I Siciliani - aprile 2012

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n.4 aprile 2012

I Siciliani giovani www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

“..chi ha date ha date ha date chi ha avute ha avute ha avute Mo’ scuordamoce ‘o passate simm’e Pàdani paisà...”

BAVAGLIO MONTI FA CHIUDERE TELEJATO Mazzeo/ Mafia e Muos: amici o “passavo per caso”? Menapace/ Italia anno zero Mirone/ Intervista a Enzo Maiorca Di Natale/ Nel campo di Mineo Gulisano/ Il mio ‘92

Abbagnato/ I cantieri di Palermo/ Satira/“Mamma!” Jack Daniel Morrione/ Ricordo di “Vik” Arrigoni CASELLI/ DELL’UTRI COME ANDREOTTI DALLA CHIESA/ IN NOMINE PILATI MEMORIA/UN PARTIGIANO DI LICATA


facciamo rete http://www.marsala.it/

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Libertà di stampa

Povero Fardazza, non è riuscito a chiudere Telejato. Invece il professor Monti sì. Hai visto che fa fare la cultura? Un poveraccio qualunque, un “don” di media tacca (ma a Partinico importante) aggredisce, minaccia, fa tutto il suo onesto lavoro di boss mafioso e non conclude un tubo: Telejato continua a trasmettere e il maledetto Maniàci è ancora là. Invece ti arriva il professore, non si agita, tutto compìto e sorridente, e in capo a un mese da oggi, pufféte, Telejato non c’è più. E’ vero che al professore una mano l’ha data, con una furba leggina, anche il buon Berlusconi. Ma per il punteggio non conta, vale chi segna il gol, non chi gli ha passato la palla. Anche perché la leggina di Berlusconi, il professore, sostanzialmente l’ha lasciata là. *** Dei nostri valenti redattori, questo mese, uno non ha potuto fare il suo pezzo perché s’è dovuto trasferire al nord, non minacciato dalla mafia, ma dalla miseria. E’ uno che fa il giornalista da quindici anni. Un altro pezzo non è arrivato perché – ha tirato a pretesto lo scansafatiche – il suo autore era troppo stanco per scriverlo, dopo una decina di ore passate a spaccar marciapiedi come muratore precario. E’ uno che lavora con noi dall’85. Un terzo pezzo è arrivato in extremis perché il suo valente autore, che fa il giornalista circa dal ’95, solo ieri è riuscito a trovare, almeno provvisoriamente, un posto dove dormire. Parlavamo – per l'appunto – di libertà di stampa. *** A Catania, città felicissima, l’altro giorno hanno fatto una bellissima festa a tema, sul tema “Sicilia tradizionale del buon tempo antico”. La festa, difatti, si chiamava “Baciamo le mani party” ed era ospitata da uno dei più moderni e trendly locali etnei, la “Villa Paradiso dell’Etna” che certo, se fate vita mondana, conoscete. Sarebbe da film di Pierino (come quasi tutto ciò che riguarda i notabili catanesi) se non ci fosse il particolare che “Villa Paradiso” è anche della Famiglia Rendo, quella che secondo dalla Chiesa “andava alla conquista di Palermo col beneplacito della mafia” e secondo Giuseppe Fava faceva parte dei “quattro cavalieri dell’Apocalisse”. Senza questo particolare sarebbero bastati, come dicono qui, “fischi e piriti”per sbarazzarsi dei buffi personaggi. Mentre invece a questo punto è necessario l’intervento del ministro dell’interno - che è stato a Catania e sa di che si parla – per dare, con un provvedimento esemplare, certezza del diritto ai sopravvissuti catanesi onesti. I Siciliani (r.o.)

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I Sicilianigiovani APRILE 2012

numero quattro

Questo numero

Libertà di stampa I Siciliani Come Andreotti di Gian Carlo Caselli Ego te absolvo in nomine Pilati di Nando dalla Chiesa

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Libertà di stampa

Bavaglio su Telejato di Michela Mancini e Salvo Vitale Telejato non ti meritiamo di Ivano Asaro Chi ha paura del Casalese? di Arnaldo Capezzuto L'agonia del quarto potere di Pietro Orsatti Vite precarie, pagine precarie di Valeria Calicchio I cronisti ragazzini di san Cristoforo di News Boys

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Accadde domani di Francesco Feola

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“Tengo famiglia”

Com'è nata la Lega di San Libero Tanto per

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Inchieste

Mafia e Muos/ “Passavamo per caso” di Antonio Mazzeo Nel campo di Mineo di Rosa Maria Di Natale

Come riempire le poche righe che restano, tanto per non

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Sicilia

lasciarle in bianco? Crolla (un quarto delle vendite in

Palermo/ Dentro i cantieri di Giovanni Abbagnato 34 Siracusa/ Intervista a Enzo Maiorca di Luciano Mirone 36 Aziende confiscate: falliscono 9 su 10 di Agata Pasqualino 38 Trapani/ L'affare porto di Rino Giacalone 40 Pozzallo/ Le tangenti di Giorgio Ruta e Daniela Sammito 42 Avola/ Agroindustriale fantasma di Giulio Pitroso e Marco Urso 44 Salemo/ Sciolti per mafia: e ora? di Rino Giacalone 46

meno) la Fiat, che strozza gli operai, e sale invece (15 per cento di guadagni in più) la Volkswagen, che gli operai li tratta bene. Crolla l’occupazione giovanile in Italia, con un milione secco di posti in meno. Dimagriscono i bambini greci (è una notizia vera: all’Unicef risultano i più sottopeso d’Europa), il vetitré per cento dei quali vive in condizioni di povertà. E infine, in Ispagna, il governo prepara leggi per punire (da due anni di galera in su) chiunque utilizzi l’internet per convocare manifestazioni di piazza. Spagna lungimirante, e noi ancora fermi ai semplici bavagli. *

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DISEGNI DI MAURO BIANI

SOMMARIO Satira

Mamma a cura di Biani Gubitosa e Kanjano Come volevasi dimostrare di Jack Daniel

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Graphic journalism

Giancarlo Siani a cura di DaSud

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Fotoreportage

Come una bomba atomica di Ruggero Delfini

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Società

Italia/ A che punto siamo di Lidia Menapace Le stragi e il Gattopardo di Giorgio Bongiovanni L'antimafia a scuola di Irene Di Nora Mafia/ La colonizzazione di Ester Castano Bologna/ Fra mafia e antimafia di Salvo Ognibene Mafia e Lega di Roberto Rossi Lavoro/ Vite tossiche di Gaia Bozza

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La memoria

Storia

Miraglia/ L'antimafia rossa di Elio Camilleri

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Spettacolo

Emma Dante/ In scena la rivoluzione di Chiara Zappalà

Ricordo di “Vik” Arrigoni di Roberto Morrione Il mio Novantadue di Sebastiano Gulisano Il grido e la forza degli abbandonati di Fabio D'Urso

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88 90 92

Il filo

Gli invulnerabili di Giuseppe Fava

Tecnologie

Bitcoin/ A chi fa paura? di Fabio Vita

Testimonianze

Il partigiano Severino di Giobatta Canepa “Marzo” Due ragazzi a Genova di Cinzia Robbiano

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L'immagine

Ricordatevi che questo è Stato di Raffaele Lupoli

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______________ Ebook Scidà/ Il caso Catania in omaggio con questo numero I Sicilianigiovani – pag. 5


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L'Italia di Dell'Utri

Come Andreotti di Gian Carlo Caselli

Il succo delle 146 pagine con cui la Cassazione ha chiuso il terzo (ma non ultimo) capitolo del caso Dell’Utri è a pag. 129, dove sta scritto che “in conclusione il giudice di merito (cioè la Corte d’appello di Palermo cui il processo è stato rinviato) dovrà esaminare e motivare se il concorso esterno sia oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico di Dell’Utri anche nel periodo – 1978/1982 - di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Fininvest;- e se il reato contestato sia configurabile sotto il profilo soggettivo anche dopo”. Certezze e dubbi Dunque, due certezze e altrettanti interrogativi. La prima certezza è che il concorso esterno esiste: sono state severamente bocciate le curiose tesi che avevano portato il PM Iacoviello a dichiarare troppo frettolosamente la morte presunta di questa fattispecie, che rappresenta l’unica arma disposizione di chi voglia contrastare la mafia anche investigando la “zona grigia” che ne costituisce la spina dorsale. La seconda certezza è che l’imputato Dell’Utri è responsabile – in base a prove sicure - del reato

di concorso esterno con Cosa nostra per averlo commesso almeno fino al 1978, operando di fatto come mediatore di Berlusconi. Il concorso esterno c'è Poi vengono gli interrogativi: e cioè se il reato debba ritenersi commesso anche nel quadriennio successivo (quando l’imputato andò a lavorare con il finanziere Rapisarda);- e se nel periodo ancora successivo il reato – ravvisabile quanto all’elemento materiale, posto che risultano pagamenti Finivest in favore della mafia protratti con cadenza semestrale o annuale fino a tutto il 1992 (pag. 128 della Cassazione) – possa ritenersi realizzato anche sotto il profilo soggettivo del dolo. A seconda delle risposte date a questi interrogativi sarà calcolata - in base ai parametri già fissati dalla stessa Cassazione – la data della eventuale prescrizione (sempreché l’imputato non vi rinunzi). Collusione con la mafia Quale che sia la risposta agli interrogativi suddetti, fin d’ora è importante rilevare come il caso Dell’Utri sia speculare al caso Andreotti: nel senso che esponenti fra i più autore-

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voli del modo politico ed imprenditoriale italiano non hanno avuto alcuna esitazione od imbarazzo – anzi! – ad intrattenere cordiali e proficui rapporti, non sporadici, con la criminalità mafiosa. Una realtà di collusione con la mafia sconvolgente, consacrata in Cassazione. Facendo finta di niente Ora, poiché le sentenze - emesse in nome del popolo italiano – sono motivate proprio perché il popolo possa conoscere i fatti i base a cui l’imputato viene dichiarato responsabile, sarebbe lecito attendersi che si apra finalmente un serio dibattito su cosa mai sia successo in Italia in certi periodi. Altrimenti, facendo finta di niente anche per Dell’Utri, come già è avvenuto per Andreotti, potrebbero essere sostanzialmente legittimati (per il passato, ma pure per il presente e per il futuro) anche torbidi e vergognosi rapporti col malaffare mafioso. Con evidenti pericoli per la qualità della nostra democrazia.


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L'Italia di Dell'Utri

Ego te absolvo in nomine Pilati di Nando dalla Chiesa

Sentenza Dell’Utri. Sono uscite le motivazioni. E una volta di più vien da pensare che siamo nell’era di una nuova letteratura giudiziaria. Quella delle sentenze chirurgiche. Funziona così. Il giudice non se la sente più di procedere ad assoluzioni scandalose nei confronti degli esponenti del potere. E questo è un buon segno. Come funziona Vuol dire che non ce la fa a sfidare frontalmente la storia, a piantare il suo nome nel grande libro nero dei complici della mafia o della grande corruzione che ha devastato il Paese. E quindi si ingegna di salvare insieme la propria poltrona (intesa come status di relazioni presenti e future) e la propria onorabilità davanti ai posteri. Santa Prescrizione E’ un esercizio difficile, complicato. Bisogna essere un po’ Pilato e un

po’Azzeccagarbugli. Dunque prima di tutto si fa la cosa che coincide il più possibile con i desideri del potente. Oggettivamente, si intende. Non per interesse, ma per moto interno dell’animo. Il potente non viene condannato. Attenzione: non è che venga assolto. Semplicemente non viene condannato. Nel senso che il processo va rifatto. Oppure si trascina il processo fino al momento in cui “purtroppo” scatta la prescrizione. Oppure si concedono giusto quelle attenuanti (anche le più comiche) che fanno scattare sempre Santa Prescrizione. Insomma, si evita l’effetto “assalto al giudice”, tipo quello che toccò a Caselli. Tutto vero ma però Poi però, ed ecco la botta di indipendenza, nelle motivazioni si scrive che i fatti imputati sono sostanzialmente tutti veri. Certo il reato - che so, l’associazione mafiosa - è durato fino

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al 4 ottobre del 1991, mentre già dal 5 ottobre, oplà, non si può più dire (è la chirurgia, bellezza…). La sentenza così può essere usata a difesa delle proprie ragioni da tutti e due gli schieramenti: quello dell’imputato, che reclama l’innocenza del proprio beniamino; e quello avverso all’imputato, che sottolinea la veridicità dei fatti. Chiaro, no? Il guaio è che i due schieramenti hanno una potenza di fuoco mediatica molto diversa. E quindi la tesi dell’innocenza sarà la tesi che entrerà con più facilità nelle teste degli italiani. Insomma: il giudice, chiamato a chiudere una partita, non fa che riaprirla e affidarla ai rapporti di forza sociali. Che è il contrario della giustizia. O no?


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Libertà di stampa

Tv libere addio Bavaglio su Telejato Telejato, piccola“roccaforte“dell’informazione libera, trasmette da Partinico, a due passi da Palermo, epicentro di uno dei territori a più alta densità mafiosa. Direttore della “più piccola televisione del mondo, con il telegiornale più lungo del mondo“ è Pino Maniaci, un omino con un paio di baffoni e con una telecamera ormai parte integrante del suo essere di Michela Mancini e Salvo Vitale

Come ogni televisione comunitaria ha dei limiti: tre minuti di pubblicità all’ora e l’ obbligo di realizzare il 60% di autoproduzione al giorno.

«Significa, dice Maniaci, che una televisione comunitaria è quella che cavalca il territorio. Telejato è sempre sul posto: noi arriviamo prima della Polizia. Mettiamo in onda i consigli comunali. Siamo diventati un’istituzione per i Comuni: le amministrazioni prima di firmare una delibera ci chiamano: “possiamo firmarla?”. Perché sanno che se eventualmente c’è un’illegalità gli facciamo il culo quanto una casa. Finisce che quello che trasmette Telejato diventa “materiale” per le agenzie nazionali». Ma c’è di più, continua Pino: «Quando mi mandano le lettere anonime, non quelle di minacce, ma quelle per denunciare anonimamente come si riformano le cosche mafiose a Partinico, il maggiore dei Carabinieri mi dice: “Ma scusi perché le mandano a lei e non a noi?”. Ed io gli rispondo: “Perché si vede che non c’hanno fiducia, visto che qua c’è scritto che c’è coinvolto un carabiniere e un finanziere”». Pino ride. «Se perdiamo la leggerezza siamo rovinati, è la nostra unica forza». “Facciamo l'informazione vera” Un attimo dopo è già serio: «Siamo noi che facciamo l’informazione vera. Quella che sta sul territorio, il giornalismo di strada. Noi per dieci anni abbiamo dato il culo e non ci siamo fermati davanti nessuna intimidazione mafiosa, l’ultima lettera non minacciava me, ma la mia famiglia».

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In certi territori rimanere isolati significa rischiare la pelle. Semplicemente, senza giri di parole. Pino ha un motto che ripete giornalmente ai suoi ragazzi: «Ho preso come punto di riferimento un signore che si chiama Pippo Fava, il suo modo di intendere il giornalismo dalla schiena dritta: una buona informazione incide, diventa determinante per un territorio. Può cambiare le cose». Di tutto questo pare che lo stato possa fare a meno. Lì dove non è riuscita la mafia, è bastata una leggina del governo Berlusconi per rendere imminente la chiusura di questa e di tante altre voci libere. Una leggina di Berlusconi Il 30 giugno, con il cosiddetto “switch off” le televisioni comunitarie (circa 250 in tutta Italia) verranno abolite. Lo ho deciso la legge di Stabilità del 2011, ma non se n’è accorto nessuno, neanche dall’opposizione. La loro lunghezza d’onda è stata venduta alle reti di telefonia mobile. Il ministero dello Sviluppo Economico ha disposto il pagamento per tutte le lunghezze d’onda del digitale terrestre, eccetto che per le tre reti RAI, per La 7, per Sky. Questo “dono” è stato chiamato “beauty contest”, ma è difficile capire in che cosa consista il concorso di bellezza: non certo nella scadente qualità di quello che queste emittenti trasmettono.s


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di giro”

Di fatto, Berlusconi ha cercato di fare l’ennesimo regalo alle sue emittenti estendendolo, per racimolare consenso, a quelle che attualmente trasmettono su tutto il territorio nazionale, bloccando anche la possibile nascita di altre televisioni concorrenti. Scelta che priva lo stato di un introito valutato circa due miliardi di euro. Il ministro Passera - che ha scoperto il problema probabilmente anche grazie a Telejato, che ha sollevato il caso con una petizione corredata da tremila firme - ha recentemente dichiarato che il beauty contest sarà annullato e che le emittenti Mediaset, Sky e La 7 dovranno gareggiare alla pari di altre. Una decisione degna di un Paese normale. Avverrebbe in Italia quel che accade in tutta Europa. Una petizione per Telejato

Su questa faccenda si gioca la sopravvivenza del governo Monti: Alfano diserta una riunione di maggioranza, Berlusca annulla un pranzo con Monti. Tutti segnali chiari.Se il provvedimento dovesse arrivare in Parlamento, i berluscones non molleranno: in fondo perché dare allo stato una somma di denaro che potrebbe finire nelle loro tasche? Sulla RAI, la questione è aperta: lasciarla in mano ai partiti che determinano la qualità dell’informazione, o privatizzarla? Pertanto la sopravvivenza di Telejato e di tutte le televisioni comunitarie verrà decisa in questi giorni. Una prima proposta sarebbe quella di consentire l’esistenza di alcune delle piccole emittenti, autorizzate a trasmettere come “fornitori di contenuti”. Questa denominazione solleva qualche perplessità: di quali contenuti si parla? Forse di quelli culturali, di quelli giornalistici, o dell’acqua che è il contenuto di un bicchiere pieno? Ad ogni modo è stata inoltrata la domanda con relativa documentazione, costata 250 euro. Intanto il Pd aveva promesso di fare un emendamento con la proposta di asse-

gnare alle televisioni comunitarie il 30% delle frequenze assegnate alle televisioni locali, ma la cosa sembra essersi arenata sulle secche della dimenticanza. L’altra possibilità è quella di diventare “operatori di rete” sulla base di una concessione comprata attraverso la partecipazione alle graduatorie regionali per l’assegnazione. Ogni rete avrà a disposizione cinque bande su cui poter trasmettere, magari concedendone qualcuna a pagamento a qualche piccola televisione rimasta fuori dall’asta. Quali sono i parametri per entrare in queste graduatorie? Numero dei dipendenti, proprietà immobili, situazione patrimoniale. Il tutto genera un paradosso: una televisione comunitaria, che è al servizio di un’associazione culturale o religiosa, è “onlus”, quindi non può avere un fatturato, per legge può gestire solo collaborazioni gratuite e volontarie. Ingegnosamente si è allora pensato di costituire un “bouquet”, ovvero una rete di emittenti che consenta di coprire vaste zone del territorio regionale. Ci sono contatti con TRM e con TeleSciacca, per la costituzione di questo consorzio, ma Pino Maniaci è preoccu-

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pato: «Abbiamo partecipato ad un consorzio di emittenti, ci siamo uniti ad altre televisioni, così da raggiungere i parametri richiesti per l’assegnazione della frequenza. Ma ce la bocceranno. Il punto è che siamo un ibrido: televisioni commerciali e comunitarie. Non andrà bene». Anche questa domanda è stata già inoltrata, ed è costata 1.800 euro. Una legge incostituzionale «Ad oggi, dice Pino, per la legge così com’è dovremmo essere fuori, abbiamo incrociato le dita in attesa della risposta del Ministero, che dovrebbe arrivare per metà maggio. Se non passiamo, violerò la legge, perché quella è una legge anticostituzionale ed iniqua. Accederò lo stesso al digitale, e il paradosso sarà che mi dovranno spegnere i microfoni quegli stessi carabinieri che mi danno protezione. Io vado avanti perché devo tutelare quella che è la vita della mia famiglia: finché avrò un microfono nella mani e i riflettori accesi. Spegnere Telejato significa lasciarci in balia della mafia».


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Telejato non ti meritiamo Il “beauty contest” cancellerà Telejato, forse ormai neanche le speranze hanno un senso. Un territorio, il palermitano, che grazie all’opera d’informazione costante aveva avuto una sua dignità, aveva finalmente qualcosa di cui vantarsi oltre a qualcosa di cui vergognarsi di Ivano Asaro

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Pino Maniaci ha saputo nonostante tutto essere il vessillo nazionale di un problema che nazionalmente s’ignora: la mancanza di libertà, di pensiero. Sì, perché nessuno è libero di pensare se le verità non sono tutte raccontate. Se Pino Maniaci non avesse raccontato le malefatte dei mafiosi, quelli sarebbero soltanto imprenditori scellerati agli occhi della gente.

Eppure i politici che sanno oliare i meccanismi dei listini bloccati e la pubblica amministrazione per le nomine, pardon, per le raccomandazioni, non sono riusciti a salvare un’emittente che da solo ha formato professionisti, ha fatto conoscere una terra esclusa pure dal mappamondo per volere delle mafie. E freghiamocene se la Bertolino a Partinico prima ed a Mazara poi non c’è stata anche e soprattutto per Pino Maniaci, e freghiamocene se le querele per il bene di tutti se l’è prese lui. Freghiamocene di tutto. Anche di un uomo che non ha più la sua vita, costretto com’è ad interpretare il ruolo di eroe, che lui umilmente dice di non essere, ma che in fondo è come del resto tutta la sua famiglia. Credete che sia facile essere parenti senza scorta di Pino Maniaci nel territorio stesso di cui si raccontano le verità? Chi non vuole Telejato Eppure Telejato chiuderà. Chiude non perché non si siano trovate le scorciatoie o i cavilli, quelli si trovano e si sono trovati perfino per questioni più grosse: ricordate l‘affaire Rete 4? Per Telejato, in una piccola parte della Sicilia invece no. Ma bisogna chiedersi chi vuole Telejato. Di sicuro non i partiti dei mafiosi, quelli sempre nominati da Maniaci; di sicuro non i partiti con i mafiosi, anche loro citati per le loro strane abitudini; ma neanche i partiti meno vicini al potere mafioso, e perciò più colpevoli. Non uso giri di parole, il Pd si è di-

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menticato di Telejato, perché era bello farsi fotografare con Pino Maniaci, passare per il suo microfono, ma lo stesso poi diventava antipatico se diventavi sponsor di Lombardo, che con la mafia deve chiarire i suoi rapporti, in base a quello che ci dicono i magistrati. Il cane da guardia Chi lo vuole Maniaci, che è sempre stato il cane da guardia della Democrazia, il cane pazzo da guardia? Nessuno a quanto pare. Senza rendersi conto che quando l’ultima parola da quella emittente verrà proferita non si spegnerà soltanto una televisione, ma una voce, un pensiero, un sogno, l’intero paese che perderà la sua dignità. Quando Telejato si spegnerà l’economia dello stato, per meglio dire degli uomini dello stato, avrà vinto contro i diritti sanciti in Costituzione, avrà vinto sulla testa delle persone che saranno meno libere e più deboli. A Pino non servono i grazie per avere dato tanto, troppo ad un paese, una regione, un territorio che non lo merita. No Pino, noi non ti meritiamo, perché siamo pronti ad indignarci per Santoro, per carità degno di una battaglia di civiltà ma sicuramente in una situazione infinitamente più facile della tua. E scusatemi se dico solo Pino, conosco i membri della famiglia ma per discrezione non li cito, ma specialmente sua moglie sa quanto voglio bene a quella famiglia e quanta stima ho per loro, e quanta impotenza provo in questi momenti.


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Chi ha paura del Casalese? CLICCA SULLA COPERTINA

Volevano bruciare un libro che parla di camorra e di politici collusi. Ma i giornalisti non si arrendono. E nasce un nuovo giornale di Arnaldo Capezzuto ladomenicasettimanale.it Non sarà nè sequestrato né distrutto il libro “Il Casalese” - ascesa e tramonto di un leader politico di Terra di lavoro -, edito dalla piccola casa editrice partenopea “Cento Autori”. Il libro scritto da nove giornalisti napoletani narra senza censure l'escalation della famiglia del disonorevole deputato Nicola Cosentino, ex sottosegretario all'Economia con delega al Cipe nel governo Berlusconi. Le 255 pagine del manoscritto documentano senza filtri né censure i fatti ed i misfatti di un “sistema” di potere che vede nel deputato casertano il punto terminale di una ragnatela di relazioni e interessi che in pochi anni anni hanno trasformato i comuni del casertano in piccoli feudi. Nel libro vengono snocciolati 1044 tra nomi e cognomi, società, imprese e aziende. Come era prevedibile la reazione non è tardata a venire. Giovanni Cosentino, fratello del deputato Pdl e titolare delle aziende: Aversana Petroli e l'Ip Service, considerate la cassaforte di famiglia ha denunciato la casa editrice e lo stampatore chiedendo nell'atto di citazione un risarcimento danni di un milione e duecentomila

euro, il sequestro e la distruzione del testo. Così ad inizio aprile è cominciata una querelle giudiziaria che il 26 aprile ha avuto un primo parziale pronunciamento. Il giudice Anna Giorgia Carbone del Tribunale di Napoli, accogliendo la prima delle contestazioni mosse dalla difesa della casa editrice Cento Autori, si è dichiarata incompetente. Era accaduto infatti che i legali dell'imprenditore casertano si fossero impropriamente rivolti nel loro esposto-denuncia alla “Sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale”. Sarà dunque una Sezione ordinaria a dover esaminare il secondo motivo dell'opposizione dell'editore alla procedura d'urgenza (art.700 del codice di procedura civile). Nell'Italia della caduta degli Dei impressiona pensare che ci siano ancora dei cognomi che non possono essere nominati invano. Dopo il rinvio del 5 aprile e l'udienza del 24 aprile, il giudice Anna Giorgia Carbone, quindi ha adottato la decisione di dichiararsi non competente e rimandare la materia alla Sezione ordinaria. Nel corso di una udienza Pietro Valente, amministratore delle Edizioni Cento Autori, aveva detto con serenità: “Ho rappresentato le ragioni della casa editrice al magistrato, replicando a tutte le contestazioni mosse dai legali di Giovanni Cosentino. Alla luce di ciò ritengo che il ‘Casalese’ sia la migliore e più realistica immagine di una certa Italia ostaggio di subculture politiche”. C'è una domanda inevasa però che attende una risposta questa si urgente : chi ha veramente paura de “Il Casalese”? Il manoscritto curato da nove giornalisti professionisti e impegnati su vari fronti della cronaca fa le pulci al deputato Nicola Cosentino, ex potente coordinatore campano del Pdl che per ben due volte ha scansato il carcere grazie al voto della Ca-

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mera dei Deputati che non ha concesso l'autorizzazione a procedere. L'ex potente sottosegretario all'Economia è un personaggio controverso e definito nell'inchiesta “Il principe e la scheda ballerina” dal giudice per l'udienza preliminare: “Il referente nazionale del clan dei Casalesi”. All'ombra dell'enorme potere accumulato da Nik 'o Mericano (questo il soprannome del politico) si snoda una famigliaazienda tentacolare con forti interessi economici: negli idrocarburi, nell'energia e nel mercato immobiliare. Il libro contiene una biografia non autorizzata - ricca di documenti - dell’esponente politico del Pdl, che da consigliere comunale di Casal di Principe è arrivato, in pochi anni, al governo con Silvio Berlusconi. Una straordinaria carriera stroncata dalle rivelazioni di sei pentiti che lo hanno indicato come il referente nazionale della più sanguinaria e potente cosca della camorra: il clan dei Casalesi. Un racconto appassionato che diventa uno spaccato inquietante dell'Italia di disastrosi anni del berlusconismo spinto dove sono saltati i confini tra ciò che illecito e ciò che è lecito e dove il potere si conquista con qualsiasi mezzo. La storia narrata nel “Il Casalese” è aggiornata fino alle ultime vicende processuali e politiche che da anni occupano le prime pagine dei giornali e i titoli d’apertura dei Tg nazionali. Gli autori sono tranquilli: “Abbiamo fatto solo i giornalisti” UN LIBRO E UN GIORNALE In alto, il libro che ha scatenato le ire della famiglia Cosentino, e, al suo fianco, il primo numero de La Domenica settimanale, il nuovo giornale di denuncia di Arnaldo Capezzuto. Fa parte della rete dei Siciliani giovani e si affianca ai numerosi giornali di base che, su carta o web, lavorano tutti insieme per un'informazione libera e antimafiosa.


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Quarto potere Cronaca di un'agonia Che fine hanno fatto i giornali? E i giornalisti? Cani da guardia dei cittadini o stanchi ripetitori di un rito degenerato in casta? E la soluzione, dov'è? Nei blog, nel lavoro gratuito, oppure... di Pietro Orsatti

Amarezza. Giornale non letto e lasciato sul sedile di un pullman di pendolari. Da uno che ha passato la vita a scrivere sui giornali non è un buon segnale. Questo rito, il giornale del mattino, non è più quello che era. Una roba normale, di popolo. Di gente che si sente parte di qualcosa e quel qualcosa, la realtà collettiva, la va a cercare nel racconto di carta e inchiostro la mattina con il caffè del risveglio. Negli anni trascorsi in Brasile il giornale era lì ad aspettarmi davanti alla porta di casa. Le edicole sono poche da quelle parti, e gli abbonamenti invece sono abitudine. Il rito laico del mattino

Esco di casa e lungo la salita che mi porta all'edicola conto le monetine per comprare un quotidiano. Rito scaramantico da fare dopo la prima notte trascorsa in una casa nuova. Una casa sudata e combattuta oltre ogni limite. E forse per questo ancora più importante. Rito, quello del giornale da sfogliare con il sapore del caffè in bocca, urgente come quello di entrare dal fornaio a comprare il primo pane ancora tiepido di forno o incollare l'etichetta con il proprio nome sulla buca della posta. Leggo velocemente i titoli, mi fermo su qualche sommario. Attacco un pezzo, lo abbandono. Poi vado alle pagine dello sport e alla fine a leggere se ci sarà qualche film decente la sera in tv. Delusione.

E leggono tutti. Il giornale ti racconta la tua città, il tuo paese, il mondo. Ti fa sentire meno solo in megalopoli come Sao Paolo o l'area urbana di Rio De Janeiro. O come nel villaggio del semi arido nel nord est o nelle immensità di canna da zucchero nello Stato di Goias. E i giornali sono roba seria in un paese che crede ancora nella politica, nell'impegno, nel futuro. Nell'utopia. scritti e confezionati bene. Attenti. Pieni di notizie, frutto di lavoro e impegno. Esercizio intellettuale collettivo. Qui no. I giornali non cercano di raccontare il "tutto", non attraversano la realtà narrandola. Si pensano, si confezionano, si scrivono per "chi ha orecchie per intendere". La politica, la lobby, la

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corporazione, il salotto. L'informazione? Faziosa, di parte e non partigiana, speculare e simmetrica da destra a sinistra. E le notizie? Accessorio. Il racconto? Inesistente. Il lettore? Un surplus. Di tanto in tanto qualche lampo. Talmente isolato da rimanere invisibile. Impiegatizio, il lavoro, senza fantasia, senza impegno, senza nessuna consapevolezza del mestiere che si fa e del ruolo che si ha nella società in cui si vive e opera. Si fanno festival per festeggiare. Osservatori per sorvegliare e monitorare. Dibattiti per analizzare. Ci si parla addosso, presuntuosi. La casta? Magari. Una casta dovrebbe presupporre un privilegio per pochi eletti. Qui c’è un micragnoso gruppo di potere - sempre più irrilevante visto il numero di copie che vengono vendute in questo paese - che ha creato con l’aiuto e la complicità della politica - nei democristianissimi primi anni 60 - un oggetto, l’ordine dei giornalisti, in aperta violazione dell’articolo 21 della Costituzione, sottoponendo l’esercizio della professione - che non è professione ma mestiere e questa differenza ormai, non lo nego, nessuno sa neppure cosa sia - a un’autorizzazione da parte dello Stato e quindi della politica e dell’esecutivo. Quarto potere. Ma scherziamo? Cane da guardia della politica. Ma non prendiamoci in giro. Ormai i giornali, che non vivono delle copie vendute da decenni e ora neanche della pubblicità campano solo dei soldi pubblici. Tutti.


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di giro”

E soprattutto i colossi editoriali - dai piedi di argilla vista la catastrofica perdita di lettori e di credibilità - che la fetta più grossa di quei finanziamenti incassano. Sarà un caso che i tagli annunciati del governo all’editoria riguardino quasi esclusivamente i giornali in cooperativa (compresi quelli dei partiti che però sono una minoranza) e non tocchino quelle voci di spesa che invece interessano il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 ore e La Stampa? Di quale libertà di informazione parliamo quando il potere politico e economico ti tiene per le palle? I grandi monopoli che strozzano Nessuno, poi, affronta i grandi monopoli che strozzano i nostri giornali. Distribuzione e pubblicità. Chi distribuisce, e spesso coincide con chi stampa, decide di fatto chi vive e chi muore. Se un giornale arriva in ritardo, non viene distribuito nei luoghi sui quali è misurato e pensato, diventa invisibile, non vive. Se poi praticamente il 90% della pubblicità è in mano a un paio di mega agenzie il gioco è fatto. Della televisione e delle radio non parliamo. Inutile evidenziare quale sia il livello di condizionamento da parte dello

Stato quando si va all’asta per le frequenze senza tenerne una parte a prezzi accessibili per soggetti editoriali piccoli, socialmente e culturalmente importanti e fortemente radicati sui territori su cui operano. Della vicenda “pelosa” di TeleJato in questo numero dei Siciliani giovani avrete ampia documentazione e la possibilità di ragionarci. Esempi analoghi potrei farne a decine sia per le radio che per le televisioni. Allora ci salverà Internet? I blog sono la risorsa di libertà? Non scherziamo. E lo dico da blogger. Il giornalismo, e l’informazione, sono una roba complessa. Non basta scrivere. Non basta denunciare. La ricerca - e narrazione - della realtà è una cosa molto più complessa, che non può essere solo l’esercizio estemporaneo anche se valido e importante dei blog e dei social network. La gratuità nell’esercizio del giornalismo non è un valore. Solo degli artigiani della parola e dei fatti da raccontare (le notizie, che ormai sembrano diventate accessorio) possono garantire una corretta informazione (e parlo sia di qualità e rigore quanto di continuità e attenzione). Anche sulla rete il giornalismo ha bisogno di “mestiere” e di risorse economiche. Faccio un esempio. Uno dei migliori

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siti di inchiesta del mondo (Propublica, che ha vinto, primo sito ad aver ricevuto questo premio, il Pulitzer) è una testata di giornalisti che si finanzia attraverso sottoscrizioni e donazioni dei lettori, fino ad arrivare a fare raccolta fondi per specifiche inchieste. In Italia? Sui siti di informazione (parlo delle maggioranza delle grandi e piccole testate presenti in rete) un pezzo si paga dagli 8 ai 18 euro lordi. Non ci paghi neanche le spese telefoniche per fare il servizio! Figuriamoci se qualcuno si possa staccare dal proprio computer a raccattare un po’ di informazione in rete e andare invece sui luoghi, parlare con le persone, raccogliere documenti e studiarli con 18 euro lordi a articolo. Inoltre sul web rimane il problemino da nulla del monopolio delle concessionarie pubblicitarie. Provate voi a tenere in piedi un sito di informazione con le tariffe di Google News. E’ evidente che il giornalismo sta diventando un mestiere classista. Se hai soldi di famiglia per permetterti di lavorare a gratis fai il giornalista. Oppure rinunci. O ancora, se non vuoi rinunciare, vendi il culo. Una macchina di potere Una soluzione? Non facile, certamente. Perché andrebbe smontata una macchina di potere (economico e soprattutto politico) radicata da 50 anni e consolidata in prassi e stile di formazione. La macchina editoriale, la macchina pubblicitaria, la macchina dell’ordine e perfino quella del sindacato che con l’ordine mantiene una relazione non virtuosa ma di intreccio corporativistico (e oggi anche blocco generazionale) oggi indistricabile. Ma una soluzione va trovata. Partendo da una liberarizzazione della professione giornalistica che ogni volta che viene accennata trova barricate degne della linea Maginot.


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Libertà di stampa

Vite precarie, pagine precarie Errori di stampa è l'associazione (e il sito) fondata da un gruppo di giovani giornalist... “Giornalisti? Ohibò! Come vi permettete di chiamar vi giornalisti se non avete una tessera! Un contratto! Un...”. Già. Che cos'è un giornalista, oggigiorno? Oltre che un precario? di Valeria Calicchio

erroridistampablogspot.it

Dimenticate quelli che dicevano che “il giornalismo è il mestiere più bello del mondo”. Dimenticate il reporter figura romantica e mitologica in giro per cinque continenti a cambiare il corso della storia. Dimenticate Montanelli, Biagi o D’Avanzo. L’Italia di oggi non è più un paese per giornalisti. O almeno non lo è più per giornalisti di quel tipo.

Oggi la situazione è molto cambiata e fare il cronista, oltre a non essere più così romantico, è diventato simile alla lotta per la sopravvivenza nella giungla. Perché i giornalisti precari o i free lance sono trattati alla stregua della manovalanza che viene assoldata nei campi del profondo sud dal caporalato mafioso. Perché ci troviamo di fronte a un’intera generazione che pur avendo investito in anni di formazione e gavetta in decine di redazioni di tutto il paese, è costretta a dover fare i conti con un precariato sistemico e logorante, che non permette di fare progetti né di vedere vie di uscita per il futuro. Cifre umilianti Perché le cifre che vengono pagate per un articolo, un servizio o un video sono umilianti. Un tempo si parlava degli abusivi, che una volta entrati in redazione, dopo aver consumato le suole per qualche anno ed essersi fatti le ossa con “la nera”, avrebbero raggiunto l’agognata stabilità e la garanzia di poter svolgere un mestiere delicato e fondamentale per la vita del paese con le dovute garanzie e tutele. Oggi no, non ci sono tutele, né garanzie né dignità. Ed è per questo che nel giro di pochi anni in tutta Italia molti colleghi si sono uniti in coordinamenti e associazioni di giornalisti precari. Come è successo anche nella capitale circa un anno e mezzo fa con Errori di Stampa. Un pugno di

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cronisti per lo più attivi sulla cronaca cittadina, che un giorno decidono di mettersi insieme per cominciare a denunciare quanto sia diventata insopportabile la condizione di sfruttamento di centinaia di forzati in tutta Italia. Un anno e mezzo di lotte durante il quale il coordinamento ha stilato un manifesto per rivendicare la necessità di avere un equo compenso, di garantire ferie, malattie e maternità anche a chi non gode di un contratto stabile, per ottenere meritocrazia e giustizia attraverso la costituzione di bacini di giornalisti precari. E poi l’esigenza di fare un censimento per monitorare in maniera precisa quali fossero i numeri di questa voragine. Un’indagine che ha portato alla luce cifre drammatiche, presentate il 25 aprile anche a Perugia al festival internazionale del giornalismo (dopo essere state divulgate per la prima volta in una conferenza stampa lo scorso febbraio a Roma) . Duemila solo a Roma L’auto-censimento ha rivelato che solo nella capitale ci sarebbero circa 2000 giornalisti precari (colleghi che lavorano a borderò, attraverso finte partite iva e co.co.pro). Duemila, una cifra finanche troppo clemente, considerato il fatto che l’indagine non è riuscita a fare una stima precisa di tutte le persone impiegate negli uffici stampa.


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Ma oltre al numero, quello che più deve far pensare sono i compensi. I “tariffari della vergogna” li hanno chiamati i ragazzi di Errori di Stampa. Cifre che in media si attesterebbero sui 25 euro lordi per articolo. Per arrivare a 1000 euro, provocatoriamente, il coordinamento ha calcolato che “un mese non basta”. Non basterebbe un mese, lavorando tutti i giorni compresi i festivi e quando si è malati, per arrivare a 1000 euro. Ci vorrebbero 40 giorni per raggiungere a una cifra che seppur ancora troppo al di sotto della decenza, viene da molti indicata come la soglia minima della sopravvivenza. La clausola maternità in Rai Perché di questo si tratta. Di sopravvivere facendo più di un lavoro per potersi garantire il diritto a fare quella che si sta trasformando sempre di più in una professione per soli ricchi. Oltre al dramma emerso grazie al censimento, il coordinamento romano si è incaricato, primo in Italia, di portare alla luce anche un altro scandalo. Quello della clausola maternità in Rai, che dietro cela non soltanto una norma sessista e retrograda, ma ancora una volta l’offesa dell’abuso di finti contratti mascherati con le partite iva. La nuova frontiera di uno sfruttamento che pur non volendo garantire ai giorna-

Scheda LE CIFRE DEL PRECARIATO Giornalisti precari in Italia: 25mila (i 2/3 del totale) Il 62% di loro denuncia un reddito inferiore ai 5000 euro l’anno 2000 sono i giornalisti precari censiti nella capitale Media retribuzione ad articolo: 25 euro lorde (per arrivare a 1000 un giornalista precario dovrebbe lavorare 40 giorni)

listi il minimo indispensabile dei diritti dovuti a chi di fatto svolge un lavoro subordinato a tutti i livelli, ne pretende i doveri. Senza aver garantito nemmeno l’accesso nella più grande azienda editoriale del paese, all’interno della quale i precari continuano ad entrare con il pass per visitatori. Oggi il Coordinamento si fa carico di garantire un punto di riferimento per tutti i colleghi precari, sfiduciati rispetto agli organismi di categoria che per anni si sono voltati dall’altra parte rispetto al problema del precariato. Ultimamente l’interesse sembra essere maggiore, ma sempre condizionato a squallidi do ut des che spesso legano a doppio filo alcuni colleghi garantiti agli editori, sempre più feroci nel falcidiare la categoria per aumentare i profitti. E’ di questi giorni la notizia che solo nel 2011 gli stati di crisi hanno portato al licenziamento 637 giornalisti: 469 dei quotidiani, 124 dei settimanali e 44 delle agenzie. A rivelarlo, il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino.

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Cifre drammatiche che ovviamente non tengono conto dei precari. E tutto questo mentre grandi aziende editoriali del paese nascondono dietro il miraggio del “citizen journalism” nuove forme di sfruttamento. Con la promessa della visibilità o peggio ancora di un contratto che non arriverà mai. Oggi occorre ridare dignità a una professione che ormai anche nelle classifiche mondiali viene indicata come una delle meno ambite (secondo uno studio del “careerCast.com”, pubblicata dal Wall Street Journal, fare il giornalista si trova al 196° posto tra le 200 professioni censite, dietro solo i taglialegna, gli operai delle piattaforme petrolifere, i lavapiatti e i soldati di professione). Perché molto presto a farne le spese non saranno solo i giornalisti precari, ma tutto il sistema della comunicazione. E soprattutto la libertà d’informazione, che senza la giusta retribuzione di chi la garantisce giorno per giorni, diventerà solo un guscio vuoto e inutile, sempre più rarefatta e esclusiva.


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Libertà di stampa

I cronisti ragazzini di san Cristoforo Qando il vicolo prende la parola

Stavolta non leggerete degli articoli scritti da raffinati giornalisti dalle firme famose. Stavolta non leggerete racconti di cronaca nera, giudiziaria e di guerra scritti dai “giornalisti d’assalto” né tantomeno sulla politica estera o sul “super Monti” che salva l’Italia. Stavolta leggerete racconti veri, molto veri perché scritti prima con gli occhi e con la mente e poi con la penna. Ragazzini e ragazzine che si improvvisano cronisti, per far diventare ciò che vedono parole di carta sulla pagina autogestita offertagli dal giornale di quartiere, I Cordai. Una pagina costruita interamente da loro: l'hanno chiamata News boys, gli strilloni. “Strillano” l’allegria e i colori di San Cristoforo, ma anche i drammi del quartiere: l’abbandono istituzionale delle strade e delle case, di quella che potrebbe essere una piazza, la sporcizia e la carenza dei servizi, il degrado, la negazione di tutti i diritti anche i più elementari. Ciò che loro scrivono lo leggono in pochi, e ancor meno lo ascoltano gli amministratori: ma tanto i bambini non votano... Racconti spesse volte disumani, perché descrivono come la droga ha reso insopportabile la loro vita in quei vicoli: non perché ne facciano uso (tutt’altro) ma perché costretti a subire la volontà indiretta dei pusher, pilotati da una mafia che toglie respiro e democrazia, che li costringe, nella semplice azione di recarsi a scuola, ad assistere a scene che altri adolescenti della loro età e in altri luoghi non immaginano.

Questi ragazzi vengono dalla scuola media Andrea Doria, forse l’unico presidio democratico del quartiere, e sono seguiti da quelle brave insegnanti ed insieme a loro resistono con le armi, anche se piccole, della libera informazione. Giovanni Caruso i Cordai

“Non ne possiamo più di assistere a scene di spaccio” Giovanna aveva solo 7 anni quando ha assistito alla prima scena di spaccio. La mamma ha preferito non rispondere alle domande su cosa fossero le pasticche bianche che un tizio aveva passato ad un ragazzo in cambio di denaro, proprio davanti a loro che camminavano per una delle strade del quartiere. Oggi Giovanna ha 12 anni e non ha bisogno che la mamma le spieghi cosa significano le scene a cui, di tanto in tanto, assiste. La storia di Maria Maria invece ha una storia più particolare da raccontare: circa un mese fa, di notte, tre ragazzi hanno suonato al citofono di casa sua. La mamma di Maria ha risposto chiedendo chi fosse; uno di loro ha detto di chiamarsi Salvo, un parente stretto, del quale, però, la donna non riconosce la voce e così chiede al marito di controllare dalla finestra. Il papà di Maria si affaccia e capisce che non si tratta né di Salvo né di conoscenti. Dalle risposte sconnesse e insensate dei tre giovani, l'uomo comprende che

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sono sotto l'effetto di sostanze stupefacenti e si guarda bene dall'aprire il portone. Quando l'indomani mattina Maria viene a sapere dell'accaduto ha una sensazione di paura e preoccupazione: chissà cosa sarebbe successo se la mamma avesse aperto! E che dire dell'esperienza che è stata costretta a vivere Marcella, ragazzina di 12 anni, che in un “tranquillo” pomeriggio, tornando a casa, la trova piena di poliziotti con mitra spianati, che mettono a soqquadro l'intera abitazione solo perché hanno il sospetto che si sia nascosto nella sua casa un ragazzo che era scappato con delle dosi in mano. Di fronte a quella scena terribile Marcella comincia a tremare, l'ansia e la paura la fanno sbiancare in viso, ma ciò non basta a fermare quella irruzione che per quanto legittima ma incurante di noi ragazzini e violenta lascerà una traccia indelebile nella sua vita. Ormai sembra che non ci si possa più indignare ed esprimere la propria disapprovazione verso certi comportamenti, come è successo alla nonna di Piera, la quale, affacciatasi dal balcone e visto che in strada c'erano dei ragazzi che spacciavano, li ha invitati a smettere e ad allontanarsi e per questo è stata “richiamata” dagli stessi e le è stato intimato di rientrare immediatamente dentro casa. Queste storie sono solo alcuni esempi delle tante, troppe situazioni, in cui dei bambini e dei ragazzi si trovano coinvolti, nonostante la loro precoce età. Negli ultimi anni il fenomeno dello spaccio si è intensificato notevolmente, tanto che ormai quando ci capita di sentirne parlare ci sembra che sia “normale”. Invece non è normale per niente.


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E sopratutto non è piacevole vedersi additati come delinquenti, solo perché abitanti di San Cristoforo. Noi sappiamo che tanta gente onesta e per bene abita nel nostro quartiere ed è a loro, e all’altra Catania ma anche a tutti gli adulti che chiediamo di pensare di più a quanto possano essere negative certe esperienze per la crescita sana e civile dei loro figli e dei giovani in genere. La mitica II D

Un quartiere come il mio Quando si vive in un quartiere come il mio anche se non si vuole avere a che fare con la droga, può capitare, a un povero adolescente come Giuseppe, di incappare in un uomo di mezza età, che gli chiede della “roba” scambiandolo per uno spacciatore, solo perché si trova insieme ad un compagno davanti ad un bar e porta uno zainetto a tracolla. Inoltre ci sono delle strade e delle piazze in cui non è raccomandabile passeggiare. Se poi una persona, magari perché la strada solita è interrotta, ci si trova a passare, può incappare in una situazione assurda: è costretta a fermarsi perché, in mezzo alla strada, uno spacciatore, senza alcun pudore né timore, ha deciso di vendere le “dosi”ad automobilisti e motociclisti che arrivano da tutta la città con le

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loro piccole o grandi macchine e di ogni ceto sociale, come per un appuntamento già concordato, a comprare la “roba”, per scomparire subito dopo. Così, in pochi minuti, la persona ha assistito ad un atto criminale e quando, ripresasi dalla sorpresa, suona il clacson, contrariata, il delinquente la guarda con occhi minacciosi. Lei non sa se reagire o cautamente ignorare la situazione dopo aver, in ogni caso, subìto una violenza psicologica. In Via Belfiore capita spesso, come è successo ai genitori dei miei compagni, di essere fermati da spacciatori sulle auto che offrono la droga. In piazza Caduti del mare è capitato a un alunno della scuola di incontrare un compagno che vendeva droga. Massimo era andato a comprare le sigarette a papà e ha visto il compagno fermo nella piazza, lo ha salutato e lui gli ha chiesto se voleva uno spinello. La droga in piazza

Massimo è rimasto molto sorpreso, ha risposto di no, ma ha anche chiesto perché stava lì a spacciare. Il compagno gli ha detto che dava una mano a sua madre perché il padre era in carcere. Massimo non era convinto che fosse una motivazione giusta e ha pensato che i problemi degli adulti devono essere risolti dagli adulti e che il suo compagno, in quella situazione, poteva rischiare di rovinarsi la vita per sempre,

Io penso che parlare della droga sia utile perché fa capire ai ragazzi i rischi che si corrono quando si fa uso di certe sostanze. Bisogna comprendere che spesso si cade nella trappola senza rendersi conto delle conseguenze. Chi spaccia o fa uso di droghe entra in un tunnel dal quale è difficilissimo, se non impossibile, uscire. Il destino di molti ragazzi del mio quartiere è quello di finire in carcere o, ancora peggio, uccisi in una delle nostre strade come purtroppo è capitato negli ultimi mesi. Io spero che proprio noi giovani possiamo cambiare questa realtà, facendo molta attenzione a non farci coinvolgere in queste situazioni: come fare? Resistere alla mafia. Di Lorenzo Nicolosi III C Da I cordai, pagina autogestita News boys, scuola Andrea Doria

Nelle foto (di Giovanni Caruso): Via Barcellona, chiamata più comunemente " il supermarket della droga"; e via De Lorenzo. Qui doveva nascere un parco, ma non l’hanno mai fatto. Per cui ci vanno a giocare i ragazzini e i pusher di piazza Don Bonomo ci nascondono la coca.

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accadrà ieri

I tuareg A TIMBUKTU

Il 1 aprile in Mali i tuareg entrano a Timbuktu mentre i soldati governativi fuggono dalla città. I ribelli del movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad conquistano anche Gao, la principale città del nord del Paese. Il 6 aprile viene proclamata la secessione dell’Azawad, regione che è considerata la patria dei tuareg. Il giorno dopo, la giunta militare che governa il paese dopo aver rovesciato il presidente legittimo Amadou Toumani Tourè rinuncia al potere sulle regioni del nord, annunciando che entro 40 giorni si terranno le elezioni. Intanto nell’Azawad si rompe l’alleanza tra tuareg e islamisti. Gli esperti avvertono: “Il Mali rischia di diventare un nuovo Afghanistan”.

Guinea-Bissau GOLPE E COCA

Il 12 aprile un colpo di stato porta l’esercito al comando della GuineaBissau. Il golpe è arrivato prima del secondo turno delle presidenziali, previsto per il 29 aprile, che vedeva di fronte il primo ministro uscente Carlos Domingos Gomes Junior e Kumba Yala, leader del Partito del rinnovamento sociale. I militari hanno arrestato sia Gomes Junior sia il presidente ad interim Raimundo Pereira. La Guinea-Bissau è uno snodo importante del traffico della cocaina, che dall’America Latina arriva in Europa.

......

Italia

I GIORNI DELLE TORTURE

Il 13 aprile esce nelle sale italiane Diaz. Don’t clean up this blood, il film di Daniele Vicari che racconta attraverso gli episodi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto la sospensione dei diritti civili avvenuta in Italia nel luglio 2001 in occasione delle proteste contro il G8. Nel film, basato sugli atti processuali e sulle sentenze della corte d'Appello di Genova, si incrociano le storie di alcuni partecipanti al G8 che la notte del 21 luglio 2001 subirono l’aggressione e i pestaggi da parte di alcuni reparti della polizia all’interno della Scuola Diaz, e poi le violenze nella caserma di Bolzaneto.

Tibet

FUOCO E LIBERTA' Il 19 aprile due monaci tibetani si danno fuoco contro la repressione cinese. È avvenuto a Barma, città situata tra le montagne della provincia del Sichuan, nella Cina sud-occidentale. I

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REWIND a cura di Francesco Feola due monaci, Sonam e Choephak Kyap, entrambi laici e sulla ventina, si sono immolati davanti a un monastero invocando libertà per la loro terra. Sono almeno 34 i tibetani che dall’inizio del 2011 si sono dati fuoco per protesta. A Barma la situazione è molto tesa dopo che a gennaio le forze antisommossa della polizia hanno sparato sulla folla, uccidendo un manifestante e ferendone diversi altri.

Bahrein

LA DITTATURA UCCIDE Il 21 aprile le forze di sicurezza del Bahrein uccidono un manifestante che partecipava alle proteste indette contro il governo dall’opposizione sciita. I manifestanti sono scesi in piazza a Damistan, Karzakkan, Malkiya e Sadad, che distano meno di quattro chilometri dalla pista di Sakhir dove si svolge il Gran premio di Formula 1. Il principe Salman ben Hamad ben Isa Al Jalifa ha assicurato che la gara, prevista per il giorno dopo, si svolgerà regolarmente. Vincerà Sebastian Vettel, che dichiara: “Dal punto di vista della strategia tutto ha funzionato alla perfezione”. Non meno soddisfatto Romain Grosjean, che festeggia così il primo podio della sua carriera: “È fantastico, sono veramente felice ed orgoglioso per il risultato”.


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FORWARD

. . . . accadde domani

“Strike!”

IL MAY DAY DI OCCUPY Per il Primo maggio il movimento Occupy Wall Street ha proclamato il May Day General Strike. I manifestanti proveranno a bloccare i tunnel e i ponti che permettono l’accesso a Manhattan, per protestare contro la “vergognosa opulenza dell’1%”. Anche nel resto del paese sono previsti sit-in e manifestazioni per chiedere una maggiore equità sociale. Info: www.ocupywallstreet.org

Indignati

DI TUTTO IL MONDO...

“Nun se vende” ROMA DIFENDE L'ACQUA

Il 5 maggio si terrà a Roma una manifestazione cittadina contro la vendita da parte del Comune di Roma delle quote in suo possesso di Acea, la società che gestisce l’acqua. Sotto lo slogan “Roma non si vende”, comitati, associazioni, partiti e sindacati esprimeranno la loro contrarietà anche alla possibile privatizzazione delle altre aziende pubbliche comunali: Ama (rifiuti) e Atac (trasporti). romanonsivende@gmail.com www.acquabenecomune.org

Il 12 maggio gli indignati di tutto il mondo scenderanno in piazza. L’appuntamento italiano è a Roma, in piazza San Giovanni. Nelle intenzioni dei promotori, i manifestanti di tutta Europa dovrebbero poi convergere a Francoforte, con l’obiettivo di occuparne il quartiere finanziario dal 17 al 19 maggio. http://www.facebook.com/events/3945 79203894227/ https://www.facebook.com/groups/indi gnatositalia/

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Restiamo umani RICORDO DI ANNIGONI

Il 25 maggio nello Spazio ChinaTown Padova va in scena Restiamo umani, di Ultimo Teatro. Tratto dagli scritti di Vittorio Arrigoni, l’attivista per i diritti umani ucciso nella Striscia di Gaza, lo spettacolo vede in scena Elena Ferretti e Luca Privitera, che ne cura anche la regia. http://www.forumpalestina.org/news/2 012/Marzo12/01-03-12TeatroRestiamoUmani.htm


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Storia d'Italia

“Cuompagno Buossi...” Com'è nata la Lega Ma chi era veramente Umberto Bossi? Perché ha fondato la Lega? Chi c'era dietro? In esclusiva galattica, l'incredibile storia di un capolavoro politico fra Lenìn e Machiavelli di San Libero

Nel 1975, Umberto Palmiro Bossi (il secondo nome, da un certo punto in poi, smise di usarlo per motivi che capirete) fu convocato dal Responsabile Agit-Prop della Sezione del Pci di Varese, a cui allora era iscritto. Il Bossi, a quell'epoca, era un semplice onesto militante come tanti altri. Dava i volantini contro i padroni, come tutti, e una volta tenne un piccolo comizio davanti al Bar Sport di Colgate per difendere un un amico (tale Alfio La Barbera) a cui uno stronzo fassista aveva dato del terùn. Solo quella volta, perchè in realtà Umberto Palmiro era un ragazzo timido e per fargli dire due parole in pubblico dovevano proprio tirargliele con le pinze. Però i suoi superiori erano gente sveglia, e si accorsero lo stesso delle potenzialità rivoluzionarie del ragazzo. Un communista ferocissimo e astuto

A proposito di Bossi, è arrivato il momento - evvia, ormai il suo lavoro l'ha fatto - di rendere finalmente pubblica la verità. Me la sono tenuta sul gozzo per tutti questi anni, ma adesso è il momento di parlare.

A quell'epoca ogni sezione del Pci aveva fra i suoi dirigenti, per regolamento, un agente del Kgb o di qualche altro servizio segreto communista. Costui non parlava mai tranne che in riunioni clandestine e ristrette, non veniva mai mostrato in giro e di notte veniva messo a dormire nel ripostiglio della sezione, fra le bandiere rosse e i secchi di colla. Era lui, in ciascuna delle ottomila sezioni communiste d'Italia, che in realtà dava gli ordini, che riceveva ogni quindici giorni, via piccione viaggiatore, dalla Sezione Agitazione e Propaganda del Kgb.

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Il responsabile della sezione di Varese si chiamava Ivanov e era un communista ferocissimo ed astuto. Il compagno Ivanov convocò il compagno Bossi. “Tu, cuompagno!” “Io?” "Cuompagno Buossi!". "Agli ordini, compagno!". "Ascuolta, tuovarisc Buossi. Debbo dirti un segrueto!". "Si?". "Fra trent'anni non ci sarà più partito communista!". "Nooo!". "Si cuompagno, sarà così, fra trent'anni niet kuommunismo e niet gloriuosa Unione Suovietika!". "Non ci credo!". "È cuosì, cuompagno. Nuostri infallibili scienziati suovietici hanno inventato makkina per predire futuro! Kuommunismo suovietikuo fatte truoppe kazzate, finito!". Il Bossi si mise a piangere disperatamente. "Aspuetta, cuompagno Buossi! Non è tutto puerduto! Un uomo salverà il kuommunismo, perluomeno in Italia. E tu sai ki kuell'uomo noi abbiamo deciso ke può essere?". "Chi?". "Tu, cuompagno!". "Io?". Da quel momento la conversazione proseguì a bassa voce, talmente bassa che non sono riuscito più a sentire niente. Vedevo soltanto il compagno Ivanov che spiegava qualcosa e il compagno Bossi che assentiva con grande cenni della testa. "Alluora, cuompagno Buossi, hai kapito tutto? Più gruosse sono e meglio è. Kuando kazzate saranno sufficientiemente grosse e numerose e gente sarà dunkue sufficientiemente incazzata, alluora kuommunismo in Italia tuornerà infallibilmente!".


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“In mercedes di lusso con l'autista”

“Roma ladrona! Viva Di Pietro!”

“Pasquania? E che cazzo è?” La mattina dopo il Bossi andò al Bar Sport senza fazzoletto rosso al collo e senza l'Unità regolamentare. Dentro c'erano già il Gaita, il Rodeulf, il Padula e naturalmente l'Alfio, tutti già attorno al biliardo con le stecche in mano. "Ecco l'Umberto! - fece Alfio - Possiamo cominciare!". "Io non gioco!". "E perchè non giochi?". "Mi non gioco a billliard con i terun!". "Ma Umberto,.che cazzo ti ha preso stamattina?". "Zitto tu che sei venuto da Agrigento a portar via il lavoro a noi pasquani! Colpa dei communisti che ti hanno lasciato entrare in Pasquania!". "Pasquania? E che cazzo è?". Umberto, perplesso, si frugò nelle tasche e tirò fuori il taccuino su cui a ogni buon conto aveva segnato i passaggi salienti delle istruzioni del compagno Ivanov. "Padania, volevo dire. Tu sei un terrone e i communisti ti usano per invadere la Padania". "Ma Umberto - fece il Gaita a questo punto - ma non siamo noi, i

communisti?". "Non più! Basta con queste cazzate occhiata al taccuino - veterostaliniste e giacobbine. I communisti sono la rovina della Padania, ecco che cosa sono! Basta coi communisti e i terroni, Pasquania... Padania indipendente". "Ma va a dà el cuu - fece il Rodeulf, che fino a quel momento non aveva detto una parola - Io non ci capisco una sega di tutte queste cazzate ma mi sa che sei diventato un politico e che fra poco vieni a cercarci il voto come gli altri. Sai che ti dico? Ce la facciamo noi quattro, sta partita, e tu intanto ti fai tutte la Pasquania che vuoi". "Padania!" sbraitò l'Umberto e uscì dal locale. Purtroppo il compagno Ivanov aveva progettato bene, e già un paio di mesi dopo sulla casa di ringhera dell'Alfio qualcuno già aveva scritto col gesso il primo "via i terroni". I voti, l'Umberto ex Palmiro, se li cominciò a cercare davvero. E qualcuno, al Bar Sport, lo cominciò pure a votare.

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E passarono gli anni. Questa fu la fase uno. Nella fase due (diligentemente prevista dal Progetto Ivanov) l'Umberto, ormai capo-partito e senatore, battè diligentemente tutti i bar sport della regione annunciando che i politici erano tutti ladri e che ormai era il momento di rimandarli tutti a Roma, dove avevano imparato a rubare. E siccome di politici ladri, specialmente in quei tempi, non c'era affatto carestia la gente cominciò a dargli un certo credito. "Tutti ladri! Roma ladrona! Abbasso Berluskaiser! Viva Di Pietro!". La fase tre scattò, come previsto, al momento opportuno. I politici, spiegò Bossi (consultando ogni tanto il taccuino del compagno Ivanov) non erano tutti ladri; erano bensì i magistrati communisti che volevano farli passare per ladri, ma loro in realtà erano tutte persone onestissime e perbene, col solo difetto di non volersi calare le braghe davanti all'odiosa dittatura communista che dominava spietatamente il paese. "Tutti santi! Abbasso i maggistrati communisti! Viva Berlusconi! A morte Di Pietro!". Adesso l'Umberto non comiziava più al bar sport di Colgate, ma in piazza Duomo a Milano e nelle televisioni; non girava più in centoventisette ma, come tutti i politici, in mercedes di lusso con l'autista (un autista nuovo, tutto azzimato, fornito da Berlusconi; quello della centoventisette se n'era andato, deluso, da molto tempo).


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“Occhiello di giro”

La gente non è mai cretina del tutto per tutto il tempo, nemmeno in Pasquania, e i voti per la Pasquania Libera, che prima erano moltissimi, adesso diminuivano continuamente. La cosa però aveva poca importanza perchè, essendo ormai al governo, l'Umberto poteva ormai fregarsene di quel che pensava la gente. E a questo punto, del resto, stava ormai per partire la Fase Quattro. Altoparlanti, tv, scritte sui muri... Come il compagno Ivanov (da tempo riciclatosi in Manager della Caspian Petroleum SpA) aveva lucidamente previsto alla fine la gente, rimbambita dalle cazzate dei communisti e soprattutto dai lussi megagalattici che gli apparatniki del partito si concedevano sempre più frequentemente (ce ne fu uno a un certo punto che camminava solo con scarpe da un milione l'una), cominciò a schifare il communismo e ogni cosa che anche vagamente gli si apparentasse. Democrazia, senso civile, politica: tut-

ta roba da communisti. Ci siamo stufati di tutto questo: vogliamo un governo non politico, che non ci rompa le scatole e che ci lasci dormire. Un governo che ci faccia almeno qualche bella promessa il sabato; lo sappiamo già che il lunedì ci tocca rimetterci alla carretta; ma almeno, la domenica, passiamola con un po' di speranza. Un governo-Sisal, insomma. E questo governo fu fatto, e andò avanti. Altoparlanti, televisioni, scritte sui muri, giornali - tutto ripeteva in continuazione che domenica prossima, sicurissimamente, sarebbe uscito il numero fortunato; e la gente, senza crederci, ci credeva. La gente, senza crederci, ci credeva La cosa sarebbe potuta andare avanti molto a lungo. Ma i compagni sovietici, forti di un'esperienza secolare, non a caso avevano mandato il compagno Ivanov a reclutare l'uomo opportuno. "Perchè sappiate, cuompagni, che l'arte del rivuoluziuonario tiene cuonto di tutto e sa

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sfruttare per la causa ognunque e qualsiunque elemento" (Susl., Dottr. del Comm., IV, 16, 240). E ancora: "In verità, cuompagni, deve ancuora nascere il pork kapitalist che ce la metterà in kwel post" (Brezn., Man. Agit., VI, 13, 190, tomo secondo). Ed ecco: appena il capo del porco governo capitalista diceva (purtroppo i governi capitalisti devono far contente le confindustrie, ogni tanto): "Lavoratori, lunedì sera purtroppo dovrete prenderla un momentino in quel posto lì", immediatamente l'Umberto - che s'era abilmente intrufolato nel governo - afferrava il mocrofono e sbraitava: "E senza vaselina! Avete capito, stronzi? Vaselina, niente!". “Cannonate in pancia!” Ora voi capite che, di fronte a una cosa di queste, i lavoratori ci restavano anche un po' male. E certo la popolarità del governo non ci guadagnava. Il che era esattamente ciò che aveva callidamente previsto, a suo tempo, il compagno Ivanov. "Bisognerebbe annegare qualche extracomunitario, ogni tanto". "No! Bisogna affogare TUTTI gli extracommunitari! Cannonate in pancia, altro che cazzi!". E un altro punto in meno per il governo. "I magistrati ce l'hanno col governo perchè sono communisti". "Brigatisti, sono! Aboliamo i magistrati e mettiamoci gli sceriffi!". "Licenziamo Santoro!". "Nein! Fuciliamolo senz'altro!". E vai.


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“Una lapide in più, vicino a Stalin”

Insomma, a ogni cazzata che il governo diceva il Bossi vedeva, raddoppiava, rinterzava e ci aggiungeva il carico a denari. Lo Stato Libero di Paranà Ora, una cazzata va bene, due si sopportano, tre pure, ma insomma quando il governo privatizzò l'aria atmosferica e Bossi, pronto, dichiarò che bisognava anche metterci una tassa, andò a finire come tutti sapete, e come del resto era logico che finisse. Berlusconi, come sapete, fu salvato da Prodi e Cofferati quando la folla invase Palazzo Venezia e adesso fa il presidente dello Stato Libero di Paranà. Dicono che se la passi bene, a parte Garzon che, ostinato, dopo tanti anni si aggira ancora tra-

vestito da alligatore da quelle parti nella speranza - finora delusa - di beccarlo. Ferrara è ministro nel governo di centrosinistra, Mentana dirige il Tg1, Lerner Canale 5, io sono disoccupato come al solito e papa Massimo Primo (il primo papa coi baffi nella storia del vaticano: chissà come ha fatto) ha appena nominato cardinale Rondolino. Tutti sono felici e nessuno s'è fatto male: come sempre in Italia, salvo qualche eccezione. L'unico che manca è Bossi. Fu visto l'ultima volta il giorno della Gloriosa Rivoluzione mentre, in piedi su un carrarmato, incitava la folla a fare giustizia del "mafioso capitalista Berlusconi". Poi non s'è visto più. Maroni (che ora è ministro dello Spettacolo) e Castelli (a capo dell'Ente

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Ponte di Messina) sono convinti che sia caduto combattendo. Qualcuno dice che è semplicemente sparito ma tornerà quando la Pasquania avrà bisogno di essere liberata dalla tirannia di un altro Berluskaiser. Il popolo ha bisogno di miti. Ma nella sala sotterranea del Cremlino, dove il Kgb (l'Unione Sovietica adesso è clandestina: per motivi di opportunità si fanno chiamare Russia e molte cose le fanno di nascosto, ma è sempre uno del Kgb quello che comanda) tiene le sue riunioni segrete, adesso c'è una lapide in più, a destra di quella di Stalin e pochi metri avanti a quella di Suslov. Il popolo ha bisogno di miti... C'è il busto di un uomo dai marcati tratti celtici (capelli ricciuti neri e zigomi sporgenti), con sguardo da visionario e bocca da profeta; sul suo petto brillano l'Ordine di Lenin, la Bandiera Rossa, la Stella di Eroe dell'Unione Sovietica e, più commovente di tutto, un semplice nastrino rosso. "Tovarisc Bossi", c'è scritto sotto. E poche righe in cirillico, che non abbiamo tradotto. (22 aprile 2002)


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Inchieste

Sicilia/ Mafia e Muos: parenti, amici o “passavamo per caso”? Il primo maggio a Niscemi centinaia di ragazzi da tutta la Sicilia concludono tre giorni di protesta (pacifica e gioiosa) contro il Muos, la megacentrale che rischia di mandare in pezzi l'economia e la natura del cuore della Sicilia. Ma perché ce l'hanno tanto col Muos? Di che si tratta? E chi ci fa affari? di Antonio Mazzeo

Si dice che sono contiguo alla criminalità organizzata? Ed io chiudo e licenzio tutti! A Niscemi, nel cuore della riserva naturale che ospita l’ultima sughereta dell’Isola, la Piazza Calcestruzzi Srl ha completato sbancamenti e piattaforme in cemento armato dove innalzare le mega-antenne del MUOS, il nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari delle forze armate Usa. E dalle pagine de La Sicilia, il 4 aprile 2012, i titolari annunciano l’affissione all’ingresso degli l’impianti di un cartello choc: cantieri chiusi per mafia!

“Si tratta di un’impresa che dal 31 ottobre dell’anno scorso è chiacchierata on line con il sospetto di essere vicina ad ambienti in odor di mafia”, annota il cronista. Poi il lungo sfogo di Vincenzo Piazza, “delegato” della Calcestruzzi, che – spiega il cronista - ha deciso di dire basta a quelle che considera maldicenze gratuite che continuano ad apparire periodicamente nei vari blog d’informazione della rete. “Una campagna diffamatoria senza frontiere nei nostri confronti, attuata con vari articoli contenenti dichiarazioni di politici professionisti dell’antimafia che hanno determinato gradualmente un calo di richieste di lavoro nei confronti della nostra ditta, fino al punto che dopo aver ultimato la fornitura del calcestruzzo per il basamento dove saranno collocati i tralicci del MUOS, ci ritroviamo senza più richieste di forniture”. L’1 aprile, la “Piazza Calcestruzzi Srl” aveva notificato agli otto dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato la lettera di licenziamento per “gravi problemi economici” dovuti alla mancanza di commesse. All’indice la Prefettura di Caltanissetta, rea di aver negato all’azienda le necessarie informative antimafia. “Abbiamo subìto in passato attentati incendiari ad autovetture, escavatori e betoniere”, si duole ancora su La Sicilia Francesco Piazza, figlio di Vincenzo. “Mio padre, addirittura, si è rifiutato di pagare un pizzo di 170 mila euro ed ha denunciato 5 estortori di un clan malavi-

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toso catanese che sono stati arrestati. E ciò nonostante, siamo abbandonati da tutte le associazioni di categoria locali, provinciali e regionali. Abbiamo così deciso di uscire allo scoperto proprio perché non abbiamo nulla da temere e di dire basta alle accuse diffamanti. Abbiamo sporto 5 querele verso coloro che ci hanno diffamato e senza mai che questi abbiano indicato circostanze specifiche di una presunta nostra vicinanza ad ambienti mafiosi”. La Calcestruzzi Piazza In verità blogger e giornalisti si sono limitati a riportare il contenuto di una articolata interrogazione parlamentare ai Ministri della difesa e degli interni, presentata il 14 febbraio 2012 dal senatore Giuseppe Lumia (Pd). “È in atto la ristrutturazione e l’ampliamento del sistema di comunicazioni per utenti mobili denominato MUOS nel territorio di Niscemi, iniziativa ritenuta strategica a fini militari”, esordisce Lumia. “L’impresa che sta effettuando, in subappalto per conto della ditta Lageco di Parisi Adriana Srl, lavori edili e forniture di calcestruzzo è la Calcestruzzi Piazza che ha come amministratore unico Concetta Valenti, il cui marito convivente è Vincenzo Piazza, che, in base ad indagini della Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Caltanissetta nonché ad altri elementi info-investigativi segnalati


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dalle Forze dell’ordine, apparirebbe fortemente legato al noto esponente mafioso del clan Giugno-Arcerito, Giancarlo Giugno, attualmente libero a Niscemi”. Il senatore spiega che nel corso dell’indagine Atlantide-Mercurio della procura antimafia di Caltanissetta (gennaio 2009) sarebbero emersi contatti del Piazza con esponenti mafiosi che “evidenziano ingerenze e condizionamenti di Cosa nostra nell’appalto per i lavori di recupero, consolidamento e sistemazione a verde dell’area sottostante il Belvedere, commissionati dal Comune di Niscemi”. Vincenzo Piazza, insieme a Giancarlo Giugno, è stato inoltre denunciato per il reato di associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione Triskelion, eseguita nel febbraio 2010 dalla DDA e dal GICO della Guardia di finanza di Caltanissetta, contro una “cellula” di Cosa nostra della provincia di Enna operante in Lombardia e in Belgio. Affiliato al clan di Pietraperzia “Nell’ambito della citata indagine scrive il parlamentare - il monitoraggio dell’utenza in uso a Antonino Tramontana (soggetto affiliato al clan di Pietraperzia) dava modo di riscontrare plurimi contatti che costui intratteneva con alcuni personaggi pluripregiudicati, tra cui Giancarlo Giugno; quest’ultimo veniva contattato proprio tramite l’utenza in uso a Piazza. Sempre tramite Vincenzo Piazza, altro soggetto mafioso di Pietraper-

zia, tale Nino Tramontana, il 24 agosto 2006, incontrava Giancarlo Giugno ed era per mezzo del suo cellulare che parlava con Giugno quando si trovava presso l’impianto di calcestruzzo, il 3 settembre 2006…”. La “Piazza Calcestruzzi” era finita nell’occhio del ciclone ben prima dell’atto ispettivo del senatore Lumia. Il 7 novembre 2011, la Prefettura di Caltanissetta aveva reso noto che a seguito delle verifiche disposte dalle normative in materia di certificazione antimafia “sono emersi allo stato degli attuali accertamenti e dagli atti esistenti presso questo ufficio elementi tali da non potere escludere la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della sopracitata società”. Alla base del pronunciamento prefettizio, i contenuti di un rapporto della Divisione Polizia anticrimine della Questura di Caltanissetta del 6 ottobre 2011, e di quello della Sezione Criminalità organizzata della stessa Questura del 27 dicembre 2010. A seguito del pronunciamento della Prefettura, il 25 novembre 2011 il dirigente dell’Area servizi tecnici della Provincia regionale di Caltanissetta aveva sospeso la “Piazza Calcestruzzi” dall’Albo delle imprese per le procedure di cottimo-appalto. Venti giorni dopo anche il capo ripartizione per gli Affari generali del Comune di Niscemi disponeva l’esclusione della società dall’elenco dei fornitori e

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dall’Albo delle imprese di fiducia. Contro i provvedimenti, i Piazza hanno presentato ricorso al TAR. “La conoscenza o la frequentazione di Giancarlo Giugno da parte di Vincenzo Piazza non ha influenzato le scelte personali del secondo, che invece sono state di segno esattamente opposto rispetto alla vicinanza ad un comportamento mafioso”, affermano i legali della “Calcestruzzi”. Un rapporto della Dia “Non si comprende, dunque, secondo quale passaggio logico il primo avrebbe sul secondo un’influenza così profonda ed estesa, da fare ritenere probabile l’intromissione nella gestione della società, di cui peraltro il secondo non è socio né amministratore”. Una tesi che ha convinto il Dipartimento della difesa, il Comando di Sigonella, l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma e le massime autorità militari italiane. Nessuno infatti ha ritenuto d’intervenire per far rispettare la legislazione italiana antimafia. In origine, gli unici lavori pro-MUOS nella riserva “Sughereta” di Niscemi, autorizzati dall’assessorato ambiente e territorio della Regione siciliana, riguardavano la recinzione del perimetro interessato al sistema satellitare, la realizzazione di un impianto di illuminazione e di un sistema di drenaggio delle acque meteoriche, il livellamento superficiale del terreno e il suo consolidamento, sistemi


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“In spregio alle leggi e al senso comune”

29 APRILE-1° MAGGIO NISCEMI/ TRE GIORNI INSIEME PER DIRE NO ALLE ARMI E SI AL RISPETTO DELLA NATURA Siete invitati a partecipare attivamente al presidio di tre giorni presso l'area limitrofa alla "Base U.S. navy tel.sta.", per ribadire il nostro NO: - alla Base strategica-militare-di guerra, della Marina Militare Americana - all'installazione del sistema MUOS, in corso di realizzazione - all'inquinamento elettromagnetico nella nostra riserva, - per ricordare l'uccisione di Pio La torre e la strage di Portella delle Ginestre.

Lunedì 30 aprile 10:00 Convegno sui Movimenti e “Pio La Torre” 12:00 Conferenza stampa 14:00 Iniziativa “pulisci il tuo bosco” 16:00 Assemblea “Incontro tra i Movimenti” 18:00 Concerto del tramonto Letture a tema 20:00 Teatro tematico Proiezioni nell’area cinema 22:00 QBETA Proiezioni nell’area cinema 00:00 Dj set live a tema Proiezioni nell’area cinema

Domenica 29 aprile 10:00 Partenza corteo con parata 12:00 Arrivo alla base Apertura lavori Conferenza stampa a cura del “Movimento NO MUOS Sicilia” 14:00 Passeggiata nella Riserva Naturale della Sughereta 16:00 Convegno-Assemblea sull’ inquinamento elettromagnetico 18:00 Concerto del tramonto Letture a tema 20:00 Teatro tematico Proiezioni nell’area cinema 22:00 BACIAMOLEMANI Proiezioni nell’area cinema 00:00 Dj set live a tema Proiezioni nell’area cinema

Martedì 1 maggio 10:00 Convegno e dibattito sulle iniziative future 12:00 Conferenza stampa conclusiva 14:00 Concerto del 1°Maggio con Gruppi del Territorio Nel corso della tre giorni: - Dibattiti - Proiezioni - Mostre - Musica - Teatro - Danze - Meditazioni - Happening - Birdwatching - Trekking Il Comitato NoMUOS

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di viabilità e collegamenti dell’area con le esistenti reti idriche, elettriche e telefoniche mediante tubazioni interrate. Le opere, però, sono state eseguite in spregio alle leggi e al senso comune. Recarsi in contrada Ulmo è come ritrovarsi in un girone infernale. Il paesaggio è da incubo. Scempi che si sommano ad altri scempi. La collina profanata, stuprata, sventrata. Voragini ampie come i crateri di un vulcano. Il terreno lacerato dal transito dei mezzi pesanti, ruspe, betoniere, camion. Recinzioni di filo spinato, tralicci di acciaio. Una selva di antenne. E poi ancora e solo antenne. Terrazzamenti, gli uni sugli altri, per centinaia e centinaia di metri. Uno di essi con evidenti segni di cedimento. In cima, tre piattaforme in cemento armato. E un primo blocco di casermette, container in alluminio e i box per i generatori di potenza. “La dislocazione non corrisponde” “Abbiamo rilevato alcune problematiche sulla conduzione delle opere di sbancamento”, denunciano i rappresentanti del Movimento No MUOS. “Negli elaborati grafici del progetto, la dislocazione delle piattaforme per le antenne non corrisponde con quelle in costruzione. Nelle tavole le basi erano disposte lungo una direttrice nord-sud, mentre la loro realizzazione è in direzione est-ovest. Non sappiamo se siano mai state approvate varianti in corso d’opera


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“Adesso No Muos vuol dire No Mafia”

al progetto. Se non è così, i lavori non sono coerenti con le autorizzazioni. Di sicuro questa modifica, per il profilo del terreno, ha comportato un maggior volume di terra movimentata e di conseguenza un più pesante impatto sull’ambiente. È perfettamente visibile, poi, la distruzione di essenze arboree tutelate. La scomparsa di parte della macchia mediterranea è provata anche dalle foto satellitari in nostro possesso, scattate prima dell’inizio dei lavori”. “L’entità delle trasformazioni in atto denotano una gravissima manomissione dell’ambiente con l’aggravante di esplicarsi a danno di un’area protetta di interesse internazionale”, commenta amaramente Salvatore Zafarana, responsabile del Centro di educazione e formazione ambientale (C.E.A.) di Niscemi. “Nei suoli interessati dalla megastruttura è stato stroncato un processo di successione ecologica positivo che aveva portato alla colonizzazione dei suoli sabbiosi e steppici con specie cespugliose di gariga mediterranea. La superficie destinata ad accogliere il MUOS, unita a quella occupata dalle 41 antenne erette dalla Marina Usa a partire dagli anni ‘90, hanno vanificato ogni possibilità di collegamento delle aree boscate più meridionali di contrada Pisciotto con quelle più a nord di Apa, Ulmo e Vituso e con il residuo bosco di Carrubba ad est. Ad essere definitivamente compromessi sono i lotti boscati di Mortelluzzo e Valle Porco, di limitate estensioni ma di indiscusso pregio naturalistico e

paesaggistico”. Le “presunte” illegalità e l’arroganza dei potentati criminali rischiano di riportare Niscemi indietro di alcuni anni, quando il territorio era sotto il dominio mafioso e gli spazi di libera espressione e agibilità democratica per le nuove generazioni erano minimi. Mafia e militarizzazione “Con il MUOS e i lavori in mano agli amici del boss, il clima è tornato a farsi pesante e iniziamo ad avere davvero paura”, afferma uno dei giovani attivisti No MUOS. “I nostri genitori, che pure ci hanno sempre sostenuto, si fanno delle domande. Dicono che adesso No MUOS significa No Mafia e che toccando il MUOS si toccano le relazioni criminali. E ciò può creare problemi. Hanno paura che ci possano incendiare l’auto. So che hai ragione e che ci metti il cuore nella lotta contro il MUOS, ma stai attento!, mi ha detto mia madre. Lei non vuole che molli, ma mi fa male vederla preoccupata. Ci sono state persone che sono andate dai nostri genitori, consigliando, anzi denunciando, che eravamo nel Movimento. E questi a Niscemi sono segnali chiari, inequivocabili”. La mafia che genera militarizzazione. La militarizzazione che rigenera la mafia. “Anche se qui non si spara e si uccide da qualche tempo, imperversa il racket, i commercianti pagano il pizzo e i mafiosi impongono le forniture di ce-

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mento alle imprese che lavorano”, racconta Tony. “Ho lavorato come commesso nel settore dell’ abbigliamento. I mafiosi entravano in negozio, provavano la merce, se la facevano impaccare e se ne andavano dicendo poi pagherò. Ma non pagavano mai. C’è poi il passaggio di proprietà di piccole quote in mano ai mafiosi. I negozi vengono bruciati o vengono fatte esplodere le auto dei commercianti. A Niscemi non è mai nata un’associazione antiracket. Doveva nascere qualche tempo fa. Fu annunciata durante la presentazione della festa del Patrono. Poi, di notte, ci furono tre attentati contro i commercianti che dovevano costituire l’associazione. L’iniziativa fu cancellata. E ai grandi processi di mafia si costituiscono oggi solo il Comune e l’associazione Libera”. L’amministrazione di Niscemi è stata sciolta per infiltrazione mafiosa due volte in meno di dodici anni, la prima il 18 luglio 1992, il giorno prima dell’assassinio del giudice Borsellino e della sua scorta, la seconda il 27 aprile 2004. “La situazione amministrativa risulta caratterizzata da rilevanti fenomeni di instabilità politica, determinati dalla grave situazione dell’ordine pubblico ivi esistente, che hanno determinato il susseguirsi di tre giunte comunali, la prima delle quali è stata presieduta dal sindaco dott. Rizzo Paolo, legato da vincoli di parentela con esponenti della criminalità locale”, riportava il decreto di scioglimento a firma dell’allora ministro degli interni, Nicola Mancino.


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Il Rizzo, nello specifico, è parente del presunto boss niscemese Giancarlo Giugno, quello delle frequentazioni con i titolari della “Piazza Calcestruzzi”. “Il 23 dicembre 1984, Giugno veniva tratto in arresto in esecuzione di ordine di cattura emesso dalla procura della Repubblica di Caltagirone per associazione per delinquere di stampo mafioso”, annotava il ministro. “Il 12 gennaio 1986 riceveva notifica del provvedimento di diffida emesso dalla questura di Caltanissetta; il 6 marzo 1991 veniva tratto in arresto per favoreggiamento personale perché sorpreso in compagnia del latitante Barberi Alessandro di Gela, ritenuto personaggio di rilievo del clan Madonia operante in quel comprensorio; il 2 aprile 1991 veniva proposto dal comando carabinieri di Caltanissetta per l’applicazione della misura della sorveglianza speciale di P.S. con divieto di soggiorno in Sicilia”. Sull’ex sindaco Paolo Rizzo, pesarono altresì i “vincoli di affinità” con tale Salvatore Paternò, denunciato il 18 dicembre 1984 alla Procura della Repubblica di Caltagirone per associazione mafiosa. Associazione mafiosa La sua ingombrante presenza a capo del Comune di Niscemi si protrasse dal giugno 1988 al settembre 1991, il periodo in cui venne costruita in gran segreto la stazione per le radiotelecomunicazioni con i sottomarini nucleari della Marina Usa. Si tratta di una delle infrastrutture militari più estese del territorio italiano: 1.660.000 metri quadri di terreni boschivi e agricoli ad uso esclusivo delle forze armate statunitensi, secondo quanto previsto dall’accordo tecnico Italia-Stati Uniti dell’aprile del 2006. Una cessione di sovranità a costo zero.

MUOS/ COSA FA, QUANTO (CI) COSTA LA PAROLA AGLI SCIENZIATI Il MUOS (Mobile User Objective System) è il nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari per i conflitti del XXI secolo, quelli con i missili all’uranio impoverito, gli aerei senza pilota e le armi nucleari in miniatura, conflitti sempre più “virtuali”, computerizzati, disumanizzati. Disumanizzanti. Consentirà di propagare universalmente gli ordini di guerra, convenzionale e/o chimica, batteriologica e nucleare. E finanche quelli per scatenare la guerra al clima e all’ambiente. Collegherà tra loro i centri di comando e controllo delle forze armate Usa, i centri logistici e gli oltre 18.000 terminali militari radio esistenti, i gruppi operativi in combattimento e gli arsenali di morte sparsi in tutto il pianeta. I centri di comando La nuova rete di satelliti e terminali terrestri consentirà di moltiplicare di dieci volte il numero delle informazioni che saranno trasmesse nell’unità di tempo, accrescendo in modo esponenziale i rischi che venga scatenato l’olocausto per un mero errore tecnico. Il MUOS incarna le mille contraddizioni della globalizzazione neoliberista. Elemento chiave delle future guerre stellari, avrà effetti devastanti sull’ambiente, il territorio e la salute delle popolazioni. Le tre mega-antenne emetteranno micidiali microonde che si aggiungeranno all’inquinamento elettromagnetico generato dalla stazione di telecomunicazione di contrada Ulmo. Un recente studio sui rischi del nuovo sistema di trasmissione satellitare a firma dei professori Massimo Zucchetti e Massimo Coraddu del Politecnico di Torino, riporta che nel periodo compreso tra il

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dicembre 2008 e l’aprile 2010 l’Arpa Sicilia ha effettuato una serie di rilievi sulle emissioni generate dalla radiostazione di Niscemi che hanno consentito di rilevare valori di campo elettrico prossimi al valore di attenzione di 6 V/m. Le misurazioni hanno evidenziato in particolare “la presenza di un campo elettrico intenso e costante in prossimità delle abitazioni, mostrando un sicuro raggiungimento dei limiti di sicurezza per la popolazione e, anzi, un loro probabile superamento. In un caso il valore rilevato è risultato prossimo al limite di attenzione stabilito dalla normativa”. Il Politecnico di Torino ha pure rilevato che il nuovo terminale per le Stars Wars avrà pesantissimi effetti sul traffico aereo nei cieli siciliani e in particolare sul vicino aeroporto di Comiso, riconvertito ad uso di civile dopo avere ospitato negli anni ’80 i 112 missili nucleari Cruise della NATO. “La potenza del fascio di microonde del MUOS è senz’altro in grado di provocare gravi interferenze nella strumentazione di bordo di un aeromobile che dovesse essere investito accidentalmente”, scrivono i professori Zucchetti e Coraddu. “Gli incidenti provocati dall’irraggiamento di aeromobili distanti anche decine di Km. sono eventualità tutt’altro che remote e trascurabili ed è incomprensibile come non siano state prese in considerazione dagli studi progettuali della Marina militare Usa”. Interferenze al traffico aereo I rischi d’interferenza investono potenzialmente tutto il traffico aereo della zona circostante il sito MUOS. Nel raggio di 70 Km si trovano ben tre scali aerei: Comiso, a poco più di 19 Km dalla stazione di Niscemi, e gli aeroporti militare di Sigonella e civile di Fontanarossa (Catania), che si trovano rispettivamente a 52 Km e a 67 Km. Sigonella, tra l’altro, è già oggetto delle spericolate


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operazioni di atterraggio e decollo dei velivoli da guerra senza pilota Global Hawk, Predator e Reaper a disposizione delle forze armate Usa e NATO. Per gli studiosi del Politecnico, l’irraggiamento a distanza ravvicinata, di un aereo militare, potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. “Le interferenze generate dalle antenne possono arrivare infatti a innescare accidentalmente gli ordigni trasportati. È quanto accaduto il 29 luglio 1967 nel Golfo del Tonchino alla portaerei US Forrestal, quando le radiazioni emesse dal radar di bordo detonarono un missile in dotazione ad un caccia F-14, causando una violenta esplosione e la morte di 134 militari. Tali considerazioni dovrebbero portare a interdire cautelativamente vaste aree dello spazio aereo sovrastanti l’installazione del MUOS”. Dirottato da Sigonella Gli insostenibili pericoli per il traffico aereo del nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari sono del tutto noti ai tecnici statunitensi, al punto che sei anni fa fu deciso di dirottare a Niscemi il terminale MUOS destinato originariamente alla stazione aeronavale di Sigonella. A determinare il cambio di destinazione, le risultanze di uno studio sull’impatto delle onde elettromagnetiche generate dalle grandi antenne (Sicily RADHAZ Radio and Radar Radiation Hazards Model), eseguito da due aziende statunitensi, AGI - Analytical Graphics Inc. e Maxim Systems. Nello specifico, venne elaborato un modello di verifica dei rischi di irradiazione sui sistemi d’armi, munizioni, propellenti ed esplosivi (il cosiddetto HERO

con un repentino e più che sospetto giro di valzer si è trasformato in uno dei suoi più convinti sostenitori. Ciononostante, comitati spontanei di cittadini, istituzioni e associazioni politiche, sindacali e ambientaliste stanno moltiplicando gli sforzi per ottenere la revoca delle autorizzazioni concesse per l’installazione delle mega-antenne.

Comitati spontanei di cittadini

- Hazards of Electromagnetic to Ordnance), ospitati nella grande base siciliana. Appurato che le fortissime emissioni elettromagnetiche del MUOS potevano avviare la detonazione degli ordigni, AGI e Maxim Systems raccomandarono i militari statunitensi di non installare i trasmettitori a Sigonella. Anche Filippo Gemma, amministratore di Gmspazio Srl di Roma (società che rappresenta in Italia la statunitense AGI), ha confermato l’esito negativo dello studio sull’impatto elettromagnetico. Nel corso dello speciale di Rai News 24 Base Usa di Sigonella. Il pericolo annunciato, trasmesso il 22 novembre 2007, Gemma ha dichiarato che “una delle raccomandazioni di AGI era che questo tipo di trasmettitore non dovesse essere installato in prossimità di velivoli dotati di armamento, i cui detonatori potessero essere influenzati dalle emissioni elettromagnetiche del trasmettitore stesso”. Contro il devastante progetto militare mai discusso in sede parlamentare – si sono pronunciati tre consigli provinciali (Catania, Ragusa e Caltanissetta) e quasi tutti i Comuni vicini alla stazione di contrada Ulmo. In un primo tempo anche il Presidente della regione siciliana, Raffaele Lombardo, si era dichiarato contro il MUOS, poi

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Dopo un corteo di protesta a Niscemi il 31 marzo scorso e un presidio a Comiso il 4 aprile in occasione del trentennale della grande manifestazione contro i missili nucleari Cruise, i No MUOS siciliani si ritroveranno a Niscemi il 29-30 aprile e l’1 maggio per una tre giorni di eventi e iniziative di sensibilizzazione. “L’intero territorio dell’Isola ha già pagato altissimi costi sociali ed economici per le dissennate scelte di riarmo e militarizzazione”, afferma Alfonso Di Stefano della Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella. “Il recente conflitto in Libia ha consacrato il ruolo della Sicilia come grande portaerei per le operazioni di attacco Usa, NATO ed extra-NATO in Africa e Medio Oriente. Dallo scalo civile di Trapani Birgi sono stati scatenati buona parte dei bombardamenti contro l’esercito e la popolazione civile libica. Sigonella è divenuta la capitale mondiale dei famigerati Global Hawk e proliferano in Sicilia e nelle isole minori i radar per l’intercettazione delle imbarcazioni di migranti. Tutto ciò per perpetuare il modello di rapina delle risorse energetiche e arricchire i signori del complesso militareindustriale transnazionale”. Il MUOS, costato già più di sei miliardi di dollari, ha come principale contractor Lockheed Martin, il colosso a capo del dissennato programma dei cacciabombardieri F-35. Il dio di tutte le guerre ha sempre lo stesso volto di morte.


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Malitalia

Nel Campo di Mineo dove noi bianchi rinchiudiamo i neri “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell' uomo...” Vabbe', queste sono le chiacchere. Vediamo com'è veramente la realtà di Rosa Maria Di Natale

Immediatamente fuori dal “Residence degli aranci” è il silenzio a far da padrone. Il via vai pigro di navette, auto dei carabinieri, mezzi della Croce rossa, scivola come se non volesse pesare all’esterno. Siamo a Mineo, comune di poco più di cinquemila abitanti. Da queste parti ci sono nati Luigi Capuana e Giuseppe Bonaviri. In verità, pure il condottiero siculo Ducezio. Ma sarebbe impossibile bluffare sino in fondo. Perché qui non siamo nel paesino accogliente con i caffè e le palme. Qui siamo in campagna, lontanissimi dalla gente, a stretto contatto con gli svincoli stradali. Questa è la Mineo spoglia di case e di persone, dove il vento ti schiaffeggia in ogni stagione dell’anno. Sei isolato.

Il Residence degli Aranci, ribattezzato “della solidarietà”, accoglie il CARA di Mineo dal 18 marzo del 2011 e altro non è, che l’ex complesso che l’impresa Pizzarotti di Parma tentò di affittare senza successo ai militari americani di Sigonella. Poi il Governo pensò di utilizzarlo per fronteggiare il flusso migratorio dal Sud del Mediterraneo. Una buona occasione per la Pizzarotti, e una buona azione per i poveri migranti. Chiamiamolo pure un affare. Loro, i migranti, entro ed escono senza problemi, hanno anche una card carica di 3, 5 euro al giorno che gli permette di fare piccole spese. Solo che per recarsi a Caltagirone, devono fare un lunghissimo tragitto a piedi. I bus ci sono solo per Mineo. Per il resto, sei tagliato fuori. Spesso i rifugiati richiedenti asilo cercano passaggi in auto, oppure vanno via con tanto di borsone con le poche cose e i documenti. A piedi, per chilometri. Gli “ospiti” parlano poco Gli “ospiti”, come tutti li chiamano qui, parlano poco o niente con i giornalisti che sperano di fare due chiacchiere fuori. Colpa della lingua, certo. Ma qui ci sono parecchi nordafricani che l’Italia la conoscono attraverso la tv, o che vengono da zone turistiche del Maghreb, o che le lingue europee, molto semplicemente, le hanno studiate. Eppure scappano di fronte ad una macchina fotografica, ad una telecamera, o anche ad un semplice cellulare. Molti hanno paura di essere riconosciuti nel loro Paese, da dove sono scom-

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parsi per ragioni politiche. Altri non si fidano dei giornalisti. Altri ancora vorrebbero socializzare, ma finiscono per dirti poco. “Ciao, sono pakistano- dice AbdelDove vado dopo il CARA? Non lo so, aspetto un lavoro. Qui in Italia non ce n’è, a Catania ancora meno che niente. Forse vado in Francia, forse. Aspetto che succeda qualcosa”. E nel frattempo? “Resto qui. Mi danno da mangiare e dormo tranquillo. Non saprei dove altro andare”. Anthony come il calciatore Sono in tantissimi ad usare nomi falsi anche con le autorità. Qualcuno ha dei precedenti penali e spera di azzerare tutto, sperano di rifarsi una vita. Per esempio Anthony Yeboah, 31 anni, ghanese, era un omonimo di un ricco e famoso calciatore della nazionale di calcio del suo Paese. Era, e non è ancora, perché Anthony è deceduto due mesi fa all'ospedale di Caltagirone. A stroncarlo è stato un ictus. E’ entrato in uno stato soporoso e il trombo non è stato recuperato, nonostante si sia fatto in tempo ad effettuare una ecodoppler ed una Tac. Ma Yeboah si era già recato all'ospedale il 9 marzo, ossia il giorno prima che la condizione si aggravasse; per i sanitari, però, è bastata un'iniezione disintossicante di Plasil per dimetterlo, anche perché il migrante era arrivato – come comunica ufficialmente lo stesso ospedale “Gravina”- in evidente stato di ebbrezza.


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“In attesa di qualcosa che non avverrà mai”

Foto di Rosa Maria Di Natale

"Non sappiamo però nulla sulle condizioni di salute di Anthony Yeboah prima che si recasse in ospedale in condizione d' urgenza. Ci chiediamo se si fosse sentito male anche nei giorni precedenti la morte e se il malessere sia stato correttamente decodificato già all'interno della struttura, soprattutto nelle ore precedenti il ricovero - dice l' avvocato Goffredo D'Antona dell' Osservatorio dei diritti Catania - . Non sappiamo ancora quanti medici ci siano al Cara a fronte di 1800 ospiti. Qualcuno di loro si è lamentato per l'assistenza sanitaria. Sarebbe auspicabile sapere se Anthony avesse chiesto aiuto all'ambulatorio, e se sia stata eseguita una diagnosi del suo problema". La Croce rossa aveva promesso di fare chiarezza subito dopo l’autopsia, invece non ha più comunicato nulla. Perché Anthony sia morto è un mistero. Perché la prima volta sia stato dimesso dall’ospedale senza che nessuno si fosse accorto del suo malessere reale, non è chiaro. Ma chi si occuperà del suo caso? Dentro il CARA ci sono stati una decina di suicidi, ma la notizia è trapelata per caso, grazie alle associazioni umanitarie e a quelle che operano sul territorio, ma dal CARA non viene comunicato nulla di ufficiale. In verità qualcosa è cambiato rispetto ai mesi scorsi. Da dicembre 2011 il Villaggio della solidarietà è aperto ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere. Un passo avanti non da poco, visto che nelle prime settimane di attività i volontari della Croce rossa arrivavano a provocare i cronisti arrivati da ogni parte d’Italia.

“Ma perché non la butta giù quella telecamera? Perché non la rompe?”, diceva qualcuno di loro, infastidito anche da domande banali tipo: “Come stanno i rifugiati?”. Dentro il Villaggio Ora - almeno questo - la vita quotidiana dentro il Centro è parzialmente osservabile. Inutile inventarsi storie: il cibo non manca, la vita scorre, esistono strutture accoglienti come le ludoteche per bambini, le aule per i corsi d’italiano, gli internet point, i bazar, la grande sala mensa. Gli alloggi sono puliti e ben organizzati- sono 404 in tutto- con tanto di acqua calda, c’è pure lo psicologo. I migranti passeggiano per questi vialoni con gli alloggi “a schiera”. C’è chi sorride, chi no. Il direttore del centro, Ianni Maccarrone, non lo dice ma di certo non nasconde la sua soddisfazione per questo “gioiello” di accoglienza. Maccarrone guida il Villaggio da quando la struttura è passata dalle mani della Croce rossa a quelle del consorzio Sisifo, in associazione temporanea di imprese con Solco. L’ente attuatore è la Provincia di Catania. La capienza massima degli ospiti è di duemila unità. Oggi sono 1800, per lo più nigeriani, somali e pakistani, e il gettone percepito dai gestori è di circa 23 euro a migrante. Ci vogliono tanti soldi per mantenere il centro. Fino a poche settimane fa il CARA di Mineo era meta continua di trasferimenti da altri CARA. L’equazione “più ospiti, più soldi” è im-

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mediata. Ora i flussi sono diminuiti. Ma sono troppi quelli che dal Centro non se ne vogliono andare, anche col permesso in tasca. Qui Il ministero dell'Interno ha prorogato la convenzione per il dicembre 2012. Però se a Maccarrone si dice che tutto questo costa troppo lui dice che tutti stanno facendo il proprio dovere. “E che facciamo , non li accogliamo? Andata a vedere cosa sta succedendo al CIE di Trapani, e fatevi un’idea…” Se al direttore chiedi come mai tutti questi suicidi, lui risponde che si tratta di persone provate, che vengono da guerre e condizioni estreme, che hanno fatto viaggi orribili prima di venire da noi: vero anche questo. Ma cosa succederà quando la proroga finirà? E, soprattutto, che fine ha fatto l’integrazione, quella vera, col territorio? “Guardi che alcuni di loro sono divenuti mediatori culturali, vengono persino stipendiati per questo. A qualcuno siamo usciti a trovare anche un lavoro”. A quanti? Maccarrone non è preciso, ma cita pochissimi casi, inferiori come numero alle dita di una mano. Il fatto è che il CARA, oggi, è una sorta di prigione dorata dove in assenza di alternative, il migrante più sfortunato, quello che non ha parenti o amici all’estero o al Nord Italia, si rifugia in attesa di qualcosa che non avverrà mai. Ancora Maccarrone: “Ma qui è anche nato l’amore tra coppie. Da ottobre ad oggi sono nati una ventina di piccoli e speriamo prima o poi di mandarne qualcuno all’asilo, a Mineo.


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La Rete Antirazzista: “Chiudete il campo”

E poi guardi che noi fronteggiamo i possibili contrasti con il calcio; usiamo organizzare tornei con squadre volutamente promiscue, in modo che facciano gruppo”. Ah, giá, il calcio... Il dossier dell'Arci L’identikit del CARA di Mineo ricostruito da associazioni siciliane è ben riassunto dall’Arci di Catania, che in un dossier firmato dal legale Francesco Auricchiella, del Comitato territoriale area integrazione, mette a fuoco aspetti burocratici, e soprattutto ombre di un’istituzione che è piombata a Mineo in pochi mesi. “Non è stato elaborato un piano integrato per la programmazione e realizzazione dei servizi connessi fra il centro ed il territorio, con il coinvolgimento ed il concerto delle amministrazioni locali, piano che avrebbe dovuto definire i tempi di attuazione.- si legge nel dossierNon è stato programmato il potenziamento del sistema scolastico al fine di consentire l’inserimento della nuova utenza in relazione all’obbligo – previsto dalla legge - di garantire l’accesso ai servizi scolastici a parità di condizione con la popolazione residente. Non è stato previsto un piano di risorse aggiuntive per l’Azienda Sanitaria Locale rendendo ancora più difficile l’efficienza di una tutela sanitaria per tutta la popolazione presente sul territorio”. C’è poi un altro problema drammatico, sebbene non collegato alla gestione del CARA. “La sezione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezio-

ne Internazionale di Siracusa si è insediata a Mineo solamente il 19.5.2011, e cioè due mesi dopo l’apertura del centro (cioè il 18.3.2011). Gli esordi burocratici della Commissione per l’esame delle domande sono stati molto lunghi, circa 15-20 casi a settimana, con conseguenti disagi e tensioni fra gli ospiti del centro- si legge nel dossier - la Commissione non si è avvalsa, per le audizioni, di interpreti competenti, né è stata garantita trasparenza alle procedure per la loro selezione e nomina. Non è stata garantita la presenza, nel corso delle interviste, di interpreti delle lingue di alcuni richiedenti asilo. Alcuni provvedimenti di rigetto della domanda di asilo (peraltro, resi in italiano e non tradotti) non hanno specificato il foro competente, ma hanno erroneamente indicato, quale Tribunale ove ricorrere, quello del luogo di provenienza, quando, invece, nel caso di ospitalità nel CARA, è competente il Tribunale ove insiste il CARA - nel caso in ispecie, Catania - . Con grave pregiudizio del diritto di difesa ed il concreto rischio che molti richiedenti, che non possano impugnare tempestivamente i provvedimenti, siano espulsi dal territorio dello Stato senza il previsto accertamento giurisdizionale della fondatezza della loro richiesta”. Ad oggi, risulta che la Commissione di Mineo prosegua i propri lavori con la stessa lentezza degli inizi. Anche se il direttore del CARA, Sebastiano Maccarrone, assicura che sono circa 250, al momento, gli ospiti in attesa di un pronunciamento. Eppure molti ospiti del Centro continuano a lamentare che la Commissione non rispetti, a parità di status e di condi-

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zioni di fatto, alcun criterio logico e cronologico nella disamina delle istanze e nella convocazione per l’audizione.I ritardi nelle procedure di esame delle domande da parte delle commissioni territoriali e l’assoluta incertezza sul futuro delle persone rischiano di alimentare una spirale di rivolte e di conseguenti dure repressioni nonché di aumentare lo stato di disagio dei soggetti vulnerabili e traumatizzati tuttora presenti al centro. I nuovi interrogativi Ma chi sceglie i professionisti che lavorano al Centro? Al momento sono circa 200 gli addetti che si occupano dei richiedenti asilo a tutti i livelli e il pensiero malizioso che il CARA diventi un bacino elettorale trapela forte. Altro quesito. Quanto sono tutelate le donne, soprattutto quelle sole? Le voci su abusi all’interno del centro sono sempre più insistenti, e non è un caso se gli aborti si moltiplicano. Su questi aspetti sta indagando anche la Procura di Caltagirone Insomma, pasti sicuri e corsi d’italiano a parte, il CARA di Mineo prospetta tanti di quegli aspetti inquietanti che sarebbe ridicolo pensare di risolverli con una gara d’appalto, o una gestione ordinaria. C’è sempre l’altra possibilità. Chiuderlo. La Rete Antirazzista catanese ha nei mesi scorsi lanciato una campagna nazionale per la chiusura del Cara di Mineo. In più di un anno (e anche prima che il CARA aprisse) si sono susseguite tutta una serie di proteste. Ma cosa succederà a questo migliaio e rotti di persone nei messi che verranno, proprio non è dato sapere.


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S C A F F A L E

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Palermo

Tanti cantieri per un cantiere solo “I cantieri che vogliamo”: un modo di cominciare a capire – ma senza retorica, sommessamente – il tipo di Palermo che vogliamo. E di cominciare a costruirlo, senza grandi parole

di Giovanni Abbagnato

Per una mattina la Piazza Pretoria di Palermo, centro simbolico dell’incontro – scontro tra cittadini e istituzioni – ha visto una manifestazione molto creativa inscenata dal Comitato spontaneo dei “Cantieri che vogliamo”che da tempo prova a sensibilizzare città e amministrazione sulla gravità della situazione di abbandono e degrado dei Cantieri culturali della Zisa. Un vasto giacimento di archeologia industriale che prima dell’avvento distruttivo della decennale amministrazio-

ne Cammarata ha costituto un interessante incubatore di attività culturali espresse della città e un luogo di eccellenza per circuiti culturali di respiro internazionale. La manifestazione, supportata da una serie di trovare creative, al grido di “APRIAMO” – campagna di comunicazione tra le diverse del Comitato - ha festosamente animato la piazza dominata dal Palazzo delle Aquile, sede del Comune di Palermo, per un tempo luogo aperto della città che vive oggi costantemente l’immagine della chiusura militarizzata dei blindo e degli agenti in tenuta antisommossa. Una triste immagine che ormai scandisce le giornate in un’emergenza continua in cui i tanti problemi di una città allo sbando dopo la funesta gestione Cammarata, ruggiscono sotto le finestre del Palazzo tristemente assediato e non più sede dell’incontro delle ragioni possibili con le tante speranze irrinunciabili. Una timida speranza Ormai non si fa più distinzione, tutto diviene un problema di ordine pubblico e ormai ci si affida solo alla timida speranza che si possa approdare presto ad una stagione in cui ritrovino un senso la proposta politica e il confronto democratico delle idee, invero duramente messe alla prova dalle recenti vicissitudini in vista delle elezione del prossimo 6 e 7 maggio.

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Palermo prova a trovare una sua prospettiva democratica affidando progetti e interessi ad una campagna elettorale su tutti fronti, forse come non mai, aspra e contraddittoria e, in certi frangenti, addirittura apparentemente insensata. Intanto, la Commissaria straordinaria Luisa Latella , insediatasi nello scomodissimo Palazzo delle Aquile, sperimenta l’impossibilità di parlare di ordinaria amministrazione in una città come quella che gli è toccato di guidare dopo l’uscita di scena di un sindaco come Cammarata, tanto negativamente evanescente da sembrare già consegnato ad un tetro oblio, nonostante i tremendi lasciti di quasi dieci anni di presenza nominale, ma in realtà di irresponsabile assenza sostanziale. E' tutta un'emergenza Ormai è decisamente tutta un’emergenza e il quadro presente, a dir poco deprimente, rappresenta una città nuovamente bombardata dalle faide interne del ceto politico dominante di centrodestra che, insieme all’insipienza dell’opposizione politico-sociale, ha consentito una disamministrazione totale di una municipalità come quella di Palermo, tanto importante da non poter vivere un tale stato di abbandono in cui risultavano confuse perfino le azioni dei comitati di affari, nefaste consorterie politico-affaristiche costantemente presenti nelle grandi città siciliane.


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“Cantiere di tutta la città”

Va detto che la capacità di reazione della società palermitana appare abbastanza fiaccata anche nel campo genericamente definibile progressista che si presenta lacerato da un’insensata conduzione delle primarie e del successivo dibattito complessivo nel centro – sinistra. Si tratta della crisi visibile di un’area politica di variegata opposizione che sembrava “naturalmente” chiamata a guidare il tentativo della città, se non di riscatto, di normalizzazione amministrativa in una situazione che definire insostenibile non è un modo di dire, ma una realtà composita vivibile ogni giorno, in ogni angolo di strada, come in ogni ufficio o dovunque l’elemento della socialità, comunque prende una qualche forma. Centro-destra diviso Da parte sua il centro-destra, che già prima delle dimissioni di Cammarata dimostrava di considerare perduta la partita delle amministrative nel capoluogo siciliano, dopo qualche momento di rilancio, nel mezzo dello scontro della parte politica avversa, adesso non sembra essere riuscito a stabilire una tregua che possa supportare un candidato come Co-

sta, probabilmente non apprezzato da non pochi di quelli che dovrebbero essere i suoi sostenitori. Se questo è lo scenario, meritano una particolare considerazione i fremiti di una parte della città che, pur non sottovalutando i problemi drammatici della crisi sociale ed occupazionale, assume la responsabilità di ricostruire il tessuto culturale a partire dal recupero di importanti istituzioni, come i Cantieri della Zisa, da salvaguardare, oltre che dal degrado, da ottuse mire speculative che ne vogliono minare alla base la loro natura e destinazione di Bene Comune, nella più alta accezione etica e civica del termine. In questo senso, si presenta molto interessante l’altra vertenza aperta al teatro Garibaldi, culminata in un’esperienza di occupazione, analoga a quelle del Valle di Roma e del Coppola di Catania, che vede lavoratori dello spettacolo responsabilizzarsi in prima persona nel rifiutare logiche di abbandono e sistemi di gestione di strutture culturali basate sulle assegnazioni determinate da appartenenze, tempi e cordate politiche. Un altro segno di vitalità non sottovalutabile che, certamente, va verificato

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nella sua capacità di mostrare coerenza alle linee politico – culturali lanciate con il manifesto lanciato dagli occupanti e sulla reale condivisione di tali intenti da parte di tutti i soggetti sostenitori. La vertenza al Garibaldi Tuttavia, va considerato che l’agire implica il rischio e l’azione politica, in senso di partecipazione diffusa, se non esclude certo i rischi di contraddizioni, nè limita fortemente la possibile incidenza, e favorisce il confronto delle idee che è origine e strumento del controllo democratico. Un controllo che è essenzialmente presenza e protagonismo della gente necessari in ogni società che si voglia liberare della logica delle Istituzioni, tanto tristemente quanto inutilmente, blindate militarmente all’interno dei vari Palazzi pubblici. I Cantieri della Zisa, da tempo aperti spontaneamente dalla gente, come quello più recente del Garibaldi e altri riconoscibili per la città, sono una possibilità concreta perché Palermo possa aprire il Cantiere di tutta una città non rassegnata ai ruderi del passato e alla demolizione del presente.


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Inter viste/ Enzo Maiorca

Il nuovo tiranno di Siracusa? Il cemento! Due porti turistici, otto villaggi, decine di condomini a schiera... E minacce a un vecchio cronista. Una città assediata di Luciano Mirone

“Siamo alla vigilia di una immensa cementificazione che stravolgerà l’identità di una città unica al mondo, di una città definita dall’Unesco ‘Patrimonio dell’umanità’. Il nuovo Piano regolatore prevede la costruzione di due porti turistici, di otto villaggi turistici e di decine di condomini a schiera che prenderanno il posto dei resti archeologici e della natura incontaminata”. Enzo Maiorca non ha dubbi. Il nuovo strumento urbanistico di Siracusa – approvato nel 2007 – devasterà un territorio pieno di testimonianze storiche e naturalistiche tra le più importanti del pianeta.

L’ex primatista del mondo di immersioni in apnea – un mito per gli italiani degli anni Settanta, oggi impegnato in questa battaglia con il Wwf, con Italia nostra e con decine di associazioni siracusane – denuncia i politici invischiati in un “affaire” che frutterà ai cementificatori (solo a loro?) decine di milioni di euro. Chi sono? L’ex sindaco di centrodestra Giovanbattista “Titti” Bufardeci, primo degli eletti in provincia alle ultime regionali con oltre 17mila voti, fino a due anni fa vice presidente della Giunta regionale presieduta da Raffaele Lombardo, e l’attuale sindaco Roberto Visentin (Pdl), spalleggiati, secondo Maiorca, dall’ex ministro Stefania Prestigiacomo che “quando c’è da spezzare una lancia, la spezza sempre a favore dei cementificatori”. I fratelli Caltagirone L’ex sub punta il dito contro i Grandi signori del cemento, che stanno mettendo le mani sulla città, in primis i fratelli Caltagirone. Ma non solo. Certe imprese locali pretendono la loro fetta di torta – con appalti, subappalti, scavi, movimento terra – acquistando immense porzioni di territorio per scaricare il loro cemento. Se hanno miseri capitali sociali di appena 10mila Euro non ha importanza. L’importante è che i denari si moltiplichino. Dietro al nuovo “sacco” di Siracusa –

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dopo quello perpetrato negli anni Settanta – si scorge l’ombra di Cosa nostra. Le minacce ad un cronista di settantatré anni, Salvatore Maiorca, sembrano dimostrarlo. Minacciato anche il Wwf Da quando Salvatore Maiorca (quasi omonimo del sub siracusano) ha cominciato ad occuparsi del Piano regolatore, sono arrivate le lettere di minaccia: “Chi ti paga? Anche altri pagano. La devi smettere di occuparti della Pillirina (una località di mare presa di mira dagli speculatori, n.d.r.), dei porti e dei villaggi turistici, sono opere che si devono fare”. E siccome “si devono fare”, il consiglio è di non ficcare il naso in cose più grandi di lui. Stesso “consiglio”, ovviamente “bonario”, al presidente del Wwf di Siracusa, Giuseppe Patti: “Faremo prendere un bello spavento anche a lui”. “Questo è il risultato di una politica miope e affaristica, che da decenni, con l’alibi del lavoro, vuole giustificare certe nefandezze”, dice il sub siracusano. “Uccidono l'anima della città” L’ex primatista del mondo, a ottantun anni suonati, conduce questa battaglia con lucidità, con grinta ma anche con un velo di malinconia. “E' terribile assistere alla distruzione della tua città. È come se uccidessero una parte della tua anima”.


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“Un Piano regolatore che fa accapponare la pelle”

“Questo Piano regolatore – spiega – è stato redatto su delle stime di crescita completamente errate: un sovradimensionamento di popolazione che a Siracusa non esiste. Siccome devono giustificare una dissennata colata di cemento, succede anche questo. Questa città non può diventare un immenso villaggio turistico”. Enzo ci conduce in questi luoghi bellissimi, passeggia e ogni tanto ricorda un brano di Tucidide, la storia del tiranno Dionisio, le leggende dei vecchi pescatori che gli hanno instillato l’amore per il mare e per il paesaggio. Passeggia e guarda il mitologico fiume Ciane (dove nell’antichità si coltivava il papiro) e le saline dismesse, la riserva naturale piena di canne e le svariate specie di uccelli che stagionalmente migrano da queste parti. Poi volge lo sguardo su quel lembo di mare che nel V Secolo avanti Cristo fu teatro di una cruenta battaglia tra ateniesi e siracusani, nel quale si specchia un ampio pezzo di città con l’isola di Ortigia e le case di pietra bianca che si integrano con i colori della natura, e sovrappensiero dice: “Dopo che hanno massacrato un tratto di costa con le ciminiere del petrolchimico, vogliono completare l’opera con delle mostruosità che uccideranno definitivamente la città e il territorio”. Una pausa e poi: “Vede quelle barche laggiù? Lì anticamente esisteva il Porto grande: secondo Tucidide vi si svolse la prima battaglia navale della storia. Sul

fondo ci sono ancora una settantina di navi ateniesi. Fare delle ricerche non costerebbe molto. Ma non le fanno. E sa perché? Perché se trovano qualcosa si potrebbero bloccare gli affari, quindi meglio lasciare tutto sott’acqua”. Un Piano regolatore, quello di Siracusa, che fa accapponare la pelle. “Per costruire i due porti turistici dovranno sventrare l’area del Porto grande e del fiume Ciane”. Come? “Attraverso il prosciugamento di 100mila metri quadrati di mare. Vi rendete conto? Devono riempire di terra il Porto grande e costruirci sopra un’isola artificiale. Una roba da pazzi”. “Siracusa resterà senza mare” Ci spostiamo nella riserva naturale del Plemmirio e poi nella spiaggia che i siracusani chiamano Pillirina. “Qui saranno edificati due villaggi turistici di 1000 posti letto. Sono gli unici tratti di costa incontaminata che confinano con l’area marina protetta della Maddalena e con il promontorio del Plemmirio, un tratto di macchia mediterranea pieno di tombe sicule, utilizzate successivamente dagli ateniesi per seppellire i loro morti”. Il Plemmirio è un posto pieno di fascino, un promontorio di rocce bianche che si protende sul mare, cantato perfino da Virgilio nell’Eneide. “Se fanno il villaggio turistico alla Pillirina, Siracusa resterà senza mare. Era l’ultima spiaggia libera rimasta”.

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Qualche chilometro e siamo al castello Eurialo, un altro posto di rara bellezza. “Qui neanche la campagna con i mandorli, i carrubi e i mirti esisterà più. La zona del castello (una delle parti archeologiche più importanti della zona) scomparirà sotto i colpi incessanti delle ruspe e del cemento”. Poco dopo ecco le Mura dionigiane, muraglioni costruiti dal tiranno Dionigi il vecchio che corrono dal castello Eurialo verso il mare. “C’era un assoluto divieto di costruire. Niente da fare. Scempi anche qui”. “Stanno costruendo i palazzi perfino sull’Artemision di Scala greca, una zona ricca di grotte risalenti all’età del bronzo, con una chiesetta rupestre edificata dai greci nel settimo secolo avanti Cristo. Il fatto assurdo è che i palazzinari e i politici devono costruire per forza, malgrado i vincoli. Qualcuno, per evitare lo scempio, ha tirato fuori il Piano paesaggistico, che vieta le costruzioni nella zona del Porto grande. Bene: il sindaco e la Giunta hanno presentato ricorso al Tar. Questo per dire come la politica siracusana cerchi di fare gli interessi degli speculatori e non della città”. “Per circa tre anni – seguita Maiorca – abbiamo avuto una Soprintendente ai Beni culturali, Mariella Muti, che con la sua opera ha facilitato il processo di distruzione. Adesso il sindaco Visentin l’ha nominata assessore. Ogni tanto organizza un convegno sulla storia e sulle bellezze di Siracusa”.


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Inter viste/ Pucci Giuffrida

Mafia, su 10 aziende confiscate 9 falliscono Chiude anche la Riela Group, confiscata nel '99 a una famiglia vicina ai Santapaola. Come mai non si riesce a gestire queste imprese? Lo abbiamo chiesto a un esperto di amministrazione dei beni confiscati. «Mancano uomini e mezzi» risponde di Agata Pasqualino CtZen

La Sicilia è la regione d’Italia con più aziende confiscate alla mafia. Sono 567 di cui 489 in gestione all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati. Nella provincia etnea ce ne sono 91. Il 90 per cento viene generalmente messo in liquidazione o fallisce dopo la confisca.

Un esempio tra tutti – di quello che per molti rappresenta una sconfitta dello Stato – è la Riela Group, la società di trasporti e di distribuzione di merci di Piano Tavola, nella zona industriale di Belpasso, di proprietà di Lorenzo Riela (deceduto nel 2007) e del figlio maggiore Francesco (detenuto all’ergastolo per omicidio), appartenenti al clan Santapaola. Le mosse dei vecchi proprietari All’epoca della confisca, nel 1999, era la quattordicesima azienda più ricca della Sicilia, con un fatturato di 30 milioni di euro e 250 dipendenti. Adesso ne sono rimasti 22, che rischiano di restare senza lavoro in seguito all’annunciata chiusura. Il declino è cominciato dieci anni fa, quando gli ex proprietari hanno cercato di riappropriarsi dell’azienda di famiglia, fondando un nuovo consorzio, Se.Tra. Service, che si è accaparrato tutti i clienti ed è addirittura diventato il principale creditore della società. Proprio a causa di questi debiti è stata messa in liquidazione. Le responsabilità di questa vicenda sono ancora tutte da accertare. È chiaro però che qualcosa non ha più funzionato nella sua amministrazione, proprio sotto il controllo pubblico. Ma come funziona la gestione finanziaria delle aziende confiscate alla mafia? Quali sono le difficoltà? E come mai un’azienda come la Riela è sull’orlo della liquidazione? Lo abbiamo chiesto a Pucci Giuffrida, dottore commercialista con una venten-

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nale esperienza di amministratore giudiziario di beni confiscati. Prima della confisca definitiva ha gestito la Riela Group insieme ad altri quattro colleghi per quasi due anni, con cui amministrava anche le altre quattro aziende del gruppo. Oggi tra le attività che gestisce ci sono anche esempi che rientrano nel dieci per cento di quelle che sopravvivono e anzi migliorano. Il successo o il fallimento di un’azienda confiscata dipende da molti fattori. La risposta del mercato, dei clienti e fornitori, dei lavoratori e soprattutto dalle capacità dell’amministratore finanziario. Dal 2010, anno della costituzione dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati, gli amministratori sono nominati dal tribunale e confermati dalla stessa agenzia. “Alcune sono cotte in partenza” Tra le aziende confiscate «alcune sono cotte in partenza – dice Giuffrida – Le altre si dividono tra quelle che si riescono a gestire in maniera sana e quelle che invece si fanno morire. Quest’ultimo caso rappresenta una sconfitta – spiega – Vuol dire alimentare l’opinione che con la mafia si lavora e con lo Stato no». Influisce sulle sorti dell’azienda anche la sua tipologia. Mentre per le aziende di beni immobili è più facile mantenere il valore di avviamento, per quelle prettamente commerciali ci sono più difficoltà, dovute al fatto che il mafioso può dirottare la clientela. Ed è ciò che è avvenuto nel caso della Riela.


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“Un'azienda confiscata, se amministrata bene, porta soldi allo Stato” I ragazzi di Libera al lavoro nei campi confiscati alla mafia in Sicilia

«Ma chi ha firmato i contratti con il nuovo consorzio? – si chiede l’amministratore – Bisognerebbe risalire ai responsabili, perché quando si amministra un bene confiscato alla mafia non si può essere sprovveduti». Non tutte le aziende confiscate sono però destinate a morire e non mancato gli esempi positivi. Giuffrida gestisce al momento le aziende di Michele Aiello, tra cui il lido dei Ciclopi e il Sigonella Inn, e la LA.RA. srl, un’azienda con circa 60 dipendenti che si occupa di condizionamento per ambienti e rifornimento in volo per aerei militari. L’amministra da sette anni e attualmente presenta un utile netto di circa 300mila euro e «altrettanti ne paga di imposte», sottolinea il commercialista. “La mafia condizione il mercato” Perché un’azienda confiscata, se si riesce a non farla fallire, porta ricchezza allo Stato. Lavora rispettando le regole: paga le tasse e non ha lavoratori in nero, ma quelli che sono i suoi punti di forza, possono diventare anche i motivi per cui non riesce a stare sul mercato. «La mafia può condizionare il mercato e ne altera le regole – dice Giuffrida – Basti pensare semplicemente ai metodi che usano per il recupero crediti. E a quelli che hanno per eliminare la concorrenza». Per l’amministratore ci sono tanti aspetti su cui lavorare per far aumentare la percentuale delle aziende confiscate

che riescono a mantenere la loro presenza nel mercato. Primo fra tutti colmare la carenza di uomini e mezzi dell’Agenzia nazionale. «Ci vorrebbe un ufficio dedicato solo a questo – afferma Giuffrida – E invece, da un lato, c’è la mafia con organizzazioni megagalattiche internazionali e dall’altro 30 persone che devono occuparsi di più di 12mila beni in tutta Italia». I difetti della legge Secondo il commercialista, anche la legge ha dei difetti che contribuiscono a rendere più complicata la gestione dei beni confiscati. «La nuova normativa prevede la vendita degli immobili, ma non se ne venderà uno – dice – perché la gente ha paura di appropriarsi di un bene appartenuto a un mafioso e sarà molto alto il rischio che quando accadrà si daranno a dei prestanome». Per le aziende, invece, la legge prevede che quelle non operative vengano messe in liquidazione. Le altre possono essere affidate a delle cooperative appositamente costitute o si possono vendere «a chi ne abbia fatta richiesta», come specifica un trafiletto della norma. Un altro dettaglio pericoloso per Giuffrida, perché «è assurdo – fa notare – che si voglia procedere senza aste pubbliche. Così si limita la trasparenza e si rischia di svendere l’attività». La soluzione di Giuffrida per limitare gli insuccessi è chiara: «Se fossi il legislatore, le piccole aziende non le confi-

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scherei. Confischerei solo le grosse e le grossissime, perché con queste si ha più possibilità di successo». Le piccole aziende, infatti, sono più difficili da gestire e da mantenere in vita. «Si pensi a un’azienda unipersonale come può essere un posto da pescivendolo o quelle gestite da nuclei familiari come un piccolo negozio o un panificio – spiega Giuffrida – Quando si arresta il proprietario e si confisca l’attività, questa è destinata a chiudere e vuol dire mettere in mezzo alla strada il figlio o la moglie. Non sarebbe meglio lasciarli lavorare?», si chiede. Le grandi aziende, invece, sono più strutturate ed «in un certo senso si reggono in piedi da sole», dice Giuffrida. «I lavoratori sperano solo che non fallisca l’azienda – aggiunge – e dopo il primo periodo di sbandamento si rendono perfettamente conto che continuare a lavorare bene vuol dire fare il proprio interesse». “Non fare il gioco dei mafiosi” Certamente bisogna saperle amministrare o si finisce per fare il gioco dei mafiosi come nel caso dell’azienda di Belpasso. «Con la Riela – commenta l’amministratore – forse si poteva trovare una soluzione, ora è tardi. Si doveva rinnovare il parco macchine. Renderla competitiva sul mercato. Tutto questo non si è fatto. Adesso resta solo da accertare le responsabilità».


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Trapani/ L'affare porto

E' arrivato un bastimento carico di appalti Protezione Civile e Grandi eventi: il capolavoro è stato L'Aquila. Ma il primo modello è stato preso qui... di Rino Giacalone

Il sistema di relazioni poco limpide tra “Protezione Civile-Grandi Eventi”, che oggi si ricorda tanto perché legato all’”affaire”, finito sotto inchiesta, per la Maddalena prima e L’Aquila dopo, fu collaudato per la prima volta nel 2004, in Sicilia a Trapani. Occasione: le regate della “Louis Vuitton Cup” tenutesi tra la fine di settembre ed i primi di ottobre del 2005, le gare preliminari acts 8 e 9 - alla sfida valenciana della 32ma Coppa America (finale nel 2007). Trapani fu per un paio di giorni una delle “capitali” della vela mondiale per quelle gare e per quei pochi giorni di “festa” per tutto il precedente anno, a cominciare dal settembre del 2004, furono stanziati e spesi quasi 70 milioni di euro per “allestire” il porto della città.

C’erano progetti e fondi previsti per il porto di Trapani e non da poco tempo a proposito di rifacimento di banchine, abbattimento di strutture oramai degradate ed eliminazione di zone malsane, costruzione di una caserma per i vigili del fuoco, costruzione di nuovi attracchi turistici e commerciali e collocazione di nuove dighe foranee. Opere da decenni ritenute indispensabili per la vita del porto ma che a quel punto diventavano ancora più indispensabili per l’ospitalità da darsi alle barche di Alinghi e concorrenti, come Luna Rossa, Mascalzone Latino, Oracle. L’arrivo della Coppa America fece il miracolo, e ogni cosa fu immediatamente sbloccata, progetti resi immediatamente cantierabili, somme statali messe a disposizione. Qui entrò in campo come vera prima volta la relazione tra Protezione Civile e “grandi eventi”, così furono qualificate quelle gare trapanesi. Appalti modello Berlusconi Il Governo Berlusconi nel settembre 2004 approvò il relativo decreto con il quale non solo si individuava la Protezione Civile come soggetto attuatore dei lavori ma si stabiliva che gli stessi lavori venissero appaltati e avessero inizio nelle more del rilascio delle autorizzazioni. Situazione di emergenza non c’entrava il terremoto o altri fenomeni naturali che avevano messo sottosopra il territorio ma c’entrava lo sport, la “grande vela”. Regista “politico” di tutto l’allora sottosegretario all’Interno, il senatore trapanese del Pdl Tonino D’Alì. A Roma ad occuparsi che tutto andasse bene il potente sottosegretario alla Presi-

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denza, Gianni Letta. Unico ministro a venire a fare un sopralluogo quello ai Trasporti, Lunardi, che all’epoca e molto tempo prima aveva avuto già modo di spiegare la sua linea politica, indispensabile colloquiare con la mafia. Lunardi: con la mafia si parla Come finì? Bene, per la Coppa America, le gare risultarono essere un vero e proprio successo. E per la città di Trapani? Finì bene perché conquistò la ribalta internazionale, ma finì anche male, ci furono delle indagini che fecero scoprire come la mafia riuscì a imporre le proprie aziende per le forniture alle imprese che si appaltarono quei lavori. Ma finì ancora peggio perché ad oggi, a sette anni dalla conclusione di quelle gare la parte più importante di quei lavori, la costruzione di nuove banchine per 40 milioni di euro, è ancora in corso. E questo è raccontato in una sentenza che si è conclusa con una serie di prescrizioni e (poche) assoluzioni, per imprenditori, funzionari pubblici di Autorità Portuale, Provincia, Genio Civile opere marittime, ma che ha elencato una incredibile serie di malefatte a proposito di traffico illecito di rifiuti, smaltimento di residui di lavorazione, violazioni ambientali, anche circa l’esecuzione di opere del tutto abusive. Tutto questo quando a vigilare erano importanti istituzioni come la Protezione Civile, all’epoca era quella “targata” Bertolaso, e la prefettura. Tra il 2004 e il 2005 man mano che i lavori al porto andavano avanti, la magistratura era costretta a intervenire e a sequestrare immense discariche abusive.


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La cosa non piaceva ai politici che accusavano magistrati e investigatori di volere interferire sullo svolgimento del “grande evento”, e questo mentre colline di fanghi si accumulavano al porto. E così quando nel settembre 2005 arrivarono le barche della Coppa America restavano incomplete le nuove banchine. Lo svolgersi delle gare però era incompatibile con la prosecuzione dei lavori (che si disse erano stati completati quasi all’80 per cento) e quindi quel cantiere, l’unico rimasto in piedi, fu temporaneamente fermato. Finite le gare i lavori ripresero ma arrivò il sequestro della magistratura. I lavori infatti non potevano più continuarsi con le deroghe del decreto del 2004, e servivano i nulla osta che ancora non c’erano e soprattutto andavano fermati i camion che stavano portando via i rifiuti inquinanti (15 mila mc) e che si volevano usare per realizzare una colmata nella vicina Marsala. Apriti cielo: il sequestro fu bocciato dalla politica, si gridò allo scandalo, si impediva alla città di Trapani, si sentì dire, di avere un nuovo porto. A favore della magistratura ci fu solo Legambiente: "Mai si erano viste tante violazioni di legge e di procedure come è avvenuto in occasione della Coppa America" dichiarò Angelo Dimarca: "È successo di tutto, con violazioni commesse anche nelle cose più semplici e banali - continuò Dimarca -: rifiuti di scavo smaltiti illegalmente, analisi di fanghi non conformi a legge, amianto demolito come se si trattasse di materiale qualunque, rifiuti pericolosi gettati in fosse. Le dichiarazioni di alcuni esponenti politici, amministratori e pubblici funzionari sulla regolarità degli appalti avviati per l'organizzazione della Coppa America

lasciano increduli e sbigottiti". La magistratura fece gli accertamenti e in pochi mesi, nei primi mesi del 2006 arrivò al dissequestro. Ma i lavori invece di riprendere sono rimasti bloccati, fino all’altro ieri. Basta solo questo lasso di tempo (sei anni trascorsi senza che il cantiere riuscisse a ripartire) a capire che le questioni sulla legittima prosecuzione di quei lavori non erano pretestuose. Ciò non di meno alla notizia della sentenza che ha dichiarato prescritti i reati qualcuno ha scritto, a critica per la magistratura, “tanto rumore per nulla”. Altro che “molto rumore per nulla” Il giudice che ha pronunciato questa sentenza, il gup Lucia Fontana, depositando le motivazioni di quella pronuncia adesso, negli stessi giorni in cui quel cantiere ha riaperto, dopo il rilascio dei nulla osta ministeriali di impatto ambientale, ha voluto proprio scrivere che non c’è affermazione più sbagliata di quella che ha portato a dire, per l’appunto, “tanto rumore per nulla”: “La conclusione (dibattimentale ndr) non consente in considerazione del contenuto degli atti di indagine di affermare con shakespeariana ed in conferente citazione “molto rumore per nulla”. Dagli atti infatti emergono una pluralità di vicende di indubbio rilievo penale…”, come il traffico illecito di rifiuti…i materiali provenienti dai lavori erano rifiuti speciali e non assimilabili alle terre di scavo, taluni risultano rifiuti speciali pericolosi…”. Ma come, la Protezione Civile che doveva occuparsi di eliminare gli aspetti pericolosi ha finito per determinarli mag-

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giormente? Tra le cose venute fuori la circostanza che il riempimento per una banchina portata invece a compimento è stato fatto usando “rifiuti contenenti sostanze pericolose” perché si trattava di residui provenienti dai dragaggi e finiti dentro i cassoni di cemento usati per formare la banchina. Oggi al porto di Trapani c’è una banchina, denominata Isolella, usata per gli approdi commerciali (e che in occasione della Coppa America del 2005 ospitò il quartiere generale dei team in gara) nel cui sottosuolo vi sono rifiuti pericolosi, rifiuti altamente tossici. “Più che un doloso preventivo allestimento organizzativo volto alla gestione abusiva di un ingente quantità di rifiuti, emerge dagli atti – si legge nella sentenza del gup Fontana – la estemporanea ancorchè spregiudicata ricerca di una soluzione al problema della collocazione dell’ingente materiale di risulta proveniente dal cantiere portuale…come se questo fosse un aspetto marginale”. Per la cronaca vanno dette ancora due cose. La prima che durante quei giorni di regata, il patron della Protezione Civile Bertolaso si fece vedere a Trapani rarissime volte, per riunioni veloci, e poi si sarebbe andato ad occupare della sua barca vela che teneva in un cantiere della città, l’altra è pure di queste ore, quel porto che doveva essere rilanciato in ogni sua parte da sei mesi assiste muto alla protesta degli operai del più grande cantiere navale della città che praticamente ha chiuso i battenti non riuscendo nemmeno a mettere in mare la prima petroliera “Marettimo M.” qui costruita e che per la festa dei politici è stata inaugurata un paio di volte ma resta agli ormeggi.


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Pozzallo

Tangenti al Comune E‘ in corso un processo a carico di un funzionario accusato di aver ricevuto tangenti per “aiutare” un B&B per migranti di Giorgio Ruta e Daniela Sammito Il Clandestino

La polizia giudiziaria lo prese dopo che l’imprenditore che aveva pagato le tangenti denunciò tutto recandosi in Procura. In piena estate, le forze dell’ordine organizzarono una trappola con l’imprenditore e presero Minardo con le mani nel sacco. Subito fu chiaro che dietro gli accreditamenti delle strutture di accoglienza si nascondeva un intreccio tra affari e politica.

Giovanni Manenti, l’imprenditore che ha fatto scoppiare il caso, ha raccontato con precisione i particolari che stavano dietro a questa tangentopoli in salsa ragusana. Nessuno ne sapeva niente? La domanda che subito ci si è posti, cui solo il processo sarà in grado di rispondere, è: Giovanni Minardo intascava tangenti senza che nessuno ne fosse a conoscenza o dietro di lui c’era un sistema congegnato? Fino ad oggi è stato negato qualsiasi coinvolgimento dell’amministrazione Sulsenti. Due udienze, al Tribunale di Modica, hanno cominciato a far luce sull’accaduto. Il 1° marzo, dinanzi al Collegio Penale del Tribunale di Modica, presieduto dal giudice Antongiulio Maggiore, è comparso Giovanni Manenti, che ha parlato per circa tre ore. Il racconto dell'imprenditore Alle numerose e dettagliate domande poste dal pubblico ministero, il dott. Gaetano Scollo, l’imprenditore ha risposto minuziosamente, ricostruendo la cornice entro la quale si sono sviluppati i fatti che riguardano questo processo. Nel 2008, mentre la città di Pozzallo era coinvolta nell’emergenza determinata dai numerosi sbarchi di migranti

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provenienti dall’Africa, Manenti, proprietario di un B&B dentro Pozzallo, veniva contattato da Minardo, che gli manifestava la necessità di mettere a disposizione una struttura per accogliere i clandestini. Manenti individuò una vecchia villa, fuori dal centro abitato, la prese in affitto e la predispose per l’accoglienza, affrontando, di propria tasca, le spese per il cambio dell’impianto elettrico, per farvi arrivare acqua potabile, per installare caloriferi e luci di emergenza e per l’arredamento. La spesa complessiva sostenuta ammontò a circa 45.000,00 euro. Contributo non erogato Il centro arrivò ad ospitare dalle dieci alle quindici persone, tutti immigrati, sia maggiorenni che minorenni. L’ Ufficio Immigrazione del Comune di Pozzallo forniva l’elenco delle persone da ospitare, svolgendo un’attività di intermediazione tra la Prefettura e la struttura di accoglienza. Il contributo per ogni persona ospitata, che la Prefettura avrebbe dovuto corrispondere al centro, trascorso un termine di tre mesi, non fu erogato, perciò anche le spese per il vitto e l’alloggio dei migranti furono anticipate da Manenti, il quale già si era indebitato, avendo stipulato un fido con la banca per predisporre la vecchia villa all‘accoglienza.


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“Una busta gialla con i soldi in contanti”

L’albergatore si trovò così nella necessità di rivolgersi a Minardo – a quanto dichiara lui - che, essendo preposto all’Ufficio Immigrazione, era il suo referente per i rapporti con la Prefettura, chiedendo di sollecitare l’erogazione dei pagamenti previsti. In quel frangente, Minardo chiese per sé, per “l’interessamento”, una parte delle somme che spettavano al centro: 2.000,00 euro su 20.000,00. Un “interessamento” in contanti Questi contributi furono finalmente versati dalla Prefettura nel febbraio 2009 e Minardo ricevette da Manenti i 2.000,00 euro in contanti, in pezzi da cinquanta. E pare che ci sia traccia del prelievo di questa somma, sul conto corrente di Manenti in cui la Prefettura aveva versato i 20.000,00 euro. Superata l’emergenza sbarchi, per la struttura nacque il problema dell’accreditamento presso la Regione, per ottenere il quale occorre essere una cooperativa, e in particolare per continuare ad accogliere minori non accompagnati. Così Manenti si mise in contatto con la presidente della cooperativa “Filotea”, di Comiso, per entrare a farne

parte, conferendo la villa restaurata in cui era sorto il centro di accoglienza. All’epoca, Comune e Prefettura dovevano ancora al centro di accoglienza una somma di 8.000 euro. Nel 2011 ricominciarono gli sbarchi, la cooperativa riprese l’attività di accoglienza, sfruttando anche il centro di Pozzallo, ma Manenti venne estromesso, con una scusa, dal consiglio di amministrazione della cooperativa. A suo dire, la scelta immotivata di isolarlo dipese dal fatto che non aveva più pagato tangenti a Minardo, vicino per motivi politici alla presidente della cooperativa Filotea. In seguito a questi fatti, Manenti accumulò debiti su debiti, sia verso le banche che verso i fornitori, e cadde in depressione. I finanzieri appostati Decise, poi, di incontrare Minardo, per raccontargli dell’estromissione dal consiglio di amministrazione della cooperativa e questi gli fece capire che la cosa poteva essere risolta, ancora una volta, con una “somma per l’interessamento”. Così, il 5 luglio 2011 Manenti denuncia Minardo e si dà avvio alle inter-

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cettazioni telefoniche. Nel corso di una telefonata tra i due, finalizzata a determinare il giorno e il luogo dell’incontro per lo scambio della tangente di 1.500,00 euro, Minardo dichiarò che, in questo modo, si sarebbero potuti salvare “capre e cavoli”. Alle 14:00 del 10 luglio venne predisposto il servizio di appostamento in via Garibaldi, a Pozzallo, presso il B&B di Manenti, dal quale 10 minuti dopo uscì Minardo con una busta gialla in mano contenente i 1.500,00 euro, in banconote di vario taglio, che Manenti aveva precedentemente fatto vidimare, numerare e fotocopiare dalla guardia di finanza. I finanzieri appostati intervennero subito ad arrestare Minardo, che fu così colto in flagrante. La ricostruzione fornita da Manenti coincide, per la parte finale della vicenda - quella che si svolge dalla denuncia all’arresto del funzionario - , con le testimonianze rese dall’ispettore Sammito, che aveva accolto la denuncia dell’imprenditore pozzallese e avviato le intercettazioni, e dal maresciallo Giannone, che si era materialmente occupato di queste ultime e aveva preso parte all’appostamento.


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Avola

L'agroindustriale fantasma Una storia infinita Siamo in provincia di Siracusa. “Una stupida provincia - diceva Sciascia - che in fatto di morti ammazzati aveva poca pratica...” di Giulio Pitroso e Marco Urso GenerazioneZero Fiorente cittadina sullo Jonio. Celebre per la sua pianta esagonale, la mandorla, i limoni, il nero d’Avola e per le rivolte bracciantili del 2 dicembre 1968. Passato e futuro si trovano mischiati apparentemente senza un preciso perché, lasciando sul territorio idee ibride di gattopardiano sviluppo. I braccianti di un tempo solevano riunirsi la mattina presto nella grande piazza centrale del paese in cerca della jurnàta di lavoro. Venivano scelti accuratamente dai caporali, come capita ancora oggi ai fratelli di colore a Cassibile, durante la stagione della raccolta delle patate o delle fragole. Riuscirono tutti insieme a ribellarsi e a ottenere l’eliminazione della figura del caporale, dell’ingaggio della manodopera in piazza e l’abolizione delle “gabbie salariali”. Ma ci vorranno quasi due anni affinché dalla mattanza di Avola del 68 si arrivi alla costituzione dello Statuto dei lavoratori del 70. La rabbia, però, rimane sempre la stessa ed è riesplosa un paio di mesi fa sotto l’egida dei Forconi: Avola è stata la capitale di questo movimento.

La Sicilia, granaio galleggiante, ha sfamato tantissimi popoli diversi. Per tutti, l’agricoltura era un’arte, se non l’emblema dell’onestà. Marco Porcio Catone, nel suo De agricultura, lo dichiara apertamente: fra i contadini si formano uomini di fortissima tempra e soldati valorosissimi; e dall’agricoltura consegue il profitto più onesto, più stabile, meno sospetto: chi è occupato in quell’attività non nutre pensieri malevoli. L’agricoltura era il cuore dell’economia di questo paese. Per questo si voleva investire in questo settore. Di che cosa stiamo parlando? Il progetto in questione, doveva offrire un’agognata possibilità a una larga fetta di economia locale. Il protagonista di questa storia è il centro agro-industriale polivalente di contrada Torrente Risicone, alle porte della città in direzione Noto. Il suo completamento si collocava al primo posto del piano triennale delle opere pubbliche, approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 49 del 22-062010, “in quanto opera di primaria importanza nel quadro delle iniziative infrastrutturali e di servizio volte a promuovere e favorire lo sviluppo economico del territorio siracusano e limitrofo”. Il progetto era partito, ma... L’8 giugno del 2001 il decreto n. 638 dell’Assessorato Regionale dell’Industria finanziava la somma residua di lire 36.295.000.000 per il completamento dell’opera, secondo le previsioni della perizia approvata dal Commissario Straordinario del Comune di Avola, con delibera n.73 del 12-10-1999, per l’ammontare complessivo di 42,700,000,000. Il progetto era partito. Passano il tempo, le amministrazioni, e

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altri otto anni senza che si completi l’opera. Poi la sorpresa. Il 15 – 09 – 2010, determinazione del Sindaco n. 68 del registro (questo il termine tecnico): 10000 euro per una consulenza per la redazione di uno studio di fattibilità Si è quindi pagato un esperto 10,000 euro per sapere se si poteva andare avanti nei lavori, poiché il Comune era sprovvisto del necessario personale. Totale spesa? 6,5 miliardi di lire + 10,000 euro. E oggi, in che stato è il centro agroindustriale? L’ingresso alla gigantesca area è totalmente aperto e fruibile a chiunque volesse andarci. Persone per bene, ladri, vandali o semplici curiosi: a tutti è permesso un giro al luna park. Un cancello a due sbarre orizzontali è totalmente aperto. Nessuna recinzione delimita la zona. Una discarica di scarti Superato il cancello a sinistra una discarica di scarti di eternit e altro materiale vario. Di fronte un’altra piccola discarica di all’incirca cinquanta lastre di eternit. Le lastre sono state adagiate una sopra l’altra, a formare un ammasso e sembrano state sistemate con cura, con grande disponibilità di tempo. Continuando nella via sacra degli orrori, subito sulla destra una nuova discarica di materiale vario, forse isolante spugna per edilizia.


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SCHEDE IL CENTRO AGROINDUSTRIALE

fine di motivare la richiesta di re iscrizione del finanziamento alla Regione Siciliana come meglio evidenziato nella relazione allegata al presente atto; DATI GENERALI Accertata la carenza in organico di adeSuperficie totale: 85.000 mq. guate professionalità inerenti allo specifico Soldi stanziati: lire 42 miliardi e 700 milioni settore cui si riferisce l’oggetto dell’incarico Soldi spesi: lire 6,5 miliardi. da affidare, si ritiene opportuno e necessaSoldi restanti: lire 36 miliardi e 295 milioni. rio ricorrere a soggetti esterni nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di 10MILA EURO PER CONSULENZA: trattamento, proporzionalità e trasparenza. - 5000 euro quale residuo dell’impegno di Visto l’avviso del 20 luglio 2010, pubblicatspesa n. 2766/09 assunto sul cap. 341/4 o per quindici giorni all’Albo Pretorio Cospese per interventi in favore dell’agricoltumunale e sul sito internet istituzionale, per ra e della pesca con determina area 2 n.36 la ricerca di una figura professionale esterdel 24-12-2009 na di alto ed indiscusso valore [...] con - restanti 5000 come segue: comprovata esperienza tecnico-professio1880 euro sul capitolo 37/0, prestazioni nale, preferibilmente docente universitario, professionali per studi, progettazioni etc. cui affidare in via fiduciaria la realizzazione del vigente bilancio comunale, di uno studio di fattibilità tecnica ed econo2785 euro quale residuo dell’impegno di mica che, previa disamina del progetto orispesa n. 2766/09 assunto sul capitolo ginario, delle opere incomplete e non fun341/4 spese per interventi in favore zionali già realizzate, dell’assetto finanziadell’agricoltura e della pesca con determirio attuale nonché dell’odierna produzione na area 2 n.36 del 24-12-2009, agricola dell’intero comprensorio del sud335 euro quale residuo dell’impegno di est siciliano, delle esigenze del mercato e spesa n. 2768/09 assunto sul cap. 340/0 delle prospettive di sviluppo future, indichi spese partecipazione città dei sapori con una proposta progettuale sostenibile e condetermina area 2 n. 36 del 24-12-2009 vincente volta alla valorizzazione, trasformazione e commercializzazione dei proLA DETERMINAZIONE SINDACALE dotti agricoli della zona […] N.68 DEL 15-09-2010 Propone: "Oggetto: affidamento di incarico professio1) l’affidamento dell’incarico professionale nale per la redazione di uno studio di fattirelativo alla redazione di uno studio di fattibilità del centro agroindustriale polivalente bilità del Centro Agroindustriale polivalente in Avola – contrada torrente Risicone – SS sito nel territorio di Avola […] 115 – Ferrovia Siracusa – Licata. 2) l’approvazione dello schema del DiscipliScorrendo nella delibera: nare d’Incarico che prevede quale corriConsiderato che, in ragione del lungo lasspettivo omnicomprensivo di euro 10,000 so di tempo intercorso, si rende necessario IVA inclusa […] provvedere ad un aggiornamento delle pre3) di impegnare il suddetto importo di euro visioni di progetto, alla luce del mutuato 10,000 sui fondi del bilancio comunale […]" quadro socio-economico e del progresso delle conoscenze tecnologiche anche al

Seguendo la strada che sale leggermente e che vira a sinistra, si erge il moderno “monumento ai caduti” copertoni di trattori usurati nelle assetate campagne siciliane. Finalmente si arriva nella spianata della disperazione. Un camposanto di pali d’acciaio stanno dritti da più di dieci anni in attesa di copertura dal gelo e dal caldo siciliano. E più in fondo la struttura che doveva ospitare gli uffici. Finestre sfondate, muri rotti In che stato è questo stabile? Le finestre sono tutte sfondate, i vetri staccati e lasciati rotti sul pavimento. Le stanze sono piene di bottiglie di birra, residui forse di qualche festino. I muri sfondati, alcuni presentano tracce di cenere come dopo un falò. I bagni con tutti i sanitari rubati. E, in uno dei sancta santorum

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dell’intimità umana, un vespasiano, troviamo un tesoro particolare: una splendida siringa, di quelle che si usano per l’eroina. Qua e là palline da softair. All’angolo di una stanza, seminascosta, una boccetta, simile a quelle che si usano per certi tipi di droghe. Fuori, vicino alle vasche dove sarebbero stati raccolti i limoni, una tettoia fatiscente, forse pericolante, sotto la quale sarebbero dovuti stazionare i tir della ricchezza. E poi, poco più avanti, dei pali della luce, inchinati, segati quasi alla base, perché se ne potesse estrarre l’oro rosso, il rame: furti di questo genere sono divenuti comuni in Sicilia, ma non se n’era ancora avvertita la presenza ad Avola. Intorno al perimetro di quello che sarebbe dovuto essere il centro agroindustriale vero e proprio, un po’ di immondizia varia. Rubati i cavi di rame Nota positiva per gli ambientalisti è la forte presenza di tracce di coniglio, che sembra aver trovato in quest’ambiente un terreno favorevole. Nota dolente, invece, per gli stessi ambientalisti, è l’abbandono dei cani: in questo caso, peggiore del solito, perché vede protagonisti tre cuccioli, che troviamo vicini a una scatola, con su scritto “Agrumi”. I tre cagnolini, lasciati a se stessi, preda della fame e dello sconforto, piangono alla vista degli esseri umani. Per nostra segnalazione, la Polizia Municipale di Avola li raccoglie nel pomeriggio. Moriranno di gastroenterite al canile, subito dopo. Forse lo stare in quelle condizioni li aveva segnati irrimediabilmente? Non si poteva far nulla? E viene da chiedersi: perché lasciare un posto in balia di chiunque? La terra di nessuno, crudele, impastata di eroina e morte, di alcol e ladrocinio di rame.


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Salemi/ Sciolti per mafia. E ora?

Il sindaco, il vicesindaco... Una storia proprio sgarbata “Non solo il sindaco Sgarbi – rapportano gli ispettori – ma anche il vicesindaco, Antonella Favuzza, era molto corrivo verso il “don” del paese, Pino Giammarinaro di Rino Giacalone

A Salemi, Comune che ha visto appena sciolti per inquinamento mafioso i propri organi politico amministrativi, Giunta e Consiglio, non vi era, a leggere il rapporto ispettivo condotto dai funzionari incaricati dal prefetto di Trapani, Marilisa Magno, alcun argine ad impedire l’influenza dell’ex deputato democristiano Pino Giammarinaro per il quale il Tribunale di Trapani ha applicato nei recenti anni la sorveglianza speciale e adesso è tornato a riproporre un nuovo dibattimento per l’applicazione di un ulteriore periodo di sorveglianza speciale accompagnata anche da un massiccio sequestro di beni, nell’ordine dei 30 milioni di euro.

Tra l’on. Giammarinaro, ex capo della corrente andreottiana della Dc trapanese, e la mafia i contatti non si sarebbero mai interrotti. E i vertici politici del Comune nemmeno avrebbero posto precisi paletti. Anzi, il sindaco Sgarbi prima e il vice sindaco, Antonella Favuzza dopo, si sono più che prodigati per “sentenziare” sulla inesistenza della mafia e sull’esercizio di un diritto politico dell’on.Giammarinaro che a loro dire avrebbe avuto piena legittimità nell’occuparsi dell’ amministrazione cittadina quale indiscusso leader politico. Discutibile, sempre secondo Sgarbi e Favuzza, e altri soggetti, la descrizione che di Giammarinaro danno gli organi investigativi e giudiziari. Col tempo queste posizioni sono cambiate, nel senso che ad un certo punto per Sgarbiu, Favuzza, e “loro” soci, Giammarinaro avrebbe smesso di interessarsi al loro operato, nonostante un ex assessore, come Oliviero Toscani, il famoso fotografo, chiamato da Sgarbi al “capezzale” di Salemi, ha raccontato ai pm di Palermo che le interferenze, con fare mafioso, non si sono mai interrotte. E’ pesante la relazione del Viminale sull’inquinamento mafioso di Salemi, relazione successiva alle procedure di acceso decise dal prefetto Magno, i cui ispettori per molti mesi, tra giugno e dicembre 2011, hanno lavorato al Comune spulciando decine e decine di atti pubblici, delibere, determine, provvedimenti amministrativi.

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E’ una relazione che scardina il sistema degli alibi e delle giustificazioni che sono state addotte dai protagonisti di questa vicenda all’indomani dell’operazione di sequestro dei beni contro l’on.Giammarinaro, eseguita da Polizia e Guardia di Finanza. In quelle indagini, condotte dal pool anticrimine diretto dal primo dirigente di Polizia, Giuseppe Linares, si faceva riferimento oltre che agli interessi di Giammarinaro nel mondo della sanità, anche alla parte politica delle intromissioni dell’on.Giammarinaro, ed i politici chiamati in causa, a cominciare da Sgarbi si sono oltremodo sgolati per gridare al complotto e per dire che non era niente vero di quello che si andava leggendo nel rapporto d’indagine infine firmato dal questore Esposito e consegnato ai giudici che hanno fatto scattare il maxi sequestro preventivo. Una relazione drastica Oggi la relazione del ministero dell’Interno è drastica. Tanto drastica che questa stessa relazione ha portato il Viminale ad ottenere dal Tribunale di Marsala una appendice che non sempre viene applicata per tutti i casi di scioglimento delle amministrazioni per inquinamento mafioso e cioè la dichiarazione di incandidabilità del prof. Sgarbi e del suo ex vice sindaco Favuzza per le elezioni in Sicilia. E questo perché, secondo il Viminale,


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Lavori aggiudicati a un'impresa col titolare già in galera per turbativa d'incanti...

nel procurato inquinamento mafioso l’ex sindaco, e l’ex vice sindaco, hanno precise responsabilità. Insomma non sono parte lese. La radiografia del Municipio è inquietante, si parla di soggetti, amministratori, funzionari e impiegati con precedenti giudiziari e di polizia messi a controllare determinate branche del Municipio, quelle più delicate, e ancora il fatto che rapporti di relazione con soggetti anche pregiudicati o sospettati mafiosi venivano condotti alla luce del sole, e i vertici del Comune, a cominciare dal sindaco Sgarbi “non possono dire di non sapere”. “Storici esponenti dei clan locali” “Il vice sindaco è legato da stretti vincoli con noti e storici esponenti delle locali famiglie criminali… il vice sindaco nell’esercizio del proprio mandato elettorale non ha posto in essere alcun serio effettivo contrasto al condizionamento posto in essere (dall’on.Giammarinaro ndr) ma ha invece perseguito nel corso del proprio mandato finalità volte a incrementare i propri interessi economici in ciò coadiuvato da soggetti con precedenti per reati associativi e contigui alle locali cosche malavitose”. Questo passaggio è contenuto nella relazione. Il riferimento alla presenza a livello locale di cosche malavitose “fa giustizia” di quella che fu la prima dichiarazione del sindaco Vittorio Sgarbi quando si in-

sediò al Municipio dopo la sua elezione a sindaco, e cioè che la mafia non esisteva più come organizzazione, e che se esisteva era per la presenza di qualche mafioso, che non dava più fastidio a suo dire, e che perciò la cosa migliore era fare un museo dedicato alla mafia, quasi che fosse qualcosa appartenente alla storia e fosse anche qualcosa da prendere dalla storia e mostrare al pubblico come se la mafia fosse da esporre alla pari dei beni artistici che finiscono nelle teche museali. Per Sgarbi poi la mafia esisteva perché c’era una antimafia che doveva avere per propri tornaconti ragione di esistere. Il ministro Anna Maria Cancellieri su questo lo ha smentito con dati di fatto. Evidenziando per esempio l’antimafia di facciata perseguita a proposito di appalti pubblici. E ad essere “calpestato” in questo caso è stato il nome del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il Comune di Salemi risulta avere aderito al protocollo di legalità che porta il nome del generale e prefetto di Palermo ucciso dalla mafia negli anni ’80. Protocollo di legalità Si tratta del protocollo di legalità che vede concordemente coinvolti i ministeri dell’Interno e dell’Economia e la Regione Sicilia. A Salemi c’è stata l’adozione a fronte di una serie di gare di appalto “ma i contenuti del protocollo non sono stati ri-

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spettati dall’amministrazione comunale che avrebbe dovuto richiedere per una serie di imprese le certificazioni antimafia sia per appalti di opere pubbliche sia per le gare di aggiudicazione di servizi”. E così è potuto accadere che i lavori di ristrutturazione del Palazzo Municipale “sono stati aggiudicati ad impresa il cui titolare è stato in carcere per reati contro la pubblica amministrazione, turbativa degli incanti e utilizzo di dati falsi” . Se fosse stata chiesta la certificazione alla prefettura questo appalto non sarebbe potuto andare a chi è stato invece assegnato. I contributi post-terremoto Altro tema toccato dalla prefettura e dal ministero dell’Interno, quello dei contributi. In particolare di quelli relativi alle ricostruzioni post-terremoto. C’è una commissione che se ne occupa, e l’ispezione prefettizia ha messo in evidenza che ad occuparsi di queste cose sono stati nel tempo molto spesso soggetti che non avevano la dovuta professionalità e che possedevano semmai altro genere di “requisiti” che in quel contesto sarebbero stati tenuti in maggiore considerazione, e cioè la frequentazione “con soggetti contigui ad ambienti mafiosi”. Per non parlare poi “dei conflitti di interesse” c’era chi faceva parte la commissione e nel frattempo era destinatario della liquidazione dei contributi.


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L'ultima lista di Sgarbi? “Concorso Esterno”

Speculazione in bella vista, si è cercato di camuffare ogni cosa intestando a terzi le proprietà destinatarie dei contributi, un assessore, Salvatore Angelo, nel 2011 è stato condannato per truffa aggravata. Contro il Comune le accuse anche di non avere vigilato sull’utilizzo dei contributi. Per essere chiari: nel periodo novembre 2008-settembre 2011 sono state liquidate 356 domande di contributo, solo per sei sono state attivate le procedure per rientrare in possesso delle somme, nel solo mese di agosto 2011, quando arrivarono gli ispettori prefettizi quell’ufficio che praticamente non aveva controllato nulla in quei soli 30 giorni risulta avere avviato 22 verifiche. I debiti fuori bilancio Altra smentita che arriva al sindaco Sgarbi è quella dei debiti fuori bilancio, non ce ne sono ebbe a dire e se ci sono, risultano di modesta entità, e invece agli atti c’è una intercettazione di un colloquio tra lui e l’on.Giammarinaro: c’era da sostituire un assessore e l’on.Giammarinaro fu sentito consigliarlo (ma non sarebbe stato un consiglio, ma quasi un ordine) di nominare un assessore che fosse espressione di una certa maggioranza di consiglieri così da avere garantita l’approvazione in Consiglio dei debiti fuori bilancio. Non è frutto di fantasia degli investigatori la circostanza che l’on.Pino Giam-

marinaro ha partecipato a riunione di Giunta. Anche questo è un passaggio della relazione del ministro Cancellieri: “è in questo modo che è stata esercitata l’influenza nelle decisioni amministrative e se non direttamente attraverso fidati personaggi….a casa dell’on.Giammarinaro furono scritti alcune parte di un bilancio di previsione”. “Autorizzati da Giammarinaro” Tra i casi che possono anche far sorridere quello di un assessore al Patrimonio (Bivona) che si era vista negare da Sgarbi l’autorizzazione a usare un locale comunale (l’asilo) per una festa di Natale e però lo spettacolo in quella scuola materna fu fatto lo stesso “con l’autorizzazione dell’on.Giammarinaro”. Tra gli altri casi che fanno sorridere meno quello della gestione dei beni confiscati: inerzia e condizionamento esercitato dall’on.Giammarinaro sono stati poste alla base del mancato utilizzo di alcuni beni, come i 70 ettari di terreno confiscato al narcotrafficante mafioso Totò Miceli, uomo di Matteo Messina Denaro. La relazione evidenzia come quel terreno stava per essere assegnato all’associazione Aias il cui titolare non è altro che un uomo del “sistema” affaristico impianto nella sanità dall’on.Giammarinaro, associazione che su altri versanti emerge come perennemente favorita dal Comune a proposito di elargizione di

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contributi pubblici. Quel terreno confiscato oggi resta inutilizzato e di recente l’agenzia nazionale dei beni confiscati ha revocato il possesso al Comune. Passaggio significativo di questa vicenda è quello che ad un certo punto in una intercettazione quando sembrava che il terreno potesse essere assegnato e ridiventare produttivo, assegnato a Slow Food che avrebbe voluto gestirlo assieme all’associazione Libera, il sindaco Sgarbi espresse nettamente la sua contrarietà, dicendo un chiaro “a quelli di don Ciotti no” e rivolto ad un assessore chiese: “Pino che ne pensa”. “No, a quelli di don Ciotti no” Sgarbi comunque ha deciso di non demordere, e rivolto a Napolitano, con estrema confidenza, gli ha scritto, “hai firmato un cumulo di menzogne”. Bugiardo non lui ma gli altri, come al solito. Scene già viste, purtroppo accade che c’è chi gli dà credito a Cefalù, dove si è candidato, non abbandonando la sfida, con una lista dal nome eloquente, “concorso esterno”, chiaro riferimento al concorso esterno in tema di mafia, altro terreno messo in discussione. Proprio dal Pd locale qualcuno ha messo in discussione una interrogazione parlamentare di altri deputati del Pd che chiedono al ministro di mettere fine alla sceneggiata “sgarbata”.


MAMMA

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Giancarlo Siani

Un giornalismo fatto di etica e passione

Tratto dalla grafic novel Giancarlo Siani (E lui che mi sorride)

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I L CONTASTORIE

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Satira

Come volevasi dimostrare dajackdaniel.blogspot.it/

«Ne è sicuro, Presidente?». «Sì, la soluzione per uscire dalla crisi è il teorema di Morganstaller Kreutzmann, con un parametro pari a 2,78». «2,78?»... di Jack Daniel

«Abbiamo rielaborato i dati ancora oggi pomeriggio, abbiamo impiegato computer particolarmente potenti». Il Presidente diede tempo ai Ministri seduti attorno al grande tavolo da riunioni di assimilare la notizia e, dopo aver loro rivolto uno sguardo, «Allora siamo d’accordo?». Ci furono muti cenni di assenso. «Bene, variamo la manovra». “Bene, variamo la manovra” Premette un pulsante alla sua destra e sugli schermi cominciarono a rincorrersi pagine che annunciavano le variazioni appena apportate: tassi di interesse che diminuivano, pensioni che calavano e si allungavano, salari e tredicesime che dimagrivano. Il deficit calava, l’Europa approvava. La Borsa saliva dello 0,12%. Sorrisero. Dal frigo bar furono estratte due bottiglie di Prosecco, con bicchieri di comune vetro. Brindarono, con sobrietà. Poi cominciarono ad apparire le ultime notizie d’agenzia. Una pensionata, a causa della testé approvata manovra si era vista ridurre l’assegno e si era buttata sotto il treno della metropolitana mentre

quattro fabbriche, sette imprese commerciali, sei cantieri edili e nove agenzie d’assicurazioni chiudevano simultaneamente nella provincia di Ragusa. I lavoratori licenziati cominciarono a bloccare la statale. Al vedere quelle notizie un grande Ministro lasciò il bicchiere e il Prosecco, riavvitò la stilografica (Montblanc, ovviamente), la infilò nel taschino, ripose le sue carte nella borsa di pelle pregiata, disse «Mi dissocio dalla manovra», si alzò e uscì dal Consiglio. L’Europa cominciò a nutrire dubbi. Le Borse cominciarono a nutrire forti dubbi. Un industriale brianzolo strozzato dai debiti, nel frattempo, fece harakiri con un coltello da macellaio nella piazza centrale della sua cittadina spargendo sangue a fiotti sul selciato. In base ad un corollario del teorema di Morganstaller Kreutzmann la vedova si vide recapitare una tassa sullo smaltimento di rifiuti organici maggiorata del 24,3% a causa degli oneri straordinari sopraggiunti. Due altri ministri, a questo punto, si dissociarono. L’Europa criticava. La Borsa perdeva. Un depravato, che però era stato anche lui Presidente, dichiarò che ai suoi tempi

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tutto questo non succedeva. Sugli schermi scorrevano immagini di manifestazioni. «Potete alzare l’audio? - chiese il Presidente a coloro che erano vicino allo schermo – non sento bene.». «Presidente, forse sarebbe il caso di abbassarlo». Le grida, infatti, provenivano dalla piazza. Ed erano via via più alte e distinte. “Sono quelli dei forconi?” Si alzarono, andarono vicino alle finestre. Non si riusciva a capire granché: fumo, confusione, qualche fiamma qua e là. «Sono quelli dei forconi?». «A dir la verità vedo pure asce, picconi, mazze ferrate. Anche qualche mattarello, laggiù sulla destra.» Un inserviente ritirò le bottiglie di Prosecco e se le portò di là, per finirle più tardi in santa pace. «Sapete – il Presidente parlò dopo un lungo silenzio – comincio a pensare che forse abbiamo commesso qualche errore». «Lei crede, Presidente?» «Sono del parere che forse dovevamo considerare un parametro non inferiore a 3,07».


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Elettrosmog

Come una bomba

ATOMICA

Ai cittadini di Cesano e delle zone limitrofe, insieme al messaggio evangelico, i ripetitori di Radio Vaticana diffondono onde elettromagnetiche responsabili di numerosi casi di leucemie, mielomi e linfomi. Un pericolo a cui sono esposti soprattutto i più piccoli: sotto i 14 anni la possibilità di ammalarsi è 6 volte superiore di Ruggero Delfini I Sicilianigiovani – pag. 59


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Un ragazzo del comitato "Bambini senza onde" durante una giornata di sensibilizzazione distribuisce volantini informativi sulla pericolositĂ delle antenne. Dodici anni fa il parroco di Cesano, don Giovanni, cominciava a parlare di elettrosmog nelle sue omelie

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Dal cimitero di S.Maria di Galeria un gruppo di antenne. L'indagine epidemiologica del 2010 condotta dal dott. Andrea Micheli, rivela un nesso tra le onde elettromagnetiche e i casi tumorali che si sono verifcati tra il 1998 e il 2004 nel raggio di 12 km dagli impianti

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Italia

A che punto siamo Stato sociale, humanitas, politiche dei consumi di Lidia Menapace Sembra straordinariamente difficile fare l'analisi della situazione. L'andamento della crisi (genericamente indicata così, senza ulteriori specificazioni) va come il tempo: una precoce primavera interrotta da un gelido ritorno d'inverno, il mercato l'unico vero dio che il tempo presente riconosce, sempre più capriccioso e arbitrario, sicché un modesto catechismo cattolico parrocchiale sembra la Critica della Ragion pura. A me pare che l'alienazione regni sovrana e viene accettata qualsiasi scusa detta con apparente sicumera. Probabilmente Monti è in buona fede, come lo era l'Avvocato Agnelli in un episodio che di lui si narra. Pare infatti che un giorno abbia voluto visitare Mirafiori (un luogo dal nome idilliaco) e ne sia uscito sconvolto dicendo:"Mirafiori è un inferno!". Non sembrava neanche che l'aveva fatto lui! Così Monti e la Fornero dichiarano che naturalmente il parlamento è sovrano, ma guai se si attenta a toccare la legge-delega che gli propongono. E se protesta la Marcegaglia, alla quale pare che il testo definitivo sulla riforma del mercato del lavoro approdato in aula, non sia così favorevole ai licenziament senza rimedio, che si aspettava, Monti le spiega tranquillamente che non capisce, stia calma , lui ha confezionato un testo che di fatto non consentirà di ripristinare alcun posto perso per ragioni economiche.

Si profila all'orizzonte un altro problema molto grande: siccome la vita umana si prolunga, oltre a obbligare tutti e tutte a lavorare più a lungo, se tutti e tutte campano troppo, non si può mantenere lo stato sociale. Penso che si aprirà un grande dibattito per decidere se bisognerà ricorrere ai metodi "naturali" di regolazione delle nascite, cioè guerre inondazioni epidemie catastrofi incidenti sia sul lavoro che da eccesso di velocità ubriachezza e simili. Oppure? Il sonno della ragione Qualcuno propone già di rivedere l'art.11Cost., così non ci sarà più da cercare motivazioni civili per giustificare partecipazioni ad imprese militari e belliche. Si rilanciano le religioni come freno alle speranze troppo alte e come radici del vivere associato: le radici cristiane d'Europa! E pensare che le radici sono la morte, se è vero, come è vero, che per nascere bisogna tagliare il cordone ombelicale e il non farlo significa morire. Può bastare per documentare che davvero "il sonno della ragione produce mostri". Dunque il compito più urgente è svegliarsi e svegliare la ragione, vincere paure e meschini orizzonti e correre l'avventura dell'alternativa allo stato delle cose presenti, per mutarle. Che strano: sono parole che si capiscono subito, che indicano una strada difficile, ma dotata di senso, capace di suscitare entusiasmi e impegni, di aprire la dimensione dell'universo e dispiegare le capacità umane intere. Gli alfabeti di tutti Per esempio: se la vita umana si allunga, si può allungare il tempo della scuola, rallentando anche i ritmi di apprendimento e imparando tutti gli alfabeti: non ha senso ed è anche contro l'art.3 Cost. preparare all' apprendistato chi è già destinato/a al lavoro manuale, alle mansioni più faticose e modeste: invece bisogna cogliere l'occa-

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sione di far approdare tutti e tutte alla più ampia conoscenza fornendo all'universo delle persone tutti gli alfabeti, per poter leggere l'universo, non più solo il vecchio leggere scrivere far di conto, ma anche fotografare cantare danzare comporre musica dipingere scolpire ecc.ecc. Troverà ciascuno e ciascuna l'alfabeto che gli è più congeniale e nel quale può eccellere: ma intanto conoscendo altrl alfabeti allargherà mirabilmenge l'arco della conoscenza e la dimesione del capire. Per fare ciò è utlle che la scuola duri più a lungo sicché poi tutti e tutte si affacceranno alla vita produttiva riproduttiva e relazionale con gli stessi livelli di capacità, lo stesso bagaglio di nozioni, la stessa voglia di capire. Niente F35, niente Tav, niente Ponte Prima di passare ad altri esempi, so di dover rispondere a una domanda che so impellente: "Ma se dobbiamo addirittura cancellare il Welfare e tornare all'assistenza pubblica per i poveri e al benessere privato per chi se lo può permettere? il fatto è che spendiamo in armamenti e in opere faraoniche e inutili un monte di risorse monetarie, che invece possono servire per alzare progressivamente i livelli di eguaglianza sociale e personale. Dunque niente F35, niente Tav, nè ponte sullo Stretto. Mi soffermo sul progetto Tav perché ha una apparenza di razionalità e progresso, miti cui la sinistra è incline. Il terreno, la terra non è una risorsa infinita, bensì è misurabile o almeno stimabile. Le risorse alimentari climatiche e abitative inerenti sono pure stimabili. Bisogna perciò commisurare l'impiego di terra ai limiti intrinseci del territorio e alle necessità della popolazione. Sono inoltre da considerare le conseguenze del mutamento climatico.È meglio usare bene i terreni vicini che consumare prodotti da lontano, con danno dei lavoratori/trici che li producono.


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Inter viste/ Giangualberto Pepi

Stragi di stato nel segno del gattopardo Parla l’avvocato dei fratelli Graviano

di Giorgio Bongiovanni Antimafia Duemila

Nei processi per le stragi del ’93 lei ha difeso i fratelli Graviano, ritiene che a commettere quelle stragi sia stata la mafia ed “altro”, o solo “altro”? Io penso che sia stato soprattutto “altro”, poi che vi possano essere stati a livello di esecutori anche alcuni soggetti collegati alla mafia è plausibile, ma io credo che l’idea di un interesse da parte di Graviano e Riina a fare queste stragi nel Continente sia una ipotesi assurda. Negli ultimi anni sono emerse importanti verità in merito alle indagini sulle stragi del ’92 grazie al nuovo collaboratore Gaspare Spatuzza. Qual è la sua opinione a riguardo? Quando c’è una situazione di crisi nazionale si verifica sempre un evento legato alla mafia. Nel ‘92-’93 c’era tangentopoli, c’era il passaggio fra prima e seconda Repubblica, ed ecco che si verificano quelle stragi di mafia. Poi si passa al governo Berlusconi che però dopo un po’ entra in crisi. Ecco allora che viene arrestato un capomafia (Leoluca Bagarella, ndr) e poi alcuni suoi sodali. Ultimamente ci troviamo nella crisi più totale ed ecco che si verificano altri arresti come quello del capo dei Casalesi.

Seguendo questo ragionamento io credo che, purtroppo, la verità sarà molto difficile da dimostrare perché questi dinamismi sono in gran parte dei “diversivi” dei poteri forti.

Lei comunque non esclude la “manovalanza” dei mafiosi nell’attuazione delle stragi. Non mi sento di escluderlo.

Ma quali sono questi poteri forti? Come ho detto nella mia arringa di 12 ore i poteri forti sono la massoneria, i servizi segreti, le forze deviate e politiche. Io sostengo che le stragi hanno come fondamento il discorso del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla.

Una “manovalanza” posta in essere in maniera consapevole o inconsapevole? Ma probabilmente quei mafiosi sono stati “contattati” da questi poteri forti. Ed è un dato di fatto che questi picciotti hanno già pagato con pesanti condanne.

Tra questi poteri forti c’è anche il Vaticano? Secondo me si. Guarda caso l’attentato alla struttura di San Giovanni in Laterano si verifica nella parte dove era ubicato lo Ior. Così come l’attentato al Velabro era un noto luogo dove si riuniva la congrega di San Giustiniano formata tra l’altro da ufficiali in congedo. Un esempio tipico di commistione di poteri forti lo si può riscontrare nell’attentato a Milano. Secondo l’accusa si doveva colpire il patrimonio artistico, ebbene nella capitale lombarda viene colpito il Pac (Padiglione Arte Contemporanea, ndr). Ma a Milano c’erano ben altri simboli come il Duomo o il teatro alla Scala... Bene, a due isolati dal Pac c’era la sede della nuova massoneria.

Tra i mafiosi che hanno messo le bombe nel Continente c’era anche Matteo Messina Denaro, l’attuale capo di Cosa Nostra. Si c’era anche lui, nessuno sa dove si trovi, ma nel momento che sarà funzionale al “sistema” verrà arrestato anche lui.

Cosa pensa delle dichiarazioni di Spatuzza relative alla presenza di un esponente dei Servizi al momento della preparazione dell’autobomba per via D’Amelio? Credo che su questo punto non abbia torto. Per non parlare poi del mistero della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Così come della “stranezza” dell’attentato a Maurizio Costanzo: quattro picciotti siciliani che vengono a Roma e guarda caso rubano una macchina che doveva servire per l’attentato che risulta essere riconducibile ai Servizi.

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La mafia “usata” nelle stragi? Si può dire quindi che la mafia è stata “usata” nelle stragi? Può essere che sia stata “usata” e comunque io escludo che i vertici della mafia come Riina e Graviano avessero interesse a compiere questi attentati. Lei comunque non esclude che questi boss avessero contatti con i poteri forti. Penso che la mafia abbia sempre avuto contatti con personalità di potere. La storia dei “rapporti” di uomini come Dell’Utri è alquanto significativa. Perché nel ‘99 nel processo per le stragi lei chiese di ascoltare Berlusconi e Dell’Utri? Di fatto dieci anni più tardi Spatuzza ha dichiarato: “Ho incontrato Giuseppe Graviano al Bar Doney e mi ha parlato di Berlusconi e Dell’Utri”. La mia tesi si basava sulla convinzione che in quel processo erano implicati tutti i poteri forti.


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“Se si aprisse l'archivio di Andreotti...”

L’intervista integrale sul n. 68 di Antimafia Duemila

Del resto chiesi non solo di sentire Berlusconi e Dell’Utri, ma anche Oscar Luigi Scalfaro. Ho sempre ritenuto che le bombe del ’93 fossero un avvertimento a lui o a poteri a lui collegati, in tal senso avevo chiesto di sentire ugualmente Carlo Azeglio Ciampi. E comunque non mi è stato possibile interrogare nessuno di costoro. Allo stesso modo è stata rigettata la mia richiesta di sentire Giorgio Napolitano e i vertici dei Servizi di allora. Non è vero quindi che i Servizi servono il Governo, servono bensì i poteri. Certo, servono i poteri e questo è storicamente dimostrato a cominciare dalla strage di Piazza Fontana. Cosa le ha riferito Giuseppe Graviano in merito alle stragi del ‘93? Graviano ha sempre sostenuto la sua estraneità nelle stragi. Un giorno mi disse: “Guardi avvocato io nella mia vita di errori ne posso anche aver fatti, ma con le stragi del nord non c’entro nulla”. Ma a parte questa risposta secondo lei Graviano sa bene come si sono svolti gli avvenimenti legati alle stragi? Secondo me si. E allora perché non lo dice? Perché non ha scelta. Ma potrebbe dare delle indicazioni importanti. Sicuramente, ma potrebbe temere ripercussioni sulla sua famiglia. Ripercussioni da parte di chi? Da parte di questi poteri forti di cui stiamo parlando. Lei ritiene che le stragi del ’93 abbiano un collegamento con le stragi del ’92?

Secondo me si. Per le stragi di Falcone e Borsellino ci sarà stata pure la mafia, ma sono concorsi anche altri elementi. Ora per la strage di Borsellino stanno emergendo i coinvolgimenti dei Servizi. E’ bene ricordarsi che in quel periodo Falcone si stava occupando di indagini relative a capitali provenienti dall’Est Europa e destinati all’Italia, quindi lo scenario che emerge è molto più ampio. Se dovesse morire Giulio Andreotti e fosse aperto il suo archivio penso che emergerebbero tanti di quei segreti che nemmeno possiamo immaginarci. Quindi anche le stragi di Capaci e Via D’Amelio sono eccidi organizzati dell’esterno di Cosa Nostra? Secondo me si. Le bombe del '93 L’obiettivo delle bombe del ‘93 riguardava prettamente la discesa di Berlusconi o altro? Una ipotesi poteva essere quella relativa alla discesa di Berlusconi. Il muro di Berlino cade nel 1989, dopodiché cadono le ideologie e si giunge fino all’attuale crisi politica gestita dalle banche e dalle multinazionali. E’ evidente che all’epoca ci fossero dei poteri che avessero interesse a far cambiare un certo tipo di Governo immettendo un soggetto come Berlusconi. Secondo lei quanto è influenzato questo Governo dai poteri forti? Basta guardare gli uomini che lo compongono: Monti, Passera ecc. Sono tutti uomini che non lavoreranno certamente a favore della povera gente. Ma lei crede che questo Governo sia stato scelto per evitare nuove bombe? E’ probabile.

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E quindi significa che Berlusconi ha dovuto cedere. Si. Berlusconi ha ceduto anche per un altro motivo. Si è reso conto, a livello internazionale, che lo stavano colpendo seriamente nelle sue imprese. Ma oggi c’è ancora il pericolo di nuove stragi? Se dovessero accadere gli autori sarebbero esclusivamente i Servizi. Ripeto, secondo me dalla caduta del muro di Berlino non ci sono più ideologie. Per tante stragi si sono serviti sia dalla destra che dalla sinistra. Le stragi fasciste e le stragi comuniste sono quindi servite ai poteri. Esattamente. Recentemente ho scritto un libro di memorie, in un capitolo sostanzialmente dico che rossi e neri si sono ammazzati fra di loro per far governare i bianchi, cioè i poteri. In queste storie di stragi che ruolo gioca l’America? L’America c’è sempre stata. Noi siamo un Paese a sovranità limitata. Dopo i conflitti mondiali noi siamo alla mercé degli americani, basti pensare alla tragedia del Cermis. Per quanto riguarda le stragi, il ruolo Servizi era assolutamente collegato non tanto alla Cia quanto invece al Mossad. Che scenari ipotizza per il futuro? A livello politico vedo un gran magma. Non vedo quale differenza ci sia tra il Pd e il Pdl. Sostanzialmente sono la stessa cosa, è una lotta di poltrone e basta. Questi grandi poteri hanno distrutto la gioventù dando loro falsi miti: la droga, il successo, il denaro e il sesso. Non c’è più un valore in Italia. Il pericolo per il potere è sempre stata la gioventù. E l’hanno fermata.


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Società

Addiopizzo: l'antimafia a scuola Incontro con un imprenditore che si è ribellato di Irene Di Nora Addiopizzo Catania

L’aula, fino a quel momento densa di chiacchiericcio, è affondata nel silenzio. E’ lì Rosario. E racconta la sua storia. Rosario Barchitta, imprenditore di Scordia, ha deciso anni fa di denunciare i suoi estorsori ed oggi si racconta ad alcuni studenti mostrando le sue fragilità, il suo orgoglio, la sua forza, il suo essere semplicemente uomo. Non gli piacciono le cattedre, ed ha deciso fin da subito di scendere fra i banchi, fra quei ragazzi un po’ scalmanati, dalle rapide ore divorate alla velocità distratta dei loro motorini.

Eppure, in quel momento, a quel racconto inusuale fatto di coraggio e dignità, anche il loro tempo s’è fermato, e il famelico quotidiano consumare è diventato insolito assaporare. Sono una trentina quei ragazzi. E non sanno chi sia Libero Grassi. La lotta alla mafia per loro è argomento da fiction o, di tanto in tanto, da manifestazione utile per bigiare un giorno di scuola. Non credevano che l’antimafia, quella mattina, avrebbe bussato alla porta delle loro classi raccontando con un linguaggio nuovo di volti sconosciuti. A diciassette anni le illusioni infantili si scontrano con una realtà non sempre facile, e le storie di quegl’uomini barbaramente trucidati per strada, fatti saltare in aria o assassinati davanti agli occhi dei loro cari, lasciano un senso di morte che sembra più forte di qualunque lotta, di qualunque sogno. La morte sembra aver vinto sulla vita, su quella solitaria battaglia per la quale quegl’uomini hanno perso tutto quel che possedevano. Mani grandi e sguardo fiero Ma un signore dai capelli bianchi, le mani grandi e lo sguardo fiero, si alza in piedi, si mischia fra loro, ed inizia a raccontare la sua storia: il perché abbia deciso di denunciare gli estorsori, di cosa significa farlo. Ed è come avere in aula Libero Grassi: lì, vivo, nella storia e nella forza di Barchitta. Ed è in quel momento che la vita ha la meglio sulla morte.

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Con semplicità e commozione Rosario racconta come sia possibile dir di no ai soprusi, alle prepotenze; di come il coraggio, con costanza e perseveranza, ripaghi sempre; di come sia importante sentirsi liberi e poter guardare in volto i propri figli senza vergognarsi, sentendosi, nella denuncia, migliore di ieri. Centosessantamila commercianti Nel nostro paese sono circa 160.000 i commercianti colpiti dal racket, fenomeno che riesce a muovere annualmente 9 miliardi di euro. Alla tradizionale richiesta estorsiva delle mafie si lega ormai il preoccupante aumento del reato d’usura che coinvolge circa 180.000 imprenditori per affari che oscillano intorno ai 35 miliardi di euro. Proprietario di una cava, il pizzo Barchitta lo pagava attraverso il gratuito prelievo del materiale da parte degli estorsori. «Quando tornavo a casa mi vergognavo a guardare mia moglie e i miei figli» racconta, «ho capito che denunciando avevo fatto la cosa giusta perché mi sono sentito nuovamente un uomo». Attraverso l’esempio Rosario abbatte muri e i luoghi comuni, ricostruisce i ponti con lo Stato andati distrutti dalla solitudine, dal disagio sociale, dalla sfiducia nella politica e nelle istituzioni. Non è sotto scorta, non ha perso la sua attività, eppure è riuscito a mettere in ginocchio i suoi estorsori.


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Dopo una prima denuncia, nel 2009 gli venne bruciato un escavatore immediatamente riacquistato con la solidarietà di 12 colleghi e successivamente risarcito dallo Stato grazie alla legge 44 del 1999, che prevede il risarcimento per i danni ricevuti sia agli strumenti di lavoro, sia per le perdite finanziarie subite durante la forzata cessata attività. Si può dire di no Rosario è la dimostrazione che si può alzare la testa, dir di no, e vivere senza il timore di morire, aver la possibilità di costruirsi una vita migliore scevra dalla schiavitù di ieri. Egli prova che la mafia non è invincibile e che con l’impegno, il lavoro, la coesione fra gli onesti, una realtà sociale più equa è già realtà. Quell’agognato cambiamento sociale,

impossibile per adolescenti abituati dalla cattiva politica a non chiedere nulla per sé, a non sperare, ad abbassare le proprie pretese, a immaginare il proprio futuro lontano dalla loro terra, è invece sotto i loro occhi. Se Libero Grassi venti anni fa veniva ucciso perché da solo combatteva la criminalità, oggi più di 800 imprenditori, commercianti e liberi professionisti, scrivono ogni giorno la loro lettera di ribellione al loro “caro estorsore” dichiarando pubblicamente che non intendono sottomettersi al ricatto mafioso. Quando Rosario termina di raccontare la sua storia lascia dietro di sé un silenzio denso di pensieri, e in ogni volto si legge incredulità mista a commozione. Spinti dalla speranza che qualcosa di diverso sia realmente possibile, quei ragazzi, in quell’incontro, hanno smesso d’essere bulimici spettatori per decidere di diventare unici autori della loro vita.

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Capiscono quale sia il loro pizzo ogni volta che, dietro pagamento, “l’amico” fa ritrovare il motorino rubato, quando lasciano una moneta al parcheggiatore abusivo, e comprendono che la mafia si nasconde nella raccomandazione, nella quotidiana mancanza di rispetto delle regole. La legalità comincia ora La legalità, per questi ragazzi, non è più solo un argomento per magistrati e scrittori, il futuro non è più un miraggio promesso in attesa del quale devono star buoni, ma quei ragazzi sono già chiamati a far le loro scelte d’onestà, il presente è in loro possesso, hanno l’opportunità immensa di cambiare la loro terra e a costruire, ogni giorno, che uomini e le donne che desiderano essere.


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Mafia/ La colonizzazione

Si comincia con slot e usura e poi si va avanti Milano. A venti chilometri dal Duomo, la 'ndrangheta ha messo in piedi un vero e proprio fortino, con guardie, sala-riunioni, uffici e organizzazione diffusa dappertutto di Ester Cassano Stampoantimafioso

La 'ndrangheta calabrese si impossessa della provincia milanese scegliendo come porto d'approdo i caffè, le osterie e gelaterie di paese. Succede a Cisliano, 4mila anime in quel che rimane del Parco Agricolo del Sud Ovest di Milano. Sono stati arrestati qui, nel corso degli ultimi due anni, a 20 km dalla Madonnina della guglia del Duomo, i componenti di un’importante struttura ‘ndranghetista: i Valle-Lampada.

Valle-Lampada è un clan attivo già dagli anni Settanta e rappresenta l'emblema della capacità delle cosche malavitose di rigenerarsi nonostante i provvedimenti della magistratura. Dopo i primi arresti per usura negli anni '80, il terreno fertile della provincia ha permesso ai Valle - Lampada di far rifiorire i propri affari. Partendo dalle slot machine. “Un modo facile per riciclare” E' il guidice Guido Salvini, consulente nel 2007 della Commissione Parlamentare Antimafia e oggi gip a Cremona, a far luce sul meccanismo: "Le slot machine sono un modo facile per riciclare e guadagnare denaro, e nel contempo controllare un esercizio pubblico. Molto spesso chi gestisce un bar è obbligato da strutture criminali a collocare nel proprio negozio apparecchi e macchinette d'azzardo. Ed è un settore in cui la ‘ndrangheta ha trovato un meccanismo semplice e veloce per spostare i soldi derivati dall’illecito e di farli fruttare ancor più rapidamente. Il clan Valle - Lampada a Cisliano aveva un vero e proprio fortino: una masseria che ricalcava quelle di certe regioni meridionali con tanto di guardie, ristorante per le riunioni, abitazioni per i vari componenti della famiglia e uffici per le loro società.

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L’attività primaria di questa organizzazione era l’usura in danno a commercianti e imprenditori in Ma come venivano utilizzati i soldi dell’usura? I Valle - Lampada hanno individuato proprio nelle slot machine la possibilità di immediati guadagni, costituendo società dai nomi molto accattivanti tanto da piacere ai bambini come la 'Peppone Giochi'. Il meccanismo - spiega Salvini - è semplice: gli affiliati del clan collocano macchinette negli esercizi pubblici e impongono la sistemazione di questi apparecchi nei luoghi controllati dall’organizzazione. Ciò consente agli 'ndranghetisti sia di fare gli esattori delle somme incassate dagli esercenti, che di raddoppiare il fenomeno del racket controllando il locale stesso e, quindi, di impossessarsi del territorio a partire dal gioco d'azzardo". “Meglio in galera che contro i Valle” E parlando del potere di questo clan, è passata alla storia la frase di Antonio Chiriaco, ex direttore sanitario della Asl di Pavia sotto processo oggi per l'indagine Infinito: "Tra i Valle e la magistratura - affermò Chiriaco alle autorità giudiziarie - preferisco avere dietro le spalle la magistratura; è chiaro che ad un certo punto preferivo una condanna piuttosto che avere i Valle dietro le spalle".


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“Si aggrediscono i gestori e si picchia chi non paga”

Anche l'estorsione in danno a locali pubblici è un meccanismo che al Nord si sta espandendo sempre più: le cosche cercano di raggiungere le zone ancora vergini mediante l'usura e il racket. "La tecnica - dichiara Salvini - è quella classica della minaccia mafiosa: si aggrediscono i gestori e chi non paga lo si chiude nel locale per picchiarlo cercando di convincerlo con la violenza a cedere l'esercizio". Non resta che chiedersi: ci sono delle zone immuni? Dalle inchieste degli ultimi due anni Bad Boys e Infinito emerge che di Milano e del suo hinterland poco o nulla si salva. Ci sono ancora zone immuni? Persino i più piccoli centri urbani della provincia milanese sono finiti nelle carte della Direzione Nazionale Antimafia: chi nominato nelle sociolinguisticamente interessanti intercettazioni telefoniche e ambientali, chi vittima di collusione vera e propria fra mondo legale e mondo illegale. E il resto della Lombardia non si trova in condizioni migliori. Salvini, che in questi due anni da

Milano è passato a lavorare come gip a Cremona, racconta come anche nella lombardissima 'città del torrone' bagnata dal fiume Po stiano cominciando ad emergere segnali riconducibili al fenomeno malavitoso. Fatture false "Cremona non presenta dei gruppi organizzati che al momento possono essere identificati come “locali” o “famiglie” della ‘ndrangheta, però anche qui si intravedono fenomeni che costituiscono veri e propri companelli d'allarme. Ad esempio recentemente un grande imprenditore del settore della ristrutturazione e dell’edilizia ha notato fatture per un milione di euro emesse da artigiani e piccole ditte che ufficialmente gli fornivano prodotti e manodopera per la realizzazione di opere. Questo imprenditore si è accorto che le fatture erano false: servivano

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semplicemente per aumentare il passivo e abbattere l’attivo, con lo scopo per le piccole società e ditte artigiane di ottenere un vantaggio fiscale enorme. Si tratta già dell’inizio della collusione: abbiamo infatti scoperto che tutte queste società appartengono a soggetti calabresi di una determinata zona che non operavano ma semplicemente producevano fatture". Assorbendo l'attività legale Un segnale ben visibile di come i due mondi - quello legale e quello illegale - siano in grado di avvicinarsi. E se inizialmente ciò che il commerciante comune potrebbe intravedere è un vantaggio reciproco, ben presto emerge l'obiettivo finale del mondo illegale: quello di succhiare ed impadronirsi dell’attività legale, assorbendola.


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Bologna

Fra mafie e antimafia Casalesi, ‘ndranghetisti, russi, cinesi, rumeni, albanesi, nigeriani… Bologna oramai da diversi anni ospita le diverse mafie “nostrane”, quelle con la doc Italia e le molteplici mafie straniere. di Salvo Ognibene

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E’ passato più di mezzo secolo da quando la mafia entrò in questa regione, in punta di piedi, da “sorvegliata speciale”. Mafia che è cambiata, mafia che si è adattata alla pelle di questa città. Poco, ma non troppo, rumore e tanti affari. Le diverse mafie presenti sul territorio hanno raggiunto degli accordi tali da spartirsi affari e territorio senza pestarsi i piedi.

In uno degli ultimi rapporti di SosImpresa Confesercenti emerge che il 5% dei Commercianti bolognesi è sottoposto a pizzo, non mancano le intimidazioni e gli attentati incendiari che per molti si chiamano autocombustione. Uno su venti sotto pizzo Abbiamo assistito nell’ultimo anno a diversi arresti ed a molteplici operazioni delle Forze dell’Ordine. La regione ha varato un paio di leggi in materia ed il Comune lavora alla costituzione di un Osservatorio. 20 beni e 18 aziende confiscate. “La lotta alla mafia dev'essere innanzitutto un movimento culturale” diceva Paolo Borsellino, l’antimafia giudiziaria allora non basta per contrastare il fenomeno criminale, è necessaria un’antimafia sociale anche a Bologna, dove le mafie sono d’importazione. Parafrasando potremmo dire che le mafie si contrastano nelle “aule”, da quelle bunker e quelle universitarie, anche a Bologna. Un corso di antimafia Così a Giurisprudenza, nell’Università più vecchia d’Europa è nato un corso vero e proprio, “mafie e Antimafia”, della Prof.ssa Stefania Pellegrini. Un insegnamento a scelta dello studente, un corso di 48 h diviso in due parti. Nella prima parte viene affrontato il fenomeno dal punto di vista storico, nella seconda gli

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studenti incontrano testimoni illustri della lotta alla criminalità organizzata, giudiziaria e sociale. Per tutta la durata del corso l’aula straripa di studenti che seguono con un’attenzione altissima. In questo percorso ci siamo inseriti anche noi con Diecieventicinque, un giornale on-line che prova a raccontare la realtà avendo come strumento principale l’informazione e come obiettivo ultimo l’informazione stessa. Un nuovo giornale a Bologna Tra le diverse erealtà presenti sul territorio si distingue l’associazione “Rete NoName - Antimafia in movimento”, nata quattro anni fa qui a Bologna e che, in collaborazione con la cattedra di “mafie e Antimafia” , studenti e altri sta lavorando ad un nuovo dossier sulle mafie in Regione che sarà presentato il 9 maggio, giorno del 34esimo anniversario della morte di Peppino Impastato. Una rete, una piccola rete che crede fermamente che il cancro mafioso debba essere estirpato e non gli si debba concedere la possibilità di crescere ancora, soprattutto con le nuove generazioni. Cari bolognesi, aprite gli occhi che di guai ne abbiamo fin troppi.


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Politica

Dove finisce la mafia Dove comincia la lega La finanza occulta del cassiere leghista

di Roberto Rossi Azione nonviolenta La bufera che si è scatenata nella Lega Nord a seguito delle indagini condotte dai magistrati di Reggio Calabria, di Napoli e di Milano – cui si aggiungono mentre scrivo tre filoni anche a Reggio Emilia, Bologna e Genova – dice due cose importanti sul tema del rapporto tra mafia e politica nel nostro paese. Prima cosa, se non era abbastanza chiaro, la Lega c’è dentro fino al collo. Ora si può dire, senza timore di smentita, dati i chiari collegamenti tra uomini della ‘ndrangheta ed esponenti del partito di Umberto Bossi. Secondo – segno di un cambiamento ormai consolidato nei rapporti tra le due forme di potere, mafia e partiti – non si tratta più solo di un legame basato sullo scambio (tu mi procuri i voti necessari alla mia elezione, io ti procuro appalti, prebende e ti garantisco impunità), ma di una relazione saldata dal comune interesse a occultare e riciclare capitali. Per essere chiari, stando a quanto sta emergendo, la scandalosa quantità e qualità (denaro facilmente reimpiegabile) di finanziamento pubblico ha creato nei partiti la necessità di gestire enormi capitali. C’è chi, come nel caso Lusi, si è affidato “ingenuamente” – volendo credere al leader dell’ex Margherita Francesco Rutelli – a tesorieri ladroni che hanno in-

tascato milioni di euro senza colpo ferire. C’è chi, come emerge dall’inchiesta del pm reggino Giuseppe Lombardo sulle cointeressenze tra Lega e ‘ndrangheta, si sarebbe affidato ai broker della criminalità organizzata per gestire il rimborso elettorale. Probabilmente assieme alla criminalità organizzata. L’inchiesta parte a Reggio Calabria nel 2009, la Dda indaga sulle operazioni di riciclaggio del clan reggino dei De Stefano, uno dei più potenti, “vincitore” di quella guerra di mafia che nei primi anni novanta ha messo a terra quasi mille morti. La testa di ponte al Nord è il boss Paolo Martino. I capitali della ‘ndrangheta sono ingentissimi: «Sappiamo bene che il giro di affari delle mafie ammonta nel 2011 a 138 miliardi di euro – ha dichiarato a commento dell’inchiesta il pm Lombardo – è chiaro che quei proventi devono essere in qualche modo ripuliti per essere ricollocati nel mercato». Soldi “ricollogati” Una parte di questi denari è “ricollocata” grazie a Romolo Girardelli, finito sotto inchiesta nel 2002 con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso assieme al boss Martino per «aver messo a disposizione dei clan le sue competenze finalizzate alla monetizzazione di “strumenti finanziari atipici” di illecita provenienza». Un procacciatore di affari della famiglia De Stefano, insomma, per la quale avrebbe anche espatriato capitali. Lo stesso lavoro (Tanzania e Cipro) Romolo Girardelli avrebbe fatto per la Lega, il cui tesoriere Francesco Belsito – uomo intorno al quale gira l’inchiesta sulla Lega – è da almeno un decennio in affari col figlio di Girardelli, Alex, assieme al quale ha dato vita ad una società immobiliare a Genova.

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Nel giro di finanza occulta del cassiere leghista, ci sarebbero anche l’imprenditore veneto Sergio Bonet e l’avvocato Bruno Mafrici, nominato consulente della commissione parlamentare per la Semplificazione normativa proprio grazie a Belsito, e fotografato dai Ros nel centro di Milano assieme a un imprenditore calabrese e al già citato boss ‘ndranghetista Paolo Martino. Una chiara vicinanza Ai primi di aprile è ancora presto per stabilire con certezza se la chiara vicinanza tra uomini della Lega e affaristi mafiosi abbia portato a una comune gestione di capitali, provenienti dal narcotraffico da parte ‘ndranghetista, e dai rimborsi elettorali da parte leghista. Ma le recenti perquisizioni, una delle quali ha riguardato la segreteria nazionale della Lega in via Bellerio, hanno messo a disposizione dei magistrati antimafia una gran mole di reperti che li fanno essere fiduciosi su un esito dell’inchiesta in questa direzione. In questo caso, il cambiamento dei rapporti tra mafia e partiti che emergerebbe sarebbe di grande portata, frutto di un mutamento più generale intervenuto in ambito economico e politico. Oltre che la prova definitiva di una trasformazione del ruolo dei partiti all’interno della democrazia (da rappresentante di interessi di una parte di cittadini a holding politica-affaristico-finanziaria), il caso Lega aprirebbe nuove prospettive di interpretazione sulla natura del sistema mafioso, da sempre costruito sui comuni interessi di killer, imprenditori e politici, ma che oggi si presenterebbe più strettamente intrecciato, oltre che da ragioni di scambio elettorale, soprattutto da criminali operazioni finanziarie.


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Lavoro

La vita tossica di noi restauratori Lavorano sui ponteggi, non hanno quasi mai protezioni, respirano solventi e si ammalano presto. Il novanta per cento sono donne di Gaia Bozza Napoli Monitor

Il 90 per cento dei lavoratori nel settore è donna, circa il 50 per cento ha meno di quarant’anni. Le protezioni sono spesso un optional: te le devi procurare tu, e se te le dà l’azienda, poi è cura tua utilizzarle. Se non lo fai, nessuno ti controlla. Le pessime condizioni lavorative sono l’altra faccia della medaglia: (finti) contratti a progetto, (finte) partite Iva, lavoro nero sono le tipologie di impiego più diffuse e amate dalle ditte. Certo, a voler scegliere c’è anche il finto contratto a termine, nel quale però viene stabilita sottobanco una retribuzione inferiore e il lavoratore non usufruisce né di ferie, né di congedo per malattia, né di liquidazione. C’è poi il problema del riconoscimento professionale: ancora manca un quadro normativo coerente che regoli la professione. Poche vie di fuga

Secondo i dati della Fillea Cgil, il mestiere di restauratore e di collaboratore-restauratore è ad alto rischio per la salute e l’incolumità fisica. Si svolge nei cantieri, sui ponteggi, in qualsiasi stagione dell’anno. E poi ci sono i solventi utilizzati: molti sono stati vietati, ma vengono utilizzati ugualmente. Però anche quelli consentiti sono quasi tutti altamente tossici: acido acetico, acetone, ammoniaca, formaldeide, acido formico, toluene, tricloroetano, cilene. I rischi: problemi alle articolazioni, allergie, tumori, infertilità.

Il quadro delineato da Giovanni Sannino, segretario della Fillea Cgil Campania, lascia poche vie di fuga. A quanto pare, le regole sono poche e quelle che esistono. “Non vengono assolutamente rispettate – spiega - Ad esempio, un’azienda di restauro deve avere obbligatoriamente determinate figure di restauratori, di collaboratori senza le quali non si potrebbe accedere a lavori né conferiti a trattativa privata né su evidenza pubblica. Ci sono invece molti casi in cui imprese edilizie che si professano di restauro, ma anche aziende specializzate in restauro non hanno questi requisiti. E impiegano lavo-

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ratori attraverso i contratti più disparati: mai a tempo indeterminato, pochissimi casi di contratto a tempo determinato, spesso contratti a progetto mascherati. E lavoro nero”. Ci sono anche i numeri: il 35 per cento dei contratti, secondo una delle ultime rilevazioni del sindacato, è di collaborazione continuativa, mentre solo il 15 per cento del campione intervistato è assunto a tempo indeterminato col rispetto del contratto nazionale. Facile comprendere come la sicurezza diventi un optional. Un po’ è colpa del sistema degli appalti, spiega senza giri di parole Sannino: le Soprintendenze “invitano alle gare solo ditte e imprese di restauro di fiducia”. E poi le norme di sicurezza costano, dicono in molti, anche tra quelli che vincono appalti pubblici. E la Soprintendenza, intanto, che fa? A questo punto, mi sono detta, queste cose le voglio sentire da chi le ha vissute. “Lo sapevano tutti” “Tutti sapevano che stavo a nero, che stavamo a nero. Ho lavorato alla reggia di Caserta, che è pure sede della Soprintendenza. Lì per non tenerti a nero ti facevano il contratto a progetto finto. Cioè: risultavi un collaboratore a progetto ma invece eri un dipendente a tutti gli effetti, con orari e obblighi da dipendente”. Melina ora non vive più a Napoli, se n’è andata perché finalmente è riuscita a prendere una supplenza e a lasciare quella che per tanti anni è stata la sua amara passione: il restauro pittorico.


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“Proprio alla Reggia di Caserta, nel 2002, ho subìto un incidente”. Da allora Melina ha protusioni a livello cervicale, perché ha battuto la testa. “In seguito ho deciso di lasciare gradualmente. Ho problemi alle braccia, non ce la faccio a portare pesi”. Ma dove sei caduta? “Stavo sul ponteggio, che presentava una fessura. Ci sono finita dentro con tutta la coscia, mi sono piegata e ho battuto la testa. Ed era nella reggia, dove si suppone che un ponteggio sia in regola. Non solo non lo era, ma ci avevano messo un telo sopra che rendeva il buco non visibile”. Alla fine Melina ha detto di essere caduta sul pavimento, e non sotto la volta, dove era per un restauro. Però il collare l’ha portato, è stata a casa e con il contratto a progetto l’Inail risarcisce un forfait: su 1100 euro medi di retribuzione, ne riconosce al massimo 700. Ma i dispositivi di sicurezza, almeno, ce le avevi? “Zero protezioni” “Zero, zero protezioni”. E sbotta in una risata nervosa. Brutta storia, ma pare che il peggio sia arrivato dopo, “quando è arrivata l’edilizia nel restauro. I tempi di lavoro si sono ristretti e i materiali sono più scadenti”. Nel 2007, Melina viene contattata per un lavoro: questa volta in nero, ancora nella reggia di Caserta. “Mi è stato detto che erano state fatte le prove con un solvente cancerogeno e

vietato perché, secondo loro, era l’unico che funzionava bene. In quel caso non ho accettato, ma di sicuro qualcun altro lo avrà fatto. Qui lavorano per pochi soldi, con materiali nocivi per la salute ma anche per l’opera. Ormai si usa di tutto per risparmiare”. “Dovevo pensare io alla sicurezza” “Io ho sempre lavorato in cantiere, e spesso non sto bene dopo aver usato qualche solvente tipo acetone, anche se uso la maschera e altre cose. Per un periodo mi veniva la febbre. Ma poi penso, troppe cose insieme: l’ambiente freddo e umido, i solventi, la polvere. Ora ho diversi problemi: dal tunnel carpale all’artrosi alle anche”. Silvia ha l’atteggiamento forte e disincantato di chi ne ha viste tante. Anche se è giovane, ha iniziato a lavorare presto. E ha visto, negli anni, peggiorare la sua situazione: “Ho iniziato con un contratto a tempo indeterminato – racconta - e mano a mano le cose sono andate sempre peggio: contratto a progetto, contratti a tempo indeterminato “finti”. Ora prendo lo stesso stipendio che prendevo quando ho iniziato”. E come funzionano, i contratti a tempo indeterminato “finto”? “Funziona che uno dovrebbe fare una vertenza. Ti contattano e concordano un’altra retribuzione: senza ferie, malattia, liquidazione. Per esempio, io non ho mai preso più di mille euro. Mi sembra che quando è capitato a me era un appalto pubblico, o forse direttamente la curia,

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il committente”. I dispositivi di sicurezza? “Dove lavoro ora me le hanno comprati. Ma in passato ho dovuto procurarmi le scarpe antinfortunistiche da sola”. Stefania: mi dicevano di bere il latte dopo aver usato i solventi tossici, ma non serviva a niente “Mi dicevano di bere il latte...” I rischi c’erano e ci sono ancora. Ma “con la maturità ho sviluppato un po’ di attenzione. Se pulisco metto la maschera, cambio i filtri, cerco il più possibile di mettere i guanti. Sai, a volte siamo anche noi che prendiamo sotto gamba i pericoli”. L’atteggiamento di Stefania è cambiato quando ha “subìto un’operazione alla gola per una discheratosi alla corda vocale. I medici mi dissero che una delle cause possibili era l’uso prolungato dei solventi”. Stefania, però, si ritiene fortunata: “Un collega che conoscevo è morto qualche anno fa per un tumore alla vescica, che è una delle malattie che può colpire un restauratore”. Le cose però sono migliorate, qualche solvente è stato vietato. Fino alla fine degli anni Novanta dicevano spesso ai restauratori di bere il latte, dopo le puliture. Per la cronaca: era lo stesso consiglio che davano anche all’Eternit, dove si produce l’amianto.


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Storia

Accursio Miraglia e l'antimafia rossa Un giorno del settembre 1946 migliaia di contadini siciliani occuparono le terre incolte. Li guidava Miraglia. I mafiosi lo uccisero pochi mesi dopo di Elio Camilleri

Sia che ci fosse il Duce e la Monarchia o gli Americani e poi i nuovi governanti e la Repubblica visse queste diverse situazioni storiche non dimenticando mai che la sua storia doveva essere quella di aiutare i deboli e gli sfruttati, gli esclusi e i disgraziati, di colpire, inevitabilmente, gli interessi e i privilegi dei forti e dei padroni di sempre. Diplomatosi ragioniere, trovò subito lavoro in banca presso il Credito Italiano di Catania; dopo un anno fu trasferito a Milano e qui entrò in contatto con il gruppo anarchico di Porta Ticinese e svolse un’intensa attività politica e sindacale schierandosi apertamente a fianco degli operai in lotta e, inevitabilmente, fu licenziato “per contrasti di natura politica”. Tornò a Sciacca e si diede da fare nell’attività della conservazione del pesce e del commerciò del ferro e dei metalli in genere.

Era riuscito ad allontanare e ad abbandonare lo stato di difficoltà che, talvolta, aveva avvertito da bambino e sembrava desiderasse fortemente che quello stato d’indigenza non dovesse essere sofferto da nessuno. Padre Michele Arena trovò sempre in Accursio Miraglia un formidabile sostegno nella ristrutturazione di una parte dell’orfanotrofio. Puntualmente garantì il rifornimento di beni di prima necessità per tutte le orfanelle del “Boccone del povero”. Fu nominato amministratore del teatro “Mariano Rossi” e in questa veste il destino volle che incontrasse Tatiana Klimenco, la donna della sua vita. Di famiglia aristocratica russa imparentata con lo zar, costretta a cedere tutte le proprietà, a vendere agli inglesi i gioielli pur di mettersi in salvo. I fuoriusciti giunsero in Italia trovarono il modo di tirare a campare formando una compagnia di avanspettacolo con musiche e danze russe da portare in giro nei teatri italiani. La prima Camera del Lavoro Agli inizi degli anni trenta la compagnia si esibì al teatro Massimo di Palermo. “Mio padre andò a Palermo, vide questa compagnia, vide pure mia madre e scritturò la compagnia per farla venire a Sciacca. E quando vennero a Sciacca “sequestrò” mia madre e non la fece più tornare con la compagnia. S’innamorarono l’uno dell’altra e così mia madre e mia nonna si fermarono qui”. (Intervista a Nico Miraglia. Ebano, 2005) Allo scoppio della seconda guerra mon-

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diale Accursio Miraglia si adoperò per alleviare le difficoltà di tutti; non disdegnò di fornire di nascosto agli artigiani quei materiali ferrosi e metallici in genere che, a causa della guerra, venivano rigorosamente requisiti. Quando arrivarono gli Alleati Accursio approdò al Partito comunista e alla Confederazione Generale del Lavoro, istituendo a Sciacca la prima Camera del Lavoro della Sicilia ed il CLN locale. Contro i latifondisti Entrò in rotta di collisione con i latifondisti che boicottavano l’ammasso del grano e allora Accursio non fu più il buon benefattore dei poveri, ma il nemico da abbattere. Ecco, allora, che si capisce bene la frase “Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio” tratta dal romanzo “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway che Accursio ricordava sempre a se stesso e agli altri. Ecco, allora, la liturgia delle minacce, delle intimidazioni e dei consigli più o meno interessati a farsi da parte, a lasciar correre, a pensare, piuttosto, alla famiglia. Accursio Miraglia visse questo scontro in maniera totale, anche come membro della Commissione per l’individuazione delle terre da assegnare ai contadini a prescindere dalla loro appartenenza politica. Il figlio di Accursio mi ha raccontato che a un contadino comunista che si lamentava del fatto che al sorteggio avrebbe pure partecipato un contadino fascista, rispose che non importava in quel momento essere comunisti o fascisti, ma semplicemente e ugualmente contadini.


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“Sulla strage di Portella fascicoli ancora secretati”

SCHEGGE

LA PARTIGIANA GRAZIELLA Numerosi cittadini catanesi parteciparono alla Resistenza, i più fortunati tornarono e raccontarono ai familiari l’incredibile, drammatica ed esaltante avventura della Liberazione. Tanti altri non tornarono e a noi tocca il dovere della Memoria, l’obbligo di non dimenticare. Tra gli altri, Graziella Giuffrida, volontaria nelle Squadre di Azione Partigiana. Era nata a Catania, a S. Cristoforo, nel 1924; appena ventenne emigrò al nord a fare la “maestrina” dalle parti di Genova. La primavera del 1945 era appena cominciata, ma per Graziella il 24 marzo sarebbe stato l’ultimo giorno e non solo di primavera. Tutto accadde quasi per caso: per caso lei prese quel tram, per caso su quel tram c’erano dei tedeschi. Lei bella e giovane, loro stronzi e basta cominciarono ad importunarla e lei reagì e loro, stronzi e vigliacchi, le misero le mani addosso e addosso le trovarono una pistola. Un momento particolarmente significativo della lotta per l’assegnazione delle terre fu, nel settembre 1946, la cavalcata cui parteciparono circa diecimila contadini. “Prima di allora, manifestazioni simili non se ne erano mai viste, né in provincia di Agrigento, né altrove, e anche in seguito non ce ne furono altre che l’eguagliassero per imponenza e ordine, fatta eccezione per quel paio di

Gli stronzi e vigliacchi l’arrestarono e la torturarono e la violentarono e poi gli stronzi e vigliacchi e, ora anche assassini, l’ammazzarono e la buttarono in un fosso. Il suo corpo e quello di altri quattro giovani partigiani furono ritrovati a Fegino, in val Polcevera, qualche giorno dopo la Liberazione. Anche suo fratello Salvatore fu preso ed ammazzato dai tedeschi e a Catania, a casa rimase la madre che, avendo saputo della tragica fine di Graziella e Salvatore, impazzì dal dolore. Sul fronte di una casa da molti anni ormai senza vita, tra via Bellia e piazza Machiavelli, resta una lapide “Alla libertà e alla patria offrì la giovane esistenza nella guerra di Liberazione”. Vorrei sapere come e perché i nostri Amministratori ancora non abbiano pensato d’intitolare a Graziella e Salvatore Giuffrida una via o una piazza. Risulta dalla testimonianza di Domenico Stimolo che nel gennaio 2003 furono consegnate all’Amministrazione comunale 5000 firma per intitolare tre vie a tre martiri della Resistenza, tra cui Graziella Giuffrida. E allora? grandi e straordinarie manifestazioni effettuate a Palermo con la presenza di contadini venuti con ogni mezzo da tutta la Sicilia”. (Renda, Storia della Sicilia. Sellerio. Palermo. 1999) La seconda cavalcata fu organizzata da Miraglia per occupare le terre del feudo Santa Maria e ancora una volta fu una festa per tutti quelli che parteciparono: a cavallo, con carretti, biciclette o anche a

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piedi si mossero in più di 1.500 cantando i versi della tradizione proletaria e bracciantile; non conoscevano neanche bene i particolari di quello che avrebbero dovuto fare, ma erano profondamente convinti che qualcosa di nuovo sarebbe arrivato. In effetti, Accursio Miraglia riuscì ad ottenere l’assegnazione di ampi appezzamenti di terra alla cooperativa “La Madre Terra” ed erano terre, fra l’altro, non del tutto scadenti. Sotto il fuoco mafioso La cooperativa, le cavalcate, i successi che con tanta determinazione e fatica si erano conseguiti, resero il conflitto con gli agrari definitivamente irresolubile. Il 21 dicembre 1946 il Segretario della Camera del Lavoro di Baucina Nicola Azoti era caduto sotto il fuoco mafioso e dopo due giorni morì e Accursio Miraglia avvertì su di sé l’incombere di un destino terribile e non fece nulla per sottrarvisi. Nel suo ultimo comizio: “ La forza dell'uomo civile è la legge, la forza del bruto e del mafioso è la violenza fisica e morale”. La sera del 4 gennaio 1947 Accursio Miraglia morì ammazzato sulla porta di casa tra le braccia di Tatiana, impazzita dalla disperazione. La verità giudiziaria su mandanti ed esecutori fu praticamente impedita, quella storica attende ancora di essere chiarita e si aspetta la desecretazione dei fascicoli sulla strage di Portella della Ginestra. per una contestualizzazione chiara e articolata.


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Lirica/ Emma Dante

Va in scena la rivoluzione Come si esprime una donna muta protagonista di un'opera lirica? La regista Emma Dante ha pensato che la sua Fenella, personaggio principale de La Muette de Portici, all'Opéra Comique di Parigi dal 5 aprile, debba parlare attraverso una sciarpa rossa di Chiara Zappalà

Troppo semplice per lo spettatore pensarla come fil rouge che dà unità ai cinque atti di quest'opera dalla struttura complessa. E in verità sono tanti i simboli ne La Muette de Portici di Emma Dante.

“Nel libretto originale ci sono milioni di ambienti – spiega la regista seduta in platea dell'incantevole sala fine-ottocentesca del teatro parigino, durante la pausa delle prove – si passa dal mare al giardino del palazzo reale, e poi si va al Vesuvio: questi numerosi cambi di scenografia sono difficili da rappresentare a teatro. Quindi ho scelto di lavorare sul simbolismo attraverso certi elementi, come per esempio le porte della città. Queste rappresentano un dentro e un fuori, la gente le attraversa e porta con sé i propri sentimenti, la propria storia. Dietro queste porte si nascondono le cose intime, i segreti. È il dentro e il fuori nella rivoluzione di Masaniello, ed è il dentro e il fuori nella dominazione degli Spagnoli che si installano nella città e ne rubano la cultura”. E infatti è proprio la rivoluzione che La Muette de Portici racconta. Una rivoluzione scatenata fortuitamente dall'ingenua e povera Fenella. La muta viene sedotta da Alphonse, il figlio del viceré, che sposerà poi la ricca principessa Elvire. E contro questa offesa alla donna, intesa come offesa al popolo tutto, sarà Masaniello, fratello di Fenella ferito nell'orgoglio, a invocare la rivolta degli umili. Questa è la storia che ha affascinato Emma Dante. “E' il richiamo alla dignità dell'uomo – racconta la regista siciliana – all'indignazione nei confronti di un potere che opprime, che distrugge, che ruba la cultura di un popolo”. Quella in scena nel teatro di Emma

I Sicilianigiovani – pag. 78

Dante è una nobiltà imbambolata, immobile, senza vita come le bambole, appunto. E infatti, non a caso, nel primo atto, quello in cui la costumista Vanessa Sannino ha fatto un lavoro eccezionale, i soldati ballano con quattro bambole e le donne sono spogliate di una buona parte del loro abito e ostentano solo lo scheletro della crinolina. “Questa nobiltà – continua Dante – sarà contrastata dalla povertà che è il mondo di Masaniello, ovvero il mondo della vitalità, o anche il mondo dei valori, della morale che l'altra categoria ha perso perché si è installata in un mondo che non gli appartiene e a cui sta rubando tutto”. Ritorno alla lirica Dopo la Carmen alla Scala di Milano nel 2010, Emma Dante, regista di teatro sperimentale, torna quindi alla lirica con La Muette de Portici e lo fa in un teatro che ama la sperimentazione, l'Opéra Comique. È comunque una sfida per una regista che spinge quasi fino all'impossibile le richieste ai suoi attori. Emma Dante li maltratta e loro amano farsi maltrattare. Per la Muette gliene sono arrivati alcuni dalla Francia. Il gruppo di attori dell'opera è infatti composto da alcuni dei suoi fedeli stabili a Palermo e da un gruppo di francesi che lei ha cominciato a conoscere la scorsa estate, durante due laboratori nel capoluogo siciliano.


www.isiciliani.it Foto di Carmine Maringola

Il risultato è una equipe già affiatata, che nel passaggio della tarantella al mercato, ad esempio, riesce a mettere in scena una danza per certi versi improvvisata, in cui la coreografia non è un imperativo, come Emma Dante comanda.

cando l'indipendenza che arrivò il 4 ottobre dello stesso 1830. E allora cosa può accadere nel 2012, in una Francia in fermento per le elezioni presidenziali? “Non so se è più il tempo della rivoluzione – ammette Emma Dante – non so se vedendo un'opera lirica, poi si scenda in piazza. Siamo cambiati. Scriviamo i blog, facciamo altre cose”. Qui si ferma e sorride ironica. Poi continua: “Però è bello quando il teatro ti porta a una reazione vitale nei confronti del mondo. Esci dal teatro e sei cambiato”.

“Ecco ora è passato Masaniello” Poi c'è Elena Borgogni, che riesce a far parlare questa muta, Fenella, con i suoi movimenti convulsi e con le espressioni del volto. Come quella, alla fine tragica dell'opera, in cui diventa statua in una teca votiva (mentre nell'opera originale si getta dal Vesuvio), martire immolata di una rivoluzione a cui nemmeno pensava, lei ingenua innamorata, sedotta e abbandonata. Nel suo volto deformato e con bocca spalancata sembra urlare tutta la voce che non ha. Per i cantanti lirici, per queste “creature fragili” come li chiama Emma Dante, il lavoro non può che essere differente. “La sfida è fare recitare i cantanti – spiega – ecco ora è passato Masaniello”. La regista smette di parlare e per qualche secondo osserva Michael Spyres, il tenore nel ruolo del capo popolo, che si aggira nella sala dell'Opéra Comique. “Una follia tenera e violenta” “Ecco – continua – secondo me lui fa un personaggio bellissimo, a parte la voce, che è la sua caratteristica. Lui è anche un grande interprete e fa questa follia di Masaniello, riesce a essere tenero, violento, aggressivo e romantico contemporaneamente. Ma quando chiedi ai cantanti di fare un movimento difficile mentre stanno cantando gli chiedi molto perché li metti in difficoltà. E quindi l'interpretazione che chiedi a un cantante gli deve essere di protezione sennò la voce esce male. Bisogna stare molto attenti, bisogna essere molto delicati. Poi ci sono alcuni cantanti come Michael che si lasciano andare, o come Kauffman per la Car-

“Ma lasciare la Sicilia no”

en. Con loro infine ho avuto attori tra le mie mani”. La Muette de Portici, opera del 1828 con la musica di Daniel-François-Esprit Auber, è frutto di una collaborazione tra l'Opéra Comique di Parigi e Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles – suoi infatti l'Orchestra e il Coro diretti da Patrick Davin – dove sarà rappresentata, a data da destinarsi, dopo il debutto parigino. E pare che, proprio alla Muette, il Belgio debba, in parte, la sua indipendenza. La platea si riversò per le strade Si racconta infatti che, dopo la rappresentazione il 25 agosto 1830 in onore del cinquantanovesimo compleanno di re Guglielmo I, la platea, catturata dalla storia di ribellione del popolo guidato da Masaniello, si riversò nelle strade della città incitando alla rivoluzione e rivendi-

I Sicilianigiovani – pag. 79

E allora forse il mondo istituzionale di Palermo, la città della regista, non ha mai visto un suo spettacolo perché nella lunga e densa carriera di Emma Dante, nulla è cambiato nel rapporto con chi gestisce il capoluogo siciliano. “Non succede il miracolo”, dice lei. Emma Dante porta i suoi spettacoli in tutta Italia, in Francia, in Belgio, è applaudita e amata ovunque, tranne che nella sua Palermo. Troppo vero per lei il “nemo propheta in patria”. E ciononostante resiste. “Lavoro tanto in Francia, per fortuna c'è chi crede in me. Ma lasciare Palermo no, non ho motivo. Magari penso di vivere un po' qua e un po' là, e già lo faccio”. “A Palermo farò il mio primo film” Non a caso, proprio a Palermo Emma Dante farà il suo primo film, finanziato dal ministero per i Beni e le Attività Culturali, dalla Svizzera e dalla casa di produzione Vivo Film. “In estate preparerò un film sulla strada di Via Castellana Bandiera. È la storia due donne che guidano una macchina, che si incontrano in un vicolo molto stretto e nessuna delle due vuole passare l'altra”.


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Monete elettroniche

A chi fa paura il bitcoin? xxxxx

Ogni tanto sui principali quotidiani leggiamo che la moneta elettronica (libera dalle banche e dalle multinazionali) è una cosa terribile, usata da criminali d'ogni genere per sfuggire alla polizia. Sarà vero? di Fabio Vita

Un mese fa, all'improvviso, la campagna ricomincia: “L'Internet segreto delle mafie dove si paga con soldi virtuali”... Parliamo di campagna perché, come l'anno scorso, viene lanciata contempoaneamente dai principali giornali. Questo dell'”internet mafioso” era un titolo de La Stampa, ma anche gli altri non scherzavano. Repubblica: “Sesso, droga e armi: la faccia cattiva del web” (“se Bin Laden avesse avuto Bitcoin avrebbe potuto comprare qualunque arma...”). Corriere: “Il web senza regole dove tutto è possibile” (e video di un hacker incappucciato e coi guanti che scrive al computer). Come in “Profondo Blu”

Esattamente un anno fa i quotidiani italiani hanno scoperto Bitcoin, che ormai aveva raggiunto una certa notorietà. Il tipo della scoperta si capiva dai titoli (Repubblica: “La moneta degli hacker e della Cia”). Allora un bitcoin valeva cinque dollari, dai pochi centesimi dell'anno prima. L'economia ufficale, contemporaneamente, cominciava a dibattersi nella crisi del dollaro.

Qualcuno (ancora Corriere) scopre un “assassination market”: che però non è un mercato di killer ma un "prediction market" in cui si piazzano scommesse (come in “Profondo Blu” di Jeffrey Deaver) sulla morte di personalità famose. Il dollaro, nel frattempo, aveva trascinato nella crisi anche l'euro, e la maggior parte delle banche, mnentre il bitcoin continuava a godere di ottima salute. Una settimana fa, Repubblica.it apre con un “Bitcoin, la criptomoneta digitale anonima e sganciata dalle banche“, più “ragionevole”, meno urlato ma insistito “sui pagamenti virtuali di armi

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e droga”. Un articolo non firmato, e involontariamente eloquente dove depreca che così chiunque può “diventare una piccola banca” e slegarsi dai tradizionali processi economici come l'inflazione, le tasse, le commissioni, i vincoli delle banche”. Le banche, già. Ma il bitcoin è tracciabile Ma come stanno le cose? Il punto più interessante è che nessuno di tutti questi articoli, pieni di allarmi-bitcoin su mafia, trafficanti d'armi e criminali d'ogni genere cita la caratteristica più importante (dal punto di vista “poliziesco”) del bitcoin: il bitcoin è tracciabile. Ogni singolo bitcoin, ogni transazione, porta la firma indelebile di chi l'ha fatta. Una firma elettronica, prodotta automaticamente dal software, e facilmente accessibile agli hacker e alle polizie di tutto il mondo. Altro che moneta nascosta Altro che moneta nascosta: è come se su ogni singola banconota da un dollaro ciascuno, a ogni passaggio, dovesse mettere la propria firma, come in un passaporto. Non esattamente la moneta ideale per chi ha qualcosa da nascondere – neppure per chi da nascondere ha molto, come certe grandi banche.


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Bitcoin – accusano Corriere, Repubblica e altri – è la moneta usata su Silk Road, un sito di transazioni illegali nascoste a tutti. In realtà il problema in questo caso non è Bitcoin, ma il software di anonimato usato su Silk Road. Cos'è Tor Si tratta di è Tor (The Onion Router), originariamente sponsorizzato dal laboratorio di ricerca della marina americana e dagli avvocati per le libertà civili dell'Electronic Frontier Foundation. Utilizzato dai dissidenti in Iran e più di recente in Egitto, è anche efficace contro i tentativi di restrizione imposti ai provider (come in Francia). L'Italia è al quarto posto al mondo nell'uso di Tor, che tecnicamente è un normale programma che si installa

come tutti gli altri e la pagina di Silk Road, inaccessibile senza Tor, è visibile persino da wikipedia. L'otto giugno Reuters riporta una lettera alla Dea (l'ente antidroga americano) di due senatori Usa (Manchin e Schumer) su Silk Road e bitcoin. La Dea risponde – distinguendo opportunamente i due soggetti - che Su Silk Road ci sono difficoltà tecniche, ma su Bitcoin non è emerso niente di rilevante. Il team di sviluppo risponde Dal team di sviluppo di Bitcoin precisano (a firma di Jeff Garzik che Bitcoin non è anonimo come i critici di Silk Road vogliono far credere.“Tutte le transazioni – spiega - sono registrate pubblicamente e le forze dell'ordine,

con metodi sofisticati, possono risalire ai singoli utenti che usano bitcoin. Appena il programma viene installato ogni utente infatti scarica l'intera catena di transazioni, dal primo giorno di attività di Bitcoin, chiamata Blockchain”. L'intera catena di transazioni Un semplice utilizzatore di bitcoin insomma vede solo numeri e lettere che compongono gli indirizzi da cui ricevere o inviare moneta; ma un esperto – sia esso un comune hacker o un investigatore della polizia - può recuperare informazioni incrociate dalla blockchain pubblica e ricostruire quindi ogni singolo movimento.

LINK

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/tecnologia/grubrica.asp? ID_blog=30&ID_articolo=10293&ID_sezione=38 http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/04/11/news/sesso_droga_e_armi_la_faccia_cattiva_de l_web-33089682/ http://www.corriere.it/inchieste/droga-armi-minori-killer-viaggio-deep-web-zona-web-senzaregole-morale-dove-tutto-possibile/44ed8fce-8935-11e1-a8e9-f84c50c7f614.shtml http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/04/26/news/bitcoin_la_moneta_digitale-33184225/ http://gawker.com/5805928/the-underground-website-where-you-can-buy-any-drug-imaginable http://www.reuters.com/article/2011/06/08/us-financial-bitcoins-idUSTRE7573T320110608 https://en.bitcoin.it/wiki/Anonymity https://bitcointalk.org/index.php?topic=241.0 http://en.wikipedia.org/wiki/Bitcoin#Transactions http://bitcoincharts.com/charts/mtgoxUSD#rg360ztgSzm1g10zm2g25zv http://www.reuters.com/article/2011/06/08/us-financial-bitcoins-idUSTRE7573T320110608 http://www.forbes.com/sites/jonmatonis/2012/04/26/be-your-own-bank-bitcoin-wallet-for-apple/ http://www.laprivatarepubblica.com/santa-inquisizione-popolare-riccardo-luna/

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La moneta elettronica

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (aggiornamenti in tempo reale)


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I Sicilianigiovani – pag. 82


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I Sicilianigiovani – pag. 83


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Testimonianze

Il partigiano Severino Era di Licata e lo fucilarono i fascisti in una piazza della Liguria. Lo ricorda il suo comandante di allora, in un povero indimenticabile libro di memorie partigiane di Giobatta Canepa “Marzo”

Per quanto l'avessi chiesto più di

diceva, bisognava uscirsene, scorraz-

una volta, mai nessuno aveva sapu-

zare per la Fontanabuona, in cerca di

to dirmi di che paese fosse Severi-

fascisti...

no, nè il suo nome vero: si sapeva soltanto che era siciliano; e anche nella lapide che lo ricorda a Borzo-

« In cerca di grane » borbottava qualcuno. « E sia pure, ma se non cerchiamo

poverissima. Finalmente coloro che prima di abbandonare le caserme avevano pensato di nascondere le armi, parlarono di andarle a riprendere; si dovette aspettare il giorno della grande fiera, a

nasca, nella Valle dell'Avete, c'è il

grane, mi sapete dire cosa siamo ve-

Chiavari, e così fu più facile traspor-

suo nome di battaglia e basta.

nuti a fare, qui? »

tarle sotto il naso dei fascisti, avvolte

Erano quelli i primi partigiani che, Era capitato a Favale di Malvaro

disarmati vivevano della carità della

con due compaesani: il Beppe, che

gente del posto, che in quella zona è

com'erano in frasche da parere arboscelli da trapianto. Severino n'ebbe una tutta sua, per-

catturato poi dai fascisti doveva finire

chè ne aveva trasportato un bel cari-

in un « lager »; e il Rizzo che ci toccò

co, forte com'era e agile; e anche

allogare in una famiglia di contadini

pronto se era necessario a rischiare la

e non si fece più vivo, forse gli era

pelle.

passata la voglia di combattere, o non l'aveva mai avuta.

Pronto a rischiare la pelle

Si sapeva soltanto che era siciliano

Come quando si seppe di camicie nere che erano piombate a Castello di

Severino invece no, perchè era ap-

Favale e avevano invaso la casa

pena giunto, verso la metà di settem-

dov'era rifugiata la famiglia del Co-

bre, che già parlava di fare qualcosa,

mandante; lassù erano giunte notizie

di cominciare a menar le mani: non si

assai confuse, chi diceva che avessero

poteva stare intanati in quella bàita,

preso in ostaggio sua moglie e anche

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Partigiani della divisione garibaldina Pinan-Cichero. Nella pagina a fianco: la copertina di “Una repubblica a Torriglia”, la storia di uno dei primi territori liberati dai partigiani sulle montagne della Liguria, e il comandante partigiano Giobatta Canepa “Marzo”, morto a Milazzo nel 1994.

la figlia piccoletta; altri invece che

fifa da morire, non osavano più avan-

chiedergli: « Dicci dov'è e ti liberia-

erano riuscite a scappare, ma di preci-

zare.

mo ».

so non si sapeva nulla, sicché grande

« Nun u sacciu » rispondeva. E

era l'apprensione di tutti i componenti

Un salto dal camion in corsa

della banda.

quelle due parole-nel suo dialetto, « nun u sacciu », furono le sole che po-

Soltanto quando s'accorsero che

terono cavargli di bocca, la sua rispo-

aveva terminato le cartucce, allora

sta ostinata alle lusinghe, alle minac-

osarono saltare fuori e circondarlo.

cie, alle botte: le ripetette come una

Ma poi, come lo portavano giù a

sfida quando lo legarono a una sedia,

scendere a Favale dov'erano accam-

Chiavari, fu lesto a spiccare un salto

sulla piazza, con le spalle alla chiesa;

pati quei porci, per attingere notizie

dal camion in corsa e a dileguarsi per

e infine come un'invettiva, con rab-

certe. Ricomparve tre giorni dopo,

i vicoli.

bia, mentre gli sparavano come a un

Continuava a chiedere di Severino E fu lui, Severino, a offrirsi di

bersaglio: prima sui piedi, poi aggiu-

quando tutti l'avevano già dato per

Ritornò a Favale che la formazione

disperso: e aveva con sè la Maria e

s'era spostata a Cichero, ma insistette

stando il tiro, sulle gambe e man

portava a cavalluccio anche l'Enrica,

a rimanere sul Rondanara dov'era la

mano più alto, finché l'urlo disperato

la figlioletta.

bàita dei Cereghino « i Paccianìn del

si fece rantolo.

L'Enrica poi la condussero lontano,

colle »: una bàita che ci serviva da Sulla piazza del paese

al sicuro: naturalmente non le fecero

posto d'avvistamento e dove si faceva

sapere nulla della sua morte per non

tappa negli spostamenti, perchè tutti

rattristarla, e cosi continuava a scri-

di quella famiglia erano dalla nostra

Era l'imbrunire; all'alba la banda

vere e a chiedere del suo Severino;

parte e si davano d'attorno per aiutar-

Beretta aveva operato un'incursione a

poi, come succede, si stancò e ora che

ci.

Borzonasca e la notizia era giunta a

s'è fatta grande, lo ricorda appena e certo non immagina quanto rischiare

Chiavari mentre lo stavano interro“Dicci dov'è e ti liberiamo”

avesse fatto per lei, povero figlio...

gando. Visto che non c'era verso di farlo parlare, decidettero di ammaz-

Non era certo prudente restare lassù

zarlo per rappresaglia.

dov'era già stato preso, e il Comand-

Lo portarono dunque sulla piazza

ante glielo ripeteva; ma qualcuno bi-

di quel paese e, poverino, pareva I'«

sognava pure che ci restasse, e s'inte-

ecce homo », legato com'era e tutto

ta, era di guardia sul Rondanara e

stò a restarci lui, finché finirono an-

pesto di botte: chiese soltanto d'un

mentre il suo compagno correva ad

cora per catturarlo.

suo diritto, quello di avere il conforto

Quando lo presero la prima volta Quando lo presero per la prima vol-

avvertirci, lui, per dargli tempo, si

Subito che lo riconobbero, lo lega-

dei Sacramenti, e gli risero in faccia

tenne sul posto, sparando di tanto in

rono ben bene e lo trascinarono giù a

perchè, dissero, era figlio d'una cagna

tanto qualche colpo di fucile, di modo

Chiavari: « Dov'è la tua banda? Dov'è

e all'inferno sarebbe andato ugual-

che quelle canaglie, che avevano una

il tuo Comandante? » continuavano a

mente.

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La fucilazione per i “banditi”

Tempo fa, nell'anniversario della

contò, e volevano per forza che lo ri-

ro e sfilacciato e conteneva delle fo-

sua morte, mi misi alla ricerca della

conoscesse come uno di quei banditi

tografie e una carta d'identità, la sua,

Sabina dei Cereghino, che non avevo

che si aggiravano da quelle parti: ma

col nome cognome e tutto: Saverino

più vista perchè sposandosi è andata

lei, suo padre, tutti, giurarono e sper-

Raimondo, nato nel 1923 a Licata.

a stare altrove; e quando l'ebbi rin-

giurarono che non l'avevano mai vi-

tracciata le dissi perchè ero venuto, e

sto, che forse si trattava di uno sban-

cioè perchè mi parlasse di Severino e

dato...

di come l'avessero preso. Glielo portarono davanti Glielo portarono davanti, mi rac-

« Ho conservato il portafoglio che

Il suo vero nome E così dopo tanti anni sono venuto

mi dette quando ci fu l'allarme — dis-

a sapere che il vero nome discostava

se, — e subito corse a frugare

di poco dal suo di battaglia: Saverino

nell'armadio finché non lo trovò; era

invece di Severino. Forse eravamo

un portacarte di tela rossa, tutto logo-

stati noi a deformarlo.

I Sicilianigiovani – pag. 86


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Testimonianze

Altre Resistenze Due ragazzi a Genova, sessant'anni dopo di Cinzia Robbiano

Mi hanno colpito due giovani, tra i tanti alla giornata di Libera a Genova il 17 marzo, che ho visto quella mattina alle 8 dirigersi con passo spedito verso il corteo. Davano l’impressione di voler marciare “su” Genova, non a Genova. Qualcosa me li ha fatti sentire immediatamente cari e li ho avvicinati. Mi hanno raccontato del loro lungo viaggio in treno e mentre intorno a noi si confezionavano le bandiere che avrebbero sfilato, mi hanno mostrato orgogliosamente la loro scritta con un pennarello appena prima di partire: troppo poveri, mi hanno detto, per averne una ufficiale. Avevano viaggiato tutta la notte e sarebbero ripartiti la notte successiva, stanchi ma felici come si usa dire. Ho chiesto di poterli fotografare, hanno accettato con gioia. Ci siamo salutati senza neppure presentarci.

Giorni dopo riordinando le tante fotografie di quelle giornate sono ritornata più volte sulla loro. Mi ero ripromessa di approfondire la loro conoscenza, la foto sarebbe stato il tramite. L’ho mandata a Radio Siani con una mail in cui dicevo quello che di loro mi aveva colpito, la bellezza della loro semplicità. Il primo a scrivermi è stato Michele “quello grosso” come si è definito : una mail solare come il suo sorriso, piena di ringraziamenti e di entusiasmo. Poi è arrivata la mail di Vincenzo, quello magro e pensieroso. Le due facce di un corteo mi venne da pensare. La voglio condividere qui, perché in giorni come questi in cui tanto si parla di Resistenza, offre uno spunto in più di riflessione. La Resistenza non può più essere solo memoria e sopravissuti, deve rivivere in nuove forme attraverso altri giovani e non solo perché c’è ancora bisogno di essere “liberati”.

*** < Cara Cinzia, Io sono Vincenzo (l'altro ragazzo della foto), del presidio Libera Afragola . Sono stato molto contento nell'aver letto le vostre mail, sì. Mi ha fatto molto piacere essere a Genova. certo, è stato massacrante, siamo stati tutta la notte in viaggio, arrivati di mattina presto a Genova; per poi ritornare a Napoli verso le 5 del mattino successivo. Ma ne è valsa la pena, perché abbiamo incontrato una parte di Italia che continua a resistere. Purtroppo dalle nostre zone è molto raro assistere a manifestazioni di questo

I Sicilianigiovani – pag. 87

tipo. La camorra inquina soprattutto la mentalità delle persone, degradando il livello culturale in generale. Se mi sono iscritto a libera e sono venuto a Genova è stato per questo. Per riuscire a dimostrare che in realtà è possibile vivere diversamente. Ci sono molti concittadini che non solo non denunciano e non disdegnano le organizzazioni criminali, ma anzi si sentono protetti dai vari boss. Quasi come se la camorra fosse una sorta di stato assistenziale e i camorristi dei benefattori. Anche attraverso film, canzoni e giornali locali (sempre monopolizzati dalla camorra) è sempre passato questo tipo di messaggio. Se vuoi posso illustrare anche come questo tipo di sottocultura si è imposto a livello locale. E ahimè è molto triste constatare come ciò spesso è ignorato dai media. Il discorso è molto lungo. Noi in meridione, non abbiamo conosciuto il fenomeno della resistenza antifascista come si è diffuso al nord, con tutte quelle vittime. Però qui, forse, una certa militanza antimafiosa può richiamare quel tipo di resistenza. C'è una diversa forma di resistenza. Ricordare le vittime uccise innocentemente, significa prendere parte. Ed è stato bello incontrare a Genova tante realtà accomunate da quello stesso spirito di rinascita, resistenza, cambiamento. L'Italia migliore, che indifferenza e malaffare vogliono spegnere. Grazie ancora per le email. Ci risentiamo presto. Cordialmente, Vincenzo >


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Memoria

In ricordo di “Vik”, la voce libera della pace L'editoriale di Roberto Morrione in memoria di Vittorio Annigoni

ne, uomini, stretti in più dal potere integralista e autoritario di Hamas. Con l’associazione pacifista International Solidarity Movement Vittorio Arrigoni, “Vik per gli amici e per i tanti che ne hanno ascoltato il racconto su web radio o le cronache appassionate su “Il Manifesto” nei giorni dei bombardamenti israeliani nell’inverno 2008-2009, aveva più volte infranto il blocco navale israeliano, era stato ferito, arrestato, espulso, sempre pronto però a tornare a Gaza.

di Roberto Morrione Liberainformazione

"La speranza sta tutta nella grande umiltà e dignità con cui questo popolo affronta da più di sessantanni il peso della sua sofferenza. Senza capitolare e consegnare all'oppressore la propria resa. Per me vivere a Gaza è una quotidiana lezione di vita". Questo un passaggio dell'intervista che Vittorio Arrigoni, giornalista - attivista per i diritti umani ucciso a Gaza il 15 aprile scorso, aveva rilasciato al direttore di Liberainformazione, Roberto Morrione. Libera Informazione, un anno dopo, pubblica l'intenso editoriale che Morrione dedicò a "Vik" poche ore dopo la notizia della sua morte. A seguire, l'articolo integrale.

Quando nel tardo pomeriggio è arrivata nelle redazioni la notizia del sequestro e l’immagine di Vittorio Arrigoni legato, bendato, ferito, minacciato di morte, per ore non c’è stato TG o GR, della Rai o privato, che non abbia genericamente parlato di un “pacifista” o di un “volontario italiano a Gaza”. Corto circuito della memoria, incapacità di trarre un suono specifico dall’indistinto rumore di fondo che omogeneizza ormai la comunicazione, l’ennesimo segnale del male diffuso quanto subdolo che caratterizza l’informazione, anche quella solitamente motivata, più attenta al contesto e al valore delle notizie. Corto circuito della memoria Eppure, sarebbe bastato un clic su Internet per aprire “il mondo di Vik”, di una vita dedicata alla causa del popolo palestinese e ai diritti civili, che a Gaza sono ancora negati dallo spietato blocco israeliano a due milioni di bambini, don-

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In questa sua seconda patria In questa sua seconda patria era infatti soprattutto uno “scudo umano”, che aiutava con la presenza fisica e le sue denunce i pescatori di Gaza costretti a forzare il blocco navale per cercare il pesce di cui far vivere le proprie famiglie o i contadini a lavorare poveri orti nelle zone limitrofe ai confini, sorvegliati da truppe israeliane pronte ad aprire il fuoco. Durante la guerra e il tentativo di occupazione militare di Gaza da parte di Israele, nel dicembre 2008, Vik si era fatto giornalista, quando gli inviati da tutto il mondo erano costretti a osservare con il binocolo quanto accadeva a Gaza dall’alto di una collina, chiamata presto “del disonore”. Su Il Manifesto e un suo blog, ripreso anche in voce da siti e radio pacifiste, per 22 giorni andarono le sue cronache, sincere e vere, fatte di testimonianze, storie,


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“Un uomo generoso che credeva in ideali veri”

drammi che sapevano di morte, paura, fame, crimini di guerra come l’uso di nuovi ordigni e del devastante fosforo bianco, cifre oggettive di feriti, distruzioni senza senso e limiti. “Restiamo umani” Ogni suo pezzo si concludeva con un messaggio, “restiamo umani”, da cui si trasse anche un libro. Era un messaggio di speranza, ma anche la consapevolezza di quanto la disumanità, la ferocia, il cinismo della politica e degli interessi internazionali, avessero cancellato ogni valore esistenziale e civile. Per questa sua missione, Vittorio era stato più volte minacciato di morte, come da parte di un sito americano legato agli oltranzisti israeliani. Allegro insieme ai contadini A Vittorio Arrigoni, nell’ambito della giuria del Premio Sasso Marconi, fondato da Enzo Biagi insieme a quel comune dell’Appennino bolognese, feci assegnare un premio speciale. Vik era a Gaza e inviò un bellissimo video, in cui lo si vedeva allegro sui pescherecci o con i contadini al confine con Israele, sullo sfondo i tank e le sentinelle con i cannocchiali, ben vicini gli sbuffi di sabbia dei proiettili intimidatori sparati in mezzo a donne e uomini muniti solo di cesti destinati a restare vuoti. Venne a ritirare il premio e a parlare

del figlio la mamma Egidia Beretta, una donna forte e intelligente, sindaco di Bulciago in provincia di Lecco, rieletta due volte per il suo forte e limpido impegno amministrativo. Capimmo quella sera da chi e sulla base di quali valori civili avesse attinto Vittorio Arrigoni. Con lui ebbi poi un complesso scambio di mail, che culminò in una lunga intervista per “Cometa”, trimestrale di critica della comunicazione diretto da Giulietto Chiesa. L'operazione “piombo fuso” La documentazione sugli orrori dell’operazione “piombo fuso”, sulle responsabilità di Israele e internazionali, sugli errori e i soprusi autoritari di Hamas, ma soprattutto sulle sofferenze e le speranze di un popolo costretto a vivere un una sorta di lager, fu eccezionale e incontrovertibile. Come la risposta che mi diede, al termine dell’intervista, alla domanda se avesse ancora speranze sul futuro del popolo palestinese: “La speranza sta tutta nella grande umiltà e dignità con cui questo popolo affronta da più di sessant’anni il peso della sua sofferenza. Senza capitolare e consegnare all’oppressore la propria resa. Per me vivere a Gaza è una quotidiana lezione di vita”. Ora non sappiamo e forse non sapremo mai in quali contesti e perché questi terroristi salafiti, probabilmente legati a Al Qaeda, più volte al centro di omicidi e

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attentati terroristici, abbiano preso di mira Vittorio e quale sia stato il ruolo di Hamas. Sappiamo però con certezza che è stato ucciso un “giusto”, un uomo generoso e limpido, che credeva in ideali veri. Come Enzo Baldoni, massacrato a Najaf nel 2004 e di cui Governo, Parlamento, mondo dell’informazione, si sono ben presto dimenticati, nonostante la sua testimonianza, breve e stroncata in breve tempo da un’inspiegabile violenza, sia una pagina alta e creativa di libertà. Prima di partire un anno fa con la “flottilla” decisa a rompere il blocco navale israeliano e poi sanguinosamente respinta, Vik mi chiese un aiuto organizzativo e di aggancio con europarlamentari, che cercai di dargli e mi promise “quando torno, ce ne andiamo in trattoria per bere in allegria e raccontarci le nostre storie…”. “Raccontare le nostre storie” Non avremo più questa possibilità, Vik, ma almeno farò di tutto perchè la tua storia, insieme con quella di tanti tuoi compagni sulle vie della pace, della giustizia, dei diritti umani e dei popoli, esca dal rumore di fondo che avvolge e stravolge chi costruisce e chi riceve le notizie, affinchè, almeno in questo modo, “restiamo umani”.


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Memoria

Il mio Novantadue “E come potrei dimenticarlo. Ultimi scampoli di un'indimenticabile estate...”. L'anno delle speranze e dell'orrore, delle nuove politiche e delle stragi nel ricordo di un cronista che di quegli anni può dire “io c'ero” di Sabastiano Gulisano E come potrei dimenticarlo, il ’92, ché quell’anno mi sono trasferito a Roma. Viaggio di sola andata. Era un sabato di settembre, che nella capitale è gradevole come giù da noi, in Sicilia; ultimi scampoli d’estate, di un’estate che ha fatto epoca. Indimenticabile. Purtroppo. Sceso dal treno, a Termini comprai Repubblica e un biglietto della metro; un quarto d’ora dopo ero nella “mia” nuova casa, dalle parti di Piazza Vittorio, il quartiere multietnico per antonomasia. Il quartiere multietnico Ero stato fortunato, l’alloggio non avevo dovuto cercarlo, ché quando, in primavera, Claudio s’era trasferito nella capitale, Miki era andato ad abitare con lui liberando la stanza nell’appartamento ammobiliato che condivideva con Riccardo. E quella stanza aspettava me. Riccardo mi aveva lasciato le chiavi di casa dal portiere, era caporedattore di Avvenimenti, il settimanale con cui collaboravo da un paio d’anni, fra i motivi le speranze - che m’avevano spinto a

cambiare aria. Riccardo di cognome fa Orioles, è un giornalista militante dell’antimafia, oggi a Siciliani giovani. Ci eravamo conosciuti otto anni prima nella redazione di un altro giornale, a Catania, I Siciliani, il mensile fondato da Giuseppe Fava, uno degli otto giornalisti ammazzati dalla mafia nell’isola. Lì avevo conosciuto anche Miki (Michele Gambino), che in quel ’92 faceva l’inviato di Avvenimenti, e Claudio (Fava, figlio di Giuseppe), anche lui giornalista, ma che a Roma c’era venuto da deputato, eletto nelle liste de La Rete – Movimento per la Democrazia, «la Rete di Orlando» nell’approssimazione dei media, che la legavano al più noto dei suoi fondatori, Leoluca Orlando, «il sindaco della Primavera di Palermo». Ai Siciliani ero approdato, come tanti altri, in seguito all’omicidio del direttore, nell’84, imparando i primi rudimenti del mestiere e diventandone presto redattore. La mia camera romana era spaziosa e luminosa, con due grandi finestre che davano su via Tasso, quasi di fronte al Museo della Resistenza sorto negli stessi lo-

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cali in cui, prima della Liberazione, i nazisti torturavano partigiani, ebrei e patrioti. Spalancai le imposte e, senza nemmeno disfare la valigia, stesi il quotidiano sul letto e mi misi a sfogliare le cronache romane finché una notizia non calamitò la mia attenzione: concerto dei Kunsertu al Villaggio Globale, nell’ambito del Festival internazionale dei popoli. Quella stessa sera. Gratuito. Cinquemila persone festanti Non potevo perdermelo. Avevo tutti i loro dischi – i primi in vinile, i più recenti in cd –, li avevo visti/ascoltati dal vivo svariate volte e conoscevo personalmente gli otto musicisti della band composta da quattro messinesi, tre catanesi e uno straordinario cantante palestinese, Faisal Taher, una voce magica. Non immaginavo che fossero così popolari anche fuori dell’isola, lo capii quando mi ritrovai con oltre cinquemila persone festanti e ne fui certo quando tutti intonarono Mokarta, la canzone più nota del gruppo, in dialetto siciliano.


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“L'Italia delle stragi e degli omicidi eccellenti”

Era come se fossi ancora a casa, in Sicilia. O, forse, “casa” è dappertutto, ovunque ci siano altre persone sulla tua stessa sintonia. Quel sabato sera, il Villaggio Globale era casa. I tempi del cambiamento Roma, dunque. Lunedì avrei cominciato a lavorare alla Camera dei deputati, collaboratore di Claudio Fava, al gruppo della Rete, il movimento politico nato l’anno prima, dopo che Luca (così chiamavamo il leader) aveva lasciato la Dc e, insieme ad altri notissimi esponenti della vita politica, sociale e culturale italiana aveva dato vita al movimento, fondato su una trasversalità virtuosa, contrapposta alla trasversalità occulta del sistema di potere dell’epoca. Non ho mai avuto tessere di partito. E la Rete, purtroppo o per fortuna, non lo era, un partito. Decisi di aderire perché – presuntuoso – pensavo che in quel momento storico ci fosse bisogno anche di me; che anch’io dovessi “sporcarmi le mani” con la politica (lo consideravo un impegno a termine, pochi anni, poi di nuovo giornalista a tempo pieno); che in quel momento così basso della vita civile e democratica del Paese ci fossero le condizioni per invertire la rotta, per spaccare la Dc, per dare vita a un’alternativa democratica di berlingueriana memoria. Caduto il Muro di Berlino, dissolto il blocco sovietico, sciolto il Patto di Varsa-

via, poteva e doveva cadere la pregiudiziale anticomunista che per quarant’anni aveva fatto dell’Italia «una democrazia bloccata» e favorito incrostazioni di potere che si erano autoalimentate attraverso il clientelismo e la corruzione diffusi; era l’Italia “stabilizzata” con le stragi e gli omicidi eccellenti. I tempi per il cambiamento sembravano maturi. E i fatti lo lasciavano intendere. A fine gennaio la Cassazione confermò le condanne del maxiprocesso ai boss di Cosa nostra istruito dal pool di Caponnetto, Falcone e Borsellino, chiudendo la stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove. Due settimane dopo, l’arresto a Milano del craxiano Mario Chiesa innescò la valanga che rapidamente travolse la classe politica di governo della cosiddetta Prima Repubblica, provocando la scomparsa dei partiti tradizionali. Poi l’omicidio Lima. “Hanno ammazzato Lima!” Ero ancora a Palermo, lavoravo al gruppo della Rete all’Ars: «Hanno ammazzato Lima!» annunciò qualcuno. E io, da catanese, pensai a Felice, il magistrato, mica a Salvo, il proconsole andreottiano cerniera tra Cosa nostra e l’allora presidente del Consiglio. Poi, compreso che si trattava dell’europarlamentare, subentrò lo sbigottimento. Ricordo una Palermo smarrita, in quei giorni, attonita. Neanch’io mi ci raccapezza-

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vo. Mi era chiaro solo che c’erano duecentomila voti in “libertà”. Ricordo un breve scambio di battute con Claudio: «Temo che il prossimo possa essere nello schieramento opposto», disse. Non avemmo modo di approfondire. Mi colpì che ipotizzasse un «prossimo», mentre io ero spaesato. E ancora di più lo sarei stato il 23 maggio e, dopo, il 19 luglio. Tirava aria di golpe Tirava aria di golpe. Prima dell’omicidio Lima un ambiguo personaggio legato ai servizi segreti, Elio Ciolini, aveva annunciato una campagna destabilizzante a base di omicidi eccellenti e stragi, nel periodo marzo-luglio. Il Viminale allertò le prefetture, Andreotti lo bollò come «pataccaro» (era stato condannato per avere depistato le indagini sulla strage alla stazione di Bologna), l’allarme rientrò. Ma la “profezia” s’avverò, nei tempi previsti. Poi lasciai la Sicilia. Anche le autobomba emigrarono. Però era il ’93 e andrei fuori tema. Nel mio piccolo, a cambiare... Lo ricordo, certo che lo ricordo il mio ’92: pensavo – ero convinto – che, nel mio piccolo, avrei contribuito a cambiare l’Italia. In meglio. E sbagliavo. Oh, se sbagliavo.


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“In nome dei quartieri abbandonati”

Memoria IL GRIDO E LA FORZA DEGLI ABBANDONATI

L’Italia è cambiata, sì, ma in peggio, molto in peggio: l’etica è letteralmente evaporata e sulle stragi di quell’anno, a vent’anni di distanza, la verità fatica a farsi strada. La cerco nelle sentenze, nei ritagli di giornali sulle nuove indagini, nella trentina di libri impilati accanto al pc, nella gran quantità di files accumulati negli anni nel pc. Sono ossessionato da quell’anno e dal bisogno di verità e giustizia. La cerco, quella verità, per mestiere e senso civico, ché non riesco a scindere il giornalismo dal senso civico, dall’idea di servizio alla collettività. La cerco tenendo presente l’annuncio preventivo del «pataccaro» (che non era un veggente), altrimenti non ci capirei nulla.

...Poi un giorno, a Catania, Luciano ha cominciato ad usare la sua voce e la sua memoria in nome della gente violentata, in nome dei quartieri abbandonati. Poi un giorno la consapevolezza sua è diventata di tutti, è diventata il grido e la forza dei ragazzini della città nuova di Librino e della città antica. Poi un giorno la gente, quella dell'Antico corso e di San Cristoforo, o di Cibali, di Picanello, o di Ognina e San Giovanni Li Cuti, la gente dimenticata che vive nei luoghi della città che portano i segni della vendita della città alla mafia e alla corruzione della politica si è sentita difesa e raccontata e unita. Quel giorno ascoltandolo raccontare la storia dei ragazzini in cerca del pallone e del campetto, ma anche di un riscatto morale di tutto un mondo dimenticato, di tutta una collettività a cui è stato negata ogni diritti reale, in nome dello stato di sopravvivenza, degli individui, diversi e distinti nei loro percorsi di resistenza, si sono finalmente sentiti uniti nella loro forza di collettività con una percezione commossa che la mafia può creare enormi sofferenze ma non distruggere la memoria comune. Fabio D’Urso

Per mestiere e senso civico E mentre riordino i ricordi del “mio” 1992, torno col pensiero a quella sera al Villaggio Globale e mi sovviene che anche i Kunsertu si sono sciolti. Mettermi ad ascoltare il loro cd Live, frutto della tournée europea di quell’anno, non li riporterà insieme né contribuirà a riportare l’etica al centro della vita politica e sociale di questo martoriato Paese, né – meno che mai – mi aiuterà ad aggiungere un nuovo tassello ai motivi per cui qualcuno ha deciso che Falcone e Borsellino dovevano morire, ma darà un po’ di sollievo alla mia anima straziata.

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IL FILO

Gli invulnerabili di Giuseppe Fava Anteprima dell'“Ultima violenza”, nella sala ci sono tutti i rappresentanti del potere nel territorio, i buoni e i cattivi, i giusti e gli iniqui, i galantuomini e i mascalzoni. Sulla scena per tre ore sfilano i personaggi equivalenti. Che abbiano autentico vigore drammatico e bellezza teatrale,

“Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più...”

non ha qui importanza. Sfilano! Al termine delle tre ore Turi Ferro, splendido avvocato Bellocampo, ha un ultimo guizzo drammatico, sulle sue parole spara la musica del Dies Irae, il pavimento del teatro sembra incendiarsi di bagliori, si alza lentamente e su questo declivio rotola il cadavere insanguinato del terrorista Sanfelice, ucciso pochi attimi avanti, prima che potesse rivelare il nome dei ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

avanti il senatore Calaciura, tre volte parlamentare, ex ministro, sfiorato da una candidatura al quirinale, sommo manipolatore di alleanze, complicità, miliardi di pubblico denaro e qualche assassinio, e in sala applaudono tutti, galantuomini e ribaldi. Complimenti, bis! Eccolo: quell'attore che si presenta con un inchino è il

grandi assassini mafiosi. E' come se il teatro, compiuta la sua rappresentazione, gettasse quel corpo incontro al pubblico, quasi per restuirglielo; infatti quel pavimento è di metallo, una specie di immenso specchio nel quale gli spettatori della

Procuratore Generale della corte di giustizia, gli hanno dato una legge e lui l'ha applicata, senza mai pensare per un attimo che potesse costituire un'infamia. Uragano di applausi. Bravissimo! I magistrati presenti applaudono.

sala vedono se stessi plaudenti. Ovazione finale, gli attori vengono avanti per ringraziare; viene avanti il

Il clima morale è questo Il clima morale della società è

cavaliere del lavoro Lamante, che ha

questo. Il potere si è isolato da tutto, si

saccheggiato la società e alla cui

è collocato in una dimensione nella

ricchezza sono state sacrificate

quale tutto quello che accade fuori,

centinaia di vite umane, clap-clap,

nella nazione reale, non lo tocca più e

applausi vigorosi, applaude

nemmeno lo offende, né accuse, né

contegnoso anche l'autentico cavaliere

denunce, dolori, disperazioni, rivolte.

del lavoro che sta in sala. Ecco

Egli sta là, giornali, spettacoli,

l'imprenditore Marullo, inteso

cinema, requisitorie passano senza far

Palummo 'e notte , imprenditore che

male: politici, cavalieri, imprenditori,

monopolizza tutti gli appalti della

giudici applaudono. I giusti e gli

regione, e per tale monopolio ha fatto

iniqui. Tutto sommato questi ultimi

eliminare i concorrenti a raffiche di

sono probabilmente convinti d'essere

mitra, clap-clap, applausi anche

oramai invulnerabili.

dall'imprenditore d'assalto che sta in sala e guardando la sua immagine nello specchio sembra quasi divertito. Bravo, bene! Cla-clap-clap, viene

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(I Siciliani, novembre 1983)


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Michela Mancini, Salvo Vitale, Ivano Asaro, Arnaldo Capezzuto, Pietro Orsatti, Valeria Calicchio, News Boys, Francesco Feola, San Libero, Antonio Mazzeo, Rosa MariaDi Natale, Giovanni Abbagnato, Luciano Mirone, Agata Pasqualino, Rino Giacalone, Giorgio Ruta,, Daniela Sammito, Giulio Pitroso,, Marco Urso, Rino Giacalone, Mauro Biani, Carlo Gubitosa, Kanjano, Jack Daniel, Ruggero Delfini, Lidia Menapace, Giorgio Bongiovanni, Irene Di Nora, Ester Castano, Salvo Ognibene, Roberto Rossi, Gaia Bozza, Elio Camilleri, Chiara Zappalà, Fabio Vita, Cinzia Robbiano, Sebastiano Gulisano, Fabio D'Urso, Raffaele Lupoli

Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Coordinamenti: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it e Massimiliano Nicosia mnicosia@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles

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Pio La Torre

Ricordatevi che questo è Stato

L’esistenza di Pio La Torre è stata contrassegnata dalla difesa del lavoro e dei diritti, dall’impegno per la pace e dalla lotta alle mafie. Dalle

rispetto alla necessità di colpire il patrimonio dei mafiosi (intuizione poi diventata legge “Rognoni-La Torre”). Ma la lezione più importante di Pio

lotte contadine al lavoro da parlamentare (in commissione antimafia)

La Torre è probabilmente un’altra: egli era consapevole che i suoi

fino all’impegno contro l’installazione della base missilistica della Nato

diversi fronti di impegno rappresentavano in realtà un’unica battaglia

a Comiso, l’obiettivo era uno soltanto: la difesa dei principi

combattuta su più fronti. Una battaglia il cui “grido” racchiude in sé un

fondamentali di quella Costituzione vergata con il sacrificio e il sangue

messaggio semplice quanto rivoluzionario. Quei contadini che urlavano

dei partigiani che hanno combattuto la barbarie nazifascista. La Carta

“La terra è di tutti” oggi forse direbbero “Noi siamo il 99 per cento”. La

fondamentale è il testimone che i liberatori hanno lasciato nelle mani di

Torre ha analizzato e contrastato lucidamente e a viso aperto il legame

chiunque volesse raccoglierlo facendosi carico di riaffermarne lo spirito

tra potere politico e potere mafioso rappresentando un esempio di

e La Torre ha cominciato a farlo quando ancora i padri costituenti non

coerenza, coraggio di protestare (pagato anche con il carcere) e

l’avevano materialmente redatta, animando in Sicilia una splendida

capacità di aggregare un vasto movimento democratico attorno a quelle

“resistenza” contadina. È innegabile la rilevanza, per la storia della lotta

rivendicazioni. Se non fosse irriverente si potrebbe sintetizzare così:

al crimine organizzato nel nostro Paese e non solo, della sua intuizione

“Ricordate che questo è Stato”. Buona Liberazione. Raffaele Lupoli

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Nel 1984 gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. E ora?

Un tempo, gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. Perciò i giornali come I Siciliani alla fine dovevano chiudere. Nessun giornale può sopravvivere senza pubblicità, per quanto fedeli siamo i suoi lettori. Noi facciamo la nostra parte. Voi, fate la vostra. I Sicilianigiovani – pag. 96


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