I Siciliani - luglio-agosto 2012

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luglio-agosto 2012

I Siciliani giovani www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

Marinai

Giuseppe Fava Frutti di mare Salvo Vitale Ti ricordi, Peppino?

“Quando si arriva?”.“Dove si arriva?”.“Che ci facciamo qui?”.“Ehi, ma è grande,‘sto mare!”. Si naviga, si respira... A che punto siamo?

ARRIVA TELEJUNIOR! Giovani giornalisti alla scuola di Telejato

275

FestivaldelGiornalismo A Modica dal 30 al 2 con SiciG e Clandestino

Fior/ Tosi: lo scasso Pettinari/ Giudici a Palermo Mazzeo/ Colonie di mafia Giacalone/ Trapani Gomorra Abbagnato/ Così riparte Palermo Orsatti/ Sinistra chic

Cattafi il boss dei boss Finocchiaro/ La mafia grigia Mirone/ Il paese perduto Dieci25/ Due agosto Satira/“Mamma!” Jack Daniel/ “Mo’ vado in sezione” Fumetti/ Chinnici Bucca/ Mediterraneo Gutkowsky/ Neutrini Vita/ Arrivano i bit-Paperoni Riina:”Signora, lei sì che è un uomo!” CASELLI/ TRATTATIVE DALLA CHIESA/ KALASHNIKOV ROCCUZZO/ ERCOLANO CARUSO/ RESISTENZE

ebook omaggio

STORIE qua e là


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facciamo rete http://www.marsala.it/

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Questa generazione

Siamo i figli di una generazione che non ha conosciuto le stragi. Una generazione che ne ha sentito forse il boato, in lontananza, in un’incubatrice d’ospedale. Siamo figli di una generazione che ascoltava le favole di condottieri valorosi e forti che avevano salvato il proprio popolo dal male. Bimbi che lasciavano le proprie impronte su televisori sporchi di fumo, di urla, di bombe. Siamo figli di una generazione che non ha conosciuto i volti, le parole, le storie. Non le ha viste, né vissute. Figli di una generazione che rappresentava il vuoto allo svincolo per Capaci, i condomini senza finestre in via D’Amelio, le strade ancora troppo sporche da poter lavare. Pagine di storia difficili da scrivere e da digerire. Eravamo il silenzio che viene dopo troppo rumore, dopo le lacrime e dopo la rabbia. Il raccoglimento dopo la speranza, dopo quel 19 luglio. La generazione del sogno interrotto. Noi siamo quelli del dopo. Quelli che hanno appreso da vecchi ritagli di giornale, da libri regalati nelle scuole, dai video su internet che quel cielo, da bambini, non è mai stato così azzurro. Siamo quelli che la propria storia l’hanno scoperta quasi per caso, che non l’hanno voluta ma l’hanno sentita dentro. Sin dal primo istante. Siamo quelli che hanno preso le redini di tante vite e di un’unica storia e le hanno strette in pugno. Hanno raccolto il sacrificio di molti e il menefreghismo di tanti per continuare un’unica battaglia. Hanno guardato lo stesso orizzonte per camminare imperterriti sulle stesse strade. Per amore, per giustizia e per libertà. Siamo anche i figli di chi vorrebbe calpestare la memoria, di chi continua ad infangare una democrazia. Siamo quelli che oggi devono aprire bene gli occhi per difendersi dai falsi cultori della legalità e dagli ipocriti che vestono panni di antimafia. Quelli che devono saper distinguere ciò che di buono c’è e merita di essere rinvigorito affinché ogni lacrima diventi una cascata sempre più grande che inondi tutte le piazze e tutti i paesi d’Italia, e non solo. Siamo quelli del 21 marzo. Quelli dei colori e dell’allegria, quella della solidarietà e della passione. Siamo figli di una generazione che ha scelto di leggere ciò che spesso non viene scritto. Che prende treni e aerei per raccogliere storie e testimonianze e per donare. Come in un brivido profondo che lega tutta l’Italia. In una storia che per scelta è diventata patrimonio di tutti. Dal ragazzo del nord che in estate va a coltivare i campi di Libera a Gioia Tauro al ragazzo del sud che a Bologna scrive un dossier sulle infiltrazioni mafiose. Regalarsi strumenti di vita e di esperienza per sentirsi uniti e più forti allo stesso tempo. Questa è la generazione nata nel ’92. Ventenni che hanno voglia di chiedere e di esigere risposte. Che dai paesini di provincia provano a scrivere una storia diversa, che studiano e sperano in nuovi strumenti, seri e reali, per contrastare le mafie. I Siciliani giovani (di Sara Spartà)

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I Sicilianigiovani LUGLIOAGOSTO 2012

numero sette

Questo numero

Questa generazione I Siciliani Giovani Trattative di Gian Carlo Caselli Kalashnikov di Nando dalla Chiesa Necrologio di corte di Antonio Roccuzzo Una Resistenza a Catania di Giovanni Caruso

3 6 7 8 9

Facciamo rete

A che punto siamo di Riccardo Orioles Arriva Telejunior! di Margh.Ingoglia e Michela Mancini

10 12

Rewind-Forward di Francesco Feola

14

Italia

Giudici a Palermo di Aaron Pettinari L'arresto di Cattafi Associazione Rita Atria Due agosto di Salvo Ognibene e Beniamino Piscopo Verona: fusione con scasso di Paolo Fior Ma perché distruggere l'università? di Paolo Fior

LA BELLA RETE

16 16 20 22 25

Mafia e antimafia

Una barca fatta con le parole di carta dei nostri giornali, che raccontano le storie di verità, quella che ben descriveva il nostro direttore. Quei ragazzi che si abbracciano - solidarietà, stare insieme, tutto l'amore che c'è. Quella ragazza che guarda l'orizzonte, non per trovare una terra qualunque o l'isola che non c'è, ma una terra dove poggiare i piedi per percorrere un cammino collettivo. Quel mare dal colore inverosimile esiste! E' il mare – con quel colore – che bagna Lampedusa e non nasconde le tragedie e le cadute nè il sangue che vi è caduto, né le speranze. Infine, la barca di carta è abbastanza robusta da tenerci dentro tutte e tutti. E' pronta a collegarci con le varie sponde, srotolando una matassa di filo che parte da via Fava a Catania per arrivare a Bologna. Per poi andare a Milano, a Napoli, a Trapani, a Modica, ritornare su a Roma e poi ancora a Palermo, fra mille giri. E alla fine viene fuori questa gran bella rete che si chiama "Siciliani giovani".

Napoli: sicari bastardi di Eliana Iuorio Il paese perduto di Luciano Mirone La mafia grigia di Pino Finocchiaro La Gomorra di Cosa Nostra di Rino Giacalone Il guaio di chiamarsi Luraghi di Ester Castano Una colonia di mafia di Antonio Mazzeo La collina della munniza di Carmelo Catania Fra il cemento e il mare di G.Di Girolamo e F. Appari Il sindaco e il mafioso di Rino Giacalone

G.C.

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26 28 28 30 33 34 38 40 43


www.isiciliani.it DISEGNI DI MAURO BIANI

SOMMARIO Società

Catania senza pietà di Leandro Perrotta Università a confronto di Attilio Occhipinti Guerra di mafia a Vittoria di Giorgio Ruta

44 46 48

Satira/ fumetti

Mamma! a cura di Carlo Gubitosa, Kanjano e Mauro Biani 49 Grafic Novel/ Chinnici di Luca Salici e Luca Ferrara 54 "Oggi vado in Sezione" di Jack Daniel 56 Immagine

Mediterraneo di Anna Bucca/ foto di Grazia Bucca

57

Speciale

Festival del giornalismo 2012 Tekné

Arrivano i bit-Paperoni di Fabio Vita con SicilianiGiovani, Libera Sicilia e Il Clandestino

70

Polis

L'unico Ponte che vogliamo di Nadia Furnari Palermo che riparte di Giovanni Abbagnato Giornali "a sinistra" all'ora dell'aperitivo/ di Pietro Orsatti Mafia politica informazione/ di Roberto Rossi

61

71 72 76 77

Storie Teatro

Scene di nostra vita di Luciano Bruno

65

Musica

Hi-Fi istruzioni per l'uso di Antonello Oliva

66

L'imprenditore bifronte di Ugo Colonna Due muli al Quirinale di Bruna Iacopino La scuola del mio quartiere di Nerina Platania "Signora Bertolino, lei sì che è un uomo!" di M. Ingoglia Sicilia "babba" di Carmelo Catania

Storia

La favola della liberazione di Elio Camilleri

67

Scienze

Neutrini: ottant'anni di ricerche di Diego Gutkowski

80 82 84 86 87

Memoria

Frutti di mare/ di Giuseppe Fava Peppino, ti ricordi/ di Salvo Vitale

90 93

68

Un ebook in omaggio con questo numero STORIE QUA E LA' Isole, Operai, Briganti...

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Giustizia

Trattative di Gian Carlo Caselli

Quello delle “trattative” fra stato e

con il defunto capo della polizia Parisi

aver commesso fino al 1978 il reato di

mafia (che si sarebbero variamente in-

e con il defunto vice direttore del DAP

concorso esterno con Cosa nostra,

trecciate, persino dandovi causa, con le

Di Maggio, oltre che in concorso con

operando di fatto come tramite di Sil-

stragi del 1992/93) è un labirinto vi-

altri “congiurati” allo stato ancora

vio Berlusconi.

schioso nel quale si intravvedono inte-

ignoti, ma che – stando ad alcune indi-

ressi torbidi. I magistrati della procura

screzioni – potrebbero anche essere

grandezza della storia italiana, sul ver-

di Palermo dovranno fra poco scio-

stati “eccellentissimi”.

sante politico (Andreotti) e su quello

gliere alcuni primi nodi, motivando la

dell’imprenditoria fattasi poi politica

richiesta di rinvio a giudizio di vari

Il vizio d'origine

soggetti accusati di minaccia a corpi politici dello stato per turbarne l’attività (art. 338 cod. pen.), minaccia consistita nel prospettare gravi delitti (stragi e omicidi) alcuni dei quali commessi.

(Dell’Utri e dintorni), hanno intrattenuto cordiali e proficui rapporti, non

I PM di Palermo sono professionalmente affidabilissimi, perciò senza dubbio in grado di avvicinarsi alla verità più di chiunque altro. Attendiamo con fiducia, quindi, questa prima pro-

Un unico cerchio

Dunque, personaggi di primaria

nunzia.

sporadici, con la criminalità mafiosa. Una realtà inquietante della quale, invece di far finta di niente, si dovrebbe discutere: preliminarmente ad ogni discorso ulteriore, compreso quello sulle “trattative”.

Per contro, il clima creatosi intorno a L’elenco degli accusati è di per sé sconvolgente: dà la misura della diffi-

una volta – ad una seria discussione sui

coltà e delicatezza degli accertamenti

rapporti fra mafia e politica.

e nello stesso tempo del devastante im-

Velenose polemiche

loro non sembra favorevole – ancora

Al riguardo il nostro paese sconta un

Invece, tutto viene delegato – come sempre – alla magistratura. Con

patto che potranno avere gli esiti del

vizio d’origine, che è l’ostinato rifiuto

l’improntitudine, da parte di molti, di

processo.

di qualunque discussione e confronto

scatenare velenose polemiche accusan-

sul caso Andreotti, del quale sono pro-

do i magistrati di deragliare rispetto ai

come pezzi che insieme formano un

vati – Cassazione 9/4/05 - rapporti

loro compiti col maneggiare una ma-

unico strabiliante cerchio, mafiosi di

con Cosa nostra quanto meno fino al

teria indefinibile ed opinabile che ri-

primaria caratura criminale, carabinieri

1980.

schia continuamente di volatilizzarsi.

L’accusa, infatti, accomuna fra loro,

al vertice del ROS e uomini politici come Mannino e Dell’Utri.

Il rifiuto di ogni analisi si ripete con

Per poi brindare a champagne se

il caso dell’Utri, del quale pure la Cas-

Antonio Ingroia decide di andarsene in

Per di più il delitto di minaccia a

sazione, con sentenza 9/3/12, ha sta-

Guatemala.

corpi politici è contestato in concorso

bilito (pag. 129) la responsabilità per

(22 lug.)

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Poteri

Kalashnikov di Nando dalla Chiesa

Sul palco c’erano Gian Carlo

le, non da gruppi di fuoco che fanno

tiamo parlare di affiliati a questa o

Caselli e Alfonso Sabella, suo pupil-

agguati o assassinano uno per uno i

quell’organizzazione mafiosa do-

lo ai tempi eroici della procura di Pa-

loro nemici. Sono questi i “dettagli”

vremmo riandare subito a queste

lermo dopo le stragi. Ambiente:

su cui riflettere. Primo, perché un ri-

promesse di apocalisse. Che l’affilia-

aperta campagna, terreno sequestrato

trovamento così dovrebbe restare

to sia un architetto, un politico o un

alla camorra, il campo dei giovani di

scritto a caratteri cubitali nella nostra

dirigente di Asl.

Libera a Borgo Sabotino. Hanno det-

memoria, insieme alle decine e deci-

to cose importanti tutti e due. Ma qui

ne di latitanti che, proprio sotto la

venne trovato. Quanti ce ne sono an-

riporto a memoria un episodio rac-

guida di Caselli e Sabella, vennero

cora in giro, di Cosa nostra o della

contato da Sabella, perché mi ha

catturati negli anni novanta. Mentre

‘ndrangheta o della camorra? E chi

sgomentato.

se va bene ci ricordiamo del lavoro

minacciano? A che scopo vengono

di quella procura per il processo An-

allestiti e mantenuti?

Un enorme arsenale mafioso

Ma non basta. Quell’arsenale

dreotti. La precarietà della democrazia

Nel ’96 siamo entrati, ha detto il

Un esercito vero e proprio Ad apprendere o sentirsi ripro-

magistrato, nel più grande arsenale mai trovato a organizzazione mafio-

Secondo, perché abbiamo qui la

porre queste notizie ci si ritrova a in-

sa. A San Giuseppe Jato. C’erano de-

misura delle dimensioni del nemico,

terrogarsi smarriti una volta di più

cine di lanciamissili e lanciagranate,

altro che quattro straccioni comanda-

sulla precarietà della nostra demo-

batterie di bombe a mano, centinaia

ti dall’alto come ogni tanto si sente

crazia. E sull’allegria (o anche il ro-

di kalashnikov….

ancora dire (ahimé, quando la finire-

manticismo impegnato) con cui af-

mo?). Un esercito abbiamo davanti,

frontiamo questa materia. Ecco, è il

non di meno. E ogni volta che sen-

caso di cambiare registro.

Ecco, fermiamoci qua. Centinaia di kalashnikov. Roba da guerra civi-

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Informazione

Necrologio di corte per il boss di Antonio Roccuzzo

L’unica notizia certa è che ieri è morto uno dei capi della mafia a Catania. Ma i lettori del quotidiano di una grande città italiana – come Catania – l’hanno letta in altro modo. Ieri, quotidiano “La Sicilia”, Catania, fine di luglio 2012, venti anni dopo le stragi del 92 a Palermo, 28 anni e mezzo dopo il delitto del giornalista Giuseppe Fava, nel pieno di una furiosa polemica sulla “presunta” trattativa tra Stato e mafia. La notizia è la morte di Giuseppe Ercolano, ex detenuto in 41 bis. Svolgimento: sulla seconda pagina del fascicolo dedicato alle cronache della città, fa capolino, a quattro colonne, questa cronaca non firmata. Titolo: “E’ morto Giuseppe Ercolano, reggente provinciale del clan”. Occhiello: “Era cognato di Nitto Santapaola e padre dell’ergastolano Aldo Ercolano”. Sommarietto: “ <Battezzato> uomo d’onore nella prima metà degli anni 70, ricoprì sin da allora ruoli apicali nella conduzione della vita della famiglia mafiosa catanese”. Ercolano è un vecchio capo clan, suo figlio sconta il carcere a vita (come il cognato) in 41 bis per l’assassinio di Pippo Fava. La cronaca che segue ha i toni di un omaggio alla memoria, nel linguaggio e nei toni. Esempio: “Ha ricoperto la carica di consigliere della famiglia catanese di Cosa nostra nei primi anni ‘80” e spe-

cifica “partecipando per tale ragione all’adozione delle decisioni di maggiore importanza per la vita del clan”. L’articolo enumera nel dettaglio le attività della famiglia: “la <famiglia> aveva interessi variegati”. Quali? “Soprattutto nel ramo dei trasporti” e – “secondo le accuse”, nota il redattore anonimo de la Sicilia – “con un altro boss storico, gestiva il settore economico di Cosa nostra a Catania e provincia”. L'unico quotidiano in città Questo passa la cronaca dell’unico quotidiano in edicola a Catania, pagina due di uno dei principali giornali del sud. Questa cronaca è una strana via di mezzo tra un necrologio e un coccodrillo Una biografia decontestualizzata (e non autorizzata) di vecchio boss mafioso. Ercolano è morto nel suo letto, avverte il cronista, e per una “grave malattia”. C’è un modo asettico di segnalare la morte di qualunque uomo. Ovviamente anche Ercolano ha diritto a un necrologio, ma non a un “santino”, senza tempo, né passato, presente e futuro. In questa cronaca di ieri su “la Sicilia” i toni usati sono adatti piuttosto alla scomparsa di un benemerito membro di cda o a un capitano d’industria (ma certo, a Catania, imprese ce ne sono poche e non floride, Cosa nostra a parte) o a un

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noto avvocato-principe del foro. Invece quella uscita ieri sul giornale di Catania è una sorta di sradicato “coccodrillo”, la prosecuzione – con altri metodi e obiettivi – di quei necrologi affissi per strada: “ E’ morto Pippo Ercolano, grande esempio per la famiglia”. I paesi e le città meridionali ne sono tappezzati. Così da ora in poi, da ex catanese, mi aspetto che quelle pagine siano sommerse da cronache simili e contrarie. Quando dieci anni fa morì, ad esempio, il notaio Gaetano Libranti, catanese emerito, vecchio borghese, ex consigliere comunale, decano del notariato italiano e sostenitore del giornale di Giuseppe Fava mi aspettavo un articolo simile (almeno nelle dimensioni). Così come l’anno scorso in morte di Titta Scidà, prestigioso magistrato minorile, critico sulle corruzioni a palazzo di giustizia e attento al recupero dei ragazzi delle periferie esposti alla cooptazione mafiosa, mi attendevo due righe e quattro colonne. Ma queste altre cronache sulla morte di galantuomini non sono mai uscite. Così colgo io l’occasione per colmare queste lacune. Da Roma e su altre colonne.

(Fattoquotidiano 1° agosto 2012)


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Periferie

Una Resistenza a Catania di Giovanni Caruso

Il due luglio 2012 è scattato l'enne-

tico che la rendeva un po più sicura,

scelto di stare dalla parte dei diritti

simo sfratto esecutivo da parte della

e un po di speranza a quei ragazzini

de i bambini e degli adolescenti.

proprietà (le Suore Orsoline) per ma-

che volevano “crescere”.

Soprattutto quelli che non vanno

nifesta morosità. Il Comune di Cata-

Anche noi del Gapa che per 25

più a scuola e non lavorano, loro

nia infatti non paga da marzo 2011,

anni abbiamo vissuto a contatto con

sono i più deboli e vengono usati

dopo aver firmato il contratto a set-

questa scuola ne resteremo orfani.

come “va potta” dai pusher.

tembre 2010 (ma nelle casse del Comune non erano rimaste oltre 680

Questi uomini, queste donne coSpacciano per sopravvivere

mila euro, frutto del "rigore e lotta all'evasione" della giunta Stancanelli? Probabilmente si darà il tempo di finire esami e scrutini e l'eventuale trasloco. Per dove? Dove andranno classi e laboratori di via Cordai? Andranno nella succursale di via Case Sante? Ci sarà posto per tutto e tutti? E le attività con ragazzi e famiglie realizzate in via Cordai avranno seguito in via Case Sante, non più San Cristoforo ma zona Cappuccini? Approfondiremo il tutto e vi terremo aggiornati. Era l'unica scuola del quartiere

stretti a questo umiliante inferno noi non li condanniamo ma decidiamo di

Noi del Gapa abbiamo deciso di resistere, e lo facciamo con la nostra

stargli vicino con umiltà, rigore e coerenza con i nostri principi.

presenza: nei vicoli e le piazze giocando insieme ai ragazzini, lo faccia-

La politica alleata delle mafie

mo nelle lotte sociali e per il diritto ad andare a scuola, lo facciamo nelle

Ma sicuramente condanniamo la

attività condotte al "gapannone ros-

cattiva politica alleata delle mafie,

so", che vorremmo che fosse la casa

condanniamo la parte della città che

di tutto il quartiere.

per paura o egoismo non considera i

Lo facciamo con l’antimafia socia-

quartieri popolari e chiediamo alla

le, che è poca cosa contro una nuova

cosidetta società civile di riflettere e

e virulenta “mafia sociale”, che

capire ciò che accade a San Cristofo-

come un veleno si è insediata tra la

ro, ciò che accade al Gapa.

povera gente, negli infelici e dispera-

Dalle nostre assemblee viene fuori

ti che per vivere si trasformano in

una sola idea, che a San Cristoforo ci

venditori di droga.

restiamo e a San Cristoforo resistia-

Questi, per fortuna ancora pochi,

mo.

non dialogano più, preferiscono Così questa via Cordai sarà più

l’aggressività e la violenza verbale e

vuota, così il quartiere di San Cristo-

non solo, anche contro chi come noi

foro non avrà più una scuola media,

ha scelto il dialogo civile, ha scelto

non avrà più quel presidio democra-

la partecipazione democratica, ha

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Il Gapa è un centro di aggregazione sociale che da 25 anni opera nel disagiato quartiere di San Cristoforo a Catania


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Siciliani giovani

A che punto siamo E' un anno da quando è cominciata (o sono trentadue?) questa impresa. Dove siamo arrivati, cosa resta da fare di Riccardo Orioles

Il diavolo, come sapete, fa le pentole ma non i coperchi. La pentola che volevo fare io era di rifare senz'altro il nostro vecchio giornale, il nostro gloriosissimo Siciliani, coi compagni di allora e facendoci dare una mano da qualche ragazzo volenteroso. L'idea era completamente sballata (non si “rifà” mai qualcosa) ma, come vedremo, “u' signuruzzu aiuta i matti e i picciriddi”. Il giro dei vecchi amici Vent'anni dopo - è stato emozionante. “Veramente sto facendo altre cose - ha detto D'Artagnan - Il re, la Fronda, il cardinale... Sapete, amico mio, che ora son capitano dei moschettieri, e spero di diventare maresciallo di Francia”. “Eh - ha sospirato Aramis – sarebbe bello sì. Fossimo come allora!”. “Voi al solito correte troppo – disse gravemente Porthos – Con chi vorreste fare una cosa del genere, con quali mezzi? Farete una cosa stentata, e la cattiva figura ricadrà sulla bandiera”.

Non c'era alcunchè da rispondere, a tali obiezioni sensate. Purtroppo la voce era già circolata (“Tornano i Siciliani!”) e tornare indietro avrebbe significato rischiare il linciaggio. L'idea di Scidà L'idea dei Siciliani, in realtà, era nata in un piccolo studio catanese, quello dove il giudice Scidà, immobilizzato a letto ma tutt'altro che domo, conduceva con pochi amici le sue battaglie (per cui lo aggrediscono ancora, anche ora che è morto). Fra una chiacchiera sulla Procura di Catania e una sul Mediterraneo di Braudel, non ricordo come buttò lì l'idea dei Siciliani: “Ma perché non li rifate?”. Non era il primo a chiederlo. Ma detto da lui era un' altra cosa. Non fu difficile convincermi, su tale argomento. Si riparlò dei Siciliani un paio di mesi dopo, alla mensa di Libera all'assemblea di Firenze. Una gran sala piena di ragazzi:il nostro tavolo - con dalla Chiesa e Caselli, e accanto quello di don Ciotti – era fra i pochi di gente adulta e posata. Beh, forse posata non tanto, visto che l'idea dei Siciliani fu accolta come ovvia e giusta e con entusiasmo. Così, avevamo un gruppo dirigente (con Caselli, dalla Chiesa e Scidà c'era Giovanni Caruso, un “vecchio” del Giornale del Sud e poi del Gapa di Catania), il meglio dell'antimafia. Ma, e il giornale? E il giornale? Il giornale fu messo in piedi con un giro di telefonate ai vecchi amici cronisti (Mazzeo, Giacalone, Mirone, Orsatti, Fi-

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nocchiaro, Baldo, Giustolisi...) che risposero subito e costituirono il “nucleo duro”. Dei veterani vennero pure Gubitosa, Feola, Fabio D'Urso, Jack Daniel, Biani; oltre a quelli che erano già al lavoro nella progettazione del giornale e del sito (Luca Salici e Max Guglielmino), senza cui tutta la baracca non sarebbe sopravvissuta un momento. E siamo partiti. Già dal numero zero, tuttavia, senza che io l'avessi veramente previsto, si unì una decina di giovani giornalisti, fra i venti e i trent'anni, di varie città d'Italia. Essi furono subito il cuore del giornale. In realtà, ciascuno di loro faceva già altri giornali (su carta o in rete) e aveva una sua storia precisissima alle spalle. Così fu naturale, già alle prime battute, vivere quest'avventura come una rete. Non era più un vascello, quel che prendeva il mare, ma una flottiglia di navi, barche e barchette. Non più “I Siciliani” ma un bel “Siciliani Giovani” che univa felicemente il passato e il futuro. Navi, barche e barchette Io sono vanitoso, e ne trassi vanto. Ma la verità è che questa bellissima idea non fu mia, ma mi piombò addosso per “colpa” dei ragazzi, ed io ebbi semplicemente il buon senso di lasciarmi portare. E' vero che questo miscuglio di professionisti e di giovani, di veterani e di apprendisti, era nella nostra storia (Siciliani giovani degli anni '80, Avvenimenti, l'Alba) e mia in particolare. Ma è anche vero che in ciascuno di questi casi l'idea non era mai di noi “vecchi” (e neanche mia) ma nasceva spontaneamente dai ragazzi.


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“Occhiello di giro”

Essere qualcosa più di un giornale, dare fiducia ai giovani, unire “regolari” e garibaldini: questo da molti anni è il Dna dei Siciliani. Noi stessi, in origine, eravamo i “carusi di Fava”.E adesso che ho sessant'anni capisco quanta grandezza c'era, professionale e umana, in questo puntare spavaldamente su noi ragazzi. Gli ebook e il giornale Così si arrivò alle scadenze successive. Ci fu una riunione (con l'avvocata Enza Rando, di Libera) da Scidà, uno Scidà allegrissimo e scintillante. Ed esattamente un anno fa, al festival del Clandestino, fu diramata al mondo la lieta novella. A dicembre è uscito il numero zero, buono ma con una brutta copertina (mia); la seconda, di Luca Salici, era già migliore. Ma l'immagine definitiva, “moderna”, del giornale è stata raggiunta solo al terzo numero, con le copertine di Biani. Da allora il giornale è uscito regolarmente, da marzo sono arrivati i primi ebook (per noi tanto importanti quanto il giornale). Invece siamo rimasti indietro nell'edizione su carta (la società editrice restò impantanata negli innumerevoli impegni, da noi non ben valutati, dei nostri amici) e il primo numero in edicola arriverà solo fra un mese e mezzo, a settembre inoltrato. Abbiamo messo in piedi una prima struttura editoriale (provvisoria, per gestire le urgenze), e durante l'autunno definiremo la struttura definitiva, in cui dovranno essere rappresentati tutti i nodi locali (gruppi, giornali e siti) dei nostri amici.

Sarà una struttura di rete, “federativa”, sia sul piano d'azienda che su quello redazionale. Non avrà, neanche stavolta,dei padroni alle spalle ma conterà sulla solidarietà delle persone civili. E questo, come capite bene, è già un pre-appello. Puri e duri? No, proprio no... Il lavoro che abbiamo fatto l'avete visto; a me non sembra del tutto indegno dell'obiettivo (certo, l'asticella è posta molto in alto). Inchieste a macchia di leopardo (ancora in alcuni luoghi manchiamo), niente urla, nessuna distinzione fra sud e nord, indipendenza assoluta, scrittura buona, organizzazione faticosa ma tutto sommato (per ora) sufficiente. Sì, ma come vanno le cose dietro le quinte? Davvero siete questa banda di puri e duri che vi vantate di essere? No, niente affatto. La rete è un concetto molto difficile da digerire. In ogni momento c'è qualche nodo che sta funzionando e qualcun altro no. E fra quelli che funzionano, la maggior parte di solito pensa molto più ai problemi immediati propri che a quelli più generali della rete. Mica facile, la rete Questo è assolutamente normale, non c'è da rimproverare nessuno, anche se con quel che accade in Italia, e quel che ancora deve accadere, di rete ci sarebbe bisogno più del pane. Difficilmente possiamo aspettarcela da leader e primedonne vecchie e nuove. Nessuno sta puntando sui giovani, in realtà, né su qualche politica differente. E' bipartizan, il precariato.

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La rete, nel suo significato profondo, è una cosa nuovissima e ancora niente affatto “naturale”. Per rete finora s'intende un leader, alcune dichiarazioni “anti” e una folla di seguaci via facebook; e dei canali mediatici magari tecnicamente “alternativi” ma gestiti dall'alto. Non è quel che vogliamo. Vogliamo una rete vera, utile, lenta da costruire, faticosa, concreta. Non un altro centro di potere o una nicchia. Ci si può arrivare (e comprenderla) solo a poco a poco, coi tempi di ciascuno, senza fretta. A poco a poco, coi tempi di ciascuno Vi chiederemo dei soldi, tanto per essere chiari, da qui a poche settimane. Non saranno le centinaia di milioni di Santoro (qui basta molto meno) ma resteranno soldi vostri. Noi non daremo via la baracca, terminati i proclami, a La7 o a qualcun altro. Non siamo i migliori o i più infallibili, certamente. Ma i più liberi sì. L'andiamo dimostrando da trent'anni. *** 'Sta storia dei trent'anni, che camurria. Non per voi, certamente, che siete giovani e pensate ai trent'anni davanti. Quelli vecchi per voi sono solo una bella storia. Per me sono amici, passaggi, persone care col maledetto vizio di non esserci più. Certo: alla fine s'è vinto, ci siamo ancora. Ma è quell'alla fine, l'amaro, pur nella felicità che (essendoci voi) non sia finita. “Trent'anni fa, proprio di 'sti giorni, mi ricordo stavamo laavorando al primo nuumero dei Siciliani. Eh, mica c'erano i computer, a quei teempi. A maacchina da scriivere, s'andava avanti...”. Va bene, nonno Simpson, va bene...


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Giornalismo

Arriva Telejunior! Canale due-settecinque, Telejunior. Che cos'è? Una strana simbiosi di scuola, circo e macchina acchiappamafiosi di Margherita Ingoglia e Michela Mancini “Chi è stato l’ultimo a farsi la doccia?”. “Io Nico”. “Miché c’è un lago, prendi lo straccio và…”- Una grande camerata, una decina di letti sfatti, valigie aperte, giornali per terra, giornali nella vasca da bagno, giornali ovunque. Sono le otto, non fa ancora troppo caldo: un gruppo di ragazzi a Partinico si prepara per una giornata di lavoro. C’è odore di caffè appena fatto, la signora del piano di sopra cala il cesto dal balcone, dentro la caffettiera bollente: “Ragazzi giornalistiiiii vi dispiace se vi preparo la colazione?”.“ – No, Signò. Non ci dispiace…” Alle nove tutti davanti al bar della piazza principale, la piazza del Giorno della Civetta, proprio quella dove un tempo c’era un antico palazzo poi demolito grazie alla collusione tra la mafia e la politica di un tempo. Un altro caffè e si parte per andare a fare i servizi. C’è chi va in redazione, chi compra i giornali, chi si mette in macchina e arriva fino a Trappeto per un’intervista.

Si impara velocemente qui a Partinico, i ragazzi di Telejunior lo sanno. È la fretta di fare che ti toglie la paura, quella paura strana di non essere all’altezza di un mestiere tanto importante. C’è così tanto da fare che il tempo per pensare arriva solo di notte, col fresco. Capita di ritrovarsi prima di andare a dormire su una panchina fuori dalla casa che ci ospita, ci si scambia i pensieri, le motivazioni che ci hanno portato qui. C’è chi è arrivato da Bologna, chi da Roma, qualcun altro da Bergamo, Ancona, Parma, Perugia. Abbiamo preso un aereo e siamo venuti qui a fare “i giornalisti ragazzini”. Ognuno ci crede a modo suo, ma quell’aereo l’abbiamo preso tutti e tanti ancora lo prenderanno. Ogni giorno qualcuno riparte e qualcun altro arriva: è un mosaicodi valigie diverse, una mescolanza di dialetti. Pino parla veloce, un siciliano stretto stretto, la faccia di Claudia – arrivata da Bergamo - è come quella di un francese in Cina. Fabio, siciliano, parte con la traduzione simultanea. “Ma non ci metti la stessa enfasi”: lo rimprovera Pino. “Ma le traduzioni sono così, come il navigatore: svoltare a destra. Ti pare ca ci metta enfasi?” La magia è questa, basta poco e alla fine ci capiamo tutti. A TeleJunior si parla una lingua sola e si ride tanto. Si lavora molto e ci si dimentica di essere diversi. L’idea è un po’ quella di costruire una casa: una casa sempre piena di gente che ci viene a trovare, si alza le maniche e si mette a raccontare insieme a noi. Un giorno il nostro direttore ci disse che un giornale per essere un giornale vero a tutti gli effetti deve avere “l’atmosfera”,

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insomma, deve essere come una persona, con i suoi odori, con le sue mancanze, con i suoi spigoli. TeleJunior non è un giornale, o meglio non solo, è un canale tv che nasce con l’unione di due forze antiche dell’antimafia: TeleJato e i Siciliani Giovani. Dai suoi genitori ha preso in eredità la forza e la totale incapacità a rassegnarsi. Non ce la si può proprio fare: abbiamo troppa voglia di ritagliare un pezzo di mondo colorato in mezzo al grigio che c’è. Una piccola grande rivoluzione Forse è proprio questa l’anima di Telejunior: immaginate un muro bianco e tanti ragazzi con dei secchi di vernice. I colori sono diversi, fra loro con tutta probabilità non c’entrano niente, ma c’è qualcosa nel loro modo di stare insieme su quel muro bianco, che li rende una specie di opera d’arte. Tipo una di quelle opere d’arte contemporanea che se tenti di spiegarle hai perso in partenza. Le capisci solo con la pancia. Quella di TeleJunior è una piccola grande rivoluzione nel panorama giornalistico nazionale. In Italia sembra regni l’idea che “diventare giornalisti” sia un lusso di pochi. Specie di quelli che possono permettersi di pagare una delle scuole di giornalismo convenzionate con l’Ordine. Molti giovani sono già scoraggiati in partenza: vedono davanti a loro anni di precariato – che va ben al di là della consueta gavetta – tinti a dovere con l’avarizia di chi dovrebbe insegnare e crede invece che “darsi” significhi mettere in discussione la propria autorità.


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“Il giornalismo sul territorio che diventa una scuola per i giovani. E' sempre stato il mio sogno. E ora sta succedendo davvero”

È facile demordere e il risultato è uno solo: il Bel Paese si ritrova con pochi giornalisti giovani, tutti formati nelle scuole avallate dall’Ordine, giovani a cui manca solo il codice a barre sulla fronte. Non v’è dubbio che vi saranno delle eccezioni, ma l’intento è evidente: formare automi, tecnicamente super preparati, ma con gli occhi chiusi sulle strade che percorrono. Un giornalista con gli occhi chiusi non vale niente. Una scuola di giornalismo TeleJunior si pone quest’obiettivo: diventare col tempo una scuola di giornalismo, che formi esseri umani capaci di senso critico, che insegni la tecnica ma anche il coraggio di un mestiere a cui il

tempo e gli eventi stanno togliendo l’allegria. Pino Maniaci, direttore di TeleJato, ci crede tanto nei suoi ragazzi: “TeleJunior, il giornalismo sul territorio che diventa una scuola per i giovani, è sempre stato il sogno che volevo vedere realizzarsi prima di andare in pensione. Sta succedendo davvero”. Mancano pochi giorni e i tecnici permetteranno l’accensione del canale 274. Il nostro canale. In un pomeriggio di luglio, quattro ragazze stanno sdraiate sul letto; sono appena tornate dal mare. È domenica, ci si è permessi il lusso di una mattinata in spiaggia. Fuori ci sono 40 gradi. Stanno preparando le domande da fare a Domenico Gozzo, il procuratore aggiunto di Caltanissetta. Si parla di antimafia e crema solare, di trattativa e fi-

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danzati lontani. “Ragazze presto, tra cinque minuti tutte pronte, bisogna essere in redazione”. Fatidica telefonata che arriva puntuale nei momenti di relax. “Ma io c'ho paura, e se sbaglio?” Si entra in bagno in due alla volta, e mentre una si lava i denti e un’altra cerca le scarpe sotto al letto, si tenta di fare un riepilogo delle domande per l’intervista. “Ma io c’ho paura, e se mi sbaglio a fare la domanda?” fa Francesca, emozionata già due ore prima dell’incontro col magistrato. “Francè respira, respira profondo che sei brava”. Respiriamo profondo e cerchiamo di essere bravi.


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accadrà ieri

Uno studente DISCRIMINATO

Il 5 luglio il Tar del Lazio annulla la bocciatura di uno studente di scuola superiore affetto da una grave disabilità. La famiglia aveva fatto ricorso sulla base dell’immotivata riduzione delle ore di sostegno, passate da 12 a 4 negli ultimi due anni.

Il racket DEL CIMITERO

Il 9 luglio la Squadra mobile di Napoli notifica 45 ordinanze cautelari ad altrettante persone tra dipendenti cimiteriali, medici legali, titolari di imprese funebri. L’accusa è di aver messo in piedi un’associazione a delinquere allo scopo di spingere i parenti dei defunti ad avvalersi dei loro servizi. Negli anni passati inchieste analoghe avevano interessato altri comuni del napoletano.

Killer mafiosi NEI DINTORNI DI ROMA

Il 24 viene assassinato a Nettuno, sul litorale laziale, Modesto Pellino, un pregiudicato appartenente al clan camorristico dei Moccia. L’assassino lo ha ucciso con sette colpi sparati in pie-

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no giorno sotto gli occhi di diversi testimoni. Prima del suo arresto avvenuto nel 2010, Pellino era stato inserito tra i cento ricercati più pericolosi a livello nazionale. Solo qualche giorno fa un altro episodio aveva mostrato il peso delle infiltrazioni criminali sul litorale romano: un ordigno, piazzato a scopo intimidatorio in uno stabilimento balneare di Ostia, era stato fatto ritrovare grazie a una telefonata anonima.

Brindisi

REWIND a cura di Francesco Feola

Taranto, una delle più grandi acciaierie italiane, disposto dal gip Patrizia Todisco Il reato contestato è di disastro ambientale colposo e doloso, e tra gli indagati figurano gli ex presidenti dell'Ilva Emilio e Nicola Riva e l'ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. La decisione arriva dopo anni di denunce e di battaglie, ma ha visto 5.000 operai scendere in piazza contro il provvedimento che mette a rischio i loro posti di lavoro.

BENE COMUNE

Il 25 il movimento “Brindisi bene Comune” consegna al sindaco Mimmo Consales la richiesta, firmata da oltre

Divieto di sosta (VIGILI COMPRESI)

10.000 firme di cittadini, di avviare un’indagine epidemiologica sulla salute dei brindisini. Uno studio recente ha messo infatti in evidenza come siano aumentate nei neonati le malformazioni congenite e le anomalie cardiache: le prime superano del 18 per cento la media europea, le seconde del 67 per cento.

Qui a Taranto O LAVORI O CAMPI

Il giorno dopo diventa esecutivo il sequestro di alcuni impianti dell’Ilva di

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Il 27 il comandante dei vigili urbani di Milano, Tullio Mastrangelo, annuncia che punirà i vigili urbani che due giorni prima hanno parcheggiato la propria Punto in un posto riservato ai disabili e se ne sono andati. “L’errore di pochi non deve riflettersi sulla reputazione di più di 3 mila donne e uomini che ogni giorno lavorano al servizio della sicurezza e della legalità a Milano”, ha detto il capo dei ghisa.


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FORWARD

. . . . accadde domani

Acqua

IN PALESTINA Dal 1 luglio al 15 settembre è possibile partecipare alla sfida "Vivi per 24 ore con 24 litri di acqua" lanciata dal gruppo Ewash in solidarietà con gli abitanti dei Territori Palestinesi Occupati. Durante l’estate, la compagnia idrica nazionale Mekorot riduce infatti la fornitura d’acqua in molte zone della Cisgiordania, in modo tale che la quantità d’acqua procapite è inferiore a 24 litri al giorno. La campagna si propone di sensibilizzare le persone su questo tema, e di fare pressione sul governo israeliano affinché rispetti i diritti delle popolazioni che vivono sotto l’occupazione. Per partecipare basta registrarsi su info@thirstingforjustice.org e quindi raccontare la propria esperienza con un articolo, un video o una foto che saranno pubblicati su palsummerchallenge.org. www.forumpalestina.org/news/2012/Lu glio12/04-07-12Vivi24OreAcqua.htm

Coi braccianti

DELLE CAMPAGNE FOGGIANE Dal 29 luglio al 9 settembre sarà possibile partecipare ad un campo di lavoro al fianco dei braccianti stagionali della provincia di Foggia che vivono in

ghetti sorti in mezzo alle campagne. L’iniziativa, organizzata dai missionari Scalabriniani in collaborazione con associazioni e ong, tra cui Emergency, ha lo scopo di far incontrare italiani e migranti e al tempo stesso di far conoscere ai migranti la rete di associazioni in loro supporto. Ai volontari, che devono avere almeno 20 anni, è richiesto un contributo settimanale di 70 euro. http://www.iocisto.eu/

Ferma la febbre DEL TUO PIANETA

Dal 10 al 19 agosto a Rispescia, in provincia di Grosseto, si terrà Festambiente, il festival di Legambiente dedicato alla tutela dell’ambiente e della salute. Uno spazio particolare sarà destinato ai bambini, che attraverso giochi e laboratori entreranno in contatto con i

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temi dell’educazione ambientale. Quest’anno il filo conduttore è il cambiamento climatico, che è al centro della campagna di Legambiente Stop the fever.org. http://www.festambiente.it

Un campeggio DI RESISTENZA

Dal 2 al 5 agosto a Valloriate, in valle Stura (Cuneo) si terrà la quinta edizione del Campeggio Resistente, organizzata dal presidio “Daniele Polimeni” di Libera e dall’associazione culturale Liberavoce in collaborazione con l’Anpi provinciale e con altre associazioni. Il trentennale della pubblicazione del libro di Nuto Revelli “Il mondo dei vinti” sarà l’occcasione per parlare degli sfruttati di oggi: spettacoli, laboratori, seminari saranno infatti dedicati ai temi dell’immigrazione, del lavoro nero, delle ecomafie. La partecipazione agli incontri e ai concerti è gratuita. La quota per il campeggio invece è di 50 euro. www.campeggioresistente.org


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Vent'anni dopo

Giudice a Palermo Ancora un mestiere per eroi Vent'anni dopo le stragi, gli allievi di Falcone e Borsellino – Scarpinato, Ingroia... – sono sempre nel mirino. Trasferimenti, conflitti, provvedimenti disciplinari. E, ovviamente, i mafiosi di Aaron Pettinari

www.Antimafia Duemila

E' un'amara realtà quella che si scopre a vent'anni dalle stragi del '92. Non sono bastati gli anni di “memoria ballerina” e silenzio omertoso sviluppati da una grossa parte delle istituzioni. Intimoriti forse dal raggiungimento della verità, pezzi dello Stato - così come era accaduto con Falcone e Borsellino - tornano a mettere alla berlina i propri giudici che cercano la verità sugli attentati. In meno di due settimane, in particolare, contro il sostituto procuratore di Palermo, Antonio Ingroia, ed il procuratore generale della Corte d'Appello di Caltanissetta, Roberto Scarpinato (ma anche nei confronti della Procura di Palermo), si è messa in moto un'accanita campagna di delegittimazione, portata avanti da membri bipartisan della politica, coadiuvati da vari intellettuali. Con l'anniversario di via d'Amelio lo scontro si è fatto ancor più aspro.

Il primo a scendere in campo è stato il Capo dello Stato, in seguito alla notizia della mancata distruzione di alcune intercettazioni che lo avrebbero registrato a colloquio con l'ex ministro degli interni Nicola Mancino (finito nelle indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia e accusato di falsa testimonianza. L'azione promossa dal Presidente Napoitano - conflitto d’attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura di Palermo - non sembra aver preecedenti. Un attacco frontale contro quei magistrati che, con perizia e meticoloità, sono riusciti a chiudere una parte delle indagini sulla trattativa Stato-mafia, chiedendo il rinvio a giudizio di dodici fra mafiosi, membri delle forze dell'ordin, politici ed ex ministri. Fanno così paura quelle intercettazioni tra Nicola Mancino ed i Capo dello Stato? Non sarebbe stato meglio da parte del Presidente renderle pubbliche per fugare ogni dubbio sugli “intenti di verità su quella stagione di stragi”? Egli ha ritenuto più opportuno chiedere l'immediata distruzione dei nastri, alla vigilia del ventennale della strage in cui persero la vita Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. Rita Borsellino ha detto di essersi sentita schiaffeggiata, sdegnato sì'è detto Salvatore Brosellino. Come le tante persone che si sono recate in via d'Amelio per la tre giorni delle “Agende Rosse”. Attacchi continui, alcuni anche ridondanti: come quelli puntualmente espressi dal senatore Marcello Dell'Utri all'uscita dal processo d'Appello che lo vede imputato per concorso esterno. Per lui Ingroia è senz'altro“un pazzo”. E forse - ha amaramente songroia - un po' è vero. “Un po' pazzo, come Borsellino, pazzo di verità perché credo nella possibilità che si possa ottenere e raggiungere nonostante tutto la verità sui grandi misteri del nostro

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Paese. Sono pazzo perché credo in un'Italia che abbia il coraggio della verità, conquistata a qualsiasi prezzo e senza paura” ha detto il giudice alla conferenza organizzata a Palermo il 18 luglio da AntimafiaDuemila. “Trattative e depistaggi/ Quale Stato vuole la verità sulle stragi?” era il tema della conferenza. Ancora non si sapeva l'intenzione di Ingroia di accettare la proposta dell'Onu per un incarico in Guatemala come “capo dell'Unità di investigazioni e analisi criminale”. “Sono diventato un bersaglio” Ma non è certo per le parole di Dell'Utri che Ingroia ha scelto di dire sì all'incarico Onu. Una notizia drammatica non tanto per il trasferimento quanto per la motivazione che lo stesso magistrato ne ha dato. “Sono diventato un bersaglio - ha detto - e penso che possa essere utile, per un magistrato sovraesposto come me, un periodo di decantazione. Ormai se la prendono con Ingroia per fermare le indagini. Credo che la mia lontananza farà bene ai colleghi che stanno lavorando. Se le cose cambieranno, se la politica avrà voglia di rischiarire il buio, potrei avere voglia di tornare dal Guatemala”. Non un addio, dunque, ma un arrivederci. Alla conferenza a Giurisprudenza del 18 luglio aveva detto pubblicamente: “Qualche anno fa dissi che eravamo all'anticamera della stanza della verità, ora ci siamo dentro. Sia la Procura di Palermo che quella di Caltanissetta. Ma ora che siamo entrati anziché trovare una stanza illuminata siamo di fronte ad una stanza buia in cui qualcuno ha sbarrato le finestre, e dove le luci artificiali non funzionano. Noi ci troviamo lì con le candele. Certo è che vent'anni sono tanti e troppi perché si accerti la verità su un fatto del genere”.


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“Una commissione d'inchiesta su stragi e trattativa”

SERVIZIO FOTOGRAFICO DI DANIELE PALLOTTA

“Ed è anche per questo – aveva aggiunto Ingroia - che trovo scandaloso che in questi vent'anni non una sola commissione d’inchiesta sia stata aperta sugli anni delle stragi del ’92 e ’93 e sulla trattativa, in un Paese come il nostro in cui sono state fatte commissioni d’inchiesta su qualsiasi cosa. Questo è scandaloso: lo dico da cittadino e da magistrato. E' solo una parziale riparazione il fatto che la commissione Pisanu abbia messo al centro dell’attenzione la trattativa, e lo ha fatto al traino della magistratura di Palermo e Caltanissetta che ha aperto queste indagini. Va bene lo stesso, anche se le nostre spalle cominciano a diventare sempre più curve. Ma la responsabilità tocca anche ad altri. Per questo chiediamo che la politica faccia dei passi avanti seri e concreti nell’accertamento delle responsabilità politiche. Sarebbe ora che lo facesse, non tocca a noi farlo”. “Caro Paolo, stringe il cuore...”

su richiesta del laico del Pdl Nicolò Zanon, la prima commissione del Csm, competente sui trasferimenti d'ufficio per incompatibilità dei magistrati, valuterà formalmente i contenuti della lettera. Se dovesse prendere dei provvedimenti Scarpinato rischierebbe non solo il trasferimento da Caltanissetta, ma anche l'estromissione dalla possibile nomina a procuratore generale di Palermo, dov'è in corsa con l'attuale procuratore capo Francesco Messineo. Scarpinato sotto tiro In difesa di Scarpinato si è immediatamente schierata l'intera famiglia Borsellino a cominciare dalla vedova Agnese Piraino Leto che ha detto con forza: “Condivido ogni parola della lettera emozionante con la quale Roberto Scarpinato si e' rivolto a Paolo. Non avrei mai immaginato che alcuni stralci di quella lettera inducessero un membro laico del Csm a chiedere l'apertura di un procedimento a carico del

Un concetto, quest'ultimo, ribadito anche nei giorni successivi. Ma l'attacco alla magistratura si è fatto ancor più aspro nei giorni successivi. E' proprio in via d'Amelio, il 19 luglio, che il pg Roberto Scarpinato è salito sul palco per leggere una lettera indirizzata a Paolo Borsellino. “Caro Paolo - diceva la lettera - stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite per usare le tue parole - emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà”. Passano pochi giorni e si apprende che,

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procuratore generale di Caltanissetta e fossero ritenute così gravi da giustificarne la richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale''. ''Se vi è oggi un magistrato compatibile con le funzioni attualmente svolte - ha aggiunto - è il dottor Scarpinato. Io non dimenticherò mai che è stato uno degli otto sostituti procuratori della direzione distrettuale antimafia di Palermo che all'indomani della morte del loro procuratore aggiunto Paolo Borsellino rassegnò le dimissioni, poi fortunatamente rientrate, dopo avere avuto il coraggio e la forza di denunciare le spaccature di quella Procura che avevano di fatto isolato ed esposto più di quanto già non lo fosse mio marito''. Anche Rita e Salvatore Borsellino hanno condannato la decisione del Csm “grave perché prende a pretesto proprio quella lettera a Paolo che, letta in via d'Amelio il 19 luglio pochi minuti prima dell'ora della strage, ha riempito di emozione i cuori delle migliaia di persone giunte da ogni parte d'Italia a Palermo per onorare la memoria del magistrato Paolo Borsellino e dei cinque poliziotti che hanno perso la vita al suo fianco”. Alle loro si sono poi aggiunte dichiarazioni di sostegno da parte dell'Anm nazionale, di Palermo e di Caltanissetta. Ma come si devono leggere questi ripetuti attacchi nei confronti della magistratura? Colpi di coda di chi teme la verità? Certo è che gran parte del potere non vuole che sia fatta luce sulle stragi ed è pronta a difendersi con ogni mezzo. Di questo ha parlato Scarpinato alla conferenza palermitana di Antimafia Duemila. “In tutti questi anni – ha detto - c’è un dubbio che non ha mai smesso di tormentarmi e che si riaccende ogni volta che penso alla disperata rassegnazione di Paolo Borsellino”


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“Perché lui si convinse – s'è chiesto il pg nisseno - he nessuno poteva fermare la mano dei suoi carnefici? Perché si sentì tradito al punto di avere una crisi di pianto? Perché lo Stato questa volta non poteva, o peggio non voleva, proteggerlo? Perché disse a sua moglie: mi ucciderà la mafia ma saranno altri a volermi uccidere? Chi erano questi che lo volevano morto? Troppi interrogativi, che a mio parere non trovano ancora risposte plausibili. Troppe anomalie e fatti inquietanti, che non si spiegano nemmeno con la cosiddetta trattativa. E il nodo della riflessione non può che essere lo Stato. Qual era la realtà del potere che si celava dietro lo Stato negli anni dello stragismo? C’era

un solo Stato oppure lo Stato aveva più volti? E ancora: la questione stragista del ‘92 e ‘93 è solo una drammatica vicenda criminale o è anche una questione di Stato? E in che senso? Solo nel senso di cui si discute in questi giorni? Oppure c’è una realtà più drammatica e sommersa? Forse anche qui gli esecutori mafiosi poterono contare su suggerimenti e apporto logistico che appartenevano a strutture deviate dello Stato. Se facciamo un elenco di tutte le anomalie che hanno caratterizzato le stragi e le fasi successive sembra di trovarsi dinanzi alla replica di un know how sperimentato durante stragismo della prima Repubblica”. “Che fine hanno fatto questi potenti?” Dopo averle elencate Scarpinato ha domandato: “Che fine hanno fatto questi potenti? Io credo che purtroppo siano tra noi, che seguono l’evoluzione delle indagini, cercano di depistarci, si muovono nell’ombra e sono così forti e potenti che tante persone che conoscono i segreti che si nascondono dietro le stragi non parlano, tengono la bocca chiusa perché sanno di trovarsi di fronte a un potere così forte che non c’è Stato che ti possa proteggere”.

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“E tuttavia io credo – ha concluso il magistrato - che da un po’ di tempo questi potenti comincino ad avere paura pure loro. Credo che le loro certezze si stiano incrinando, che si stiano arrampicando sugli specchi, hanno notti angosciose e insonni perché hanno capito che prima o poi riusciremo a trascinarli sul banco degli imputati”. Ma, come ha detto Ingroia, questo compito non può essere lasciato solo alla magistratura. Se da una parte giudici e pm hanno il compito di provare i fatti, dall'altra c'è un estremo bisogno che l'intera società civile si sollevi per sostenere con forza il lavoro dei magistrati.


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Non si può aspettare che tornino a esplodere le bombe per prendere realmente sul serio le loro parole. E' questo che Salvatore Borsellino, ormai da anni, grida a squarciagola in ogni angolo d'Italia. Le manifestazioni del 19 luglio sono ormai diventate uno strumento con cui la società civile più sana fa sentire forte la propria indignazione ed il proprio desiderio di verità. Un concetto che lo stesso Borsellino ha ribadito nel discorso di chiusura della conferenza alla vigilia del 19 luglio: “Quest’anno non sono qui per Paolo,

ma perché ci sono dei giudici vivi da proteggere. Sono qui per questi magistrati che hanno preso in mano la sua bandiera in mano e che lottano per la verità e la giustizia e che per questo si trovano sotto attacco e vengono delegittimati”. “Dei giudici vivi da proteggere” “Noi – ha detto - questi magistrati li vogliamo vivi, non li vogliamo piangere. Vogliamo dei magistrati che indaghino e che trovino la verità. Non permetteremo a nessuno di porsi

come ostacolo alla ricerca di questa, ci metteremo di traverso, fosse anche il presidente della Repubblica”. Una promessa ed un impegno per tutti. Perché a vent'anni da Capaci e via d'Amelio non c'è spazio per la sola memoria. E' questa l'eredità che ci hanno lasciato Falcone, Borsellino e tutte le vittime di mafia. Solo così il “puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e della complicità” andrà via lasciando il posto “al fresco profumo di libertà”.

L'ARRESTO DI SARO CATTAFI

IL “CAPO DEI CAPI” DEI CLAN MESSINESI

“Molto spesso le cose erano lì ma non sono state viste”. Facciamo nostre queste significative parole del Procuratore Lo Forte, dette nella conferenza stampa per descrivere l’operazione Gotha III, che ha visto 15 arresti della mafia barcellonese fra i quali spicca quella dell’avvocato Rosario Pio Cattafi, ritenuto da molti pentiti “il capo dei capi”. La nostra associazione, insieme ad altre associazioni, da anni le cose le vede e le denuncia. E' dunque, motivo di grande soddisfazione prendere atto della brillante operazione condotta ieri dagli organi inquirenti e dalle forze dell’ordine di Messina.

Ora, dopo il lavoro della associazioni antimafia e delle istituzioni sane, tocca ai cittadini di Barcellona, di Milazzo e di tutta la provincia di Messina, prendere atto che la cappa mafiosa, massonica, politica che li ha compressi fino ad ora , lentamente ma inesorabilmente si sta sgretolando. Tocca a loro dare il colpo finale appropriandosi della loro dignità di cittadini e non di sudditi come lo sono stati fino ad oggi. La sinergia fra singoli cittadini, associazionismo e istituzioni sane è l’unica chiave di volta per sconfiggere il malaffare e dare ai nostri territori democrazia e sviluppo. Associazione Antimafie “Rita Atria”

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Memoria/ Due agosto

Stazione di Bologna Trentadue anni nascita”. Non è un caso che nel periodo della strage di Bologna, tutti i vertici dei servizi fossero iscritti alla P2”.

“E' nel cuore torbido delle istituzioni che vanno ricercati i mandanti” di Salvo Ognibene e Beniamino Piscopo www.diecieventicinque.it

Stazione di Bologna, 2 agosto 1980, ore 10:25. Nella sala d'aspetto di 2ª classe della stazione di Bologna esplode un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata. Un boato, 85 morti, 200 feriti e le lancette di quell’orologio che si fermano. Per la strage politica di Bologna esiste una verità giudiziaria. Condannati come autori materiali della strage i terroristi di destra Giuseppe Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, che ad ogni modo continuano a dichiararsi innocenti. Sui mandanti invece non ci sono certezze. “È nel cuore torbido delle istituzioni che vanno ricercati i mandanti” dice il manifesto dell’associazione dei parenti delle vittime della strage per quest'ennesimo anniversario senza verità. DIECIeVENTICINQUE a Bologna vuol dire qualcosa. È un simbolo, un orologio interrotto con quelle lancette ferme che stiamo provando a rimettere in moto. Quell’orologio è il simbolo di una storia, che ci unisce e che da nord a sud ci rende uguali. Bologna come Palermo. Palermo come Bologna.

INTERVISTA A PAOLO BOLOGNESI Presidente dell’associazione delle vittime della strage di Bologna

- La domanda che tutti si sono fatti ripensando al 2 Agosto è “perché?”. Tutti gli atti, anche i più brutali, hanno uno scopo o una logica seppur orribile. Qual è il senso di quella bomba? “Creare una situazione di tensione, affinché l’opinione pubblica fosse orientata verso un blocco moderato. Noi abbiamo avuto un periodo piuttosto lungo in cui il regolare corso democratico del nostro paese è stato condizionato da stragi e terrorismo. Prima c’è stata la strategia della guerra rivoluzionaria promossa dall’istituto Pollio, quella che considerava qualsiasi metodo, anche il più riprovevole, lecito e giusto purché il partito comunista non andasse al governo. Poi c’è stata la strategia della loggia P2 che prevedeva lo svuotamento dall’interno delle istituzioni attraverso il controllo di quest’ultime: il cosiddetto "piano di ri-

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- Chi è stato? “Facciamo un discordo molto chiaro. In Italia ci sono state tredici stragi, escluse quelle di mafia. In tutte non si è arrivati ai mandanti, in tutte abbiamo avuto i servizi segreti che hanno cercato di depistare, proteggendo gli esecutori materiali. In alcuni casi si è arrivati a trovare gli autori materiali attraverso i collaboratori di giustizia. Una sola volta per via giudiziaria: nel caso della strage di Bologna. Ora, i vertici dei servizi sono nominati dalla presidenza del consiglio, quindi è lì che bisogna cercare i mandanti, quelli che hanno la responsabilità politica delle stragi. Una prova che non si sta parlando di fantapolitica ne è la trattativa tra Stato e mafia nei primi anni novanta, che oggi è ormai un fatto indiscutibile”. - Da allora la fiducia nello Stato nel corso degli anni è diminuita o aumentata? “Per quanto riguarda noi, senza fiducia nelle istituzioni non avremmo nemmeno un senso da dare a quest’associazione. Con la nostra presenza e la nostra ricerca noi vogliamo dare una mano alle istituzioni. Un conto è lo Stato, fare valutazioni su chi ne ricopre le cariche è un altro”. - Qualcuno dice cinicamente che lo Stato non può condannare se stesso. Lei è d’accordo con questa affermazione? “Questa è un’affermazione generica che semplifica troppo le cose. Io credo nelle istituzioni, la valutazione su chi ricopre le cariche è un altro conto”.


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- Qual è la soddisfazione più grande che le ha dato il suo impegno nell’associazione? “Vedere che l’associazione è diventata un punto di riferimento a livello internazionale, anche per studiosi esterni. A volte capita che le ambasciate che hanno visto i propri concittadini coinvolti in incidenti qui in Italia, chiamino prima noi e poi il ministero degli interni”.

- Crede che un periodo difficile, pieno di tensioni sociali come questo, possa ricreare le condizioni che portarono alle stragi? Oggi sarebbe possibile un nuovo 2 Agosto? “È un momento che può portare a rivivere situazioni molto tragiche. Ovviamente il quadro è molto diverso da allora, tuttavia oggi c’è un movimento tra i partiti e un rimescolamento che può scombussolare le carte, creare dei vuoti di potere a cui bisogna stare molto attenti. Inoltre oggi con la rete è molto più semplice organizzarsi”.

“Giovani sempre più consapevoli”

“Avere giustizia” - Qual è lo scopo dell’associazione? “Avere giustizia, che per noi significa sapere la verità. Conoscere gli esecutori materiali è importante ma il cerchio si chiuderà quando e se si arriverà ai mandanti. O arrivi a svelare e punire determinate azioni in via giudiziaria, oppure sei condannato a riviverle costantemente, senza arrivare alla parola fine su questa strategia che ha frenato lo sviluppo democratico del nostro paese”. - Dopo dieci anni è arrivata la sentenza definitiva della cassazione sui fatti della Diaz, che ha decapitato i vertici della polizia. È un segnale positivo? Può fare da caso apripista per avere in Italia una giustizia vera e terza?

“Il cerchio si chiuderà solo quando si arriverà ai mandanti”

“Certo, secondo me si. È solo un fatto positivo che ci sia stato un riconoscimento delle responsabilità di alti vertici delle istituzioni. Anche qui però mancano i politici”. - Crede sul serio che potrà mai venire a galla la verità sulle stragi? “Abolire il segreto di Stato” “Perché no? Noi ci proviamo. Ci impegneremo affinché si rendano pubblici i documenti dei tribunali e continueremo a portare avanti la nostra battaglia per l’abolizione del segreto di Stato. Sono sfide proibitive ma se non ci provi non potrai mai vincerle”.

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- Questo giornale si chiama Diecieventicinque perché crediamo che il modo migliore per evitare che simili fatti si ripetano sia conservarne la memoria. Lei vede questa consapevolezza nelle nuove generazioni? – “Sì, la vedo. Facciamo molta attività nelle scuole ed è bello vedere i ragazzi reagire con partecipazione alle nostre iniziative. Penso anche alle commemorazioni che ogni anno celebriamo il 2 Agosto qui a Bologna in ricordo della strage. Ogni anno di giovani ne vedo sempre di più e sempre più consapevoli. Lo considero un segnale importante: vuol dire voler esserci”.


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Nordest

A Verona una fusione con scasso Viaggio nella città guidata da Flavio Tosi, il sindaco-sceriffo che usa come un bancomat le società controllate dal Comune. Ora i nodi iniziano a giungere al pettine e sulle società piovono sanzioni di Paolo Fior Forse passerà alla storia come la “Verona da bere”, visto il cocktail di spregiudicatezza, denaro e consensi che caratterizza il sistema di governo del leghista Flavio Tosi, primo cittadino dal 2007. Ma non durerà ancora a lungo perché – complice una crisi economica che si aggrava sempre più – i nodi iniziano a giungere al pettine. Intendiamoci, Verona è una città ricca e da sempre di soldi ne circolano parecchi grazie alla presenza di un polo finanziario di importanza nazionale (la Fondazione Cariverona, tra gli azionisti di controllo di Unicredit, il Banco Popolare, che è uno dei maggiori gruppi italiani, e la Cattolica assicurazioni), per non parlare dell'industria, del turismo e del commercio.

Una città ricca che però negli ultimi anni ha iniziato a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Mentre in tutta Italia, città grandi e piccole si trovano a fare i conti con i tagli dei trasferimenti statali che, secondo il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino, sono diminuiti del 20% nel solo biennio 2010-2011, a Verona si è continuato a investire e spendere come se nulla fosse. Il “miracolo” veronese Un “miracolo” che, ridotto alla sua essenza, è presto spiegato: l'amministrazione anziché fare scelte impopolari tipo imporre nuovi balzelli o accodarsi alla moda imperante delle privatizzazioni ha deciso di mettere le mani in tasca alle società per azioni a controllo comunale, utilizzandole come dei bancomat da cui prelevare utili e riserve per finanziarie servizi, opere pubbliche e per mantenere le dispendiose promesse della campagna elettorale. In questo modo il sindaco e la sua giunta hanno potuto evitare di stringere troppo la cinghia e al contempo – in un'epoca in cui il capitale pubblico viene spesso svenduto ai privati – hanno anche potuto accreditare come innovativa l'idea di mantenere il controllo del 100% delle ex municipalizzate per utilizzare i loro utili come “dividendo sociale”. Un'idea che in realtà non è né innovativa né raffinata, quanto piuttosto pericolosa se portata alle estreme conseguenze visto che costi e debiti della politica ven-

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gono scaricati su società che forniscono servizi essenziali alla città (energia, illuminazione, raccolta rifiuti etc.). Società che, nel caso di Verona, si identificano a tal punto negli indirizzi politici dettati dal sindaco da rivendicare - come se fosse la cosa più normale del mondo per delle società per azioni - che la loro “filosofia economico-finanziaria” prevede di girare gli utili al Comune perché a sua volta li reinvesta in opere di pubblica utilità. Del resto identificarsi con il sindaco è facile visto che i consigli di amministrazione sono espressione diretta del Comune di Verona e ai vertici delle società sono stati nominati dei fedelissimi di Tosi, come ad esempio il ragioner Paolo Paternoster che è presidente di Agsm Verona, il gruppo veronese dell'energia, ed è anche segretario provinciale della Lega Nord. Le indagini su Agsm Consigli d'amministrazione legati a doppio o triplo filo all'azionista di controllo non favoriscono una buona e corretta gestione delle società e Verona non fa eccezione. Agsm, per restare alla principale delle società controllate al 100% dal Comune, si trova attualmente sottoposta a due pesanti procedure sanzionatorie (una dell'Antitrust e l'altra dell'Autorità per l'Energia), mentre a Riparbella, in provincia di Pisa, la magistratura sta indagando sugli abusi commessi nella realizzazione di un mega parco eolico.


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Già, l'eolico. Alle speculazioni sull'Appennino tosco-emiliano partecipa in grande stile anche Agsm Verona, che ha già in funzione un impianto a Casoni di Romagna, mentre è stata respinta con perdite al Monte dei Cucchi e, più di recente, sul versante toscano, a La Faggeta. Il business è quello dei certificati verdi che rendono conveniente costruire impianti anche dove di vento ce n'è poco. Questo sistema che ha arricchito speculatori, mafie e intrallazzoni vari sta per volgere al termine, ma prima che i rubinetti vengano chiusi Agsm si è precipitata a rilevare due piccole società in difficoltà finanziarie ma con impianti già autorizzati. Obiettivo: realizzare i due parchi eolici entro la fine dell'anno in modo da beneficiare ancora del vecchio, generosissimo, sistema dei certificati verdi. L'azzardo eolico Più che un investimento, un azzardo: sul piatto sono stati messi oltre 50 milioni di euro (29 milioni a Riparbella e 23,5 a Monte Carpinaccio nel Comune di Fiorenzuola) ed è iniziata la corsa contro il tempo. Un errore, un ritardo, un intoppo qualunque potrebbe avere conseguenze gravissime perché se gli impianti non saranno pronti in tempo, l'investimento non ha alcuna possibilità di ripagarsi e rappresenterebbe anzi una perdita grave per il gruppo veronese che, come vedremo, è piuttosto piccolo e già molto indebitato. E' forse per colpa della fretta che a Riparbella Agsm ha costruito la sottostazione elettrica dell'impianto (un'edificio

grande più o meno quanto un campo di calcio) in un luogo diverso da quello autorizzato. La magistratura sta indagando e si spera faccia chiarezza anche sul misterioso silenzio del Comune che, nonostante le denunce dei cittadini, nulla ha fatto di fronte a questo abuso. La proroga agli speculatori Intanto il governo ha concesso una proroga agli speculatori eolici e così Agsm può tirare il fiato avendo qualche mese in più a disposizione per i lavori, ma occorre rilevare come il gruppo veronese (quello stesso che per “filosofia economico-finanziaria” gira gli utili al Comune affinché li reinvesta in opere di pubblica utilità) si sia lanciato con spregiudicatezza e pressoché senza rete in questa speculazione, contro la quale si battono i cittadini di Riparbella. E a questo punto sarà anche interessante capire se quell'impianto eolico, così come gli altri in costruzione o già costruiti, è legittimo visto che per legge chi svolge un'attività in regime di monopolio (nel caso di Agsm, l'illuminazione pubblica a Verona), non può operare fuori dal proprio territorio a meno di aver effettuato una separazione societaria tra l'attività in monopolio e il resto del gruppo. Agsm questa separazione non solo non l'aveva fatta (e per questo era stata sanzionata una prima volta nel 2009), ma ha continuato a operare come nulla fosse e per questo a fine giugno, sempre su denuncia dei comitati locali contro l'eolico

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“Al Comune, silenzio sull'abuso”

industriale, l'Antitrust ha avviato un nuovo, più pesante procedimento nei confronti del gruppo veronese che potrebbe avere conseguenze rilevanti sia in termini di richieste danni da parte di società concorrenti sia per le azioni che potrebbero ora intraprendere gli stessi Comitati. Da un'ispezione della Guardia di Finanza effettuata nel maggio 2011 per conto dell'Autorità per l'Energia sono emerse gravissime violazioni degli obblighi di separazione funzionale e contabile tra le società del gruppo. Fiamme gialle In particolare a noi qui interessano i rilievi contabili, quelli da cui emerge l'altra faccia della “filosofia economico-finanziaria” di Agsm. L'Autorità per l'Energia rileva che le società del gruppo si finanziano vicendevolmente a condizioni non di mercato e senza contratti scritti che motivino e regolino il finanziamento, stabilendone ad esempio condizioni economiche, durata ed eventuali piani di rientro. Il procedimento sanzionatorio si chiuderà tra breve e, a prescindere dagli esiti, ha aperto una finestra sulla gestione economico-finanziaria di questo gruppo, sull'assenza di controlli interni ed esterni (la società di revisione, Pricewaterhousecoopers, che ha certificato i bilanci non ha scritto una riga in merito ai finanziamenti infragruppo e neanche sulle contestazioni dell'Autorità per l'Energia) che fa presumere una grande confusione contabile.


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“L'operazione annunciata cambia a sorpresa”

Si tratta di un gruppo tutto sommato piccolo e già molto indebitato. In effetti Agsm Verona spa ha conseguito ricavi per poco più di 155 milioni di euro e ha debiti finanziari per circa 290 milioni di euro (quasi due volte il fatturato), di cui quasi il 10% - 28,6 milioni – nei confronti delle società controllate, quelli per intenderci su cui ha acceso un riflettore l'Autorità per l'Energia. L'indebitamento e la spesa per interessi sono cresciuti molto nell'ultimo anno e tendenzialmente cresceranno ancora visto che nel 2012 la società veronese ha annunciato un piano di investimenti faraonico (82 milioni di euro nel solo 2012, 260 milioni da qui al 2016), mentre tutti gli anni il Comune incamera sotto forma di dividendo l'intero utile realizzato dalla società. Una società “bancomat” Per la verità non solo l'utile: da quando Flavio Tosi è diventato sindaco, il Comune si è fatto distribuire anche un bel po' di riserve. Qualche cifra giusto per dare un'idea: nel 2008 il Comune ha incassato 11,8 milioni di euro da quella che era la riserva straordinaria di Agsm e nel 2009 altri 6 milioni, azzerando la riserva straordinaria e quella statutaria. Spiccioli al confronto di ciò che accadrà quest'anno. I nodi iniziano a venire al pettine. Quelli politici, innanzitutto, con una Verona che rischia di fare il vaso di coccio tra i giganti dell'energia: a Ovest A2A, nata dalla fusione delle ex municipaliz-

zate di Milano e Brescia, a Est e a Sud dal colosso che raggruppa Trieste, Padova e l'Emilia Romagna (Aps-AcegasHera). Agsm è piccola e va rafforzata. Così Tosi ha deciso di seguire l'esempio di Milano integrando l'azienda energetica con quella dei rifiuti, ma tenendo separati i consigli d'amministrazione in modo da poter garantire prebende e poltrone ai fedelissimi, agli alleati e alla bisogna. Il bilancio del Comune fa acqua Un'operazione che viene giustificata industrialmente con l'idea di creare sinergie tra le due società nel ciclo di raccolta, gestione e smaltimento rifiuti che verranno poi trasformati in energia nel controverso inceneritore di Ca' Del Bue (un'altra opera di pubblica utilità, secondo la giunta e i vertici di Agsm). Però c'è anche il nodo economicofinanziario: i tagli statali sono consistenti, il bilancio del Comune fa acqua, ma Tosi non vuol sentir parlare di tagli. Quello che ha deciso di fare si fa. Punto. E così viene annunciata un'operazione di integrazione tra Agsm (la società dell'energia) e Amia (quella dei rifiuti) concepita in termini di compravendita e cioè Agsm avrebbe acquisito dal suo socio di controllo (il Comune) il 100% di Amia (anch'essa controllata dal Comune) per una cifra compresa tra i 21 e i 28 milioni di euro. Dunque o accendendo nuovi debiti o facendo leva sulle sempre più magre riserve, Agsm avrebbe acquisito Amia ver-

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sando il corrispettivo direttamente nelle casse comunali. Tutto previsto, tutto già deciso e annunciato pubblicamente. Un'operazione che però a molti ha fatto storcere il naso e contro la quale l'opposizione in consiglio comunale, in particolare il Pd, ha iniziato a muoversi raccogliendo consensi. Integrazione a ostacoli E intanto altri nodi arrivavano al pettine: il procedimento sanzionatorio dell'Autorità per l'Energia avviato lo scorso novembre e del quale – a parte gli interessati – nessuno a Verona sapeva nulla. E poi la nuova grana Antitrust, senza considerare la sonnolenta procura del capoluogo scaligero che nel frattempo, potrebbe aver letto qualcosa e aperto un fascicolo d'indagine, ma anche no. Morale, l'operazione annunciata cambia, a sorpresa, pochi giorni fa. La ragione tecnica e quella politica coincidono: ad andare avanti così si rischiano solo grane e ricorsi. Così si fa in un altro modo, meno grezzo. Agsm aumenta il capitale di 21 milioni, il Comune – socio unico – non ci mette un euro, ma conferisce Amia che è stata valutata appunto tra i 21 e i 28 milioni. Non è una compravendita, non c'è passaggio di denaro, e così non possono essere messe seriamente in discussione le ragioni industriali dell'operazione: rafforzare Agsm conferendole Amia per sviluppare sinergie e provare a entrare nel gioco della grande multiutility del Nord che in un futuro non lontano potrebbe


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“Si prepara a un futuro post-leghista”

POLITICA

“Ma perché distruggere l'università?” di Paolo FIor

nascere dalla fusione del colosso del Nordovest (A2A, Milano-Brescia) con quello del Nord-Sudest (Padova-TriesteEmilia). Perfetto, se non fosse che con una delibera dei primi di luglio il Comune di Verona ha deciso di incamerare tutto l'utile disponibile di Agsm (7,5 milioni) e di Amia (585mila euro) e, in sede di presentazione del bilancio preventivo ha già stabilito di far distribuire ad Agsm parte delle riserve fino a raggiungere un importo di circa 40 milioni di euro. Una fusione con scasso Insomma, una fusione con “scasso” perché è evidente che Agsm e Amia non potranno perseguire i rispettivi piani di investimento se non accumulando ulteriori debiti. Ma non basta: in realtà lo steso piano industriale fa acqua da tutte le parti perché anziché integrare Agsm in Amia vengono mantenute due strutture societarie separate e addio quindi alle pur minime sinergie sul lato dei costi amministrativi e di gestione generale, per non parlare del resto. Di più: quando i nodi economicofinanziari vengono al pettine non c'è niente di meglio di una bella fusione per incorporazione per confondere le acque e guadagnare tempo nella speranza che poi tutto si possa sistemare per il meglio con un'incorporazione del gruppo in un gruppo più grande (la multiutility del Nord, ad esempio).

La “Verona da bere” Ma essendo saltata la fusione per incorporazione, Tosi ha optato per il risultato minimo: incassare quattrini subito facendo finta di rafforzare il gruppo. Un'operazione di corto respiro, che dà però un'idea precisa della direzione che verrà impressa d'ora in poi agli affari della città: siamo ormai al mordi e fuggi dettato dagli equilibrismi di bilancio. La “Verona da bere” non durerà ancora molto e, presumibilmente, trascinerà con sé molti personaggi ora potenti in città, in provincia, in regione e nelle banche. Ma Tosi no, è a parte. In una Verona che sembra uscita dalle pagine di Massimo Carlotto il sindaco, questo sindaco, ha un'altra caratura. Un sindaco da romanzo A me che amo la letteratura americana fa venire in mente un personaggio di Stephen King, il Greg Stillson di The Dead Zone. Un romanzo da leggere, anche se non è dei più famosi, perché ci spiega alcune cose riguardo alla nascita dei totalitarismi. Credo che di Tosi e di Verona finiremo con il riparlarne presto, anche perché l'uomo è ambizioso e si candida a qualcosa di più dell'ambito regionale. E già me lo immagino in un futuro post-leghista.

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Sia che l'euro sopravviva sia che vada in frantumi (e con esso tutta la costruzione europea), l'esito scontato di questa crisi è che ci ritroveremo con sempre meno diritti, tra cui quello sacrosanto all'istruzione. I tagli degli anni scorsi del duo Tremonti-Gelmini hanno massacrato scuola e università e i "tecnici" del governo Monti stanno completando l'opera: altro che investire sui giovani, sulla cultura, sull'istruzione, sulla ricerca. Qui si taglia tutto - fuorché i privilegi dei baroni - e si applica la meritocrazia al contrario, raddoppiando le tasse universitarie a chi va fuoricorso. Tasse peraltro già parecchio salate di per sé. Un modo per scaricare sugli studenti i costi dell'inefficienza del sistema e per disincentivare tutti coloro (pochi ormai, ché le politiche degli anni passati hanno già scremato i più) che con sacrificio continuano a studiare lavorando. Una politica che anziché incentivare la formazione, incentiva l'abbandono scolastico in perfetta continuità con Tremonti che teorizzava che "la cultura non si mangia". Di questo passo la crisi ci restituirà un Paese in cui, come un tempo, l'istruzione sarà appannaggio di pochi privilegiati e la produzione culturale e scientifica una sfera accessibile solo a chi ha i mezzi per campare d'altro. Serve una reazione forte e democratica per determinare un cambio di direzione a partire da qui, perché se oggi il problema drammatico è il lavoro, bisogna essere consapevoli che - senza istruzione - di lavoro e di opportunità ce ne saranno sempre meno.


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Napoli

Sicari bastardi uccidono innocente Andrea Nollino, 42 anni, trucidato davanti al bar dove lavorava. Continua la mattanza e il solito chiacchiericcio del giorno dopo di Eliana Iuorio

La Domenica settimanale

Alle 8 del mattino, come di consueto, Andrea Nollino è in largo San Mauro, intento a spazzare fuori alla caffetteria di cui è titolare insieme ad altre persone. Ha aperto da poco il locale e si appresta ad un’altra giornata di lavoro, quando da uno scooter, sopraggiunto con due persone in sella, viene fatto fuoco. Tre proiettili, uno dei quali uccide all'istante il 42enne barista incensurato, padre di tre figli.

Arrivano le Forze dell’ordine, la stampa, i curiosi. Si compie il solito rito, come da copione. Chi era, Andrea Nollino – la domanda ricorrente. Se la chiedono gli inquirenti, i giornalisti e i curiosi che non lo conoscevano. E come da copione, si inseguono sospetti e smentite, fino a scoprire l’unica verità: Nollino era un uomo onesto e il proiettile che l’ha ucciso non era destinato a lui. “E’ morto per sbaglio”. L’ho sentita troppe volte, questa frase e troppe volte sono stata colta da un senso di rabbia, di indignazione profondi. Come si può, morire per sbaglio? Il lungo elenco delle vittime innocenti Andrea Nollino è ora un altro nome in quell’elenco dedicato alle vittime innocenti di camorra. Altra vittima, altre manifestazioni, altre parole. Sono devastata. Non voglio piangere altri morti; non voglio stringere altre madri, padri, fratelli,

“Mio marito credeva nella legalità”

Proiettili vaganti stroncano la vita di Andrea Nollino, 42 anni, padre di tre bambini piccoli, titolare del bar san Mauro a Casoria. I sicari, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, impegnati in un inseguimento a fuoco su uno scooter, avrebbero mancato i veri obiettivi, e uno di questi proiettili avrebbe tragicamente colpito Andrea mentre si accingeva ad iniziare la sua giornata lavorativa. Dolore e disperazione, di Antonietta, la moglie di Andrea ma anche schiena dritta : “Mio marito era un buono credeva nella legalità e nel rispetto delle regole. Questi sono anche i valori dei suoi figli”. E' tempo di dire basta occorre una resistenza civile, fondata su pratiche di legalità vere, riconoscibili.

sorelle, mogli, mariti, figli di vittime innocenti delle mafie! E così – purtroppo – sarà, se non recepiamo il messaggio che giorno dopo giorno, associazioni come Libera, come lo stesso Coordinamento dei familiari di vittime di criminalità, inviano a tutta la cittadinanza, al Paese intero! Battiamo le mafie, possiamo vincerle: quelle dentro e fuori lo Stato. E’ un’invasione nei nostri diritti, un furto di dignità continuo, che concede a questi personaggi di spadroneggiare sui nostri territori. L'appello di Libera Andrea Nollino lo abbiamo ucciso noi. Come tutte le vittime innocenti delle mafie. Lo ha ucciso la nostra indifferenza, la nostra meschinità, il nostro disimpegno. Le strade di Casoria si sono riempite di persone, che fiaccola alla mano, hanno attraversato il paese, con la moglie della vittima, affranta, alla testa denl corteo. Domani, potrebbe essere un giorno uguale a questo. Raccogliamo l’appello di Libera e del Coordinamento dei familiari vittime di criminalità: mandiamoli via, tutti. Il Paese, lo Stato, siamo noi, non loro.

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MUTAZIONI

Testimonianze

Il paese perduto Diario di una vita antimafia di Luciano Mirone L’urlo della storia squarciò il vuoto in cui eravamo sprofondati. Sembrava il coro di una tragedia greca, un coro fatto dagli onesti che in quel preciso istante, senza conoscersi, dai punti più disparati della Nazione, emettevano il loro urlo di dolore mentre le terribili immagini dell’asfalto saltato in aria, di quell’orrendo vulcano di catrame, dei brandelli di Giovanni e di Francesca e degli agenti della scorta, scorrevano alla tivù e il regime ci imboniva con i suoi programmi di evasione. Tutto si rivelò chiaro in quell’abbagliante giornata di primavera del Millenovecentonovantadue, mentre un sole caldo inondava questa Sicilia ammorbata e mi confermò che se volevamo salvare questo Paese dovevamo esporci, anche a costo di rimetterci la pelle. Fu quel tremendo urlo a svelare una semplice verità che l’indifferenza, il cinismo e la complicità di tanti avevano nascosto. Ci eravamo illusi di stare in un sistema democratico ma in realtà vivevamo in un regime in cui la corruzione era diventata l’essenza della nostra esistenza. Fino a quando una cosa del genere dura quattro, cinque anni è estirpabile, ma quando si perpetua per almeno vent’anni, si cristallizza nelle teste di tanti ed è impossibile sradicarla. Ogni volta che questo Paese ha cercato di voltar pagina, ogni volta che ha cercato di darsi una svolta democratica, un botto ha squarciato i tentativi di cambiamento e tutto è tornato come prima, piazza Fontana, Brescia, l'Italicus, Bologna, dalla Chiesa, Chinnici, La Torre, Moro, Mattarella, e ora Falcone, un sottile filo ha sempre accomunato stragi politiche e stragi mafiose. Ma stavolta era diverso. Stavolta la collera degli onesti, gli urli straziati e strazianti della vedova Schifani e degli altri familiari e della gente comune che durante i funerali inveiva contro i politici, squarciavano il silenzio della cattedrale.

Stavolta era diverso perché avevano lanciato pure le monetine a Craxi davanti all’hotel Raphael. E c’era questa collera, questo urlo disperato degli onesti che reclamavano verità e giustizia. Ricordo le manifestazioni per commemorare Falcone, la sala strapiena di gente, e poi giugno e luglio, il lutto che piano piano ci scivola addosso fino ad asciugarsi. “Il lutto che scivola via” Una giornata di mare con gli amici, io che faccio i soliti discorsi intrisi di rabbia e di indignazione, e qualcuno che mostra la solita insofferenza, Sempre-sti-discorsidi-mafia-e-di-politica, e io che voglio gridare, voglio scappare, voglio piangere, ma alla fine stringo i denti, ricaccio le lacrime e faccio finta di vivere perché alla fine tutto si riduce in questa assurda finzione imposta dal fatto che devi vivere. E-allora-ce-lo-facciamo-questo-bagno? In fondo il problema di questo Paese non è solo il fatto che saltano in aria i magistrati, è questa lotta sorda, furibonda e selvaggia contro la stupidità e l’opportunismo degli uomini. Il problema è che dobbiamo adeguarci perché siamo infinitamente di meno. E allora facciamolo questo fottutissimo bagno e scherziamo, e poi un altro bagno e poi un’altra battuta, e poi facciamole quelle interminabili discussioni su crociere, alberghi con piscina, villaggi turistici dove si mangia di tutto e quando torneremo alla vita di ogni giorno sarà la stessa cosa, una eterna giornata di discorsi vuoti e di risate… Dobbiamo rimuovere in fretta. Dobbiamo vivere, anche se attorno a noi si avverte il ghigno malefico della morte. Dobbiamo far finta di niente. “Quest'afosa giornata di luglio” Adesso siamo sulla via del ritorno in questa afosa giornata di luglio, a due mesi dalla strage di Capaci. C’è una calca indescrivibile in autostrada, in macchina non c’è l’aria condizionata e si suda, io nel frattempo ho assorbito il colpo della mattina, o forse mi illudo che tutto sia passato, vivo con un costante magone e con un groppo in gola e faccio finta di adeguarmi ai discorsi della gente dabbene.

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“Il paese perduto” di Luciano Mirone, di prossima pubblicazione, racconta la mutazione italiana attraverso storie di gente comune

In fondo abbiamo elaborato il lutto e ora possiamo permetterci di parlare del nulla, ascoltare musica mentre camminiamo a tre all’ora per quei maledetti lavori in corso. Improvvisamente dall’altra macchina arriva ansimando un amico: “Hanno ammazzato Borsellino”. Risento quell’urlo, questa volta più veemente. Ormai in questo Paese le parole non bastano più, ci vuole il botto per far capire alla gente perbene che tutto sta andando in malora. Sulla macchina cala un silenzio di tomba, non si parla più di niente, non si ride più di niente, si spegne lo stereo e si fa ritorno a casa. Accendo la televisione, Palermo sembra Beirut, i palazzi sventrati e le macchine divelte, i vigili del fuoco che cercano di spegnere gli incendi e tanta gente che gironzola in via D’Amelio e forse in quel momento la telecamera inquadra il tizio che sale sulla macchina di Borsellino per prelevare l’agenda rossa, ma noi vediamo solo persone che gironzolano in questa strada anonima circondata solo da palazzoni costruiti negli anni Sessanta. “Quell'inconfondibile urlo” E poi risenti quell’inconfondibile urlo che sembra uscir fuori dal quadro di Munch, questo simbolo dell’angoscia e dello smarrimento umano che vedo senza vedere, e sento senza sentire, e a un certo punto ricordo per filo e per segno le parole del pittore norvegese e lo stato d’animo straziante che è lo stesso che provo io adesso, quando descrive le sensazioni dell’Urlo: “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue...”. La giornata non è ancora finita. Qualche ora e cala la sera. Ormai tutto il mondo sa che hanno fatto a pezzi Borsellino e i suoi agenti della scorta. A un certo punto, da lontano, sento un coro di clacson, mi affaccio e vedo delle macchine che si avvicinano, e quel coro che diventa sempre più assordante. Le auto si fermano in piazza, scendono una quarantina di giovinastri, stappano le bottiglie di spumante e intonano dei cori da stadio, saltano, urlano, inneggiano alla loro squadra di calcio che oggi ha vinto il campionato, una danza tribale macabra, senza fine,


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Occhiello

Fra stragi ed ecomafie: la mafia grigia Ciancimino, Tronci, e altre storie di Pino Finocchiaro

Ciancimino replica: "Soldi miei in Svizzera o Romania? Regalo tutto ai terremotati dell'Emilia". Poi aggiunge: “vogliono bloccare la mia testimonianza sulla trattativa”. Argomento sul quale Ciancimino non ha detto tutto e non tutto quel che ha detto è vero. L'appunto trovato a Milano

Dodici milioni di dollari depositati in una banca svizzera. Apparterrebbero al tesoro di Vito Ciancimino l'ex sindaco di Palermo, capo indiscusso dell'ala politica dei corleonesi di Cosa Nostra sino alla morte avvenuta a Roma, il 19 novembre del 2002. Li ha scoperti la guardia di finanza nell'ambito di un'inchiesta coordinata dalla Dda di Palermo. Sarebbero nella disponibilità del figlio di don Vito, Massimo Ciancimino, teste chiave nelle indagini sulla trattativa stato- mafia, indagato per mafia, esplosivi e calunnia nei confronti del sottosegretario ai Servizi, Gianni De Gennaro. Avviata la rogatoria internazionale per ottenere il sequestro e la confisca del tesoretto dei Ciancimino. L'indagine patrimoniale della Finanza punta comunque al colpo grosso: nel mirino degli investigatori una massa monetaria di almeno trecento milioni di euro frutto del coinvolgimento di Massimo Ciancimino e uno stuolo di colleti bianchi negli affari delle ecomafie. Ciancimino jr. già condannato per in via definitiva per riciclaggio con i suoi soci occulti avrebbe gestito la discarica di Gline, la più grande d'Europa, alle porte di Bucarest.

In una perquisizione della Dia a Milano appare un appunto «L'argomento è sempre la strage Falcone-Borsellino legata alla più grossa azienda ecologica in Romania». La frase è tra le carte della messinese Santa Sidoti, collaboratrice di Massimo Ciancimino moglie del faccendiere Romano Tronci. L’ingegner Romano Tronci da decenni nella black list di chi indaga sulle ecomafie, citato più volte nelle audizioni dei magistrati di fronte alla commissione sul ciclo dei rifiuti, è il protagonista delle tangenti verdi monitorate dalla procura di Palermo alla fine degli anni ’90 per la discarica di Bellolampo a Palermo. Romano Tronci sbarca in Sicilia grazie a Vito Ciancimino, Vincenzo Virga e Angelo Siino. Allora capi indiscussi dell’ala politica, militare e imprenditoriale dell’Onorata Società. “Ma non era in carcere?” Il connubio tra politica e mafia nella gestione delle ecomafie che (non) fatturano ogni anno affari per decine di miliardi di euro dura da sempre. E’ noto l’interesse dei clan mafiosi e camorristici per grandi appalti come il porto di Gaeta o la Tav.L’ingresso di Cosa Nostra nel Lazio è sancito dai rap-

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porti non occasionali con la banda della Magliana. Torniamo a Catania. Pendici dell’Etna. E’ il mese di settembre del 1998. “Signor Sindaco, c’è il presidente del Parco del’Etna”. Il sindaco rimane interdetto. Poi sbotta al centralinista: “Ma non era in carcere?”. Era in carcere, sì. Dal 7 luglio quando i finanzieri bussano alla porta della sua terza casa di Nicolosi. Raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere spiccata dai giudici di Palermo che lo accusano di associazione di associazione a delinquere di stampo mafioso. Filippo Urzì, dirigente in pensione dell’assessorato Territorio e ambiente, avrebbe intrattenuto legami con il boss trapanese Vincenzo Virga; curato gli interessi della De Bartolomeis, società citata nei rapporti internazionali delle organizzazioni ambientaliste sulle ecomafie. A chi andavano i finanziamenti “Filippo Urzì cosa faceva? Era quello che predisponeva i finanziamenti per le varie province siciliane – afferma l’ex ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra siciliana, Angelo Siino – e Romano Tronci della De Bartolomeis se lo prese in casa. Lo fece dimettere perché era prezioso, perché sapeva…”. Siino spiega l’ingranaggio politico. “Romano Tronci quando venne da me, venne con l’input di Ciancimino. Ho accettato di sponsorizzarlo di buon grado perché sapevo che dietro di lui c’era il Partito Comunista. Almeno lui diceva e anche Lima me lo aveva confermato che c’era il Partito Comunista”.


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“Tangenti verdi per corrompere pubblici ufficiali”

“L’Urzì di cui parla Siino - commentano i pm di Palermo -ha avuto un preciso ruolo come dirigente della De Bartolomeis, nell’acquisizione con turbativa d’asta, degli appalti di Bellolampo e nella vicenda riguardante i rapporti d’affari intrattenuti da Romano Tronci con il capo della famiglia mafiosa di Trapani, Vincenzo Virga. Urzì torna in servizio Decadute le esigenze cautelari per il cessato rischio di inquinamento delle prove, Filippo Urzì torna in servizio. Chiama i sindaci dei venti comuni che compongono il il consiglio del parco dell’Etna. Filippo Urzì, infatti, è stato nominato presidente in un quadro di efficientismo tecnocratico. “E’ un vero esperto di leggi ambientali”. Su questo non c’è dubbio. Lo ammettono anche i pentiti. I boss si rivolgono a Filippo Urzì per eludere le leggi sull’ambiente. “Urzì era il rappresentante della De Bartolomeis in Sicilia – ricorda il collaboratore Salvatore Lanzalaco – e si occupava di tutti gli aspetti tecnici amministrativi della De Bartolomeis per la discarica di Bellolampo e altri lavori. Stava sempre in via della Croce Rossa”. Pm. “Urzì era a conoscenza dei patti che vi erano stati…?”. Lanzalaco risponde, secco: “Sì, di tutto, di tutto, di tutto. Di tutto perché si incontrava spessissimo con con Biondolillo, con Muscaglione, con Gorgone, con tutti”. Angelo Siino conosce Urzì andando insieme all’imprenditore Romano Tronci nella sede dell’assessorato “nel periodo in cui era stato individuato come referente mafioso – si legge nel provvedimento cautelare – e assumendo che proprio Urzì

si era occupato su richiesta del Tronci e dello stesso Siino, di curare la pratica relativa al finanziamento della bonifica del torrente Nocella, cioè di quell’appalto che qualche anno dopo sarebbe stato aggiudicato per volontà dell’associazione mafiosa a un raggruppamento di imprese composte dalla Termomeccanica, dalla De Bartolomeis e da imprese direttamente riconducibili all’associazione mafiosa fra cui la Cosmo sud srl di Brusca e la ditta di Giovanni Mazzola, oggi collaboratore di giustizia”. Angelo Siino incontra nuovamente Filippo Urzì “insieme a Nicolino Burriesci e Romano Tronci in un periodo in cui l’indagato, dimesso il ruolo di funzionario dell’assessorato regionale, aveva assunto anche formalmente l’incarico di dirigente della De Bartolomeis”. Angelo Siino commenta. “Romano Tronci si era appropriato di Filippo Urzì, aveva avuto questo diritto di primogenitura…”. La ditta di Brusca I pm gli danno credito, tanto da chiedere l’incriminazione di Romano Tronci e Filippo Vittorio Urzì, congiuntamente “anche per avere con più azioni del medesimo segno criminoso promesso e successivamente versato a Franz Gorgone, Giuseppe Biondolillo, Turi Lombardo, Manlio Orobello, Francesco Martello e Liborio Muscaglione somme di denaro corrispondenti complessivamente al tre per cento dell’importo (oltre otto miliardi di lire per i lavori di ampliamento della discarica di Bellolampo) e altre utilità come l’assunzione del figlio di Muscaglione presso aziende di Romano Tronci”. Le tangenti verdi servivano “affinché

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essi stessi e altri pubblici ufficiali competenti nella procedura di gara compissero atti contrari ai doveri d’ufficio favorendo l’associazione di imprese di cui faceva parte la De Bartolomeis. Il pizzino su stragi e affari Solo nel marzo 2010 arriva la sentenza d’appello per l’inchiesta Trash: Romano Tronci non è colpevole, così come il superboss Bernardo Provenzano, il catanese Pasquale Costanzo e l’ex assessore regionale democristiano Franz Gorgone. Tutti e quattro erano stati condannati in primo grado, a pene comprese tra i quattro anni di Provenzano e Costanzo, i quattro e mezzo di Gorgone e i dieci di Tronci. Assolti Salvatore Biancorosso, Gaetano Traficante, Mario D’Acquisto (ex segretario di Gorgone, omonimo dell’ex presidente della Regione) e Francesco Martello, condannati in prima istanza dal tribunale. Le tangenti vi furono ma cadono in prescrizione. Dell’intervenuta prescrizione gode insieme ad altri sette imputati Filippo Vittorio Urzì. L’associazione per pilotare gli appalti con l’aggravante mafiosa riconosciuta in tribunale cade in secondo grado. *** Vent’anni dopo l’avvio della prima inchiesta, emerge la pista romena. La Dda di Palermo non demorde, spronata dal gip Pier Giorgio Morosini che rifiuta una richiesta di archiviazione, indaga sulle importazioni di gas dall’est e sul ruolo dell’irresistibile duo Tronci-Ciancimino (jr). Fra le loro carte rinviene l’inquietante pizzino Stragi&Affari. Il cuore della trattativa Stato-Mafia. (Da La mafia grigia, in libreria dal 27 agosto)


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Mafia e rifiuti tossici

Trapani, la Gomorra di Cosa Nostra Aerei clandestini, navi sparite chissà come, cave riempite da un giorno all'altro, voragini scomparse. E tante morti strane di Rino Giacalone

Storie di aerei che atterrano nel buio della notte in aeroporti ufficialmente non più operativi. Storie di cave riempite da un giorno all’altro, e così sparite perchè di colpo colmate di rifiuti di ogni genere facendo scomparire quelle voragini nel terreno sino a poco tempo addietro ben presenti. Storie di navi inghiottite dal mare, strani affondamenti. Storie di morte, di giornalisti morti ammazzati perché avrebbero potuto rivelare i retroscena di alcune di queste storie, di donne e uomini colpiti da cancro. Storie mai completamente scritte, rimaste vere solo a metà, la presenza di rifiuti tossici non è leggenda, tutto avvenuto quasi che in modo preordinato qualcuno abbia deciso che di tutto questo non se ne dovesse parlare più di tanto. Benvenuti a Trapani, la “Gomorra” di Cosa nostra.

Le storie. Cominciamo dall’ultima. Castelvetrano, quartiere Belvedere, rione fatto di tantissime case popolari. Una volta qui c’erano una serie di cave dalle quali si estraeva sabbia e tufo. Un giornalista del luogo, Egidio Morici, “armato” di video camera ha immortalato tutto quello che si nasconde nelle viscere di questo quartiere. Il video ha fatto vedere fusti di olio con intestazioni in greco, altre con scritte ammonitrici, “pericoloso contiene mercurio”, il video ciò che non ha potuto rendere a chi lo ha visto è l’odore che c’è in queste “caverne”, lo dice lo stesso Morici, un olezzo incredibile, quasi da far venire il vomito. Silenzio delle autorità sanitarie Tempo addietro la cosa era stata segnalata alle autorità sanitarie, ma non accadde nulla. Oggi a capo di un comitato di cittadini per nulla intenzionato a demordere c’è un sacerdote, il parroco della chiesa del rione, don Baldassare Meli uno che certo non le manda a dire. “Abbiamo rappresentato il pericolo al Comune ci hanno risposto che faranno una azione di bonifica, mi chiedo come sia possibile parlare di bonifica senza sapere che genere di rifiuti ci stanno nel sottosuolo”. Il rione Belvedere in questo momento è oggetto di una operazione di risanamento urbanistico, fondi stanziati per 6 milioni di euro. Proprio al di sopra della incredibile discarica sotterranea si dovrebbero realiz-

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zare impianti sportivi e per la collettività, “dovremo mandare i nostri figli a giocare sopra una polveriera ambientale” lamenta un abitante del quartiere, “non se ne parla nemmeno”. Le cave fra Marsala e Mazara Da Castelvetrano a Marsala. Anche qui altre cave, cave naturali, anfratti che fanno parte della geomorfologia del terreno. Sopra ci sono costruzioni. Abitazioni. Qui i ragazzi vengono a giocare, nascondigli perfetti. Qualcuno prima dei ragazzi però ha frequentato questi anfratti, e in qualcuno di questi basta affacciarsi all’entrata per avvertire un nauseabondo olezzo, qualche passo in avanti e si vedono strani fusti di colore celeste. Difficile continuare la ricerca per vedere cosa c’è dentro, la puzza è troppo forte, senza una maschera è impossibile entrare. Qualche chilometro di distanza e ancora cave… cave dismesse di tufo. Ve ne sono a decine tra Marsala e Mazara… tante quelle dismesse… tantissime quelle “riempite”. Attorno ancora abitazioni, case di campagna. Chi abita qui racconta di improvvise morti, di strani decessi, di persone che stavano bene fino a poche settimane prima di morire, poi l’insorgere di tumori, molti di natura linfatica, e quindi la morte. Cosa c’è dentro queste cave? Anche in questo caso esami e ricerche non hanno dato esito.


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I misteriosi naufragi della “Silenzio” e della “Monte Pellegrino”

«Da anni gli abitanti di quella fetta di territorio – dice il consigliere provinciale di Sel Ignazio Passalacqua – denunciano l’alto tasso di incidenza di tumori e l’altissima mortalità che ne deriva. Una zona in cui sono presenti falde acquifere di importanza rilevante. Per questo si è chiesto l’intervento del Consiglio nella sua interezza, dobbiamo insistere perchè magistratura e forze dell’ordine, predispongano una nuova verifica sugli indici di radioattività presenti nelle aree in questione». Quelle navi “a mezzo carico” Ancora storie. C’è una voce che gira e vuole restare «anonima» al porto di Trapani, «anonima» perchè riferisce di vicende non tanto scomode quanto «radioattive». Questa voce racconta di una nave che vent’anni addietro arrivò qui a Trapani a caricare marmo, ma partì con la stiva in parte vuota, o almeno così pareva fosse. Circostanza strana perchè caricare una stiva di una nave in parte significa mettere a rischio la stessa capacità di galleggiamento durante la navigazione, sopratutto se si porta del marmo come succedeva in quel caso. Quella nave partì ugualmente da Trapani «a mezzo carico», cosa che la «voce» deduce perchè secondo quanto ha saputo per la quantità di marmo imbarcata solo per una parte poteva essere stata stipata la stiva. Il racconto prosegue in modo preciso circa l’esito che ebbe quel viaggio, quel-

la nave fuori Trapani finì col fare naufragio, e nemmeno c’era maltempo. Nessuno perse la vita, l’equipaggio riuscì a salvarsi. In questi mesi, dopo che per una serie di indagini che si stanno svolgendo in Calabria si è tornato a parlare di navi cariche di rifiuti speciali e radioattivi fatte apposta naufragare - uno smaltimento illegale camuffato da incidenti in mare - a Trapani c’è chi si è ricordato anche di quella nave. E’ una delle storie che i vecchi raccontano. Quello della motonave «Silenzio», 198 tonnellate, nave cargo, l’affondamento risale al 2 novembre del 1982, partita da Trapani doveva raggiungere Malta, di solito era usata per trasportare

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marmo, ma quando fece naufragio la stiva era vuota. Qualche similitudine con quel che si racconta al porto di Trapani la si trova nella cronaca striminzita di questo affondamento; impossibile dire se si tratti della stessa nave. Il naufragio della «Silenzio» avvenne ad est di Trapani su un fondale di 1250 metri. Tutti salvi i membri dell'equipaggio. Affondamenti sospetti Il nome della «Silenzio» è finito nell’elenco dei naufragi italiani sospetti, ma non è il solo che riguarda da vicino le nostre coste, c’è anche il nome di un’altra nave, la «Monte Pellegrino», affondata l’8 ottobre del 1984 al largo di San Vito Lo Capo, doveva raggiungere il porto di Palermo da Porto Empedocle, nave cargo di solito impiegata per trasportare sostanze chimiche o pomice. La «Silenzio» e la «Monte Pellegrino» avrebbero potuto trasportare altro, qualcosa da non potere e dovere dichiarare, quando fecero naufragio, e per questa ragione sono finiti tra gli affondamenti sospetti. Al largo delle coste trapanesi non sono gli unici affondamenti strani. Ce ne sono altri, rimasti denunciati e però non accertati. A proposito infatti di smaltimento criminale di rifiuti tossici, speciali, residui di materiale radioattivo, finiti in fondo al mare con le navi che li trasportavano illegalmente, in atti giudiziari si incrociano i nomi di due navi. Una è la «River»,


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“Armi e rifiuti tossici, due traffici collegati”

l’altra la «Dures», affondate vicino Trapani. Naufragi mai dichiarati, «navi fantasma», che però sarebbero venute ad affondare dalle nostre parti. Scenario di tutto questo è Trapani con le sue commistioni, i crocevia tra la mafia e i settori «deviati» dello Stato – e la massoneria – che in altre circostanze sono emersi per i loro interessi in traffici di droga e di armi. Gli stessi scenari presenti in altre indagini, come quelle calabresi. Dal trapanese all'Africa Di traffico di scorie si sono occupati a Trapani gli stessi magistrati che hanno seguito le indagini sulla presenza di Gladio (la struttura segreta del Sismi nata in funzione di contrasto al possibile pericolo “comunista”). Scorie finite sepolte nelle nostre cave. Pezzi dello Stato avrebbero trafficato con la mafia e con organizzazioni criminali a livello internazionale per smaltire illecitamente rifiuti tossici, in cambio di far transitare per gli stessi circuiti armi e droga. Nel caso trapanese si sarebbe trattato di un «patto» per fare continuare i traffici di droga e di armi che su quelle rotte si sviluppavano da decenni, prima ancora che arrivassero i rifiuti tossici da smaltire. C’è un dato particolare che non va sottovalutato. Quella di una serie di rapporti che la mafia trapanese per tempo è riuscita a intavolare con soggetti del nord Africa e arabi, terminali di questi «commerci» illegali.

Contatti che secondo il pentito Nino Giuffrè, boss di Caccamo, e braccio destro prima della sua cattura del boss Bernardo Provenzano, erano nella disponibilità dei Messina Denaro di Castelvetrano, Francesco e Matteo, padre e figlio, il patriarca e il nuovo capo della mafia. Il primo morto nel 98, l’altro latitante dal '93. I traffici di rifiuti speciali nel trapanese non sarebbero qui giunti solo per fermarsi dentro le cave di tufo dismesse nella zona tra Marsala e Mazara, come hanno raccontato il pentito Scavuzzo e il faccendiere Francesco Elmo; Trapani potrebbe essere stato un punto di transito, per far fare il salto verso la Somalia. Questo traffico di scorie chimiche e radioattive si sarebbe svolto tra la metà degli anni '80 sino al 1991/93, scorie chimi-

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che che arrivavano trasportati da camion destinati a portare oli esausti, mentre quelle radioattive venivano trasportate su navi di diversa nazionalità. Il pentito di Mazara del Vallo Vincenzo Sinacori ha parlato ai pm di Palermo di armi e rifiuti tossici. Era il 1985, ricorda l’ex boss di Mazara, e le armi arrivarono a Marsala. Era l’epoca in cui tra Marsala e Mazara stavano nascosti i latitanti più importanti di Cosa nostra, come Totò Riina, erano gli anni in cui sono spariti, inghiottiti da lupare bianche, i vecchi boss trapanesi, uccisi dai corleonesi perché di loro non si fidavano abbastanza. Un traffico di armi, un altro di scorie e rifiuti tossici, fatti con la complicità di pezzi dello Stato potrebbe giustificare la necessità di essere attorniati da chi sapeva mantenere il silenzio. Sinacori racconta del traffico di armi e ricorda che di mezzo c’era anche quello di rifiuti tossici, ma in questo caso i rifiuti non arrivavano a Trapani, ma semmai da Trapani partivano. “Erano rifiuti che provenivano dagli ospedali”. Invece di smaltirli davvero li facevano sparire. Erano le imprese della mafia a gestire questi appalti, facevano in modo che risultassero regolari smaltimenti, ma quei rifiuti non finivano nei centri autorizzati: “Per quello che ne ho saputo questi carichi finivano in Umbria” ha detto Sinacori. Ha aggiunto di non conoscere particolari approfonditi ma di averne sentito parlare durante quelle sue “passeggiate” con don Ciccio 'u muraturi.


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Lombardia

Il guaio di chiamarsi Luraghi Si chiama Barbara Luraghi e da quattro anni nel suo cantiere riceve continue intimidazioni di Ester Castano

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Gennaio 2009, le forze dell’ordine scoprono ad Arluno una delle più importanti cave dell’hinterland milanese gestite dalla criminalità organizzata... Ricordate? Nel corso dei lavori per la Tav Milano-Torino i clan mafiosi dilaniano il territorio agricolo riempiendo di rifiuti, anche tossici, quasi 300mila metri cubi di terreno precedentemente smembrato per ricavare mistone, sabbia e ghiaia per i cantieri. Oggi, a quasi quattro anni di distanza, è Barbara, la figlia di Maurizio Luraghi, imprenditore lombardo vittima e carnefice del mondo ‘ndranghetistico, ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica.

Il padre, condannato in primo grado a 4 anni e 6 mesi nel giugno 2010, conosceva bene la larga e profonda voragine di Arluno: un vero e proprio tesoro per la criminalità organizzata, un giro d’affari milionario, oltre che l’occasione allettante e pressoché gratuita per smaltire tonnellate e tonnellate di materiale ‘ingombrante’. Si chiama Barbara Luraghi e da quattro anni nel suo cantiere riceve continue intimidazioni da parte di ignoti: macchinari bruciati, biglietti con scritte minatorie lasciati sul parabrezza dell’auto, insulti gratuiti fuori dall’istituto scolastico frequentato dai suoi due figli di 11 e 6 anni. “Io continuerò a denunciare” “Io denuncio e continuerò a farlo, perché so che è importante, vista anche l’esperienza che sta passando mio papà sono invogliata a denunciare”: chiare le parole dell’imprenditrice 34enne di Pogliano Milanese. I latini dicevano ‘Nomina sunt consequentia rerum’, i nomi sono conseguenza delle cose. E’ questo il caso di Arluno. Provincia di Milano, 12mila abitanti posizionato fra Nerviano e Sedriano: Arluno è uno dei tanti insospettabili paesi dell’hinterland milanese. Il suo nome deriva dal latino ‘Ara Lunae’, letteralmente ‘altare della luna’. Un altare sacrificale. Perchè è questo che oggi è il Sud Ovest milanese, e il piccolo comune dal suolo ricco di mistone e la voragine di rifiuti illeciti ne è solo un esempio.

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Cittadini lavoratori, commercianti e impiegati. C’è chi fa il pendolare e ogni mattina prende il treno per recarsi nell’ufficio a Rho, Milano, oppure nella vicina Magenta dove con cambio di binario si può, nel giro di un’oretta, essere a Torino. Maurizio Luraghi dice che tutta Milano scaricava nella cava di Arluno, anche in pieno giorno, indisturbati dalle istituzioni del territorio e dagli amministratori comunali. Un coignome ingombrante Barbara porta sulle spalle un cognome ingombrante. Da quando la magistratura ha giudicato colpevole il padre, è lei a gestire l’azienda di famiglia Lavori Stradali Srl. La Guardia di Finanza del nucleo investigativo di Pavia descrive Maurizio Luraghi come il classico imprenditore a disposizione della mafia, “Ma a differenza degli altri affiliati, lui è uomo del Nord, un uomo che parla: non ha la forma mentis tipica dell’omertoso meridionale appartenente ad associazione criminosa”. La Procura l’ha riconosciuta come vittima di estorsione, il Comitato Nazionale Antiracket ha quantificato il danno a oltre 1 milione di euro, la Prefettura di Milano ha disposto che lo Stato le risarcisca la somma di denaro perduta anche a seguito dei continui attentati alla sua attrezzatura edile: ma niente, da Roma i soldi tardano ad arrivare.


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Sicilia/ Cemento e boss

Falcone colonia di mafia fra Tindari e Barcellona Nel cuore di una delle zone nevralgiche della nuova mafia, una tranquilla cittadina di provincia che tanto tranquilla non è di Antonio Mazzeo Poteva essere il paradiso. Invece è cemento, cemento, cemento. A destra ci sono la rocca con le rovine e il santuario di Tindari e la straordinaria riserva naturale dei laghetti di Marinello. Dalla parte opposta si scorgono il promontorio di Milazzo e i Peloritani. Di fronte l’azzurro del Tirreno e nello sfondo, nitide, le sette isole Eolie. Falcone, cittadina della provincia di Messina con meno di 3.000 abitanti, poteva essere una delle perle turistiche, ambientali e paesaggistiche della Sicilia. Il territorio, però, è irrimediabilmente deturpato da orribili complessi abitativi, alverari-dormitori per i sempre più pochi turisti dei mesi estivi. Del peggiore, risalente all’inizio degli anni ’80, nessuno ricorda più il nome originale. Lo si conosce come il “Casermone”, una miriade di miniappartamenti di appena 50 mq, a due passi dal mare. Vicine alle spiagge sempre più erose dalle correnti e dalla moltiplicazione di porti e porticcioli sorgono altre strutture soffocanti e impattanti. Ma alla furia di progettisti e costruttori non sono scampate neppure le colline, sventrate da strutture talvolta simili a vere e proprie prigioni per villeggianti. A colpire ulteriormente il centro abitato e le frazioni collinari ci hanno pensato pure un terremoto nel 1978 e, l’11 dicembre 2008, l’alluvione generata dallo straripamento del torrente Feliciotto.

Gli interventi post-emergenza hanno fatto il resto: ulteriori colate di asfalto e cemento senza che mai si mettesse in sicurezza un territorio ad altissimo rischio idrogeologico, fragilissimo e dissestato. E le speculazioni hanno richiamato la mafia, quella potentissima e stragista di Barcellona Pozzo di Gotto e delle “famiglie” affiliate di Terme Vigliatore, Mazzarrà Sant’Andrea e Tortorici. E Falcone, sin troppo debole dal punto di vista sociale, è divenuta facile preda del malaffare. Sin dai primi anni ’70, l’economia agricola e il vivaismo erano sotto l’assedio della cosca di Giuseppe “Pino” Chiofalo (poi controverso collaboratore di giustizia). Fu proprio a causa di una tentata estorsione ai vivaisti falconesi che egli venne arrestato per la prima volta nel febbraio 1974, unitamente a Filippo Barresi, uno dei suoi più fedeli affiliati del tempo. Poi l’ecomafia poté ingrassare con i lavori autostradali e ferroviari, le megadiscariche di rifiuti di ogni genere, i piani di urbanizzazione selvaggia, i complessi turistico-immobiliari che volevano scimmiottare il disordinato residence di Portorosa della confinante Furnari. E come Portorosa, ville e villini di Falcone sono stati utilizzati come rifugio per le latitanze dorate di boss e gregari di mafia, palermitani e catanesi. Nel comune hanno risieduto stabilmente criminali e killer efferati, come Gerlando Alberti Junior, condannato in via definitiva per aver assassinato, nel dicembre del 1985, la diciassettenne Graziella Campagna di Saponara, testimone inconsapevole degli affari di droga e armi della borghesia mafiosa peloritana. Più di cento ammazzati Ovvio che il territorio che non poteva restare indenne dalla guerra tra cosche che tra Barcellona e i Nebrodi farà più di un centinaio di morti tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90. Un bagno di sangue per accaparrarsi appalti e subappalti di opere pubbliche, gestire cave e discariche, cementificare la costa e i torrenti. Omicidi efferati. Eccellenti. Il 14 di-

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cembre 1987, ad esempio, a Falcone vennero assassinati Saverio e Giuseppe Squadrito, rispettivamente padre e figlio, entrambi pregiudicati e vicini alla criminalità barcellonese. Saverio svolgeva la professione di pescatore, mentre Giuseppe risultava titolare di un’impresa di bitumi. A giustiziare i due, un commando guidato da Pino Chiofalo, giunto nel comune tirrenico qualche ora dopo aver consumato a Barcellona Pozzo di Gotto un altro duplice omicidio, quello di Francesco Gitto, facoltoso commerciante ai vertici della vecchia mafia del Longano, e Natale Lavorini, suo dipendente. Cimitero di mafia nel torrente Era originario di Falcone Vincenzo Sofia, inteso “Cattaino”, ucciso il 7 novembre 1991 dopo essere stato sequestrato in un deposito di materiale inerte di Mazzarrà Sant’Andrea. “L’omicidio fu deciso dal mio gruppo per rispondere alla morte di Giuseppe Trifirò “Carrabedda””, ha raccontato il neocollaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, già a capo delle “famiglie” di Terme e Mazzarrà. “Ci eravamo convinti che “Cattaino” fosse vicino ai Chiofaliani ed avesse svolto la funzione di sorvegliare i movimenti di “Carrabedda” nel periodo precedente la sua uccisione”. Sofia fu condotto in una chiesa abbandonata nelle campagne di Novara di Sicilia, dove fu finito con un colpo di pistola calibro 7.65 sparatogli in fronte. Il corpo fu poi occultato nel greto del torrente Mazzarrà, in quello che per anni è stato il cimitero della mafia locale. Il 21 maggio del 1992 fu la volta del falegname Angelo Squatrito a cadere vittima di un agguato mafioso mentre si trovava al lavoro a Terme Vigliatore. Domenico Tramontana (grande estortore- gestore di bar e ristoranti a Portorosa, poi assassinato il 4 giugno 2001) e Filippo Barresi, al tempo latitanti, lo avevano scambiato per errore per Nicolino Amante, un amico di Lorenzo Chiofalo, il figlio di don Pino. Il destino di Amante era tuttavia segnato: verrà assassinato in pieno centro a Falcone diciassette giorni dopo.


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Il 5 marzo 1996, ad essere ucciso sul lungomare cittadino, fu il barcellonese Felice Iannello, precedenti per truffa e ricettazione e imputato in un procedimento per furto a un deposito di acque minerali. E originari di Falcone furono pure due vittime di lupara bianca: Francesco Micari, fatto sparire la notte del 12 febbraio 1991 e Vincenzo Bertilone, scomparso il 16 maggio 1996. Il conflitto modificherà l’organigramma delle cosche locali sino a consacrare leader Santo Gullo. Fu Pino Chiofalo, nei primi anni ’90, a rivelare agli inquirenti l’importanza assunta dal malavitoso falconese. “C’era la guerra di mafia con i barcellonesi e il nostro clan necessitava sempre più di armi efficienti e di qualità. Fu quindi per tale ragione che ci portammo a Lesa, in provincia di Novara, dove risiedeva Filippo Barresi. Costui era in stretti rapporti con un tale che risiedendo in quelle zone, era ben introdotto nel giro del grande traffico di armi dalla Svizzera e da altri paesi europei. Stretti rapporti con Cattafi Costui è originario di Falcone ed è in stretti rapporti con Rosario Cattafi personaggio tra i più influenti nel grande traffico di armi e di valuta, dedito al riciclaggio di denaro a livello internazionale… Se mal non ricordo tale persona si chiama Santino Gullo e nel suo paese d’origine espletava l’attività di lattoniere. So che lo stesso mantiene frequenti contatti con personaggi malavitosi del milanese ove per frequenti periodi ha anche abitato”. Gullo era legato pure al boss Domenico Tramontana, insieme a cui fu arrestato nel 1997 per una serie di atti estorsivi perpetrati ai danni dei gestori del cantiere navale e della piscina di Portorosa. Condannato in primo grado a 8 anni di reclusione al processo scaturito dall’operazione “Pozzo” e poi assolto in appello, da qualche mese Santo Gullo ha scelto di collaborare con la giustizia. “Ho militato nel gruppo dei mazzarroti e ho commesso una lunga serie di estorsioni ed omicidi”, ha ammesso. “Io ero il responsabile di Falcone e Oliveri e mi relazionavo con il mafioso barcellonese Carmelo D’Amico”. Gullo ha pure parlato dei suoi rapporti criminali con il boss di Mazzarrà, Tindaro Calabrese, e dell’appoggio di quest’ultimo alla la-

titanza a Portorosa dei palermitani Salvatore e Alessandro Lo Piccolo, i luogotenenti di Bernardo Provenzano poi finiti in manette nel novembre 2007. A sostituire Gullo a capo delle cosche operanti tra Patti, Montalbano, Falcone e Oliveri, secondo quanto raccontato da Carmelo Bisognano, ci sarebbe oggi Salvatore Calcò Labruzzo, un allevatore originario di Tortorici, ma residente – sino al suo arresto nel giugno 2011 - nella frazione Belvedere di Falcone. “Costui ha due figli, uno di nome Antonino, di professione veterinario, l’altro di nome Francesco, che dovrebbe svolgere la professione di ballerino”, ha raccontato Bisognano. Estorsioni e attentati “Anche Salvatore Calcò Labruzzo è stato organico al gruppo dei mazzarroti dal 1989, quando era ancora in vita Giuseppe Trifirò, detto “Carebbedda”. Quando sono uscito dal carcere, mi sono accorto che anche costui era in una posizione apicale e si occupava in particolare di estorsioni, attentati, contatti con i pubblici amministratori. Gullo e Calcò Labruzzo abitavano e operavano nel medesimo territorio ed erano da sempre in buoni rapporti. Dunque è stato del tutto naturale che, una volta che Gullo fu arrestato, il secondo abbia preso il suo posto”. Bisognano ha pure accennato alle frequentazioni del tortoriciano con i referenti di punta dei mazzarroti, Tindaro Calabrese e Ignazio Artino: “Calcò Labruzzo è in posizione sostanzialmente paritaria con Artino. So che spesso i due si consigliano e che hanno sempre avuto dei buoni rapporti e li hanno tuttora. Si sono suddivisi il territorio. Volendo fare un esempio, per ciò che riguarda il campo dell’eolico, Artino si occupa della messa a posto nei confronti della società Maltauro tramite un ingegnere originario di Montalbano, il quale si è occupato degli espropri. Salvatore Calcò Labruzzo, invece, si occupa della messa a posto nei confronti delle imprese Cannizzo e Gullino, che operano sempre nell’eolico, in regime di subappalto nei confronti della Maltauro”. L’attivismo di Calcò Labruzzo nel settore del racket è stato rilevato dalla recente inchiesta “Gotha” sullo strapotere delle

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“L'imprenditore barcellonese Rotella” cosche della fascia tirrenica della provincia di Messina. Secondo gli inquirenti, in concorso con Enrico Fumia, cognato di Carmelo Bisognano, nella primavera del 2008 egli avrebbe imposto il pizzo alla Italsystem Srl di Petralia Sottana, impegnata nei lavori di consolidamento della strada statale 113, nel tratto tra Patti e Falcone. Il presunto boss si sarebbe pure interessato al grande affaire dello smaltimento dei rifiuti. Secondo quanto riferito dal collaboratore Santo Gullo, fu proprio grazie a Salvatore Calcò Labruzzo che intorno al 2000 egli entrò in contatto con l’imprenditore barcellonese Michele Rotella, padre-padrone dei lavori nella megadiscarica dei rifiuti di Mazzarrà Sant’Andrea, condannato qualche mese fa al processo “Vivaio” a 12 anni per associazione mafiosa. “Calcò Labruzzo mi spiegò che Rotella era un amico in tutto e per tutto”, ha raccontato Gullo. Ma stando a Carmelo Bisognano, Santo Gullo e Calcò Labruzzo avevano posto sotto estorsione anche le aziende interessate ai lavori di un’altra importante discarica di rifiuti, quella di contrada Formaggiara, Tripi. A Falcone, però, si sospetta che Salvatore Calcò Labruzzo possa aver condizionato pure l’esito delle elezioni comunali del 29 e 30 maggio 2011, che hanno riconfermato sindaco l’avvocato Santi Cirella (ex An e Forza Italia, poi Mpa), con una coalizione di ex socialisti, Pdl e Udc (corrente del sen. Giampiero D’Alia). Ha condizionato le elezioni? È di questo avviso il candidato a sindaco sconfitto, il bancario Marco Filiti, presidente del Comitato Rinascita Falconese, sostenuto elettoralmente da Sel, Fli ed ex Pdl. E lo sono pure i consiglieri del gruppo d’opposizione Falcone città futura che in un documento inviato il 3 agosto 2011 al Ministero degli interni e al Prefetto di Messina, affermano che “da notizie di stampa maturate a seguito di indagini giudiziarie, si è avuta conferma che elementi che hanno partecipato attivamente e fattivamente alla determinazione dell’esito elettorale amministrativo, risultano coinvolti in tali fatti criminali”. Malavitosi, per lo più sconosciuti agli ambienti falconesi, avrebbero percorso il paese, casa per casa, per fare incetta di voti. Alcuni di essi sarebbero stati successivamente riconosciuti nei volti


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comparsi sui giornali del 25 giugno 2011, con gli arresti delle operazioni antimafia “Gotha” e “Pozzo 2”. “Durante i giorni della campagna elettorale - dichiara Marco Filiti - ho personalmente segnalato sia alla locale Stazione dei Carabinieri di Falcone che alla Questura di Barcellona, il ripetersi di atti vandalici e intimidatori nei nostri confronti, con il danneggiamento sistematico del nostro materiale elettorale e con la comparsa di scritte ingiuriose sui nostri manifesti: il tutto è evidentemente verificabile dagli atti depositati”. A destare inquietudine, poi, la vicenda di Maria Calcò Labruzzo, nipote di Salvatore Calcò Labruzzo (è figlia del fratello, anch’esso allevatore), da anni residente a Milano, ma candidatasi con successo alle amministrative in una lista pro-Cirella. Con ben 159 presenze, è risultata la consigliere comunale più votata di tutti i 36 candidati delle tre liste partecipanti. In paese c’è chi ricorda come Maria Calcò Labruzzo abbia fatto da madrina al battesimo della figlioletta di uno dei figli di don Salvatore. Il di lei fratello, Antonio Calcò Labruzzo, il giorno del suo matrimonio, fu invece accompagnato all’altare dalla moglie del boss. I lavori per il Comune “Il fratello di Maria Calcò Labruzzo è pure titolare di una ditta che sino a pochi mesi prima le elezioni è stata beneficiaria di più determinazioni per svariati interventi sul territorio comunale”, ricorda Rinascita Falconese. Alla stessa azienda furono affidati direttamente i lavori di ripristino della vecchia strada a mare per circa 60.000 euro, tra i primi provvedimenti adottati nel 2006 dall’allora neosindaco Cirella. Parte delle opere vennero però eseguite dall’imprenditore di Castroreale, Salvatore Campanino, cognato del consigliere comunale di maggioranza Francesco Paratore (ha sposato la sorella). Il Campanino ha pure eseguito i lavori di demolizione di alcuni fabbricati fatiscenti, affidati per somma urgenza (valore 31.000 euro) alla cooperativa “Aurora” e di cui sarebbero soci alcuni familiari dei Calcò. Per la cronaca, Salvatore Campanino è stato condannato a 8 anni di reclusione al processo “Vivaio” contro le organizzazioni criminali operanti tra Barcellona, Terme Vigliatore e Mazzarrà Sant’Andrea, mentre compare tra gli indagati eccellenti del

recentissimo procedimento “Gotha3”, insieme al boss dei boss Rosario Pio Cattafi, Salvatore Calcò Labruzzo, Tindaro Calabrese, ecc. ecc. Il sindaco Santi Cirella respinge ogni addebito. “Del presunto clima elettorale inquinato, i consiglieri di minoranza non hanno fatto riferimento alcuno né in campagna elettorale, né tantomeno nella fase post elettorale”, spiega nella querela presentata contro gli estensori del documento pubblico. “Lo stesso Filiti, nel suo blog, ha ringraziato la cittadinanza per l’alto senso civico che ha consentito il regolare svolgimento delle elezioni. Ed è comunque destituito di qualsivoglia fondamento che l’elezione della signorina Maria Calcò Labruzzo sia stata determinata da interventi esterni. Persona dotata di alto senso civico, è dottoressa in giurisprudenza, laureata all’Università Bocconi di Milano, ha superato gli esami per l’abilitazione alla professione di avvocato e intende cimentarsi nel concorso in magistratura”. Per Cirella, la “gestione della cosa pubblica è stata, sempre, caratterizzata dal massimo rispetto delle norme e ispirata ai principi di legalità e trasparenza”. “La passata amministrazione - aggiunge - si è contraddistinta per aver assunto provvedimenti contro la criminalità organizzata, quali l’adesione nel 2007 al protocollo di legalità Carlo Alberto dalla Chiesa. L’attuale, invece, come primo atto ufficiale, ha disposto che la cosiddetta informativa antimafia sia estesa a tutte le gare ad evidenza pubblica, qualunque sa l’importo delle stesse”. Rinascita Falconese non è d’accordo e segnala la possibilità di un conflitto d’interessi tra l’amministrazione e l’attività di uno dei maggiori imprenditori di Falcone, Sebastiano Sofia. “Dagli atti delle inchieste in corso emerge con evidenza il ruolo del Bisognano nel favorire l’assegnazione ad imprenditori amici delle opere di metanizzazione nei comuni del comprensorio: e proprio in quegli anni il Sofia Sebastiano eseguì tali interventi non solo

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“L'amicizia con assessori e consiglieri” a Falcone, ma anche in altri paesi vicini” sottolinea Marco Filiti. Dopo le elezioni amministrative del 2011, il figlio, Giuseppe Sofia, è stato nominato assessore comunale. “Durante la prima legislatura dell’avvocato Cirella, i più stretti congiunti del Sofia hanno ricevuto alcune concessioni edilizie, una delle quali, nel febbraio 2009, su una porzione di territorio collinare della frazione Sant’Anna dichiarata a rischio di dissesto idrogeologico ed, appena tre mesi prima, evacuata nei giorni dell’alluvione del dicembre 2008”, segnala Rinascita Falconese. Alla ditta dei Sofia sono stati affidati pure i lavori di realizzazione del cosiddetto lungomare per la somma di circa 125.000 euro, circostanza oggetto di denuncia di nove consiglieri nella scorsa legislatura. “È inoltre notoria l’amicizia di Sebastiano Sofia con consiglieri e assessori comunali”, aggiunge il comitato. Alcune foto della scorsa primavera, postate su facebook, ritraggono in posa e sorridenti il costruttore accanto al padre e al fratello della neoconsigliere Maria Calcò Labruzzo e all’assessore in carica Giuseppe Battaglia (delega allo sport, turismo, spettacolo, commercio, settori produttivi, sviluppo economico ed occupazione), ex vicepresidente del consiglio comunale di Falcone. “Ad occuparsi degli appalti...” A gettare ombre sulla gestione delle opere pubbliche ci sono pure i collaboratori di giustizia. Deponendo al processo d’appello “Sistema” sul tavolino mafioso degli appalti nel barcellonese, Santo Gullo si è soffermato sulle modalità con cui le imprese di fiducia dei clan vincevano le gare nei “comuni di riferimento” di Oliveri, Falcone e Mazzarrà. “Parlavano col tecnico, si mettevano d’accordo con lui… quando non c’era il tecnico si portavano tante buste e chi vinceva lo dava in subappalto. Poi si facevano regali sostanziosi ai tecnici comunali”. Ancora più esplicito l’ex boss Carmelo Bisognano al processo “Vivaio”. “Ad occuparci degli appalti eravamo io e i barcellonesi Sem Di Salvo e Maurizio Marchetta - ha raccontato - Per pilotare alcune gare, si avvicinavano alcuni funzionari pubblici, come i capi degli uffici tecnici di Falcone, tale Fugazzotto e di Mazzarrà Sant’Andrea, geometra Roberto Ravidà”.


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E sempre relativamente ad Antonio Fugazzotto, responsabile dell’ufficio tecnico di Falcone dalla seconda metà degli anni ’70, Bisognano ricorda di averlo raggiunto in ufficio, intorno al 2000, per discutere dell’appalto dei lavori di canalizzazione delle acque. “Chi doveva vincere l'appalto” “Mi sedetti di fronte la sua scrivania e gli dissi senza mezzi termini che l’appalto doveva essere vinto dall’impresa Mastroeni Carmelo, riconducibile alla famiglia barcellonese ed a Sem Di Salvo che mi diede l’incarico di andare dal tecnico comunale. Ovviamente Fugazzotto acconsentì alla mia richiesta perché conosceva la mia fama di personaggio autorevole sul territorio”. Gli inquirenti hanno potuto verificare che la gara per il rifacimento dei torrenti venne vinta nell’agosto 2002 dall’associazione temporanea tra le imprese barcellonesi N.C.S. Costruzioni sas (di proprietà di Santa Ofria, moglie del mafioso Sem Di Salvo) e CO.GE.CAL. srl, con un ribasso di appena lo 0,2% sull’importo di gara di 471.000 euro. I lavori vennero poi affidati alla Sud Edil Scavi Srl di Merì, rappresentata da Carmelo Mastroeni, a seguito delle rinunce delle aziende vincitrici e dopo che la stessa N.C.S. era stata rilevata dalla CODIM srl di Barcellona Pozzo di Gotto, nella titolarità di Rosa Carpone, moglie di Carmelo Mastroeni. Imprenditore “contiguo ai mafiosi” “Dopo una prima fase di attrito col sindaco Cirella in cui venne esautorato con la nomina a responsabile di un tecnico esterno, dopo la tragica alluvione che colpì Falcone nel 2008, il geometra Fugazzotto è tornato a fare da regista degli interventi che le imprese hanno messo in opera durante e dopo l’emergenza alluvionale”, spiega Marco Filiti. La tragedia fu trasformata da alcune aziende contigue alla criminalità organizzata in occasione per moltiplicare gli affari. Qualche lavoro finì nelle mani dell’immancabile Salvatore Campanino (anch’egli arrestato nell’ambito dell’operazione “Gotha3”) o dell’imprenditore barcellonese Carmelo Trifirò, finito anch’egli in carcere per associazione mafiosa, ma ciò, secondo il Comitato Rinascita Falconese, “non avrebbe impedito all’attuale amministra-

zione di liquidargli le somme richieste per gli interventi emergenziali”. Nell’ambito dell’inchiesta “Torrente” gli investigatori hanno avuto modo di accertare che in data 18 dicembre 2008, anche la ditta individuale facente capo a Nunzio Siragusano è stata assegnataria dell’esecuzione di lavori di somma urgenza. Nelle carte dei magistrati, l’imprenditore viene definito “soggetto dai numerosi precedenti giudiziari sofferti” e dall’“acclarata contiguità alla consorteria storicamente retta da Bisognano Carmelo”. La loggia massonica “Ausonia” L’ultima sorpresa nel piccolo comune tirrenico sa di squadrette, compassi, cappucci e grandi architetti dell’universo. L’odierno vicesindaco di Falcone, Pietro Bottiglieri, è risultato appartenere infatti alla loggia massonica “Ausonia” di Barcellona Pozzo di Gotto, sotto inchiesta dal 2009 per presunta violazione della legge “Spadolini-Anselmi” che vieta la costituzione di associazioni segrete. “Gli obiettivi che si prefiggono non appaiono riconducibili alla conduzione di studi filosofici ed approfondimenti culturali bensì all’acquisizione ed al consolidamento di posizioni di vertice, nei contesti professionali e lavorativi in cui operano, ed incarichi presso strutture sanitarie che forniscono un bacino elettorale a cui attingere di volta in volta nelle competizioni amministrative e politiche, dietro cui staglierebbe, quale promotore e artefice ideatore, la figura del senatore Domenico Nania”, scrivono i magistrati della DDA di Messina nella richiesta di autorizzazione alla perquisizione della superloggia. Pietro Bottiglieri, dopo aver prestato servizio trentennale quale ragioniere del Comune di Falcone, ha espletato il ruolo di esperto contabile nei Comuni di Terme Vigliatore e Furnari (entrambi poi sciolti per infiltrazioni mafiose). Infine l’ingresso nella politica attiva, prima da candidato

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“I soldi? Sempre alla stessa famiglia” a sindaco di Falcone nel 2006 e, dopo la sconfitta, da assessore della prima giunta diretta da Cirella. Con le amministrative 2011, Bottiglieri è divenuto il braccio destro del sindaco rieletto. Ciò nonostante sia divenuta pubblica la deposizione di Santo Gullo su un intervento del barcellonese Carmelo Messina, presunto affiliato al gruppo di Carmelo D’Amico, per comporre un rapporto estorsivo che le cosche locali intendevano imporre alla tabaccheria di proprietà dell’odierno amministratore. “Nel 1995 io ed il Calcò Labruzzo abbiamo avvicinato Pietro Bottiglieri”, ha esordito Gullo. “Egli temporeggiò e contattò tale Mida Nunzio, soggetto che si occupava di estorsioni ed amico dei fratelli Ofria… Sem Di Salvo contattò Carmelo Messina e gli disse di comunicare al Bottiglieri di pagare a me ed a Calcò Labruzzo, dal momento che era sempre la stessa cosa. Ricordo che Di Salvo disse o a Barcellona o a Falcone non cambia niente, tanto i soldi vanno a finire sempre alla stessa famiglia”. “Proprio quest’ultima circostanza evidenzia in maniera inconfutabile che all’interno della coalizione a sostegno del Cirella c’è chi è pienamente consapevole del ruolo di primo piano del Calcò nell’ambito della malavita organizzata” sottolinea Rinascita Falconese. Come nella vicina Barcellona “Abbiamo chiesto all’on. Rita Borsellino di sollecitare il Prefetto di Messina ad attenzionare con urgenza la vita amministrativa della cittadina”, spiega il presidente. “L’europarlamentare ci ha assicurato che il caso-Falcone verrà inserito nel quadro delle iniziative di Sicilia bene comune. L’unico modo per sottrarre il Comune alla cappa asfissiante sotto cui attualmente giace è quella di procedere, nel minor tempo possibile, all’invio di una Commissione prefettizia che accerti le condizioni per lo scioglimento del consiglio comunale e la decadenza dell’attuale sindaco per evidenti e costanti infiltrazioni di stampo mafioso nella gestione dell’amministrazione pubblica”. Con la speranza che a Falcone non si ripeta quanto accaduto nella vicina Barcellona Pozzo di Gotto, due volte graziata dal Governo in meno di cinque anni, nonostante i gravissimi rilievi delle commissioni prefettizie d’inchiesta.


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Sicilia/ Business discariche

La collina della munnizza C'è una discarica vicinissima al paese di Furnari (Messina). Chiuderla? Quando mai. Troppi interessi in gioco di Carmelo Catania

La storia di Furnari, piccolo centro collinare della provincia di Messina, a prevalente economia agro-turistica è un esempio di come il diritto a vivere in un ambiente sano sia stato ripetutamente violato e sacrificato sull'altare del dio denaro a tutto vantaggio del business delle discariche in mano a pochi signori dei rifiuti. Il paese, che conta all'incirca quattromila anime, da oltre un decennio vive sotto la minaccia di una discarica. Più o meno controllata, è allestita su di un sito alluvionale imbrifero a ridosso di un torrente, che negli anni si è mangiata un'intera collina stravolgendo l'assetto del territorio – un tempo fiore all'occhiello dell'agricoltura locale – spazzando via uliveti, vivai e campi di rose per far posto a tonnellate di munnizza (spazzatura in dialetto) seppellita senza proteggere l'ambiente o lasciata scoperta per giorni. La discarica, ubicata in contrada Zuppà al confine tra Furnari e Mazzarrà Sant'Andrea, insiste prevalentemente e amministrativamente sul territorio di quest'ultimo, ma le sue conseguenze nefaste si riversano sul territorio e sugli abitanti furnaresi che da anni sono costretti a convivere con i miasmi.

Essi si sprigionano dagli invasi per via delle perdite continue di biogas e con il costante rischio di inquinamento da percolato delle falde acquifere. Infatti è da sottolineare come le condotte di approvvigionamento del civico acquedotto di Furnari passano proprio sotto l'attuale invaso della discarica. Era una discarica “temporanea” Il sito nato nel lontano 2001 - su iniziativa dell'allora sindaco mazzarrese Sebastiano Giambò - come discarica comprensoriale e temporanea, per sopperire alle esigenze di soli sette comuni, complice uno stato di “continua emergenza” rifiuti e con l'avallo delle pubbliche istituzioni che hanno sempre trovato molto più comodo continuare a mantenere in vita una discarica che non sarebbe mai dovuta nascere, tra autorizzazioni “stabilmente provvisorie”, proroghe e sopraelevazioni è invece cresciuta fino a diventare la più grande e l'unica discarica operativa dell'intera provincia di Messina. Solo nel 2009 a Mazzarrà sono state smaltite 261.093 tonnellate di rifiuti a fronte delle 333.472 prodotte nello stesso anno nel territorio provinciale. Nel recente passato (2010) qui è stata stoccata anche la spazzatura proveniente dagli impianti di Tufino e Gigliano in Campania, in violazione delle leggi vigenti e con buona pace delle preposte istituzioni regionali e provinciali. La sua gestione, inizialmente esercitata dal Comune di Mazzarrà Sant'Andrea, nel 2002 è passata ad una società a capitale misto pubblico-privato, la Tirrenoambiente, che è la protagonista assoluta di questa storia: una società diventata monopolista per caso perché ha scelto di investire nei rifiuti e ha fatto fortuna, tenendo in pugno, di fatto, le varie amministrazioni comunali, provinciali e regionali che si sono avvicendate nel tempo e che non hanno mai fatto nulla per rimediare allo scempio.

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Società che in più di un'occasione è finita sotto i riflettori della magistratura tra accuse di conflitti di interessi e rapporti sospetti con esponenti mafiosi, ed è stata oggetto di diverse interrogazioni parlamentari (Di Pietro, De Toni e Fava). Il suo capitale sociale (2.065.840 euro) è detenuto per il 45 per cento dal comune di Mazzarrà Sant'Andrea. Tra i privati, che messi insieme arrivano al 49 per cento, le quote maggiori sono detenute dalla Ederambiente (21 per cento), dalla Secit e dalla Gesenu (entrambe con il 10 per cento). Le altre quote private sono detenute dalla Ecodeco, San Germano, Cornacchini, Themis e Bioener, società che forniscono il know how necessario. In particolare, il know how fornito da Ederambiente e Gesenu è stato quello della raccolta e del trasporto dei rifiuti, lavoro che hanno svolto fino al 2010 proprio nell'ambito di riferimento dell'impianto (ATO ME 2). Chi raccoglie socio di chi smaltisce In pratica, chi ha raccolto la munnizza è socio della discarica che li ha smaltiti: un intreccio che lascia spazio a conflitti di interessi, secondo Legambiente Sicilia e la Commissione bicamerale per gli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti. La stessa Commissione si è occupata della società mista e della sua discarica anche a seguito dell'avvio dell'inchiesta Vivaio condotta dalla Procura della Repubblica di Messina. Qui, si legge nella relazione della commissione, «sarebbe emersa una sorta di gestione non ufficiale da parte della mafia barcellonese, e in particolare da parte della famiglia mafiosa di Mazzarrà Sant'Andrea». L'inchiesta ha coinvolto i vertici della Tirrenoambiente e il 28 marzo nella sentenza di primo grado del processo Vivaio alla mafia delle discariche, tra gli altri, è stato condannato a 14 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa anche l'ex presidente (dimessosi


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proprio in seguito al suo coinvolgimento nell'indagine), Sebastiano Giambò. Ciò non ha tuttavia impedito alla società di ottenere ben due autorizzazioni – rilasciate dalla Regione Siciliana (2007 e 2009) - all'allargamento dell'impianto fino a una capacità d'abbancamento di 1.720.000 metri cubi di spazzatura, che tradotta in introiti potrebbe portare un incasso complessivo superiore ai 130 milioni di euro. Un business molto redditizio per la Tirrenoambiente. Solo nel 2011 dalle sue molteplici attività (abbancamento dei rifiuti, produzione di energia elettrica da fotovoltaico e combustione di biogas, ecc.) si sono ottenuti ricavi netti superiori ai 31 milioni di euro (con un incremento di oltre 10 milioni rispetto all’anno precedente), che hanno consentito ai soci (pubblici e privati) di spartirsi circa un milione di euro di dividendi. Gli “accordi transattivi” Rosee le previsioni per l’anno in corso, infatti grazie ai numerosi “accordi transattivi” «sottoscritti» con i singoli comuni, la società mista prevede di recuperare «crediti pregressi di rilevante entità», con la Regione siciliana che nei primi mesi del 2012 «ha erogato una somma pari al 15% del credito vantato nei confronti della spa Ato Me 2 (ammontante a oltre 30 milioni di euro)». Inoltre, è in dirittura d’arrivo il completamento di due nuovi impianti che trasformeranno il sito di contrada Zuppà nel più grande polo industriale dei rifiuti della regione. Proseguono infatti i lavori per la realizzazione dell’impianto di biodigestione anaerobica e biostabilizzazione dei rifiuti. Secondo quanto riportato nella relazione di bilancio 2011 della società proprietaria della discarica, «sono in fase di ultimazione i lavori dei cementi armati affidati alla ditta Co.Gedis di Messina»,

mentre la Sicep (affidataria dell’appalto) si occuperà del «montaggio della struttura prefabbricata». L’opera – i cui lavori erano stati autorizzati dalla Regione Siciliana nel lontano 2009 – dovrebbe entrare in esercizio «prima del termine del corrente anno». Il trattamento dei percolati Sempre secondo la citata relazione, per l’inizio del prossimo mese di agosto è previsto il collaudo dell’«impianto di trattamento dei percolati (la cui autorizzazione risale addirittura al 2006). prodotti dalle discariche di Mazzarrà Sant’Andrea e Tripi», che dovrebbe smaltire un volume pari a 50 mc giornalieri, ma a quanto pare, sarà richiesta l’autorizzazione ad un ulteriore ampliamento di 200 mc/giorno. Un notevole risparmio di costi per la società mista che attualmente smaltisce il percolato inviandolo su gomma a Gioia Tauro, senza considerare l’ipotesi – tutt’altro che inverosimile – che la stessa Tirrenoambiente potrebbe mettere a disposizione il nuovo impianto (che verrebbe ad essere l’unico siciliano) al servizio di altre discariche, incrementando in tal modo il giro d’affari dei signori dei rifiuti. Oltre ad essere stata coinvolta in fatti di mafia, bisogna aggiungere che per i carabinieri del Noe di Catania e la procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto (ME) – titolare di più di un'indagine sulla gestione dell'invaso di Mazzarrà – i vertici della Tirrenoambiente avrebbero tralasciato di rispettare tutte le leggi in materia (l’ex presidente del Cda Giambò e l’Ad Innocenti sono imputati, in concorso, per interruzione di pubblico servizio e per avere omesso di predisporre strumenti idonei alla captazione del biogas, le cui esalazioni hanno arrecato danni e molestie alla popolazione di Furnari; per l’Ad Innocenti è stata inoltre disposta l’imputazione coatta per il reato

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ambientale di gestione di rifiuti non autorizzata; mancanza di autorizzazione per la realizzazione degli impianti per la produzione di energia dal biogas, sequestrati recentemente dai carabinieri del Noe) e quindi legittimamente non possiamo non porci il dubbio se, di fatto, oggi, contrada Zuppà non sia una discarica illegale. Non bisogna difatti dimenticare che la direttiva europea 1999/31 CE, recepita tardivamente - in Italia con il decreto legislativo 36/2003 e la cui applicazione è stata rimandata di anno in anno fino al luglio 2009, proprio con l'intento di ridurre i rischi connessi alle discariche, impone lo smaltimento in discarica solo dei rifiuti trattati e non dell'indifferenziato che in Sicilia costituisce ancora il 90% dei rifiuti conferiti e dove il sistema della raccolta differenziata stenta a partire perché condizionato dal conflitto di interessi di chi, come la Tirrenoambiente e i suoi soci, gestisce raccolta dei rifiuti, raccolta differenziata, discariche e impianti per il recupero dell'energia. Soldi pubblici e inquinamento Lo stato deve garantire ai suoi cittadini il diritto a vivere in un ambiente sano e ha l'obbligo di gestire in maniera virtuosa il ciclo dei rifiuti. Lo dice la sentenza (10 gennaio 2012) della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha condannato l'Italia per la malagestione dell'emergenza rifiuti in Campania dal 1994 in poi. Ancora una volta l'Europa sanziona vent'anni di politiche italiane dei rifiuti che hanno avuto come prevalente filo conduttore la costruzione di impianti di incenerimento – i quali aggiungono al danno per la salute dei cittadini anche la beffa dell'essere stati finanziati con i soldi pubblici tramite lo scandalo della truffa dei Cip6 – e apertura di nuove discariche. Un sistema, questo, dietro cui si celano conflitti di interesse e intrecci più che sospetti con la mafia.


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Sicilia/ In pericolo la spiaggia di Torrazza

La guerra fra il cemento e il mare Petrosino: una piccola cittadina sul mare, terra d'emigrazzione. Ha un'unica ricchezza: la bellissima spiaggia, il cristallo del mare... di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it Pietro ha 49 anni, è partito dalla Sicilia appena trentenne per il Veneto. Ogni estate torna nella sua città natale, Petrosino, in provincia di Trapani, a passare le vacanze. Lucia ha una bambina di 6 anni, Giulia, le sta insegnando a nuotare dove ha imparato lei da piccola, a Torrazza. Franco e Mirella sono pensionati. Stanno in Emilia Romagna, ma i vecchi amici e i parenti sono rimasti qui, a Petrosino. Quando possono tornano, per le vecchie compagnie e per andare al mare. Per andare a Torrazza. È una piccola cittadina sul mare, Petrosino. Si trova a metà strada tra Marsala e Mazara del Vallo, nella punta estrema della Sicilia occidentale. Come tutti i piccoli centri siciliani soffre di una grande emigrazione giovanile. Non ci sono industrie. Ma produce tanto vino. La più alta quantità di vino per abitante di tutto il Paese. E poi c’è Torrazza. Una spiaggia non molto grande. 800 metri di lunghezza. Ai turisti piace molto però. Il mare è cristallino. La sabbia fine. Più al largo i fondali sono unici. Ma Torrazza non è solo la spiaggia. L’arenile è solo una parte di una zona molto più ampia e di grande importanza ambientale a livello internazionale.

È una zona Sic – Zps, ossia Sito d’interesse comunitario e Zona a protezione speciale. La spiaggia in sostanza fa parte di una vasta area umida di interesse comunitario. È stabilito dalla Convenzione Ramsar. La zona in questione è la ''Laghi Murana, Preola e Gorghi Tondi, Stagno di Pantano Leone, paludi costiere di Capo Feto e Margi Spanò'' e ricade nei comuni di Petrosino e Mazara del Vallo. Secondo un decreto del Ministero dell’Ambiente la zona “rappresenta un complesso ambientale significativo e peculiare per la conservazione di molte entità animali”. Per chi vi si avventura può trovare, dipende dalle stagioni, anatre selvatiche, tartarughe, fenicotteri e altri esemplari. Un piccolo paradiso. In una costa, quella che da Marsala arriva a Castelvetrano, violentata negli anni dal cemento selvaggio. La storia di Torrazza è quella di una comunità legata ad un territorio. Ma è anche una storia di negligenze, di furberie. Di come le amministrazioni negli anni se ne siano fregate di quello che succede in un posto così particolare. Di come questo posto possa essere comprato. Rischia di non essere più di Franco, Mirella, Pietro. Neanche della piccola Giulia. E sarebbe una zona protetta E dire che stiamo parlando di una zona protetta. Succede spesso, infatti, che posti come questi non vengano valorizzati. Che vengono lasciati in preda agli scalmanati guastatori ambientali. Ogni tanto nell’area protetta dei cosiddetti Margi, alle spalle della spiaggia, spuntano piccole discariche abusive. E la spiaggia, piccola com’è ha subito anche lei i suoi scempi. Proprio in mezzo c’è un catafalco in cemento. Quello che resta di una casa, dall’orrendo design, costruita con regolare concessione nei primi anni ‘80. Recintata, murata e abbandonata. Appartiene al notaio Eugenio Galfano, ex

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sindaco di Marsala. L’ha ereditata dal suocero, il notaio La Francesca. È un pugno in un occhio e nessuno ha mai pensato di demolirla. Anche perché, per quella specie di casa, sono stati richiesti dei finanziamenti per la ricostruzione post-terremoto del Belice. Incredibile. A pochi metri c’è un’altra casa. È bianca, con le persiane azzurre, le palme ed il prato verde. Roba da cartoni animati. Costruita proprio sulla spiaggia, nel 2003. È di Antonio Vanella. Faceva parte del Pd di Petrosino. Suo fratello Andrea si è candidato a sindaco alle ultime amministrative, senza molta fortuna. La sua casa sulla spiaggia, Antonio Vanella, se l’è costruita quando era presidente del Consiglio comunale, con tutti i pareri e le autorizzazioni necessarie. Nel 2007 arriva un nuovo sindaco, Biagio Valenti. Decide di cambiare tutto all’interno degli uffici. Allontana dall’Ufficio tecnico il dirigente Pietro Giacalone, più volte sotto processo per abuso d’ufficio, è stato anche condannato a 10 mesi di carcere per aver rilasciato illegalmente una concessione edilizia. Valenti dà mandato ai suoi assessori di controllare tutte le carte del Comune. Si scopre che per la casa di Vanella il Comune aveva rilasciato la concessione edilizia senza chiedere la Valutazione d’impatto ambientale. E hai detto poco. Ma il più deve ancora venire. Negli ultimi dieci anni, in tutta Italia, il numero degli stabilimenti balneari in quelle che erano spiagge libere è più che raddoppiato. Petrosino non fa eccezione. L’area protetta di Torrazza fa gola. La spiaggia, come dicevamo, è piccola e suggestiva. E rischia di non essere più pubblica. C’è un imprenditore di Marsala che si chiama Michele Licata. È proprietario delle maggiori strutture ricettive della zona: il Delfino, il Delfino Beach Hotel, la Tenuta Volpara, il Baglio Basile. È uno degli imprenditori più attivi sul territorio.


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Tutto inizia circa tre anni fa. Con la sua società, la Roof Garden Srl, Michele Licata inizia a comprare vari lotti di terreno che ricadono sulla zona protetta dei cosiddetti Margi e nella spiaggia di Torrazza. Racimola un’area di 18 ettari. Diventa praticamente proprietario di tre quarti della spiaggia. Già, la spiaggia diventa proprietà privata. Com’è possibile? Questo perché negli anni l’arenile ha subito un processo di erosione e si è via via rimpicciolito. Di conseguenza anche l’area demaniale, quella pubblica, è di fatto più stretta rispetto a quella documentata. Infatti sulla carta sono tracciati ancora i confini degli anni ‘40. Un megacomplesso turistico Cosa vuole farci Licata con tutta quell’area? Vuole creare un complesso turistico a ridosso della spiaggia per portarci i clienti del Baglio Basile che è poco distante dalla zona. Il primo progetto per costruire il lido la Roof Garden lo presenta al Comune di Petrosino a gennaio 2010. Qui iniziano le trafile. Prima il Comune blocca tutto. Poi rilascia un parere di “compatibilità urbanistica del progetto”. Che non è un’autorizzazione ad iniziare i lavori. Servono altri pareri. Tra cui quello della Soprintendenza ai Beni Culturali di Trapani che arriva nel febbraio 2011, nonostante la relazione della Roof Garden sia piena di errori. I progettisti di Licata scrivono che “non sussistono specie particolari di flora e fauna, né il terreno è luogo di nidificazione di specie animali particolari che possano subire mutazioni o danni dalla presenza dell’insediamento produttivo commerciale”. Insomma, secondo gli ingegneri, non esiste alcun impatto ambientale. Nonostante tutto sia la Soprintendenza che la Capitaneria di Porto di Trapani danno parere positivo per la costruzione del lido. La stessa cosa però non fa la Commissione Comunale per la valutazione di incidenza ambientale che sottolinea le carenze del progetto da sistemare. La Roof Garden rivede la relazione. Questa volta dal Comune arriva l’ok ma pone alcuni vincoli a Licata. Come la ricostruzione delle dune, il divieto di realizzare soste camper, la chiusura del traffico, il rispetto totale dell’originario ambiente

umido della zona. Ma ancora non arriva l’autorizzazione a costruire. Anche l’Assessorato regionale Territorio e Ambiente dice che quella è una zona protetta e che come tale deve essere trattata. Quindi ancora nessun via. Nonostante i vari stop le ruspe della Roof Garden accendono i motori. Iniziano i lavori. La prima cosa che fanno è spianare le dune. Quelle di Torrazza erano le uniche dune di sabbia ancora intatte in tutta la costa, adesso non ci sono più. Poi arano il terreno fin dentro la zona paludosa, livellando il tutto per impiantare il lido. I lavori durano poco, i vigili urbani infatti denunciano le irregolarità nel livellamento delle dune. Il cantiere viene prima sequestrato e poi dissequestrato. Il tutto nel giro di 10 giorni. I lavori possono ripartire, ma solo per le opere “non strutturali”. La Roof Garden integra il progetto specificando che si sta parlando di uno stabilimento balneare in struttura precaria. L’Assessorato regionale dà parere positivo e avanza altre richieste: gli ombrelloni non devono essere allineati, deve essere costruito il cannucciato per il birdwatching e il tutto deve essere rimosso entro il 30 settembre. I progettisti di Licata però non si fermano. Ad agosto 2011 la Roof Garden, che aspetta ancora l’approvazione del progetto per il lido, presenta un nuovo disegno. È qualcosa di molto grande. Licata ha 18 ettari e li vuole sfruttare tutti. E’ il progetto per un campo da golf, con nove buche e tre laghetti. Alle spalle spuntano anche delle villette a schiera e una grande struttura ricettiva. “Torrazza è di tutti” La gente di Petrosino rimane di stucco. Aspettavano la bonifica della zona di Torrazza da anni e adesso spunta questo mega progetto della Roof Garden che rischia di privatizzare la spiaggia con l’area dei Margi. I petrosileni si mobilitano. Nasce un comitato spontaneo di cittadini. Vogliono la spiaggia pubblica. Infatti si chiama “La spiaggia di Torrazza è di tutti”. Lanciano una petizione per riappropriarsi di quel pezzo di territorio, che poi è un pezzo di storia di tutti i petrosile-

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“La spiaggia diventa privata” ni. Firmano anche Dario Fo e Franca Rame. Raccolgono 2500 firme. Non si fermano i membri del Comitato, vogliono adottare la spiaggia. Farne un esempio di rispetto per l’ambiente. “Lasciatecela pubblica, la cureremo noi” dicono nelle diverse manifestazioni che organizzano. Ma soprattutto studiano il caso. Fanno controlli incrociati. Esaminano le caratteristiche della zona. Il Comitato fa in pratica quello che avrebbero dovuto fare gli enti pubblici preposti alla tutela dell’area. Constatano infatti che i confini dell’area demaniale tracciati sulla carta non sono più quelli reali. Il mare negli anni si è fatto sentire. Serve una nuova mappa della zona. Lo chiedono alla Capitaneria di Porto di Trapani con una documentazione dettagliatissima in cui si mostra come ciò che in senso anche giuridico si può definire spiaggia arriva fin dentro la proprietà di Michele Licata. 9000 metri quadrati di cemento Con la perimetrazione dell’area demaniale Torrazza può, anche a livello legale, essere considerata spiaggia e pertanto tutto ciò che ricade all’interno di quell’area diventa pubblico. Ma la Capitaneria risponde picche. La competenza per questo genere di cose spetta alla Regione, che è sempre molto lesta ad elargire nomine e ingrippata negli affari di interesse pubblico. Nel frattempo sempre più gente partecipa alle iniziative del Comitato che chiede all’allora sindaco Biagio Valenti di dare inizio all’iter per l’esproprio delle zone che ricadono sull’arenile. Arriva la primavera. A Torrazza è tutto fermo. Le dune non ci sono più. Valenti arriva alla fine del suo mandato senza aver avviato l’atto d’esproprio. Petrosino infatti è in fermento. A maggio si vota e sulla questione della spiaggia si gioca una partita determinante. Nei mesi che precedono le elezioni qualcuno avverte movimenti strani. C’è chi dice che Licata avesse già contattato delle figure professionali da inserire nel suo residence. Nel frattempo la Roof Garden ottiene una concessione edilizia per costruire due casolari in cemento armato all’interno della zona dei Margi. Vuole farci un opificio per prodotti caseari. 9000 metri quadrati di cemento nel bel mezzo della zona protetta dei Margi.


“Il nuovo sindaco ha bloccato tutto”

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Il nuovo sindaco di Petrosino è Gaspare Giacalone. Ha lasciato il posto da manager a Londra per amministrare la sua città natale. Il caso del giovane di successo che lascia tutto per tornare in Sicilia fa il giro d’Italia. Giacalone era anche uno dei promotori del Comitato per Torrazza. Ribadisce in campagna elettorale che la spiaggia deve essere di tutti. “Attenzione, noi non siamo contro l’iniziativa privata, ma questa deve essere fatta nel rispetto delle regole e dell’ambiente”. Con il suo movimento civico Giacalone stravince. Non ha il tempo di festeggiare però, gli fanno subito uno sgambetto senza precedenti. Il giorno della sua elezione, il 7 maggio scorso, l’ingegnere capo del Comune di Petrosino rilascia l’autorizzazione per la costruzione dello stabilimento balneare a Torrazza. Il provvedimento viene chiesto tre giorni prima, un venerdì. Una volta approvato viene consegnato direttamente nelle mani di Licata. Mai vista tanta efficienza. Autorizzazione sospesa La nuova giunta di Petrosino riprende in mano le carte della questione Torrazza. Sospende l’autorizzazione alla costruzione del lido per 15 giorni. Chiede ufficialmente alla Regione di rimisurare la spiaggia, avvia anche l’iter per l’esproprio dei lotti di terreno della Roof Garden che sono di interesse pubblico. Non è facile, le due settimane passano e la Regione ancora non risponde. E iniziano i lavori per il lido. Non ci credono i ragazzi del comitato. Occupano la spiaggia, la puliscono. Protestano. “Torrazza deve essere di tutti”. La nuova amministrazione e Licata si incontrano più volte. Tante parole ma poche soluzioni. La Roof Garden non cede la proprietà, propone addirittura di dare in comodato d’uso gratuito al Comune la parte di spiaggia che non gli serve. Inoltre, secondo quella concessione firmata il 7 maggio, il lido deve essere smontato al termine della stagione estiva. Ma la società vuole una struttura definitiva. “Io qui porto lavoro, mi sono impegnato anche a chiudere la strada per evitare che i bagnanti respirino smog”. E si scopre che la Roof Garden non vuole limitarsi solo a Torrazza. Che sarebbe interessata anche ad altre zone della costa. Infatti ha presentato un progetto al Ministero dello Sviluppo Economico per un finanziamento di 33

milioni di euro, che vede la realizzazione di un villaggio turistico appunto a Torrazza, un altro tra Biscione e Torre Sibiliana, e a Biesina. Tutte aree vicine. A sostegno della salvaguardia di Torrazza sono intervenuti anche Slow Food e Legambiente Sicilia, che ha mandato un esposto alla Procura della Repubblica di Marsala chiedendo che si faccia luce sulla poco chiara vicenda riguardante l’iter autorizzativo per la costruzione del lido. I punti oscuri del progetto Per gli ambientalisti i punti oscuri del progetto della Roof Garden sono tanti. Innanzitutto le strutture e le soluzioni proposte per la realizzazione del progetto “non hanno per nulla le caratteristiche necessarie e autorizzate di precarietà, smontabilità e stagionalità. Così come i lavori di supporto e propedeutico al loro montaggio. Siamo inoltre in presenza di un vero e proprio ristorante sulla spiaggia – scrive Legambiente - che viene descritto come stabilimento balneare”. Un altro aspetto poco chiaro evidenziato dagli ambientalisti è la presenza di una discarica nella zona, con probabili rifiuti tossici, ma non si prevede alcuna bonifica. Inoltre “si fa obbligo alla ditta di prevedere e realizzare una rinaturalizzazione dei luoghi e la ricostruzione del sistema duna-

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le nella spiaggia prospiciente ma non risulta alcun piano in tal senso”. E pensare che Torrazza il rischio di essere cementificata l’aveva già corso 40 anni fa, quando ancora Petrosino era una borgata a metà tra Marsala e Mazara del Vallo. Era il 1971, si voleva vendere un “margio” ritenuto inutile. Corrispondeva all’area protetta. Ebbene, una società di Palermo, chiamata “La Mantide Spa” voleva costruire un complesso alberghieroportuale per il turismo nautico. Un progetto enorme in un’area di 170 mila metri quadrati. Il progetto prevedeva un bacino portuale di 50 mila metri quadrati. 30 mila metri quadrati di fabbricati. 500 posti barca, 8 piscine, shopping center, ristoranti, bar, campi da tennis e una spiaggia privata. Un progetto devastante. Viene anche rilasciata la concessione edilizia dal Comune di Marsala nel settembre 1973. Poi non se ne fece più nulla, per fortuna. Anche allora la gente si mobilitò. Disse no allo scempio. Di chi è in realtà questa spiaggia D’estate Petrosino si riempie. Tornano gli studenti dal nord. Torna Pietro con la famiglia. E Franco con la moglie Mirella. C’è anche Lucia con Giulia. Loro vivono a Petrosino. Giulia sguazza in acqua, con i braccioli. Torrazza è soprattutto sua.


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Sicilia

La processione, il sindaco e il mafioso Diciassette settembre, è il giorno in cui a Campobello di Mazara si svolge una processione dedicata al Santissimo Crocifisso... di Rino Giacalone

A un certo punto la processione si ferma davanti alla casa di Franco Luppino, detto “zio Franco”. E' l’unico in Italia ad avere fruito dell’indulto benché accusato di omicidio di mafia ed è uscito prima dal carcere. Quando fu condannato a Franco Luppino non fu contestata l’aggravante mafiosa, perché all’epoca non esisteva nemmeno il reato di associazione mafiosa. Tornato libero è ritornato a sedere sulla poltrona di rappresentante della famiglia belicina, diventando il più fidato dei “postini” di Matteo Messina Denaro. Quel giorno, 17 settembre 2006, la processione rese omaggio a Franco Luppino fermandosi davanti alla sua porta, che fu varcata dal sindaco, Ciro Caravà, omaggio fin dentro casa allo “zio Franco”. L’episodio è tra quelli elencati dalla commissione prefettizia che ha per due volte relazionato al ministero dell’Interno sull’inquinamento mafioso dell’amministrazione di Salemi. Una prima volta, nel 2009, la relazione è rimasta non trattata dal ministro Maroni che non diede mai una risposta alla richiesta di scioglimento.

Adesso è toccato al suo successore, al ministro Anna Maria Cancellieri, mettere nero su bianco, e Campobello di Mazara dopo 20 anni è tornata ad avere sciolti per infiltrazione mafiosa Giunta e Consiglio comunale. Territorio “pesante” quello di Campobello di Mazara, storicamente qui mafia e massoneria si sono ritrovati a frequentare le stesse stanze, a perseguire gli stessi interessi, grossi investimenti immobiliari, come il villaggio Kartibubbo che vede cointeressati mafiosi del rango di Vito Roberto Palazzolo, o ancora il notaio-massone Pietro Ferraro, per non parlare dei terreni acquistati dalla Valtur del cavaliere Carmelo Patti. Espansione edilizia selvaggia, abusivismo, filoni di denaro nel tempo partiti da Campobello di Mazara e finiti presto in una banca di San Marino. Ciro Caravà è sindaco dal 2006. A dicembre scorso è stato arrestato dai Carabinieri su ordine della Dda di Palermo, accusa di associazione mafiosa. Lui è in carcere e mai si è dimesso. Andava in giro proclamando l’antimafia e la legalità, inaugurava il riuso di beni confiscati, nel frattempo si scusava con i boss e questi commentavano come lui recitasse molto bene la parte. Ciro Caravà è figlio e nipote di mafiosi, tutti e due, padre e zio, sono stati ammazzati, politicamente Caravà ha frequentato quasi tutti i partiti, cominciando dal Pci, passando per Forza Italia o per il movimento dell’ex segretario cislino D’Antoni, in ultimo era approdato al Pd ed era stato ricandidato dal Pd sebbene sul suo conto i sussurri erano diventati vere e proprie urla. La relazione prefettizia sul suo conto ne racconta tante, a cominciare dal pregiudicato che regolarmente stazionava nella sua anticamera, in Municipio, tale Gaspare Lipari, poi nella sua stanza di sindaco, Ciro Caravà teneva in bella mo-

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stra le foto di Falcone e Borsellino. Cosa bisogna avere nel curriculum per diventare sindaco? Probabilmente tutto quello che aveva Ciro Caravà, a cominciare dai precedenti penali, innumerevoli: precedenti per assegni a vuoto, esercizio pubblico senza licenza dell’autorità, furto, frode dell’imposta erariale sul consumo del gas ed energia elettrica, violazione delle disposizioni concernenti le imposte di consumo del gas e dell’energia elettrica, da ultimo è stato rinviato a giudizio per estorsione assieme a due consiglieri comunali. Decine di appalti La commissione prefettizia ha esaminato decine e decine di appalti per lavori, servizi e forniture, scoprendo che la regola secondo prassi era quella di fare riunioni le commissioni di gara mai rispettando data ed ora di convocazione, ma anche altre cose: come quando c’era da affidare il servizio di trascrizione delle sedute consiliari, si fece di modo e di maniera di affidare l’incarico ad una società dove molti erano i soci con precedenti penali, mettendo da parte la società dove i soci non avevano nulla da dichiarare a proposito di pendenze giudiziarie, come se la prima società dava più garanzia dell’altra. D’altra parte cosa aspettarsi da chi permetteva di stare giornalmente nella sua anticamera a quella losca figura di Gaspare Lipari, disertore, estorsore, mafioso, senza che nessuno risulta mai avere fatto rimprovero a Caravà di quella presenza. D’altra parte siamo a Trapani dove è l’antimafia a creare guai, e quindi il mafioso non può dare disturbo. Anzi secondo la Dda di Palermo nel caso di Campobello di Mazara addirittura il mafioso è riuscito a diventare sindaco.


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Lo sgombero di Palazzo Bernini

Catania senza pietà Stranieri, senza casa: cacciati via Centocinquanta persone cacciate da Palazzo Bernini, l'immobile comunale abbandonato e trasformato in casa da famiglie di bulgari e rumeni. Negli stessi giorni, una campagna istituzionale contro i pregiudizi razziali... di Leandro Perrotta www.Ctzen.it

Succede a Catania, dove le politiche di accoglienza sono affidate in larga parte ai privati sociali e dove in pieno centro è cresciuta una baraccopoli in cui convivono topi e bambini «Dosta!» significa «basta!» nella lingua romanì. È il nome di una campagna di sensibilizzazione contro i pregiudizi verso Rom, Sinti e Camminanti lanciata dall'Unar, ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali.

Catania è stata la prima delle cinque città italiane scelte per questo progetto, lanciato il 19 luglio alla presenza del prefetto Francesca Cannizzo e dell'assessore alle Politiche sociali Carlo Pennisi. «Catania in fatto di ospitalità non ha termini di paragone», dichiarava il prefetto proprio quando, a pochi chilometri, alcune famiglie venivano cacciate da un edificio di proprietà comunale abbandonato, il cosiddetto palazzo Bernini. Niente manganelli e poliziotti per lo sgombero: la mattina del 17 luglio una squadra di operai mandata dal Comune si è presentata sul posto, e con mattoni, cazzuola e cemento ha iniziato a chiudere gli ingressi all'edificio, un lavoro andato avanti per giorni. E chi nomade non voleva essere dovrà tornare a esserlo. Come Dino, un ragazzo bulgaro di 21 anni che, per far vivere sua moglie e il figlio di cinque mesi, raccoglie rottami in ferro. «Fino a un mese fa abitavo in una baracca, ma appena ho potuto sono venuto qui. Lì c’è troppo caldo e sporcizia, e non voglio tornarci», dichiarava Dino a inizio luglio. I manovali hanno concluso il proprio lavoro in un giorno di pioggia, il 23. La moglie e il figlioletto «sono tornati nella baracca in corso dei Martiri, almeno lì hanno un tetto e non si bagnano». Erano in centocinquanta ad abitare nel palazzo Bernini di Catania. Uomini, donne e tanti bambini. Famiglie come quella di Dino, occupanti abusivi di un edificio destinato ad uffici comunali ma abbandonato dall'amministrazione subito dopo

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l'acquisto, nel 1999. Persone diverse, provenienti da Romania, Bulgaria, Africa, e anche una coppia di italiani. Quattro palazzine, un normale condominio, con l'energia elettrica, l'intonaco rovinato e qualche stanza senza porte. Unico vero disagio la mancanza di acqua corrente: la strada da percorrere «per andare alla fontana a riempire i bidoni» è faticosa, ed espone agli occhi della gente «che guarda male e giudica». “Sono senz'acqua? Bene!” Ma, secondo l'assessore alle Politiche sociali di Catania, la mancanza di acqua è paradossalmente un bene. «Queste persone non devono stare comode. Anzi, devono stare scomode così è più facile che decidano di andarsene», dichiara l'assessore Pennisi, fautore di una politica di assistenza ai bisognosi che si può riassumere con una semplice battuta: «eliminare le enclavi». Nei giorni dello sgombero, a pochi ex occupanti del palazzo Bernini è stato dato un biglietto di sola andata per il proprio Paese di origine. «Una decina appena, gli altri sono tornati nelle baracche» secondo i volontari del collettivo politico Aleph, che da gennaio hanno supportato i residenti nelle piccole operazioni quotidiane, a cominciare dalla pulizia dell'immobile. «C’erano carcasse di motorini e ogni genere di spazzatura. Ma quello che non s'è mai visto sono le siringhe».


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Lo dice Federica Frazzetta, del collettivo che denuncia il trattamento riservato dai media agli occupanti dello stabile. Descritti come ladri e delinquenti, «brutti sporchi e cattivi». Per lei e gli altri componenti del gruppo dipingere gli abitanti di palazzo Bernini in questi termini ha il solo obiettivo di addossare le responsabilità della criminalità diffusa su chi, estraneo alla comunità, non può ribattere. “Fanno troppo rumore” Sotto i portici il 17 luglio, giorno dello sgombero, c'è anche il signor Pino. «Ve l'ho detto di non fare correre e giocare sotto i portici i bambini, di non lavare le macchine, di non fare rumore: se non vi facevate notare non vi cacciavano», dice Pino alle famiglie, raggruppate sotto la precaria galleria dello stabile di viale Bernini. Lui fa il posteggiatore abusivo, proprio di fronte al palazzo. Gli occupanti, che sono appena stati buttati fuori dai vigili urbani, parlano di lui come «di una persona amica», anche se si dice che Pino, abitante del quartiere vicino che si chiama Picanello, abbia chiesto una volta dei soldi ai residenti del palazzo per restare in zona. Che si sono rifiutati di pagare. Ma la sua presenza un po' ambigua, insieme a quella dei ragazzi del collettivo Aleph, rimane l'unico segno di solidarietà registrato in sei mesi. Perché da gennaio «non si è visto nemmeno un assi-

stente sociale», afferma sicura Federica. A peggiorare le cose i catanesi della zona, che evitano il contatto tra i propri bambini e quelli «degli zingari». «La Catania-Bene non può accettare una situazione del genere», conferma un abitante del quartiere, che si chiama Pippo, e ha circa 70 anni. Non vuole sentire ragioni: «Queste persone rovistano nei rifiuti, rubano nelle case, sporcano, e s’avvicinano quando siamo in piazza. La gente scappa perché ha paura, ci mettono un attimo a uscire il coltello». Pippo non cita mai un episodio di criminalità visto da lui direttamente, ma parla con indignazione di quella volta che «al mare un gruppo si è buttato con tutti i vestiti, sono usciti dall’acqua e si sono fatti la doccia. Vestiti!». Una doccia parecchio malintenzionata secondo Pippo che, stanco di argomentare, dichiara: «Vorrei vedere se li avesse lei sotto casa». E continua a camminare indisturbato per il viale. Intanto gli operai mandati dal Comune hanno lavorato sodo: superata la previsione di «murare tutti gli ingressi in due settimane», in appena sei giorni, il 23 luglio, non c'è un solo accesso libero al palazzo. Piove, e tutti i mobili e gli effetti personali sono zuppi d'acqua, materassi compresi. «Dormirò qui stanotte, che posso fare», esclama sconsolato Dino. Cento famiglie vivono oggi a Catania nelle baracche di Zia Lisa, proprio accanto al cimitero, in condizioni igienico sanitarie pessime, tra un torrente in-

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quinato, una montagna di rifiuti e centinaia di ratti. Non stanno meglio gli altri, almeno centosessanta secondo il Comune, che vivono invece in Corso dei Martiri, dentro tre fosse create negli anni '50 per realizzare un mega progetto di riqualificazione, che dopo quasi sessanta anni – e il forzato trasferimento degli abitanti del quartiere San Berillo – forse partirà in autunno. I lavori in Corso dei Martiri... «Queste persone dovranno andare via prima che inizino i lavori in Corso dei Martiri», spiega l'assessore Pennisi. A supporto di queste persone rimane solo il cosiddetto Presidio Leggero, un servizio di prossimità garantito da operatori pubblici e privati sociali come la Caritas. «Per queste persone, non essendo catanesi, non c'è possibilità di accedere a servizi di Social Housing», afferma l'assessore. Per gli sfollati del palazzo Bernini e quelli che a breve dovranno lasciare il Corso dei Martiri, servirebbe un campo di transito, la cui realizzazione viene continuamente rinviata. «Tra queste persone c’è chi può restare, chi deve tornare a casa, chi dovrebbe andare in galera – sottolinea Pennisi – Solo quando avremo un quadro completo potremo parlare di un campo di transito». «Dosta alle baracche!». Foto di Domenico Stimolo


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Università

Torino, Bologna e Catania a confronto (sulla nostra pelle) Beatrice, Vincenzo e Massimo sono tre ragazzi siciliani che studiano in tre diverse città. I ser vizi, i trasporti, le tasse, le differenze e, se esistono, le analogie in questo confronto fra le vite universitarie di questi tre studenti di Attilio Occhipinti www.generazionezero.it

In quale facoltà siete iscritti e dove studiate? Beatrice: Sono iscritta al corso di laurea in D.A.M.S. (Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo) e studio a Bologna. Vincenzo: Sono iscritto alla facoltà di Ingegneria Elettrica presso il politecnico di Torino. Mi sono iscritto qui dopo aver preso la laurea triennale, sempre in Ingegneria Elettrica, presso l'Università di Catania. Massimo: Frequento la facoltà di Lettere e Filosofia, precisamente il corso di laurea in filosofia, all'università degli studi di Catania.

Quali sono i servizi che la vostra facoltà offre agli studenti? Sono proporzionati alle tasse che pagate? Beatrice: I servizi offerti dall’ateneo sono davvero tanti: dall’assistenza sanitaria per gli studenti fuori sede, fino alle convenzioni per cinema e teatro e le agevolazioni per la telefonia mobile, trasporti e mobilità. Sono diverse le sale studio che restano aperte fino a sera, per non parlare poi delle tantissime biblioteche collegate alla mia facoltà. Servizi proporzionati alle tasse La segreteria è contattabile via e-mail e le aule didattiche sono dotate di computer e schermo video-proiettore. I docenti, tutti schedati nel sito web, hanno un loro orario di ricevimento, ma sono comunque (quasi) tutti contattabili via e-mail. Nelle segreterie, biblioteche e sale studio lavorano gli studenti, solo per un determinato periodo, garantendo così a tutti questa possibilità. Sì, ritengo che questi servizi siano proporzionati alle tasse pagate. Vincenzo: L'organizzazione che ho trovato è nettamente superiore rispetto a quella catanese, in cui a dire il vero regnava il caos più totale. Anzitutto, la quasi totalità dei servizi della segreteria è online, per cui presentarsi di persona negli uffici è abbastanza superfluo, a meno che non bisogna chiedere qualche chiarimento: nel qual caso, si trovano sempre persone competenti

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che spiegano con cortesia cosa fare e come comportarsi. Si paga come a Catania, ma... Uno dei servizi che più mi ha colpito è il servizio sms del politecnico, con cui i professori comunicano qualunque variazione rispetto agli orari ufficiali: grazie a questo servizio, ho sempre evitato di arrivare a lezione e di scoprire che questa era stata annullata, cosa che invece era una prassi a Catania. Dal momento che, a livello di tasse, pago esattamente quanto pagavo a Catania, la risposta non può che essere positiva. Massimo: L'ex Monastero dei Benedettini, che è la sede della mia facoltà, è disseminato di sedie e tavoli dove poter "studiare" ma, chiaramente, non sono sempre dei luoghi tranquilli viste le centinaia di persone che frequentano l'università ogni giorno. Per le sessioni di studio più impegnative sarebbe preferibile un luogo più silenzioso come la biblioteca che, però, segue degli orari ridottissimi. Internet e Wi-Fi C'è da sottolineare che nel semestre appena passato gli orari erano stati prolungati anche grazie al supporto dei tirocinanti, ma a giugno hanno ripristinato gli orari precedenti. Per quanto riguarda gli altri servizi come postazioni internet, reti Wi-Fi e altro, i mezzi ci sono ma non ne vengono sfruttate tutte le potenzialità.


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“Rispetto a Catania qui è un altro mondo”

La segreteria di facoltà bene o male funziona e i tempi d'attesa non sono molto lunghi: dipende anche dal tipo di "commissione" che si deve sbrigare. Il vero problema è la segreteria centrale, sita in via Landolina, nei pressi di piazza Teatro che, a partire dallo scorso anno accademico, è diventata unica per tutte le facltà, con tutte le conseguenze che derivano dal riversamento di migliaia di persone in locali troppo angusti. Ogni anno sempre più tasse Il problema delle tasse è che ogni anno vengono continuamente aumentate, quest'anno sensibilmente (circa 100 euro di aumento), e siccome i servizi che offre l'università non cambiano e non migliorano, ma forse degradano, è chiaro che si percepisce una sproporzione negativa: da questo punto di vista sì, sono alte e anche troppo. In che condizione sono i trasporti in questa città? Fatichi molto per rag-

giungere la facoltà? Beatrice: La città è ben collegata, dispone di mezzi pubblici che tendono a ridurre l’inquinamento (veicoli a gas naturale, veicoli ibridi, a trazione elettrica e gli extraurbani a diesel), tutti dotati di pedane e posto disabile. Il biglietto costa 1.50 euro sull’autobus, 1.20 comprato prima. Si possono comunque comprare delle schede tariffarie più convenienti. Vincenzo: Rispetto ai tre anni che ho passato a Catania, qui è un altro mondo. A Catania non sapevo mai quando sarebbe passato l'autobus, spesso aspettavo anche più di mezz'ora alla fermata e alla fine ero costretto ad andare a piedi per non arrivare tardi. Qui gli autobus passano puntuali e la GTT (gruppo torinese trasporti) mette a disposizione un servizio online grazie al quale puoi sapere in tempo reale quando passerà l'autobus o il tram alla fermata. Gli abbonamenti per studenti costano molto meno di quanto costavano a Catania. Per quanto riguarda la sera invece,

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nel fine settimana, ci sono i nightbusters, che partono ogni ora dal centro e che ti permettono di poter stare in giro senza preoccuparsi dell'orario. I guai con gli autobus Massimo: I trasporti, stiamo parlando principalmente di autobus, ci sono; ma soprattutto nelle ore di punta peccano di molte défaillances dovute al sovraffollamento e ai ritardi. Credo che entrambi i problemi potrebbero essere risolti incrementando il ritmo delle corse: una corsa ogni ora è veramente troppo poco, soprattutto per chi deve percorrere distanze che a piedi richiedono quasi un'ora di tempo. Per non parlare poi della metropolitana che ha una sola linea e che non interessa per nulla gli studenti delle aree umanistiche riversati nel centro storico: l'unico vero motivo per prenderla è andare alla Cittadella (sede delle facoltà scientifiche) o alla stazione centrale degli autobus e a quella dei treni.


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Vittoria

Di nuovo in prima linea nella guerra mafiosa Per un attimo Vittoria è tornata nell'abisso. Decine di pallottole hanno fatto rivivere le paura delle guerre di mafia degli anni '90 di Giorgio Ruta Il Clandestino

Il 18 luglio è stato freddato il re dei videopoker Francesco Nigito e due sue fratelli sono stati feriti lievemente. Ad uccidere Nigito è stato – secondo le indagini delle forze dell'ordine – Massimo Interlici, concorrente nella gestione delle macchinette videopoker. Con lui sono state arrestate altre due persone. Il movente? Tutti si affrettano a suggerire che dietro l'omicidio ci sia una semplice lite tra concorrenti. Probabile, ma all'interno delle forze

dell'ordine non tutti sembrano convinti da questa interpretazione. I dissapori tra Nigito e Interlici sarebbero nati per il piazzamento di alcuni apparecchi in un bar. Ci sarebbe stata un'invasione di campo di uno dei due. Ma il punto che si vuole approfondire meglio è un altro. Dietro l'affare dei videopoker c'è la mano della mafia? C'è una spartizione di zone o affari? Su questo si sta cercando di far luce. Guerre di mafia I fratelli Nigito sono molto noti in città per il loro spessore criminale assodato con il clan omonimo che negli anni passati si è fatto strada nella città ipparina. In passato uno dei fratelli della vittima, Gianluca, era stato al centro di un agguato ma era riuscito a salvarsi miracolosamente. I Nigito, oltre alla gestione delle macchinette videopoker, si sono imposti in città con una forte presenza nel mercato delle macchinette per il caffè. Vittoria ripiomba nella paura delle guerre di mafia degli anni '90. E ora c'è l'ansia di vedere se nuovi equilibri si formeranno e se si

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assoderanno a colpa di revolver. L'agguato sembra aver ripuntato i fari su Vittoria. La città ipparina dalla strage dei San Basilio del 1999 non ha vissuto episodi eclatanti. Ma gli affari non si sono mai fermati. Il centro nevralgico è il mercato ortofrutticolo di Via Fanello. Una recente indagine della Guardia di Finanza ha messo le mani sui conti delle società che operano all'interno del centro scoperchiando molte anomalie e molte nomi noti alle forze dell'ordine per reati di stampo mafioso. Ora si cercano di capire i collegamenti con i clan e con gli altri centri del resto d'Italia. I soldi girano e la paura torna Non c'è solo il mercato. I soldi girano con attività totalmente legali ma che hanno la forza in più dell'imposizione. Un racket indiretto. “Funzionano questi affari non perchè c'è paura ma perchè è nella cultura nostra chinarci” sentenzia sconsolato un poliziotto. E intanto girano i soldi e le paure ritornano.


MAMMA

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S C A F F A L E

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Rocco Chinnici

La mafia? Non si combatte solo nelle aule giudiziarie Tratto dalla grafic novel Antonino Caponnetto (Non è finito tutto) di Luca Salici e Luca Ferrara

In libreria e online info: www.nonefinitotutto.it

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Storie

“Ora vado in Sezione” Al quarto piano, davanti al televisore, l'anziano pensionato decide che bisogna fare qualcosa di Jack Daniel

Tagli. Spending review. Art. 18. Licenziamenti. Crisi. Non poteva, come tutte le sere, macerarsi solitario davanti alla televisione. Bisognava agire, insieme, collettivamente. Ma come? E con chi? Alla sua età, poi, in effetti ormai terza di diritto? Questo rimuginava l’anziano pensionato del quarto piano su una cosa, almeno, sbagliandosi. Non era solo, infatti, dato che le sue serate, come quelle di quasi tutto lo stabile, erano accuratamente osservate dalla signora del quinto piano del palazzo di fronte. Ma, ahilei, per quanto lo riguardava, si trattava di spettacoli poco stimolanti: non un pettegolezzo serio poteva essere creato su un pensionato vedovo che non riceveva nessuno, con orari regolari come un cronometro e che passava le serate davanti alla televisione. Altri piani erano certamente più interessanti. Eppure, alla curiosa signora, quel pensionato “non la raccontava giusta” ed era certa che sarebbe riuscita prima o poi a smascherarlo. La crisi, si diceva. Una sera, apparentemente uguale a tutte le altre, il pensionato si rammentò che non distante sorgeva una veneranda sezione del Partito. Il quale Partito ormai era trapassato, ma, forse, al suo posto ci sarebbe stato un qualche erede variamente nominato. Cer-

tamente lì si sarebbe discusso e, forse, lottato. Bisognava tentare. Infrangendo consolidate tradizioni, il pensionato spense quindi il deprimente dibattito televisivo e si vestì di tutto punto, smettendo la logora vestaglia. La cosa destò la sfrenata curiosità della signora di fronte, un po’ depressa perché la vispa inquilina dell’appartamento più interessante (il terzo piano) era già in vacanza. “Strano. Luci rosse?” Aiutata da un antico binocolo da teatro, seguì quindi con lo sguardo il pensionato mentre usciva e si dirigeva verso un cortiletto appartato, dietro l’isolato di fonte. Lì sorgeva quella famosa sezione davanti alla quale, essendo così nascosta, il pensionato non passava da anni. La signora abitava in un appartamento con strategico doppio affaccio, il secondo dei quali dava sul retro, proprio su quel cortiletto. E quando vi vide incedere il suo caro spiato “lo sapevo, io!”esclamò trionfante. Luci rosse brillavano sulla porta, e ciò lasciò dapprima perplesso l’anziano signore, che si sforzò di attribuire all’avvento della tecnologia la sostituzione delle rosse bandiere con più moderne luci sfavillanti. Avvicinandosi non poté non notare, seppur ancora da lontano, la

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trionfale scritta “Privé” che, pensò magnanimamente, forse rendeva noto che erano ammessi solo iscritti al partito. Ma, avvicinandosi ulteriormente, cominciò a rassegnarsi al fatto che, forse, qualcosa era cambiato. Alle pareti le foto erano ispirate al realismo, ma non esattamente del tipo socialista, e l’abbigliamento dei militanti e, soprattutto, delle militanti, non pareva ispirato alla sobrietà rivoluzionaria. “Lo sapevo, lo sapevo!” gongolava intanto, dall’alto e da lontano, la curiosa signora. Al pensionato non restò altro che tornare lentamente a casa, dove si spogliò, reindossò la logora vestaglia e si riaccomodò sulla vetusta poltrona in pelle di un animale la cui specie, probabilmente, era nel frattempo estinta. Accese il televisore sintonizzandosi casualmente su un qualunque canale locale. Parlavano di calciomercato ma lui, coi pensieri, era altrove, in un altro tempo. E così, tra una trattativa e un ingaggio milionario, sotto lo sguardo vigile della signora, s’addormentò. Più in là, nella notte, le programmazioni normali terminarono e, mentre sognava inquieto, apparvero pubblicità di chat accompagnate da immagini alquanto esplicite. “Lo dicevo io. – gongolò l’insonne signora – Lo dicevo che in fondo è solo un vecchio maiale”.


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Mediterraneo

VICINI

DI MARE Siamo arrivati a Monastir navigando per 2 giorni e mezzo da Palermo verso la Tunisia su Oloferne, la goletta che ha permesso a Boats4people, una coalizione internazionale che vuole un Mediterraneo di libertà e solidarietà, di prendere forma e vento. Quest'esperienza è stata per noi anche un viaggio al contrario lungo le rotte dei migranti. di Anna Bucca, foto di Grazia Bucca I Sicilianigiovani – pag. 57


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A Monastir, costa sud della Tunisia, c’è una bella aria nei giorni delle assemblee preparatorie del forum sociale mondiale che per la prima volta sarà ospitato nel Mediterraneo, a Tunisi, dal 23 al 28 marzo 2013. C’è grande attesa per gli eventi, soprattutto l’assemblea MaghrebMachreq e l’assemblea sulle migrazione con Boats4people, tra le tante persone – 1200 partecipanti, più del doppio di quelli attesi - che da anni cercano di costruire un percorso di liberazione lottando ogni giorno contro una dittatura democrativa in giacca e cravatta, con il presidente Ben Ali regolarmente eletto a ogni scadenza con percentuali bulgare - si sarebbe detto una volta: quelle democrazie telecomandate da nord che piacciano tanto al “nostro” occidente. Poi l’anno scorso, il 14 gennaio, la rivoluzione della dignità, che ha dato voce e corpo ai percorsi già in atto e che ha fatto conoscere il popolo

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tunisino al mondo: l’avevamo chiamata in Europa la rivoluzione dei gelsomini, ma dalla Tunisia hanno rimandato la definizione al mittente dicendo che la loro era una rivoluzione di dignità. Karama, dignità, è una parola che sento spesso dall’anno scorso: a Dakar, al FSM del febbraio 2011, e a Tunisi quasi due mesi dopo, a un seminario sulla transizione democratica, e poi ancora a dicembre ancora a Tunisi in un incontro con tante organizzazioni locali. Hurria, karama, adala ijtimaya; libertà, dignità, giustizia sociale è uno degli slogan più scanditi al forum. Ma è soprattutto karama, che sta scritto nel grande pannello all’ingresso dei luoghi in cui si sono svolti gli incontri dal 12 al 17 luglio: l’università, il comune, un centro di formazione e ricerche linguistiche. Io e un’altra decina di persone siamo arrivate a Monastir navigando per 2 giorni e mezzo da Palermo verso la Tunisia su Oloferne, la goletta che ha permesso a Boats4people di prendere forma e vento.


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Boats4peole è una coalizione internazionale che vuole un Mediterraneo di libertà e solidarietà, nata per impedire altri morti alle frontiere marittime e per difendere i diritti dei migranti in mare. B4P è stata per noi anche un viaggio al contrario lungo le rotte mediterranee. Un’esperienza straordinaria, che completa e da un senso diverso al partecipare a un forum internazionale sull’ immigrazione, perché arrivando via mare e navigando anche di notte puoi provare a immaginare che cosa significhi affrontare il mare. Cosi scopri che a mare di notte c’è un grande movimento, pescherecci barche portacontainer, e prima e poi c’è solo il mare: e il mare di notte è scuro, affascinante e a tratti impressionante. La prima notte di navigazione era piatto, e mi sono ritrovata a contemplarlo e a pensare a cosa significa trascorrere la notte in mare su una barca, soprattutto se non sei solo e non sai bene con chi sei, siete in 200 e magari non volevi stare lì, o

proprio ci volevi stare e hai anche pagato per farlo e adesso hai paura perché di notte il mare è nero, c’è freddo, la barca balla e tu vorresti solo essere altrove, o essere già arrivato, o anche non essere mai partito. Così ho pensato a quelli che ce l’hanno fatta, e a quelli che non ce l’hanno fatta, in tutti questi anni, nel canale di Sicilia. E’ soprattutto per loro, più di 18.000 persone per cui il Mediterraneo è diventato cimitero, che abbiamo voluto Boats4People Sono tornata a Palermo dopo una settimana, e in aereo. Un’ora ed ero di nuovo a casa: un’ora di volo al ritorno e più di 48 ore di navigazione all’andata, e so solo che l’andata è stata di certo un altro viaggio, molto più intenso, grazie anche ai compagni, animali umani e non umani, con cui l’ho condiviso: le murene incontrate sott’acqua, i tanti delfini che abbiamo incrociato arrivando a Pantelleria e a Monastir, Marco il mitico capitano dell’Oloferne, Francesco Flavia e Giampietro, grandiosi marinai militanti, Joel e Nathalie, marinai

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militanti e video maker 24h su 24, e poi Gianluca Grazia Hamadi Laura e Nicanor, militanti e basta come me, e pure tutti e 6 un po’ (tanto) inesperti di navigazione, che Marco ha avuto la pazienza e la bontà di accogliere a bordo. p.s: karama viene a mancare già al controllo documenti dell’aeroporto di Punta Raisi: da un lato c’è scritto “UE Citizen”, dall’altro “All passports”. Da un lato i cittadini europei, dall’altro tutti i passaporti: è anche cosi che alla frontiera finisce la dignità.


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Continua la campagna di sottoscrizione

Anche quest'anno il Giornalismo fa festa Modica/ “A che ora comincia?” “Sbrigati, sta iniziando”. “Scambiamoci i contatti. Chissà, facciamo qualcosa insieme”. È un via vai di giovani. È il Festival del Giornalismo di Giorgio Ruta

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Un ragazzo con il sacco a pelo scende da un autobus e si catapulta in centro. Un vecchio “compagno”si siede all'ombra, in anticipo, perchè “chissà se poi non trovo il posto”. Tanti ragazzi si muovono come mosche impazzite, schizofreniche: c'è chi monta un palco, c'è chi dà da mangiare, c'è chi vende magliette.

Il caldo è arrivato e alle porte c'è il Festival del Giornalismo. Sarà la quarta edizione quest'anno. Dal 30 agosto al 2 settembre, nella splendida cornice del centro storico di Modica (Rg), I Siciliani Giovani e Il Clandestino, con il sostegno di Libera Sicilia, organizzano, a Modica, l'evento che vedrà la presenza di tanti giornalisti. workshop, dibattiti, conferenze, concerti, spettacoli teatrali, laboratori saranno il succo della nuova edizione del Festival del Giornalismo. Un Festival anomalo – un po' per scelta, un po' per esigenza – che non si nutre di grandi sponsor e megasovvenzioni. Un Festival dal basso. Quest'anno chiunque può comprare un po' di Festival tramite la raccolta fondi effettuata su produzionedalbasso.com (http://www.produzionidalbasso.com/pdb _1232.html). Solo 5 euro per tanti ospiti. Sul palco del "Festival", negli scorsi tre anni, si sono alternati alcuni dei grandi nomi del giornalismo di casa nostra: Bolzoni, Roccuzzo,Tinti, Spampinato, Maniaci, Fracassi, Orioles, Sciacca, Lo Bianco, Viviano, Ziniti (solo per citarne alcuni). Anche quest'anno sono previsti grandi nomi e soprattutto grandi contenuti. L'estate è arrivata e la macchina si rimette in moto. La “festa del giornalismo” si avvicina e ancora una volta si sogna un brindisi ad un giornalismo giovane, indipendente e “con le pezze al culo”.

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Festival: come contribuire? Puoi contribuire alla realizzazione del Festival tramite il sito www.produzionidalbasso.com/pdb_1232.html . Puoi comprare micro quote di 5 euro per coprire i costi della Quarta edizione del Festival del Giornalismo di Modica, organizzato da I Siciliani Giovani e da Il Clandestino, con il sostegno di Libera Sicilia.

Produzione dal basso: che cos'è? Lo scopo di questa piattaforma è quello di offrire uno spaio a tutti coloro che vogliono proporre un proprio progetto. Chiunque apprezzi il progetto può effettuare una sottoscrizione che consentirà, raggiunte le quote necessarie, la realizzazione dello stesso. In cambio della micro quota il progetto realizzato. Sono tanti i prodotti che hanno visto la luce tramite questo metodo o che stanno per prendere corpo grazie alla produzione dal basso. Al momento è possibile sostenere, per esempio, “Le Printemps en exil” (La primavera in esilio), sviluppato in co-produzione da House on Fire e Frame Off. Un docusito per raccontare le storie dei migranti sbarcati in Italia e scappati in Francia.


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30 agosto/ 2 settembre

Ritorna il Festival del Giornalismo di Modica Tra gli ospiti della quarta edizione Loris Mazzetti e Oliviero Beha

mata nella capitale del giornalismo italiano ospitando alcuni dei grandi nomi dell’informazione di casa nostra: Antonio Roccuzzo (La 7), Riccardo Orioles (I Siciliani), Alfio Sciacca (Corriere della Sera), Antonino Monteleone (La 7), Giuseppe Lo Bianco (Ansa), Alessandra Ziniti (La Repubblica), Francesco Viviano (La Repubblica), Roberto Natale (presidente della Federazione Nazionale della Stampa), Attilio Bolzoni (La Repubblica). Riccardo Orioles ha scelto proprio il Festival del Giornalismo di Modica per annunciare, in anteprima assoluta, la rinascita del mensile “I Siciliani”.

di Francesco Ragusa www.ilclandestino.it

Ritorna, da giovedì 30 agosto a domenica 2 Settembre, il Festival del Giornalismo di Modica. Giunge alla sua quarta edizione la kermesse di giornalismo, informazione e cultura che, via via, si sta ponendo come punto di riferimento nel panorama siciliano. Sarà il Centro Storico di Modica, provincia di Ragusa (ancora per poco), la cornice della quattro giorni: un contesto di barocco e splendore che, fungendo da sede per gli eventi in programma, riuscirà a donar loro una luce ancora più prestigiosa. Il Festival del Giornalismo può contare su una “triade” di soggetti organizzatori: troviamo l'associazione culturale “Il Clandestino”, editrice dell'omonimo mensile. “Un gruppo di giovani e giovanissimi giornalisti – come affermato da Nando Dalla Chiesa - tutti di Modica, provincia di Ragusa, tiene in piedi un mensile frizzante e coraggioso, rinnovando una tradizione siciliana che resiste alla forza di Internet e alla proverbiale carestia di soldi”.

Non solo “Il Clandestino” ma anche la preziosa presenza di Libera Sicilia e de “I Siciliani giovani” con tutta le energia delle testate unite in rete: da Dieci e venticinque a Ctzen, da Stampo Antimafioso a La Domenica. Lo scorso anno furono diversi i momenti formativi all’interno del Festival con i seguitissimi workshop tenuti da Alfredo Faieta de “Il Fatto Quotidiano” (“Inchiesta economico finanziaria”), Nicola Baldieri (“Fotogiornalismo: il dovere di testimoniare, le nuove tecnologie, l’etica”), Giacomo Di Girolamo (“Ad altezza d’uomo – Fare giornalismo in provincia, tra radio, internet ed altro”) e gli artisti de “L’Arsenale”. Modica, per quattro giorni, si è trasfor-

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E' da questi risultati che si è mossa la macchina organizzativa dell'edizione 2012 che ha stilato, ancora una volta, un programma capace di integrare interessanti spunti di giornalismo e cultura. Tra gli ospiti della 4a edizione del Festival del Giornalismo Loris Mazzetti, storica spalla di Enzo Biagi. Il giornalista (ma anche regista e scrittore) ha affiancato Biagi nella stesura di tre libri, nella storica rurica di approfondimento di Rai 1 “Il Fatto” e in numerosi altri programmi. Mazzetti, tuttora capostruttura di Rai3, è responsabile di trasmissioni come “Che tempo che fa” e ha realizzato “Vieni via con me” con Fabio Fazio e Roberto Saviano. Collabora con “Il Fatto Quotidiano”.Oltre a lui numerose grandi firme del giornalismo di casa nostra tra cui, un nome fra tutti, Oliviero Beha.


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Attilio Bolzoni Classe 1955, giornalista professionista dal 1983, scrive per Repubblica. Ha pubblicato con Giuseppe D’Avanzo “La giustizia è cosa nostra” dedicato al giudice Corrado Carnevale, si è occupato del caso Rostagno confluendo nel volume scritto sempre con D’Avanzo “Rostagno: un delitto tra amici” nel 1996. Con Saverio Lodata ha scritto “C’era una volta la lotta alla mafia”. Nel 2007 fra gli sceneggiatori de “Il capo dei capi”. Nel 2009 ha ricevuto il Premio “E’ giornalismo” per aver raccontato da più di trent’anni la Sicilia e la mafia.

Oliviero Beha Oliviero Beha (Firenze, 14 gennaio 1949) è un giornalista, scrittore, saggista, conduttore televisivo e conduttore radiofonico italiano. Ha lavorato e scritto per testate come Tuttosport, Paese Sera, La Repubblica, Rinascita, Il Messaggero, Il Mattino e L’Indipendente e dal 1987, nell’ambito della sua attività televisiva, ha condotto su Rai 3 trasmissioni come Va’ pensiero insieme ad Andrea Barbato, Un terno al lotto (1991), Video Zorro (1995) e Brontolo (2010).

All’interno della kermesse spazio anche per la satira con la mostra “Cose nostre – Miegghiu futtiri ca cumannari”. Oltre venti strisce e vignette firmate da alcuni dei nomi di spicco della satira italiana su carta stampata: Alecella, Mauro Biani, Cecigian, Fei, Fifo, Fulvio Fontana, Gava, Lo Scorpione, Eva Macali, Fabio Magnasciutti, Vukic, Martha Iacono, Guglielmo Manenti. E poi il gradito ritorno dei workshop: ci sarà la seconda edizione di “Ad altezza d’uomo – Il giornalismo d’inchiesta in provincia, nell’era della comunicazione digitale” di e con Giacomo Di Girolamo, giornalista e comunicatore. Giuseppe Pipitone, de “Il Fatto Quotidiano”, presenterà “Topi di procura – Dalla strada al Palazzo di Giustizia, come e perchè si arriva a fare giudiziaria”. Un altro prestigioso workshop, stavolta dedicato alla fotografia, sarà tenuto da Tano D'Amico. E' possibile visionare il programma dei workshop e presentare domanda di iscrizione tramite il sito del festival www.festival-del-giornalismo.it. Si parlerà anche di nuove tecnologie (in particolare, moneta elettronica) con Fabio Vita. Al 4° Festival del Giornalismo di Modica sarà di scena anche “LIBERINFORMA”, raduno dei giovani di Libera Sicilia dedicato all'informazione. Un pacchetto che, con soli 40 euro, offrirà quattro pernottamenti (in “modalità campeggio”) presso una struttura attrez-

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zata di Modica, quattro pranzi, l'iscrizione ad uno dei workshop e farà da cassa di risonanza per il lancio dell'Officina Informazione di Libera Sicilia. I partecipanti, inoltre, potranno interagire nella diretta-web del Festival e curare le interviste con gli ospiti del Festival. E' con tutto ciò, ma anche con molto altro ancora, che il Festival del Giornalismo di Modica aprirà i battenti il prossimo 30 Agosto. Aspettandovi. Per un tuffo nel (sano) giornalismo, nell'informazione, nella cultura, e anche nel barocco.

Loris Mazzetti Loris Mazzetti (Bologna, 12 aprile 1954) è un giornalista, regista e scrittore italiano, storico collaboratore di Enzo Biagi. Comincia a lavorare in Rai nel 1980 firmando la regia di “L’Offensiva della Linea Gotica”. Realizza due filmdocumentari: “Quel cinema degli Ambigui Anni Quaranta” e “Gli Occhi del Gigante” È stato regista di numerosi programmi televisivi, come Il Fatto di Enzo Biagi, di eventi sportivi trasmessi dalla TV pubblica come Campionato del Mondo di Calcio (1990) e Olimpiadi di Barcellona (1992). Fu capostruttura di Rai 1 fino al 2002 Attualmente è capostruttura di Rai 3 a Milano e responsabile di vari programmi come Che tempo che fa.


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IL PROGRAMMA

20.00

20.00

Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Giornalisti in terre di mafia. C’è da temere? con Rino Giacalone,

Umberto Di Maggio, Enrico Bellavia

Atrio Comunale, palazzo S. Domenico L’inchiesta fra giornali e tv: c’è ancora? con Loris Mazzetti

21.30

21.00

Atrio Comunale, palazzo S. Domenico

Giovedì 30 agosto 18.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Sua Maestà Siciliana/ Ritratto di Raffaele Lombardo l’autrice Manuela Modica ne discute con Emanuele Lauria

20.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico La mafia grigia ne discute l’autore

Pino Finocchiaro

21.30 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico L’ora di Spampinato con Danilo Schininà, Vincenzo Cascone, Giovanni Arezzo

Nicoletta Fiorina Trio

Sabato 1 settembre 18.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Il culo e lo Stivale l’autore Oliviero Beha ne discute con Antonio Mazzeo

20.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Uomini soli libro di Attilio Bolzoni documentario di Attilio Bolzoni e

Paolo Santolini

22.30

22.30 @ Atrio Comunale, palazzo S. Domenico

Francesca Fornario

in concerto animazioni a cura di

Guglielmo Manenti ed Extempora

Venerdì 31 agosto 16.00 Palazzo della Cultura I Siciliani giovani: Sulla strada di Giuseppe Fava Comunicazioni di Riccardo Orioles sul giornale di rete nato un anno fa qui a Modica.

18.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico il Caso De Mauro l’autore Giuseppe Pipitone ne discute con Giuseppe Lo Bianco

Morrione saranno presenti i tre finalisti

22.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Tanamunà in concerto

Workshops: Fotogiornalismo: immagini e storia di Tano D'Amico Da giovedì 30 agosto a sabato 1 settembre tre giorni insieme a Tano D’Amico per analizzare le dimensioni del fotogiornalismo.

discussione e proiezione

Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Se è in crisi la domanda figuriamoci la risposta/ Amore, lavoro, salute e soldi ai tempi del governo tecnico spettacolo teatrale di e con

Stefano Meli e Santo Bandito

Atrio Comunale, palazzo S. Domenico anteprima Premio Roberto

Domenica 2 settembre 10.00 Palazzo della Cultura L’officina INFORMAZIONE di Libera Sicilia tavola rotonda con Libera Sicilia

18.00 Atrio Comunale, palazzo S. Domenico Giornalisti e giovani. C’è un futuro? con Gaetano Alessi,

Claudia Campese, Valeria Grimaldi, Giuseppe Pipitone

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Ad altezza d'uomo – seconda edizione di Giacomo Di Girolamo Il giornalismo d'inchiesta in provincia nell'era della comunicazione digitale. 30 Agosto – 1 settembre Cronaca Giudiziaria: Topi di Procura di Giuseppe Pipitone Istruzioni utili per diventare topi di Procura. Dall'esperienza personale al lavoro quotidiano. 30 agosto – 1 settembre Ebook, moneta elettronica, nuova editoria di Fabio Vita, con la partecipazione di Riccardo Orioles Seminario pratico sulle novità che stanno cambiando il mondo del giornalismo. Dove andrà l'editoria con le nuove tecnologie?

1 settembre


www.isiciliani.it Foto di Silvana Leonforte

Teatro Popular

Scene di nostra vita Per le strade, nelle carceri, nelle periferie: non nei luoghi “importanti” ma in quelli dove si vive di Luciano Bruno Il 10 luglio ho provato un'emozione incredibile. Mi sono ritrovato a raccontare me stesso con il nuovo spettacolo Heppybreddei davanti ai ragazzi dell'Istituto Penitenziario Minorile di Bicocca, a Catania. Mentre recitavo ho sentito la loro attenzione, l'ascolto, e per me che ho tanta voglia di esprimere il mio mondo, ma soprattutto di essere ascoltato, questo è stato di fondamentale importanza e mi ha spinto a dare il meglio di me, a mettere tutta l'intensità che ho dentro su quel palco. Lo spettacolo è stato costruito a poco a poco insieme al regista Orazio Condorelli, ed è venuto fuori dai miei ricordi sull'infanzia, su un mondo che oggi non esiste più: l'unità familiare, i pranzi della domenica, l'esistenza di una famiglia patriarcale nel quartiere di Santa Maria Goretti, con i suoi valori, quelli di una volta... Tutto questo prende forma nella figura di mio nonno, e nello spettacolo parlo del mio rapporto con lui, e nel raccontarlo, nel rievocare quelle atmosfere, quella gioia, il giorno del mio sesto compleanno, quella tenerezza che il nonno ha

avuto nei miei confronti e che non posso dimenticare, ma soprattutto nel raccontare il dolore del distacco, è come se scavassi nella mia anima andando alla ricerca dei valori che sono rimasti dentro di me attraverso lui. La mia esperienza di attore, che in Librino è stata la mia voglia di raccontare i miei spazi e il mio mondo, di gridare, urlare, denunciare, questa volta, in Heppybreddei, si trasforma nella ricerca di me stesso e così vado ancora più indietro, al di là di tutte le contraddizioni che ho attraversato, per ricordare, e ricordando andare alla ricerca di qualcosa che forse per qualche tempo ho perduto. Ho sentito il calore di quei ragazzi, anche loro forse hanno tanto bisogno di essere ascoltati, come me, di recuperare qualcosa dai ricordi, come me, di superare le loro contraddizioni, come me, di dare voce ai loro spazi, al loro mondo, quasi sempre ignorato, proprio come me. Li ho spontaneamente invitati a fare teatro con me se ne avessero voglia. Un'autobiografia raccontata L'esperienza nelle sedi carcerarie in questo senso è stata più forte (anche il 4 luglio ho recitato all'Istituto penitenziario di Acireale), rispetto a tutte le altre realtà in cui mi sono trovato a “recitare”. Infatti, il mio non è un “recitare” nel senso di prendere le vesti di altri personaggi, ma di portare me stesso con tutte le mie passioni sul palco, la mia è un'autobiografia raccontata. E sento, davvero sento, se chi mi ascolta mi comprende veramente oppure no, anche perchè non è per nulla fa-

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cile farsi ascoltare dagli “indifferenti”. Quei ragazzi mi hanno davvero ascoltato e questo per me è stato davvero gratificante. Ringrazio tutti, soprattutto Orazio Condorelli e l'Educatrice Silvana Leonforte, per essersi adoperati nell'organizzazione dello spettacolo e per aver scommesso anche loro su di me, sulla valenza della mia esperienza di vita, sulla mia voglia di riscatto, non solo per me ma anche per tutti quelli come me. Spero di continuare lungo questo percorso, di non stancarmi mai di raccontare, e, soprattutto, di continuare a trovare qualcuno che non si stanchi di ascoltarmi.

25 agosto / Librino (Catania) Campo San Teodoro liberato

HEPPYBREDDEI con Luciano Bruno

Spettacolo di Orazio Condorelli e Luciano Bruno/ Regia di Orazio Condorelli Drammaturgia: Condorelli e Bruno Heppybreddei mette al centro le marginalità, ma non è racconto del degrado e delle difficoltà della vita in periferia. Piuttosto è il tentativo di restituire sulla scena l'ironia malinconica e la vitalità di un'esistenza autentica. Indicazioni stradali: Usciti dalla tangenziale proseguite dritto fino alla "Porta della bellezza". Ancora su, arrivate alla rotonda dove svoltereste a sinistra per andare all'Iqbal Masih. Invece andate a destra, in pratica entrate a borgo Librino; proseguite per circa 150 metri e prendete la prima strada a sinistra, via del Giaggiolo. Percorretela tutta, è una discreta salita. Quando la strada muore (scuola con cancellata gialla), alla vostra sinistra notate una stradella sterrata, carrabile, da lì si entra. Per le due ruote parcheggio illimitato, per le auto circa 30 posti, le altre sulla strada. Ingr.2 euro


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Musica

Hi-Fi: istruzioni per l'uso Che lo si voglia chiamare hi-fi, alta fedeltà, o come si diceva una volta stereo, ha a che fare con la qualità dell’ascolto della musica e quindi merita attenzione di Antonello Oliva

E’ vero che il nostro cervello procede a rappresentazioni della realtà, dunque a ricostruzioni personalizzate dei segnali percepiti, e che nel campo dell’acustica funziona quindi come un equalizzatore che all’occorrenza rinforza, taglia, aggiunge o riaggiusta dati relativi alle frequenze, ai toni e alle intensità percepite, ma ciò non toglie che a una maggiore qualità della percezione risponda una maggiore fedeltà della ricostruzione. Ovviamente procediamo per possibilità, ma è così che funzioniamo, in tutto, anche quando formuliamo leggi della fisica.

Del mondo dell’alta fedeltà, per tutta una serie di motivi, e per precise responsabilità delle testate giornalistiche specializzate (che di fatto sono tenute in vita dai due o tre maggiori inserzionisti del settore, che ne controllano quindi i contenuti), negli anni ci si è fatta l’idea di qualcosa di economicamente irraggiungibile destinata a pochi danarosi appassionati. In parte ciò è vero, ma solo in parte, soprattutto da quando l’apertura della Cina ai mercati mondiali ha fatto sì che cominciassero a comparire prodotti che a parità di qualità riuscivano a vantare un prezzo pari a una frazione di quelli a cui si era abituati. Ne consegue che mettere su un impianto hi-fi capace di una corretta impostazione sonora complessiva, e quindi gratificante all’ascolto, oggi non è più così impegnativo come un tempo. Mille euro non sono né pochi né tanti, dipende da cosa ne abbiamo in cambio, se una radio sveglia, un’utilitaria, una settimana bianca... Quanto costa ascoltare bene? Per ascoltare musica già con una qualità accettabile ne servono ancora meno, e una soluzione praticabile potrebbe già essere quella composta dal lettore Denon DBP-1611UD (legge tutto, CD, Mp3, DVD, Blu Ray, etc… a 499,00 euro di listino), dall’amplificatore Denon PMA510AE (249,00 euro), e dalle casse Indiana Line Tesi 260 (piccoli ma ben suonanti diffusori da piedistallo offerti a 280,00 euro). Il totale fa 1.028,00, ma i prezzi di listino dell’hi-fi in Italia (e a maggior ragione di questi tempi) sono del tutto vir-

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tuali, e tutti i negozianti di fatto ne praticano di ben più bassi. Diciamo che verosimilmente con 800,00 euro si può riuscire a portarsi a casa il tutto, compreso nel prezzo un decente set di cavi per i vari collegamenti (quelli forniti con gli apparecchi in genere sono di pessima qualità). Un significativo innalzamento della resa lo si può però già ottenere sostituendo il lettore digitale con il Rotel RCD 06 SE (550,00 euro, però legge solo CD) e i diffusori con un modello superiore della stessa serie, le 540, che sono da pavimento, garantiscono maggiore impatto e completezza armonica, e costano 420,00 euro. L'interazione con l'ambiente La differenza rispetto alla prima soluzione è di circa duecento euro, ma l’incremento di qualità la giustifica ampiamente. Già questo potrebbe essere un ottimo impianto, che con mille euro, se ben posizionato in ambiente, può offrire una resa musicale equilibrata e di qualità prossima, se non superiore in taluni casi, a quella ottenibile da impianti milionari messi però a suonare poco diligentemente in spazi non adatti alle loro caratteristiche. La resa finale di un impianto audio dipende infatti principalmente dall’interazione tra emissione acustica e ambiente, per cui dato che siamo già a fondo pagina, su questo aspetto ci torneremo in una prossima occasione, quando andremo a vedere, per chiudere l’argomento, quali sono attualmente invece le soluzioni di interesse offerte dalle nuove tecnologie e dall’utilizzo del computer come sorgente musicale.


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Storia

La favola della liberazione Reazione antiproletaria, ma anche un disegno politico preciso di Elio Camilleri

La Storia, si sa, la scrivono i vincitori e loro scrivono e non scrivono quello che vogliono; non è un problema, in questa sede, di stabilire ciò che è vero e ciò che vero non lo è, ma di scrivere cose mai scritte, ma taciute, sottovalutate, nascoste e censurate; sono da riscrivere i libri di storia e nelle scuole è giunta ora che si insegnino ai ragazzi di oggi cose mai insegnate e denunciare colossali mistificazioni. Gli anglo-americani avranno certo sconfitto Mussolini, alleato di Hitler, ma non ci hanno liberato dal fascismo perché hanno imposto la sostituzione dei prefetti nominati dai CLN, sicché, ancora negli anni sessanta erano al loro posto 62 prefetti su 64 provenienti dall’apparato fascista e mussoliniano, dall’OVRA, la polizia segreta del regime che, semplicemente, si rinominò Ispettorato di Pubblica Sicurezza. Hanno accolto nei loro servizi Junio Valerio Borghese, principe fascista e pontificio che fu il punto costante di riferimento

per tutte le azioni golpiste e terroristiche tendenti alla restaurazione di uno Stato illiberale e antisocialista; di ciò darà ampie prove nella preparazione del tentativo di colpo di Stato che avrebbe dovuto scattare la notte del 7 dicembre 1970 e che fu bloccato all’ultimo momento. Sulle torrette dei carri armati USA sventolava, accanto a quella a stelle e strisce, la bandiera gialla con le due “L” di Lucky Luciano e così il capo della mafia siciliana, Calogero Vizzini, fu nominato sindaco di Villalba così come numerosi capi di famiglie mafiose furono nominati sindaci dei loro paesi. Più che liberatori furono, altresì, abilissimi strumentalizzatori del banditismo ed, in particolare, di Salvatore Giuliano, comandante dell’EVIS (Esercito Volontari Indipendenza della Sicilia) e dell’intero movimento indipendentista guidato da Andrea Finocchiaro Aprile. Nell’uno e nell’altro caso risultò significativa la matrice anticomunista della duplice strumentalizzazione. L'uso politico del banditismo Poi, quando Salvatore Giuliano e Andrea Finocchiaro Aprile scomparvero dalla scena e quando la Democrazia Cristiana restò l’unico baluardo degli interessi del capitalismo, della mafia e della Chiesa cattolica gli USA non fecero mai più mancare aiuti, sostegni e sicure condivisioni. I documenti dell’OSS hanno permesso agli storici Casarubea, Tranfaglia ed altri di saperne di più sul progetto del gerarca Luca Pavolini di costituire nel Mezzogiorno liberato un esercito di duecentomila fascisti che sarebbero dovuti entrare in azione per impedire la formazione del nuovo

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Stato ” libero e democratico”. Ho messo tra virgolette gli attributi di libero e democratico perché, in verità l’Italia non è stata mai nelle condizioni di costruire una condizione di vera libertà e di autentica democrazia a causa dell’oggetto contesto internazionale che la collocò necessariamente nella parte occidentale e del capitalismo per cui visse e subì i pesanti e oggettivi condizionamenti a portare avanti il progetto socialista di una società realmente e materialmente giusta ed equa ove fossero garantiti e rispettati i diritti delle classi popolari contro assurdi e anacronistici privilegi delle classi dominanti. La mafia dei latifondisti Per la Sicilia, addirittura, la situazione fu ancora più grave e lacerante a causa della struttura residuale del latifondo e a causa della organizzazione mafiosa imposta dalle classi dominanti locali che assecondarono e condivisero la componente reazionaria ed antiproletaria esplosa a Portella della Ginestra. I “liberatori” prepararono ancora prima di sbarcare tutti gli ingredienti necessari per il piatto della strage di Portella della ginestra: il patto con la mafia (nomina di capi famiglia a sindaci in cambio di una tenuta anticomunista del territorio), i contatti con i fascisti della RSI, con il Vaticano per il tramite di Luigi Sturzo che ritenne opportuno mettere alle costole di un incerto Alcide De Gasperi il promettente Giulio Andreotti. E’ assolutamente necessario ridefinire concetti, rivisitare fatti, aggiornare conoscenze per liberarci, questa volta, da censure, mistificazioni e bugie.


Scienze

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Neutrini: ottant'anni di ricerche Parte I/ Dall’ipotesi di Pauli (1930) alla prima rivelazione (Cowan e Reines, 1956) di Diego Gutkowski Nel mare Jonio, al largo di Portopalo, si sta procedendo alla costruzione di un gigantesco sistema di rilevamento di neutrini che, una volta completato, sarà probabilmente il più grande del mondo. Esistono in varie parti del mondo sistemi di rilevamento dei neutrini e nei prossimi anni ne saranno costruiti altri. Per illustrare un’attività che si svolge anche in Sicilia e coinvolge ricercatori, università e istituzioni di ricerca siciliane (e non solo), conto di pubblicare su questa rivista una serie di servizi su alcune di queste ricerche, inquadrandole nel loro svolgimento storico a livello internazionale. Il neutrino è una particella elementare, denotata col simbolo ν; le sue principali proprietà note oggi sono riportate nella allegata Scheda sulle proprietà dei neutrini. Alla conoscenza di queste proprietà si è pervenuti nell’arco di poco più di ottant’anni, trascorsi da quando l’esistenza di questa particella fu ipotizzata da Wolgang Pauli fino ad oggi. L’antineutrino fu rivelato per la prima volta nel 1956 da Clyde Cowan e Fred Reines, quando ancora il neutrino non era stato rivelato. A quel tempo non era chiaro neppure agli stessi Cowan e Reines che la particella che essi avevano poco prima osservato era l’antineutrino, di cui si ignorava l’esistenza, e non il neutrino. L’ipotesi del neutrino era stata fatta da Pauli per spiegare uno “strano” fatto, di cui dirò tra poco, che si manifestava nel decadimento β, decadimento che fu osservato per la prima volta da Ernest Rutherford nel 1899.

In questo tipo di decadimento, che in alcuni nuclei è indotto mediante il bombardamento fatto con opportuni fasci di corpuscoli e in altri si verifica spontaneamente, furono osservate delle particelle che Rutherford chiamò “beta” e che, come si vide in seguito, si potevano identificare con gli elettroni che erano già noti ed erano già stati osservati qualche decennio prima (la parola “electron” per designare quelle particelle cariche che in Italiano si chiamano “elettroni fu proposta da George Francis Fitzgerald nel 1871). Il decadimento β A partire dal 1926 Enrico Fermi con i suoi collaboratori all’Università di Roma iniziò uno studio sistematico della fisica del nucleo. Questa scelta lo portò tra l’altro a studiare il decadimento β. In occasione del congresso Solvay che ebbe luogo a Bruxelles nel 1933 e al quale parteciparono alcuni dei maggiori fisici del tempo, tra i quali quelli che riguardano la presente esposizione furono Fermi, i coniugi Frédéric e Irène Joliot-Curie (chimici oltre che fisici), Pauli, Rudolf Peierls e Rutherford, si parlò anche di decadimento β; dai risultati sperimentali appariva che l’energia totale nella maggior parte degli eventi osservati non era conservata, perché il suo valore prima del decadimento risultava maggiore del suo valore dopo il decadimento. Il termine “neutrino” Questo fatto aveva indotto Pauli a formulare fin dal 1930 l’ipotesi che nel decadimento β una particella non osservata fosse presente nello stato finale e avesse l’energia che sembrava si fosse “perduta”. Seguendo una proposta fatta da Fermi al congresso Solvay del 1933 questa ipotetica particella fu chiamata “neutrino”. Successivamente si vide che, se il neutrino esisteva, allora la sua energia doveva essere compresa tra zero e un certo valore massimo, perché il valore dell’energia dello stato finale, nei vari eventi rilevati, non era costante ma risultava compreso tra due certi valori che dipendevano dal decadimento considerato.

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All’inizio l’unico argomento in favore della ipotesi del neutrino era che essa evitava la violazione di alcuni principi di conservazione (oltre a quello dell’energia ce n’erano altri ad essere violati), principi che, ad eccezione del decadimento β, erano in accordo con tutte le osservazioni sperimentali fatte da alcuni secoli, (io aggiungo che questo accordo qualche volta era stato ottenuto “inventando” delle opportune forme di energia, per es. l’ energia potenziale nella meccanica dei sistemi conservativi e l’energia interna in termodinamica). Per questa ragione fino ai primi anni ’30 del secolo scorso alcuni fisici ritenevano che l’ipotesi del neutrino non fosse fondata su una base solida. Dopo il congresso Fermi, assunta l’ipotesi del neutrino, ne dedusse varie conseguenze che espose in un articolo intitolato “Tentativo di una teoria dei raggi beta” che inviò alla rivista Nature; ma il direttore della rivista non volle pubblicare l’articolo, perché le ragioni per ipotizzare l’esistenza del neutrino non gli parvero sufficienti. Allora Fermi inviò l’articolo alla rivista Il Nuovo Cimento, che lo pubblicò (Il Nuovo Cimento, II, 1934, p. 1-19). Le modalità del decadimento β Negli anni seguenti furono osservate varie modalità del decadimento β, in alcuni casi veniva emesso un elettrone, in altri la sua antiparticella, chiamata positrone, che era stata osservata per la prima volta da Carl Anderson nel 1932 in altre circostanze. Nel decadimento β si osservava che cambiava il numero atomico dell’elemento che decadeva, mentre il numero di massa non cambiava, più precisamente quando veniva emesso un elettrone, che ha una carica elettrica di – 1,602 x 10 -19 C, la rimanente parte del sistema che decadeva acquistava una carica positiva di 1,602 x 10 -19 C , e nel decadimento scompariva un neutrone e compariva un protone, mentre quando veniva emesso un positrone, che ha una carica elettrica di 1,602 x10 -19 C la rimanente parte del sistema che decadeva acquistava una carica elettrica negativa di – 1,602 x10 -19 C, e nel nucleo che decade va scompariva un protone e compariva un neutrone; quindi nel decadimento β la carica elettrica risultò essere una grandezza


www.isiciliani.it Le proprietà dei neutrini Il neutrino è una particella elementare elettricamente neutra con spin ½ in unità ħ e massa molto piccola, ma non nulla, appartenente alla famiglia dei leptoni. Esistono tre tipi di neutrini con gli antineutrini corrispondenti: il neutrino elettronico con il corrispondente antineutrino con il corrispondente antineutrino e il neutrino tauonico con il corrispondente antineutrino I neutrini interagiscono con la materia solo mediante le interazioni deboli.

conservata e ciò comportava che la carica elettrica del neutrino, se esso esiste, deve essere nulla. Lo spettro dell’energia osservata dell’elettrone o del positrone emessi era in buon accordo con la teoria di Fermi. Questa teoria prevedeva che la massa del neutrino fosse molto piccola rispetto alla massa dell’elettrone, non escludendo la possibilità che fosse nulla; solo dopo alcuni decenni certi fatti sperimentali, ignoti quando Fermi espose la sua teoria, hanno mostrato che la massa del neutrino non è nulla, come si vede dalla scheda allegata. La teoria di Fermi prevedeva anche la possibilità di un processo inverso del decadimento β, prevedeva cioè che potesse avvenire uno dei due processi descritti appresso. Primo processo: un elettrone e un neutrino incidono su un protone e nello stato finale compare un neutrone e un protone, l’elettrone e il neutrino che erano nello stato iniziale sono scomparsi; secondo processo: un positrone e un antineutrino incidono su un neutrone e nello stato finale compare un protone e un neutrone, il positrone e l’antineutrino che erano nello stato iniziale sono scomparsi. La teoria di Fermi non prevedeva né che neutrino ed antineutrino fossero particelle identiche né che fossero particelle diverse, più tardi si vide (vedi scheda allegata) che sono particelle diverse. Fermi spiegò come facendo uso di un processo inverso del decadimento β si sarebbe potuto rivelare il neutrino e l’antineutrino. Hans Bethe e Peierls, usando i dati che allora erano a disposizione, calcolarono la probabilità che un antineutrino venisse assorbito da un nucleo provocando in esso la scomparsa di un protone e la comparsa di un neutrone e di un positrone (www.arvix.org/pdf/physics/0603039v3.pdf). Dai calcoli di Bethe e Peierls risultava che tale probabilità era così piccola che se un neutrino incide sul pianeta Terra la probabilità che esso emerga dalla terra dopo averla attraversata è molto più grande della probabilità che il neutrino venga assorbito all’interno della terra. Sembrò allora (ma non dopo circa 12 anni) che l’idea di Fermi, se pur corretta in linea di principio, non avrebbe permesso in pratica di rivelare neutrini (un ragionamento analogo si può fare per gli

antineutrini). Nel 1934 Fermi passò a ricerche di altro tipo. Fu Bruno Pontecorvo il primo a esporre un metodo basato sul processo inverso al decadimento β che, a suo parere, avrebbe permesso la rivelazione del neutrino (Chalk river Laboratory Laboratory report “Inverse β process” , 1946). Pontecorvo considerò diverse reazioni che si sarebbero potute impiegare per la rivelazione dei neutrini, tra queste la più promettente gli parve la seguente:

υe 37Cl + → e -- + 37Ar

Questa reazione fu realizzata da Raymond Davis nel suo esperimento sui neutrini emessi dal sole che gli valse il premio Nobel nel 2002. Dell’esperimento di Davis dirò in un prossimo articolo, perché esso è successivo alla prima rivelazione, ottenuta da Cowan e Reines nel 1956. Per illustrare come sia possibile utilizzare l’idea di Fermi per rivelare praticamente il neutrino Frank Close nel suo libro intitolato “Neutrino” (Raffaello Cortina Editore, ISBN 978-88-6030-4520) ricorre all’analogia della lotteria. Io ricorro all’analogia del Super Enalotto, perché questo gioco mi è più familiare. Se voglio rivelare l’evento “è uscito un sei giocato al Super Enalotto” allora non è molto utile che io vada a giocare una schedina. Anche se andassi a giocare una schedina per ogni estrazione che viene fatta, molto probabilmente nel tempo che mi resta da vivere non riuscirei a rivelare l’evento “ho fatto sei”. Pure l’evento “qualcuno ha fatto sei” (e ha intascato un bel malloppo) è stato rivelato molte volte. Il punto è che il numero di combinazioni giocate da qualcuno è molto più grande del numero di combinazioni giocabili da me. Nel caso della rivelazione del neutrino affinché essa possa avvenire con probabilità non trascurabile è necessario che un grandissimo numero di neutrini interagisca col rivelatore . Reines, che per alcuni anni si era posto il problema di rivelare i neutrini senza trovare una soluzione, nel 1951 ne aveva parlato con Fermi chiedendogli se riteneva possibile tentare l’esperimento in occasione di una esplosione atomica, dato il grandissimo numero di neutrini che vengono emessi in tale circostanza; Fermi

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rispose che ci si poteva pensare, ma né Fermi né Reines avevano al momento idea del rivelatore che si sarebbe potuto usare. Poco tempo dopo Reines conobbe Cowan e gli parlò del problema del rilevamento dei neutrini; Cowan ne fu interessato e entrambi decisero di collaborare. Nel settembre 1952 Reines e Cowan compresero che c’era un modo migliore per effettuare l’esperimento di quello di operare in concomitanza con una esplosione nucleare: operare in prossimità di un reattore nucleare perché esso poteva essere una sorgente soddisfacente di neutrini. Attorno al 1950 erano in funzione negli Stati Uniti d’America diversi reattori nucleari. Tipicamente un reattore nucleare è in grado di emettere 10.000 miliardi di neutrini al secondo per centimetro quadrato e si poteva pensare al progetto di un esperimento da eseguire in prossimità di un reattore nucleare. Il 4 ottobre 1952 Cowan e Reines scrissero a Fermi, esponendogli la loro nuova idea e chiedendogli cosa ne pensava. Fermi rispose subito, convenendo che si trattava di una buona idea. Nel 1953 Cowan e Reines costruirono il prototipo di un rivelatore di neutrini, che chiamarono “Poltergeist”. Le reazioni che avvenivano nel rivelatore provocavano due distinti lampi di raggi gamma a circa 5 microsecondi l’uno dall’altro qualora un (anti)neutrino fosse stato catturato. Per maggiori dettagli rimando al libro “Neutrino” di Frank Close, pag. 40. Cowan e Reines collocarono il Poltergeist in prossimità di uno dei reattori nucleari degli Hanford Engineering Works nello Stato di Washington e quello stesso anno trovarono i primi indizi un segnale, tuttavia le osservazioni non permettevano di trarre conclusioni certe. In seguito Cowan e Reines costruirono un rivelatore di maggiori dimensioni e lo collocarono nel sottosuolo a 12 metri di profondità, ben schermato dai raggi cosmici e a meno di 11 metri dal nucleo del reattore di Savannah River. Nell’estate del 1956 il Poltergeist registrò lampi di raggi gamma con un intervallo di 5,5 microsecondi. Cowan inviò un telegramma a Pauli annunciando che era stato finalmente rivelato il neutrino che lo stesso Pauli aveva ipotizzato un quarto di secolo prima. (continua)


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Pianeta

Arrivano i bit-Paperoni Il successo della moneta elettronica porta con sé i primi inconvenienti. Esempio: chi controllerà i milionari in bitcoin? di Fabio Vita bitcoin-italia.blogspot.com Un rapido giro d'orizzonte sul mondo della moneta elettronica. Cominciamo con la notizia più importante, la conferenza annuale degli sviluppatori e utilizzatori.

scita a far passare la legge Icelandic Modern Media Initiative (Immi) che protegge la libertà di parola; ha messo in rete il wikivideo che denuncia il mitragliamento, da parte di un "Apache" Usa, di un gruppo di giornalisti della Reuters. Altri ospiti: Max Keiser, che ha denunciato scandali bancari e crimini finanziari negli Usa ed diventato popolare presso la comunità bitcoin definendolo nel suo programma: moneta della resistenza; Denis Roio, uno dei primi attivisti del movimento free software, che intende il bitcoin come una possibile moneta comunitaria delle persone; Matthew Wright, di “Bitcoin Magazine” (una rivista popolare, non per nerd); Jeff Garzik, fra i più famosi sviluppatori Linux (su gawker ha precisato i limiti alla presunta anonimità del bitcoin).

Bitcoin Conference La Bitcoin Conference di quest'anno si fa a Londra, il 15 e 16 settembre (Hotel Imperial, Russell Square). L'anno scorso era stata scelta Praga, in quando soluzione economica, e non si era sicuri della piena riuscita dell’evento. Ma adesso molte cose si sono evolute e in prima fila ci saranno Reuters, Guardian e Bbc. Richard Stallman – padre e profeta del software libero - srà l'ospite d'onore. Molti sistemi operativi Linux sono basati sul suo software Gnu. Il suo concetto di software libero è alla radice del bitcoin. Questo non gli ha impedito, di recente, di mettere in guardia anche dai possibili pericoli dei pagamenti elettronici. Ci sarà Birgitta Jonsdottir, membro del parlamento islandese, presa di mira dal governo americano per i suo coinvolgimento in Wikileaks (che a un certo punto ha messo in rete l'allegra contabilità della banca islandese Kaupthing, che faceva grossi prostiti... a se stessa). Birgitta è rie-

Milionari in bitcoin Alcuni utenti hanno ricchezze milionarie in bitcoin: quante sono frutto di monopoli o situazione dominanti attorno al sistema bitcoin? Gli utenti di Deepbit, il più grande “mining pool”, hanno minato oltre un milione dei nove e mezzo milioni di bitcoin in circolazione; Mtgox è un servizio di cambio e borsa che muove il 90 per cento del volume delle contrattazioni in bitcoin. E quanti speculatori e trader ci sono fra coloro che si fidano della sicurezza del sistema e delle sue possibilità d’investimento? Sul solito Forbes, attivissimo sull’argomento bitcoin - oltre che famoso per la sua lista di milionari in dollari - un articolo segnala che diversi gruppi sono a loro agio nel tenere milioni di dollari in bitcoin, al di fuori delle banche: non si può identificare la persona o l'azienda che li

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La moneta elettronica

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (aggiornamenti in tempo reale)

possiede (e può anche avere diversi indirizzi bitcoin). Al cambio attuale di 8.90 dollari per bitcoin il più ricco possiede 3,9 milioni di dollari (erano 2,85 milioni di dollari a giugno). Con una capitalizzazione totale di 83 milioni di dollari - precisa Forbes - , un singolo indirizzo possiede quasi 4 milioni di dollari, e non è il solo. E' facile vedere i problemi di questa situazione.

Povero Kim Kim Dotcom, il fondatore di Megaupload (servizio di condivisione di file, tra i dieci siti più clicckati di Internet), “catturato” in maniera holliwoodiana con tanto di Apache e documentazione falsificata, ha chiesto ai suoi followers di Twitter se conoscono alternative alle carte di credito e Paypal: la risposta è stata bitcoin. Kim Dotcom ha i conti bloccati e spese legali per milioni di dollari. Matonis su Forbes dice che se avesse avuto dei fondi per spese preprocessuali in bitcoin sarebbe stato al sicuro, e che probabilmente in futuro molti fondi di difesa legale saranno creati in bitcoin. LINK DEL MESE http://www.forbes.com/sites/jonmatonis/2012/06 /22/the-bitcoin-richest-accumulating-largebalances/ http://bitcoinmagazine.net/the-london-2012bitcoin-conference/ http://www.bitcoin2012.com/ http://www.forbes.com/sites/jonmatonis/2012/07 /12/kim-dotcoms-pretrial-legal-funds-would-besafe-with-bitcoin/ http://www.tomshw.it/cont/news/megauploadforse-riaprira-perche-l-fbi-l-ha-fattagrossa/37115/1.html


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Antimafia

“L'unico Ponte che vogliamo” A Monasterace, in Calabria, un incontro per fare incontrare delle storie e unirle insieme di Nadia Furnari www.ritaatria.it

Dall’autunno alla primavera noi dell’Associazione Antimafie “Rita Atria” siamo andati diverse volte in Calabria: per i testimoni, per il processo di Anna Maria Scarfò, nelle scuole, per incontrare sindaci, magistrati e questori, per parlare con le associazioni. Abbiamo l'abitudine di voler conoscere e cercare di capire, e abbiamo capito che le uniche persone che possono raccontare la Calabria sono i calabresi. Quei calabresi che lottano ogni giorno nel silenzio mediatico oltre che nell’isolamento sociale e politico.

Monasterace è un piccolo paese della Locride con un bagaglio storico certamente degno di essere raccontato. “Monasterace è uno dei pochi paesi della Calabria ad avere due origini: magno-greca e medioevale", proclama con orgoglio il sito del comune Qui si è svolta il 28 luglio l’iniziativa “L’unico Ponte che vogliamo”, nata da un percorso tra l’associazione antimafie “Rita Atria” e Stopndragheta.it insieme all’Associazione Peppino Impastato, a radio Aut , a Casablanca, ai Siciliani giovani e a Telejato. Le idee non nascono così per caso, ma si costruiscono attraverso le storie che cerchiamo: e anche l’evento di Monasterace ha origine da una email inviata a Francesca Chirico di Stopndrangheta.it per sapere cosa stava succedendo in Calabria - troppe donne uccise. La morte di Maria Concetta Cacciola nell’agosto scorso ci aveva lasciato senza fiato perché non era possibile che ci si potesse uccidere a soli 25 anni e nel modo più tragico possibile: ingerendo l’acido. Quella morte sentivamo che era responsabilità anche nostra, di noi che spesso interveniamo solo ai funerali o per commemorare non accorgendoci magari di avere accanto gli assassini morali e a volte di supportare anche le loro false battaglie antimafiose.

Senza nomi famosi “L’unico Ponte che vogliamo” - così abbiamo chiamato l’iniziativa del 28 luglio a Monasterace - vuole unire idealmente le due sponde , esssere uno spunto di lotta per liberarci dalla sopraffazione delle mafie e di quella politica che vorrebbe il sud schiavo e fabbrica di voti passivi ed inquinati. Sulla locandina che promuove l’iniziativa (che ricade nel ventennale della morte di Rita Atria) non abbiamo messo nomi ma solo presenze: amministratori, giornalisti, artisti, associazioni, testimoni… tutti uniti dalla fantastica vignetta di Amalia Bruno in cui due donne intessono

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fili tra le due regioni. E questa locandina senza nomi ha portato in piazza tante persone, richiamate dall’idea e non da nomi famosi. Eppure in quella piazza c’erano pezzi di storia credibile dell’antimafia calabrese e siciliana. A Monasterace abbiamo portato la Sicilia di Peppino Impastato, l’informazione di Pippo Fava, il coraggio della testimonianza e il sogno del cambiamento; la Calabria ha portato la resistenza dei Valarioti, la voce di quella Magistratura che ogni giorno lotta contro le solitudini politiche e sociali, la forza del giornalismo senza bavaglio e il dolore resistente dei famigliari delle vittime, il coraggio di amministrare. A Monasterace abbiamo chiesto: Ai sindaci che lottano in terre di mafie di avere come unico partito di riferimento il Territorio. Alla stampa di seguire quello che Pippo Fava definiva “un concetto etico di giornalismo”: “Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. Agli abitanti dei Territori di essere Cittadini e cioè di partecipare attivamente alla vita politica e sociale senza delegare. Alle Associazioni chiediamo di essere strumento di coesione e punti di riferimento sociali e soprattutto chiediamo indipendenza dai partiti e dalle istituzioni. Gli articoli solitamente prevedono delle conclusioni ma preferiamo fare un’eccezione e mettere tre puntini di sospensione per lasciare aperta la discussione e per tracciare, anche su un pezzo di carta virtuale, la voglia di non definire conclusioni ma di scoprire altre storie che si uniscano fra di loro Con la forza delle idee, della Resistenza sociale e di un'antimafia antifascista e antimilitarista.


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Inter viste/ Francesco Giambrone

Palermo che riparte Viaggio dentro Palermo La prospettiva culturale della nuova Amministrazione di Palermo. Ne parliamo con Francesco Giambrone, Assessore alla cultura di Giovanni Abbagnato Francesco Giambrone, medico, critico musicale, ex Assessore alla cultura, inventore, tra l’altro, di quell’eccellenza culturale che furono negli anni ’90 I Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, ex sovrintendente del Maggio musicale fiorentino e tanto altro. Certamente una personalità poliedrica che, nonostante la sua notevole esperienza politico –amministrativa, mantiene quello che, probabilmente, è il suo sentirsi, prima di qualsiasi altra definizione: un uomo impegnato della società civile incline a mettere a disposizione della collettività le sue riconosciute, polimorfe qualità. In questo senso, Giambrone rappresenta il prototipo di un amministratore impegnato in una realtà difficilissima, ma di grandi potenzialità come Palermo perché in grado di combinare in se gli attributi più rappresentativi di una certa categoria di amministratori esterni alla politica, ma in grado di conoscerne limiti e risorse e, quindi, naturalmente, il punto di riferimento per gli altri componenti della squadra di governo. Per questo caratteristiche ci è sembrato uno degli interlocutori più avvertiti per conoscere idee e prospettive che stanno segnando questo nuovo esordio dell’Amministrazione di Palermo guidata da Leoluca Orlando.

Domanda: Assessore, se Lei è d’accordo, prendiamola alla lontana. Quanto questa nuova amministrazione di Palermo è in continuità con quella che negli anni ’90 fu parte determinante della Primavera di Palermo, di cui Lei è stato autorevole esponente, e quanto è, o deve essere, un’esperienza diversa? R. Se parliamo dell’idea di città e di comunità che si vuole costruire attorno ad alcuni valori e d alcuni principi, l’idea e il senso da dare all’azione politica – amministrativa non è cambiata. Tuttavia, non si può non considerare che è cambiato il mondo, è cambiata la città è cambiata la società e, quindi, complessivamente le condizioni sulle e per le quali intervenire. Sullo sfondo c’é un’altra condizione non trascurabile, ma essenziale, ossia la crisi economica generale che aggrava quella finanziaria degli Enti Locali e, in particolare, la situazione disastrata del bilancio del Comune di Palermo. Giusto per rimanere alle competenze dell’Assessorato alla cultura, nelle precedenti Amministrazioni Orlando venivamo da una condizione straordinaria in cui Palermo spendeva moltissimo in cultura, più di città del calibro di Milano, Firenze, Venezia, ecc.. Rifondare la città con la cultura Questo primato dipendeva dalla scelta di quella Amministrazione di fare della cultura un asse fondamentale per “rifondare” una città mortificata dal giogo di un sistema in cui il malgoverno e il fenomeno mafioso risultavano preponderanti nelle dinamiche della società. In questo senso, si invertì la tendenza rispetto all’incapacità delle precedenti amministrazioni di spendere. Io ricordo che quando iniziai la mia attività di amministratore, nel ’95, la capacità di spesa dell’Assessorato era di meno del 40%. Vuol dire che più del 60% di quanto iscritto in bilancio non veniva speso e passava in economia. Il fatto di avere i soldi e di non saperli spendere mi sembrò una follia e il mio impegno allora fu di

riuscire a fare una spesa di qualità che riguardava il 99% delle risorse disponibili. Questo era un punto di vanto e di orgoglio, ma, soprattutto, di buona Amministrazione. Adesso siamo in una condizione assolutamente diversa perché risorse non ne abbiamo e, quindi, dobbiamo pensare a come mantenere la stessa idea che era e rimane quella del fare in modo che le politiche culturali siano al centro dell’azione di governo della città e siano uno degli strumenti per lo sviluppo e la crescita della città stessa. Operazione da fare senza soldi e, quindi, molto complicata. Ma proprio per questo a quella lavoriamo provando ad immaginare delle politiche culturali mettendo a disposizione di chi si occupa di cultura strumenti, opportunità, servizi. Quindi c’è sicuramente un elemento di continuità, ma in un contesto diverso di opportunità. D. E' forse possibile convenire che con un’eredita pesantissima come quella derivata dal decennio di Cammarata che ha consegnato una città - oltre che disastrata finanziariamente ed organizzativamente letteralmente “piegata in se stessa”, è inevitabile evidenziare che il rilancio non può essere affidato solo al pur necessario intervento emergenziale, a partire dalla riscrittura del bilancio comunale, ma deve ripartire da una prospettiva “alta” per la città che con alcuni “grandi progetti” di respiro nazionale ed internazionale, dove ancorare un “cronoprogramma” di interventi. In questo senso, quali le idee dell’amministrazione? R. Noi veniamo da un decennio devastante perché, oltre all’incapacità amministrativa, si è sostanzialmente provato ad azzerare quanto fatto prima. Io ricorderò sempre una delle personalità più interessanti di Palermo, l’intellettuale Giuliana Saladino, che quando assunse la responsabilità di Assessore della Giunta Orlando disse: Palermo non ha bisogno di un nuovo teatro, ma del teatro Massimo che funziona; Palermo non ha bisogno di un nuovo museo, ma di un museo che funziona.

Domanda: I Sicilianigiovani – pag. 72


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“I movimenti spontanei della società civile” Fabio D'Urso

Quindi, venivamo da questa impostazione e da una stagione in cui si sono aperte e realizzate tante strutture. Quindi, il fatto che oggi siamo nella stessa condizionedell’esordio di quel tempo in cui tanto è chiuso e non funziona, tranne qualcosa naturalmente, ci ha portato in una condizione in cui non siamo andati indietro di 10, ma di 20 anni. Riprendere il passo che una città come Palermo merita senza adeguate risorse è un’impresa molto difficile e delicata, ma proprio per questo bisogna ripartire da alcune idee importanti. In questa logica, sicuramente la valorizzazione del Parco della Favorita, con una possibilità di migliore fruizione per tutti i cittadini può essere un banco di prova importante per l’idea di una “città che si riprende la città” per fare comunità. “Palermo si riprende Palermo” Più in generale, la cultura e la legalità sono gli assi strategici dell’intervento di questa Amministrazione. A proposito, in questi giorni si firmerà un Protocollo di Legalità con i Ministeri dei Beni Culturali e degli Interni e nelle visite previste abbiamo significativamente inserito la Galleria d’Arte Moderna e la piccola Biblioteca di quartiere di Brancaccio che avevamo aperto e che successivamente ha subito il degrado di tanto altro. Per fortuna, questo non è successo con la Galleria, concepita e realizzata dalle precedenti Amministrazioni guidate da Orlando e dopo inaugurata dalla successiva Amministrazione che, in questo caso, non ha potuto bloccare un percorso troppo avanzato. E questo potrebbe essere sicuramente un esempio di buona Amministrazione che prova a costruire in continuità. Insomma: la Favorita e tutte le attività inserite nell’asse cultura e legalità al servizio di politiche per fare comunità che poi è stata la rappresentazione del recente Festino che, nonostante le pochissime risorse disponibili, ha mostrato, per giudizio pres-

socchè unanime, di avere un pensiero dietro che conduceva valori di solidarietà, d’integrazione sociale tra tutte le comunità ormai stabilmente presenti in città, di attenzione ai soggetti più deboli, con il non trascurabile impegno di circa 1200 cittadini impegnati nei lavori di preparazione e realizzazione del Festino. D. Non per agitare nostalgie che non devono appartenere a questa stagione, ma la riapertura del prestigioso Teatro Massimo, dopo più di un ventennio di abbandono, e il salvataggio e la riconversione culturale dei Cantieri della Zisa, uno dei più importanti giacimenti di archeologia industriale d’Europa, rappresentarono delle” idee- forza” che, qualunque sia il giudizio su quella stagione amministrativa, innegabilmente trascinarono la rinascita della città. Lei che, curiosamente, è legato al’individuazione e alla realizzazione di questi “grandi progetti”, a cosa pensa oggi in questa direzione? R. Non ho alcuna nostalgia e sono convinto che la categoria della nostalgia non deve appartenere all’ispirazione di questa esperienza di governo per le profonde modificazione che hanno interessato la città, le persone e l’intero contesto storico e socio-economico del tempo che viviamo. Non ci deve indurre a nessun tipo di giustificazionismo la consapevolezza di venire da una situazione da dimenticare, da una disamministrazione della città, oltre ogni misura immaginabile, che aveva interrotto una stagione sociale e amministrativa tra gli anni ’90, complessa e difficile, ma che, indubbiamente rilanciò – nel contesto nazionale ed internazionale - una città oggettivamente importante come Palermo, già allora piegata dalla cattiva amministrazione e dalla violenza mafiosa. D. La cultura Palermo. Senza fare l’esercizio, sempre inutile e dannoso, di “sparare sulla croce rossa”ricordando le malefatte e gli abbandoni di Cammarata, per la sua esperienza, arricchita anche dal

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fatto di essere statoal timone di istituzioni culturali di livello internazionale, qual è lo stato dell’arte? R. lo stato dell’arte sta in una dimensione quasi schizofrenica tra la grande ricchezza espressa dalla città e la grande povertà della politica. Ricchezza espressa dalla città in tutti i campi della cultura che ha, di fatto, vicariato il pubblico. E’ successa una cosa strana a Palermo, ma anche bella, se non fosse che denota l’assenza della politica e quindi un effetto grave. Ma il fatto in sè non è del tutto negativo. Per esempio, nel quartiere dell’Albergheria, nella piazzetta “delle balate”è sorta su inziativa privata una piccola biblioteca detta “delle balate”, di fronte a un piccolo teatro col medesimo nome che in una realtà degradata, a proposito di cultura e legalità, hanno prodotto un lavoro molto interessante che probabilmente spettava al pubblico, almeno dal punto di vista del sostegno e dell’attenzione. E’ un solo esempio, il primo che mi viene in mente, ma molto importante. I Cantieri Culturali e il Garibaldi Non è un caso che siano sorti spontaneamente due movimenti della società – uno più genericamente di cittadini che si è organizzato per richiedere ed attuare l’apertura dei Cantieri culturali della Zisa, lungamente abbandonati, e l’altro più specificamente di artisti – che ha occupato un’altra importante struttura abbandonata come il Teatro Garibaldi. E’ molto singolare che in questa città il tema degli spazi pubblici sia posto alla politica da “privati cittadini”.ponendo all’attenzione il fatto che non era possibile accettare questa insostenibile situazione. Ecco, questa Amministrazione dovrà recuperare attenzione e idee per il tema dei beni comuni, ereditando precedenti importanti, ma senza inopportune nostalgie e tenendo ben presente quanto maturato nel dibattito più recente sui beni comuni.


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Nota a margine QUESTO VIAGGIO QUESTI TESTIMONI La nuova Amministrazione di Palermo guidata da Leoluca Orlando è ormai un fatto e la difficilissima fase di governo della città che si è aperta ha inevitabilmente, se non sanato, accantonato, almeno sul livello cittadino, le polemiche che hanno segnato un’incredibile campagna elettorale dopo l’unanimemente riconosciuto disastro del decennio di Cammarata. Orlando e la sua squadra sanno bene che sarà molto breve la tregua che la città è disposta a concedere prima di ricevere risposte sui variegati problemi, gravi e incancreniti, che ruggiscono intorno al Palazzo delle Aquile. E’ necessario affrontare le tante emergenze a partire dall’approvazione di un bilancio disastrato che il Commissario straordinario ha dovuto predisporre facendolo quadrare, con una visione inevitabilmente ragioneristica che però, salvo il necessario rigore contabile, non può essere la risposta tecnico-politica per il rilancio della quinta città d’Italia. Se l’amministrazione non vuol farsi travolgere da un retaggio nefasto deve andare in controtendenza rispetto al degrado determinato dall’assoluta insipienza del decennio buio di Cammarata. Come recitava un detto antico, deve macinare politica in grado di produrre idee forza di carattere strategico e linee di intervento tanto realistiche quanto capaci di fare intravedere effetti nel breve, medio e lungo termine. Una sorta di miracolo, considerato il pregresso e la drammaticità delle condizioni del Paese nel suo complesso. Indubbiamente un miracolo in senso laico che attiene ad un’idea di politica che mentre appronta strumenti concreti d’intervento è in grado di offrire una visione di una città come Palermo, maledettamente importante, e della sua comunità, forse per troppo tempo caduta in una sorta dinarcosi sociale collettiva. D. Lei del movimento de “I Cantieri che vogliamo” che evocava è stato anche uno dei protagonisti e ha contribuito da cittadino alla costruzione democratica di una reazione all’abbandono dei Cantieri, con una mobilitazione interessante sul piano dell’azione sociale e della proposta culturale sui beni comuni. Questa mobilitazione collettiva, tra l’altro, ha impedito che andasse in porto un “colpo di coda”

E’ impossibile omettere che questa Amministrazione, perfino al di là della straripante personalità politica del suo sindaco, ha una storia ineludibile che affonda le sue ragioni in una stagione che non è retorico definire epica per quello che ha rappresentato sul piano sociopolitico tra gli anni ’80 e ’90. Una stagione non a caso passata nell’immaginario collettivo come “la Primavera di Palermo”, in cui indubbiamente una città, in larga parte, rispose ad una situazione assolutamente drammatica e insieme si fece interprete e si fece interpretare da una proposta politica che era di rottura di vecchi schemi politico-affaristici mafiosi, ma anche di costruzione di una prospettiva realizzabile. Tale prospettiva ancorava la concretezza delle soluzioni ad un’utopia possibile costituita da una visione che incredibilmente scommetteva sul fatto che Palermo, proprio quando sembrava definitivamente in ginocchio e in balia totale dei suoi drammi storici e dello strapotere incontrollato e incontrollabile della mafia, poteva, non solo rialzarsi, ma divenire insieme un simbolo e un esempio di rinascita di dimensioni internazionali. Fu il tempo della Palermo e dei suoi protagonisti sulle copertine dei più importanti magazine internazionali e la stagione in cui artisti di assoluto livello mondiale scelsero di lavorare a Palermo considerandola una delle città più interessanti dove sperimentare futuro. Furono usati termini eccezionalmente altisonanti come Rinascimento, ma al di là delle semplificazioni giornalistiche, indubbiamente in quella stagione Palermo guardò il mondo e il mondo guardò Palermo. Oggi si discute spesso se la Primavera è ormai poco più di un ricordo o se ha lasciato un’eredità spendibile. Forse è più importante riconoscere, al di là delle visioni agiografiche di quella stagione, la caratteristica carsica che, forse più che altrove, hanno i movimenti sociali e culturali di questa città che ad un certo punto della loro parabola sembrano ingrottarsi, come i suoi fiumi alludell’amministrazione Cammarata che, alla viste della sua caduta, emanava un bando discutibilissimo, sul piano della legittimità giuridica e della gestione democratica dei beni pubblici. Oggi, che nella veste di amministratore, correttamente e doverosamente ha fatto un passo indietro rispetto all’impegno nel movimento, su quali basi pensa si possa sviluppare, anche in questo ambito, un rapporto di collaborazione tra

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vionali tra i Kanat arabi del suo intricato sottosuolo, per poi imprevedibilmente riapparire quando i palermitani stessi meno se l’aspettano. Come tutto a Palermo anche questa caratteristica sociale è esagerata ed è insieme limite da non sottovalutare , ma anche speranza da non perdere. Al di là delle insidie del tempo e degli inevitabili cambiamenti che s’impongono su tutto e tutti, le potenzialità di ripartire sempre da una primavera danno la dimensione della capacità di reazione di un popolo, che viene da lontano. Ma va considerato anche il rischio di non sapere cogliere l’originalità di ogni tempo attrezzando una proposta sociale e politica che sia o del tutto smemorata rispetto a quanto già accaduto, oppure appiattita su una sorta di grandeur politico – culturale che, fin da tempi lontani, più che stimolare all’azione innovativa le migliori energie, ha coltivato la conservazione. Sta forse in questa dicotomia tra un’eredita importante e l’ineludibile sfida originale presentata dal presente e del futuro il guado stretto dentro il quale deve passare il progetto politico e l’azione amministrativa della Giunta di Leoluca Orlando. Provando a “volare” un po’ più in alto delle dispute politiche, tra e dentro i diversi schieramenti, sarebbe miope non cogliere che questa nuova fase sociale e amministrativa di Palermo rappresenta un po’ uno spartiacque tra un tempo in cui – al di là delle specifiche responsabilità – la quinta città d’Italia, Capoluogo della Sicilia, si presentava “piegata in se stessa” e incapace di reagire ai suoi drammi vecchi e nuovi. Probabilmente, dopo, tutto non sarà lo stesso e per questo abbiamo pensato di iniziare un “viaggio dentro la città” .attraverso dei testimoni che per personalità e ruolo sembrano avere capacità ed esperienza per raccontare una comunità urbana assai complessa e, forse suo malgrado, importante, troppo importante. G.A. l’Amministrazione e le forze attive della città, sia pure con chiara distinzione di ruoli e senza collateralismi di sorta? R. Si parlava prima delle esperienze, diverse, ma convergenti, dei Cantieri culturali della Zisa e del Teatro Garibaldi. Il confronto con i movimenti deve essere un approccio e un metodo fondamentale di governo della città.


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“La biblioteca al centro della vita delle persone” Fabio D'Urso

Tutto sta all’interno dei valori di questa amministrazione rappresentati dalla partecipazione alle scelte e dal decentramento amministrativo che sono precise deleghe di un Assessorato, ma anche punti fondamentali dell’azione collegiale della Giunta. Il confronto con i movimenti, anche quelli cha hanno scelto sistemi “illegali” per portare avanti il loro gesto di disobbedienza civile, deve diventare un motivo di coesione e di sostanziale affermazione della legalità. La vera violenza contro la città Questo perché la domanda fondamentale è: tra chi per manifestare la propria volontà di non lasciare nell’abbandono importanti strutture culturali non ha avuto che la possibilità di occuparli in modo creativo, offrendo un prodotto culturale alla città, e chi ha voluto l’abbandono completo e irresponsabile sia dei Cantieri, del Garibaldi e di tanto altro, chi è che ha commesso la vera violenza, spesso anche tecnicamente illegale, nei confronti della città? Questo è un momento magico di fermento culturale per la città e, come ho detto in più occasioni in importanti manifestazioni culturali create dagli operatori privati come “Unamarinadi libri”, Soleluna, ecc., ognuno deve fare la sua parte per sostenere e valorizzare questo fermento. L’Amministrazione sicuramente è molto determinata in questa direzione. D. Gli artisti palermitani e, più in generale, gli operatori della cultura, rappresentano sicuramente un patrimonio da coinvolgere e valorizzare in un complessivo progetto culturale, sia pure diffidando da logiche autarchiche. La vicenda dell’occupazione del Teatro Garibaldi, come le recenti realizzazioni ai Cantieri Culturali in campo musicale, cinematografico e, più in generale, di arti visive, impone una riflessione su come un’amministrazione può superare quella che, nella migliore delle ipotesi, è una visione da mecenate del suo

collaborazione con le Istituzioni culturali e le associazioni che faccia della necessità virt e, dove il valore aggiunto dato dell’Amministrazione sta nei servizi e nelle opportunità resi.

ruolo, con possibili degenerazioni clientelari, a quella che è una funzione di stimolo attraverso una corretta possibilità di accedere a servizi e il concorso nella costruzione di una complessiva dimensione culturale della città. Qual’ è la sua opinione? R. Sarò ancora chiarissimo. I Mecenati non li possiamo fare per mancanza di soldi. Quindi, ogni eventuale rischio nel senso indicato è scongiurato per assenza di presupposti per un’eventuale degenerazione rispetto alla quale questa Amministrazione è molto vigile e attenta. Quella che è la nostra idea - possibile e anche utile per la città – riguarda scelte che diano opportunità agli artisti e, in generale, a chi produce cultura a Palermo. L’idea che vale oltre la necessità contingente è di sostituire al finanziamento la fornitura di servizi e strutture a fronte di servizi reali che le associazioni rendono alla città. In questo senso si sta studiando una delibera per consentire questo tipo di collaborazione che intervenga sul Regolamento comunale per consentire la modifica del rapporto di utilizzo di strutture comunali con associazioni di comprovata reputazione e azione socialmente rilevante. Altra iniziativa alla quale assegniamo notevole importanza è un’azione di partnership con il Consorzio universitario Arca per costituire un incubatore di imprese culturali che tragga ispirazione da un incontro virtuoso tra il talento dei giovani, il mondo dell’impresa e l’Istituzione. Un altro capitolo di questo disegno è “l’estate palermitana”, un contenitore culturale di qualità, che la città si aspetta e che stiamo mettendo a punto, nonostante le solite difficoltà economiche, con una

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D. Infine, il suo sogno nel cassetto che vorrebbe fosse il compendio del suo bilancio di fine mandato. R. Spero di potere lasciare una città nella quale l’infrastrutturazione culturale sia cresciuta e si stia stabilizzata sul territorio. Non solo le grandi istituzioni culturali, pure importantissime, ma soprattutto le biblioteche di quartiere, finalmente aperte tutto il giorno e perfino la domenica che, nella tradizione di modelli sociali evoluti, possano diventare luoghi di aggregazioni dove le persone possano trovare risposta alle loro istanze culturali e di socialità e, perfino, rimedio ad alcuni disagi. La biblioteca al centro della vita delle persone. “Un centro sociale per quartiere” In questo senso l’espressione in voga nella Primavera di Palermo - un centro sociale per ogni quartiere – direi che è ancora valida, ma da sviluppare, nel senso che l’esperienza ha insegnato che l’estensione territoriale e la composizione sociale di certe Circoscrizioni e così vasta e disomogenea da non consentire servizi socio-culturali unificati. Pertanto, più centri sociali visti in una dimensione innovata e propulsiva di nuova socialità e, in generale, per tutti i cittadini e le persone che vivono in città, più opportunità e più partecipazione alle scelte per la collettività. Insomma, in fondo auspico una Città e un’Amministrazione normale anche se, purtroppo, a Palermo tutto quello che dovrebbe mostrare i crismi della normalità è considerato straordinario. E’ questo per Palermo è sicuramente un normale limite, ma, visto in termini di impegno per il cambiamento, anche una straordinaria opportunità.


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Informazione

Giornali “a sinistra” all'ora dell'aperitivo C'erano una volta Paese Sera, Avvenimenti, i grandi e amati giornali popolari. E ora? Qualcuno ne ha comprato i nomi. Ma solo quelli di Pietro Orsatti

E tramonta questo giorno in arancione e si gonfia di ricordi che non sai mi piace restar qui sullo stradone impolverato, se tu vuoi andare, vai... Bartali - Paolo Conte

Mi ritrovo all’Antica Focacceria S. Francesco quasi per caso per incontrare una giovane collega che ha seguito un annetto fa un mio workshop sulla documentaristica. Non alla Focacceria originale di Palermo, ma a quella aperta a piazza della Torretta a Roma. Proprio accanto alla sede dell’Ordine dei Giornalisti. La collega è decisamente scoraggiata. Da mesi scrive gratis per una testata online, altri non l’hanno pagata, di trovare anche una mezza collaborazione estiva in qualche testata neanche se ne parla.

Dividiamo uno sfincione (pagato a peso d’oro, se lo sapessero a Palermo) e io mi ritrovo a fare l’avvocato del diavolo. “Cercati un lavoro, uno qualsiasi, e lascia perdere per ora. Qui non c’è uno spazio uno per la vostra generazione”. Lei mi guarda sconfortata. “Neanche a un call center accettano il mio curriculum”. E già. Come fai a farti un curriculum se nessuno ti fa lavorare, firmare, nessuno ti insegna il mestiere, la macchina, i trucchi, la noia e l’ossessione del lavoro del cronista? Otto euro a pezzo. Oggi questo è. Non ci paghi neanche una telefonata per scriverlo il pezzo. E allora ti dedichi al taglia e incolla dal web e dalle agenzie. E pace. E fine. E basta. *** Sfruttamento, approssimazione, casta, mezzucci e sotterfugi e salotti autoreferenziali e illegalità: di questo parliamo a due metri dal portone dell’Ordine. In questo paese che va in malora. So che ci sono dei progetti editoriali nell’aria, nuovi giornali che nascono mentre a decine altri chiudono, falliscono, tagliano, sbracano, si svendono, vanno a puttane. Neanche ne accenno. Perché dovrei far un così cattivo servizio a questa ragazza che crede ancora che esista l’informazione? In Italia, poi. “Se vuoi fare questo mestiere, imparare qualcosa, tanto vale andare all’estero”. Lo dico proprio nei giorni in cui, dopo quasi trent’anni, ho deciso di cambiare mestiere, metro, linguaggio. Lo dico oggi, perché è così. E così vagano i miei pensieri. Uno C’era una volta un giornale che si chiamava Avvenimenti e per almeno quindici anni fece la differenza. Chiuse, con una montagna di debiti, all’arrivo del terzo millennio. Poi ci fu un tentativo di farlo

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rinascere e sembrava una cosa seria, ma un furbacchione con un cognato con una montagna di soldi se lo prese. Tac! Golpe, dissero. Romantici inguaribili, eterni attempati adolescenti di questa sinistra credulona. La famiglia Bonaccorsi, con l’aiuto non marginale del cognato Ivan Gardini, il giornale se lo acchiappò - ciao ciao Avvenimenti -, compresa l'Altritalia e il finanziamento pubblico di qualche centinaio di migliaia di euro, e lo impacchettò ben bene tutto quanto giornalisti e poligrafici compresi e, fatto un bel fiocco con un nome nuovo nuovo (Left), lo regalò di fatto a quell’allegra congrega dei cosiddetti “fagiolini”, ovvero la comunità di pazienti e collaboratori dello psichiatra Massimo Fagioli. Un club di simpaticoni molto potenti in particolare nella sinistra salottiera e acculturata romana. Che innumerevoli danni ha fatto proprio a sinistra. Basti rimembrare il rincoglionimento di Fausto Bertinotti sulla via della terapia collettiva fagioliniana. E il conseguente imbriacamento senile che contribuì al tracollo del 2008. *** Fagioli in terapia (collettiva, ovvero lui che parla a ruota libera per ore davanti a qualche centinaio di persone e ogni tanto concede qualche secondo al pubblico adorante) dettava la linea, che fosse un delirio o una cosa seria o almeno vagamente pensata. La proprietà imponeva. E imponeva anche l’edificante doppia pagina del “maestro” che settimanalmente impreziosiva il giornale. Che contributo fondamentale al dibattito della nuova sinistra italiana. Per mesi, tanto per fare un esempio, i lettori di Left/Avvenimenti (il sottotitolo Avvenimenti era rimasto solo per garantirsi il finanziamento pubblico) lessero


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“Un pacchetto monolitico”

ampie disquisizioni sul tema “pompino con l’ingoio o no?”. Poteva la sinistra alternativa al Pd non affrontare un tema così cruciale? E così andava. Con le ossessioni sessuali del club fagioliniano, e l’omofobia, le furbizie politiche salottiere, il saccheggio impastrocchiato del pensiero di Spinoza, l’occhiolino ai radicali e a Pannella, etc etc. *** Quella fase lì me la sono vissuta tutta in prima persona. Ero uno dei redattori regalati ai fagiolini a sua insaputa. Devo dire che finché non si sfioravano i temi “fondanti” del “pensiero” di Fagioli il livello di autonomia per i cronisti di fare il proprio lavoro era inimmaginabile. La direzione praticamente non esisteva. Nel senso che i Bonaccorsi Brothers, dopo aver fatto fuori un buon numero di direttori, il giornale lo avevano affidato a uno del club che si disinteressava praticamente della cronaca e degli esteri e dell'attualità concentrandosi solo sul messaggio del “maestro”. Tutto il resto era contorno. E bastava avere un po’ di mestiere per farsi e beati cazzi propri. E così io facevo. Quasi sempre. Prima un lavoro sugli esteri aprendo su temi come i movimenti sociali e le trasformazioni politiche in America latina e poi Raccuglia e la nuova mafia palermitana, la trattativa, le stragi, dell’Utri, i testimoni di giustizia, Why Not, Wind, ‘ndrangheta, la nuova destra, il damping sociale nelle ristrutturazioni della metallurgia e dei porti italiani, il terremoto de L’Aquila. Scrivevo, lavoravo, producevo, e facevo vendere copie. Così alcuni - pochi altri con me. Poi, con la crisi e la scissione di Rifondazione post elezioni politiche, iniziò la caccia al nemico interno. Perché un club come quello descritto finora ha bisogno di un buon numero di

nemici veri o presunti per sopravvivere e ne deve avere assai, soprattutto in momento di crisi, per tenere compatto il branco. E inevitabilmente il conflitto arrivò. Eccome se arrivò. Io riuscì, solo dopo mesi, a farmi pagare gli arretarti. Ed erano un mucchio di soldi per uno sfigato come me. E comunque sono stato uno dei fortunati. So di decine e decine di cause di collaboratori che non hanno mai visto neanche una lira dei lavori regolarmente comprati e pubblicati. E quello economico è stato uno degli aspetti più eclatanti, ma non il solo. Mica puoi lavorare, che so, su temi come la mafia o la corruzione con un clima interno da sacra inquisizione. Figuriamoci a scrivere di politica o di diritti civili. Una brutta storia. Che solo in minima parte è diventata pubblica (come quella della testata presa successivamente da Luca Bonaccorsi Terra) con la sottovalutazione disastrosa del sindacato e dell'Ordine. Che sono intervenuti solo tardivamente e in maniera goffa in particolare su Terra con risultati disastrosi per i lavoratori. *** Bene. Oggi Left (non più in mano a Luca Bonaccorsi ma alla sorella Ilaria) approda come supplemento a L’Unità. Ho avuto la notizia in anteprima da un collega sopravvissuto a quella redazione. Sconcerto. Anche perché so che Left (sottraggo il sottotitolo Avvenimenti perché di quella esperienza e di quella gene-

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razione e modo di fare inchiesta non ce n’è più traccia) vendeva una manciata di copie (neanche tutti i fagiolini lo compravano più) e L’Unità non naviga certo in buone acque. Anzi. Le acque dove galleggia non sono assolutamente tranquille. E si chiamano “esuberi”, debiti, ristrutturazioni, Cig etc etc. Insomma editorialmente l’operazione sembra tutt’altro che una furbata imprenditoriale. Ma si sa. 'Sta roba della razionalità e del mercato nel sistema editoriale italiano è un oggetto alieno. E allora, pensa che ti ripensa, alla fine mi è venuta un’idea. *** Ripartiamo dai fagiolini. Si tratta di un pacchetto di voto compatto, monolitico. E geograficamente omogeneo. Il prossimo anno si vota per il Comune di Roma. E a Roma i fagiolini fanno numero. E quindi, assodato che non si tratta di un pacchetto indirizzato verso Zingaretti anche perché perfino il Pd e la sua sindrome tafazziana davanti a quella candidatura impallidisce e arretra - chi è nelle “seconde linee” che ha bisogno di blindare la propria candidatura in consiglio comunale e di far pesare il pacchetto fagiolino per ottenere un assessorato di peso? Un dalemiano o un veltroniano? Bettini? Morassut? Chi? Ovviamente non ho la risposta. E attendo dal mio rifugio in un borgo del viterbese “scalpitando sui miei sandali” di vedere chi sbucherà fuori. Anche perché solo in funzione politico/elettorale ha senso questa operazione Left/Unità. Due Piero è stato un gran capo cronaca, se lo ricordano ancora i sopravvissuti de L'Unità degli anni '80 e '90. Mica uno che non sapesse fare il suo mestiere.


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MAFIA, POLITICA, INFORMAZIONE

CENT'ANNI DI IMPRONTITUDINE

Il reato di associazione mafiosa esiste solo dal 1982. Ma la mafia aveva già più di un secolo di rapporti con la politica alle spalle. Sempre nel sostanziale silenzio dei grandi media Palermo, le 16.58 del 19 luglio 1992. Il botto fu sentito in ogni angolo della città. Il quintale di tritolo detonato coinvolse decine di automobili parcheggiate fitte in via D’Amelio provocando un interminabile susseguirsi di esplosioni, mentre era già scempio dei corpi di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Le telecamere raccolsero quello strazio, il buco nero che irradiava fuliggine e sangue sulle facciate dei palazzi, e lo fecero esplodere in tutti i luoghi raggiunti dalle cronache e, da lì, nell’intimo di ogni persona. Paura e impotenza, di nuovo, a 57 giorni da ciò che aveva già assunto nella coscienza collettiva il peso della peggiore strage di mafia mai attuata e che ora veniva eguagliata in questo tragico primato da un altro disarmante massacro. Falcone e Borsellino potevano essere uccisi in mille altri modi. Falcone in particolare, poteva essere colpito a Roma, senza il botto di 500 chili di esplosivo. E invece si scelse così perché fosse inteso che quel rumore non ero solo il frastuono della vendetta e dell’odio verso il nemico numero uno, diceva piuttosto del segno politico di quella violenza e di quelle che sarebbero seguite.

***

A distanza di vent’anni è tutto ancora più chiaro. Oggi, grazie al lavoro di alcuni magistrati, possiamo trovare conferma di quello che spesso, nonostante tutto, viene ancora tacciato come teorema, e cioè che la violenza mafiosa è uno strumento politico, ha senso solo come strumento politico. Capaci e via D’Amelio, e poi via dei Georgofili e via Palestro, sono il segno più lampante e chiarificatore di questo significato. La colpa di Falcone e Borsellino, e di tutto il pool antimafia, era stata quella di togliere valore alla tradizionale moneta di scambio con la quale Cosa nostra intesseva tradizionalmente rapporti con la politica, l’impunità. Giusto un dato: in Italia il reato di associazione mafiosa viene introdotto solo nel 1982, dopo 120 anni di mafia e di rapporti tra mafia e politica. Fu necessario il sacrifico di Pio La Torre e di Carlo Alberto

Dalla Chiesa, ma alla fine si ottenne quantomeno la formalizzazione nel codice penale dell’esistenza della mafia. Prima del maxiprocesso istruito dai due magistrati uccisi nel ’92, la giurisprudenza in merito è la narrazione di un coito interrotto: arresti, processi, assoluzioni. Così per oltre un secolo. Ora invece quel pool di magistrati metteva alla sbarra 475 mafiosi, e il 16 dicembre del 1987 ne faceva condannare 360. Si provò a vanificare il lavoro del pool. La sentenza di appello si innestò sul solco della tradizione. Così non fu in terzo grado: il 31 gennaio ’92, la Cassazione confermava le condanne del maxiprocesso.

***

Il 12 marzo del ’92, il primo (e l’ultimo) politico mafioso a pagare con la vita fu Salvo Lima, viceré di Andreotti in Sicilia. Molti tremarono nei palazzi romani. E fu così che, per salvare la vita ad altri politici mafiosi, a partire dal giugno del ’92, lo “Stato” si inginocchiò, restituendo alla mafia quella sovranità che stava perdendo e aveva in parte già perduto. L’indagine sulla “trattativa” condotta a Palermo negli ultimi due anni svela il coinvolgimento del capo della Polizia di allora Vincenzo Parisi, uomini del Sisde, alti ufficiali dei ROS, magistrati ed esponenti politici; mentre molti sapevano, persino - secondo rivelazioni di stampa - il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro.

***

Gli uomini cerniera furono il corleonese divenuto politico, Vito Ciancimino, e poi, dopo il suo arresto e quello di Totò Riina, Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia. Tramite lui ad Arcore arrivarono le richieste di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella: una più morbida legislazione penale e processuale, il condizionamento dei processi in corso, migliori condizioni detentive. Mentre già sul finire del ’93 il guardasigilli Giovanni Conso non aveva rinnovato i provvedimenti di regime carcerario 41 bis di 334 detenuti. Nell’estate del ’92 e fino al ‘93, Cosa Nostra espresse tutto il suo potenziale politico facendosi terrore. Destabilizzò. Congelò la trasformazione in atto. Rigenerò a suo modo il sistema partitico che declinava sotto i colpi di Tangentopoli. Reclamò e ottenne il suo collaudato rapporto di scambio con nuovi e turpi interessi velati da carismatiche e telecratiche formazioni partitiche, gettando le basi per una nuova stagione di impunità. Spalancò le porte alla nascita di questa seconda Repubblica che oggi canta da cigno sotto la scure degli scandali, della corruzione e della crisi economica e che ebbe come atto di nascita l’apice della violenza politica di Cosa Nostra, il sangue di Falcone, Borsellino e di altre vittime innocenti.

Roberto Rossi nonviolenti.org/cms/azione-nonviolenta/

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“Isolati i cronisti che si occupavano di 'ndrangheta”

Anzi. Uno che si era formato per strada facendo il cronista. Attento, bravo. Poi fu un fantasioso direttore a Liberazione, se lo ricordano ancora disoccupati e precari che sotto di lui cercarono di fare un giornale. Io all’epoca, per un anno prima di essere assunto a Left, collaborai con quel giornale, in particolare col supplemento settimanale. Una bella esperienza, in quella fase, che poi si concluse male. Anzi malissimo. E ora l’epilogo della liquidazione. Che per un giornale è una roba drammatica. Per chi ci lavora e per chi per anni lo ha letto. Alla fine il nostro Piero approdò a Calabria Ora, facendo il garantista con la 'ndrangheta e liquidando l'esperienza di Paride Leporace e della scuola di cronisti che fece grande quel piccolo e innovativo giornale. Anzi, la fase iniziale della sua direzione del quotidiano calabrese è stata segnata da una sistematica campagna per isolare e poi trombare tutti i cronisti che si occupavano degli intrecci fra politica, affari e ‘ndrangheta. Una strage di penne. Questo ha messo in atto il garantista ex direttore di Liberazione. E mentre quei cronisti erano sottoposti a un’offensiva mafiosa basata su attentati, minacce e intimidazioni di ogni genere. *** Ora fonda Paese, che è la riproposizione in veste minore, ma non minoritaria, di quel grande giornale che fu Paese Sera che insieme a L'Ora di Palermo dimostrò la forza culturale e politica della cronaca: il racconto sociale, una specie di rivoluzione. Sparisce la "Sera" sostituita dal salotto annoiato e smosciato romano fra Bertinotti e Zingaretti, Bettini e l'imprescindibile Anubi e un po' di residui di un Ulivo Bis mai nato. E mi domando, anche. Dove minchia ha trovato i soldi per fare un quotidiano oggi il nostro barbuto Piero? E perché un

quotidiano mentre altri chiudono e c'è chi ha dimezzato vendite e entrate pubblicitarie in meno di un anno? Ha un'idea nuova? Un progetto rivoluzionario? O sta solo macinando un altro contenitore da rivendersi poi per ottenere qualche spazio televisivo a La7 che ormai non si nega a nessuno? Sansonetti Piero, oltre al capello sbarazzino e la barba che più anni settanta non si può, si vende bene in Tv, e non ci sarebbe da stupirsi a vederlo gestire uno spazietto editoriale da sinistra radicale normalizzata. Si, ce lo vedo bene a La7 Piero, e anche a mettere in piedi l'improponibile Paese. Il mondo va così. Di salotto in salotto, di comparsata in comparsata, di marchettona in marchettona. Amen. Tre Telese me lo sono tenuto per ultimo. Perché la sua panzetta (non ci accomuna solo aver transitato tutti e due per l’agenzia Dire) e il suo baffetto/mosca primo novecento me lo rendono simpaticamente insopportabile. Ma l’uomo è furbo nonché un fior di spregiudicato professionista. E Luca ha pelo sullo stomaco. Tanto per fare un esempio per aver fatto il cronista politico per Il Giornale di Paolo Berlusconi all’epoca diretto da Belpietro prima di fondare Il Fatto, la testata più anti Berlusconi che si può. Poi per aver fatto salti mortali per conquistarsi spazi e visibilità televisive fino ad avere contenitori a sua forma e immagine. Ammetto che ho tifato per lui recentemente per la sua rottura con Il Fatto (che aveva fondato con altri) e in particolare con Marco Travaglio e la linea grillina che ha assunto ciecamente il giornale dopo che l’editore e socio di Grillo (la Casaleggio associati) ha acquisito una

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gran parte della casa editrice Chiarelettere che è di fatto uno dei pacchetti di peso del quotidiano non-diretto da Antonio Padellaro (visto che è evidente che lo dirige lo stizzoso Marco). Che abbia lavato i panni sporchi in pubblico sulla vicenda de Il Fatto gli fa onore. Però. C’è sempre un però. *** Dopo quei numerosi passaggi “destrorsi”, oggi si lancia nell’avventura di un nuovo quotidiano, Pubblico, di area progressista che guarda un po’ al Pd, un po’ a Idv e un po’ di più a Sel e con azionisti Lorenzo Mieli e Fiorella Mannoia. A guardare la squadra, oltre alcuni provenienti da Il Fatto, ci sono nomi che fanno ben capire a che salotto (più che a quale area politica) il nuovo giornale fa riferimento: Francesca Fornario da L'Unità ), Tommaso Labate dal Riformista e Stefania Podda da Liberazione. Senza parlare delle “firme” di peso come Ritanna Armeni, Corrado Formigli, Mario Adinolfi, Marco Berlinguer e Carlo Freccero. Ma che, l’organigramma lo ha suggerito Antonio Polito, il dalemanissimo ex direttore de Il Riformista e oggi editorialista al Corsera dopo un passaggio parlamentare? Solidarietà di baffetti? *** Delle tre operazioni, devo ammettere a malincuore, quella di Telese mi sembra la più solida e reale. Anche per la spregiudicatezza di Telese. Mi sbaglierò, ma dopo i rimescolamenti post Vasto del centro sinistra il progetto di Pubblico mi sembra quello che garantisca meglio il megafono alla salottiera sinistra radical chic capitolina che non disdegna le furbate del sempiterno Massimino (e pure qui il baffetto c’entra). Come si dice: un giornale con i baffi. Sperando che la peluria che sovrasta il labbro tenga lontana i grembiuli.


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Sicilia

L'imprenditore bifronte Domenico Costanzo aveva - secondo il sindaco Bianco - tutti i requisiti per rappresentare il volto nuovo dell'imprenditoria catanese. Eppure... di Ugo Colonna 1.500 dipendenti, 380 milioni di fatturato annuo è il biglietto da visita di un gruppo imprenditoriale siciliano che opera nel settore delle imprese di costruzioni generali e di general contracting, nell'area delle grandi infrastrutture a livello nazionale ed internazionale. A capo del gruppo, che comprende le società Tecnis e Cogip, vi è un brillante cinquantenne catanese, Domenico Costanzo, rampollo di imprenditori nel settore della commercializzazione di prodotti e servizi energetici. Dopo la sua nomina a Presidente dei Giovani industriali della Confindustria di Catania, nel 1993 l’allora Sindaco di Catania, Enzo Bianco, chiama il trentunenne imprenditore nella Giunta Comunale etnea per affidargli la carica di assessore al Bilancio, Commercio e Sviluppo Economico. In quegli anni Bianco, l'assessore Costanzo e la formazione politica che li sosteneva apparivano i salvatori di Catania dal baratro di illegalità in cui la città era caduta: erano gli anni della “primavera Catanese”. La Procura Antimafia e il pool di magistrati creato dal Procuratore Alicata per combattere il malaffare amministrativo sembravano aver sconfitto le collusioni tra imprenditori, politici e mafia. Un' intera classe politica ed imprenditoriale corrotta era stata allontanata e sostituita da volti nuovi, privi di collusioni con la famiglia mafiosa catanese.

E’ in quegli anni che Mimmo Costanzo rileva una piccola azienda di famiglia in difficoltà economiche: in soli 4 anni la risana e insieme ad un vecchio amico, Concetto Bosco, decide di entrare nel settore costruzioni e infrastrutture. Nel 1999 nasce la Tecnis e di seguito la CoGip. Da allora è un'escalation di successi: il gruppo Costanzo-Bosco in 10 anni ottiene ed esegue lavori su tutto il territorio nazionale, nell'Est europeo e anche nell'area del Maghreb per la realizzazione di opere di viabilità, opere marittime, edilizia specialistica, energie rinnovabili. Non mancano il consenso della stampa italiana ed estera e l'appoggio di Confindustria nazionale. Finalmente un industriale catanese, a differenza degli storici “Cavalieri dell'Apocalisse “ catanesi, si distingue non solo per capacità imprenditoriale ma per pulizia morale e rettitudine. Ma Costanzo non è solo, in questo panorama di rinascita. Anche altri imprenditori siciliani, come Antonello Montante o Vincenzo Conticello si sono opposti al pizzo ed alle collusioni con “Cosa Nostra”. Gli imprenditori siciliani onesti hanno anche votato un codice etico che impone l'esclusione dall'associazione degli aderenti che non denuncino le richieste estorsive o collaborano con la Mafia. “La rivolta di sei anni fa ha cambiato il mondo - dice Mimmo Costanzo nel settembre 2011 in una intervista ad un settimanale tedesco - abbiamo capito che senza una liberazione dalla mafia, in Sicilia non ci sarà mai un vero sviluppo economico”. L’ imprenditore fa anche parte, unitamente al Presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, del Consiglio di Territorio Sicilia di Unicredit Sicilia. L'11 aprile 2012 Mimmo Costanzo viene ricevuto al Quirinale dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui presenta le opere che il suo gruppo realizzerà nell'isola di Mozia, in provincia di Trapani. Né manca la partecipazione a Catania, lo scorso 23 maggio, in occasione della commemorazione della strage di Capaci nel corso della quale si è trattato il tema della legalità ed il ruolo dell’imprenditoria sana.

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Sin qui l’ immagine ufficiale del gruppo imprenditoriale catanese retto da Mimmo Costanzo e Concetto Bosco. Esiste tuttavia anche una diversa prospettiva. che ci fornisce una più variegata realtà, non riportata dai giornali, raccontata nelle aule giudiziarie. Catania – anni 1993-2000. Alfio Castro è un imprenditore di Acireale che si occupa di movimento terra. Agli inizi appunto degli anni '90, per decisione del vertice della famiglia mafiosa Santapaola, egli diviene il collettore dei proventi estorsivi derivanti dai lavori pubblici controllati nella Sicilia orientale, con il compito di consegnarli alla famiglia catanese di Cosa Nostra. La famiglia catanese Castro è utilizzato dal gruppo mafioso catanese anche per effettuare la sovrafatturazione delle forniture, che consente l’emersione e la “legalizzazione “ del pizzo che le imprese pagano. Per tali fatti, a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Chiavetta, nell'aprile 2000 Alfio Castro viene arrestato nell'ambito dell'operazione “Orione” in cui sono coinvolti i massimi esponenti del gruppo Santapaola. Castro sarà condannato nel corso del 2003 per il reato di associazione mafiosa, condanna poi divenuta irrevocabile. Altre inchieste giudiziarie portano alla luce rapporti diretti tra Concetto Bosco e Alfio Castro, che dalla fine degli anni '90 ha eseguito lavori per conto di Tecnis. Le relazioni di economiche con Tecnis spa continuano anche successivamente all’arresto ed alla condanna per associazione mafiosa di Castro. Marzo 2005. La Tecnis e la CoGip, inserite nella Consortile “Scianina”, sono incaricate di realizzare la galleria Scianina – Tracoccia ed un tratto del doppio binario della nuova linea Messina – Palermo. Si tratta di un’opera del valore di circa 40 milioni di euro che interessa l’area tra i Comuni di Rometta Marea e Pace del Mela, territorio in cui esercita il controllo mafioso il gruppo del barcellonesi collegato al clan santapaoliano.


www.isiciliani.it Alfio Castro subito dopo la scarcerazione per la condanna per associazione mafiosa, come si diceva, riprende i rapporti imprenditoriali con il gruppo di Mimmo Costanzo e Concetto Bosco. Più precisamente, come risulta dalla sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Messina del 30.3.2012 nel processo c.d. Vivaio, Castro Alfio viene delegato da parte di Concetto Bosco a fungere da intermediario con le ditte locali del barcellonese che avrebbero dovuto rifornire di circa un milione di metri cubi di materiale inerte il cantiere Scianina, alle condizioni più vantaggiose per la Consortile. In esecuzione del mandato Castro contatta tre ditte barcellonesi, titolari di cave in grado di allestire per la Tecnis la rilevante fornitura. Castro è a conoscenza, secondo la sentenza citata, che dette ditte erano già sottoposte ad estorsione da parte della mafia barcellonese. L'incontro col referente mafioso All'incontro organizzato da Castro con i rappresentanti delle tre ditte barcellonesi viene invitato a partecipare il referente mafioso del gruppo barcellonese, Giuseppe Isgrò, che detta la condizione che la mafia locale avrebbe dovuto ricevere a titolo di pizzo 1 euro a metro cubo sull’intera fornitura degli inerti, una cifra intorno ad un milione di euro. Nel successivo mese di aprile 2005 Castro incontra, presso la sede della Tecnis a Catania in via Almirante 21, gli imprenditori per stabilire il prezzo finale. L'incontro, in base alle carte processuali, è fatto rivivere nelle parole dei partecipanti, titolari delle cave di inerti, confermate da ultimo dal racconto di Castro, nel frattempo divenuto collaboratore di giustizia. Mimmo Costanzo e Concetto Bosco ricevono dapprima separatamente in un ufficio della Tecnis i due mafiosi, Castro e Isgrò, mentre i tre titolari delle ditte barcellonesi sono fatti attendere in una sala riunione. Dopo l’interlocuzione riservata, Costanzo e Bosco, presenti Castro e Isgrò ed anche alcuni ingegneri della Tecnis, comunicano ai titolari delle ditte il prezzo della fornitura, stabilito in 8 euro al metro cubo, precisando che 7 euro sarebbero stati versati ai fornitori degli inerti mentre il restante euro era destinato ai barcellonesi col sistema della sovrafatturazione. L’accordo sembrava cosa fatta. Tuttavia, la mancata restituzione di mezzi meccanici per un valore di circa 200.000 euro, sottratti dalla mafia locale a Giacomo Venuto, titolare di una delle tre ditte barcellonesi, determina quest’ultimo a ribellarsi

alla estorsione imposta. Il contrasto viene, in un certo qual senso, superato e risolto grazie ad una iniziativa di Mimmo Costanzo, che convoca Venuto e gli propone di effettuare l’intera fornitura al prezzo di 7 euro, aggiungendo che all’euro da consegnare alla mafia per ogni metro cubo avrebbe pensato lui personalmente. Ha riferito in specie Giacomo Venuto deponendo alla Corte d’Assise di Messina: “Si, se la vedeva lui... Allora ribadivo, vedi che con questo ( Castro n.d.A.) non si scherza, perché sai sono gente pericolosa”. “ o, tu stai tranquillo, - ribatte Mimmo Costanzo – “ la fornitura la fai tu a 7 euro, il resto me l’ho visto io con chi di dovere e m’ha tranquillizzato.” Prosegue ancora Venuto, a domanda del Pubblico Ministero: “Ho detto: può succedere che io già la prevedevo una cosa del genere, che mi davano.. facevano danni o furti o incendi, poteva succedere un po’ di tutto. E lui (Costanzo) ha detto “ No, stai tranquillo perché già io la situazione l’ho sistemata con chi di dovere”, punto. Venuto, una volta iniziata la fornitura, a causa della mancata restituzione dei mezzi rubati, non consente alle imprese mafiose di effettuare alcun trasporto per suo conto. Segue puntuale la ritorsione della mafia che, nel settembre 2005, con un attentato da Far West, incendia alla Mediterranea Costruzioni, la società di Venuto, diversi mezzi meccanici. Oltre al danno subito, per un valore di circa 700.000 euro, Venuto è costretto a cedere metà della fornitura oggetto del contratto, secondo i desiderata della mafia barcellonese. Accade infatti che, dopo il clamoroso segnale di intimidazione inviato al fornitore, Bosco incontra Alfio Castro. Secondo il racconto processuale di quest’ultimo – divenuto collaboratore di giustizia - Bosco dopo averlo invitato a posare in ufficio il cellulare, passeggiando in un cortile lontano ad orecchi indiscreti, a proposito dell’incendio subito gli chiede se la “ discussione con Venuto” potesse avere fine. E dal momento che Venuto, anche dopo l’incendio dei suoi mezzi, intende proseguire la fornitura senza ricorrere a trasportatori imposti dalla mafia, sono sottoposti a minaccia armata i conducenti dei camion incaricati dall’imprenditore. Inoltre, nel giro di pochissimi giorni la Mediterranea Costruzioni di Venuto riceve una diffida da parte della Tecnis a fornire con regolarità e senza intoppi il materiale inerte. Alla fine, nel giugno 2006, Venuto deve capitolare e cedere ai voleri della mafia barcellonese, comunicando alla Tecnis di non potere continuare da solo la fornitura,

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che viene affidata per il 50% ad altra ditta del barcellonese. Dal racconto di collaboratori e persone offese, emerge dunque che gli imprenditori Costanzo e Bosco si sarebbero resi disponibili, nei termini descritti, a pagare l’estorsione ai barcellonesi, avrebbero aperto tavoli di trattative con conclamati mafiosi, che poi coartarono la volontà di imprenditori a pagare il pizzo; non solamente, poiché, come si legge nella sentenza della Corte di Assise di Messina pubblicata il mese scorso, furono loro stessi sottoposti ad estorsione senza che tale condotta illecita fosse tempestivamente denunziata. Si riporta un passo: “Bisognano (collaboratore di giustizia barcellonese, n.d.a.) ha dichiarato che all’estorsione ai danni dell’ATI Scianina era effettivamente interessata l’associazione mafiosa barcellonese. L’estorsione sull’impresa madre, quella cioè che doveva eseguire i lavori per il ripristino della galleria Scianina che era crollata, prevedeva il pagamento di un pizzo pari all’ 1% del valore dei lavori, mentre per eseguire le forniture di materiali all’impresa madre erano state scelte la Venumer, la Cogeca e la Mediterranea che avrebbero dovuto pagare una tangente di 50 centesimi o di un euro circa per ogni metro cubo di materiale fornito”. Il codice etico di Confindustria I dati processuali indicano che i responsabili della Tecnis e CoGip per anni, peraltro in coincidenza della loro crescita imprenditoriale, hanno violato il codice etico di Confindustria, che così recita: “Le aziende associate e i loro rappresentanti riconoscono fra i valori fondamentali della Confindustria Sicilia il rifiuto di ogni rapporto con organizzazioni criminali, mafiose e con soggetti che fanno ricorso a comportamenti contrari alle norme di legge e alle norme etiche per sviluppare forme di controllo e vessazione delle imprese e dei loro collaboratori e alterare la libera concorrenza. Gli imprenditori associati adottano quale modello comportamentale la non sottomissione a qualunque forma di estorsione, usura o ad altre tipologie di reato poste in essere da organizzazioni criminali e/o mafiose. Gli imprenditori associati sono fortemente impegnati a chiedere la collaborazione delle forze dell’ordine e delle istituzioni preposte, denunciando direttamente o con l’assistenza del sistema associativo, ogni episodio di attività direttamente o indirettamente illegale di cui sono soggetti passivi”.


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Strade

Da Portella al Quirinale Due uomini e due muli Dalla Sicilia a Roma a dorso di mulo, distribuendo migliaia di “pizzini” antimafia lungo la strada... di Bruna Iacopino

Un mulo cadde con il ventre all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. Era il primo maggio 1947. La strage di Portella della Ginestra” “Quando a Portella delle Ginestre capirono che volevamo arrivare a Roma a dorso di mulo, un signore ci disse: ma non facevate prima a comprare una motocicletta?” Mirco, sorride. E' tardo pomeriggio e sono appena stati ricevuti al Quirinale dal vicario di Napolitano e dal Prefetto di Roma con tanto di onori e un intero palazzo mobilitato a riceverli come quando arriva una delegazione straniera. “Missione compiuta” aggiunge, la faccia stanca ma serena. A Napolitano hanno consegnato migliaia di “pizzini” i messaggi raccolti lungo il tragitto, messaggi di sindaci, associazioni, allevatori, pescatori, contadini, immigrati...

Eccola, sta lì, in quella faccia stanca ma pulita, la scommessa vinta lanciata tra una birra e l'altra al tavolo di un bar: “ Perchè non andiamo a Roma con i muli?” A lanciarla è Federico reduce dall'esperienza dell'anno precedente, quando a dorso di mulo aveva battuto le piazze siciliane da Cinisi fino a Portella per parlare del referendum e spiegare alla gente l'importanza della vittoria del si. “ Signora, lei vuole fare la 'ddoccia' con le bottiglie di acqua minerale?” così diceva e la gente incuriosita da “un pazzo” e dal suo mulo lo stava a sentire. Un messaggio di speranza Allora perchè no? Perchè non provare a percorrere non solo tutta la Sicilia, ma dalla Sicilia la Calabria e poi la Basilicata e la Campania fino a Roma, fino alla più alta carica dello Stato per portare un messaggio di speranza, un messaggio che parla di antimafia ed ecologia e che più semplicemente è la voce della gente comune, quella che dai Palazzi è sempre troppo lontana. Quattro mesi di preparazione per un percorso studiato sulle mappe delle vecchie ippovie ormai in disuso “ un modo per liberarle dalla speculazione edilizia dicono Mirco e Federico - e restituirle simbolicamente alla collettività anche in prospettiva di un modello economico e produttivo diverso”. Un viaggio attraverso comuni occupati dalla mafia in Sicilia e parchi naturali come quello delle Nebrodi e delle Madonie, fino alla Valle del Noce in Basilicata, al Museo di Joe Pe-

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trosino a Padula... su, su fino a Roma. “Come i politici vanno a cercare voti casa per casa, noi siamo andati a cercare il consenso stalla per stalla, campo per campo, per raccontare un'Italia diversa, fatta di gente umile, che lavora...” La racconta così Federico, l'anima poetica dei due, dice di se stesso. Quando gli chiediamo cosa ci fosse in quei messaggi... “Di tutto - ci rispondono - Dalla richiesta di un nuovo asilo perchè quello che c'è non è più in buone condizioni, a un Ti voglio bene presidente”.

Scheda IL PROGETTO ECOMULO Il progetto Ecomulo nasce da un'idea di Federico Price Bruno, eco-designer di Cinisi, militante della Casa della memoria di Peppino Impastato e si concretizza lo scorso anno in vista del referendum. Ecomulo 2 è invece il viaggio da Portella delle Ginestre a Roma ( 1 maggio-12 luglio) in compagnia di Mirco Adamo, musicista e agricoltore di Palermo... “non... solo un messaggio di protesta: Eco Mulo è un progetto attivo, nella volontà di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle politiche eco-sostenibli, per una rivalutazione dei piccoli centri rurali...” Il progetto seguito dal filmaker Cristian Carmosino potrebbe a breve diventare un film. Info: http://ecomulo.blogspot.it/


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“I muli sono testardi, ma i siciliani non sono da meno...”

Il tramonto cala lentamente e Giovanni e Paola, i due muli, si godono il loro meritato riposo, dopo aver affrontato il traffico romano di un primo pomeriggio di luglio. Giovanni e Paola come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “testardi e forti esattamente come loro, non potevano che essere due muli a portare un messaggio del genere.” Muli che a loro insaputa sono diventati una sorta di “cavallo di troia”, non per vincere qualche battaglia ma per aprire le porte della diffidenza. “Siamo stati accolti dovunque con curiosità e grande generosità, la gente ci offriva da bere per strada e ci stava a sentire, il fatto di stare a cavallo in qualche modo ci avvicinava.” Le immagini si affastellano e si fondono con i colori dell'estate, le settantuno albe e i settantuno tramonti, i volti che passano e quelli che rimangono... Come Bibino per esempio. Il pastore e il suo tozzo di pane “Bibino non potrò mai dimenticarlo racconta Mirco - Stavamo a Monte Cassino e a un certo punto incontriamo questo pastore che viveva da solo con le sue quattro pecore. Una persona poverissima, senza niente. Eppure quella sera ha preteso che dividessimo la sua cena. Ha cu-

Cassino dove abbiamo preso parte alle proteste contro la chiusura del tribunale...” Guardando negli occhi l'eltro sud

cinato un piatto di pasta e ha diviso con noi un tozzo di pane. Il suo pezzo di pane duro per tre. E com'era contento quando gli abbiamo detto che ci saremmo fermati a cenare con lui.” E poi ci sono le persone che in questo viaggio ci hanno creduto, lo hanno sostenuto e appoggiato, anche logisticamente, sin dal principio. Come i due allevatori che gratuitamente si sono occupati del trasporto dalla Sicilia fino in Calabria di muli e cavalieri. O Achille, presidente dell'associazione mulattieri campani. “Lui è stato uno di quelli che ci ha creduto da subito nel progetto. Lungo la strada, dove poteva, ci ha fatto trovare da mangiare per i muli”. Ricorda ancora, capelli spettinati e occhi rivolti al cielo. Tante tappe, altrettante storie: “Ci siamo fermati a Rosarno, poi a Lamezia e a

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Per Federico l'agricoltura nel sud Italia non ha la faccia dello sfruttamento ma quella delle famiglie di rumeni che hanno in gestione un'intera fattoria, stipendio vitto e alloggio per provvedere alla cura della terra e degli animali; o quella degli indiani che lavorano negli allevamenti di bufale dove il loro lavoro è indispensabile. Anche Rosarno nel suo ricordo ha più la faccia di Equosud che quella della manodopera pagata a nero... “Sfruttamento degli stranieri? Non più di quanto vengano sfruttati i lavoratori italiani nello stesso settore”, dice convinto. “Questo è quello che ho visto: piccoli allevatori spremuti dalla filiera alimentare, gente che se si perde un vitello va in giro a cercarlo anche tutta la notte, perchè quel vitello rappresenta il sostentamento della famiglia. E verrà pagato pochi spiccioli per finire sulle nostre tavole...” Se chiedi a Federico e Mirco se un altro Sud è possibile, ti rispondeono di si. Magari sudati, stanchi, sporchi. Rispondono di si perchè un altro sud - vero, autentico - l'hanno toccato con mano, l'hanno incontrato e visto negli occhi giorno dopo giorno, per settantuno giorni attraversati a dorso di mulo da Portella della Ginestra fino al Quirinale. I muli si sa sono testardi, ma i siciliani non sono certo da meno.


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Periferie

Così hanno tolto la scuola ai bambini del mio quartiere Catania. Chiude la sede centrale della scuola media Andrea Doria. Muore un pezzo di pezzo di storia del quartiere di San Cristoforo. E muore una speranza di Venerina Platania i Cordai

Ho insegnato in via Cordai, sede centrale della Doria, per otto anni e quella Scuola la porterò nel cuore per sempre. Non tutta la scuola, ma la sede di via Cordai, perché molti non lo sanno, si tratta di plessi che presentano realtà molto diverse. Dalla sede Centrale molti docenti aspiravano a trasferirsi nelle altre sedi perché la vita era più ”facile”, io ho sempre scelto di restare in via Cordai, dove la vita era più “difficile”, ma dove capivi che i bambini avevano bisogno di te, di qualcuno che li aiutasse a scoprire le loro qualità, che gli facesse comprendere di essere migliori di quello che credevano.

Facevi tanta fatica a farti accettare, rispettare, riconoscere, ma alla fine le soddisfazioni erano impagabili, indescrivibili e ogni anno cacciavano via la tentazione di andare altrove. Quest’anno ho scelto di cambiare, ma è proprio vero che ho scelto? Sapevo che la sede di via Cordai era già stata eliminata dai programmi del Comune, che si preparava allo sfratto, decidendo di non pagare l’affitto dell’edificio alle Suore Orsoline. La stessa Amministrazione comunale che vantava un attivo consistente non aveva messo in conto il pagamento della sede di via Cordai? Forse temevano che l’Istituto Comprensivo Andrea Doria superasse la soglia di iscritti prevista per l’accorpamento? Il Comune non paga l'affitto Quella soglia non è stata superata e così tutto è divenuto più semplice. Non poteva essere superata, giacché per raggiungere questo triste traguardo, si è lavorato tanto e da diversi anni, davvero con grande impegno, a cominciare dalla “verticalizzazione”, cioè dall’“opportunità” offerta ai Circoli didattici e alle Scuole secondarie di primo grado di divenire Istituti Comprensivi. Si trattava di tagliare, ma non dall’alto, bensì scatenando la guerra tra le scuole, una guerra che proclamava già prima di iniziare i suoi vincitori: i Circoli didattici.

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Le ragioni sono ovvie: se un circolo didattico ha i suoi alunni, se li tiene e li inserisce nella nuova sezione di Scuola secondaria di primo grado; la Secondaria di primo grado riceve un numero di iscrizioni così esiguo da dover subire l’accorpamento. Non sono gli alunni che mancano Infatti a San Cristoforo non sono gli alunni che mancano, se è vero che alla Doria ci sono 450 iscritti e alla Battisti (ex Circolo didattico, sito in via Delle Salette, a due passi dalla Doria) ce ne sono 850! Semplicemente non sono più distribuiti in modo razionale tra i due Istituti. Sarebbe bastato che i due Istituti rinunciassero a questa “opportunità” per evitare la guerra e garantire al quartiere una qualità dell’istruzione migliore, perché ciò che ci sta a cuore è proprio questo. Io non vorrei che per accogliere tutti questi alunni la Battisti dovesse abbassare la qualità dell’Istruzione, magari formando classi più numerose, riducendo i laboratori o le offerte formative ai suoi alunni e agli abitanti del quartiere! Sì,perché l’Andrea Doria ha lavorato per cinquant’anni con i ragazzi, ma anche con le famiglie, con le mamme in particolare, alle quali ha offerto tante occasioni di crescita culturale, di inserimento nel mondo lavorativo e, scusate se è poco, di educazione alla legalità.


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Noi non pretendiamo di essere gli unici ad offrire queste opportunità, ma pensiamo che non sia giusto sopprimere un’Istituzione che ha avuto una funzione fondamentale per il quartiere. Si potevano fare delle scelte diverse? Quella della coesistenza ad esempio? Sentiamo cosa ne pensa la preside dell’Istituto Comprensivo “Andrea Doria”, Angela Maria Santangelo. L’abbiamo intervistata il 28 giugno. “Dove finiranno i nostri alunni?” Nerina: - Stavolta lo sfratto lo attuano davvero? E in quanto tempo? Preside: - Credo proprio che non ci siano altre possibilità, anche perché il Comune non paga da diversi anni. Sui tempi: è chiaro che non si può certo operare un trasloco in pochi giorni, ci vorranno mesi e ad anno scolastico iniziato non sarà facilmente praticabile, per cui presumo che per un altro anno, quello di passaggio prima dell’accorpamento, la sede rimarrà attiva. In ogni caso noi siamo in attesa di incontrare i rappresentanti dell’Amministrazione comunale, perché intendiamo avere rassicurazioni innanzitutto su come trasportare, eventualmente, i nostri alunni in via “Case Sante” (il plesso in zona Cappuccini destinato a

diventare la nuova sede centrale, n.d.r.). Nerina: - La sede di via della Concordia resterà alla “Doria” o anch’essa è stata sottoposta a sfratto esecutivo? Preside: - Da quello che ci risulta la sede di via della Concordia non è stata sottoposta a sfratto, tuttavia non sappiamo se per quei locali il Comune ha pagato l’affitto. Noi riteniamo che debba restare alla Doria. Nerina: - Pensa che si sarebbe potuto evitare lo sfratto? Preside: - Se le scuole avessero scelto di mantenere la loro identità, rinunciando ad espandersi l’una a danno dell’altra, come hanno fatto in altri contesti… Quei ragazzi tolti dalla strada L’idea che ci eravamo fatti non era proprio sbagliata. Bisognava pensare un po’ di più ai ragazzi, alle loro esigenze, all’importanza che un presidio scolastico, con la storia che ha l’Andrea Doria, può avere in un quartiere come San Cristoforo, a quanti ragazzi sono stati tolti dalla strada, a quanti professionisti, dirigenti e amministratori provengono proprio dal quartiere o sono arrivati alle loro posizioni grazie al sostegno o ai voti degli abitanti del quartiere. Per dirla in breve bisognava farne una

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questione di diritti e non di dritti. Ma si sa che è più facile togliere a chi ha già veramente poco! E non invochiamo l’intervento delle mamme, perché le cose stavolta sono state fatte “per bene” e non si è lasciato spazio neppure alla possibilità della protesta. Un po’ come sta accadendo a livello nazionale. Dobbiamo credere tutti che quello che si fa è “davvero” necessario. Pagano sempre i più deboli E io vi chiedo, ma è davvero necessario che a pagare siano sempre i più deboli, mentre gli altri assistono dalle loro speculazioni, dai loro guadagni spropositati, dalle loro pensioni d’oro, dall’alto delle loro competenze (tutte da dimostrare, visto che il mondo è stato per decenni nelle loro mani e ci hanno ridotto così) alla distruzione di quei pochi diritti che pian piano erano stati conquistati come il diritto all’istruzione, quello vero, non quello annunciato e poi disatteso. Sì, disatteso, perché quando si taglia come si è tagliato e ancora si continua a tagliare nella Scuola Statale e si versano contributi alle Scuole e alle Università private, vuol dire che c’è un disegno preciso nel quale si inserisce anche la storia dell’Andrea Doria.


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Le frasi storiche di Totò Riina

“Signora Bertolino, lei sì che è un uomo!” Inter vista con una “memoria storica” dell'antimafia, Enzo Guidotto di Margherita Ingoglia Telejato

Siamo a Salemi, in occasione della presentazione di “Vent’anni” con Enzo Guidotto, consulente della Commissione antimafia e Presidente dell’ Osservatorio veneto sulla mafia dal '92. Guidotto: Ho avuto modo di conoscere Borsellino per averlo invitarlo più volte nel nord est, a Udine all’università e in provincia di Treviso. Siamo stati suoi ospiti anche a Villa Grazia di Carin, nel ’90. Nel maggio del 90, venne a trovarmi per partecipare insieme ad alcuni convegni: arriva all’aeroporto di Venezia con la moglie, e non ha la scorta. E’ noto che per concludere l’istruttoria del maxi processo, sia lui che Falcone erano stati portati di peso nell’isola dell’Asinara, per potere continuare a svolgere il loro lavoro, essendoci una situazione non di semplice rischio ma di pericolo. Questo si verifica nell’estate dell’85, all’indomani dell’uccisione del commissario Montana, del commissario Cassarà e dell’agente Antiochia. E’ noto anche a tutti, quindi a maggior ragione alle autorità, che le sentenze di morte di Cosa Nostra vengono eseguite. Chi non le esegue viene castigato, e non hanno una scadenza. Eppure non aveva la scorta. Maggio del ’90, la prima notte lui e la moglie la passarono in un albergo di Castelfranco Veneto provincia di Treviso. L’albergatore era un po’ tonto, il maresciallo dei carabinieri ha detto che i carabinieri avrebbero fatto “qualche giro” con la gazzella. Qualche giro non significa niente, perché i mafiosi sono intelligenti e furbi. Chi dispone i servizi di sicurezza a volte dimostra di non essere nè intelligente nè furbo. E non gli diedero scorta.

Così l’indomani lo feci ospitare in una villa veneta, di proprietà dei Fratelli delle scuole cristiane. Nessuno sapeva che si trovavano là marito e moglie. Per cui i carabinieri nelle notti successive hanno continuato a fare i giri, all’albergo, inutilmente. Proprio quella volta, appena è sbarcato dall’aereo, è salito sulla mia macchina e gli ho posto delle domande su un personaggio... su una signora figlia di un noto mafioso, secondo gli atti della commissione parlamentare antimafia. Una signora, proprietaria della distilleria di Partinico, Antonina Bertolino. - Ma la signora Bertolino è originaria di Salemi... Guidotto: Dunque: il padre, Giuseppe Bertolino, era di Partinico, e secondo quanto disse Buscetta, fu capo della famiglia mafiosa di Partinico, nonché membro della cupola di Cosa nostra per un certo periodo. Lui era di Partinico, la moglie era una Agueci di Salemi, figlia di un cavaliere rispettabilissimo che abitava in via Crispi, la stessa strada in cui abitava la famiglia Salvo. Ma il cavaliere Agueci era una persona stimata in paese e difatti avversò, in qualche modo, il matrimonio della figlia con Giuseppe Bertolino per alle notizie che circolavano su questo personaggio, che aveva fatto fortuna in America. Qualcuno dice che faceva parte di un gruppo mafioso in America, qualcuno dice che è stato autista di Al Capone. Ma bisognerebbe vedere di trovare una fonte certa. - Si dice anche che la signora Bertolino abbia avuto un incontro con Paolo Borsellino... Guidotto: Beh, un incontro con Borsellino... Lei ha avuto un incontro forse anche col Papa. Ha avuto degli incontri sicuramente con Giulio Andreotti. Quando alla Procura di Palermo c’era Caselli, ed erano state avviate le indagini su Andreotti, nel procedimento penale per i suoi rapporti con la mafia, la procura di Palermo chiese alla Digos di tutta Italia di acquisire elementi di conoscenza su Andreotti, relativa-

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mente a frequentazioni di mafiosi, o soggetti vicini alla mafia. Ecco, io seppi che lei, con un imprenditore di Campo San Piero (Padova)era andata da Andreotti. Che differenza c’è tra un incontro di Adreotti con un mafioso e l’incontro di Andreotti con la figlia di un mafioso? Eh, dal punto di vista della comunicazione non c’è gran differenza. Siccome Borsellino una volta mi aveva detto che quando uno sa qualcosa deve riferire a chi di dovere, perché può darsi che l’inquirente nel suo contesto ricostruisca una situazione, in base ad un maggior numero di tasselli del mosaico. Io lo feci presente alla procura di Palermo, e questo giustificò la mia convocazione. Fra l’altro è importante questo incontro con Borsellino, e bisogna vedere come fu. La signora Bertolino andò a trovare Luciano Violante quando era presidente della commissione antimafia, battendo i pugni sul tavolo. perché l’avevano con lei, ecc... Molti non lo ricordano e la notizia non è stata rilanciata, ma una volta le hanno fatto un’intervista, su “L’altra Italia” o qualcosa del genere, e allora il giornalista le chiede: “Cosa dice del fatto che Totò Riina ha espresso degli apprezzamenti molto lusinghieri nei suoi confronti?” Totò Riina infatti avrebbe detto: “Questa donna sì che ha i cosiddetti... non come tanti nostri maschietti ritenuti tali solo perché portano i pantaloni”. Lei rispose: ”Beh si vede che Totò Riina, abitando in Sicilia, ha apprezzato la mia attività e questo non può che farmi piacere”. Ecco, le faceva piacere l’apprezzamento di un criminale del livello di Totò Riina. Paradossale. - Cos'è cambiato da vent’anni a questa parte? Guidotto: Beh, da vent’anni a questa parte, sono venuti fuori tanti altarini. Sono venute fuori notizie che hanno dato conferma dell’esistenza del depistaggio, delle trattative. Ecco, questo è un fatto molto importante. Ci sono stati dei successi, ma la guerra è tutt’altro che vinta.


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Messina

Mafia e colletti bianchi nella Sicilia “babba” “A Messina la mafia non esiste, a Messina è tutto tranquillo, a Messina non succede mai niente...” di Carmelo Catania

Messina è stata sempre definita città “babba”. Questo perché, nel piano di controllo del territorio da parte di Cosa Nostra, la provincia peloritana doveva restare tranquilla, nell’ombra. Perché è proprio lontano dai riflettori che è possibile agire indisturbati e dare piena attuazione al disegno criminale. Dalla gestione e controllo dei grandi appalti pubblici (autostrada Messina-Palermo, doppio binario della ferrovia) al business delle discariche e dello smaltimento dei rifiuti. Appalti, licenze edilizie, aree edificabili, controllo dell'acqua. Cioè agganci con la politica, con l’economia e con pezzi delle istituzioni. «La mafia oggi i soldi - spiega il pm Roberto Scarpinato - li fa con la testa e non coi muscoli». Una testa che arruola schiere di “uomini-cerniera” che entrano in ogni ufficio pubblico e privato. Medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, banchieri, funzionari e uomini delle istituzioni sono stati inglobati nel sistema di potere che ruota attorno ai clan, fino a renderli parte integrante del tessuto criminale.

Colletti bianchi a disposizione di Cosa Nostra. Come - alla luce delle ultime indagini della Direzione distrettuale antimafia - l’ex capo dell’ufficio tecnico di Mazzarrà Sant’Andrea, il geometra Roberto Ravidà, uno dei principali artefici della realizzazione dell’unica e più grande discarica di rifiuti del messinese, quella di Mazzarrà Sant’Andrea. La commissione d'appalto Era stato lui a presiedere la commissione aggiudicatrice dell’appalto per la sua costruzione. Lui a scegliere la ditta “vincitrice”, riconducibile a un degli esponente della cosca locale. Lui a smistare le procedure per il rilascio, da parte della Regione, delle autorizzazioni ambientali necessarie per l'esercizio e l'ampliamento. Fin dal 2000 il geometra Roberto Ravidà s'era legato a filo doppio al “gotha” della mafia messinese, di cui era il referente per l’aggiudicazione degli appalti pubblici. Avrebbe anche fatto da tramite tra la cosca e le imprese per la

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riscossione di estorsioni e tangenti, indicando di volta in volta quali imprese taglieggiare o avvicinare. “Convivere con la mafia”? Ecco qua Quando il ministro Lunardi diceva che «con la mafia bisogna convivere» peccava di minimalismo. Stato e mafia hanno convissuto sempre. Dalla borghesia mafiosa (che però non faceva entrare i boss nel salotto buono) post-unitaria alla zona grigia di corruzione e affari degli anni Settanta, fino alle grandi stragi corleonesi. Oggi la situazione è peggiorata, perché dalla convivenza siamo passati alla connivenza, dall’omertà alla complicità e all’alleanza. Il modello mafioso ormai è condiviso da settori sempre più vasti della società. E le cosche hanno imparato a calibrare l’uso della violenza (che rimane decisiva) per mantenere il controllo del territorio. Spesso non hanno bisogno di minacciare, e gestiscono invece servizi e competitivi: “offerte che non si possono rifiutare”, in grado di trasformare gli imprenditori da vittime delle estorsioni in entusiasti clienti e complici. Banchieri, commercialisti, e manager spesso accettano di lavorare per loro non per bisogno economico nè per minacce. Dal Ponte alla sanità Dall’edilizia al commercio, dal Ponte sullo Stretto al sacco della sanità pubblica, questo tipo di “imprenditori” domina ormai il terreno degli appalti pubblici siciliani. Con le conseguenze intuibili per le residue isole di economia legale.


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IL FILO

Frutti di mare di Giuseppe Fava

“Dinnanzi a noi c’era soltanto il mare, e cinque metri più in basso la carcassa di un veliero affondato in mezzo alle alghe...”

Pomeriggio di quel giorno di mezzo novembre. Ora non ricordo se fosse Pozzallo o Scoglitti, oppure Marina di Ragusa o Samperi, quel pomeriggio era così vasto, così splendente che tutti i luoghi di quella straordinaria riviera sembravano racchiusi come nel cavo di una mano dalla identica luminosità, i medesimi incredibili colori autunnali, il giallo della rena, il verde argento delle colline, il bianco del cielo, il medesimo vento tenue, con l’odore delle alghe. ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Davvero non so quale fosse quel luogo, e quale l’ora, il sole sembrava immobile da ore, sempre nel punto più alto del cielo. “Vecchissimi marinai vestiti di blu” L’acqua del porto era verde e immobile, un veliero vi avanzava lentamente in mezzo e pareva lo lacerasse in due, trascinandosi due lembi lunghissimi e morbidi come la seta, Il fotografo fece un piccolo cenno malinconico indicando una bettola quasi dirimpetto al mare. Stava proponendo di mangiare. Il mio fotografo è basso, tarchiato, con la testa rapata, gli occhiali scuri, due grandi orecchi e una piccola bocca di pesce. Questa inchiesta lo sta esaltando, ci si sente dentro da protagonista, viaggiando in macchina parla ininterrottamente di mangiare, non ho conosciuto un uomo capace di parlarne con tanta amorevole serietà, attenzione e scienza. Come taluni uomini normali ricordano alcuni giorni memorabili della loro vita, oppure occasioni strane, o tragedie familiari, e persino eventi storici, al suono nostalgico di una musica o motivo di canzonetta (io sento “Ma l’amore no!” e subito ricordo la polvere dei bombardamenti aerei) così egli è capace di rievocare la sua vita, la prima donna che conobbe, il matrimonio, la morte di sua nonna, al semplice

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annusare di un odore di cibo, un fumo, uno spiraglio di arrosto, un sentore di pizza, un alito estivo di fichi maturi. Così viaggiando, fumando, ridendo, odorando, mi ha raccontato quasi tutta la sua vita. Ordunque, in quel piccolo porto del mare d’Africa, mi propose di mangiare. Scegliemmo proprio quell’osteria dirimpetto al mare, con i tavoli sul marciapiede, il pergolato sulla testa. Dinnanzi a noi c’era soltanto il mare, e cinque metri più in basso, la carcassa di un veliero affondato in mezzo alle alghe. Ogni tanto su vecchie biciclette passavano adagio vecchissimi marinai vestiti di blu. Padrona era una donna grassa, rubizza, con un grembiule rosso e bianco, una faccia contenta, la risata un po' sguaiata, due bande di capelli grigi, aveva una dentatura da pescecane ma le mancava un dente in mezzo alla bocca e, parlando e ridendo, faceva sempre un flebile fischio. “”Un'impercettibile smorfia” Subito fra questa donna e il mio amico fotografo si stabilì un’intesa quasi spirituale. Trattando il cibo da portare a tavola non si parlarono nemmeno, si guardavano soltanto, facevano piccoli gesti, una specie di transfert, come accade misteriosamente a due cani che non si conoscono e per qualche minuto si identificano odorandosi, solo che qui non si trattava di eros ma di buon mangiare. Capirono subito di essere della stessa razza, si piacquero, in un certo senso si amarono. Il fotografo guardava un tipo di pesce e la donna faceva un’impercettibile smorfia, il fotografo alzava un dito lievemente verso un altro pesce e la donna faceva un riso come un sospiro.


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“Questa riviera sul mare d'Africa”

Antonella Consoli

Fu una mangiata memorabile! Anzitutto frutta di mare, cioè polipi minuscoli e teneri come molliche, occhi di bue arrostiti sulla brace, con olio, prezzemolo, limone e peperoncino rosso. Poi la donna ci portò gli spaghetti con la salsa delle vongole. Il fotografo mi guardò, alzando un dito, come si vede nelle statue di San Paolo dinnanzi al Filisteo. Disse: «Ecco, questi sono buoni spaghetti!». “Una donna, una straniera...” Ne arrotolò lentamente una forchettata e la intinse adagio nel sugo, poi con un pezzettino di pane ci sistemò sopra alcune grosse vongole e, con una mossa piena di garbo, se la portò alla bocca. Al primo assaggio di ogni pietanza egli è solito chiudere gli occhi per concentrarsi sul sapore, e così infatti eseguì. Concluse infatti: «Buoni, solo a Milazzo ne ho mangiato di così buoni. Un giorno a Milazzo conobbi una donna, una straniera, mi pare un’austriaca o una svizzera, sembrava allupata. Che notte! Sai, una di quelle donne che poi ti lasciano segni di morsi in tutto il corpo... Avevamo mangiato spaghetti con le vongole, le fecero un effetto strano, questo è un mangiare molto afrodisiaco. Ah, ora mi ricordo, si chiamava Magdalena, era rossa di capelli, molto pelosa, dice che le svizzere pelose sono molto sensuali!». La padrona dell’osteria ci aveva portato almeno trecento grammi di spaghetti a testa, con le vongole grosse come tuorli d’uova, e li mangiammo tutti, e ci bevemmo sopra almeno mezzo bicchiere ad ogni immane forchettata. L’aria si era fatta greve e immobile,

quel sole sembrava piantato con i chiodi in cima al cielo, pareva davvero che fosse tornata l’estate, a picco sul mare si scorgevano le rovine di un edificio, forse un vecchio castello, o un fondaco. Pensavo: alla fine mi andrò a stendere lassù, in mezzo all’erba, voglio stare un’ora coricato a gambe larghe a fumare e guardare il mare! La donna venne con quel suo sorriso misterioso, e così camminando e sorridendo, lei e il fotografo si guardavano negli occhi come due che si apprestassero a fare all’amore. Ci portò due grandi porzioni di tonno, con salmeriglio di olio, limone, origano, aglio e pepe nero. Un’altra bottiglia di vino e pane bianco. Il il fotografo fece un minuscolo sorriso adescante, spalancò un occhio solo ed ebbe proprio la voce dell’amante che propone una audacissima variante erotica. Sussurrò: «Non ci sarebbero anche gli spiedini!». “Queste immense spiagge gialle” La donna restò qualche istante a dondolarsi adagio sui suoi cento chili, con il medesimo sorriso della femmina la quale sta per concedersi, ma ancora gioca un poco, vuole farla pagare cara. Fischiò dolcemente qualcosa fra i denti, io istintivamente pensai che fosse soltanto un gemito di concupiscenza. Non avevamo ancora finito quella fetta di tonno, che ci portò infatti gli spiedini, il cui solo odore era tramortente. Ora voi, leggendo, liberi di pensare che io mi stia inventando questo pranzo. Del resto questa riviera sul mare d’Africa, queste immense spiagge gialle, con le rocce rossastre che improvvisamente tagliano la vastità, con i piccoli porti

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d’acqua autunnale, verde e immobile, sono sempre quaggiù, si tratta di scoprire dov’è il buon mangiare. Questa osteria con la padrona che, ridendo, fischia, oppure un’altra. Se vi aggrada, io posso prestarvi il mio fotografo per condurvi. In realtà quel giorno mi accadde una cosa stupefacente, cioè più mangiavo e più mi veniva fame. Gli spiedini erano sottili listerelle di legno, lunghe una trentina di centimetri, alle quali erano stati infissi giganteschi gamberoni, l’uno separato dall’altro da fettine di limone intinte nel sale e in un lieve pulviscolo di pepe rosso. Così erano stati lentamente rosolati sul fuoco. Il fotografo volle il vino rosso, e poiché obiettavo che trattandosi di pesce sarebbe stato meglio il bianco, mi volse un sorriso di tenero disprezzo: «Balle! Dove c’è il peperoncino e il fuoco, il vino deve essere rosso! Il giorno che morì mia zia ci portarono un “consolo” di gamberi e vino dell’Etna, diomenescansi, mio zio il quale prima piangeva e si voleva sparare, alla fine cominciò a raccontare barzellette, ci fece morire tutti dalle risate, il prete diceva: vade retro... ma rideva anche lui come un pazzo!». “La carcassa del veliero” Con quella piccola bocca fece una smorfia: «La morte del gambero è questa! Però il legno dello spiedino doveva essere di abete. È più morbido e fa profumo!». Io feci solo un lieve brontolìo di assenso. Guardavo il mare, immobile verde, con la carcassa del veliero, che si vedeva in trasparenza, le punte delle alghe gialle che affioravano sotto la banchina, desideravo l’estate per essere disteso sul mare, braccia e gambe larghe,


Riccardo Orioles

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Fabio D'Urso

“Che viso avesse quell'essere umano e se era un vecchio o un bambino”

galleggiando così. E il fotografo mi sfiorò rispettosamente con il dito, con due occhi come si fosse dimenticato di comunicarmi qualcosa di essenziale e me ne volesse chiedere scusa: «Qui però il pesce migliore sono le cozze, perché il pascolo marino è più dolce, l’acqua è cheta. Qui ci sono cozze grandi come un pugno. Si mangiano crude: mezzo limone spremuto su ogni cozza, un pezzo di pane di casa e mezza bottiglia di vino. Stavolta però dev’essere bianco! Le cozze sono un cibo vigoroso, uno si mangia un piatto di cozze, poi prende una donna e la sconquassa. La prima notte di nozze, all’alba mia moglie mi disse: oh, e tu ti devi calmare, che ti sei messo in testa! Io sono stata sei anni nel collegio delle domenicane...!». “Un litro di bianco di Pachino” La donnona rubiconda e ruffiana era a due passi, aspettava, aveva ascoltato e subito annuito, pensai che anche lei aveva mangiato cozze per la prima notte di nozze, il marito era sopravvissuto solo un paio di settimane. Poi morto o fuggito emigrante. Probabilmente ero un po' ubriaco. La donna portò un chilo di cozze, venti limoni, un altro pane di casa e un litro di bianco di Pachino. Con piccoli gesti amorosi sbarazzò il tavolo dalle molliche, dai resti dell’altro cibo, i piatti, le bottiglie vuote. Il fotografo fece un gesto sacerdotale, si legò il tovagliolo attorno al collo. Cominciò ad aprire le cozze adagio con la punta del coltello, a spremerci mezzo limone, aveva già affettato il pane, riempito il bicchiere. Fece un sospiro: «Ad Acitrezza le cozze sono più piccole, però forse ancora più tradimentose,

non so se mi spiego... Mi ricordo quel giorno che due pescatori si erano perduti al largo per una tempesta. Una tragedia del mare, cose da Malavoglia...». Dirimpetto al molo metallico di Pozzallo, questa specie di monumento della impotenza pubblica in Sicilia, si levavano dolci colline di pietra sulle quali pastori e mandriani portavano le bestie al pascolo, e quelle mucche pezzate e quelle capre che brucavano l’erba fin sulle rive, sembravano irreali. “La riva siciliana del mare d'Africa” In verità, forse perché novembre è un mese senza stagione, ancora con il sole bianco dell’estate e l’erba dell’inverno che già cresce dovunque, tutta quella riva siciliana del mare d’Africa mi appariva irreale, i piccoli porti di pietra bianca. Samperi, Donnalucata, Marina di Ragusa, Scoglitti, dentro i quali velieri e barche si raccoglievano come nel cavo di una mano, e si sentiva, si capiva che essi erano ancora arnesi per la vita dell’uomo, le reti, gli scalmi, i remi allineati sulla riva, logori e lustri come le zappe, le falci, gli aratri di un tempo, infinite volte impugnati da generazioni di contadini. Il viaggio stava per concludersi. Come già la sera avanti, il sole cominciò a calare velocemente, via via diveniva più grande e si accendeva di rosso, si fermò a un palmo dall’orizzonte, visibile e nitido come la lampadina di un’osteria, e tutto il golfo sul quale correvamo, di colpo si spogliò di voci e presenze umane, i gabbiani scomparvero misteriosamente e le colline s’illuminarono di una luce d’incendio. Laggiù, all’altra estremità del

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golfo, si scorgeva un piccolo villaggio marino, aggrappato a una specie di duna a picco sulla riva, e centinaia di finestre riflettevano quel sole, pareva che le case stessero bruciando. “In quella ultima luce” Sull’arco sconfinato della spiaggia c’era solo una barca sfondata e, lungo il bagnasciuga, il puntolino minuscolo di un uomo che camminava adagio rasente al mare. Pensai che non avrei mai saputo che viso avesse quell’essere umano e se era un vecchio o un bambino, e che pensieri avesse nella mente in quell’attimo, quale fosse cioè la sua fantastica sensazione di solitudine, in quella ultima luce, in quel golfo senza una sola voce umana, senza nemmeno più il fruscio di un gabbiano.

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sui "Siciliani" nel 1983, ma forse fa parte di un numero del giornale che è ancora tutto da fare. Dopo la mafia e gli scoppi, quando dei missili di Comiso e dei cavalieri sarà sbiadito anche il ricordo , ci sarà ancora una Sicilia come questa, fra le osterie di paese e il mare, una Sicilia da raccontare... I Siciliani Nuovi, marzo 93

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Estate

Peppino ti ricordi

Ricordo quando frequentavamo il Liceo Classico di Partinico: io

Maturammo le più belle esperienze di lotta nel '68 con le lotte per

ero qualche anno più avanti, ma consideravo con simpatia quel

l'esproprio delle terre di Punta Raisi: avevo laggiù una casa che finì

gruppo molto affiatato di compagni di Cinisi. Scelse la mia stessa

col diventare un punto di ritrovo. Il gruppo, che veniva a piedi da

facoltà, filosofia. Navigavamo in un arcano desiderio di giustizia

Cinisi, circa tre chilometri, era molto eterogeneo.

sociale e di eguaglianza che non trovava particolari sbocchi di

Nel settembre del '77 Peppino mi diede una scossa: «Mi sembra

riferimento istituzionale. Ci prestavamo qualche libro, lui “Stato e

che non te ne importi più niente. Fatti vedere, vieni a trasmettere».

Anarchia", di Bakunin, io "Stato e rivoluzione" di Lenin, lui Rimbaud,

«Ci sto. Ma senza menate: fioretto per la gente comune e rasoio per

io Prevert, lui gli scritti di Mao, io quelli di Sartre e Marcuse.

gli “amici"».

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Un tempo, gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. Perciò i giornali come I Siciliani alla fine dovevano chiudere. Nessun giornale può sopravvivere senza pubblicità, per quanto fedeli siamo i suoi lettori. Noi facciamo la nostra parte. Voi, fate la vostra. I Sicilianigiovani – pag. 96


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