Handle With Care

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UNIVERSITÀ IUAV DI VENEZIA FACOLTÀ DI DESIGN E ARTI CORSO DI LAUREA IN ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO

HANDLE WITH CARE IL COMPLESSO RAPPORTO FRA CRITICA, ARTE, POLITICA ELABORATO FINALE DI

PAOLINI FRANCESCO MARIA MATRICOLA N. 264614

RELATORE

AGNES KOHLMEYER

ANNO ACCADEMICO 2008 - 2009 SESSIONE INVERNALE



ELABORATO FINALE CORSO DI LAUREA IN ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO

HANDLE WITH CARE. IL COMPLESSO RAPPORTO FRA CRITICA, ARTE, POLITICA

LAUREANDO: PAOLINI FRANCESCO MARIA MATRICOLA: N. 264614 ANNO ACCADEMICO: 2008 - 2009

RELATORE: AGNES KOHLMEYER

SESSIONE INVERNALE



A Maria



INDICE

p. 7

0.

INTRODUZIONE

p. 13

1.

IL PENSIERO POLITICO

p. 14

1.1

L’Avanguardia

p. 26

1.2

La Neo-avanguardia

p. 33

1.3

La Post-modernità

p. 47

2.

IL PENSIERO CRITICO

p. 55

3.

IL PENSIERO CREATIVO

p. 61

4.

HANDLE WITH CARE

p. 75

4.1

p. 81

5.

Il progetto

CONCLUSIONI

p. 85

BIBLIOGRAFIA

p. 91

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

p. 93

APPENDICI

p. 101

ABSTRACT

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0 INTRODUZIONE

Viviamo in un’epoca complessa e complicata. Sperimentiamo quotidianamente il disagio di conciliare i diversi piani, tempi e luoghi in cui si articola la nostra esistenza; ci affanniamo a fronteggiare i rigurgiti di orgoglio della nostra coscienza, ripetutamente messa in secondo piano rispetto alle necessità della vita, e constatiamo la generale incapacità di sentirci e volerci indignati a fronte dei tanti soprusi che la politica e gli affari (non l’economia, disciplina necessaria, ma il capitale nella sua interpretazione più distorta) commettono ai danni delle persone e dei loro diritti. Credo che la cifra stilistica di questa epoca possa essere senza dubbio individuata nella latenza delle passioni, di quei sani moti dell’animo che da sempre accompagnano la nostra esistenza e che ci forniscono la possibilità di cambiare il corso degli eventi, a volte drammaticamente, altre volte felicemente: di quel collante che da sempre contribuisce ad unire singole individualità per farle diventare entità collettive, movimenti politici, comunità culturali. Se le passioni vengono meno, il vuoto che lasciano viene colmato dalle emozioni e la loro congenita, strutturale incapacità di avere a che fare con la riflessione, ben si addice alla contemporaneità, in cui consapevolezza e coscienza dell’agire vengono sopraffatte da omologazione e standardizzazione dei sentimenti, in cui ogni specificità viene ricondotta entro i confini di peculiarità condivise, ciascuna uguale a ciascun’altra.

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Coscienza e conoscenza ci vengono vendute come merce velocemente deperibile, perciò da consumare in tutta fretta, come qualsiasi altro oggetto di consumo. Questo è il punto: siamo talmente abituati a sottostare alle leggi del consumo che l’esercizio della nostra capacità di critica viene vissuto come attività turbativa del sistema pazientemente costruito nel corso degli ultimi decenni. Il sistema dell’arte non sfugge a tutto questo, anzi rappresenta per certi versi la cartina di tornasole delle contraddizioni profonde in cui si dibattono la nostra società e la nostra cultura. Da molto tempo prigioniera della propria autoreferenzialità, l’arte sembra aver perso la sua funzione educativa, non solo al bello (categoria attorno alla quale tanto si è dibattuto per tutto il secolo scorso, senza per altro trovare una soluzione ultimativa, o in grado di mettere tutti d’accordo), ma soprattutto alla vita, qui intesa nella sua accezione più larga e ideale. La vita fatta di passioni, appunto. Detto questo, entriamo nel vivo del discorso. Handle With Care, il lavoro che è alla base di questo mio elaborato finale, nasce con l’intento di dare voce alla convinzione che si possa e si debba prender posizione di fronte ad un generale senso di smarrimento causato dall’attuale stato delle cose, tanto in ambito sociale, quanto in quello artistico. Considero prioritario che si torni a discutere di questioni capitali per la nostra esistenza, che si riaffermi la necessità di riconquistare la normale familiarità con la critica, così importante e necessaria per l’esercizio delle passioni. Handle With Care prende corpo all’interno del Laboratorio Finale di Arte, tenuto dalla professoressa Agnes Kohlmeyer nell’anno accademico 20082009, presso la Facoltà di Design e Arti dello IUAV di Venezia. Scopo principale del laboratorio era quello di stimolare la nostra riflessione sulla definizione di spazio espositivo, allargandone i confini ed anzi spingendosi

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oltre, sino ad individuare altri spazi che potessero divenire ospitali per il fare artistico, ovvero lo spazio come dato oggettivo (la ricerca di un luogo fisico in cui collocare le opere), ma anche come occasione di ricerca (la scoperta di una dimensione non necessariamente fisica in cui far vivere le opere). Secondariamente, durante il lavoro di ricerca, la nostra attenzione doveva rivolgersi anche al contesto in cui ci trovavamo: la città di Venezia, colta per di più in un momento particolare, dato l’imminente inizio della 53^ Biennale d’Arte Contemporanea (circostanza questa che complicava di sicuro la possibilità di usare la città, ma nello stesso tempo ne accresceva i possibili usi). Sin dall’inizio ho avuto la netta percezione che la volontà non manifesta, ma facilmente intuibile, dell’intera operazione fosse quella di darci l’opportunità di mettere a frutto non solo e non tanto l’italica maestria nell’arte di arrangiarsi, quanto piuttosto di utilizzare le riflessioni sviluppate e gli studi compiuti durante l’intero corso di laurea, allo scopo di affrontare le questioni dell’arte a tutto tondo: facendo arte (dovevamo pur produrre un artefatto di qualche tipo) ma anche, e soprattutto, ragionando intorno all’arte. Da qualsivoglia prospettiva si intenda indagare il sistema dell’arte, appare chiaro come tutto ruoti, per così dire, attorno a tre questioni principali: 1. la permeabilità tra il sistema dell’arte e la società tutta 2. lo stato e la funzione della critica 3. la figura e il ruolo dell’autore/artista Ciascuna di queste voci ha strettamente a che fare con tre categorie di pensiero imprescindibili per chiunque voglia fare arte. Mi riferisco, in primo luogo, al pensiero politico ovvero alla dimensione sociale dell’arte, allo stretto rapporto che le opere hanno, ed hanno sempre intessuto, con la realtà del loro tempo: oggetti sociali esse stesse, le opere costituiscono un ricettacolo della memoria, sia personale, sia collettiva, oltre che essere espressione diretta della soggettività dell’artista.

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In secondo luogo mi riferisco al pensiero critico, che costituisce la solida base dell’agire artistico, alimenta la riflessione e fornisce gli strumenti per la formazione del giudizio. L’apparente esilio della critica dalla scena italiana ed internazionale complica le possibilità interpretative della produzione artistica, per altro già di per sé orfana di quei punti di riferimento omogenei e condivisi che nella seconda metà del Novecento avevano costituito degli ambiti comuni tra artisti, critici e mercato, ed erano stati in grado di attivare un proficuo interscambio tra questa comunità ed il mondo. Infine prendo in esame il pensiero creativo, che l’arte è in grado di stimolare in noi, aprendo il nostro sguardo sul mondo e sulle cose, spingendoci a guardare a ciò che ci circonda con stupore, fosse anche solo quello della mente che si compiace di sé stessa per le sue capacità; mi riferisco cioè a quel modo di essere che ci permette di pensare e riflettere sulle cose della vita, esercitando nel contempo la nostra creatività, a quell’andare e venire tra pensiero, forma e contenuto, dell’insieme delle cose vissute ed delle altre che ancora abbiamo da vivere. Handle With Care condensa tutte queste riflessioni, e ci aggiunge quel po’ di estetica che non guasta mai...

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1 IL PENSIERO POLITICO

Da sempre la pratica artistica ha avuto uno stretto rapporto con la storia dell’uomo e con il suo ruolo all’interno di una pluralità più vasta, fatta di altri individui, gruppi, istituzioni, tradizioni, differenze, conflitti; in taluni casi ha saputo essere testimone dei cambiamenti in atto nelle singole culture, in altri ha operato quasi come presagio. Ritroviamo tutto ciò nelle impronte delle mani delle pitture rupestri preistoriche, prime testimonianze di una identità, segni rituali e magici, probabilmente a fronte di un indecifrato senso di smarrimento e solitudine di fronte alla misteriosa vastità del del mondo; nelle rappresentazioni del Sacro, come testimonianza dei profondi cambiamenti in atto all’interno del mondo cristiano, che propongono distinte visioni dell’uomo, in rapporto al Divino. Analoga funzione individuiamo nei fasti del potere rinascimentale, come prova del dominio anche economico che dapprima i signori, poi l’aristocrazia, esercitarono con fierezza fino a tutto il XVIII secolo; per arrivare al periodo post-rivoluzionario, nel XIX secolo, in cui il panorama delle rappresentazioni vede la comparsa di elementi che non hanno a che fare essenzialmente con il Sacro ed il Potere, ma con la nascente borghesia, fatta non più di condottieri, re o papi, ma di mercanti, artigiani e uomini d’affari. Potremmo sostenere, anche se abbastanza semplicisticamente, che per gran parte della storia dell’umanità, Arte e Storia hanno proceduto per così dire

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appaiate, l’una era più o meno la testimonianza dell’altra o quanto meno ne rappresentava la giustificazione. Indubbiamente è con la modernità che le cose si complicano, il rapporto tra pratica artistica e storia dell’uomo non è più così lineare (esprimo qualcosa che viene da me, ma che si fonda sul rapporto che io ho con il mondo), entrano in gioco altri fattori che scombinano in profondità quello che fino ad allora sembrava essere un rapporto consolidato. Con l’avvento della società industriale, ed il successivo inasprimento delle relazioni sociali tra gli individui, si produce un solco che per molto tempo rimane incolmabile e genera profonde contrapposizioni, non solo dal punto di vista politico e sociale (la trasformazione del capitalismo preindustriale in capitalismo moderno da una parte, e l’avvento delle teorie marxiste ed i tentativi della loro traduzione pratica dall’altra), ma anche dal lato della storia e della teoria dell’arte. Tutta la società del Novecento ne rimane condizionata, nel bene e nel male, senza apparente soluzione di continuità, quasi fino all’affacciarsi del XXI secolo, con alterne vicende ed esiti non proprio scontati. Un nuovo soggetto sociale diventa centrale in quanto, che lo si chiami proletariato, società di massa, società dei consumi o società dello spettacolo, sarà l’intera rete dei rapporti tra individuo e società che ad esser presa come riferimento dagli artisti. 1.1 - L’Avanguardia Agli inizi del XX secolo il mondo stava cambiando profondamente, e l’eterno conflitto tra vecchio e nuovo, complici il progresso scientifico e la stupidità dell’uomo, si sarebbe presto trasformato nel primo conflitto mondiale. La società non era minimamente paragonabile a quella di appena venti anni prima, un fermento sotterraneo dilagava come un rizoma in tutte le nazioni europee, emergendo con forza in Francia, in Svizzera, in Germania, in Italia, in Russia, e perfino negli Stati Uniti d’America.

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Nuovi, giovani protagonisti di una fioritura culturale senza pari andavano sondando le possibilità di un fare artistico tutto nuovo, fuori dagli schemi, in cui pezzi di umanità entravano prepotentemente dentro l’arte, e l’arte usciva dai quadri per scendere in strada assieme agli uomini. Una vera e propria rivoluzione scoppiava all’interno del mondo artistico, che per i successivi trent’anni avrebbe messo in discussione non solo dogmi e principi del passato, ma anche il suo stesso statuto, con una forza tale che, dopo, nulla sarebbe stato più come prima. Da una parte, l’autonomia dell’estetica, dell’art pour l’art, che vedeva l’opera d’arte come esperienza autoreferenziale, atteggiamento squisitamente borghese che nasce col Rinascimento, trova fondamento filosofico nell’estetica kantiana, ma acquista autonomia solo con l’avvento delle leggi del mercato capitalistico.1 Dall’altra la pratica antiestetica, che sorge come diretta contestazione della precedente, strumento docile nelle mani delle avanguardie, che tentano di integrare arte e vita, cambiano il rapporto con il pubblico, contrappongono all’estetica dell’autonomia l’estetica della riproduzione tecnica, pongono al centro del loro interesse un nuovo soggetto sociale.2 Il lavoro degli artisti, prima incentrato su una visione del mondo rapportata soprattutto alla propria e personale sensibilità, basata su di un estetismo raffinato quanto evanescente, ora si focalizza sui mali e le distorsioni che questo atteggiamento aveva provocato, ed estende la sua critica ai rapporti esistenti in seno alla società del tempo, tra masse di sfruttati e pochi sfruttatori, tra umili e pochi potenti. John Heartfield (Berlino, 1891 – ivi, 1968), il cui vero nome Johann Herzfelde abbandona come risposta al nazionalismo tedesco, usa la tecnica del fotomontaggio come mezzo di lotta politica, forma di comunicazione

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BOWLER 1998, p.35 BUCHLOH 2006, pp. 22-31

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fig. 1 - John Heartfield, Adolfo il superuomo ingoia oro e suona falso, fotomontaggio, 1932


fig. 2 - John Heartfield, Urrà , il burro è finito!, fotomontaggio, 1935


contrapposta alla propaganda operata dal regime nazista, regime del quale individua le dirette connessioni con il capitalismo imperialista [Fig. 1], assommando alla valenza artistica della sua operazione una funzione di controinformazione rispetto alla egemonia comunicativa del potere [Fig. 2]. George Grosz (Berlino, 1893 – ivi, 1959), si spinge su posizioni di aperta lotta politica che considera quasi come l’unica strada percorribile per un artista. Con uno stile di disegno che deforma i personaggi rendendoli grotteschi [Fig. 3], rivolge la sua critica alle istituzioni ed al potere, colpendo un’intera classe sociale tramite l’enfatizzazione di colpe e responsabilità [Fig. 4]. Gli artisti russi delle avanguardie vestirono i panni della figura di “artistaproduttore” molto prima del 1934, anno in cui Walter Benjamin la descrisse nel suo intervento all’Istituto per gli studi sul fascismo di Parigi: sia El Lisickij (Smolensk, 1890 – Mosca, 1941) che Aleksandr Rodcenko (San Pietroburgo, 1891 – Mosca, 1956) misero a disposizione della società, che si andava formando nella Russia post-rivoluzionaria, la loro poliedrica attività di operatori artistici, lavorando nel campo della pittura, della fotografia, del cinema, dell’architettura e della grafica. Convinti che l’arte potesse trovare giustificazione solo diventando tecnica, si fecero promotori di “una nuova cultura proletaria attraverso l’estensione degli esperimenti formali del costruttivismo nella produzione industriale reale”, cercando “di capovolgere l’arte e la cultura borghesi contemporaneamente”3, entrando direttamente nella produzione stessa di oggetti d’uso (che fossero utensili o manifesti, libri o fotografie, segnaletica o installazioni) [Figg. 5-6]. August Sander (Herdorf, 1876 – Colonia, 1964) crea un catalogo dei tipi umani della Repubblica di Weimar, che cerca di cogliere nella loro essenza più profonda e autentica, raccogliendo un vasto campionario dei diversi gruppi sociali [Fig. 7] (artigiani, operai, studenti, professionisti, uomini politici), e facendoli diventare nello stesso tempo testimoni e archetipi di un’epoca. Walker Evans (St. Louis, 1903 – New Haven, 1975) opera per conto dell’amministrazione statale (Farm Security Administration) una ricognizione, 3

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FOSTER 2006, p. 175


Fig. 3 - George Grosz, Le colonne della societĂ , olio su tela, 1926


fig. 4 - George Grosz, I comunisti cadono, i titoli salgono, disegno, 1920


fig. 5 - El Lisickij, Gli ismi nell’arte, copertina di libro, 1925


fig. 6 - Alexander Rodchenko, Ragazza con una Leica, stampa alla gelatina d’argento, 1934


fig. 7 - August Sander, Operaio, stampa alla gelatina d’argento, 1928


fig. 8 - Walker Evans, Alluvionato nero nell’ infermeria temporanea della Croce Rossa di Forrest City, Arkansas, file digitale dal negativo originale, 1937


anche se per certi versi strumentale, della società rurale americana, dopo la crisi del 1929, ma il personale stile distaccato, lo schietto realismo, il gusto per la documentazione e l’analisi delle diverse situazioni sociali e ambientali [Fig. 8], ne fecero un punto di riferimento per le future generazioni di fotografi, in America ed in Europa. Quello che emerge, da questi e dai molti altri esempi che è possibile individuare all’interno della sconfinata produzione artistica a tutti i livelli (si pensi, ad esempio, al teatro di Piscator e di Brecht), è che il reale in tutte le sue sfaccettature entra di prepotenza sulla scena del mondo, costringendo tutti ad assumere un atteggiamento quanto meno di attenzione, se non di partecipazione attiva, nei confronti di questioni capitali per la comprensione delle dinamiche interne allo sviluppo della società e degli individui. Non saranno certo stati i fotomontaggi di Heartfield o le caricature di Grosz a far cadere il nazismo, ma sicuramente contribuirono a far maturare una coscienza critica nei confronti di quell’ideologia, portando alla luce quello che non era così immediatamente visibile; El Lisickij e Rodcenko non hanno certo impedito le purghe staliniane, ma la loro intera attività fu testimonianza diretta che un impegno consapevole dell’artista può contribuire a migliorare il mondo e la società, operando con efficacia direttamente all’interno dei processi produttivi e tecnologici; l’opera di documentazione di Sander e di Evans, certo non ha evitato la scomparsa di un’epoca, ma ne ha conservato per sempre le aspirazioni, i tormenti, il sentimento, non come documenti di archivio ma come archivio di suggerimenti e domande, alcune delle quali ancora attuali. Non è certo compito dell’arte risolvere i mali del mondo, ma sicuramente può disvelarceli. Le opere sono oggetti sociali, in quanto in loro si riconosce la sedimentazione di atti sociali4: conservano le tracce di accadimenti (reali, immaginari, fantastici) che hanno impressionato le coscienze di coloro che li hanno

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FERRARIS 2007, p. 91 e segg.

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vissuti, trasformandoli in atti espressivi (i quali conferiscono all’opera stessa la sua valenza). Testimoni/protagonisti di un presente, che trova nel passato il suo slancio nel futuro. 1.2 - La neo-avanguardia La fine della guerra non significò solamente la fine delle ostilità e della oppressione nazi-fascista in Europa, ma anche la speranza di rinascita umana, culturale e civile in un mondo che per troppo tempo era stato dominato da un’ideologia distruttiva: gli spettri dei deportati nei campi di sterminio e dei milioni di morti civili e militari che quegli anni di conflitto avevano causato, sarebbero rimasti a lungo nelle menti e nei cuori delle donne e degli uomini che quella barbarie avevano vissuto sulla propria pelle. Due blocchi si andavano formando: da una parte la Russia ideologica e staliniana, dall’altra gli Stati Uniti d’America, vincitori sul campo e culturalmente, con l’Europa in mezzo, a leccarsi le ferite. Il baricentro culturale si stava spostando da quest’ultima verso l’America, seguendo (ma forse erano loro che in realtà seguivano) gli intellettuali e gli artisti che dal vecchio traghettavano verso il nuovo continente idee, storie personali e collettive, saperi e tradizione. Oltre a questo, la composizione stessa della società era in corso di trasformazione. Nel periodo post-bellico la neo-avanguardia si riappropria delle tecniche sviluppate agli inizi del secolo, con lo scopo di “riposizionare l’arte non solo in relazione allo spazio-tempo mondano, ma alla pratica sociale”5; nel frattempo la cultura di riferimento non è più quella pre-bellica, di un capitalismo ancora

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FOSTER 2006, p. 23


per certi versi ottocentesco, ma quella moderna di un capitalismo industriale e di una società che diventa sempre più di massa. Se l’avanguardia storica aveva cercato di scardinare l’autonomia dell’arte, anche ponendosi in contrapposizione con il mondo borghese e rivolgendosi principalmente al nuovo soggetto sociale del proletariato, la neo-avanguardia si trova di fronte ad una situazione molto più complessa, in quanto le classi, seppur ancora esistenti, ma dai confini più labili e sfumati, di lì a poco collasseranno sotto il peso sempre più grande della massificazione della società. Nel 1957 Guy Debord (Parigi, 1931 – Champot/Bellevue-la-Montagne, 1994) e Asger Jorn (Vejrum, 1914 – Aarhus, 1973), fondano l’Internazionale Situazionista, che rimarrà attiva sino al 1972. Partendo da posizioni critiche tanto nei confronti del Surrealismo, quanto del marxismo, affrontano la nascente società dei consumi vedendo in essa un carattere spettacolare che trasforma l’alienazione stessa in merce6, e partecipano attivamente alle rivolte studentesche in Francia nel 1966 (queste ebbero luogo nell’università di Strasburgo, e trassero ispirazione da una pubblicazione situazionista di Mustapha Khayati dal titolo Della miseria dell’ambiente studentesco) e nel 1968 (con la pubblicazione del Manuale del saper vivere all’uso delle nuove generazioni di Raoul Vaneigem e La società dello spettacolo di Debord). Bruce Conner (McPherson, 1933 – San Francisco, 2008) realizza BAMBINO [Fig. 9], una scultura dichiaratamente contro la pena di morte, ma la sua produzione sarà molto varia: oltre ad una serie di altre sculture in cui rifiuti vari vengono tenuti assieme da calze, spago e legno, che è una critica nei confronti delle procedure di esclusione insite nella società dei consumi, realizza anche film e cortometraggi in cui un sapiente quanto parossistico montaggio di spezzoni di altri film di varia natura e genere si pone come critica alla manipolazione mentale compiuta dalla televisione. Ed Kienholz (Fairfield, 1927 – Hope, 1994) realizza oggetti e installazioni [Fig. 10] che di volta in volta assumono posizioni nette ed inequivocabili nei 6

FOSTER, KRAUSS, BOIS, BUCHLOH 2006, pp. 391-397

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fig. 9 - Bruce Conner, BAMBINO, cera, nylon, tessuto, metallo e corda su seggiolone, 1959


fig. 10 - Ed Kienholz, Memoriale di guerra portatile, installazione, 1968 (part.)


confronti di temi quali l’aborto, la guerra, il carcere, le malattie psichiatriche e via di questo passo. Robert Frank (Zurigo, 1924) dà alle stampe Gli americani, libro fotografico in cui la società americana è vista non solo in chiave documentaristica, ma come culla del dominio culturale consumista e dell’anonimato sociale [Fig. 11], facendo della fotografia “uno strumento di evidenziazione politica e di cambiamento sociale”.7 Hans Haacke (Colonia, 1936) lavora con e sulla fotografia, soprattutto sulla capacità di perdere la sua obiettività, relativamente alle indagini politiche, sociali ed economiche, ad esempio mettendo a nudo gli intrecci esistenti dietro il mercato immobiliare degli alloggi popolari [Fig. 12]. Rispetto al periodo precedente, la produzione artistica che si sviluppa tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la prima metà degli anni Settanta, si trova quindi ad operare in un contesto radicalmente diverso: scienza e tecnica sono al servizio del capitale, i confini tra le classi diventano sempre più evanescenti, il mercato massificato ha livellato ogni distinzione, la desolazione del paesaggio urbano è diventata metafora della condizione umana. Ovvio quindi che l’impegno sociale si trasformi in critica alla società intera, al modello di sviluppo, per certi versi egemone, che gli Stati Uniti d’America diffondono in tutto il mondo, ai rapporti di connivenza tra istituzioni, politica e affari ed alla posizione che l’arte stessa occupa in questo scenario. Il recupero delle pratiche dell’avanguardia assume così un duplice significato: da una parte quello di una rilettura critica del ruolo e delle prospettive dell’arte (si pensi ad esempio al dibattito innescato dall’Espressionismo astratto che si sviluppa senza soluzione di continuità almeno sino all’Arte concettuale ed alla performance), dall’altra quello di un ripensamento del significato e della funzione dell’arte in chiave sociale, in cui a fronte di un soggetto di indagine condiviso (la società del consumo massificato) si manifestano due atteggiamenti distinti: 7

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FOSTER, KRAUSS, BOIS, BUCHLOH 2006, p. 431


fig. 11 - Robert Frank, Parata - Hoboken, New Jersey, stampa alla gelatina d’argento, 1955


fig. 12 - Hans Haacke, Shapolski et al. Manhattan Real Estate Holdings, un sistema sociale in tempo reale, al 1째 maggio 1971, 142 fotografie con pagine di dati, 2 mappe, 6 carte, scelta di diapositive, 1971


la rappresentazione di un sistema sociale basato sull’immagine e sulla merce, con la trasformazione dell’oggetto di consumo in oggetto di culto e la successiva trasformazione dello stesso oggetto di culto in oggetto di consumo (processo che ha investito l’arte Pop e per certi versi anche tante pratiche performative); la presa in esame di un intero sistema sociale scomposto in tutte le sue componenti (identità, urbanizzazione, movimenti politici, questioni razziali, e così via), che ha per obiettivo lo smascheramento delle pratiche del capitale nella società dei consumi. È una società in continua trasformazione in cui non esistono più opposizioni frontali fra un passato ingombrante ed un futuro luminoso, ma nella quale tutto è diventato falsamente più democratico, accessibile, disponibile: una società in cui il significato ed il valore delle lotte ideali della fine degli anni ‘60 si stempererà tra le braccia di un capitalismo sfuggente, multiforme ed ammaliante. 1.3 - La Post-modernità La fine della guerra in Vietnam segna anche la fine di un certo modo di fare politica da parte degli Stati Uniti d’America. A livello internazionale, l’impegno militare si era dimostrato insufficiente a fronteggiare l’orgoglio di un popolo, ed il predominio culturale americano avrebbe dovuto scovare altri modi per diffondersi nel resto del mondo. A livello nazionale, liquidate definitivamente le frange più estreme del dissenso, anche la politica diventava spettacolo, ed avrebbe utilizzato ogni mezzo, anche illegittimo, per il mantenimento dello status quo (si pensi, ad esempio, lo scandalo Watergate). In Europa la lotta politica di fine anni ‘60 si era trasformata in lotta armata, incendiando Francia, Germania e Italia con esiti e conseguenze che avrebbero condizionato pesantemente le dinamiche sociali per oltre un decennio.

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In America del Sud le dittature fasciste avevano consolidato il loro potere in Brasile, Cile, Uruguay e Argentina; nei paesi dell’Est si assisteva ad un inasprimento delle posizioni nei confronti dei paesi occidentali, sino ad arrivare negli anni ‘80 ad un duro faccia a faccia che culminerà nella proliferazione di armi atomiche in seno ai vari schieramenti. A livello sociale, le ripercussioni non si fecero attendere: ideali quali razionalità, obiettività, progresso oltre al bagaglio di idee di derivazione illuministica, che avevano caratterizzato tutta la prima parte del XX secolo, furono duramente messe in discussione, e sul piano intellettuale si cercò di capire se queste avrebbero potuto avere ancora un senso in una società come quella che si andava prefigurando. Se la società precedente era stata dominata dal consumo di massa, quella in divenire avrebbe visto il consumo espandersi ulteriormente per diventare globale, esportato in ogni dove, e minare alla base differenze culturali, costumi, consuetudini. Se nella società precedente le modalità di produzione artistica avevano colonizzato territori fino ad allora vietati, irrompendo nella vita di ogni giorno (happenings e performance, ad esempio), ora la tecnologia ed i media sarebbero divenuti i mezzi privilegiati per la rappresentazione di un epoca. Se nella società precedente l’attivismo politico aveva portato gli artisti ad ingaggiare un rapporto frontale con le tematiche sociali, che si proponevano di indagare, ora le dinamiche interne alla società li avrebbero costretti ad indagare di riflesso anche sé stessi, il proprio ruolo e la propria funzione. Martha Rosler (Brooklyn, 1943) e Allan Sekula (Erie, 1951) utilizzano la fotografia come strumento di intervento politico [fig. 13], di denuncia e di attivismo, ma indagano anche il proprio ruolo di fotografi [fig. 14], possibili strumenti di inefficacia politica.8

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FOSTER, KRAUSS, BOIS, BUCHLOH 2006, p. 595


I gruppi di artisti riuniti sotto la sigla ACT-UP! (Aids Coalition To Unleash Power) fecero opera di propaganda attiva nella sensibilizzazione delle problematiche legate alla diffusione dell’Aids, utilizzando tecniche differenti (fotomontaggio, grafica, performance, appropriazione, e rivendicazioni di genere) per denunciare la pubblica indifferenza nei confronti della malattia [fig. 15]. Jimmie Durham (Washington, 1940) e David Hammons (Springfield, 1943) lavorano sul multiculturalismo, sui cliché etnici e sui simboli culturali per criticare gli stereotipi associati a culture altre da parte del mondo occidentale: il primo relativamente ai nativi americani [fig. 16], di cui sostiene le rivendicazioni; il secondo relativamente al rispetto dei diritti civili nei confronti delle persone di colore [fig. 17]. Renée Green (Cleveland, 1959) cerca di far affiorare i residui di razzismo, differenze sessuali e colonialismo presenti nelle forme di rappresentazione (film, letteratura, design, architettura) del nostro tempo [fig. 18], costringendoci a non considerarci del tutto esenti da responsabilità. Rachel Witheread (London, 1963) lavora su tematiche legate alle esperienze dei singoli in rapporto alle problematiche sociali, realizzando calchi di oggetti di uso quotidiano (materassi, vasche da bagno, armadi) oltre a stanze e spazi abitativi interi, con effetti espliciti per ciò che concerne la risonanza sociale. Opera significativa è senz’altro Casa del 1993 [fig. 19], calco in calcestruzzo dell’interno di una vera casa di una zona legata alla presenza operaia nella città di Londra: presenza per alcuni versi ingombrante, fu demolita per volontà dei residenti, che forse non apprezzarono il chiaro intento di denuncia nei confronti della scomparsa della cultura del proletariato londinese, ma che certamente avevano capito trattarsi di una “scultura pubblica che non idealizzava la vita sociale o monumentalizzava la memoria storica”.9

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FOSTER, KRAUSS, BOIS, BUCHLOH 2006, p. 638

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fig. 13 - Martha Rosler, Balloons, dalla serie Portare in casa la guerra: il bello della casa, fotomontaggio stampato come fotografia a colori, 1967-72


fig. 14 - Allan Sekula, fotografia tratta dalla serie Questa non è la Cina: un fotoromanzo, 1974


fig. 15 - Gran Fury, Read My Lips, 1988


fig. 16 - Jimmie Durham, Malinche, legno, cotone, pelle di serpente, acquerello, poliestere, metallo, 1988-1991


fig. 17 - David Hammons, Vendita di palle di neve, installazione, 1983


fig. 18 - RenĂŠe Green, Vista, struttura di legno, lenti, ologramma, schermo, luce, sistema audio, 1990


fig. 19 - Rachel Whiteread, Casa, calco dell’interno della casa in Grove Road n. 193, Bow, Londra (distrutto), 1993


Il postmodernismo, che sia inteso come fine delle grandi narrazioni10 o come la coesistenza di elementi culturali vecchi e nuovi legati strettamente ad un nuovo stadio del capitalismo11, ha dunque lasciato poco spazio per atteggiamenti militanti legati alla sfera sociale paragonabili a quelli delle periodizzazioni precedenti qui proposte. La chiave di lettura di questo periodo, che per certi versi continua ad operare anche oggi, seppur con qualche differenza, è da rintracciarsi senza dubbio nel cambiamento continuo dei modi di produzione e consumo del sistema capitalistico, che influisce fortemente sui comportamenti e gli atteggiamenti delle persone in primis e del mondo intellettuale poi. Al di là di ogni presa di posizione, sia in senso neo-conservatore che post-strutturalista, è il concetto stesso di soggettività ad essere entrato irrevocabilmente in crisi: non potendo più questa inscriversi nel flusso delle “grandi narrazioni” che avevano caratterizzato buona parte del Novecento, viene meno la possibilità di rappresentare istanze specifiche, si finisce col miscelare stili, tendenze, tecnologia e recuperi dal passato, ci si perde in una spirale consumistica che frammenta e disorienta. Ma dove ci ha portato e cosa ha prodotto tutto ciò? Parlare oggi di impegno sociale dell’arte significa addentrarsi in un terreno quanto meno scivoloso. La posizione degli artisti è fondamentalmente neutra e spoliticizzata, e questo anche a causa della mancanza di progettualità insita nelle democrazie moderne, in cui uno sfrenato individualismo fa da contraltare alla mancanza di un progetto politico ed alla scomparsa della coscienza critica. Non è forse anche a causa di una sempre maggiore commistione tra generi (si pensi ad esempio alle sovrapposizioni tra arte, moda, design e architettura) che il fare artistico ha smarrito la capacità di rivendicare il proprio ruolo?

10 11

LYOTARD 1985 JAMESON 1989

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In questo mondo in cui il sopravvento dei meccanismi pubblicitari, uniti alla globalizzazione operata dai media ha prodotto un’estetica diffusa (per cui tutto potrebbe avere una qualche valenza artistica), il sistema dell’arte non ha saputo riconquistare una sua chiara visibilità, a volte riducendosi ad utilizzare gli stessi meccanismi della pubblicità e del marketing. Facendo questo, corre il rischio di rimanere imprigionato dentro sé stesso, incapace di vedere oltre il contingente, impastoiato nelle sabbie di un eterno presente.

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2 IL PENSIERO CRITICO

Che ci sia una altra latenza, oltre quella delle passioni, in questa nostra epoca così complessa e complicata, è un’evidenza largamente condivisa. Nell’introduzione de Il ritorno del reale, Hal Foster pone alcune questioni capitali per quel periodo: Qual è il ruolo della critica in una cultura visiva sempre più amministrata da un mondo dell’arte dominato da figure promozionali con scarso spirito critico, e da un mondo mediale di aziende di comunicazione e di intrattenimento che non ha alcun interesse per qualsivoglia analisi critica? E qual è il luogo della critica quando viviamo una cultura politica sempre più consenziente, specialmente quando ci troviamo al centro di battaglie culturali con una destra che professa minacce del genere “prendere o lasciare” e una sinistra con dubbi tipo “da che parte stiamo?”. Naturalmente si tratta di una situazione che rende urgenti gli antichi compiti della critica e rimette in questione uno status quo politico-economico che si dedica esclusivamente alla propria riproduzione e al profitto, allo scopo di mediare tra gruppi

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culturali (ormai privi di un contesto e di un dibattito pubblico) che sembrano soltanto di parte.1

Circa dieci anni dopo, Raffaele Gavarro, entra nel merito della situazione in cui versa la critica italiana: Se questo è vero per gli Stati Uniti e per il mondo anglosassone in generale, la situazione italiana risulta ancora più drammatica. Nel senso che la critica d’arte qui non si è nemmeno ritirata, ma è semplicemente scomparsa, nella migliore delle ipotesi riuscendo a mimetizzarsi nell’attività curatoriale. [...] La curatela è così diventata, spesso fortunosamente, l’area di sopravvivenza economica per i critici. Beninteso, facendo sempre attenzione a mantenere l’azione critica ai margini dell’esercizio curatoriale.2

Queste due citazioni mostrano efficacemente lo stato del pensiero critico all’interno del mondo dell’arte e non solo, ed evidenziano in modo puntuale alcune questioni: - la critica è stata spodestata da figure promozionali e da aziende di comunicazione; - la critica non trova albergo in alcun luogo, a causa della scomparsa di un contraddittorio politico; - l’attività critica in Italia si è eclissata dietro la maschera dell’attività curatoriale; - i critici embedded barattano la loro sopravvivenza con l’esclusione del pensiero critico dalle loro attività; - urge che la critica torni al suo ruolo ed alla sua funzione, allo scopo di ridare corpo alla capacità di mediazione tra interessi contrapposti. Habermas, parlando a proposito della trasformazione della sfera pubblica borghese in società di massa, sottolinea come la funzione di controllo e di giudizio da parte dell’opinione pubblica, nei confronti del potere politico ed

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FOSTER 2006, p. 13 GAVARRO 2007, p. 11


economico, sia andata trasformandosi in una mera operazione dimostrativa del consenso generale, giungendo alla odierna situazione in cui “la dimensione pubblica critica è soppiantata da quella manipolativa”3. Questa situazione si dimostra del tutto funzionale ad un modello di società, come l’attuale, in cui la formazione del consenso non è più filtrata dalle maglie della critica: questa diventa un elemento turbativo per un modello di generazione del consenso che vuole essere di tipo plebiscitario. La critica deve eclissarsi in un sistema come l’attuale, dominato dai mass media, che vede il consumo culturale diventare fondamentale per la sua stessa sopravvivenza: il pubblico deve limitarsi a recepire contenuti culturali senza che questi possano in qualche modo essere dibattuti criticamente e partecipativamente. Consumare cultura non significa più formare una coscienza ed una consapevolezza critica da esercitare nella formazione della pubblica opinione, ma sottostare al diktat delle leggi del mercato e delle sue strategie pubblicitarie, finalizzate alla vendita dei prodotti culturali. Lo stesso meccanismo si applica al contraddittorio politico: Alla ricerca del consenso si affianca la necessità della rappresentazione che – come è noto – è la caratteristica specifica della cultura di massa. Essa viene a incontrarsi con l’esigenza del potere politico di pubblicizzarsi, per ottenere da parte di un pubblico di consumatori la mobilitazione di un consenso che, molto spesso, si traduce soltanto in un’“acclamazione di tipo plebiscitario”. Il consenso, cioè, non viene raggiunto più attraverso lo snodarsi di un discorso razionale, ma soltanto con una messa-in-scena degli stessi dispositivi del potere. La rappresentazione procede, dunque, in senso inverso rispetto al processo di razionalizzazione, che è alla base di ogni tipo di discorso

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HABERMAS 1984, p. 213

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teso a indurre una partecipazione consapevole la più estesa e capillare possibile.4

Necessità di rappresentazione, raggiunta mediante l’utilizzo di mezzi pubblicitari, finalizzata alla vendita del prodotto/consenso: lo spettacolo della politica non è poi così distante dallo spettacolo della cultura. In questo mondo ‘tutto spettacolare’, in cui un’estetica diffusa pervade ogni cosa ed in cui ogni cosa diventa possibile espressione artistica, chi esercita la capacità di indirizzo? Dopo anni in cui la produzione artistica si è sviluppata all’interno del suo stesso mondo, e solo all’intero di questo è andata cercando e trovando consumo, è pensabile che all’interno di esso possa trovare il presupposto per sfuggire alle logiche del mercato? È possibile ipotizzare la ricomparsa di uno spazio pubblico, di una dimensione sociale aperta e condivisa, in cui riconquistare visibilità ed importanza all’esercizio della critica? In teoria, indubbiamente; nella pratica, la questione resta aperta. Anche non volendo entrare nello specifico, salta agli occhi la contiguità – se non la continuità – tra l’esercizio del potere politico e l’esercizio dell’autorità curatoriale che si esprime, ad esempio, nella nomina dei responsabili della rappresentanza italiana alla Biennale di Venezia: in un intervento recente5, Angelo Centonze, a proposito della presenza di Francesco Vezzoli e Giuseppe Penone alla edizione del 2007, dice tra l’altro che “Vezzoli è molto apprezzato da Miuccia Prada (i suoi film come Comizi di Non Amore sono sostenuti dalla Fondazione Prada) mentre Penone è fortemente presente nella collezione Pinault, il magnate che controlla Gucci ed è attualmente proprietario del

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PIROMALLO GAMBARDELLA 2008, p. 54 CENTONZE 2007, p. 89


veneziano Palazzo Grassi”, oltre a sostenere che entrambi gli artisti hanno “una forte risonanza nel mondo della moda”. Quest’ultima affermazione testimonia di un’altra particolarità che contraddistingue l’attuale situazione, ovvero della sempre più forte connivenza tra arte contemporanea, moda, design e musica. Da una parte (arte/moda/design), oltre probabilmente alla condivisione dello stesso ‘ambiente’ e degli stessi spazi, c’è la necessità di perdersi in un flusso continuo di ininterrotto rinnovamento, senza perseguire alcun cambiamento reale, nell’illusione di un presente continuo in cui trovare la propria ragion d’essere, nel quale la forma è definitivamente prevalsa sulla funzione. Dall’altra (arte/musica), c’è il comune rifarsi alla logica del campionamento e della post-produzione, secondo le logiche di un modello di sviluppo che consente al consumatore di personalizzare e adattare “i prodotti che compra alla sua personalità o ai propri bisogni”, e dove “il produttore è solo un trasmettitore per il produttore che segue e ogni artista ormai cresce in un network di forme contigue che si accavallano all’infinito”.6 Ma questo non significa anche che la manipolazione è funzionale alla sopravvivenza del consumo, secondo logiche capitaliste? Questo ambito di ‘estetica diffusa’, questa necessità di contaminazione tra le arti, non significa anche trasformare la trasgressione in routine? Forse non sarebbe il caso di “ridare un senso alla collocazione politica, sia dell’autonomia che della trasgressione” 7, riconquistando in questo modo spazio per l’esercizio critico?

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BOURRIAUD 2004, p.36 FOSTER 2003, p. 31

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La funzione principale della critica rimane essenzialmente quella di operare per favorire lo sviluppo di un pensiero autonomo, ma riesce nel suo intento solo a condizione della scomparsa di logiche culturali conservatrici e della riconquista della sua capacità di assolvere alla sua funzione di guida, elaborando analiticamente i cambiamenti in atto nella società. Oggi viviamo invece in una dimensione in cui il tempo appare come dilatato, dove l’aumento della velocità di progressione ha prodotto una sorta di bolla temporale in cui passato e futuro hanno perso ogni loro specifica funzione, abdicando il loro ruolo a favore dell’immediatezza, del qui e ora, così come per certi versi profetizzava Guy Debord: Il campo della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. Inseparabilmente, la conoscenza avrebbe dovuto durare, e aiutare a comprendere almeno in parte ciò che sarebbe successo di nuovo: “un’acquisizione per sempre”, dice Tucidide. In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità; e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla. Quando l’importante si fa riconoscere socialmente come ciò che è istantaneo e lo sarà ancora nell’istante successivo, altro e identico, e che sarà sempre sostituito da un’altra importanza istantanea, possiamo anche dire che il metodo usato garantisce una sorta di eternità di questa non-importanza, che parla così forte.8

In una logica così stringente, in cui l’importanza di un evento viene definita socialmente in base alle caratteristiche di istantaneità e sostituibilità, cercare di riportare l’attenzione sulle questioni sociali potrebbe sembrare una battaglia persa in partenza, dato che la possibilità di comprenderle si basa esclusivamente sulla possibilità di recuperarne memoria e senso storico, oltre al profondo legame con il contesto nel quale si sono sviluppate. Il passato non può essere dimenticato né cancellato, ma ovviamente questo non deve significare perdersi nella sua sterile riedizione nostalgica: se il

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DEBORD 2004, p. 198


passato è acquisito per sempre, significa che deve assolvere alla sua funzione di testimone, ovvero di chi racconta in prima persona, senza retorica, ma con determinazione. Il futuro, in mancanza di tali presupposti, potrebbe rimanere solo una speranza.

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3 IL PENSIERO CREATIVO

Nel 1968 Roland Barthes proclamava la morte dell’autore: La scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine. La scrittura è quel dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del corpo che scrive. [...] Lo “scrittore” moderno - il soggetto della scrittura - nasce [...] contemporaneamente al proprio testo; non è in alcun modo dotato di un essere che precederebbe o travalicherebbe la sua scrittura, non è affatto il soggetto di un libro che ne costituirebbe il predicato. [...] Il fatto è che scrivere [designa] ciò che i linguisti [...] chiamano un performativo. [...] È stato senza dubbio sempre cosi: non appena un fatto è raccontato [...] la voce perde la sua origine, l’autore entra nella propria morte, la scrittura comincia.1

Qualche mese dopo Michel Foucault arriva alla stessa conclusione: La traccia dello scrittore sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del morto nel gioco della scrittura. Tutto questo è

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BARTHES 1988, pp. 51-54

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noto; da tempo ormai la critica e la filologia hanno preso atto di questa scomparsa o di questa morte dell’autore.2

Nonostante si riferissero entrambi alla dimensione narrativa, alla scrittura in senso stretto, l’analisi compiuta è stata successivamente estesa alla funzione di ‘autorialità’ in senso lato - riferendosi quindi anche alla pratica artistica nella sua più ampia accezione, ricomprendendo anche il rapporto che l’autore intrattiene con l’opera ed alle modalità con cui come quest’ultima ridefinisce, quindi, il suo statuto. Ma anche senza voler prendere posizione relativamente ad un certo autorialismo3, che interessa la produzione artistica degli ultimi tre secoli, ma che solo nel Novecento ha assunto una valenza per così dire problematica, resta il fatto che la posizione e l’essenza della figura dell’autore è stata lungamente dibattuta, e ancora oggi rimane al centro dell’attenzione. Uno dei primi interventi relativi al rapporto tra cultura e autorialità, è senza dubbio quello che Walter Benjamin fece in occasione di una lezione presso l’Istituto per gli studi sul fascismo di Parigi, nel 1934. La posizione è nota: Benjamin auspica una presa di posizione degli artisti in chiave rivoluzionaria, allo scopo di intervenire direttamente sui mezzi di produzione artistica, rivedendone profondamente la tecnica, in tal modo trasformandone la struttura borghese. Superando il vecchio dilemma tra forma e contenuto, e basandosi sulla sua matrice essenzialmente dialettica (le opere devono essere collocate all’interno di rapporti sociali), Benjamin sposta l’attenzione sulla funzione che queste assumono all’interno dei rapporti di produzione di una determinata epoca. L’autore, persona che dispone della tecnica, rimane pur sempre legata a chi - il capitale - detiene la proprietà dei mezzi di produzione (Benjamin riporta

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FOUCAULT 1971, p. 4 BENEDETTI 1999, p. 17


l’esempio del giornale: lo scrittore ha la capacità di scrivere, ma il giornale e i mezzi tecnici necessari alla sua realizzazione rimangono nella disponibilità del capitalista/editore), e deve quindi compiere un percorso molto accidentato “prima di poter prendere conoscenza del suo condizionamento sociale, dei suoi mezzi tecnici e del suo compito politico”.4 La posizione dell’autore non può limitarsi quindi alla solidarietà o alla vicinanza nei confronti del proletariato, posizione alquanto improbabile se non “impossibile”: deve prendere “posizione nel processo produttivo”, deve “trasformarlo”, deve saper dare alla sua opera una posizione che le conferisca un “valore d’uso rivoluzionario”. Benjamin sposta quindi l’attenzione sulle modalità con cui l’autore non solo realizza le sue opere, ma interviene nei processi di produzione delle stesse, sino a prevederne il carattere paradigmatico: modello per altri artisti, agente di modificazione dei processi produttivi che, di riflesso, trasforma chi fruisce in collaboratore. Solo in questo modo l’autore può assolvere al proprio compito – rivoluzionario – e solo in questo modo si dimostra l’assunto iniziale: “la giusta tendenza politica di un’opera include (…) la sua qualità letteraria in quanto include la sua tendenza letteraria”.5 La figura di un autore direttamente coinvolto e politicamente impegnato ha percorso la scena artistica di gran parte del secolo scorso, pur tra alti e bassi, almeno sino a quando il cambiamento di stampo neo-conservatore in politica ha trasformato la società e la cultura, rendendo molto difficile il ripetersi di interventi di tipo produttivistico. È in questo contesto che si sviluppa una nuova posizione relativa alla figura ed al ruolo autoriale, quella che Hal Foster descrive come svolta etnografica.6

4 5 6

BENJAMIN 2004, p. 48 BENJAMIN 2004, p. 44 FOSTER 2006, pp. 175-203

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Sviluppatasi alla fine degli anni Settanta, simile nella struttura alla posizione benjaminiana, sposta il centro dell’attenzione autoriale da un soggetto definito in base ad un rapporto di tipo economico ad un soggetto definito in base ad un rapporto di tipo identitario in termini culturali: il riferimento non è più il proletariato ma l’altro “culturale e/o etnico”. Il problema principale di questa posizione, è quella del rischio che l’autore assuma un ruolo di “patronato ideologico”, che potrebbe derivare o da una divisione identitaria tra l’autore e l’altro, o da una sua eccessiva identificazione, necessaria per superare la divisione: ma “identità non equivale a identificazione e l’apparente semplicità della prima non deve essere scambiata per l’effettiva complicazione della seconda”.7 L’interesse per l’altro, la proiezione del sé nell’alterità, sono elementi di cui la pratica artistica non può fare a meno, anche se il pericolo di una strumentalizzazione di queste pratiche per interessi di mercato è sempre possibile (Foster cita a questo proposito World Tour di Renée Green, in cui l’artista da una parte lavora sulla diaspora del popolo africano, mentre dall’altra realizza un vero e proprio tour artistico, con tanto di merchandising). Al di là di ogni altra considerazione (i rapporti tra etnografia, psicanalisi e post-strutturalismo, per esempio, o il primato dell’approccio antropologico in quanto compromesso ideale tra il sociale visto come simbolico e la nuova attenzione al contesto e all’identità), Foster vede nel coinvolgimento il vero pericolo per l’artista, anche se rimane consapevole della impossibilità di eliminarlo: perso in questa impasse, l’artista deve recuperare una certa distanza critica che gli consenta di essere nello stesso tempo partecipe e critico, utile e attivo. Un terzo schema riferito alla posizione autoriale, è quello proposto da Guido Guglielmi nel suo L’autore come consumatore, in cui la figura dell’artista

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FOSTER 2006, p. 178


viene analizzata nel suo essere immersa nella post-modernità, di cui è parte integrante.8 Dopo aver ripercorso le vicissitudini dei cambiamenti sociali ed artistici nei primi cinquanta anni del Novecento, Guglielmi pone l’accento sul formarsi di una “estetica della ricezione” - sviluppatasi in seguito ai cambiamenti di gusto e delle modalità di fruizione innescati dalla cultura pop – che privilegia “l’utente rispetto al produttore, inverte il rapporto produzione-consumo, e pone il godimento al centro dell’esperienza estetica”9, annullando in questo modo ogni considerazione critica dal punto di vista storico, e trasformandosi in pura e semplice esperienza edonistica. La cultura è quella di una società del consumo fatta non solo di globalizzazione, ma di progressiva e continua trasformazione e adattamento dell’immaginario, di merci che sono diventate messaggi, oggetti-segno, simulacri, in cui “è il valore di scambio che si realizza come valore culturale”10, in cui il mercato impone uniformità della ricezione ed illude sulla differenza delle scelte personali. La poetica postmoderna cambia radicalmente rispetto al passato, avendo come riferimento mescolanza ed eterogeneità, in cui la separazione tra arte alta e arte di massa cade definitivamente, così come il concetto stesso di ‘sublime’ che diventa emozione del disorientamento, della passività, dell’abbandono e non più “emergenza di una alterità non riconducibile a misura”. Tutto è sullo stesso piano, segni del presente come vestigia del passato, trattati con ironia i primi, inserite in altri contesti le seconde: è la pratica della postproduzione11 in cui originalità e creazione scompaiono lentamente.

8 9 10 11

GUGLIELMI 1998, pp. 89-100 GUGLIELMI 1998, p. 93 GUGLIELMI 1998, p. 94 BOURRIAUD 2004

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In questo modo l’auspicio di Benjamin è sovvertito, e da produttore, l’autore diventa consumatore: come il consumatore sceglie quotidianamente in base alla sua personalità, compiendo un vero e proprio esercizio di mixing tra forme esistenti, così l’autore/produttore sceglie sulla base di suggestioni del momento tra forme e oggetti a sua disposizione. Ma soprattutto l’autore della contemporaneità non assolve al suo compito paradigmatico: diventato preda della logica di un consumo eclettico, si trasforma in semplice strumento nelle abili mani di altri agenti (che siano il mercato, la tecnologia, comunque il capitale), mettendo in secondo piano la propria responsabilità critica.

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4 HANDLE WITH CARE

Quel son mì, vardéme, ve preghe, vardé co’là che a passi sòchi el se incamìna verso ‘a machina, la vèrde, el vòlta ‘a testa ‘n’antra volta parché el deve disegnàrseo tut in tea só testa ‘sto momento, l’à da farlo testamento. Franzin, Mòbii / Mobiità1

Come accennato in introduzione, il lavoro presentato in occasione del laboratorio finale di arte nasce dallo spunto offertoci dal tema del laboratorio stesso, ovvero dalla volontà/necessità di ripensare gli spazi artistici, fisicamente intesi o meno. In quel contesto si è parlato ovviamente della funzione del museo/galleria d’arte e del loro significato nella contemporaneità, della necessità di trovare nuove modalità di fruizione dell’arte che in qualche modo potessero riconfigurare il luogo e lo spazio espositivo allo scopo di renderli compatibili con le esigenze di un’espressione artistica in continua trasformazione, nella forma e nei contenuti.

1 Tratto da “Le Voci della Luna”, 44, luglio 2009. Il testo completo è riportato in appendice.

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Tipicamente questi spazi possono essere identificati come luoghi della dimensione conoscitiva o come semplici contenitori, pura dimensione spaziale. Il lavoro parte proprio dalla necessità di superare questo dualismo. Nelle pratiche artistiche contemporanee, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento, si è andata affermando la tendenza che vedeva gli artisti evadere dalle restrizioni dello spazio espositivo tradizionale, per cercare l’incontro con lo spazio pubblico e con la vita. A partire da queste considerazioni il programma di laboratorio voleva promuovere un modo di operare artistico che travalicasse i confini, si spingesse beyond borders ed entrasse “in spazi altri, trasformando gli interstizi degli spazi esistenti in spazi ospitali, amici”. Visto da questa prospettiva, lo “spazio altro” diventa allora un luogo non più inteso solo come dimensione del reale, ma come momento di incontro con la dimensione relazionale. Come dare forma al lavoro? Una volta definito l’obiettivo rimaneva da stabilire la strada, il percorso da seguire per il suo raggiungimento. Uno spunto iniziale proveniva da due considerazioni, espresse rispettivamente da Italo Calvino e da Hal Foster, che focalizzano il problema relativo al senso ed al valore della ricerca artistica: La letteratura segue itinerari che costeggiano e scavalcano le barriere delle interdizioni (...) a un ri-inventare storie che erano state rimosse dalla memoria collettiva e individuale; agisce come forza ripetitiva. (...) La linea di forza della letteratura moderna è nella sua coscienza di dare la parola a tutto ciò che nell’inconscio sociale è rimasto non detto. (...)2

2

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CALVINO 1980, p. 175


Calvino parla della funzione della letteratura, ma estendendo questo concetto all’arte in senso lato, alle pratiche artistiche nel loro insieme, non se ne cambia il risultato: l’arte come mezzo di collegamento tra dimensione visibile e dimensione invisibile. Considerazione che si riallaccia con quanto auspicato dal programma del corso, quando si dice che il ripensare lo spazio espositivo conduce ad una condizione di limite, il quale “dovrebbe diventare (…) una soglia da cui iniziare una navigazione creativa che sfrutti i confini dell’assenza come pretesti e risorse”. In queste parole di Foster, Cosa produce un presente così diverso? In che modo il presente, a sua volta, rilegge il passato? Questa domanda coinvolge anche il rapporto tra lavoro critico e storico, e qui nessuno può scappare dal presente, nemmeno gli storici dell’arte. L’analisi storica non dipende dalle posizioni di oggi, ma un impegno nel presente, che sia artistico, teorico e/o politico, appare indispensabile.3

riferite al dibattito sulla contrapposizione tra modernismo e postmodernismo che ha occupato gran parte della produzione critica, teorica e artistica degli ultimi anni, si evidenzia l’auspicio che la ricerca artistica e l’arte, in quanto disciplina che indaga la vita nel suo manifestarsi, ricominci a farsi carico degli aspetti sociali e politici di quest’ultima. La struttura di base del lavoro era così delineata: lavorare sulla traccia allo scopo di far riemergere conflitti sociali negati, sopiti, invisibili, inserendoli in un contesto relazionale (tout se tient: lo spazio relazionale, la funzione dell’arte di Calvino, l’impegno di Foster).

3

FOSTER 2006, p. 10-11

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La scelta di avvicinarsi all’esperienza degli operai del petrolchimico di Porto Marghera, alle porte di Venezia - che con il suo particolare skyline ne raffigura per certi versi l’antitesi – appariva quasi obbligata. Tutti coloro che transitano sul ponte che collega Venezia alla terraferma non possono fare a meno di guardare agli impianti industriali, oramai quasi del tutto in disuso, con un misto di fascinazione e preoccupazione: la convivenza all’interno di un ecosistema particolarissimo, come quello lagunare, di una città-museo, simbolo di cultura, storia, arte, di aperture verso il mondo, da proteggere e valorizzare, e di una cittadella-simbolo, museo del degrado, dello sfregio ambientale, del capitalismo di stato degli anni Cinquanta e del boom economico, da bonificare al più presto e in tutti i sensi. Ma a fronte di tutto questo, le persone che hanno trascorso gran parte della propria vita di lavoro in quei luoghi, che ruolo hanno nel presente? Le loro storie contano ancora qualcosa o sono semplicemente dei dettagli insignificanti da sacrificare senza troppi scrupoli? Questa società così fortemente concentrata su sé stessa, sul suo eterno presente, con un passato fastidioso da dimenticare o da ritagliare su misura secondo le necessità del contingente, e senza un futuro da immaginare e da desiderare; questa società multimediale, multiculturale e multietnica, è ancora in grado di ricordare e riconoscere?

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Handle With Care Ringraziamenti Ai lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera, per la loro resistenza contro ogni tipo di opportunismo politico e per la loro lotta in difesa del posto di lavoro. In particolare: Andrea Baldan, Franco Baldan, Claudio Baraldi, Luca Bianchini, Andrea Ceotto, Marcello Colajanni, Antonio Cosmo, Salvatore Di Maio, Stefano Garbin, Roberto Mantoan, Anna Maria Marconi, Nicola Trevisan, Devis Zanchetti, Loris Zuin, Luigi Zuin. Alla FILCEM-CGIL per l’aiuto in ogni fase critica e per aver fatto in modo che ogni porta venisse agevolmente aperta.


tav. 1 - la fase realizzativa è stata preceduta da una serie di incontri avvenuti presso la sede sindacale all’interno degli impianti del petrolchimico, in cui i lavoratori sono stati informati delle modalità di svolgimento delle varie fasi e delle finalità di tutta l’operazione.


tav. 2 - scatti fotografici presi i occasione delle riprese effettuate in vari momenti: all’interno dello stabilimento, di alcuni uffici, in occasione della occupazione simbolica del padiglione italiano alla 53^ Biennale d’Arte di Venezia.


tav. 3 - i calchi sono stati presi in 3 momenti diversi, a causa della impossibilità di avere contemporaneamente la presenza di tutti, a causa della concomitanza di manifestazioni, occupazioni, picchetti, riunioni istituzionali. Ciascuno dei calchi è stato rifinito a mano prima di essere utilizzato per il positivo in terracotta.


tav. 4 - preparazione del luogo scelto per l’installazione, l’insieme dei positivi in terracotta sistemati nell’espositore, un particolare di uno dei pezzi.


tav. 5 - momenti dell’inaugurazione, particolare delle video proiezioni.


tavv. 6 e 7 - calchi in gesso delle mani dei lavoratori del petrolchimico, che hanno partecipato ad Handle With Care, e particolare.



tavv. 8 e 9 - positivi in terracotta ricavati dai calchi in gesso, e particolare.



4.1 - Il progetto Handle With Care è quindi un lavoro sulla traccia, sulla memoria e sulla difficoltà generale nell’utilizzo di questi strumenti per ri-conoscere la realtà che ci circonda, oltre ad avere una forte, e voluta, connotazione politica. L’idea di base ridefinisce il luogo non come spazio espositivo, ma essenzialmente come spazio relazionale: non un luogo in cui qualcuno va, e guarda/ascolta/subisce qualcosa, ma un luogo in cui qualcuno è, e si pone in relazione con qualcun altro, tramite qualcosa. Quindi l’opera diventa tramite di relazioni, non è più simbolo o icona, ma trasmettitore di molteplici suggestioni attivabili solo con l’instaurarsi di relazioni, sia fisiche che mentali, concrete e astratte. È contemporaneamente punto di contatto e punto di partenza. Dal punto di vista dell’incisività comunicativa, la figura della mano traduce con efficacia questo aspetto, dato che i sistemi simbolici ad essa riferibili, e le gerarchie che li caratterizzano, sono di lunga durata: la mano è stata usata e rappresentata come una mappa dei saperi più diversi, come uno strumento per conoscere e ricordare; le mani gesticolano, esprimono sentimenti e passioni; sono preghiere, richieste di aiuto, testimonianze di presenza in luoghi sacri, ex voto, segni di saluto; le mani sembrano posarsi empaticamente sulle pietre che hanno consolidato il nostro cammino, divenendone contemporaneamente segno e simbolo immanente e trascendente: la mano e la pietra, ricoperte dallo stesso pigmento, fanno corpo unico, diventano la stessa materia. La mano come segno di presenza, di passaggio, di identità: i calchi in positivo delle mani degli operai del petrolchimico, realizzati in terracotta, diventano allora testimonianze dirette della permanenza, nonostante le apparenze, di persone e ideali, quasi una silenziosa rivendicazione di esistenza e dignità.

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Come sostiene Gilda Zazzara4, la storia operaia di quel luogo è “la storia di un’uscita di scena” che si riflette sulla memoria che gli operai conservano di sé, e sulla propria storia umana e politica. Ma è anche la consapevolezza di aver fatto parte di un “movimento collettivo capace in qualche modo di cambiare il volto dell’Italia”, che non si ritiene niente affatto “finito”, ma ancora vivo e presente. Ecco allora che i calchi si trasformano da segni di presenza in punti di contatto reale, non virtuale, tra chi li ha materialmente lasciati e chi materialmente li ha davanti: invitano a farsi toccare, a congiungere mano con mano, a partecipare con la propria sensibilità a quella di altri, ad attivare relazioni. Il secondo tassello del lavoro è costituito da due video girati all’interno dell’area del petrolchimico. Il primo apporta testimonianza viva dei sentimenti che abitano gli operai e di come li confessano con pudore e dignità, ma anche con decisione e fermezza, seppur con qualche piccolo segno di scoramento. Sono interviste da cui traspare chiaramente il senso profondo di appartenenza ad una categoria (per non dire classe, termine cosi demodée per certe nostre elites culturali) in via di smantellamento, di cancellazione, un ostacolo alla riqualificazione non solo ambientale, ma anche sociale, di un intero territorio. Il secondo, rende conto della desolazione che regna indisturbata all’interno del petrolchimico: teatro dell’assurdo e dell’assurdità di scelte politiche che hanno prima violentato e poi abbandonato un pezzo d’Italia, la cui scenografia è composta da impianti industriali in corso di smantellamento, fantasmi di una produttività che non c’è più e non è più voluta. Il terzo tassello è quello più strettamente archivistico, costituito da un insieme di fotografie che ritraggono persone e luoghi. Per ogni operaio sono 4

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ZAZZARA 2008, pp. 63-91


state prese fotografie alla figura intera ed alla mano utilizzata per realizzare i calchi in gesso, oltre ad un corredo di scatti che li ritraggono all’interno del loro luogo di lavoro. Un’altra serie di scatti fotografici descrive gli impianti in funzione e quelli in disuso, oltre a testimoniare l’opera di smantellamento di quelli definitivamente abbandonati. Il lavoro ha subito alcune traversie nel corso della sua realizzazione, originate dal permanere di una situazione di conflitto all’interno delle relazioni sindacali tra le parti sociali (imprese chimiche, sindacati di categoria e organi istituzionali), che hanno reso a volte difficile la presenza degli operai coinvolti nelle fasi realizzative (prendere i calchi, registrare le interviste, fare le fotografie); altre volte hanno, di fatto, reso impossibile l’utilizzo degli impianti come luogo di installazione del lavoro (il progetto prevedeva di realizzare l’evento espositivo all’interno degli stabilimenti, ma prima l’ENI e poi la Vinyls hanno ritirato la disponibilità mostrata in precedenza). Costretto a cambiare modalità di presentazione, ho optato per l’utilizzo degli stessi spazi del laboratorio presso i magazzini Ligabue, considerando che gli “spazi altri” nel mio caso erano soprattutto spazi mentali, ideali, non legati necessariamente ad un luogo fisico: la cosa importante era la compresenza delle persone, tutto si giocava su questo. Il coinvolgimento dei lavoratori non si è limitato infatti alla loro partecipazione alle fasi preparatorie del lavoro, ma si è concretizzato nella loro presenza fisica nel momento inaugurale della mostra/performance, ed ha innescato tutto un gioco di relazioni tra opera, visitatori e soggetti della rappresentazione. La performance non è stata effimera, al contrario si è rivelata testimonianza concreta delle relazioni che l’arte può riuscire ad attivare; è stata un evento pubblico, fatto dalle persone per le persone; ha portato un pezzo di ciascuno di noi dentro la vita degli altri; gli oggetti che hanno fatto parte del lavoro non sono stati il punto di arrivo ma il punto di partenza per relazioni diverse, nuove, inconsuete ed aperte ad ogni possibile ulteriore sviluppo. In effetti dopo l’installazione fatta nel luglio dello scorso anno, si è innescato un meccanismo virtuoso che ha portato le storie degli operai del

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petrolchimico in contesti diversi, ed Handle With Care è stato dapprima ospitato all’interno della mostra “Vom Labor zum Projekt” che si è tenuta presso il Neue Museum di Weimar dal 15 ottobre al 29 novembre del 2009, poi è stato oggetto di un intervento che ho tenuto in occasione della XIII Conferenza Regionale dei Musei del Veneto tenutasi a Venezia presso il Teatro Piccolo Arsenale il 13 novembre 2009, ed infine è stato esposto in occasione di “Urban Display” presso la Galleria Contemporaneo di Mestre dal 20 novembre 2009 al 16 gennaio 2010. Handle With Care si dimostra dunque un piccolo/grande work in progress, ed altre iniziative sono attualmente allo studio.

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5 CONCLUSIONI

In questo mio elaborato finale ho cercato di tracciare un quadro delle diverse posizioni critiche e artistiche che hanno contraddistinto gran parte del Novecento: non esaustivo, senza dubbio, ma funzionale a quanto volevo evidenziare. Ho sempre ritenuto che l’arte e, di conseguenza, l’artista, avessero una loro responsabilità derivata sostanzialmente dal ruolo e dalla funzione loro proprie, e che questa si sarebbe dovuta esplicare in una attenzione particolare nei confronti delle dinamiche sociali. Nella storia dell’arte presa in toto, di esempi se ne potrebbero trovare molti di più di quelli che ho riportato, a testimonianza che la sensibilità artistica ha sempre avuto come compagna di viaggio una certa sensibilità sociale. Oggi tuttavia, in questo primo scorcio del nuovo secolo, si può ritenere che la questione sia ancora attuale, che la ricerca artistica sia ancora permeabile alle situazioni emergenziali diffuse in una società così fortemente squilibrata? La ridefinizione del rapporto tra spazio pubblico e spazio privato1 realizzatasi progressivamente negli ultimi decenni per mezzo della continua

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BAUMAN 2002, p. 30

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spettacolarizzazione di questioni private che hanno assunto pubblica rilevanza - ha causato nel singolo individuo l’incapacità ad agire come soggetto politico autonomo costringendolo, secondo le regole di un consumo sempre più emotivo e sempre meno soddisfacente, ad acquisire una propria identità attraverso un processo di identificazione con uno standard comunemente accettato, che lo porta paradossalmente lontano da sé e dalla comprensione della propria dimensione. Ergo, se negli spazi deputati al pubblico confronto passano esclusivamente questioni funzionali al mantenimento dello status quo, o modelli di comportamento incentrati esclusivamente sull’istantaneità e sulla filosofia del carpe diem, ben difficilmente gli squilibri e le diversità, che nonostante tutto abitano il nostro mondo, potranno entrare a far parte della consapevolezza dei singoli. Ecco allora che la pratica artistica dovrebbe riacquistare la consapevolezza di sé, del fatto che “molto spesso va contro il proprio tempo, che l’artista è, per sua natura, in opposizione ai suoi tempi e alle stesse condizioni sociopolitiche in cui si viene a trovare e a dover operare”.2 La figura dell’artista, in questo modo, si potrebbe finalmente discostare dall’immagine pittoresca tracciata da Joseph Beuys in occasione di un dibattito pubblico, che trovo comunque molto attuale e che mi piace riportare in questa occasione: Lei torna sempre su questo artista di merda, questo criminale, questa testa di cazzo, questo cane impotente, che impedisce ogni cosa, che insozza l’ambiente! Naturalmente non perché suona il piano, ma perché trascura di pensare anche a quello che avviene alla soglia della sua arte, di pensare che lui in effetti deve fare molto di più che essere un virtuoso del pianoforte. Al di là della soglia gli uomini esigono di più. Esigono che al bagaglio concettuale dell’arte acquisito nel corso della storia si aggiunga un’altra disciplina, che abbraccia tutto il resto,

2

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DORFLES 2004, p. 47


che rappresenta, per così dire, l’ecosfera e la placenta di questo essere vivente, dell’organismo sociale. Se no lo fa, diventerà certamente un cattivo pianista.3

Potrebbe finalmente avvicinarsi di più a quella di un soggetto “che dovrà considerarsi responsabile delle forme e della loro funzione sociale” in modo da evidenziare “l’emergenza di un ‘consumo civico’” e favorire una “consapevolezza collettiva”, presentando delle “contro-immagini, forme che mettono in questione le forme sociali”.4 In ambito critico alcune considerazioni stanno prendendo corpo, ed auspicano un recupero delle funzioni proprie della disciplina per scongiurare la perdita della capacità di indirizzo e selezione nelle scelte curatoriali da una parte, e favorire il recupero di una elaborazione teorica che possa ricominciare ad alimentare l’intero sistema dell’arte dall’altra. La crisi economica di questi ultimi anni ha acuito alcune disfunzioni che insistevano da tempo all’interno del nostro sistema sociale, ed alcune cose a livello politico si sono mosse, anche se ovviamente gli interessi di un capitalismo sempre più evanescente sono molteplici e multiformi, sfuggono ad una immediata individuazione e comprensione, e altri passi devono essere ancora compiuti. La nostra individuale capacità di reazione a tali sollecitazioni è stata messa a dura prova da almeno trenta anni di ubriacatura post-moderna, e la disabitudine a sentirci comunità non favorisce certo la possibilità di aggregazione, che consentirebbe di costituire sufficiente massa critica per un’azione efficace. La palla passa necessariamente nel campo dell’arte, per essere rimessa in gioco: se l’arte non se ne assume la responsabilità, chi mai potrà farlo?

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BEUYS, ENDE 1994, p. 58 BOURRIAUD 2004, pp. 87-89

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ZAZZARA 2008 Gilda Zazzara, Memoria operaia di Porto Marghera. Una ricerca in corso, “Venetica”, XXII, 8, 2008

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INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

fig. 1 - John Heartfield, Adolfo il superuomo ingoia oro e suona falso, fotomontaggio, 1932 fig. 2 - John Heartfield, Urrà, il burro è finito!, fotomontaggio, 1935 Fig. 3 - George Grosz, Le colonne della società, olio su tela, 1926 fig. 4 - George Grosz, I comunisti cadono, i titoli salgono, disegno, 1920 fig. 5 - El Lisickij, Gli ismi nell’arte, copertina di libro, 1925 fig. 6 - Alexander Rodchenko, Ragazza con una Leica, stampa alla gelatina d’argento, 1934 fig. 7 - August Sander, Operaio, stampa alla gelatina d’argento, 1928 fig. 8 - Walker Evans, Alluvionato nero nell’ infermeria temporanea della Croce Rossa di Forrest City, Arkansas, file digitale dal negativo originale, 1937 fig. 9 - Bruce Conner, BAMBINO, cera, nylon, tessuto, metallo e corda su seggiolone, 1959 fig. 10 - Ed Kienholz, Memoriale di guerra portatile, installazione, 1968 (part.)

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fig. 11 - Robert Frank, Parata - Hoboken, New Jersey, stampa alla gelatina d’argento, 1955 fig. 12 - Hans Haacke, Shapolski et al. Manhattan Real Estate Holdings, un sistema sociale in tempo reale, al 1° maggio 1971, 142 fotografie con pagine di dati, 2 mappe, 6 carte, scelta di diapositive, 1971 fig. 13 - Martha Rosler, Balloons, dalla serie Portare in casa la guerra: il bello della casa, fotomontaggio stampato come fotografia a colori, 1967-72 fig. 14 - Allan Sekula, fotografia tratta dalla serie Questa non è la Cina: un fotoromanzo, 1974 fig. 15 - Gran Fury, Read My Lips, 1988 fig. 16 - Jimmie Durham, Malinche, legno, cotone, pelle di serpente, acquerello, poliestere, metallo, 1988-1991 fig. 17 - David Hammons, Vendita di palle di neve, installazione, 1983 fig. 18 - Renée Green, Vista, struttura di legno, lenti, ologramma, schermo, luce, sistema audio, 1990 fig. 19 - Rachel Whiteread, Casa, calco dell’interno della casa in Grove Road n. 193, Bow, Londra (distrutto), 1993

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APPENDICE I

Mòbii / Mobiità

Mobilia / Mobilità (Nel dialetto Trevigiano dell’OpiterginoMottense)

I Èco, vardéne: sen qua, tuti insieme sot’a tetòia de eternit e lamiera drio ‘a segheria, un branco de pòri cristi a l’onbrìa del silo; vardéne, ‘dèss che quel del sindacato e ‘l diretór dea fabrica i ne ‘à ‘assà là da soi da soi òniun co’i só pensieri, ‘a só ansia, el rabiosón; ‘dèss che forse pa’a prima volta sen davéro tuti compagni, cussì, ligàdhi aa stessa sort. Vardéne: se ‘ven anca scanà fra de noàntri, e sbarufà, se ‘ven mandà a cagàr a volte, parché un ièra un fià lechìn, el fea ‘a spia su in ofìcio, o parché cheàltro tiréa el cul indrìo, no’l capìa un ostia. E ‘dess par squasi che se ‘vene senpre vussù ben, che sene tanti

Ecco, guardateci: siamo qui, riuniti / sotto la tettoia di eternit e onduline dietro / la segheria, un manipolo di poveri cristi / all’ombra del silo; guardateci, ora / che il rappresentante sindacale e il direttore / dell’azienda ci hanno lasciati soli, lì soli ognuno con le sue preoccupazioni, la sua / ansia, il rancore; adesso che forse / siamo per la prima volta davvero / una classe, così, incatenati alla stessa / sorte. Guardateci: ci siamo anche scannati / fra di noi, e azzuffati, ci siamo mandati a quel paese a volte, perché uno / era un po’ ruffiano, confidente / dei caporioni, o perché l’altro tirava / il culo indietro, non capiva un’ostia. / E

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fradhèi ribandonàdhi da un pare. Calcùn l’à sgobà insieme par vinti àni, cómio co’ cómio, bestéma co’ sudhór; calcùn no’l voéa pròpio savérghine de lavoràr in còpia co’ cheàltro, altri i ‘à vist el só ben fiorìr drio ‘na fresa, basi robàdhi fra un toc e ‘n’antro, i fiòi crésser fra i turni e ‘l mutuo; un l’à vist un déo sparìrghe via daa man, tut a un trato, ‘n’antro se tièn duro ‘a schena, co‘l lèva su daa carègha.

ora sembra quasi ci si sia / sempre voluti bene, tanti fratelli abbandonati da un padre. / Qualcuno di noi ha sgobbato insieme per venti / anni, gomito a gomito, bestemmia a sudore; qualcuno non voleva assolutamente / saperne di lavorare in coppia con / l’altro, altri hanno visto il loro amore fiorire accanto a una fresa, baci rubati / fra un pezzo e un altro, i figli crescere / fra i turni e il mutuo; uno ha visto / un dito sparirgli via dalla mano, tutto / a un tratto, un altro si tocca la / schiena, sollevando il suo corpo dalla sedia.

II Ribandonàdhi, là, tel lasco scuro de chea paròea che ‘a sona dolzha, squasi gemèa de chii mòbii che ‘ven fat su, panèl dopo antina, asta dopo travèrs; chel nome pers drento ‘na storia altra, paréa, roba che capitéa sol tea Fiat, pa’ esenpio, tee fabriche massa grande, sgionfàdhe de operai, de lòte sindacài… qua pì che altro ièra sol da farse ‘l cul, a testa bassa, fra rumór e spolverón, reclamàr co’ el contajozhe: ‘ché sbàtoea e dovér no’ i ‘à mai fat rima in fra de lori tel miràcoeo de ‘sto nostro nord est, croeà ‘dèss, al tenpo dea crisi. Ma vardéne, ve dise, vardéne intànt che noàntri se vardén ‘e man vòdhe, intànt che te ‘ste man, in fra i cài, ‘nden in zherca de ‘sta scrita che ‘é stat inpetà, co’ còea o spuàcio,

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Abbandonati, là, nel vuoto buio / di quella parola che suona dolce, / quasi gemella della mobilia che abbiamo / costruito, pannello dopo anta, asta dopo / traverso; quel nome perso dentro una / storia altra, credevamo, evento che capitava solo alla Fiat, per intenderci, nelle aziende / troppo grandi, gonfiate di maestranze, / di lotte sindacali… qui più che altro / era solo da farsi il mazzo, a testa bassa, / fra clangore e polverone, rivendicare con / il contagocce: ‘ché brontolio e dovere non hanno mai fatto rima fra essi / nel miracolo di questo nostro nord / est, crollato, ora, nell’epoca della crisi. / Ma guardateci, vi dico, guardateci mentre / ci osserviamo le mani vuote, / mentre fra le stesse, intorno ai calli, //


no’ so, ‘sta paròea nòva che vol dir “a casa, a spasso” senza schèi chissà fin quando. Vardéne, parché sen quei che paga tuta l’ingordisia dei potenti, ‘e só barche bèe lustre, ‘e só feste. Vardéne: un cuzhà drio un cantón a piàndher, un che romài le ‘à finìdhe tute quante ‘e bestéme, ‘n’antro che par che l‘ te varde e invézhe l’à ‘i òci revessàdhi tel chissà.

cerchiamo di scorgere l’epigrafe che / ci è stata impressa, con colla o sputo, / non so, questa parola nuova che vuol / dire “a casa, a spasso” senza salario / chissà fino a quando. Guardateci, perché / siamo coloro che pagano l’ ingordigia dei potenti, i loro yacht luccicanti, / le loro feste. Guardateci: uno accasciato dietro / un cantone a piangere, uno che ormai / le ha consumate tutte quante le bestemmie, / un altro che pare stia indagandoti e / invece ha lo sguardo rovesciato nel chissà.

III Sen qua, imatonìdhi come dopo un funeràl, se sta, sfinìdhi come se se ‘vesse lavorà; po’ un se dà un sgorlón, e fando ciao co’a man para zó ‘l só magón; altri, vardéne, i dise de trovarse al bar, ‘na bira

Siamo qui, sbigottiti, come dopo / un funerale, stiamo, sfiniti come / avessimo lavorato; poi uno si / riscuote, e salutando con la mano / inghiotte il suo magone; altri, guardateci, / si danno appuntamento al bar, una birra

tant pa’ continuàr ‘e ciàcoe, forse, forse sol pa’ scanpàr via da là, pa’ ‘scondér ‘a paura, in compagnia… Vardéne ‘ncora, su, ‘ncora par poc: se se ‘brazha, se sparìsse dal piazhàl, sen in dièse, forse, ‘dèss, dei otanta

tanto per lasciar proseguire i discorsi, forse, / forse solo per fuggire via da là, per / occultare la paura, in compagnia… / guardateci, ancora, dài, ancora per un poco: / ci si abbraccia, ci si eclissa dal piazzale, / siamo in dieci, forse, adesso, degli ottanta

che ieréssi ‘stamatina; l’é tristézha, sì, ma la ‘é ‘ncora massa fresca pa’ spunciàr, e ‘lora, vardéne, a un ghe sbrissa fòra ‘na batùdha, la buta in vaca, sul scherzàr: chissà che bruta ‘dèss ‘a vita, star coi cójoni in man e po’l va via, anca lu, e sen restàdhi sol in zhinque, ne vedhéo? sentàdhi sora ‘e tòe de scarto, drio ‘a muréta; altri dó i ne saeùdha, e sen restàdhi

che eravamo stamattina; c’ è sconforto / sì, ma è ancora troppo fresco per / scavare, e allora, guardateci, ad uno / scappa fuori una battuta, la butta in / vacca, sdrammatizza: chissà che brutta / ora la vita, stare coi coglioni in mano e poi si allontana, anche lui, e siamo rimasti / solo in cinque, ci scorgete? seduti / sulle tavole di scarto, lungo il

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sol in tre: dó che parla e scrive l’aria co’e man, e cheàltro un fià pì in là. Quel son mì, vardéme, ve preghe, vardé co’là che a passi sòchi el se incamìna verso ‘a machina, la vèrde, el vòlta ‘a testa ‘n’antra volta parché el deve disegnàrseo tut in tea só testa ‘sto momento, l’à da farlo testamento.

Premio Turoldo 2009 - 8° edizione Fabio Franzin Noi poeti, siamo chiamati a dar conto di una realtà che sta escludendo dai cicli produttivi quelli che sino a ieri erano le risorse del mondo del lavoro, spazzati via come scarti, con tutta la disperazione che tale colpo di ramazza crea.

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muro; / altri due ci salutano, e ora siamo / solo in tre: due che parlano fra loro e scrivono l’aria / con le mani, e l’altro un po’ discosto. Quello sono io, guardatemi, vi prego, / guardate quello lì che a passi mesti si / incammina verso l’auto, apre la portiera, / volge indietro lo sguardo un’altra volta perché / deve disegnarselo tutto nella testa / questo momento, deve farne testamento.


APPENDICE II

Laboratorio finale di arte - programma del corso Il Laboratorio Finale di Arti Visive condotto da Agnes Kohlmeyer, con l’assistenza di Andrea Mattiello, analizzerà e studierà la ricerca e il “fare” artistici che, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso, si sono confrontati con la necessità di evadere dalle restrizioni dello spazio espositivo tradizionale, ovvero del cosiddetto white cube (cfr. O’Doherty Brian, Inside the white cube: the ideology of the Gallery Space, University of California, Berkeley, 1999). Il corso prenderà in considerazione la produzione e le sperimentazioni di quegli artisti contemporanei, in particolare delle più recenti generazioni, che volendo uscire dagli spazi e dalle forme tradizionali delle arti visive, hanno dato vita a prospettive creative allargate a molteplici “campi d’azione”, occupando di conseguenza “altri spazi”. Si studieranno le esperienze degli artisti attivi nel contesto dell’arte concettuale e minimal, di quelli che hanno indagato, soprattutto nel contesto nordamericano, le possibilità creative del campo esteso ambientale di Site Specific, Environmental e Land Art (cfr. Krauss Rosalind, “Sculpture in the Expanded Field”, October, Vol.8, Spring, 1979, pp. 30-44), ma anche le ricerche degli artisti che in Europa hanno dato vita a complessi episodi come Fluxus, Arte Povera e Azionismo. Si guarderanno le esperienze delle pratiche performative sviluppate tanto nel nuovo quanto nel vecchio continente e si valuteranno quelle ricerche che si sono orientate sempre di più verso l’ingaggio con lo “spazio pubblico” e l’urgenza di un diretto contatto con la vita quotidiana. Il corso vuole sollecitare una ricerca artistica che possa svolgersi sia in una pluralità di spazi possibili - praticamente senza limiti - sia in uno spazio

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espositivo tradizionale, mantenendo in questo caso “aperte” ogni tipo di frontiere. Si intende così promuovere un modo di operare artistico che travalichi i confini, che si spinga beyond borders e che entri in “spazi altri” trasformando gli interstizi degli spazi esistenti in spazi ospitali, amici. La proposta didattica del laboratorio per il corso deve essere poi considerata nel contesto specifico di Venezia, una città ricca di iniziative e di eventi dedicati alle arti visive e drammatiche, ma dove gli spazi, i tempi ed i livelli di attenzione per l’immissione di nuove forme espressive sono sempre anche un po, limitati e continuamente contesi tra le necessità delle istituzioni pubbliche e quelle degli interessi privati. In particolare quest’anno il laboratorio coinciderà con la 53^ edizione della Biennale di Arti Visive di Venezia. La carenza di spazi espositivi che queso comporta avrà un impatto sulle nostre riflessioni e strategie, diventando un concetto centrale per il generale “progetto espositivo” del laboratorio. Durante il laboratorio gli studenti saranno allora invitati a ideare, individualmente o in gruppo, opere, scritture, azioni in grado di interrogare questa assenza di spazi ma anche e soprattutto di inividuare nuovi spazi e possibilità all’interno di questa particolare situazione veneziana. Questa individuazione di luoghi e situazioni alternativi potrà avvenire attraverso l’uso di abitazioni o ambientazioni private o strutture e luoghi pubblici, la strada, il campo, qualsiasi situazione all’aperto, attraverso l’interrogazione o la comunicazione con un pubblico “esterno” al laboratorio o quant’altro possa essere visto come quell’”altro spazio” di interesse per la nostra ricerca artistica, sfruttando e non subendo questa condizione di limite. Questo limite dovrebbe diventare per tutti noi una soglia da cui iniziare una navigazione creativa che sfrutti i confini dell’assenza come pretesti e risorse. Struttura del laboratorio Per facilitare la comprensione dell’operazione proposta dal laboratorio, il corso sarà suddiviso in quattro sezioni: Lezioni ex-cathedra - verranno presentati movimenti, tendenze, protagonisti ed eventi, verranno proposti casi studio significativi relativi a opere d’arte, mostre, episodi, sperimentazioni all’intorno del tema di questo nostro “spazio altro”. Seminari - sulla base di una selezione di testi o di altri materiali grafici e audiovisivi, verrà dato vita a seminari di approfondimento settimanali relativi alle questioni del corso. Questi materiali saranno comunicati di settimana in settimana su iniziativa del docente, dell’assistente e degli studenti. L’insieme di questi materiali (testi, video, immagini), andrà a formare un atlante di riferimenti, di strumenti critici per l’attività del laboratorio. Inserzioni esterne - durante il corso studiosi,

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curatori, artisti, critici di passaggio a Venezia saranno invitati a raccontare le loro recenti ricerche ed esperienze. Colloqui e revisioni - gli studenti saranno invitati a esporre alla classe una sintesi dei lavori prodotti in questi ultimi anni, insieme ai progetti che verranno sviluppati durante tutte le fasi del laboratorio. Colloqui e revisioni sono pensati come appuntamenti settimanali di confronto collettivo, di scambio e di moltiplicazione delle prospettive analitiche relative al singolo progetto proposto. A partire dalle suggestioni teoriche proposte nelle lezioni, nei seminari e nelle inserzioni esterne, il laboratorio condurrà i partecipanti al corso a ideare e realizzare singoli eventi espositivi, completi in ogni loro parte, sia nel senso del cosa esporre, sia del sove e come esporre, tenendo sempre e fin da subito a mente la necessità di mantenere l’esposizione “aperta”, sempre in “movimento”, anche oltre la fine dell’esposizione stessa attraverso la progettazione della documentazioni di ogni sua fase e realizzazione. Progetto In relazione ed in risposta ai temi affrontati durante le lezioni, i seminari e le inserzioni, gli studenti saranno invitati ad elaborare un progetto in cui l’opera, l’azione o lo scritto prodotti trovino non solo forma ma anche spazio. Singolarmente o in piccoli gruppi gli studenti dovranno individuare uno spazio alternativo per la realizzazione, l’installazione, l’esposizione o l’esecuzione del lavoro. L’ideazione del lavoro dovrà essere elaborata in forma di progetto scritto; la sua messa in atto si svilupperà e sarà discussa con docente ed assistente durante l’intera durata del laboratorio, e culminerà in una serie di eventi-presentazioni che avranno luogo nelle ultime tre settimane di laboratorio. Il calendario di queste presentazioni sarà concordato con la classe. Esame La prova finale di profitto consisterà nella presentazione da parte di ogni singolo studente di una documentazione relativa al progetto. Per i lavori realizzati in gruppo, ogni studente deve presentare la propria documentazione. Questa dovrebbe consistere in un reportage che raccolga ogni sorta di materiale utilizzato nelle fasi di ideazione, studio, presentazione preliminare, realizzazione e presentazione del progetto. La forma ed il supporto di questo reportage saranno lasciati alla volontà delgi studenti.

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ABSTRACT PAOLINI FRANCESCO MARIA COSRO DI LAUREA IN ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO SESSIONE INVERNALE HANDLE WITH CARE. IL COMPLESSO RAPPORTO FRA CRITICA, ARTE, POLITICA RELATORE: AGNES KOHLMEYER ABSTRACT IN ITALIANO

Handle With Care. Il complesso rapporto fra critica, arte, politica. Esiste oggi una “responsabilità sociale dell’artista e dell’arte”? Come si identifica? Come si esprime? Che ruolo ha l’artista contemporaneo di fronte al contesto in cui opera? Esiste ancora una prospettiva etica dell’artista o del critico curatore? Occuparsi del contesto sociale snatura o aiuta l’arte? L’argomento scelto per la mia tesi deriva dalle riflessioni fatte ed dalle esperienze compiute durante tutto il percorso di studi e ne vuole rappresentare, per certi versi, la sintesi. In questi anni di studio ho avuto modo di riflettere a

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lungo sulle questioni che animano il dibattito intorno all’arte sia per quanto concerne i suoi aspetti teorici (modernismo, post-modernismo, la funzione e la figura dell’artista, i rapporti sempre più complessi che ha instaurato con il pensiero filosofico, tanto per citarne alcuni), sia per quanto riguarda i modi in cui questa si esplica nel “fare” artistico (tecniche, tecnologie, intermedialità, contaminazioni, e via di questo passo). L’arte è fuoriuscita dal suo alveo “naturale”, per lo meno quello in cui comunemente si intendeva dovesse rimanere, per invadere ogni ambito in cui si esplica la nostra vita. Nel corso degli ultimi due decenni il numero degli eventi legati all’arte, la quantità dei luoghi deputati alla fruizione degli stessi ed il pubblico che li frequenta sono andati via via aumentando, così come la schiera di quanti si fregiano, a torto o a ragione, della titolarità di artisti e di coloro che, in un modo o nell’altro, gravitano professionalmente attorno a questo mondo. Il sistema dell’arte ha assunto una dimensione ed una organizzazione tali da costituire un presupposto ineludibile per chi voglia vivere pienamente (nel)la contemporaneità. Il rischio che si corre, a mio modesto avviso, è ovviamente quello che si produca uno scollamento tra la richiesta di intervento artistico (l’arte non dovrebbe forse aprire a visioni possibili riguardo alla vita?) e la risposta che questa riesce a fornire (l’arte non dovrebbe avere a che fare comunque con la vita?): il pericolo della auto-referenzialità è sempre presente. Ritenendo che l’arte, in quanto “disciplina” che indaga la vita nel suo manifestarsi, debba farsi carico anche di aspetti sociali e politici cercando di far emergere contraddizioni e istanze che altrimenti andrebbero perse, ho cercato di fornire una risposta che ritengo possa essere considerata come la manifestazione concreta di questa possibilità.

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ABSTRACT PAOLINI FRANCESCO MARIA COSRO DI LAUREA IN ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO SESSIONE INVERNALE HANDLE WITH CARE. IL COMPLESSO RAPPORTO FRA CRITICA, ARTE, POLITICA RELATORE: AGNES KOHLMEYER ABSTRACT IN INGLESE

Handle with care. The complex relationship between critics, art, politics. Does a “social responsibility of the artist and art” exist today? How do you identify it? How is it does expressed? What is the artist’s role in the context in which he work? Does the artist or curator have still an ethical perspective? Does addressing the social context help or pervert art? The subject of this thesis derives from and observations and experiences that were part of the course of study in Design and Art.

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In these years the issues underlying the debate about art both in its theoretical aspects (modernism, post-modernism, the role and the figure of the artist, the increasingly complex relationship with the philosophical thought,...), and practical means that is the ways in which art expresses in its making (techniques, technologies, inter-contamination). Art has broken out of its “natural” channel - at least the one in which it was commonly intended to remains - to invade every area of our life. Over the past two decades the number of events related to art, and the number of sites at where they are held have gradually increased, as the ranks of those who, rightly or wrongly, boast claim to be artists and those who, in one way or another, professionally gravitate around this world. The art system has become an organization and a dimension that constitutes an essential prerequisite for those who want to live fully (in) the contemporaneity. The risk is a possible separation between the demand for artistic intervention (should not art open to possible visions about life?) and the response that this can provide (should not art have to do with life anyway?). The danger of selfreferentiality is always present. This thesis sustains that art as a “discipline” that must explore life as it unfolds should also bear the social and political responsibility of bringing out contradictions and claims that would otherwise be lost, it is the concrete manifestation of this possibility.

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