IL GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE

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IL GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE


IL GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE


PRESENTAZIONE GLOSSARIO (GIAMPIERO LUPATELLI)

GLOSSARIO a

INDICE

1. 2. 3. 4. 5. 6.

ABITARE (FATIMA ALAGNA) ACCESSIBILITÀ (LUCIO RUBINI) ANTIFRAGILITÀ (GIAMPIERO LUPATELLI) AREE DISMESSE (DIONISIO VIANELLO) ARTIGIANATO (FABIO BEZZI) AT TRAT TIVITÀ (FRANCESCA ALTOMARE, SABINO ALVINO, GIANANDREA ESPOSITO, CELESTE PACIFICO)

b 7.

BORGHI (FABIO RENZI)

c 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

CAMBIAMENTO CLIMATICO (CERTIMAC) CASERME (FRANCESCO EVANGELISTI) CICLOPEDONALITÀ (SIMONA LAGHETTI) COLLET TIVITÀ (RITA PARESCHI) COMUNITÀ (PAOLO VENTURI) CONSUMO DI SUOLO (FATIMA ALAGNA) COOPERATIVE DI COMUNITÀ (GIOVANNI TENEGGI) COOPERAZIONE (MAURIZIO BRIONI)

d 16. 17.

DEMANIO (LORENZO BALDINI) DIGITALE (LORENZO CIAPETTI)

e 18.

ECOLOGIA URBANA (SONIA CANTONI)


f 19. 20. 21. 22. 23. 24.

p FABBRICHE (FEDERICO DELLA PUPPA) FAMIGLIE (GIANLUIGI BOVINI) FINANZA D’IMPAT TO (KRISTIAN MANCINONE) FOOD STRATEGY (DANIELA STORTI) FORMAZIONE (PAOLA CAPRIOTTI) FRAGILITÀ (CERTIMAC)

g 25.

GOVERNANCE (MAURIZIO BRIONI)

h 26.

HOUSING SOCIALE (ROSSANA ZACCARIA) INFRASTRUT TURE SOCIALI (GIAMPIERO LUPATELLI) INNOVAZIONE SOCIALE (KRISTIAN MANCINONE)

l 29. 30.

LAVORO (FEDERICO DELLA PUPPA) LONGEVITÀ (GIANLUIGI BOVINI)

m 31. 32.

MASTERPLAN (LORENZO BALDINI) METROMONTAGNA (ANTONIO DE ROSSI)

n 33.

r 39. RESILIENZA (DANIELE MONTRONI) 40. RESPIRO (FAUSTO VIVIANI) 41. RICOSTRUZIONE (SABRINA CIANCONE) 42. 43. 44. 45. 46. 47.

SCUOLE (ANDREA MORNIROLI) SMART SPECIALIZATION STRATEGY [S3] (SERENA MAIOLI) SOLUZIONI BASATE SULLA NATURA INFRASTRUT TURE AMBIENTALI (LUISA RAVANELLO) SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE (GABRIELE BOLLINI) SOSTENIBILITÀ ECONOMICA E SOCIALE (TOMMASO DAL BOSCO) SPAZIO PUBBLICO (ELENA FARNÈ E LUISA RAVANELLO)

t NATURA (GUIDO TALLONE)

o 34.

PARCHI (IPPOLITO OSTELLINO) PARTECIPAZIONE (BARBARA LEPRI) P.N.R.R (MAURIZIO BRIONI) PROSSIMITÀ (GABRIELE BOLLINI)

s

i 27. 28.

35. 36. 37. 38.

48.

TERRE ALTE (MARCO BUSSONE)

u ORGANIZ ZAZIONE (LUCIANO PERO)

49. 50.

URBANISTICA (SILVIA VIVIANI) USI TEMPORANEI (ELENA FARNÈ)


GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE


GLOSSARIO

DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE

Ci informa il Vocabolario Treccani che “glossàrio s. m. [dal lat. glossarium, derivato da glossa dal greco ]” è la”raccolta di vocaboli, per lo più antiquati o rari, o comunque bisognosi di spiegazione, registrati in genere in ordine alfabetico e seguiti dalla dichiarazione del significato o da altre osservazioni”. Ci informa anche che “Il termine è stato anche usato talvolta (specie nella forma latina) come sinonimo di lessico” che, per il medesimo Vocabolario Treccani è a sua volta, nella seconda accezione, “Il complesso dei vocaboli e delle locuzioni che costituiscono una lingua, o una parte di essa, o la lingua di uno scrittore, di una scuola, o di un qualsiasi parlante” Pensiamo allora che il nostro Glossario [o Lessico] della Rigenerazione Urbana e Territoriale, che certamente non raccoglie vocaboli antiquati o rari, debba essere inteso come la parte della lingua che raccoglie i parlanti della comunità di senso della Rigenerazione Urbana che ha bisogno di spiegazione. Ne ha bisogno, innanzitutto per la densità di significati che associamo ad ogni lemma e per la loro complessità, che richiede un commento accurato per non essere fraintesa. Al tempo stesso ne ha bisogno perché ciascun lemma di significati ne può avere più di uno, ed è d’obbligo indicare nel contesto quale è il significato che si vuole sottolineare. Ne ha bisogno ancor di più quando il testo di cui si costruisce la glossa ha il carattere apodittico e assertivo del nostro Manifesto che assai poco spazio lascia ad approfondimenti e chiose. Abbiamo immaginato per questo che il glossario/lessico della Rigenerazione Urbana e territoriale dovesse affrontare due scogli ed assumere due caratteri costitutivi. Il primo scoglio è quello segnato della ampiezza di campo con cui il discorso della Rigenerazione si misura, figlia dell’ essere questa pratica - per sua natura e per esigenza costitutiva – esercizio di una scorreria in molteplici campi disciplinari, talvolta anche molto lontani tra loro. Alla ampiezza si può rispondere solo con la consapevolezza della parzialità di ogni risposta, anzi con la ostentazione di questa consapevolezza. Per questo abbiamo titolato in nostro glossario “50 PAROLE PER IL GLOS-

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a cura di

Giampiero Lupatelli (CA I R E C o n s o r z i o)

SARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA” ben consci che le parole avrebbero potuto (e forse dovuto) essere 100 o più per delimitare con maggiore credibilità lo sforzo ma che questo era lo sforzo che ora ci potevamo permettere. Il secondo scoglio, lo abbiamo accennato, è la polisemia dei lemmi che trattiamo e dei concetti che attraverso questi vogliono farsi strada nel nostro pensiero e nella nostra azione. Abbiamo immaginato di rispondere a questa difficoltà caratterizzando ogni lemma in termini autoriali. Il glossatore, per questo, è tutt’altro che una figura neutrale, che registra oggettivamente i significati che la lingua ha consolidato nell’uso. Diventa invece autore a pieno titolo di un messaggio che vuole trasferire e, naturalmente, sottoporre al vaglio e alla critica della comunità di parlanti che in quel lessico si riconosce. Parzialità del lessico e autorialità delle glosse, sono condizioni che, combinate assieme, promuovono prepotentemente l’istanza di una terza condizione. Che è quella della pluralità delle voci da coinvolgere in questa nostra avventura. Voci che hanno risposto con registri stilistici diversi, talvolta con la precisione della definizione accademica, in altri casi privilegiando l’empatia del discorso civile o l’evocazione della narrazione letteraria. Voci diverse. Ma la struttura armonica dello spartito sembra tenere. Parzialità, autorialità e pluralità sono caratteri che immaginiamo correlati in modo non contingente a questo nostro sforzo. Ad esso non pensiamo solo come il primo stadio del propulsore che deve portare in orbita il Manifesto, sostenendolo con l’energia e – speriamo - lo spessore delle argomentazioni. Pensiamo piuttosto ad una navicella che avrà anche essa il suo corso, accompagnando i tentativi del Manifesto di farsi pratica e di generare buone pratiche. Accompagnandolo con una riflessione più profonda e più matura. Più estesa, anche, nella articolazione dei lemmi e nel numero dei glossatori. Con la aspirazione confidente che il lavoro sulla lingua sia sempre un importante esercizio di igiene decisionale, utile ad attutire e neutralizzare il rumore dal quale ogni azione umana è distratta.

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PAROLE

PER UN GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE


ABITARE

L’uso del verbo abitare ci induce a mettere al centro della riflessione colui che abita e cioè l’abitante, la persona, con il suo modo di vivere e le sue reti di socialità più o meno estese. Tutto ciò ha incidenza sulle modalità con cui si esprime la domanda di abitare e sulla sua evoluzione nel tempo. In questo momento particolare, questa mutevolezza del modo in cui può declinarsi l’abitare ci appare in tutta la sua chiarezza poiché stiamo vivendo un cambiamento epocale di abitudini legato alla pandemia i cui effetti avranno, presumibilmente, una più lunga durata. E’ tuttavia difficile prevedere quali aspetti di questa forzata nuova quotidianità si radicheranno nel tempo. Diventa certamente più chiara ed urgente la domanda di spazi, alloggi, edifici in grado di adattarsi, al bisogno, a condizioni diverse (anche temporanee) da quelle per le quali originariamente sono stati progettati. Le nostre abitazioni saranno probabilmente molto più di prima luoghi nei quali ciascuno di noi vivrà una parte della propria giornata anche lavorativa; questo richiede spazi multifunzione, isolabili dalle altre parti dell’alloggio. Nel contempo è cresciuta la domanda di spazi aperti e verdi di piccola dimensione/ interni/esterni da potere gestire anche in piccole reti di comunità. Ovviamente le connessioni digitali devono essere adeguate e garantite a tutti: internet veloce come requisito di agibilità dell’alloggio, al pari della fornitura di gas, luce ed acqua. Ci sono due rischi da evitare: da un lato che tutto ciò si traduca in una crescita delle disuguaglianze e dall’altro in una perdita di relazioni sociali con il contesto urbano.

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a cura di

Fatima Alagna ( Po l i t e c n i c a)

Nel nostro paese è in crescita il fabbisogno di abitazioni in affitto a prezzi accessibili; da molti anni tuttavia non ci sono politiche pubbliche specificamente dedicate a dare risposte adeguate a questa domanda. Gli scenari demografici sono segnati dal perdurante calo delle nascite e dall’invecchiamento; molte delle nostre città si trovano a dovere dare risposte alle esigenze dell’abitare e del welfare rivolto agli anziani ma, nel contempo, devono trovare il modo di attrarre giovani famiglie. Occorre una strategia pubblica in grado di promuovere (e sostenere dove necessario) un mercato di edilizia sociale da declinare in forma innovativa ed integrata con un rinnovato sistema dei servizi; il tutto all’interno dell’obiettivo della rigenerazione urbana e del consumo di suolo a saldo zero. E’ questo anche il momento giusto per mettere in discussione il nostro modo di abitare la città. Se possiamo lavorare nella nostra abitazione o vicino (certamente non sempre), possiamo costruire un nuovo rapporto con gli altri momenti della vita e questo potrebbe restituire vitalità a parti delle nostre città, garantendo nuova sostenibilità economica a servizi e commercio di prossimità. Nelle zone periferiche delle città, specie in quelle di medie dimensioni, vi sono numerosi spazi potenzialmente recuperabili nell’ambito di un diverso modo di vivere il quotidiano. Potrà così cambiare il rapporto con parti di città che oggi chiamiamo periferie ed, in prospettiva, anche i centri di minori dimensioni ed i borghi potrebbero fornire risposte ai nuovi bisogni in uno schema di vita in cui lo spostamento fisico quotidiano verso i grandi centri assumerà minore rilievo rispetto ad altri valori.

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ACCESSIBILITA’

La città accessibile è una città di relazioni, materiali e immateriali. La sua qualità sta proprio qui: moltiplica gli scambi, accelera il movimento, densifica le connessioni. Fa correre il potenziale di socialità e interazione, per far vivere a pieno l’opportunità urbana. Costruisce le reti corte della prossimità, dove ri-sincronizza le abitudini su tempi di vita più sostenibili; abbassa il ritmo e l’intensità degli spostamenti e ridiscute il tempo come la merce di scambio tra la città e i suoi abitanti. Con un obiettivo ambizioso: riconciliare l’esperienza urbana a partire da una dimensione umana e non dal possesso (o utilizzo) dell’automobile. Da una parte offre più lentezza, e dall’altra una migliore qualità delle relazioni, dal punto di vista sociale e spaziale. La città accessibile usa la densità spaziale per aumentarne il valore relazionale, dove il gradiente di prossimità è un dato già acquisito, da svelare e moltiplicare. Ma non espande l’esistente: a partire dagli asset pubblici, ibrida le funzioni già attribuite, riusa il patrimonio sottoutilizzato per moltiplicarne (densificarne) l’uso e il pubblico. Ma la città accessibile costruisce la prossimità non per ottenere delle enclave. Usa questa dimensione per generare dei sistemi connessi tra loro, dove vivere l’insostituibile rapporto di scambio con la dimensione urbana. In una relazione tra il dentro e il fuori, tra il quartiere e la città fatta di quartieri. In altre parole, è una città che si muove e densifica le reti corte, ottimizza le reti lunghe, e salta da una dimensione all’altra con facilità e continuità. Per la dimensione fisica, una città accessibile ha nella mobilità il siste-

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a cura di Lucio Rubini ( U r b a n & M o b i l i ty M a n ag e r)

ma per garantire questo scambio. E i nodi della mobilità quei gateway territoriali dove avviene questo passaggio. Cosa sono questi nodi, e cosa potrebbero essere? Sono “mobility-hub”, nodi complessi capaci di coniugare la diffusione capillare delle reti di mobilità sostenibile all’interno dei singoli tessuti urbani, e dall’altro, di connetterli ad orizzonti di spostamento sulla scala più vasta. Supportano le reti corte della prossimità, car-free, veri e propri ecosistemi per la mobilità attiva. Offrono un set di opzioni per gli spostamenti del primo e ultimo miglio, altamente personalizzate e flessibili: mobilità ciclabile, pedonale, servizi in sharing, trasporto pubblico. E allo stesso modo aumentano la connettività delle reti lunghe multilivello: verso la dimensione urbana, poi metropolitana, fino a quella globale. Sono Hub perché spostano il senso da una dimensione strettamente funzionale a una capacità generativa per i contesti in cui sono inseriti. Luoghi da attrezzare per creare centri urbani vitali con funzioni e servizi alla persona e alle imprese, per migliorare sicurezza e vivibilità. Intervenire su questi punti è una partita alla portata di mano. Per realizzare quel movimento necessario di apertura e scambio verso l’esterno, di commistione tra un riequilibrio e accorciamento delle reti. Per realizzare una città vicina, aperta, e quindi più inclusiva. In poche parole, una città accessibile.

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ANTIFRAGILITÀ

Nei momenti più bui della primavera 2020, quando la pandemia da Covid 19 imperversava nel Paese e i suoi echi incombevano minacciosi su tutto il mondo, il termine antifragilità ha cominciato a fare capolino nella riflessione di una società che di colpo aveva (ri)scoperto un significato inatteso (ma in realtà non nuovo) della globalizzazione. Nella circostanza ci siamo accorti di dover rivedere parti non marginali del nostro lessico familiare. Antifragilità è una parola coniata dal matematico americano Nassim Taleb nel suo fortunato libro “Il cigno nero” nel quale affronta il tema di un allineamento non impossibile di condizioni avverse che, nell’orizzonte contemporaneo dominato dalla complessità, rende possibile anche ciò che è largamente improbabile: il cigno nero appunto. L’antifragilità è dunque l’opposto della fragilità, della possibilità cioè di un oggetto (ma più propriamente nel contesto della riflessione di Taleb e della nostra, di un sistema, fisico, biologico o sociale) di frantumarsi per effetto dell’urto ricevuto da un evento inatteso. Opposto di fragilità non è robustezza, perché gli oggetti più robusti, portati oltre la loro soglia di resistenza, rischiano di frantumarsi in una deflagrazione ancora più estesa e dirompente. Non è nemmeno resilienza, cioè la capacità di assorbire un urto piegandosi alla sua forza per ritornare quando questa è cessata alla propria configurazione iniziate. Antifragilità è, molto più ambiziosamente, la capacità di un sistema di sostenere un urto, assorbirne l’energia e convertirla nel miglioramento delle proprie prestazioni. Ha molto a che fare con la capacità di apprendere. Quella della antifragilità è parsa ad alcuni una metafora appropriata ad interpretare le esigenze, prima ancora che la possibilità, dei sistemi so-

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a cura di

Giampiero Lupatelli (CA I R E C o n s o r z i o)

ciali impattati dalla pandemia – quello delle cure sanitarie in primo luogo – di non tornare semplicemente alla condizione pre-esistente allo shock pandemico ma di migliorare la propria efficacia nel contrastare eventuali ulteriori e successivi impatti. Implicito nella aspirazione a cogliere e rappresentare questa esigenza è sicuramente il giudizio che lo status quo ante non fosse quello del migliore dei mondi possibili. Che, ad esempio, la ricerca di eccellenze sempre più elevate e specializzate nella cura degli acuti, generate e sostenuta dalla concentrazione delle funzioni ospedaliere in forme sempre più spinte e in realtà sempre più circoscritte, anche a discapito di altri presidi della salute legati invece alla cronicità e alla prevenzione, potesse rivelarsi di straordinaria fragilità. All’opposto la capacità invece di disporre di strutture più distribuite, con riserve di capacità e circuiti di ridondanza che l’emergenza può più facilmente chiamare in servizio, rappresentasse una fonte di antifragilità decisiva per reggere l’urto di uno shock come quello della pandemia che azzera il valore della densità, diventata fattore di contagio, e riduce drasticamente l’esercizio della mobilità come strumento ordinario di funzionamento di sistemi territoriali troppo polarizzati. Facendoci scoprire che non sempre l’efficienza, ricercata talvolta con troppa ostinazione, garantisce anche l’efficacia dei sistemi complessi, quando ne semplifica oltremodo la articolazione. Una lezione di grande valore per le pratiche della rigenerazione, nelle quali le città e i territori forse possono mostrare proprio le loro doti di antifragilità.

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AREE DISMESSE Per inquadrare il tema conviene rispondere ad un quesito preliminare: quando il termine aree dismesse entra a far parte del vocabolario dell’urbanistica? In che tempi ed in quale quadro di riferimento economico e sociale? Storicizzare il concetto relazionandolo ai due principali modelli di sviluppo che hanno caratterizzato la storia della città intrecciandosi l’uno con l’altro – la crescita esterna e/o la trasformazione interna – sempre tenendo conto che senza alcun dubbio le aree dismesse rappresentano una declinazione – di certo la più privilegiata - del secondo paradigma. Non basta. I processi di trasformazione urbana sono condizionati in maniera determinante dall’andamento dell’economia e dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. In situazioni di stabilità prevale in genere la linea dello sviluppo, mentre in presenza di rotture del ciclo è predominante il concetto di trasformazione. Il termine aree dismesse entra infatti nell’uso comune nella fase di passaggio dal secondario al terziario, quando le vecchie industrie della prima industrializzazione entrano in crisi, si chiudono le fabbriche liberando spazi immensi all’interno del tessuto urbano. Questo è il momento in cui si comincia a parlare di aree dismesse. Il processo parte dalla grande industria – FIAT Lingotto a Torino, Pirelli Bicocca a Milano – ma presto si estende anche ai centri minori. L’urbanistica, dopo aver favorito per anni la crescita delle città, è costretta ad affrontare il tema della riqualificazione delle aree dismesse. La destinazione terziaria – palazzi per uffici e centri commerciali – sembra la più idonea per riempire gli spazi liberati dalla manifattura, e così infatti avviene. Bisogna però aspettare gli anni ‘90 perché il mondo politico e le amministrazioni locali affrontino in modo coerente il problema. Il Decreto Fontana del 1994 avvia un processo sistematico di trasformazione delle aree dismesse, in gran parte ex industriali alle quali si aggiungono le sedi abbandonate di strutture e servizi pubblici, - ospedali e caserme – che hanno cessato la loro attività. Il processo assume connotati propri, tanto che si avverte l’esigenza di coniare un nuovo termine, rigenerazione urbana. Nel giro di poco più di

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a cura di

Dionisio Vianello (AU D I S)

un decennio cambia il volto di molte città italiane, secondo una direttrice che sembra destinata a continuare senza intoppi. Invece arriva la crisi finanziaria del 2008 che blocca il processo provocando la caduta della domanda. Tranne qualche città mondiale in tutte le altre si contano a decine i cantieri chiusi e i progetti abbandonati. Tuttavia la dismissione continua interessando aree sempre più numerose e vaste, innescando processi di desertificazione e di degrado ambientale e sociale che coinvolgono intere parti della città. Nel frattempo è però intervenuto un fattore destinato a cambiare radicalmente il quadro preesistente: gli effetti dirompenti del modello consumistico minacciano seriamente l’equilibrio del pianeta. Le conseguenze non si avvertono più solo alla scala locale, come consumo di suolo e degrado ambientale, ma investono gli assetti climatici provocando calamità e disastri a non finire. Nasce una coscienza verde che, sia pure tra mille intralci e difficoltà, sembra finalmente in grado di condizionare i governi nazionali. Il mondo sta nuovamente cambiando, si sta entrando in una nuova fase condizionata dalle tecniche della comunicazione che stanno globalizzando l’universo intero, Una vera e propria rivoluzione che avrà effetti dirompenti sull’intero campo delle attività umane. La pandemia ha accelerato la transizione verso nuovi orizzonti . L’e-commerce mette in crisi i centri commerciali tradizionali, nel mondo del lavoro si afferma lo smart working riducendo gli spazi dedicati ma trasferendoli nelle abitazioni. Saranno questi i fattori trainanti della nuova generazione? I centri commerciali e le torri per uffici nel cuore della città, realizzati in quantità sproporzionata rispetto alla domanda reale, saranno il campo privilegiato dove si giocherà la partita. Da Parigi a Milano l’ipotesi del quarto d’ora di percorso tra casa e lavoro non sarà certo in grado di cambiare l’organizzazione della città, ma è indicativo di una direttrice da seguire. Il processo, eterno come la città, ricomincia da capo.

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ARTIGIANATO

Artigiano è chi esercita un’attività lavorativa per la produzione di beni attraverso il lavoro manuale o l’utilizzo di attrezzi e macchinari senza una lavorazione in serie. Ma un artigiano è soprattutto un lavoratore capace di connettere l’esperienza delle mani con il saper fare della testa. L’etimologia di artigiano, come noto, ha la provenienza dalla parola principale “arte” che a sua volta deriva dal latino “ars, artis” ad indicare ogni abilità materiale e spirituale. Spirituale: perché è il cuore che insieme alle mani e alla testa dà sostanza al saper fare, al saper applicare, al sapere creare. Gli artigiani sono eterni testimoni dell’Italia operosa, sono la rappresentazione più alta e degna del Paese che “ce la fa”, di un Paese che dà valore al lavoro e che è capace di dare valore alle persone che intraprendono, mettendo impegno, determinazione e passione nelle cose che fano. Gli artigiani sono famiglia, comunità, appartenenza, inclusione, territorio. Gli artigiani sono maestri di esperienza e di lavoro, instancabili operatori. Artigiani nobili, creativi. Che fanno crescere le nostre comunità e ci riempiono di fiducia. Artigiani che guardano alla tradizione e che si proiettano nel futuro. Che si reinventano, che sperimentano.

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a cura di

Fabio Bezzi (C N A)

Artigiani che nascono tra le terre di questa nostra regione e che di questa regione vogliono esserne storia. Artigiani che trasformano la nostra cultura in tradizione e saper fare. Che attraggono il turismo, e che lasciano, in chi li osserva, un incanto che porterà lontano. Artigiani che sono unici, come i beni che producono. Artigiani che sono ingegno, come le idee che realizzano con le mani. Artigiani che nelle loro botteghe insegnano la tradizione e il mestiere alle giovani generazioni per mantenere salda la nostra storia. Essere dentro questa comunità, conoscerne il percorso, ed essere capaci di intravedere strade nuove per raggiungere nuovi traguardi: questi gli obiettivi da affrontre con uno spirito coraggioso, che si alimenta con l’energia di tutti, e che muove, e fa girare la nostra storia. Ci sono tanti modi per scrivere la storia di una comunità: nelle nostre origini c’è il nostro segreto, la nostra tradizione, che continua e si evolve, contaminandosi nel rapporto con gli altri. Oggi siamo davanti a nuove opportunità, nuovi capitoli di uno stesso percorso che ci ha portati fino a qui e che ora si arricchisce, con nuove mutazioni, per avvicinarci a un domani che è già il nostro presente.

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ATTRATTIVITÀ

a cura di Francesca Altomare, Sabino Avino, Gianandrea Esposito, Celeste Pacifico (Art-ER)

L’attrattività territoriale definisce la capacità di un territorio di sviluppare e valorizzare i propri asset in funzione del mantenimento e dell’attrazione di determinati target e risorse, nell’ambito di una visione strategica di sviluppo territoriale. Questa breve definizione racchiude diversi elementi complessi da analizzare. L’attrattività è innanzitutto un concetto relativo al tipo di target di riferimento, quindi un territorio può risultare più o meno attrattivo a seconda dell’obiettivo considerato. Un elenco (non esaustivo) di macro-gruppi di target può includere: residenti/cittadini, imprese/investimenti, talenti, visitatori/turisti, ecc. Tali macro-gruppi possono avere alti livelli di integrazione tra di loro (es. impresa innovativa ad alto impatto occupazionale attrae investimenti, talenti, famiglie), ma possono anche essere in conflitto (es. infrastrutture a danno della qualità ambientale). Anche il tema della rigenerazione urbana è trasversale rispetto a diverse tipologie di target, è quindi importante considerare le specificità di azioni e contesti. Altro elemento essenziale dell’attrattività di un territorio sono gli asset che possono essere raggruppati in capitali territoriali (ambientale, insediativo/infrastrutturale, socio-culturale, economico, umano, istituzionale, ecc.). L’attrattività di un territorio è strettamente legata alla qualità di tali asset, che presentano connessioni dirette col tema della rigenerazione urbana, come ad esempio la qualità urbana, le infrastrutture e i relativi servizi. Queste due prospettive dell’attrattività, a partire dai target e dagli asset, devono necessariamente dialogare all’interno di una visione strategica di sviluppo territoriale dove il ruolo dell’azione politica e degli attori territoriali è determinante. In questo ambito, un territorio individua obiettivi, punti di forza, opportunità per il futuro, misure e azioni concrete. L’attrattività opera su diversi livelli territoriali (locale, regionale, nazionale,

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europeo) e coinvolge diverse tipologie di attori. La capacità di integrazione orizzontale e verticale tra livelli territoriali e attori rappresenta un fattore essenziale per il successo delle politiche e le azioni orientate a supporto di questo tema. Un ulteriore elemento riguarda la percezione e la rappresentazione del territorio, che ha l’obiettivo di mettere in valore gli asset e le azioni affinché arrivino al target di riferimento attraverso una narrazione efficace. L’attrattività infatti è legata anche alla competizione tra diverse aree territoriali, dove l’immaginario e la reputazione legati a un territorio giocano un ruolo chiave. Progetti di rigenerazione urbana possono diventare un fattore importante anche in questa prospettiva. Negli ultimi anni il termine “attrattività” è stato adottato con maggiore frequenza all’interno di documenti programmatici. In Emilia-Romagna, diverse politiche regionali legano tale tema a quello della rigenerazione urbana, spaziando dalla tutela del territorio alla promozione e all’accompagnamento e supporto agli investimenti preferiti per un determinato contesto. Uno dei principi guida è quello della limitazione dell’uso di suolo. Dal livello regionale alle normative di pianificazione locale, nell’ambito della promozione di investimenti vengono infatti favorite le aree brownfield rispetto alle greenfield. L’offerta di spazi e di aree in grado di ospitare attività produttive comprende anche le aree dismesse, spesso non più rispondenti alle necessità attuali e che faticano a trovare un riutilizzo o una valorizzazione alternativa, nonché i progetti che riguardano aree di grandi dimensioni in fase di sviluppo (es.: Tecnopolo di Bologna, DUMBO) che si presentano come importanti hub di attrazione. L’accompagnamento all’investitore nelle varie fasi di insediamento ha anche l’obiettivo di indirizzarlo verso questo tipo di opportunità

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BORGHI

“Talora il territorio rigenera la città distrutta» Carlo Cattaneo “La città come principio ideale delle istorie italiane” Come mai la peste del 1348 è un riferimento così presente nelle nostre riflessioni sulla pandemia rispetto ad altre manifestazioni dello stesso morbo passate alla storia, dall’Atene di Pericle alla Bisanzio di Giustiniano, o di epidemie di natura diversa ma non meno terribili come quella che fece vacillare Roma e il suo Impero all’epoca di Marco Aurelio? La tesi dello storico Alessandro Barbero è che “…la peste del 300 investe un mondo che è già il nostro mondo…investe un’Italia che è già riconoscibilmente la nostra Italia…e quei ragazzi di cui racconta il Decameron che per sfuggire la peste lasciano Firenze e se ne vanno in una villa in campagna, se ne vanno in quel paesaggio che è tuttora il paesaggio intorno a Firenze con le sue colline e le sue ville…”. Nonostante le rilevanti trasformazioni territoriali avvenute, soprattutto nel novecento, la percezione del paesaggio italiano rimane legata a strutture insediative e geografie profonde generate dalle dinamiche culturali, politiche, sociali ed economiche che portarono alla nascita dei liberi comuni tra la fine del XI e quella del XIII secolo. Ricordare che i 5.521 comuni sotto i 5.000 abitanti, che rappresentano il 69,85% del numero totale dei comuni italiani, sono sostanzialmente coincidenti con i borghi è utile ad evitare che si imponga di questi ultimi una visione deterritorializzata; rivolta ad un dentro, che esprime qualità urbane spaziali e architettoniche, e disattenta ad un fuori, che a causa dello spopolamento e dell’abbandono rischia di perdere le sue qualità produttive, ambientali e paesaggistiche. È certamente positivo che in in questi anni i borghi si siano affermati come nuova e originale destinazione turistica apprezzata da sempre più numerosi visitatori italiani e stranieri e, a causa della pandemia, in misura minore anche come luoghi dove poter tornare o scegliere di risiedere grazie al telelavoro. Campagne pubblicitarie nazionali (prodotti agroalimentari

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a cura di Fabio Renzi (Fondazione Symbola)

ed enogastronomici, grande distribuzione commerciale, operatori della telecomunicazione) documentari e servizi di televisioni e testate giornalistiche italiane e internazionali, il nuovo film Disney Pixar ambientato nei piccoli centri del Parco nazionale delle Cinque Terre e i 500 mila follower dell’Associazione “Borghi più Belli d’Italia” sono alcuni esempi che confermano l’affermarsi del borgo come uno degli oggetti del desiderio post-pandemico. Una attrattività che mostra però anche il suo lato distorsivo offrendo prevalentemente quella visione decontestualizzata, che rischia di essere riproposta anche dal Piano nazionale ripresa e resilienza quando, alla ricerca di una vocazione prevalente specifica da assegnare a ciascun borgo, propone come modelli e prototipi alberghi diffusi, residenze sanitarie per anziani e centri di ricerca universitari. Per evitare il rischio di produrre un catalogo di esperienze eccezionali, piuttosto che replicabili, le giuste e auspicabili singole opportunità sarebbe opportuno fossero il risultato di progettualità d’area vasta capaci di affrontare alla adeguata scala questioni decisive per la vita delle comunità come ad esempio quella dei servizi (sanità non residenziale, scuola, mobilità, commercio, energia) come previsto dalla legge Realacci per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni. Ed è la stessa crisi climatica a sollecitare una progettualità territoriale necessaria a mantenere il patrimonio di biodiversità attraverso un’agricoltura sana e di qualità, una gestione sostenibile dei boschi per renderli più protettivi e produttivi e un recupero e gestione dei terreni per prevenire i fenomeni di dissesto idrogeologico. Ritornando così a vedere il paesaggio come il tessuto connettivo al centro di uno spazio urbano policentrico di cui i borghi costituiscono i nodi. Evitando così la paradossale trasformazione dei borghi in castelli 2.0

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CAMBIAMENTO CLIMATICO

In climatologia i cambiamenti climatici o mutamenti climatici indicano le variazioni del clima della Terra, a diverse scale spaziali e storico-temporali di uno o più parametri ambientali e climatici nei loro valori medi come temperature, precipitazioni, temperature degli oceani e distribuzione e sviluppo di piante e animali e palazzi. La causa principale dei cambiamenti climatici è l’effetto serra. Il cambiamento climatico è tipicamente visto come un problema “ambientale” ma è necessario inquadrarlo anche in ambito psicologico. Poiché le barriere al comportamento pro-ambiente sono radicate nei processi psicologici, gli approcci risolutivi per combattere il cambiamento climatico devono incorporare significativi adattamenti psicologici. Riformulare il cambiamento climatico come un problema di salute pubblica, evidenziare le storie di successo e i benefici per la salute, concentrarsi

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a cura di

CERTIMAC

sul qui e ora, fornire una direzione specifica per il cambiamento del comportamento, e riconoscere gli imperativi morali, etici e altruistici sono tutte componenti importanti per affrontare con successo il problema del cambiamento climatico. Ognuno di noi si deve sentire parte attiva nella lotta ai cambiamenti climatici. Il risparmio dell’energia è uno dei primi passi. Puntare sull’efficienza e il risparmio energetico è una strategia di significativa importanza in cui il ruolo di ognuno di noi è fondamentale. Piccoli cambiamenti nelle nostre abitudini che riguardano l’utilizzo dell’energia possono portare ad un grande miglioramento per il pianeta da lasciare alle generazioni future.

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CASERME

Il termine “caserme” è molto presente nel parlare di rigenerazione urbana. “Complessi architettonici funzionalmente autonomi, attrezzati per la coabitazione disciplinata a scopo militare”, o più in generale di “insediamenti militari” di tipo diverso e di diverso impatto urbano. Le caserme sono luoghi particolari della storia urbana italiana: aree destinate ad usi militari negli anni ‘60-’70 del XIX secolo, da allora isolate, vivono solo di modifiche interne, per poi perdere via via la propria utilità a partire dalla seconda metà del XX secolo. Sono aree sottratte al mercato fondiario e quindi alla normale evoluzione degli usi nella città. Rispondono a logiche interne che hanno un difficile dialogo con la città: logiche esclusive ed estranee perché forti (per l’unicità del comando e la disponibilità della proprietà dei suoli), a fronte di politiche urbanistiche comunali sempre fragili. Logiche che per molti anni hanno opposto (e in certi casi continuano ad opporre) una forte resistenza alla sdemanializzazione, anche quando la cessazione degli usi era evidente. Aree sempre molto ampie in relazione alle dimensioni urbane, la cui origine è legata a motivazioni strategiche precise (le fortificazioni: mura, valli, cittadelle…): perse queste, alle aree rimane un valore enorme per nuove strategie urbane. Ciò vale anche per altre destinazioni militari (i contenitori storici svuotati e destinati all’uso militare, come i conventi), pure originariamente localizzate sulla base di relazioni urbane importanti: rapporti urbani che vengono interrotti, proprio nel momento della maggiore spinta alla trasformazione urbana moderna di fine ‘800. Oggi non possiamo non riconoscere il valore di bene culturale delle caserme, per la loro storia nel contesto dello stato unitario e per le continuità/discontinuità con gli stati pre-unitari. Un valore anche sociale, legato all’esperienza dei soldati di leva e dei lavoratori nelle caserme, alle relazioni che poi attraverso le porte, oltre il muro, hanno attribuito

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a cura di

Francesco Evangelisti (C o m u n e d i B o l o g n a)

alle caserme un’immagine e una presenza particolare nella scena urbana. Da questa complessa storia derivano i caratteri, complessi e unici, con i quali le caserme si propongono oggi ad operazioni di rigenerazione urbana, di passaggio dalla rigidezza degli insediamenti militari alla mutevolezza propria del contesto urbano: • lo Stato dovrebbe ripensare gli strumenti per la valorizzazione di beni pubblici, considerando in maniera realistica le difficoltà della comunicazione tra demanio militare e comunale. Bilanciando diversamente nei propri strumenti il concetto di “valorizzazione”, tra interesse economico e interesse sociale; • il Comune che si confronta con questi beni non può farlo al di fuori di una visione urbana forte: cosa vuole da queste aree, entro quale quadro strategico esse assumono valore. Con una nuova consapevolezza della necessità di una lunga durata delle decisioni, perché il tempo della rigenerazione è un tempo lungo; • è necessario lavorare ancora molto sulla conoscenza di queste aree, sulla loro storia, quindi sul loro valore culturale, ma anche sui caratteri ambientali che gli usi dell’ultimo secolo hanno impresso sui suoli e sugli edifici, sulle necessità di bonifica che tanto incidono sul valore economico e quindi sulla possibilità di trasformare; • in una logica di nuova generazione, che abbia i caratteri della strategicità, dell’integrazione e della inclusività, come quella proposta dal Manifesto, non può essere trascurato il valore, ma anche l’onere, di un concreto e fattivo protagonismo di chi vive la città oggi, per la definizione del migliore futuro per queste aree e per la sua progressiva realizzazione.

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CICLOPEDONALITÀ

La rigenerazione urbana deve ripensare l’organizzazione della città anche in termini di servizi e abitudini. La mobilità deve essere sostenibile non solo per diminuirne l’impatto ambientale (i trasporti urbani sono responsabili del 20% circa dello smog, che sale al 60% nel caso di alcune componenti come il biossido di azoto), ma anche per migliorare la qualità della vita, la salute pubblica, ridurre lo stress e incentivare la coesione sociale, creando occasioni di incontro e di scambi solidali. In quest’ottica la ciclopedonalità è una componente essenziale della mobilità nella città del domani. Non intendiamo dunque la ciclopedonalità come progettazione dedicata esclusivamente a certi utenti (piste ciclabili, marciapiedi e piazze pedonali), ma una urbanistica capace di mettere al centro la persona, le sue abitudini di spostamento e l’equilibrio complessivo del sistema, che comprenda l’intero sistema di mobilità. Parleremo dunque non tanto di piste ciclabili o di percorsi dedicati, ma di città 30, con limitazione ai picchi di velocità per creare sicurezza per tutte le categorie di utenza; di precedenza a pedoni e ciclisti sulle strade

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a cura di

Simona Laghetti

di quartiere; di strade scolastiche in prossimità delle scuole; di intermodalità che consenta alle persone di usare il trasporto pubblico insieme allo spostamento a piedi e in bici; di car sharing e di condivisione dei mezzi. La ciclopedonalità deve far parte di quell’insieme di infrastrutture, servizi e politiche capaci di rendere l’auto privata meno allettante di quanto non sia ora, seguendo il principio della democrazia dello spazio pubblico: dopo aver regalato le nostre città alla motorizzazione di massa escludendo le persone dagli spazi (l’80% dello spazio pubblico urbano è attualmente dedicato al parcheggio e alla viabilità delle automobili) dobbiamo ridistruibuire lo spazio all’uso delle persone, ridisegnandone funzioni e forma. La ciclopedonalità deve diventare insomma la nervatura della città dei 15 minuti, in cui accesso al verde, al commercio di vicinato, ai servizi e alle scuole sia garantito a tutte e tutti con spazi accessibili, percorsi e servizi inclusivi.

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COLLETTIVITÀ

Un processo di rigenerazione urbana sviluppato su ambiti territoriali più o meno estesi interviene su di un insieme combinato di elementi e fattori che possono riguardare: la riqualificazione degli edifici pubblici e privati presenti nelle aree interessate, la riconfigurazione del tessuto urbano, gli spazi verdi, le aree di servizio…. La complessità degli interventi, nel riprogettare spazi di città, attiene a diversi elementi che vanno dalla qualità progettuale, ai materiali usati, alla puntuale lettura degli spazi urbani per la possibile ri-attribuzione delle funzioni rispondenti alle dinamiche in atto, alla efficace integrazione delle diverse competenze preposte al recupero urbano, alla capacità di inquadrare e inserire gli interventi di rigenerazione in un contesto di pianificazione complessiva della città, alle risorse economiche a disposizione e si potrebbe proseguire. Fra i molteplici “ingredienti”, ve n’è uno su tutti che sta alla base delle diverse componenti richiamate e che rappresenta l’asse portante di qualsiasi processo di rigenerazione e dal quale non è possibile prescindere. Il riferimento va alla dimensione sociale o meglio alla collettività, sulla quale e per la quale programmare una nuova città. L’evoluzione delle relazioni tra popolazione e territorio, il modificarsi della stratificazione sociale (nuovi nati, anziani, emigrati, immigrati e rifugiati), richiedono puntuali analisi volte a configurare le caratteristiche della popolazione nel breve/medio periodo (a livello macro tendenze), al fine di meglio dimensionare le caratteristiche dei nuovi abitati e delle aree urbane, che debbono essere comunque progettati in base ad una visione prospettica. Nel contempo, non si può prescindere dal testare le esigenze della collettività intesa come residenti e non, nelle aree oggetto di risanamento e riqualificazione, per un riadattamento degli spazi e delle funzioni affin-

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a cura di Rita Pareschi ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a)

chè possano rispondere in modo puntuale alle nuove forme di convivenza, ai fabbisogni stessi delle famiglie….Oggi occorre sapersi confrontare con le esigenze di nuove tipologie di cittadini, utenti, lavoratori (anziani, immigrati…), con un incremento evidente delle disuguaglianze spaziali, con nuove esigenze sociali, quali: l’invecchiamento, la transizione demografica, le nuove aspettative nei confronti della qualità della vita e con gli effetti imprevedibili dei cambiamenti climatici. Anche la pandemia ha messo in luce nuove esigenze, a partire dalle fragilità degli anziani e alle risposte puntuali che devono trovare riscontro in un nuovo modello sanitario impostato sempre più sulla domiciliarità e territorialità. Rispetto a queste nuove domande si avverte la necessità di aggiornare i sistemi di welfare urbano con il contributo della disciplina urbanistica, che è chiamata a rivestire un ruolo di primo piano nell’orientare le trasformazioni al soddisfacimento del benessere individuale e collettivo, e alla tutela dell’ambiente e del Paesaggio. Tutti gli elementi citati richiamano l’esigenza di un rapporto sempre più stretto fra pubblico e privato per la costruzione di politiche urbane ed edilizie che favoriscano la costruzione di strategie comuni e convergenti, dove la partecipazione della collettività nella condivisione di un approccio integrato per la rigenerazione dei territori diventa la variabile dipendente ed imprescindibile per favorire l’attuazione di percorsi di riqualificazione.

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COMUNITA’

La storia ci insegna che prima che lo Stato e il mercato si manifestassero, la comunità già esisteva, operava e alimentava aspirazioni. Comunità, non mera comunanza. Una distinzione che va fatta anche se siamo immersi in una contemporaneità sempre più liquida e connessa, che riduce i confini fra questi due termini, producendo “endiadi” là dove fino a poco tempo si manifestavano “ossimori”. Nell’era delle piattaforme digitali e dei social network diventa sempre più complesso infatti discernere fra community e comunità, cosi come diventa sempre più arduo definire “il dentro” ed il “fuori” di una rete di legami sempre più deboli, ma non meno generativi. Occorre infatti assumere uno sguardo diverso per evitare di cadere nella trappola di un ritorno nostalgico alle “comunità naturali” oppure a quelle forme di condivisione che “immunizzano” piuttosto che legare insieme i corpi, gli interessi e la vita delle persone. Occorre abitare le comunità per sapere distinguere ciò che lega, da ciò che semplicemente “assembra”. Già Aristotele, infatti, invitava a differenziare ricordando che la comunanza è quella degli animali che, per sopravvivere, si rubano il cibo e competono selvaggiamente fra loro e, se si uniscono, lo fanno unicamente perché non hanno altra scelta. La comunità, al contrario, fiorisce su una intenzionalità capace di fondare un agire collaborativo. Il fattore istituente di un’autentica dimensione comunitaria è l’intenzionalità: la comunità deve essere desiderata prima di essere organizzata e vissuta. Si capisce quindi come il desiderio dell’“essere in comune” nasca innanzitutto dal superamento di una visione individualista, una prospettiva che come ci ricorda Marc Auge è difficilmente sostenibile nel tempo poiché “un individuo totalmente solo è inimmaginabile cosi come è insostenibile un futuro senza avvenire”. Emerge cosi un altro elemento che l’esperienza comunitaria restituisce a chi ne fa parte: un diverso significato del tempo. Un tempo non definito dalla velocità (chronos) ma dai significati (kairos). Il

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a cura di

Paolo Venturi (A I C C O N )

tempo della comunità è, quindi, un tempo propizio al reciproco incontro, un tempo “non governato” da aspettative ma nutrito dallo stupore dell’inatteso. Questo ci fa capire quanto sia “improbabile” progettare comunità e la loro evoluzione e quanto sia invece “possibile” alimentare processi, conversazioni, ambienti che nel tempo possano generarle. Ecco che quindi il primo passo verso un processo di generazione o attivazione comunitaria non è un master plan dove strumentalmente si disegnano percorsi partecipativi, ma un’azione maieutica, una fase in cui è protagonista l’informalità e dove i “riti e i piaceri del cooperare” (R. Sennet) diventano meccanismi generativi di un processo spesso non catturabile da un diagramma di Gaant. Elementi questi centrali nei processi di ri-generazione (e non di mera ri-qualificazione). Un’azione di rigenerazione sociale implica infatti sempre un’azione comune (common action) le cui caratteristiche distintive sono ben riconoscibili in tre tratti: coloro che partecipano devono avere consapevolezza della propria interdipendenza; nell’azione comune le persone mantengono la propria identità e responsabilità; i componenti condividono la consapevolezza e la tensione al raggiungimento di un obiettivo comune. Questa alchimia rende la dimensione comunitaria protagonista della trasformazione “da spazi a luoghi”. La grande partita della ri-generazione e valorizzazione di asset “dormienti” si gioca sul lato della capacità di includere e dare spazio a questa dimensione contributiva spesso “latente” degli abitanti e non solo sul lato delle risorse economiche. Una prospettiva che oggi rappresenta l’orizzonte di molte istituzioni (pubbliche e private, profit e non profit) e che trova nella valorizzazione dei beni comuni la sua missione principale.

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CONSUMO DI SUOLO Dal sito dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (ISPRA) possiamo trarre una definizione del concetto di consumo di suolo ed anche le ragioni dell’importanza che un suolo in condizioni naturali riveste per gli esseri umani. Per consumo di suolo si intende “una variazione da una copertura non artificiale (suolo non consumato) ad una copertura artificiale del suolo (suolo consumato)”; un suolo in condizioni naturali fornisce al genere umano quelli che vengono chiamati i servizi ecosistemici che vanno dall’approvvigionamento (prodotti alimentari e biomassa, materie prime, etc.); alla regolazione (regolazione del clima, cattura e stoccaggio del carbonio, controllo dell’erosione e dei nutrienti, regolazione della qualità dell’acqua, protezione e mitigazione dei fenomeni idrologici estremi, etc.); ai servizi di supporto (supporto fisico, decomposizione e mineralizzazione di materia organica, habitat delle specie, conservazione della biodiversità, etc.); ai servizi culturali (servizi ricreativi, paesaggio, patrimonio naturale, etc.). La riduzione del consumo di suolo riveste quindi una grande importanza per il genere umano. La rappresentazione più tipica del consumo di suolo è data dalla quantità (ancora crescente) di aree coperte da edifici, infrastrutture di vario genere lineari e puntuali, ma anche aree pavimentate per molteplici ragioni ed usi. In ragione dei tempi estremamente lunghi di formazione o ripristino, il suolo si può ritenere una risorsa sostanzialmente non rinnovabile. La Commissione europea nella Strategia tematica per la protezione del suolo del 2006 indica l’impermeabilizzazione come uno dei maggiori processi di degrado del suolo. Una volta distrutto o gravemente degradato, le generazioni future non vedranno ripristinato un suolo sano nel corso della loro vita. Nel 2015 l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite nel definire gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs), indica alcuni obiettivi che riguardano il consumo di suolo, da integrare nei programmi nazionali a breve e medio termine e da raggiungere entro il 2030:

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a cura di

Fatima Alagna ( Po l i t e c n i c a)

• assicurare che il consumo di suolo non superi la crescita demografica (Indicatore SDG 11.3.1); • raggiungere un saldo zero del consumo di suolo quale elemento essenziale per mantenere le funzioni ed i servizi ecosistemici (Indicatore SDG 15.3.1). Con la sottoscrizione dell’Agenda, tutti i paesi, compresa l’Italia hanno accettato di partecipare ad un processo di monitoraggio di questi obiettivi. Il Parlamento italiano negli ultimi anni ha discusso vari progetti di legge finalizzati alla riduzione del consumo di suolo (senza successo al momento). L’ultima fra le diverse proposte di legge risale al 2018 e definisce nel seguente modo cosa debba intendersi per consumo di suolo: “la modifica o la perdita della superficie agricola, naturale, seminaturale o libera, a seguito di interventi di copertura artificiale del suolo, di trasformazione mediante la realizzazione, entro e fuori terra, di costruzioni, infrastrutture e servizi o provocata da azioni, quali l’asportazione e l’impermeabilizzazione”. Nel dicembre 2017 la Regione Emilia Romagna ha introdotto nella nuova legge urbanistica l’obiettivo del consumo di suolo a saldo zero da raggiungere entro il 2050. Il 5 novembre 2020 la Commissione europea ha lanciato la roadmap che condurrà alla “New Soil Strategy - healthy soil for a healthy life”, aggiornamento della strategia dell’UE per la protezione del suolo, con il motto ‘Suolo sano per una vita sana’, evidenziando come la salute del suolo sia essenziale per conseguire gli obiettivi in materia di clima e biodiversità previsti nel Green Deal europeo.

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COOPERATIVE DI COMUNITÀ Le cooperative di comunità sono forme di impresa cooperativa che sviluppano la loro funzione sociale a favore dell’intera comunità della quale si riconoscono parte attiva e corresponsabile. Comparse in primi casi antologici per la narrazione e la singolarità che ha accompagnato la loro scoperta (è dovuta la citazione a Teatro Povero di Monticchiello costituita nel 1980 nell’omonimo borgo in provincia di Siena e a Valle dei Cavalieri nel 1991 a Succiso) la cooperazione comunitaria è diventata progressivamente una presenza significativa, con una diffusione particolarmente vasta a partire dal 2015 in tutte le regioni italiane. E’ una forma di impresa che propone una serie di innovazioni di tutta rilevanza con riguardo alla rigenerazione e allo sviluppo territoriale delle aree più socialmente e/o economicamente vulnerabili del paese. Le cooperative di comunità aggiungono infatti ai tradizionali caratteri mutualistici (democrazia interna, paritarietà dei soci, non speculatività, porta aperta a nuovi soci) altri impegni che riguardano lo sviluppo delle opportunità che il territorio propone e per le quali il mercato non trova sufficienti ragioni di investimento e la risposta ai bisogni collettivi che il sistema pubblico non riesce a soddisfare attraverso i suoi meccanismi redistributivi e i suoi limiti organizzativi. In questi contesti la cooperativa di comunità è quindi un’ “istituzione comune” culturale, sociale ed economica volta a ripristinare condizioni di valorizzazione delle risorse presenti inutilizzate per la loro trasformazione innovativa in valori di reddito, lavoro e, quindi, risposte sociali. L’innesco si ha nell’intenzione esplicita e pubblica di alcuni abitanti, nativi, ritornanti o affettivi, persone e imprese, di operare insieme per il mantenimento e lo sviluppo di condizioni di vivibilità del territorio eletto. Questo fenomeno si presenta come forma imprenditoriale e aziendale di forte innovazione: allineare scopi imprenditoriali e scopi comunitari facen-

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a cura di

Giovanni Teneggi (Confcooperative)

done laboratorio comune di costruzione territoriale e modello di business è infatti l’esercizio distintivo delle cooperative di comunità per massimizzare le reputazioni territoriali e di mercato necessarie in questi contesti. Possiamo considerare ad oggi almeno 200 cooperative comunitarie attive sul territorio nazionale e 40 sono quelle così riconosciute in Emilia-Romagna. Le esperienze sono ovunque tipiche e rispondono a modelli, scopi e processi di evoluzione territorialmente diversi. All’interno del fenomeno, eclettico e in continua evoluzione, possiamo riconoscere indicativamente cooperative paese (istituzioni briglia della intera collettività che diventano piattaforma di conversazione sociale e progettazione imprenditoriale), cooperative di lavoro comunitario (che uniscono finalità di mutualità interna tradizionali a trasformazione di risorse locali e multifuzionalità), cooperative di scopo (finalizzate alla rigenerazione di singole emergenze storiche, culturali o immobiliari), cooperative municipali (promosse e partecipate da enti locali per la gestione comune con gli abitanti di beni e servizi collettivi o di interesse pubblico), cooperative sociali comunitarie (che, rispondendo alla propria missione di welfare, rigenerano attività e patrimoni del territorio in altri settori). L’esperienza sul campo, i suoi esiti e i valori di maggiore conspevolezza, competenza e intraprendenza che rilascia dove viene sviluppata, conferma che la cooperazione di comunità non è solo una forma di impresa possibile ma anche un percorso di ricerca, animazione e maturazione dei territori necessaria alla loro rigenerazione nelle espressioni che si daranno. A questo riguardo, il loro valore, seppure scoperto fra gli Appennini, riguarda l’universalità del territorio regionale e non di meno quello metropolitano.

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COOPERAZIONE

La Rigenerazione urbana si caratterizza per essere una politica pubblica complessa, che punta allo sviluppo della qualità urbana in una logica di recupero fisico dei territori e degli edifici ma anche, contestualmente, di rivitalizzazione sociale e culturale delle aree interessate, a partire da quelle più degradate dell’ambito urbano. Si caratterizza, quindi, per essere un processo che vede l’attivazione di risorse pubbliche e private, secondo criteri di Partenariato Pubblico Privato, con l’obiettivo di far concorrere rispetto ad obiettivi comuni risorse e investimenti pubblici, delle imprese, delle organizzazioni sociali non profit e delle cooperative. Il tutto dentro i grandi processi di transizione digitale e di perseguimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Si tratta quindi di costruire delle reti di soggetti diversi, in una visione di sistema, che cerca di mettere in campo le risorse che ciascun soggetto, peculiarmente, può produrre. Importante è anche il fatto che ai vari soggetti impegnati viene chiesto non tanto un passivo adeguamento alle norme e alle regole stabilite, ma un contributo creativo rispetto al raggiungimento degli obiettivi di qualità del vivere, sicurezza, crescita comunitaria. Le politiche di Rigenerazione urbana testimoniano anche del fatto che ben difficilmente i tradizionali meccanismi di mercato (valorizzazione della rendita e degli investimenti immobiliari) possono essere considerati risolutivi nell’affrontare le situazioni di degrado o di difficoltà in cui versano le aree oggetto di Riqualificazione. Occorre un nuovo equilibrio tra mercato e sostenibilità che non è solo ambientale ma anche sociale ed economica. Occorre quindi mobilitare risorse di altro tipo, che fanno perno sulla responsabilità sociale, sulla costruzione di capitali di fiducia reciproca tra attori, sulla relazione con le comunità locali. La Rigenerazione urbana sarà il terreno di applicazione anche delle nuo-

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a cura di Maurizio Brioni ( Legacoop Emilia-Romagna)

ve tecnologie e di raggiungimento dei nuovi obiettivi di risparmio energetico e controllo dei fattori di inquinamento a partire dalle emissioni di carbonio. Per questo da sempre, le iniziative di Rigenerazione urbana rappresentano sia una terreno di intervento privilegiato sia una sfida per le cooperative. La cooperazione si caratterizza per essere sia una organizzazione di imprese che rispondono a criteri di efficienza e di produttività sia un movimento che porta con sé una “memoria” territoriale di rapporto con le comunità. Le cooperative sono, cioè, anche uno strumento attraverso il quale fasce deboli della popolazione si sono difese e autorganizzate, in una visione solidaristica e mutualistica. Ma portano con sé, da subito, anche l’esigenza del “fare rete”, del concorrere a costruire strumenti di tenuta per stare meglio sul mercato, dai consorzi, alle filiere integrate, ai “gruppi cooperativi” e altre forme di collaborazione: “Cooperare tra cooperative”, rappresenta uno dei principi internazionali della cooperazione. Le politiche di Rigenerazione rappresentano una sfida proprio rispetto a queste caratteristiche “storiche” della cooperazione e sono anche una occasione per un riposizionamento del loro patrimonio sociale e imprenditoriale. Innanzitutto nel mettere a disposizione la loro responsabilità rispetto ai territori: “Le cooperative lavorano per uno sviluppo durevole e sostenibile delle proprie comunità attraverso politiche approvate dai propri soci”, è un altro dei Principi cooperativi. Lo scambio virtuoso con le comunità locali ha da sempre caratterizzato l’azione e l’iniziativa delle cooperative e la loro presenza diffusa sul territorio regionale ne fa una risorsa preziosa sia materiale sia per i valori di solidarietà e mutualità che porta con sé.

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COOPERAZIONE

Molte cooperative rappresentano un patrimonio dei territori, ne sono una espressione consolidata. L’altra sfida decisiva viene giocata rispetto alla capacità di pensare delle azioni integrate, di “sistema” rispetto agli obiettivi della Rigenerazione. Il movimento cooperativo ha consolidato nel corso del tempo capacità imprenditoriali di risposta ai bisogni delle comunità. Si tratta di organizzare delle risposte di sistema che integrino le potenzialità che le cooperative possono offrire ai territori. Sono molteplici le linee di intervento in atto, che caratterizzano questa nuova sfida per la cooperazione: • l’integrazione tra cooperazione sociale e cooperazione di abitanti nell’offerta di servizi nuovi e innovativi per l’housing sociale; • la presenza di punti vendita nelle realtà più difficili, come un elemento di qualità del tessuto urbano, anche riorganizzando gli spazi già esistenti e non utilizzati • l’organizzazione di trasporti locali che tengano conto dei nuovi bisogni; • la valorizzazione delle capacità artigianali presenti in un territorio; • la realizzazione di attività culturali; • la modalità di organizzazione delle mense scolastiche e per i lavoratori, per una nuova cultura dell’alimentazione; • nuove e innovative modalità di costruzione degli edifici; • l’organizzazione di cooperative per la gestione dell’energia; • organizzare il consumo dei fabbisogni digitali; • gestire le nuove tendenze del consumo online e dei servizi a domicilio,

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a cura di Maurizio Brioni ( Legacoop Emilia-Romagna)

contro i rischi di indebolimento dei diritti. Sono solo alcuni degli esempi delle nuove attività e delle necessarie integrazioni che la cooperazione può offrire alle politiche di Rigenerazione urbana. Questo lavoro di integrazione è, contestualmente, anche una operazione di riposizionamento strategico della cooperazione, che dovrà\potrà trovare nuovi modelli di business, che si incrocino con nuovi obiettivi di responsabilità e mutualità. Un riposizionamento che dovrà basarsi su un forte investimento formativo, che dovrà essere effettuato anche incrociando analoghe esigenze della parte pubblica. Si tratta di un complesso processo di riposizionamento cognitivo, per una più adeguata comprensione dei processi in atto e per costruire strumenti più adeguati per il loro governo. Basta pensare ai nuovi modelli di intervento per rispondere ai bisogni indotti dagli andamenti demografici e dai bisogni nuovi di una nuova popolazione anziana. L’esperienza del Covid ha reso evidente la necessità di ripensare l’intera assistenza sociosanitaria territoriale. Così come si aprono nuovi spazi per la fruizione culturale e artistica del territorio. Per questo la cooperazione, per le sue caratteristiche storiche, dovrà essere tra i protagonisti del rinnovamento delle città, rinnovando sé stessa, reinventando il suo ruolo di servizio alle proprie comunità.

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DEMANIO

Il nostro Paese dispone di un vasto patrimonio immobiliare pubblico, estremamente eterogeneo per caratteristiche, localizzazione e stato di conservazione. La sola Agenzia del Demanio, responsabile della gestione, razionalizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, amministra un portafoglio di circa 42 mila beni (per un valore stimato di 61 miliardi di euro). Il patrimonio pubblico – appartenente al Demanio ma anche alle Regioni, alle amministrazioni locali e ad altri enti e istituzioni pubbliche – costituisce una componente importante del quadro territoriale e urbano, sia in termini di ruoli identitari (in taluni casi) ma anche propriamente in termini dimensionali. Negli ultimi decenni questo patrimonio è stato interessato da fenomeni di dismissione e in molti casi anche di abbandono che, mettendone in discussione funzioni e ruoli storici e producendo effetti più o meno critici sul proprio contesto, hanno chiamato i soggetti responsabili a porsi il problema del loro destino. Nel tempo si sono alternate due impostazioni gestionali, la prima di natura prettamente economica e finanziaria, ha guardato al patrimonio come un asset improduttivo da mettere sul mercato per risanare il bilancio dello Stato. Questo approccio si è scontrato con diverse ed evidenti problematiche attuative, derivanti dalla natura stessa dei beni (troppo grandi o complessi in alcuni casi, “inalienabili” per ragioni identiarie e culturali in altri, o più semplicemente perchè, fatto salve le poche localizzazioni forti, non apprezzate dal mercato). Anche sulla base

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a cura di

Lorenzo Baldini (CA I R E C o n s o r z i o)

di queste esperienze è quindi maturata una maggiore consapevolezza che ha orientato verso approcci più attenti a riconoscere nel patrimonio pubblico una importante risorsa per la rigenerazione urbana e lo sviluppo locale: una efficace gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico che richiede però un approccio attivo, capace di coniugare le istanze di tutela dei beni, di sviluppo economico e di coesione sociale, il tutto cercando di coniugare sostenibilità e fattibilità. A livello nazionale in anni recenti l’Agenzia del Demanio ha introdotto e implementato con successo iniziative che hanno fatto intravedere questo nuovo approccio alla valorizzazione degli asset pubblici, intesi come eccezionali opportunità per promuovere lo sviluppo sociale ed economico del Paese. Sarebbe quantomai opportuno proseguire una convinta (e continuativa) stagione di implementazione di politiche, metodologie e strumenti volti a supportare la gestione intelligente di quei beni che costituiscono i principali tasselli della “città pubblica”. Strategie e strumenti con i quali il patrimonio pubblico (o almeno una parte significativa di questo) potrà essere pienamente valorizzato, superando da un lato la retorica di false panacee per la finanza pubblica, dall’altra l’immobilismo e la mancanza di iniziativa che rappresentano il vero e più concreto rischio.

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DIGITALE

L’impressionante accelerazione digitale dell’ultimo decennio è la realizzazione della profezia contenuta in ben quattro leggi dell’era dell’information technology : la crescita esponenziale della velocità di elaborazione dei computer; la velocità di trasmissione dati che cresce tre volte più rapidamente della velocità dei processori; l’aumento del valore di rete (essere connessi con una rete aumenta il suo valore al crescere della rete e al diminuire del costo di adesione); la nascita di tecnologie dall’elevato potere ricombinatorio con potenzialità per nuovi prodotti. La Rivoluzione digitale investe la città nella misura in cui l’ambito urbano vede aumentare, grazie ai dati in grandi quantità che scaturiscono dalla molteplicità di relazioni e flussi che attraversano le città, la propria potenzialità di “sistema di comunicazione” tra i cittadini, i servizi pubblici e privati e le forme organizzate di comunità che lo popolano. La visione di città progettate e governate sulla base conoscitiva che può scaturire da grandi moli di dati (Big Data) ha condotto, nell’ultimo decennio, un sempre maggior numero di amministrazioni di grandi e medie città ad intraprendere un percorso verso la cosiddetta “città intelligente” (smart city) sebbene con una gamma di strategie molto diversificate che vanno dalla minimale pubblicazione di dati anagrafici in formato “open data”, a servizi di elaborazione dei dati di flusso (demografico, di traffico, ecc.) a fini di programmazione, fino a esperienze (soprattutto nelle grandi città) di “city dashboards” ovvero sofisticati sistemi di monitoraggio e rappresentazione visiva di dati urbani anche per il monitoraggio e l’aggiornamento di servizi ai cittadini. La svolta digitale presenta opportunità e rischi: da una parte, si amplifica la capacità di mettere in relazione costante, attraverso piattaforme e applicazioni, il produttore con il cliente, che in ambito

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a cura di

Lorenzo Ciapetti

urbano e territoriale significa la potenzialità di mettere in maggiore relazione il cittadino con l’erogatore di servizi pubblici e con l’amministrazione anche ai fini di una costante partecipazione al miglioramento dei servizi; dall’altra, l’attenzione esclusiva alla componente tecnologica e l’utilizzo di grandi piattaforme globali (come Amazon o Google) espone ad effetti di “cattura” che rischiano di non tener conto di preferenze e valori dei cittadini e delle comunità locali nella costruzione di spazi urbani sostenibili. Non a caso, negli ultimi anni, la reazione al rischio di “smart cities” troppo spostate sulla componente tecnologica è quella di aumentare azioni di “cittadinanza intelligente” per contribuire alla produzione partecipata di conoscenza sulla e per la città. La sfida digitale delle città esige anche una trasformazione “ecosistemica” che possa permettere di sintonizzare le politiche urbane con la trasformazione verde dei prossimi anni: i mezzi a propulsione elettrica e gli automezzi a guida autonoma avranno infatti bisogno di infrastrutture dedicate e di nuove politiche per la mobilità incentrate su nuovi servizi digitali di monitoraggio, controllo e misurazione. Le città “sospinte dai dati”, nella piena potenzialità di una ampia conoscenza raccolta attraverso gli innumerevoli flussi che caratterizzano lo spazio urbano, offriranno pertanto il nuovo contesto in cui si andranno a realizzare i programmi di rigenerazione. La capacità di utilizzare moli sempre più ampie e complesse di dati e le potenzialità del digitale a fini di una più ampia partecipazione dei cittadini e per servizi sempre più sostenibili forniranno la cartina tornasole per la trasformazione digitale delle città nel prossimo decennio.

IL GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE


ECOLOGIA URBANA

L’ecologia urbana e’ una scienza “che ha modi civili, corretti e cortesi nel trattare con altri (soprattutto con estranei)”. Passa il suo tempo a osservare la casa che ha di fronte e trova simpatici gli esseri che la abitano quando la tengono pulita, innaffiano le piante e vanno d’accordo con il cane, il gatto e l’Orso dei Tubi. Non li capisce quando la riempiono di cose, non sanno più da che parte girarsi, ma si agitano, litigano tutti con tutti e respirano con affanno. Entrano ed escono spesso dalla casa, portano dentro e fuori tante cose, ma non si accorgono che il mondo intorno e’ grande e bello ed e’ anche il loro mondo. Alcuni abitanti della casa hanno a disposizione stanze ampie e luminose, al piano alto, mangiano tanto e vestono bene. Altri vivono in cantina, sembra che non se la passino bene. Anzi ogni giorno stanno peggio. Più di uno e’ andato via durante il lock down, ma e’ già tornato e non è cambiato, solo un po’ più invecchiato e un po’ più solo. Fa caldo. Qualcuno grida “la casa brucia!”, ma nessuno, a parte il cane, il gatto, l’Orso dei Tubi e i topi, da’ segno di preoccuparsi. L’ecologia urbana è la scienza che studia le relazioni dei viventi tra loro e con l’ambiente in cui vivono, l’ecosistema urbano ovvero la città. Si tratta di un sistema complesso, un insieme di ambienti diversi: spazi edificati o che ospitano infrastrutture, spazi aperti più o meno vuoti, a diverso grado di naturalità. Nella città vivono persone, ma anche animali e piante.

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a cura di

Sonia Cantoni

L’ecosistema urbano è caratterizzato da un intenso metabolismo per unità di superficie. Non è autonomo: scambia persone, materia (cibo, acqua, rifiuti...) ed energia con altri sistemi, ambienti tanto più numerosi e tanto più ampi quanto più intenso è il metabolismo della città. Prima del 2020 il processo di inurbamento era considerato uno dei principali “megatrend” a livello mondiale: la pandemia di Covid-19 ha indotto modifiche nelle dinamiche delle città, al loro interno e nelle relazioni con l’esterno, la cui portata e la cui durata sono ancora da accertare. Indiscutibile tuttavia, ora e in prospettiva, è il ruolo che gli ecosistemi urbani giocano in fenomeni determinanti per la sostenibilità dei sistemi locali e globali, quali il cambiamento climatico e la crescita delle diseguaglianze economiche e sociali. L’ecologia urbana è dunque una scienza a cui concorrono numerosi saperi e discipline, sia scientifiche che umanistiche e non può limitarsi a studiare i fenomeni, deve anche ricercare, sperimentare modelli alternativi di sviluppo e proporre soluzioni.

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FABBRICHE

Lo sviluppo economico e territoriale, per essere solido e avere orizzonti concreti nel medio-lungo termine, deve guardare sempre più agli impatti non solo ambientali ed economici ma soprattutto a quelli sociali che genera. Nel territorio italiano, l’urbanizzazione e soprattutto quella diffusa hanno prodotto territori nei quali la rigenerazione urbana deve e può procedere attraverso nuovi modi di intervento, meno focalizzati sulla mera rigenerazione fisica e più ancorati ad una visione sociale e integrata dei sistemi di relazione esistenti nel territorio stesso. In questi contesti la capillarità delle piccole e medie imprese è un valore che va traguardato nel nuovo concetto di fabbrica di comunità, ovvero nel rovesciamento dell’ipotesi olivettiana delle comunità di fabbrica. I luoghi produttivi devono integrarsi sempre più nel territorio, diventando i centri di un percorso di rigenerazione anche sociale, per arrivare a generare non solo prodotti ed economie, ma valore sociale nel territorio. Perché il territorio è una metafabbrica. A ben guardare infatti le fabbriche non solo usano il territorio, localizzandosi ad esempio laddove vi sono materie prime o possibili risorse da sfruttare (l’acqua, ad esempio, per produrre energia o per raffreddare gli impianti, ma anche la disponibilità di spazi collegati al sistema logistico e la disponibilità di forza lavoro, ovviamente), ma sono esse stesse elementi strutturanti la geografia dei luoghi e, ancor di più, la geografia delle persone e delle comunità locali. La stessa organizzazione novecentesca del territorio italiano ha costruito questo rapporto inscindibile tra luogo produttivo e luogo abitato, tra tempi della produzione e tempi del riposo, tra spazi di lavoro e spazi della cultura. Il territorio italiano, come lo abbiamo costruito nel dopoguerra, è stato pensato attraverso logiche urbanistiche che separavano,

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a cura di

Federico della Puppa

nel disegno urbano e territoriale, le funzioni: i luoghi dell’abitare, quelli del produrre, quelli per il tempo libero. Quelle stesse regole valevano anche per i piccoli centri, dove hanno riprodotto, su scala “matrioskale”, gli stessi modelli delle grandi città e delle metropoli. Per superare questo impasse il contributo della fabbrica è di fondamentale importanza se la fabbrica diventa una metafabbrica, ovvero un luogo innestato nel territorio, dal quale trae le risorse primarie (il lavoro) per produrre profitti, ma redistribuisce quei profitti in termini non solo economici (posti di lavoro) ma soprattutto di welfare. In questa logica si inseriscono le sfide del riuso dei luoghi produttivi dismessi e abbandonati o sottoutilizzati, che oggi possono diventare luoghi di generazione di welfare di comunità, luoghi condivisi dai sistemi diffusi della produzione, dalle fabbriche che da sole non sono in grado di produrre welfare ma che possono farlo se inserite in sistemi comunitari, trovando una nuova relazione tra fabbrica e territorio, cioè tra luogo produttivo e sistema insediativo. La vera sfida nel rapporto fabbrica-territorio in termini di rigenerazione è pensare circolare, dove la circolarità va intesa come produzione circolare di socialità. Non è l’economia che deve diventare circolare, è il territorio, è la società stessa, sono i luoghi della produzione, che non devono e non possono essere più corpi separati. È in un rinnovato rapporto tra produzione e territorio che oggi può generarsi valore, non solo valore aggiunto ma anche valore identitario, perché è ritrovando le ragioni del legame tra impresa e comunità locale che può esserci sviluppo vero, sostenibile, inclusivo e soprattutto duraturo.

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FAMIGLIE

La dinamica demografica italiana è caratterizzata strutturalmente da due tendenze: il rilevante calo della fecondità (nel 2020 sono nati in Italia 404.000 bambini a fronte di 746.000 decessi, con un saldo naturale negativo di ben 342.000 unità) e il forte e continuo invecchiamento della popolazione. Questi fenomeni, assieme ad altri fattori sociali, determinano un rilevante mutamento delle strutture familiari che in sintesi può essere così evidenziato: • Un numero molto elevato e in continua crescita di persone che vivono sole; • Una larga prevalenza nelle coppie con figli di quelle con un solo figlio; • Una quota significativa di coppie senza figli; • Una crescente presenza di nuclei monogenitoriali. In Italia nel 2020 le persone che vivono sole erano 8,410 milioni (quasi il 15% della popolazione) e la loro distribuzione per classe di età era la seguente: il 19,7% aveva meno di 45 anni, il 31,9% era in età compresa fra 45 e 64 anni e il 48,4% aveva 65 anni e più. Il fenomeno della solitudine abitativa riguarda quote molto importanti della popolazione anziana, soprattutto fra le donne in età più avanzata, e appare destinato a incrementarsi significativamente nei prossimi anni a causa del previsto ulteriore invecchiamento della popolazione. Come abbiamo visto in precedenza in Italia la fecondità ha raggiunto valori estremamente ridotti (nel 2020 in media 1,24 figli per donna, drammaticamente inferiore al livello che garantisce l’equilibrio della popolazione pari a 2,1). Per effetto di questi comportamenti riproduttivi nelle coppie con figli prevale la presenza di quelle con un solo figlio (nel 2020 In Italia il 47,2% delle coppie con figli si trovava in questa situazione); le coppie con due figli erano il 42,4% e quelle con tre o più figli

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a cura di

Gianluigi Bovini (Asv i S)

solamente il 10,4%. In Emilia-Romagna la situazione era maggiormente segnata dalla presenza di un solo figlio: il 51,7% delle coppie era in questa tipologia, contro il 39,8% con due figli e l’8,5% con tre o più figli. Rilevante è anche la presenza di coppie che vivono senza figli (nel 2020 in Italia erano 5,325 milioni a fronte di 8,644 milioni di coppie con figli). Il permanere di una bassa fecondità e il crescente invecchiamento della popolazione determineranno molto probabilmente nei prossimi decenni una maggiore incidenza di questa tipologia familiare, che comprende anche molti nuclei in età matura o avanzata che nel corso della loro vita non hanno avuto nessun figlio. La crescente incidenza delle separazioni e dei divorzi contribuisce inoltre alla significativa presenza di nuclei monogenitoriali (in Italia nel 2020 erano 2,968 milioni): in queste famiglie nella grande maggioranza dei casi (81%) l’unico genitore era la madre e prevaleva la presenza di un solo figlio (69% del totale). La difficile condizione sociale ed economica di quote significative della popolazione giovanile determina inoltre una rilevante presenza di giovani in età fra 18 e 34 anni celibi e nubili che vivono ancora in famiglia. In Italia nel 2020 erano quasi i due terzi del totale e al loro interno la distribuzione per condizione professionale o non professionale era la seguente: il 35,9% si dichiaravano occupati, il 24,6% era in cerca di occupazione, il 36,2% studiava e l’1,7% si qualificava come casalinga. In Emilia-Romagna la quota dei giovani che viveva in famiglia era inferiore alla media nazionale (58,1%) e al loro interno si registrava una condizione occupazionale migliore (45,1% occupati e 17,6% in cerca di occupazione).

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FINANZA D’IMPATTO

a cura di

Kristian Mancinone (A rt- E R)

La finanza di impatto è un fenomeno recente nel contesto europeo e italiano, nato come risposta di investitori responsabili alla crisi finanziaria del 2007. Alcune pietre miliari nello sviluppo del concetto sono la stesura del Social Investment Package (SIP) da parte della Commissione Europea nel 2010, la costituzione della Social Impact Investment Taskforce nell’ambito del G8 (ora Global Steering Group for Impact Investing) nel 2013, e la nascita della Social Impact Agenda per l’Italia nel 2016. Questi momenti hanno segnato una svolta nell’identificazione di nuove forme di supporto agli investimenti a impatto sociale, in particolare identificando modelli di investimento pubblico-privato su schemi legati al risultato delle azioni (pay by result e social outcome contracting), la nascita di fondi d’investimento privati dedicati alla generazione di impatto sociale oltre che al ritorno finanziario e una sempre più crescente attenzione alla misurazione e valutazione degli impatti sociali generati da queste tipologie di investimenti,sia in ambito pubblico che privato.

La contestualizzazione permette di identificare i tre elementi definitori, riconosciuti globalmente come sufficienti al fine di determinare le caratteristiche specifiche della finanza di impatto: • addizionalità, ovvero la capacità di creare soluzioni socialmente innovative ai bisogni delle comunità, sviluppando prodotti, servizi, modelli nuovi, più appropriati e migliori rispetto a quanto esistente sul mercato o nel contesto della pubblica amministrazione; • intenzionalità, ovvero l’intenzione dell’investitore di generare un impatto sociale e ambientale misurabile e in grado di produrre un ritorno economico. L’impatto diventa il fine dell’investimento, che deve però essere in grado di remunerare il capitale con rendimenti anche pari a quelli di mercato; • misurabilità, ovvero la capacità dell’investitore di dotarsi di adeguati strumenti di valutazione, monitoraggio, misurazione e rendicontazione degli impatti sociali e ambientali prodotti dall’investimento.

Per inquadrare al meglio la finanza di impatto è però necessario contestualizzare altri tre fenomeni che in qualche modo ne costituiscono insieme premessa e contesto di riferimento. Il primo è la finanza sostenibile e responsabile, ovvero tutto l’insieme di attori, regolamenti e strumenti finanziari che integrano i criteri finanziari con quelli denominati ESG (Environmental, Social and Governance) al fine di valutare anche le performance ambientali, sociali e di buon governo. A questo si affiancano la finanza sociale e la finanza etica, ovvero tutto l’insieme di attori, regolamenti e strumenti finanziari a sostegno della generazione di impatti sociali soprattutto ad opera di Enti del Terzo Settore e Imprese Sociali (come individuati dal D.lgs. 117/2017). Infine, gli investimenti sociali costituiscono tutti gli strumenti di politica economica dedicati all’inclusione sociale e allo sviluppo di competenze, formazione, occupazione e di supporto all’imprenditoria sociale e alle organizzazioni del terzo settore.

Il mercato degli investimenti in finanza di impatto può essere classificato in investimenti quasi impact, impact e strictly impact: considerando tutte e tre gli insiemi individuati il totale dei capitali impiegati per l’impatto dal 2006 in Italia è circa 8 miliardi di euro.

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Nel contesto della rigenerazione urbana, questo tipo di modello di investimento ha trovato tre principali forme di attuazione: il sostegno a startup o nuove imprese che hanno sviluppato modelli scalabili di implementazione di pratiche di rigenerazione e riattivazione urbana anche grazie all’utilizzo di tecnologie proprietarie; modelli di project financing ad impatto sociale per lo sviluppo di infrastrutture sociali in collaborazione con attori del terzo settore locale; modelli di investimento pubblico-privato nel sostegno a modelli di inclusione sociale, in particolare con riferimento all’housing sociale.

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FORMAZIONE

Accompagnare la trasformazione dei contesti di vita è un mestiere? Una passione? Una forma di civismo? Una competenza? Non una sola di queste cose e più probabilmente tutte insieme, specie quando parliamo di rigenerazione urbana. Il rigeneratore e la rigeneratrice hanno a che fare con un corpo dinamico, la città, che pulsa di ambizioni a volte difficilmente componibili, che ha una propria morfologia, una propria temperatura, un proprio DNA e pertanto, in analogia con l’anamnesi propria del mondo medico da cui il termine ‘rigenerazione’ mutua, va innanzitutto conosciuta. La formazione deve quindi per prima cosa offrire gli strumenti per operare una corretta lettura dei contesti urbani, tanto delle componenti materiali, la cosiddetta città di pietra, quanto di quelle immateriali, la città di carne. Questa analisi richiede una molteplicità di saperi che vanno dall’architettura alla sociologia, dall’economia all’antropologia, dal diritto all’ingegneria, dall’agronomia all’urbanistica e molti giganti sulle cui spalle arrampicarsi. Sin da questa prima fase la formazione deve insegnare il valore della transdisciplinarietà, quello del rigeneratore non è un mestiere solitario ma che richiede lavoro di squadra e molto ascolto reciproco. Una volta condotta la lettura della materia sulla quale operare occorre apprendere gli strumenti per l’elaborazione di strategie territoriali

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a cura di

Paola Capriotti (AU D I S)

capaci di traguardare le visioni della città del futuro e a questo punto la cassetta degli attrezzi deve arricchirsi di pratiche di ingaggio della comunità, schemi di governance, modelli organizzativi dello spazio, grimaldelli finanziari che possano garantire una realizzazione del processo rigenerativo per fasi incrementali. Perché tutto questo non rischi di portare ad una controproducente astrazione, abbiamo visto con la nostra esperienza sul campo come la formazione deve essere in grado di offrire una giusta contaminazione fra saperi, ma anche fra lezioni frontali e momenti laboratoriali in cui sperimentare e verificare quanto appreso in aula in un ambiente transdisciplinare. È proprio nell’interazione tra persone e competenze che la formazione dà il meglio di sé, perché innesca un apprendimento orizzontale e collaborativo che la sola lezione non attiva, che è generativo di soluzioni inedite capaci di dare vita a un nuovo campo del sapere e a quel cambiamento di cui tutta la filiera della rigenerazione urbana ha un immenso bisogno per gestire la complessità dei processi urbani. Le occasioni formative devono infatti muovere dalla medesima complessità di temi e rapporti che caratterizza i processi reali, che sono multiattoriali e spesso presentano una discrasia fra la teoria e la sua implementazione.

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FRAGILITA’

Di fronte a importanti cambiamenti climatici e pandemie, la prima dimensione con cui fare i conti è la fragilità della nostra società che, seppur complessa nell’articolazione, è tuttavia molto vulnerabile. Nonostante i numerosi e continui progressi della scienza, la società è estremamente sensibile a fratture, cambiamenti, effetti inattesi che ne minano i meccanismi di gestione e di controllo. La risposta a tale fragilità risiede nell’antifragilità. Per proteggere un sistema fragile in genere si attuano comportamenti o modifiche per renderlo più robusto, implementando così il concetto di resistenza e di resilienza. Ma la resilienza porta in sé un grosso limite: la rottura.

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a cura di

Certimac

Per superare la fragilità occorre diventare antifragili. L’antifragilità è il vero opposto del concetto di fragilità. Esprime la caratteristica di un sistema di cambiare e migliorare a fronte di fattori di stress esterni al fine non di proteggersi bensì di adattarsi. Un sistema antifragile abbraccia l’imprevisto, l’incertezza, ne assume positivamente il rischio: concetti bene espressi nel libro di Nassim Taleb “il Cigno Nero”.

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GOVERNANCE

Le caratteristiche di complessità delle politiche di Rigenerazione urbana ne fanno una cartina di tornasole della capacità di un intero sistema sociale ed economico di realizzare obiettivi di cambiamento: non è possibile raggiungere gli obiettivi complessi previsti senza contestualmente introdurre nuove abilità e nuovi modi di agire da parte di tutti gli attori. Partendo dalla Pubblica amministrazione, anche perché l’attivazione e la realizzazione di iniziative di Rigenerazione sono “un di cui” della più complessiva capacità di costruire politiche urbanistiche e territoriali. Partendo dalla situazione della regione Emilia-Romagna, le difficoltà profonde in cui versa la PA non sembrano così evidenti, ma non vi è dubbio che è nella capacità della PA di riorganizzarsi per gestire tale complessità che sta la condizione del successo. Possiamo definire alcuni temi di fondo: 1) Chiarezza delle regole e certezza del diritto, che vanno di pari passo con una capacità di semplificare le norme e le procedure. Problema annoso e cantiere aperto. 2) Capacità di realizzazione (effectiveness) da parte della PA, che diventa capacità di implementazione delle politiche secondo sequenze definite e controllate, usando anche check list ormai consolidate. 3) Digitalizzazione delle procedure e uso dei Big Data, come strumenti per un salto di qualità anche organizzativo. 4) Ricostruzione di un clima di fiducia tra dirigenti e operatori della PA che faccia uscire dai rischi di “sciopero della firma”, recuperando quegli

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a cura di Maurizio Brioni ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a)

spazi tutelati di discrezionalità dell’azione dirigenziale, anche nel caso di affidamento e appalti, senza i quali non è possibile cogliere le esigenze di flessibilità e velocità nella realizzazione delle opere. Occorre ricostruire “un rapporto di fiducia e far passare le relazioni tra pubblico e privato dalla diffidenza alla collaborazione”. 5) Il rilancio degli strumenti del Partenariato Pubblico Privato. Questo strumento è di decisiva importanza per lo sviluppo delle iniziative di Rigenerazione. Si possono individuare 6 criticità che riguardano i vari soggetti(Cresme): a) Debole capacità tecnica delle amministrazioni appaltanti b) Incertezza dei tempi nel processo decisionale e Variabilità decisioni pubbliche nel tempo c) Cultura imprenditoriale da appaltatore e non da gestore d) Non corretta attribuzione del rischio e debole valutazione della convenienza e) Scarsa esperienza nella definizione delle condizioni contrattuali f) Carenze nel controllo delle performance di erogazione del servizio 6) Questo elenco di criticità sottolinea come un aspetto decisivo sia rappresentato dall’investimento in formazione, in un salto nelle capacità sia tecniche sia di comprensione dei processi complessi. Non tutto può essere lasciato alla capacità del “mercato” di produrre le nuove risorse necessarie.

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GOVERNANCE

Il ruolo dello “Stato”, dei regolatori nella definizione degli strumenti sarà decisiva. 7) Ma decisiva sarà la qualità dell’interazione tra le varie fasi e i vari soggetti convolti, che, ciascuna, si porta dietro una logica specifica di Governance, che rischiano di non interagire rispetto all’obiettivo finale. Per esempio: il momento cruciale dell’INGAGGIO, con il coinvolgimento della PA, della community, dei corpi intermedi, deve trovare un equilibrio con la fase della PROGETTAZIONE, in modo da garantire una coerenza delle domande da rivolgere ai soggetti della fase della REALIZZAZIONE (imprese). A monte occorre che la FATTIBILITA’ dell’operazione trovi un suo equilibrio tra proprietari, sviluppatori, progettisti, etc.. Ovviamente i vari soggetti partecipano a più fasi del progetto e portano in esse le proprie logiche di Governance (per esempio la finanza e i suoi vincoli stabiliti internazionalmente). Vi è quindi una complessità delle figure professionali e degli attori di mercato e istituzionali coinvolti, al limite della frammentazione. La ricerca di un “pivot” che tenga conto di tale complessità sarà il compito decisivo delle prossime iniziative. 8) L’elemento cruciale sarà la definizione degli obiettivi di valorizzazione del territorio, in un’ottica che non privilegia la tradizionale figura del “developer” immobiliare, ma che assegna anche agli aspetti di qualifica-

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a cura di Maurizio Brioni ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a)

zione dei servizi a partire da quelli alla persona, un elemento decisivo. 9) Un ruolo importante verrà giocato dal sistema di Governance delle risorse previste dal PNRR e dai vari fondi complementari. Per esempio, il Programma nazionale della qualità dell’abitare (PinQua) ha appena assegnato risorse per 271 progetti, ed è stato rimpinguato per 2,8 miliardi. 10) In questo quadro l’elemento decisivo della Governance sarà il coordinamento tra i vari livelli istituzionali, in una fase di debolezza complessiva, derivante da una fase di transizione dell’ente Provincia e da una evidente difficoltà del sistema dei comuni medio piccoli nella gestione di procedure complesse. In Emilia-Romagna l’attivazione del “Patto per il lavoro e il clima” rappresenta una leva di Governance innovativa, in sintonia con un tradizionale metodo di governo che in passato ha dato risultati notevoli nel garantire una sostanziale equità nell’uso delle risorse pubbliche e nel coinvolgimento dei vari soggetti presenti sul territorio. Ciò dimostra come l’efficienza complessiva della governance non possa prescindere da una partecipazione attiva ai processi decisionali da parte del sistema della rappresentanza sociale, producendo fiducia e coesione come premesse indispensabili.

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HOUSING SOCIALE L’espressione housing sociale è una sorta di categoria “ombrello” che raccoglie schemi di policy e iniziative eterogenee e multiformi, pluralità di forme di tutela del diritto all’abitare e di definizione delle categorie degli aventi diritto, articolazioni diverse degli interventi pubblici. Secondo Housing Europe –federazione europea che riunisce 43.000 gestori e proprietari di oltre 26 mln di alloggi, l’11% del patrimonio residenziale dell’Unione – l’housing sociale è l’insieme delle attività volte a fornire soluzioni abitative per quei nuclei familiari i cui bisogni non possono essere soddisfatti alle condizioni di mercato e per le quali esistono regole di assegnazione. La Commissione Europea ne mette a fuoco il profilo organizzativo e gestionale per cui l’housing sociale coincide con «lo sviluppo, la locazione o vendita e la manutenzione di abitazioni a prezzi accessibili e la loro assegnazione e gestione, può comprendere servizi di assistenza coinvolti in programmi di edilizia abitativa o di risistemazione di gruppi specifici o di gestione del debito di famiglie a basso reddito». L’osservatorio italiano evidenzia l’evoluzione del modello di welfare centralistico innescata dal quadro normativo che, a partire dalla L. n. 9/07 ha generato un profondo cambiamento e dell’Edilizia Residenziale Sociale-ERS, chiamando a raccolta le risorse di soggetti economici privati. In un orizzonte che ha preso le mosse dalla definizione comunitaria, il Piano nazionale di edilizia abitativa ha previsto nel 2009 la costituzione di un sistema integrato, nazionale e locale, di fondi immobiliari, a partire dal FIA, per l’acquisizione e la realizzazione di immobili per l’ERS, ovvero la promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativicon la partecipazione di soggetti pubblici e privati per la valorizzazione e l’incremento dell’offerta abitativa in locazione. Il servizio abitativo pubblico e quello privato sono chiamati a comporre un’unica filiera dell’abitare sociale, seppure con pesi e impatti attesi assai diversi: in Italia sono circa 700.000 le unità in affitto gestite dalle

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a cura di

Rossana Zaccaria ( Le g ac o o p A b i t a nt i )

aziende casa del servizio pubblico, il 3% dello stock residenziale nazionale, e sono 18.500 i nuovi alloggi sociali in affitto calmierato da realizzarsi tramite il FIA. A essi si aggiungono le abitazioni in locazione delle cooperative a proprietà indivisa che contano circa 40.000 alloggi. I nuclei familiari in attesa di un alloggio del servizio pubblico sono circa 650.000, ciò significa che in Italia il numero di coloro che sono in attesa di una casa popolare è quasi pari al numero di coloro che già vi hanno accesso. Il secondo elemento che definisce l’alloggio sociale è la sua declinazione in termini di servizio abitativo: in tutta Europa da più di un decennio abbiamo constatato che, nelle esperienze più avanzate di housing sociale, si manifesta un allargamento del perimetro dell’abitare, attraverso la creazione di spazi comuni destinati a servizi collaborativi e di mutuo aiuto, in una dimensione che si confronta con la scala urbana e si propone come sistema dinamico di nuovo welfare. L’housing sociale, asset di fondi immobiliari etici a capitale paziente, ha sicuramente contribuito ad allargare il mercato di abitazioni e servizi rivolto a soggetti che non possono accedervi a prezzi di mercato, raggiungendo una propria identità nelle politiche abitative del nostro Paese e modificandone radicalmente la cultura e la sensibilità. Resta cruciale l’urgenza di rispondere alla crescente necessità di nuovi alloggi con il ritorno a una politica strutturale per la casa per contrastare il progressivo aumento della disuguaglianza,.Le limitate risorse pubbliche dovrebbero fare leva per ’ingaggiare risorse private e realizzare alloggi a canoni sostenibili, coinvolgendo operatori con competenze e finalità sociali come le Cooperative di Abitanti che nel modello imprenditoriale prevedono forme di inclusione e di collaborazione necessarie per garantire alle comunità un senso pieno di cittadinanza.

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INFRASTRUTTURE SOCIALI

Per le scienze sociali le infrastrutture rappresentano la rete di beni e servizi che, pur non operando immediatamente come parte del sistema produttivo, costituiscono il tessuto connettivo del rapporto tra gli attori economici. Trasporti, energia e telecomunicazioni sono i campi primari della trama infrastrutturale che sostiene le dinamiche dello sviluppo economico e, per ceti versi le ha addirittura innescate. Alle infrastrutture economiche si aggiungono le infrastrutture sociali, che garantiscono ai cittadini servizi fondamentali: sanità, istruzione, assistenza. Anche queste infrastrutture contribuiscono allo sviluppo economico, alimentando processi di crescita delle competenze e delle abilità e sostenendo la imprenditività della popolazione. Recentemente l’Europa -con il Rapporto Prodi , promosso dalla Commissione Europea e dalla associazione delle banche promozionali e pubbliche - ha sottolineato il rilievo delle infrastrutture sociali: “Dopo dieci anni di crisi il tessuto sociale dell’Unione Europea è sofferente. Quasi un cittadino su quattro è a rischio di povertà o di esclusione sociale, il tasso di disoccupazione è ancora relativamente elevato e quasi un giovane su cinque non riesce a trovare lavoro”. L’investimento in infrastrutture sociali ha un rilievo importante per gli effetti di coesione sociale ma anche per le esternalità che produce nella prospettiva della white economy La pandemia ha contribuito ad accendere i riflettori sulla condizione delle infrastrutture sociali, favorendo una attenzione non più limitata ai soli soggetti istituzionali. Le infrastrutture sociali sono state infatti il primo

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a cura di

Giampiero Lupatelli (CA I R E C o n s o r z i o)

argine su cui si è riversata l’onda d’urto della pandemia e hanno dovuto riorganizzare tempestivamente i propri mezzi e la propria organizzazione per fare fronte alle mutate condizioni operative determinate dal contagio e dalle misure di regolazione volte a contrastarle. Una sollecitazione amplificata dallo smarrimento che le condizioni di incertezza determinate dalla imprevista situazione sanitaria hanno diffuso tra i cittadini e nelle istituzioni. Indipendentemente dalla pandemia, ancora da venire quando questo veniva stilato, il Rapporto Prodi dedica peculiare attenzione al tema del finanziamento delle infrastrutture sociali proponendo due notazioni rilevanti riguardo ai caratteri istituzionali delle infrastrutture sociali che le contraddistinguono e le differenziano dalle infrastrutture economiche: “Le infrastrutture sociali sono opere medio piccole, granulari, sono finanziate per circa il 90% da risorse pubbliche, richiedono una forte presenza sul territorio… il consolidamento fiscale le ha penalizzate, tagliando i trasferimenti agli Enti Locali, riducendo così le risorse pubbliche a favore delle infrastrutture sul territorio.” Per le infrastrutture sociali - a differenza di quelle economiche - il contenuto immateriale è più rilevante del capitale fisico e la dimensione organizzativa è assai più interagente.

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I N N OVA Z I ON E SOCIALE L’innovazione sociale è un modello di sviluppo di nuove forme di organizzazione e di relazione tra soggetti diversi per dare risposta a problemi sociali o a grandi sfide trasformative. Nel primo caso si intende rispondere in maniera innovativa a bisogni sociali ben identificati e non ancora soddisfatti dall’azione pubblica o di mercato attraverso prodotti, servizi, modelli organizzativi e produttivi, attivando ibridazioni e collaborazioni tra il mondo della ricerca, delle imprese, della pubblica amministrazione e della società civile, nel contesto socio-ecologico di riferimento (Quintupla Elica). Nel secondo caso invece entrano in gioco le politiche e i processi di attuazione delle stesse che coinvolgono i cittadini attraverso azioni di co-design, sviluppo locale partecipativo e innovazione di comunità con l’obiettivo di affrontare le sfide sociali complesse e aumentare la resilienza dei territori. L’innovazione sociale, in sostanza, ruota attorno a quattro elementi fondamentali: • l’innovazione capace di generare valore condiviso; • la risposta a bisogni sociali insoddisfatti; • la trasformazione delle relazioni sociali; • la resilienza dei soggetti e dei territori coinvolti. I modelli di intervento e le pratiche proprie dell’innovazione sociale richiedono che si verifichino alcune condizioni fondanti: la produzione di innovazione centrata su bisogni specifici, e quindi l’analisi degli effetti di medio-lungo periodo; la strutturazione di processi collaborativi in forma reticolare e aperta, modificando anche la governance dei sistemi di innovazione; la distribuzione diffusa, equa e universale delle innovazioni prodotte; l’identificazione ex ante degli impatti sociali generabili e l’utilizzo della teoria del cambiamento per gestire e monitorare gli stessi. La valutazione sull’appropriatezza dell’innovazione sociale si basa anche sulla reattività della cittadinanza e sulla vicinanza ai bisogni espressi: in aggiunta alle performance economiche e finanziarie è necessario dotarsi di strumenti di valutazione, misurazione e monitoraggio delle politiche e dei progetti che garantiscano apertura e trasparenza. In questi processi è anche fondamentale il ruolo delle organizzazioni dell’economia sociale e degli innovatori sociali come catalizzatori di processi e modelli territoriali, hub di competenze condivise e connettori tra industria, ricerca e settore pubblico nella definizione delle sfide e dei bisogni e nell’attiva-

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a cura di

Kristian Mancinone (A rt- E R)

zione dei territori. Infine, la strutturazione di nuove forme di sostegno all’innovazione può aiutare la diffusione e la crescita delle innovazioni sociali. Tra queste figurano: appalti pre-commerciali, procurement per l’innovazione sociale, clausole e criteri di valutazione sociale nel finanziamento a progetti di innovazione, finanza orientata al risultato e finanza di impatto, social outcome contracting, modelli di co-programmazione e co-progettazione territoriale. Le pratiche e i modelli di innovazione sociale per la rigenerazione urbana mettono le persone e le comunità al centro delle trasformazioni urbane, producendo impatto sia sulla forma della città che sulla qualità delle relazioni che si sviluppano nel contesto urbano (capitale relazionale e sociale). In particolare, l’utilizzo aperto e condiviso dei dati per il miglioramento della qualità degli spazi, la partecipazione della società civile e della cittadinanza nella definizione delle strategie per la trasformazione generativa degli spazi della città, lo sviluppo di servizi a supporto delle fasce più deboli della popolazione (welfare di comunità) e di coloro che vivono in condizione di povertà, anche energetica, possono supportare lo sviluppo di pratiche inclusive per la valorizzazione e riattivazione dei luoghi. La creazione di valore non solo economico ma sociale condiviso è al centro degli interessi degli attori appartenenti al settore pubblico, all’economia di mercato e sociale, alla società civile e alle comunità territoriali che si apprestano a realizzare iniziative di trasformazione del territorio secondo metodi di innovazione sociale: azioni di questo tipo richiedono una governance condivisa e una leadership forte del settore pubblico come investitore e innovatore. L’innovazione sociale, quindi, viene perseguita non solo come intervento mirato su problemi sociali ma in quanto può determinare un cambiamento complessivo dei sistemi socio-tecnici e territoriali, tanto sul fronte economico, quanto su quello ambientale e sociale. Le stesse politiche basate sulle grandi sfide di lungo periodo, come Agenda 2030, hanno tra gli obiettivi quello di rispondere a questa esigenza di operare trasformazioni di sistema, e di farlo a partire da nuove direzionalità, definite tramite una scelta politica e il consenso condiviso con gli attori, la società e i territori.

IL GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE


LAVORO

Le relazioni tra economia, territorio e socialità, regolate urbanisticamente sui modelli ereditati dalla storia ma sviluppati nel dopoguerra attraverso sistemi di pianificazione che avrebbero dovuto gestire la crescita urbana senza purtroppo riuscirci, sono cambiate e si sono trasformate con l’avvento della rivoluzione digitale e dell’introduzione del concetto di economia circolare. Questi due fenomeni, dovuti da un lato al progresso tecnologico e dall’altro alle necessità dello sviluppo sostenibile, hanno di fatto cambiato e stanno continuamente cambiando i parametri di riferimento delle nostre attività, dei nostri luoghi, della nostra stessa vita, compreso quello del lavoro. Lo scenario lineare del modo di produzione industriale fordista del secolo scorso, che aveva nell’organizzazione territoriale della città il suo fulcro principale, è stato soppiantato dapprima dallo sviluppo molecolare dell’economia diffusa e dispersa, anche urbanisticamente, sul territorio, per giungere oggi alle logiche del modo di produzione digitale e dell’economia collaborativa, che di fatto spostano l’attenzione dai prodotti ai processi, dalle cose alle funzioni, dal “cosa produco” al “come produco”. Per il lavoro è una rivoluzione e il digitale è la chiave di questo cambiamento, perché il digitale cambia le nostre relazioni, il modo stesso attraverso il quale comunichiamo e ormai viviamo. Il digitale cambia anche il lavoro, con una accelerazione data dalla pandemia che non ha ancora esaurito ed esplicitato il nuovo rapporto tra lavoro e luoghi del lavoro. La rigenerazione urbana e territoriale deve tener conto di queste nuove condizioni strutturali dell’economia e della società, che sono condizioni della socialità, in quanto il lavoro si confronta da sempre con i luoghi del lavoro. Ma se il luogo di lavoro è la propria abitazione allora si deve ridisegnare il rapporto tra il singolo

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Federico della Puppa

e la società, tra il lavoratore e la comunità, tra la persona e la città, tra i luoghi di lavoro e il territorio. La rigenerazione in questo senso va intesa come superamento della separazione, una separazione che la pandemia ha acuito. La sfida è rendere il lavoro produttore di socialità. La città era il luogo del lavoro, perché le fabbriche erano in città, ma le fabbriche producevano anche la città, quella parte di città non costituita dagli edifici e dalle strade, ma la città delle persone, dei lavoratori e delle loro famiglie. La città, nella sua organizzazione, è sempre stata il luogo delle relazioni, ma se osserviamo le imprese, le fabbriche, i luoghi della produzione, sono anch’essi luoghi di relazioni, relazioni che nel tempo hanno saputo esprimersi in modo sociale ad esempio attraverso i movimenti dei lavoratori e le organizzazioni del lavoro, che costituivano un ponte tra il “dentro la fabbrica” e il “fuori la fabbrica”, tra il tempo del lavoro e quello della vita, tra la fabbrica e la città. Nell’era digitale, dello smart working e della nuova condizione del lavoro (soprattutto pensando alle nuove generazioni), dove è più importante “come” produco che “cosa” produco, la rigenerazione deve guardare alla città, al territorio, al lavoro e alla socialità come luoghi di relazione. La città è luogo di relazione, ma lo è anche il lavoro, e dunque è in questa logica che gli spazi, sia quelli materiali che quelli immateriali, devono essere pensati, in funzione di una rigenerazione che deve essere materiale, le cose da rigenerare, ma anche immateriale, ovvero i modi attraverso i quali costruiamo le condizioni della nuova socialità attiva e inclusiva.

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LONGEVITA’

Come ha recentemente documentato l’Istat nel 2020 la diffusione della pandemia da Covid-19 e il forte aumento del rischio di mortalità che ne è derivato hanno interrotto bruscamente la crescita della speranza di vita alla nascita che era proseguita fino al 2019: in Italia nel 2020 questo decisivo indicatore si è attestato a 82 anni (79,7 per gli uomini e 84,4 per le donne), facendo registrare rispetto all’anno precedente una contrazione di 1,2 anni. A livello provinciale la speranza di vita si è ridotta maggiormente nelle aree del Paese a più alta diffusione del virus durante la fase iniziale della pandemia, con valori particolarmente negativi nelle province di Bergamo, Cremona e Lodi dove la speranza di vita per gli uomini si è ridotta rispettivamente di 4,3 e 4,5 anni, seguite dalla provincia di Piacenza (-3,8 anni); negli stessi territori sono state ingenti anche le variazioni riscontrate per le donne (-3,2 anni per Bergamo, -2,9 anni per Cremona e Lodi e -2,8 anni per Piacenza). In Emilia-Romagna la speranza di vita alla nascita si è ridotta da 83,6 a 82,4 anni (80,2 per gli uomini e 84,7 per le donne) e si conferma quindi nel 2020 su valori lievemente superiori alla media nazionale. La riduzione della speranza di vita alla nascita evidenzia il drammatico impatto della pandemia in termini di contagi, ricoveri e soprattutto decessi nella popolazione anziana: fra le oltre 130.000 persone finora decedute con Covid-19 oltre il 95% aveva un’età superiore a 59 anni (e precisamente 10,4% fra 60 e 69 anni, 25,2% fra 70 e 79 anni, 40,2% fra 80 e 89 anni e infine 19,3% con 90 anni e oltre). Il tasso di letalità è stato del 2,7% fra 60 e 69 anni e poi sale rapidamente, con valori pari a 9,2% fra 70 e 79 anni, 19,8% fra 80 e 89 anni e 27,7% per le persone con 90 anni e più. La pandemia ha così evidenziato brutalmente la condizione di fragilità di salute di una quota rilevante di persone anziane, che in precedenza erano afflitte da una o più patologie gravi. Hanno così trovato drammatica

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Gianluigi Bovini (ASv i S)

conferma le statistiche diffuse da Eurostat che evidenziavano da tempo come in Italia la speranza di vita fosse più elevata rispetto agli altri Paesi europei, ma si associasse a condizioni di salute peggiori. La dimensione della salute si evidenzia quindi centrale in ogni prospettiva di buona longevità, soprattutto in un quadro demografico che vedrà nei prossimi decenni aumentare ulteriormente il numero assoluto delle persone anziane che dovrebbero raggiungere entro il 2045 in Italia e nella nostra regione un’incidenza relativa pari a circa un terzo della popolazione complessiva, con un incremento relativo molto rilevante soprattutto nella fascia di età superiore ai 79 anni. Mantenere il più a lungo possibile una condizione di salute soddisfacente è infatti il presupposto per assicurare una completa autosufficienza fisica e psichica della persona anziana e affrontare con successo le altre sfide della longevità, rappresentate dalle profonde trasformazioni delle forme di convivenza familiare e sociale, dalla diffusa e persistenze presenza di barriere architettoniche negli spazi di vita interni ed esterni all’abitazione e dalla precaria condizione economica di una quota non trascurabile anche se minoritaria di persone anziane. La pandemia ha infine posto in rilievo il ruolo decisivo delle tecnologie digitali per assicurare la continuità della vita sociale, culturale ed economica. Molte persone anziane sono però rimaste parzialmente o completamente escluse da queste dinamiche relazionali per la loro incapacità di sfruttare pienamente queste forme di connessione. Bisogna quindi porsi con determinazione e urgenza l’obiettivo di superare il più possibile queste barriere digitali, attraverso iniziative diffuse di formazione e facilitando anche la possibilità di delegare ad altri familiari o persone di fiducia l’accesso ad alcune piattaforme di interesse pubblico e di utilizzo generale.

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MASTERPLAN

Il master plan è un documento di pianificazione dinamico e di lungo periodo, che fornisce un quadro di riferimento per guidare le trasformazioni di un determinato ambito: di iniziativa pubblica, privata o mista è finalizzato a produrre una visione coerente e condivisa – ad esempio una idea di città o di territorio – da perseguire nel tempo, coordinando l’azione di una pluralità di soggetti e attingendo a risorse diverse. Collocandosi nell’intersezione tra pianificazione e disegno urbano, il master plan si occupa tanto di trasformazioni fisiche dello spazio che di politiche, di opere pubbliche come di iniziative private e istanze della collettività. Soprattutto deve occuparsi della reciproca relazione tra questi e del loro coordinamento. Sfruttando la malleabilità del termine ne diamo una definizione nel quadro della rigenerazione urbana, della quale può essere considerato con buona ragione uno degli strumenti principe. Il master plan può essere interpretato come uno strumento innovativo e sperimentale che deve trovare nel suo percorso di sviluppo le ragioni e le modalità per la propria realizzazione. Non ha, infatti, una sua cogenza normativa o vincolistica, non ha una dotazione di fondi né una sua diretta valenza programmatoria rispetto all’utilizzo di capitoli di spesa. E’ uno strumento leggero, là dove si vuole intendere questo attributo come snello e rapido, rispetto ai molti livelli della pianificazione territoriale esistenti. Non ambisce ad essere un ulteriore livello pianificatorio quanto piuttosto uno strumento di indirizzo, di strategia ma anche di tattica, per la trasformazione di uno specifico e ben definito ambito di intervento. Ma per non essere leggero nel senso deteriore del termine, ovvero inconsistente ed effimero, occorre che si radichi nella realtà materiale, che trovi alleanze così da dotarsi di “gambe”, per poter scaricare a terra

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Lorenzo Baldini (CA I R E C o n s o r z i o)

i propri contenuti. In questo senso i rapporti virtuosi che saprà stabilire con i portatori di interessi locali, con la realtà sociale economica e culturale del territorio, con i soggetti privati intenzionati ad investire, sono di primaria importanza. Tanto più un master plan è in grado di catalizzare e stimolare risorse, incanalandole ed indirizzandole verso i propri fini, tanto più avrà possibilità di incidere sulla realtà e di raggiungere gli obiettivi che si è dato. Tra i suoi contenuti possono trovare risposta alcuni o tutti i seguenti compiti: • Sviluppare un programma in fasi, identificando le priorità per l’attuazione • Agire da quadro per la rigenerazione, ad esempio per attrarre investimenti del settore privato o contributi della società civile • Individuare e articolare le risorse necessarie alla trasformazione • Definire l’armatura della città pubblica, intesa come spazi pubblici e servizi • Determinare il mix di funzioni la loro relazione • Coinvolgere la comunità locale e agire come costruttore di consenso • Costituire un palinsesto per il coordinamento di politiche di settore, progetti pubblici e privati Poichè le iniziative di rigenerazione sono generalmente proposte a lungo termine, è importante considerare il master plan come un documento dinamico che può essere modificato in base alle mutevoli condizioni del progetto nel tempo.

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METROMONTAGNA

Metromontagna è parola nuova, neologismo inventato dal geografo Giuseppe Dematteis, che racchiude in sé un proposito radicale: riunire sotto un unico sguardo ciò che ci appare da tempo diviso, decostruendo la contrapposizione e l’alterità tra aree metropolitane e aree interne, tra città e montagne. Questo drastico cambiamento del punto di vista appare necessario e illuminante, in una fase come quella che stiamo attraversando e per un territorio come quello del nostro paese, caratterizzati entrambi da una crisi della centralità urbana e da un ripensamento dei rapporti tra centri e periferie. In fondo non è altro che un ritornare, a partire da una visione contemporanea, a quell’intreccio di sistemi policentrici di medie e piccole città in stretta relazione con i loro contadi e montagne che è sempre stata la cifra – al contempo culturale, insediativa, produttiva – del nostro Paese. Durante la modernità novecentesca, e poi in modo sempre più accelerato durante gli ultimi decenni, si è pensato che le grandi aree metropolitane fossero le uniche in grado di garantire lo sviluppo, ridistribuendolo ai territori circostanti. Non solo questo meccanismo ha generato forti disequilibri e oggi si è inceppato, ma si inizia a pensare che in un’ottica di sostenibilità, di equità e abitabilità territoriale, di sviluppo integrato, di opportunità di accesso ai servizi, di valorizzazione delle risorse locali, sia necessario passare dalla contrapposizione e dalla dipendenza a una nuova idea di alleanza, complementarietà e cooperazione tra territori. E’ un tema, innanzitutto, di costruzione di una inedita cultura territoriale. Da diversi anni in questo paese mancano spazi concettuali e istituzionali intermedi per l’elaborazione e la pratica di questa nuova cultura. Attenta verticalmente ai territori, e capace di instaurare orizzontalmente relazio-

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Antonio De Rossi ( Po l i t e c n i c o d i To r i n o)

ni e reti lunghe. In grado di mediare le ragioni globali con quelle locali, restituendole in termini positivi e produttivi. E’ una dimensione, quella metromontana, che richiede nuovi atlanti e nuove mappe che mostrino alla politica la possibilità di non governare con la montagna alle spalle e lo sguardo speranzoso alla sola pianura, come se i piccoli centri, le vallate e gli spazi rurali non potessero generare sviluppo, benessere, abitabilità. Le politiche separano sulla base di confini che hanno natura amministrativa, in base a criteri disegnati dai centri o in funzione della ricerca del consenso politico, e solo raramente accompagnano e valorizzano le interdipendenze funzionali, i flussi di risorse e le persone che vivono e lavorano a cavallo di questi confini. La valorizzazione del policentrismo richiede politiche di connessione tra territori capaci di generare nuovi mercati, di costruire reti di servizi e infrastrutture, di contrastare l’infragilimento e gli effetti del cambiamento climatico. I territori italiani rappresentano uno straordinario laboratorio e incubatore per mettere alla prova questa nuova cultura territoriale che così importante potrebbe essere per l’intero Paese. La metromontagna come uno spazio contemporaneo dove sperimentare nuove strade e dimensioni: facendo diventare la produzione di culture il motore di sviluppo dei territori, ridispiegando i modi con cui welfare e servizi si danno in rapporto ai luoghi, supportando la green economy e l’innovazione, immaginando una nuova idea di infrastrutturazione territoriale, favorendo la rivitalizzazione degli spazi abbandonati nel corso del Novecento.

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NATURA

Natura e paesaggio sono due volti della stessa questione, anzi, forse, sono la stessa questione. Storicamente la distinzione non esisteva e i due concetti, a fine Ottocento-inizio Novecento quando le normative sul paesaggio nacquero, erano ampiamente sovrapponibili. Negli anni la divisione iniziò a farsi più evidente con lo sviluppo delle normative sull’inquinamento degli anni ’70 che definirono il concetto giuridico di “ambiente”, e di quelle sulle specie, i parchi e la biodiversità che presero prepotentemente spazio nella letteratura scientifica, e nella legislazione, soprattutto a partire dagli anni ’80. Le aree protette, inizialmente coincidenti con il concetto di parco nazionale mutuato dall’esperienza americana nata nel XIX Secolo (già nel 1916 era stato costituito negli USA il “National Park Service”), al loro nascere in Italia erano considerate un elemento sostanziale della normativa paesistica (si veda ad esempio il Decreto istitutivo del Parco Nazionale del Circeo del 1934). Ancora la “Commissione Franceschini” a metà degli anni ’60, nel tentativo di sistematizzare una visione unitaria, non distingueva chiaramente tra la tutela delle aree protette, delle specie e degli ecosistemi, e la tutela del paesaggio. La Natura era ancora al centro di una visione antropocentrica, quale elemento oggetto di tutela in quanto “percepita” come tale dall’Uomo. Con le visioni più ecocentriche sviluppatesi nella seconda metà del Novecento la Natura assume un suo ruolo autonomo, sia nella descrizione

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Giulio Tallone

del Mondo che nella normativa. La Direttiva Europea Uccelli Selvatici prima, e la Direttiva Habitat poi mettono la tutela della Natura (che man mano si sovrappone anche al concetto di “Biodiversità”) al centro di una separata attenzione. La legge quadro sulle aree protette del 1991 (ma nata nella discussione disciplinare degli anni ’80 basata sulle visioni di Giacomini che cercavano di riunificare in una visione anche più “sociale”, mutuata dalle esperienze internazionali maturate nell’ambito UNESCO), ha la centro la tutela della natura, che man mano si trasforma in un concetto più dinamico, quello di “conservazione”, legato alle discipline della Conservation Biology e della Landscape Ecology nate nel settore degli studi ecologici. Attualmente nella normativa italiana coesistono la tutela del Paesaggio e la conservazione della Natura, in due separati “corpus” giuridici, che non aiutano la semplificazione amministrativa tanto invocata da più parti, ma forse a mio parere, neanche le politiche della conservazione (Tallone, 2021). Anche se difficile, la prospettiva futura potrebbe essere una revisione generale della normativa, con le dovute cautele, che possa portare a politiche più efficaci oltre che più efficienti, e a utilizzare al meglio le esperienze sviluppate in oltre un secolo di attività.

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ORGANIZZAZIONE

Sin dagli inizi della civiltà umana, le nuove tecnologie e l’organizzazione del lavoro necessaria al loro utilizzo hanno plasmato e modificato a fondo sia le città sia il territorio circostante e le vie di comunicazione. Senza andare molto all’indietro nella storia dell’umanità, è a tutti noto l’impatto che la rivoluzione industriale dell’800 e dei primi del ‘900 ha avuto sulle città italiane. Ancora oggi sono infatti visibili le grandi aree industriali, molte abbandonate e in ristrutturazione, ma molte ancora funzionanti. Ancora oggi le ferrovie e le stazioni costruite a fine ‘800 sui bordi delle città rinascimentali sono una grande struttura di comunicazione in uso. È poi noto a tutti il gigantesco impatto dell’automobile e della motorizzazione di massa degli anni ’60 e ’70 del Novecento: strade e autostrade, rotatorie e circonvallazioni, parcheggi e sottopassi. Quale impatto avrà a breve la digitalizzazione e tra qualche anno la transizione ecologica? È possibile utilizzare le nuove tecnologie e le esigenze di salvezza del pianeta per rinnovare le città e rigenerarle? Oggi si possono solo fare alcune ipotesi per rispondere a queste domande. Una prima risposta molto semplice può prendere avvio dagli effetti della digitalizzazione sulle organizzazioni del lavoro e dell’impresa, che il COVID ha accentuato e messo in evidenza. In generale le tecnologie digitali tendono a rompere i vincoli di copresenza e di contemporaneità che l’organizzazione del lavoro nelle vecchie fabbriche richiedeva. Ma la pandemia da COVID 19 ha accelerato questo superamento. Come noto il lock down ha sviluppato un lavoro a distanza per più del 40% degli addetti ai settori industriali, in particolare i tecnici e gli impiegati. Attualmente con la parziale riapertura si assiste a un ritorno negli uffici, ma la tendenza generale è per soluzioni miste di lavoro in loco e a distanza per i settori tecnico-impiegatizio e anche per molte figure operative che possono controllare a distanza le macchine e i processi manifatturieri.

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Luciano Pero

Quale che sia l’esito a breve della dialettica tra il management (più favorevole al ritorno negli uffici) e i lavoratori (più favorevole al lavoro a distanza) la strada è ormai segnata e porterà a notevoli modificazioni delle città. È facile prevedere una forte riduzione delle concentrazioni di uffici impiegatizi nelle grandi città, una crescita del lavoro a distanza non solo da casa ma anche da nuovi centri di co-working posti nelle periferie e nei piccoli centri urbani, o addirittura nei nidi d’aquila sulle montagne. Nelle fabbriche, il lavoro operaio sarà anch’esso sottoposto a forti evoluzioni: diminuiranno le ore di lavoro diretto sugli impianti e aumenteranno le ore a distanza per la formazione continua, la gestione degli impianti telecomandabili, la partecipazione ai gruppi di innovazione e miglioramento, l’analisi delle performance e dei guasti attivabili a distanza. In secondo luogo la possibilità di digitalizzazione completa dei sistemi produttivi con la creazione di una immagine digitale perfetta del suo funzionamento (il cosiddetto gemello digitale della fabbrica o del servizio), potrebbe anche innescare una nuova distribuzione dei diversi reparti produttivi sul territorio, con una nuova organizzazione dell’intero ciclo di lavoro intorno a poli specialistici che operano su diversi flussi con scambi informativi evoluti con le altre fasi del processo e con forti risparmi energetici. Questa nuova distribuzione delle catene di produzione e di servizio sul territorio deve però fare i conti con le esigenze di trasporto dei manufatti o di contatto diretto con i clienti, e deve perciò minimizzare il consumo di carburanti fossili e l’emissione di CO2 nell’atmosfera. Anche nel caso dei servizi, la distribuzione sul territorio sarà profondamente condizionata dai problemi energetici e di trasporto e dalla disponibilità di informazioni a distanza sulla situazione dei clienti. Si pensi all’ipotesi della telemedicina e della cura a domicilio. L’ottimizzazione di questi due fattori principali per la competizione futura: la specializ-

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ORGANIZZAZIONE

zazione del ciclo con riduzione dell’energia per la produzione, e l’ottimizzazione dei trasporti con riduzione dell’energia per gli spostamenti, richiederà molta flessibilità e adattabilità ai sistemi urbani e al sistema dei trasporti e delle localizzazioni industriali e dei servizi. Questa adattabilità richiederà non solo flessibilità amministrativa ma anche una facile riorganizzazione modulare dei sistemi urbani e dei servizi essenziali. Da questo punto di vista le nostre città così cementificate sono troppo rigide, troppo dure e poco flessibili. Le strutture fisse sono poco disposte ai cambiamenti rapidi che saranno necessari. Si noti che l’adattabilità alle nuove riorganizzazioni dei cicli produttivi in vista del risparmio energetico e dall’uso ottimale della digitalizzazione, sarà un fattore competitivo straordinario, sia per il sistema paese che per i singoli territori. Forse conviene pensare a città e quartieri più modulari e dove i luoghi di produzione e i luoghi di servizio si possono scambiare facilmente. Ma oltre alla ottimizzazione dei trasporti e dei cicli produttivi digitalizzati, sarà importante la soddisfazione di nuovi fabbisogni. La Pandemia e il lock down ci hanno dimostrato anche quanto sono cresciute soprattutto le esigenze di nuove forme di socializzazione. In un mondo dove si lavora a distanza e la comunicazione è molto digitalizzata cresce l’esigenza di rapporti diretti. L’umanità in sostanza non può fare a meno della comunicazione diretta e del contatto fisico e linguistico faccia a faccia. Senza di esso si rischia una società troppo ansiosa.

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Luciano Pero

Le future città e il lavoro digitalizzato dovranno perciò soddisfare nuove forme di socializzazione e di contatto diretto in un mondo più digitale e che deve ridurre lo spreco di energia. Forse sarà necessario riorganizzare i nostri luoghi tradizionali di incontro, come le piazze, i cortili, i portici adattandoli ai sistemi digitali, o creandone di nuovi, dove le nuove comunità professionali e i gruppi digitali potranno incontrarsi direttamente. L’idea è che lo sviluppo del lavoro e della società digitale creerà nuove comunità di lavoro o di interesse o di cultura. Esse nasceranno dalla libera scelta delle persone e si svilupperanno in modo misto, in parte digitali e in parte con contatti diretti. Le città dovranno diventare più aperte a queste nuove comunità e alla loro rapida evoluzione. In sintesi, è importante capire che i due fattori di cambiamento, le nuove tecnologie e la transizione ecologica, apriranno un periodo di trasformazione e di continua sperimentazione. In questo periodo ci saranno in competizione diverse soluzioni logistiche, diverse tecnologie, diversi approcci culturali che produrranno diverse soluzioni urbanistiche e diversi approcci alla città. La cosa importante sarà essere capaci di sperimentare, di imparare dagli errori e di trovare le soluzioni migliori e più adatte a ciascuna cultura e comunità umana.

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PARCO

Uno strumento straordinario per contrastare l’uso indiscriminato delle risorse naturali, una esperienza che nasce dal tentativo della società moderna di dare risposta alla propria coscienza, colpevole dell’aver chiesto troppo al Pianeta, e che vede la sua nascita proprio negli anni 70 dell’ottocento, quando i disastri dell’espansione industriale occidentale danno i primi netti segnali. Con questa asserzione possiamo tentare di dare una risposta a cosa sia un’area protetta, secondo una visone confermata da quanto di recente uno dei massimi biologi viventi della conservazione, E.O. Wilson, ha sostenuto ne“L’altra metà della Terra”. Una visione dualista, separativa, tra un dentro e un fuori, che riproduce il modello socio-antropologico che G.Osti aveva già descritto anni fa del parco, creando il parallelismo con una chiesa: nel parco, come in una chiesa, si entra in punta di piedi, si sa che le regole sono diverse e che vi è un parroco, il direttore del parco, e i suoi chierichetti, i guardia-parco, che con costante richiamo ricordano i contenuti delle “sacre regole”. Ma nell’oltreoceano rispetto all’Alabama di Wilson, ovvero in Italia, negli anni 80 del secolo successivo, un pensatore sempre biologo, ma questa volta del mondo vegetale e di origini friulane, Valerio Giacomini, con il suo “Uomini e Parchi” propone una nuova sintesi: l’area protetta non come modello chiuso, ma come laboratorio dove praticare le azioni di convivenza tra usi e conservazione, con un obiettivo aperto e indirizzato infine alla eliminazione di un’area protetta, sostituita da progetti di vita sostenibili incardinati ordinariamente nel tessuto vitale di una comunità. Il fitosociologo italiano si fa anche promotore e ideatore di una proposta concreta per tendere verso questa rivoluzione tolemaica: si impegna con esito positivo in UNESCO per la nascita di un programma mondiale che faciliti la crescita di laboratori che tendano all’affermazione di questo nuovo archetipo di gestione, denominandole Riserve della Biosfera, nel programma che prende spunto dal suo Uomini e Parchi dal titolo di Man and Biosphere.

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a cura di

Ippolito Ostellino

E’ un pensiero che si colloca nel solco della stagione ideale della sostenibilità, e di un periodo in cui la società umana tenta di riprendere gli antichi saperi della convivenza e della cooperazione, per abbandonare il modello di sviluppo estrattivo, e riprendere l’antico cammino di una presenza in equilibrio con le risorse non illimitate del Pianeta. Un pensiero che è anche il risultato dei magnifici, ambientalmente parlando, anni 70, nei quali sorgono le grandi tendenze internazionali dell’ambientalismo maturo del 900. L’Italia delle istituzioni in questo panorama arriva in ritardo, approvando nel 1990 una legge nazionale che non fa che riprodurre il modello tradizionale dei parchi, senza innovare. Le Regioni, già forti delle loro esperienze nate negli anni 70, tentano nei fatti più che nelle norme l’applicazione di nuovi principi, con un lavoro che sarà anche poi ripreso dai parchi nazionali, coltivando una maggiore integrazione con le politiche territoriali e dando voce al loro interno a categorie come la cultura e l’arte, l’abitare, la mobilità sostenibile, la creatività delle produzioni della terra, il paesaggio, l’energia: i parchi diventano così spazi di politiche per l’ambiente e non solo per la natura, divenendo in molte occasioni gli attori del riconoscimento da parte di UNESCO proprio di Riserve della Biosfera nei loro territori. Questa spinta però si affievolisce in un quadro istituzionale e culturale che purtroppo insieme, in una sorta di competizione al ribasso, non sanno proseguire il giusto abbrivio degli anni d’oro dei parchi italiani. Eppure progetti e idee non sono mancati e sono lì solo da riprendere: Ape Appennino Parco d’Europa, le Alpi, i sistemi dei parchi metropolitani, le coste e isole sino ai sistemi fluviali, grandi schemi di lavoro da proporre alla scala dei progetti europei, che tuttavia il sistema Paese non ha ancora una volta saputo ripescare dal bagaglio delle idee, neppure in occasione del PNRR. Sarà per il prossimo giro, se ci sarà.

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PARTECIPAZIONE

Partecipazione, una parola che racchiude in sé molteplici significati: partecipazione politica, partecipazione agli utili, partecipazione sociale. Soffermando il pensiero a riflettere sul significato del termine “partecipazione” nel campo della rigenerazione urbana, ritroviamo tutti i significati ricompresi in questa parola per dare corpo al ruolo e alla forza che il tema porta con sè. Partecipando come attori attivi a progetti di Rigenerazione urbana, i soggetti attuatori generano la riattivazione e riqualificazione di luoghi spesso inabitati o socialmente inoccupati. Attraverso “bilanci partecipativi” le istituzioni pubbliche, nominate dai cittadini attraverso il voto (partecipazione democratica e politica nella scelta dei propri rappresentanti) hanno la possibilità di orientare l’attività di un determinato territorio da rigenerare incontrando il consenso di chi, partecipando appunto alla costituzione di un progetto, esprime con esso i propri bisogni e le proprie necessità per raggiungere il benessere sociale e familiare, valore spesso sottovalutato rispetto al benessere economico finanziario. La partecipazione diretta del cittadino a iniziative e attività che all’interno degli spazi rigenerati si possono sviluppare, permette aggregazione sociale, attivazione di percorsi di comunità, espressione di volontariato e di mutuo aiuto. In tal modo i cittadini, i soci di una cooperativa (sociale, di abitanti, di utenti), le istituzioni pubbliche (di quartiere, servizi sociali, amministrazioni comunali e regionali), tutti gli abitanti di un determinato territorio, insieme, attivano processi di partecipazione collettiva che contribuiscono ad accrescerne il valore economico anche apportando alle aziende

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a cura di Barbara Lepri ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a )

che in quel contesto operano, utili e proventi partecipativi. In una sola parola tanti significati, connessi tra loro, che attivano un sistema di relazioni senza confini, generano valori e obiettivi comuni condivisi da individui e organizzazioni. Una comunità di soggetti che attraverso progetti di rigenerazione urbana combatte la povertà e l’esclusione sociale, riduce i rischi ecologici attraverso attività sostenibili, restituendo ai territori energia, vigore e senso di appartenenza. Molte sono le società cooperative che negli ultimi anni si sono organizzate per incentivare la partecipazione sociale alle attività dei territori, per sollecitare “dal basso” i bisogni e le necessità emergenti , per fornire risposte concrete agli stimoli derivanti dall’esigenza di abitare in luoghi sicuri, che offrono servizi utili alla comunità. E’ insito nell’essere umano il rischio di giudicare, criticare, arrogandosi spesso il diritto di imporre sugli altri il proprio pensiero; dimenticando invece di partecipare attivamente alla costituzione di quel pensiero stesso, approfondendo la motivazione che porta il decisore a scegliere una proposta anziché l’altra. Non facciamo l’errore di sottrarci alla “partecipazione”, alle attività che ci vengono sollecitate e proposte. Ogni nostra partecipazione a quelle attività fornisce un innesco utile al benessere sociale di tutte le comunità e di tutti gli ambiti in cui si sviluppa.

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PNRR

Una terza lettera“R”? La Rigenerazione e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Leggendo il PNRR risulta evidente il carattere composito degli interventi previsti e il loro carattere sistemico. È evidente che il raggiungimento degli obiettivi di fondo prevede una integrazione tra le varie misure, in una logica che punta all’integrazione dei vari provvedimenti perseguendo obiettivi strategici: aumento della coesione, rilancio della produttività, contrasto alle disuguaglianze. La Rigenerazione Urbana (RU) rappresenta una di quelle politiche trasversali che richiede l’integrazione di linee di intervento e di finanziamento distinte e apparentemente lontane. Va detto che la RU ha acquisito una evidenza esplicita anche nella normativa nazionale, per esempio nel decreto Sblocca cantieri (D.L. 18 aprile 2019, n. 32) in cui, all’articolo 5, si parla di una riduzione del consumo di suolo a favore della rigenerazione del patrimonio edilizio esistente incentivandone la razionalizzazione, promuovendo e agevolando la riqualificazione di aree urbane degradate. Nel PNRR la RU è sia un obiettivo generale sia l’oggetto di misure specifiche che riguardano ad esempio risparmio energetico, interventi edilizi caratterizzati dalla sostenibilità, utilizzo del superbonus, etc. Con destinazione più mirata si possono evidenziare alcune misure. Nella MISSIONE 1, vi è l’Intervento M1C3 Turismo e Cultura, che parla di borghi, rilancio delle periferie urbane, sistemazione degli edifici di culto; interventi che qualificano e valorizzano un territorio anche nel senso della fruibilità turistica.

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a cura di Maurizio Brioni ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a)

Nella MISSIONE 5 – Coesione e inclusione – ed in particolare in M5C2 – Infrastrutture Sociali, Famiglie, Comunità e Terzo Settore –si parla di “…interventi di rigenerazione urbana, “…anche come strumento di supporto all’inclusione soprattutto giovanile, e al recupero del degrado sociale e ambientale, attraverso, in particolare, la realizzazione di nuove strutture di edilizia residenziale pubblica e la rifunzionalizzazione di aree e strutture edilizie pubbliche esistenti…”. Per esempio la MisuraM5C2.2 riserva 9,02 miliardi di fondi ad interventi di rigenerazione urbana e housing sociale, in tre linee di intervento: • Investimento 2.1: Investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale, per 3,30 miliardi di prestiti per i Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, per mobilità sostenibile, arredo urbano, manutenzioni, etc. • Investimento 2.2: Piani Urbani Integrati, per 2,9 miliardi di euro di prestiti, dedicato alle periferie delle Città Metropolitane che prevedano una pianificazione urbanistica partecipata, limitando il consumo di suolo edificabile. E’ importante anche segnalare la metodologia indicata: “…della co-progettazione con il Terzo settore ai sensi dell’art. 55 decreto legislativo 3 luglio 2017 n.117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’art.1, comma2, lettera b) legge 6 giugno 2016, n.106) e la partecipazione di investimenti privati nella misura fino al 30 per cento con possibilità di far ricorso allo strumento finanziario del “Fondo dei fondi” BEI.” al fine di “…recuperare spazi urbani e aree già esistenti allo scopo di migliorare la qualità della vita promuovendo processi di partecipazione sociale

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PNRR

e imprenditoriale…”nel quale ambito“…i progetti dovranno restituire alle comunità una identità attraverso la promozione di attività sociali, culturali ed economiche con particolare attenzione agli aspetti ambientali…” • Investimento 2.3: Programma innovativo della qualità dell’abitare prevede investimenti per 2,8 miliardi di euro di prestiti per la realizzazione di nuove strutture di edilizia residenziale pubblica, per ridurre le difficoltà abitative, con particolare riferimento al patrimonio pubblico esistente, per interventi senza consumo di nuovo suolo attraverso la : “…i) riqualificazione e aumento dell’housing sociale, ristrutturazione e rigenerazione della qualità urbana, miglioramento dell’accessibilità e della sicurezza, mitigazione della carenza abitativa e aumento della qualità ambientale, utilizzo di modelli e strumenti innovativi per la gestione, l’inclusione e il benessere urbano…”nonché tramite “..(ii) interventi sull’edilizia residenziale pubblica ad alto impatto strategico sul territorio nazionale…”. Anche la MISSIONE 6 SALUTE e la MISSIONE 4 Istruzione e Ricerca considerano interventi che possono intrecciare il percorso della RU. Per esempio la dove la Misura M6C1 prevede 2 MLD di euro per investimenti in “case della comunità” esplicitando che “il presente investimento agisce in maniera sinergica con l’investimento 2.2 della Componente 2 della Missione 5” cui si è fatto prima cenno, oltre ad 1 MLD di euro per investimenti volti alla realizzazione di “Ospedali di comunità” ovvero la

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a cura di Maurizio Brioni ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a)

Misura M4C1 che destina 4,6 MLD di Euro alla costruzione, riqualificazione e messa in sicurezza degli asili e delle scuole dell’infanzia e 3,6 MLD di Euro al miglioramento degli edifici scolastici. Occorre inoltre tener conto anche del Fondo complementare previsto in stretta relazione con il PNRR. All’articolo 2, alla lettera c) del comma 1-bis che ha attribuito risorse agli obiettivi già decritti: nel dettaglio,“…35 milioni di euro per l’anno 2021, 70 milioni di euro per l’anno 2022 e 90 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023 e 2024, in favore dei comuni con popolazione tra 50.000 e 250.000 abitanti e dei capoluoghi di provincia con meno di 50.000 abitanti per investimenti finalizzati al risanamento urbano, nel rispetto degli obiettivi della transizione verde e della rigenerazione urbana sostenibile, nonché a favorire l’inclusione sociale…”. Questa rapidissima verifica delle risorse messe a disposizione dal PNRR per iniziative di RU esemplifica il metodo necessario con il quale approcciare la complessa normativa in campo: una logica di sistema, che deve vedere nei progetti strumenti di aggregazione delle varie risorse e fonti, in una logica sistemica per la quale quello che conta non è il perseguimento dei singoli obiettivi delle varie misure ma il loro utilizzo per il raggiungimento di obiettivi generali definiti con un metodo di Partenariato Pubblico Privato.

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PROSSIMITA’

I servizi e la loro accessibilità sono uno dei temi fondamentali della urbanistica come garanzia del diritto alla città. Ma quali servizi per il PUG nell’urbanistica della rigenerazione urbana e territoriale? Dagli standard consolidati, alle dotazioni e territoriali, ai nuovi bisogni. Oggi i cambiamenti degli stili di vita richiedono uno sguardo nuovo sia sulla gamma dei servizi che sulla loro accessibilità, intesa come concreta possibilità di raggiungerli e di utilizzarli da parte dei cittadini. Il Covid-19 ci insegna che occorre imparare dalla crisi per rivoluzionare i nostri comportamenti una volta superata la pandemia, in modo da evitare o mitigare le possibili prossime crisi di sistema come, ad esempio, gli effetti del cambiamento climatico. Significa trasformare le città, ripartire da comunità urbane in equilibrio con le altre specie viventi e, soprattutto, luoghi privilegiati della salute pubblica. La pandemia ha accelerato fortemente le tendenze verso “la città di prossimità” dove i servizi per la vita quotidiana sono vicini, ci si conosce, occorre meno tempo e meno mobilità motorizzata. Davvero un ambiente di vita meno fragile, più amichevole e solidale, più flessibile e disponibile verso nuovi bisogni. Occorre ri-progettare città policentriche e resilienti e l’urbanistica della rigenerazione urbana ha una grande responsabilità nel farlo. Abbiamo bisogno di città con un più adeguato metabolismo circolare di tutte le

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a cura di

Gabriele Bollini ( B a n c a E t i c a)

funzioni, con una maggiore vicinanza delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi. Città capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare risorse: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove, più intelligenti per ridurre i costi, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti, più produttive per tornare a generare benessere, più collaborative per coinvolgere tutti e più circolari per ridurre gli sprechi ed eliminare gli scarti. La “prossimità aumentata” diviene allora criterio base per costruire resilienza sociale e rigenerazione urbana a partire da una nuova idea di abitare e vivere la città avendo sottomano tutto quello che serve per la vita quotidiana: l’idea a cui allude la “città dei 15 minuti”. Un nuovo ambiente di vita che collega a scala locale politiche e azioni diverse. Nel concreto la città di prossimità non rispecchia più il tradizionale elenco di funzioni separate, ma risponde ad un fertile bricolage di luoghi che siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando ruoli differenziati. E che nel loro insieme e nella loro accessibilità offrano più ampie opportunità di vivere secondo le esigenze e i desideri di ognuno.

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RESILIENZA

Difficile immaginare la città del futuro. Già molte sono le situazioni che il presente ci consegna dove appaiono evidenti i limiti e le inadeguatezze materiali e immateriali. La pandemia, i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione, le nuove forme di lavoro, i mutamenti nella vita sociale, la disarticolazione della rete familiare, la progressiva presenza multiculturale testimoniano quanto importante sia il luogo dove ogni giorno molto di ciò si forma e trasforma. Alla città del futuro non dobbiamo chiedere di resistere ai cambiamenti. La sfida è quella di sapere “dialogare” con i cambiamenti, immaginarli, interpretarli. Cogliere le opportunità mettendole in valore attraverso una continua ricerca di integrazione. Tra centro e periferia, tra generazioni, tra condizioni sociali differenti. C’è una parola, fra le tante, che può aiutare a ripensare la città. Resilienza. Resilienza come riferimento nella costruzione e ricostruzione di ambienti urbani capaci di adattarsi ai mutamenti introdotti da ciò che genericamente chiamiamo progresso. Di segno positivo se pensiamo alla ricerca nel campo della medicina e alle ricadute sull’aspettativa di vita. Non sfugge che proprio l’invecchiamento della popolazione, dovuto ai progressi della medicina e al miglioramento delle condizioni sociali e materiali delle persone, pone il tema della qualità dell’ultimo tratto di vita. I nuovi modelli di welfare,

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a cura di Daniele Montroni ( Le g ac o o p E m i l i a- Ro m ag n a)

l’avvicinarsi fino a conoscere momenti di sovrapposizione tra interventi in campo sociale e prestazioni sanitarie, chiedono di ripensare a spazi urbani, a modelli abitativi nella costruzione e gestione in grado di adattarsi al mutare dei bisogni. Di essere includenti. Di segno negativo se rivolgiamo lo sguardo ai cambiamenti climatici indotti da modelli di sviluppo e di consumo non più sostenibili. Questi cambiamenti inducono a ripensare gli spazi urbani. Alle città del futuro viene chiesto di resistere a eventi estremi sempre più frequenti come piogge intense, inondazioni, temperature estive elevate e nel contempo di contribuire a ridurre i fattori che li generano, intervenendo sulla mobilità, sugli orari, sul risparmio energetico, sulla riduzione e gestione dei rifiuti. Uno sforzo affidato ad una pluralità di soggetti ai quali è richiesta una visione d’insieme e un approccio in grado di misurare la resilienza delle azioni messe in campo. Le città inglobano tecnologia, progresso, sono un deposito di cultura, di storia, influenzano la vita quotidiana delle persone. Non sono solamente un’ insieme di infrastrutture, ma spazi aperti e chiusi che aiutano una comunità ad integrarsi, persone a crescere, giovani a diventare adulti, anziani a vivere l’ultimo tratto di vita con dignità. Renderle resilienti aiuta a preservarle e a consegnarle al futuro.

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RESPIRO

Respiro è una parola che mai come in questo momento contiene quasi interamente il tempo che stiamo vivendo. Il tempo del Covid!. Manca il respiro a tutte quelle persone che colpite dal virus si sono sentite sempre più soffocate dalla mancanza di aria fino a morirne. Mai come in questo caso la frase “è spirato!” si carica di un potente e inequivocabile significato. Una mancanza di respiro che ha colpito anche i familiari che hanno visto i loro cari entrare nei reparti ospedalieri senza nemmeno poterli accompagnare nella parte finale della propria esistenza. Un dolore che solo il tempo saprà lenire e che è dovere delle comunità condividere. In questa direzione va la proposta alla Regione Emilia-Romagna di mettere in cantiere, nei prossimi anni, la piantumazione di 4.4 milioni di alberi anche a ricordo delle vittime del Covid. Con il ciclo di vita degli alberi la terra che ha accolto i nostri cari ci restituisce quell’ossigeno che è la fonte essenziale del nostro respiro. E’ la principale sfida che abbiamo di fronte: il come ritrovare quel respiro tra noi e il pianeta, sempre più condizionato dai vari gas, più o meno serra, che il nostro insostenibile “modello di sviluppo” continua a produrre a danno dell’ambiente e delle future generazioni.

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a cura di Fausto Viviani ( Fo r u m Te r zo S et t o re)

Con il lock-down e il blocco di quasi tutte le attività abbiamo visto i cieli più azzurri; specie animali quasi scomparse riapparire anche ai limiti dei nostri boschi; noi stessi abbiamo percepito il nostro contesto quotidiano con più lentezza, attenzione e profondità. Una riequilibrio naturale che si presenta anche come un monito verso tutti noi e sul quale si stanno, in vario modo, misurando i progetti e i percorsi di rigenerazione urbana. Non possiamo cavarcela con l’idea di ripartire da dove ci siamo fermati quanto quella di cambiare e rigenerare le nostre vite personali e collettive. Infine il respiro è anche la necessità di uscire quanto prima da questa interminabile emergenza che sta travolgendo le nostre vite, le relazioni, il nostro lavoro per ritrovare un attimo di pace e fiducia nel futuro. Si, ci serve un profondo respiro, di quelli che “resettano”le turbolenze e gli stati di ansia, per alzare lo sguardo e farci rapire “ dalla bellezza del mare grande e infinito” ( cit. Il piccolo Principe). Buon respiro a tutti

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RICOSTRUZIONE

Ad oggi, in Italia, circa 450 comuni, concentrati nella parte centrale della penisola, stanno affrontando una fase di ricostruzione post disastro naturale. Se è necessario ricostruire significa che c’è stata una distruzione, un equilibrio alterato tra Uomo e Natura, un assetto da ripristinare, più sicuro, più duraturo. Le riflessioni sistematicamente urgenti dopo ogni terremoto, alluvione, frana, eruzione o inondazione riportato l’attenzione sulla sostenibilità della gestione di patrimoni e paesaggi, su normative e tecnologie, su usi e conservazione. Si lavora ad una Carta delle Ricostruzioni, ad un sistema di emergenza e ricostruzione che non trovi impreparato nessun cittadino, nessun responsabile. Ci lavorano strutture tecniche, Commissari, atenei, Dipartimenti di governo, giuristi e ingegneri. Ma se è vero che abitiamo tutti la Casa comune, prima di ricostruire è necessario prevenire: “Custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare’ (par. 67 Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco). La Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa conferma le idealità dell’Enciclica e di tanta Etica della responsabilità: gli oggetti e i luoghi non sono importanti, di per sé, ma in virtù di ciò che le persone attribuiscono loro, dei valori che rappresentano e del modo in cui questi possono essere compresi e trasmessi ad altre persone. Le comunità patrimoniali partecipano, intraprendono, si assumono responsabilità nella conoscenza, tutela e fruizione del patrimonio, che è di tutti e a tutti è rivolto per uno sviluppo sostenibile.

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a cura di

Sabina Ciancone (S i n d ac o d i Fo nt e c c h i o)

Oltre il ripristino di funzioni e fisiche, le ricostruzioni che l’Italia sta affrontando hanno una scomposizione più profonda da fronteggiare: devono riconciliare persone e luoghi, uomini, donne e mondo naturale. Legami spezzati tra persone e tra storie e luoghi, identità messe in discussione, restauri che creano dimensioni ibride tra antico e futuro, inclusioni lente o mancate. Intanto gli anni trascorrono, cambiando progetti di vita e di lavoro. Chi abiterà i luoghi faticosamente ricostruiti? Quale valore sociale avranno gli investimenti concentrati sulle proprietà private? Quali servizi di cittadinanza saranno sopravvissuti in paesi piccoli e isolati? Quali competenze e energie imprenditoriali avranno avuto il coraggio di restare, di aspettare? Ricostruire è aggiungere del nuovo, migliorare il preesistente, aggiornare, rivitalizzare. È ciò che fa ogni essere vivente che vuol sopravvivere, ogni ecosistema. Le politiche di transizione ecologica dell’economia, di rigenerazione urbana e di sviluppo delle aree interne potrebbero avere come assunto la reciprocità e la bellezza della diversità. Ridisegnarsi così sarebbe più semplice, le nostre comunità non avvizzirebbero.

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SCUOLA

a cura di Andrea Morniroli ( Fo r u m D i s e g u ag l i a n ze D i ve rs i t à)

e Cristina Tenzoni ( Po l i t e c n i c o d i M i l a n o)

Spesso quando si ragiona di scuola non si riesce a uscire dalla sua dimensione specifica, dalle cornici fisiche, di metodo e di possibili attori che tradizionalmente caratterizzano la prospettiva e il dialogo su tale ambito. Non si pensa, o almeno non ci si pensa con naturalezza, a come la città possa nutrire la scuola (con buone politiche di trasporto, con la cura degli spazi verdi, con le politiche culturali e del tempo libero) e di come allo stesso tempo la scuola possa alimentare la città, per prima cosa nell’offrire gli spazi e i presupposti educativi necessari al sentire responsabilità collettiva l’uso dello spazio pubblico. A sentire come proprio diritto-dovere l’investimento nella cura e nella qualità dei luoghi. In altre parole, a offrire strumenti e chiavi di lettura per fare della cura dello spazio pubblico opportunità e responsabilità collettiva. Sapendo che a volte, soprattutto nelle parti di città più in sofferenza, quelle attraversate da processi di abbandono e disagio, le scuole rappresentano l’unico presidio pubblico che ancora conserva una relazione fiduciaria, non slabbrata e rassegnata, con le persone e le comunità. Perché sono soggettività che spesso si sentono abbandonate e non riconosciute dalle istituzioni e, più in generale, da tutto quello che è “centro” o da tutti quelli che sono sentiti distanti in quanto percepiti come disattenti e indifferenti in quanto “garantiti”. E in quel senso di non attenzione si innesta quella disuguaglianza di riconoscimento che rende insopportabile, la propria condizione caricando di rabbia le difficoltà, spingendo le persone nel rancore verso chiunque che per provenienza, alterità o maggior debolezza può diventare il nemico opportuno su cui scaricare le colpe del proprio star male. Un rancore che spinge verso derive autoritarie o verso ipotesi identitarie fondate sul dominio o l’allontanamento delle altre differenze. Agire lì, nel recupero materiale e immateriale di quella distanza, nel rammendo delle lacerazioni tra le persone e la “cosa pubblica”, significa riempire il vuoto con luoghi di reciproco riconoscimento, dove i diritti di

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tutte le parti in gioco, prime o ultime che siano, si sentano visti, interpretati e accompagnati in processi di mediazione e valorizzazione. Quindi è urgente porsi alcune domande. Cosa significa osservare la città a partire dalla scuola? Cosa significa mettere la scuola al centro della città? Significa in primo luogo riconoscere la scuola come un’infrastruttura collettiva fondamentale del Paese, presidio sociale e materiale distribuito e operante in una pluralità di condizioni territoriali, le cui specificità vanno comprese e valorizzate. Significa riconoscere il valore simbolico e pubblico dello spazio delle scuole nei loro contesti. Significa scegliere le scuole come luoghi prioritari di rigenerazione urbana, con attenzione alla qualità e all’accessibilità non solo dello spazio interno, ma anche dello spazio collettivo davanti e intorno alla scuola: strade belle e sicure a misura di pedoni e biciclette per accedere alle scuole; spazi pubblici davanti alle scuole come luoghi educativi, di incontro e di costruzione di comunità, non solo di attesa del suono della campanella. Significa estendere il ruolo educante dello spazio al di là del recinto scolastico e farlo diventare parte integrante di un progetto di città che ha come baricentri le scuole insieme alle strade e alle piazze davanti alle scuole, in quanto luoghi di cittadinanza fondamentali, cui dedicare particolare cura. Significa prestare attenzione alle relazioni di prossimità tra le scuole e i loro contesti (quartieri, strade, frazioni) rafforzando gli scambi materiali e immateriali tra scuola e città, in un’apertura e disponibilità reciproca a ospitare pratiche, azioni, progetti di una comunità educante allargata che condivide cortili e palestre scolastiche, biblioteche e centri civici, spazi pubblici. Significa promuovere e supportare un’idea di spazio pubblico che individua nelle scuole un generatore di cittadinanza che si riverbera tutto intorno. Significa mettere la scuola al centro di politiche pubbliche intersettoriali e integrate, non solo scolastiche, ma sociali, del lavoro, urbanistiche e dei lavori pubblici. Significa mettere la scuola al centro del futuro delle nostre città e dei nostri territori.

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S3

SMART SPECIALIZATION STRATEGY

La Strategia di specializzazione intelligente (S3) è lo strumento di cui le regioni europee si dotano per migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche per la ricerca e l’innovazione (R&I), contribuendo così allo sviluppo delle politiche di coesione. La S3, sulla base di un’analisi dei vantaggi competitivi e delle specializzazioni locali, definisce un quadro strategico di azioni con cui rafforzare la competitività e la crescita occupazionale del sistema economico regionale, attivando sinergie tra sistema produttivo, mondo della ricerca e della formazione, territori. Attraverso la definizione di ambiti prioritari di R&I, le Regioni vanno a individuare i driver dell’innovazione che stanno alla base di nuove traiettorie di crescita, orientando quindi gli investimenti pubblici e privati necessari ad attuare la strategia. Prendendo il caso dell’Emilia-Romagna, nella S3 2014-2020 il tema della rigenerazione viene inquadrato tra le direzioni fondamentali per lo sviluppo di traiettorie tecnologiche per il settore dell’Edilizia e Costruzioni, uno dei cinque sistemi produttivi prioritari regionali. Il tema viene esploso su due concetti: da un lato il recupero del patrimonio esistente, per il quale si identifica la necessità di una “evoluzione del settore delle Costruzioni verso azioni sostenibili, inclusive e partecipate”; dall’altro la riqualificazione energetica degli edifici per la riduzione dei consumi energetici e il miglioramento della qualità degli ambienti di vita. Nel 2018, i Forum tematici S3 hanno permesso di aggiornare il concetto di rigenerazione in una chiave più trasversale, multi-obiettivo, multi-scalare e multi-stakeholder, uscendo dal solo perimetro tecnologico, attraverso l’individuazione di un obiettivo strategico dedicato alla resilienza degli edifici e rigenerazione urbana, in coerenza con le previsioni della Nuova Legge Urbanistica Regionale (L.R.24/2017).

a cura di

Serena Maioli (A rt- E R)

tare la programmazione dei Fondi europei 2021-2027: con questo percorso le politiche regionali di R&I vengono aggiornate alla luce delle sfide globali di carattere economico e sociale, in piena coerenza con le politiche europee e l’Agenda 2030. La nuova S3 apre quindi ad un approccio cross-settoriale, in cui trova spazio per la prima volta il problema delle disuguaglianze sociali, al centro anche del Patto per il Lavoro e per il Clima regionale. In questo quadro, la rigenerazione urbana trova una nuova dimensione di attuazione, trasversale a molti ambiti tematici prioritari, tra cui la circular economy, la mobilità sostenibile, l’innovazione sociale. La rigenerazione è guidata innanzitutto dalle comunità e il quartiere è la dimensione in cui è possibile sviluppare innovazione nella definizione ed erogazione di servizi essenziali e di prossimità e nella diffusione di comportamenti ecologici: i nuovi modelli energetici e di circolarità superano la valenza solo tecnologica, richiedendo un salto di scala, dal singolo prodotto o impianto allo sviluppo di reti e modelli per la rigenerazione dei suoli contaminati o per la creazione di comunità energetiche. Le aree dismesse o da rigenerare costituiscono contesti fertili per la sperimentazioni di nuovi servizi connessi alla mobilità sostenibile e alternativa. Digitalizzazione e user-centricity diventano fattori essenziali per la realizzazione di nuovi servizi e per la definizione di processi decisionali partecipativi che abbiano l’obiettivo di rendere possibile la transizione ecologica delle città. Dalla riattivazione urbana alla valorizzazione delle aree rurali e interne, dall’edificio decarbonizzato allo spazio pubblico accessibile, il perno della rigenerazione urbana non sono più solo le prime periferie urbane, ma l’intero territorio, nel quale le organizzazioni pubbliche e private sono chiamate a innestare nuove strategie di intervento e una nuova ingegneria finanziaria.

Il cambiamento di paradigma nell’inquadramento della rigenerazione urbana trova un ulteriore avanzamento nel percorso di definizione della S3 2021-2017, avviato nel 2020 dalla Regione Emilia-Romagna per orien-

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SOLUZIONI

BASATE SULLA NATURA

Nei prossimi decenni, le sfide poste dalla crisi climatica alle città comporteranno la formulazione di strategie adattive capaci di agire sulle due fondamentali alterazioni dei sistemi urbani: il bilancio energetico superficiale (regime delle temperature) e il regime delle precipitazioni. Sappiamo che le soluzioni più performanti nella gestione degli apporti meteorici e nell’abbassamento delle temperature sono rappresentate dalle Nature-based Solutions, ovvero dalle Soluzioni basate sulla natura. Ne consegue che la dotazione di aree verdi in città non può più essere considerata una questione di carattere meramente ornamentale o quantitativo, ma si configura decisamente come un tema di carattere prestazionale. Le Nature-based Solutions (NbS), furono definite per la prima volta nel rapporto finale dell’Expert Group di Horizon 2020 (EC, 2015), quali ‘soluzioni che sono supportate ed ispirate dalla natura e che presentano un buon rapporto costo-efficacia e che forniscono simultaneamente benefici ambientali sociali ed economici e aiutano a costruire resilienza’. Strettamente collegata a questa definizione è l’idea che le NbS devono favorire la biodiversità e supportare la fornitura di una vasta gamma di servizi ecosistemici. Per fare chiarezza, è bene sin da subito sottolineare come, sotto il concetto di NbS, possano essere oggi ricompresi altri concetti come quelli di Forestazione urbana (UF), Infrastruttura Verde (IV), Infrastruttura Blu (IB), Sistemi di Drenaggio urbano Sostenibile (SuDS), e altri ancora. Tuttavia, secondo la definizione che ne dà la Commissione Europea, le

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a cura di Luisa Ravanello (A r p ae E m i l i a- Ro m ag n a)

IVB sarebbero una versione più evoluta delle NbS in quanto si parla di ‘Green (and Blue) infrastructure’ come di una rete strategicamente pianificata di aree urbane naturali e semi-naturali, con alte caratteristiche ambientali, progettata e gestita per fornire un’ampia gamma di servizi ecosistemici come la purificazione dell’acqua, la qualità dell’aria, lo spazio per la ricreazione e la mitigazione e l’adattamento climatico. Questa rete di spazi verdi (terra) e blu (acqua) può migliorare le condizioni ambientali e quindi la salute e la qualità della vita dei cittadini. Sostiene inoltre un’economia verde, crea opportunità di lavoro e valorizza la biodiversità. Le Infrastrutture Verdi-Blu (IVB), rappresentano l’integrazione funzionale delle due componenti, dove quella blu attiene in particolare alla gestione naturale delle acque pluviali urbane. Sono soluzioni che lavorano anche in sinergia con la rete delle infrastrutture grigie, accompagnando i percorsi della mobilità, specie quella ciclo-pedonale. Questo tipo di integrazione di spazi verdi e permeabili con le reti verdi-blu-grigie implica una più forte componente progettuale e una precisa caratterizzazione prestazionale in relazione alle funzioni che viene loro richiesto di svolgere. In particolare, nell’ottica della rigenerazione urbana in chiave climate-proof, tali funzioni sono essenzialmente due: • Abbattimento delle temperature: l’ombreggiamento generato dalle infrastrutture verdi, per essere veramente efficace, deve essere concepito in modo da garantire un adeguato livello di ‘contiguità delle ombre’ generate dai singoli alberi e di ‘continuità’ dell’evapotraspirazione.

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SOLUZIONI

BASATE SULLA NATURA

Per fare questo, servono alberi in filari e masse vegetate ben progettati e interconnessi, concepiti come vere e proprie infrastrutture, capaci di sfruttare l’inerzia termica di bacini o corsi d’acqua eventualmente presenti e di potenziali fattori mitiganti. Gli effetti combinati di ombra ed evapotraspirazione, se applicati al connettivo degli spazi verdi urbani, cioè i percorsi come strade e piste ciclo-pedonali, portano alla creazione di una rete connessa di piccole ‘oasi’ – situazioni d’ombra e di fresco – che assicurano una migliore fruibilità dei nostri quartieri anche agli utenti più deboli della strada, favorendo la mobilità attiva che spesso non viene praticata per la mancanza di condizioni di comfort. • Gestione sostenibile delle acque pluviali urbane: bisogna massimizzare l’effetto spugna attraverso consistenti azioni di desealing (depavimentazione) dei suoli urbani e procedere alla realizzazione di misure NbS – come giardini della pioggia, fossati e bacini inondabili, ecc. – capaci di rallentare il recapito delle acque pluviali alle reti di raccolta, invasando gli apporti meteorici e garantendone una restituzione controllata in caso

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a cura di Luisa Ravanello (A r p ae E m i l i a- Ro m ag n a)

di eventi estremi, massimizzando l’infiltrazione in falda e lo stoccaggio. Il perseguimento degli obiettivi di protezione del clima e di contrasto agli effetti dei cambiamenti climatici passa dunque attraverso azioni che possono interessare strumenti e scale di intervento molto diversi tra loro e può interessare sia luoghi pubblici e di uso pubblico sia spazi privati. L’approccio multiscalare necessario alla loro attuazione consente di mettere contemporaneamente in campo azioni che interessano più ambiti, livelli e tipologie di pianificazione: strategica, settoriale, generale, attuativa. Ma quel che preme sottolineare e che è ogni scala ed ogni piccolo intervento conta ed ogni occasione di revisione in chiave rigenerativa dei tessuti urbani può e deve costituire un’opportunità per l’adattamento climatico.

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SOSTENIBITÀ AMBIENTALE L’esigenza di una crescita economica rispettosa dell’ambiente risale agli anni Settanta, con la presa di coscienza che il modello di sviluppo tradizionale avrebbe causato nel lungo termine il collasso dell’ecosistema terrestre. Il concetto di sviluppo sostenibile ha natura complessa, soggetta a diverse interpretazioni; la definizione universalmente riconosciuta risale al 1987 nel c.d. Rapporto Brundtland dal titolo “Our Common Future”. Con l’adozione nel 2011 a Göteborg della Strategia dell’Unione europea per lo sviluppo sostenibile vengono fornite misure delle sue dimensioni. La sostenibilità economica riguarda la capacità di produrre reddito e lavoro in maniera duratura; la sostenibilità sociale è la capacità di garantire condizioni di benessere umano equamente distribuite, la sostenibilità ambientale interessa la tutela dell’ecosistema e il rinnovamento delle risorse naturali. Una visione integrata delle tre dimensioni arriva nel 2015, anno in cui si conclude il lungo processo negoziale in sede ONU, che ha portato alla Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Lo stato della relazione tra esseri umani e sistemi naturali costituisce la base della nostra sopravvivenza, del nostro benessere, delle nostre economie. Dalla sua vitalità dipende il mantenimento della civiltà umana. L’intreccio tra il metabolismo dei sistemi naturali (i flussi di materia ed energia) e quello dei sistemi sociali si trova in condizioni oggi drammatiche. Il peso dell’intervento umano sulla natura ha raggiunto un livello tale da far ritenere alla comunità scientifica che si stiano raggiungendo livelli critici, oltre i quali gli effetti a cascata che ne deriverebbero potrebbero creare un’emergenza umanitaria planetaria. Le capacità di gestione che saremo capaci di mettere in campo per affrontare i gravissimi problemi derivanti dal nostro crescente impatto sulle complesse dinamiche dei sistemi naturali ci consentiranno di far sì che la nostra specie possa continuare o meno ad esistere sulla crosta di questo pianeta. Nella società di oggi, la parola “sostenibile” sembra svuotata del suo vero significato. Il mondo del marketing e della comunicazione si è focalizzato sui cosiddetti prodotti e sulle attività “green” che, nel migliore dei

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a cura di

Gabriele Bollini ( B a n c a E t i c a)

casi, sono solo un po’ meno insostenibili rispetto alle alternative convenzionali (e nel peggiore sono semplici operazioni di greenwashing). Ora è necessario interrogarsi sul fatto se, allo stato attuale della situazione, sia ancora possibile per l’umanità intera imboccare una rotta di sostenibilità dei propri modelli di sviluppo sociale ed economico. I ripetuti allarmi della comunità scientifica – ultimo in ordine di tempo il rapporto di luglio dell’IPPC Intergovernmental Panel on Climate Ch’ange – indicano che questi cambiamenti sono quanto mai urgenti. Trasformare la società attuale in una società sostenibile è ancora possibile? Fare semplicemente del nostro meglio non fermerà lo sgretolarsi delle relazioni ecologiche da cui dipendono la vita sul pianeta e il benessere delle nostre società. Abbiamo bisogno di una reazione straordinaria, di una rifondazione dei nostri modelli culturali ed economici. Servono cambiamenti politici, tecnologici, culturali, enormemente più grandi e impegnativi di quelli che abbiamo visto finora in atto ed enormemente più urgenti, perché la sostenibilità è ancora possibile, ma solo con una nuova cultura e una nuova economia, e dobbiamo cercare di realizzarle adesso. L’uso sempre più diffuso del termine sostenibile riflette una maggiore consapevolezza pubblica della situazione ambientale che ci troviamo di fronte, ma le azioni intraprese per affrontare il problema sono ancora lontane dal produrre risultati tangibili. La crescita economica è da sempre legata a un aumento delle emissioni di gas serra e al consumo di risorse naturali. Non è più il tempo dell’inazione e delle attese. Dobbiamo mettere a sistema tutto ciò che già esiste per trasformare il paradigma economico e culturale incentrato sulla crescita continua in una visione consapevole di farci vivere entro i limiti di un solo pianeta, per invertire la rapida trasformazione antropica della Terra e contribuire a creare un futuro realmente sostenibile per tutte le società umane. È ancora possibile la sostenibilità?

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SOSTENIBILITÀ

ECONOMICA E SOCIALE

Quando il termine si è affacciato, a metà degli anni ’80 del secolo scorso, è risultato particolarmente appropriato per una nuova definizione dell’equilibrio di un ecosistema. Via via che il suo utilizzo si è affermato nel discorso pubblico, come spesso accade, ha finito per “volgarizzarsi” svuotandosi del suo significato più pieno e prestandosi anche a qualche interpretazione strumentale. A quasi 30 anni dalla conferenza di Rio che l’ha adottato come paradigma dello sviluppo a cui tendere, è quindi giusto fare un “tagliando” all’interpretazione che se ne dà cercando di ridefinirne in modo condiviso i contenuti. Non è mancato chi in questi anni si è adagiato su una interpretazione di ispirazione ambientalista della sostenibilità ma, la pubblicistica prevalente, anche quella di impronta divulgativa, ha promosso la lettura classica, più articolata, basata sui 3 pilastri economico, sociale e ambientale. I primi la riducono alla dimensione ecologica evidentemente troppo limitata e che potrebbe esprimersi con termini più appropriati, i secondi danno ad intendere che vi siano diverse sostenibilità (una economica, una sociale e una ambientale) da incrociare tra loro per ottenere una misura assoluta (se si potessero mischiare le mele con le pere) data dalla media degli impatti sui tre pilastri. Entrambe sono a mio avviso visioni limitate che presuppongono una patente statica per lo sviluppo. Sei sostenibile o no. Ma la sostenibilità non è definibile staticamente. È un concetto multidimensionale che si definisce in modo dinamico nel tempo e nello spazio. A maggior ragione lo è in un contesto di rigenerazione di ecosistemi alterati alla ricerca di un nuovo equilibrio. La sempre maggiore difficoltà di costruire consenso intorno a un progetto di trasformazione urbana è proprio dovuta al sempre più complesso processo di ricerca della sostenibilità della stessa che deve misurarsi con

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Tommaso Dal Bosco (AU D I S)

il dinamico insieme delle conoscenze, della cultura, delle sensibilità, dello sviluppo scientifico e tecnologico e della sofisticatezza della strumentazione finanziaria disponibili in dati luogo e momento storico. L’equilibrio tra queste forze, infatti, cambia nel tempo perché certe sensibilità si trasformano con il mutare della società, dei suoi bisogni e del suo sviluppo sociale e tecnologico. Molte grandi opere il cui impatto ambientale oggi ci appare insopportabile sono state realizzate in tempi in cui la spinta per la loro realizzazione non era compensata da una corrispondente diffusa consapevolezza dei rischi che comportava. Quale sensibilità ambientale poteva bilanciare a metà del 1800 la spinta alla trasformazione industriale di una amena località termale come Bagnoli? Si pensi all’utilizzo di innovazioni come l’Eternit che, per sessant’anni, prima che ne venisse riconosciuta la gravissima tossicità, grazie ai bassi costi, alla duttilità e resistenza nel tempo (da cui il nome) si è rapidamente affermato come uno standard che allora, fosse stato in voga il termine, avremmo definito sostenibile. Ad essere realisti quindi, siamo obbligati a considerare Sostenibile ciò che si fa. Ciò che si realizza, qui e ora, come complicato esito di un confronto tra forze e interessi, spesso contrastanti, tra chi desidera quella realizzazione, chi non crede alla sua utilità, chi non è convinto del fatto che sia correttamente dimensionata e chi si preoccupa dell’impatto che essa avrà sull’ambiente. Alla luce del grado di conoscenza e consapevolezza raggiunto oggi su questi temi, possiamo dire che accrescere il livello di trasparenza del confronto tra le forze che si agitano nella società per le sue trasformazioni sia il modo migliore, forse l’unico, per servire la sostenibilità affermandola come paradigma dello sviluppo. Non come una sua semplice qualificazione.

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SPAZIO PUBBLICO Lo spazio pubblico delle città è lo spazio della socialità, dell’integrazione, dell’inclusione. È lo spazio nel quale i cittadini esercitano i loro diritti e le loro libertà. È lo spazio in cui manifestare, incontrarsi, giocare, camminare, andare in bicicletta. Sono davvero tante e diverse le ‘qualità urbane necessarie’ affinché questi diritti – al benessere, alla salute, all’accessibilità, alla camminabilità, alla mobilità attiva, all’incontro, al verde, etc. – si realizzino e possano essere esercitati. Tuttavia, sono davvero pochi gli spazi pubblici delle nostre città con queste caratteristiche, fatta eccezione per quelli più tutelati e monumentali e per le piazze dei centri storici. Ma come mai? Dal dopoguerra in avanti, abbiamo sempre più privilegiato una progettazione estetica dello spazio pubblico urbano, a cui spesso si sono associati sia un basso investimento in termini di cura e manutenzione da parte delle amministrazioni pubbliche sia politiche per la sicurezza orientate al controllo. Sono così proliferate piazze minerali dai bellissimi disegni e decori, i cui materiali spesso si arroventano al sole o in cui mancano suoli permeabili, spesso prive di alberi e di elementi per l’ombra, quasi sempre senza fontane per bere l’acqua o refrigerarsi dal calore estivo, ma anche senza giochi capaci di attrarre i bambini e addirittura senza panchine, assecondando la difficoltà di gestire il presidio urbano con soluzioni che hanno impoverito per tutti la vivibilità dei nostri spazi pubblici, incapaci di essere quei luoghi di incontro e socialità che rendono la città attrattiva. Le persone stanno bene in un luogo pubblico se si sentono al sicuro, se si sentono in una condizione di comfort e di benessere fisico e psicologico, se hanno la possibilità di vivere momenti di socialità che ne stimolano e rinnovano la sensazione di identità e di appartenenza. Stare bene nello spazio urbano è una esigenza che può dunque essere soddisfatta e progettata e che dipende dalla qualità ambientale percepita dalle persone, in termini di vivibilità e vitalità. Le attività che le persone svolgono in un luogo e che fanno sì che uno spazio sia scelto rispetto ad un altro – come ci ricorda Jan Gehl nei suoi studi sulla città a misura d’uomo - possono essere infatti suddivise in tre tipologie: • le attività necessarie, come ad esempio andare al lavoro, che spesso

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Elena Farnè e Luisa Ravanello

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facciamo avendo pochissimo tempo a disposizione privilegiando i tragitti più brevi. • le attività volontarie, come passeggiare col proprio cane o andare a leggere un libro al parco, attività che facciamo da soli nel nostro tempo libero, per il nostro benessere di individui, e per le quali scegliamo percorsi e spazi confortevoli, che possiamo raggiungere a piedi o con la bicicletta; • le attività sociali, come incontrare la persona che si ama dandole un appuntamento nella piazza più bella o come giocare con gli amici al parco, per cui privilegiamo luoghi accoglienti e sicuri, ben attrezzati, lontani dal rumore e dal traffico delle auto, freschi e ombreggiati d’estate, soleggiati in inverno, etc. Nel caso delle attività necessarie la qualità urbana e ambientale dello spazio pubblico è poco rilevante, perché abbiamo poco tempo. Cambiano completamente le condizioni nel caso delle attività volontarie e sociali, in cui è proprio l’elevata qualità ambientale dello spazio urbano a determinare il grado di vivibilità e attrattività di uno spazio pubblico e la scelta di uno rispetto ad un altro. Ottenere spazi vivibili è possibile e l’approccio più corretto alla progettazione dello spazio pubblico deve tenere conto delle variabili legate alla socialità e alla sicurezza, insieme a quelle ambientali e climatiche che stanno così tanto mettendo in crisi le nostre città quando si manifestano fenomeni estremi di pioggia e caldo. Tra gli elementi più importanti vanno presi in considerazione proprio la morfologia dello spazio, i materiali vegetali e minerali e il loro comportamento climatico nelle stagioni, la presenza dell’acqua, degli alberi e delle sedute, l’assenza o la lontananza dalle auto, l’accessibilità pedonale e ciclabile. Uno sguardo attento alla dimensione umana della città deve considerare dunque alcuni aspetti chiave, quali la vivibilità, la sicurezza, la sostenibilità ambientale e la salute delle persone. Perciò quando parliamo di spazio pubblico dovremo prestare attenzione a tutti questi obiettivi, che risultano tanto più raggiungibili quanto più aumenta l’attenzione verso i cittadini di chi pianifica e progetta ed il modo in cui le persone vivono e si muovono nella città, per svolgere le attività sociali e volontarie, nel loro tempo libero.

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TERRE ALTE La Montagna Italiana è tornata da qualche anno sotto le luci della ribalta, nelle attenzione delle Accademie (La nuova Centralità della Montagna del Convegno di Camaldoli del Novembre 2019), dei decisori pubblici (Gli Stati Generali della Montagna del 31 gennaio 2020, anticipata dalla sessione tematica della Camera dei Deputati, conclusa con l’approvazione alla unanimità degli ordini del giorno), della stessa opinione pubblica, dei media. La consapevolezza che le “Terre Alte” sono una risorsa di cui il Paese non può fare a meno appartiene ormai al novero delle cose acquisite. L’elaborazione di un sistema di politiche che trasformi questa consapevolezza in azioni efficaci non lo è ancora. Leggi e provvedimenti importanti si sono succedute negli ultimi anni, dalla Legge sui Piccoli Comuni al Collegato Ambientale che ha lanciato i Pagamenti per i Servizi Eco-Sistemici ed Ambientali e le Green Community; dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne alla Strategia Forestale. Anche le Regioni hanno lanciato i loro messaggi, cercando di intercettare le nuove attenzione ambientali di giovani popolazioni metropolitane con politiche a sostegno dell’insediamento montano. Lo hanno fatto con dotazioni finanziarie ancora modeste che la manovra straordinaria del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza potrebbe contribuire a sostenere e rimpinguare. Nel PNRR c’è meno di quello che sarebbe stato auspicabile per le montagne italiane. Le risposte alle crisi climatica, pandemica, economica che i territori montani italiani possono dare, non trovano compiutezza in missioni, componenti, riforme del PNRR. Quando la Costituente individuò il termine “montano” per l’articolo 44 della Costituzione, lo fece in maniera oculata, con un dibattito che arginò altre definizioni di quel pezzo di Italia “destinataria di specifici provvedimenti” legislativi differenziati. Sono montani e non altro. Una questione sostanziale e non solo semantica che negli ultimi anni ha trovato anche fraintendimenti politico-istituzionale, qualche mistificazione e non sempre l’adeguata attenzione operativa nei provvedimenti legislativi e nelle decisioni dei diversi livelli Istituzionali. Di certo oggi non possono essere due fondi nazionali “per la montagna” e “per i Comuni montani”, con complessivi 15 milioni di euro annui a risolvere istanze di comunità, Enti, territori. Anche le Regioni hanno bisogno di dotarsi di normative efficaci pag. 116

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Marco Bussone (UNCEM)

che garantiscano opportuni investimenti e scenari politici di riferimento. Quel che più resta ancora da fare è costruire una governance adeguata a rappresentare le aspirazioni e la progettualità delle Terre Alte e delle loro comunità e a metterle in una relazione positiva, di mutualità, condivisione e complementarietà con le strategie urbane. Lo hanno fatto Francia e Germania recentemente, ad esempio, definendo quanto i Paesi siano federalisti, componendo aggregazioni territoriali sulla base di legami storici, sociali, economici, che hanno poi effetti (positivi) sulla capacità organizzativa e istituzionale di quelle aree, dei Comuni al loro interno e tra loro, delle comunità che definiscono strategie con un pensiero al 2030 o al 2050. La ripresa di interesse per il territorio, le popolazioni e le economie della montagna si è invece manifestata in Italia in perfetta controtendenza con l’insensata azione di demolizione della impalcatura istituzionale che ne avrebbe dovuto sorreggere e sostenere quello sforzo di avvicinare le politiche di coesione ai cittadini che l’Unione Europea ha voluto esprimere felicemente nel suo quinto obiettivo di policy che vuole “Una Europa più vicina ai cittadini” per la programmazione di bilancio 2021-2027. Condizione necessaria perché l’Europa intera - e con essa i suoi Stati membri, l’Italia per prima - possa essere “più intelligente, più verde, più connessa e più sociale”. Le sperequazioni da colmare con il Next Generation EU, in Italia (e così in altri Paesi europei) sono quattro e non tre. Alla “questione meridionale”, alla “questione generazionale”, alla “questione femminile”, che indubbiamente condividiamo, si unisce una “questione territoriale”. E cioè, al sud, come al centro e al nord, come nelle isole, occorre definire percorsi, riforme e investimenti, strategie per colmare i divari tra aree urbane e montane, tra centri e periferie, tra città e paesi. Divari che aumentano e che creano ulteriori disuguaglianze, oltre a spopolamento, fragilità, desertificazione economica e sociale. La transizione ecologica e digitale permettono di invertire questi processi, nella logica dell’ecologia integrata. E il “patto” necessario tra città e montagne è fondamentale. Servono guide illuminate e scelte, illustratori di futuro, costruttori di comunità, creatori di nuovi tessuti economici e sociali. Politica vera.

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URBANISTICA Già nella definizione del DPR 616/77 si amplia l’individuazione del campo che la legge nazionale del 1942 (peraltro tuttora vigente) riferiva per l’urbanistica ad assetto e incremento edilizio dei centri abitati e sviluppo urbanistico in genere, portandola a essere “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente” cui si riferiscono le funzioni amministrative degli Enti competenti. Analogamente, se l’urbanistica si è tradizionalmente attuata tramite gli strumenti urbanistici generali e attuativi che costituiscono la pianificazione ordinaria, dalla fine del secolo scorso e sempre più spesso è praticata direttamente tramite programmi e progetti che non ne fanno parte organica e indirettamente tramite atti che pur attenendo ad altri campi disciplinari (come l’ambiente e la mobilità) hanno effetti spaziali. L’insieme delle istanze ambientali, sociali, economiche e culturali da affrontare nella riorganizzazione degli spazi porta infatti alla necessità di utilizzare progetti urbanistici multi-scalari, integrati, complessi, partecipati e dotati di risorse finanziarie. L’importanza del “dove“ e del “come” dà a tale riorganizzazione l’onere di contribuire in via esplicita e senza compromessi all’equilibrio fra luoghi costruiti e ambiente naturale e alla sostenibilità della trasformazione necessaria allo svolgimento delle attività umane in un quadro di giustizia sociale e di solidarietà. Una nuova urbanistica, adattiva ed esplorativa, rigorosa ma ricca di immaginazione si impone come necessaria per il miglioramento dei territori nei quali viviamo rendendosi componente attiva nelle vicende politiche, economiche e sociali. Nel Terzo Millennio della pandemia mondiale da Sars Covid, della tecnologia avanzata, delle molte risorse finanziarie che sono e saranno dedicate agli ambienti della vita umana, si riparla perciò di urbanistica, in parte abbandonando il “governo del territorio” delle riforme legislative regionali dell’ultimo quarto di secolo ove è stata compresa. Questo spostamento di lessico e di interesse corrisponde alla centralità delle istanze ambientali e delle istanze sociali nei progetti per l’assetto dei luoghi dedicati alla convivenza sempre più urbana ove la città si rivela in una varietà di forme che sfugge ai modelli classici di analisi e di progettazione, con connotati negativi in termini di ricadute ambientali, caratteri dispersivi e costi collettivi dipesi

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Silvia Viviani

dall’organizzazione degli individui e delle famiglie (i minori costi delle abitazioni, la prossimità, l’accessibilità ai servizi, la dimensione unifamiliare dell’alloggio, la disponibilità di limitate ma preziose componenti di verde privato autonomo). Ne fa parte anche il riconoscimento dei valori e delle differenze nel sistema policentrico italiano che comprende città medie, aree interne, fenomeni insediativi metropolitani, cui conseguono variegate situazioni urbanistiche, molteplici tipi di domande da parte delle imprese e della popolazione, diversi comportamenti istituzionali legati alle condizioni sociali e alle pratiche di coesione. L’urbanistica si occupa in questo quadro dei rapporti fra città e società candidandosi a dare il proprio apporto al raggiungimento del benessere degli individui e della collettività e per far fronte alla riduzione della produzione agricola e al bisogno di cibo, all’erosione delle risorse naturali, all’inquinamento dell’aria e delle acque, allo smaltimento dei rifiuti, all’adattamento al cambiamento climatico. Questioni prioritarie riguardano il recupero dei suoli e degli immobili abbandonati e la riorganizzazione ecologica degli insediamenti; la povertà urbana contro cui lottare con il contributo che la rigenerazione urbana può dare all’integrazione sociale, all’accessibilità alla casa e ai servizi essenziali; la mobilità delle popolazioni con soluzioni sostenibili coordinate e l’investimento nel trasporto pubblico; i diritti di cittadinanza per i quali garantire e incrementare la dotazione di spazi pubblici privi di barriere materiali e immateriali, la cui destinazione e il cui uso vanno resi flessibili e adattabili. Ed è proprio il patrimonio pubblico oggi la leva principale per investimenti a favore della socialità diffusa, della ripresa economica in chiave ecologica, dell’abitabilità variabile degli spazi. “Urbanità“, “urbanesimo“ e “urbanizzazione“ diventano parole chiave per azioni integrate grazie alle quali persino “urbano“ e “rurale“ possono cessare di contrapporsi. All’urbanistica così intesa sono necessarie la riforma dell’Amministrazione pubblica per passare a metodi, prodotti e processi intersettoriali; la convergenza degli investimenti pubblici e privati; la cultura civica; la partecipazione. Allontanandosi dalla mera predeterminazione delle quantità e degli usi per il controllo dell’attuazione edilizia, l’urbanistica può coordinarsi efficacemente con la programmazione e contribuire all’innalzamento della competenza pubblica nella capacità di spesa e nella progettualità.

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USI TEMPORANEI

Gli usi temporanei rappresentano per i processi di trasformazione, riuso e innovazione della città uno strumento di grande innovazione da molteplici punti di vista, dal piano normativo e pianificatorio tipico della disciplina urbanistica ed edilizia a quello delle politiche pubbliche legate ai processi di inclusione sociale, ingaggio delle comunità e promozione della cultura, sino a quelle di contrasto alla marginalità, promozione della legalità e per la sicurezza urbana. Possiamo infatti parlare degli usi temporanei come veri e propri strumenti di innesco per la rigenerazione urbana laddove la norma e il piano non bastano, ma anche come strumenti di dialogo tra differenti attori e interessi in causa, spesso divergenti o non così avvezzi al confronto. Negli ultimi vent’anni, in diverse città e territori d’Italia, sono proliferate molte sperimentazioni di uso temporaneo. Si tratta di pratiche perlopiù informali, spesso nate dal basso, che a partire dal recupero degli spazi dismessi - pubblici o privati - hanno dato vita a centri culturali e sportivi in quartieri e territori periferici, a spazi urbani per lo studio degli studenti laddove non arrivavano la scuola, l’amministrazione o l’università, a mercati rionali per le imprese agricole locali, a locali per la musica e lo spettacolo attrattivi per i giovani, a centri per l’incontro di famiglie e genitori, a luoghi di lavoro e spazi di coworking informale, ma anche a residenze temporanee con cui rispondere all’emergenza abitativa dei più fragili. Certamente, non sempre queste pratiche hanno agito in contesti regolari a norma di legge, ma hanno avuto tra gli altri il merito di stimolare processi inediti di innovazione anche sul piano normativo. L’uso temporaneo è infatti oggi riconosciuto da diversi strumenti, tra cui tre nuove leggi regionali in materia urbanistica (L.R. Veneto n. 14/2017 e L.R. Emilia-Romagna n. 24/2017, L.R. Lombardia n. 18/2019) e il Testo Unico dell’Edilizia (art. 23-quater, DPR 380/2001). Si tratta di un passaggio importante perché consente di favorire l’avvio di pratiche e processi di riuso in un contesto trasparente e tutelante per tutti gli attori della filiera urbana - siano essi proprietà, amministrazioni, comunità, investitori, attivatori,

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Elena Farnè

etc. - ma anche perché l’uso temporaneo diventa a tutti gli effetti parte fondante di rinnovati processi di pianificazione urbanistica che possono così assumere anche valenze di tipo strategico. Attraverso l’uso temporaneo si possono infatti testare preventivamente i reali bisogni delle comunità di riferimento, attivare politiche e azioni di interesse generale e collettivo, attrarre più facilmente attori e investitori privati, ma anche salvaguardare i patrimoni dismessi dal degrado fisico e da usi impropri o abusivi e contrastare la perdita di valore degli immobili quando non utilizzati da tempo. Pur essendo quello degli usi temporanei un campo in cui i processi vanno misurati al contesto reale, è possibile tracciare alcuni principi comuni che è utile tenere in conto: • assumere un approccio incrementale, che possa innescare una trasformazione progressiva, graduale e per fasi; • includere i bisogni e le aspettative delle comunità locali di riferimento, per rispondere a esigenze reali della popolazione e dare vita a processi capaci di produrre entusiasmo e fiducia; • privilegiare la presenza di attori locali nella gestione e nelle governance degli spazi, affinché siano radicati al contesto, in grado di attivare le migliori energie sociali e culturali del luogo; • avviare azioni di riuso con un orizzonte temporale breve e con investimenti iniziali limitati, così da ridurre il rischio di impresa e favorire l’ingaggio di attori e investitori privati; • attivare valutazioni di impatto, che consentano di dimostrare i vantaggi generati dall’uso temporaneo a beneficio della collettività, ma anche di commisurare l’efficacia degli investimenti; Tali principi assumono proprio una valenza strategica per la pianificazione in quanto sono capaci di ispirare e consolidare obiettivi di lungo termine, che sono più tipici dei piani e degli strumenti urbanistici generali, e perché rispetto ai piani consentono di interfacciarsi più rapidamente e in modo flessibile alle dinamiche sociali e di trasformazione urbana.

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Si ringraziano:

Grazie

Andrea Morniroli, Antonio De Rossi, Barbara Lepri, Celeste Pacifico, Daniela Storti, Daniele Montroni, Dionisio Vianello, Elena Farnè, Fabio Bezzi, Fabio Renzi, Fatima Alagna, Fausto Viviani, Federico Della Puppa, Francesca Altomare, Francesco Evangelisti, Gabriele Bollini, Giampiero Lupatelli, Gianandrea Esposito, Gianluigi Bovini, Giovanni Teneggi, Guido Tallone, Ippolito Ostellino, Kristian Mancinone, Lorenzo Baldini, Lorenzo Ciapetti, Luciano Pero, Lucio Rubini, Luisa Ravanello, Marco Bussone, Maurizio Brioni, Paola Capriotti, Paolo Venturi, Rita Pareschi, Rossanna Zaccaria, Sabino Alvino, Sabrina Ciancone, Serena Maioli, Silvia Viviani, Simona Laghetti, Sonia Cantoni e Tommaso Dal Bosco.


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Forlì, ottobre 2021 Stampato da: Premiato Stabilimento Tipografico dei Comuni Soc. coop. Edito da: Cooperdiem Soc. coop. stampato su carta riciclata Eural Offset



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