Qui non crescono i fiori - Luca Giordano

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O con amore o con odio, ma sempre con violenza. Cesare Pavese



Prima parte Caccia



Il cielo si sta sciogliendo. C’è un sole che pulsa calore, fuoco, e neppure un soffio di vento a smuovere le foglie secche dei pochi alberi che ci sono in giro. Sono mesi che non viene giù nemmeno una goccia di pioggia. Terra ed erba bruciata. I due sono sull’Apecar già da un po’, stretti uno all’altro, con il rischio di rimanere incollati. Sudano. Stanno ritornando a casa dopo aver attraversato l’isola per consegnare un motorino che il padre ha finito di aggiustare questa mattina. L’hanno fissato al pianale con delle corde ormai consunte. Cinghie marroni per tirare su e giù vecchie tapparelle. A guidare è il più grande. Tiene gli occhi chiusi a fessura perché così gli sembra di vedere meglio, canticchia il pezzo che esce dalla radio pur non conoscendo le parole. Non becca nemmeno una nota. Salvatore, il più piccolo, guarda dall’altra parte, oltre il finestrino che non c’è, infastidito dalle gocce di sudore che gli colano sulla fronte e che prova ad asciugare con un fazzoletto di carta sbrindellato. Ha lo sguardo serio. Sembra immerso in chissà quali pensieri, ma sta solo maledicendo il fratello. Detesta quel suo modo insopportabile di guidare e il sorriso che gli sta perennemente appiccicato al viso. 9


Salvatore non sorride. Non sorride quasi mai, per colpa di un dente storto che tiene sempre ben nascosto. Si volta verso il fratello solamente quando gli sembra di sentire uno strano rumore. Lo senti?

Ogni giorno partono dicendosi che non si fermerà proprio quella volta, che arriveranno come sempre a destinazione. Pregano. Girano la chiave. Ringraziano quando si mette in moto. Il borbottio del motore è sempre lo stesso, insiste rauco e continuo, accompagnato da scoppiettii improvvisi a cui ormai si sono abituati. Stamattina hanno capito subito che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Quando sono saliti faceva già un caldo infernale, hanno aperto le portiere senza toccare le maniglie, che sotto il sole diventano piastre bollenti. Il motore ha faticato più del solito ad accendersi, e dal cofano è uscito un filo di fumo che non prometteva nulla di buono. Si sono guardati per un istante, dubbiosi, hanno pensato entrambi di tornarsene a dormire. Questa volta ci lascia, si sono detti. Vedendoli immobili in mezzo al cortile, il padre è uscito dall’officina con le mani ancora sporche di grasso e gli ha urlato di sbrigarsi, Siete già in ritardo, così loro sono partiti senza lamentarsi perché quando il padre usa quel tono conviene non contraddirlo.

Lo senti, chiede di nuovo Salvatore. Non è niente, dice Damiano, e riprende a canticchiare.

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Dentro l’Ape hanno messo una radio per far passare il tempo, una di quelle a pile e senza antenna, che intercetta al massimo un paio di stazioni e trasmette perlopiù musica brutta e pubblicità di deodoranti, assorbenti e olio d’oliva. Canti religiosi. L’hanno fatto perché si annoiavano, perché non avevano nulla da dirsi e consumavano il tempo dentro quell’abitacolo a litigare per ogni piccola cosa. Ora che hanno la musica, però, le cose non sono cambiate, litigano perché le casse funzionano a malapena, perché esce una mitragliata di rumori fastidiosi, che uno sopporta e l’altro no. Così viaggiano mantenendo lo sguardo in direzioni opposte e provano a evitarsi da quando sono partiti. Sudano da fare schifo e con questo caldo è una fortuna che l’Apecar non abbia i finestrini. Non ci sono più dal giorno in cui i ragazzi si sono lamentati per l’ennesima volta del caldo e dello spazio che là dentro mancava. Il padre li ha ascoltati senza reagire, poi si è alzato da tavola, ha preso il martello dalla cassetta degli attrezzi ed è uscito di casa. Li ha zittiti così. Ora avete l’aria condizionata, gli ha detto con il martello ancora in mano e un ciuffo di capelli che gli copriva gli occhi bassi sui vetri rotti. Loro l’hanno guardato e hanno preferito 11


non protestare ulteriormente, hanno pulito i sedili rischiando di farsi male e sono rientrati come se non fosse successo nulla. I vetri sono rimasti sul terreno davanti a casa per chissà quanto tempo.

Spegni quella cazzo di radio, prova a imporsi Salvatore. La canzone che passa ora è una delle preferite dal fratello, lui lo sa e per questo insiste. Damiano fa finta di non ascoltarlo, continua a guidare e a cantare. Puzzano. Salvatore osserva il fratello per un po’, poi trova il coraggio di spegnerla, di fermare quello scempio. La gomitata in pieno stomaco è l’unica mossa possibile quando si è in due dentro un Ape, così Damiano non ci pensa due volte. A Salvatore manca il fiato, si piega in due dal dolore e, mentre si lamenta, il fratello riaccende l’apparecchio e la musica riprende a gracchiare. Fanculo, dice lui a denti stretti, respirando a fatica e massaggiandosi la bocca dello stomaco. Sputa. Qua e là, sparsi, ci sono alberi che si attorcigliano su se stessi e qualche capanno per gli attrezzi abbandonato. Ci sono zone in cui qualcuno è riuscito a far crescere il grano, animali chiusi in piccole stalle bollenti e cani randagi che vagano alla ricerca di cibo e acqua. Insetti. Rocce e distese di erba bruciata. Le ruote secche dell’Apecar corrono su strade piene di sassi appuntiti, ma non è colpa loro se il motore si ferma. (I sassi, a volte, non c’entrano nulla.)

Salvatore smette di guardare fuori e si volta verso il fratello che bestemmia mentre insiste con la chiave, un giro due giri tre giri. Niente. L’Ape ha arrancato per qualche metro con il motore spento e si è bloccato all’improvviso dopo l’ennesimo scoppio. Del fumo nero, denso, è uscito dal cofano. La radio continua a trasmettere canzoni d’amore anche quando 12


scendono e ispezionano il motore che scotta, che sbuffa, che sporca le mani di grasso. Tossiscono per il fumo. Mentre Damiano cerca di capire quale possa essere il problema, Salvatore si allontana di qualche passo. Non riesce più a trattenersi, tira giù la zip dei jeans e si mette a pisciare tranquillo. La polvere giallastra si alza e la terra si scurisce. Quando ha finito torna dal fratello, che non ha smesso un istante di chiamarlo e bestemmiare. Chino sul motore, Damiano sbuffa e ammette, Non c’è niente da fare. Papà ci fa il culo. Avrà quasi dieci anni. Ma noi ce l’abbiamo solo da otto mesi. Si siedono a terra, sconsolati, poggiano le schiene contro la portiera arrugginita, che comincia a essere calda. Hanno le bocche impastate di saliva mischiata a sabbia, e non possono farci nulla perché non hanno neanche un po’ d’acqua. (Portatevi l’acqua, gli urla ogni giorno il padre prima che partano.) Aspettano che passi qualcuno. Anche Damiano comincia a irritarsi per la musica e le pubblicità che traboccano senza sosta dalla radio. Si muove di scatto, la spegne con rabbia, vorrebbe quasi scaraventarla via. Cicale. In questo silenzio improvviso si accorgono per la prima volta del rumore assordante delle cicale. I fratelli hanno la pelle scura quasi quanto i capelli, gli occhi, il sotto delle unghie. Hanno entrambi canottiere bianche, ormai diventate giallastre, e fisici nervosi. Hanno sete. L’estate, intorno a loro, sembra non voler finire mai.

Damiano si alza in piedi. Non ho voglia di aspettare, dice, Vado a casa. 13


Salvatore osserva dal basso il fratello che si toglie la canottiera, gli ricorda che sono lontani, che ci metterà una vita per arrivare. E poi con questo sole, cerca di convincerlo. Riproviamo a farlo partire, aggiunge. È inutile, dice Damiano mentre si lega la canottiera lurida attorno alla testa per ripararsi dal sole, È un’ora che ci provo. È che non sei buono, si lascia scappare Salvatore prima che gli venga in mente qualcosa di meglio da dire. Damiano lo squadra e gli dice solo, Alzati. E lo ripete, Alzati da lì. Salvatore obbedisce cercando di non apparire intimorito, e sono uno di fronte all’altro, si fissano negli occhi, poi Damiano avvicina la sua fronte a quella del fratello e comincia a spingere, a fare forza per sottometterlo. Tu adesso te ne rimani qua, dice digrignando i denti per sembrare più minaccioso di quello che è, E controlli questo cazzo di Ape. Salvatore può solo reggere lo sguardo, non dice nulla, urla soltanto di dolore quando il fratello gli tira una testata per sottolineare l’ordine dato. Secca, decisa, in piena fronte.

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A vederlo di spalle, mentre si allontana, la tentazione di prenderlo alla sprovvista è grande. Prima che Damiano sparisca dal suo campo visivo, Salvatore fa un fischio per attirare la sua attenzione. Non ha nemmeno bisogno di mettersi le dita in bocca, perché grazie al dente storto gli basta appoggiare la lingua sul palato e spingere fuori l’aria. Un fischio fortissimo, acuto. Ti vuoi sbrigare, gli urla quando il fratello si gira. Come risposta ottiene solo un gestaccio, e quando poi Damiano scompare dietro una collina secca di rocce e arbusti, Salvatore si risiede e cerca riparo nella poca ombra rimasta. Si guarda intorno e non c’è nulla se non sole, terra e cielo. All’orizzonte, la terra sembra evaporare. Una cavalletta gli salta vicino alla scarpa da ginnastica con la suola mezza staccata. Salvatore la osserva e aspetta che salti di nuovo. (Per un attimo è come se si guardassero.) E visto che non sembra avere intenzione di saltare, lui avvicina piano le mani giunte a coppa, si muove lentamente e, senza che l’insetto se ne accorga, lo intrappola. Lo sente dimenarsi, sente i piccoli arti appuntiti che sbattono contro i palmi e attraverso uno spiraglio tra le dita osserva la sua preda. Si chiede se le cavallette 15


respirino. Avvicina l’orecchio alla mano, inutilmente. Per un attimo, lontano da casa e sotto un sole sempre più caldo, Salvatore ha qualcosa a cui pensare. Non pensa al fratello che sta camminando verso casa, non pensa alla noia che lo accompagnerà per tutta l’estate, come tutte le estati, non pensa ai cani randagi che si aggirano per la zona da mesi. Soffia per infastidirla. Pensa a quanto è leggera una cavalletta, a quanto si muove veloce tra le sue mani, e quando la schiaccia sorride perché non pensava potesse fare così tanto rumore.


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