DIEGO ARMANDO MARADONA

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Periodico edito dal "Centro Studi Officina Volturno"

ANNO XIX - NUMERO 220 - AGOSTO 2021

GRATUITO

diego Armando

MARADONA

Ph. Sergio Siano ©

IL RISCATTO SOCIALE ATTRAVERSO LO SPORT

SCANSIONAMI

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Editoriale

di Antonio Casaccio

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ell’ultimo periodo la nostra redazione è stata invasa da segnalazioni dei cittadini di Castel Volturno per schiamazzi notturni, fuochi d’artificio in orari improponibili e la preoccupazione per una movida giovanile a volte violenta. Chiariamo: non è un fenomeno circoscritto alla sola cittadina castellana, che paga ormai da anni la mancanza di scelte ad “alto livello” che potrebbero rispondere all’insufficiente numero di risorse e strumenti forniti in dotazione alle Forze dell’Ordine locali, alle quali va la nostra solidarietà e il nostro riconoscimento per un costante lavoro di controllo del territorio. Da mesi i quotidiani nazionali ritornano particolarmente su una movida incontrollata, che ci torna agli occhi dai video su Facebook che immortalano gruppi di giovani, mentre magari se la danno di santa ragione. Nessuna giustificazione può addolcire determinate scene e nessun provvedimento di ordine pubblico potrebbe fare qualcosa per risolvere il problema. Premesso ciò è doveroso fare alcune precisazioni e la prima, spesso sfuggente, è che i social non ci restituiscono la realtà, ma solo una piccola porzione di essa. Fare di tutta l’erba un fascio non ha senso e di certo piazze e discoteche non diventano improvvisamente “ring” il sabato sera. Allora tutto continua a procedere inalteratamente? “Ma manco pe’ niente”. In un mondo che cambia velocemente anche il senso della violenza viene distorto, andando a creare un vuoto culturale, magari più evidente nei nostri territori.

Non è speculazione filosofica, la violenza crea attenzione, suspense e tensione, ecco perché i video di violenze spopolano sui social network, magari tenendoci incollati per ore. La violenza è egoismo e quest’ultimo regna nei modelli di riferimento di alcuni giovani. L’adrenalina di chi deve apparire più forte alcune volte supera la curiosità di conoscersi e il motivo è semplice: a molti non frega del prossimo, pensiamo già a priori che chi ci sta davanti sia un cretino e che le sue idee abbiano valore minore rispetto alle nostre. È una caratteristica interessante che, certamente è insita nella natura umana, ma che la rivoluzione digitale ha spinto con potenza. I giovani hanno tutto quello che vogliono in pochi minuti e, forse, questo sta semplicemente sostituendo l’interfaccia più impetuosa mai conosciuta: il prossimo. Da giovane, prima che da giornalista, posso confermare che il covid sta creando serie difficoltà agli under 30, che risentono particolarmente delle restrizioni e di una distanza sociale che non si adatterà mai alla voglia di spaccare il mondo che ha un ventenne. Anche il lettore più esperto è stato giovane e può solo immaginare i disagi di una rigorosa mascherina per anni. L’estate per noi è probabilmente l’ultimo pilastro di libertà in un 2021 che ispira ancora poca serenità; per tale ragione questa vitalità non deve spaventare, ma magari dev’essere solo compresa. Ovviamente resta essenziale continuare a seguire tutte le norme anti-Covid, anche di sabato sera, ma di certo non va demonizzata un’intera generazione per qualche notizia da clickbaiting e un po’ di video su Facebook. “Questa mia generazione è preparata” e le percentuali di vaccinati ne danno una prova. Così invitiamo ogni nostro lettore a vaccinarsi, augurando a tutti una buona estate.

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SPORT

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CULTURA

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Arte e Intrattenimento si incontrano alla Reggia di Carditello

La vulnerabilità dell’essere umano al Pompeii Theatrum Mundi

“Rifiuti: questo sistema non funziona”. Interviene il Commissario Filippo Romano

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EVENTI Al lido Delfini Francesco Zambon svela il volto dell’OMS

Hanno collaborato

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ATTUALITÀ

L’Europa si tinge d'azzurro dopo 53 anni

Periodico mensile fondato nel 2002 Registrato al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n° 678 Edito dal Centro Studi Officina Volturno Presidente Tommaso Morlando

TEATRO

SPECIALE D10S Diego Armando Maradona "Il riscatto sociale attraverso lo sport"

ANNO XIX - NUMERO 220 - AGOSTO 2021

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SPECIALE D10S

Diego Armando

Maradona

"il riscatto sociale attraverso lo sport” Emozioni e ricordi nella mostra fotografica del Jambo1 di Silvia De Martino | Ph Sergio Siano

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iego Armando Maradona. Un nome il cui eco risuona perennemente per le strade della nostra città. Dai ragazzini che corrono dietro ad un pallone invocandolo, ai papà che raccontano le sue incredibili gesta a chi, purtroppo, non lo ha vissuto come avrebbe voluto. Dal ricordo della mano di Dios, alla telecronaca di Victor Hugo Morales e quel “ta-ta-ta-ta” che scandisce il gol del secolo. Passando per l’emozione dei due scudetti, della Coppa Italia, della Supercoppa Italiana e della Coppa Uefa donata al popolo partenopeo. Fino a quel 25 novembre 2020, giorno in cui tutto il mondo si è unito per dire addio al genio indiscusso del mondo calcistico. Si accendono le luci allo Stadio San Paolo e tutti, tifosi e non, si stringono per piangere un uomo che a modo suo ha fatto la storia. Napoli scende in piazza per dire addio a quel calciatore che gli ha dato così tanto e allestisce un magico museo a cielo aperto, donando cimeli di ogni genere attorno a quello stadio che adesso porta il suo nome. Perché tutto ciò? Perché Diego Armando Maradona non era solo calcio. Un uomo non sempre amato ed apprezzato da tutti, dai risvolti oscuri nella sua vita privata, ma da un talento inimitabile e un cuore invidiabile. Non era solo quei magici palleggi che lui faceva sembrare così semplici. Era molto di più. Diego Armando Maradona era speranza. Speranza per un popolo che si vede costantemente schiacciato dai potenti del Nord. Era un simbolo. Un simbolo di rivalsa, di vittoria, di rivendicazione per chi era sempre stato messo da parte. Un baluardo a difesa dei più deboli. Un uomo che ha fatto sognare giovani ed anziani con un pallone tra i piedi, ma che non si è 4

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mai limitato ai confini del campo da gioco. Un rivoluzionario, come ce ne sono pochi. Diego era il “riscatto sociale attraverso lo sport” e su queste linee si muove la mostra fotografica di Sergio Siano, a cura di Yvonne De Rosa, che sarà presente al Centro Commerciale Jambo1 di Trentola Ducenta fino al 31 dicembre. Un’esposizione gratuita di 139 fotografie, anche inedite, che raccontano le gesta del calciatore e dell’uomo. Attraverso il concept

della curatrice, gli scatti ripercorrono la storia della leggenda e del suo rapporto con i tifosi. «Non si tratta solo della celebrazione dello sportivo – spiega il dott. Salvatore Scarpa, amministratore di Jambo1 – quanto di colui che ha portato un popolo alla rivalsa. Oramai Maradona è un mito che si è schierato sempre a favore dei più deboli. Mi auguro che questa mostra possa svegliare le nostre coscienze ricordandoci che solo con sacrificio ed impe-

gno si può arrivare ai risultati che ognuno di noi spera». Coerente con il tema che l’esposizione si propone di curare, è la scelta del luogo in cui è stata allestita: il Centro Commerciale Jambo1, infatti, quale bene confiscato alla camorra, incarna alla perfezione gli ideali di riscatto e riqualificazione. Ex roccaforte dei Casalesi, ad oggi il centro commerciale è un fiore all’occhiello del comune di Trentola Ducenta, e non solo, considerando le importanti parole che il Ministro Luciana Lamorgese ha speso per la gestione vincente del Jambo1. «Io credo che il significato della mostra acquisisca maggiore valenza al Jambo1 – dichiara Carlo Alvino, capo ufficio stampa dell’evento – Maradona ha incarnato meglio di chiunque altro il mito del riscatto sociale di una città e, oserei dire, del Mezzogiorno d’Italia. È un rivoluzionario ed uno strenuo difensore di tutti i Sud del mondo. Fare questa esposizione in un territorio martoriato, che trova spazio sui giornali solo per cose negative, sposa perfettamente questo messaggio di rivalorizzazione». Il dott. Salvatore Scarpa si è, inoltre, dichiarato particolarmente soddisfatto della riuscita della mostra, soprattutto per la presenza all’inaugurazione delle istituzioni pubbliche. «Mi ha fatto molto piacere ricevere i complimenti dal Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo di gabinetto Bruno Frattasi per la gestione del centro commerciale. Abbiamo portato agli onori della cronaca nazionale la nostra attività al Jambo ed è stata una forte emozione». Proprio il Ministro Lamorgese ha sottolineato: «È importante far cogliere ai cittadini il valore di restituire alla legalità un bene


sottratto alla criminalità organizzata. Ci troviamo in una struttura confiscata alla mafia e restituita alla legalità. Le mostre che vengono organizzate qui, anche a titolo gratuito, possono davvero far cogliere ancora di più ai cittadini il valore sociale di una struttura come questa». Nella nota diramata dal sito ufficiale del Ministero dell’Interno, inoltre, viene ribadito quanto tale struttura sia oggi “un modello di eccellenza della gestione aziendale da parte dello Stato di un bene confiscato alla camorra. Rappresenta, infatti,

un importante polo di attrazione dell’agro aversano, del litorale domitio e dei territori di Napoli e di Caserta con una media di 5,5 milioni di visitatori all’anno”. Un riconoscimento importante che si aggiunge alle parole del capo di Gabinetto Bruno Frattasi, ex direttore dell’Agenzia dei beni confiscati, che nel suo intervento ha ribadito il senso profondo della mostra: «Quando ero all’agenzia ricordavo sempre che il riutilizzo ed il recupero di un bene confiscato alla criminalità è una forma di riscatto del bene. Gli si restituisce dignità, gli si dona una nuova vita. E quindi il filo rosso tra l’agenzia dei beni confiscati, il riscatto sociale e la figura di Diego, è davvero molto forte». Le fotografie esposte, selezionate nell’immenso archivio del fotoreporter da bordo campo Sergio Siano, delineano il percorso evolutivo del Pibe de Oro, da bambino che giocava a football nel suo barrio di Buenos Aires a calciatore più forte di tutti i tempi. L’esposizione è stata curata da Yvonne De Rosa – Art Director di Magazzini Fotografici – che ha puntato

a travalicare i confini del mero mondo calcistico, proiettandosi in un contesto molto più profondo che raccontasse la storia dell’uomo e del popolo che lo ha accolto. Inoltre, per questa occasione è stato realizzato un libro che raccoglie gli scatti di Siano, e il cui ricavato sarà interamente devoluto in beneficenza. «Abbiamo venduto circa cento libri il primo giorno, durante l’inaugurazione», ci informa il dott. Scarpa, aggiungendo che l’impegno del Jambo non si limita alla presentazione della mostra, ma che sarà integrato da altri eventi. «Durante questi sei mesi saranno organizzati incontri a tema con esperti di ogni settore, che vanno dallo sport, alla sociologia, con professori universitari che hanno a cuore il connubio tra l’attività sportiva e il riscatto sociale. Insomma: non sarà solo una mostra». Il centro commerciale in provincia di Caserta, quindi, si impegna a mantenere viva la realtà attorno all’esposizione per regalare agli abitanti di questi territori sempre nuove esperienze e nuove possibilità culturali. «Io definisco Maradona un Masaniello che ha portato una seconda rivoluzione a Napoli e credo che questa manifestazione sia un evento irripetibile, perché abbiamo creato qualcosa di davvero bello e significativo», conclude così Salvatore Scarpa, manifestando nuovamente la sua piena soddisfazione per la mostra fotografica.

Da sx Ministra Lamorgese, Salvatore Scarpa, Yvonne De Rosa, Sergio Siano

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SPECIALE D10S

di Silvia De Martino

Il lato umano di Maradona tra gli scatti di Sergio Siano Con le sue foto il fotografo partenopeo racconta l’intimità del mito

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ella mostra “Diego Armando Maradona: il riscatto sociale attraverso lo sport” sono esposte le fotografie realizzate da Sergio Siano nei suoi anni di attività come fotoreporter a bordo campo nello Stadio San Paolo. Operando negli anni ’80 ha avuto, infatti, l’opportunità di vivere a pieno i momenti d’oro del Napoli di Maradona, riuscendo così a collezionare scatti inediti del campione simbolo del calcio partenopeo. L’aspetto chiave che, grazie alla curatrice dell’esposizione Yvonne De Rosa, ha voluto mettere in risalto attraverso le sue fotografie è l’umanità del calciatore argentino, aldilà della sua storia e del suo talento indiscusso. Perché nel titolo della mostra si parla di “riscatto”? «A me piace moltissimo collegare il termine riscatto alla figura

Sergio Siano

di Maradona. È una parola piena di significato in questo contesto: la sua storia parte da un bisogno di riscatto per tanti motivi e sono felicissimo del fatto che si parli di rivalsa anche per quel Maradona che umanamente non è stato

troppo apprezzato, perché coperto da altre cose». Qual è il messaggio sociale dietro la figura di Maradona e dietro questa mostra fotografica? «Vorrei raccontare un aneddoto per rispondere a questa domanda. Maradona era sempre l’ultimo ad abbandonare il Campo Paradiso, dove si allenava il Napoli, perché sapeva che venivano a vederlo

persone che non potevano permettersi di comprare il biglietto per andare allo stadio e assistere alla partita. Per quei pochi, lui faceva delle cose straordinarie e gli regalava lo spettacolo più bello del mondo, dando prova della sua im6

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mensa umanità. Ed è proprio tale umanità, che sto toccando ora in questa mostra, a dover emergere». Che significato ha fare questa esposizione nel Centro Commerciale Jambo1? «Ritorna sempre il termine riscatto che in questo luogo amplifica il suo significato, essendo, tale centro commerciale, un bene confiscato alla camorra. Sono molto felice di poter condividere qui gli anni migliori di Maradona, molto più di un museo. Nei luoghi di aggregazione, infatti, c’è una maggiore possibilità di condivisione». Sul piano artistico, come hanno colto le sue fotografie questo riscatto nel volto del calciatore? «Credo di aver ripreso la sua umanità soprattutto nel Campo Paradiso, dove lui era sé stesso ed era un uomo libero con il suo Dio, ovvero la palla. Questa sua intimità, alle volte anche commovente, era possibile coglierla maggiormente in quei momenti. Credo che in questo percorso espositivo, dove ci sono tantissimi di questi scatti, riesca ad emergere un Maradona campione anche umanamente». Questa mostra a che punto arriva della sua carriera da fotografo? Quanto orgoglio c’è? «Tantissimo, sono immensamente felice di condividere queste fotografie con il pubblico. Questa mostra arriva in un momento speciale, ma non mi piace pensare ad un punto d’arrivo, bensì ad una partenza soprattutto verso più mostre fotografiche in luoghi di aggregazione e non solo in circuiti chiusi. Fondamentale in questo discorso è stato anche l’aiuto di Yvonne De Rosa: se questa mostra è straordinaria il merito è suo che ha costruito tutto, facendo un fantastico lavoro». Tra le sale dell’esposizione si ripercorrono le gesta del genio calcistico, le sue debolezze, i suoi punti di forza e l’effetto che ha avuto sul popolo che lo ha accolto a braccia aperte. È un percorso emozionale tra i ricordi di quanto Maradona ha fatto per il mondo sportivo, per la città di Napoli e per tutti i tifosi.


SPECIALE D10S

di Rossella Schender

«Il mio Diego in un album di famiglia» Yvonne De Rosa e la costruzione artistica della mostra

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aureatasi in Scienze Politiche all’Università Federico II di Napoli e formatasi poi presso il Central Saint Martins College of Art & Design di Londra, Yvonne De Rosa è una fotografa napoletana classe 1975. Nel 2006 conquistava il Premio Internazionale delle Donne in Fotografia e, nel 2007, il suo libro di debutto “Crazy God” – nel quale, attraverso degli scatti, ha dato testimonianza di un ospedale psichiatrico ormai chiuso documentandone le rovine e le tracce lasciate dai pazienti – è stato selezionato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ed esposto alla Conferenza Mondiale sulla Povertà e la Salute di Venezia. Con l’obiettivo di “portare la fotografia fuori dagli spazi convenzionali e, usando anche il linguaggio della street art, rendere fruibile la fotografia a un pubblico sempre più ampio ed eterogeneo” – nel 2015 dà vita a “Magazzini Fotografici”, uno spazio espositivo nel cuore di Napoli di cui è direttrice artistica. In occasione della mostra fotografica di Sergio Siano “Diego Armando Maradona: il riscatto sociale attraverso lo sport”, allestita negli spazi del Centro Commerciale Jambo1 di Trentola Ducenta, Yvonne De Rosa ha rivestito i panni di curatrice sapendo creare una narrazione dal sapore cinematografico. Ha saputo, attraverso i 134 scatti presentati da Sergio Siano, dare risalto al lato umano del fuoriclasse argentino, anima di una Napoli che difficilmente lo dimenticherà. Lei è nota per focalizzarsi sulla rappresentazione dei ricordi e, ovviamente, anche per narrare una storia attraverso gli scatti. Com’è stato curare la mostra di Diego? «Raccogliere delle memorie del passato attraverso l’archivio di Sergio Siano e trasformarlo in un piccolo scrigno della memoria è stato emozionante. L’intento è sempre quello di poter permettere a chi guarda di fare un vero e proprio tuffo nel passato, per questo, anche la cura del libro dedicato alla mostra è stata focalizzata su quest’obiettivo. L’idea ultima era quella di ricreare una sorta di album di famiglia. In-

Yvonne De Rosa e Sergio Siano

fatti, intenzionalmente, alcune foto sono state lasciate nella dimensione tipica delle foto di famiglia. È stata poi mia premura utilizzare un tipo di carta particolare, estremamente soffice al tatto poiché molto spesso, quando guardiamo un’immagine che ci piace, tendiamo naturalmente a sfiorarla». In quanto napoletana sente davvero che Maradona sia stato un simbolo di riscatto sociale? «Sì, in quel momento grazie a quella vittoria tutta la città era unita senza distinzioni di fasce sociali in una gioia condivisa. Questo tipo di condivisione, a prescindere dalle proprie condizioni, è un qualcosa di molto

difficile da vedere. E, infatti, non credo che sia più successo». Ha qualche ricordo particolare legato alla figura di Maradona? È riuscita a riviverlo durante la selezione delle foto? «Tanti, essendo napoletana e avendo vissuto quei momenti e quelle feste ne ho parecchi. Anche in famiglia, perché si seguiva il calcio. Un ricordo particolare è quello legato alle collette che organizzavano i condomini per poter tingere i palazzi d’azzurro o per compare addobbi per poter decorare tutto. Era incredibile poter vivere quei momenti e, guardando le foto dei festeggiamenti, mi sono ritornate in mente tutte queste

cose che, ammetto, avevo quasi dimenticato». Il pubblico come ha reagito alla mostra? «Sono commossa per il modo in cui ha reagito il pubblico, in dieci giorni abbiamo riempito sei libri di commenti affettuosi, sentiti… quindi si è avuta una reazione assolutamente positiva. Le persone che hanno visitato la mostra hanno avuto piacere di farlo e, soprattutto, è stato bello vedere che ci hanno tenuto a lasciar scritte le proprie emozioni». Lei è direttrice del progetto “Magazzini Fotografici”, come nasce l’idea di cercare questo spazio a Napoli dedicato alla fotografia? «Questo è quello che amo fare per cui, una volta tornata a Napoli, ho pensato che fosse il caso creare uno spazio dedicato alla fotografia visto che non c’era. Volevo provare a fare qualcosa di bello per la città anche perché il luogo in cui si trova, il centro storico, è praticamente il cuore pulsante di Napoli, lì c’è la nostra anima e va sostenuto e vissuto con consapevolezza. Farlo lì è stata una scelta sentita, dato il forte legame che sento col posto. Napoli, e anche io, avevamo bisogno di un posto dove poter parlare di fotografia, confrontarsi, crescere e scambiare idee».

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SPECIALE D10S

di Pasquale Di Sauro

“È fatta, dobbiamo tornare a Barcellona!” Ricordi inediti di Diego nel racconto dello stilista Gianluca Isaia

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ianluca Isaia è uno stilista di fama internazionale. Il marchio ISAIA, con la sua storia secolare, è ambasciatore dell’elegante e raffinata sartoria partenopea, che esporta in giro per il mondo nei tanti store oltreoceano. Gianluca, oltre alla passione per l’alta moda, eredita dal padre anche l’amore per il calcio, in particolare per Maradona. Enrico Isaia, infatti, era membro del direttivo ai tempi di Ferlaino. Aneddoti unici raccontati in quest’intervista fanno rivivere ricordi nella mente di un uomo che ha vissuto in prima persona la primavera napoletana ai tempi di Diego. Enrico Isaia: uno dei protagonisti dell’impresa. «Era un dirigente, insomma ho avuto il privilegio di vivere l’epopea “Maradoniana” dall’interno. Sapevo delle vicende in anticipo come quella del trasferimento. Ferlaino insieme a mio padre partirono per Barcellona, ma dopo tre giorni di viaggio nulla di fatto, non volevano vendere. L’operazione sembrava sfumata, ma la caparbietà di Antonio Juliano – un uomo serio e onesto – fu la chiave per portare Diego a Napoli. L’allora direttore sportivo del club, restò in Spagna, non perse la speranza, finse di interessarsi a Hugo Sánchez (giocatore del Real Madrid) ma era un bluff per convincere il vicepresidente del Barcellona Gaspart a cedere Maradona e la mossa riuscì. Mio padre, nel frattempo tornato a Milano, era in pigiama quando arrivò la telefonata di Ferlaino: “È fatta dobbiamo tornare a Barcellona!”. Lo accompagnai io a Linate in fretta e furia». Diego stava arrivando... «Era a Capri in gran segreto. Io ero a cena con la mia famiglia in un ristorante frequentato da calciatori e giornalisti. Il proprietario si avvicinò al tavolo in cerca di informazioni e mia madre fu geniale: “Vuoi sapere dove sta?

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Tommaso Morlando e Gianluca Isaia

Nella nostra villa a Vico Equense ma non dire niente a nessuno”. Dopo tre minuti la notizia era dappertutto, chissà se c’erano davvero fotografi appostati fuori casa che credettero allo scherzo di mia madre». Ha mai incontrato Maradona? «Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Potevo raggiungere la squadra in ritiro in albergo prima delle gare. Una sera ero al bar dell’hotel con lui e gli raccontai del filmato dove palleggiava con un’arancia. Gli chiesi se poteva regalarmi una diretta. Diego con una semplicità disarmante chiese l’arancia al barman, ma non ce l’aveva. “Allora dammi quello che hai” disse Maradona. Si mise a giocare con un limone proprio davanti ai miei occhi». Origini umili e un ruolo sociale così importante, chi era Diego per Napoli? «È stato il nostro riscatto. L’orgoglio di andare a giocare a Verona, Torino, Bergamo sapendo di vincere. Maradona era una persona fantastica che non ha saputo superare le sue origini. Il buon Fernando Signorini, il suo preparatore atletico, uno dei pochi che gli ha voluto bene veramente mi disse: “Gianluca, conosci le favelas in Brasile, lui stava peggio”. Ricordo una sera a Roma, eravamo a cena con il suo gruppo. Si avvicinò una bambina chiedendo l’elemosina. Diego le diede centomila lire.

Cyterszpiler il suo manager gli suggerì di mettere una firma sulla banconota perché la mamma sapesse che quei soldi erano di Maradona, ma lui non ci pensò nemmeno, era buono, generoso» Il primo scudetto? «Non ci sono parole per descriverlo, fu un sogno. La mattina feci Milano-Napoli per vedere la partita dello scudetto contro la Fiorentina. La città era azzurra, ho dei ricordi così vivi che sembra ieri». Quando il Napoli batté la Juve? «Quel pomeriggio volevo vedere la partita a bordo campo, ma iniziò a piovere e quindi me ne andai in tribuna con mia sorella che era in compagnia del suo corteggiatore milanese. Lui rompeva commentando le giocate di Diego e io non lo sopportavo. Poi arriva questa punizione in area e lui: “Adesso Maradona segna”. Io mi girai, gli feci capire che di calcio non capiva niente perché era impossibile fare gol da lì. Quando la palla entrò in rete…». Perché Napoli non è riuscita a promuovere l’immagine di Maradona nella moda, magari come l’America ha fatto con Micheal Jordan? «All’epoca questo modo di approcciare al business era già sviluppato in America, in Italia eravamo agli albori del marketing nello sport con le prime sponsorizzazioni sulle maglie. E poi Diego non aveva il manager di Jordan. Lui ha dato tanto alla città, Napoli deve tanto a Maradona». È possibile scindere la sua storia personale dalla sua incredibile carriera? «Abbiamo poeti che nella vita privata hanno fatto peggio di Diego. La storia personale di un artista non deve interessare, non va confusa con le sue opere. Si può criticare, ma se parli di una persona per i suoi capolavori non puoi sminuirla per la sua vita privata, in fondo ha fatto del male solo a sé stesso».


isaia.it

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SPECIALE D10S

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SPECIALE D10S

I MURALES CHE RACCONTANO DI UN PECCATORE DIVENUTO SANTO di Giuseppe Spada

L’arte di Alessandro Ciambrone attraverso i grandi omaggi a Diego Armando Maradona

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uando si diventa leggenda? La risposta è più semplice di ciò che si crede: quando si comincia a contaminare. Sì, perché solo le leggende sono in grado di uscire fuori dall’ambito nel quale sono specializzate, nel caso di Maradona il calcio, e cominciano ad invadere tutte le ispirazioni possibili, dall’arte, alla scrittura, alla musica e persino al cinema. Alessandro Ciambrone, un’eccellente artista nonché amico di vecchia data di Informare, è uno di quelli che da Maradona si è lasciato influenzare. Nelle opere dove è presente Maradona qual è il binomio tra quest’ultimo e la figura di San Gennaro e che rapporto hanno idealmente all’interno dell’opera? «Io cerco di rappresentare San Gennaro come una figura terrena e Maradona come una figura ultraterrena. Secondo me i due principali miti di Napoli in qualche modo si compensano, nel senso che Maradona è un uomo del peccato che nonostante tutto viene visto come un santo. Invece San Gennaro, che santo lo è per davvero, viene percepito dal popolo napoletano in maniera estremamente umana. Il San Gennaro che io immagino amico di Maradona ricorda a quest’ultimo di essere terreno, e viceversa, Maradona ricorda lui di essere ultraterreno». L’anima e la storia che un personaggio come Maradona si porta dietro favoriscono il processo artistico? «Assolutamente sì. Nel murales di Soccavo, per esempio, Maradona non è rappresentato in modo figurativo, bensì come una figura mistica: un triangolo e un cerchio, simboli della sacralità, contornato poi da dieci stelle (i dieci calciatori che hanno giocato al suo fianco) in una rappresentazione quasi Michelangiolesca. Sia chiaro, Maradona non è stato “beatificato” perché vinceva da solo, ma perché lo faceva con un’intera città rappresentata alle sue spalle dallo stadio. In questo murales persino San Gennaro è un

semplice spettatore, rappresentato in secondo piano rispetto all’opera complessiva». Soccavo è una realtà cittadina come tantissime altre in Italia, cosa è accaduto in te quando hai avuto la consapevolezza di avergli donato qualcosa di speciale? «Ho fatto già due murales e non è finita qui. In quella polisportiva ci sono molti i campioni dello sport campano, sto parlando di Patrizio Oliva, Diego Occhiuzzi, Ciro Ferrara e molti altri che danno lezioni gratuite ai ragazzi del quartiere. Il 18 e il 19 settembre,

insieme agli studenti di alcune scuole di Napoli, farò un murales di 100 mq nella galleria della suddetta struttura. Rappresenterò dieci diverse discipline, ognuna delle quali dedicata ad un campione dello sport. In questo modo gli sportivi che hanno contribuito alla formazione dei ragazzi saranno rappresentati di fianco a Maradona. Pertanto, nella mia coscienza, rimane la concezione di aver avvicinato un po’ di più una parte periferica della città al centro storico». Le tue opere rappresentanti Na-

poli sprigionano molto calore, sarebbe possibile rappresentare questa città senza l’ausilio dei colori caldi? «Sì, è possibile. La mia produzione si divide in due: opere dipinte e opere disegnate. Le opere disegnate molto spesso sono in bianco e nero ed io ho spesso rappresentato Napoli proprio con questa tecnica. Ovviamente, durante questa evenienza, la città veniva rappresentata sotto una grande drammaticità. Napoli è una città di contrasti e la sua bellezza deriva proprio da questi ultimi. Se vogliamo possiamo persino definirla stratificata, pertanto sui quadri e sui murales queste stratificazioni vengono rappresentate dai colori, con il disegno dalle linee». È giusto considerare la street art un’arte pubblica e secondo te andrebbe incentivata? «Col tempo la street art si è trasformata in un’attività istituzionale per fortuna. A Napoli poi c’è un organo di valutazione formato da persone estremamente competenti. Col tempo siamo stati arricchiti di opere fatte da artisti di calibro internazionale come Jorit, attraverso il quale si è riuscito a portare arte, luce e bellezza in periferie che altrimenti sarebbero rimaste vuote». Qual è lo scopo dei murales al molo Luise e come hai scelto i soggetti che meglio rappresentano la nostra città? «Il Luise è un molo privato dove di solito attraccano gli yatch. L’intento era quello di dare una visione più artistica ai brand rappresentati di fianco ai murales a tutti coloro che arrivano dal mare, in particolare persone facoltose. Per questo motivo ho voluto rappresentare il meglio che la Campania offre, tra cui i sei siti del patrimonio Unesco presenti nella nostra regione, dalla Reggia di Caserta a San Leucio, Pompei, Ercolano, il centro storico di Napoli ecc. Tra questi, poi, ho inserito anche Maradona e San Gennaro, simbolo universale della grandezza di Napoli». Agosto 2021

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SPECIALE D10S

di Fabio Di Nunno

MARADONA A NAPOLI CON GLI OCCHI DEGLI ARGENTINI Maradona ha portato un po’ di Argentina a Napoli e un po’ di Napoli in Argentina

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e Diego Armando Maradona è un argentino adottato da Napoli, potremmo dire che tutti gli argentini si sentono un po’ napoletani. È quanto emerge dal racconto del professore Emiliano O jea, Presidente della Federazione argentina degli sport universitari e membro del comitato esecutivo della Federazione internazionale degli sport universitari. Che storia è quella di Maradona con Napoli? «La storia di Diego Armando Maradona con Napoli è quella di un amore incondizionato e lo abbiamo provato in prima persona durante l’Universiade di Napoli 2019, organizzati dalla Federazione internazionale degli sport universitari. Durante il nostro soggiorno nella Città di Dio, (perché per noi argentini, Diego è Dio), i 252 membri della delegazione argentina si sono sentiti come a casa propria; “Napoli sembra un’estensione del territorio argentino” ci dicemmo, sorpresi. E così ci hanno fatto sentire dei fratelli napoletani. Tutto grazie a lui, il più grande di tutti i tempi del calcio mondiale». Cosa ha rappresentato Maradona per Napoli? «Senza dubbio, il passaggio di Maradona a Napoli è stato un prima e un dopo per la città. Però, fu anche un prima e un dopo per lui e per noi, il popolo argentino. Dal giorno della sua presentazione nell’ex stadio San Paolo, nel 1984, pieno di sogni, il legame di Diego con Napoli è lo stesso di tutti gli argentini. La mia infanzia era svegliarmi la domenica mattina, con mio padre e i miei fratelli per vedere le partite di questa squadra del Sud Italia che, improvvisamente, ha guadagnato tra i suoi tifosi milioni

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di persone dall’altro lato dell’Oceano. Cose che solo il più grande di tutti i tempi può realizzare. Ricordo come se fosse oggi quel maggio 1987, nel quale stavo festeggiando come se fosse il campionato del mio amato San Lorenzo de Almagro, il titolo del Napoli, il primo scudetto per il gigante del Sud, per mano del “Pelusa” (così lo chiamavano in Argentina all’inizio della sua carriera “il ragazzino dalla folta chioma”, ndr). Una cosa simile è capitata durante i campionati del mondo di Italia ’90: solo qualcuno con la sua importanza può fare in modo che una parte degli italiani tifi per l’Argentina, in casa propria. Però il suo passaggio per Napoli, come tutto quel che fece, trascende il calcio. Diego rappresentò una rottura storica. Fu la mano di Maradona (la stessa mano che rimase nella storia del mondiale 1986) che avvicinò la frattura tra i potenti del Nord e gli emarginati del Sud, mettendo il Napoli tra gli storicamente grandi e riuscendo perfino a superarli in molte occasioni». Il ricordo dell’Universiade Napoli 2019 sembra ancora vivo ed emozionante... «Durante i giochi mondiali

Emiliano Ojea

universitari, celebrati a Napoli nel 2019, i 252 argentini si sono sentiti come a casa loro. Durante la cerimonia di apertura, nello stadio che oggi conosciamo come “Diego Armando Maradona”, abbiamo dovuto sfilare dietro la bandiera Argentina, insieme a 150 paesi partecipanti, come indica il protocollo di questi eventi multi sportivi. Mentre le delegazioni stavano sfilando, il popolo locale dava il benvenuto con applausi ai diversi paesi di tutto il mondo. Quando è stato il momento della delegazione Argentina si è cominciato a sentirsi un clima diverso. La bandiera celeste e bianca andava verso il campo, la gente ha cominciato ad applaudire con più energia. Quando poi un gruppo di studenti sportivi della nostra delegazione ha mostrato la maglietta di Maradona, la 10, quella di Dio, e l’immagine è comparsa nello schermo dello stadio allora il tempo si è fermato per un istante. Lo stadio si è emozionato. Fu come se, all’improvviso, fossimo stati teletrasportati. Non eravamo più in Italia, le frontiere erano sparite, eravamo di nuovo in Argentina. 50.000 persone urlavano per noi, cantando e piangendo

per il nostro paese e ricordando il più grande, colui che fece felice la gente, ci fece sentir parte di quella gente, lui fece di Napoli la nostra casa, mentre “Olè, Olè, Olè, Diego, Diego” era cantato di nuovo dalla gente sugli spalti». Che storia è quella dell’Argentina con Napoli? «La storia di Diego e del Napoli è anche la nostra, la storia del popolo argentino: Infatti, come omaggio, l’artista argentino Alejandro Marmo, autore di “El abrazo” nel Vaticano e nell’Aeroporto di Fiumicino, ha creato l’opera “Diego Iluminado”, che è presente sempre di più negli stadi e club popolari del nostro paese. Come gesto di fraternità, insieme all’artista e all’ambasciatore argentino in Italia, Roberto Carles, stiamo organizzando un viaggio a Napoli ad ottobre per donare l’istallazione “Diego Iluminado” a questa bella città, per segnare il ponte che il più grande ha costruito tra Italia e Argentina. Diego Armando Maradona è stato e sarà sempre il rappresentante dei poveri, il calciatore del popolo, quello che ha portato la bandiera argentina e napoletana avanti, per questo sarà sempre nel nostro cuore».


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SPECIALE D10S

di Angelo Velardi

«diego: un partigiano che giocava a calcio»

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artín è un professore di letteratura. Un argentino, tifoso del Boca, cresciuto a due passi da casa Maradona. Nonostante gli oltre 11.000 chilometri di distanza, le 5 ore di fuso orario e le difficoltà linguistiche, la poesia e la capacità empatica con cui Martín è stato in grado di raccontare il suo rapporto con “el Diego” hanno fatto sì che fossimo seduti allo stesso tavolo, che si creasse qualcosa di speciale e irripetibile. Ciao Martín, prima di tutto raccontaci un po’ di te. Come è entrato Diego nella tua vita? «Vivo nel barrio porteño di Villa Devoto, a due isolati da dove Don Diego e Doña Tota Maradona passarono gli ultimi 30 anni. Papà mi ha raccontato che quando avevo due anni passammo per questa casa e c’erano i fratelli di Diego che giocavano col pallone. Lui non c’era e io, sapendo appena parlare, gridai: «Saludos a Dieguito!». Papà ancora oggi non si spiega come sapessi chi fosse. Nemmeno io me lo spiego. È come se Diego fosse sempre stato con me, come se lo conoscessi sin dalla nascita. Durante Italia ’90 avevo 9 anni e ricordo Diego piangere con la medaglia del secondo posto al collo. Un campione che piangeva come un bambino che ha appena imparato cosa sono il dolore e la frustrazione! Da allora è nata una simbiosi: la sua felicità era la mia, le sue lacrime erano le mie».

La notizia della morte di Diego ha commosso il mondo. Cosa ha significato per te? «Ha significato tanto dolore, ma anche incredulità. Più passano i giorni e meno ci credo. Mi sento come quando si ritirò dal calcio. Credevo che da un momento all’altro potesse indossare di nuovo gli scarpini e riprendere a giocare». Napoli ha adottato Diego come un figlio, lo ha amato come un dio. Come può un calciatore entrare tanto nel cuore di un popolo a cui non appartiene? «Penso che il discorso di Diego sia da affrontare su un livello più alto di quello calcistico. Per questo ha avuto un impatto così grande, si trasformò in un simbolo dei popoli sottomessi. Molti grandi calciatori eccellevano nelle situazioni più favorevoli, lui era migliore nelle avversità. Lo ha fatto con il calcio, ma poteva farlo

con qualsiasi altro sport. Non era un calciatore, era un partigiano che giocava a calcio». Molti dicono: era un calciatore forte, ma un uomo debole. Sei d’accordo? «Credo che ci siano due errori. In primo luogo: non era un uomo debole, il peso che doveva sopportare era disumano. La sua vita sarebbe stata insostenibile per chiunque. In secondo luogo, separare il calciatore dall’uomo è un errore! Non c’è genio che non sia stato umano. Il calciatore e l’essere umano sono un’unica cosa». Messi ha vinto il suo primo trofeo con l’albiceleste. È lui l’erede di Diego? «Si cercano sempre eredi. Ma aldilà di ciò, vanno considerate le circostanze in cui l’eredità è stata costruita. Si possono ripetere trofei e gol, ma non le circostanze. Il significato sociale di Diego è impossibile da ripetere». Quale pensi sia il maggior rimpianto della vita di Diego? Dove ha eventualmente sbagliato lui e dove, invece, il mondo del calcio e non solo? «Diego, per gran parte della sua vita, non ha avuto pace e in questo tutti abbiamo una percentuale di responsabilità. Oggi so che gode della pace che non aveva. Per il resto non sono io a giudicarlo. Lo ringrazio solo per tutte le gioie che abbiamo vissuto grazie a lui. Questo gli dissi al suo funerale, a Casa Rosada: “Grazie di tutto, Maestro!”».

Nonno, mi racconti Maradona? La favola del dio del calcio raccontata da un nonno ad un nipote di Giuseppe Spada

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uando sei bambino tante cose di cui parlano i grandi non le capisci, riesci solo a percepirne la grandezza grazie ai toni e agli sguardi con il quale quelle cose vengono raccontate. È questo il caso di Diego Armando Maradona. Da piccolo, per qualche motivo, ero un tifoso sfegatato della Roma e idolatravo Francesco Totti, poi un giorno, nonno Enzo decise di convertire la mia fede calcistica raccontandomi la favola di un ragazzo un po’ tarchiato e coi capelli ricci che “faceva i miracoli”. A distanza di tredici anni gli ho semplicemente chiesto di rifare la stessa cosa. Prima che Maradona diventasse una leggenda a Napoli cosa sapevi di lui? «Sapevo che giocava al Barcellona e che era un grande campione. Fino all’ultimo momento io e tutti i miei amici abbiamo sperato che arrivasse a Napoli. Quando è arrivato tutto il popolo napoletano, me compreso, ha esultato come se avesse già in tasca tutte le vittorie e forse

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avevamo ragione». A livello personale come l’hai vissuto El Pibe? «Io sono nato e vissuto nel cuore di Napoli, a San Giovanni a Teduccio, pertanto ho vissuto il fenomeno Maradona al 100%. Purtroppo, da vicino, l’ho visto una volta sola. Facevo il parcheggiatore a Piazza Plebiscito, quando ancora ci si potevano mettere le macchine. Alcuni suoi assistenti mi chiesero di riservargli un posto perché da li a poco sarebbe arrivato come ospite all’inaugurazione di una pellicceria. Fu così. Furono solo pochi attimi, ma mi basteranno per tutta la vita». Quando lo hai visto per la prima volta? «Alla sua presentazione. Ero uno dei tanti presenti sugli spalti del San Paolo. In Seguito l’ho visto giocare tante altre volte, ho seguito ogni singola trasferta del Napoli e in ogni occasione, Diego, stupiva. Non era un calciatore, era un giocoliere, pertanto pioggia, freddo e caldo non fermavano la mia voglia di andarlo a vedere». Ti ricordi qualche sua azione in particolare?

«Mi è rimasto impresso quel famoso gol contro la Juve, era novembre e io ero sugli spalti. Si trattava di una punizione tirata dal limite destro dell’area, era impossibile che il pallone bucasse la porta, ma la punizione la tirava Maradona. La palla fece una traiettoria impossibile, gli sforzi di Tacconi per bloccarla furono inutili. Per non parlare dei numeri da circo che faceva durante gli allenamenti, pure quelli seguivo e lo facevo perché ogni attimo che Diego toccava la palla si doveva rubare. Non ammirarli era come ignorare un’opera d’arte».


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di Rossella Schender

Pomigliano: le pantere arrivano in Serie A

Intervista all’allenatrice Manuela Tesse e al capitano Gaia Apicella

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isputando un’ottima stagione in Serie B e collezionando 15 vittorie, 3 pareggi e 5 sconfitte, le Pantere del Pomigliano del patron Raffaele Pipola sono riuscite a conquistare la promozione in Serie A con tre giornate di anticipo. La Campania dunque sarà importante palcoscenico per la prossima stagione di Serie A ospitando il Derby campano tra Napoli e Pomigliano. Le ragazze della coach Manuela Tesse, allenatrice del Pomigliano dallo scorso febbraio, hanno disputato un’ottima stagione superando di gran lunga le aspettative e dimostrandosi all’altezza delle big di Serie A. La massima serie ci dà appuntamento sui campi della penisola il 29 agosto e conterà 12 squadre. Questo campionato sarà “di transizione” in attesa della stagione 2022\23 che segnerà l’inizio del campionato femminile professionistico composto da 10 squadre, come stabilito dal Consiglio Federale. La cavalcata della squadra granata, che in due anni ha conquistato la Serie B prima e la Serie A poi, ha creato un clima d’orgoglio nella cittadina pomiglianese. Per farci raccontare l’avventura abbiamo intervistato la coach Manuela Tesse e il capitano Gaia Apicella. Gaia, raccontaci il tuo percorso fino all’approdo al Pomigliano… «Ho iniziato al Napoli, facendo con loro tutto il percorso nelle giovanili fino ad arrivare in prima squadra all’età di sedici anni. Ho poi giocato nella Domina Neapolis in serie B e, infine, sono andata alla Virtus Partenope che poi è diventata il Pomigliano». Da due anni sei diventata capitano della squadra, questo ha comportato cambiamenti nel tuo modo di affrontare le partite? «Ero il capitano già nella Virtus, successivamente, col cambio di

Manuela Tesse

denominazione hanno deciso che dovessi rimanere tale nel Pomigliano. Gaia Apicella In generale, l’ho sempre detto: per me è un onore rappresentare questa società con la fascia al braccio soprattutto per il peso che ha, visto che porta il nome della figlia del presidente che è venuta a mancare». Cosa puoi dirci di mister Esposito, autore della promozione in B? «Mister Esposito mi ha allenata per tanti anni, sono molto legata a lui. Ha creato un bellissimo gruppo e messo le solide basi per l’anno della promozione in A. Il Pomigliano è nato insieme a lui e il suo lavoro, fino alla prima parte della scorsa stagione, è stato fondamentale». Coach Tesse è un’ex calciatrice, quanto ha aiutato questo nella vostra crescita sul campo? «L’ho ripetuto spesso: se non fosse arrivata lei non ce l’avremmo fatta ad arrivare in Serie A. Nonostante mister Esposito abbia i suoi meriti, è andato via in un momento della stagione in cui eravamo molto stanche ed eravamo quasi giunte al punto di mollare. Lei, con tutta la sua esperienza, è riuscita a risollevarci e a darci una mentalità vincente». Cosa vi aspettate dalla Serie A? «Ci stiamo preparando al meglio, siamo emozionatissime. Anche solo aver cominciato il ritiro ci fa entrare nell’ottica che la stagione è imminente. Sappiamo bene

quanto sarà difficile, quest’anno le retrocessioni saranno tre e non due, quindi dovremmo lottare in ogni singola partita, ma ci faremo trovare pronte». In Serie A vedremo il Derby Campano con il Napoli, come ve lo aspettate? «Non le abbiamo mai incontrate in passato quindi sarà la prima volta proprio in Serie A che il Derby Campano sarà disputato. Durante la partita ci saranno tante ex, poiché molte di noi hanno giocato prima nel Napoli, questo rende il tutto molto più vivo. Speriamo di giocarcela al massimo delle nostre possibilità e di avere la meglio!» Queste le dichiarazioni di Gaia Apicella, terzino e capitano classe 1993, alle sue parole si sono aggiunte quelle della coach Manuela Tesse che, da ex allenatrice della Lazio in materia di Derby è ben preparata: «Il cammino verso la Serie A ci aveva preparate anche all’emozione di poter giocare il Derby. Pomigliano e Napoli distano solo 7 km questo fa sì che sia parecchio sentito come scontro, sia da noi che dalla società. Siamo entusiaste, credo che sarà sicuramente una delle partite più emozionanti di questo campionato». Coach può raccontarci del percorso fino alla promozione in A raggiunta con tre giornate d’anticipo? «Ho ereditato a febbraio, da mister Esposito, una squadra in una posizione paradossalmente scomoda. Quando sono arrivata gli obiettivi rispetto all’inizio del campionato erano cambiati, nel

senso che inizialmente essendo una neopromossa l’obiettivo era la salvezza. Successivamente, con il buon lavoro fatto da chi mi ha preceduta, ho ereditato una squadra prima in classifica, ma a un punto dalla seconda e con tutto il girone di ritorno ancora da giocare, ricco di scontro diretti. La squadra non era mentalmente preparata a un obiettivo così alto». Qual è stata la gara che più di tutte vi ha fatto capire che ce l’avevate fatta? «Decisamente la sfida col Como. Abbiamo raggiunto l’obiettivo promozione con la partita contro il Como, il 18 aprile, che era una diretta avversaria. Riuscendo a trionfare l’abbiamo rispedita a 7 punti da noi. Nonostante non fosse ancora ufficiale, riportare le altre squadre a distanza ha ufficiosamente sancito la vittoria del campionato». Avete obiettivi già fissati da raggiungere per la prossima stagione? «A Pomigliano ho imparato che bisogna essere umili, ma che i sogni si possono avverare. Disputeremo questo campionato dando il meglio di noi stesse, speriamo di riuscire a raggiungere la salvezza e, magari, lavorare per qualcosa di più». Sarete protagoniste di un’amichevole di lusso contro la Juventus, come vi sentite? «Le amichevoli ci servono solo per capire a che punto è la squadra e quali sono i punti su cui migliorare, quindi non ci stiamo preparando per la gara con la Juventus quanto in generale per la nostra stagione». Vi aspettate un seguito dalla piazza in vista delle riaperture degli stadi? «Beh, sì. Ne abbiamo assolutamente bisogno poi, come risaputo, il pubblico in Campania è molto caloroso. Visto che abbiamo regalato la promozione a tutti i pomiglianesi speriamo possano sostenerci durante le partite. Purtroppo non sarà ancora permesso l’accesso a tutti ma spero che, nei numeri consentiti, riempiremo gli stadi». Agosto 2021

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L’Europa si tinge d’azzurro

dopo 53 anni di Alessandra Criscuolo

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uando si racconta una storia si inizia dal principio, volendo esagerare si può partire dalla conclusione. Ma la vittoria dell’Italia ad EURO2020 si racconta partendo da metà manifestazione. Dopo i gironi, all’improvviso, la Nazione ed i tifosi hanno scoperto la Nazionale di Mancini. Un gruppo che nasceva dalle ceneri di un insuccesso, la squadra che fallendo la qualificazione ai Mondiali del 2018 aveva gettato nello sconforto, non solo i tifosi azzurri, ma probabilmente l’intero sistema, lasciando una profonda scia di delusione e sfiducia. E probabilmente sono stati questi i sentimenti che hanno accolto la nomina di Roberto Mancini a nuovo CT e le sue convocazioni per gli Europei. Che poi è nel DNA di ogni tifoso italiano riscoprirsi allenatore all’occorrenza! Lo slittamento di 12 mesi della competizione a causa dell’emergenza Covid-19 aveva distolto l’attenzione, lasciando in sospeso il giudizio. Poi ci siamo ritrovati in campo ed è stato il momento di dire la nostra. Eppure, i convocati sono partiti pieni di belle speranze, dettate forse dalla giovane età o magari dalla voglia di riscatto per le pregresse delusioni. Il girone non sembrava difficile e in effetti qualificarsi primi uscendo imbattuti ha dato un po’ la scossa ad una platea assopita. Improvvisamente ci siamo riscoperti Italiani e siamo scesi in piazza. Perché no, forse potevamo anche crederci! Donnarumma, Meret, Sirigu, Acerbi, Bastoni, Bonucci, Chiellini, Di Lorenzo, Florenzi, Spi-

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nazzola, Toloi, Barella, Cristante, Jorginho, Locatelli, Castrovilli, Pessina, Verratti, Belotti, Berardi, Bernardeschi, Chiesa, Immobile, Insigne, Raspadori. Questi i convocati dal Mister, giocatori che nelle loro squadre di club si sono fatti notare raggiungendo anche importanti traguardi, ma che all’inizio ci sono sembrati troppo inesperti ad una grande competizione o forse poco amalgamati tra loro. Invece, fin dai primi calci al pallone si sono dimostrati coesi e felici di giocare insieme. Un gruppo che partita dopo partita sembrava scendere in campo allegro e spensierato, anche troppo. Ma Mancini era stato chiaro fin dal principio: “Scenderemo in campo per divertirci e far divertire” e così è stato. Una dopo l’altra le grandi Nazionali europee si sono dovute piegare ad un gioco fatto di scambi veloci ed individualità messe al servizio del collettivo. E se Turchia, Svizzera e Galles erano sembrati a tutti dei facili ostacoli da superare, l’Austria agli ottavi ha subito dato la misura della forza del gruppo. Era la partita che poteva spegnere gli entusiasmi invece li ha portati alle stelle. Incontrare il Belgio ai quarti, la squadra prima nel Ranking Mondiale, ha fatto temere il peggio. Conosciuti e temuti i belgi hanno subìto il gioco degli azzurri lasciandoli liberi di esprimersi e prevalere. La Spagna in semifinale ci ha fatti tremare e la partita si è decisa ai rigori dove è prevalsa la bravura del nostro portiere. Altrove,

l’altra semifinale si chiudeva allo stesso modo mandando in finale l’Inghilterra. Wembley 11 luglio 2021, una data che entra nella storia come quando nel 1982 un’altra Italia batteva la Germania Ovest al Bernabeu vincendo il Mondiale. I ragazzi azzurri sono entrati in uno dei templi del calcio giocando in trasferta con una cornice di pubblico imponente: circa 70.000 tifosi sugli spalti riconquistati dopo il Covid, ma appena il 10% di fede italiana. Ricorderemo l’inno fischiato e la cronaca ci racconterà poi di tafferugli tra tifosi, ma niente è servito a distogliere l’attenzione della squadra che ha confessato di essersi caricata ancora di più in quell’ambiente ostile. Il resto è ormai storia: il match si è concluso ai rigori e per una finale forse è giusto così. Il boato di gioia alla parata finale di Donnarumma su Saka è riecheggiato di piazza in piazza, di continente in continente. Alla fine, scopriremo che l’unico a non aver capito l’impresa fatta è stato proprio il nostro portiere, talmente concentrato da non accorgersi che fosse l’ultimo tiro. Ma anche questo ci fa capire quanto questi ragazzi volessero regalare la vittoria ed il sogno a tutti i tifosi. Agli inglesi rimarrà la certezza di aver cantato vittoria troppo presto: “It’s coming home” hanno declamato per giorni, rivendicando l’invenzione del gioco calcio. “It’s coming Rome” gli è stato risposto da chi ha giocato il calcio più bello.


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di Alessandro Robustelli

«Assunzione di ormoni, nuova minaccia per gli atleti» L’analisi del professor Alfonso De Nicola su droghe e sport

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olto spesso le droghe sono la parte più oscura di ogni disciplina sportiva. Che si parli di stupefacenti o di alcol, la dipendenza psicologica che si crea non va mai d’accordo con la vita di un atleta. La voglia di capirne di più sul perché un professionista rischi la propria carriera lasciandosi andare all’uso di droghe, ci ha portato nello studio del professor Alfonso De Nicola, ex medico sportivo di Bari e Napoli, per delle risposte. Professore, ha mai avuto casi di giocatori risultati positivi al doping? «Rendersi conto del fatto che un atleta faccia uso di sostanze non consentite, non è sempre facilissimo. Nella mia carriera da medico sportivo non ho, per fortuna, mai riscontrato un mio atleta sotto effetto di stupefacenti. Le posso dire, che molti anni dopo che lasciai Bari, venni a sapere di un giocatore che si dopava, ma a quel tempo era impossibile accorgersene». Quali sono gli effetti più gravi che le droghe possono avere su un atleta? «All’inizio nessuno. Chi fa uso di queste sostanze è in preda all’euforia più totale. Gli atleti portano il loro fisico a sforzi che una persona normale non compie. Quindi un corpo pieno di “schifezze” non potrà mai portare veramente benefici nel lungo periodo. Il sangue potrebbe avere problemi nella sua completa ossigenazione, tanto per dirne una. Le droghe portano sicuramente più svantaggi». Metterebbe insieme alcol e droga come stesso tipo di dipendenza? «La dipendenza dall’alcol è la più comune tra i calciatori. Spesso mi sono trovato nella mia carriera da medico sportivo ad affrontare numerose volte giocatori che erano completamente sopraffatti dalla voglia irrefrenabile di vino. Penso che questa dipendenza batta sicuramente, per la mia esperienza, quella dalle droghe pesanti. Perché, poi, la cannabis e le sigarette meriterebbero un capitolo a parte». Apriamo una vecchia ferita, da medico sporti-

vo del Napoli. Vogliamo la sua opinione sul continuo dibattito su Maradona: la cocaina lo ha aiutato o no? «Guardi, Diego era Diego. Era eccezionale. E nonostante non si voglia ammettere, oltre che un grande giocatore, era anche un grandissimo atleta. Il suo fisico ha retto anni e anni di dipendenze varie. Nella mia modesta opinione, Diego senza la cocaina avrebbe potuto dare molto di più e divertirsi molto di più in campo. Avrebbe avuto sicuramente una carriera molto più longeva. La droga penalizza chiunque, che tu sia Maradona o un giocatore normale, non sarà mai la cocaina a farti migliorare». Prima ha detto che le sigarette e la cannabis meriterebbero un capitolo a parte: ci dice il perché?

«Il fumo e la cannabis sono le così dette “droghe leggere”, ma alla fine quello che veramente conta è la dipendenza dalla sostanza, non quello che si assume. La cannabis va, per esempio, ad intaccare il sistema nervoso periferico, oltre che i polmoni, creando continui sbalzi sia psicologici che fisici. Ovviamente è molto più facile procurarsela rispetto alla cocaina, ma perlomeno ha degli effetti meno distruttivi». Qual è secondo lei il nuovo tipo di “droga” tra gli atleti di oggi? «L’assunzione di ormoni. Mi spiego meglio: ad oggi per poter eccellere nello sport bisogna essere più rapidi e più fisici possibili, quindi si cerca di ingerire numerosissime pillole ormonali che possano permettere uno sviluppo più rapido del proprio corpo. Come potrà immaginare è illegale, ma soprattutto ha un effetto sull’organismo veramente distruttivo. Il rischio di tumore agli organi riproduttivi con questa aggiunta di ormoni è veramente elevatissimo. Ormai si cerca ogni sotterfugio per poter competere in minor tempo possibile e in maniera migliore possibile». Per chiudere, venendo a lei, come si trova in questa sua seconda fase della carriera? «Io ho fatto il medico sportivo per 30 anni, ora mi occupo del Napoli Calcio femminile. Ho aperto questo studio per poter avviare un nuovo progetto, ma il covid non ha aiutato. Al di là dell’orribile periodo storico che stiamo vivendo, sono contento della creazione del mio centro sportivo. Molti atleti vengono qui perché negli anni sono riuscito a costruirmi una certa fama, e vado molto fiero di questo».

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L’IMPORTANZA DELLA PREVENZIONE

di Patrizia Maiorano

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er praticare una salutare attività sportiva, è necessario associare ad un allenamento corretto, in termini di qualità e di quantità, una buona attività di stretching e di scarico muscolare che permetta all’organismo di mantenere nel tempo una buona capacità funzionale. Questo fa sì che la muscolatura segmentaria non vada in riserva funzionale inducendo, poi, problematiche legate al sovraccarico (facile faticabilità, dolore, lesioni) e che le catene muscolari, responsabili del nostro equilibrio posturale, mantengano una buona elasticità e lunghezza. L’esercizio fisico, con la contrazione concentrica delle fibre muscolari, fa sì che i muscoli crescano in larghezza (la cosiddetta massa muscolare), accorciandosi. Proprio per questo, un allenamento dev’essere seguito sempre da un’attività di allungamento, affinché il muscolo conservi la piena capacità di contrarsi con la stessa forza e la stessa ampiezza. Quando questo non avviene, si va quasi sicuramente incontro ad un affaticamento e a delle retrazioni/contratture muscolari che, a lungo andare, possono esordire anche in lesioni (quelle che definiamo distrazioni muscolari, di I – II e III grado).

Un nostro lavoro scientifico, svolto su calciatori di una squadra di serie A, ha evidenziato una predisposizione genetica alle lesioni muscolari legata a dei polimorfismi presenti nei geni deputati alla formazione di vasi, di collagene, di fibre muscolari, alla produzione di lattato e alla omeostasi del ferro. Alcuni calciatori, rispetto ad altri, presentavano una maggiore prevalenza di polimorfismi con una più significativa predisposizione alla fatica e alla lesione muscolare. Nonostante tutto, questa “fragilità” veniva compensata da un buon lavoro di allenamento e di recupero muscolare tanto che la squadra esaminata risultava la prima in Europa per il minor numero di infortuni. Nella pratica sportiva quotidiana, qualunque

essa sia, allenamenti continui che non siano seguiti da una buona attività di stretching possono portare, nel tempo, ai problemi più svariati. Negli sport “overhead”, cioè quelli in cui il braccio è spinto al di sopra della testa (nuoto, baseball, pallavolo) si assiste spesso a problemi di spalla e del rachide, come tendiniti della cuffia dei rotatori o cervico-dorso-lombalgie. In questi casi, a meno che non ci sia stato un trauma, la natura del dolore è legata essenzialmente al sovraccarico dei muscoli scapolo-omerali e paravertebrali. Negli sport di velocità o di resistenza (come la corsa o il calcio), ci si ritrova spesso dinanzi a dolori e/o distrazioni muscolari agli arti inferiori, pubalgie e dorso-lombalgie. In questi casi, all’obiettivo di risolvere la problematica locale, bisogna associare quello di identificare e rimuovere la causa scatenante, che può trovarsi anche a distanza dalla sede del dolore e che spesso è dovuta a sovraccarichi funzionali e ai continui compensi che il nostro corpo mette in atto in maniera spontanea. È ovvio, quindi, che nell’attività sportiva è molto importante mettere in atto una giusta prevenzione piuttosto che dover cercare una buona cura.

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di Salvatore Aversano

UNITÀ D’ITALIA La lezione della squadra Italia al Paese Italia

Come può essere consentito che un bambino del sud non abbia il diritto di avere un asilo (perché fondi zero) mentre in altre parti del Paese si costruiscono asili

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strano affermarlo, generalmente dovrebbe essere l'inverso: in un paese coeso, intelligente e forte, dovrebbe essere la “nobile politica” ad esprimere caparbiamente i valori dell’unità, a volte però, è proprio lo sport a svolgere il ruolo di maestro di vita. Se solo l'Italia politica prendesse spunto da quella calcistica per la quale il gruppo, l'essere tutt'uno, lottare per un obiettivo comune è stato dal primo giorno il grande capitale di questa Nazionale, le cose sarebbero sicuramente molto diverse nel nostro paese. Il gioco del calcio, indicato spesso in gergo come il “pallone”, con questa Nazionale ha esaltato quelli che sono i valori fondamentali di una squadra: gruppo, rispetto, collaborazione, risultato, integrazione e appartenenza dovrebbero essere i valori alla base non solo di una squadra di calcio, ma di ogni paese civile che vuole e pretende di definirsi unito. La Nazionale Italiana è apparsa a tutti, fin dai primissimi giorni, un gruppo unico, coeso, dove ognuno nel proprio ruolo e con le proprie caratteristiche individuali, ha contribuito al risultato finale. A formare la nazionale c’erano giocatori provenienti dalle diverse regioni e squadre d'Italia, ognuno con il proprio ruolo, le proprie qualità, il proprio bagaglio di tradizioni. Tutto questo, messo a disposizione del gruppo per arricchire l’Italia e non certamente per dividere, con l’Unità che è sempre prevalsa fornendo valore aggiunto. Certo, avere il bene comune come

fine significa: disponibilità, sacrificio, qualche rinuncia personale, condivisione… ma i risultati poi, vanno sempre oltre la somma delle singolarità. Non si sono mai sentite e neanche pensate affermazioni, tanto becere, limitanti e probabilmente dal sapore anticostituzionale del tipo: prima il Nord, prima i Padani, Meridionali “ Brutti ,sporchi e cattivi”, milanesi polentoni … con una narrazione spesso a senso unico, non veritiera ed orientata più a dividere che ad unire. Tra l’impegnativo lavoro quotidiano, ai numerosissimi scherzi goliardici, in Nazionale, ognuno è sempre stato sé stesso ed Italiano. Tutti Italiani, significa tutti con gli stessi diritti e doveri da Trieste in giù (cit.), dove la Carta Costituzionale ha veramente lo stesso valore in ogni parte del paese senza distinzioni geografiche. Dove un bambino che nasce a Milano, Napoli o Palermo ha le stesse possibilità di studiare, essere assistito, muoversi, collegarsi…, e perché no: sopravvivere. Veramente pensate che se nella Nazionale Italiana non ci fosse stato lo spirito di gruppo, del sentirsi veramente un tutt’uno, del sentirsi prima di tutto Italiani e rappresentare al meglio il Paese, il percorso calcistico agli europei sarebbe stato lo stesso? Questi valori, sono i valori che sorpassano anche le leggi del-

la matematica algebrica di base, perché 1(Nord)+1(Centro)+1(Sud) in questo caso non farà 3 ma 10 , perché l’unione è sinergica. In un mondo sempre più globalizzato e con sfide mondiali, bisogna capire e prendere atto che oramai è una necessità di sopravvivenza invertire le rotte secessioniste e puntare ad una vera Unità d’Italia, fare il “sistema Paese”. È vero, abbiamo assistito per anni, partendo dalla narrazione storica e passando alla gestione quotidiana, ad una “strana” divisione/distribuzione dei fondi nei confronti del meridione che poi a cascata hanno inciso profondamente sui livelli dei diritti, della qualità di vita e del benessere dei meridionali… e tutto è oramai ampiamente documentato (… Marco Esposito, R. Napolitano, Report, Recovery SUD-500 sindaci, Equità Territoriale…solo per citarne alcuni). È vero, molte domande, apparentemente anche banali, cercano ancora una risposta politica. Esempio: in un Paese Unito, come può essere consentita l’esistenza di un sistema sanitario regionale e non nazionale (con fondi pro-capite completamente diversi in ogni regione)? Come può essere consentito che un bambino del sud non abbia il diritto di avere un asilo (perché fondi zero) mentre in altre parti del Paese si costruiscono asili, ma

non ci sono i bambini da ospitare? Ahimè potrei continuare per ore. Questo però, è probabilmente il momento di porre fine a tutte queste iniquità, grazie anche all’Unione Europea che ha stanziato fondi specifici per colmare il divario Nord-Sud e favorire la vera Unità d’Italia. Ovviamente il rispetto e l’applicazione delle volontà dell’Europa sono fondamentali. Speriamo che i “campanilismi” e gli interessi economici di parte non sottraggano al Sud quanto gli è dovuto, perché in questo caso a farne le spese non sarebbe solo il Mezzogiorno, ma l’intero paese. Purtroppo dalle recenti e numerose denunce, anche di esimi cattedratici, sembra che le cose non stiano proprio procedendo nella direzione auspicata, ma che nei confronti del Sud si stia perpetrando un’ulteriore grande beffa, sarà quindi necessario vigilare e attenzionare i processi. Questo però probabilmente, è il momento di lottare per costruire, con equità e giustizia, tutti insieme, in pari dignità e diritti, da cittadini Italiani, una Vera Unica Grande Italia. Per un sud mai più colonia, in una vera Italia unita, in una grande Europa nel mondo. Spetterà ora alla “Vera e Nobile Politica” volere ed implementare questo cambio di rotta. Ora o mai più. Agosto 2021

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C ULTURA

di Roberto Nicolucci

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ome accade nei frangenti di massima crisi o - ci auguriamo tutti - nel momento di uscirne; ecco che si ritorna a parlare di Cultura con la c maiuscola. Nella Parigi dell’occupazione tedesca i teatri erano strapieni e non sono mai usciti tanti libri, riviste, proposte culturali di vario tenore e spettacoli come in quest’anno e mezzo di lotta alla pandemia che, da più parti, si apparenta ormai ad una guerra: in atto o, auspicabilmente, in via di esaurimento. Figli e nipoti torneranno a scuola, inventandosi una vita extrafamiliare, che appartiene solo e soltanto a loro. Quanto ai fratelli maggiori: dovranno cominciare a pensare al cammino universitario. E molti tra questi, posti dinanzi alla scelta di una facoltà, si chiederanno seriamente se non sia il caso di far ricarburare, nel palinsesto formativo di un ateneo telematico, quanto messo a profitto – con qualche preliminare incertezza poi con maggior convinzione – le specialissime virtù di un apprendimento on line. Abbiamo imparato tutti a riconvertire e modulare le parole e le immagini attraverso uno schermo: ora possiamo scegliere la Facoltà sulla scorta di questa esperienza. Studiare da casa significa poter implementare e integrare in tempo reale le informazioni apprese. La matricola iscritta al primo

Da una remota cultura alla Cultura in remoto anno o il giovane studioso che ne sappia già qualcosa, ma voglia saperne di più, possono loro sponte decidere di allargare al massimo le rette del compasso, dilatando lo spettro dell’indagine, connettendo l’una informazione all’altra. Aprendo, inoltre finestre di dialogo e creando percorsi inediti. Si tratta, né più né meno, di quanto avrebbero desiderato, nel migliore dei mondi possibili, intellettuali settecenteschi del calibro di Voltaire o Diderot. Gli illuministi francesi, insomma. I quali avevano congegnato in questo modo le voci e i lemmi dell’Enciclopedia. Come uno schermo fatto di icone che si connettono l’una all’altra. Senza saperlo avevano inventato un lettore curioso e partecipe che prima non esisteva. Oggi gli atenei telematici, che costituiscono una mappa del sapere nel nostro paese ambiscono a formare un navigatore consapevole, capace di muoversi autonomamente tra i vari percorsi proposti e, dunque, anche nel mercato del lavoro. Sono passati meno di trecento anni: ma sembrano tornate le condizioni per un nuovo Illuminismo. Quello francese fu la premessa di una Rivoluzione; il nostro potrebbe farci uscire da una crisi epidemica che non è solo un problema locale e mondiale di salute pubblica ma anche, e soprat-

tutto, di coscienza civile. Sebbene non ci sia bisogno di sottolinearlo, per secoli l’Università è stata luogo deputato della trasmissione delle informazioni. Nessuna storia culturale, dunque politica e civile, sarebbe completa o solo pensabile se non tenessimo conto dell’apporto di queste cittadelle del sapere che, spesso, s’identificano, per sineddoche, con la città dove sono ubicate. Pensiamo a Oxford o a Cambridge; pensiamo, per rientrare in Italia, alla Normale di Pisa o alla Bocco-

restabile, gli atenei telematici si sono posti come nuova opzione e, presto, come asso nella manica dell’offerta culturale del nostro paese. Un’eccellenza: l’Università degli Studi Guglielmo Marconi, riconosciuta ormai da oltre tre lustri (2004), vanta un’offerta esavalente: i dipartimenti di Economia, Giurisprudenza, Lettere, Scienza della Formazione, Scienze Politiche e Scienza della Tecniche e delle Tecnologie Applicate coprono uno spettro sufficientemente ampio su una contemporaneità che ci ritorna come vieppiù complessa da decifrare e decodificare mentre, nel contempo, invitano a una riflessione sulla nostra storia che, bene o male, ci ha resi ciò che siamo.

ni o alla Cattolica. Si tratta, a pensarci bene, di piccole città. Nel corso dei secoli queste insule del sapere hanno convissuto con atenei pubblici dove, fatalmente, il livello appariva o appare discontinuo; chiazzato a macchia di leopardo e dove, spesso, l’iscrizione dipende dalla presenza di un certo docente o da motivi meramente logistici. Nel corso degli anni, con successo crescente e con incremento inar-

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C ULTURA

di Rossella Schender

Arte e intrattenimento si incontrano alla

Reggia di Carditello Il direttore Roberto Formato fa il punto sulle tante novità del Real Sito

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l Real Sito di Carditello, costruito per volere di Ferdinando IV di Borbone, sorge sul territorio della provincia di Caserta, a San Tammaro, nel 1787. Il Real Sito, meglio noto come Reggia di Carditello, vive un periodo di massima importanza culturale durante il periodo borbonico per poi, in epoca moderna, divenire protagonista di un travagliato percorso segnato prima dalla violenza delle occupazioni durante la seconda guerra mondiale, poi le conseguenze di una crisi finanziaria che vedono il Sito posto all’asta e lasciato abbandonato a sé stesso o, peggio, utilizzato dalla malavita. Nel 2016 la costituzione della fondazione Real Sito di Carditello segna per la Reggia un momento di rinascita finalizzato alla promozione e al recupero di questo immenso patrimonio culturale. Per sapere come sta reagendo il Sito nel periodo post seconda ondata da Covid-19 abbiamo deciso di intervistare il direttore Roberto Formato. Come ha influito la seconda ondata di contagi sulle attività del Sito? Come stanno andando le riaperture? «Vantando 15 ettari, la Reggia ha la caratteristica di avere uno spazio molto aperto e quindi non aver subìto particolari conseguenze a seguito della seconda ondata di contagi. Il Bosco dei Cerri, il Bosco di Eucalipti oltre che il Galoppatoio ci permettono di organizzare molte attività all’aperto, quindi non abbiamo dovuto far fronte a situazione di assembramenti e di congestione in spazi chiusi. Dopo la riapertura abbiamo avvitato l’attività del “Carditello Experience” con spettacoli teatrali, animazione per bambini e famiglie e anche programmi di yoga. In questo momento stiamo gestendo il “Carditello Festival”, un programma di spettacoli musicali all’interno del Galoppatoio, iniziato il 3 luglio e che si protrarrà fino al 29 agosto.

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Roberto Formato

L’impatto del Covid, quindi, non è stato particolarmente fastidioso». Gli eventi organizzati quali risultati hanno raggiunto e stanno raggiungendo? Sono soddisfacenti? «Sono stati assolutamente soddisfacenti. È chiaro poi che il successo di un evento è il frutto di un’alchimia composta da tanti ingredienti: c’è la qualità dell’evento che viene offerto, che deve avere una componente attrattiva molto forte, e c’è poi l’aspetto organizzativo. Dal punto di vista della capacità di attrazione quest’anno abbiamo avviato collaborazioni di qualità molto elevata, come La Mansarda Teatro dell’Orco – compagnia di teatro per le nuove generazioni – con attività teatrali nel bosco e nel Galoppatoio. Queste sono state molto

apprezzate permettendoci di registrare sempre dai 100 ai 150 spettatori paganti. Anche le attività educative e culturali per bambini sono andate molto bene, abbiamo infatti affiancato a queste ultime il campo estivo fatto con Panthakù – un’associazione nazionale che mira all’eliminazione della povertà educativa minorile – e, oltre questo, con l’associazione Banco di Napoli è stato organizzato un progetto per bambini autistici con l’utilizzo dei Pony». Per i prossimi mesi c’è già un programma da seguire? «Nel mese di agosto continueranno gli appuntamenti serali e quelli per i bambini nelle ore diurne. Dal mese di settembre riprenderemo con la “Carditello Experience” e metteremo a disposizione il bosco anche per eventi privati. Il 7 agosto inaugureremo la Mongolfiera di Carditello, frutto di un’iniziativa imprenditoriale nata a Carditello, sarà un appuntamento molto importante. Arriverà anche il tour da Monza in bicicletta, il quale coinvolge i ciclisti in un viaggio peninsulare di una settimana». Cosa può dirci circa la Mongolfiera? «È frutto dell’iniziativa con “Volare sull’Arte”, abbiamo promosso la partecipazione di imprenditori al bando del Ministero della Cultura “Cultura crea” chiamandolo “Carditello crea”, finalizzato a promuovere le attività imprenditoriali e legate ai beni culturali. A Carditello sarà, quindi, permanentemente offerto il volo vincolato in mongolfiera, non libero perché data la presenza della base di Grazzanise non è possibile svolgerlo. Con il volo vincolato la mongolfiera si alzerà fino a 30 metri circa, si avrà quindi la possibilità di avere una vista di Carditello dall’alto». In vista di settembre saranno effettuati dei lavori al parco? «Il parco è già in ottimo stato e dispone di circa trenta tavoli da picnic, e punti di food truck che creano un modello efficiente per quest’estate. La parte esterna è dunque fruibile e, al momento, non prevediamo ulteriori lavori». Come procede il suo lavoro? Considerando che è anche grazie alla sua direzione che Carditello sta vivendo una vera e propria rinascita. «Non spetta a me sicuramente valutarmi. Per cui, visto dal mio punto di vista posso dirmi soddisfatto perché, in questi tre anni a capo della fondazione, ho fatto molte cose. Quando sono arrivato il Sito era fruibile perché c’era un gruppo di volontari che si occupava di tutto, ma mancava effettivamente un’organizzazione funzionale per prendersi cura del parco. Oggi abbiamo un sistema che, non è sicuramente perfetto, ma si presenta decisamente in un ottimo stato e ha acquisito un’identità nella percezione del pubblico. Il Sito si presenta inclusivo, accogliente e offre dei servizi di qualità oltre che creare lavoro per i dipendenti».


C ULTURA

di Ludovica Palumbo

Il MAV: un luogo di cultura ed innovazione nell’antica Herculaneum

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l MAV, Museo Archeologico Virtuale, è un museo in cui cultura e tecnologia si incontrano in un connubio unico, uno dei pochi presenti in Italia. È dotato di molteplici installazioni multimediali che ricreano le aree di Pompei, Ercolano, Capri ed attraverso ologrammi e ricostruzioni, lo spettatore riesce quasi ad "entrare" in questi luoghi. Uno dei principali punti di forza del museo è la sua ubicazione, è infatti situato nel cuore di Ercolano, città famosa nel mondo per gli scavi archeologici di origine romana. Abbiamo incontrato il direttore del MAV, Ciro Cacciola, al quale abbiamo chiesto alcune curiosità e soprattutto in che modo il museo si è attrezzato in seguito alla pandemia da Covid-19. Come nasce il MAV e l’idea ‘’rivoluzionaria’’ di creare un museo virtuale? «Il MAV è nato da un progetto di riqualificazione urbana, per iniziativa del Comune di Ercolano e della Provincia di Napoli. È ospitato, infatti, in un edificio vicino agli scavi archeologici, che per molti anni è stato abbandonato e che in precedenza ospitava una scuola. Si è trattato allora di un’idea innovativa e particolarmente felice che anticipava quello che sarebbe avvenuto negli anni successivi con l’utilizzo dei linguaggi digitali applicati ai beni culturali». Quanto è importante e quanto aiuta il fatto che sia ubicato ad Ercolano? E perché proprio questo luogo? «La vicinanza agli Scavi è fondamentale. Il MAV è un Museo che ha come obiettivo la valorizzazione e la promozione del patrimonio archeologico dell’area vesuviana attraverso l’utilizzo di linguaggi e tecnologie digitali. Rappresenta una sorta di estensione della visita al Parco Archeologico: uno dei luoghi più importanti dell’archeologia mondiale». Com’è cambiato nel corso negli anni il museo ed in cosa consiste la creazione di MAV 5.0 e

nel campo della cultura. Siamo precipitati in una situazione difficile, in cui anche programmare è diventato impossibile. Mostre ed eventi saltati, alcune tecnologie non utilizzabili per motivi sanitari. Insomma, un incubo dal quale speriamo di poter uscire definitivamente grazie alla scienza e ai vaccini». Quali sono le attuali mostre ed eventi presenti al museo? «Per il mese di luglio abbiamo organizzato diversi eventi tutti i giovedì del mese in occasione delle aperture serali. Una serie di incontri con libri e autori, musicisti e artisti per festeggiare il ritorno e la ripartenza delle attività del Museo. Incontri all’insegna della parola, della scrittura che si fa corpo nella voce degli attori e degli scrittori. Abbiamo dedicato una serata ad Epicuro ed alla “lettera sulla felicità”, un incontro con lo scrittore Maurizio De Giovanni, una serata speciale dedicata al mito di Ercole ed un evento dedicato a Alessandro Magno, tra storia e teatro». Poco tempo fa abbiamo intervistato uno dei vostri fiori all’occhiello, l’artista Nicholas Tolosa, state ancora collaborando? Quali sono i vostri progetti? «Abbiamo chiuso a luglio una mostra dell’artista Nicholas Tolosa “Pompei 79 d.c.”, allestita all’interno del percorso museale con opere che dialogavano con gli exibit del Museo e che si ispiravano ai calchi pompeiani. La mostra di Nicholas Tolosa sarà riproposta nelle prossime settimane all’interno del Museo del Parco del Vesuvio a Boscoreale. E pensiamo di lavorare a nuove proposte per il prossimo anno». In che modo possiamo supportare il MAV? «Il Mav, come tutti i musei, ha necessità di ritrovare il rapporto con i suoi visitatori. E l’informazione svolge un ruolo essenziale per aiutare a far conoscere le nostre iniziative e le nostre proposte. Grazie per il vostro contributo».

dei laboratori 3D? «Il MAV, per sua stessa natura, è un Museo in continua evoluzione e trasformazione. In dieci anni ha avuto cinque upgrade e riallestimenti. Siamo intervenuti sia sui contenuti, arricchendo i contenuti proposti, sia sulle tecnologie. Con l’ultimo aggiornamento, abbiamo introdotto la VR (Virtual Reality), la AR (Augmented Reality), la MR (Mixed Reality). Oltre a questo, il visitatore ha a disposizione un percorso e una guida direttamente sul proprio device mediante un’APP (iMav), scaricabile gratuitamente, con la quale può visualizzare contenuti aggiuntivi, filmati in AR, didascalie, guida al percorso, e tanti altri contenuti. Lungo il percorso vi sono 4 guide virtuali, che compaiono al passaggio del visitatore e che introducono alle rispettive sezioni in cui è suddiviso il Museo. Naturalmente ci sono anche le tecnologie più “tradizionali”: videoproiezioni, touch screen, ologrammi, ecc. Nel corso degli ultimi anni abbiamo cercato di costruire un Museo dove il protagonista fosse il visitatore e la sua esperienza di conoscenza». Marzo 2020. Primo lockdown. Da allora come si è evoluta la situazione al museo tra chiusure e riaperture? «L’ultimo anno e mezzo è stato durissimo, come del resto per tutti coloro che lavorano

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Avv. Dario Desiderio

Avv. Andrea Spina

avv.dariodesiderio@gmail.com

spina.andrea@libero.it

cell.: +39 388 345 48 91

cell.: +39 349 288 06 88

Tributario - Lavoro - Civile

Previdenza - Lavoro - Civile

Piazza delle Feste 81030 - Castel Volturno (CE)

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Informare on the Road a cura di Anna Copertino

Farewell

Una casa in costiera

di Nino Ragosta Colonnese Editore

di Giovanni Canestrelli Apeiron Edizioni

C'è uǹ età bella, ma di una bellezza che ferisce. Poi uǹ età di mezzo, in cui tutto ci passa addosso tanto velocemente che quasi non ce ne accorgiamo. E infine l̀ età breve, quando il tempo non basta più per tutte le cose rimaste da fare. Dall̀ adolescenza alla tarda maturità, mettendo la giusta distanza dai ricordi, Nino Ragosta ci regala un racconto delicato e onesto - senza malinconie né ipocrisie - in cui sembra di risentire le voci di un gruppo di ragazzi, gli anni che sono passati, la vita che è andata com`è andata. E se di sicuro indietro non si torna, non è detto che non ci sia ancora qualcosa in grado di sorprenderci.

in giro per napoli un verso per ogni vicoli di Floriana Frega Guida Editore Questa è una sorta di passeggiata virtuale nelle strade di Napoli, ma racchiude percorsi e luoghi di esperienza vissuta. Così ogni immagine rievoca un verso, uno stato d’animo oppure un cenno storico sulle tradizioni partenopee. L’intento dunque non è erudito, piuttosto di natura sentimentale ed emotiva. Uno sguardo soggettivo su ciò che ci circonda e che inevitabilmente rimanda ad un’interiorità, ad un sentire che si fa immagine. Uno dei più grandi pensatori della storia, Giordano Bruno, invitava ad imparare a pensare per Immagini.

Nessuno è escluso di Fortunato Nicoletti LFA Publisher La protagonista è Roberta Maria, ha quattro anni e convive dalla nascita con una patologia genetica rarissima. Il suo messaggio, che il papà e la sua famiglia raccontano tra tanti co-protagonisti, quasi tutte persone con disabilità, guidano le vite dei protagonisti, diventano inconsapevoli registi. La storia inizia poco prima della sua nascita, e ripercorre i mesi contrassegnati da ricoveri ospedalieri, rapporti con operatori sanitari, istituzioni, vittorie e sconfitte, si chiude, pur con un futuro tutto da immaginare, con un pensiero di speranza che rasenta l’utopia.

Strana la vita. giorno dopo giorno, Anno dopo anno, cammini lungo un sentiero che hai la sensazione di poter percorrere occhi chiusi. certo, gli gli imprevisti li metti in programma ma, soprattutto quando non sei più giovane, ti convinci che nulla potrà Cambiare l'impostazione di fondo che hai deciso di dare la tua esistenza. Anch'io ne ero convinto fino a qualche settimana fa. Una storia avvincente, che vi farà immergere nell'incanto di tramonti estivi mozzafiato per poi trascinarvi nella fredda cronaca nera, sempre in bilico tra passato e futuro, in un crescendo di sospetti moventi che lascerà il lettore con il fiato sospeso fino all'ultima pagina.

Napoli. Una metropoli dal cuore antico di Paola Esposito e Claudio Sarappa

Colonnese Editore

Una storia lunga più di 2500 anni, che si dipana via dopo via, monumento dopo monumento. Chiese e palazzi che compongono un itinerario unico al mondo, che appartiene alla storia dell'arte e dell'architettura. Senza rinunciare a una solida struttura, questo libro si distacca dal freddo didascalismo di una qualsiasi "guida" di Napoli, per condurci agevolmente alla scoperta, lungo le varie epoche storiche, dell'ambiente culturale (con le sue tante connessioni, influssi, tendenze) in cui si sono mossi gli artisti che hanno operato nella grande capitale del Mezzogiorno.

l'orologio dalle lancette blu di Alberto Libeccio Albatros Editore Un orologio dalle lancette blu, un simbolo del tempo che scorre a volte troppo lentamente a volte troppo velocemente. Momenti sospesi spesso impediscono libere scelte ma, svelando la vera natura di un individuo da un altro. Giovanni un uomo che ha attraversato la Seconda Guerra Mondiale affronta durissime prove in luoghi spesso nuovi, trovando sempre la forza e le risorse, nonostante le sue umili origini di ricominciare, dimostrando il suo valore e il suo rispetto alla vita.

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di Luisa Del Prete

La vulnerabilità dell’essere umano al Pompeii Theatrum Mundi Intervista all’attore Marco Baliani e allo scrittore Franco Marcoaldi

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itorna nel Teatro Grande degli Scavi Archeologici di Pompei, la rassegna di spettacoli del Pompeii Theatrum Mundi. Dopo un anno di assenza, causa covid, il teatro riprende grazie a quest’iniziativa del Teatro Nazionale di Napoli. Numerosi gli artisti che si sono esibiti su quel palcoscenico e che continuano a fare la storia del teatro contemporaneo. Tra questi, l’attore Marco Baliani e lo scrittore Franco Marcoaldi, hanno portato in scena lo spettacolo “La quinta stagione”. Un vero e proprio viaggio nell’interiorità dell’uomo moderno che, con le sue fragilità e la sua vulnerabilità, deve continuare a mettersi in gioco e a provarci. Li abbiamo intervistati dopo la prima messa in scena, ricca di suggestività ed emozione. Franco Marcoaldi-Marco Baliani: com’è nato questo connubio? «In modo del tutto casuale e, allo stesso tempo, magico. Da quando io e Marco ci siamo incontrati è scattato qualcosa parlando del lavoro, ma parlando anche di altro: io credo molto nell’amicizia e penso anche che tanto più la politica naufraghi tanto più l’amicizia diviene una condizione indispensabile di fare comunità tra gli esseri umani. Inoltre, Marco ha compiuto, con questo spettacolo, davvero un piccolo miracolo. Nello spettacolo non c’è una cupezza di fondo, ma c’è l’idea di dire allo spettatore come stanno messe male le cose, però allo stesso tempo dare un incoraggiamento perché il nostro mondo è pieno di cose meravigliose e si deve affrontare questa “Quinta stagione”. Io ho fatto tantissime letture dei miei testi, ma non ho mai visto la capacità di fare, della poesia, un corpo di metamorfosi: la poesia è rimasta poesia, ma ha cambiato pelle diventando teatro. E tutto questo grazie a Marco» così ha affermato lo scrittore Franco Marcoaldi. «L’amicizia è il simbolo della nostra collaborazione. Abbiamo scoperto di avere una visione del mondo stranamente coincidente ed è stato un incontro molto bello. Franco ha scritto delle parole che, durante lo spettacolo, più ripetevo e più sentivo mie» così, invece, ha concluso l’at-

Da sx Franco Marcoaldi e Marco Baliani

tore Marco Baliani. Dopo un anno di lockdown, si ritorna al Pompeii Theatrum Mundi. Com’è rientrare in quel teatro dopo tutto questo tempo? «Ho fatto altri spettacoli da quando abbiamo riaperto, ma la sensazione che ho è quella di una cosa allo stato nascente. Mi spiego, le persone che vengono a vedere lo spettacolo, le sento con uno spirito diverso. Non è quello con cui venivano prima a teatro, ma è come se accettassero la sfida. Li sento molto più complici, come se si stessero mettendo in gioco» ha dichiarato Marco Baliani. “Attendi senza pensiero perché tu non sei pronto a pensare” diceva Elliot e viene riportato da voi nello spettacolo. Davvero l’uomo, in questi ultimi tempi, non è pronto a pensare? «Un poeta italiano che io amo molto, Giorgio Caproni, diceva che la poesia, prima ancora di essere capita, deve essere sentita. Non è che questo va a discapito del pensiero, ma è un arricchimento di esso. Noi viviamo in un mondo iper-formalizzato ed è questa la fine del pensiero. L’individualità di ogni singola esistenza finisce dentro un modello formalistico-matematico. Il pensiero di cui parliamo noi, invece, è un invito ad estendere le cose che viviamo ed a viverle con tutti i

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sensi» ha precisato Franco Marcoaldi. «Questo è il lavoro che io provo a fare principalmente a teatro, sia quando sono da solo che quando faccio regia. Il “corpo narrante” ovvero le parole che escono se c’è un corpo che le porta. Un corpo fatto di gesti, di posture, di movimenti, ed è questo che io voglio sempre portare in scena. Il tutto cercando sempre di non recitare, cercando di non far sentire l’enfasi, la tecnica dell’attore. L’arte è puro artificio e il lavoro dell’artista è proprio quello di nasconderlo» ha continuato Marco Baliani. «In questo Marco è unico, perché vuole davvero arrivare a toccare la “cosa”. Anche se non ci riusciremo mai, però bisogna provarci» ha concluso Marcoaldi. Viaggi struggenti nell’interiorità: leggere carezze e, allo stesso tempo, forti strattonate. Mettere in scena i sentimenti e portare in scena l’uomo vulnerabile. Perché nel 2021, vivendo in una società di “uomini potenti”, c’è necessità di far vedere l’uomo nelle sue fragilità? «Dopo questa pandemia, la fragilità regna sovrana – sottolinea l’attore Baliani -. Le persone sembrano invulnerabili proprio perché hanno paura di quello che hanno scoperto: il genere umano, per la prima volta, si è spaventato. E come si risponde a questa inquietudine? O mostri i muscoli e fai finta di essere più forte, come stanno facendo la maggior parte delle nazioni, o fregandosene e facendo finta che non esiste nulla, come ha fatto Trump. Il problema reale è che la società è profondamente malata: di questo parla “La quinta stagione”. Una società malata già da molto tempo e tutto questo è uscito fuori, ancora più forte, durante la pandemia. Adesso la fragilità è la nostra forza e dobbiamo esserne consapevoli. “Sono un pellegrino disperso nella nebbia accettando il mio stato di indigenza” questa è la frase chiave. Noi tutti dobbiamo riuscire ad ammettere la nostra fragilità e partire da questo, ignorando il pensiero di essere superiori a qualcosa. Perché, poi, basta davvero un microbo per distruggerci».

OFFICINA AUTORIZZATA


T EATRO

di Benedetta Calise

ROSARIA DE CICCO E LA CRISI DEL TEATRO

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osaria de Cicco è un’attrice, donna di spettacolo e di televisione, dotata di una grande vena comica e un talento, che la contraddistingue da quando era solo un’adolescente. Il suo lavoro, ormai quasi due anni fa, si è visto interrotto improvvisamente, a causa della pandemia, che come ci spiega l’attrice, ha colpito più alcuni settori che altri. Ma è il Covid il vero problema del settore teatrale? “Il Covid ha scoperchiato una realtà che era già di suo senza tutele e diritti”. L’abbiamo intervistata per mettere in luce quali sono questi antichi problemi che il settore si trascina dietro da tempo. Cinema, televisione e teatro: cosa differenzia questi 3 campi e dove lei si esprime al meglio? «Si tratta sicuramente di tre campi molto interessanti, per aspetti diversi; posso però affermare, dopo tanti anni di carriera, che riesco ad esprimermi al meglio sul palcoscenico di un teatro. Il cinema crea un qualcosa che rimane per l’eternità, è forse una delle espressività più intense che ti da l’opportunità di realizzare qualcosa di duraturo che resta impresso nel tempo. La televisione invece, a mio avviso, può essere pericolosa, bisogna starci molto attenti poiché essa può diventare una “droga”. Ciò che viene trasmesso entra nelle case di tutti e proprio per questo, recitando ad esempio in un program-

ma di successo, si corre il rischio di pensare di essere al massimo della propria fama. La verità è che la gente non ci mette nulla a dimenticarsi di te e tu devi essere il primo a non importartene, non essere schiavo della popolarità e del pubblico. Il teatro infine permette il contatto diretto con il pubblico, e a mio avviso ti fa capire realmente perché hai scelto questo lavoro, per la magia incredibile che esso porta, che si ripete ogni sera ed è sempre uguale ma sempre diversa». Che conseguenze hanno avuto il covid-19 e i successivi provvedimenti sul mondo dello spettacolo? «Sicuramente La pandemia ha avuto conseguenze drammatiche su tutto il mondo del lavoro, colpendo però più alcuni settori che altri. Per quanto riguarda proprio il mondo dello spettacolo, possia-

mo dire che ha avuto ripercussioni gravissime, semplicemente perché ha scoperchiato una realtà che era già di suo precaria senza tutele e diritti, mettendo alla luce problematiche antichissime. Perché il problema del teatro non è il covid! Tutto sommato, però, questo ha smosso qualcosa nello scenario teatrale, come spesso si suol dire: da un grande male deriva un grande bene. Molti attori hanno aperto gli occhi e hanno capito che essere uniti è una cosa importante e fondamentale; sono nate così delle associazioni come “Unita: Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo”, associazioni realizzate da attori che richiedono finalmente che la nostra categoria sia considerata una categoria e non un passatempo o generico lavoratore dello spettacolo». Rosaria, ma allora quali sono

VIVAI E PIANTE

di Franco Maddalena & Co.

questi problemi antichissimi che il settore si porta dietro da tanto tempo? «Come diceva Viviani “il teatro è in mano a poche mani tutte strette tra di loro”. Questo sta a significare che i finanziamenti arrivano sempre e solo agli stessi e ci sono tantissime raccomandazione e pochissima meritocrazia. I grossi teatri sono stati abbondantemente finanziati anche per non alzare il sipario, mentre i piccoli privati sono fermi da più di un anno. Altra grave problematica è la mancanza di tutela e diritti per gli attori, un esempio sono I produttori privati che non rispettano i contratti nazionali, cosa che se viene fatta notare penalizza notevolmente l’attore. Ancora un altro fattore è che il pubblico di oggi tende ad inseguire i personaggi televisivi più popolari, dando un enorme visibilità ad attori anche non talentuosi, mentre nel frattempo attori bravi e qualificati faticano ad avere un pubblico di 100 spettatori. Aggiungiamo poi che con le normative Covid di 100 posti se ne possono occupare 50, per motivi più che giusti sottolineo, non si riesce proprio ad andare avanti». Per concludere, è il caso di dire affidiamoci alla buona sorte , speriamo nella consapevolezza di tutti, delle vaccinazioni, del conservare la prudenza, fino a che non potremo tornare ad essere felici come quando lo eravamo… ma non lo sapevamo!

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A RTE

di Angelo Morlando

«Vi svelo il mio nuovo equilibrio...»

Nei colori dell’artista Annamaria Natale una nuova prospettiva

U

n anno fa, abbiamo inQuali sono le novità del post-mocontrato e conosciuto stra? la prima volta Annama«Un primo aspetto è stato l'utilizzo ria Natale; eravamo un gruppetdi nuovi materiali come, ad esemto numeroso al MAC3 di Caserta, pio, la carta giapponese, che non all’interno della mostra “Finché costituisce un semplice fondo per il mare sommerge”. Oggi, posil resto dell'opera, ma ne diviene siamo dire di conoscere l’artista un elemento compositivo fondae la persona di rara sensibilità, mentale e parte del lavoro nella con la quale abbiamo trovato, sua purezza, senza colore. Non c’è sin dall’inizio, affinità di princìpi più l’orizzonte definito, netto. È la e azioni. scelta di un equilibrio. Di un nuoCosa è successo, quindi, nel vo equilibrio. I luoghi trasmettono primo lockdown che ha portavitalità ed emozioni, pertanto, ora to alla realizzazione di alcune la mia scrivania è al centro della opere esposte nella mostra di stanza di mio fratello, dove condiCaserta? videvamo musica e passioni. «In realtà, il lavoro del paesagIl tempo non si può misurare solo gio, cioè della linea di orizzonti, in lunghezza, ma anche in largheznasce a seguito di un problema za». "Prigione e libertà" (collage su carta giap- "Quasi una solitudine" (collage su carta 56x76cm - Anno 2020) È ora di guardare anche gli stessi ponese 60x90cm - Anno 2020) familiare che mi ha costretto a casa per lungo tempo. luoghi, ma con occhi diversi? Correre lungo l’orizzonte era per me, Cosa è successo, invece, «La pandemia ha fatto danni, ma ha quindi, quell’ora d’aria che riuscivo a prendenel secondo lockdown che ha portato alla readato anche la possibilità di fare i conti con sé re dagli impegni familiari; correre verso isole, lizzazione delle ultime opere? stessi. Di guardarsi dentro, soprattutto le perverso luoghi o non luoghi. Ho lavorato quasi un «Ancora una volta eravamo nuovamente blocsone come me che si fanno mille domande prianno a questo orizzonte e la linea è diventacati. L’unica possibilità che ho avuto è uscire ma di fare un passo. Nel mio lavoro ci credo. ta sempre più sottile e sono comparsi anche i nel cortile di casa mia e alzare gli occhi. È stato Mi sento libera, ma obbligata nei confronti colori. naturale il cambio di direzione, anche perché dell’Arte, rispetto alla quale ho avuto sempre Dopo la perdita di mio fratello, dopo un bel avevo già esasperato tutti i ricordi dello spaun moto istintivo, sin da piccola. Se non lavoro po', sono riuscita, piano piano, ad aggiungere i zio vissuto. Si è evoluto tutto verso l’alto con sto male, perché se non esprimo le mie emocolori, per esorcizzare la situazione che si era piccole porzioni di me che si distaccano, come zioni attraverso le mie opere, mi sento in decreata: era tutto quello che avevo, ed almeno viaggiare un po' come la foglia della vite che ho bito». avevo la possibilità di guardarlo, andarci denvisto staccarsi davanti a i miei occhi sul terraz"Oltre la pittura, ti esprimi anche attraverso tro. Con i colori do la possibilità di andare oltre, zo di casa». la scultura?" di non vivere di dolori. Viaggiare nel presente o anche un po' nel "Sì, ho anche realizzato numerose sculture, Tutti i miei collages non sono effettivamente prossimo futuro? come ad esempio la corolla erosa dai sensi (6 reali, nel senso che non per forza devono rap«Sono una persona che sa viaggiare nel futuro, semicerchi in acciaio marmo), pigmenti, resipresentare dei paesaggi. ma non ne sono ossessionata. Voglio godermi il na epossidica, pinze metalliche, gomma pane, Per me sono dei luoghi a cui non è possibile acqui e l’ora. È cambiata sicuramente la prospetSanta Fede Liberata 2019 Napoli. A breve, in un cedere; inoltre, non sono speculari, pertanto, tiva, cioè intravedere nel distacco un’opportuprossimo nostro incontro presso la vostra reesiste un mondo di sopra e un mondo di sotto». nità, cioè il viaggio, e non solo la fine della vita». dazione, vi aggiornerò sui progetti futuri".

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A RTE

di Angelo Morlando

Incontro con l’artista Alessandro Del Gaudio

Raccolta di pensieri dell’ultimo anno e progetti futuri

S

olo recentemente abbiamo avuto la possibilità di incontrare Alessandro Del Gaudio direttamente al suo studio di Caserta, ma lo conoscevamo già da tempo e avevamo avuto l’occasione di ammirare alcune sue opere esposte al MAC3 di Caserta. Conosciamo tanto di te, quindi, ti chiediamo qualche dettaglio sulla tua vita professionale e, quindi, personale. «Prima di tutto, appena sarà possibile ci terrei tanto a incontrarvi presso la vostra redazione di Pinetamare in Castel Volturno, territorio che conosco bene e che ho imparato ad apprezzare e rispettare da quando ero ragazzo. Ci sono tante storie legate alle mie vite, in quanto io confondo la Vita con l’Arte. Credo fermamente che in ognuno di noi ci siano delle potenzialità artistiche, una sorta di predisposizione; un legame non spiegabile solo con gli aspetti razionali e materici. Questo mi permette anche di credere di non essere assolutamente speciale, ma solo di avere la fortuna di sapere ascoltare e accogliere l’energia emanata dall’Arte. L’ho sentita sin da piccolo, quando disegnavo con i carboni e con i fogli dei sacchi di farina che avevano più strati, perché mia madre faceva il pane. Ho iniziato così, osservando il consumarsi del carboncino e meravigliandomi della creazione di forme da semplice polvere». La tua produzione inizia negli anni '70. Quanto sei stato in-

"Parcheggio a Spina di Pesce", 2018 tecnica mista su tela, 150x40cm

fluenzato dai movimenti artistici di quel tempo? «Da giovanissimo ho intrapreso anche la carriera di insegnante, peraltro, in un liceo artistico, quindi, come preparazione culturale ho dovuto studiare i movimenti artistici del passato e del presente, ma la mia insegnante principale è stata mia madre che, oltre ad insegnarmi a coltivare la terra, mi ha sempre sostenuto in ogni mia iniziativa. Coltura e cultura hanno stretta affinità. Anche questa formazione di base, forse, mi ha spinto ad insegnare nel liceo artistico. Sono stato, invece, fortemente influenzato dal primo

lockdown, perché mi sono trovato totalmente impreparato alla chiusura totale. Mi erano rimasti solo frammenti di fogli di carta Fabriano e per questo ho cominciato a disegnare degli acquerelli. È una tecnica basilare ed ecologica: acqua, pigmenti e gomma arabica. Ogni giorno ho realizzato un acquerello diverso, trovando ispirazione dalle cose quotidiane, anche perché non potevo venire allo studio. L’acquerello è una tecnica che non ammette pentimenti, necessita di una predisposizione al coraggio». Cosa è successo quando sei potuto tornare al tuo studio?

«Lo studio, il mio studio, è stato fondamentale, anche perché è estremamente luminoso. Ho sempre preferito avere lo stretto indispensabile, ma “mio”; non per possesso, ma come forma di libertà. Con tutto lo spazio a disposizione nel mio studio ritrovato, ho realizzato gli acrilici, di piccole e grandi dimensioni. Tra questi vi sono le “Isole Pedonali”, che incuriosiscono molti; tutto nasce quando ero a Verona, in quanto nella zona in cui vivevo c’era un’area di parcheggio, ma con notevoli limitazioni e imposizioni. A quel punto nasce il contrasto tra auto (meccanica) e l’orma del piede (biologica) e ho sentito che sono forme che possono assumere diversi significati, pur conservando la propria origine iconica». Cosa ci aspetta nel prossimo futuro e come potrebbe cambiare la tua produzione? «È impossibile fare previsioni, anche perché l’ispirazione è influenzata da molteplici fattori. Tre anni fa non avrei mai immaginato di elaborare circa cento acquerelli in quattro mesi. Non avrei mai immaginato di dedicare un’opera a Lucio del Pezzo, perché particolarmente colpito dalla sua scomparsa». Effettivamente abbiamo avuto la possibilità di ammirare tutti gli acquerelli e alcuni lavori in corso ed è difficile non essere coinvolti. Ringraziamo il maestro Del Gaudio con cui abbiamo strappato un appuntamento al prossimo settembre.

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A RCHITETTURA

di Mina Grasso

How will we live together?

A Venezia l'Architettura salverà il Pianeta

È

stata affidata a Hashim Sarkis, architetto e teorico americano-libanese, professore del Massachusetts Institute of Technology, la direzione della 17esima Biennale Architettura. Mostra Internazionale di Architettura organizzata dalla Biennale di Venezia che è in corso in questi giorni a Venezia, con uno sfasamento di un anno rispetto alle edizioni precedenti, a causa del blocco degli eventi determinato dal covid. “How will we live together?” è il tema scelto per questa edizione: come vivremo insieme dopo la pandemia, con quali accorgimenti, con quali modifiche? Dovremo superare insieme il momento difficile che si somma alle già presenti diseguaglianze, alla crisi climatica, alle migrazioni, alle malattie. L’Architettura è chiamata a risolvere e salvare il Pianeta. Non più la politica, le lotte sindacali o di classe, ma l’architettura che diventa punto di partenza e di una nuova ripartenza. Dovremo imparare a coesistere, vivendo in grandi comunità all’interno di un paesaggio sempre più livellato, ricco di verde, di alberi, di fiori e anche di ponti: ponti messi a collegare, ponti panoramici, ponti come nuovi punti di vista sul mondo; piste ciclabili, fiumi. Centrale e necessario sarà il rispetto per l’ambiente. L’allestimento immaginato dalla direzione artistica segue 5 scale di grandezza: l’individuo, le abitazioni, le comunità, il territorio e il pianeta. Delle 5 aree tematiche tre sono allestite all’Arsenale: Among Diverse Beings, As New Households, As Emerging Communities e due al Padiglione Centrale dei Giardini: Across Borders e As One Planet. In mostra troviamo diversi plastici e tante proposte su materiali così come innovazioni dei tessuti sociali. Forte è la necessità della presenza, accanto all’architetto, delle figure dell’artista e dello scienziato. Tanti gli spazi dedicati ai mari e alle foreste, ma anche al corpo o alle intelligenze collettive. La Biennale di Architettura avrà durata dal 22 maggio fino al 21 novembre 2021, nelle consuete sedi di Giardini, Arsenale e di Forte Marghera. Iniziata il 22 maggio senza i consueti

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festeggiamenti delle vernici e dei vernissage, in settembre prevederà la possibilità di alcune feste inaugurali, spostate un po’ in avanti nei mesi. La mostra comprende i lavori di 112 partecipanti provenienti da 46 Paesi con una maggiore rappresentanza da Africa, America Latina e Asia e con un’ampia rappresentanza femminile; 61 partecipazioni nazionali occupano gli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, con 3 paesi presenti per la

prima volta alla Biennale Architettura: Grenada, Iraq e Uzbekistan. Il Padiglione Italia in Arsenale alle Tese delle Vergini, sostenuto e promosso dal Ministero della Cultura, Direzione Generale Creatività contemporanea, è stato curato da Alessandro Melis e presenta Comunità resilienti. Mentre 17 sono gli Eventi Collaterali disseminati in diverse sedi della città di Venezia. Rafael Moneo ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera della Biennale Architettura 2021. Architetto, docente, teorico dell’architettura e critico spagnolo, “Moneo nell’arco della lunga carriera ha conservato la sua abilità poetica, rammentandoci – ha dichiarato Sarkis - la capacità propria della forma architettonica di esprimere, plasmare, ma anche di perdurare”. All’interno del Padiglione del Libro ai Giardini è stata allestita una piccola mostra che include plastici e immagini emblematiche degli edifici dell’architetto spagnolo, in risposta alla domanda “How will we live together?”. A Lina Bo Bardi invece, è andato il Leone d’oro speciale alla memoria: “la sua carriera di progettista, editor, curatrice e attivista ci ricorda il ruolo dell’architetto come coordinatore (convener) – ricorda Sarkis - nonché, aspetto importante, come creatore di visioni collettive”. Non ci resta che attraversare incantati i padiglioni, magari sorseggiando una tisana preparata con acqua piovana veneziana nel Padiglione dell’Olanda ai Giardini; oppure leggendo con l’uso del telefonino i QRcode dei lavori del Padiglione della Germania; o sedendosi intorno ad un tavolo nel Refuge for Resurgence di Anab Jain e Jon Ardern in collaborazione con Sebastian Tiew (Malesia, 1994), dove una comunità multi-specie ricerca tra le rovine devastate della modernità nuovi modi di vivere insieme: umani, animali, uccelli, piante, muschi e funghi si raccolgono attorno a una speranza comune. Una speranza nella vita che resta. O ancora, osservando il lavoro di José María Caro, per la partecipazione del Cile in Arsenale, nel quale 500 immagini richiamano vite passate e presenti di una comunità. “How will we live together?” sarà a Venezia fino al 22 novembre.


U NIVERSITÀ

di Luisa Del Prete

La crisi delle Università attraverso gli occhi dei giovani Due matricole raccontano la loro esperienza in facoltà tradizionali e telematiche

“G

li universitari dimenticati”, “La crisi delle Università” queste le parole che in questi ultimi due anni sono state pronunciate ripetutamente quando si affrontava il tema degli atenei. Il Covid ha dimenticato gli universitari, ha mandato in crisi l’Università. Ha capovolto i ruoli, sconvolto i metodi di insegnamento, rivoluzionato - nel bene o nel male tutto il sistema tradizionale. Ma alla crisi delle Università “in presenza”, c’è stato invece un forte rilancio delle Università telematiche, le quali, invece, hanno continuato a svolgere le loro lezioni in maniera invariata dalla situazione pre-crisi. Ma qual è l’effettiva strada da scegliere? Per approfondire questo discorso abbiamo intervistato due giovani matricole con l’intento di dar voce in capitolo a chi, fino ad ora, non ne ha mai avuto e per capire quali sono le differenze tra i vari tipi di Università. La prima intervistata è iscritta e frequenta un’Università in presenza, la seconda in una telematica. Daniela Castiello, studentessa di Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Perché hai scelto un ateneo di stampo “classico” in cui lezioni ed esami sono in presenza? «In realtà penso che non è una scelta totalmente fatta dalla persona in sé, in quanto l’Università viene sempre presentata “di stampo classico” e quindi come la scelta “positiva”, mentre invece le Università telematiche vengono presentate in maniera negativa in quanto sono private e “non danno una formazione adeguata”. Personalmente io ho scelto un ateneo di stampo classico in quanto ritengo che la divulgazione del sapere e la scuola, con i suoi gradi di istruzione, debbano essere fatti con interazione tra le persone, che non si limita a un contatto solo attraverso uno schermo, ma diventi anche un contatto fisico ed emotivo.

Andando in presenza non solo posso conoscere nuove persone, ma anche conoscere nuovi posti in quanto provenendo da un paese di provincia, posso vedere nuovi luoghi a seconda di dove si trova la mia sede». Questa situazione pandemica come ha modificato il tuo modo di vedere l’Università? «Questa situazione pandemica ha modificato in modo del tutto negativo il mio modo di vedere l’Università... avevo delle aspettative molto grandi. Tutte le persone che mi circondano hanno espresso sempre pareri molto positivi sull’ambiente universitario e le possibilità di crescita personale. Con la pandemia questa cosa non si è verificata perché non ho sentito il distacco con il liceo dato che mi hanno permesso di svolgere lezioni in presenza solo per due giorni e per le matricole, i primi giorni, sono difficili da affrontare. Inoltre, la modalità a distanza anche se più “comoda”, dopo un po’ stanca e non ricevendo stimoli, ho iniziato anche a dubitare del percorso universitario scelto e del mio futuro». Gli esami a distanza ti mettono più o meno a disagio di un ipotetico esame in presenza? «Ritengo che gli esami a distanza mettono meno a disagio perché non c’è il contatto diretto con il professore e che, anche se c’è una platea a distanza che ti segue, non

c’è la stessa pressione come da vicino. Però ci sono molti fattori che a distanza, invece, possono provocare “disagio” come, ad esempio, la connessione scarsa (che in alcuni casi fa annullare l’esame) oppure l’isolarsi il più possibile dall’ambiente familiare onde evitare rumori». Come immagini il ritorno a lezioni ed esami in presenza? «Il ritorno a lezioni ed esami in presenza non riesco del tutto ad immaginarlo, però credo sia di molto incrementata l’ansia soprattutto per gli esami che fino ad ora ho svolto prevalentemente online. Allo stesso tempo però prospetto un ritorno con una sensazione più che positiva». Antonia Crescenzo, studentessa di Scienze dell’educazione presso l’Università Telematica Pegaso Perché hai scelto un ateneo telematico in cui lezioni ed esami sono online? «Ho scelto un ateneo telematico per poter continuare a studiare e allo stesso tempo anche lavorare; questa scelta mi ha permesso di farlo e adesso riesco a gestire quelle che sono le lezioni online ritagliandomi anche del tempo per il lavoro e per lo studio, non togliendo tempo a nessuno dei due e continuando il tutto con grande impegno. A differenza delle videolezioni, che sono da sempre state telematiche, per gli esami la situazione è

diversa: prima della pandemia venivano svolti in sede, si poteva anche scegliere una sede più vicina, mentre adesso causa Covid sono diventati telematici». Cosa ne pensi dei pregiudizi che affermano che l’Università telematica sia più “semplice” di un’Università in presenza? «Parto dal presupposto che anche io partivo con dei pregiudizi poiché ignoravo totalmente il mondo dell’Università telematica; provenendo dall’Università Federico II, avevo quei soliti pregiudizi sulla “semplicità” della telematica rispetto a quella in presenza. Ma io credo che queste idee non sussistano in quanto per ogni cosa, se la si fa con impegno e determinazione, non esiste la “semplicità”. Credo che l’Università tradizionale sia complessa da un punto di vista organizzativo; ero iscritta ad una facoltà in presenza e mi risultava difficile gestire i miei tempi gli spostamenti da una sede all’altra, gli orari delle lezioni. Ora è tutto diverso, con la telematica riesco a gestire molto più efficacemente la mia vita». Credi che la tua laurea in un’Università telematica pregiudichi quella che è la tua esperienza nel mondo del lavoro? «Non solo lo credo, ma lo do quasi per certo. Penso anche che questo mi possa quasi “limitare”, però una cosa che ho capito è che l’impegno supera i pregiudizi». Agosto 2021

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C INEMA

I cento passi vent’anni dopo

di Lorenzo La Bella

A

luglio mi trovavo a una proiezione de I cento passi tenuta dal regista del film stesso, Marco Tullio Giordana, per presentare la versione restaurata del film. In due ore ho visto Luigi Lo Cascio gridare e soffrire nel ruolo che lo ha reso famoso, insieme ad altri grandi attori come Tony Sperandeo (c’è persino un giovane Marco Gioè) e addirittura Duccio di Boris (sì, questo stemperava purtroppo la serietà del film). E ho visto una delle più potenti rappresentazioni dell’omertà mai realizzate. Per chi non lo sapesse, I cento passi racconta la storia di Peppino Impastato, attivista marxista e antimafia attivo dagli anni ‘60 fino al suo assassinio nel 1978, ad appena trent’anni. Peppino nacque a Cinisi da un padre affiliato alla famiglia mafiosa di Gaetano Badalamenti, personaggio pontiere tra l’era palermitana di Stefano Bontate e quella corleonese di Totò Riina, e la sua casa distava appunto cento passi da quella del boss. Eppure, immerso in quel mondo di potere silenzioso e brutale, Peppino compì subito una scelta, sin da ragazzo, militando prima nel PCI e poi in Democrazia Proletaria, fondando giornali, giornalini, gazzette, e gestendo spettacoli per risvegliare le coscienza del proprio paese contro il dominio di Badalamenti, fino a fondare la radio libera Radio Aut per attaccare Badalamenti con le armi dell’inchiesta e della satira. Il film rappresenta la sua lotta e quella dei suoi compagni in maniera perfetta. Peppino è solo, rabbioso, frustrato dall’inazione dei suoi concittadini, tutti troppo spaventati o assuefatti dal riciclaggio, dagli abusi e i soprusi mafiosi. Eppure è un ragazzo che ride e sorride, e nel corpo di Lo Cascio vediamo la voglia di vivere che Peppino sfoggiava e con cui lottava.

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Lo vediamo troppe volte restare solo, con le persone intorno a lui non semplicemente impaurite, ma frustrate e ingelosite dal suo coraggio. È proprio il suo paesino a lavorare contro di lui in ogni momento, dai superiori di partito troppo timorosi ai poliziotti abituati a lasciar fare i mafiosi, fino ai familiari che lo odiano perché vuole essere diverso, “meglio di loro”. Il culmine viene raggiunto solo alla morte di Peppino. Egli rifiuta di piegarsi, continuando a denunciare tanto Badalamenti quanto l’omertà e l’ignavia dei siciliani, e ciò gli costa la vita. Viene barbaramente ucciso a calci e pietre e il suo cadavere viene usato per simulare un attentato, in modo da farlo passare per terrorista e infangarne la memoria. Inutili sono le proteste degli amici che brandiscono le pietre insanguinate

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e le altre prove dell’innocenza di Peppino: carabinieri arrivati da fuori lo condannano come criminale senza processo. Ma è proprio allora che la coscienza di Cinisi si risveglia: i familiari e gli amici di Peppino trasformano il suo funerale in una marcia rivoluzionaria a cui si uniscono quei loro conoscenti e servitori dello Stato finora rimasti ignavi, perché il solco è stato oltrepassato. Questo è troppo, urla Cinisi, presagendo ciò che la Sicilia intera urlerà nella stagione degli omicidi e l’Italia nella stagione delle stragi. Ma non bastò. Tano Badalamenti fu indagato per l’omicidio di Peppino solo vent’anni dopo, la morte del giovane passata in sordina perché contemporanea a quella di Aldo Moro e resa tassello della strategia del terrore contro il marxismo. La condanna arrivò nel 2002, dopo l’uscita del film. E si sente, in ogni fotogramma. Tutta la storia che racconta è un po’ semplificata, romanzata qua e là, ma le parole di Lo Cascio nei suoi discorsi e nei suoi interventi alla radio pronunciate nella pellicola sono parole di Peppino. Peppino ancora morto, ancora infangato, ancora sconosciuto o poco considerato dall’Italia. Perché Cinisi urlò di rabbia e dolore alla sua morte, ma urlò contro il silenzio di un Paese. Questo silenzio che avvelena l’aria, avvelena la terra, questa terra dove si deve scegliere tra una rabbia che impiega decenni a dare i suoi frutti e logora l’animo, o una beata ignoranza che aumenta il potere di questo veleno. Una frase del regista Giordana mi ha gelato il sangue, nel dibattito dopo la proiezione. Egli ci confidò che quando girò il film, il sentimento antimafioso, la voglia di protestare e cambiare le cose era più forte di ora. Vi invito allora a guardare il suo film. Vi invito a guardare I cento passi. Come detto da Giordana stesso, Peppino Impastato non era un eroe, un magistrato, un poliziotto, era un cittadino normale come tutti noi. E fece la differenza, perché ruppe il silenzio.

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Bambusa


C INEMA

di Marika Fazzari

«The Buzzer: le nostre paure in uno short» Il regista debuttante Paolo Iavarone si racconta dopo il Rome International Movie Awards

L’arte è l’essenza della vita, e il cinema riesce a comprendere ogni tipo di arte

«N

on si è obbligati a comprendere per amare, ciò che occorre è sognare. Penso che il cinema e l’arte siano oggi il veicolo migliore per riuscire a sognare e ad amare senza limiti. Ed è per questo che continuiamo a vivere, nonostante gli incubi e l’oscurità che ci circondano». Questa è solo una parte della visione che Paolo Iavarone, regista emergente, custodisce e che ha scelto di condividere con noi. Il giovane filmmaker, originario della provincia di Caserta, inizia il suo percorso nell’arte con la musica, suonando per anni il basso. Dopo aver lasciato questo mondo, decide di dedicarsi completamente al cinema, ritenuto da lui strumento di estrema condivisione

e insieme di tutte le arti. Paolo, dando prova di grandi abilità tecniche ed espressive, debutta con il suo primo short film “The Buzzer” aggiudicandosi ben due premi (Best First time Director e Best Crime) presso il Rome International Movie Awards 2021. C’è stata una figura o un evento in particolare che ha influenzato la tua produzione artistica? «La figura che influenza principalmente le mie idee sono proprio io. Quasi tutti i miei progetti sono basati su delle mie esperienze personali e talvolta intime, che sfociano in qualcosa di più astratto e misterioso. Ovviamente ci sono anche film e registi per me importanti che, in qualche modo, entrano a far parte del mio processo creativo. Ad esempio il maestro visionario David Lynch oppure il semplice, ma sempre

efficace cinema del grande Sergio Leone». In che modo il cinema o l’arte in generale incidono sulla tua vita? «Secondo me l’arte è l’essenza della vita, e il cinema riesce a comprendere ogni tipo di arte, dalla pittura alla fotografia, dalla letteratura alla musica. Senza tutto questo non credo saremmo in grado di vivere e di godere certi momenti, emozioni e persone. L’arte è soprattutto fruizione, deve essere alla portata di tutti. L’errore sta nel mettere sé stesso prima dell’arte stessa e renderla oggettiva». Oltre ad aver ideato, scritto e diretto il tuo primo film “The Buzzer” hai deciso anche di interpretare la parte del protagonista, come mai questa scelta? «Semplicemente perché era ed è tutt’ora il mio progetto più intimo.

Non potevo lasciare ad altri l’opportunità di rubare quello che era il mio personaggio, la mia storia. Nonostante ciò, credo che tutti possano trovare qualcosa di personale in questo film , in quanto è un’analisi riflessiva su un problema interiore che accomuna ognuno di noi: la paura». Recentemente è uscito anche il tuo ultimo film “Forsaken”, spiegaci di cosa parla e quale tema hai voluto affrontare questa volta. «Un uomo vagabonda per un mondo, apparentemente privo di altre vite umane. Questo è il plot di Forsaken, una specie di “derivato” del mio primo corto “The Buzzer”. I motivi per cui ho deciso di implementare l’idea sono bene o male gli stessi, seppure messi in un contesto e un’atmosfera abbastanza diversi. Il tema della solitudine si ricollega in un certo senso a quello di The Buzzer, trasformandosi però in un isolamento (in)volontario; sta a voi immaginarlo, visto che non ho voluto dare nessun finale fin troppo chiaro». Il film di cui avresti voluto essere il regista? «Un film che avrei voluto girare è sicuramente Taxi Driver, che è anche quello che mi sta più a cuore in assoluto. Questo perché ritengo che il personaggio di Travis Bickle sia uno dei migliori mai scritti e che più entra in sintonia con le mie idee e la mia visione di cinema».

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M USICA

di Bruno Marfé

Mario Venuti e le sue nuove sonorità Il sound brasiliano è il nuovo orizzonte dell’artista

C

apurso, un ridente centro nell’area metropolitana di Bari, reso particolarmente caratteristico dalla bellissima Reale Basilica di Santa Maria del Pozzo che, con l’annesso convento alcantarino, fu realizzata su progetto dell’architetto barese G. Sforza fra il 1750 e il 1770 e, al cui interno, è conservata un’icona bizantina della Madonna ritrovata nel 1705. Una cornice che rappresenta a pieno i gioielli nascosti del nostro Bel Paese, quale scenario migliore per incontrare un grande volto della musica italiana: Mario Venuti. Con lui abbiamo spaziato dalla musica ai temi della legalità, per un viaggio alla scoperta delle sue nuove sonorità. Fra gli interpreti del video della canzone “Il pubblico sei tu” compare Giuseppe Cimarosa, cugino del superlatitante Matteo Messina Denaro e figlio di un ex fedelissimo del boss. Giuseppe ha detto no al sistema mafioso e il suo rifiuto assume una valenza

malinconia mista alla nostalgia. «È una bella cosa ciò che hai detto! Sicuramente queste musiche portano con sé qualcosa di autentico, hanno dietro una sofferenza che si esorcizza attraverso il ritmo: l'allegria. E la musica brasiliana è un misto di allegria e di tristezza. Ai momenti malinconici fanno da contralto momenti invece gioiosi, festosi come accade nella musica napoletana e nel blues che, in particolare, dal “lamento” dello schiavo nelle piantagioni evolve diventando anche rock’n roll. Sì, quindi l’autenticità delle musiche nasce realmente dalla sofferenza». Ha chiosato salutandoci e andando via verso il palco dove lo attendevano, i percussionisti Neney Bispo Dos Santos e

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Noi italiani siamo portati al canto spiegato, enfatico a volte, retaggio del melodramma. In Brasile i toni sono più bassi, tranquilli, suadenti. Ho sperimentato dei timbri gravi che credevo di non avere o dei falsetti quasi femminili. Il modo in cui cantavo spesso arrivava nuovo perfino a me. Divertimento puro».

Manola Micalizzi, Vincenzo Virgillito al contrabbasso per il soundcheck del concerto serale (poi, come anticipato, rinviato a sabato). In questa sperimentazione bisogna riconoscere il grande lavoro effettuato con Tony Canto anche sulla vocalità: «Ho scoperto quasi un altro me stesso – confessa Mario Venuti -

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enorme visto lo stretto grado di parentela con il boss mafioso. C’è un motivo particolare per cui hai voluto Giuseppe nel tuo video? «Innanzitutto perché Giuseppe è un amico. A me interessava l'utilizzo del cavallo e volevamo un cavaliere particolare che avesse anche un valore simbolico. La sua storia personale è apprezzabilissima perché lui, essendo parente di Matteo Messina Denaro, si è affrancato da questa parentela scomoda subendone le conseguenze, anche piuttosto pesanti, a causa dell’isolamento e rifiuto di Castelvetrano, dove esiste questa mentalità mafiosa che porta ad allontanare chi “parla”. Ciò ha aggiunto un valore simbolico anche al significato della canzone: questa è una cavalcata verso la libertà di pensiero, verso il libero arbitrio». Il tuo nuovo album è molto particolare… «Sì, non mi andava di scrivere canzoni nuove e parlando con Tony Canto, che con me condivide la passione per la musica brasiliana, abbiamo pensato di scegliere dei brani conosciutissimi per renderli vicini alle armonie della musica brasiliana. Un mondo tutto a sé, affascinante». La musica brasiliana, la canzone napoletana e il blues hanno un sentimento che le accomuna: la

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E NOLOGIA

La leggenda del Vesuvio

di Maddalena Sorbino

Lacryma Christi

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l Vesuvio Lacryma Christi è un ottimo vino campano prodotto con le uve coltivate alle pendici del Vesuvio, vulcano che da secoli è il fulcro sia geografico che delle produzioni, delle arti e della civiltà di tutti gli agglomerati urbani che si sono succeduti. Tuttavia è doveroso ricordare che, come il Vesuvio ha dato vita a innumerevoli prelibatezze, così per mano dello stesso, sono scomparse intere comunità. Ma torniamo al nostro buon vino! Le prime testimonianze della coltivazione di quest’uva così forte e vigorosa, cresciuta su un terreno lavico, scuro e poroso (quale quello vulcanico), risalgono al V secolo a.C., precisamente a quando i greci portarono nella nostra terra gli Aminei della Tessaglia. Le uve che ad oggi si coltivano lungo i 15 comuni situati in provincia di Napoli sono: il Caprettone (o Coda di Volpe) per il Lacryma Chri-

sti Bianco e il Piedirosso (o Per e Palumm) per quello Rosso. Entrambe le varietà possiedono un carattere minerale, dato principalmente dal terreno vulcanico. Ma questo luogo, oltre ad essere culla di queste ricchezze davvero spettacolari, è anche ricco di mistero poiché gli uomini, nonostante fossero a conoscenza della pericolosità del vul-

cano, non hanno mai fatto a meno di costruire alle pendici le loro case o di seminare e raccogliere dei frutti davvero particolari. La storia di questo nettare, infatti, si tesse tra mito e realtà: una leggenda, ripresa dal grande poeta Alfred de Musset, vuole che Lucifero, cacciato dal Paradiso, strappasse un pezzo dello stesso per rubarlo e dar vita al Golfo di Napoli, luogo dove egli sprofondò e dove si levò, imponente, il Vesuvio. Gesù Cristo, resosi conto del furto, pianse per il dolore e dalle sue lacrime cadute proprio sul vulcano nacque una piata di vite e dall’acino di quell’uva ha origine il Lacryma Christi. Ancora, un’altra versione, vuole che Gesù, molto assetato, apparse ad un eremita che viveva proprio in quei luoghi chiedendogli da bere e, per ricompensare la pronta generosità di quell’uomo, trasformò l’acqua in nettare di vino. Al di là di queste leggende, è certo che questo prezioso vino fu a lungo negli anni custodito dai monaci Cappuccini che si erano insediati nella “Turris Octava”, ex colonia romana poco distante da Napoli. Grazie al loro operato la colonia prese il nome di Torre del Greco, città dove esisteva in gran quantità il “vino greco”. Certo è che la fama di questa bevanda così nobile e buona è presumibilmente connessa alle leggende spesso sorte sulla sua identificazione. Anche il nome, Lacryma Christi, non aiuta a legare questo vino al proprio territorio d’origine, forse proprio per questo il nome previsto della DOC, instituita nel 1983, è Vesuvio così da collegarlo facilmente alla sua dimora d’origine.

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S TORIE

Rifiorire dopo l’inverno:

la storia di Michele, guida trekking di Nicola Iannotta

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uesta è una storia di sofferenza, di resilienza, ma soprattutto di rinascita…di ritorno alla vita. Michele Casapulla era un ragazzo estroverso, vivace, che amava lo sport come un qualsiasi ragazzo della sua età…Michele amava fare squadra e giocare a calcio, sentire l’adrenalina di una sfida e le grida di incitamento sul campo. Michele era fatto così: amava uscire e divertirsi con gli amici. Amava soprattutto le serate di festa, quando la musica suona e tu cominci a cantare, cominci a sentire ogni parola nascerti dentro, e fuoriuscire poi forte: poco importa se risulti stonato o intonato. Michele era fatto proprio così, come sarebbe giusto essere quando si hanno soli 14 anni. Ma di lì a poco nulla sarebbe stato più come prima. Velocemente la malattia avanzò in lui. Tutte le voci, tutti i suoni, improvvisamente e senza rimedio, divennero non voci, non suoni. Michele era diventato sordo, aveva perso l’udito a causa di una sporca malattia che colpisce udito e rene: sindrome di Alport, così la chiamavano i medici. Gli amici continuavano a ridere e scherzare, lui non capiva, chiedeva di ripetere, piano. Non era facile imparare a leggere le labbra così, da un giorno all’altro. Michele si sentiva in imbarazzo, sempre più lontano dagli altri, così si chiuse nella sua solitudine. E così Michele trascorse la sua adolescenza, la malattia aveva devastato il suo fisico, ma più di tutto, lo aveva devastato dentro,

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facendogli perdere il contatto con la società. Cominciò a preferire le passeggiate solitarie in collina alle uscite con gli amici. Michele imparò a comunicare con la Natura, o forse fu la Natura che, muta, comunicò con lui attraverso le sue bellezze. Poi a 39 anni un primo cambiamento: installa un impianto cocleare; a 41 anni la svolta: dopo 11 mesi di trattamento emodialitico, il telefono squilla e una voce avvisa della possibilità di un trapianto di rene. Chi può dire quale emozione sia stata più forte, se il timore di finire sotto i ferri o la speranza di un cambiamento nella propria vita. Oggi, a 5 anni dal suo trapianto, Michele ha deciso di andare in pellegrinaggio all’Ospedale Maggiore di Novara, dove fu operato, insieme ad Emilia Genzano, fondatrice del gruppo trekking del quale lui è guida, per dialogare e raccontarsi a medici e pazienti, così da testimoniare e aiutare a vincere la paura di non farcela e il senso di sconfitta che si prova

quando la malattia ti sovrasta. Michele sa quante e quali difficoltà bisogna superare per rinascere. Michele, come si trova la forza di ricominciare a vivere? «La forza di ricominciare a vivere bisogna trovarla per forza. Non solo per te, ma anche per chi ti sta vicino e ti vede soffrire. La tua sofferenza provoca sofferenza anche ad altri ed è giusto reagire sempre... Se non per te, fallo per chi ti vuole bene». Come nasce la sua passione per il trekking? «La passione del trekking è nata per forze maggiori. Quando ho perso il contatto con la società, per rilassarmi e per distrarmi, mi piaceva percorrere sentieri alla scoperta di nuovi luoghi che la natura mi metteva a disposizione. Questa cosa mi faceva stare bene». Mi racconti perché ha deciso di intraprendere questo viaggio verso Novara «Per 25 lunghi anni non ho sentito. A 39 anni mi è stato installato

un impianto cocleare, ma la malattia ha aggravato le mie condizioni fisiche costringendomi ad intraprendere una cura emodialitica. Miracolosamente ne uscii quando il 15 giugno 2016 mi chiamarono per un trapianto di rene. Da quel giorno, una volta guarito, la passione del trekking la trasformai in pellegrinaggi. Avevo bisogno di ringraziare il Creato per la seconda vita che mi aveva dato e così, nel 2019, mi misi in cammino sui passi di una beata: Madre Serafina Clotilde Micheli, fondatrice dell'ordine delle Suore degli Angeli, nata ad Imer nel 1849 e morta a Faicchio nel 1911. Perché lei? Perché tramite lei riuscivo a visitare tutti i maggiori santuari italiani in un cammino lungo 1000 km. Non a caso è stata definita dal papa Benedetto XVI "Pellegrina di Dio". Per questo nuovo cammino partirò sempre da Imer, paese natio della beata, insieme ad E. Genzano, presidente dell’associazione "Casa Betania ANSPI (CE)", dove ci sarà la Benedizione del Pellegrino e consegna del bordone. Mi dirigerò dapprima a Novara, dove ho ricevuto il trapianto e partendo da quella sala di terapia intensiva tornerò sulla tomba della beata, in segno di ringraziamento, e successivamente arriverò all’AORN di Caserta dove ci saranno ad attendermi la dottoressa C. Pascal, presso cui sono in cura, e il direttore provinciale dell’AITF di Caserta, F. Martino. Sarà un cammino lungo 1200 km che riguarderà la via Francigena del nord e poi del sud».

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S OCIALE

di Grazia Sposito

Luca, la favola italiana oltre le paure e pregiudizi

Quell’amicizia che accetta anche le imperfezioni dell’altro, riconoscendole come un qualcosa di prezioso, di speciale

È

uscito sulla piattaforma streaming Disney+ il 18 giugno scorso, ma è molto più di un semplice tributo: è stato definito un racconto di formazione. Luca, il lungometraggio della Disney Pixar, è uno di quelle immagini animate che guardi tutto d’un fiato sul divano e che alla fine non puoi non far a meno di nascondere gli occhi lucidi. Il favoloso ambiente che fa da palcoscenico alle avventure dei protagonisti è quello della costa ligure delle Cinque Terre, e racconta la particolare estate di tre ragazzi preadolescenti: Luca, Alberto e Giulia. Il protagonista è appunto Luca, un ragazzo che intraprende un viaggio pieno di paure e pregiudizi, e che cerca con tutte le sue forze di farsi accettare in un mondo esterno che gli è ostile. Andando persino contro la sua famiglia pur di sfidare le proprie paure e di scoprire cosa c’è al di là del mare. Ma Luca sente forte il desiderio di libertà e di esplorare il mondo. Così il destino lo spinge sulla riva dove incontra Alberto, il suo nuovo amico, e scoprono poi di appartenere alla stessa "diversità". Infatti, entrambi appena escono dall'acqua prendono sembianze umane. I due ragazzini diventano così inseparabili e sognano di poter comprare un giorno la bellissima Vespa che spicca su un piccolo poster appeso nella torre da Alberto. Così decidono di avventurarsi nel vicino paese di Portorosso.

È proprio lì, tra le piccole stradine di quel meraviglioso paesino, che i due amici incontrano Giulia, una bambina dai capelli rossi pronta a vincere l’annuale triathlon della città. Luca e Alberto, convincono la bambina ribelle a fare squadra insieme, per concorrere all’annuale gara, in triathlon di nuoto, bicicletta e abbuffata di pasta, che gli permetterebbe di vincere il denaro necessario a comprarsi l’agognata Vespa. E così, tra scorpacciate di trenette al pesto, deliziosi gelati e rocambolesche avventure per nascondere a tutti la loro vera identità, Luca e Alberto scoprono che i pericoli esistono davvero, ma che per inseguire un sogno, vale sempre la pena affrontarli con determinazione e puntare sempre all’obiettivo. Il legame tra i due protagonisti e Giulia è un esempio di amicizia autentica, che fa crescere e aiuta a scoprire sé stessi. Quell’amicizia che accetta anche le imperfezioni dell’altro, riconoscendole come un qualcosa di prezioso, di speciale. Perché, come scopriremo nel film, la diversità di ciascuno può diventare fonte di ricchezza per tutti e stimolo di crescita personale. Luca, nei suoi 95 minuti, ci fa riflettere che

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sull’amicizia vera, autentica e senza pregiudizi che può rivoluzionare le nostre vite. Un’amicizia che ci accompagna nelle follie o in quelle decisioni che sembravano assai lontane, dai noi e dal nostro coraggio. Un’amicizia ci cambia il destino, e ci accompagna in un viaggio umano ed emotivo, senza giudizi e pregiudizi. Ci fa sentire un orgoglio nell’essere al fianco di una persona, ma più che altro non ci fa diventare lo stereotipo di quello che vorrebbero gli altri. Luca fino a quando è rimasto nel suo mondo marino pensava che ad illuminare il Cielo, ci fossero tanti pesciolini, scoprendo poi, che si trattava solamente di Stelle. L’amicizia con Alberto, gli ha fatto conoscere un mondo, una nuova realtà per il vivere dei suoi giorni. Se dovessi riassumere il film in una sola frase, quella che sceglierei sarebbe senza dubbio “silenzio, Bruno!”. Queste sono le parole che Luca, dice ogni volta che quella vocina mette il freno a mano prima di fare qualcosa di nuovo. E, allora se arriva una vocina a dirvi di non rischiare, opporsi è facile. Basta dire: SILENZIO BRUNO!!

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F OTOGRAFIA

di Chiara Del Prete

RISCATTARE NAPOLI CON IL POTERE DELLA FOTOGRAFIA

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uasi ogni giorno Ciro Pipoli esce di casa con la sua Nikon 3200 mosso da un’unica ragione: scovare situazioni tipiche del quotidiano napoletano per immortalarle. Non cerca l’immagine da cartolina, lui che viene scambiato per turista, complice la chioma bionda e la facilità del click. Non smette di guardare con occhi innamorati la città che l’ha messo al mondo, ma più di altri sa che la metropoli partenopea meriterebbe una comprensione che non tutti concedono, per questo ogni sua foto è un vivido riscatto verso preconcetti datati e retrogradi. Con oltre 54 mila follower condivide l’essenza della città con chi, come lui, la vive ogni giorno e ancor di più con chi la rimpiange. Chi c’è dietro l’obiettivo? Chi è Ciro Pipoli? «Dietro l’obiettivo c’è uno dei tanti napoletani innamorato della propria città. Sono un ragazzo di Napoli, dei Quartieri Spagnoli, che attraverso la fotografia ha trovato un mezzo di comunicazione per far rivalutare l’immagine di questa città. Credo di dare voce a una città in evoluzione, ma chi sa immergersi può ancora riscontrare una vecchia Napoli che continua a sopravvivere». Come nasce la tua passione per la fotografia? «Per curiosità, all’età di 16 anni ho iniziato per gioco a fare foto con il cellulare. Ai 18 mi fu regalata la mia prima e unica macchina fotografica. Sono 7 anni che scatto con la stessa camera, poi con Instagram ho avuto la possibilità di esprimermi su ampia scala: è una vetrina dove puoi raggiungere facilmente un gran numero di persone. Poi ho continuato e quella che è sempre stata una passione, si è trasformata in lavoro». Qual è il messaggio dietro i tuoi scatti? «Scatto in posti che hanno la nomea di essere quartieri difficili, attraverso la fotografia sprono ad andare oltre il pregiudizio. Rispetto a tanti anni fa i quartieri come il mio, il Rione Sanità, Forcella sono diventati posti diversi. Se oggigiorno i turisti vanno a vedere il murales di Maradona nei Quartieri Spagnoli vuol dire che qualcosa è cambiato perché prima non ci avrebbero mai messo piede. C’è un adattarsi all’epoca e sfruttare il territorio, un posto che ha una brutta nomea attira, forse più di un posto con un buon nome». Le tue foto riscattano Napoli? «Si, indubbiamente. Mi sono focalizzato su questo modo di fare fotografia perché credo che l’anima di questa città siano le persone. Penso che per capire Napoli si debba andare in giro, immergersi nelle strade e relazionarsi ai napoletani, altrimenti non puoi capire com’è. Il

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Ph. Ciro Pipoli ©

turismo a Napoli è triplicato rispetto a qualche anno fa quindi la nuova generazione di italiani e di stranieri va oltre i vecchi preconcetti». Molti dei tuoi soggetti sono persone del posto, incontrate sul momento. Come approcci a loro prima di fotografarle? «È sempre molto soggettivo, dipende da chi mi ritrovo davanti. A volte le fotografie nascono per puro caso, in altri momenti da una chiacchierata. Ma questa, 9 volte su 10 la faccio sempre, chiedo il nome e quanti anni hanno per portarmi un ricordo di quella persona. In alcuni casi è capitato di rivederli una seconda volta ed è bello constatare che si ricordano di me». Nasci e cresci a Napoli, non hai mai pensato di spostarti e lasciare questa città? «Qui è una contrapposizione di sentimenti. Da un lato c’è la consapevolezza che è difficile poter crescere lavorativamente, dall’altra c’è un “mai dire mai”. Fino a qualche anno fa il pensiero di andare via non mi avrebbe mai sfiorato, la speranza è quella di poter rimanere qui però nella vita nulla è certo. Hanno lasciato Napoli personaggi illustri come Totò, Pino Daniele. Il loro pensiero è sempre stato rivolto a Napoli perché è una città che porti con te e forma la persona che sei». Hai scattato la campagna pubblicitaria P/E 2020 per Dolce&Gabbana tra il Lungomare e la Sanità. Come hai mixato la napoletanità con i modelli, i capi e i luoghi?

Ph. Ciro Pipoli ©

«Ho avuto l’opportunità di esprimermi senza timore di sbagliare perché stavo facendo quello che già faccio e ho avuto anche modo di mostrare la città. Per me è stato sorprendente, ciò che ho apprezzato è che mi hanno dato la possibilità di scegliere dove scattare. Ho proposto il Rione Sanità, per poter dare a questo quartiere la possibilità di essere al centro dell’attenzione. Abbiamo scattato tra fruttivendoli, pescivendoli, abbiamo chiesto alla gente per strada se volessero partecipare. Ci siamo intavolati in situazioni divertenti». Quando hai ricevuto l’offerta da Dolce&Gabbana qual è stato il tuo pensiero? «Io pensavo fosse uno scherzo perché mi hanno contattato via Instagram. Ho iniziato a crederci solo quando ho ricevuto l’e-mail con il brief che spiegava più nel dettaglio il tutto. Ho ricevuto i complimenti da Gabbana e non li ho delusi, c’era una possibilità di deluderli perché per me era la prima volta. Non avevo mai partecipato a un progetto internazionale. Penso alla fine siano rimasti tutti contenti». Post-produzione e retouch delle foto, sei pro o contro? Ne fai uso? «Cerco di fare una post-produzione molto lieve, lasciando la foto quanto più reale possibile. Non ho mai avuto l’intenzione di stravolgere i colori o utilizzare filtri e contro filtri per poi dare un’immagine diversa di quella che potresti andare a ritrovare dal vivo».


F OTOGRAFIA

di Marianna Donadio

“Un altro mondo è necessario” Il fotoreporter Luciano Ferrara racconta il G8 di Genova

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bbiamo ragione da vent’anni”. Lo ripetono ancora una volta, nel ventennale di Genova 2001, gli attivisti provenienti da tutto il mondo che negli anni di fuoco tra il 1999 e il 2002 parteciparono alla stagione dei contro-vertici. Non possono fare a meno di ribadire che le idee e le verità che ancora oggi si vogliono tacere sono le stesse che vent’anni fa si urlavano a perdifiato nelle piazze di Napoli, di Praga, di Genova. Idee pericolose, che sono costate il sangue di molti e la morte di Carlo Giuliani. Uno di questi attivisti è Luciano Ferrara, fotogiornalista che ha documentato le giornate del G8, e non solo, attraverso immagini che sono passate alla storia. Fotografie come le sue e quelle dei 20 fotografi con cui ha collaborato sono prove di una forza disarmante; non possono mentire come hanno fatto istituzioni e capi di Polizia nella ricostruzione di quei giorni. Fotografie come queste ci consentono di gettare luce su una vergognosa violenza in divisa, che ha agito subdola dentro le mura di carceri come quello di Poggioreale, di Santa Maria Capua Vetere, e che con Genova 2001 ha raggiunto il suo apice, sotto gli occhi di tutti. Dal 2 luglio a Mezzocannone Occupato è esposta la mostra fotografica “Un libro in mostra” curata dal fotogiornalista e tratta dal suo libro “Un altro mondo è pos-

Ph. Luciano Ferrara ©

sibile”, pubblicato nel 2001 da Intra Moenia. Oggi, a vent’anni dalla pubblicazione del libro, si è voluto cambiare il titolo in “Un altro mondo è necessario”, per tenere in conto e sottolineare la storia di questi anni, che non hanno fatto che confermare quanto sostenevano gli attivisti, dimostrando tutti i limiti del liberismo e tutti i disastri da esso provocati. I movimenti No Global di quegli anni avevano previsto le conseguenze delle politiche economiche in atto e avevano cercato di costruire un’alternativa, raggiungendo numeri tali da spaventare le istituzioni a tal punto da determinare reazioni di una violenza inaudita. La storia di questo movimento, come racconta Luciano Ferrara introducendo la mostra, inizia in Brasile. «In Brasile ci fu una grande riunione internazionale dove confluirono tutte le minoranze di 5 continenti. Si doveva studiare la

“democrazia del vicolo”, ovvero la democrazia partecipata che mette al centro il popolo. Poi tutto iniziò a Praga. Lì ci fu un grandissimo convegno, dove noi abbiamo partecipato come napoletani, ed è stata la prima manifestazione No Global. Poi ci fu la manifestazione del 17 marzo 2001, proprio a Napoli, a piazza Municipio. Noi l’abbiamo detto 20 anni fa “No alla globalizzazione”, adesso diciamo “Un altro mondo è necessario”. Non ci hanno creduto e da allora abbiamo fatto passi indietro, la situazione si è aggravata dal punto di vista ecologico». «A Genova c’è stata la più grande sospensione della democrazia della storia del Paese, la più grande violazione dei diritti umani per la quantità di corpi e di persone che ha coinvolto, per la morte di Carlo, per il ferimento e le torture all’interno della Diaz e all’interno di Bolzaneto» ricorda in un intervento Eleonora De Majo, ex as-

sessora del Comune di Napoli. «Quelle argomentazioni erano così forti e così reali che oggi ci sono tornate con tutta la loro violenza, con tutta la loro pericolosità. All’epoca le no global e i no global provavano a far capire che questo modello di sviluppo, questo neoliberismo feroce, questa volontà di globalizzare il mondo dando priorità alle merci e ai profitti e non alle persone, prima o poi avrebbe portato il pianeta al collasso. Ed è successo. C’è un legame molto forte tra i giorni di Genova e i giorni che viviamo oggi». È proprio di clima, infatti, che si è parlato nella tappa napoletana del G20. Le proteste si sono subito accese, supportate dalle stesse ragioni e dalle stesse necessità di vent’anni fa, ora ancora più urgenti. In quei giorni gli attivisti sono scesi in piazza chiedendo un’inversione di rotta riguardo le politiche economiche e di sviluppo, che sostengono non possa essere affidata agli stessi governi che queste politiche le adoperano e che attraverso le multinazionali lucrano sulla devastazione ambientale. A 20 anni di distanza i giovani nelle piazze hanno voluto ricordare alla generazione di Genova 2001 che quella lotta non è finita: oggi come non mai è doveroso ricordare quelle idee e la violenza impunita con la quale tentarono di sopprimerle.

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A MBIENTE

di Antonio Casaccio

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«RIFIUTI: QUESTO SISTEMA NON FUNZIONA» Interviene il Commissario alla “Terra dei Fuochi”, dott. Filippo Romano

erra dei Fuochi. Poche parole che da anni identificano il dolore di una terra che ha visto il suo ambiente distrutto e che ha patito le morti, troppo spesso giovani, di eco criminali che per il profitto hanno venduto la loro casa e i loro figli. Oggi la situazione è ben diversa da anni fa e i roghi, seppur presenti, sono in diminuzione nella regione Campania. Problema “rifiuti” risolto? No, per niente. Il tema resta un tabù per il nostro Paese, che continua ad allontanarsi dai modelli virtuosi offerti dal Nordeuropa; la causa è una normativa bella sulla carta, ma che non trova riscontro nella realtà (formale ma non sostanziale direbbero i costituzionalisti). Per approfondire il tema abbiamo incontrato il Commissario della Terra dei Fuochi Filippo Romano, Viceprefetto dal 2010 e da anni Commissario prefettizio in svariati comuni italiani. Il Commissario Romano guida la cabina di regia sul contrasto ai roghi, arrivando a risultati incoraggianti senza omettere aspre critiche al sistema rifiuti. Secondo lei qual è il vero problema che c’è dietro il riuso e il riciclo dei rifiuti? «Riguardo i rifiuti e il loro riciclo è importante partire senza alcun preconcetto o luogo comune, per questo tengo a spiegarvi con linearità qual è il nodo centrale per affrontare il problema. I rifiuti sono il prodotto dell’attività di trasformazione e fruizione dei beni, nella nostra società consumistica ovviamente la produzione di rifiuti è molto elevata ed è costante in tutto il mondo occidentale “avanzato”, quindi non è che nella “Terra dei Fuochi” o nell’agro aversano si producano più rifiuti che in altre zone. Tempo fa, particolarmente nel Sud Italia, vi era un’idea passiva dei rifiuti, con la

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creazione di discariche presenti in ogni paese… delle vere e proprie buche nei terreni senza alcuna misura di sicurezza. Tali discariche assorbivano la quantità di rifiuti che man mano andava crescendo, fino a quando accadono due fenomeni essenziali. Il primo è l’aumento costante della quantità dei rifiuti, l’altro è la presa di coscienza che quel tipo di smaltimento non era sostenibile per l’ambiente. Più che le varie soluzioni, ipotizzate e messe in campo, voglio precisare il contenuto del codice dell’ambiente che disciplina tutta la politica ambientale e che ha un’intera parte dedicata al ciclo dei rifiuti. La nostra regola, “copiata” da quella europea, afferma che prima di tutto bisogna ridurre la quantità dei rifiuti; questa non vuol essere l’unica soluzione, ma una tendenza verso la quale bisogna muoversi. È un indirizzo anche di prevenzione perché, rimuovere i rifiuti abbandonati per strada significa agire con ritardo, quel problema va risolto alla radice. Oltre questa linea di indirizzo sulla riduzione, vi è un grande tema: il riuso del rifiuto. Una questione che si scontra con la nostra normativa obsoleta; pensiamo che in molti Paesi dell’Unione i cittadini consegnano il vetro utilizzato nel suo punto d’acquisto, mentre in Italia un operatore economico ha maggior convenienza nel comprare vetro dal rifornitore piuttosto che riprendere e riutilizzare quello ceduto al cliente. Un paradosso rispetto alla cronaca dei maggiori paesi europei. Dopo la riduzione e il riuso, vi è il riciclo ed è proprio qui che casca l’asino perché molto riciclo si dice che si fa, ma

non è così». Ci spiega? «Voglio ribadire un concetto chiave: non è detto che la strada per il riciclo sia la differenziazione domestica, anche se è un’opinione impopolare. Il rifiuto non genera ricchezza di per sé, anche perché altrimenti non sarebbe un rifiuto. Quest’ultimo acquista un valore nel momento in cui, nel riciclo, vi è dietro un lavoro. La carta, ad esempio, conviene raccoglierla perché costa meno e, infatti, costituisce una fonte di guadagno per i comuni, specialmente il cartone delle aziende commerciali. La maggior parte del guadagno, infatti, viene dalle aziende commerciali (il cartone dei grandi imballaggi), mentre dalla carta utilizzata a casa proviene poco e nulla dato che viene maltrattata prima di essere gettata. La raccolta a casa, quindi, non ha guadagno mentre ha dei costi costituiti dal lavoro dei netturbini, ad esempio. A questo punto dalle mie riflessioni sorge una domanda: ma nessuno ha mai pensato di raccogliere la carta insieme a plastica e metallo, per poi passare nello stabilimento che vaglierà il rifiuto? Sembra assurdo, ma per separare questi materiali occorrerebbero semplici impianti di separazione. Negli altri

paesi è questo il metodo utilizzato e, infatti, hanno meno sacchi rispetto all’Italia. A Parigi ce ne sono solo due: secco e umido. In Italia probabilmente il servizio porta a porta c’è perché garantisce lavoro a determinate categorie di persone, oltre al fatto che fare la raccolta differenziata suscita nelle persone un sentimento ambientalista: in quel momento si sta facendo un gesto a tutela dell’ambiente. Ed è anche per quest’ultimo motivo che poi i cittadini si arrabbiano se, nonostante la loro raccolta, vedono che nella loro città vi sono rifiuti abbandonati per le strade e i costi della differenziata aumentano». Costi in aumento e territorio sporco, una responsabilità grave che i cittadini imputano al Comune. Lei ha avuto spesso a che fare con la gestione comunale, qual è il suo parere? È unicamente responsabilità degli amministratori? «Dal 2004 ho ricoperto il ruolo di Commissario prefettizio in diversi comuni e ho dovuto affrontare direttamente questo tipo di problematiche. Molti cittadini pensano che questo fenomeno sia completamente imputabile al comune, ma non è esattamente così. Per spiegarlo meglio stavolta prendo come esempio la plasti-


ca, la quale è quasi tutta recuperabile grazie a degli impianti molto complessi. Il problema è che di impianti ce ne sono pochissimi, quindi il comune deve affidarsi ad un privato per la raccolta della plastica, con un gran costo ai danni delle casse comunali. Capita frequentemente che i privati addetti a questo tipo di servizio conservino la plastica in grandi capannoni che primeggiano nelle cronache quando vengono incendiati. In molti casi alcuni imprenditori/ delinquenti danno fuoco ai loro capannoni senza che subiscano perdite economiche irreparabili, dato che il business dietro la plastica è molto oneroso. La stessa cosa accade per l’umido che ha bisogno di impianti specializzati per diventare compost, ma qui ritorna lo stesso discorso che vale per la plastica, anzi peggio, dato che vi sono ancora meno impianti. Il grande problema è che i cittadini non vogliono queste strutture, che quindi finiscono in mano ai privati e ci costano cifre esorbitanti. Gran parte dell’umido della regione Campania va dritto in Veneto, dove ci sono impianti privati, per un costo comprensivo di trasporto di ben 240 euro a tonnellata». Torniamo al percorso dei rifiuti: dopo riuso e riciclo? «Recupero energia e infine la discarica, che è l’ultima soluzione. Il vero “diavolo” è la discarica non il termovalorizzatore! Grazie a quest’ultimo, mediante la combustione, il rifiuto diventa energia. Di certo una soluzione migliore rispetto agli incendi nei pressi dei campi rom che, data la richiesta di mercato, raccolgono illecitamente rifiuti e poi gli danno fuoco, come vediamo nel territorio di Giugliano». Crede che l’informazione abbia delle responsabilità sulla narrazione di questo sistema?

Filippo Romano

«Il tono dell’informazione è continuamente allarmista e a caccia di like, occorrerebbero approfondimenti che inquadrino davvero il deficit inerente ai rifiuti. Spesso arrivano da me testate nazionali, Le Iene o Report, che gridano allo scandalo perché ci sono ancora incendi… e ovviamente attribuiscono questo disagio al sottoscritto, data la mia carica. Un inviato de Le Iene mi accusava chiedendomi se sapessi che il campo rom di Giugliano nasce su una discarica, mentre in realtà nasce in un’area industriale che ai bordi è stata letteralmente riempita di rifiuti. Di questo ne siamo certi, anche grazie alle nostre attività di controllo tramite droni che hanno ripreso i camion scaricare i rifiuti che di lì a poco sarebbero stati incendiati. Bisognerebbe spiegare, spesso paradossalmente a chi fa informazione, che nei nostri territori è presente un solo termovalorizzatore (ad Acerra) che è costantemente pieno, dato che non può andare oltre una capienza del 70%». Tornando su Giugliano, la questione legata al campo rom resta di evidente attualità. Ci sono soluzioni per lei? «I rom non sono brutti e cattivi, semplicemente si inseriscono in

un vuoto amministrativo perché hanno esigenze come tutti. Immaginiamo, invece, di creare una cooperativa che si occupi della vagliatura della plastica e all’interno della quale possano lavorare queste persone. Ho avanzato tale proposta a diversi amministratori, ma tutti hanno ribadito come dar occupazione ai rom e la costruzione di una piattaforma per i rifiuti siano due fattori che creerebbero rabbia ai cittadini. Diciamocelo chiaramente: se restiamo impantanati in questi steccati non vi sarà mai una soluzione». Qual è la risultante di questa carenza? «L’effetto di questa assenza di soluzioni è gettare il sacchetto per strada. Una delle balle che circola sulla questione è che tali rifiuti sarebbero il prodotto di aziende che lavorano a nero, un’assurdità dato che per strada vediamo rifiuti urbani e non industriali, oltre al fatto che un’impresa che lavora abusivamente avrà di sicuro pattuito patti “a nero” con un privato per lo smaltimento illegale dei suoi rifiuti. Il porta a porta, invece, ha insito anche il problema delle abitazioni abusive, soprattutto in queste aree vi sono interi villaggi abusivi che ovviamente non usufruiscono del servizio di raccolta a casa, pertanto proprio su questo litorale assistiamo a numerosi incendi localizzati». Crede che ci troviamo ancora in piena emergenza “Terra dei Fuochi”? «La situazione della “Terra dei Fuochi” non è dissimile a quella di altre regioni da Roma in giù, ad esempio, lo scorso anno la Sicilia ha superato la Campania per numero di roghi. Davanti a questi dati possiamo dire che ormai la “Terra dei Fuochi” è solo un’etichetta, che è certamente utile per continuare a insistere sui temi della preven-

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zione». Oggi parlare dei rifiuti è diventato più difficile? «Il politicamente corretto ha contribuito a far sì che il tema “rifiuti” diventasse intoccabile, in questo modo è sempre più complesso fare discussioni approfondite e aprire nuovi impianti. Io non ho soluzioni in tasca, non so se il termovalorizzatore sia la soluzione più efficace in assoluto, ma è quella prevista dalla legge che indica solo come ultima spiaggia la discarica. Nel frattempo, però, va detto che la Campania ogni settimana fa partire un carico di rifiuti che va a Copenaghen per essere bruciato da uno dei 67 termovalorizzatori della Danimarca». Il suo intervento ci fa comprendere che le falle nel sistema non dipendono unicamente dall’infiltrazione della criminalità… «Il problema persisterebbe anche se a gestire gli impianti ci fossero i frati francescani. Qui c’è un intero sistema che non funziona». Potrebbe sintetizzare, ad oggi, i risultati dall'inizio del suo mandato? «Io sono incaricato per il contrasto dei roghi direttamente dal Ministro dell’Interno. Il mio obbiettivo è il contrasto a questo fenomeno e dallo scorso anno abbiamo registrato una diminuzione del 30% dei roghi tossici. Un risultato possibile grazie anche all’impegno del contingente “Terra dei Fuochi” dell’Esercito italiano, che ci permette di assicurare 14 pattuglie 24/h sul territorio. L’organizzazione e il calendario degli interventi vengono strutturati in una cabina di regia presieduta dal sottoscritto insieme a tutte le forze di polizia, anche municipali. Insomma, stiamo avendo ottimi risultati, ma tengo a sottolineare che anche se riducessimo a zero i roghi il problema dei rifiuti non sarebbe risolto perché i cumuli sarebbero ancora a terra».

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A MBIENTE

di Antonio Casaccio

POVERTÀ ENERGETICA

Al G20 di Napoli acceso il dibattito sulla grande sfida del futuro

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l G20 di Napoli è stato indubbiamente un evento di grande prestigio per la città, con i 20 Ministri dell’Ambiente dei Paesi più potenti che hanno dato il via a confronto e programmazione sui determinanti temi dell’ecosostenibilità, e non solo. Certo, nell’immaginario collettivo resta l’idea di un circolo di potentati che troppo spesso ha posto il veto su politiche economiche che hanno devastato lentamente il nostro ambiente, ma i focus del G20 di Napoli sono stati estremamente interessanti per conoscere meglio le sfide che dobbiamo affrontare. Il nostro giornale è stato accreditato al G20 di Palazzo Reale e nel Media Center, con i grandi cronisti del giornalismo internazionale, si sono potuti seguire i lavori (seppur a distanza) e i documenti che man mano venivano redatti dopo il confronto. Tra i temi più rilevanti, il dibattito sulla “povertà energetica”, sfida globale determinata da fattori come il costante aumento demografico, l’emergenza climatica, la crisi abitativa e l’investimento in infrastrutture nei paesi in via di sviluppo. Ma partiamo dal princìpio: “Secondo l’Osservatorio sulla povertà energetica dell’UE (EPOV), questa è spesso intesa come la situazione in cui una famiglia non può soddisfare il proprio fabbisogno energetico domestico (Direttiva UE 2019/944, 2019). Molti Stati membri riconoscono come la povertà energetica può portare a gravi problemi di salute e isolamento sociale” – si legge nel documento redatto al termine del G20. La Francia definisce la povertà energetica come la situazione in cui una persona ha difficoltà ad ottenere l’energia necessaria per la propria casa (illuminazione, cucina, riscaldamenti, informazione e comunicazione) questo a causa di risorse economiche inadeguate 44

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o condizioni di vita difficoltose. Nei paesi in via di sviluppo, la povertà energetica è vissuta principalmente come mancanza di accesso all’energia di base, e questo è un tema di estrema rilevanza se consideriamo l’aumento demografico esponenziale in molti di questi Stati. Alcuni potrebbero pensare che questo tema alla fin fine non ci riguardi direttamente, e forse è vero, se pensiamo al nostro piccolo orticello quotidiano, ma basta cambiare prospettiva ed entrare nei panni delle tante madri che si prendono cura delle proprie famiglie, e che utilizzano combustibili tradizionali per cucinare e riscaldarsi. Ecco, l’OMS stima che quasi quattro milioni di persone muoiano prematuramente ogni anno a causa di malattie imputabili all’inquinamento atmosferico domestico, probabilmente causato dalla condizione di povertà energetica; un fenomeno che colpisce in modo sproporzionato donne e bambini. Nei paesi in via di sviluppo (e non), la povertà energetica espone a nuovo isolamento comunità che già vivono uno stato di emarginazione; un fenomeno in continua ascesa e fortemente legato ad un’innovazione tecnologica che cambierà sempre più i nostri modi di vivere. I Paesi maggiormente colpiti da questi disagi hanno già sperimen-

tato delle risposte, come l’esempio del Brasile e i suoi programmi di accesso all’elettricità per permettere a milioni di famiglie (delle zone rurali e remote) collegamenti energetici essenziali. Uno dei programmi è “Luza para Todos”, lanciato nel 2003, è stato un investimento di circa 7,1 miliardi di dollari e che oggi raggiunge 16 milioni di persone, una strategia che il documento finale del G20 di Napoli definisce “una buona strada per il Brasile al fine di raggiungere l’accesso universale all’elettricità”. Altro punto di discussione: affrontare la povertà energetica migliora la resilienza agli shock economici e alle emergenze, una lezione che abbiamo ben imparato nella pandemia da covid-19. Proprio i lockdown e la distanza ci ha fatto comprendere il ruolo essenziale che i collegamenti energetici ed elettronici giocano sui diritti essenziali dei cittadini. In questa pandemia, il bambino che non dispone a casa di una rete efficiente si è visto ledere un diritto sacrosanto, quello all’istruzione. Affrontare questi temi non significa essere futuristi o scadere in discorsi elitari, ma significa salvaguardare i diritti su cui si fonda la nostra democrazia. Abbiamo nelle mani un mondo che corre veloce e che lascerà sempre più dietro chi vive in condizioni di povertà, studiare e approfondire queste tematiche significa contribuire alla valorizzazione di bacini

di emarginati sempre più imponenti. Su cosa investire allora? Il documento concordato nel G20 di Napoli vede tra le risposte: reti intelligenti, energie rinnovabili, l’efficientamento energetico degli edifici e la creazione di comunità energetiche. Proprio queste nuove comunità stanno già offendo esempi virtuosi, come quelli nella Francia rurale sudoccidentale. In quest’area, infatti, una cooperativa agricola locale (Farms of Figeac) ha creato una comunità energetica, la società SAS Segala Agriculture et Energie Solaire, per l’installazione di pannelli solari fotovoltaici sui fabbricati agricoli dei suoi membri; tali pannelli hanno prodotto l’energia necessaria per un miglioramento produttivo dell’intera cooperativa, contribuendo al rilancio di aree in cui le attività agricole sono in declino. Attenzione però, gli Stati esteri non sono gli unici ad attivarsi. Il nostro Paese, anche se con ritardo, sta affrontare la questione abitativa con una misura invidiata in mezza Europa: il “Superbonus 110%”. Un provvedimento che mira proprio all’efficientamento energetico degli edifici, rivolto a tutti i cittadini (nessuna barriera economica) e senza alcun costo. Presto, infatti, anche la Spagna adotterà la misura che spinge verso una transizione sempre più necessaria.


A TTUALITÀ

di Fabio De Rienzo

S.O.S. artigianato napoletano

Non solo turisti e presepi, gli artigiani hanno bisogno del "pane"

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Rua Catalana, a Napoli, fino agli anni ’90 vi erano decine e decine di botteghe di lattonieri, “‘e vattalammere”, artigiani che lavorano i metalli, oggi quella vita, quell’umanità, quel fermento sono meno di un vago ricordo e dei 3-4 impavidi lattonieri che ancora resistono, mettendo da parte la loro magia artistica per far spazio a lavori da fabbro. Per approfondire la questione abbiamo intervistato Mimmo Filosa di Unipan Campania (associazione regionale dei panificatori). Perché i lattonieri sono quasi del tutto scomparsi? Per la stessa ragione per cui stanno scomparendo tutti gli artigiani che è poi lo stesso motivo per cui ogni anno tante piccole attività commerciali di quartiere sono costrette a chiudere i battenti: la pressione fiscale sempre più alta; le non-agevolazioni; l’abbandono da parte delle istituzioni e delle amministrazioni, abilissime nei periodi pre-elettorati a sbraitare contro le ingiustizie, a promettere aiuti, ma smemorata dopo i voti ottenuti; il mercato estero con la sua politica del low-cost; per ultimo l’emergenza covid con le sue conseguenze. L’influenza del turismo e la gentrificazione sull’artigianato Se da un lato l’attuale amministrazione cittadina ha creato i presupposti per un aumento del flusso turistico (o è ciò che di cui per anni si è vantata), dall’altro occorre capire che si tratta di turismo usa&getta, che non lascia ricchezze e valori aggiunti alla città ma solo monnezza, cartacce, contenitori di pizze e involucri per i cuoppi di frittura, che non si è stati, e non si è, in grado assolutamente di smaltire. Monnezza a parte, questo tipo di turismo, fomentato dalla politica dell’amministrazione comunale, ha modificato radicalmente il retaggio culturale e lo spirito identitario di alcune zone, come ad esempio quella dei Quartieri Spagnoli, dove un tempo vi erano “paranze” di botteghe artigianali, mentre oggi si vedono soltanto “mazzam-

me” di trattorie, spritzerie e B&B, per fare un’analogia gastronomica (sembra che oggi conti soltanto questo aspetto). Una soluzione per smuovere il mercato dell’artigianato è stata trovata creando i percorsi turistici nel centro storico, di base una buona idea che però ha dovuto scontrarsi con l’emergenza covid e le conseguenti restrizioni sulle attività commerciali e gli assembramenti. Questo tipo di soluzione, però, va ad escludere tutte quelle attività al di fuori del circuito dell’arte presepiale di San Gregorio Armeno, dove si concentra la quasi totalità del flusso turistico indirizzato all’artigianato. E quegli artigiani non-folkloristi che non attirano i turisti? Non tutte le botteghe si trovano nel cuore della città, nei percorsi turistici, non tutti necessitano di

visite dei turisti. Molti hanno bisogno soltanto di portare il pane a tavola, quel ‘pane’ anch’esso in crisi. “Pur essendo un prodotto di prima necessità di cui, quindi, la produzione non si è mai fermata, abbiamo dovuto lavorare, per l’emergenza sanitaria, in condizioni non facili, alle quali non eravamo abituati. La tensione è stata tanta e questo ha ovviamente influenzato negativamente la produzione ed il nostro modo di lavorare. Al di là del covid, però, ciò che negli ultimi anni ci ha maggiormente danneggiato è stata la cattiva informazione fatta sul pane e l’introduzione sul

mercato di tanti prodotti di pane industriale che non hanno certo le stesse proprietà benefiche del pane artigianale. Quindi per un rilancio del settore, serve una giusta e corretta informazione e una tutela del prodotto artigianale.” spiega Mimmo Filosa, presidente dell’Unipan Campania. Una scelta sensata sarebbe, dunque, creare dei percorsi dell’artigianato non mirati soltanto all’ammirazione e all’eventuale acquisto di souvenir, ma che prescindano dal discordo del folklore e che puntino sull’unità e sull’unicità della storia e della cultura della città e dei singoli quartieri, mostrando al mondo e ai giovani le storie individuali ed umane dei singoli artigiani, collegando ogni prodotto della bottega al sacrificio, al lavoro e ai sogni che vi sono dietro. È, infatti proprio sui giovani su cui bisogna puntare per arrivare alla rinascita dell’artigianato, “solo avvicinando i giovani al mondo del lavoro, mostrandogli al tempo esso i sacrifici e le soddisfazioni portati da un mestiere manuale, artigianale, si può dare una svolta al settore e al tempo stesso recuperare quel mondo giovanile così poco attento alle reali esigenze della società.”spiega Filosa- “A San Sebastiano al Vesuvio è stata creata la prima Cittadella del Pane, in un’area sequestrata alla camorra, proprio per avvicinare i giovani al mondo della panificazione e allontanarli dal frivolo, dalla vita di strada e dall’illegalità.” . Bisognerebbe attirare i turisti facendo leva sul patrimonio storico e culturale e non mercificando emozioni fittizie ed esperienze prefabbricate e low-cost. Questa si esauriranno a breve, la cultura della città è eterna. Agosto 2021

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I

NCHIESTA

di Donato Di Stasio

Tra inchieste “sotto copertura” e migranti clandestini L’eccellenza del giornalismo nelle indagini di Fabrizio Gatti

L

a nota firma de L’Espresso racconta il suo viaggio sulle rotte dei migranti Coraggio, forza, intraprendenza, capacità interpretative, oltre ad eccellenti qualità giornalistiche: sono solo alcuni dei requisiti che contraddistinguono i giornalisti “undercover”, “sotto copertura”, coloro che si infiltrano in un luogo assumendo un’altra identità per raccontare le esperienze e le storie degli individui che ne fanno parte. Fabrizio Gatti, firma autorevole de L’Espresso ed ex giornalista del Corriere della Sera, può essere considerato come una delle punte di diamante del giornalismo italiano, lontano e indipendente rispetto alle logiche dell’establishment politico ed economico, con l’obiettivo di offrire all’opinione pubblica un’informazione libera e completamente imparziale. Le sue inchieste “sotto copertura” sono state determinanti e hanno in un certo senso scritto la storia, non solo per il peso sociale e per la loro difficoltà, ma soprattutto per i risultati ottenuti successivamente. Il lavoro di Gatti non ha nulla da invidiare rispetto alle inchieste effettuate dai colleghi americani negli Stati Uniti, paese in cui il giornalismo ha sempre saputo stare alla larga dagli affari illeciti delle istituzioni, denunciando e portando sulle prime pagine dei quotidiani segreti e verità nasco-

Ph. Fabrizio Gatti ©

ste. Per buona parte della sua carriera, il giornalista de L’Espresso si è concentrato sul tema dell’immigrazione clandestina, argomento che riveste ancora oggi una certa importanza per la politica italiana e internazionale, fingendosi migrante e infiltrandosi in due centri italiani di detenzione temporanea per clandestini, riuscendo a denunciare i trattamenti, le condizioni, i soprusi e le violenze riservate agli immigrati. Gatti è stato anche protagonista di un’inchiesta effettuata lungo alcuni paesi dell’Africa centrale: partendo dal Senegal, l’intrepido giornalista si è messo in viaggio con i tanti giovani che decidono di attraversare l’ostile tratta del Sahara per giungere alle coste di Lampedusa, raccontando del traffico illecito degli

immigrati. Tra le imprese di Gatti non possiamo non annoverare l’inchiesta sul caporalato svolta nei campi di pomodori in Puglia o il lavoro effettuato sull’inefficienza del Policlinico Umberto I di Roma. I primi anni del 2000 sono stati profondamente segnati dalle sue inchieste “sotto copertura”: prima nel Centro di permanenza temporanea per stranieri di via Corelli, a Milano; poi lungo la tratta che dal centro dell’Africa separa gli immigrati dalle coste italiane, fino ad arrivare al Centro di detenzione di Lampedusa e ai campi di raccolta di pomodori in Puglia. Quali sono i motivi che l’hanno spinta ad intraprendere questi viaggi, raccontando e denunciando in prima persona le

condizioni e gli orrori cui sono state vittime gli immigrati clandestini? «La prima ragione è il mio lavoro di giornalista: nessuno aveva mai raccontato sulla sua pelle il viaggio, la detenzione, lo sfruttamento e il primo dovere di un giornalista è informare, soprattutto su argomenti ancora sconosciuti. Da persona, da cittadino di una democrazia, da figlio di emigranti, ho anche sentito il bisogno di seguire quel percorso interiore, umano e geografico, che lega ogni nostra singola storia familiare al mondo in movimento. Da questo bisogno antropologico è nato il libro Bilal, di cui La nave di Teseo pubblicherà una nuova edizione con un nuovo capitolo inedito. Oltre a questo si aggiunge l’impegno civile: con le mie inchieste sotto copertura e con Bilal intendevo e intendo restituire il nome, l’età, la biografia, il diritto alle proprie ambizioni e la voce a quanti, secondo categorie burocratiche e retoriche, venivano chiamati clandestini e oggi migranti, rifugiati, immigrati». Gerardo Adinolfi, nel suo libro “Dentro l’inchiesta”, la definisce “Maestro dell’inside story”. A distanza di tanti anni, quanto sente di aver contribuito, grazie alle sue inchieste, rispetto alle condizioni e ai trattamenti riservati agli immigrati clandestini che

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arrivano nei centri di permanenza o detenzione italiani? Ci sono stati miglioramenti? «Ho fatto chiudere due centri di detenzione in Italia, quello di via Corelli a Milano nel 2000 e quello di Lampedusa nel 2005, e ho denunciato la detenzione dei bambini kosovari nelle camere di sicurezza in Svizzera nel 1999. Dopo le mie inchieste, il nostro Ministero dell'Interno ha riconosciuto la necessità e autorizzato la presenza di osservatori esterni nei principali luoghi di trattenimento, anche se non in tutti. Ho subìto tre processi: uno in Svizzera per ingresso illegale come kosovaro concluso con una condanna; uno a Milano per false attestazioni a pubblico ufficiale come immigrato romeno, terminato con l›annullamento della condanna di primo grado e la successiva prescrizione; uno ad Agrigento per false generalità come iracheno, concluso con la piena assoluzione poiché, di fronte alla richiesta di un anno di reclusione della Procura, il Tribunale ha invece riconosciuto il valore civile e sociale del mio lavoro e il fatto che non ci fossero metodi alternativi di verifica, se non quello di farmi ripescare in mare e dichiarare una falsa identità. Non ho la presunzione di affermare che ci sono stati miglioramenti. Ho scavato qualche gradino legale nella pietra, se qualcun altro dopo di me vuole scalare la parete. Purtroppo l’attenzione dei governi, dei ministri, ma anche di tanti miei colleghi, si è fermata alla fine del viaggio: al sostenere o negare il soccorso in mare, al diritto o no alla traversata. Sono questioni umane fondamentali, che però non incidono sulla decisione di migliaia di giovani di partire. È lì, nei luoghi d'origine, che bisogna intervenire, investire, formare, stringere accordi, creare percorsi di immigrazione legali. Da questo punto di vista, la situazione è molto peggiorata da allora. Anche perché oggi l’impoverimento dovuto alla pandemia ci ha reso tutti più simili: prospettive precarie, mancanza di lavoro, abbandono scolastico. Anche molti di noi sono finiti in quel luogo simbolico al di là del mare». Tra le sue tante inchieste “undercover”, qual è stata l’esperienza che l’ha segnata di più? E perché? «Tutte mi hanno segnato e ribollono sotto un sarcofago di cemento dentro qualche parte di me. Ma quella più difficile da gestire, intimamente, è stata l’inchiesta sul

naufragio dell’11 ottobre 2013 che ho ricostruito nel documentario “Un unico destino”. La nuova edizione di Bilal comincia da lì: duecentosessantotto morti tra i quali sessanta bambini, lasciati ore alla deriva su un peschereccio crivellato di pallottole da una milizia libica, e la nostra nave Libra a mezz’ora di navigazione, a dieci minuti di volo dell’elicottero di bordo, mandata dalla Marina militare a nascondersi dietro l’orizzonte. Se non avessi fatto il giornalista, avrei studiato per diventare pilota militare. Ho dato le dimissioni durante il tirocinio in Accademia aeronautica a Pozzuoli, per una scelta di vita. So cosa significa indossare una divisa. E so anche cosa significhi disonorarla. Un papà siriano, che poche ore prima aveva perso in mare la moglie e i tre figli, mai più recuperati, mi ha chiesto: “Perché voi italiani ci avete lasciati annegare?”. La sua domanda mi ha mostrato il fondo del baratro che avevo cominciato a discendere con Bilal». Bilal Ibrahim el Habib è stato lo pseudonimo scelto per infiltrarsi e raccontare dall’interno le storie di chi si imbatte nel lungo viaggio per arrivare in Europa dall’Africa. Lei ha attraversato Senegal, Mali, Niger, fino ad arrivare al confine con la Libia, un’inchiesta coronata con il libro “Bilal. Viaggiare, lavorare e morire da clandestini”. Ma cosa significa “essere clandestini”? «Significa essere fantasmi; perdere i propri diritti essenziali; essere un frutto da spremere e lasciar morire in mare o se si fa male sul luogo di lavoro; da abbandonare al freddo se non ha più uno stipendio per pagare l’affitto; da co-

stringere al silenzio se subisce un reato o semplicemente protesta. Difendere i princìpi costituzionali di uguaglianza non significa sostenere la caotica utopia di aprire le frontiere a tutti, ma creare le condizioni perché tutti possano crescere, studiare, formarsi, lavorare, vivere nel luogo dove si è nati ed eventualmente emigrare in condizioni sicure. “Inshallah” (“Se Dio vuole”). Cosa penserebbe se un giorno qualcuno le menzionasse questa parola? «Mi succede molto spesso di sentirla e qualche volta la pronuncio anch’io, ma solo con chi ne conosce pienamente il significato umano, culturale, geografico. Non soltanto quello religioso». Per molti africani che si apprestano a lasciare la propria terra d’origine, l’Italia rappresenta ancora la meta più ambita dove arrivare per aspirare ad una vita migliore, mentre assistiamo continuamente alla cosiddetta “Fuga dei cervelli” che fa emigrare all’estero i migliori talenti italiani. Perché secondo lei? «Perché il professor Andrea Crisanti, che ha contenuto con successo la pandemia in Veneto durante la prima ondata, è stato poi scaricato dalla Regione? Perché non è stato chiamato dal governo a dirigere il cosiddetto Comitato tecnico scientifico, visto che aveva dimostrato sul campo i suoi meriti salvando migliaia di persone dal contagio? Anche un cervello come Andrea Crisanti, se non fosse Andrea Crisanti, sarebbe costretto ad andarsene all’estero, come del resto lui stesso aveva già fatto. Perfino davanti agli errori e alle colonne di bare riempite dalla pandemia, la maggioranza

del mondo accademico e politico italiano è rimasta impassibile. Fare esperienza fuori dall’Italia è fondamentale. Il problema è che se rientri, anche se sei bravo nel tuo settore come il professor Crisanti, non ti lasciano lavorare liberamente. L’Italia comunque non è la meta più ambita dei flussi migratori, ma solo un luogo di sbarco e transito. Molti poi restano soltanto perché non riescono a raggiungere Francia, Germania, Regno Unito, Scandinavia». Dal punto di vista legislativo, cos’è cambiato negli ultimi vent’anni per quanto riguarda gli sbarchi clandestini in Italia e in Europa? Secondo lei, si potrebbe adottare qualche misura per rendere più agibile il viaggio di un immigrato clandestino in Italia? «Bruxelles considera l’immigrazione un problema nazionale e non continentale e così non si fa pienamente carico della questione. Ma l’unica misura efficace è creare percorsi educativi e di lavoro nei luoghi d’origine e, se richiesto, concedere poi visti per l’ingresso legale. Purtroppo pochi in Europa si impegnano a cambiare l’origine del viaggio. In Italia il governo di centrosinistra ha preferito pagare milioni di euro ai trafficanti perché tenessero le loro vittime imprigionate in Libia e non le lasciassero partire. Quello di destra ha bloccato fuori dai porti le navi della Guardia costiera cariche di profughi. Sono due facce dello stesso fallimento. Sono soluzioni disperate e spettacolari che non risolvono nulla. Diciotto anni dopo l’inizio del mio viaggio da infiltrato che racconto nel mio libro “Bilal”, da questo punto di vista siamo fermi all’anno zero».

Ph. Fabrizio Gatti © Agosto 2021

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A TTUALITÀ

L’evoluzione dell’economia criminale di Silvia De Martino

a fronte della pandemia di assistenzialismo a privati ed imprese. Dal momento che il lockdown aveva

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emergenza sanitaria da Covid-19 ha avuto conseguenze rilevanti non solo per quel che riguarda la salute delle persone, ma anche per il sistema economico italiano e internazionale. Al di là delle difficoltà affrontate dalle piccole e medie imprese per portare avanti la propria attività in periodi di continue chiusure e riaperture, è da prendere in considerazione anche l’azione delle associazioni mafiose. Nella Relazione della Dia del I semestre 2020, infatti, è emerso come tutte le varie espressioni italiane della criminalità organizzata – calabrese, siciliana, campana, pugliese, lucana – abbiano gestito l’emergenza sanitaria riadattando le proprie possibilità di guadagno. Il punto di forza su cui si sono concentrate sull'offerta di un vero e proprio welfare criminale, tramite forme

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abbattuto le principali attività remunerative, quali spaccio di droga e estorsione, le organizzazioni criminali hanno, quindi, virato per ulteriori strade. Il Covid-19, quindi, tra gli altri danni arrecati alla società, ha indotto anche nuove opportunità di espansione delle mafie, le quali hanno agito per incrementare il proprio consenso sociale e il controllo del territorio, incrinando il rapporto di fiducia che sussiste tra il singolo cittadino e lo Stato. La criminalità organizzata, infatti, opera attraverso un reticolo sociale che punta ad aumentare il proprio raggio d’azione e ad assoggettare un numero sempre maggiore di individui ed imprese. Grazie ai report

trimestrali a cura dell’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso – istituito dal Direttore Generale della Pubblica Sicurezza nell’aprile 2020 – sono stati individuati dei potenziali rischi soprattutto in quei settori che rientrano nella cosiddetta Covid economy, ovvero le filiere produttive e i servizi legati alla pandemia. Questi ambiti di nuova emersione e soprattutto di veloce affermazione sono stati visti come dei pozzi di ricchezza ai quali attingere per recuperare le carenze derivanti da altri settori. L’ultimo report pubblicato – maggio 2021 – indagava le variazioni societarie registrate sul territorio nazionale in questo anno per verificare una possibile infiltrazione mafiosa. Alla luce di queste analisi, è stato individuato un aumento del 7% delle segnalazioni per operazioni sospette ed uno del 9,7% del numero delle società colpite dai provvedimenti interdittivi antimafia. Incremento, rispetto agli anni precedenti, dettato ovviamente anche da un maggiore controllo da parte delle Forze di Polizia a fronte della presenza di maggiori rischi. Diversi studi macroeconomici hanno, inoltre, sottolineato il nesso di causalità tra la criminalità e la disoccupazione:

fattore in preoccupante ascesa nel periodo pandemico. Secondo i dati Istat, tra settembre 2020 e gennaio 2021, il numero degli occupati è sceso di 945mila unità con un tasso di occupazione, rispetto a febbraio 2020, più basso di 2,2 punti percentuale e quello di disoccupazione più alto di 0,5 punti. E bisogna considerare il blocco dei licenziamenti emanato dal governo in tempo di pandemia; uno stop che non sarà eterno e che si prevede creerà una nuova ondata di disoccupati, facili prede per le organizzazioni criminali, con un allarme usura in crescita. Le organizzazioni criminali influiscono sulle relazioni sociali, comprimendo la possibilità di esercitare a pieno i propri diritti e compromettendo il rapporto fiduciario tra gli individui. Proprio per questo motivo si nutrono di situazioni emergenziali, come quella corrente, in cui, sfruttando la crisi statale, si può puntare più facilmente a riempire il vuoto lasciato. Diviene fondamentale, dunque, in questo periodo, incrementare i controlli, al fine di evitare l’infiltrazione mafiosa nella gestione e controllo delle attività economiche, oltre che mettere in piedi un circuito virtuoso di economia sociale che abbia come priorità le fasce di lavoratori colpite dalla crisi covid. Soluzioni concrete per affrontare un’economia criminale che fattura oltre 150 miliardi di euro l’anno in Italia.

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Ripercorrere il viaggio di Enea in fuga da Troia su un itinerario certificato del Consiglio d’Europa

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a Rotta di Enea, attraverso un itinerario fatto di secoli e di molte soste nel Mediterraneo, è un percorso fisico, attraverso le località toccate dall’eroe troiano in fuga dalla sua città in fiamme in cerca di un nuovo inizio in una terra sconosciuta, un’occasione per rileggere l’Eneide e scoprire le radici mitiche della nostra storia nata intorno al Mediterraneo, culla di civiltà e luogo di incontro fra culture. Si tratta appunto di un viaggio, da Troia a Roma, città simbolo anche per l’Unione Europea sin dai trattati istitutivi del 1957, che ancora oggi solletica fantasie di grandi avventure toccando 21 tappe principali, 6 siti Unesco e 3 Parchi nazionali, oltre a tutte le bellezze ed eccellenze della costa dell’Italia centro meridionale si toccano Puglia, Sicilia, Calabria, Campania e Lazio. In Campania, la Rotta di Enea passa da Palinuro, fino a raggiungere Miseno e quindi Cuma, una delle più caratteristiche antiche città dei Campi Flegrei, per poi proseguire verso Gaeta. Il mito di Palinuro, fedele timoniere di Enea, lega in un connubio indissolubile la Rotta di Enea a uno dei territori più emblematici dei valori del nuovo itinerario culturale: il Cilento. Nello specchio di mare antistante Palinuro, vinto dal sonno, cade in mare. L’episodio è narrato nel Libro V dell’Eneide. Virgilio descrive il punto preciso di quell’evento, temuto da sempre da tutti i marinai: la caduta in mare nella notte. I compagni non si accorgono della caduta, che avviene nei pressi di uno scoglio precisamente identificato da Virgilio, nel tratto di costa tra il golfo di Policastro e l’insenatura di Pisciotta. Siamo in pieno Cilento, davanti al promontorio che proprio al timoniere di Enea deve il suo nome: capo Palinuro. Palinuro rimane per tre giorni in balia del mare. Giunto

sulla spiaggia non trova la salvezza: scambiato per un mostro marino viene ucciso e il suo corpo abbandonato in mare. Palinuro fu così vittima sacrificale di Nettuno, che in cambio del suo aiuto aveva preteso una vittima: “Una sola vittima per la salvezza di molti” (Eneide, V, 815) Quindi Enea arriva a Cuma per interrogare la Sibilla. La profetessa, pervasa dal dio Apollo, può predire il futuro e lo informa delle vicissitudini che dovrà affrontare, gli fa intravedere la futura grandezza di Roma e lo guida nell’Ade. “Il pio Enea raggiunge le vette, a cui presiede/ l’alto Apollo, e vicino i recessi, antro immane, / dell’orrenda Sibilla, alla quale il

vate di Delo /ispira grandi animo e mente e apre il futuro.” (Eneide, VI, 9-12) La Sibilla rivelerà che il corpo di Palinuro non verrà mai ritrovato, ma che le genti che lo hanno ucciso spinte dalla paura, pentite, erigeranno un cenotafio in sua memoria e lo onoreranno con offerte. Le porte dell’oltretomba si spalancano presso il lago d’Averno, dove Enea scende per rivedere il padre Anchise. All’episodio è consacrato l’intero libro VI dell’Eneide e numerosi sono gli accenni ai luoghi sacri della città di Cuma: il tempio di Apollo, il più alto dell’acropoli, costruito da Dedalo, in fuga da Creta, circondato dal bosco sacro ad Artemide; l’antro della Sibilla, le porte dell’Ade.

Enea incontra l’ombra di Palinuro nell’Ade e, durante la discesa agli inferi, lo sfortunato timoniere gli chiederà di essere finalmente sepolto. “Strappami, invitto, a questi mali; o coprimi di terra, perché lo puoi, e cerca il porto di Velia” (Eneide, VI, 365) Il monumento più famoso di Cuma è proprio il cosiddetto antro della Sibilla: un lungo corridoio scavato nella roccia probabilmente già nel IV secolo a.C., e successivamente approfondito in età romana, sul cui percorso si allargano cisterne e che termina con una misteriosa stanza ipogea che fu identificata con il luogo in cui la profetessa dava i suoi responsi, ma che, invece, rappresenta una galleria militare che metteva in rapida e protetta connessione due zone della rocca. L’itinerario rappresenta il 45° dei percorsi certificati dal Consiglio d’Europa (il primo fu il Cammino di Santiago nel 1987), volti a scoprire un patrimonio di testimonianze archeologiche, religiose, artistiche e naturalistiche, ma anche i valori fondamentali promossi dal Consiglio d’Europa come democrazia, diritti umani, scambi interculturali.

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di Luisa Del Prete

Eccellenze castellane al Nord

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importanza di seguire i propri sogni partendo dal basso. Gennaro Fiorentino, medico e primario del reparto di ortopedia dell’Humanitas Gavazzeni di Bergamo, è partito da un paese di provincia come Castel Volturno fino ad arrivare ai più alti livelli di ortopedia internazionale. L’abbiamo intervistato e ci ha raccontato come, con l’impegno, la costanza e la passione tutto sia possibile. Partito da questo territorio e con la voglia di studiare medicina, oggi sei primario di un prestigioso ospedale polispecialistico: com’è stato il percorso? «Non so come concentrare in breve questa domanda, ma ci provo. Mio padre era medico, venne a fare un sopralluogo a Castel Volturno e, innamorato di questa terra, decise di trasferirsi. Ho frequentato a Castel Volturno tutte le scuole fino al liceo, momento in cui mi trasferii a Napoli. All’età di 13 anni sono andato a vivere da solo per frequentare il liceo classico all’Istituto Denza, cercando di mantenere una media sempre alta, altrimenti mio padre mi avrebbe mandato in collegio, che a quei tempi era una cosa molto forte. Dopo il diploma, mi iscrivo alla facoltà di Medicina e conosco un primario che è stato il mio primo e vero maestro di vita ovvero il primario dell’ospedale Loreto Mare di Napoli, Luciano Iannelli. Con lui è nato da subito un grande rapporto non solo professionale, ma anche di vita: ho iniziato ad operare insieme a lui già all’età di 19 anni ed è stato per me un grande momento formativo. Un’altra grande opportunità della mia vita è stata quando ho seguito, da esterno, un corso all’Associazione AO International, la più importante associazione di Traumatologia al mondo. Col passare delle lezioni, ho avuto un incontro con il Prof. Thomas P. Rüedi durante il quale ho potuto spiegargli, grazie ad un modellino che avevo fatto costruire da un falegname di Castel Volturno, che avevo in-

Il dott. Gennaro Fiorentino

L'Istituto Humanitas Gavazzeni di Bergamo

ventato un sistema per mettere i chiodi bloccati senza scopia. Da questi due fortunatissimi incontri ha inizio la mia carriera fino ad arrivare al colloquio all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Dopo aver superato il primo, mi venne detto di farne un secondo nella sede di Rozzano. Alla fine di questo, mi dissero che mi avrebbero fatto sapere e, quando stavo per uscire dalla sede, uno dei medici mi rincorse per dirmi che ero stato assunto. Questa è stata una delle più grandi soddisfazioni della mia vita. Però, tutto è partito da un falegname di Castel Volturno». L’Humanitas Gavazzeni è un centro d’eccellenza, con uno dei migliori reparti di ortopedia. Qual

è stato il tuo apporto all’Humanitas? «Parliamo di una struttura molto importante, nella quale hanno operato i migliori medici al mondo. In ortopedia abbiamo ricevuto degli ottimi risultati e siamo soprattutto un centro di riferimento per la chirurgia all’anca e per la traumatologia. Abbiamo pubblicato molte cose interessanti, tra cui anche la prima pubblicazione al mondo sulle fratture di femore covid. Siamo riconosciuti in Italia, ma bisogna volare basso e continuare a lavorare sodo sempre». Quali tipi di operazioni svolgete particolarmente in reparto? «La chirurgia dell’anca per via anteriore, la chirurgia clinica dell’an-

ca che sono chirurgie “di nicchia” che facciamo ancora in pochi in Italia, però sicuramente c’è anche moltissima traumatologia di alto livello». Per innovazioni tecnologiche sulle operazioni: ci sono investimenti da parte dell’Humanitas? «Assolutamente sì ed è questo uno dei vantaggi delle strutture private. Con questo non s’intende che vengono fatti investimenti “a cuor leggero”, ma se un medico presenta un progetto per il quale serve un determinato macchinario e questo progetto è valido, l’acquisto viene fatto. Questo succede anche nel pubblico, ma è chiaramente più farraginoso e meno diretto». Periodo covid: poco sport, tanta immobilità. Che ripercussioni ha questo sull’ortopedia? Ci sono dei dati? «La ripercussione più allucinante che io ho visto, attribuita al periodo Covid, è una grandissima quantità di gente che affolla il pronto soccorso per le fratture. Tutti si sono riversati per strada con una smania di divertirsi e ha comportato un aumento dei traumi davvero esponenziale. Non solo, ma anche il riprendere a fare sport senza allenamento». Che stile di vita motorio consiglieresti tu che sei un esperto dell’ortopedia e sai anche come funziona la macchina del corpo? «Questo dipende da sport a sport: sta di fatto che l’attività fisica deve essere fatta con cognizione e con una certa preparazione atletica. Non preparazioni esagerate, ma neanche passaggi troppo repentini dalla vita “sedentaria” alla vita “sportiva”». La passione per il tuo lavoro è molto grande, quali sono gli obiettivi futuri? «Ambizioso lo ero molto, adesso non più perché sono soddisfatto di quello che faccio. Ho ancora molta passione per il mio lavoro e cerco di trasmetterla ai miei specializzandi e per me questa è la più grande soddisfazione: dare ai giovani ciò che io ho ricevuto». Agosto 2021

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Intervista al Primario ortopedico dell’Humanitas Gavazzeni G.Fiorentino


di Nicola Iannotta

Al lido Delfini Francesco Zambon svela il volto dell’OMS A Castel Volturno vince la partnership tra Informare e Feltrinelli Editore

Sabato 24 luglio, alle ore 18:30, si è tenuta presso il lido I Delfini di Pinetamare Castel Volturno la presentazione del libro di Francesco Zambon “Il pesce piccolo. Una storia di virus e segreti

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ualcuno una volta mi ha detto «La professionalità è un’attitudine mentale». Questa lezione ho cercato di farla mia, e ho segnato le stesse parole in un’area del cervello che ho intitolato Regole di Vita. La professionalità è un’attitudine mentale significa che per essere dei professionisti bisogna dedicarsi completamente, anima e corpo, al programma che ci si è prefissati di portare avanti; la nostra concentrazione deve essere totalmente occupata: elementi esterni non possono e non devono distrarci fin quando l’operazione avviata, divenuta ormai una priorità, non è portata a termine. La professionalità, poi, non riguarda semplicemente le competenze che ognuno, bene o male, ha acquisito durante il suo percorso di crescita, ma riguarda principalmente il valore, il significato e la fede che si dà a ciò che si fa. Questo mio privato ricordo e questa brevissima riflessione mi sono d’aiuto per parlarvi della storia di un medico, fino a poco fa sconosciuto, ma ora celeberrimo grazie alla professionalità che ha dimostrato in questi ultimi mesi, alla sua dedizione nel portare avanti una lotta che crede necessaria combattere e, grazie anche alla sua etica professionale e umana che gli ha impedito di svendere i propri ideali ed essere attratto nel

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se coordinare alcuni aspetti della gestione pandemica». Nel 2020, con lo scoppio della pandemia da Covid-19, viene chiesto a Zambon di assumere il controllo delle attività OMS a supporto delle regioni italiane in risposta al virus. Zambon accetta l’incarico e si immerge nel lavoro con la solerzia di

marciume del compromesso politico. Sto parlando di Francesco Zambon. Sabato 24 luglio, alle ore 18:30, si è tenuta presso il lido I Delfini di Pinetamare-Castel Volturno la presentazione del libro di Francesco Zambon “Il pesce piccolo. Una storia di virus e segreti”. L’evento è stato organizzato dalla Redazione di Informare in partnership con Feltrinelli Editore. Ad una sala gremita si sono aggiunti gli interventi di Mario Volpe, scrittore ed esperto dei rapporti commerciali con la Cina e Giulio Valesini, giornalista di Report. I testi scelti per la lettura sono stati accompagnati dal vigore della voce di Maria Gabriella Tiné. A moderare il direttore responsabile di Informare, Antonio Casaccio. Nella serata estiva di luglio Zambon presenta il suo libro: l’atmosfera informale della serata, il profumo della salsedine che pervade la zona marittima, l’abbronzatura delle persone armoniosamente perfetta con i colori vivi dell’abbigliamento e con le stoffe leggere, il panorama del sole che si immerge nel mare al tramonto, rendono un senso di quiete, di rilassatezza, che sono un controcanto dello scossone che di lì a poco si sarebbe avvertito al sentire le parole di denuncia dell’autore. Zambon è un ex funzionario

dell’OMS: la sua vicenda è titanica. Porta alla luce l’inadeguatezza di un uomo, ancora spinto da valori puri, in un contesto con parvenze oligarchiche come quello dell’Organizzazione Mondiale della Salute. Il pesce piccolo è consapevole di non avere speranza di sopravvivenza in un mondo di tal genere. Il pesce piccolo sa che prima o poi verrà divorato dal pesce grande. Ma che fare? Aspettare la fine, che inevitabilmente l’attende, senza aver tentato di nuotare controcorrente? Assolutamente no, il pesce piccolo nuoterà diretto alle fauci del pesce grande, consapevole di soccombere, ma forte dell’intenzione di causare almeno un piccolo danno all’avversario colpendolo dall’interno. È questa la denuncia di Zambon, è questa la forza di un libro che vuole scuotere la quiete di un’OMS che si nasconde dietro una maschera di falsità e ipocrisie. L’OMS nasce dalla volontà umana di porre un controllo allo sviluppo e alla diffusione delle malattie infettive «Furono le grandi pandemie di peste e di colera dei secoli scorsi a sensibilizzare qualche lungimirante Ministro della Salute sulla necessità di avere un organismo sovranazionale che potes-

Francesco Zambon

chi crede di poter essere d’aiuto al mondo intero e di chi sente, forte, la responsabilità di trovare qualche risposta sanitaria alla crisi pandemica, in quanto membro dell’Organizzazione Mondiale della Salute. Zambon sa di poter essere utile, ma sa anche che per esserlo deve agire tempestivamente. Il 20 marzo 2020 legge su Financial Times un articolo dello storico Yuval Noah Harari: «Gli esseri umani hanno un grande vantaggio rispetto ai virus. Un coronavirus in Cina e un coronavirus negli Stati Uniti non si possono scambiare consigli su come infettare meglio gli umani. Ma la Cina può insegnare agli Stati Uniti molte lezioni utili sul coronavirus e come fronteggiarlo. Quello che un medico italiano scopre a Milano la mattina può benissimo salvare vite a Teheran la stessa sera». Ne fa il suo credo: «Io partii da questo e dal concetto fondamentale che si doveva cercare di far guadagnare tempo ai paesi che ancora non erano stati colpiti dal virus. Era indispensabile tamponare la situazione, arrestare lo


Da sx Antonio Casaccio, Francesco Zambon Mario Volpe e Giulio Valesini

pandemico risalente nientedimeno che al 2006… Come conferma anche Giulio Valesini, giornalista di Report, il quale per primo ha portato all’evidenza di tutti questa verità grazie alla sua inchiesta: «L’inchiesta nasce dalla segnalazione di Donato Greco, epidemiologo campano, padre dell’ultimo piano pandemico, quello risalente al 2006. Fu lui ad avvertirci che il piano pandemico da quel momento in poi non era stato più aggiornato. Disporre di un adeguato piano è indispensabile in questi casi di emergenza, perché è come un libretto di istruzioni che ti dice cosa fare: pensate che fino al febbraio 2020 le aziende italiane che producevano mascherine vendevano i loro prodotti all’estero, perché in Italia nessuno acquistava quei prodotti, e non lo faceva a causa di un piano pandemico inadeguato. Le mascherine in Italia, durante la prima ondata, erano quasi introvabili, perché non c’erano». Perché non ci si è preoccupati di aggiornarlo? Chi sono stati i responsabili di questa dimenticanza? E perché l’OMS non potrebbe pubblicare un rapporto sulla pandemia che contenga questa verità? Un piano pandemico efficace avrebbe per lo meno evitato diverse difficoltà nella gestione della crisi, forse

qualche vita sarebbe scampata alla morte. Ma l’OMS ha il dovere di documentare la realtà, schedare le notizie rintracciate, così da essere d’aiuto per i paesi che stanno affrontando la pandemia. Il virus deve essere analizzato e sconfitto, è questa la priorità dell’OMS, vero? Probabilmente è quello che ci aspetteremmo tutti, ma nel racconto di Zambon sembra non essere realtà. Il rapporto stilato da Zambon e dal suo team di ricerca, rapporto che avrebbe potuto essere uno strumento, il primo stilato dall’OMS in risposta al Covid, nelle mani dell’umanità intera che si preparava ad affrontare la crisi, ha incontrato difficoltà nella pubblicazione ed è stato poi ritirato. Uno fra i responsabili di quel mancato aggiornamento del piano pandemico fu Ranieri Guerra, il quale, prima di diventare numero due dell’OMS, aveva ricoperto il ruolo di direttore generale dell’ufficio di Prevenzione del Ministero della Salute. Inoltre, il rapporto sembra irritasse i vertici del governo italiano, per alcune questioni di carattere organizzativo, e l’OMS non aveva alcuna intenzione di causare lo sdegno del governo italiano, del Ministero della Salute in particolare. Ma perché l’OMS, organismo so-

vranazionale e indipendente dovrebbe temere le ire di un governo nazionale e indirizzare le proprie scelte e le proprie azioni seguendo gli umori degli altri soggetti? «La forza dell’OMS dovrebbe risiedere nella solidità scientifica, nel potere normativo, nell’autorevolezza, nell’indipendenza, nella trasparenza che ha proprio in virtù del fatto che rappresenta tutti gli stati del mondo» - così scrive Zambon. In questo caso l’interesse coinvolge sia il metodo di elezione dei leader supremi dell’OMS, sia il meccanismo con cui l’OMS è finanziata. Per quanto riguarda il primo punto, bisogna dire che il direttore generale dell’OMS viene eletto direttamente dai 194 stati membri dell’organizzazione. Nei mesi che precedono l’elezione, i candidati animano una vera e propria campagna elettorale, andando a visitare i paesi più influenti per documentarsi sui problemi di salute ma anche, e soprattutto, per ingraziarsi i favori dei leader di governo. Per quanto riguarda il secondo punto, sappiamo che l’OMS è finanziata solo per il 20% dai contributi obbligatori degli stati membri, il resto viene da donazioni volontarie. Dunque, non stupisce che da parte dell’OMS via sia una qualche forma di riconoscenza verso i Paesi più influenti dell’ONU. Il rapporto di Zambon, alla fine, è stato censurato e bandito, l’organizzazione ne ha parlato come di un errore affermando persino di non trattarsi di un suo documento ufficiale. Zambon è stato messo al margine e infine ha dato le sue dimissioni: «Non potevo rimanere in silenzio», ha così dichiarato. Noi, uomini comuni, lo ringraziamo per essere stato una voce fuori dal coro, per non essere aver messo la sua sicurezza economica e personale al di sopra dei suoi ideali. Il suo atteggiamento sia un chiaro esempio di professionalità.

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tsunami che si stava abbattendo sull’Italia, in modo che l’onda potesse essere assorbita e gestita in maniera controllata. Ma soprattutto, in una prospettiva OMS, bisognava far sì che agli altri paesi arrivassero delle informazioni su quello che si stava facendo qui, dove la guerra era già scoppiata». Come coordinatore Zambon si propone di: creare un forum dove tutti i medici italiani in prima linea potessero confrontarsi e passarsi conoscenze; cercare di trasmettere all’estero le conoscenze che l’Italia stava acquisendo in risposta al Covid; documentare in modo sistematico le vicende, così da creare un quadro dal quale estrapolare le informazioni chiave che potessero aiutare gli altri paesi a difendersi. Per essere efficace il documento avrebbe dovuto essere «fattuale, diretto, trasparente, senza buonismi, senza compromessi» capace di mettere in luce le criticità così come i punti di forza. An Unprecedented Challenge. Italy’s First Response to COVID-19, così il team di Zambon decide di intitolare il rapporto. Il lavoro procede spedito, l’urgenza di avere fra le mani qualcosa di concreto logora le forze, ma il team di ricerca, instancabile, riesce a produrre un risultato prestigioso nel giro di brevissimo tempo, in soli 32 giorni. Dopo aver ricontrollato tutti i punti del testo e aver ricevuto tutte le dovute autorizzazioni, si attende solamente la pubblicazione. Ma… qualcosa va storto. Arriva una notifica, da parte di Ranieri Guerra, direttore vicario dell’OMS, il cosiddetto numero due. Ma sembra che il rapporto non può essere reso noto… conterrebbe all’interno notizie che, insomma, potrebbero infastidire qualcuno. Dal rapporto emerge chiaramente che l’Italia ha affrontato la pandemia senza disporre di un piano pandemico aggiornato, un piano


“Stato dell’arte del “Consorzio Pinetamare” costituito nel mese di febbraio 2021 La Redazione

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iceviamo e pubblichiamo il seguente comunicato dal “Consorzio Pinetamare”.

“Nell’estate dell’anno scorso, si è tenuta una riunione tra la Società Pinetamare e tutti gli amministratori dei condomini di Pinetamare, oltre al direttivo dell’Associazione “I love Pinetamare”, per rappresentare volontà di voler costituire un nuovo Consorzio: il “Consorzio Pinetamare”. La partecipazione a questo primo incontro è stata massiccia, a dimostrazione che tutti hanno davvero a cuore le sorti di Pinetamare. Il progetto prevede che tutte le aree comuni di proprietà della Società, quindi private ad uso pubblico e private ad uso privato, siano affidate al Consorzio in comodato d’uso gratuito per erogare i seguenti servizi: •

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Vigilanza (installazione di guardiole ai varchi di accesso a Pinetamare con portierato 24h) Vigilanza Armata (ronda dalle 23:00 alle 7:00) Videosorveglianza (a copertura di tutta Pinetamare monitorata nelle guardiole e con registrazione c/o i Vigili Urbani di Castel Volturno) Manutenzione stradate Manutenzione dei sotto servizi Spazzamento Giardinaggio Promozione del territorio

• • • • • • Tutto quanto sopra descritto, per il primo anno, al fine di dare uno slancio propulsivo al progetto, sarà finanziato con fondi privati della Società, in modo che la collettività possa apprezzare ed usufruire dei servizi per poi, successivamente, prenderli direttamente in gestione. Infatti, dopo il primo anno (periodo in cui la Società interverrà direttamente) la gestione dei servizi, sempre erogati dal Consorzio, sarà affidata al costituendo Super Condominio Pinetamare. La scelta di costituire il Super Condominio nasce dal fatto che si vuole rendere attori principali tutti gli abitanti di Pinetamare. Infatti, tutte le decisioni preventive e la gestione ordinaria e 54

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straordinaria delle parti comuni (date in comodato) del Villaggio Coppola, saranno prese dal Super Condominio. Alcuni lavori sono già iniziati ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ad oggi, il servizio di spazzamento è già attivo e diverse opere di riqualificazione sono già state ultimate, come ad esempio il ripristino dell’asfalto in diverse aree di Pinetamare, divenute nel tempo ormai quasi impercorribili. Come del resto, l’ultimazione dei lavori del Parco urbano e il prossimo inizio dei lavori sul lungomare oltre al rifacimento delle aiuole spartitraffico al centro. Ovviamente siamo soltanto all’inizio e c’è anco-

ra tanto da fare, ma anche grazie alla riqualificazione di numerosi edifici del territorio grazie al D.L. 19 maggio 2020 n. 34, convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge n. 77 del 17 luglio 2020 (cd. “Decreto Rilancio”), con cui è prevista una detrazione pari al 110% (c.d. “Superbonus”), per gli interventi di efficientamento energetico e fotovoltaico nonché di adeguamento e miglioramento sismico. Siamo certi che a breve la vivibilità di questo favoloso luogo migliori nettamente, senza trascurare anche la notevole rivalutazione economica che sarà apportata alle singole unità abitative”. Come correttamente evidenziato nel comunicato “siamo solo all’inizio”, ma la notizia è sicuramente positiva e probabilmente si stanno ponendo le basi per il prossimo recupero e rilancio di Marina di Pinetamare che costituisce un’ampia area dell’intero territorio di Castel Volturno, con la speranza che ulteriori iniziative siano intraprese anche in altre parti del territorio che paga, tra le altre cose, una distribuzione estremamente distanziata delle diverse frazioni.


con il tam tam siamo in "buone mani"!

di Clara Gesmundo

to fondamentale per far emergere storie virtuose, positive e di riscatto. È molto emozionante, ma soprattutto significativo che abbia vinto un’esperienza che è costruita sullo sport». Ha preso parte alla premiazio-

ne GianPietro Losapio, direttore consorzio Nova che rappresenta un partner del progetto, quest’ultimo si è occupato del sistema di comunicazione del contest, e afferma: «Abbiamo fortemente voluto che fossero i territori, le esperienze a comunicare se stesse. Raccontare storie, in particolare quelle significative e dense di umanità come quella che oggi viene premiata, sia il miglior modo per trasmettere messaggi positivi». Durante i festeggiamenti abbiamo avuto l’occasione di ascoltare le parole di Wisdon, un atleta di soli sedici anni appartenente al Tam Tam: «Faccio parte della squadra da 3 anni, sono fiero di far parte di questa famiglia. Avevo otto anni, mi ricordo che io e mio padre guardavamo le partite di Basket in tv, a nove anni il primo canestro

di plastica e a tredici anni l’opportunità di poter giocare. Personalmente il periodo di fermo l’ho vissuto tragicamente, non volevo tornare in campo, ero ingrassato e poco invogliato. Devo tutto ai miei coach, che non hanno mai spesso di motivarci e di tirarci per le orecchie quando era necessario. Credo che ringrazierò Tam Tam per sempre». Negli occhi di Wisdon la gratitudine nei confronti di una realtà che è capace quotidianamente di riportare sulla strada giusta ragazzi che spesso si caricano sulle spalle il peso di storie difficili. Ancora una volta, grazie Tam Tam Basket e soprattutto al coach Antonelli che chiude la premiazione affermando: «Il prossimo miglior giocatore di basket di origine nigeriana sarà del territorio di Castel Volturno!».

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ercoledì 21 Luglio 2021 alle ore 12.00 si è svolta la premiazione della società Tam Tam Basket, in merito al contest “Oltre il ghetto. Storie di libertà” al quale la squadra ha partecipato. Su.Pr.Eme Italia che si occupa “del superamento delle emergenze in ambito di grave sfruttamento e di gravi marginalità degli stranieri regolarmente presenti nelle 5 regioni meno sviluppate, quali: Napoli, Calabria, Puglia, Basilicata e Sicilia”, ha avviato l’iniziativa. I ragazzi del Tam Tam hanno proposto il video-reportage “In Buone Mani”, vincendo il premio web e un assegno di 3.000 euro ottenuto grazie ad una votazione online, a seguito della quale la squadra si è classificata prima. Queste le parole di Tatiana Esposito, DG Immigrazione e Politiche di integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: «Questo contest narrativo, è sta-


di Clara Gesmundo

Ottant’anni di attività e non sentirli! Con amore e luce negli occhi Raffaele Corso ci racconta la storia del suo ristorante “I 4 Fratelli”

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un lungo cammino quello di questa “locanda”, come viene definita da Raffaele Corso con affetto, che inizia addirittura prima della Seconda guerra mondiale, quando a suo nonno furono affidati dei terreni da coltivare nel territorio di “Ponte a Mare”. «Mia nonna era un’ottima cuoca – ci spiega il ristoratore- e tutto ha avuto inizio quando i cacciatori della zona portavano i loro prodotti e le chiedevano di cucinarli, da qui ha preso forma la nostra locanda, che poi si è trasformata ad oggi in un vero e proprio ristorante-pizzeria». Come nasce il nome “4 Fratelli”? «Il nome fu dato dai clienti, perché all’inizio erano realmente quattro fratelli a gestire la locanda. Iniziammo anche ad organizzare eventi, piatti semplici e buona cucina attiravano la clientela. Quando fu costruito il Villaggio Coppola in estate nel nostro territorio arrivavano persone da Napoli, questo ha permesso al nome del nostro ristorante di crescere ed essere conosciuto anche in altre zone partenopee». Raffaele ci racconta la sua passione per la cucina che nasce già da bambino. Ci spiega i sacrifici che comporta gestire un locale, le festività per lui e la moglie, con cui condivide la gestione dell’attività, sono ormai divenute un’utopia, considerando che un ristoratore deve lavorare anche e soprattutto quando gli altri sono in vacanza. «Mia mamma – continua Raffaeleera la moglie di uno dei “quattro

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fratelli”, e inizialmente lavorava con la cucina a legna, quest’ultima si accendeva alle cinque del mattino e si spegneva a mezzanotte, nessuno si fermava un attimo, ci si fermava solamente per andare a dormire. Dopo il terremoto in Campania, e in particolare dall’ ’86 vi è stato un periodo di degrado, non solo per il nostro settore ma in generale del nostro territorio». Come avete gestito la situazione Covid 19? «C’è stato un fermo che definirei sofferente sotto tutti i punti di vista, fortunatamente però riaprendo con l’asporto siamo riusciti a tirare avanti, non tanto grazie alla cucina poiché non è frequente ordinare un piatto caldo da asporto, ma la pizza è stata richiestissima».

Qual è il fiore all’occhiello del tuo ristorante? «Poiché lungo questo tratto di domitiana sono tanti coloro che hanno deciso di investire nella ristorazione, bisogna in qualche modo distinguersi: in primis ci tengo a specificare che mi occupo personalmente di ottenere e ricercare una buona materia prima, che possa fare la differenza. In particolare mi sono concentrato sulle cosidette “pizze speciali”, ed è così che è nata la pizza “Nonna Stella”». Come nasce la pizza “Nonna Stella”? «Mia nonna si chiamava così. Cercavo di proporre un antipasto diverso, innovativo ed è per questo che utilizzando l’idea di

mia nonna di proporre un mix di verdure come entrée, ho aggiunto la mia idea di servirlo su una focaccia calda a forma di stella. Poi si è trasformata in una vera e propria pizza in cui ad ogni angolo sono racchiusi prodotti tipici del territorio. Il copyright e l’idea di brevettarla l’hanno resa la nostra pizza, quella “dei 4 fratelli”». “Nonna Stella” ha portato clientela non sono dal napoletano, ma anche da località casertane che ad oggi raggiungono Raffaele non sono per la pizzeria ma anche per la ristorazione. I “4 Fratelli” ha avuto non solo la possibilità nel 2014 di ospitare eccellenze della Repubblica, ma il ristorante è stato anche premiato per la longevità della sua storia. Essendo la struttura situata in una zona balneare, Raffaele ha ben deciso di proporre un antipasto originale da affiancare ad una cena a base di prodotti di mare: il Pignatiello Domizio. Un vero e proprio cestino di pizza con all’interno il pescato del giorno. A questi due punti di forza è stata dedicata anche una pagina Facebook di cui l’imprenditore è molto fiero. In merito al futuro del suo ristorante, Raffaele spera in una possibile ripresa di questo settore, ma soprattutto auspica in una maggiore considerazione da parte delle istituzioni per tutelare maggiormente l’ambito “ristorazione”. E chissà se un giorno non possa realizzare la sua idea di creare un corso per futuri pizzaioli. Torneremo a trovare Raffaele per sapere le novità.


di Clara Gesmundo

IL NUMERO 5 CI PORTA IN CAMPO!

calpestare di nuovo quel parquet che tanto mi mancava». Quanto ha contato l’unione della squadra per la ripresa dopo il periodo di fermo? «Fortunatamente siamo un gruppo solido e compatto, che nonostante le mille difficoltà (causa covid) è restato unito, grazie soprattutto all’aiuto della società, che ci ha permesso di allenarci in piena sicurezza, rispettando a pieno le rigide normative dovute al corona virus e i vari tamponi che effettuavamo per garantirci massima sicurezza». «Abbiamo lottato, conquistato tutto con le nostre forze, con le nostre potenzialità» - continua il calcettista azzurro - «Ci siamo tolti parecchi sassolini dalle scarpe e, un grazie va soprattutto a mister Bernardo a cui devo veramente tanto, è stata una persona formidabile

per il nostro cammino ma soprattutto, per il nostro miglioramento calcistico. Sono contento che il Presidente Lauritano abbia affidato di nuovo la panchina a lui per l’anno che andremo ad affrontare, in modo tale da continuare a crescere sotto le sue orme». Quanto senti l’appartenenza a questa maglia? «Questa maglia è casa mia, è la mia seconda pelle, quando entro in campo sento l’obbligo di dover dare il massimo prima per la maglia che indosso, poi per me stesso. È un emozione inspiegabile rappresentare il nome Domitia su campi nazionali, io che tra l’altro sono del territorio casertano. Chi viene a Castel Volturno con la possibilità di indossare la maglia di questa squadra, dovrebbe andarne fiero e soprattutto onorarla e sudarla in ogni momento, perfino in allenamento».

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a Junior Domitia questa volta ci parla attraverso gli occhi e il cuore di un calcettista appartenente alla squadra. È emozionante ascoltare le parole del numero 5, Antonio Lanciato. Quando sei entrato a far parte della Junior Domitia? «Sono entrato a far parte del mondo Domitia circa 4 anni fa, quando decisi di lasciare il calcio e intraprendere il fustal, non potevo non percorrere i miei primi passi in questo sport se non a casa mia. Sono un centrale difensivo, duttile anche come laterale in casi di emergenza, ma preferisco principalmente giocare come centrale, mi piace andare a contrastare e ad essere al centro del gioco». Come hai affrontato il periodo di fermo dovuto al Covid? «Il periodo covid è stato atroce, sia per il fustal, che per il calcio: un anno davvero particolare, triste e buio. Personalmente posso garantire che avere il covid è stato brutto, soprattutto all’inizio, ansia, paura, tristezza sono le sensazioni che mi sono state più vicine i primi giorni, poi ho capito che non bisogna abbattersi mai nonostante le difficoltà. Dopo 15 giorni finalmente sono tornato alla vita “normale” e a


A Punta Campanella un sistema di ormeggio con boe intelligenti di Angelo Morlando

Un sistema sicuro, utile, pratico e sostenibile

È

SPECIALE CASTEL VOLTURNO

stato diffuso un comunicato stampa dall’Area Marina Protetta di Punta Campanella inerente la riapertura di un campo boe/ormeggio ecosostenibile, di cui riportiamo una sintesi: “…sarà possibile ormeggiare in località Le Mortelle, luogo incantato nella Baia di Marina del Cantone a Massa Lubrense e zona B del Parco. Trentacinque boe fissate con ancore del tipo Manta-Ray consentiranno alle barche, fino a 24 metri, di sostare in un’area altrimenti vietata, senza utilizzare le ancore e senza causare danni alle praterie di Posidonia. Le boe utilizzate sfruttano una tecnologia inventata dalla Marina Militare degli Stati Uniti. E sono il sistema che garantisce il minore impatto possibile. L’ancora, infatti, penetra e viene collocata al di sotto del fondale. È invisibile e a scomparsa, garantendo sicurezza dell’ormeggio ed eco sostenibilità”. Abbiamo approfondito il sistema di boe fissate con un sistema di ancoraggio tipo “Manta Ray Anchors”, grazie a Stefano De Giovanni (CEO della Sub Sea Servicess S.N.C.), di cui riportiamo una sintesi tencia della loro brochure: “L’ancoraggio Manta Ray Anchors nasce per sostituire il tradizionale sistema con blocchi di calcestruzzo, notoriamente considerato poco sostenibile per l’ambiente, ed anche piuttosto costoso. Questa nuova metodologia, invece, sfrutta particolari attrezzature idrauliche che, una volta terminata la posa, bloccano la struttura in modo permanente, adat-

tandosi efficacemente al tipo di fondale, senza provocare danni all’ecosistema. I sistemi Manta Ray Anchors si adattano ai più svariati utilizzi: esistono, infatti, tantissimi tipi di ancoraggi in profondità, a seconda delle peculiarità̀ del fondale e della struttura da fissare. Questa nuova tecnologia può essere impiegata per bloccare reti di protezione, boe di ormeggio o di segnalazione, pontili galleggianti, pipelines e scogliere artificiali, sia in prossimità della costa, che in mare aperto. Grazie alla comprovata esperienza sul campo, lo staff della società è in grado di valutare ogni aspetto e di suggerire l’intervento più adeguato in base alle esigenze specifiche”.

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di Antonio Casaccio

Il Capitano Massimiliano Riccio approda ad Ischia

La città di Castel Volturno mi ha dato tanto. Sapevo che il mio ruolo era in realtà una missione per contribuire al miglioramento di questo territorio

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opo lungo servizio alla Capitaneria di Porto di Castel Volturno, il Comandante Massimiliano Riccio approda alla guida del Porto di Forio d’Ischia. L’isola partenopea e Castel Volturno sono due comuni agli antipodi e le mansioni per il Comandante Riccio sono di certo cambiate, senza però l’animo di dover lavorare per il bene del territorio in cui si presta servizio. Quale miglior occasione, quindi, per fare gli auguri al Comandante Riccio, parlando del suo nuovo incarico e delle attività svolte sul litorale domitio. Che ricordo ha del lavoro svolto a Castel Volturno? «La città di Castel Volturno mi ha dato tanto. Sapevo che il mio ruolo era in realtà una missione per contribuire al miglioramento di questo territorio. Castel Volturno, che se ne dica, è una bellissima città con un litorale importante comprendente circa 120 lidi balneari. Purtroppo questo territorio è stato vessato da anni di continuo inquinamento proveniente dall’entroterra, oltre che da altri fattori come

Massimiliano Riccio

gli sversamenti illeciti di rifiuti. Abbiamo svolto un’attività complessa sul territorio per il ripristino della legalità, questo sempre in sinergia con le altre forze di polizia, il coordinamento della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e il sostegno del Comandante del Circondario di Pozzuoli. Ricordo proprio l’ultimo sequestro al depuratore di Vitulazio, dove abbiamo scoperto che ben quattro comuni bypassavano il depuratore per scaricare direttamente nel canale Agnena». Quali mansioni svolge come Comandante del Porto di Forio?

«È un lavoro completamente differente da quello che ho svolto a Castel Volturno. Qui c’è un porto in cui transitano almeno 80mila passeggeri l’anno, abbiamo tanti accosti di aliscafi e imbarcazioni. Il porto ospita circa 400 imbarcazioni da diporto nella Marina del Raggio Verde, grazie ad una concessione avuta con l’apporto del comune di Forio. Il lavoro che svolgo è maggiormente di assistenza ai turisti di ogni parte del Mondo che vengono a visitare l’isola. Un altro compito che ci tiene impegnati è il traffico marittimo e il controllo ambientale, anche qui ci sono piccoli illeciti ovviamente non paragonabili ai fenomeni di inquinamento del litorale domitio». Insomma, ha trovato una buona organizzazione sull’isola? «Il Comune è molto organizzato e il turista è ben accolto dai tanti servizi a sua disposizione, oltre che da strutture ricettiva di grande prestigio. Ovviamente una storia differente rispetto a Castel Volturno, quest’ultimo occupa un’area molto più estesa e deve affrontare vecchi problemi, come la presenza sul territorio di circa 20mila immigrati irregolari». Ha parlato con il nuovo Comandante della Capitaneria di Porto di Castel Volturno Michele Pellegrino? «Certo, sta continuando sulla scia del lavoro svolto e lo sta facendo grazie all’apporto di valide forze a disposizione. Sono fiducioso perché significa che c’è l’impegno affinché si continui a lavorare per il bene di Castel Volturno». Quale consiglio gli darebbe? «Il Capitano Michele Pellegrino ha alle spalle oltre trent’anni di onorato servizio e non ha bisogno di consigli. Posso dirgli che sul territorio è importante non mollare mai e di ascoltare le segnalazioni dei cittadini, queste sono due armi che fanno la differenza soprattutto per la salvaguardia ambientale».

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Il saluto alla città dell’ex Comandante della Capitaneria di Porto


generazione 56k

di Giovanni Iodice

I giovanissimi attori campani raccontano l’esperienza sul set

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SPECIALE CASTEL VOLTURNO

giovani attori Alfredo Cerrone e Gennaro Filippone (entrambi scoperti dall’Agenzia PM5 Talent di Peppe Mastrocinque) sono tra i protagonisti di Generazione 56K, la nuova serie italiana Netflix - prodotta da Cattleya, parte di ITV Studios, e realizzata in collaborazione con The Jackal, gruppo Ciaopeople - disponibile su Netflix in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo. Diretta da Francesco Ebbasta (che firma i primi 4 episodi) e Alessio Maria Federici (i restanti 4), Generazione 56K è una serie di genere comedy, ambientata tra Napoli e Procida e basata su un’idea originale di Francesco Ebbasta e da lui scritta insieme a Costanza Durante, Laura Grimaldi e Davide Orsini, che ne è anche head writer. Alfredo Cerrone e Gennaro Filippone, entrambi studenti dell’Università del Cinema di Napoli, si ritroveranno coinvolti in 8 episodi raccontati attraverso un continuo ponte temporale tra gli anni Novanta e i giorni nostri, in un costante flashback tra l’infanzia dei protagonisti e la loro vita oggi. Anni di grandi cambiamenti in cui le relazioni umane, l’amicizia e l’amore rimangono le uniche vere costanti. Alfredo Cerrone, 14 anni, vive a Castel Volturno (CE). Originario di Napoli, nella serie interpreta la versione da bambino di Daniel Mottola (Angelo Spagnoletti nella sua versione adulta). Daniel Mottola è un bambino con due grandi passioni: i videogiochi e Ines, la sua vicina di casa.

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Daniel, un ragazzino timido e imbranato quando si tratta di sentimenti, è intraprendente e spigliato con gli amici, Sandro e Lu, e coraggioso con i nemici. «Interpretare il ruolo di Daniel Mottola da bambino è stata un’esperienza fantastica, sia perché questa serie ha segnato il mio esordio come attore, sia perché mi sono divertito tantissimo – afferma Alfredo - ho fatto nuove amicizie, trascorrendo due mesi indimenticabili. Mi sono ritrovato molto in questo personaggio,

poiché è molto simile a me sotto diversi aspetti. Recitare è sempre stata una mia grande passione ed oggi posso dire che il sogno si è avverato. Quando mi hanno scelto per interpretare Daniel ho provato una grande gioia. Avevo studiato il copione per diverse settimane, perché avevo veramente tanta paura, poi una volta sul set, conoscendo l’intero cast, mi sono tranquillizzato superando l’ansia». Gennaro Filippone (12 anni, di Pozzuoli) è la versione da bambi-

no di Lu (Gianluca Fru nella loro versione adulta). Lu è un bambino buono e leale, che condivide con i suoi amici la passione per i videogiochi. È sempre preoccupato per qualsiasi iniziativa partorita dalle menti molto più fervide e coraggiose di Daniel e Sandro, che lo apostrofano spesso con “Stai zitto Lu!”, anche per via delle sue terribili gaffe. «Interpretare questo personaggio è stato molto divertente. Luca è un bambino diverso da me, poiché è timido, ha problemi a relazionarsi con gli amici e non vuole fare determinate cose per paura di sbagliare e di essere bullizzato. Quindi è stato molto stimolante per me interpretare questo personaggio diverso da me. Prima di questa serie ho lavorato come attore non protagonista nei film “Pinocchio” di Matteo Garrone e “I Fratelli De Filippo” di Sergio Rubini. Ma con “Generazione 56k” ho vissuto un’esperienza diversa, più completa ed emozionante. La mia passione per la recitazione è nata quando ero molto piccolo. Giocando a calcio, quello che faccio tuttora, i miei compagni di squadra mi chiamavano Mario Merola, per la mia dote di prendere falli inesistenti, quindi mi dicevano sempre che ero molto bravo a recitare. A furia di ripetermi che ero un bravo attore, ho voluto mettermi in gioco ed ho iniziato a studiare presso l’Università del Cinema di Acerra e spero di crescere e fare altre nuove esperienze come attore» - ha dichiarato il giovane attore Gennaro Filippone.


La Lega Pro Animale e il valore della sterilizzazione di Iolanda Caserta

La D.ssa Dorothea Frizz spiega il suo impegno contro l’abbandono

«Se trovi un cane in strada bisogna portarlo al servizio veterinario per cercare il suo microchip, in questo caso viene automaticamente fatto il collegamento con il proprietario. In caso contrario, bisogna trovare un centro che accolga gli animali; esistono molti rifugi e centri animalisti sulla zona con cui anche noi collaboriamo. È importante sottolineare che se decidi di aiutare un trovatello, accetti tutte le responsabilità che derivano da questo tuo gesto. A Castel Volturno ci sono ancora i cani randagi, ma fortunatamente la maggior parte sono sterilizzati. Ci tenevo a parlare del nostro progetto “Adozione Strada”, con il quale aiutiamo chiunque trovi un cane o un gatto in strada e voglia adottarlo. Per loro, offriamo la sterilizzazione, l’identificazione con microchip e la registrazione a titolo gratuito». Andare in vacanza non vuol dire abbandonare un animale: quali sono le alternative che lo

salvaguardano? «Avere un cane è un impegno e personalmente lo porterei sempre in vacanza con me. Il cane vive perennemente in casa, sempre intorno alle persone e portarlo in una pensione anche solo una settimana lo fa soffrire. Ci sono possibilità migliori di una pensione, come i dog-sitter, indispensabili soprattutto per i gatti: loro infatti sono molto più legati all’ambiente domestico che alla persona». Quanto è importante la sterilizzazione? «Molti pensano che la castrazione vada di pari passo con un cambiamento caratteriale. In realtà, non c’è nessun cambiamento nell’animale tra il prima e il dopo la sterilizzazione. Un discorso simile può essere fatto anche sulla questione dell’ingrassamento: essa dipende molto anche dall’attenzione del proprietario. Un cane può ingrassare in qualsiasi circostanza, soprattutto se fa poco movimento. È importante informare su questo e io lo faccio da anni, anche con i bambini. Con loro mettevamo in atto un vero e proprio dibattito, sul perché i cani vengono investiti in strada e cosa possiamo fare per evitarlo. Ho iniziato a vedere delle risposte a questo mio lavoro quasi subito. Un cambiamento l’ho notato anche nella reperibilità dei prodotti per gli animali. Oggi anche negozi che non vendono questo tipo di oggettistica hanno un reparto a loro dedito. In quarant’anni c’è stato un cambiamento di mentalità veloce. Sicuramente c’è ancora da fare, il lato positivo è che quest’educazione ha trovato una propria strada».

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hi possiede un cane o un gatto sa bene quant’è difficile separarsene, anche per brevi periodi di tempo. Tuttavia, non tutti la vedono in questo modo e alla prima occasione buona decidono di sbarazzarsene. Ci sono molte persone che non sanno come prendersi cura nel modo corretto del proprio animale domestico, informare su questo tema è diventato ormai primario. Sul territorio del nostro litorale è presente la Lega Pro Animale, una fondazione no profit creata dalla dott.ssa Dorothea Friz, veterinaria tedesca che da anni si è stabilita a Castel Volturno. La sua passione nel voler aiutare gli animali l’ha portata a dedicarsi alla sovrappopolazione di cani e gatti non desiderati, e ancora oggi combatte per quest’obbiettivo. Siamo andati al suo centro e abbiamo avuto l’opportunità di farle qualche domanda in merito al suo lavoro. Di cosa si occupa il vostro centro? «Siamo un centro di sterilizzazione, il nostro scopo istituzionale è il controllo delle nascite. La nostra storia inizia nell’83 quando sono arrivata a Napoli e sono rimasta sconvolta dalla quantità di cani in strada: in Germania non se ne vedono. Ho iniziato a capirne di più, a chiedere informazioni e ho capito che si dovesse fare qualcosa per cambiare questa realtà. I cani e i gatti hanno bisogno di un padrone, non di un rifugio o della strada. Il controllo delle nascite ha sicuramente limitato la presenza di animali abbandonati, ma tuttavia non l’ha risolta del tutto. Nel corso degli anni ho scoperto che il randagismo è legato ad un problema sociale se non culturale. Così ho creato anche la Fondazione Mondo Animale per lavorare di più con l’informazione, la didattica e le autorità». Il problema dell’abbandono degli animali è sempre presente. Cosa possiamo fare per cercare di limitare questo evento?


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