo, camminando lungo il torrente Lima, nel fondovalle: essa è infatti compresa in una fascia di circa 50 kmq, con andamento NO-SE, che va dall’Orrido di Botri, popolare canyon vicino a Bagni di Lucca, all’altopiano di Croce a Veglia, storico crocevia stradale fra l’alto appennino tosco-emiliano e il territorio pesciatino, ed è composta da montagne ripide ma poco elevate, spesso ricoperte di folti boschi che si interrompono solo quando incontrano pareti verticali o residui di radure e pascoli. I principali rilievi che ne fanno parte sono la Penna
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La Penna di Lucchio, foto di S. Panichi.
di Lucchio (1176 m s.l.m.), il Monte Memoriante (1149 m s.l.m.), il Monte Lischeta (1074 m s.l.m.) e il Monte Granaio (1041 m s.l.m.) nella porzione meridionale, e cime piĂš alte e massicce come il Balzo Nero (1313 m s.l.m.), il Monte di Limano (1234 m s.l.m.), Il Monte Mosca (1492 m s.l.m.), oltre al Monte Coronato (1218 m s.l.m.) e il Monte Prato Fiorito (1284 m s.l.m.), nella porzione settentrionale. Profonde gole incassate, spesso coperte da una fitta vegetazione, solcano queste montagne e convergono come affluenti della Lima nei rari punti in cui la vallata, grazie a questi, si allarga: oltre al magnifico esempio della valle dello Scesta, che nasce alla Foce di Campolino e termina immettendosi nella Lima ad Astracaccio, meno note, ma non meno spettacolari, sono il suo affluente, Rio della Sega, la Coccia di Limano e la Coccia di Vico, che prendono il nome dai rispettivi paesi, e il Rio di Castello/Rio del Monte in
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L’antico borgo di Lucchio, foto di S. Panichi.
Il Balzo Nero con il paese di Vico Pancellorum, sulle sue pendici, e la Coccia di Vico, visibile a sinistra, foto di S. Panichi.
destra orografica. Aggrappati ai ripidi pendii di questi monti e in simbiosi con queste vallate su cui sorgono a strapiombo, ci sono dei piccoli nuclei urbani, la maggior parte di fondazione medievale, che si guardano da un lato all’altro della Lima, dominandone anche il fondovalle: Lucchio, Zato e Casoli, sul versante meridionale; Vico Pancellorum e Limano sul versante settentrionale; Montefegatesi e San Cassiano ai margini dell’area, sui più docili pendii del Prato Fiorito. Altri piccoli insediamenti di fondo valle sono sorti per lo più in prossimità dei ponti che attraversano la Lima, come a Ponte Maggio e a Ponte Nero.
Geologia e Carsismo La principale caratteristica geologica dell’area è la presenza del cosiddetto “Nucleo Mesozoico della Val di Lima”, un vasto affioramento di rocce in prevalenza carbonatiche di età mesozoica. Tali rocce, principalmente Calcare Cavernoso, Calcare Selcifero di Limano, Maiolica, Marne a Posidonomya, Brecce calcareo-selcifere, Calcare Selcifero della Val di Lima, hanno un’età compresa fra la fine del Triassico (220 milioni di anni fa) e la metà del Cretaceo (95 milioni di anni fa) ma le troviamo al livello della più recente formazione del
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Macigno (15-20 milioni di anni fa), non carsificabile, grazie alla faglia diretta che ha causato la fossa tettonica della Garfagnana ed ha ribassato l’affioramento di arenaria, portandola così allo stesso livello delle rocce più antiche. La presenza di rocce carbonatiche ha favorito la formazione di varie manifestazioni carsiche, riconoscibili sia a livello superficiale, sia soprattutto a livello profondo, grazie alla presenza di molte cavità, anche se per la maggior parte di dimensioni limitate. I fenomeni carsici più sviluppati si hanno negli affioramenti di Maiolica e di Calcare Massiccio, mentre esempi di natura più limitata li troviamo nel Calcare Selcifero di Limano, nelle Brecce di Casoli e nelle Calcareniti degli Scisti Policromi. Uno dei migliori esempi di carsismo superficiale riscontrabile in quest’area lo troviamo sulla cima del Monte Memoriante, caratterizzata da un vasto pianoro sommitale cui sono riconoscibili delle doline, fra cui alcune con un diametro sino a qualche decina di metri ed un profondità oltre i dieci/venti metri. La vicina Penna di Lucchio riporta invece abbondanti esempi di forme dovute all’azione degli agenti atmosferici, come karren, scannellature e vaschette di corrosione. Alla base delle due montagne, il Rio del Monte/Rio di Castello è invece un classico esempio di torrente che alterna il suo corso in alveo e in subalveo, a seconda che le acquee incontrino l’Arenaria Macigno o i calcari,
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Lungo il Rio del Monte, foto di F. Lunghi.
prima di andare ad ingrossare la Lima vicino a Ponte Maggio. Come accennato sopra, le forme legate al carsismo profondo sono quelle che in quest’area hanno uno sviluppo maggiore. Nel catasto speleologico regionale sono state inserite per adesso 51 cavità, ma molte altre mancano all’appello, anche se note da sempre, mentre altre ancora non possono essere inserite per una mera questione di dimensioni, non raggiungendo i 5 metri di sviluppo, estensione minima necessaria per esservi comprese. Il lavoro di revisione appena
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Le grotte attualmente inserite nel catasto regionale per la Val di Lima.
iniziato, che ha portato al controllo delle cavitĂ conosciute in questa zona, ha fatto venire alla luce almeno una ventina di cavitĂ catastabili, contando quelle individuate nella letteratura archeologica ed altre semplicemente chiedendo agli abitanti dei vari paesi se conoscessero delle grotte.
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L’Antro dell’Ugola, foto di F. Lunghi.
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La maggior parte delle cavità conosciute sono un’ampia caverna con rare e brevi diramazioni, seguite da quelle costituite da un unico pozzo a cielo aperto, che chiudono alla base o poco oltre, e dai piccoli buchi o poco più. Le cavità più estese, con uno sviluppo di qualche centinaio di metri, sono invece alcune grotte attive come sorgenti o cavità assorbenti. Conosciute ed utilizzate da sempre per l’approvvigionamento idrico perenne che garantivano o come semplice rifugio per uomini e animali, queste si trovano lungo gli affluenti della Lima e del Serchio.
L’Antro delle Campane o Antro della Lanterna, foto di A. Romeo.
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Di seguito è riportata una breve descrizione in ordine di accatastamento: Tana a Termini (T/PT 7) In assoluto la più conosciuta fra le cavità maggiori di quest’area. Si tratta di una sorgente temporanea, il cui percorso principale può essere ostacolato dall’innesco di tre diversi sifoni che si riempiono in occasione di precipitazioni, anche non abbondanti. Lo sviluppo orizzontale, pari a circa 220 metri, la rendono ben utilizzabile come meta di gite speleologiche rivolte a tutti. Il percorso non presenta nessuna difficoltà, nonostante la presenza di brevi salti e zone non eccessivamente larghe. Una lunga e ramificata galleria, scavata per un saggio minerario, permette di accedere alla cavità in due punti distinti
Scritte nella Tana a Termini, foto di F. Lunghi.
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e di superare il primo sifone in caso di piena. Poco sotto l’apertura della cavità e in sua corrispondenza, al livello del Torrente Lima, si ha una perdita d’acqua, probabilmente l’attuale livello saturo che un tempo ha contribuito alla creazione del livello subaereo. Grotta dei Porci di Monte Uccelliera (T/LU 11) Situata poco sopra l’alveo del Rio Coccia di Vico, la cavità è una galleria con andamento prevalentemente orizzontale e con rari tratti dove è possibile stare in piedi, per uno sviluppo di circa 200 metri. A differenza delle altre grotte conosciute nella zona, qua troviamo uno spesso strato di fanghiglia che ricopre il pavimento. Sono inoltre stati trovati numerosi resti di Ursus Spelaeus, la maggior parte localizzati in una zona distante dall’ingresso, forse trascinati lì da occasionali piene. Gli studiosi ipotizzano l’utilizzo della cavità come luogo di riproduzione, grazie alle piccole dimensioni che avrebbero favorito una maggiore protezione della prole. La cascata iniziale della Grotta del Dordoio in un’immagine del 1976, Archivio GSBUSB.
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Grotta Bologno (T/LU 442) Situata lungo il torrente Scesta, in località Case Vivaglio, con oltre 700 metri di sviluppo è la più estesa cavità di quest’area carsica. La presenza di due ingressi (oltre al T/LU 442 il T/LU 1419, Ingresso secondo della Grotta Bologno) situati alle estremità della cavità permette di compiere una traversata in ambienti prevalentemente orizzontali e molto concrezionati. L’ingresso principale, sul corso del fiume, è stato utilizzato come ovile dai pastori della zona.
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Grotta del Dordoio (T/LU 380) Conosciuta dagli abitanti del posto come Polla del Dordoio, è situata poco oltre l’abitato di Canali, a N-E di Vico Pancellorum. Le acque che ne fuoriescono alimentano, in sinistra orografica, l’ultimo tratto del Rio di Certobuono, che a monte della confluenza non presenta, normalmente, drenaggio superficiale. La cavità si è impostata su di una diaclasi ed è percorsa per intero dal corso d’acqua che alimenta la sorgente e può formare una cascata nel torrente, in caso di piena. Poco dopo l’ingresso è necessario superare una cascata di circa 8 metri, mentre in seguito lo sviluppo è prevalentemente orizzontale, seppur con brevi salti e in continua leggera ascesa, per un dislivello in positivo di 35 metri ed uno sviluppo di circa 500 m.
Una condotta concrezionata alla Grotta dell’Iseretta, foto di F. Lunghi.
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Grotta dell’Iseretta (T/LU 823) Situata 25 metri sopra il torrente Fegana, rio che scorre nell’Orrido di Botri, non lontano dall’ingresso di Ponte a Gaio, ha l’accesso protetto da un muretto a secco costruito dai pastori che la utilizzavano come ovile. Lo sviluppo, di circa 400 metri, è su più livelli, mai ampi da permettere di stare in piedi ma tutti variamente concrezionati e soggetti a piene occasionali. Oltre ad alcuni insetti troglobi, la cavità è popolata da vari esemplari di geotritone. Oltre a queste cavità, si ha notizia di un unico pozzo, profondo circa settanta metri, probabilmente una diaclasi naturale allargata artificialmente, che si apriva nella cava chiusa denominata Cave Tana, posta di fronte alla Tana a Termini e sotto il paese di Lucchio. In seguito alla sistemazione ambientale del sito, effettuata dopo la sua chiusura, il pozzo è stato in buona parte asportato e riempito totalmente nel
La Cave Tana nella sistemazione attuale, foto di F. Lunghi.
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tratto residuo, come si può vedere dal grosso muretto a secco presente sui gradoni e dal riempimento del tratto che terminava dentro l’unica galleria artificiale riconoscibile nella cava. La zona dove è indicata la Tana a Termini nella “Carta Topografica del territorio pistoiese fatta da Antonio Matani”, del 1762.
Cenni Storici, frequentazione e utilizzo delle grotte
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I primi curiosi Nella metà del XIX secolo, quando la ricerca di un sostentamento inizia a spopolare le montagne, descritte già all’epoca da Ranieri Agostini come “vuote d’abitanti”, gli albori del turismo su media scala fanno proliferare la stampa di guide turistiche rivolte alla scoperta dei luoghi ameni prossimi alla città. La vicinanza ad alcuni luoghi utilizzati nel periodo estivo nell’appennino pistoiese fa nascere un certo interesse anche per le gite fuori porta da svolgersi nelle
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Le prime testimonianze Molte antiche mappe riportano la presenza della Tana a Termini, della Buca del Montale e di altre grotte, spesso non riconoscibili nel paesaggio attuale. La presenza di segni rilevanti sul territorio forniva dei punti di riferimento utili, per esempio per individuare la tracciatura di un confine, in questo caso fra l’antico Stato di Lucca e lo Stato Toscano, materializzato sul territorio con dei pioli di pietra detti Termini, da cui deriva il nome della cavità, situata a pochi metri dalla riva destra della Lima e su un’antica via di comunicazione. Un chiaro esempio di questo utilizzo è il “Disegno della fortezza di Lucchio con tutte le dimostrattioni de castelli strade e sboccamenti che scopre detta fortezza. 1670”. La carta rappresenta il territorio delle comunità di Lucchio, Vico (Vico Pancellorum) e Limano in confine con quello delle comunità di San Marcello, Gavinana e Piteglio appartenenti allo Stato fiorentino. Un altro documento, il “Territorio del comune di Lucchio. Stato di Lucca”, illustra il territorio di confine fra Lucchio e Popiglio nei pressi del fiume Lima, riporta la Tana a Termini, con la sua roccia incassante, e la sovrastante Tana del Montale, raffigurata come la bocca di un vulcano. Anche nella “Carta Topografica del territorio Pistoiese fatta da Antonio Matani”, che raffigura Pistoia ed i luoghi rilevanti della sua montagna nel 1762, in maniera più divulgativa rispetto alle mappe di utilità, viene indicata la Tana a Termini.
montagne e borghi vicini: fra questi non manca la media Val di Lima, spesso citata soprattutto per la famosa Tana a Termini. Giuseppe Tigri, scrittore pistoiese della seconda metà del XIX secolo, parla più volte della Tana a Termini, “che molto s’incaverna nel monte”. Descrive anche la fonte del Dordolio, sacra a Doride, la ninfa delle acque, che scaturisce dalle pendici del Monte d’Oro, così chiamato per la presenza di miniere. Nella descrizione compaiono parole che possono sembrare antiche (“tutta piena di naturali scherzi, come di stalattiti arboriformi, crostacee e raggiate”) ma che non di rado sono utilizzate anche oggi dalle guide nelle grotte attrezzate per il turismo ipogeo. La stessa descrizione viene ripresa quasi per intero da Arturo Stanghellini, nella sua Guida della montagna pistoiese, edita a Firenze nel 1913. Il Tigri descrive la grotta anche in un suo componimento poetico:
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….Entro la valle Sulla vorago io fuor sbocca petroso Un angusto ciglion fra cui scoscende, Di sterpi irto di ceppi e di giuncaie, Onda che nella Lima alto rimugge. Ivi del poggio in seno ampia s’interna Cavernosa una chiostra, e che si noma DÈ Termini la Tana. Intorno cinge L’umida bocca il rovo e la gramigna E stretta edera all’antro. Fosco, fosco Un sentier tortuoso e dirupato Cala per quella, e tutta ne penetra Del monte le làtèbre. E cornuti grido Era fra i montanari udirsi un rauco Suon di molti torrenti, ed entro scorti Aver serpenti e lupi, orsi e leoni, E gravide par d'acqua ampie caverne. Niuno il buio cammin prendere osava, O sostando reddia, chè pauroso Lo vinceva un terror d'urla furenti, E di sibili orrendi, e di chimere…
Si deve però a Ranieri Agostini un interesse più mirato nei confronti di questa grotta, cui dedica quasi 4 pagine della sua “Guida Illustrata della Val di Lima”, edita a Firenze nel 1894. Viene descritta la cavità, che gli da l’impressione di inoltrarsi nella montagna per qualche chilometro, finché l’acqua non ne impedisce il passaggio, e di avere varie diramazioni di grande lunghezza, i tempi di percorrenza (due ore per arrivare al sifone terminale in periodi secchi), il rinvenimento di insetti ciechi. All’epoca per raggiungere la grotta si impiegavano un’ora e mezza dal più vicino luogo turistico, Popiglio, ed era possibile avvalersi di una guida alpina locale, che viene descritta come
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molto pratica della località…una donna! Matilde Biondi abitava in un edificio costruito proprio di fronte alla cavità, dove con la famiglia gestiva una piccola osteria; pare fosse così pratica nel condurre le visite che i clienti a fatica tenevano il suo passo. Dice infatti l’Agostini: “Più volte per non rimanere di troppo indietro corsi pericolo di percuotere qualche stinco nei massi che s’incontrano tra i ciottoli, e più volte detti del capo nelle rocce, o nelle stalattiti che pendono dalla volta. Pur tuttavia dopo un’ora e mezza me ne tornai con qualche sbucciatura e ammaccatura a rivedere sano e salvo il sole”. Lo stesso autore ci parla anche de “…la Lima, torrente a cui ben si addice tal nome per le sue corrosioni, specialmente quando è gonfio di acque…”. Il rilievo originario della Grotta Bella eseguito dal GSFiorentino nel 1927, pubblicato su Le Grotte d’Italia, Anno III, n. 1.
Storia delle esplorazioni speleologiche I primi speleologi ad interessarsi dell’area della Lima furono, negli anni venti del XX secolo, i fiorentini Berti, Bianchi, Ciaranfi e Levi del Gruppo Grotte interno alla sezione del CAI di Firenze, che aderirono all’iniziativa della rivista “Le Grotte d’Italia” di Postumia, di costituire il primo nucleo del Catasto Speleologico Italiano, inserendovi le grotte già conosciute. Fra queste non poteva mancare la Tana a Termini (T/PT 7), considerata all’epoca una delle cavità più belle dell’intera Toscana. Furono rilevate e accatastate anche la Grotticella alla Lima (T/PT 8), la Grotta Bella (T/LU 10), la Grotta delle Sane (T/LU 9) e
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Concrezioni nella Grotta delle Sane, foto di F. Lunghi.
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la Grotta dei Porci di Monte Uccelliera (T/LU 11), nello stesso anno in cui il Gruppo Grotte divenne Gruppo Speleologico Fiorentino (1927). Dopo quasi trent’anni, un forte contributo alla conoscenza della zona fu dato dal Gruppo Speleologico Bolognese - Unione Speleologica Bolognese ed altri gruppi di Bologna oggi non più esistenti. Dopo decenni di esplorazioni nelle grotte in gesso vicino a casa, i bolognesi iniziarono a sperimentare quelle spedizioni su altre aree carsiche italiane che li portano poi a scoprire splendide grotte in Sardegna: ma la zona con calcari più vicina a casa era proprio questa e qui si diressero come punto di partenza alla metà degli anni ’50 del secolo scorso. Allora la ricerca di grotte partiva, oltre che dalla presenza di aree idonee, dal rapporto con gli abitanti del posto, sicuri conoscitori di anfratti e depositari di leggende e tradizioni millenarie.
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Due speleologi bolognesi a Vico Pancellorum con i muli nel Giugno 1962, Archivio GSB-USB.
L’interesse per questa zona si protrasse continuativamente per almeno vent’anni, nel corso dei quali i bolognesi sperimentarono le prime esperienze speleosubacquee, prima in apnea e poi con immersioni vere e proprie, alla Tana a Termini e nella Grotta del Dordoio, da loro esplorata per intero; le piene annunciate ma all’epoca poco conosciute, che in un’occasione spazzarono quasi via il campo allestito sul fosso del Dordoio; le prime battute alla ricerca di cavità sul Monte Memoriante e limitrofi, dove visitarono ma non catastarono la Piella e altre cavità minori; la ricerca di cavità sul greto del torrente Lima; infine la ricerca in zone marginali all’area, non lontano da Montefegatesi, insieme ai faentini. Ancora negli anni ’90 continuano, seppur sporadicamente, a compiere ricerche nell’area, questa volta vicino a Vico Pancellorum, nel Fosso delle Diegore. Alla fine degli anni ’60 anche il Gruppo Speleologico Lucchese CAI si interessò brevemente alla zona, esplorando la Grotta Bologno, dal nome della località nel
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Nel Sifone della Tana a Termini, 1972, Archivio GSB-USB.
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Giovanni Bertagni all’ingresso basso della Buca di Cigo di Giò, foto di I. Filoni.
torrente Scesta in cui si apre, ad ora la più estesa dell’area, segnalategli da un pastore che la usava come ovile. Negli stessi anni, ai margini dell’area carsica, il Gruppo Speleologico Garfagnana - Grotta del Vento di Fornovolasco esplorò la Grotta dell’Iseretta, situata poco dopo l’ingresso a valle dell’Orrido di Botri, ed anch’essa segnalatagli da pastori della zona. Nella zona non mancavano appassionati di speleologia o semplici curiosi, ma la ritrosia a divulgare la conoscenza o semplicemente la mancata abitudine a documentare li ha tenuti per anni in secondo piano rispetto ai navigati speleologi bolognesi, che già all’epoca pubblicavano un loro bollettino sezionale, Sottoterra. Bisogna quindi aspettare gli anni ’90 del XX secolo perché gli speleologi “locali”, appartenenti al Gruppo Speleologico Montagna Pistoiese e al Gruppo Speleologico Pistoiese, documentino la maggior parte delle cavità conosciute, favoriti anche dalla vicinanza alla zona. Inizialmente, sotto la spinta di Antonio Ginetti del GSPt, le ricerche si sono concentrate sul Monte Memoriante e nei dintorni di Casoli, dove vengono accatastate delle grotte molto conosciute ed utilizzate da sempre, insieme ad altre cavità scoperte nei boschi vicini. In parallelo anche Ivano Filoni e Giovanni Bertagni del GSMP iniziano a catastare le molte altre cavità presenti in tutta l’area carsica, alcune, anche in questo caso, già conosciute, coma la Buca del Montale, altre frutto di nuove esplorazioni. La vastità dell’area d’indagine, unita alla mancanza di uno studio protratto ininterrottamente per molti anni, fa di questa zona comunque un luogo dove la ricerca speleologica potrebbe dare ancora molte sorprese.
Biospeleologia In bibliografia sono presenti alcuni dati rispetto al popolamento biospeleologico di queste cavità, soprattutto per quelle esplorate all’inizio della storia esplorativa nella Val di Lima. Frequentando le cavità con occhio inesperto non è difficile imbattersi in singoli individui di chirotteri (Rhinolophus Ferrum-Equinum) e alcuni geotritoni (Speleomantes italicus). Uno sguardo più attento permettere di individuare alcuni tipi di coleotteri (Duvalius), gasteropodi, ortotteri, ditteri e miriapodi. Al momento non si è a conoscenza di uno studio dettagliato sul popolamento animale di queste cavità: vista la presenza di esemplari anche in numero elevato speriamo che presta venga colmata questa lacuna.
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Un esemplare di Speleomantes italicus nella Grotta dei Marmi, foto di A. Romeo.
Paletnologia e Archeologia Molte delle grotte, grazie alla vicinanza ad antiche vie di collegamento, spesso ancora identificabili, e ad attuali centri abitati, sono conosciute ed utilizzate da millenni. La presenza dell’uomo e la frequentazione delle cavità, in un ambiente che oggi viene identificato come selvaggio ed inospitale, inizia già nel Paleolitico superiore, da parte di gruppi di cacciatori e raccoglitori. Le attestazioni del loro passaggio si ritrovano in cavità in cui non è difficile fantasticare il passaggio dell’uomo nell’età della pietra e che spesso contengono importanti depositi archeologici. La più famosa di queste, la Grotta delle Campane, deve il suo nome all’eco che questo ampio riparo sottoroccia, impropriamente chiamato grotta, fa alle
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La parete rocciosa che forma il riparo della Grotta delle Campane, foto di F. Lunghi.
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Uno dei saggi di scavo nella Grotta delle Campane, foto di F. Lunghi.
campane suonate nella chiesa di Casoli. Le prime ricerche archeologiche organizzate furono condotte qua, e in altre cavità di Ponte Maggio, da Alberto Malatesta del Servizio Geologico d’Italia negli anni ’50 del XX secolo, per curiosità personale, in un periodo di vacanza. Nelle due trincee indagate riconobbe due tipi di frequentazione, una olocenica risalente al neolitico e all’eneolitico (testimoniata da strumenti in lamelle di selce, ceramica ligureapuana e animali domestici) ed una pleistocenica risalente alla fine del paleolitico superiore (strumenti a lame e troncatoi e fauna selvatica di montagna). Altre ricerche furono condotte in seguito, nella prima metà degli anni ’60, da Arturo Palma di Cesnola dell’Istituto di Paletnologia dell’Università di Firenze, che confermò le ipotesi già fatte dal Malatesta: probabilmente il riparo era utilizzato come rifugio temporaneo nel Paleolitico superiore, in un luogo di caccia a fauna di montagna (furono trovati, oltre al cinghiale, al cervo e alla capra, dei resti di marmotta e di stambecco). In seguito a questi scavi regolari ne furono condotti altri, abusivi, probabilmente reiterati, seguiti a loro volta, nel 1963, da un nuovo scavo dell’Università di Firenze organizzato per cercare di recuperare il materiale lasciato dai clandestini e continuare lo scavo del deposito intaccato. Nuovi scavi clandestini
continuano a sconvolgere la stratigrafia del sito, finché alcuni soci del Gruppo Archeologico Lucchese, nel 1972, setacciarono il terreno sconvolto al fine di recuperare i manufatti litici e ceramici e i resti ossei. Materiali simili furono rinvenuti, sempre nello stesso anno e sempre dal Gruppo Archeologico Lucchese sotto la direzione di Michelangelo Zecchini, nella Grotta di Ponte Nero I e Grotta di Ponte Nero II, che devono il loro nome
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Le Grotte di Ponte Nero I e II, foto di S. Panichi.
alla vicinanza con il Ponte che attraversa la Lima in corrispondenza delle strette di Cocciglia. Anche la Grotta di Ponte Nero I era stata visitata in precedenza da scavatori clandestini, inconveniente che non ha impedito il recupero di reperti dell’Età del Ferro e di altri reperti del Paleolitico superiore insieme a resti ossei. La vicina Grotta di Ponte Nero II aveva invece il deposito intatto ed al suo interno è stato trovato un canino atrofico di cervo usato a scopo ornamentale. L’utilizzo di questi siti come rifugio temporaneo probabilmente è proseguito anche nei secoli successivi, visto il rinvenimento di colli e frammenti di vetro verde per unguenti risalenti al I-II sec d.c. Materiali dell’Età del Ferro sono stati ritrovati anche nella grotta Macalloni, situata nel Pizzo Macalloni, vicino al Lago di Casoli, che deve il suo nome ad un toponimo che attesta la presenza longobarda nella zona (da “Magaldo” che significa Mago). Una frequentazione più stabile si ha però a partire dal IV secolo a.C. con i liguri apuani, proseguendo fino a oggi. Testimonianze consistenti di epoca romana si hanno nell’ampia caverna denominata la Piella, che sovrasta il Rio del Monte, vicino a Casoli. Oltre ai numerosi frammenti di ceramica (olle, ciotole, coppe, vasi risalenti al III sec.d.c.) e agli oggetti di bronzo (anelli, pesi, pinzette, punte di freccia) recuperati, sono state trovate 20 monete (quadranti e
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Verso il fondo della Grotta dei Pipistrelli di Casoli, foto di A. Romeo.
sesterzi) di Alessandro Severo (222-235), Massimino il Trace (235-238, Gordiano III (238-244), Gallieno (254268), Claudio II il Gotico (268-270). Nella Grotta dei Pipistrelli, vicino a Casoli, recentemente alcuni soci del GSMP hanno ritrovato dei resti ossei di un uomo e un “grosso della ghirlanda”, moneta lucchese probabilmente risalente al 1664, dopo un tratto verticale presente nella cavità, particolarità che ha fatto ipotizzare una morte accidentale, per caduta o per omicidio.
Utilizzo delle grotte e folklore
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Oltre a custodire le testimonianze che hanno permesso di stabilire l’antica frequentazione dell’area, la presenza di cavità così vicine ai paesi ha favorito la nascita di culti e credenze popolari, e purtroppo anche un’interazione con il territorio non sempre improntata alla conservazione della risorsa naturale. La grotta di Tana a Termini trova ampio spazio nella letteratura descrittiva delle tradizioni dei paesi valligiani, come luogo di dimora di una fata chiamata Indovina, per gli oracoli che forniva a chi la invocava, o come una delle tante grotte in cui avrebbe abitato Guerrin Meschino (in realtà la cavità citata nel poemetto omonimo è la Grotta della Sibilla a Norcia, sui Monti Sibillini). Certamente per molti anni è stata usata come frigorifero dalla famiglia proprietaria delle abitazioni che nascondono il suo ingresso dalla statale del Brennero, che passa lì di fronte. Raccontano gli abitanti del posto che la verdura messa a conservare e finire di maturare in grotta, per preservarla dalle gelate con l’arrivo dell’inverno, diventava bianca e croccante. Il nome della Grotta delle Sane deriva da Sane o Zane, dal nome delle zanne di un animale favoloso. Come molte altre cavità veniva utilizzata anche come ricovero per le greggi. La grotta del Dordoio è stata per secoli l’unica fonte di approvvigionamento idrico perenne in molti chilometri quadrati per i pastori della zona, che la utilizzavano anche come deposito di formaggi e latticini. A Casoli la memoria storica è ricca di leggende e utilizzi legati alle molte
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L’ingresso della Tana a Termini con la struttura utilizzata come frigorifero, foto di F. Lunghi.
grotte che si aprono nel territorio circostante. Un’idea molto diffusa in paese è quella che in passato la Grotta dei Pipistrelli avesse termine in località Ponte Nero, 200 metri più sotto, lungo la Lima; a supporto di questa teoria alcuni affermavano di sentire la messa detta nella piccola chiesa di Ponte Nero semplicemente andando nella cavità. In paese, alcune piccole grotte che si trovano dietro un antico edificio adibito a lazzaretto, e altre collocate nei suoi dintorni, si racconta siano state utilizzate durante le epidemie di peste per dare ultimo rifugio agli infettati. La presenza di molti cocci rotti al loro interno viene fatta risalire all’usanza di distruggere le stoviglie utilizzate per dare da mangiare a queste persone, che lasciavano una ciotola fuori dalla grotta e la ritrovavano rifornita di cibo. Purtroppo, insieme alle leggende, degli utilizzi che hanno lasciato dei danni irreparabili sono ben visibili nella Grotta dei Marmi, che è stata saccheggiata a più riprese a causa delle sue belle e bianche concrezioni, staccate per adornare le processioni religiose e probabilmente anche per utilizzi privati. Sempre in tema religioso, la Grotta dello Spiritaio, che si apre vicino all’alpeggio abbandonato di Case del Monte, deve il suo nome alla destinazione scelta dal papa per confinarci tutti gli spiriti maligni del mondo. Dovendoli contenere tutti si racconta che la cavità, un pozzo a cielo aperto, non avesse termine. Non mancano storie legate al passaggio di guerre antiche, come quella che narra di una cavità chiusa dalla popolazione dopo averci nascosto un cannone, nelle vicinanze del paese di Limano, e moderne, in cui si racconta come la Buca di Lischeta venisse utilizzata durante la Seconda Guerra Mondiale per gettarvi i cadaveri dei soldati tedeschi uccisi. Un’ultima storia, che sconfina forse nella leggenda, è nata negli ultimi anni intorno alla cosiddetta bocca di accesso del Memoriante, una grotta che molti hanno cercato e forse qualcuno ha trovato, portandosi il segreto con sè per sempre. In una bonaria disputa fra speleologi locali sull’esistenza o meno di questo abisso, che conserverebbe ancora le corde al suo interno e si troverebbe a nord della sella presente fra il Monte Memoriante e la Penna di Lucchio, era stata
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Scritte storiche nella Grotta dei Marmi, foto di S. Panichi.
organizzata un’escursione per mostrare finalmente questa cavità al contendente rimasto all’asciutto, che però quel giorno si alzò con un terribile mal di schiena e dovette rimandare l’uscita. Il tempo purtroppo non è stato sufficiente per trovare un’altra occasione di visita e forse a questo punto solo un ritrovamento casuale potrà fare luce sull’esistenza dell’abisso mancato.
Ringraziamenti
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Badini G. (1974) “Oltre il sifone di Tana a Termini”. Sial, Anno II, n. 4, pp. 37-38.
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BIBLIOGRAFIA
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Un ringraziamento particolare va ad Antonio Ginetti, Giovanni Bertagni e Ivano Filoni, che hanno condiviso con me la loro documentazione e soprattutto hanno iniziato un lavoro che al momento non vede ancora la parola fine. Grazie anche a chi ha accompagnato me e Francesco Lunghi sul campo, riempiendosi di zecche e di pruni: Alessio Romeo, Daniel Menta, Giampaolo Mariannelli, Greta Coppini e Simone Gallorini, Daniele Antonetti e Giulia Orsini; e chi mi ha aiutato nel reperire altre fonti di informazioni: il GSB-USB, Leonardo Piccini, Loriano Lucchesi, Marisa Garberi e Mario Nottoli. Un ringraziamento speciale è per gli abitanti di Casoli, che ad ogni nostro passaggio hanno avuto voglia di raccontarci delle storie sulle loro grotte e sperano che qualcuno ne parli finalmente in maniera completa, magari in un libro.
Bresci G., Fini D., Gargini G., Papini L., Talini F., Vergari S. (2003) “Indagini preliminari su una collezione osteologica di Orso delle Caverne , Ursus Spelaeus Rosenmüller & Heinroth provenienti da una grotta in Val di Lima , Toscana ” in “IV Congresso Italiano di Teriologia – Riccione 6-8 Novembre 2003”. Hystrix, the Italian Journal of Mammalogy, p.40. Cazzoli M.A. (1989) “La grotticella delle Diegore”. Sottoterra, Anno XXVIII, n. 84 , Dicembre 1989, pp. 12-13. Dell’Oca S. (1962) “Note di Speleologia economica” in “Atti VI congresso speleologico lombardo – Piani Resinelli, 10 Aprile 1960”. Rassegna Speleologica Italiana, Anno XIV, n. 1, 1962 , pp. 76-109. Fontana G., Zucchini P. (1968) : “L’immersione alla Tana a Termini”. Sottoterra, Anno VII, n. 19 , Aprile 1968, pp. 50-54. Giambastiani C. (1996) “I bagni di Corsena e la Val di Lima Lucchese: dalle origini al XVI secolo”. Lucca, 586 p. Ginetti A. (1995) “Monte Memoriante: una montagna sconosciuta”. Talp, n. 11 , pp. 3-8. Ginetti A. (1996) “Tana a Termini. Una grotta nelle tradizioni popolari”. Talp, n. 14, pp. 14-16. Ginetti A. (1998) : “Le esplorazioni sul Monte Memoriante”. Ciclostilato. Grazzini A., Ferretti G., Magrini M., Sani A. (a cura di) (2012) “Il massiccio calcareo della Penna di Lucchio e del Monte Memoriante. Primo contributo alla conoscenza della natura”. Bagni di Lucca , LU, 115 p. Grimandi P. (1967) “La grotta del Dordoio T/LU”. Sottoterra, Anno VI, n. 17, Agosto 1967, pp. 5-8. Lepori A. “Rilevamento geomorfologico del nucleo mesozoico della Val di Lima”. Tesi di Laurea in Scienze Geologiche, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2006/2007. Malatesta A. (1951) “Ricerche preistoriche nella Valle della Lima, Lucca ”. Rivista di Scienze Preistoriche, Vol. IV, , 1-2 1951, pp. 79-83. Palma di Cesnola A. (1962) “Grotta delle Campane presso Ponte Maggio, Lucca ”. Rivista di Scienze Preistoriche, Vol. XVII, 1-4 1962, pp. 49-69.
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L’area carsica della Calvana e di Monte Morello Unione Speleologica Calenzano
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La Calvana è un contrafforte carsico tra i più importanti della regione Toscana, appartenente geograficamente e morfologicamente all’Appennino; ha un andamento con direzione nord-sud per circa 16 km da Montecuccoli a Poggio Castiglioni, per una larghezza media di circa 4 km e un’estensione di 64 km quadrati tra le province di Firenze e Prato. Per altezza si distingue il Monte Maggiore con i suoi 916 m, seguito da Poggio dei Mandrioni (851 m), Cantagrilli (819 m), Prataccio (775 m), La Retaia (708 m) e Poggio Castiglioni (387 m). La formazione geologica che costituisce la dorsale della Calvana e il vicino Monte Morello, prende il nome da quest’ultimo (Formazione di Monte Morello) ed è di origine torbiditica, formatasi tra il Paleocene e l’Eocene medio; prevalgono grossi banchi di Calcari marnosi e Marne calcaree (Alberese) dalla colorazione bianco-giallognola separati da strati di arenaria calcarea grigio-bruna e argilliti. Contrariamente alla Calvana, nonostante genesi, caratteristiche geologiche, stratigrafiche, tettoniche e climatiche simili, Monte Morello non è caratterizzato da fenomeni carsici rilevanti. Si ipotizzava che la causa fosse da attribuire ad una minore percentuale di calcare e ad una maggiore frazione di argilla presente, mentre l’ultima ipotesi, avvalorata dal ritrovamento di tracce legate a fenomeni dell’ambiente fluviale, prevede che l’attuale crinale sia l’alveo di un antico fiume, che durante il Pliocene scorreva nel fondo valle. I fenomeni carsici hanno dato origine a realtà di superficie come i campi solcati, doline ed uvale, quest’ultime modificate spesso dall’uomo con muretti a secco utilizzati per la coltivazione e per la raccolta di acqua. Lo scorrere dell’acqua ha dato origine alle 45 grotte della Calvana ed alle 7 conosciute di Monte Morello, tutte registrate nel catasto regionale. Le prime sei grotte inserite nel catasto sono proprio di quest’area: Spelonca delle Pille (T/PO 1), Spelonca presso Colle Fiesoli (T/PO 2), Speloncaccia (T/PO 3), Buca del Ciuco (T/PO 4), Fonte Buia ( T/PO 5) e la Buca del Cane del Monte Retaia (T/PO 6). Si ha notizia delle prime esplorazioni tra il 1881 ed il 1912 ad opera di speleologi fiorentini e pratesi, poi interrotte durante i due periodi bellici. Nel dopoguerra la Calvana rappresentò una delle zone più facilmente raggiungibili con i pochi mezzi e le limitate disponibilità economiche dell’epoca. I primi anni ’80 del secolo scorso videro la fondazione dell’USC ed un nuovo impulso esplorativo, che portò alla scoperta della Grotta dei Cocci (T/PO 737) nell’83 e l’anno successivo della Grotta del Fico (T/FI 740) , del Prugnolo (T/FI 747) e del Canapaio (T/FI 811). Ma la Calvana anche oggi continua a regalare sorprese e il 16 febbraio 2014 è stata individuata un’altra grotta, la Garelli, in onore del rumoroso motore della nota casa motociclistica italiana utilizzato come generatore; presenta al momento uno sviluppo di circa 40 m e qualche punto interrogativo ancora in sospeso. Le cavità di quest’aerea carsica sono certamente più modeste rispetto a quelle apuane più conosciute, basti prendere ad esempio Sant’Anna Vecchia (T/
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FI 721) che, con il suo sviluppo di 700 m e una profondità di 193 m, rappresenta la cavità più estesa. Sicuramente sono ricordate per l’enorme e spesso fastidiosa presenza di depositi di argilla che tendono ad ostruire ogni passaggio, con cui gli esploratori hanno sempre a che fare. Il crinale del massiccio separa il bacino idrico del fiume Bisenzio da quello del torrente Marina e del fiume Sieve. Seppure molto povera di acqua di superficie, in Calvana si contano 97 sorgenti principali con un regime fortemente soggetto all’intensità delle precipitazioni, e si individuano tutte fra i 300 e i 400 m di quota, ad esclusione delle due che si trovano sotto quota 100 m e di altre due posizionate a quota 700 m. Nel 2009 è stata riproposta l’attività di tracciamento della zona, già avviata negli anni passati, con la necessità di ripetere le colorazioni precedenti in quanto incrociando i dati sono state rilevate discrepanze e probabili falsi positivi causati dalla forte concentrazione di argille in sospensione. A questo si aggiunga che le piccole quantità di traccianti si sono rilevate sufficienti per le analisi con fluorimetro ma insufficienti per la lampada di Wood. Quattro le cavità prese in esame: Sant’Anna Vecchia, Buca del Cocolla (T/PO 818), Grotta dei Cocci e Buca del Ciuco. A Sant’Anna Vecchia sono stati ribaditi i primi dati elaborati dall’USP e i successivi dell’USC del 1988, con la conferma che le acque riemergono in località Travalle. Cocolla è una piccola cavità esplorata nel 1987 dall’USP a cui si sono aggiunti lavori di tracciamento che hanno dato esito positivo nei captori presenti nel rio della Ripa in località Carraia. La Grotta dei Cocci fu trovata grazie a un lavoro di disostruzione nella zona di crollo nella dolina Buca ai Prati a finire degli anni ’70 iniziato dall’USP e poi ultimato dall’USC. I traccianti sono stati rilevati sul versante calenzanese alla confluenza del rio Vezzano nel torrente Marina. Le prove di tracciamento della Buca del Ciuco, una delle più estese cavità del massiccio, sono state effettuate due volte. Durante la prima colorazione fu monitorata esclusivamente la zona di rio Buti, prendendo per buone le precedenti colorazioni e le analisi dei captori con lampada di Wood. Il lavoro del 2010 con il tinopal immesso non nelle vicinanze dell’ingresso, ma sul fondo della grotta è stato poi ripetuto nel 2011 perché nessuno dei captori risultò positivo. Questa seconda esperienza è stata allargata oltre che al versante pratese anche al versante calenzanese, con tracciante fluoresceina sodica immessa nel fondo della grotta. Questa volta c’è stato un esito positivo al laghetto di una cava in località Carraia a quota 115 m. Un importante progetto di ricerca scientifica ha visto la realizzazione di un laboratorio all’interno di Forra Lucia (T/PO 721), grotta situata lungo il rio Buti a quota 335 m s.l.m. La scelta di questo sito è stata determinata da molteplici aspetti come una facile accessibilità, la vicinanza geografica, la lontananza dalle zone abitate e produttive, progressione orizzontale supportata da scale fisse, condizioni geoidrologiche stabili, zone interne sufficienti ad ospitare le attrezzature, grotta attiva con una discreta presenza di fauna, sviluppo presso una struttura geologica indotto da una tettonica fragile e per ultimo la possibilità di chiudere l’accesso con un cancello. Il primo tentativo, poi interrotto dopo pochi mesi per il deterioramento della strumentazione, risultata inadeguata alle condizioni climatiche interne, è iniziato nel 1978 con la collaborazione tra GSP- CAI e l’Università di Firenze. Il progetto è poi ripreso nel 2003 con un nuovo impulso dato dalla disponibilità
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di dati metereologici ed idrogeologici esterni reperibili con le recenti installazioni su tutta l’aerea di riferimento e l’utilizzo in ambiente ipogeo di strumentazione tecnica avanzata. I dati presi in considerazione riguardano la temperatura di aria, acqua, roccia di superficie e di profondità, pressione idrostatica ed atmosferica, conducibilità e pH dell’acqua, ossigeno disciolto, durezza dell’acqua con titolazione chimica sul luogo di campionamento, concentrazione di gas Radon e umidità relativa dell’aria.
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Nel 2003 un territorio di circa 6.000 ha è stato riconosciuto come area naturale protetta di interesse locale (ANPIL), con un sito di interesse regionale (SIR) e un complesso forestale parte del Patrimonio Agricolo Forestale Regionale. Un riconoscimento ad un ecosistema ricco, con almeno 60 specie di orchidee spontanee oltre a specie erbacee rare, a cui si aggiunge una fauna abbondante di specie varie tra anfibi, uccelli, mammiferi, rettili, tra cui la salamandrina dagli occhiali tipica di alcuni torrenti e l’ululone dal ventre giallo, anfibio che vive in piccoli stagni. Nel 1983 gli studi di biospeleologia dell’USC portarono alla scoperta a Monte Morello del carabide Duvalius bernii, mentre oggi, in collaborazione con il Museo di Storia Naturale La Specola di Firenze, continua il lavoro di monitoraggio, denominato ToscoBat, di chirotteri, in particolare orecchioni, barbastelli e rinofoli, presenti negli ambienti ipogei naturali, artificiali ed edifici abbandonati. Attiva anche la partecipazione al ‘Progetto Salamandra’ con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze e al progetto ‘Speleomantes italicus’ con il dipartimento di biologia animale e genetica di Firenze. La Calvana è stata popolata dall’uomo fin dal Paleolitico inferiore, anche se le tracce più consistenti sono successive, databili intorno al VI sec. a.C., e testimoniano l’insediamento dei Liguri, dediti prevalentemente all’agricoltura. Di notevole importanza il ritrovamento nel 1997 di un insediamento etrusco arcaico (575-450 a.C.) presso l’odierno abitato di Gonfienti, posizione all’epoca geograficamente strategica per i commerci. Durante le esplorazioni in esterno è facile imbattersi in un esteso reticolato di grandi mura a secco e terrazzamenti, la cui datazione e funzione sono a tutt’oggi sconosciute, ma attribuibili in parte ai Liguri ed in parte ai Romani. In epoca moderna la Calvana è nota per la battaglia di Valibona del 3 gennaio 1944, la prima della Resistenza in Toscana. Valibona è oggi luogo della memoria, celebrata dall’Ecomuseo Memoriale, fortemente voluto dall’amministrazione comunale al quale progetto l’USC sta in parte collaborando. La guerra ci ha lasciato in eredità alcuni rifugi antiaerei, due dei quali, quello di Travalle e quello di Carraia, inseriti nel catasto delle cavità artificiali, entrambi nel comune di Calenzano. Nel 1926 è stato costruito il cementificio Marchino sul versante pratese di Poggio Castiglioni. Il cementificio estraeva la marna, materia prima dalla quale era ricavato il cemento, attraverso un sistema di gallerie esteso per diversi chilometri, in parte minato dai tedeschi durante la guerra. Nel 1956 l’impianto venne definitivamente chiuso. Ad oggi gli edifici sono in stato di abbandono e degrado, tuttavia inseriti tra quelli di valore del comune di Prato in base alla L.R. 59/80. L’USC ha completato il rilievo di circa 2 km di gallerie e sta ultimando il rilievo delle restanti cavità del complesso minerario.
Analisi di facies epi-ipogea e carsismo dei depositi pleistocenici dell’area di Perolla, Massa Marittima Pietro Bartolini (G.S.Maremmano C.A.I.)
Il presente lavoro ha come oggetto lo studio delle facies dei carbonati continentale dei depositi terrigeni ad essi associati che vanno a formare delle placche calcaree nell’area di Perolla pochi chilometri ad est-sud est di Massa M.ma (Fig. 1). Grazie alla presenza di cavità naturali si è potuto analizzare e confrontare le facies carbonatiche e terrigene sia in ambiente epigeo che ipogeo. Il lavoro è mirato alla comprensione dell’evoluzione dei corpi carbonatici in riferimento alle eventuali variazioni di regime idrico. L’ambiente di formazione infatti è di tipo fluviale, con evidenti segni di alternanza tra il regime fluviale vero e proprio e quello palustre/ lacustre. Si analizzeranno inoltre i fattori che hanno portato alla formazione delle due placche carbonatiche principali e si darà un’interpretazione sull’evoluzione paleogeografica dal Pleistocene all’attuale. La trattazione dettagliata di tale studio è stata oggetto di tesi di laurea specialistica sostenuta presso la facoltà di Geologia dell’Università di Siena.
Nomenclatura dei depositi carbonatici: Calcareous tufa vs Travertini
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Nella cartografia geologica attuale le placche carbonatiche oggetto di studio
Fig. 1. Ubicazione geografica dell’area di studio.
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Fig. 2. Schema stratigrafico della zona di Perolla-Pianizzoli. Per completezza di informazione è stata riportata la posizione che hanno i Calcari e marne a Rhaetavicula contorta anche se non presenti nell’area di studio. Questi infatti affiorano in zone limitrofe e parte del detrito dei depositi di grotta è di questa natura. Le sigle riportate all’interno dello schema sono identificative delle varie formazioni riscontrate. In dettaglio si riferiscono: BUR-CCA alla Formazione anidtridica di Burano ed al Calcare cavernoso; RET ai Calcari e marne a Rhaetavicula contorta; APA alle Argille a palombini; Γ ai Gabbri; β ai Basalti; CRO ai Conglomerati rossi di Collacchia; APL alle Arenarie di Perolla; FAA alle Argille azzurre; GRL alle Sabbie argillose e ciottolami della Ghirlanda; CTp ai Calcareous tufa di Pianizzoli; CTl ai Calcareous tufa della Leccetella.
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Da un punto di vista geologico l’area si trova nel settore interno dell’Appennino Settentrionale catena orogenica a falde orientata in direzione NW-SE, la cui storia geologica manifesta un ciclo tettonico distensivo-compressivo iniziato alla base del Mesozoico (Vai & Martini, 2001). L’area di Perolla e Pianizzoli si trova nella parte meridionale delle Colline Metallifere in corrispondenza di una piccola depressione strutturale a formare un bacino che si sviluppa da nord-ovest verso sud-est. Per quanto riguarda la stratigrafia locale questa, dai dati di letteratura e da quelli di campagna, si può riassumere come da schema sottostante (Fig. 2) dove alla sommità, talvolta sormontati da alluvioni recenti, sono indicati
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Inquadramento geologico
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vengono indicate con il nome di “Travertini di Massa Marittima” (Costantini et al., 2002). Il termine “Travertino” nella letteratura italiana ha una molteplice valenza senza distinguere i carbonati associati a termalismo da quelli depositati in ambiente fluviale/palustre. In questo lavoro si fa riferimento ad una proposta di nomenclatura dove con il termine “Travertine” (Travertino) si indicano sedimenti carbonatici prodotti nelle vicinanze di sorgenti idrotermali e con fabric primario cristallino (Ford & Pedley, 1996; Riding, 2002; Capezzuoli & Gandin 2004) mentre, per quanto riguarda i carbonati continentali non termali, derivati cioè da acque sia di origine fluvio-palustri sia di sorgente carsica, si utilizza oggi principalmente il termine Calcareous tufa o Tufa (Pedley, 1990; Ford & Pedley, 1996; Capezzuoli & Gandin, 2004; Bartolini e Bernabini, 2010).
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Fig. 3. Carta Geologica di dettaglio della allegata alla tesi di Laurea Specialistica in Geologia di Pietro Bartolini. I cerchietti rossi pieni indicano le doline, la lettera greca Ω gli ingressi di alcune cavità e le T cerchiate di rosso le direzioni di flusso nei Calcareous tufa.
i depositi di tipo fluviale-lacustre che si sono imposti dal Pleistocene medio: da nord-ovest verso sud-est si incontrano le “Sabbie argillose e ciottolami della Ghirlanda” con a seguito depositi carbonatici continentali indicati nella letteratura come Travertini di Massa Marittima e qui rinominati “Calcareous tufa di Pianizzoli” e “Calcareous tufa della Leccetella” (Fig. 3). Fig. 4. La dolina di crollo sul fondo della quale si apre la Buca del Frate di Perolla, foto di F. Scotto.
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Fig. 5. Valle cieca con inghiottitoio sul Pian del Troscione, foto di F. Scotto.
Inquadramento geomorfologico
La morfologia dell’area di studio, oltre ad essere influenzata dalla deposizione di tipo fluviale, è fortemente influenzata da fenomeni di carsismo. Alla placca di Calcareous tufa di PianizzoliPian del Troscione, che ha un’estensione di poco superiore ai 2 km2, è associato un ampio sistema carsico le cui evidenze di superficie sono rappresentate principalmente da doline di vario tipo (Fig. 4), una piccola valle cieca con relativo inghiottitoio (Fig. 5), canyon e grotte carsiche. Questa placca ha una forma arcuata con la parte convessa in direzione sud-est verso la valle del Torrente Carsia ed alla sommità presenta una vasta superficie pianeggiante interrotta solamente dalle doline sopra citate. Il drenaggio superficiale attuale è rappresentato dal Fosso Gavosa, che incide parzialmente l’estremità occidentale delle due placche, e dal Torrente Carsia che delimita i corpi carbonatici ad est, entrambi tributari del fiume Bruna. Nella Buca del Frate di Perolla e nella Grotta Prato 2, questa posta a valle della prima (Fig. 6), si possono osservare piccoli corsi d’acqua che 50
Fig. 6. Posizionamento su base topografica delle piante della Buca del Frate di Perolla (o Grotta del Frate) e della Grotta Prato 2. A sud-est del podere di Pianizzoli sono collocati gli ingressi della Buca di Pianizzoli n. 1 e della Buca di Pianizzoli n. 2 semplicemente indicati con 1 e 2. (Agati & Negri, 2001 con modifica).
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costituiscono il principale drenaggio ipogeo. Queste acque ipogee vengono alla luce nella risorgenza della Prato 2, costituendo un tributario del Torrente Carsia. Anche il corpo carbonatico più piccolo della Leccetella ha una forma arcuata con convessità verso est con una superficie pianeggiante alla sommità ed è interessato da fenomeni di carsismo ma di entità minore. Tra le varie cavità naturali sono state prese in considerazione le quattro di dimensioni maggiori: Buca del Frate di Perolla, Buca di Pianizzoli n. 1, Buca di Pianizzoli n. 2 e Grotta Prato 2 (Fig. 6)
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Buca del Frate di Perolla La grotta si apre sul Pian del Troscione sul fondo di una grande dolina di crollo con uno sviluppo spaziale di 400 metri ed una profondità di 62 metri. Dopo un pozzo di circa 13 metri la grotta è caratterizzata nella parte iniziale da saloni e sale separate da stretti passaggi mentre nella seconda parte da una serie di gallerie più o meno riempite da sedimento terrigeno e vegetale alternate da piccoli ambienti più larghi. Sul fondo della grotta vi è un percorso d’acqua e due sifoni percorribili solamente da spelo sub, pochi metri oltre i quali la cavità chiude. Durante lunghi periodi di pioggia la cavità è percorsa da grandi quantità d’acqua che porta abbondante sedimento vegetale ed ostruisce i vari passaggi con sabbia e fango, per questo motivo a volte la grotta presenta zone con scarsa presenza di ossigeno ed abbondanza di anidride carbonica (Bartolini & Bernabini, 2010). Buca di Pianizzoli n. 1 La grotta, che si apre sul fondo di una piccola dolina di crollo nei pressi di Pianizzoli, ha uno sviluppo spaziale di 150 metri per una profondità di 42 metri dall’ingresso ed è caratterizzata da un primo andamento verticale mentre sul fondo è attraversata da un corso d’acqua perenne che fuoriesce da un cunicolo laterale e scompare dopo una quindicina i metri in una stretta condotta. Buca di Pianizzoli n. 2 La grotta, che si apre in una piccola dolina adiacente alla precedente con uno sviluppo spaziale di 80 metri per una profondità di 24 metri dall’ingresso. Anch’essa presenta una prima parte sub-verticale fino a raggiungere una sala di crollo sub-orizzontale sul fondo. Grotta Prato 2 Con i suoi 940 metri di sviluppo spaziale la Prato 2 è la grotta più grande della zona. Ha un andamento prevalentemente sub-orizzontale con un dislivello negativo di 2 m e positivo di 25 m rispetto all’ingresso. Questo è posto sulla parte frontale del corpo carbonatico di Panizzoli-Pian del Troscione ad est sud-est del podere di Pianizzoli. Quasi tutta la parte orizzontale della cavità è percorsa da un corso d’acqua che riemerge in superficie formando un tributario destro del Torrente Carsia. A circa due terzi della grotta vi è un sifone
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attraversabile nei periodi di magra senza bisogno di particolari attrezzature. Dopo un piccolo “sali-scendi” si incontra un passaggio basso percorribile solo nei periodi di magra. Superato questo punto, il percorso è in salita fino alla grande galleria di crollo finale lunga quasi 100 metri (Agati & Negri, 2001). Una prova con gli A.R.V.A. eseguita qualche anno fa da componenti di più gruppi speleologici toscani ha rilevato una distanza di alcune decine di metri dal fondo della Buca del Frate di Perolla.
Le facies Carbonatiche e Terrigene
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L’analisi sedimentologica ipogea effettuata all’interno della Buca del Frate ha permesso di dettagliare le caratteristiche dei Calcareous tufa di Pianizzoli che altrimenti non erano desumibili dagli affioramenti esterni per l’elevata alterazione. È stata così osservata una complessa interazione fra i depositi carbonatici e le facies detritico-terrigene che risultavano del tutto invisibili in affioramento epigeo. Data la differente modalità di deposizione, chimica per i Calcareous tufa e meccanica per i depositi clastici/terrigeni, si è ritenuto opportuno eseguire, in una prima analisi, uno studio ed una descrizione delle facies in maniera distinta per le due tipologie di sedimento. A tal fine è importante ricordare che il concetto di facies non si limita a considerare le caratteristiche litologiche ma prende in considerazione anche altri aspetti come le geometrie dei corpi, le strutture sedimentarie, l’eventuale contenuto fossilifero, ecc. La deposizione dei carbonati continentali è un processo complesso che dipende da varie condizioni: a) chimiche - per il contenuto di carbonato di calcio nelle acque in funzione della sua eventuale deposizione; b) climatiche - per gli apporti e le variazioni di energia di scorrimento delle acque che influenzano le geometrie e le strutture delle facies depositate e per la tipologia di vegetazione presente che può influenzare o meno la deposizione di carbonato di calcio e le strutture che ne derivano; c) tettoniche - per quanto riguarda i cambiamenti di regimi deposizionali; d) morfologiche - per il tipo di strutture che si vengono a formare in base al gradiente della pendenza, al tipo di ambiente se di canale, di intercanale, di cascata, palustre ecc. A causa della diversità dei depositi che ne derivano e la complessità, per lo studio delle facies carbonatiche si è scelto di seguire lo schema proposto da Arenas-Abad et al. 2010, che prende in considerazione la geometria dei singoli corpi, gli elementi presenti, le caratteristiche tessiturali ed il contenuto biologico identificabile (quest’ultimo relativamente al contenuto di clasti di origine vegetale incrostati), la dimensione, la posizione, ecc. Seguendo tale schema si riconoscono varie facies dalle diverse geometrie e strutture che indicano differenti modalità di deposizione che vanno da situazioni di maggiore apporto idrico a quelle dove si ha una diminuzione dello scorrimento fino al suo quasi esaurimento, da situazioni di normale scorrimento fluviale e di cascata a quelle di acque calme quasi ferme a causa di un ostacolo posto a valle, e così via.
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Ad esempio nella facies denominata Palisades and bushes of stems (Lst1) gli steli ed i gambi delle piante si trovano in posizione di crescita e vi si possono trovare intercalati livelli centimetrici di briofite (boundstone di muschi) o di rudstone di fitoclasti. Questo ad indicare un ambiente deposizionale tipo palustre o di scorrimento intercanale a bassa energia dove il carbonato di calcio ha potuto depositarsi sulle piante in crescita. Oppure Curtains of hanging stems (Lst2) dove la vegetazione incrostata forma strati o bioerme a prevalente sviluppo verticale con una geometria a tendaggio (Fig. 7) caratteristica di un ambiente deposizionale di cascata o di piccoli salti verticali delle acque. Per la descrizione delle facies terrigene e la comprensione del loro ambiente deposizionale, si è seguito il modello proposto da Miall (1996). Tra le varie facies in grotta si individuano ad esempio le Scour conglomeratiche a stratificazione incrociata (Gp) costituite da conglomerati, clastosostenuti e ben cerniti, che vanno a riempire scour erosive profonde al massimo 20 cm e larghe alcune decine i cui depositi sono interpretati come l’espressione sedimentaria di barre trasversali che colmano totalmente piccoli canali erosivi (Fig. 8). Di significato diverso è la facies denominata Depositi fini (Fl). I depositi di questa facies sono costituiti da sedimenti fini (silt e argilla) in strati poco spessi, dall’aspetto massivo o mostranti una laminazione generalmente poco evidente ad indicare una deposizione in un ambiente a scarsa energia dove il sedimento fine ha modo di decantare come il riempimento di piccoli
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Fig. 7. Disposizione a “tendaggio” della facies Lst2 costituita da rami incrostati di cui si riconoscono le geometrie tubiformi, foto di P. Bartolini .
Fig. 8. Conglomerati clastosostenuti ben cerniti con stratificazione incrociata planare e geometria lentiforme tipica delle Scour erosive, foto di E. Capezzuoli
canali abbandonati (Fig. 9). Lo studio di tutte le singole facies e le loro associazioni ha permesso di ricostruire due sucessioni sedimentarie: la “Successione della Buca del Frate” (Fig. 10) in grotta e la “Successione della SP 28” esterna (Fig. 11). Il log della Buca del Frate indica la presenza di alternanze di ambienti deposizionali dovuti a continue variazioni di apporto idrico. I momenti di scarso apporto idrico, quindi di bassa energia, sono caratterizzati da deposizione di facies carbonatiche mentre quelli con abbondante apporto di acque sono caratterizzati
Fig. 9. Deposito di canale abbandonato, foto di E. Capezzuoli.
Fig. 10. In basso, successione della Buca del Frate.
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da incisione del corpo carbonatico e deposizione di facies terrigene. La parte sommitale del log indica un trend generale di diminuzione di energia del sistema. Durante lo studio di questa successione è stato fatto anche uno studio statistico sulla natura dei clasti che compongono le facies conglomeratiche per capirne l’origine e si è visto che la maggior parte è riconducibile alle Formazioni Triassiche Toscane (Tab. 1) presenti nei dintorni di Niccioleta a nord-nord-ovest di Perolla (Fig. 12). Il log esterno invece, dove sono assenti superfici erosive e facies terrigene, indica un ambiente deposizionale con scarso apporto idrico e di bassa energia fino alla sommità dove il corso d’acqua è scomparso del tutto.
Fig.11. Successione SP 28.
Tabella 1.
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Rapporti tra il sistema
Fig. 12. Dalla carta allegata alle note illustrative della carta geologica d’Italia alla scala 1:50.000, foglio 306, Massa Marittima (2002) con modifiche. In rosso tratteggiato il percorso del paleofiume che ha dato origine alla placca carbonatica del Pian del TroscionePianizzoli.
carsico ed il corpo carbonatico di
Pianizzoli-
Pian del Troscione
Lo studio degli andamenti delle principali grotte è stato utile per una parziale ricostruzione del profilo di contatto tra il corpo carbonatico di Pianizzoli-Pian del Troscione ed il substrato pre-quaternario. Considerando che sul fondo della Grotta di Pianizzoli n. 1, della Buca del Frate di Perolla e della Grotta Prato 2 vi sono corsi d’acqua perenni si presume che si sia raggiunto il substrato della placca carbonatica costituito da rocce impermeabili non carsificabili appartenenti alla formazione delle Argille a palombini; queste sono evidenti per buona parte sul letto del corso d’acqua della Prato 2. Con i dati presi all'esterno si è potuto quindi tracciare una sezione geologica lungo la congiungente le cavità più lunghe stimando uno spessore massimo del corpo carbonatico di circa 100 m (vedi sezione geologica Fig. 13, pagina successiva).
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come i Calcareous tufa di Pianizzoli rappresentino il risultato della sedimentazione di depositi carbonatici e terrigeni-clastici avvenuta in ambiente fluviale con un trend generale di relativa diminuzione di energia. Nelle sue ultime fasi deposizionali, questa placca rappresentava una struttura di barrage, che bloccava ortogonalmente una paleovalle con direzione circa nord-ovest/sud-est. La parte centrale del corpo carbonatico, ove si ha lo spessore massimo dei Calcareous tufa e la presenza nel sottosuolo di facies terrigne-clastiche ad essi intercalati, indicherebbe la posizione del fondo della paleovalle e quindi la direzione che aveva il corso fluviale. Inoltre non si riscontrano evidenze di facies
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1) L’analisi delle facies e lo studio delle due successioni ha evidenziato
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Evoluzione paleogeografca dal Pleistocene Medio all’attuale
Fig. 13. Sezione geologia allegata alla tesi di Laurea Specialistica in Geologia di P. Bartolini.
terrigene nelle altre cavità di Pianizzoli.
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2) Il fatto che questa costruzione non sia stata incisa o ulteriormente
rielaborata, indica che il fiume, da un certo momento in poi, non è più presente in questa zona. 3) La paleovalle ostruita dal barrage si sviluppa in direzione nord-ovest fino al Piano della Ghirlanda ed è delimitata dai rilievi di Poggio al Montone e della Costa Ferraglia. Essa è colmata da sedimenti di tipo terrigeno-clastico rappresentati dalle Sabbie argillose e ciottolami della Ghirlanda, riferibili al Peisocene medio (Costantini et. al, 20002), che costituiscono i depositi fluviali alluvionali del paleocorso d’acqua e, visti i rapporti di etoropicità con il barrage, forniscono un’età dei Calcareous tufa di Pianizzoli. 4) Le Sabbie argillose e ciottolami della Ghirlanda sono incisi e tagliati nell’area di podere Bellavista, dall’attuale Torrente Zanca che proviene da settentrione dalle zone a nord-est di Niccioleta e prosegue verso sud tra Poggio Bonattino e Poggio al Montone. 5) Gran parte dei clasti appartenenti alle Formazioni Triassiche della Falda Toscana, tra cui molti del Retico e rinvenuti nelle porzioni basali della successione di Buca del Frate, provengono dalle stesse aree da cui ha origine il Torrente Zanca. Ne consegue che il barrage di Pianizzoli-Pian del Troscione si è depositato probabilmente durante il Pleistocene medio lungo un corso d’acqua proveniente dalle aree a nord-est di Niccioleta e che, immediatamente subito dopo la deposizione del corpo carbonatico, questo fiume è stato catturato dall’attuale torrente Zanca. Il barrage si è disattivato ed i restanti tributari che apportavano le acque verso la struttura non hanno avuto una sufficiente energia per poterla erodere. Essi hanno invece, probabilmente, contribuito alla speleogenesi delle principali grotte che si aprono sul Pian del Troscione, dando origine ad un sistema idrogeologico carsico che ha determinato la deposizione dei corpi di Calcareous tufa della Leccetella nella parte frontale del corpo di barrage. L’attuale esempio di questo meccanismo è rappresentato alla risorgenza della Grotta Prato 2 dal riaffioramento delle acque ricche in carbonato di calcio che viene depositato a formare dei piccoli barrage
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Fig. 14. Calcareous tufa di recente formazione a creare dei piccoli barrage al corso d’acqua, foto di P. Bartolini.
(Fig. 14,). Una parte dei tributari invece, è stata successivamente catturata dall’attuale Fosso Gavosa che incide marginalmente la placca di PianizzoliPian del Troscione nel suo settore occidentale. Sempre il Fosso Gavosa ha depositato, ad una quota più bassa, la struttura carbonatica della Leccetella presso il Castello di Perolla (Calcareous tufa della Leccetella), la cui parte occidentale risulta attualmente incisa dello stesso corso d’acqua.
Ringraziamenti Prof. Fabio Sandrelli, Dr. Enrico Capezzuoli, Dr. Ivan Martini (Università di Siena), Dr. Maurizio Negri (GSMM, USP), la Commissione Catasto della FST, il GSM CAI e tutti gli speleo che si mi hanno accompagnato e che si sono dovuti “sorbire” tutte le mie elucubrazioni fatte in grotta e fuori. BIBILIOGRAFIA Agati M. & Negri M. (2001) La Grotta Prato 2 di Massa Marittima (GR). Atti del VII Congresso della Federazione Speleologica Toscana Talp, 23, 167-172. Arenas-Abad C., Vsquez-Urbez M., Pardo-Tirapu G. & Sanch-Marcén C. (2010) Fluvial and associated cabonate deposit. Developments in Sedimentology, 61, 133-175. Bartolini P. & Bernabini G. (2010) La Buca del Frate di Perolla una grotta “mozzafiato”. Talp, 40, 29-43.
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Riding R. (2002) Structure and composition of organic reefs and carbonate mud mounds: cocept and categories. Earth-Science Reviews, 58, 163-231.
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Costantini A., A. Lazzarotto, D. Liotta, R. Mazzanti, R. Mazzei & G.F. Salvatorini (2002) Note illustrative della carta geologica d’Italia alla scala 1:50.000: Foglio 306 Massa Marittima. Servizio Geologico d’Italia, Organo cartografico dello stato.
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Capezzuoli E. Gandin A. (2004) I “ Travertini” in Italia: proposta di una nuova nomenclatura basata sui caratteri genetici. Il Quaternario, Italian Jurnal of Quaternary Sciences, 17(2/1) 273-284.
Dal 2001 ad oggi nell'Alta valle dell'Acqua Bianca Gruppo Speleologico Fiorentino CAI
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Inquadramento dell'area carsica L’Alta Valle dell'Acqua Bianca impropriamente nota col nome di Carcaraia è un’area carsica della catena montuosa delle Alpi Apuane, ormai bene nota agli addetti ai lavori. Siamo nel settore centro settentrionale delle Apuane e più esattamente sul lato interno rispetto allo spartiacque principale della catena, che si sviluppa lungo l’asse sud-est nord-ovest. La valle è delimitata dai monti Tombaccia, Roccandagia, Tambura, Cavallo e Pisanino, alcuni dei più alti ed imponenti monti delle Alpi Apuane; in un contesto così maestoso la presenza delle cave è particolarmente stridente. Nell’area affiorano prevalentemente marmi, marmi dolomitici, grezzoni ma anche calcare selcifero e diaspri sotto a tutto un basamento antichissimo di filladi, che non affiorano mai tranne che al fondo del Roversi. Dal 2001 ad oggi l’attività del GSF CAI ha subito una contrazione rispetto al notevole attivismo degli anni precedenti (1993-2001), ciononostante molte e importanti sono state le scoperte e le esplorazioni che nel corso di questi 13 anni si sono succedute. Finalità di questo scritto è quella di riunire le notizie salienti per dare un quadro d’insieme seppur conciso. In ordine cronologico dal 2001 sono continuate le esplorazioni all’Abisso Mani Pulite (T/LU 1159) con l’esplorazione di numerosi rami e di piani freatici articolati, non tralasciando di effettuare anche alcune immersioni subacquee, e raggiungendo uno sviluppo complessivo di oltre 10 km. Citiamo in particolare: il Ramo Senza Imbraco nel 2002, i Saloni sovrastanti il Campo nel 2003, e il tentativo di superamento del sifone a monte lungo il collettore principale di -700 m, prima con un’immersione e poi con risalite. Le energie maggiori sono state dedicate all’esplorazione di molti rami che confluiscono nella galleria del campo base a -700 m. È questa la quota a maggior concentrazione di condotte freatiche di tutta la grotta, cioè intorno ai 740 m s.l.m. Tra i rami più interessanti senza dubbio vi è il Ramo Senza Imbraco, per via di un significativo sviluppo planimetrico e della corrente d’aria particolarmente intensa. Su questo ramo rimangono da vedere molte cose. Sempre intorno al campo sono stati poi trovati due imponenti saloni, nei quali è stata intrapresa una serie di risalite, tuttora in corso. Lungo la galleria del campo, ma in direzione opposta rispetto al campo stesso, c’è un sifone di particolare interesse, perché genera un copioso torrente e si situa ben sopra alla quota di falda (circa 400 m s.l.m.). Si è tentato il suo
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superamento prima con un’immersione, durante la quale il tratto subacqueo è stato percorso circa 100 m senza riemergere. Risalite successive hanno consentito di by-passarlo solo per un breve tratto, con rami discendenti che si riaffacciano sul sifone. Nel 2001 il riarmo dell’Abisso Roversi (T/LU 705) era finalizzato a rivisitare il fondo raggiunto nel ’94. Invece ci siamo poi dirottati, seguendo l’importante flusso d’aria che dalla testa del P. Mandini (310 m), a una profondità di -450 m, risaliva su per un ramo ascendente. Tale esplorazione si è protratta per oltre due anni e ha consentito di risalire, su questo ramo a tratti molto articolato, per un dislivello positivo di oltre 550 m. In tal modo l’Abisso Roversi, già grotta più profonda d’Italia, ha visto incrementare di almeno 100 m il dislivello complessivo rilevato, che diventa ca. 1350 (-1250 m +100 m). Diretta conseguenza delle risalite all’Abisso Roversi, fu la campagna di ricerca esterna per cercare di reperire un ingresso che facesse capo a questi rami. La più interessante grotta reperita si trova sulla cresta che collega il passo della Focolaccia alla vetta del Monte Tambura, accatastata come Buca M2 ma al GSF detta la Giallona. Dopo qualche uscita di disostruzione è stato possibile scendere fin quasi a -150, addirittura più in basso di quanto non fosse il culmine delle risalite al Roversi, purtroppo senza individuare un collegamento fra le due grotte. Tra le nuove grotte accatastate, particolare interesse ha anche l’Abisso Capovaro (T/LU 1590) (287 m), ingresso meteo basso ubicato nel canale Rondegno e contraddistinto da imponenti flussi d’aria. La grotta è stata disostruita nel 2002 anche in potenziale relazione con il Ramo Senza Imbraco dell’A. Mani Pulite, e ad oggi termina sul fondo in uno strettissimo meandro. Continuando nel lavoro di rivisitazione di grotte già esplorate che ha contraddistinto il ventennio precedente, nell’estate 2003 il GSF CAI con un breve lavoro di disostruzione trova una prosecuzione nell'Abisso Perestroika (T/LU 1049), grotta scoperta ed esplorata fino a -200 m dal Gruppo Speleologico Garfagnana e dal Gruppo Speleologico Lucchese. Nella successiva estate 2004 vengono esplorate due diramazioni che superano la profondità di -1100 m. In realtà la grotta è tuttora in fase di esplorazione e nel campo estivo 2014 è stato trovato un promettente ramo in risalita alla profondità di -650 m. Inoltre nel 2009 fu effettuata una prova di tracciamento dell'acqua che ha dato esito positivo come sorgente di recapito a Equi Terme. Nel 2007, con un lavoro congiunto di GSAL, SPG, e altri gruppi, è stato possibile effettuare un’immersione subacquea a -900 in un sifone non alimentato che sbarra l’avanzata lungo imponenti gallerie freatiche (30 m di sviluppo, profondità massima -8 m). Oltre il sifone l’esplorazione è continuata per circa 400 m di sviluppo e un dislivello positivo di oltre 80 m. Nell’occasione è stato realizzato anche un reportage fotografico da Gianni Dellavalle, con foto di alta qualità. Le potenzialità esplorative sono ancora notevoli in vari settori della grotta, basti dire che su uno dei due rami profondi ancora non è stato raggiunto il sifone di falda, e la via è ancora percorribile.
Con il 2010 l’interesse ritorna ad essere rivolto all’Abisso Saragato (T/ LU 350). Sulla scia della colorazione effettuata al vicino Abisso Chimera (T/LU 1775), positiva al Frigido, fu deciso, in collaborazione con la FST, di verificare la sorgente di recapito dell’unico ramo del Saragato non ancora tracciato, il Ramo sud-est. Tale ramo, uno dei primi ad essere esplorato nel 1993, ha richiesto un nuovo ed impegnativo riarmo, effettuato insieme ad altri gruppi speleologici, come USP e SPG. La successiva colorazione ha confermato la positività di quel ramo alla sorgente del Frigido presso Forno; il resto del complesso Abisso Saragato - Aria Ghiaccia (T/LU 1027) - Abisso Gigi Squisio (T/LU 1628) fa capo alla sorgente di Equi. A questo punto era interessante vedere quanto era possibile avvicinarsi verso l’Abisso Chimera, e, a colpo sicuro, memori degli importanti flussi d’aria nella galleria freatica sovrastante il sifone terminale, sono state intraprese nuove risalite. Non c’è voluto molto a capire che eravamo nel posto giusto, perché dopo essersi alzati lungo un pozzo gradonato per circa 80 m, la grotta iniziava a biforcarsi in più diramazioni. L’asse principale è stato seguito risalendo un dislivello di oltre 400 m, lungo il quale si incontrano numerose altre diramazioni; tra queste si diparte, circa a metà, un ramo discendente che riporta nuovamente sulla falda (-1010 m). Cercando di trovare una via più rapida per le zone di cui sopra, stiamo riguardando, sempre sul Ramo sud-est, il Pozzo Plexiglass (340 m) e un ramo che si diparte dalla Sala di Filippo, il ramo Ti Piace Così.
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Il carsismo di tipo “ghost-rock weathering” nelle grotte della Montagnola senese Ivan Martini (Commissione Speleologica “I Cavernicoli” C.A.I. sezione di Siena)
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n.d.r. In assenza dell’articolo completo viene qui riportato l’abstract. La Montagnola Senese è una vasta area carsica situata ad ovest di Siena costituita prevalentemente da rocce carsificabili (Castagnini et al., 2010) dominate in abbondanza dal Calcare Cavernoso (formazione non metamorfica composta da calcari brecciati dolomitici) e dalla Formazione dei Marmi della Montagnola Senese (formazione metamorfica). Alcune grotte della Montagnola Senese testimoniano un processo speleogenetico descritto solo in tempi recenti, conosciuto come “ghost-rock weathering” o “phantomisation”. Questo processo può interessare solamente calcari impuri (o altre rocce poco solubili) e può essere così brevemente descritto: - In una fase iniziale l’ammasso roccioso è “attaccato” da acque profonde che ne dissolvono la frazione carbonatica. Tuttavia la roccia originaria non viene completamente dissolta e i materiali meno solubili (e.g. clasti, minerali poco solubili, frammenti litici, etc.) restano in posto, andando a formare un “fantasma” della roccia precedente. Il nuovo ammasso roccioso ha proprietà meccaniche inferiori alla roccia “sana” e spesso si presenta come un ammasso più o meno incoerente; - In una seconda fase, vadosa, le acque guidate dalla gravità esercitano la loro azione meccanica su questi ammassi incoerenti, erodendo i “fantasmi di roccia” e generando un sedimento che può essere trasportato al di fuori dal sistema carsico. Seppur parte della roccia madre era stata precedentemente disciolta ad opera dei classici processi di dissoluzione, è in questa fase che l’allontanamento e la rimozione del materiale incoerente genera lo spazio speleogenetico che costituisce il risultato finale dell’evoluzione del sistema carsico. Tre cavità naturali della Montagnola Senese documentano le varie fasi evolutive di questo processo speleogenetico, consentendo di creare un modello di riferimento per i modelli speleogenetici di tipo “ghost-rock weathering”. In dettaglio, la Buca del Borro del Castagneto documenta lo stadio incipiente del processo di dissoluzione incompleta. Il Calcare Cavernoso che costituisce le pareti della cavità appare come una roccia vacuolare con una struttura a cellette che ricorda un alveare. Ogni celletta ha dimensioni che variano da 0.5 a 3 cm e ha delle pareti costituite da roccia carbonatica compatta, mentre l’interno della celletta è riempito da un materiale pulverulento grigio noto come “cenerone”. Questa polvere è costituita quasi interamente da dolomia (Martini, 2011), un minerale molto meno solubile della calcite e che risulta essere,
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in questo caso, il residuo insolubile derivante dalla dissoluzione incompleta della roccia che rimane in situ. La Buca di Mugnano (una delle grotte più estese della Montagnola Senese) è caratterizzata da potenti spessori di sedimenti dolomitici (cenerone) che spesso mascherano la roccia in posto. Questa grotta documenta la fase intermedia del processo, quando cioè il calcare impuro è stato già ampiamente dissolto lasciando sedimenti come residui insolubili. Infine, nella grotta “Buca della Nebbia”, le pareti della cavità sono costituite da Calcare Cavernoso “fresco” o poco alterato, mentre i sedimenti residuali sono presenti solo in tasche molto localizzate all’interno della grotta. Questa grotta documenta la fase finale del processo speleogenetico, quando le acque hanno ormai allontanato ed eroso la maggior parte del materiale incoerente residuale, che quindi può essere riconosciuto solo localmente.
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Il sistema minerario della Valle in Lungo, San Vincenzo, Livorno Giovanna Cascone e Luca Tinagli (Gruppo Speleologico Archeologico Livornese)
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Premessa Il sistema minerario della Valle in Lungo, ovvero Valle Lunga alla Gherardesca, nel Comune di San Vincenzo (LI) comprende sia ambienti sotterranei sia emergenze superficiali, che concorrono a sviluppare un articolato paesaggio minerario, testimone di un’imponente attività estrattiva protrattasi dal periodo etrusco sino al periodo rinascimentale. Quest’area occupa la porzione settentrionale del più ampio bacino minerario dei Monti di Campiglia Marittima, sfruttato sicuramente dal periodo etrusco, ma probabilmente anche in periodo precedente, per l’estrazione e la lavorazione del rame e del piombo argentifero (Fedeli, 1983; Fedeli, 1994, 1995; Casini, 1993; Fedeli et al., 1993; Fedeli, 1997). La Valle in Lungo sino alla fine del secolo scorso presentava, per tutto il suo sviluppo, un ambiente selvaggio e scarsamente frequentato, così da configurarsi come un’area tra le più interessanti e meglio conservate anche per lo studio dei sistemi minerari antichi (Cascone & Casini, 1999). Nell’ultimo decennio, invece, questa zona è stata interessata dal progetto di espansione dell’area di coltivazione della Cava San Carlo Solvay s.p.a., le cui lavorazioni hanno già intercettato il fondo valle e buona parte dei suoi versanti con una previsione finale delle quote di coltivazione che va a lambire alcune delle antiche discariche minerarie presenti e ad interessare due cavità minerarie. Ritenendo che le ricerche e gli studi da noi condotti possano concorrere allo sviluppo culturale ed economico di questo territorio, ci siamo impegnati a dare la massima diffusione e risonanza a quanto da noi scoperto, esplorato, e tutt’ora in fase di studio, cosicché anche gli indirizzi della pianificazione territoriale di questo Comune e di quelli limitrofi non possano più prescindere dalla presenza di queste emergenze naturalistiche, storiche ed archeologiche.
Inquadramento Marittima
geografico dei
Monti
di
Campiglia
Siamo nell’area carsica e mineraria dei Monti di Campiglia Marittima, in provincia di Livorno (Fig. 1), area caratterizzata da fenomeni carsici superficiali e profondi, e da paesaggi minerari e di cava che la caratterizzano in modo significativo. La Valle in Lungo costituisce l’impluvio che dal crinale di Monte Calvi, massima elevazione di questi rilievi con i suoi 646 m s.l.m., confluisce in direzione nordorientale nella Valle delle Rozze
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Fig. 1. Inquadramento geografico.
ovvero Valle dell’Acquaviva, che raccorda Monte Coronato al mare in corrispondenza dell’abitato di San Vincenzo (Fig. 2). Entrambe queste vallate ospitano corsi d’acqua ad esclusivo regime torrentizio: infatti per la maggior parte dell’anno le precipitazioni vengono assorbite in modo diffuso dalle rocce carbonatiche che affiorano lungo questi versanti vallivi (Cascone, 1993). La Valle in Lungo presenta una diffusa copertura vegetale con un bosco che testimonia del suo trascorso ed intenso sfruttamento, contrariamente al suo attuale stato di abbandono. Ed è proprio l’osservazione in panoramica di questa copertura boschiva che ha messo in luce la presenza di numerose radure lungo il versante destro di questa vallata, a quote comprese tra i 400 ed i 540 m, identificabili con antiche discariche minerarie corrispondenti ad altrettanti ingressi di miniere di periodo preindustriale (Cascone & Casini, 1999; Cascone & Casini, 2001).
Inquadramento geologico, geomorfologico e minerario dei Monti di Campiglia Marittima 50
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L’area è caratterizzata da un horst principale, orientato N-S, formato dal “Calcare Massiccio” e, marginalmente, dalle formazioni carbonatiche geometricamente superiori della Falda Toscana (Costantini et al., 1993).
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Fig. 2. Ubicazione dell’area di ricerca da Google Earth.
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Tale struttura si è formata in seguito alla principale fase tettonica dell’area, quella Neogenica-Quaternaria, relativa all’orogenesi appenninica (Decandia et al., 2001). L’horst di Campiglia, è delimitato occidentalmente da faglie trascorrenti destre N-S e ad oriente da faglie NO-SE (Acocella et al., 2000 e referenze citate), faglie che delimitano i carbonati mesozoici dalla “Scaglia Toscana” e dalle torbiditi di avanfossa (“Macigno” e Unità di Canetolo) a nord, sud ed est e le liguridi ad ovest (Acocella et al., 2000). L’area dopo essere stata interessata e caratterizzata strutturalmente dall’orogenesi appenninica (Costantini et al., 1993) ha poi subito fenomeni magmatico-idrotermali e carsici di età neogenica-quaternaria (Cascone, 2000; Dini et al., 2013a; Da Mommio et al., 2010). La prima manifestazione magmatica è riferibile all’intrusione del monzogranito di Botro ai Marmi di 5,7 Ma (Serri et al., 1993), successivamente si ha la messa in posto di corpi vulcanici e subvulcanici (Costantini et al., 1993; Poli et al., 2003 e Serri et al., 1993). Tali eventi rientrano nel sistema magmatico-idrotermale a cui sono legate le mineralizzazioni e gli skarn presenti (Da Mommio et al., 2010 e Dini et al., 2013a). Gli skarn sono rocce a grana grossa costituiti da minerali silicatici, a Ca-Mg-Fe-Mn, spesso associati a solfuri, ossidi ed elementi nativi come Fe, Au, Cu, Zn, W, Mo e Sn (Einaudi et al., 1981 e Meinert et al., 2005).
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Fig. 3. Rilievo del Complesso di Burian Fohn.
L
Fig. 4. Rilievo della Buca degli Spagnoli.
a
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mineralizzazione principale del Campigliese è uno skarn a Fe-Cu-Pb-Zn(-Ag) nella zona Temperino-Lanzi (Dini et al., 2013a), mentre quelle più marginali (es. Valle in Lungo), sono essenzialmente quarzo con solfuri di Pb-Fe legate solo spazialmente allo skarn (Tinagli, 2014, Tesi di Laurea inedita). Un terzo tipo di mineralizzazione, a ossidi-idrossidi di Fe e mineralizzazioni a Sn-W-As, probabilmente legato all’intrusione di Botro ai Marmi (Dini et al., 2013b), si situa all’estremo sud dell’horst nelle località di Monte Valerio, Santa Caterina, Pozzatello e Campo alle Buche. La mineralizzazione è stata sfruttata fin da epoche pre-industriali per il ferro e forse anche per lo stagno con le “Cento Camerelle” etrusche a Monte Valerio. Le ricerche del XIX secolo e la scoperta della cassiterite da parte dell’Ing. Blanchard, hanno poi dato vita ad un’intensa ripresa dell’attività mineraria dal periodo autarchico sino al 1948 (Cascone & Casini, 2001 e Dini et al., 2013b). Il carsismo è molto sviluppato, interessando tutte le formazioni del Dominio Toscano non metamorfico che vanno dal “Calcare Massiccio” alla “Scaglia Toscana”: in superficie le morfologie vanno dalle microforme alle doline di crollo (Cascone, 2000; Tinagli & Cascone, 2013), in sotterraneo le cavità risultano di varia grandezza, da piccoli pozzi a grotte che superano la profondità di 200 m come il “Pozzo la Ragnaia” e “La Bucaccia”. Lo sviluppo è principalmente verticale e controllato geometricamente dalla combinazione delle giaciture sedimentarie e deformative dei carbonati, quest’ultime con
direzioni prevalenti NS, N 050-070 e NNO-SSE, da subverticali a verticali con immersioni sia verso E sia verso W (Cascone, 2000). Gli ipogei molto spesso sono legati spazialmente agli skarn e alle mineralizzazioni, numerose sono infatti le testimonianze di estrazione in cavità naturali profondamente o totalmente antropizzate, oppure di siti minerari che intercettano ambienti carsici, entrambe queste combinazioni sono state definite grotte-miniera ed anch’esse evidenziano nelle loro morfologie, prevalentemente verticali, il controllo esercitato dall’assetto geologico (Cascone 1991; Cascone, 1993).
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Inquadramento archeominerario dei Monti di Campiglia Marittima Nell’area carsica e mineraria dei Monti di Campiglia Marittima il Gruppo Speleologico Archeologico Livornese (GSAL) ha concentrato da circa 30 anni le proprie prospezioni di superficie ed esplorazioni del sottosuolo, prendendo spunto da un progetto di ricerca per la comprensione della dinamica del popolamento intrapreso dal Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università degli Studi di Siena, in collaborazione con i Dipartimenti di Archeologia europei, in particolare spagnoli (Cascone, 1991; Cascone e Casini, 1999). Questi studi hanno messo in luce la presenza di circa 200 ingressi di miniere di età pre-industriale delle quali una cinquantina sono state esplorate e rilevate. Le morfologie e gli sviluppi spaziali di questi ipogei rispecchiano l’andamento delle grotte naturali, sviluppandosi secondo un susseguirsi di vani verticali e solo in minor misura di gallerie e di sale-cantiere. Sin dall’inizio del progetto, oltre alla documentazione delle antiche tecniche di abbattimento ed estrazione del minerale ed alla comprensione dell’organizzazione del lavoro, l’intento ambizioso è stato quello di correlare,
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Fig. 5. Rilievo della Buca del Confine.
Fig. 6. Rilievo della Buca dei Topi.
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nei diversi periodi di attività, i siti estrattivi con i sistemi insediativi e di produzione, come è avvenuto per il villaggio minerario di Rocca San Silvestro, castello medievale a forte impronta signorile e feudale nato per lo sfruttamento dei minerali di rame, piombo e argento, per la produzione dei cosiddetti metalli monetabili finalizzati al conio delle monete (Francovich, 1991; Casini & Francovich, 1992; Francovich & Whickham, 1994). I filoni metalliferi e le attività estrattive infatti, sono stati la risorsa principale e la base economica del popolamento dei Monti di Campiglia Maritttima (Cascone & Casini 1997c), tant’è che è stato possibile individuare quattro principali periodi di intensa attività mineraria, alternati ad altrettanti fasi di apparente mancanza di interesse per la ricerca dei metalli. Detti periodi possono essere così brevemente identificati: bronzo finale (XII-X sec. a.C.), periodo etrusco-romano (VII-I sec. a.C.), periodo medievale (X-XIV secolo); periodo mediceo (XVI secolo), periodo contemporaneo (XIX-XX secolo) (Casini, 1993; Cascone & Casini, 1997b). Allo stato attuale non disponiamo di un contesto cronologico attendibile per tutte le coltivazioni antiche e medievali sinora individuate, né è possibile capire quale peso abbia avuto nelle attività minerarie il periodo precedente a quello etrusco, dato l’identico sistema di lavorazione adottato e da noi riscontrato per un così lungo tempo (Cascone & Casini 1997a, Cascone & Casini 1997c). L’evidenza principale infatti è che dall’età più antica a quella medievale le tecniche di estrazione si siano mantenute più o meno inalterate; la coltivazione era a seguire il filone minerario, e gli attrezzi consistevano in punteruoli e mazzette, e picco da miniera (Casini, 1993; Cascone & Casini, 1997a). Solo nel XVI secolo, con l’importazione di maestranze straniere, il metodo di coltivazione e soprattutto di organizzazione del lavoro cambia in maniera evidente essendo condotto in maniera più sistematica, producendo l’aumento delle dimensioni dei vuoti ed affrontando anche lo scavo all’interno della roccia incassante: si delinea così la possibilità di discernere le fasi di sfruttamento ove i cantieri di coltivazione antichi e medievali sono ripresi, ampliati ed in parte tagliati dagli interventi del XVI secolo (Cascone & Casini, 1997b; Cascone & Casini 1997c).
L’area di ricerca della Valle in
Fig. 7. Rilievo della Buca grande dei Topi.
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lungo
Quest’area era già stata visitata e parzialmente esplorata dal Gruppo Speleologico Maremmano negli anni ’70 del secolo scorso; successivamente, negli anni compresi tra il 1991 ed il 1998, è stata rivisitata dal nostro Gruppo. Le prime prospezioni, compiute insieme a studenti di archeologia spagnoli, avevano evidenziato quattro dei sette ingressi di miniere ad oggi conosciute, ed avevano concentrato la nostra attenzione su ampie porzioni di versante ricoperte da antiche discariche minerarie. Nel biennio 2013-2014, il GSAL ha sistematicamente rivisitato il versante nord della Valle in Lungo, scoprendo altre due nuove miniere (“Miniera del Vallin Lungo” e “Buca Grande dei Topi”) e terminando l’esplorazione di quelle già conosciute, aggiornandone i rilievi e la documentazione fotografica. Infine sono anche in corso riprese video sia esterne che interne in collaborazione con il Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Livorno. Le grotte miniera documentate ed accatastate al catasto grotte della Regione Toscana sono: T/LI 2010 Buca di Burian (Fig. 3) T/LI 2011 Buca di Fohn (Fig. 3) T/LI 2012 Buca degli Spagnoli1 (Fig. 4) T/LI 2013 Buca del Confine (Fig. 5) T/LI 2014 Buca dei Topi (Fig. 6) T/LI 2015 Buca Grande dei Topi (Fig. 7) Al catasto cavità artificiali: T/LI 124 Miniera del Vallin Lungo (Fig. 8) La “Buca degli Spagnoli” era stata sommariamente descritta nel suo sviluppo superficiale nell’ambito del “Censimento delle ultime testimonianze archeologiche alle cave Solvay di San Carlo nel 1977” e dello studio “Colline Metallifere, Inventario del patrimonio minerario e mineralogico” realizzato dalla Regione Toscana - Dipartimento 1
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Fig. 8. Rilievo della Miniera del Vallinlungo.
Ambiente nel 1995, ove era citata come Buca del Colombo, ma mancava qualsiasi tipo di documentazione.
Aspetti geologici, geomorfologici e minerari
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Risalendo la vallata, da q. 250 m s.l.m., numerosi sono gli affioramenti di “Calcare Massiccio” modellati dalle acque meteoriche a formare morfologie carsiche a blocchi e a strati sulle cui superfici spesso spiccano microforme quali i fori di dissoluzione. Dalla quota di 350 - 400 m iniziano inoltre ad esser presenti lungo il sentiero clasti decimetrici di idrossidi di ferro e di skarn e, in versante sinistro, taluni blocchi decimetrici spigolosi di una breccia costituita da clasti subarrotondati di calcare bianco-rosato in matrice pelitica rossa. Le grotte-miniera e miniere dell’area, ubicate tra le quote di 280 m e 540 m s.l.m. (Fig. 9), si sviluppano tutte all’interno del “Calcare Massiccio” (Fig. 10) che si presenta metamorfosato a grado variabile anche alla scala metrica. A questa formazione si sovrappone, in discordanza angolare, una breccia-conglomerato recente, non riportata nella cartografia ufficiale, con giacitura congruente alla paleo morfologia dei versanti. Si tratta di una breccia prevalentemente monogenica, con clasti composti per oltre il 90% da Calcare Massiccio ed a granulometria e percentuale di matrice molto variabile verticalmente e, a scala maggiore, arealmente. I clasti, da spigolosi a subarrotondati, risultano infatti eterometrici, da centimetrici a pluridecimetrici. Questa formazione si ritrova anche in corrispondenza di alcuni degli ingressi delle grotte miniera ed all’interno di qualcuna di esse: in questi casi al suo interno si rinvengono anche clasti di skarn ed idrossidi di ferro. Insieme
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Fig. 9. Ubicazione degli ingressi da Google Earth.
al “Massiccio” ed alle “Brecce di versante” si trovano affioramenti di skarn con estensioni da poche decine fino ad un centinaio di metri. I corpi di skarn si ritrovano incassati nei carbonati in sistemi multipli di vene ad alto angolo e di spessore da pluridecimetrico a metrico. Tali skarn, come già riconosciuto per altre zone (“Buca Grande di Montorsi”, “Buche al Ferro”) (Tinagli, Tesi di Laurea inedita 2014) si presentano intensamente o completamente alterati in ossidi e idrossidi di ferro e composti quasi esclusivamente da hedenbergite (Fig. 11, pag. successiva), in quantità minori sono poi presenti quarzo, spesso in geode, ilvaite e sfalerite. Fa eccezione la “Miniera del Vallin Lungo” nella quale affiora uno skarn quasi esclusivamente composto da sfalerite massiva, in cristalli millimetrici dal tipico color giallo-bruno. Allo skarn si associano spazialmente le mineralizzazioni a quarzo e solfuri di Pb-Fe riscontrate solo in alcune cavità. Tale mineralizzazione presenta quarzo per lo più massivo, di grandezza variabile dal millimetrico al pluricentimetrico, e solfuri presenti in piccoli percentuali, e in stato di alterazione (anche completa lasciando solamente l’impronta negativa di forma cubica). Gli affioramenti più estesi e voluminosi si trovano nel “Complesso minerario di Burian-Fohn”, dove assumono, in prossimità del vuoto di coltivazione centrale, inclinazioni di circa 70°. L’aspetto carsico di queste grotteminiera ben si scorge agli ingressi, ove evidenti sono le morfologie verticali impostatesi su rotture di pendio, in corrispondenza dell’intersezione di sistemi di fratturazione, ed al contatto con la mineralizzazione che è divenuta l’oggetto dello scavo (Fig.12, pag. successiva). Ad esempio la “Buca degli Spagnoli” presenta un ampio ingresso a scivolo con la parete verticale a monte che si sviluppa per una decina di metri tra skarn e/o le mineralizzazioni, ed il calcare che espone superfici naturali (Fig. 13, pag. successiva). La “Buca Grande dei Topi” ha invece il pozzo sviluppato in artificiale nella parte orientata a valle mentre in quella di monte si notano gli spessi strati del “Calcare Massiccio” a giacitura suborizzontale ed evidenti morfologie carsiche.
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Fig. 10. Carta geologica della Regione Toscana scala 1:10000.
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Fig. 11. Buca degli Spagnoli, skarn hedembergitico alterato, foto di L. Tinagli.
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Da sottolineare, a pochi metri al di sotto dell’ingresso a pozzo di “Fohn” una vecchia superficie carsica successivamente riempita da una breccia a matrice ocra-rossastra con abbondanti clasti di skarn e ossidi-idrossidi di ferro che rinveniamo sino a -45 m dall’ingresso, breccia che, insieme alla mineralizzazione, è stata poi scavata dall’uomo. L’area ove si aprono gli ingressi di ”Fohn” doveva originariamente presentarsi quindi come una zona di affioramento di brecce ad elementi di skarn e ossidi-idrossidi incassate all’interno dei carbonati toscani, la cui presenza ha destato l’interesse dei minatori. La “Miniera del Vallin Lungo” e “Buca del Confine” hanno invece un
Fig. 12. Ingresso a frattura della Buca di Burian, foto di L. Deravignone.
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Fig. 13. Ingresso Buca degli Spagnoli, foto di G. Dellavalle.
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Fig. 14. Pozzo d’ingresso artificiale alla Miniera del Vallinlungo, foto di G. Dellavalle.
carattere più propriamente artificiale. La seconda tra l’altro ad oggi non è più rintracciabile poiché è stata verosimilmente intercettata durante la realizzazione della nuova strada di arroccamento della cava Solvay s.p.a., e pertanto non è stata oggetto della nostra rivisitazione: aveva il pozzo principale impostato lungo una frattura N-S, in parte occupata dallo skarn hedembergitico che si rinveniva per tutto il suo sviluppo. La “Miniera del Vallin Lungo” ha due ingressi, uno tipico a frattura, andamento N 174-180, lungo il quale si sviluppa il corpo di skarn, e l’altro a sezione circolare, scavato nella roccia (Fig. 14). Riguardo le forme deposizionali dei carbonati, esse sono sempre diffuse ed abbondanti: stalattiti, stalagmiti con strutture secondarie di colata, tubolari, vaschette e flowstone ricoprono spessissimo le pareti rendendo difficoltoso in alcuni casi discernere le forme naturali da quelle artificiali e, su quest’ultime, eventuali segni di scavo. Alla “Buca Grande dei Topi” un passaggio angusto presenta il soffitto tappezzato da tubolari (Fig.15, pag. successiva), e la volta dei successivi cunicoli rivestita da mineralizzazioni secondarie color rosso,
Fig. 15. Buca Grande dei Topi, volta tappezzata da tubolari, foto di G. Dellavalle.
rosso rubino e sottili concrezionamenti parietali e tubolari. Analogo e intenso concrezionamento è presente nella “Miniera del Vallin Lungo”.
Aspetti archeominerari
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Il ritrovamento in superficie di un frammento di ceramica riferibile al periodo etrusco (Cascone & Casini, 1999) aveva già suggerito come quest’area non avesse subito l’impatto della ricerca mineraria del periodo industriale, come invece è avvenuto nella vicina zona del Temperino e della Valle Lanzi, all’interno del Parco Archeominerario di San Silvestro. Questo aspetto la
Fig. 16. Panoramica della strada di arroccamento che attraversa il Vallinlungo su entrambi i versanti, foto di G. Cascone.
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designava quindi tra le più significative ed importanti nel testimoniare la reale dimensione dello sfruttamento minerario antico di questo comprensorio, fornendo un ulteriore impulso alle ricerche geologiche ed archeominerarie. La consapevolezza inoltre che nella vicina Cava di calcare Solvay, in piena area di coltivazione, un’indagine archeologica abbia evidenziato tracce di un insediamento con materiali riferibili al tardo eneolitico in associazione a strutture produttive metallurgiche (Fedeli, 1995; Fedeli, 1997), e che nella stessa area sia venuto in luce anche un insediamento con materiali del bronzo finale che testimoniano la frequentazione dell’area mineraria anche in questo periodo (Fedeli, 1994,1995) ci ha ulteriormente spronato allo studio di queste miniere. L’ipotesi poi che nel periodo medievale, i castelli dediti alle attività di estrazione in questa zona più settentrionale siano stati il castello di Biserno ed il Castello del Romitorio, quest’ultimo da identificarsi con Acquaviva, entrambi promossi dai Della Gherardesca per lo sfruttamento dei metalli (Cascone & Casini, 1997 b), aggiungeva interesse alle nostre ricerche: mentre per il castello del Romitorio la morfologia dei luoghi è rimasta pressoché inalterata, il sito collinare ove si ubicava il Castello di Biserno, e le sue valli, sono stati cancellati negli anni ’50 dalle attività della cava Solvay, pur rimanendo visibile un piccolo strato di scorie di lavorazione del rame che testimoniano la produzione di metallo del castello (Casini, 1993). In questa zona tra l’altro, lungo il vecchio fronte della cava San Carlo Solvay s.p.a., si trova la “Buca del Biserno”2 (1181 T/LI), imponente coltivazione mineraria preindustriale riferibile anch’essa, in età medievale, con molta probabilità, alle attività del Castello di Biserno. Attualmente la Valle in Lungo, tra le quote 270 e 340 m è stata intercettata della strada di arroccamento alla zona di espansione della cava di San Carlo Solvay s.p.a. (Fig.16): è quindi necessario attraversarle e percorrerle sino alla quota superiore, da cui si diparte il tratto di fondo valle ancora integro. La “Buca del Confine” si apriva sul versante sinistro, alla quota di 280 m s.l.m., con un pozzo circolare di un metro di diametro che si affacciava su una sala cantiere. Nonostante il suo contenuto sviluppo, al suo interno mostrava differenti tecniche di lavorazione (Cascone, 1998; Cascone & Casini, 1999) ma ad oggi, con i lavori di avanzamento della cava, non è più visibile. Tutte le miniere documentate devono ancora essere studiate nel dettaglio circa l’aspetto archeominerario. Tuttavia le evidenze principali sono quelle date da ambienti scavati inseguendo il filone, rispecchiando l’andamento spaziale della mineralizzazione, sino all’intercettazione di ambienti carsici. Le tracce rinvenibili sulle pareti sono tutte riconducibili all’utilizzo di punteruoli che evidenziano un abbattimento del minerale tramite percussione con mazzette o l’utilizzo del piccone da miniera. All’attacco dei pozzi e lungo le pareti sono visibili le tracce per gli alloggi delle infrastrutture lignee del cantiere e delle piccole nicchie per l’appoggio delle lucerne.
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Fig. 17. Buca grande dei Topi, tracce degli utensili dei minatori su parete di skarn, foto di G. Dellavalle.
Il complesso Burian-Fohn, la miniera più articolata ed estesa, rivela nelle morfologie sotterranee una sintesi di quanto osservato separatamente nelle diverse cavità, e, in particolare, presso la “Buca del Biserno” (Cascone & Casini, 2010), come gli ingressi a pozzo, i pozzi di ricerca (Fig. 18) circolari del diametro compreso tra 0.80 e 1.20 m, profondi anche 30 m, spesso ad andamento sub parallelo, la sala-cantiere di dimensioni maggiori (4 m x 5 m), ripidi scivoli e cunicoli, rare scalinate con pendenze sostenute, risparmi di minerale con funzione di pilastri (Fig. 19) od ancoraggi (Fig. 20), muretti a secco, detti “ripiene” diffuse un po’ ovunque (Fig. 21, pag. successiva), pozzi a diametro maggiore in corrispondenza di ambienti carsici (vedi Fig. 20). In particolare, dall’ingresso di Fohn, si ha accesso a due pozzi verticali di cui uno si sviluppa a spirale avvolgendosi intorno all’altro, e comunicando con esso tramite finestrelle tipo oblò. È presente anche una piccola galleria a sezione ogivale delle
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Fig. 18. Buca grande dei Topi, pozzo di ricerca nello skarn, foto di G. Dellavalle.
Fig. 19. Buca dei Topi, risparmio di minerale con funzione di pilastro, foto di G. Dellavalle.
dimensioni di 0,80 x 0,80 m scavata nello sterile, cioè nel calcare massiccio (Fig. 22, pag. successiva), non tanto a scopo di ricerca, ma presumibilmente per andare ad intercettare il pozzo minerario proveniente dall’ingresso posto più a monte. Si tratta di un esempio di traverso banco simile a quello rinvenuto anche all’interno della “Buca del Biserno” e che anche in questo caso fa pensare ad un intervento del XVI secolo e quindi ad una rivisitazione delle lavorazioni più antiche da parte dei Lanzi, le maestranze germaniche chiamate da Cosimo I dei Medici (Cascone & Casini, 2001). Non sono mai state trovate all’interno di queste miniere tracce di fori da mina, a conferma che lo scavo avveniva manualmente e quindi anteriormente al periodo in cui si iniziò ad usare l’esplosivo. 2
Miniera profonda -120 m e con 800 m di sviluppo, sito vincolato nel 1997 da parte
del Ministero dei Beni Culturali
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Fig. 20. Complesso di Burian Fohn, risparmio di minerale con funzione di ancoraggio. Sullo sfondo intercettato un pozzo carsico, foto di G. Dellavalle.
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Conclusioni In sintesi, le osservazioni ad oggi compiute in queste miniere indicherebbero per quest’area uno sfruttamento dei solfuri avvenuta dal periodo etrusco a quello rinascimentale. Interventi precedenti non sono da escludere, anche in relazione ai rinvenimenti archeologici evidenziati in aree contermini. Data però la scarsa evoluzione nel tempo delle tecniche di scavo, analoghe anche in età protostorica, informazioni decisive in questo senso potranno venire solo in presenza di elementi datanti, chiaramente connessi con le lavorazioni, e che potrebbero emergere solo tramite un’indagine stratigrafica di scavo, iniziando magari dalle aree esterne, quali le discariche minerarie a disposizione. Per contro l’assenza accertata di tracce di fori da mina esclude ragionevolmente una riattivazione della coltivazione di queste miniere in periodo industriale, come invece è avvenuto nella vicina area del Temperino e della Valle Lanzi, all’interno del Parco Archeominerario di San Silvestro. Pertanto solo con ulteriori approfondimenti si potrà pervenire ad una migliore definizione nello studio del popolamento di quest’area. A questo scopo è evidente come stretto dovrà essere il rapporto tra gli enti di ricerca, gli enti territoriali e quelli preposti alla tutela ed alla gestione e fruizione dei beni culturali ed ambientali. In quest’ottica il nostro Gruppo si sta facendo promotore, da una parte, di azioni divulgative nei confronti della popolazione e degli amministratori locali, anche per favorire una fruizione consapevole di questi beni, e dall’altra di un tavolo di concertazione per il confronto tra tutti quei soggetti che in quest’area detengono legittimi interessi, allo scopo di conciliarne la vicendevole convivenza.
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Fig. 21. Buca degli Spagnoli, ripiena, foto di G. Dellavalle.
Ringraziamenti Si ringraziano tutti i soci del Gruppo Speleologico Archeologico Livornese che hanno partecipato alle attività, i soci del Gruppo Speleologico Maremmano CAI di Grosseto, il Direttore dei lavori e le maestranze della Cava San Carlo Solvay s.p.a. e il Museo di Storia Naturale del Mediterraneo di Livorno, in particolare il dott. Antonio Borzatti che si sta occupando delle riprese video per la documentazione di questi siti minierari. Bibliografia Acocella V., Rossetti F., Faccenna C., Funiciello R., Lazzarotto A. (2000) Strike-slip faulting and pluton emplacement in Southern Tuscany: the Campiglia Marittima case. Bollettino Società Geologica Italiana, 119(10), 517-528. Cascone G. (1991) Ricerche speleologiche nei monti di Campiglia M.ma (Livorno): peculiarità e problematiche di quest’area carsica. Atti VI Congresso della Federazione Speleologica Toscana, Stazzema (LU), 97-137. Cascone G. (1993) La zona speleologica del massiccio del Monte Calvi (Livorno). Primo contributo alla sua conoscenza, in Mazzanti R. (ed) La scienza della terra nell'area della Provincia di Livorno a sud del fiume Cecina. Quad. Mus. Stor. Nat. di Livorno, 13 (2), 183-212. Cascone G., Casini A. (1997 a) Metodologia per lo studio delle attività minerarie antiche nei Monti di Campiglia M.ma, in A. Zanini (a cura di), “Dal Bronzo al Ferro” - il II Millennio a.C. nella Toscana centroccidentale”, Pisa, 21-23. Cascone G., Casini A. (1997 b) Le miniere antiche dei M.ti di Campiglia M.ma (Campiglia M.ma, LI). Atti del IV Convegno Nazionale sulle Cavità Artificiali, Osoppo (UD), Trieste, 29-50. Cascone G., Casini A., 1997c. La Buca del Biserno. Relaz. Inedita, inviata a Soprintend. Archeol. della Toscana.
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Fig. 22. Complesso di Burian Fohn, galleria traverso banco scavata nel calcare, foto di G. Dellavalle.
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Bando di concorso per premi di Laurea “Rodolfo Giannotti” prima edizione La Federazione Speleologica Toscana bandisce un concorso per l’assegnazione del Premio di Laurea “RODOLFO GIANNOTTI” 1° EDIZIONE. Possono presentare domanda tutti i laureati che abbiano conseguito il titolo di studio dal 1 ottobre 2014 al 30 settembre 2015, presso tutte le Università del territorio nazionale, con studi finalizzati alla ricerca sul territorio carsico e/o ipogeo della regione Toscana. Il concorso vuole incentivare la ricerca scientifica collegata al mondo ipogeo e contribuire alla protezione, valorizzazione e tutela del paesaggio carsico di superfice e delle grotte, nonché agli studi di prospezione idrogeologica e protezione delle risorse idriche del sottosuolo ipogeo (con particolare attenzione all’approvvigionamento idrico degli abitati), studi sul patrimonio paleontologico, paletnologico e storico o inerenti il folklore.
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Le domande dovranno pervenire per mezzo raccomandata al Presidente della Federazione Speleologica Toscana c/o Museo di Storia Naturale del Mediterraneo, Via Roma 234, 57127 Livorno, oppure tramite PEC all’indirizzo federazione.speleologica.toscana@pec.it improrogabilmente entro le ore 24 del 30 settembre 2015. Le domande pervenute oltre il termine suddetto o prive della documentazione prescritta non saranno prese in considerazione (non farà fede pertanto la data del timbro postale accettante). È prevista l’assegnazione di 6 premi: - 1 Tre premi di € 500,00 cadauno, per i migliori candidati che abbiano conseguito la Laurea di Primo Livello; - 2 Tre premi di € 1.500,00 cadauno, per i migliori candidati che abbiano conseguito la Laurea Magistrale (sia in unico che doppio ciclo). Sul sito www.speleotoscana.it è possibile scaricare il bando di concorso completo e i moduli per partecipare all’iscrizione. Il bando scade il 30 Settembre 2015 Regolamento completo e Modulo presentazione domanda alla pagina: http://bit.do/bando-fst
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Specifiche per l’invio di materiale da pubblicare su TALP
TALP N 50, giugno 2015 Rivista della Federazione Speleologica Toscana Pubblicazione semestrale Spedizione in A.P. Art.2 Comma 20/c Legge 662/96 Filiale di Lucca 55100 Aut.Trib. Lucca N.499 del 31/05/1989 Direttore Responsabile PAOLO MANDOLI Redazione DANIELE ANTONETTI GIONNI BERNABINI ELEONORA BETTINI LUCA DERAVIGNONE ELENA GIANNINI LUCIA MONTOMOLI SIRIA PANICHI ADRIANO RONCIONI
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FIGURE E FOTO È spesso capitato di dover lavorare con foto a risoluzione troppo bassa; questo ha comportato in alcuni casi il riadattamento, ed in altri l’inevitabile eliminazione. Mandare foto inadeguate comporta un aspetto peggiore per la pubblicazione e, di conseguenza, un aspetto peggiore dell’articolo che vorreste condividere con gli altri. Seguendo alcune piccole regole questo può essere facilmente evitato. Quando una foto viene pubblicata a centro pagina le sue dimensioni sono circa 14 cm x 10 cm, che a 300 DPI (la qualità minima di stampa richiesta) fa 1654 x 1181 pixel. Questo significa che se volete essere sicuri della qualità, queste sono le misure minime a cui attenersi. Se la foto è un pò più piccola non è un problema, ma diminuendo la dimensione scende anche la qualità e quindi saremo costretti a ridurre la misura dell’immagine pubblicata o, nel caso sia veramente piccola, a non pubblicarla affatto. Le foto vanno mandate in formato TIFF oppure JPG, preferibilmente a bassa compressione; niente GIF, PNG o altri formati, né tanto meno come parte di documenti PDF e peggio ancora WORD. Se volete che le foto vengano inserite esattamente dove le avete predisposte voi nell’articolo e con il relativo commento, sarebbe opportuno allegare uno schema di come le vorreste o magari l’articolo montato in PDF o WORD, in modo che in fase di creazione del numero venga rispettata la disposizione originariamente pensata per l’articolo. TESTI I testi vanno consegnati come documento di testo: Rich Text Format (.rtf), OpenOffice o Word (.doc), senza particolari marginature o impaginazioni di sorta, senza foto ed immagini inserite. Sono invece necessari: • titolo-eventuale sottotitolo-nome e cognome dell’autore del testo, eventuale autore delle foto, se è unico per tutte le foto-Gruppo/ente/associazione di appartenenza. Facoltativa, ma gradita, eventuale bibliografia. Il testo può essere diviso in capitoli. ALCUNE NORME E REGOLE DI SCRITTURA: • unità di misura: sono simboli, non sono abbreviazioni, quindi non necessitano del punto. Sono definite da norme internazionali e quindi non ce le possiamo inventare: metro si scrive m e non mt o peggio mt.; • la punteggiatura è sempre seguita da uno (uno solo, ma almeno uno) spazio, mai preceduta da uno spazio; • gli spazi fra le parole sono necessari ma sono sempre uno solo. Non possono essere usati per aggiustare la lunghezza della frase; • le iniziali maiuscole accentate (ma anche le minuscole) si fanno con l’apposito carattere, mai con la lettera normale e l’apostrofo! Se uno non le sa inserire faccia fare al correttore automatico, basta inserire la corrispondente minuscola dopo il punto e come per incanto il programma la inserisce al vostro posto! (esempio: E’, e’ errato, È, è corretto); • “Perché è bello” si scrive con gli accenti diversi, aperto e chiuso; • la punteggiatura esclamativa o interrogativa va inserita una volta sola, anche se siete emozionati, per cui mai !!!! né ??? o !?!?; • i puntini di sospensione sono tre per regola, evitate di metterne di più, non significano niente. RILIEVI E CARTE I Rilievi e la cartografia devono essere inviati nei formati JPG o TIFF nelle dimensioni reali di stampa, quindi con disegno e caratteri leggibili adatti ai vari formati: - rilievo/cartografia a doppia pagina: misure cm 30 x 19; - rilievo/cartografia a una pagina: misure cm 14 x 19; - rilievo/cartografia a mezza pagina: misure cm 14 x 12; - rilievo/cartografia a ¼ di pagina: misure cm 7 x 9. Nel rilievo deve essere riportato: il dislivello dall’ingresso al fondo, numero di catasto, sigla della provincia e nome della grotta, data, autori dei rilievi, gruppo/i speleologici. In una tabella a parte possono essere inseriti gli altri dati: comune, località, area carsica, quota d’ingresso, coordinate chilometriche Gauss Est – Nord, dati metrici di sviluppo della grotta, ecc. Sia i rilievi che le cartine (geografiche, geologiche, ecc...) devono avere riportata la scala grafica.
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE ART2 COMMA 20 LEGGE 662/96 AUT. TRIB. LUCCA DEL 31/05/89
contributo annuo (due numeri) 8,00 euro Versamento c.c.p. n. 10770501 Bonifico Bancario IBAN: IT83 T076 0102 8000 0001 0770 501 intestato a: FEDERAZIONE SPELEOLOGICA TOSCANA Via Roma, 230 - 57100 Livorno (c/o Museo di Storia Naturale del Mediterraneo)
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caso si prega di inviare a copia del versamento effettuato e il nominativo/i e l’indirizzo/i a cui devono
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