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In via Tiziano Aspetti, scultore non minore di fine Cinquecento, da quattro anni lavorano, ormai, alle corsie per il tram monorotaia. Si distende la sera sul quartiere tra gli abitanti in giacche rifrangenti e l’inedia cattiva delle anziane ammalate, e scesi, i dipendenti, dagli uffici, coi musi schiacciati dal buio pesto e chiamate non risposte negli occhi, si scolano spritz macchiati di led al bar all’imbocco di via d’Alemagna, dove paghi di più se sei dell’Est e i fari delle macchine entrano scuri, scorrono bronzei sul ripiano di amari. L’Arcella, se la batti in lunghezza, somiglia alle puttane che la abitano di notte: ti offre il suo corpo bisunto sgranando le maglie uncinate dei lampioni, protetta dalla cappa di polveri sottili come le palle 5
di vetro sopra i cassettoni, e fuori dall’orario di lavoro, quando molto più vili si fanno le file di edicole sbarrate e cabine in disuso, è sfatta e triste come domeniche vuote su arterie lontane dai centri commerciali. Ci arrivi, di solito, nei suoi rettifili, per stanze a prezzi bassi in appartamenti condivisi, come nei romanzi di Dostoevskij, tanto più in via Vecellio, tra ucraini e moldavi che svalutano anche i sassi, i visi curvi di angoli incisi, giganteschi: al quarto piano del numero 12 i Niculae si segnalano, puntuali, alle sette di ogni colazione, quando è norma svegliarsi con musiche folcloriche a volumi, a tratti, da rave party – sardane gipsy e polke ipnotiche che poi si intubano, svanendo, nei giorni abortiti nei cantieri. Si spalancano, allora, le finestre, sopra parabole satellitari fuori dalle terrazze come sputnik circondati dai gerani, l’alimentari dei rumeni aperto fino a tardi, e il fisarmonicista diretto con i vedovi verso le panchine dove termina l’Alì, a trascinare la Slavonia zingara tra le pizze al taglio dei nostri pranzi economici – Pizza-e-via di vicolo Bernini, chiuso il lunedì – Pizza-break di via Bissoni, 6
aperto tutti i giorni – al MondoPizza di via Machiavelli puoi osare la prosciutto e funghi, o anche la radicchio e salsiccia quand’è stagione, al Pizzarcella – la nostra via crucis, da quando siamo qui, nel dribbling dei pasti, col bidone della carta che subito si stipa, e arriva al sabato quasi peggio dei nostri stomaci esausti. Doppia ampia e luminosa, diceva l’annuncio, astenersi matricole, e non sembrava vero che mancasse la scritta ragazze soltanto!, in un carattere settantadue difficile da fraintendere, roba che ormai volevamo delinquere, a essere, così, presi per bruti, e anzi, appartamento misto, c’era scritto, lasciando un’impressione di progressismo spinto. Quando ci siamo presentati, un novembre, io e Teo, scavalcati new jersey e transenne sui fumi dell’autunno addosso ai garage e alle zitelle dai bruni foulard, d’istinto a Dario siamo stati simpatici: «Ospiti solo ogni tanto, abbiamo avuto problemi con un tizio che portava sempre la sua ragazza, già siamo in sei, pensatevi in sette, i bagni sono due, questo sarebbe vostro e di Giacomo, la cucina la vedete, un po’ vecchia ma funziona, avreste due scomparti, qua, del frigo grande, 7
dietro le arance c’è la busta per le bollette, turni di pulizia per le stanze in comune, lavatrice a pagamento, niente telefono fisso, linea wireless dei vicini finché non mettono una password...» e rifletti, mentre danno in tivù i talk-show delle due, che casino gestirsi una casa, andare a vivere fuori, da soli, ma assieme a cinque inquilini (alcuni tuoi traumi adolescenziali: Piccoli omicidi tra amici, tutti i colloqui psico-attitudinali, ma anche, più tardi, Pao Pao di Tondelli, la vita di caserma in quel film con Dapporto, e il nesso con la naia che non si stana dal cervello, – il cameratismo, il nonnismo – meglio morto). «E voi, allora, come mai nella Padova topaia?» e gli spieghi, con il fritto dei Sofficini che impregna i canovacci ricamati a grappoli, del dottorato, tu, dopo la laurea in storia, e dell’impiego, Teo, nella multinazionale, e ti chiedi chi è Giacomo, chi è Dario, chi sono gli altri due che mancano all’appello, e perché vivere con questi sconosciuti di cui sempre ignorerai i cognomi, scendendo a piedi tra i rimbombi dei muri, a fiutare le colonie dei vecchi su spire di corrimano panciuti, e davanti a ogni porta ti invade l’odore dei pranzi dei condòmini ignoti, e ti viene in mente casa tua, 8
il tuo giardino, circondato dalle villette di quattro vedove sprezzanti, e tua madre che ti rimprovera coi guanti per i colori dei vestiti malamente abbinati («da piccolo mi chiedevi: “ci sta, mamma, coi pantaloni, questa maglietta, questo blu?”, perché, adesso, non ti importa più?») e le vie tematiche coi nomi dei monti nella zona residenziale di Breda di Piave, comunque meglio di quelle che ti crescono come tumori attorno al cancello, tutte intitolate a qualche membro delle forze armate, che muoiono solo marescialli, qua, e sorelle in grisaglie vanamente devote. A Teo dici, fuori, che ti sembra perfetta, la stanza, grande abbastanza per tutti e due, e 120 sacchi a testa è un prezzo che non batte neppure un mono in via Anelli tra i nigeriani. E poi è bello, no?, con questo sole che ti tramonta tra le mani fendendo di sbieco i palazzi, le macchine parcheggiate storte, la scia dei pini marittimi che inganna le betoniere, e copre, a sbuffi, i miasmi dei bidoni per l’umido e i vapori vaghi delle sere. A casa queste cose mica le incontri: ti si spiegano i soliti orizzonti, le insegne a memoria, il postino a rilento, le pisciate dei cani, le fermate dei bus, 9
e poi ti ritrovi a litigare coi padri nei bar senza parcheggi. Per me va bene fa, mentre all’angolo con via Aspetti ci sfiora forza lavoro bielorussa guardata male dai pastori tedeschi, e ogni tanto qualche stabile sventrato come a Sarajevo, ma questo sole, adesso, sembra intonarsi alla ruggine delle nostre pelli, ai nostri deserti post-studenteschi, venticinque metri quadri di tarli per educarsi al market al mocho al boiler. Il giorno dopo io e Teo accettiamo, e loro (gli estranei) accettano noi.