Glen Duncan è nato a Bolton, in Inghilterra, nel 1965 e ha studiato filosofia e letteratura alla Lancaster University. Il suo primo romanzo, Hope, è stato pubblicato nel 1997, seguito da altri sei romanzi: Love Remains, 666. Io sono il diavolo (Newton Compton), Weathercock, Morte di un uomo qualunque (Fazi), The Bloodstone Papers e A Day and a Night and a Day. Vive a Londra. L’ultimo lupo mannaro è il primo libro di una trilogia.
Isbn Edizioni via Sirtori, 4 20129 Milano Presidente: Luca Formenton Direzione editoriale: Massimo Coppola Editors: Mario Bonaldi, Alberto Piccinini Redazione: Antonio Benforte, Linda Fava Diritti: Sara Sedehi Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi Produzione: Lorenzo Vetta Grafica: Alice Beniero Copyright Š 2011 by Glen Duncan First published in Great Britain in 2011 by Canongate Books Ltd, 14 High Street, Edinburgh EH1 1TE. Š Isbn Edizioni S.r.l., Milano 2011 www.lultimolupomannaro.com Titolo originale: The Last Werewolf
GLEN DUNCAN
L’ultimo lupo mannaro Romanzo
Traduzione Tomaso Biancardi
SPECIAL BOOKS
Per Pete ed Eva
prima luna
Lasciate che accada
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«È ufficiale» disse Harley. «Hanno ammazzato il Berlinese due notti fa. Sei l’ultimo.» Poi, dopo una pausa: «Mi dispiace». Questo succedeva ieri sera. Eravamo nella sua casa di Earl’s Court nella biblioteca al piano di sopra, lui in piedi con i muscoli in tensione tra il camino di pietra e il divano rosso sangue, io seduto alla finestra con un bicchierino di Macallan invecchiato quarantacinque anni e una Camel, e guardavo fuori la neve che cadeva bagnata nel buio di Londra. La stanza sapeva di mandarino e pelle e del legno di pino che bruciava nel fuoco. Dopo quarantott’ore ero ancora fiacco per la Maledizione. Le scorie di lupo sui polsi e le spalle ci mettono un po’ ad andarsene. Avevo sentito le sue parole, ma riuscii a pensare solo: mi farò fare un massaggio da Madeline più tardi, con l’olio caldo al gelsomino e quelle sue mani bianche con le unghie lunghe che non amo e non amerò mai. «Cosa farai?» disse Harley. Feci un sorso, deglutii, nel momento in cui il whisky scendeva a bruciarmi il torace ebbi una fugace visione di gambe nude che sciaguattavano nell’acqua torbida
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di una palude sporcando i kilt del clan Macallan. È ufficiale. Sei l’ultimo. Mi dispiace. Sapevo già quello che mi avrebbe detto. E ora che l’aveva detto? Una vaga vertigine ontologica. L’astronauta di Kubrick con il cordone reciso che cade nel vuoto, solo verso l’infinito… A un certo punto l’immaginazione si rifiuta di andare oltre. La formula giusta è: Meglio non pensarci. È chiaramente meglio. «Marlowe?» «Questa stanza non significa niente per te» risposi. «Ma migliaia di bibliofili in giro per il mondo si getterebbero in ginocchio a piangere di gioia davanti a tutto questo.» Non esageravo. La collezione di Harley vale milioni, libri che neanche guarda perché è entrato nella fase in cui non legge più. Tra dieci anni, se sarà ancora vivo, passerà all’altra fase – ricominciare a leggere. All’inizio smettere sembra un apice di maturità. Come tutti gli apici di questo tipo però è una vetta sbagliata. È umano. L’ho visto tante volte. In duecento anni, vedi tutto tante volte. «Non riesco a immaginare come tu ti possa sentire» disse. «Neanch’io.» «Abbiamo bisogno di un piano.» Non risposi. Lasciai invece che il silenzio si riempisse di possibili alternative alla necessità di fare un piano. Harley accese una Gauloise e versò a entrambi un altro whisky con la mano malferma, ormai piena di macchie di vecchiaia e vene lilla. A settant’anni ha ancora i capelli abbastanza lunghi, anche se fini e grigi, e folti baffi gialli
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di nicotina che sembrano incerati ma non lo sono. Un tempo i suoi studenti lo chiamavano Buffalo Bill. Adesso l’unico Buffalo Bill che conoscono è il serial killer del Silenzio degli innocenti. Nei suoi periodi di debolezza psichica si appoggia a un bastone col manico in osso, anche se il dottore gli ha detto che gli rovinerà la schiena. «Il Berlinese» dissi. «Lo ha ammazzato Grainer?» «No, non Grainer. Il suo protetto, Ellis, quello californiano.» «Grainer si risparmia per il gran finale. Verrà a prendermi da solo.» Harley si sedette sul divano e fissò il pavimento. So cosa lo spaventa: se muoio prima di lui non avrà più questo elemento di surrealtà da mettere tra sé e la sua coscienza per placarla. Jake Marlowe è un mostro, questo è il fatto. Fatto numero due: Jake Marlowe uccide e divora la gente. Questo fa di lui, Harley, un accessorio al fatto, fatto numero tre. Finché io sono vivo, cammino, parlo e una volta al mese faccio il mio giochetto con la luna piena, lui può continuare a vivere in questa realtà come fosse un sogno decadente. A proposito, te l’ho mai detto che il mio migliore amico è un lupo mannaro? Da morto, lo obbligherei a un brusco risveglio. Ho aiutato Marlowe a coprire i suoi omicidi. Probabilmente si ucciderebbe o sarebbe la volta buona che impazzisce del tutto. Uno dei suoi incisivi superiori è d’oro, un anacronismo dentale che è già un mezzo segno di demenza. «Alla prossima luna piena» disse. «Per il resto della Caccia l’ordine è di stare indietro. Lo show è tutto di Grainer. Lo sai com’è fatto.»
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Lo so eccome. Eric Grainer è il Pezzo Grosso della Caccia. Tutti gli alti gradi del wocop (l’Organizzazione Mondiale per il Controllo dei Fenomeni Occulti) sono carichi di soldi, oppure se li fanno dare da chi ne è carico in cambio delle loro competenze. Le competenze di Grainer includono trovare e uccidere quelli della mia specie. La mia specie. Di cui, grazie agli assassini del wocop e a un secolo senza nuove leve, sembrerebbe che io sia l’ultimo rappresentante. Pensai al Berlinese, che di nome faceva (Dio è morto, ma l’ironia sta benissimo e se la spassa come non mai) Wolfgang, mi immaginai i suoi ultimi istanti: un turbine di brina sotto di lui, il muso illuminato dalla luna, la pelliccia sudata, la frazione di secondo in cui nei suoi occhi si mischiano incredulità e paura e orrore e tristezza e sollievo – poi l’ultimo, bianco, bagliore dell’argento. «Cosa farai?» ripeté Harley. Niente più Wolf, niente più Gang. L’amarezza si faceva strada nel mio umorismo. Guardai fuori dalla finestra. La neve veniva giù implacabile come una piaga dell’Antico Testamento. I passanti su Earl’s Court Road procedevano incerti pattinando sui marciapiedi ghiacciati e avvertivano, nella fredda effervescenza di vortici angelici, l’infanzia ancora lì, e insieme il trauma, come uno stelo spezzato, di non essere più bambini. Due notti prima avevo mangiato un operatore di borsa quarantatreenne, specializzato in hedge funds. Sono in una fase in cui prendo gente che nessuno vuole. La mia ultima fase, si direbbe.
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«Niente» risposi. «Devi andartene da Londra.» «Per andare dove?» «Non provarci neanche.» «È ora.» «Non è l’ora di niente.» «Harley…» «Hai il dovere di restare in vita, tu come tutti noi.» «Non sono esattamente come tutti voi.» «Non importa. Devi continuare a vivere. E non rifilarmi la solita cazzata romantica, che sei stanco di tutto. È falso, è ridicolo. È la battuta di una brutta sceneggiatura.» «Non è una brutta sceneggiatura» dissi. «Sono stanco.» «Ho già visto tutto, sono logoro di storia, troppo pieno di contenuti, sazio e vuoto allo stesso tempo – sì, me l’hai già detto, so tutto. E non ti credo. E comunque non ci si può arrendere. Amiamo la vita perché la vita è quello che abbiamo. Dio non esiste e questo è il suo unico comandamento. Promettimelo.» Stavo pensando quello che la parte onesta di me aveva pensato fin dal momento in cui Harley mi aveva dato la notizia. Ora dovrai dirlo. Dire l’indicibile. Ti chiedevi per quanto tempo ancora avresti potuto rimandare. Hai rimandato per centosessantasette anni. Un po’ troppo tempo per fare aspettare una donna. «Promettimelo, Jake.» «Prometterti cosa?» «Promettimi che non te ne starai lì seduto come un papa ad aspettare che arrivi Grainer ad ammazzarti.»
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Quando avevo immaginato questo momento l’avevo immaginato come puro sollievo. Ora che il momento era arrivato il sollievo c’era, ma non era affatto puro. La sordida fiammella del mio essere individuale palpitava in segno di protesta. Non che il mio essere fosse più quello di una volta. Di questi tempi non merita più che un mesto sorriso, quello che può provocare uno spasimo residuo di desiderio nelle palle di un vecchio. «Gli hanno sparato, vero» chiesi «a Herr Wolfgang?» Harley fece un tiro nervoso, poi buttando fuori il fumo dalle narici schiacciò la Gauloise nel posacenere in ossidiana al suo fianco. «Non gli hanno sparato» disse. «Ellis gli ha tagliato la testa.»
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Ogni cambiamento di paradigma risponde a un desiderio amorale di novità. Così è stato con la vittoria di Obama alle elezioni. Così fu, a suo tempo, con le immagini di Auschwitz. Bene e male sono irrilevanti. Basta che qualcuno ci mostri che il mondo non è quello che credevamo, e una parte di noi ne sarà felice. Non si salva niente. La propria condanna a morte strappa un gridolino folle di alleluia, e la mia la aspetto da tempo. Quanto vivono i lupi mannari? Mi ha chiesto Madeline di recente. Stando al wocop, circa quattrocento anni. Non so come fanno. Ovviamente uno ci prova, si pone dei traguardi – il sanscrito, Kant, il calcolo avanzato, il Tai Chi – ma queste cose affrontano solo il problema del Tempo. Il problema grosso, quello dell’Essere, non fa che diventare ancora più grande. (Da questo punto di vista non stupisce la predilezione, seppur intermittente, che i vampiri hanno per la catatonia.) Uno alla volta, ho dato fondo a tutti gli atteggiamenti possibili: edonismo, ascetismo, spontaneità, riflessività. Ho provato tutto, dall’approccio Socrate Infelice a quello Maiale Soddisfatto. Il meccanismo è logoro. Non sono all’altezza. Ho
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ancora sentimenti e non ne posso più di averne. Che è a sua volta un sentimento che mi nausea. Semplicemente, non ne voglio più, non voglio più vita. Harley precipitò dall’ansia alla morbosità alla malinconia, ma io rimasi in uno stato di trasognata leggerezza, in parte volontario ottundimento, in parte accettazione zen, in parte banale incapacità di concentrarmi. Non puoi far finta di niente, continuava a ripetere. Non puoi passarci sopra, cazzo. Per un po’ mi limitai a rispondergli senza troppa convinzione cose come Perché no? e Certo che posso, ma si stava agitando così tanto – aveva ripreso in mano il bastone con il manico in osso – che iniziai a temere per il suo cuore e cambiai tattica. Lasciami digerire la cosa, gli dissi. Lasciami il tempo di pensare. E già che ci sei, ora che ci penso, lasciami anche fare la scopata che mi sono organizzato, visto che la sto già pagando. Il che era vero (Madeline mi stava aspettando in una stanza da 360 sterline a notte in un piccolo hotel di lusso), ma Harley non la prese bene lo stesso: erano tre mesi che faceva i conti con una libido imbronciata per un’operazione alla prostata che aveva reso tanti ragazzini di Londra orfani di un munifico mecenate. Ma ottenni quello che volevo, andarmene. Ubriaco fino alle lacrime, mi abbracciò e insistette che prendessi il suo cappello di lana e mi fece promettere di chiamarlo entro ventiquattr’ore quando, continuava a ripetere, avrei dovuto smettere di fare la checca e dare un taglio a tutta questa patetica sceneggiata finto-amletica. Nevicava ancora quando uscii in strada. Il traffico sem-
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brava inebetito, offriva una scena commovente. La metro di Earl’s Court era chiusa. Rimasi fermo un momento per adattarmi alla feroce innocenza dell’aria. Non avevo mai conosciuto il Berlinese, ma era la cosa più simile a una famiglia che avessi. Due anni fa era scampato a un agguato nella Foresta Nera, era scappato in America e aveva fatto perdere le sue tracce in Alaska. Se fosse rimasto in quelle terre selvagge forse sarebbe ancora vivo. (Quel pensiero, le «terre selvagge», risvegliò lo spirito animale, mi fece passare le dita fredde nella pelliccia che non c’era; montagne come vetri neri e schegge di neve e l’ululato e il sangue caldo nell’aria e il sapore di ghiaccio…) Ma c’è il richiamo di casa. Ti tira via per dirti che non appartieni a quei luoghi. Wolfgang era a trenta chilometri da Berlino quando l’hanno preso. Ellis gli ha tagliato la testa. La morte di una persona cara è un brusco risveglio, tutto si rianima: le nuvole, gli angoli di strada, i volti, le pubblicità in tv. Lo sopporti perché ci sono altri che condividono il dolore. Una specie che muore invece non lascia nessuno. Sei da solo in mezzo a tutti i particolari, innaturalmente rinnovati. Con la lingua fuori per assaporare i fiocchi freddi che cadevano ebbi i primi sentori della pressione che il mondo mi avrebbe potuto mettere addosso per il tempo che mi rimaneva, la massa dei suoi dettagli, la sua perseveranza implacabile, priva di trama. Di nuovo: meglio non pensarci. Sarebbe stata la mia tortura, questa: tutto ciò a cui era meglio non pensare si sarebbe dedicato a costringermi a pensarci.
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Mi accesi una Camel e feci uno sforzo per mettere a fuoco. Cose pratiche: arrivare a Gloucester Road a piedi. Da lì la Circle Line fino a Farringdon. Poi altri dieci minuti di scarpinata flagellato dal vento e dalla neve fino allo Zetter, dove Madeline, Dio benedica lei e le sue moine mercenarie, mi stava aspettando. Tirai il cappello di lana giù fino alle orecchie e mi incamminai. Harley aveva detto: Grainer vuole il mostro, non l’uomo. Hai ancora tempo. Non avevo dubbi che avesse ragione. Mancavano ventisette giorni alla prossima luna piena e grazie alle interferenze di Harley il wocop mi credeva ancora a Parigi. Questa consapevolezza mi diede qualche minuto di conforto nonostante il crescente sospetto – questa è paranoia, è tutto nella tua mente – di essere seguito. Poi, girando su Cromwell Road, le riserve di dubbio svanirono e non trovai più niente da mettere tra me e il fatto nudo e crudo: ero seguito. Ricominciai a ripetermi Questa è paranoia, ma il mantra aveva perso la magia. Sentivo sul collo il soffio di calde insinuazioni dove invece avrebbe dovuto esserci solo freddo: sorveglianza. La neve e gli edifici si gonfiavano a livello molecolare a confermare, impellenti: Ti hanno trovato. È già iniziato. L’adrenalina non se ne fa niente dell’ennui. L’adrenalina scorre nel mio stato, noncurante, non solo nelle fibre umane ma anche nei residui di lupo, quei rimasugli di bestia che resistevano alla metamorfosi. Le energie fantasma dell’animale e quelle corrispondenti dell’homo sa-
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piens si contorcevano ed eruttavano sul mio scalpo, sulle spalle, sui polsi, sulle ginocchia. La mia vescica bruciava come in una discesa troppo brusca dall’apice di una ruota panoramica. L’assurdità era che non riuscivo, con la neve a metà polpaccio, ad accelerare il passo. Harley aveva provato a mettermi in mano una Smith&Wesson automatica prima che me ne andassi ma l’avevo rifiutata ridendo. Non fare la zia. Me lo immaginai davanti alle riprese di una telecamera a circuito chiuso che diceva: Ecco, certo, Harley la vecchia zia. Sei contento adesso, Marlowe, brutto coglione? Buttai la sigaretta e infilai le mani nelle tasche del cappotto. Dovevo avvisare Harley. Se la Caccia mi stava addosso allora sapevano anche dov’ero appena stato. La casa di Earl’s Court non era intestata a lui (era mascherata da negozio di antiquariato e libri rari, facciata per cui era perfettamente attrezzata) ed era rimasta sicura fino ad ora. Ma se il wocop l’aveva scoperta, allora Harley – da quasi cinquant’anni la mia spia all’interno, il mio risolvi-problemi, il mio contatto, il mio amico – poteva essere già morto. Se, allora… Se, allora… È precisamente questa la cosa di cui sono stufo marcio (oltre che di tutto l’ambaradan della metamorfosi mensile, che è la seccatura definitiva dell’essere Lupo Mannaro): la logistica interminabile. C’è un motivo per cui gli umani crepano sugli ottant’anni: molto prosaicamente, è la fatica. Apparirà come un’insufficienza organica, un cancro o un infarto, ma non è altro che l’incapacità di inerpicarsi lungo il campo mi-
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nato della più banale legge di causa-effetto. Se invitiamo Sheila, non possiamo invitare Ron. Se mangio le aringhe affumicate adesso, con il tè di oggi pomeriggio mi toccherà mangiare la quiche. Un’ottantina di anni di se, di allora, è il massimo che uno può reggere. La demenza non è che la ragionevolissima presa di coscienza di non potercela più fare. Avevo la faccia accaldata e la pelle sensibile. Il silenzio ovattato della neve, come in uno studio di registrazione, rendeva ben distinti i piccoli suoni: una lattina di birra aperta; un rutto; una borsa chiusa a scatto. Dall’altra parte della strada tre ragazzi ubriachi si azzuffavano isterici. Un tassista avvolto in una coperta scozzese si lamentava al telefonino, appoggiato alla sua macchina. Fuori dal Flamingo due buttafuori con colbacco in testa e hotdog in bocca vigilavano su una coda di discotecari infreddoliti. Niente come il sangue e la carne dei giovani. Il sapore audace della speranza. Nel post-Maledizione questi pensieri schizzavano su come le erezioni inopportune dell’adolescenza. Attraversai, mi misi in coda, registrai con distacco buddista la succulenza pulsante delle tre ragazze mezze svestite davanti a me e chiamai Harley sulla linea sicura. Rispose dopo tre squilli. «Qualcuno mi sta seguendo» dissi. «Devi andartene da lì. La casa è compromessa.» Il ritardo nella risposta, previsto. Si era appisolato mezzo sbronzo con il telefono in mano, con la vibrazione. Potevo immaginarmelo, piegato, mentre si tira a sedere a fatica sul divano, capelli dritti per l’elettricità statica, che
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cerca a tentoni le Gauloises. «Harley? Ci sei? La casa non è sicura. Vai via e trova un nascondiglio.» «Dici sul serio?» «Sì, non perdere tempo.» «Voglio dire, non sanno neanche che sei qui. Ti assicuro. Ho visto gli ultimi aggiornamenti con i miei occhi. Cristo, quelle informazioni le scrivo io. Jake?» Impossibile, sotto la neve, individuare il mio segugio. Se mi aveva visto attraversare doveva essersi nascosto in un portone. Dall’altra parte della strada un uomo si era fermato, apparentemente per scrivere un messaggio. Aria da fotomodello, in trench, capelli scuri e una barbetta perfettamente incolta. Se era lui, o era un idiota o voleva che io lo vedessi. Nessun altro candidato ovvio. «Jake?» «Ci sono. Senti, non fare cazzate, Harley. Hai un posto dove andare?» Lo sentii espirare, vidi la corporatura indebolita incurvarsi dentro la giacca di lino. Gli precipitò addosso, all’improvviso, la consapevolezza di cosa avrebbe significato la caduta della sua copertura all’interno del wocop. Settant’anni sono troppi per cominciare a scappare. Nel flusso di non silenzio della linea telefonica intuii le immagini che gli passavano per la mente: le stanze d’albergo, le mazzette, le false identità, la morte della fiducia. Non è una vita per vecchi. «Be’, posso andare al Founders, immagino, qui dietro l’angolo. A meno che qualcuno non mi spari tra qui e Child’s Street.» Founders era la Fondazione, il club satiricamente esclusivo di Harley, con
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valletti alla Jeeves e la crème delle escort londinesi, mobili antichi e intrattenimento tecnologico d’avanguardia, massaggiatrici, una cartomante resident e uno chef da tre stelle Michelin. Per essere membro era necessaria la ricchezza ma assolutamente proibita la fama: la celebrità attira l’attenzione e quello era un posto dove i ricchi potevano abbandonarsi ai propri vizi senza pubblicità. Secondo Harley meno di un centinaio di persone sapevano della sua esistenza. «Fammi fare un controllo prima» disse. «Vado al wocop e…» «Promettimi che prendi la pistola e sparisci.» Sapeva che avevo ragione io, ma non voleva. Non adesso, non così impreparato. Me lo immaginai mentre si guardava intorno, guardava la stanza. Tutti i libri. Quante cose stavano per finire, senza preavviso. «Va bene» disse. «Fanculo.» «Chiamami quando sei al club.» Pensai che anch’io avrei potuto approfittare del Flamingo, visto che era lì. Nessun Cacciatore avrebbe rischiato un’esecuzione così pubblica. Da fuori, il locale era una facciata scura di mattoni senza alcun segno di riconoscimento, con una porta di metallo che avrebbe potuto servire da caveau a una banca. Appena sopra, un piccolo fenicottero al neon rosa che solo un iniziato avrebbe riconosciuto. Nella versione cinematografica della mia vita sarei entrato e sgattaiolato fuori dalla finestrella del bagno o avrei incontrato una ragazza e iniziato una storia problematica che avrebbe in qualche modo salvato me a spese sue. Nella realtà sarei entrato, avrei passato
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quattro ore sotto la stretta sorveglianza del mio assassino senza riuscire a capire chi fosse e poi sarei tornato fuori in strada al punto di partenza. Mi spostai dalla coda. Un raggio caldo di consapevolezza mi seguì. Uno sguardo al fotomodello in trench mi disse che si era infilato il telefonino in tasca e si stava incamminando dietro di me, ma non riuscivo a convincermi che fosse lui. L’aria suggeriva una maggiore raffinatezza. Guardai l’orologio: 00.16. L’ultima metro da Gloucester Road sarebbe passata non più tardi delle 00.30. Anche a questa velocità avrei fatto in tempo. Altrimenti, sarei andato al Cavendish e avrei fatto a meno di Madeline, anche se, visto che le avevo dato carta bianca con il servizio in camera allo Zetter, mi sarei trovato in bancarotta entro l’alba. Queste, direte, non sono le considerazioni di un essere logoro di storia, troppo pieno di contenuto, sazio e vuoto allo stesso tempo. D’accordo. Ma una cosa è sapere che mancano ventisette giorni alla tua morte, tutta un’altra cosa è sapere che potresti trovartela di fronte da un momento all’altro. Essere assassinato qui, in forma umana, sarebbe volgare, precipitoso e – ammesso e non concesso che la giustizia esista – ingiusto. Tra l’altro, chiunque fosse il segugio sulle mie tracce non poteva essere Grainer. Come aveva detto Harley, Sua Eccellenza onorava il wulf non il wer e il pensiero di non essere fatto fuori dal migliore dei Cacciatori mi disgustava. Per non parlare dell’ultimo dovere di diarista ancora non rispettato: se fossi stato eliminato qui e adesso, chi avrebbe raccontato
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la storia irraccontabile? L’intera malattia che è la tua vita messa nero su bianco, tranne quell’ultima lesione del tuo cuore, il suo tumore e la sua musa. Dio è scomparso, il Significato con lui, eppure l’inganno estetico mantiene la capacità di farti vergognare. E tutto questo, disse il cinico dentro di me – mentre mi fermavo sotto un lampione per accendere un’altra Camel –, aveva anche una certa dignità, a meno che non fosse solo una razionalizzazione fighetta del desiderio improvviso e disperato di non morire. E in quel preciso istante un proiettile silenziato colpì il lampione dieci centimetri sopra la mia testa.
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Accumulo cognitivo. Da una parte ero impegnato a catalogare le prove percettive – lo schiocco come un petardo a Capodanno, lo sbuffo di polvere, il tintinnio preciso del rimbalzo – per confermare che davvero mi avevano sparato addosso, dall’altra ero già oltre queste ridondanze e stavo scattando – sì, scattando è il verbo giusto – dentro il portone di una banca chiusa, per trovare copertura. In momenti come questi vorresti avere reazioni precise, alla 007. Vorresti un sacco di altre cose, anche. Invece, con le spalle al muro urinoso, mi trovai a pensare (insieme a Oh merda e Harley pubblicherà i diari e Di noi non resterà nulla) alla tonificante prontezza con cui le istituzioni finanziarie – inclusa la banca immobiliare Bradford&Bingley nel cui portone ero nascosto – erano collassate durante la Crisi. Pubblicità di banche e società di costruzioni erano andate avanti per giorni, anche settimane, dopo che le aziende pubblicizzate erano già fallite. Per tanta gente era impossibile credere, alla vista della donna in giacchetta verde che indossava con sicurezza la caratteristica bombetta nera – il logo della B&B – e sorrideva mischiando nella sua espressione
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know-how sessuale e finanziario, che l’azienda che rappresentava non esisteva più. Ho assistito a questo genere di cose in passato, la morte di ogni certezza. Ero in Europa quando Nietzsche e Darwin insieme si sbarazzarono di Dio ed ero in America quando Wall Street ridusse il Sogno Americano a una valigetta rotta e una scarpa consunta. La differenza con la crisi corrente è che adesso la depressione mondiale coincide con la mia. Lo devo ripetere: non ne voglio più, davvero, non posso sopportare altra vita. Prendetevi la mia e tenetevi le vostre. Un secondo proiettile silenziato si seppellì con un rantolo sordo nei mattoni della B&B. Proiettili d’argento? Se non lo erano, non avevo niente di cui preoccuparmi, ma non c’era modo di scoprirlo se non prenderne uno in petto e vedere cosa sarebbe successo. (La tipica irragionevolezza dell’universo. Non volevo più vivere se non quei pochi giorni per fare quello che dovevo fare. Cosa sono pochi giorni dopo duecento anni? Ma eccovela qui, la logica dell’universo: decenni di concessioni eque e imparziali e poi all’improvviso trattative interrotte, patti non negoziabili.) Mi misi a terra a pancia in giù. L’odore rancido di piscio era una gioia crudele. Sdraiato, con piccoli movimenti progressivi, raggiunsi l’angolo del portone e buttai uno sguardo. Il fotomodello in trench era a una ventina di metri da me, di spalle. La mano sinistra in tasca. O mi aveva sparato e ora se ne stava lì a fare da bersaglio suicida alla mia risposta, oppure gli spari venivano da qualche altra parte, e in quel caso solo un cretino non l’avrebbe ancora
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capito. La scena era la copertina di un disco anni ottanta, la sua silhouette incappottata e la neve e le macchine parcheggiate ad angoli strani. Mi venne la tentazione di chiamarlo, ma per dirgli Dio sa cosa. Parole d’amore forse, la morte imminente ti riempie di tenerezza per la forma di vita più vicina. Difficile dire per quanto rimase lì così. I momenti importanti si dilatano, per consentire all’intelletto di espandersi… un portone inutilizzato di Londra diventa un cesso pubblico in un batter d’occhio; le funzioni animali più basse si avventano sulle cose nell’istante in cui quelle superiori distolgono lo sguardo; la civiltà rimane bloccata in un’impasse manichea con la bestia… ma dopo un po’ si girò e si incamminò verso di me. Appoggiato al muro mi rialzai in piedi, assordato, dentro, da mille calcoli. In un corpo a corpo con me quella marionetta non sarebbe durata tre secondi, ma qualcosa mi diceva che non sarebbe andata così. Tra qui e l’incrocio con Collingham Road a una trentina di metri c’era copertura, quattro macchine parcheggiate o abbandonate sul mio lato della strada e un paio di cabine telefoniche all’angolo. Rischioso. Ma disarmato, nel portone, ero una preda troppo facile. Nel frattempo il mio giovane lord e i suoi zigomi pronunciati avevano dimezzato la distanza e si erano fermati di nuovo. Per un attimo aggrottò leggermente la fronte come se avesse dimenticato perché era lì. Poi, nell’istante preciso in cui aprii bocca per dire Che cazzo vuoi da me?, la sua mano sinistra si sfilò dalla tasca, con un movimen-
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to languido, reggendo una .44 Magnum con silenziatore, un arnese di una massa così portentosa che era difficile credere avesse abbastanza forza per alzarla e prendere la mira. Invece mi sorrise – una bocca grande e sensuale, con denti risplendenti in un volto ossuto animato da occhi scuri messi in risalto dal mascara – poi, con mano sorprendentemente ferma, sollevò piano l’arma e la puntò verso di me. Il corpo si dà da fare mentre la coscienza sta ancora lì a perdere tempo in chiacchiere. Senza rendermene conto avevo piegato le ginocchia, pronto a saltare (e c’era l’ingombrante, sterile fantasma della groppa animale, la sensazione di un ricordo fortemente inutile); le mani all’infuori, le dita distese, la testa piena di chiacchiere, ma che peccato non vedere fiorire i primi crochi e se ci fosse una vita dopo la morte ma no solo la bocca che si riempie di terra e poi più niente. La sua mano – colpita da un proiettile – ebbe una scossa e sputò sangue, e la pistola volò via. Il resto del corpo fece una curiosa mossetta, un saltello e un guaito simultanei, poi due passi barcollando in avanti tenendosi il polso con l’altra mano, prima di affondare nella neve con le ginocchia. Il volto, ben lontano dalla maschera tragica che ti aspetteresti, mostrò una sorta di delusione mista a sconcerto, anche se la bocca si aprì e rimase aperta. Un pendolo di saliva (un fenomeno di cui la pornografia contemporanea si è appropriata quasi esclusivamente) attaccato al labbro inferiore si distese, si ruppe, cadde. Il proiettile gli aveva perforato il palmo, facendogli san-
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guinare solo le vene superficiali. Se avesse reciso il nervo mediano il danno avrebbe potuto essere permanente, ma con la chirurgia di oggi ne dubitavo. Si appoggiò sui talloni e si guardò intorno, distrattamente, come se avesse perso il cappello. La Magnum poteva essere una cicca di sigaretta, per l’attenzione che le prestava. Il messaggio del cecchino mi era chiaro: se posso colpire la mano del tuo amichetto da qui, non avrei alcun problema a colpire anche te. Era come se stessimo conversando e lui o lei mi avesse detto questa frase, pacatamente. «Chi sei?» chiesi al giovane. Non rispose, ma con grande tristezza si alzò in piedi reggendosi l’avambraccio sinistro stretto al petto. Il dolore gli avrebbe presto trasformato l’arto in una cosa grossa e calda e implacabile. Con un cauto sforzo si piegò in avanti, raccolse la Magnum, la rimise a posto nella tasca della giacca. Poi, senza altra parola o sguardo nella mia direzione, si girò e se ne andò arrancando. Non dubitavo della mia interpretazione dei fatti, la valutazione dei rischi, la provvisoria incolumità, ma quei primi passi fuori dal riparo del portone richiesero forza d’animo. Ne feci tre, poi mi fermai. Immaginai il cecchino che mi guardava attraverso il reticolo del suo mirino e, visto che ogni comprensione reciproca provoca una certa forma di piacere, mi sorrideva. La mia schiena si ravvivò all’idea di tutto quello spazio freddo e pulito dietro di me che un proiettile d’argento avrebbe potuto attraversare. Il profumo della neve che cadeva era una misericordia,
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anche se ero sicuro che i miei vestiti avevano conservato l’odore feroce di piscio vecchio. Feci altri quattro passi, cinque, sei… dieci. Non successe niente. Il calore del sentirmi osservato non mi abbandonò, ma camminai fino a Gloucester Road senza ulteriori incidenti e presi l’ultimo treno della Circle Line fino a Farringdon. Harley mi aveva chiamato e lasciato un messaggio mentre ero in metropolitana. Era arrivato alla Fondazione sano e salvo.