Dialoghi su frammenti d’archivio, novelle di Antonio Ortalli tratte da storie vere recuperate nell’archivio parrocchiale di Varsi Fotoritocchi di Flavio Nespi
Indice: Il capitano dei briganti La caccia agli “animali malefici” La frana catastrofica L’Arciduchessa a Varsi Una beffa dei carbonari in Val Ceno
Il capitano dei briganti Il parroco di Rocca, Don Pellegrino, era particolarmente agitato in quel giorno di primavera dell’anno di grazia 1806, come spesso accadeva quando ricordava un suo parrocchiano assai stimato, di cui, in quei giorni, attendeva notizie con trepidazione. Si trattava del capitano Gaspare dei Lamberti, fatto prigioniero dai soldati del generale Junot. Quest’ultimo, celebre ufficiale francese, era stato scelto dall’imperatore Napoleone come amministratore dei territori di Parma e Piacenza, a febbraio, per sedare definitivamente, in modo a suo dire esemplare, la rivolta scoppiata nelle valli del Taro e del Ceno e nelle confinanti valli piacentine. “L’hanno condotto con altri ribelli in Piemonte, nella Val Chisone per processarlo” disse Don Pellegrino rivolgendosi a Don Raffaele, arciprete di Varsi, suo ospite in visita a Rocca come vicario foraneo. “Non nutro più speranza per lui” continuò “temo che gli sarà riservata la stessa sorte di Don Giovanni e di Don Matteo, giustiziati senza pietà per aver benedetto gli insorti. Questi francesi non si fermano di fronte a nulla! Hanno incendiato villaggi, fucilato gli abitanti trovati con le armi, condannato al palo o alla berlina come briganti tanti nostri valligiani” sbottò, infine, alzando le braccia al cielo come colpito da un fulmine. “Si calmi” fu il pacato, ma deciso invito del quasi ottantenne arciprete di Varsi. “Non tutti i ribelli sono stati giustiziati: è probabile che condannino il capitano, alle ingenti spese dell’armata napoleonica che saccheggia ovunque transita”. “Ma, parlando con il senno di poi” disse Don Raffaele con l’amaro in bocca “come pensavano di poter conquistare la fortezza di Bardi, così ben munita per ogni assalto? Senza esperienza di cose guerresche, armati di vecchi archibugi, di falci, forche ed altri attrezzi da lavoro, per loro non c’era speranza. “Forse si erano illusi” intervenne allora Don Pellegrino “ a causa delle notizie ingigantite nell’eco, della ribellione parallela della valle del Taro e di quelle piacentine, con la “liberazione” di Salsomaggiore e di Scipione a
come tanti altri, al carcere duro”. “Gaspare non è una persona qualunque:” riprese Don Pellegrino “infatti è stato scelto come comandante da tutti i ribelli della Val Ceno. Del resto, di un capo ha le qualità e specialmente l’ascendente. Suo padre, il vecchio Antonino e sua madre Teresa, sono molto fieri di lui”. A queste parole Don Raffaele ricordò gli incontri con il capitano, ospite della comunità di Varsi in circostanze significative e festose. Lo rivide sorridente andando con la mente ad un recente passato, in veste di padrino al battesimo del piccolo Gaspare, Melchiorre, Baldassarre, figlio di una sua parente. Don Pellegrino, riprese più quietamente dopo la pausa: “ li hanno chiamati “briganti” ma erano solo dei ribelli disperati contro Napoleone all’apice del potere e della gloria in un’Europa tutta genuflessa ai suoi piedi”. “Ho saputo” intervenne Don Raffaele “da amici di Bardi, che questi cosiddetti “briganti” provenivano dalla mia Val Lecca, da Boccolo, dalla Val Noveglia…. “Non c’è da meravigliarsi” riprese Don Pellegrino “che i nostri montanari costretti, d’un tratto, ad adattarsi a un mondo nuovo, opposto al precedente, si siano ribellati. Il governo francese ha infatti imposto il reclutamento forzoso dei giovani, la requisizione dei raccolti e degli animali, l’aumento delle tasse per far fronte resta incerta”. A questo punto, si fermò: aveva sentito bussare alla porta: era Maria, abitante a Varsi, parente del capitano: “Don Pellegrino” disse con voce velata e commossa, restando sulla soglia “ il maire di Varsi mi ha ufficialmente comunicato, stamane, che Gaspare è morto. Probabilmente, si mormora, di stenti e di percosse nella fortezza di Finestrelle, dove era stato rinchiuso in attesa del processo. Ora non mi resta che recare la triste notizia ai Lamberti”. “Sarà un momento difficile! E’ opportuno che venga anch’io”. Disse sottovoce e scosso Don Pellegrino.
dicembre e, a capodanno, di Pellegrino ad opera del loro capo l’ormai celebre “Generale Mozzetta” così soprannominato perché, ad ogni soldato francese catturato, faceva mozzare due dita della mano destra rendendolo inabile alla guerra”. “Invece” continuò Don Pellegrino “ i ribelli della Valceno hanno semplicemente assediato per una settimana, dal primo al sette gennaio, la fortezza di Bardi, suonando spesso le campane a martello con l’intento di radunare il popolo e di coinvolgerlo nella lotta, ma invano. “Tutto si è risolto, in breve, in una catastrofe” intervenne Don Raffaele “ ho letto gli ordini dell’Imperatore, resi noti dal generale Junot….Fate bruciare cinque o sei paesi, fate fucilare una sessantina di persone, procedete con degli esempi estremamente severi….”.allora Don Pellegrino di nuovo alzò la voce, ripetendo la sua antifona antifrancese: “ e, infatti, hanno incendiato, rubato, distrutto, ucciso e fatto dei prigionieri, la cui sorte, come quella del capitano,
La caccia agli “animali malefici” Il signor Gaspare, ricco proprietario terriero di Golaso e stimato podestà di Varsi, s’avviò deciso alla casa canonica per incontrare l’arciprete Don Luigi, suo congiunto, in quel tardo pomeriggio di metà febbraio del 1842. Lo scopo della visita era semplice: avvisare il Vicario dell’intenzione di confermare il reclutamento, tra i numerosi e valenti cacciatori della zona, di due esponenti del clero: Don Girolamo di Varsi e Don Giuseppe di Tosca. L’arciprete accolse il podestà con grande affabilità: “entra pure, sono felice che tu sia venuto a trovarmi”. Il signor Gaspare, dopo brevi convenevoli, espose in sintesi e con chiarezza il problema che affliggeva molti abitanti del comune: “a causa delle abbondanti nevicate” incominciò, “numerosi lupi, da alcuni anni, assalgono e sbranano le capre e le pecore creando gravi problemi ai già miseri contadini. Le prime uccisioni di questi ‘animali malefici’, di cui sono a conoscenza risalgono al marzo di circa sei anni fa quando Giovanni di Tosca, con l’aiuto di altri quattordici esperti cacciatori, ne freddò due in un bosco del monte Barigazzo. Stando al rapporto presentatomi con la richiesta del premio, Giovanni scoprì in una radura sopra Tosca due lupi che dopo aver sbranato un caprone, lo stavano velocemente divorando. Egli cautamente si avvicinò armato di un nodoso bastone ma i lupi, pur percependo la sua presenza, spinti dalla fame non fuggirono, anzi continuarono avidamente e con ferocia il
Recentemente a ‘Verdera’ un gruppo di Contile e, nella selva del Pizzo d’Oca un gruppo di otto cacciatori di Tosca con sei battitori hanno in totale, con grande destrezza, ucciso ben quattro lupi dall’aspetto molto feroce. Il problema per me podestà è questo: il commissario ducale di Borgotaro ritiene che sia eccessivo il numero di cacciatori che si aggirano nei boschi del nostro comune, armati di archibugio, con il pretesto di uccidere gli ‘animali malefici’. Molti, infatti, approfittano dell’emergenza per cacciare di frodo tutta la selvaggina disponibile. Volendo evirate questi abusi il comandante dei
pasto. Allora Giovanni, un po’ preoccupato, corse a Tosca a chiedere aiuto. Un nutrito gruppo di battitori e di cacciatori accerchiò il bosco riuscendo a snidare e ad abbattere i lupi. Il compenso premio fu di 24 lire. Il terzo lupo sempre nel ’36 fu ucciso nei boschi della ‘Bavosa’ in località detta ‘la Fontana’. Accerchiato da ben 38 cacciatori, tiratori infallibili, tra cui anche il tuo confratello Don Giuseppe, parroco di Tosca, per il lupo non ci fu via di scampo. Nel rigidissimo inverno dell’anno seguente, in un bosco di faggi di alto fusto sul monte Dosso, fu ucciso un altro di questi ‘animali malefici’ di grossa taglia, con i denti logori e il pelo irto e grigio dall’età di sei o sette anni. Girolamo di Pessola lo abbatté con una palla d’archibugio in mezzo al cranio: ricevette il premio di 12 lire nuove da spartire con gli altri 10 cacciatori del suo gruppo. Nel’38, Francesco di Tosca ne trascinò uno fino alla sua abitazione dall’impressionante pelo grigio irto dopo averlo colpito tra i faggi del Barigazzo. In questi ultimi tre anni c’è stato un crescendo di volontari nelle varie frazioni: tutti alla ricerca di un premio in denaro. Ricordo con esattezza l’avventurosa e stimolante caccia sulla vetta del rio Goletta in località ‘Ronc dona’. Là, tra i faggi, Giuseppe di Rocca uccise la sua preda e conquistò le nove lire di premio.
dragoni chiede i nomi dei componenti le squadre e mi ordina di dimezzarne il numero. Io vorrei confermare, con tua licenza, il parroco di Tosca e Don Girolamo di Varsi, due persone pienamente affidabili.” “Va bene” rispose l’arciprete “concedo la licenza considerato che si tratta di un servizio alla comunità…però non indurre troppo in tentazione i miei preti…. Potrebbero anch’essi uccidere qualche leprotto per le ‘penitenze invernali'”!
La frana catastrofica Don Antonio, priore di Pessola, s’avviò con passo deciso verso la canonica di Varsi. Il freddo era intenso, in quel giorno d’inizio febbraio del 1856. Ad aprirgli la porta fu il gioviale arciprete Don Giuseppe, originario di Tosca. Subito con squisita cordialità ed affabilità invitò il confratello ad entrare e ad accomodarsi presso il piccolo e nero camino. Don Antonio aveva il volto serio, teso e sofferente di chi ha trascorso giorni e notti nel dolore e nell’angoscia. “Sono passato da Lei, Arciprete, per comunicarle” iniziò dopo esenziali convenevoli: “Che scenderò con il vetturale del paese a Parma. Intendo presentare a Sua Altezza Reale la duchessa reggente Luisa Maria un dettagliato memoriale con lo scopo, considerate le interminabili angustie della mia popolazione, di ottenere dal Governo un congruo sussidio per le più impellenti necessità e di trattare poi della ricostruzione della Chiesa distrutta”. “Quando alcuni giorni fa sono salito nella zona di Pessola” disse allora l’Arciprete “ e ho potuto vedere, anche se da lontano, l’immane smottamento, sono rimasto senza parole!” “Tutto iniziò il giorno più funesto della mia vita: il 14 gennaio scorso” sussurrò con un sospiro, quasi gli mancasse il fiato, Don Antonio “ Una frana terribile e immensa scese con velocità impressionante verso il torrente Pessola dalla cima del Dosso distruggendo tutte le opere dell’uomo: case, stalle, fienili, campi coltivati. Gli spaventati abitanti spontaneamente accorsero in tutta fretta alla Chiesa e trovarono me intento a togliere e portare in salvo i sacri arredi, dopo aver celebrato l’ultima S.Messa in quel santo ed amato luogo ed aver consumato tutte le ostie “Dove celebra le sacre funzioni?” chiese ancora l’Arciprete. “Per il momento ho scelto l’Oratorio della “Casa Grande”. Proporrò di costruire la nuova Chiesa in alto, in luogo sicuro, circondandola di abitazioni, che sostituiscano quelle crollate”. “Da parte mia, come Vicario foraneo” concluse l’Arciprete “ho avvisato il Vescovo chiedendo aiuti urgenti. Spero in una prossima risposta generosa”.
consacrate. Insieme tentammo di rincuorarci sperando di trovare rifugio e soccorso nelle vicine ville da dove però sentimmo giungere agghiaccianti grida per sciagure simili alle nostre. Già verso le dieci antimeridiane gli abitanti della zona si trovarono spettatori impotenti ed atterriti dalle orribili crepe presenti ovunque si posasse il loro sguardo. Quando velocemente calò la lugubre sera invernale nessuno ebbe più il coraggio non solo di entrare, ma anche semplicemente di avvicinarsi alla propria abitazione per paura di crolli improvvisi. Insieme con me, una parte di questi sventurati abitanti si sistemò presso le case della “Corticella” nella speranza di un rifugio sicuro. Ma la mattina del giorno seguente vedemmo purtroppo che anche là, sebbene in misura più ridotta, il pericolo era presente. Cira trenta famiglie furono costrette, in breve tempo, ad abbandonare tutto, peregrinando con il lutto nel cuore alla ricerca di ospitalità nelle ville più sicure”. “Quando crollò la bella Chiesa di Pessola a tre navate e con cinque altari?” Chiese l’Arciprete. “In capo a quattro giorni” rispose mesto Don Antonio “La Chiesa era già in parte crollata: le crepe della parte ancora in piedi erano impressionanti. Il sacro luogo di preghiera costruito circa due secoli prima dai nostri devoti antenati non esisteva più. Anche la torre di pietra cadde il giorno 28 dello scorso mese”. “E la canonica?” s’interessò l’Arciprete. “Il rustico della canonica alzato dalle fondamenta solo un anno fa con camere, cantine e granaio rovinò in pochi giorni. Anch’io ora sono ospite dell’uno e dell’altro”.
L’Arciduchessa a Varsi Presso la “porta del lago” di Varsi, proprio là, dove passava la pubblica via, regnavano intensi il fermento e l’agitazione. Il podestà e i notabili della zona, parati per le grandi occasioni, si scambiavano le recentissime indiscrezioni trapelate dal messo portaordini giunto da Pellegrino, dove l’arciduchessa Maria Luigia aveva trascorso la notte con il suo seguito. Impassibile e discostato era, invece, l’arciprete dottor Don Giuseppe con cotta candida e mozzetta paonazza, segno distintivo della sua carica di vice vicario foraneo. Stava infatti mentalmente ripassando il discorso di benvenuto tutto incentrato sull’onore toccato a Varsi, nella sua storia, per la visita di due sovrani: Ottavio Farnese nel passato e, ora l’arciduchessa Maria Luigia, delizia dei popoli, inclita prole della casa imperiale d’Austria, a cui erano indirizzati gli omaggi, i voti augurali e i doni delle autorità e del popolo di Varsi, così come recitava l’iscrizione latina esposta presso l’oratorio al centro del paese. L’Arciprete inoltre si chiedeva preoccupato se la Sovrana avrebbe gradito il suo dono, che tanto impegno gli era costato nelle ricerche d’archivio. Si trattava di un manoscritto: “Storia della Comune di Varsi”, in cui, seguendo lo schema abbozzato nel “liber censualis”, tracciava brevemente la storia del paese, attingendo da importanti documenti. Finalmente, verso mezzogiorno, l’attesa, sempre più nervosa, fu interrotta dall’arrivo del drappello a cavallo, che precedeva le carrozze. “Perché” rispose il parroco con sollecitudine “Gambon era il soprannome del mezzadro dei conti feudatari, proprietari del terreno”. Là, gli esperti contadini del paese, eseguendo gli ordini del Podestà avevano preparato un cosiddetto “padiglione”: una specie di grossa capanna coperta con i rami dei salici, che circondavano il lago. La Sovrana e il seguito si sedettero per il pranzo. Rivolgendosi al parroco e al podestà del comune signor Michele di Pessola,
L’arciprete strinse il libro tra le mani e si avvicinò con gli altri notabili. La giovane trentenne, avvenente Sovrana discese lentamente, con movenze ricercate e solenni dalla carrozza, sorridendo benignamente ai suoi sudditi soggiogati ed ammutoliti per l’inconsueto spettacolo. L’Arciprete, facendosi interprete dei voti delle autorità e di tutto il popolo diede il benvenuto con le parole di circostanza così accuratamente studiate e ripassate nella lunga attesa. Poi, inchinandosi, pregò la Sovrana di degnarsi di accettare, come dono, l’umilissimo libro di ricerca storica da lui preparato con diligenza e passione. L’Arciduchessa amabilmente rispose: “E’ un omaggio a noi gradito, perché ci permette di conoscere la storia di un paese del nostro Ducato”. Presso la Sovrana spiccava tra tutti, per il suo tratto signorile, il conte Neippberg: alto, elegante nell’uniforme di generale, aveva una banda scura, che gli copriva l’occhio destro. Tutto il corteo, con la dama d’onore, l’aiutante di palazzo e altri paggi, rampolli della nobiltà, s’avviò lentamente, tenendo la sinistra, verso l’ampio spazio, ancora verdeggiante in quella limpida mattina di settembre, alla parte opposta del piccolo, ma pittoresco lago, che rifletteva, nelle sue tranquille acque, l’imponente e imminente profilo del monte Dosso “Perché” chiese l’aiutante di palazzo all’Arciprete “questo luogo è chiamato, come ho appena udito, “prato Gambon”? nervi. Ora, invece, trascorsi alcuni mesi di lutto, sembra essersi ripresa”. Non poteva sapere l’Arciprete che circa un mese prima la Sovrana si era unita, in seconde nozze, al conte Neippberg, regolarizzando con un matrimonio morganatico, celebrato in gran segreto, una situazione irregolare. “Non riesco ancora a capacitarmi” continuò a bisbigliare l’Arciprete “Che Maria Luigia sia qui, in carne ed ossa, al lago di Varsi”. Tutto, sebbene l’ambiente fosse rustico,evocava il lusso di corte: la cucina molto raffinata, il servizio alla francese, le vivande presentate nella maniera più elegante e fantasiosa, il pane bianco di ottima qualità. “Mi pare di sognare” sussurrò di nuovo il parroco al podestà, molto a disagio tra tutti quei nobili cortigiani.
l’Arciduchessa disse con condiscendenza: “Vogliano lor signori accomodarsi tra i miei commensali, come graditi ospiti”. “Quale insperato onore!” pensò l’Arciprete inorgoglito, ma nello stesso tempo un poco intimorito, nonostante la sua lunga frequentazione delle case nobiliari. “Sono stato invitato dalla figlia dell’Imperatore d’Austria: una Sovrana che ha frequentato le corti più celebri d’Europa e gli uomini più potenti della terra”. Borbottò tra sé. “Ricordo” disse il Podestà, quasi bisbigliando nel timore di essere udito, rivolgendosi all’Arciprete “Che quando nacque il figlio di Napoleone e dell’Arciduchessa, allora imperatrice dei francesi, noi di Pessola con alcuni giovani di Varsi, per festeggiare l’avvenimento ed eseguire gli ordini ricevuti dalle autorità, accendemmo dei grandi fuochi, detti “falò” sul monte Dosso”. L’Arciprete, anch’egli con un fil di voce sussurrò: “Mi avevano riferito che la recente morte del marito ex imperatore, l’aveva profondamente scossa, si sussurrava che era molto dimagrita e sofferente di Di nuovo, la Sovrana ricevette altri doni d’omaggio dalle mani dell’Arciprete: alcuni minerali del luogo e antiche medaglie trovate in alcuni scavi. Poi, quasi processionalmente, tutti si recarono nella chiesa parrocchiale di San Pietro, dove l’Arciduchessa e il suo seguito assistettero devotamente al rito della Benedizione Eucaristica. L’Arciprete intimamente soddisfatto per la buona riuscita della visita, si fece coraggio e chiese alla Sovrana se desiderasse conoscere il luogo dove, secondo le sue ricerche, era stata sepolta un'Imperatrice. All’assenso benevolo dell’Arciduchessa il parroco, sentendosi di nuovo protagonista e al centro dell’attenzione, puntò il dito verso l’altare della cappella della Beata Vergine del Rosario, dicendo: “Ecco il luogo della pietra sepolcrale, sotto cui sono racchiuse le ceneri di Ageltrude moglie di Guido e madre dell’Imperatore Lamberto: secondo una scheda presente nell’archivio Vescovile di Piacenza, fu sepolta qui a Varsi
L’Arciprete si intrattenne, per lo spazio di due ore, discorrendo amabilmente, informandosi delle più minute cose e dirigendo la parola ora da uno ora all’altro commensale. L’Arciprete pensò: “Questa è un’esperienza, che nessuno dei miei confratelli può vantare!”. Terminato il pranzo il corteo si avviò lentamente verso il paese. In attesa, presso l’oratorio della Beata Vergine del Dosso, detta volgarmente della Canala, c’era tutto il clero della zona in cotta come nelle solenni cerimonie religiose. Là,troneggiava la scritta di omaggio e benvenuto: “MARIAE ALOISIAE SEMPER AUGUSTAE, DELICIAE POPULORUM, DOMUS AUSTRIACAE, INCLITAE PROLI, OMEN, TRIBUTA ET VOTA PODESTAS, POPULUSQUE VARSII”.
nell’899. Il parroco, ancora una volta, rimase profondamente colpito dall’evidente interesse dell’Arciduchessa per tutto ciò che la circondava. Conclusa così la visita, la Sovrana, dopo i ringraziamenti di rito e le elargizioni ai poveri, si avviò verso Bardi, tra l’emozione grande degli abitanti che avevano vissuto, in quell’11 settembre 1821, un’esperienza indimenticabile.
Una beffa dei carbonari in Val Ceno Il Vescovo di Piacenza aveva stabilito, tra le uscite programmate per l’agosto 1825, nell’ambito della visita pastorale, di recarsi a Varsi, importante chiesa plebana della Valceno. In preparazione dell’avvenimento, era stato organizzato, nella sede vicariale, un solenne triduo di predicazione tenuto dai reverendi padri di S.Maria di Campagna per il popolo e per lo stuolo di adolescenti, di giovani e non più giovani candidati a ricevere il sacramento della cresima. Complessivamente erano 362! Con tutto il suo seguito scortato da un drappello di guardie d’onore, Mons. Vescovo, da “Galla”, salì al castello di Goloso, dove, ospitato con magnifico trattamento, alloggiò durante gli otto giorni di permanenza necessari per visitare, con l’aiuto dei segretari, tutte le parrocchie dipendenti da Varsi. L’illustre Arciprete del capoluogo: Don Giuseppe, dottore in teologia e in “Utroque Iure”, come di solito amava qualificarsi sottoscrivendo gli atti “manu propria” era, in quel periodo, costretto a letto da una lunga infermità. Il nobile Vescovo, con un atto di squisita condiscendenza, si recò a trovarlo nella sua abitazione. Quando fu introdotto nella stanza dell’ammalato, esauriti i cerimoniosi convenevoli, disse: “il suo medico mi ha riferito che lei, ora, si avvia alla fase di convalescenza”. La risposta dell’Arciprete, pur nell’emozione per l’inatteso e grande onore della visita, non fu priva di una sottile punta di sarcasmo, che l’alto prelato, al momento, non seppe spiegarsi: “de visu” sulla sua salute, sono venuto per avere, come suo superiore, dei chiarimenti di prima mano, a proposito dei guai causati a lei proprio da questi cospiratori del ‘21”. “Ci siamo, dovevo aspettarmelo” pensò Don Giuseppe “ecco il tanto temuto “redde radionem”. Ma, nulla lasciando trasparire all’esterno, anzi ostentando grande calma, rispose: “Mi hanno usato per una beffa, forse sapendo che sono un tradizionalista. Una beffa, ripeto, che non meritavo e che mi ha addolorato non poco, perché studiata ad arte con la collaborazione di un giovane, che io, come precettore, avevo allevato con ben altri principi!”.
“La sacra scrittura c’insegna che:”maledictus homo, qui confidat in nomine”, maledetto l’uomo che confida nell’uomo e, celiando, aggiungo io, specialmente nel medico. Dopo le esperienze di una vita, pongo la mia fiducia solo nel Signore: però, si, è vero, mi sento meglio”, concluse sorridendo. Il Vescovo riprese la parola cambiando discorso con precisa intenzione: “Ieri sera, durante la cena, il mio generoso anfitrione di Golaso, sempre ben informato, mi ha riferito che la nostra augusta sovrana Maria Luigia, nella fausta ricorrenza del suo giorno onomastico, ha mostrato la sua clemenza nei confronti dei carbonari condannati nel’23 per crimini di stato, tra questi anche due della Val Ceno che lei, Arciprete, conosce: il notaio di Bardi e l’esattore di Varano, attualmente rinchiusi nel castello di Compiano per scontare otto anni di prigione. Anche a loro è stata posta l’alternativa o di abbandonare la patria per tutto il resto della rimanente condanna o di continuare la reclusione, con il condono, in questo caso, di tre ani di pena”. “Quale è stata la scelta dei due prigionieri?” sbottò l’Arciprete oscurandosi in volto e sobbalzando sul letto nel tentativo di sedersi. “Sono rimasti nel forte di Compiano”. Fu la concisa risposta del Vescovo, che, subito dopo un’imbarazzante pausa di silenzio, riprese: “Lei ha già inteso, da questa mia premessa, che oltre alle informazioni “Per la sensibilità e la gentilezza dimostrata dal conte e l’invitai a pranzo. Accettò di buon grado e m’informò, come fosse cosa di nessun conto, di aver convocato presso la mia abitazione il signor notaio di Bardi per trattare affari…A questa notizia, datami con eccessiva disinvoltura, un poco mi allarmai e gli spiegai che, secondo alcune voci circolanti a Bardi, il notaio risultava affiliato una di quelle società segrete, forse la Carboneria, di cui alcuni stati erano infetti. Ma il mio ospite, meravigliandosi per l’importanza da me attribuita alle dicerie, mi rassicurò che, per quanto lo riguardava, doveva trattare solo affari: un credito di suo padre per una partita di frumento venduta ad un conoscente del notaio”. “Non ebbe mai il sospetto di essere strumentalizzato proprio dal suo ex allievo?” chiese il Vescovo sorpreso e con un tono di velato rimprovero: “Solo all’inizio, per un attimo” rispose sinceramente l’Arciprete
Allora il Vescovo, assumendo un atteggiamento d’impaziente attesa, disse: “Mi racconti, con animo sincero, come davanti al suo confessore, quello che veramente accadde”: “Nell’ottobre del 1820” incominciò allora l’Arciprete “stavo celebrando la S.Messa nella mia Chiesa, quando vidi, genuflesso in fondo, dove la luce delle candele non arrivava a rischiarare adeguatamente, un giovane dall’aspetto e dagli atteggiamenti signorili. Terminato il rito si presentò in sacrestia e subito, con gioia, lo riconobbi: era il conte Francesco, originario di Reggio, ma residente, allora, a Parma presso uno zio: era stato mio discepolo quando, come precettore, avevo dimorato nella casa dei suoi genitori, dal 1807 al 1812”. “Come mai era venuto fino a Varsi?” chiese incuriosito il Vescovo. “E’ proprio la domanda che gli posi, dopo i primi convenevoli. Con grande naturalezza mi rispose che, essendosi recato in un paese vicino, aveva sentito il desiderio di venirmi a trovare. Fui molto contento” proseguì l’Arciprete. Una vera e propria seduta di rivoluzionari, che avevano tramato contro il governo della nostra amata e legittima sovrana. Nel giugno del ’22 fui convocato dal giudice e raccontai nell’udienza quello che ora ha udito dalle mie labbra”. “Le sono grato, Arciprete,” disse amabilmente il Vescovo “di aver fatto luce su di un episodio che, sarò sincero, raccontato da alcuni malevoli, mi aveva non poco turbato. Ora devo partire” disse alzandosi “per recarmi alla chiesa di Metti”. “Spero proprio” pensò l’Arciprete “che non ci sia qualche reprimenda scritta, per me, da parte di questo vescovo, che lascia dappertutto grata memoria”.
“poi prevalse l’affetto e la stima che io nutrivo per lui e per la sua famiglia:. “Il Notaio” proseguì “arrivò dopo pranzo e chiese di potersi appartare in una stanza con il conte per discutere l’affare del frumento. Allora li accompagnai in un luogo appartato dove chiacchierarono sottovoce per circa un’ora e, quando ne uscirono, si misero a discutere di prezzi a voce alta. Seppi poi che era stata una diabolica messinscena e che il conte, nella sua venuta a Varsi, aveva fatto tappa a Varano per incontrare l’esattore del luogo, altro fervente carbonaro. Nella mia canonica si era quindi tenuta