I Siciliani - aprile 2014

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I giovani Siciliani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”

aprilee 2014

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L’altra Italia

L’Orchestra dei Ragazzi, che suonano Mozart a tredici anni, e il famoso Giudice-a-Berlino che fa tremare i potenti con la sola forza della legge. Però siamo a Catania, nel quartiere più povero. E andiamo avanti.

Non cerca poltrone a Palazzo e nemmeno sbraita fuori. Sta lì, modesta e forte, e ricostruisce tutto

UNA GIORNATA PARTICOLARE di Giovanni Caruso e Alfia Milazzo ’NDRANGHETA VS COSA NOSTRA di Zolea e Moiraghi IL PREFETTO DEL POPOLO di Rino Giacalone CONFINDUSTRIA E STRANI AMICI BENI CONFISCATI: COSI‘ NON VA di Vitale e Maniaci CASO MANCA: CARTE FALSE PERCHE’? di Luciano Mirone IL “RIVOLUZIONARIO” E L’USURAIO di Rocco Lentini CEMENTABRUZZO di Alessio Di Florio I SIGNORI DELLA MUNNEZZA di Carmelo Catania SAN BERILLO: ABBANDONO ANNUNCIATO di Vincenzo Rosa NOMUOS E NONVIOLENZA di Daniela Sammito e Maurizio Parisi Satira “MAMMA!”/ Jack Daniel/ ANTIMAFIA: Spartà, Mancini, Wild, Nicolini, Ficco BITCOIN di Fabio Vita LIBRI: Mazzeo, Mirone, Gulisano, Orsatti ITALIA: Arnaldo Capezzuto, Riccardo De Gennaro, Antonella Beccaria, G.Abbagnato, Nino Rocca Torna La Periferica con Leandro Perrotta, Luciano Bruno, Fabio D’Urso, Cristina Perrotta, Massimiliano Nicosia

DA RADIO DEI POVERI CRISTI A RADIO AUT di Salvo Vitale ANTIMAFIA IN TEMPO D’ELEZIONI di Giuseppe Fava

Caselli/ Di Matteo silenzi e grida Dalla Chiesa/ Un nuovo fronte

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Per che cosa

Di chi sono Mozart e Leopardi? Mozart è dei bambini di San Cristoforo – li vedete. E Giacomo Leopardi? E' di Librino: è un ragazzo di qua che l'ha portato, e l'ha messo in bei versi siciliani. E vedete anche questo. Qua, su queste pagine, intitolate col nome del massimo scrittore siciliano moderno, Giuseppe Fava. Catania, città del sud, ha le sue facoltà e i suoi, come si dice, intellettuali. Sanno parlare benissimo, nei convegni. Ma di Leopardi e di Mozart – e di Giuseppe Fava – non sanno tanto. Certo, non quel che ne sanno i nostri ragazzini di strada, vissuti fra emarginazione e dolori e più di chiunque in grado di comprendere - quando l'incontrano – la poesia e la bellezza. Certo, non è stato facile portarle da loro; ma così è stato. Un cammino lunghissimo, iniziato moltissimi anni fa, ma che adesso è il loro. *** Che parola antipatica, “antimafia”. “Anti” la mafia, “anti” i padroni mafiosi, “anti” bavaglio... “Anti”: ma “per” che cosa? Ecco: esattamente per questo. Perché Luciano e Maria e Carmelo e gli altri ragazzi e giovani dei quartieri, che voi condannate a una vita buia e senza luce, possano vivere la buona vita che invece meritano, che meritiamo tutti noi esseri umani. Con la loro arte, la loro poesia, la loro musica, e la gioia di distribuirle liberamente. Sa sarete a Catania, fra pochi giorni, avrete la fortuna di ricevere i doni – per quanto milionari voi siate – di questi ragazzi ricchissimi dei nostri poveri quartieri. *** Noi non dimentichiamo mai neanche per un momento che qui, fra i padroni di Catania, ci sono esattamente gli stessi di trent'anni fa (sempre un solo giornale, imposto a tutti; sempre gli stessi affari, sulla pelle dei poveri; sempre città devastata). Non facciamo finta, come gl'intellettuali perbene, che sia arrivato il momento di commemorare il passato. Non ci tiriamo indietro rispetto al dovere civile, che è di lottare. Lottiamo perché bisogna, ma non diventiamo guerrieri. Lottiamo per Leopardi e per Mozart, e per i nostri ragazzi, non per odio o rancore. Questa è la nostra eredità. E quando per un momento ce ne allontaniamo, ben venga chi ci ricorda il cammino giusto. Cominciano così i secondi trent'anni dei Siciliani. Fraternamente, allegramente, col coraggio dei poveri, non all'altezza di niente ma non intimoriti da niente. I Siciliani

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I Sicilianigiovani aprile 2014 numero diciannove RIEPILOGANDO

foto d Alessandro Romeo

D'accordo, è una foto “vecchia” (del cinque gennaio) ma va bene così. I ragazzi sono ancora là, i loro amici pure. I ragazzi, nei poverissimi quartieri in cui vivono, continuano a fare musica alla faccia di tutti. E i loro amici più vecchi continuano a dargli una mano. Che volete di più? Se v'interessa la politica, la politica – quella vera – è proprio questa. A gennaio come ora. In realtà, il ritardo della foto (e del giornale) è colpa del segretario di redazione, del fattorino e di altri personaggi importanti che hanno avuto la pessima idea di mettersi a star male proprio al momento di dover lavorare per il giornale. Del giornale, comunque, dovremo discutere tutti insieme a inizio estate, a Napoli (molti di voi lo sanno già: se n'era parlato all'assemblea del 5 gennaio). S'è fatta tanta strada, che è arrivato il momento di far due conti: siamo soddisfattissimi di quel che s'è fatto finora, e perciò – giustamente – ne siamo insoddisfatti. Bisogna volare più alto, ma sempre senza padroni. Si pone perciò il problema di passare a qualche forma (ma sempre nostra, libera e collettiva) di “azienda”. Stiamo già raccogliendo progetti e idee.

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Questo numero Per che cosa/ I Siciliani Di Matteo: silenzi e grida/ di Gian Carlo Caselli Un nuovo fronte della società civile/ di Nando dalla Chiesa Una giornata particolare/ di Giovanni Caruso e Alfia Milazzo Il cammino dell'altra Italia/ di Riccardo Orioles Antimafia e politica Sodano Prefetto del popolo/ di Rino Giacalone Intervista a Ester Castano/ di Valerio Berra Poteri Strutture mafiose/ di Andrea Zolea e Francesco Moiraghi Legalità di Confindustria: strani amici Caso Manca: carte false perché?/ di Luciano Mirone Caso Ilaria Alpi: lo strano marinaio/ di Antonella Beccaria Riina/ di Giovanni Spinosa, Antonella Beccaria L'infiltrato/ di A.Pettinari, M.Cuccu e F. Mondin Italie Beni confiscati/ di Salvo Vitale, P.Maniaci,C.Nasi L'ora della trasparenza/ di Arnaldo Capezzuto I signori della munnizza/ di Carmelo Catania Calabria Il "rivoluzionario" e l'usuraio/ di Rocco Lentini Abruzzo: le cifre della cementificazione/ di Alessio di Florio Periferie La Periferica/ di Leandro Perrotta, Luciano Bruno, Fabio D'Urso, Massimiliano Nicosia Satira "MAMMA!"/ a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani Persone Padre Carlo: reato di Vangelo/ di Massimiliano Perna Libri Il MUOStro di Niscemi di Antonio Mazzeo Un "suicidio" di mafia di Luciano Mirone La confusione di Sebastiano Gulisano Grande Raccordo Criminale di Pietro Orsatti

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DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119 <----

SOMMARIO Testimonianze Le donne dell'antimafia/ di Miriana Schillaci Ragazzi di mafia/ di Michela Mancini Storia Un "pentito" si confessa/ di Elio Camilleri Storie Gli amici dell'anno XIV/ di Jack Daniel Bitcoin La bancarotta (protetta) di MtGox/ di Fabio Vita Società "Io gay e mio padre comunista"/ di Marino Buzzi Politica La Padania fa scuola/ di Riccardo De Gennaro Sicilia Palermo/ Una proposta contro la povertà/ di Nino Rocca Palermo/ L'Ecomuseo Urbano/ di Giovanni Abbagnato San Berillo: abbandono annunciato/ di Vincenzo Rosa Università Good bye via Zamboni/ di Beniamino Piscopo Antimafia Emilia: come vigiliamo sulla legalità/ di Sara Spartà Rimini/ Il processo Vulcano/ di Patrick Wild Expo senza mafia: si può?/ di Roberto Nicolini Un'assemblea a Marsiglia/ di Marino Ficco\\\

DISEGNI DI MAURO BIANI

61 62 64 65 66 68 69 70 71 72 75 74 76 77 78 Movimenti Da Radio dei poveri cristi a Radio Aut/ di Salvo Vitale "La voce di Impastato"/ di Giuseppe Cugnata NoMuos La forza della non violenza/ di Daniela Sammito/ foto di Maurizio Parisi Eventi Processo alla Nazione Il filo Mafia e antimafia in tempo d'elezioni/ di Giuseppe Fava

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Giustizia

Di Matteo: silenzi e grida di Gian Carlo Caselli Paura dell'indagine?

Moltissimo si è scritto della “captazione” di numerose conversazioni fra Salvatore Riina e un altro detenuto. L’attenzione si è concentrata sulle minacce, gravi e reiterate, persino truci, che Riina ha ossessivamente destinato al PM Nino Di Matteo, da anni impegnato – prima a Caltanissetta, ora a Palermo - in difficili inchieste di mafia, tra cui quella riguardante la “trattativa”, attualmente in fase di esame dibattimentale. Le minacce di Riina sono state interpretate in vari modi. Solo voglia di vendetta? C’è chi ha visto nel suo smaccato e sinistro atteggiamento nulla più – si fa per dire... - del risentimento e della voglia di vendetta che inevitabilmente animano un mafioso pluricondannato, che inevitabilmente scorge un nemico (da eliminare per vendetta) in chi pratica– come Di Matteo – un metodo investigativo vincente che continua a mettere in crisi la propria organizzazione.

C’è poi chi ha sviluppato questa tesi, cogliendo nelle parole di Riina anche la preoccupazione che l’incisività dell’azione di Di Matteo possa portare - nello specifico perimetro della “trattativa” - a scoprire verità per qualche motivo oscuro sgradite a Riina. O “chiamata alle armi”? Altri ha inteso i discorsi di Riina (minacce comprese) come una sorta di chiamata alle armi rivolta all’organizzazione perché invece di fare soltanto lucrosi affari torni ad un più “vivace” impegno sul versante militare; in questo modo Riina avrebbe voluto esprimere una linea d’intervento che non accetta di rimanere minoritaria, per di più relegata e sepolta nelle patrie galere. O rivincita personale? Qualcuno, infine, ha scelto una chiave para-psicologica che tutto sommato colloca Riina (al di là delle intimidazioni) in una sostanziale posizione di difesa. La strategia stragista dei corleonesi si è rivelata un pessimo affare per “cosa nostra”, costretta dopo il 1992 a

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subire un’efficace reazione dello Stato che ha consentito – pur fra alti e bassi di infliggere all’organizzazione duri (certo non definitivi) colpi. E’ possibile allora che Riina non riesca a riconoscere che la strategia da lui diretta ha portato a risultati ben diversi da quelli sperati. E che pertanto abbia rimosso la realtà, cercando di convincersi che lo stragismo non è stato un errore strategico. Arrivando a chiedere, con le minacce a Di Matteo, la riproposizione oggi – a distanza di oltre vent’anni - di quella stessa strategia, anche come personale rivincita. In ogni caso, tutti con Di Matteo Comunque sia, sta di fatto che le minacce di Riina a Di Matteo devono essere considerate in tutta la loro protervia e gravità. Sarebbe davvero insensato non temerle. Vanno perciò adottate tutte le misure possibili di adeguamento della sicurezza del magistrato e di solidarietà nei suoi confronti. PS - Non ho preso in considerazione la tesi che nella divulgazione delle minacce di Riina vorrebbe vedere una manovra diretta a rattoppare lo sdrucito tessuto dell’inchiesta sulla “trattativa”. L’oscenità di questa tesi strampalata supera infatti le mie capacità di comprensione.


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Italia

Un nuovo fronte della società civile di Nando dalla Chiesa

Sale giochi. E’ questo il nuovo fronte della sfida tra società civile e criminalità. Guai a non capirlo. Non perché chi apre una sala giochi debba essere per forza un riciclatore di soldi mafiosi o un architetto di flussi di denaro sporco. O direttamente un padrino stanco di trafficar droga e di uccidere per le strade. Ma perché i varchi che le sale giochi aprono agli interessi mafiosi sono obiettivamente enormi. E si moltiplicano proprio mentre lo Stato (o meglio: una sua parte) sta facendo di tutto per chiudere quelli (tanti) che già esistono. Non è stato così d’altronde anche per i casinò? Senatori e clan mafiosi Le prime grandi offensive mafiose al nord non hanno riguardato i casinò di Sanremo, di Campione, di Saint Vincent, non è stato lì che si sono allestite le prime indicibili alleanze tra sottosegretari di Stato, senatori, clan mafiosi e palermitani in lotta tra loro?

Recentemente si sta facendo anzi strada la tesi che proprio la scelta di indagare su quelle vicende sia costata la vita più di trent’anni fa al procuratore capo di Torino Bruno Caccia. E come dimenticare, ancora, le richieste provenute a ondate sempre dagli stessi ambienti di aprire un casinò in ogni regione, “per dare slancio all’economia turistica”? Enormi opportunità di riciclaggio In realtà nascono enormi opportunità di riciclaggio, di usurare chi perde forti somme, e grandi opportunità di guadagno diretto, anche. Senza trascurare quella aggiuntiva, ma non minore, di stabilire proficui rapporti con professionisti e politici con il vizio del gioco. Ebbene, le sale giochi sono la versione popolare e diffusa sul territorio di questa “imprenditorialità”, che cresce sulle fragilità e sulle disperazioni altrui. Sono la realizzazione della figura dello Stato biscazziere, che le promuove in nome delle tasse che può introitare, e che così scommette (è il verbo giusto…) sull’ignoranza e sulla alienazione anziché sulla cultura e sulla ricerca.

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Attenti anche a qualche questore Troppe vicende locali fanno pensare fra l’altro che le aperture indiscriminate di queste sale godano dell’appoggio delle istituzioni di polizia, visto che sono i questori i soggetti titolati a concedere o negare l’autorizzazione. Sospetto il vigore con cui vengono difese le autorizzazioni, sospetta la tempestività con cui vengono rilasciate, anche in polemica con i sindaci che intendano farsi carico delle esigenze civili e sociali dei propri comuni. Una proposta precisa Per questo lancio una proposta minimale ma che potrebbe rivelarsi utile per non lasciarci alla mercé di una tipologia di imprese che sa avere argomenti molto convincenti e di funzionari “sensibili” a quegli stessi argomenti: che le sale giochi possano essere aperte solo quando vi sia il parere favorevole congiunto di questore, sindaco e prefetto. Con tutta la burocrazia che uccide imprenditori e commercianti, non sarà un parere congiunto a frenare l’economia italiana. Giusto?


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Resistenze

Una giornata particolare E Renzi? E Grillo? E Berlusconi? E Crocetta, e Bianco? Roba per gente importante, non per noi poveracci. Per noi, la politica - se vogliamo chiamarla così - è un'altra cosa: per esempio la storia di venti ragazzini di quartiere che scappano dalle angherie destinategli e imparano a suonare Mozart, alla faccia di notabili e mafiosi. E via, forza così: questa è la strada di Giovanni Caruso e Alfia Milazzo/ foto di Alessandro Romeo I Sicilianigiovani – pag. 8


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Diritti dei poveri: si può “SE TANTI PARLANO CON UNA VOCE SOLA” Si, è una giornata particolare il cinque gennaio: ricordiamo un uomo e tanti altri uomini che credevano allo stato, alla giustizia dei codici, pur sapendo che senza la giustizia sociale non c'è democrazia. Lontani dalle celebrazioni ufficiali, dai picchetti d'onore, dalle ipocrite pagine del quotidiano cittadino che tenta di offuscare la memoria col suo revisionismo storico, siamo qui a San Cristoforo a ricordare lavorando, con gli uomini e le donne dei quartieri. Siamo qui al Centro Gapa presidio di resistenza in uno dei tanti quartieri abbandonati dallo Stato e consegnati alle mafie. Sono le 9,30 del mattino quando apriamo, una signora fa capolino davanti alla porta, e ci chiede:"C'è festa stamatina?". "Sì signora, oggi festeggiamo la libertà di parlare accompagnati da una buona musica!". Entrano alla spicciolata i ragazzini e le ragazzine con i loro strumenti musicali. Allegramente prendono posto e incominciano ad accordare violini e violoncelli Sanno bene che un solo strumento non fa un'orchestra. Sanno che una sola voce non fa cittadini e sanno che l'unità di tutte e tutti noi è l'unica maniera per rivendicare i nostri diritti.

Suonano Mozart e Vivaldi, ma fanno anche domande. "I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa perchè volevano tanto potere, tanto denaro, al punto da allearsi con la mafia e indicarle chi andava eliminato perchè raccontava la verità?" Rispondono gli adulti, con le parole di padre Pino Puglisi, di Falcone, di Borsellino, di Giuseppe Fava. Parole e musica vengono ascoltate con interesse e un po' di rabbia. "Ma tutto questo - si chiedono tutti - quando finirà? Quando tornerà il diritto alla dignità e alla felicità collettiva? Ascolta anche il procuratore della Repubblica, Giovanni Salvi. Ascolta in silenzio, ma sentiamo la sua soddisfazione di essere qui con noi, in questa "società reale", in questa parte di società fatta di donne e uomini, ragazzini e ragazzine che vivono il disagio dei quartieri. Ma da oggi qualcosa può cambiare, perchè oggi è una giornata particolare. “Ma un altro lavoro ci aspettava” Quella prima parte della giornata era finita ma altro lavoro, per continuare a fare memoria, ci aspettava. Mentre rimettevamo in ordine il nostro centro e discutevamo soddisfatti di come era andata, un signore si avvicinò dicendo: “Certo lo spettacolo è stato molto bello e i ragazzini sono stati molto bravi, ma a che serve tutto questo, a che servono le parole se poi viviamo in questo quartiere dimenticati dal Comune e dallo Stato? Dove i me' niputi se ne sono dovuti andare in una scuola più lontana picchi ca’ a

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chiurenu o se ti sventuri a camminare co’ scuru c’è periculu ca qualche spacciaturi non ti fa trasiri mancu a’ casa! Come si fa a dire di no a un politico che ti promette un lavoro da precario e ti da 50 euro per un voto? Io sono pensionato e ho lavorato tutta la vita e sono più fortunato de me niputi e di tutti ddi carusi ca furriunu co muturinu senza fari nenti o fossi picchi vannu… e quelli più onesti cercano un lavoro che non c’è oppure finiscono in mano dei mafiusi ca ni levanu a libertà!”. “Certo, caro signore, lei ha ragione ma cosa ci resta da fare? Guardi che le parole sono importanti, solo che se è uno solo a parlare viene preso per pazzo, ma se sono tanti, ma tanti, e parlano con una sola voce si possono ottenere tante cose. Per esempio, pretendere che il Comune ci ridia le piazze occupate dalla manovalanza mafiosa; oppure chiedergli di dare gli immobili confiscati alle mafie a chi è senza casa, dando pure lavoro per la ristrutturazione degli edifici. Potremmo chiedere, i beni confiscati, di darli alle cooperative giovanili, creando nuovo lavoro, o semplicemente "case" per le associazioni che non sanno dove riunirsi. E infine la "casa" dell'informazione, aperta, a chi vuol fare un giornalismo libero. Ma tutto questo si può fare solo se stiamo uniti, differenti ma uniti, parlando con una sola voce!". Quel signore non risponde, ma sorride con un sorriso che ci dà fiducia. "Sì, sono d'accordo - dice quel sorriso - andiamo avanti così!". Giovanni Caruso


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Musica per ricordare PIPPO FAVA E GLI INVISIBILI: UNA NUOVA CIVILTA' “Parole e musica per ricordare Giuseppe Fava” è il titolo della giornata che abbiamo dedicato a Pippo Fava il cinque gennaio. Comincia presto, alle 10.00 del mattino al Gapa, nel quartiere di San Cristoforo. Arriva il Procuratore Salvi. Lo Stato, o almeno una parte dello Stato, che egli rappresenta, è qui, seduto in prima fila, per Fava, con i nostri bambini di San Cristoforo. Si alza in piedi Caruso del Gapa. Racconta che in questi ultimi trent’ anni, da quel terribile 5 gennaio 1984, quando il “maestro” fu ucciso, l’impegno è continuato con un’attività di antimafia sociale. Accusa lo Stato di essere assente, proprio nei quartieri a rischio. Poi iniziano i bambini dell’Orchestra Falcone Borsellino. Suonano “Alla rustica” di

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Vivaldi. Li dirige Andrea La Monica, giovane maestro italiano che da alcuni anni segue la scuola creata dalla nostra “Città invisibile”. Spiega l’importanza di questo progetto educativo. L’orchestra è un corpo unico composto da parti diverse, che si armonizzano perfettamente se ciascuno impara a rispettare lo stesso tempo degli altri, e se si impara ad ascoltarsi a vicenda. I bambini di San Crisotforo Questi bambini, provenienti dai quartieri San Cristoforo, Librino di Catania, da Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia e da Siracusa, sono un esempio dell'

efficacia del metodo usato dal Sistema venezuelano creato da Abreu e inserito nella scuola della “Città invisibile”. Un percorso che utilizza la musica come strumento per insegnare il rispetto delle regole, fornisce gratuitamente gli strumenti, i maestri ed ogni esperienza altra formativa. Tra i docenti vi sono sempre stati maestri venezuelani che sono ospitati come volontari della scuola, e applicano il metodo in modo fedele. Veri e falsi sistemi In Italia c'è anche un ente nazionale, guidato da esponenti del Pd, che dichiarano “Sistema” attività progettuali inseriti nei Pon scolastici o percorsi individuali, non orchestrali, in cui i ragazzi coinvolti sono allievi dei conservatori e dei teatri. Questo non è il vero Sistema Abreu. Eppure, queste scuole che fingono di realizzare il progetto di Abreu ottengono finanziamenti pubblici consistenti in Sicilia. Ad esempio, il teatro Bellini di Catania, (perennemente in deficit per lo sperpero di denaro pubblico) ha di recente incassato un finanziamento di 4,3 milioni di euro dal “Pon sicurezza”, fondi destinati ai bambini poveri delle città siciliane, ma assegnati senza bando al teatro per realizzare un progetto di “legalità con la musica”.

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“La musica dei nostri ragazzi e le parole di Pippo Fava: la voce degli invisibili che cambiano la società” Da anni a costo zero Un progetto che noi qui alla “Città Invisibile” realizziamo invece da anni a costo zero, coinvolgendo oltre 470 ragazzi e 5000 giovani. Con 4,3 milioni di euro in 10 anni noi avremmo potuto aprire seicento scuole raggiungendo quasi tre milioni di bambini, potendo formare minori non solo siciliani ma di tutta Italia. E invece "La città invisibile" è osteggiata dalle istituzioni, persino nella richiesta di una sede propria.

Se ci fosse Fava Se ci fosse stato Fava questi fatti non li avremmo dovuti denunciare da soli. Li avrebbe scritti lui. Fava, il grande giornalista, il maestro della verità, rimane insostituibile: la sua voce era unica, forte e chiara, spietatamente veritiera, insomma straordinariamente giustiziera del marcio e della corruzione. Era il laboratorio di altre voci come la sua. Era un grido unanime contro lo sperpero di denaro pubblico a vantaggio di soliti noti. E in questo servizio che generava alla nostra terra, egli era il riscatto dei deboli, della gente onesta, e quindi anche di quelli come noi, se volete, di tutti noi volontari senza padroni.

“Suoniamo e lottiamo” La musica prodotta dai poveri strumenti dei nostri ragazzi, le parole di verità di Pippo Fava, il lavoro e l’impegno messo dai ragazzi per il raggiungimento di un risultato inaspettato eppure realizzabile, rappresentano la voce eccellente degli invisibili che ogni giorno “suonano e lottano” come recita il nostro motto). Gli unici che riusciranno, come ha affermato Riccardo Orioles, a cambiare in meglio la nostra città, il nostro Paese. Alfia Milazzo

Libri PARLANO I REDATTORI DI GIUSEPPE FAVA Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia” di Antonio Roccuzzo e Prima che la notte di Claudio Fava e Miki Gambino raccontano gli anni dei Siciliani di Giuseppe Fava come vennero vissuti dai ragazzi che con lui condivisero la più bella atoria del giornalismo italiano. Una storia che non è finita.

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Politica

Il cammino dell'altra Italia Medioevo sociale: re inutili, saccheggi e orde di feudatari imper versanti. E il popolo, gli ex cittadini? di Riccardo Orioles La politica, veramente, non conta più tanto in Italia, non almeno nel senso “occidentale” del termine: ormai è la finanza a sostituirla e lei sopravvive appena in qualche personaggio-macchietta e in qualche raffazzonato proclama. L'economia, a sua volta, è ridotta ai termini più elementari e si divide in econo-nostra, cioè la sopravvivenza quotidiana in un mondo sempre più asociale, e econo-loro, cioé la massimizzazione del profitto pura. Il panorama nel complesso è abbastanza medievale (gran stemmi a ogni angolo, re inutili, potere ai feudatari, folle di disperati affamati appena fuori le mura. Non c'entra niente col Novecento, e figuriamoci col Duemila. Qualcuno pensa agli anni simili dell'Ottocento, a illuminismo sconfitto e rivoluzione industriale imperversante. I nomi da libro di storia, in ogni caso, non sono gli occasionali Grilli e Renzi né Napolitano (che pure, cui suoi tre governi-del-Presidente in fila un suo contributo l'ha dato) ma gli ex tecnici e attuali re di fatto; in Italia Marchionne. Il golpe sociale di due anni fa è sato infatti l'unica vera svolta politica del Belpaese. Fiat militarizzata, statuti e leggi aboliti d'autorità, fabbriche portate via nel silenzio di tuttti. L'ultima scrivania è finita a Londra: e perché proprio lì? “Per non pagare le tasse - risponde lui candidamente – Perché io so' io e voi non siete un c...”.

Il continuum sociale, in questo stato, è rappresentato soltanto dalle più svariate aggregazioni di ex cittadini: volontariato, centri di quartiere, pezzi sopravvissuti di sindacato, edifici occupati, parrocchie “irregolari” e chi più ne ha più ne metta. Il modello mafioso In questa strana situazione di questo strano regno, noialtri dei Siciliani siamo fra i pochissimi a non turbarci più di tanto. Nella nostra città d'origine, infatti, tutte queste faccende si sono presentate con parecchi anni d'anticipo sul resto del reame. A Catania già negli anni '80 i politici, meramente parassitari, contavano ben poco: decidevano tutto quanto i Cavalieri (in linguaggio moderno “imprenditori”), a piacer loro; non c'erano giornali e tv ma un solo bollettino di corte. La plebe non aveva ovviamente alcun diritto, salvo festeggiare ogni tanto la sua squadra di calcio e i suoi santi. L'ordine pubblico consisteva in qualche arresto di ragazzini e in numerosissime uccisioni. Di là, e dalla vicina Palermo, il modello s'estese a tutta Italia. Un mafioso palermitano, Dell'Utri, fondò il partito che governò per vent'anni (e co-governa ancora) l'Italia intera. Il “Faccio quello che voglio” di un Graci o un Rendo anticipò di molti anni la strategia dei colleghi “imprenditori” Berlusconi o Marchionne. L'esempio vissuto di un ribelle Noi, a questo modello, non ci siamo mai rassegnati. Non per merito nostro, ma per l'esempio vissuto di un grandissimo ribelle, Giuseppe Fava. Scrivere, raccontare, far giornali; far sorridere, fare indignarsi, far pensare. Non rassegnarsi mai. Questo, senza tanti discorsi, ci ha insegnato. E questo, instintivamente, noi abbiamo cercato di portare in giro per il mondo.

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Per questo abbiamo mantenuto il nome che ci ha dato anche dopo che dalla Sicilia il modello mafioso - e quindi la nostra lotta - s'è esteso a tutta Italia. Siciliani non è affatto il nome di una terra. E' un modo di affrontare un destino non più solo nostro. Un modo di chiamare una rivolta. Piccoli, insufficienti: forse proprio per questo non siamo rimasti soli. Piccoli ci fanno tutti, questi grandi e feroci feudatari. Nessuno di noi “piccoli” - appena comi ncia a riflettere - ha forze sufficienti contro di loro. Bisogna unirsi, per vincerli. Noi lo chiamiamo “fare rete”, dappertutto.

Promemoria Dieci obiettivi dell'antimafia sociale ● Abolire il segreto bancario; ● Confiscare tutti i beni mafiosi o frutto di corruzione o grande evasione fiscale; ● Assegnarli a cooperative di giovani lavoratori; aiuti per chi le sostiene; ● Anagrafe dei beni confiscati; ● Sanzionare localizzazioni, abuso di precariato e mancato rispetto degli accordi di lavoro ● Separazione di capitale finanziario e industriale; tetto partecipazioni editoria; Tobin tax; ● Gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali (scuola, università, difesa, acqua, energia, strutture tecnologiche, credito internazionale); ● Progetto nazionale di messa in sicurezza del territorio, come volano economico soprattutto al Sud; divieto di altre cementificazioni; ● Controllo del territorio nelle zone ad alta intensità mafiosa. ● Applicazione dell'art.41 della Costituzione. Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.


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Foto di Maurizio Parisi (a destra) e Maria Vittoria Trovato (in alto).

Noi della bassa plebe Non è un lavoro facile. Lo sarebbe se fossimo tanti eroi e tanti geni, aiutati possibilmente da tutti i signori che dicono “facciamo opposizione”. Se fossimo in un film, insomma. Ma purtroppo non siamo in un film, nè purtroppo siamo geni o eroi. Siamo persone normali, perlopiù giovani o molto giovani (del resto la testata lo dice) con tutte le insufficienze e i problemi delle persone normali. Ester, a ventidue anni, riuscirà a vincere la causa (150mila euri!) che le ha intentato il dottore amico dei politici collusi? Daniela e Giorgio riusciranno mai a riaprire il giornale “clandestino” che hanno dovuto chiudere, giù in fondo alla Sicilia? E riusciranno a restare liberi Claudia e Leandro, che il loro l'han dovuto vendere a un padrone? Fabio e Luciano, giornalisti e poeti, per quanto tempo ancora riusciranno a sopravvivere distribuendo i volantini dei supermercati? E Giulio, e Norma, e Luca, con tutti i loro dolori? Ecco, questi sono i nostri problemi, quelli che a volte intralciano il cammino. Sono i problemi vostri, quelli degl'italiani di bassa plebe. Siamo bravissimi giornalisti, e attivisti civili come quio se ne vedono ogni cent'anni. Ma siamo precari, poveri, come più di metà degl'italiani. Questa è la nostra sola debolezza. E' anche la nostra forza, povera e immensa.

Questa è la nostra vita. Passano, sullo sfondo, le vite “grandi” degli altri. Il nobile Ciancio, riverito e ossequiato da tutti i visitatori, dall'ex valoroso giudice al ministro di polizia. Il vicerè Crocetta, colla sua corte di cavalieri onorati e di scherani. I granduchi e i baroni, accapigliati (“Populista!”, “Meno Elle!”) a conquistare o a difendere un potere che in realtà passa tranquillamente molto sopra a loro. Noi, da lontano e dal basso, a volte distrattamente li guardiamo. “E' andata bene, l'assemblea di Ragusa con Gzero?”. “Una ventina di ragazzi. E il seminario a Torino?”. “Hanno già mandato le loro pagine. Sembra che i Siciliani giovani ora siano natì anche lì”. Ecco, sono tutte qui le nostre vittorie. Esili, provvisorie, senza pretese. Eppure si susseguono da trent'anni. I dinosauri sono estinti ma le formichine sono ancora qui.

Termometro NOTIZIE ALLA RINFUSA

19 febbraio. Grecia: +43% di mortalità infantile dopo i tagli alla sanità (rapporto Cambridge-Oxford su Lancet). 24 febbraio. Catania. Condannato per violenza a studentessa il prof. Elio Rossitto, ideologo di palazzo. 27 marzo. Mafia. Revocato il 41 bis al boss catanese Aldo Ercolano. 5 marzo. Siracusa. Intitolata scuola a un carabiniere ucciso dalla mafia. I familiari tenuti fuori dalla cerimonia. Coro di bambini in omaggio al Capo del Governo. 18 marzo. Mafia. Confiscata la Geotrans di Ercolano, grande impresa di trasporti del Sud (coi Casalesi sull'asse Sicilia-Fondi). 19 marzo. Messina. Arresto per Francantonio Genovese, locale padre-padrone del Pd. 1 aprile. Istat. Disoccupazione al 13 per cento (donne 46 per cento, giovani 42). 2 aprile. Germania. Approvato il salario minimo: 8,5 euro l'ora. 8 aprile. Governo. Il ministro dello Sviluppo: La non-politica, il non-potere "La Fiat è un'azienda privata e può fare quello che vuole". 18 aprile. Rapporto Fieg. 887 giornalisti dei Ed è l'unica strada? Non crediamo. Le vie sono sempre molte, e in ogni caso noi quotidiani e 638 dei periodici a spasso negli non siamo in grado in grado di giudicare. ultimi cinque anni. Niente ricambio generazionale nelle redazioni. Fra quelli che si oppongono, le idee 15 aprile. Cina, 60mila operai in sciopero sono varie e tante e noi - purché si oppon- alla Yue Yuen, che produce scarpe per gano - le rispettiamo tutte quante. I proNike, Crocs, Adidas, Reebok, Asics, New blemi sono grandissimi, e la politica Balance, Puma, Timberland.

“alta” non li affronta: "Fate tutto quel che volete - dice in sostanza il potere - purché non sia politica, cioè potere". Ma forse il principale problema è la solitudine indotta Crediamo che la mafia oggi sia uno dei poteri più im- cioé la non-politica, il nonportanti, e che quindi combatterla sia fondamentale. potere. Crediamo che il giornalismo sia la forza essenziale Fare nuovi partiti? Mah. Ce della democrazia, e che non vada lasciato solo a chi ne vorrebbe (ma sarebbe ancora non può essere indipendente. un partito o una cosa del tutto Crediamo che l’antimafia e il giornalismo libero non nuova, una rete?) uno solo, ma siano sostenibili con le forze di pochi, e che quindi grosso. Un po' sul modello di debbano costituirsi in rete. quello che hanno fatto i greci, che qui in Italia però (fra partiti ni invadenti e sindaci-capipopolo alla finestra) forse non è stato compreso troppo.

L'antimafia sociale, per quel che capiamo noi, finora è la “politica” più reale. Unisce, e lotta davvero; il suo modello è la Resistenza. Non a caso la destra l'avversa e ne ha paura. I governativi la sfuggono, gli antigovernativi la sfuggono parimente. La sinistra, impegnata su mille fronti, non la ritiene importante (neanche Peppino Impastato, quand'era vivo, era molto di moda). *** Intanto, da qualche parte in Europa, un arciduca prepara un viaggio. Primavera '14...

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Italia

Antimafia e politica Lo Stato ha “trattato” sempre. Prima, durante e dopo Davvero l'antimafia”non ha politica”? Ma la mafia una sua politica l'ha sempre avuta... * "L'antimafia non è nè di destra nè di sinistra!". Sbagliato. L'antimafia nasce nettamente di sinistra, anzi - poiché a quei tempi la parola "sinistra si usava poco - direttamente "comunista". Sono già comunisti, negli anni '20, Nicolò Alongi e Giovanni Orcel, il sindacalista contadino e quello metalmeccanio ammazzati dalla mafia. E sono "socialcomunisti", dal Quarantatrè in poi, tutti i militanti antimafia - Accursio Miraglia, Placido Rizzotto, Turiddu Carnevale... - assassinati a decine dai mafiosi di allora, come anche i grandi e popolarissimi leader (Mommo Licausi, Michele Pantaleone) dell'antimafia di quel periodo. Il motivo è semplice. La mafia, allora, era in sostanza il braccio armato dei latifondisti; e i partiti socialista e comunista riunivano soprattutto i contadini poveri e i braccianti. Lo scontro era frontale. Ed era uno scontro senza mediazioni. Anche in altre parti d'Italia le lotte sociali erano dure e a volte sanguinose. Ma in nessun'altra regione esisteva un'organizzazione padronale armata come la Cosa Nostra dei primordi. La mafia, per la cultura ufficiale, era "un'invenzione dei comunisti per diffamare la Sicilia", come dichiarò a un certo punto un cardinale e la stampa antimafia si limitava a "il L'Ora", il giornale comunista. C'erano eccezioni: ad esempio Pasquale Almerico, un sindaco Dc, fu ucciso nel '57 per essersi opposto all'ingresso dei mafiosi (che allora non si appoggiavano su Andreotti ma su Fanfani) nel suo partito. Ma erano, appunto, eccezioni.

I filo-mafiosi “in buona fede” Molti dei filo-mafiosi - coloro che, nell'ansia di contrastare il "comunismo" sostenevano più o meno apertamente il sistema mafioso - erano persone perbene e in buona fede. Ma erano mossi in primis da un'antichissima concezione classista, di disprezzo totale verso i viddani, creature subumane da tener lontano da qualsiasi contatto con la politica e le faccende "civili": a fine '800, dopo una sommossa contadina, i proprietari terrieri della provincia di Caltanissetta firmarono una petizione per impetrare dal governo l'abolizione dell'istruzione elementare obbligatoria (da poco introdotta) che instillava idee di "novità" ai figli dei contadini. In secondo luogo, i galantuomini erano mossi da un anticomunismo paranoico, senza mezze misure, per cui qualunque organizzazione di sinistra, anche la più moderata, non era che l'anticamera di una feroce tirannia: non avversari politici, ma nemici da combattere a morte, con ogni mezzo. Lo stalinismo degli anni '30 in Russia - va detto per equità - era stato effettivamente una dittatura feroce, per quanto difficilmente apparentabile ai "comunisti italiani. La mafia al centro In terzo, ma non ultimo, luogo la Sicilia allora era un avamposto di guerra. La terza guerra mondiale, fra l'America e la Russia. L'isola, proprio al confine fra i due imperi, era appena stata strappata dagli americani ai nazisti con perdite gravissime, e usando anche mezzi poco ortodossi, fra cui la mafia. Gli americani, che vedevano l'intera faccenda su un piano non politico ma militare, erano decisissimi a tenere la posizione impiegando, anche stavolta, qualunque mezzo. Questi tre fattori - la lotta di classe fra latifondisti e bracciani, la lotta politica interna, la lotta militare all'esterno - misero la mafia al centro degli equilibri politici siciliani. Siciliani, bisogna precisare, non nazionali.

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I rapporti fra i boss mafiosi e Andreotti, acclarati al di là da ogni dubbio dalle inchieste di Gian Carlo Caselli, erano in questo senso fisiologici. Non erano una tabe personale di Andreotti. Giolitti - cinquant'anni prima - fu accusato non senza fondamento di essere in Sicilia "il ministro della malavita". I fascisti di Mussolini, tolto l'episodio iniziale (e rapidamente rientrato) del prefetto Mori trattarono tranquillamente coi mafiosi. Gli americani li usarono per lo sbarco del '43, e poi per la gestione dell'Isola conquistata. Fanfaniani e andreottiano ne fecero uno strumento politico ed elettorale. Lo stesso onestissimo La Malfa, epigono del buongoverno repubblicano, in Sicilia aveva il suo Aristide Gunnella; quando i probiviri del Pri proposero di espellerlo, a essere espulsi furono i probiviri. Nè Andreotti fu l'unico a incontrarsi fisicamente, e sistematicamente, coi boss mafiosi. Ai boss, libertà di movimento Il rapporto mafia-politica era strettissimo, ma geograficamente e istituzionalente limitato. Compito della mafia era: a) "fare le elezioni" in Sicilia per i partiti di governo; b) uccidere o altrimenti mettere in condizione di non nuocere gli oppositri del latifondo, cioè i "comunisti"; c) presidiare militarmente l'Isola in appoggio ai presidi ufficiali (non solo le Forze armate americane e italiane ma anche i vari Gladio, Stay Behind e copagnia armata) nell'eventualità di una qualsiasi emergenza. Ai mafiosi, nel cambio, veniva concessa una certa libertà di movimento dell'Isola, e in ispecie nella sua parte occidentale. Sindaci ed altri importanti esponenti vennero tratti direttamente dalle loro file; magistratura e forze dell'ordine vennero sostanzialmente dissuase dall'applicare la legge nei loro riguardi. Tutto ciò riguardava l'Isola, e non doveva oltrepassare lo Stretto: cosa che nè i mafiosi erano proclivi a chiedere, nè i politici a prendere in esame. La "trattativa" era limitata, ma era permanente.


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Gli omicidi dei “comunisti” E arriviamo così, in un quadro tranquillo e senza scosse - salvo le decine di omicidi di "comunisti" o di violatori del controllo territoriale - fino alla metà degli anni '70: quando quasi contemporaneamente si verificano tre fenomeni, indipendenti fra loro ma infime convergenti. Il primo è l'urbanizzazione della Sicilia dagli anni '60 in poi e lo spostamento del baricentro sociale dalle immense campagne dei latifondi alle città che rapidamente crescevano insieme alla Regione. Il controllo dei latifondi diventò secondario, per i boss più avveduti, rispetto alle succulente speculazioni edilizie delle città, dove rapidamente si svilupparono violentissime "guerre di mafia" (per esempio, a Palermo, la strage di viale Lazio) per il controllo degli appalti. Il monopolio dell'eroina Il secondo elemento è l'apertura - di solito per opera di componenti più moderne di Cosa Nostra - di nuovi e più redditizi mercati dei traffici di droga. Questi ultimi, nella mafia tradizionale, erano stati una componente accessoria e non centrale; per lo più si trattava di rifornire via Palermo i mercati americani. Fra la metà e la fine degli anni '70 venne intensificata (grazie anche alle strutture paramilitari americane sul posto) l'acquisizione di morfina-base dal Triangolo d'Oro ai confini della Thailandia; venne aperto un massiccio mercato europeo; venne istituito (soprattutto grazie agli emergenti catanesi) uno stretto rapporto coi fornitori di Cocaina della Colombia e di morfina-base della Turchia; venne sviluppata una rete di "raffinerie", per lo più in Sicilia, in cui la morfina-base veniva trasformata in quantitativi industiali di eroina pronta per la distribuzione. La Sicilia diventò rapidamente monopolista quasi assoluta di questa importante sostanza, nel cui mercato assunse una rilevanza pari - ad esempio - a quella del Giappone per le elettroniche.

Tutto questo trasformò radicalmente non solo le strutture di Cosa Nostra, ma anche la figura tipica del boss mafioso: dal vecchio "uomo di rispetto", non ricchissimo, forte soprattutto di una lunga e riconosciuta capacità di mediazione, si passa un un nuovo tipo di boss, basato più sui gruppi di fuoco che su un'autorevolezza accumulata negli anni, e soprattutto straordinariamente dotato - grazie al monopolio di fatto dei traffici di eroina - di capitali liquidi, che gli davano un peso non solo criminale ma anche politico assolutamente sconosciuto ai suoi predecessori. Questo significò, fra le altre cose, l'immediato squilibrio del rapporto mafiapolitica, in cui la parte debole e periferica assunse rapidamente un ruolo molto superiore. La crisi della politica Usa Il terzo elemento di trasformazione dela metà degli anni '70 è la crisi mediterrana della politica americana. Col senno di poi, si trattò d'una crisi tutto sommato limitata nel tempo e nello spazio; ma l'America in guerra non la percepì affatto così. Le basi Nato francesci buttate fuori da De Gaulle; persa la Grecia con la caduta dei colonnelli; perso il Portogallo di Salazar; in crisi il regime di Franco; in pericolo - con le avanzate elettorali di sinistra del 74-64 la stessa Italia; e, sullo sfondo di tutto, le effervescenze sociali degli anni '70. A che cosa serviva la P2 Non è strano che i circoli responsabili Usa (impegnati, ripetiamo, non in una competizione ideologica ma in quella che secondo loro era una guerra) abbiano battuto l'allarme. E non è strano neanche che, tutti o alcuni, abbiano pensato di ricorrere agli stessi strumenti adoperati, in una crisi italiana analoga, nel 46-47. E cioè: - affidamento a settori "affidabili" (o creati ex novo) di Cosa Nostra di un più rigido controllo del territorio;

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- infiltrazione massiccia nella maggiore organizzazione semi clandestina, la massoneria (nell'ultima fase della P2, la maggioranza dei nuovi aderenti erano siciliani o operanti in Sicilia; ma già nel dopoguerra tutti i dirigenti separatisti, usati dal governo Usa per premere su quello italiano, erano massoni di alto grado); - inaugurazione di una fase per così dire "di movimento", d'attacco, e non di semplice conservazione dello status quo. L'antimafia degli anni '80 Questa nuova fase dei rapporti mafiapolitica, dalla fine degli anni '70 in poi, non viene però contrastata principalmente dalla vecchia antimafia "comunista", che si era intanto allentata per le trasformazioni intervenute nei partiti che le avevano originariamente dato vita. L'antimafia degli anni '80, che pur comprende i residui della vecchia (la prima grossa manifestazione antimafia degli anni '80, per dalla Chiesa, fu ancora organizzata dallaFgci), è prevalentemente u'antimafia nuova, urbana, con una forte componente cattolica e un riferimento "ideologico" alla società civile. Meno perseguitata di quella degli ann '40-'50, pagò tuttavia un alto ccntributo di sangue. Le sua radici sociali sono nel nuovo ceto medio, soprattutto giovanile, delle città. Gli uomini della nuova antimafia Gli uomini della vecchia antimafia furono il contadino comunista, il segretario di sezione, il militante sindacale. Quelli della nuova antimafia lo studente, il magistrato, l'insegnante, il prete di periferia. Non più "comunista", l'antimafia restò tuttavia solidamente di sinistra, una sinistra non-partitica, sociale, con un implicito anelito, che non l'abbandonò mai, a produrre soggetti "politici" che tuttavia mantenevano un'autonomia e una diffidenza nei confronti della politica ufficiale.


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Persone/ Sodano, un eroe civile

Prefetto del popolo

Sodano non ha perso, ha vinto. Abbiamo vinto. Sodano non è morto, è vivo. E noi dobbiamo saper restare vivi con lui, col suo ricordo di Rino Giacalone La prima telefonata è come un colpo di frusta che ti coglie in un momento spensierato, con le tue figlie. “Rino, il prefetto Sodano non c’è più”. Sapevi che un giorno o l’altro qualcuno te lo avrebbe detto. E ti ripeti dentro di quante volte ti eri ripromesso di andare a Palermo a trovarlo. Porti dentro l’amaro di una incomprensione che si era creata perché non erano state spese le giuste parole. Ma poi ti riprendi e ricordi l’ultima chiacchierata telefonica con la moglie, la signora Maria. Non c’erano state incomprensioni. Non ce ne potevano essere tra noi. Le altre telefonate tocca farle a te. Poche parole per chiudere il telefono e dar possibilità di far scendere qualche lacrima, intima, personale. Fulvio Sodano a 67 anni ha posto fine alla sua sofferenza fisica, con tanti condivideva quella morale. Fulvio Sodano ci ha però lasciato il dovere di continuare, lui che da anni era immobile, inchiodato alla sua poltrona che lo ha stretto fino a stamattina, ci ha dimostrato a noi che stiamo bene, che non abbiamo malanni, che possiamo camminare, scrivere, parlare…urlare, che per combattere le mafie non c’è bisogno di avere l’uso degli arti, della parola, ma l’uso della mente, dell’intelligenza, la vivacità degli occhi, il ricordo. “Ascolta la pianta dei tuoi piedi che calpestano la terra…” (Gandhi) ecco quello che nel nome di Sodano oggi ci resta da…continuare a fare. Calpestare questa terra percorrendola in ogni dove e raccontare quello di bello e di brutto che vediamo.

“Ha continuato a lottare” Sodano questo ha fatto. Fin quanto ha potuto ha calpestato la terra sulla quale ha vissuto, ha saputo continuare a farlo anche quando è rimasto schiacciato su quella poltrona, ha continuato a vedere e a farci vedere la bellezza di questi nostri luoghi e ha scelto di non fermarsi mai dal ripulirla di quello che di sporco c’era, anche dentro quei palazzi dove dovrebbero abitare la fedeltà e il rispetto verso le Istituzioni. Non dobbiamo fare altro che questo e ci accorgeremo che Sodano non è mai morto, è vivo. Vivo nei nostri ricordi, nelle nostre azioni. Ad accompagnarci ci saranno le molecole di Fulvio Sodano che restano eterne: mi piace dire così come diceva Margherita Hack…”quelle, le molecole, restano eterne e andranno a comporre altri oggetti…altri corpi”. Uomo di Stato fino alla fine. Nonostante tutto. Come lo disegnò benissimo Vauro resta testimone di come lo Stato ingiusto sa far piangere i propri uomini migliori. Quel pianto dinanzi alle telecamere di Anno Zero nell’ottobre del 2006, non era solo Suo, era anche nostro. Fu anche nostro. Muovendo le mani che gli servivano a scrivere le risposte alle domande di Stefano Maria Bianchi, raccontò quello che gli era accaduto facendo il prefetto a Trapani, sfidando i mafiosi, il boss Matteo Messina Denaro, evitando che Costa nostra continuasse a detenere i beni confiscati, che la mafia riuscisse nell’intento di riprendersi la Calcestruzzi Ericina, un impianto che oggi vive nel nome di Sodano, col cuore e l’impegno degli operai che hanno costituito una cooperativa trasformando quell’impresa in qualcosa di unico, eccezionale, e non solo perché hanno saputo riconvertirla, ma perché la Calcestruzzi Ericina Libera è stato il primo dei beni confiscati a tornare sul mercato. Chiama Giacomo Messina, il presidente della cooperativa. Anche lui poche parole, poche frasi. Sodano era stato il loro nuovo padre, i mafiosi li volevano disoccupati, Sodano ridiede a loro lavoro e speranza. E divenne anche lui operaio onorario della Calcestruzzi Ericina Libera.

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Quello che è accaduto è storia. I mafiosi intercettati che parlavano di lui facendo grande offesa, che auspicavano che se ne andasse via da Trapani, l’ex sottosegretario all’Interno che con un pretesto (la mancata visita del presidente Ciampi alle sue saline) lo richiamava e poi si sarebbe adoperato per farlo trasferire da Trapani, Sodano già ammalato si ritrovò nell’estate del 2003 prefetto ad Agrigento, poco tempo dopo costretto dalla malattia a lasciare ogni incarico. D’Alì per quella intervista fece causa civile contro Sodano e il giornalista che realizzò il servizio. Perse la causa. Un altro giudice però non fu altrettanto attento con Sodano. Non lo ammise come parte civile al processo penale contro l’ex sottosegretario accusato di concorso esterno. E dove i pm sostenevano che il trasferimento di Sodano spinto dalla mafia, sarebbe stato chiesto da D’Alì mentre era al Viminale. Deve essere il ministero a costituirsi non la persona. “La gente vede e capisce...” Paradossale: a costituirsi parte civile avrebbe dovuto essere quel ministero dell’Interno che probabilmente ha saputo nascondere le ragioni dell’improvviso trasferimento da Trapani ad Agrigento del prefetto Sodano. L’ultima intervista che gli feci ha lasciato parole scolpite nella mia mente, “la gente vede e capisce…e capisce che le cose possono cambiare, che il vento sta cambiando”. L’ultima telefonata che ricevo mentre finisco di scrivere è quella di un ex mafioso, un imprenditore che domenica ha finito di scontare la sua pena, che è tornato in carcere ed ha accettato di tornare in carcere anche dopo avere raccontato ai magistrati tutto quello che sapeva sulla mafia trapanese, anche sul trasferimento di Fulvio Sodano. Domani sul giornale ci sarà anche il suo necrologio. Sodano non ha perso, ha vinto. Abbiamo vinto. Sodano non è morto, è vivo. E noi dobbiamo saper restare vivi con lui, col suo ricordo. Ciao mio Grande Prefetto!


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Inter viste/ Ester Castano

Il mestiere di giornalista Ester è stata insignita del Premio Pippo Fava Giovani, dedicato ai giornalisti impegnati nella lotta alla mafia di Valerio Berra www.stampoantimafioso.it Cos'hai pensato quando ti hanno comunicato del premio? L’emozione è stata talmente forte che mi è mancato il fiato. Per me, siracusana d’origine, le sensazioni vissute in questi giorni catanesi sono state amplificate dalle mie radici. Mi sono avvicinata alla figura di Pippo Fava qualche anno fa. Inizialmente sapevo poco di lui, conoscevo solo gli scritti essenziali, le inchieste più celebri come i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. Un po’ perché anche Fava era siracusano, un po’ perché a Milano e Bologna amici più grandi attivi nell’antimafia me ne parlavano spesso. Quando desidero conoscere qualcosa devo guardarla da vicino, e quindi decisi di andare a Palazzolo Acreide, il paese in cui è nato: non conoscevo nessuno, era estate e ricordo che lungo la piazza principale sfilava una processione. Mi misi in un angolo e osservai tutto silenziosamente, i volti delle persone e le luci. Poi muovendomi in mezzo alla folla cominciai a fare qualche domanda: lei lo conosceva? Leggeva i Siciliani? La mafia che uccise Fava è la stessa che oggi è attiva in città? Era già un paio d’anni che a Milano, città in cui vivo, collaboravo con una redazione e già allora dissi al direttore: il mio sogno è tornare in Sicilia e crescere giornalisticamente nell’isola. Diciamo che la ‘ndrangheta al Nord mi ha trattenuta al di sopra del Po, e in un certo modo fare inchiesta in Lombardia mi ha aiutata ad apprezzare il territorio in cui sono nata e

cresciuta, e quindi a volerlo difendere. Non avrei immaginato, a quattro o cinque anni di distanza, di tornare in quella stessa piazza di Palazzolo Acreide onorata da un riconoscimento che porta il suo nome. Mi sono emozionata molto. A chi vorresti dedicarlo? Mi è stato detto da colleghi giornalisti che vedo la mafia al nord perché le mie origini sono meridionali, “l’eroina dell’antimafia che rovina la nostra terra con le sue visioni distorte”. Vorrei che da oggi in poi quando si parlerà del «premio Pippo Fava Giovani» che mi è stato assegnato si parli anche di tutti i ragazzi dei Siciliani Giovani, rete di testate e associazioni antimafia nata dalle ceneri dei Siciliani grazie a un impegno quotidiano da nord a sud dello Stivale. Il premio va a loro, perché se nei momenti difficili che ho vissuto durante l’inchiesta su Sedriano, primo comune lombardo sciolto per mafia, non ci fossero stati loro con messaggi d’affetto, abbracci e comunicati di solidarietà, da Bologna a Modica, probabilmente oggi non avrei questa forza e serenità. Ad ogni momento di tensione la rete si è mobilitata creandomi attorno uno scudo di protezione e questo, fatto da ragazzi e ragazze giovanissimi contro i poteri forti della malapolitica e della criminalità di stampo mafioso, è eccezionale nel vero senso della parola. Il giornalismo nella lotta alla mafia? E’ fondamentale. A mio parere per avere credibilità la distinzione fra giornalista e attivista deve rimanere netta anche nell’antimafia. Ma è anche vero che in un momento storico confuso e delicato come il nostro il giornalista d’inchiesta dovrebbe essere capace di far scattare una miccia fra i lettori, una scintilla: gli articoli sono uno strumento tramite cui i cittadini possono avere uno sguardo approfondito sulla realtà. E’ il giornalista che ha la possibilità di studiarsi le carte, di porre domande, di osservare da vicino. La responsabilità è immensa. Poi sta al cittadino decidere se, grazie agli elementi forniti dal

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cronista attraverso le sue denunce, avviare il cambiamento e ribaltare il sistema. Cosa è rimasto di Pippo Fava nel giornalismo italiano? C’è qualcuno che ne ha raccolto il testimone? Uno dei grandi meriti di Fava è quello di aver creato uno spirito giornalistico: un po’ come un batterio benefico, intacca la carne malata e crea oasi di guarigione. La mafia voleva tappargli la bocca: per questo è stato ucciso. Ma così facendo i mandanti hanno compiuto l’errore più grande: ammazzando il direttore dei Siciliani non solo non hanno posto fine alla forza dirompente dei suoi scritti, ma hanno anche reso possibile il moltiplicarsi di esperienze simili, in Sicilia e nel resto d’Italia. Non so se Cosa Nostra questo errore l’abbia compiuto per ingenuità o distrazione, sta di fatto che ha perso. Il giornalismo di Fava è stato assunto a modello da molti giovani: cercare le notizie nei luoghi dei fatti, osservare da vicino, cogliere i dettagli e le sfumature, curare nel testo la propria espressione linguistica. E dal giorno successivo a quel 5 gennaio 1984 la forza dirompente delle parole di Fava si è amplificata, moltiplicata, permettendo infinela creazione della rete dei Siciliani Giovani che oggi coinvolge giovanissimi cronisti e associazioni antimafia che in Fava riconoscono un maestro. Come si sta evolvendo e cosa sta succedendo al movimento antimafia? Il movimento antimafia è un continuo fiorire di nuovi gruppi, presidi, associazioni. Ragazzi giovani, perlopiù ventenni, che vedono l’antimafia non come una spilletta colorata da sfoggiare sulla giacca ma come un fondamento del vivere quotidiano. Bisognerebbe spiegare ai più giovani che la mafia è regole ferree e restrizioni, obbedire ai comandi e sottomissione ad un capo; mentre l’antimafia è bellezza, impegno sociale, amore per la propria terra e, soprattutto, è indipendenza dai poteri forti, è ribellione ai sistemi corrotti e compromessi della politica nazionale e locale.


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Antimafia/ Strumenti

Cosa Nostra e 'ndrangheta Due strutture a confronto In che cosa differiscono fra loro le due principali organizzazioni mafiose? Analisi strutturale di analogie e convergenze di Andrea Zolea e Francesco Moiraghi www.wikimafia.it In Strutture. Cosa nostra e ‘ndrangheta a confronto. si è affrontata l’evoluzione storica degli assetti organizzativi di Cosa nostra e ‘ndrangheta: dal Summit dell’Hotel Des Palmes a Villa Pensabene, dal summit di Montalto all’elezione del Capo Crimine. Le due consorterie criminali hanno rivelato differenti dinamiche evolutive, legate a particolari contesti ed eventi che ne hanno determinato l’ascesa o il declino. Segue il confronto finale delle strutture delle organizzazioni.

Organi di coordinamento Sono state analizzate in precedenza le strutture tipiche di Cosa nostra che ne hanno accompagnato lo sviluppo. L’organo di coordinamento principale è stato per decenni la Commissione. E’ stata già chiarita la predominanza della Commissione provinciale palermitana rispetto ad altri organi come la Commissione regionale. Questo ovviamente per l’importanza storica che ha avuto il territorio palermitano in Cosa nostra. La tendenza al sinecismo (dunque all’unione delle varie consorterie criminali in un’unica struttura) è chiaro indice di un’aspirazione alla verticalizzazione della struttura: Cosa nostra ha il bisogno di un capo e le famiglie devono avere modo di coordinarsi, attraverso questi organi di controllo. Bisogna sottolineare come, prendendo in esame gli ultimi quarant’anni, il capo della Commissione provinciale abbia avuto un potere concreto sull’organizzazione e sulle azioni delle singole famiglie. Nella fase “democratica” di Cosa nostra, tutti i capimandamento si esprimevano sulle questioni più importanti, ma già si poteva notare quell’affermazione di tipo assolutistico.

Stefano Bontade, ad esempio, aveva un enorme potere di influenza su tutta la Commissione, e vale la pena ricordare un episodio in cui, irritato per il comportamento dei corleonesi, afferma che avrebbe ucciso Riina la prima volta che si fosse presentato ad una riunione. Questi atteggiamenti avrebbero poi preso piena consistenza nella figura di Salvatore Riina, che agisce come un tiranno legibus solutus con totale controllo dell’organizzazione. Il “Crimine” e il “Capo Crimine” Il cuore della mafia calabrese si trova nella Provincia di Reggio Calabria, la struttura di vertice che unifica la ‘ndrangheta viene chiamata “Crimine” ed è composta dagli affiliati dei 3 mandamenti della Provincia : Jonica, Centrale e Tirrenica. Il “Crimine” viene gestito a rotazione da un “Capo Crimine” che ha un ruolo di garante delle leggi ma non pianifica le attività criminose. Questo ci fa comprendere che la ‘ndrangheta ha un’impostazione maggiormente democratica rispetto a Cosa Nostra: la storia conferma che il potere reale è spartito orizzontalmente tra i tre mandamenti della Provincia di Reggio Calabria.

Centralismo mafioso e familismo criminale. Le differenze Argomenti Tipo di Struttura Forma di governo Funzione del Capo Apice del potere Centro storico di potere Struttura di potere centrale Suddivisione del potere interno Coordinamento extraterritoriale Struttura organizzativa territoriale Struttura base

Cosa Nostra Verticistico-piramidale Democrazia - Dittatura (post-Riina) Capo del Governo Anni ‘80 Provincia di Palermo Commissione Province --Mandamento Famiglia

‘Ndrangheta Verticistico-Orizzontale/ unitario Democrazia Presidente della Repubblica In corso Provincia di Reggio Calabria Crimine Mandamenti Camera di Controllo Locale ‘Ndrina (familismo)

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Due modelli diversi, uno verticistico-piramidale e l'altro verticistico-orizontale

Per mantenere unita l’organizzazione e non avere dispersioni è stato necessario dare una rigida struttura che permettesse

sempre il controllo e la gestione del potere sull’importante espansione che si voleva portare avanti.

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Le varie inchieste della magistratura stanno definendo nei dettagli un vero e proprio organigramma.


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“In Lombardia, la 'ndrangheta ha una struttura organizzata dal 1984” Le “Camere di Controllo”

Un capo “di garanzia”

Le “Camere di Controllo” sono organi con estensioni statali, regionali o provinciali che hanno la funzione di coordinare secondo le direttive del Crimine i numerosi locali attivi nelle aree all’infuori della madre patria. La subalternità alla Calabria dei clan all’infuori della regione non è una novità, già negli anni ’70, tramite le filiali attive nel Nord-Italia, la ‘ndrangheta realizzava i sequestri di persona. Ma la notizia di una vera e propria “struttura” viene scoperta grazie al collaboratore di giustizia Saverio Morabito che dichiara che la “camera di controllo lombarda “ è stata creata nel 1984. Nel 1981 nella lontana Australia si riferisce dell’esistenza di 6 Crimini che hanno rapporti di subalternità con la Calabria. Ulteriore dimostrazione del rapporto subalterno nei confronti della Calabria è l’esecuzione di Carmelo Novella avvenuta nel 2008 a San Vittore Olona (provincia di Milano) perché voleva rendere autonomi i locali lombardi da quelli calabresi.

Se possiamo paragonare la funzione del Capo Commissione di Cosa nostra a quella del Presidente del Consiglio, dunque con un ruolo maggiormente operativo e di influenza su famiglie e mandamenti, al contrario il Capo Crimine può essere accostato al Presidente della Repubblica, date le sue funzioni di mediatore e garante delle leggi dell’organizzazione. A livello puramente strutturale, Cosa nostra ha una forma fortemente verticistica, mentre la ‘ndrangheta ha una struttura di tipo unitario, con un capo che ha la funzione di garantire leggi, affari ed evitare conflitti. Cosa Nostra: rapporto col territorio Le famiglie di Cosa nostra sono saldamente legate al territorio di appartenenza, più che ad una dinastia criminale, dunque prendono il nome del quartiere o del paese in cui operano. I clan, da questo punto di vista, arrivano in un secondo momento. Ad esempio l’arresto di capi e gregari di un determinato mandamento non comporta la sua scomparsa, ma semplicemente, nella famiglia o nel mandamento in questione ci sarà una successione della dirigenza criminale.

Le radici in Calabria Il collaboratore di giustizia Antonino Belnome riferisce agli inquirenti «Un ‘locale’ è forte se ha le sue radici in Calabria e chi non ha questo cordone ombelicale non ha forza, […] è come una zattera nell’oceano». La volontà di unificare la mafia calabrese si ritrova per la prima volta durante il summit di Montalto del 1969 in cui Giuseppe Zappia dice: «Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta: si dev’essere tutti uniti. Chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va».

'Ndrangheta: vincolo di sangue La ‘ndrangheta ha una rigida struttura basata sul vincolo di sangue della famiglia naturale. L’educazione all’interno delle ‘ndrine si basa su valori quali l’omertà, il rispetto, la vendetta. Attraverso la conservazione della pax mafiosa i casati della mafia calabrese realizzano matrimoni combinati, inoltre, lo stretto vincolo famigliare in paesini come quelli dell’Aspromonte rende complessa la possibilità di collaborare con la giustizia.

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“Riina, Badalamenti e Greco sono stati eletti, ma Provenzano no. A volte l'organizzazione si raccoglie spontaneamente attorno a un leader di fatto nella speranza che possa salvarla da una crisi”

Per locale di ‘ndrangheta si intende l’estensione del potere di più ‘ndrine in un determinato territorio. Il ‘locale’ nel paese in cui opera ha la sovranità criminale. L’attivazione di un ‘locale’ può avvenire solo attraverso il consenso del ‘locale’ principale di San Luca. Selezione strutturale La successione dei capi di Cosa nostra ha attraversato fasi differenti: dall’elezione del Capo Commissione degli anni ’70, si è passati all’affermazione violenta di Riina, per poi tornare ad una fase in cui il capo viene scelto in base a criteri di capacità e carisma. Provenzano e Messina Denaro non si impongono sull’organizzazione come a suo tempo fece Riina, dunque con l’eliminazione fisica dei concorrenti. Piuttosto, è l’organizzazione che li riconosce in base ad un criterio di valutazione più o meno meritocratico.

Addirittura Provenzano, come già accennato, non ha mai un’elezione ufficiale come era stato per Riina, o ancora prima per Badalamenti o Greco. L’organizzazione, fortemente danneggiata e alla ricerca di una guida che possa risanarla, si raccoglie attorno alla figura del nuovo capo. Anche per Matteo Messina Denaro si possono individuare le medesime dinamiche: addirittura i boss di altre province richiedono una sua legittimazione, senza che sia lui a prendere l’iniziativa imponendo la propria decisione. Un capo dei capi solo in Cosa nostra La ‘ndrangheta non ha mai avuto un capo dei capi sul modello di Cosa nostra. Allo scoppiare della prima guerra di ‘ndrangheta (1974-1977) i tre boss più prestigiosi erano Antonio Macrì di Siderno, Domenico Tripodo di Reggio Calabria e Girolamo Piromalli di Gioia Tauro.

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Nel 1979 viene ucciso Giorgio De Stefano perché voleva diventare il capo dei capi della mafia calabrese. La “Cosa Nuova” Alla conclusione della seconda guerra di ‘ndrangheta viene istituita una commissione denominata Cosa Nuova, in totale erano presenti 18 affiliati: 8 della jonica, 5 del centro e 5 della tirrenica. All’interno della ‘ndrangheta c’è una tendenza al verticismo, molti clan sono più potenti di altri, sebbene i ‘locali’ che costituiscono l’èlite della ‘ndrangheta abbiano un potere similare.

http://www.wikimafia.it/wpcontent/uploads/2013/12/STRUTTURECosa-Nostra-e-ndrangheta-aconfronto.pdf


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Legalità

Confindustria e strani amici

L'imprenditore-boss di Cosa Nostra Vincenzo Arnone (a sinistra nella foto) e Antonio Calogero Montante, nella sede della Confindustria di Caltanissetta, in occasione della nomina di Antonello Montante a capo dei giovani industriali locali (metà anni '80). Antonello Montante è oggi il Responsabile Nazionale per la Legalità di Confindustria. A destra, il certificato di matrimonio di Vincenzo Montante. Nell'ingrandimento, in evidenza la firma del testimone di nozze dello sposo: Vincenzo Arnone Nasce da una denuncia a Caltanissetta l'inchiesta, finita per competenza alla Procura di Catania, che coinvolge il leader di Confindustria Sicilia e responsabile nazionale della Legalità degli industriali italiani e il sospetto mafioso Antonello Montante. Le indagini partono però dal 27 aprile 2010, quando in casa di Vincenzo Arnone, imprenditore di Serradifalco contiguo a Cosa Nostra, vengono ritrovate foto che lo ritraggono insieme ad Antonello Montante. Arnone, figlio del patriarca mafioso di Boccadifalco e già arrestato per associazione mafiosa il 27 marzo 2001). Arnone veniva in quel momento nuovamente arrestato per una serie di false certificazioni su calcestruzzi depotenziati (che

mettevano in pericolo ponti e viadotti) costruiti dalla "Calcestruzzi" con l'aiuto di ditte vicine a Cosa Nostra: un business descritto nel processo "Doppio colpo 3" da Carmelo Barbieri, già braccio destro del boss Daniele Emmanueli. La foto risalirebbe al primo incarico confindustriale di Antonello Montante, nel '96. “Sapevo della condizione di Paolo Arnone - dichiara il pentito Leonardo Messina - fin dal momento del mio ingresso a Cosa Nostra e lo ebbi presentato ritualmente dal figlio Vincenzo che conosco

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molto bene”. Per i carabinieri di Caltanissetta “Vincenzo Arnone è personaggio di elevato spessore criminale e punto di riferimento per gli appartenenti a Cosa Nostra che operano a Serradifalco, San Cataldo, Sommatino e Montedoro”.

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Il cavaliere del lavoro Antonello Montante, confermato all'unanimità a capo di Confindustria Sicilia per un altro biennio, ora è anche Responsabile nazionale per la Legalità di Confindustria.


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Il foglio dei Sicilianigiovani I Siciliani 23 Sicili igiovani – pag. p


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Caso Manca

Carte false: perché? Il Papa dice che Attilio Manca è stato ucciso dalla mafia. Lo Stato smentisce o tace... di Luciano Mirome www.linformazione.eu Don Luigi Ciotti, come migliaia di italiani, e decine di giornalisti e intellettuali, è sulla lunghezza d’onda del Pontefice, ma lo Stato continua a smentire o a tacere. Ed è impressionante notare che, mentre nella Giornata della memoria dedicata alle vittime della mafia, al cospetto di Sua Santità, Attilio Manca è stato definito vittima di Cosa nostra, lo Stato continui a smentire una circostanza per la quale – in base agli elementi emersi – dovrebbe avere quantomeno un pizzico di prudenza. Specie se, in questo caso, lo Stato è rappresentato da un magistrato come Michele Prestipino, fino ad alcuni anni fa alla Procura di Palermo, dove un processo ha fatto luce su molti retroscena legati all’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno del 2003, si sottopose a Marsiglia Bernardo Provenzano. Ecco cosa dichiara in Commissione parlamentare antimafia Michele Prestipino, oggi procuratore aggiunto a Roma: “C’è un’ultima questione, la questione di Attilio Manca. Io ora non parlo come procuratore aggiunto di Roma, perché Roma, che a me consti, non credo abbia attivato o seguito indagini. Ci sono le regole della competenza. Io me ne sono occupato quando ero sostituto a Palermo e, rispetto alle ultime emergenze, sia pure di tipo giornalistico e mediatico, sento il dovere di dire almeno una cosa.

La “carta d'identità di Troia” C’è un processo che si è svolto a Palermo, che si è concluso con sentenze divenute definitive, cioè con tre gradi di giudizio, con condanne e, quindi con l’accertamento delle responsabilità penali, in cui è stata ricostruita in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi passaggi, anche geografici, quella che mediaticamente è stata definita la ‘trasferta’ di Bernardo Provenzano nel territorio di Marsiglia per sottoporsi a un’operazione chirurgica”. Nel corso dell’audizione, il senatore del M5S Mario Michele Giarrusso puntualizza: “Con la carta di identità di Troia”. Giarrusso si riferisce al fatto che Provenzano, per quell’intervento a Marsiglia, ha usufruito di una carta d’identità falsa, approntata dall’ex presidente del Consiglio comunale di Villabate (Palermo), Francesco Campanella (all’epoca organico a Cosa nostra e contemporaneamente amico di politici di altissimo livello del centrodestra e del centrosinistra), ed intestata al panettiere Gaspare Troia. “Sì, esattamente quella”, risponde Prestipino. Che prosegue così: “Quella vicenda è stata ricostruita, passatemi il termine, minuto per minuto e tutti i soggetti coinvolti che hanno commesso reati sono stati condannati con sentenza passata in giudicato grazie alle intercettazioni, alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e agli atti acquisiti con una rogatoria presso l’autorità giudiziaria di Marsiglia, alla quale ho personalmente partecipato”. “Noi abbiamo sentito – dice ancora il magistrato – con i colleghi francesi, i medici e il personale infermieristico. In più, abbiamo acquisito le dichiarazioni, estremamente collaborative, di una donna che è stata legata a uno degli uomini che avevano organizzato la trasferta e che ha curato e assistito personalmente, spacciandosi per una nipote, il signor Troia, in realtà Bernardo Provenzano, quando è stato ricoverato in terra di Francia. Ebbene, nella ricostruzione abbiamo sentito chi lo ha assistito, chi l’ha operato, chi ha fatto il prelievo; abbiamo potuto estrarre anche il profilo del Dna, perché all’epoca Bernardo

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Provenzano, quando abbiamo eseguito questa rogatoria, a giugno del 2005, era ancora latitante. Di tutti questi fatti, dalla partenza, proprio con orario e data, al ritorno, con orario, data e riconsegna delle valigie di Provenzano, non c’è mai stata traccia di Attilio Manca. Questo lo dico come dato di fatto. Mi sento in dovere di doverlo precisare”. Fin qui le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino, il quale “sente il dovere di precisare”, col senno di “ieri” (cioè col senno di determinate verità processali acclarate ma “cristallizzate” da un processo svoltosi alcuni anni fa) un caso - quello di Attilio Manca - per il quale “oggi” stanno affiorando circostanze inedite che gli inquirenti di Viterbo (la morte di Manca si è verificata nella città laziale) non solo non si sono mai presi la briga di verificare, ma in talune occasioni hanno occultato, falsificato o, secondo l’ex magistrato antimafia Antonio Ingroia, addirittura “insabbiato”. I tabulati negati Citiamo Ingroia non a caso, perché Ingroia (oggi avvocato della famiglia Manca) è uno dei depositari più autorevoli dei segreti legati alla “trattativa” Stato-mafia, di cui, secondo molti, la storia di Attilio Manca potrebbe (potrebbe…) rappresentare un anello solo se si approfondissero certi elementi affiorati in questi anni. Per questo, con il rispetto dovuto per la carica e per lo straordinario impegno profuso contro la mafia, ci permettiamo di chiedere al dott. Prestipino se sa che: Attilio Manca, proprio nell’autunno del 2003, nel periodo in cui Provenzano era a Marsiglia per operarsi alla prostata, si trovava in Francia per “assistere ad un intervento chirurgico”, come allora telefonicamente disse ai genitori. I familiari di Attilio Manca hanno chiesto, fin da subito, ai magistrati di Viterbo, di acquisire i tabulati telefonici del 2003 per accertare il luogo dal quale l’urologo avrebbe effettuato quella chiamata.


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“Era quasi l'unico medico in grado di operare col sistema usato per l'inter vento su Provenzano”

L'operazione a Provenzano Tale richiesta è rimasta inevasa (i motivi non si conoscono), e i tabulati sono stati distrutti dopo cinque anni, come prevede la legge. Questo lo sa il dott. Prestipino? Attilio Manca, all’epoca, era uno dei pochi chirurghi italiani, quasi certamente l’unico siciliano, in grado di operare quel tipo di patologia col sistema laparoscopico, importato dallo stesso Manca dalla Francia, dove si era specializzato due anni prima. Attilio Manca, dopo la specializzazione acquisita in Francia, fu il primo medico italiano – assieme al suo Maestro Gerardo Ronzoni, primario di Urologia all’ospedale Gemelli di Roma – ad operare il cancro alla prostata per via laparoscopica (2002). Bernardo Provenzano è stato operato con quel sistema. Francesco Pastoia, braccio destro di “Binnu ‘u tratturi”, intercettato da mentre era nel carcere di Modena, parlando degli omicidi commessi dal suo capo (quindi in un contesto ben preciso), disse: “Provenzano è stato operato ed assistito da un urologo siciliano”. Dunque, non solo “operato”, ma anche “assistito”. “Un urologo siciliano” Vuol dire che c’è stato un medico siciliano che - magari sconoscendo la vera identità di Provenzano - è stato a contatto col boss corleonese durante l’intervento, ma anche prima e anche dopo. Prima per i controlli di routine, dopo per le cure post operatorie. Pastoia è morto misteriosamente in carcere appena tre giorni dopo. Non di morte naturale, ma impiccato. Si è svolta un’accurata indagine su questa misteriosa morte? Pochi giorni dopo, al cimitero di Belmonte Mezzagno (Palermo) è stata profanata la sua tomba in modo piuttosto macabro e violento. C’è dunque un “urologo siciliano che ha curato Provenzano”, almeno secondo Pastoia. Delle due l’una: o è Attilio Manca (che già allora conosce benissimo la tecnica con la quale è stato operato il boss), o un altro.

Se non è Attilio, chi è, perché non si accerta, perché non si è scoperto, dato che, come dice il dott. Prestipino, “quella vicenda è stata ricostruita minuto per minuto”? Se finora il misterioso urologo di cui parla Pastoia non è saltato fuori, siamo sicuri che il processo – come dice il magistrato – ha “ricostruito” tutto dell’intervento di Provenzano? Sicuramente ha accertato molte cose, ma siamo certi che ha fatto piena luce su “tutti i passaggi” che riguardano il “prima” e il “dopo”, e soprattutto ha accertato l’eventuale rete istituzionale che ha protetto la latitanza del capo dei capi? Sì, perché su questa vicenda si dovrebbe uscire da un equivoco: spesso per smentire eventuali collegamenti fra la morte di Attilio Manca e l’operazione di Provenzano, si prende come riferimento solamente la “trasferta” del boss a Marsiglia, dimenticando che c’è un “prima” e c’è un “dopo”, su cui forse non è stato ricostruito tutto. Il telecomando di Capaci Ci sono ragionevoli motivi – leggendo le carte del Ros – per dire che Bernardo Provenzano, all’inizio degli anni Duemila (il periodo che stiamo trattando) abbia trascorso una parte della latitanza non in un posto qualunque, ma a Barcellona Pozzo di Gotto, dove “quella” mafia – una delle più sanguinarie del mondo, quella che ha condannato a morte il giornalista Beppe Alfano – ha costruito il telecomando per la strage di Capaci, e da molti anni è in ottimi rapporti con l’ala “provenzaniana” di Cosa nostra. Secondo un autorevole investigatore allora in servizio a Messina ed oggi residente al Nord (in una intervista esclusiva rilasciata al sottoscritto per il recente libro sulla strana morte di Attilio Manca, “Un ‘suicidio’ di mafia” – Castelvecchi editore), l’urologo veniva addirittura prelevato in elicottero per visitare Provenzano latitante in terra barcellonese, servendosi di determinate strutture private. Non sappiamo la veridicità dell’argomento, ma si è mai indagato seriamente per accertarne la fondatezza?

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“Personaggi altolocati”. Chi? Le indagini su questo particolare – sempre secondo questo investigatore – sarebbero state fermate per volere di personaggi altolocati. Anche di questo non conosciamo la fondatezza (dato che la notizia è stata fornita mediante intervista e non per mezzo di atto processuale), ma una “bomba” del genere non merita di essere scandagliata dettagliatamente per capire se si tratta di esplosivo ad alto potenziale o di un minuscolo petardo? All’epoca della latitanza di Provenzano, un “mediatore”, rivolgendosi ai magistrati per “trattare” la resa del boss, ha dichiarato: “Binnu ‘u tratturi” è nascosto a due passi da Viterbo, tra Civita Bagnoregio e Civitella D’Agliana. Altre coincidenze sconvolgenti che potrebbero collegare Provenzano ad Attilio Manca: Barcellona Pozzo di Gotto e la provincia di Viterbo. È solamente un caso o qualcosa di più? L’allora capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava (oggi condannato in Cassazione per avere falsificato i verbali sui fatti accaduti alla scuola Diaz di Bolzaneto nel 2001 durante il G8 di Genova, ovvero tre anni prima della morte di Manca), dopo il decesso del medico siciliano, scrisse che nel periodo di degenza di Provenzano a Marsiglia, Attilio Manca non si sarebbe mosso dall’ospedale di Viterbo, dove prestava servizio. Ragione normale o “ragion di Stato”? Ebbene: Gava è stato smentito da una recente ricostruzione effettuata dalla trasmissione “Chi l’ha visto”. Proprio nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri in terra francese, il dott. Manca era assente dall’ospedale laziale. Questo ovviamente non dimostra che l’urologo fosse ad operare il boss, ma dimostra che sui movimenti del medico si è scritto il falso e non si è voluta accertare la verità. Questo pone una domanda molto seria: qual è la ragione che porta certi inquirenti a fare “carte false” per depistare le indagini ed occultare certe verità? Secondo lei, dott. Prestipino, è una “ragione normale” o una “ragion di Stato”?


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Italia-Somalia

Lo strano marinaio del caso Ilaria Alpi Sono passati vent'anni dall'omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore, Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994. E questo anniversario può essere il momento per tirare qualche filo di una vicenda intricatissima, caratterizzata da depistaggi e tentativi di insabbiamento che, se in sede giudiziaria, finora hanno ottenuto l'obiettivo, dal punto di vista della ricostruzione di ciò che avvenne non hanno potuto impedire di conoscere almeno un pezzo di verità di Antonella Beccaria

La verità ci dice che in Somalia si può morire in molti modi. Il più frequente è ammazzati, a seguire cronache che troppo spesso non trovano spazio sui giornali. Un altro - di certo meno frequente, ma non abbastanza raro da poter essere ritenuto un caso, una bizzarria fisiologica - è vedersi uccidere da un tumore della pelle dopo aver trascorso la vita a fare il marinaio, come è accaduto a un somalo che del mare ha fatto il lavoro di un'esistenza intera.

Se a questa constatazione si aggiunge che il nostro marinaio è stato per anni a bordo di un'imbarcazione di una flotta chiacchierata, come nel caso della Shifco, ecco che tornano in mente altre storie. E in particolare tutte le storie scritte e lette da un ventennio a proposito delle navi divenute di proprietà di Omar Mugne, un imprenditore con doppia cittadinanza somala e italiana - il cui nome è ricorso fin troppo spesso nelle indagini legate alla morte di Ilaria Alpi.

Quel tumore, se fosse stato curato per tempo in Italia, avrebbe avuto una sufficiente probabilità di andare di remissione e qualche chance in meno di metastatizzarsi. Invece il marinaio, che si vide crescere sul tronco e sulle braccia neoformazioni ulcerate, è morto.

Le navi di Omar Mugne

Esposizione a radiazioni Non era anziano e di solito una malattia del genere insorge in persone che hanno la pelle chiara, non in chi è di colore. Tra le sue cause, soprattutto per i bianchi, l'esposizione diretta e prolungata al sole: i raggi ultravioletti friggono la normale fisiologia delle cellule dell'epidermide e possono provocare mutazioni che sfociano nel cancro. Questi danni avranno più effetto se incontreranno preesistenti cicatrici o ustioni guarite e il quadro fin qui descritto sembra adattarsi alla vita di chi è andato sempre per mare, per quanto di fenotipo scuro. Ma c'è anche un'altra causa a monte di questo tipo di tumore, più frequente nella popolazione africana e afro-americana: l'esposizione a radiazioni o a sostanze chimiche, come i metalli pesanti, che diventano più minacciose quando una persona maneggia a lungo materiale inquinante finendo per assorbirlo.

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Queste storie raccontano di presunti traffici di armi e di rifiuti smaltiti illegalmente in un Paese in cui tutto è lecito e nulla è illecito. Un Paese che, dopo la fine della dittatura di Siad Barre, è divenuto terreno di scontro tra i signori della guerra prima e i fondamentalisti poi fino alla sua manifestazione vincente, al-Shabaab. E che oggi sembra essere ostaggio di due tipi di mafia: la mafia integralista, introdotta solo pochi anni fa dalle corti islamiche che costrinsero nel 2006 il governo a rifugiarsi a Baidoa perdendo il controllo della capitale, Mogadiscio; e la mafia degli uomini d'onore della politica, trafficoni sopravvissuti alla fine del regime che hanno tratto potere e denaro dalla svendita in una nazione in perenne stato di guerra. La “fonte di Udine” A oggi, le risultanze giudiziarie a carico di questi trafficoni - italiani e somali hanno portato a poco. E chi contribuì in fase di indagine a ricostruirle è stato semplicemente scaricato. Ci sarà per esempio chi si ricorda del trattamento riservato alla cosiddetta "fonte della Digos di Udine", un cittadino somalo in Italia da anni che fornì informazioni utili a districare le vicende che portarono all'omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.


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“C'è anche l'omicidio di Vincenzo Li Causi, l'agente dei ser vizi ucciso nel '93 mentre indagava sullo smaltimento in Africa di rifiuti radioattivi provenienti dall'Europa”

Una fonte che in più di una sede è stata ritenuta attendibile e che, proprio per questo, venne protetta dagli investigatori perché, esponendola, si mettevano a repentaglio la sua vita e quella dei suoi familiari, alcuni dei quali ancora nel Corno d'Africa. Divulgati i nomi delle fonti Ma ci fu chi non giocò a favore della tutela della fonte. Tra questi, l'avvocato Carlo Taormina, presidente della commissione parlamentare istituita (invano) per far chiarezza sull'assassinio dei giornalisti italiani. Taormina, nella sua funzione istituzionale, prima invalidò le parole della fonte perché i dirigenti della Digos di Udine rifiutavano di farne il nome. E poi si premurò di divulgarne le generalità nel corso di un'audizione pubblica. In sede di commissione non ci si pose invece la domanda fondamentale: non "chi è la fonte?", ma "quanto è fondato ciò che sta dicendo?". Non si tenne in considerazione nemmeno il ruolo che giocò per una dozzina d'anni, un ruolo soprattutto di raccordo: raccolse informazioni nel suo Paese d'origine avvalendosi della rete di relazioni che aveva laggiù e le trasmise agli inquirenti.

I viaggi da e per la Somalia Inoltre, sempre con il supporto dei suoi contatti locali, si occupo' di organizzare i viaggi da e per la Somalia di testimoni e investigatori. Non sembra averlo fatto per denaro. Non ci sono notizie di pagamenti e del resto non sembrava averne bisogno, dato che il lavoro di import-export già bastava alle esigenze sue e dei suoi congiunti. In qualche deposizione disse che il suo scopo era un altro: in Somalia non c'erano scuole né ospedali, non c'era alcuna struttura a disposizione della popolazione. E forse, agendo come ha fatto, avrebbe consentito almeno una pallida normalizzazione del Paese, col ritorno di imprenditori e organizzazioni non governative. Occorreva dunque capire qualcosa di più di determinati traffici. Ma pure di determinati delitti: oltre a quello di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, anche l'omicidio di Vincenzo Li Causi, lo 007 del Sismi e di Gladio assassinato nel novembre 1993 in circostanze non chiare (per quanto si tenda per l'imboscata) mentre stava lavorando sul progetto Urano, «finalizzato all'illecito smaltimento in alcune aree del Sahara di rifiuti industriali tossico-nocivi e radioattivi provenienti da Paesi europei» (definizione della commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti).

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Scomparso e mai più riapparso Beata ingenuità, quella della fonte? Può darsi. Di certo, se di ingenuità si trattava (e se la sua collaborazione non fosse stata invece frutto di un calcolo d'altro tipo), non si aspettava di finire esposto in modo così netto. Un'esposizione che mise a rischio - e c'è caso che continui a farlo - anche la sua rete in Africa. Nel 2006 ci rimise la vita un nipote ancora giovane, per quanto quella morte possa rientrare nella crisi che tornò ad acuirsi a causa delle corti islamiche. E oggi - ma anche qui la formula dubitativa è d'obbligo - qualcuno potrebbe tornare a ricordarsi di lui, dato che Gelle - al secolo Ahmed Ali Rage, il testimone contro l'unico condannato per il delitto del 1994 - non viene ritenuto più così credibile e c'è caso che si voglia saperne di più su di lui, scomparso subito dopo aver reso la sua versione dei fatti e non riapparso neanche in dibattimento.


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Mafia

Riina: un messaggio trasversale? Analogie sospette fra esplosivi e telecomandi utilizzati in stragi che apparentemente non collegate fra loro di Antonella Beccaria e Giovanni Spinosa www.vedisito.it Quelle di Totò Riina al boss Alberto Lorusso della Sacra Corona Unita a proposito di via D'Amelio sono parole dettate da un tentativo di depistaggio? La risposta potrebbe essere no se si pensa che la bomba del 19 luglio 1992 di cui Riina parla si lega a un'altra strage precedente. È quella del Rapido 904 (23 dicembre 1984) e i punti di contatto sono molteplici. Tra questi la tipologia dell'esplosivo e i detonatori la cui ricorrenza potrebbe dare una nuova interpretazione alle confidenze del capo dei capi. Confidenze in base alle quali sarebbe stato proprio Paolo Borsellino, ucciso insieme alla sua scorta, a innescare l'ordigno che nell'estate di 22 anni fa sventrò via D’Amelio. Lo avrebbe fatto involontariamente suonando al citofono della madre e, al contempo, facendo saltare per aria, la Fiat 126 imbottita con 100 chili di tritolo. Vediamo perché c'è un parallelismo tra le due vicende. I primi dubbi sulle parole di Riina Il giorno dopo la diffusione della notizia in base alla quale Borsellino stesso innescò l'esplosione hanno suscitato scetticismo e incredulità.

Leggendo la vicenda solo in relazione a via D'Amelio, in effetti ci sono tre ragioni per non credere alle parole del boss corleonese. Infatti, se così si fossero svolti i fatti, chiunque, dal postino al panettiere, avrebbe potuto suonare al citofono della mamma di Borsellino provocando una strage a cui la vittima designata sarebbe scampata. Inoltre l'attentato avvenne alle 16.58 ed è estremamente improbabile che nelle ore precedenti qualcuno potesse manipolare l’impianto citofonico con qualche speranza di passare inosservato. Infine Gaspare Spatuzza, pentito più volte giudicato attendibile (quantomeno con riferimento ai fatti della strage di Via D’Amelio), ha riferito che il telecomando venne azionato da Giuseppe Graviano. In base a queste considerazioni, le parole di Riina sarebbero un depistaggio. In realtà, ci si muove su un terreno scivoloso e non adeguatamente disvelato dai processi sulle stragi mafiose: quello dell’innesco delle bombe. E, come introdotto, in un solo caso le conoscenze su questo tema sono soddisfacenti: la strage del Rapido 904, avvenuta nella Grande galleria dell’Appennino, in cui persero la vita 16 persone. Le indagini sul rapido 904 Può essere utile un veloce richiamo ad alcuni aspetti di quella indagine. La procura di Roma, indagando su altri fatti (un giro di droga e opere d’arte), rinvenne in un appartamento della capitale, in via Albricci, misteriosi marchingegni opera di un cittadino straniero, l'artificiere Friedrich Schaudinn. Poi in un casolare a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti, fra stupefacenti, armi e altri oggetti, sequestrò dell’esplosivo. Le indagini dimostrarono che sia l’appartamento che il casolare erano riconducibili a Pippo Calò, il “cassiere di Cosa nostra”. Inoltre le perizie accertarono che l’esplosivo aveva una peculiare composizione chimica che, per qualità e

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quantità percentuali, lo rendeva identico a quello utilizzato per la strage del 904. A ciò si aggiunga che un esperimento documentò come gli oggetti rinvenuti di via Albricci potessero innescare l’esplosivo provocando quello specifico evento stragista. Infine un’ulteriore serie di indizi legò in modo definitivo entrambi i rinvenimenti alla strage. E infatti il 24 novembre 1992 la Cassazione ha confermato le condanne per quattro persone, fra cui Calò e Schaudinn. Dobbiamo ora porre l’attenzione sui marchingegni rinvenuti in via Albricci, la cui concatenazione poteva innescare l'esplosione. Detto in altre parole, senza la “catena” formata da questi dispositivi non ci sarebbe stato nessuno scoppio. La “catena”, ideata da Schaudinn, si componeva di tre scatole. Una fungeva da detonatore, era in grado di ricevere due radiocomandi e di rispondere automaticamente a uno dei due. La seconda scatola trasmetteva con un radiocomando alla “scatola-detonatore” un impulso che metteva in tensione il circuito e, immediatamente dopo, riceveva un segnale che comunicava lo “stato di allerta” del circuito. La terza scatola trasmetteva alla “scatola-detonatore”, ormai “allertata” l’impulso che innescava il detonatore. Le parole di Brusca e il ruolo di Riina Il sistema escogitato da Schaudinn garantiva sicurezza (un doppio impulso per attivare la bomba) e puntualità. Infatti, la bomba del 23 dicembre 1984 scoppiò “puntualmente” sotto la Grande galleria dell’Appennino così superando il contrattempo in cui 10 anni prima erano incorsi altri terroristi. Il 4 agosto 1974 la bomba piazzata sul treno Italicus era regolata da un timer e scoppiò circa 70 metri dopo l’uscita della galleria, come attesta la corte d'Assise di Bologna nella sentenza del 20 luglio 1983. Era successo che il treno, nella tratta tra Firenze e la galleria aveva recuperato 3 minuti rispetto a un maggior ritardo accumulato.


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“Telecomandi simili a quelli usati in via D'Amelio”

Le indagini sulla strage del Rapido 904 – indagini che ora ipotizzano per lo stesso Riina il ruolo di mandante – hanno ricevuto un nuovo impulso con le dichiarazioni rese da Giovanni Brusca, sentito l’8 giugno e il 19 luglio 2010 dai magistrati della procura di Napoli. In tale sede ha spiegato che l’esplosivo utilizzato per la strage del 904 proveniva da un deposito mafioso ritrovato nel 1996 in località Giambascio, nei pressi di San Giuseppe Jato, dove Brusca era capo mandamento. L’informazione gli veniva dallo stesso Pippo Calò che lo aveva incaricato di parlarne con Totò Riina, all’epoca latitante, affinché spostasse l’esplosivo. Nel successivo colloquio con Riina, Brusca avrebbe avuto la consapevolezza che il capo dei capi era a piena conoscenza della vicenda. L’indagine partenopea (ora trasferita per competenza a Firenze) ha operato un importante salto di qualità con una perizia disposta dalla Procura di Napoli. Il perito Vadalà ha accertato che l’esplosivo contenuto nel deposito indicato da Brusca era identico a quello trovato nel casolare di Poggio San Lorenzo (addirittura erano identiche le modalità di confezionamento degli involucri) e in parte utilizzato per la strage del 904. Perizia di Napoli: simile esplosivo Inoltre la perizia di Vadalà, come riportato nell'ordinanza di custodia cautelare del Gip di Napoli data 27 aprile 2011, riconduce a via D’Amelio quando afferma che le bombe avevano la stessa composizione, evidenziata dalla presenza in percentuali simili di Semtex H (pentrite e T4), nitroglicerina e tritolo.

E ancora una nota della squadra mobile di Caltanissetta (14 luglio 1997) sostiene che telecomandi simili a quelli utilizzati nell’attentato di via D’Amelio furono rinvenuti nell’arsenale di Gambascio. Erano prodotti da una società di Treviso e commercializzati da una ditta di Roma. Si trattava della stessa ditta da cui, molti anni prima, si era rifornito Schaudinn per produrre i congegni elettrici trovati nella casa di Fiorini in Via Albricci a Roma. Il filo fra due stragi Insomma, il filo che unisce la strage del 904 a quella di Via D’Amelio sarebbe di natura soggettiva (Totò Riina) e oggettiva (esplosivo e telecomandi). A questo punto, non sembra un’avventura onirica immaginare che Riina e i suoi alleati, nel 1992, abbiano utilizzato per via D’Amelio la stessa tecnologia dell’innesco del 1984. In tale contesto le confidenze di Riina a Lorusso possono assumere una nuova chiave di lettura: il postino che avesse suonato al citofono della mamma di Borsellino, in assenza del primo comando necessario a mettere in tensione il circuito elettrico, non avrebbe determinato l’innesco del detonatore collegato all’esplosivo. E, ancora, il citofono poteva essere manomesso nel corso della notte al riparo di sguardi indiscreti. Soprattutto assume coerenza e maggiore credibilità il racconto di Spatuzza sul ruolo di Graviano, il cui telecomando potrebbe non aver provocato l'esplosione, ma attivato il circuito poi chiuso, in ipotesi, dal citofono, così consentendogli di allontanarsi prima dell'esplosione senza riportare ferite né essere notato.

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Un personaggio misterioso Possibile tutto ciò? Pur nella difficoltà di reperire prove a tanto tempo di distanza, va tenuto conto del fatto che sono poche le fonti di conoscenza sul tema degli inneschi degli esplosivi nelle stragi di mafia. Le stesse conoscenze sul rapido 904 discendono da un rinvenimento casuale che naviga fra personaggi e situazioni poco chiare. Si pensi a Schaudinn che, come era comparso, altrettanto misteriosamente scompare. Oggi è latitante in Germania, che avrebbe negato la cattura all’Italia e gli ultimi suoi segnali arrivano da lì, quando rivendicò la sua estraneità dagli attentati del ’93. Anche nella strage di Via D’Amelio, c'è un personaggio misterioso: lo sconosciuto che, secondo Spatuzza, sarebbe stato presente nel garage quando la 126 veniva imbottita di esplosivo. Come mai la presenza di soggetti esterni a Cosa Nostra improvvisamente si manifesta a Spatuzza e soci? Ancora una coincidenza Ancora una coincidenza con la strage del rapido 904: il personaggio misterioso interviene nella fase di preparazione della bomba e, quindi, degli inneschi. È il momento in cui la scatola-detonatore, con i relais tarati, in ipotesi, sugli impulsi del telecomando manovrato da Graviano e sul citofono, viene collegata all’esplosivo. Le parole di Riina potrebbero, dunque, non essere un depistaggio sin troppo facile da smentire, ma un messaggio trasversale. Lanciato a chi sa ed è in grado di capire.


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Dopo-stragi/ Parla Bellini

“Io, infiltrato per conto dello Stato” Una “trattativa parallela” con Cosa Nostra di Aaron Pettinari, Miriam Cuccu e Francesca Mondin www.antimafiaduemila.com “Ero schifato dopo le stragi capivo che si doveva fare qualcosa anche perché io non sono mai stato un terrorista. Quando mi incontrai a San Benedetto del Tronto con il maresciallo Tempesta, del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri, dissi che mi sarei potuto infiltrare dentro Cosa nostra. Lui disse che ne avrebbe parlato con il colonnello Mori. Tempo dopo ci vedemmo a Roma, in un distributore di benzina lungo il raccordo anulare. Arrivò l’ok del colonnello e io andai in Sicilia a contattare un mio vecchio compagno di cella, Antonino Gioè (boss stragista morto in carcere in circostanze poco limpide ndr). Altrimenti col cavolo che sarei andato nella tana del lupo a suicidarmi”. E' così che Paolo Bellini, ex estremista nero, dopo le stragi viene investito del ruolo di “protagonista” di una “trattativa parallela” con Cosa nostra. L'ex militante di Avanguardia Nazionale, ha deposto innanzi ai giudici della II Corte d’Assise di Palermo, nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, nel corso di una udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia. Un dibattimento in cui il teste, rispondendo alle domande dei pm Tartaglia e Teresi, ha ripercorso la ‘sua’ verità in quegli anni di stragi. Il pretesto per il contatto con Cosa nostra sarebbe stato il recupero di alcune opere d'arte rubate dalla Pinacoteca di Modena. “Quando incontrai Gioé – prosegue Bellini - lui mi chiese per conto di chi arrivava questa richiesta.

Addirittura mi chiese se per caso mi mandava la massoneria e che in quel caso non c’erano problemi perché aveva direttamente la possibilità di avere rapporti con la massoneria trapanese. Io risposi che interessava ai politici locali e interessava anche al Ministero dei beni culturali. Del resto avevo le foto delle opere e la cartellina con i timbri ministeriali. Tempo dopo tornò con altre foto di opere d'arte ed una busta con quattro o cinque nominativi per i quali voleva arresti ospedalieri o domiciliari. Ricordo i nomi di Pippo Calò, Brusca, Pullarà. Quell'elenco lo consegnai al maresciallo Tempesta che lo consegnò a sua volta a Mori. Quando tornò con la risposta, tempo dopo, mi disse che non si poteva fare perché 'C'era il gotha di Cosa nostra' ma che avrei dovuto mantenere il canale aperto con la possibilità di fare qualcosa per un paio di nominativi'. Non solo i contatti con Vito Ciancimino quindi. Il Ros avrebbe portato avanti più canali per arrivare ad un colloquio con Cosa nostra ed ovviamente i mafiosi alzarono subito il tiro. Trattativa ai piani alti Non fu quello l'unico momento in cui Gioé parlò di trattativa con Bellini. “Gioè mi parlò di una trattativa in corso coi piani alti del Governo italiano ma non ne ho mai parlato perché dovevo tenermi qualche cartuccia da sparare durante i processi”. Del resto Cosa nostra negli anni delle stragi era messa a dura prova in particolare dal regime carcerario del 41 bis: “In quel periodo erano spiazzati, si lamentavano i familiari dei sottoposti al 41 bis a Pianosa. A dire di Gioè loro erano consumati, vedevano solo due strade o la morte o la galera a vita”. Bellini ha poi ripercorso come ha incontrato e conosciuto il capomafia: “Quando fui trasferito da Firenze a Sciacca, lì conobbi Gioè. Ci vedeva-

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mo tutti i giorni, lui era una persona di grande rispetto io capii che era una persona posizionata, ci fu una simpatia iniziale… Ha saputo la vera identità quando fummo trasferiti nel carcere di Palermo”. E in merito al ruolo attribuitogli di “suggeritore” delle stragi in continente Bellini ha dichiarato: “Su di me sono state dette tante cose ma io sono qui per raccontare la verità. Fu Gioé a chiedermi 'Che cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?'”. Un frase sinistra che appare profetica se si pensa che nel 1993 il patrimonio artistico italiano fu colpito a Firenze, Roma e Milano. Frase che sarebbe stata riferita da Bellini al maresciallo Roberto Tempesta, il sottufficiale in servizio al Nucleo tutela patrimonio artistico. “Ma quando dissi al maresciallo Tempesta quella frase cosa fecero? Nulla di nulla” ha aggiunto Bellini. “Aquila Selvaggia” L'ex militante di Avanguardia Nazionale, nome in codice “Aquila selvaggia” (nel gergo usato per le comunicazioni con il maresciallo Tempesta ndr) ha anche rivelato che nel dicembre del 1992, quando i rapporti con il militare del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri avevano avuto uno stop, era stato avvicinato da un altro ufficiale. “Una persona suonò al citofono di casa mia – ha detto – e mi chiamò col nome in codice che sapevano solo Tempesta e il colonnello del Ros Mario Mori. Si presentò come un uomo del Ros e mi disse di non cercare più Tempesta, che il contatto sarebbe stato lui e di non venire in Sicilia perché era pericoloso in quanto ci sarebbe stata un’imminente operazione. Non ho mai parlato con nessuno di questo, e loro non hanno più richiamato" conclude il collaboratore”. Bellini, che aveva comunque il contatto con Gioé anche per altri motivi, non seguì quell'indicazione.


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“La riunione dei boss sulla strategia delle stragi”

“Dovetti tornare in Sicilia per incontrare Nino a cui dovevo dei soldi. Quando mi recai nel luogo dell'incontro, nei pressi del motel Agip di Palermo, riconobbi quell'ufficiale che tempo prima mi aveva sconsigliato il viaggio in Sicilia”. E' a quel punto che, spaventato, Bellini sarebbe andato via da Palermo mancando l'appuntamento con il capomafia. La lettera di Gioè “Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ultima volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di convincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”. Questo il contenuto esatto della lettera rinvenuta nella cella di Gioè il 29-7-93, scritta prima del presunto suicidio. Forse è proprio per quel mancato appuntamento che il capomafia aveva capito che Bellini era davvero un infiltrato anche se il sospetto che il ruolo di Bellini, come uomo vicino ad una parte dello Stato, fosse ben chiaro ai capimafia già nel 1991 (ovvero prima delle stragi), resta. La riunione di Enna Nel dicembre 1991 è notorio che in un casolare di Enna si tenne una riunione della Commissione regionale con tutti i capimafia per decidere in merito alla strategia stragista che avrebbe dovuto portare all'eliminazione dei politici traditori (da

Lima all'ex presidente del Consiglio Andreotti) ai nemici di sempre (Falcone e Borsellino). Tra le nuove prove che i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia c'è anche una ricevuta rilasciata da un hotel di Enna, datata 6 dicembre 1991 ed intestata proprio a Paolo Bellini. Così come aveva fatto durante gli interrogatori con i pm, anche in aula ha ribadito che all’epoca si trovava in Sicilia per affari. “Dovevo recuperare alcuni crediti a Catania e Palermo e l'unico contatto avuto con Antonino Gioé era proprio per chiedergli aiuto su questa attività. Quel pernottamento non era programmato per un motivo specifico ma del tutto casuale”. Una spiegazione che non ha convinto del tutto i pm, anche perché è quantomeno singolare che, per un recupero di crediti a Catania, lo stesso abbia scelto un hotel di una città distante quasi 90 chilometri. Così l'esame è proseguito con il pm Tartaglia che lo ha incalzato chiedendogli dei commenti di Gioé su Lima. La morte di Salvo Lima Rispondendo alla domanda del magistrato, che in riferimento alla morte dell'onorevole Salvo Lima ha chiesto a Bellini se Gioè gli disse mai se l'omicidio fosse servito anche per mandare un messaggio al presidente Andreotti, il collaboratore ha dichiarato: “era stato quello il senso, si. Gioé mi parlò dell'omicidio di Lima e disse che era stato fatto per dare uno schiaffo alla Dc di Andreotti perché non aveva rispettato quello che avrebbe dovuto fare a Roma per il maxi processo”. Di seguito, l'ex trafficante di opere d'arte ha parlato di un episodio avvenuto ad Enna: "Mi ricordo… si parlò, disse così…a Enna c'era… a Enna mi ricordo di una passeggiata che ho fatto per andare alla cena, c'era la saracinesca di un negozio abbassata.. fu il momento di una risa-

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ta". L'occasione di ilarità sarebbe scaturita dall'aver visto una scritta, sulla vetrina, riferita proprio al presidente del consiglio Giulio Andreotti. Tartaglia ha rilanciato: "Scusi ha detto 'fu motivo di una risata', ma perché c'era anche Gioè ad Enna?". E Bellini: "No, chi ha detto Enna?”. Si è subito giustificato il collaboratore. “La risata tra noi due mentre facevamo questo discorso… lui mi fece venire in mente un flash non che io ero a Enna con Antonino Gioè”. Bellini ha anche ricostruito la propria storia passando dagli omicidi commessi tra cui quello del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, alla sua affiliazione alla 'Ndrangheta e la latitanza sotto falsa identità trascorsa in Brasile. “Sono un morto che cammina” Pian piano, pur con le difficoltà dovute alla malattia da cui è affetto, che ha conseguenze sulla memoria, ha ricostruito diverse vicende, tra cui il periodo vissuto in cella quando era conosciuto con il nome di Roberto Da Silva. Nel suo racconto Bellini ha anche espresso uno sfogo nei confronti dello Stato come istituzione colpevole di averlo, a suo dire, abbandonato: “Sono un morto che cammina ma faccio il mio dovere fino in fondo. Lo Stato con me ha firmato un contratto che non ha rispettato”. Peccato che, come ha ricordato al teste lo stesso presidente Montalto, in quel contratto era previsto il dover dire tutta la verità mentre solo oggi ha raccontato la visita dell'uomo del Ros nella sua abitazione, così come soltanto nel 2013 ha raccontato della “seconda trattativa”, dopo averla aveva accennata ad un giornalista del Resto del Carlino, Marco Pratellesi, il quale aveva scritto in merito un articolo nel 1998. Il processo proseguirà domani mattina con il controesame del teste mentre, successivamente, verrà sentito dalla corte il pentito Fabio Tranchina.


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Inchieste

Beni confiscati: così non funziona Un immenso patrimonio sprecato fra incompetenze e burocrazia di Salvo Vitale,

Pino Maniaci, Christian Nasi www.telejato.globalist.it

E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo 14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata da Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi della gestione dei beni dal sequestro alla confisca. Pur con grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60% pari a 5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni stimato in circa due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti,

trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “ finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile. Limiti Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, di amici delle persone che sono incaricate di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato.

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La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta. In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e succede di trovare beni confiscati senza che i proprietari abbiano ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari: per fare un esempio, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion-gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio, anche se non ci si può sottrarre al sospetto che questa “deviazione” possa aver causato l’esonero dello stesso Modìca. Nell’ audizione alla Commissione Antimafia del 18 gennaio 2012, il prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è


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“La legge prevede la rotazione nelle amministrazioni giudiziarie”

svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Le “criticità” del prefetto Dal momento del sequestro fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda…. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”. L'albo degli amministratori Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha , anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di

mano al giudice che dispone delle nomine, il potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati , restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale e non diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale dovrebbe diventare essere diventato operativo dopo l’8 febbraio, ma già si sono levate voci di rinvii e di inopportunità: questo regolamento nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, legati a stretto filo con chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso poco tempo fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?".

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Controllati e controllori Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti, detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, l'associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione (vedi dott.ssa Saguto), avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. Qualche politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”. Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né mezzi né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati. “Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi.


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“Le proposte del sindacato: tavoli di coordinamento presso le prefetture,e fondo di rotazione”

Una lettera a Rosy Bindi Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte…. Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso la mafia ha combattuto sulla strada e non da una poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su chi fa riferimento Bellavista. In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema” : Proposte

Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. L'ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. “Io riattivo il lavoro” Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relato-

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re Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo ha già annunciato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello Stato.


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“I trecentocinquanta lavoratori della Newport di Palermo”

Non è detto che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica.

bolla è anche l’amministratore della SEGIDI, cioè l’insieme delle società di Grigoli, di cui fa parte anche la Special Fruit di Castelvetrano, con 27 dipendenti, società anch’essa fallita. Troppo tardi, nel novembre 2013 l’incarico di curatore è passato ad Andrea Gamma, l’avvocato già amministratore dell’Immobiliare Strasburgo, che, si spera riesca a conservare i 500 posti di lavoro di quello che fu l’impero del re dei supermercati.

La “Latticini Provenzano” Il porto di Palermo Si tratta di un caseificio con sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei, l’azienda venne ristrutturata e adeguata alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a un certo Grigoli di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro. Grigoli chiede un aumento del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2007. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata, per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella. Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari, viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento . E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come gli operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza stipendio, rimangono disoccupati. Ma Ri-

La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara, sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella. La Medi-Tour E’ il caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati

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beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede, innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato una cifra altissima degli introiti del sepermercato, ma il suo nome non è venuto fuori nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour. Andrea Impastato , del quale si vocifera di una diretta collaborazione con la giustizia, ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo, dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione.


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“La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno” La presenza di Benny Maletta Da parte sua Benanti, che si presenta una volta al mese alla cava di cui è amministratore, con una fiammante macchina rossa e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti, di associazione mafiosa. Con strana sollecitudine il tribunale dispone il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti a tempo, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013:, dopodichè siamo in attesa, poiche la dott.ssa Saguto si è presa una settimana di tempo per decidere. Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco. L’intraprendente Valenza ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito

adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura. La Comest Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vi-

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cende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, ma l’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. . Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.


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Antimafia

“L'ora della trasparenza” Nicola Gratteri

C'è qualcosa che non va nel mondo variegato dell'anticamorra napoletana... di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it

All’ombra dei clan, delle cosche, delle famiglie malavitose c’è un esercito di “professionisti della legalità” che prospera. Non si capisce di cosa campano. Sta di fatto che hanno entrature in Enti, Istituzioni, Fondazioni. Volti noti e stagionati che negli anni hanno costruito un vero e proprio monopolio dell’industria anticlan. E’ la “lobby del bene” che in Campania, e in particolar modo a Napoli, legittimamente opera. Chiariamo: tutte brave persone ma la domanda resta senza risposte: qual è il vero contributo che si dà al contrasto alla camorra? Solo l'interrogativo provoca reazioni stizzite e iraconde. Nell'anticamorra come nella camorra è meglio non parlare di certe cose. La verità può costare cara. Se il re è nudo occorre dire che è vestito. Prendiamo un esempio banale, l'associazione Libera. In Campania come altrove è governata sempre dalle stesse persone. L'elezione per il ricambio dei rappresentanti degli organismi interni sono proforma o al più nominati. Non c'è un limite di mandato, non c'è un limite di età, nei fatti non esiste mobilità interna. Sembra una gestione feudataria con vassalli e valvassori. Ma qualcuno potrebbe dire : vabbè è una associazione, saranno pure fatti loro.

E' vero fino a un certo punto. Libera in particolare gestisce molte attività e spesso i rappresentanti eletti proforma occupano posti nei cda di Fondazioni e altri soggetti, sottoscrivono protocolli con Enti locali, partecipano a finanziamenti di progetti, sono promotori di iniziative retribuite, percettori di consulenze ben pagate. Come è chiaro capire e intuire non sono argomenti di lana caprina. Non sono argomenti da trascurare A pelle occorrerebbe - in generale - più trasparenza. Capire chi fa cosa e come lo fa e con chi lo fa. Avere sottomano bilanci con entrate e uscite. Poter leggere il dettaglio del bilancio e non cifre che magicamente pareggiano e fanno 0 a 0. Qui non si gioca una partita di pallone ma è in gioco la credibilità di parte di un mondo. E' solo la punta dell'iceberg. Prendi il Consorzio Sole (Sviluppo Occupazione Legalità Economica) , un progetto sorto nel 2003 all’interno della Direzione Legalità e Sicurezza della Provincia di Napoli per occuparsi del recupero, riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata e alla loro assegnazione a cooperative sociali diretto dalla sociologa e tanto altro Lucia Rea. Un consorzio che è riuscito a tessere e organizzare una bella rete di amicizie e collaborazioni : associazioni, fondazioni, gruppi, cooperative sociali, federazioni ma soprattutto nomi pesanti (presunti tali) dell’anticamorra arruolati come consulenti, esperti e collaboratori. Modalità disparate Le modalità sono le più disparate: progetti, missioni, incarichi diretti, contrattini, determine, seminari, work shop, tavole rotonde. Una grande partita di giro. Eppure il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri è stato chiaro e netto: “Non possiamo tollerare che ci sia gente che lucra e che dell’antimafia fa un mestiere. Ci sono condotte che non hanno

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rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli. Nella lotta alla mafia bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se”. La chiarezza del procuratore Se questo era il rischio, ora si è in una fase diversa, già conclamata. Se accenni al tema, se inviti a una riflessione, se poni il problema, se solleciti un autocritica se ti vabbene ti accusano di possedere “livore” e di essere “scemo”. Ecco, sei stato bollato, messo all'indice, timbrato a fuoco e inserito di diritto in una blacklist. Se una parte del mondo dell'anticamorra non cambia si rischia di avere un ceto di professionisti, una classe di azzeccagarbugli avvezzi alla retorica autoreferenziata, alle chiacchiere formato panna montata, alle lacrime incorporate, agli anniversari perpetui. E' solo un'illusione pedagogica, una pretesa educativa, una presunta superiorità morale/moralistica. La verità è scomoda: l'anticamorra va ripensata.


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Sicilia/ Business rifiuti

I signori della munnizza dietro la pirolisi e i Css? E' di nuovo emergenza nell'Isola. Perché? di Carmelo Catania

Dal 1999 in Sicilia esiste uno stato di emergenza rifiuti, a causa delle scelte del passato, per le quali l'Isola è ancora sotto procedura di infrazione europea. Stato che, invece di finire, continua a vivere di proroghe: l’ultima è stata votata dal Senato a fine gennaio. Il provvedimento, che passa ora all'esame della Camera, prevede la proroga della gestione commissariale a partire dallo scorso 1 gennaio fino al prossimo 30 giugno. Come verrà utilizzata questa nuova emergenza? Perché è stato necessario richiedere, come le passate gestioni di Lombardo e Cuffaro, lo stato di emergenza relativa alla gestione degli impianti siciliani? Le discariche private siciliane (fra queste le più grandi sono quelle gestite dalla Catanzaro costruzioni, dalla Oikos, dalla Tirrenoambiente e dalla Sicula trasporti) che stoccano a caro prezzo circa il 90% dei rifiuti provenienti dalle famiglie siciliane, stanno vivendo il loro momento di maggior profitto proprio grazie alle passate gestioni commissariali.

In deroga alle leggi Queste, in deroga alle leggi, hanno concesso scorciatoie a comuni e agli ATO per aggirare quei regolamenti che impedivano, in condizioni normali, l'utilizzo dissennato delle discariche così come avviene in Sicilia. Emergenza rifiuti ha quindi fino ad oggi significato elusioni di norme a favore di qualcuno e aumento dei costi per i cittadini perpetuando il già grave stato della gestione dei rifiuti siciliano.

priorità dall'attuale piano dei rifiuti stiano invece sorgendo, senza alcun tipo di intoppo, impianti di produzione di energia dalle biomasse. Questi impianti potrebbero usare, qualora ci fosse mancanza di biomassa puramente detta (alberi, potature, sfalci, residui agricoli), i rifiuti urbani. E poiché la Sicilia non eccelle per quanto riguarda la copertura boschiva sorge un piccolo sospetto sul reale utilizzo di questi impianti nel futuro. Le opere finanziate

Il piano del 2012 Il piano rifiuti regionale, approvato nel 2012, dovrebbe recepire le direttive europee e le leggi nazionali in materia che non prevedono come strategia primaria la costituzione o il mantenimento delle discariche o di inceneritori, ma che al contrario puntano al recupero del rifiuto minimizzando l'uso di tecnologie volte alla distruzione del rifiuto con o senza recupero energetico. Dall'inizio della gestione Crocetta sono stati indetti dei bandi di gara per la creazione delle infrastrutture prioritarie di base per una nuova gestione dei rifiuti (impianti di compostaggio e selezione/valorizzazione). Gare d'appalto deserte Tutte queste gare d'appalto sono andate però stranamente deserte. Ancor più strano è che, pur non essendo previsti come

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Negli ultimi otto mesi sono stati stanziati dalla regione Siciliana, tramite l'attuale responsabile Marco Lupo (Stefania Prestigiacomo lo ha consacrato due volte contro il parere del TAR, quando era ministro dell'ambiente con incarichi istituzionali, discutibili perchè in assenza di curriculum), Commissario regionale per l'emergenza rifiuti, nonché Direttore del Dipartimento Acque e Rifiuti che fa capo all'assessorato all'energia retto da Nicolò Marino, 30 milioni di euro a Gela, 20 a Enna e 20 a Messina (Pace) per 3 impianti di “biostabilizzazione”. Questi impianti si trovano in forma progettuale, in fase di approvazione o di costruzione in molte delle discariche siciliane, il motivo di tale corsa è l'obbligo dal 1 gennaio di quest'anno di conferire in discarica solo materiale “biostabilizzato”.


www.isiciliani.it Tecnicamente di cosa si tratta. L'impianto di biostabilizzazione è stato creato come il primo di due componenti del sistema di Trattamento Meccanico Biologico. Il TMB nasce per creare Combustibile da rifiuti (CDR) o Combustibile solido secondario (CSS) insomma un materiale il cui unico scopo è la “termovalorizzazione”. Questa circostanza unita al fatto che il piano regionale contempla anche modalità di trattamento termico dei rifiuti, come l’incenerimento, la gassificazione, la pirolisi, arco-plasma e soprattutto la combustione di CSS nei cementifici (il cui decreto per l'utilizzo è stato varato dal Governo nazionale nel marzo del 2013), bypassando ancora una volta le direttive, le leggi e i regolamenti che ne prevedono l'eventuale utilizzo solo e soltanto a valle del sistema di recupero dei rifiuti, ha messo in allarme la Rete Rifiuti Zero. Il pericolo Css «Il CSS, non più definito “rifiuto urbano”, ma “rifiuto speciale”, viene esentato dall'obbligo di essere trattato entro i confini regionali, diventando un prodotto industriale “di libera circolazione” che va a sostituire i combustibili tradizionali nei cementifici ed entra nel business dello smaltimento dei rifiuti.

La previsione di bruciare la parte combustibile di rifiuti indifferenziati negli inceneritori è una grave scelta dal punto di vista ambientale e sanitario. Da un lato vengono esposte le popolazioni al rischio di patologie cancerogene derivate da inquinamento atmosferico da polveri sottili ed ultrasottili, mentre dall'altro, a causa dell’incentivazione con CIP6 e Certificati Verdi, viene di fatto impedito l’avvio dell’industria del riciclo. Ma bruciare rifiuti nei cementifici è di gran lunga più pericoloso che bruciarli negli inceneritori. I cementifici risultano più inquinanti degli inceneritori in quanto non dotati di specifici sistemi di abbattimento delle polveri e tanto meno dei microinquinanti, e sono inoltre autorizzati con limiti di emissioni più alti. Il limite per le diossine passa da 0,1 nanogrammi/mc negli inceneritori a 10 ng/mc nei cementifici, cioè 100 volte di più.» E il professor Beniamino Ginatempo della Rete Rifiuti Zero Messina aggiunge «si stanno raggiungendo livelli di guardia elevati. Viene proposta da una ditta l'installazione gratuita di impianti per la produzione di CSS (che potrebbero trattare anche rifiuti ospedalieri), con la concessione del CSS per molti anni (p.es. da commercializzare in Norvegia o a centrali termoelettriche riconvertite, come l'E-

SCHEDA GIRO DI VITE PER LE DISCARICHE SICILIANE? L'assessorato all'Energia ha istituito una commissione d'inchiesta per fare chiarezza su chi, come e perchè ha concesso autorizzazioni a discariche pubbliche rivelatesi poi «bombe» ecologiche e a impianti privati che man mano sono rimasti di fatto gli unici ricevitori di rifiuti.La commissione ha avviato il lavoro partendo dall'analisi delle autorizzazioni concesse a discariche realizzate da privati: quella di Mazzarrà Sant'Andrea, in provincia di Messina, gestita dalla Tirrenoambiente; l'impianto di Lentini, in provincia di Siracusa, gestito dalla Sicula trasporti; la discarica di Motta Sant'Anastasia, in provincia di Catania, di proprietà della Oikos; e quella di Siculiana, in provincia di Agrigento, realizzata dalla Catanzaro costruzioni. L'assessorato che si occupa anche delle "autorizzazioni integrate ambientali" ha inoltre sospeso il rinnovo dei via libera per la Tirrenoambiente e la Oikos. La decisione è stata assunta

dipower a Milazzo). Così i sindaci con la sola cessione in comodato di relativamente piccole porzioni di territorio possono smettere la raccolta differenziata, risparmiano sul conferimento in discarica e magari procurano qualche posticino di lavoro per il e nell'impianto. Pericolosissimo, dunque!». Questi punti oscuri, qui solo in parte elencati, che da quasi un anno hanno caratterizzato un'azione amministrativa in tema di rifiuti che ad oggi ha prodotto solo sospetti e nulla di realmente concreto dovrebbero essere chiariti dal governo regionale. L'ombra della mafia Altrimenti questa ennesima crisi rischia di rivelarsi il solito escamotage per favorire scelte amministrative a vantaggio di interessi economici privati, basti pensare che all'utilizzo dei Css sono interessati grandi multinazioneli come A2A – già presente nella gestione dei rifiuti isolani in quanto azionista di Tirrenoambiente – e con la concreta possibilità, come è già successo in passato – l'ex presidente di Tirrenoambiente è stato condannato in primo grado a 14 anni per concorso esterno in associazione mafiosa – , che nell'affaire possa infiltrarsi la criminalità organizzata.

da Marco Lupo, che ha bloccato l'iter del rinnovo delle autorizzazioni dopo "le preliminari attività di verifica condotte dal dipartimento Acqua e rifiuti e in attesa del completamento degli accertamenti sulle procedure per il rilascio della 'valutazione di impatto ambientale' e della 'autorizzazione integrata ambientale'", come si legge in una nota divulgata dall'assessore Marino. La decisione, in realtà, non ha conseguenze dirette e tangibili. Le due discariche continueranno a ricevere rifiuti, ma in assessorato stanno valutando i rinnovi. Dall'anno scorso, infatti, una delle due autorizzazioni necessarie per tenere aperta una discarica, l'"autorizzazione integrata ambientale", non viene più concessa dall'assessorato al Territorio ma da quello ai Rifiuti. Le discariche di Mazzarrà e Misterbianco sono due degli impianti più grandi della Sicilia. La prima, gestita da una società mista pubblico-privata, stando ai dati di bilancio aggregati ha avuto nel 2012 ricavi per oltre 17,6 milioni di euro, piazzandosi al quinto posto fra le discariche siciliane, mentre la seconda, interamente privata, è la più remunerativa in Sicilia: stando ai dati di bilancio aggregati nel 2012 ha messo in bilancio ricavi per oltre 48,4 milioni. C.C.

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Editoria in Calabria

Il “rivoluzionario” e l'usuraio Dopo il sequestro dei beni di Citrigno il “rivoluzionario” Sansonetti lascia Calabria Ora. Sotto sequestro 37 fabbricati dell’editore, tra cui le cliniche "Villa Gioiosa" di Montalto Uffugo e "Villa Adelchi" di Longobardi. Licenziamenti e persecuzioni e sullo sfondo il suicidio del giornalista Alessandro Bozzo di Rocco Lentini Storie di giornalisti “rivoluzionari” alla conquista del Sud e di usurai, di giornalisti coraggiosi e di suicidi, di editori “padroni” e di sentenze che offendono la giustizia. È un quadro allarmante quello che ruota attorno a “Calabria Ora” un quotidiano “piccolo, piccolo” che in passato ha condotto belle battaglie di giornalismo e che subisce oggi le vicende usuraie dell’editore. La Direzione Investigativa Antimafia di Catanzaro ha scritto una nuova pagina nella storia dell’editoria calabrese e nel verminaio degli interessi di Pietro Citrigno, 62 anni, condannato in via definitiva per usura aggravata a 4 anni e 8 mesi. Il provvedimento di sequestro di beni, emesso dal Tribunale di Cosenza, interessa due cliniche e beni mobili e immobili. Valore cento milioni di euro.

“Un consolidato ed allargato sistema di usura posto in essere già dagli anni Settanta”, ma anche “la contiguità ad alcuni esponenti di spicco delle consorterie criminose operanti nel territorio cosentino”. Si basa su questo l’operazione della Dia di Catanzaro. Il dirigente della Dia di Catanzaro, Antonio Turi, ha fatto cenno, in conferenza stampa, anche alle “inquietanti ombre rilevate sull’origine del cospicuo patrimonio ascrivibile a Pietro Citrigno” e alla “pendenza presso il Tribunale di Paola di un procedimento penale per estorsione”. “Equidistante da entrambi i clan” L’editore di Calabria Ora è ritenuto “equidistante da entrambi i clan di spicco operanti nel territorio cosentino, che aveva bisogno di protezione a livello delinquenziale, al fine di tutelare le proprie attività imprenditoriali”. Scatole cinesi. Delle scatole cinesi di Citrigno, attualmente agli arresti domiciliari, c’eravamo già occupati nel numero de I Siciliani di gennaio dello scorso anno. Tra i beni sequestrati la "Edera srl", costruzione e commercializzazione di immobili; la "Meridiana srl", realizzazione e gestione di strutture ricettive alberghiere, ospedali e case di cura; la "Riace srl" costruzione di strutture ricettive, sanitarie e socio-assistenziali; il 23,33% del capitale sociale della "Monachelle srl", gestione di case di cura, di laboratori, di centri diagnostici, di stabilimenti termali Rsa; il 25% del capitale sociale della "San Francesco srl" , assistenza riabilitativa per anziani. Sotto sequestro anche 37 fabbricati, tra i quali le residenze sanitarie assistenziali per anziani. "Villa Gioiosa" e "Villa Adelchi", accreditate - e finanziate - dal servizio sanitario calabrese, 50 posti letto ciascuna, oltre a 5 terreni. A complicare il quadro delle attività investigative, dicono alla Dia, il fatto che “immobili, in precedenza di proprietà dei

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familiari del Citrigno, siano stati successivamente alienati a società pur sempre riconducibili al nucleo familiare dello stesso, nell’ambito di una fitta trama di partecipazioni societarie chiaramente finalizzate ad evitare la riconducibilità di tali beni proprio al Citrigno". La morte di Bozzo Citrigno è coinvolto anche nell’indagine riguardante la morte del giornalista del quotidiano cosentino, Alessandro Bozzo, che si è tolto la vita nella sua casa di Marano Principato (CS) il 15 marzo scorso. Le indagini si sono concluse in questi giorni e per l’editore di “Calabria Ora”, il quotidiano per il quale Bozzo lavorava, il reato ipotizzato è violenza privata. I pm lo accusano di avere costretto “mediante minaccia – si legge nel capo di imputazione – Alessandro Bozzo a sottoscrivere dapprima gli atti indirizzati alla società “Paese Sera Editoriale Srl” editrice della testata giornalistica “Calabria Ora”, nei quali dichiarava, contrariamente al vero, di voler risolvere consensualmente il contratto di lavoro a tempo indeterminato, senza avere nulla a pretendere e rinunciando a qualsiasi azione o vertenza giudiziaria, e, successivamente, a sottoscrivere il contratto di assunzione a tempo determinato con la società “Gruppo Editoriale C&C srl”, editrice della medesima testata giornalistica”. Bozzo, 40 anni, si è ucciso con un colpo di pistola alla testa. Aveva scritto di essere amareggiato per le sue condizioni di lavoro e la Procura di Cosenza aveva aperto un’indagine, sequestrando i suoi computer e il suo diario personale. “Ragazzo splendido, giornalista bravissimo - scrive Sansonetti nel lasciare il giornale - ma tutti coloro che hanno vissuto accanto a lui, ed io per primo, si sentono in qualche modo responsabili: non lo abbiamo capito, non lo abbiamo aiutato, abbiamo commesso delle ingiustizie. E’ così”.


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“E' ignobile quel che è accaduto ai colleghi di Calabria Ora” A sinistra: Alessandro Bozzo. In basso: Claudio Labate

“Il sistema della 'ndrangheta” “Fare il giornalista in Calabria è difficile, se non impossibile, rincara Gianfranco Bonofiglio, uno dei primi ad essere licenziato dal giornale. Essere liberi in una terra dominata dalla corruzione e dalla ‘ndrangheta è utopia. In Calabria la società civile è debole e la relazione fra imprenditoria, politica, istituzioni e ‘ndrangheta ha creato un sistema invincibile che domina tutto ed annulla qualsiasi diritto, anche quello di sperare che qualcosa possa cambiare”. Il gruppo editoriale, oggi in mano al figlio di Citrigno, Alfredo, non è stato colpito da alcun provvedimento, ma il direttore Piero Sansonetti, avrebbe lasciato “per via di alcuni dissensi con la proprietà”. Gli sarebbe stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e si è rifiutato. Questa la motivazione espressa da Sansonetti che in questi tre anni in Calabria ha tenuto una fitta agenda di convegnistica insieme al governatore fascista della Calabria, Giuseppe Scopelliti, rilanciando i “boia chi molla”. “La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa” , scrive Sansonetti, ma la seconda ondata di licenziamenti e la “normalizzazione” al giornale c’è stata sotto la sua direzione.

Adesso alla corte del “padrone” approda Luciano Regolo, 47 anni, esperienze in “la Repubblica”, “Oggi”, “A” e “Chi”, che l’hanno portato alla direzione di “Novella Duemila”, “Eva 3000” e “Vip”. “Licenziati in tronco” Intanto sono stati licenziati per non aver accettato un sospetto “cambio di proprietà” che imponeva la retrocessione della qualifica professionale e la trasformazione del contratto da tempo indeterminato a tempo determinato Francesco Pirillo ed il vice caposervizio Claudio Labate, componente del comitato di redazione. Si sono visti recapitare “via fax”, come tanti altri negli ultimi cinque anni, una “comunicazione di licenziamento” firmata dall’“amministratore unico della Paese Sera Editoriale srl”. Cambio di testata e di società. Non più

“Citrigno? Gli confermo simpatia!” Cacciato, dice. E’ consapevole di avere accettato troppi compromessi con il “padrone” Citrigno, ma difende l’usuraio, come sempre da quando è in Calabria: “Ho conosciuto molto bene Piero Citrigno e credo di avere capito i suoi pregi, molti, e suoi difetti, moltissimi (e gli confermo simpatia e affetto). Il suo difetto principale è uno solo: è un padrone”. Tre direttori messi alla porta in sette anni.

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Calabria Ora. Ma L’Ora della Calabria. Dimissioni e assunzione, con modifica del contratto, nella vecchia società “Gruppo Editoriale C. & C. srl” di Alfredo Citrigno. Prendere o lasciare. Si tenta di non pagare, tra l’altro, i 130 mila euro di Tfr, svuotando la società “Paese Sera Editoriale srl” come si era fatto prima con la “C&C” per evitare sequestri di somme dovute ai giornalisti licenziati in tempi diversi. Clausole capestro e assolutamente illegittime e reazione dei sedici giornalisti delle redazioni di Reggio Calabria, Palmi e Siderno, tra i quali Claudio Labate, Franco Cufari e Laura Sidari. Claudio Labate, abile giornalista ed ottimo grafico, rileva che “insieme alla proposta di contratto è stata presentata la rescissione consensuale (tra le formule…”nulla a pretendere”), e l’accettazione di un “accordo in deroga al Cnlg”. “Ne deve rispondere Sansonetti” Rabbia e amarezza vengono espresse da Pietro Comito, giornalista più volte oggetto di intimidazioni da parte della ‘ndrangheta, licenziato il 28 febbraio scorso da caposervizio di “Calabria Ora” con compito di coordinamento delle redazioni di Reggio Calabria, Catanzaro, Vibo Valentia, Gioia Tauro e Siderno. “Ho subìto umiliazioni personali e professionali per non essermi allineato ad una gestione editoriale in aperto conflitto con la mia coscienza. “Quanto avvenuto ai colleghi di Calabria Ora è qualcosa di ignobile della quale, a causa della sua colpevole inerzia, deve rispondere in prima persona il direttore Piero Sansonetti, che non può addurre, come avvenuto anche per il collega Lucio Musolino, il fatto che i licenziamenti siano stati disposti dall’editore”. A Musolino sono stati riconosciuti i diritti in tribunale, mentre altri hanno dovuto subire sentenze negative che offendono la professione e la giustizia.


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Abruzzo

Le cifre della cementificazione C'era una volta la “Regione Verde d'Europa”. Ma ormai quasi tutto il verde si è trasformato in grigio... di Alessio Di Florio

In Abruzzo la superficie urbanizzata è grande quanto 85.000 campi di calcio. Una cifra che fotografa la Regione che si vanta ancora di essere la “Regione Verde d’Europa” ma dove prevale sempre più il colore grigio. Il grigio del cemento che avanza sempre più ma anche il grigio delle cricche, delle infiltrazioni mafiose e di chi ricicla nella speculazione edilizia proventi illeciti. Su questo torneremo nei prossimi articoli, così come sui tentativi di ridurre le tutele delle Riserve Sirente-Velino e del Borsacchio, del Parco Nazionale della Costa Teatina di cui non si riesce a vedere la fine dell’iter istitutivo. Ma soprattutto approfondiremo quello che gli ambientalisti definirono alcuni anni fa il “sistema Montesilvano”, l’espansione di Francavilla che ha portato addirittura a dedicargli un neologismo (la francavillizzazione), la discussa e discutibile scelta di realizzare più centri commerciali in Val Pescara.

“Si sta impoverendo l'Italia” Il 29 ottobre 2010 il giornalista de La Stampa Giuseppe Salvaggiulo, venuto a Pescara per presentare il suo libro "La Colata", dichiarò che “L'Abruzzo segue un modello che sta letteralmente impoverendo l'Italia" e gli amministratori "nei fatti hanno premiato pochissimi costruttori a svantaggio della qualità della vita dei cittadini". Nell’occasione il WWF Abruzzo, che aveva invitato Salvaggiulo in Abruzzo, realizzò un dossier sul “consumo di suolo” nella Regione. Tra le tantissime denunce leggiamo che Navelli e S. Pio delle Camere sono assediate da capannoni industriali ed artigianali sparsi, autorimesse e strade degne di periferie di metropoli (vedi il raddoppio della SS. 17)", mentre le "aree costiere sono fragilissime, segnate dell'erosione e dall'impossibilità di evolvere naturalmente a causa della cementificazione imperante". Attraversare la costa abruzzese è vivere un viaggio a tratti surreale. Ci si aspetterebbe di vedere il mare, le spiagge, magari i trabocchi amati anche da Gabriele D’Annunzio. Invece si può proseguire per decine e decine di chilometri senza vedere null’altro che cemento, cemento e ancora cemento. Espansione edilizia senza freni Oltre il 60% delle coste abruzzesi è antropizzata. Da Vasto a Francavilla, sulla costa teatina, l’espansione edilizia appare senza freni e senza regole. A metà settembre del 2012 il ciclone “Cleopatra” diede una prima devastante anteprima di quello che è accaduto un mese fa. Uno dei Comuni più colpiti fu San Vito Chietino, dove fu richiesto lo “stato di calamità naturale”.

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Nell’estate precedente fu sequestrato un importante complesso edilizio in riva al mare mentre da diversi anni rimane in piedi un “mega resort di lusso a pochi passi da una zona di altissimo valore ambientale” su “una superficie di 200.000 mq. (140.000 nella delibera comunale 29/2011) di cui 130.000 interessati da 612 camere, seconde case, centro di talassoterapia per 9000 mq., sala meeting per 1000/1500 posti, centro culturale, 9 ristoranti, anche per banchetti, attrezzature sportive, piscine”. Alla radice dei disastri ambientali Nei giorni del ciclone Cleopatra le attiviste e gli attivisti di Zona22 fotografarono quella che definirono una “spregiudicatezza edilizia” che si annoda “a doppio filo ai disastri” appena avvenuti. Nelle loro foto furono immortalati “un grosso cilindro di cemento, interrato sotto la stradina che conduce alla calata, attraverso il quale un piccolo rigagnolo d’acqua, che una volta era un torrente, termina la sua corsa verso il mare attraverso i ciottoli della spiaggia” e “Al di là della Statale Adriatica, immediatamente a Nord dopo il ristorante “La Scogliera” (ex “Greco e Levante”),” in fase di conclusione “uno dei tanti enormi complessi residenziali spuntati come funghi sul territorio sanvitese, molti dei quali edificati lungo le rive di fiumi e fiumiciattoli, che purtroppo hanno il risaputo vizio di sfociare a mare” denunciando che “la collina è stata praticamente trasformata in una scala, alla cui base è stato realizzato un piccolo parcheggio “pubblico”, esattamente a strapiombo sul corso d’acqua” il cui letto è stato letteralmente strozzato dagli argini riforzati per difendere tale complesso.


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“Un nuovo complesso edilizio a ridosso della costa”

“Acqua infiltrata fra gli argini” Durante le piogge “l’enorme mole d’acqua scesa a valle, prendendo velocità, si è infiltrata tra gli argini scorrendo sotto il parcheggio, provocando uno smottamento di dimensioni allarmanti, con vistose crepe sull’asfalto appena finito, e una parziale fuoriuscita di numerosi massi dell’argine sinistro. La ditta realizzatrice dell’opera, per ovviare a questo increscioso inconveniente, ha pensato bene di scaricare lungo il letto del fosso qualche simpatica decina di metri cubi di calcestruzzo fresco fresco”. Negli stessi giorni il consigliere comunale di Pescara Maurizio Acerbo contestò l’autorizzazione alla costruzione di un nuovo complesso edilizio a ridosso della costa definendolo un enorme favore a due costruttori e in via di autorizzazione solo grazie ad “un’interpretazione assai forzata e illegittima del decreto sviluppo (legge 70/2011)”. Da trent'anni si attende il Piano Cave Nella Finanziaria regionale 2012, fu approvata una moratoria all’autorizzazione a nuove cave, nelle more di un Piano Cave che attende da 30 anni di essere realizzato. Nei mesi successivi nulla, o quasi, si mosse per redigere finalmente questo prezioso strumento territoriale. Mentre si svolse un vero e proprio stillicidio di dichiarazioni contro la moratoria, nel quale si contraddistinse la CISL (sostituitasi addirittura ai difensori di un indagato, chiedendo ripetutamente ed energicamente che venissero levati i sigilli ad una cava sequestrata dalle forze dell’ordine per sospetti di violazioni di legge).

Non si è mosso quasi nulla perché qualcosa, dopo mesi e mesi di attesa, avvenne: l’assessore alle attività produttive Alfredo Castiglione annunciò l’affidamento a professionisti qualificati dell’incarico di redigere il Piano. Uno dei professionisti sicuramente è qualificatissimo e conosce benissimo il settore: è il Presidente Nazionale di Assomineraria, l’organizzazione confindustriale della quale fanno parte gli imprenditori del settore cave. Praticamente i “cavatori” si devono scrivere da soli le regole … Tutto questo in una Regione dove all’epoca vennero censite 596 cave (più della Lombardia, ferma a 558, e del Veneto, fermo a 566). Come aggirare i vincoli Il consigliere regionale di Prc Maurizio Acerbo denunciò nel febbraio 2013 il tentativo di aggirare i vincoli paesaggistici con modifiche ad hoc del relativo piano regionale, portando ad esempio di questo modus operandi la costruzione di strutture

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alberghiere nel 2004 a Francavilla e del centro commerciale Megalò a Chieti, denunciando che si stava tentando di ripeterlo nuovamente per un centro commerciale in Provincia di Teramo. La nuova legge regionale La nuova legge regionale sull’edilizia, approvata nel novembre 2012 e contestata dalle associazioni ambientaliste (e in Consiglio da Maurizio Acerbo), è stata definita da alcuni l’avvio di un vero e proprio far west: consentiti aumenti del 50% delle volumetrie degli immobili e del 35% della superficie degli stessi, favorendo in più unicamente gli investimenti privati e tralasciando gli obiettivi pubblici di riqualificazione urbana. L’urbanista Piero Ferretti scrisse che se “progetti edilizi” contrastano “con evidenza le scelte compiute attraverso un piano attuativo di iniziativa pubblica” “paradossalmente” viene incentivato, compromettendo “l’attuazione degli scenari di riqualificazione prefigurati dall’ente pubblico”.


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Premio “Gruppo dello Zuccherificio” per il Giornalismo D’Inchiesta III edizione

Il “Gruppo Dello Zuccherificio”, in collaborazione con il Comune di Ravenna, LiberaInformazione, AltrEconomia, I Siciliani Giovani e Articolo 21, indice il 3° Premio “Gruppo dello Zuccherificio” per il Giornalismo D’Inchiesta dedicato alle inchieste realizzate sul territorio nazionale nell’anno 2013, inedite o diffuse tramite carta stampata, internet e nuovi media. Premio Giovani: riservato alle inchieste realizzate da giovani di età inferiore ai 30 anni, su tutto il territorio nazionale. Questa sezione vuole valorizzare la figura dei giovani che si sono distinti nell’ambito del giornalismo d’inchiesta. Premio Nazionale: riservato alle inchieste riguardanti l’intero territorio nazionale realizzate da autori che abbiano superato il trentesimo anno d’età. E’ previsto inoltre un Premio “Honoris Causa” per chi, nel corso degli anni, abbia dimostrato impegno e dedizione alla realizzazione e/o diffusione dell’attività giornalistica d’inchiesta in Italia. - Possono concorrere al premio giornalisti, singoli o associazioni con articoli ed inchieste pubblicati su quotidiani, periodici e agenzie di stampa, nonché con servizi pubblicati da testate giornalistiche online, nel periodo compreso dal 01.01.2013 al 03.05.2014.

- Premi: Sezione "Giovani": 1° premio euro 1.000, 2° premio euro 500; Sezione “Nazionale”: 1° premio euro 1.000, 2° premio euro 500. La giuria può assegnare ulteriori riconoscimenti e menzioni speciali. I primi due classificati di ogni sezione saranno invitati a presenziare alla cerimonia di premiazione che avverrà in occasione de “Il grido Della Farfalla”, 6° Meeting dell’Informazione Libera. - Per partecipare: mail a premiogruppodellozuccherificio@gmail.com, entro il 4 maggio 2014. Accludere le inchieste, in formato pdf. Non più di due inchiesta da max 20mila battute. La giuria si sriserva di valutare anche eventuali allegati multimediali. – La Giuria è presieduta da Loris Mazzetti (Capostruttura Rai3). Altri membri della giuria: Giorgio Santelli (Giornalista Rainews e Articolo21); Carla Baroncelli (Giornalista Tg2); Norma Ferrara (giornalista Libera Informazione e Siciliani Giovani); Gaetano Alessi (fondatore AdEst e vincitore premio Fava Giovani 2011); Salvo Ognibene (redattore 10e25e I Siciliani Giovani); Pietro Raitano (Direttore AltrEconomia).

Info: premiogruppodellozuccherificio@gmail.com Qui potete scaricare il regolamento in pdf e l’allegato per compilare la domanda.

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TEATRO POPOLARE

“Librino” di Luciano Bruno

al “Musco” di Catania il 29 aprile Il 10 gennaio 2014 era un venerdì e un nostro collaboratore si trovava sotto il "palazzo di cemento". Era lì con la sua fotocamera e voleva raccontare, ancora una volta, il quartiere di Librino. Voleva raccontare il degrado e l'abbandono del quartiere e del suo popolo. Voleva raccontare la città nella città. Voleva raccontare la distanza tra queste e l'ingiustizia sociale che ne deriva. Voleva raccontare, c un giornalismo libero e di verità, i luoghi dove è nato. Ma a qualcuno questo ha dato fastidio, ed ecco che Luciano viene aggredito, pestato e derubato della sua fotocamera.

La città onesta democratica e antimafiosa si ribella e le sta accanto. Il presidente del Teatro Stabile, Nino Milazzo, mette a disposizione un teatro per lo spettacolo "Librino" che da tempo il nostro Luciano porta in giro per narrare com'era e e com'è oggi il suo quartiere. In “Librino” Luciano narra la sua fanciullezza, i suoi amici, le partite di pallone in un campetto improvvisato. Il tutto in un'ora tra parole e musica, la musica dell'Orchestra dei ragazzi “Falcone e Borsellino”. Ora l'impegno del Teatro Stabile di Catania è una realtà. Un impegno civile mantenuto. Un impegno per narrare alla nostra Catania i nostri quartieri attraverso il palcoscenico di un teatro. Il 29 aprile 2014 al Teatro Musco alle ore 21 "Librino" andrà in scena, per ricordare ai cittadini e cittadine di Catania che le mafie si combattono con la verità e l'antimafia sociale. I Siciliani giovani Gapa/ giovani assolutamente per agire I Cordai giornale di San Cristoforo

La Periferica, mensile di informazione e cultura/ Registrazione Tribunale CT n.39/07 del 14/09/2007 Dir.responsabile Riccardo Orioles - Direttore editoriale Massimiliano Nicosia - Progetto grafico Luca Salici

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LIBRINO

Chi di palazzone ferisce di rimborso perisce Ovvero tredici milioni per il Palazzo di Cemento E' il simbolo del degrado di Librino, il luogo dove hanno picchiato e minacciato di morte Luciano Bruno. Ma in quel palazzo, tra famiglie di poveracci (sfrattati nel 2011), mafia e droga, a rimanerci fregato è stato soprattuto l'ex sindaco Raffaele Stancanelli. In questi giorni i 13 milioni da lui ottenuti dal governo Berlusconi per ristrutturare il palazzone di 16 piani verranno appaltati dall'amministrazione di Enzo Bianco, mentre del sindaco ex missino rimarrà solo il ricordo del predissesto. Causato da un rimborso da 22 milioni per un palazzone mai pagato dal Comune. Che l'avvocatura poteva evitare. Il marchio internazionale del degrado, il Jolly Roger del vandalismo. La minchia gigante disegnata su una delle colonne del palazzo di cemento a Librino è una perfetta convergenza tra significante e significato. «Cos'hanno fatto le istituzioni per risolvere il problema?». Per la risposta basta guardare il logo di una perfetta operazione di pirateria istituzionale. A breve, una gara d'appalto da tredici milioni di euro darà un po’ di respiro al disastrato settore dell'edilizia: soldi destinati alla ristrutturazione della torre di sedici piani di proprietà comunale, con l’obiettivo di riportare i 96 alloggi per famiglie alle condizione originarie dei primi anni '90. Un'era mitica per Librino, selvaggio ovest della periferia sud: i senza casa, a centinaia, arrivavano su segnalazione di efficientissimi sensali al soldo dei clan mafiosi. Per poche centinaia di migliaia di lire in tempi brevi assegnavano le case dentro i palazzoni. Destinate, sulla carta, agli aventi diritto presenti nelle graduatorie di Comune e Istituto case popolari. Il trucco è che, per sanare l'illecito e diventare i legittimi occupanti dopo pochi anni, basta solo un'autodenuncia. Da quel momento, per legge, nessuno ti butterà fuori. E' andata così in viale Moncada e viale San Teodoro, in viale Bummacaro, Grimaldi e Castagnola. Nomi di strade imparati solo ora dai 70mila residenti, perché allora non c'erano ancora, e il sistema di orientamento era giapponese come Kenzo Tange, ideatore della città satellite. Decine di palazzoni uscivano dall'anonimato, designati come “case rosse”, “case gialle”,

“case verdi”, a seconda del colore esterno, che le tante bizzarrie dell'architettura dell'epoca vollero sgargianti. Accanto, le cooperative, luoghi che con nomi come “Amiconi” puntavano alla riscoperta di una via italiana al comunismo quella delle coop rosse romagnole. “Risveglio” e “Ravennate” divennero i luoghi dell'élite del quartiere, gli operai con un lavoro. Decine di altre costruzioni venivano identificate per dignità di carica: “case della polizia”, “case della finanza”, a seconda della forza armata di appartenenza degli inquilini. “Che fortuna - hanno pensato gli occupanti del palazzo più alto di tutti, quello di viale Moncada 3 - si vede il mare, l'Etna, la piana di Catania”. Una vista mozzafiato, che ripagava dell'ascensore rotto, dell'acqua corrente che mancava, della sporcizia messa per tenere i curiosi lontano. Con un solo problema: chi abitava il Palazzo di cemento era più abusivo degli altri. L'edificio, mai consegnato ufficialmente al Comune e mai collaudato, non poteva ospitare nessuno. Gli abitanti diventano ostaggi della criminalità organizzata, che assume il controllo dell'edificio. Una situazione durata vent'anni, quando, dopo decine di arresti, blitz antidroga e omicidi, spesso nemmeno degni di finire sulla cronaca de La Sicilia con l'indicazione corretta della via, l'edificio, sempre più identificato col suo soprannome, viene sgomberato. I fondi per rifarlo vengono dal Piano Casa 2010 del governo Berlusconi, spiega ora il presidente della commissione Lavori Pubblici, il piddino Niccolò Notarbartolo, che fa parte della maggioranza che sostiene Enzo Bianco e dalla precedente amministrazione ha ereditato il problema del Palazzo di cemento. Ma anche la soluzione, che in soldoni rappresenta una cifra quasi pari al bilancio annuale dei Servizi sociali del Comune di Catania. Non a caso fu il professore Carlo Pennisi, titolare nel 2011 dell'assessorato alla Famiglia, nel maggio 2011 a capeggiare lo sgombero del fortino dell'illegalità. L'Ance, l'associazione dei costruttori edili, allora rappresentata dall'imprenditore antimafioso Andrea Vecchio, dà una mano a modo suo: dopo lo sgombero distrugge le scale d'ingresso ai piani superiori.

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di Leandro Perrotta L'Oikos, la ditta titolare del servizio di nettezza urbana, che riceverà 170 milioni di euro in 5 anni, porta via “straordinariamente” tonnellate di rifiuti, raccolte, però, dai volontari dei centri Talità Kum e Iqbal Masih. Il Comune ha persino evitato di fare una multa, almeno a Librino, ad Anc, lo street artist divenuto famoso per i “divieti di mafia”, che i vigili urbani volevano multare. Anc con i suoi colori ha provato ad abbellire lo stabile abbandonato, disegnandoci su un gran Don Chisciotte dal naso lungo quanto una spada, forse in ricordo di tante bugie dette e ridette da tutti fuori e e dentro e sul palazzone. Lo sgombero “è un segnale straordinario di legalità per Librino”, dichiarava il sindaco del tempo, Raffaele Stancanelli, che lasciando però qualche particolare in secondo piano. Il primo lo segnala una tragedia: un giorno di ottobre del 2012 Cristian, dodici anni, per poco non muore mentre gioca, cadendo in un buco nel cemento sulla rampa d'accesso al palazzo. Rammarico e frasi di circostanza, ma il buco lo coprono gli abitanti dei palazzi vicini, molti di loro ex abusivi “sanati” di una torre vicina: ci sanno fare con i mattoni, tanto da costruirsi dei garage fai-da-te alla base. “Mi raccomando, non la scriva 'sta cosa dei parcheggi, sennò il Comune ci fa pagare l'Imu”, dice uno di loro. Chi proprio col mattone non ha confidenza sembra invece il Comune di Catania: a un mese dal “buco” al Palazzo di cemento, nel novembre 2012, arriva quello al bilancio comunale. In giorni di frenetiche sedute in consiglio comunale sul bilancio annuale, un risarcimento record da 22 milioni di euro mette fine all'epoca del centrodestra, che dovrà chiedere alla Corte dei conti l'accesso al fondo salva enti. A decretare la fine di Stancanelli, un anno dopo gli annunci sulla “liberazione” del Palazzo di cemento, è un altro palazzone in viale Castagnola: il Comune, nel 1990, non ha mai pagato alla Fasano costruzioni di Salvatore Massimino la costruzione di una torre di 15 piani. «L'avvocatura comunale non ha mai presentato opposizione. E io ho atteso i termini per il ricorso prima di presentare il conto all'amministrazione», spiega il legale della società.


LIBRINO

La storia di Villa Fazio da masseria a rudere abbandonato Uliveti, vigneti, paesaggi mozzafiato...

Chi ha le chiavi di Librino?

2 marzo 2014. Insieme ad un gruppo della società civile, decidiamo di fare un sopralluogo a Villa Fazio. L’appuntamento è intorno alle 11,00 a Piazza Alcalà. Una volta radunatici, partiamo per Librino. Dalla tangenziale avvistiamo attorno alle mura della masseria un ponteggio che prima non c’era. Arrivati, entriamo: alla nostra destra vediamo la centrale dell’Enel, con i suoi tralicci e i cavi dell’alta tensione, a sinistra spazzatura. Le prime cose che si possono osservare sono il degrado e la distruzione dappertutto: c’è ancora il pozzo, (ovviamente senz’acqua); all’interno restiamo senza parole: mancano le porte, le finestre, il pavimento è distrutto. Hanno rubato anche la scala in ferro che portava al piano superiore e la vite del frantoio. A terra, insieme alle macerie, siringhe ovunque. Decidiamo di tornare fuori, a parte il ponte vediamo un ficus secolare, che credevamo a Catania di trovare solo alla Villa Bellini. Poi giriamo lo sguardo e vediamo quello che è rimasto dei campi di pallamano, basket, tennis, pallavolo… detriti, immondizia ed erba incolta. Percorrendo le scale arriviamo agli spogliatoi. All’improvviso sentiamo dei cani abbaiare: ci addentriamo e quello che vediamo ci sorprende. Quel posto è diverso dal resto della masseria: ordinato, pulito, una scopa, una paletta, bidoni con del liquido dentro. Un abbaiare di cani si fa più forte; usciamo e scorgiamo un po’ più sotto due cani che ci fanno festa. Non sono cani da caccia, non sono cani da guardia, neanche cani da combattimento. Cosa ci fanno lì in una masseria abbandonata? Qui qualcuno ci vive.

Un’immagine che mi è stata raccontata molto tempo fa mi ritorna in mente: anni ˈ70, un nonno robusto, con i capelli brizzolati, le mani grandi, la coppola in testa, sta caricando il suo carretto con dei sacchi di olive, poi da una porta vicino esce la sua asina che si chiama Ciumachella. Non molto distante c’è una bambina con i capelli ricci e gli occhi azzurri, che si avvicina al carretto e vi sale sopra. Insieme percorrono la strada che da Borgo Librino porta al frantoio dove le loro olive verranno trasformate in olio. Durante il tragitto la piccola si guarda intorno e vede e sente la bellezza e il profumo della natura, poi alza gli occhi in cielo e un aereo sorvola la sua testa: le sembra di poterlo toccare con un dito. Girando lo sguardo verso il basso, sempre a sud, dalla collina, su quel sentiero, vede il mare e il suo orizzonte lontano. Una volta a destinazione, Carmelo scarica il carretto e si dirige, insieme alla bambina, verso la struttura dove vi sono altre persone e altri bambini, con cui la sua nipotina può giocare allegramente. Questo c’era a Librino prima della speculazione edilizia: uliveti, vigneti, aranceti e paesaggi mozzafiato dove si sentiva e si vedeva lo splendore della natura. Questa era la masseria Villa Fazio. Vent’anni dopo nello stesso posto c’è un altro anziano: alto, occhiali sul naso, pochi capelli, ben vestito, da Ministro dell’interno che taglia un nastro inaugurale.

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di Luciano Bruno La storia di Villa Fazio

Antica masseria rurale di metà '800, villa Fazio ha resistito all'urbanizzazione di Librino e fino al '96 il suo unico frequentatore era un pastore che la usava come capanno, per pascolare le pecore tra i tralicci dell'adiacente centrale Enel. Poi sono iniziati i lavori di ristrutturazione: a inaugurare Villa Fazio fu Giorgio Napolitano, allora ministro dell'Interno. La struttura, comunque, non era ancora pronta e per le Universiadi dell'anno successivo, il 1997, le opere non erano finite. Fortunatamente l'allora amministrazione Bianco quater ascoltò le richieste del quartiere, in particolare della Cooperativa ‘Risveglio’ di viale Castagnola, distante poche centinaia di metri. E in collaborazione con Uisp e con la parrocchia Risurrezione del Signore, dal ˈ98 e fino al 2002 villa Fazio è stato l'unico, vero centro di aggregazione di Librino. La pacchia, per le centinaia di ragazzi che ogni giorno, gratis, giocavano a calcio, basket, pallamano (e qualche volta anche a tennis, se la rete era montata bene), è finita con l'arrivo dell'amministrazione Scapagnini. Il dottore di Berlusconi cambia riferimenti, forse alla Uisp lo sport era davvero troppo "per tutti", e affida la gestione alla parrocchia di Borgo Librino, allora di don Santino Salamone. Il declino è lento ma inesorabile: prima la distruzione delle porte, poi vengono rubate le ringhiere - centinaia di metri di ringhiere - poi i cavi elettrici, poi il pavimento, le porte dei campi. Persino la pressa in legno del frantoio. Nel 2011 il Comune di Catania riesce ad inserire la struttura all'interno del budget dei Servizi Sociali: con i fondi della legge 285/97, circa 700mila euro, la masseria verrà ristrutturata.La ditta che si è aggiudicata i lavori si chiama società cooperativa Megaedil di Patti (Me) e a breve, assicurano dalla commissione lavori pubblici del Comune, partiranno i lavori C'è anche il nome di chi si occuperà delle attività: il consorzio SOLCO, vicino a Lino Leanza (fra l’altro ex candidato a sindaco di Catania, con la lista civica Articolo 4), che dovrà inaugurare un "polo educativo", coinvolgendo le associazioni del quartiere.


'A collina do Librinu L’Infinito di Leopardi: libera traduzione in siciliano e adattamento di Luciano Bruno

Sempri cara è ppi mia sta solitaria collina china di natura ca mi fa immaginari ‘n postu luntanu. e i palazzi accussì iauti ca viu di cca supra m’ammucciano a vista.

LIBRINO

Ma assittatu e taliannu mi pari di vidiri spazi infiniti al di là di chista e silenzi e na paci assai ranni ca quasi quasi ju stissu mi scantu. U ventu ca sentu e che alleggiu movi sti fraschi ppi mia è comu a stu sentimentu:

PERIFERIE

e m’arriccordu a me nannu all’eternu a cu non c’è cchiù, a u battitu intra u me core da vita ca sentu cca vicinu a mia. Accussì ‘ntra sti ranni penseri affunnu: e mi perdu in menzu a stu mari.

INFORMAZIONE

Il quartiere L'uso della “Dàgli a Librino!” dei giovani libertà di Cristina Perrotta

di Massimiliano Nicosia Librino è il quartiere nel quale risiedono buona parte dei giovani e bambini catanesi, coloro che domani, da cittadini e genitori, dovranno portare avanti questa città vivendola e partecipando attivamente alla sua crescita; eppure Librino è il quartiere catanese con il più alto tasso di dispersione scolastica; è il quartiere con il più alto numero di minori ospitati nel centro di prima accoglienza di Catania. Qual è la risposta delle istituzioni a questo dramma in evoluzione del quale, con buona probabilità, Catania piangerà le conseguenze nei prossimi 10-20 anni? Promesse. Facili e ingannevoli promesse e nient’altro. Promesse di portare qui l’istituto d’arte, di aprire nel quartiere un liceo musicale, di portare una scuola superiore. Tutte promesse non mantenute con una forma di cattiveria e sadismo politico che vede i nostri rappresentanti mostrare continuamente un bicchiere d’acqua fresca a questo quartiere assetato di servizi salvo poi restituirglielo puntualmente vuoto. Di chi è la colpa? Sicuramente dei nostri politici incapaci. Ma non ci illudiamo di poter scaricare interamente su di loro il barile. Li abbiamo messi lì noi; perché da anni è Librino a decidere in larga misura chi vincerà e chi perderà le elezioni locali. Come dite? “Su tutti i stissi?”. Forse. Ma il nostro dovere lo dobbiamo soprattutto ai giovani di questo quartiere, è anche scegliere il meno peggio e una volta scelto pretendere la giusta attenzione al territorio e, se così non fosse, rispedirli a casa. (“La Periferica”, dicembre 2010)

La Periferica è un piccolo giornale che torna a uscire in uno delle borgate più grosse e povere del Sud, Librino. E' nato fra gli scout ed ha rapidamente aggregato la meglio gioventù del quartiere, quelli che “un giorno anche Librino sarà un posto normale, senza mafia, col lavoro!”. I ragazzi della Periferica hanno tenuto duro per diversi anni. Il loro giornaletto, che secondo le regole sarebbe dovuto restare nel giro dei pochi studenti “colti” della città, invece s'è diffuso a sorpresa fra gli abitanti del quartiere. E questi, che secondo le regole avrebbero dovuto farsi i cazzi loro, invece l'hanno appoggiato: il giornale diffuso nei bar, un po' di pubblicità – addirittura – dai piccoli commercianti del quartiere. Finché un bel giorno un barista sorride impacciato. “Beh, stavolta il vostro giornale qui non ve lo posso esporre...”. E il negoziante: “Veramente la pubblicità me l'hanno già messa su quell'altro giornale...”. “Ehi – fa una – hai visto che oggi La Sicilia ha pubblicato una pagina straordinaria tutta su Librino?”. Cos'è successo? Come mai l'unico quotidiano della città ha improvvisamente scoperto il povero quartiere? Semplice: Librino è 40'mila voti. Li puoi comprare, vendere, mettere all'asta, contrattare. Se però questa gente comincia a pensare con la sua testa (a destra, a sinistra, al centro: ma con la testa sua) non lo puoi fare più. Diventano voti liberi, da convincere. E come cavolo li convinci, se da vent'anni li lasci nella miseria più nera, con fogne di fortuna e senza luce? Maledetto giornale libero, maledetti ragazzi. E' quella fabbrica di uomini, quella Periferica di pensatori, la fonte della disgrazia. Facciamole il vuoto attorno.

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Leggete cosa hanno scritto su La Sicilia a proposito di una rapina sventata da un eroico poliziotto di Librino... Certo il lavoro al desk per un giornalista deve essere poco gratificante: ore ed ore scorrendo notizie rigirate dalle agenzie, spesso poco interessanti, da selezionare e inserire con un copia-incolla direttamente sul sito. Quando però le notizie di agenzia contengono nello stesso paragrafo le parole “rapina” e “Librino”, scatta subito un meccanismo preciso, e la notizia viene inserita immediatamente tra le news degne di nota. Magari senza nemmeno leggere bene ciò che contiene. E' accaduto alla redazione on line de La Sicilia: possiamo presumere che l’annoiato redattore all’arrivo di una notizia che in qualche modo riguardava il quartiere di Librino, abbia immediatamente postato la notizia, affibbiandole questo bel titolo: “Poliziotto sventa rapina a Librino”. Leggendo il testo del comunicato, risulta però immediato e lampante l’errore: “Un agente di polizia del commissariato di Librino libero dal servizio a Catania ha sventato una rapina ai danni di un supermercato di via Vagliasindi”. Che via Vagliasindi non si trovi nel quartiere di Librino è noto a tutti. Così come è nota a tutti ormai da tempo la volontà dei media di dare un’immagine stereotipata del quartiere come “zona a rischio”. Non soltanto quando i fatti negativi succedono realmente, ma anche quando la fantasia di un distratto redattore ribalta il senso di una notizia. L’errore, per carità, è umano. Ma ci sarebbe stato se il poliziotto avesse arrestato qualcuno in viale Odorico da Pordenone? (“La Periferica”, ottobre 2009)


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racconti disegnati di felicità rivoluzionarie Thomas Sankara, il presidente povero, rivoluzionario, femminista e visionario del Burkina Faso, ci ha lasciato traiettorie precise ed indicazioni sane da tenere a mente e applicare quotidianamente a livello esistenziale. Sul livello narrativo sono degli incipit che ci permettono di lanciare oltre gli ostacoli il senso del suo vissuto e del suo pensiero politico. Ognuna delle brevi storie a fumetti raccolte nella mostra è ispirata ed intitolata ad uno dei capisaldi del Sankara-pensiero. Un gruppo di ordinari artisti e storyteller ha voluto farsi custode dei germogli della sua ribellione, con la consapevolezza che la sola volontà di farli sbocciare – non troppo tempo fa – ha permesso ad un popolo debole e vessato di intravedere la luce della felicità rivoluzionaria.

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Mamma! è la prima rivista italiana di giornalismo a fumetti, nata da un gruppo di autori senza padrini e senza padroni. Penne e matite fuori dal coro, che sperimentano il fumetto, l’infografica e l’illustrazione come strumenti per capire meglio la realtà che ci circonda. Un laboratorio editoriale che nel corso degli anni ha saputo coinvolgere alcune tra le migliori firme del fumetto e del giornalismo italiano. Con lo slogan “Se ci leggi è giornalismo, se ci quereli è satira”, la rivista “Mamma!” sta cercando di dare spazio ad una generazione di autori rimasta schiacciata tra la crisi editoriale e la gerontocrazia che ha occupato tutti i posti chiave dell’informazione. E pian piano qualcosa si muove.

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Mauro Biani

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racconta sussidiario di resistenza sociale Contributi di Antonella Marrone, Carlo Gubitosa, Cecilia Strada, Cinzia Bibolotti, Ellekappa, Franco A. Calotti, Gianpiero Caldarella, Makkox, MaoValpiana, Massimo Bucchi, Nicola Cirillo, Pino Scaccia, Riccardo Orioles, Stefano Disegni, Vincino Gallo Formato 17x24, 240 pagine, colori ISBN 9788897194057 15 euro

I

l meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, autore di satira sociale a tutto tondo che unisce la vocazione artistica all’impegno professionale come educatore in un centro specializzato per la disabilità e la non disabilità mentale. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti quando serve, per toccare temi universali come la

nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie. L’AUTORE Mauro Biani (Roma, 6 marzo 1967) ha pubblicato vignette in rete per anni per poi fare il salto verso il professionismo su quotidiani e settimanali nazionali, riviste del terzo settore e organi di informazione indipendente. Ha fondato la I Siciliani 52 Sicili igiovani p giov ni – pag.

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rivista di giornalismo a fumetti “Mamma!” che ha chiamato a raccolta un gruppo nutrito di giornalisti, vignettisti e fumettari in cerca di nuovi spazi espressivi. Collabora con il gruppo internazionale “Cartooning For Peace” sotto l’alto patrocinio dell’Onu. Nel 2009 ha pubblicato il volume “Come una specie di sorriso”, una antologia di illustrazioni ispirate alle canzoni di Fabrizio De Andrè.


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Persone

Reato di Vangelo La storia di padre Carlo, che si schierò con gl'immigrati e per questo venne accusato di essere un “capobanda” di Massimiliano Perna “Sono stato accusato – dichiara padre Carlo poche ore dopo l’assoluzione - di reati gravissimi, ovvero di aver creato un’associazione a delinquere e che avrei dato un contributo essenziale a tale associazione, consentendo l’elezione a domicilio di diversi stranieri. Mi si accusava di aver tratto un ingiusto profitto predisponendo false storie personali e false attestazioni di domicilio. Sono stato in pratica accusato di essere stato coinvolto in quella parte del campo dove giocano le culture e le persone che da sempre ho osteggiato e condannato, dichiarando guerra aperta, senza diplomazia, senza ipocrisia e senza calcoli di convenienza”.

Anche don Gallo pianse Sono queste le parole che padre Carlo D’Antoni, parroco della comunità di Bosco Minniti, pronuncia poche ore dopo la sentenza che lo assolve da un’accusa ignobile e che conclude una vicenda che aveva amareggiato non solo la comunità, che mai ha avuto dubbi sull’onestà del parroco e dell’opera di accoglienza svolta, ma anche centinaia di cittadini, intellettuali, uomini di fede che, dall’Italia e dall’estero, hanno indirizzato a padre Carlo fax, lettere e mail di solidarietà e stima. Un appello firmato da artisti, giornalisti, studiosi, scrittori, filosofi ha circolato in rete per tutti i 38 giorni nei quali il prete siracusano è rimasto ai domiciliari. Anche l’indimenticato don Andrea Gallo, nell’apprendere dell'arresto di Carlo, come raccontò a una scuola catanese in visita nella sua comunità, si mise a piangere per l'ingiustizia commessa ai danni di un uomo di fede come lui. Da ogni parte d'Italia “Mi ha sostenuto l’attestazione di stima – confida il prete siracusano - che incredibilmente mi è arrivata da ogni parte d’Italia. Meno male, altrimenti sarei sprofondato in un gorgo di solitudine nera proprio nel momento in cui scoprivo di essere indagato quale ‘regista’ di una trama perversa di sfruttamento e perversione”. L’accusa apparve, sin da subito, assurda, priva di qualsiasi fondamento, diso-

Scheda

La Comunità di Bosco Minniti La Comunità di Bosco Minniti è un’oasi di accoglienza gratuita e solidarietà umana alla periferia di Siracusa, una parrocchia povera ed essenziale anche nella sua architettura. È guidata da padre Carlo D’Antoni, il “prete degli ultimi”, che in 12 anni ha accolto quasi 20mila migranti e poveri di strada, facendo leva soltanto sul suo stipendio, sull’aiuto di fedeli e amici e sul sostegno della diocesi di Siracusa. Il 9 febbraio 2010, Padre Carlo fu arre-

rientando tutti coloro i quali conoscevano da vicino quella realtà che da sempre è riparo di poveri di strada, disoccupati, clochard, ex tossicodipendenti e, soprattutto, migranti. “Accompagnati in chiesa” “Un numero considerevole di stranieri – afferma il sacerdote - nel corso degli anni e fino a due giorni dal mio arresto, mi è stato accompagnato in chiesa, in modo informale, da personale della polizia di Stato, assistenti sociali, da personale dell’ospedale cittadino, da dipendenti della prefettura, da qualche assessore comunale. All’improvviso è stata calata un’ombra sulla parrocchia che veniva descritta dal pubblico ministero come un paravento per far prosperare i traffici di una associazione a delinquere con me come capo banda. La gente, i volontari, erano annichiliti, oltraggiati. Quello che più mi ha offeso è stato leggere nell’ordinanza che le mie azioni erano finalizzate al ‘prestigio sociale’ di difensore di poveri e padre di derelitti”. Un reato inesistente Gli interrogativi sulle ragioni per cui padre Carlo sia stato arrestato per un reato inesistente, sono ancora tutti aperti, soprattutto considerando il modo in cui l’Ufficio Immigrazione della questura di Siracusa si rapportava alla parrocchia.

stato, con l’accusa di aver predisposto false storie personali e false attestazioni di domicilio, ricavandone profitto. Un’accusa assurda, visto che il rilascio di attestazioni di domicilio è avvenuto sempre nel rispetto della legge e con la costante interazione con questura, ministero degli Interni e Unhcr. Dopo 38 giorni di domiciliari, il Riesame di Napoli ne dispose l'immediata liberazione, esprimendo perplessità sull’operato dei colleghi della procura di Catania e sull’accusa mossa a padre Carlo. Il 30 gennaio scorso è finalmente arrivata l’assoluzione per non aver commesso il fatto. M.P.

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News contro le mafie

Concorso giornalistico per le scuole “Giuseppe Fava” “"Apri la finestra sulla tua città e raccontaci dove vedi la mafia, l'illegalità e le ingiustizie" Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Direzione Generale per lo Studente, l’integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione e La Fondazione Giuseppe Fava, in collaborazione con l’Agenzia di stampa ANSA, nell’ambito del progetto di educazione alla legalità dal titolo “Ragazzi in cronaca contro le mafie”, indicono – per l’anno scolastico 2013/2014 – il CONCORSO GIORNALISTICO GIUSEPPE FAVA rivolto agli alunni della scuola secondaria di secondo grado. Il concorso coincide con le celebrazioni del trentennale dell’assassinio di Fava, ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio 1984, e intende contribuire a ricordare il giornalista che ha sacrificato la propria vita per la piena attuazione della libertà di espressione sancita dall’articolo 21 della Costituzione Italiana. Nella Sicilia degli anni 80, Fava creò un giornale chiamato “I Siciliani” che formò un gruppo di cronisti ventenni ai quali Fava diede una concreta opportunità di formazione professionale e civile. Per loro Fava fu un maestro e a loro diede un esempio che continua a essere un modello anche per i ragazzi che oggi vogliono praticare la professione del giornalista in piena libertà. L’iniziativa, che si inserisce nell’ambito delle attività culturali che la Fondazione Giuseppe Fava promuove da anni per i giovani, punta - grazie al coinvolgimento delle scuole di tutta Italia - a favorire lo sviluppo di una cultura della legalità, del rispetto dei diritti umani, della lotta alle mafie, principi su cui si fonda una società civile e la formazione di cittadini consapevoli e attivi.

In questo quadro, il concorso intende sensibilizzare i ragazzi alla conoscenza e all'approfondimento dei temi legati alla legalità e alle norme, proprio partendo dalla descrizione della realtà territoriale. Raccontare situazioni di illegalità, di ingiustizia nella propria città diventa un mezzo per favorire la collaborazione tra gli studenti, per diffondere la consapevolezza delle realtà esistenti sul proprio territorio e per stimolare il senso civico e l'impegno quotidiano dei ragazzi nella lotta alle mafie e all'illegalità. L’ANSA metterà inoltre a disposizione delle scuole che parteciperanno al Concorso la sezione del sito ANSALEGALITA’ (http://www.ansa.it/legalita/). Sarà questa una piattaforma di confronto e dibattito tra gli studenti, che avranno l’opportunità di “dialogare” anche con giornalisti, esperti del settore e docenti. Il progetto si inserisce in un piano di interventi complessivo che il MIUR promuove da anni per la formazione dei giovani alla legalità e all’educazione antimafia nelle scuole. Il regolamento Art. 1 - Finalità Il concorso ha come obiettivo quello di stimolare gli studenti a riflettere, in maniera creativa attraverso la fotografia, gli articoli giornalisti e gli strumenti multimediali, su quali siano i comportamenti e le azioni da compiere, in collaborazione con i familiari, gli insegnanti, gli amici e le Istituzioni per creare un ambiente civile in cui tutti vedano rispettati i propri diritti, lottino per la legalità e contro le mafie. Oggetto specifico del concorso è l’osservazione e il racconto di fenomeni o fatti – accaduti preferibilmente nella città dove i partecipanti vivono – legati alla presenza della criminalità organizzata o alle sue collusioni. Gli elaborati possono prendere spunto da cronache locali o da eventi di rilievo nazionale per poi inserirli in un contesto concreto, vicino a chi scrive o riprende video o scatta immagini. L’ANSA metterà inoltre a disposizione la sezione del sito ANSA-LEGALITA’

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(http://www.ansa.it/legalita/) per tutte le scuole che parteciperanno al Concorso. Sarà questa una piattaforma di confronto e dibattito tra gli studenti, che avranno l’opportunità di “dialogare” anche con giornalisti, esperti del settore e docenti. Art. 2 - Destinatari Il concorso è rivolto agli studenti delle Istituzioni Scolastiche secondarie di secondo grado, statali e paritarie, che potranno partecipare con piena autonomia espressiva all’iniziativa. Gli studenti possono partecipare singolarmente, per gruppi o per classi. Art. 3 - Tipologia di elaborati ammessi Gli studenti partecipanti potranno scegliere di partecipare a una delle seguenti tre categorie di concorso Categoria testi giornalistici: Testi giornalistici per la stampa o per il web per un massimo di 2.500 (duemilacinquecento) battute; Categoria prodotti multimediali: Inchieste radiofoniche o televisive della durata massima di 3 (tre) minuti; servizi giornalistici radiofonici o televisivi, della durata massima di 1 (un) minuto; Categoria fotografie: Fotografie (bianco nero o colore; in formato jpg compresso, max 1 mgb) corredate da una didascalia (di 20, venti, battute comprensive di un titoletto di due/tre parole) che spieghi la scelta e descriva giornalisticamente la foto. Gli elaborati dovranno essere inviati su supporto digitale (CD; DVD; pen drive) Art. 4 - Presentazione degli elaborati Gli elaborati dovranno essere raccolti dal Dirigente scolastico e inviati entro e non oltre il 15 aprile 2014 tramite posta al seguente indirizzo: Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione, Viale Trastevere 76/A, 00153 ROMA. Sulla busta dovrà essere riportata la dicitura: CONCORSO GIORNALISTICO PER LE SCUOLE “GIUSEPPE FAVA” Ciascun elaborato dovrà essere accompagnato dalla “Scheda di presentazione elaborati” allegata al presente Regolamento, debitamente compilate in ogni sua parte


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Art. 5 - Privacy e liberatoria Le opere inviate non saranno restituite e resteranno a disposizione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, della Fondazione “Giuseppe Fava” e dell’ Agenzia di stampa ANSA che si riservano la possibilità di produrre materiale didattico/divulgativo con i contributi inviati, senza corrispondere alcuna remunerazione o compenso agli autori. Le opere potranno essere pubblicate sul sito dell’Agenzia di stampa ANSA, nonché utilizzate per la realizzazione di mostre e iniziative. L’invio dell’opera per la partecipazione al concorso implica il possesso di tutti i diritti dell’opera stessa e solleva il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e la Fondazione “Giuseppe Fava” da tutte le responsabilità, costi e oneri di qualsiasi natura, che dovessero essere sostenuti a causa del contenuto dell’opera. Gli elaborati prodotti dovranno pervenire corredati dal consenso al trattamento dei dati personali ai sensi del D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (All.A).

Art. 6 - Valutazione degli elaborati Gli elaborati pervenuti saranno valutati da una Commissione nominata dal Direttore della Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione e composta da un rappresentante del personale scolastico, da rappresentanti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, della Fondazione Fava, da professionisti del settore della stampa e delle comunicazioni e da esperti delle arti grafiche e figurative. La Commissione selezionerà i lavori ritenuti di maggior interesse a livello nazionale per ciascuna categoria, tenendo conto, tra l’altro: dell’efficacia e pertinenza nella rappresentazione del tema; della creatività e originalità di espressione; del superamento degli stereotipi; dell’impegno, della fantasia e delle qualità formali; della capacità di sintesi nell’esposizione. Art. 7 - Premiazione I lavori selezionati dalla Commissione avranno la possibilità di essere pubblicati sul sito dell’Agenzia di stampa ANSA.

Giovani giornalisti crescono PREMIO GRUPPO DELLO ZUCCHERIFICIO PER IL GIORNALISMO D'INCHIESTA 2014 Il “Gruppo Dello Zuccherificio”, in collaborazione con il Comune di Ravenna, LiberaInformazione, AltrEconomia, I Siciliani Giovani e Articolo 21, indice il 3° Premio “Gruppo dello Zuccherificio” per il Giornalismo D’Inchiestadedicato alle inchieste realizzate sul territorio nazionale nell’anno 20132014, inedite o diffuse tramite carta stampata, internet e nuovi media. Il bando è aperto per le seguenti categorie: Premio Giovani: riservato alle inchieste realizzate da

I primi classificati di ciascuna delle tre categorie avranno l’opportunità di svolgere una giornata di studio seminariale con direttori e cronisti di testate giornalistiche nazionali di carta stampata, web e tv che avrà luogo nella sede della Associazione “Stampa romana” di via della Torretta a Roma; i primi classificati avranno anche l’opportunità di svolgere una giornata di workshop nella redazione Ansa.it, in modo da verificare in concreto il modo in cui funziona una redazione telematica che selezionare e diffonde sul web le notizie. Il primo classificato della categoria fotografia avrà inoltre la possibilità di partecipare con la foto vincitrice alla mostra fotografica itinerante organizzata all’interno delle scuole italiane dalla Fondazione Giuseppe Fava in collaborazione con il Miur. Tutti i vincitori saranno premiati nel corso di una cerimonia ufficiale che si terrà entro la fine dell’anno scolastico 2013 – 2014. Art. 8 - Accettazione del Regolamento La partecipazione al concorso è considerata quale accettazione integrale del presente Regolamento. Info: www.isiciliani.it/concorso-giornalistico-perle-scuole-giuseppe-fava/#.UxL194VuSI4

giovani di età inferiore ai 30 anni, su tutto il territorio nazionale. Questa sezione vuole valorizzare la figura dei giovani che si sono distinti nell’ambito del giornalismo d’inchiesta. Premio Nazionale: riservato alle inchieste riguardanti l’intero territorio nazionale realizzate da autori che abbiano superato il trentesimo anno d’età. E’ previsto inoltre un Premio “Honoris Causa” per chi, nel corso degli anni, abbia dimostrato impegno e dedizione alla realizzazione e/o diffusione dell’attività giornalistica d’inchiesta in Italia. Info: http://gruppodellozuccherificio.org/premio-gruppo-dellozuccherificio-per-il-giornalismo-dinchiesta/

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Libri/ “Il MUOStro di Niscemi”

I cento veleni della base Usa Vent'anni di silenzi e omertà. E la paura continua di Antonio Mazzeo da Il MUOStro di Niscemi Si è dovuto attendere quasi vent’anni perché le autorità regionali eseguissero le prime analisi sul livello d’inquinamento elettromagnetico prodotto dalla grande base della Marina militare Usa di contrada Ulmo a Niscemi dove sono in corso i lavori d’installazione del MUOStro per le guerre globali del XXI secolo. E verificare che anche senza il terminale terrestre del nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari, le emissioni della stazione radio NRTF hanno raggiunto livelli insostenibili per la salute della popolazione. Nel loro studio sui pericoli delle antenne del MUOS, i ricercatori del Politecnico di Torino Massimo Zucchetti e Massimo Coraddu evidenziano come le misurazioni dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA Sicilia) abbiano provato in particolare «la presenza di un campo elettrico intenso e costante in prossimità delle abitazioni, mostrando un sicuro raggiungimento dei limiti di sicurezza per la popolazione e, anzi, un loro probabile superamento». Sempre più spesso i valori rilevati sono risultati prossimi ai limiti di attenzione stabiliti dalla normativa (6 V/m). Per Zucchetti e Coraddu la situazione reale è però, con ogni probabilità, ancora peggiore. Le emissioni della stazione di telecomunicazioni pongono, infatti, problemi di misurazione particolarmente gravosi specie per la presenza di decine di sorgenti che trasmettono simultaneamente a frequenze molto diverse tra loro e che possono facilmente produrre malfunzionamenti e risposte imprevedibili negli stessi strumenti di misura.

Non di rado i tecnici dell’ ARPA si sono trovati di fronte a risultati completamente diversi e incompatibili. Nelle rilevazioni non si è poi tenuto conto che una delle caratteristiche delle trasmissioni militari è la non continuità delle emissioni e che la potenza con cui esse sono irradiate è variabile. Secondo i ricercatori del Politecnico, le procedure di misurazione sono state dunque superficiali, incomplete e inidonee e le conclusioni a cui è giunta l’Agenzia per la protezione dell’ambiente contraddittorie e irragionevoli. Valutazioni ritenute fondate dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio che con note del 29 febbraio e del 2 aprile 2012 ha invitato l’ARPA e la Regione a effettuare ulteriori e più approfondite analisi delle emissioni «al fine di fugare qualsiasi preoccupazione sui possibili rischi per la salute legati al funzionamento dell’impianto». Il rifiuto dei dati «Nell’istruttoria del 2009, l’ARPA ha pure dichiarato di non essere stata in grado di portare a termine il compito affidatole, poiché le informazioni tecniche sugli impianti già operanti risultavano secretate dall’attività militare, così come i valori di campo elettromagnetico ante e post opera del MUOS», rilevano i due ricercatori. I militari USA non hanno voluto rendere pubbliche le caratteristiche radioelettriche complete degli impianti NRTF, né la posizione esatta delle sorgenti già operanti. «Di fronte a questo insormontabile rifiuto, ARPA Sicilia non ha potuto valutare complessivamente la distribuzione, sul territorio limitrofo, dei valori di campo elettromagnetico». A ciò si aggiunge la «non conformità» alle norme legislative delle procedure seguite. «Nel caso di impianti radio-base, come quelli di Niscemi, i rilievi devono essere svolti infatti nelle condizioni più gravose possibili, ovvero con tutti i trasmettitori attivi simultaneamente alla massima potenza», spiegano i ricercatori. «Il comandante della base NRTF di Niscemi, Terry Traweek, ha però dichiarato che le antenne non sarebbero mai atti-

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vate tutte assieme, ma solo in certe particolari combinazioni denominate A, B e C, che sono state quelle concordate con l’ARPA in occasione delle verifiche del 26 gennaio 2009». Un procedimento anomalo, basato sulle mere dichiarazioni giurate dell’ufficiale davanti a un notaio il successivo 5 febbraio e non dalla verifica della configurazione reale degli impianti da parte dei tecnici ARPA. L’agenzia ha preso per buone anche le affermazioni del comandante USA secondo cui delle 46 antenne esistenti solo 27 sarebbero in funzione e che durante il funzionamento dell’antenna a bassa frequenza (LF) «la riduzione energetica impedisce l’uso contemporaneo delle altre 26 antenne in alta frequenza (HF)». «Se l’ipotesi delle condizioni più gravose possibili si fosse verificata il 26 gennaio 2009, quel giorno le centraline installate in quattro abitazioni vicine alla base avrebbero dovuto registrare un’emissione più alta rispetto a quella dei giorni precedenti e successivi», spiegano Zucchetti e Coraddu. «Se osserviamo i tracciati di quella giornata troviamo invece che due centraline registrano un segnale identico a quello medio degli altri giorni, mentre altre due registrano addirittura un segnale notevolmente inferiore. Oltretutto l’analizzatore EHP-200 impiegato, ha registrato un numero e una distribuzione di sorgenti emittenti assolutamente identico e indistinguibile nelle tre configurazioni A, B e C. Infine la centralina in contrada Ulmo, la sola che ha proseguito le rilevazioni nelle alte frequenze quasi ininterrottamente dal febbraio 2011 sino a oggi, ha registrato, dalla fine d’agosto 2012, un chiaro aumento delle emissioni, ben oltre quelle rilevate nel gennaio 2009, indicando così inequivocabilmente che quelle concordate con i militari non erano affatto le più gravose condizioni possibili.Le verifiche delle emissioni si sono rivelate un inganno. I livelli dell’elettromagnetismo nella base NRTF restano tuttora ignoti e fuori dalla portata di ogni controllo civile».


www.isiciliani.it Il rifiuto dei dati L’analisi dei dati in possesso dell’ARPA mostra che i valori delle emissioni hanno oscillato tra i 5,9 e gli 0,6 V/m del periodo dicembre 2008 - marzo 2009 e tra i 4,5 e i 5,5 V/m nel periodo febbraio – settembre 2011. Le emissioni sono cresciute nei mesi successivi e i rilievi più recenti indicano superamenti sistematici della soglia di sicurezza. Nel luglio 2012 sono stati raggiunti i 5,8 V/m e dal 23 al 26 dello stesso mese i valori di campo si sono mantenuti tra 6 e 7 V/m. Tale andamento è proseguito per buona parte del bimestre settembre ottobre 2012; poi, esse hanno raggiunto un valore in pratica continuo di 7 V/m nel corso dell’intera giornata, tra il dicembre 2012 e il gennaio 2013, con un picco di emissione che ha superato per qualche ora i 9 V/m il 19 dicembre 2012. Tra il marzo e il luglio 2013 il campo elettromagnetico è tornato su valori poco sotto i 7 V/m ma comunque frequentemente oltre i limiti previsti dalla normativa vigente. Il danno ambientale della stazione di telecomunicazione non è causato solo dalle onde delle antenne. È stato possibile accertare, infatti, che a seguito di una serie d’incidenti, rigorosamente tenuti segreti agli amministratori e alla popolazione, sono state disperse nel suolo e nel sottosuolo grandi quantità di sostanze inquinanti. Nel 2003, l’impresa LAGECO di Catania fu chiamata dal Comando US Navy per eseguire misteriosi «lavori di bonifica ambientale del terreno contaminato a causa di un versamento di gasolio sullo stesso». L’inquinamento delle falde acquifere e di parte del territorio della riserva naturale con idrocarburi (classificati come rifiuti pericolosi e con componenti anche cancerogeni) avvenne nel marzo 2002 e fu di notevoli dimensioni. Oltre sei anni dopo, l’8 luglio del 2008, il 41° Stormo dell’Aeronautica militare di Sigonella comunicò alla Regione siciliana, alla Provincia di Caltanissetta e al Comune di Niscemi l’avvio – su richiesta della Marina USA - di «indagini aggiuntive» per lo sversamento di gasolio del 2002 e «rimediare alla contaminazione residua rilevata con il campionamento di collaudo effettuato il 4 settembre 2007». Nei diversi punti analizzati, furono riscontrati valori d’idrocarburi leggeri (>C12) inferiori a 10 mg/kg, la concentrazione limite consentita dalla legge nel suolo e nel sottosuolo. Riguardo invece agli idrocarburi pesanti (C12-C40), il campionamento rilevò valori oscillanti tra i 25,1 e i 495,5 mg/kg, ma con una prevalenza di punti dove la concentrazione era abbondantemente sopra i 200 mg/kg. Le norme ambientali prevedono due diversi

parametri massimi per questi ultimi inquinanti, a secondo se essi sono individuati in siti a uso industriale e commerciale (750 mg/kg) o in aree destinate a verde pubblico o uso privato e residenziale (50 mg/kg). Se è pur vero che la stazione NRTF, a un primo esame, sembrerebbe più corrispondente a un sito industriale, la sua incidenza all’interno della riserva naturale “Sughereta” - per giunta in zona A - impone la sua classificazione come sito a verde pubblico: a Niscemi, dunque, anche la contaminazione di suolo e sottosuolo da idrocarburi pesanti ha superato notevolmente i limiti di legge. Più recentemente (primavera 2012), il quotidiano delle forze armate statunitensi Stars and Stripes, in un servizio da Heidelberg (Germania), ha lanciato l’allarme sulla presenza nell’acqua destinata al personale delle basi di Sigonella e Niscemi di «inaccettabili livelli» di bromato, un inquinante chimico che si forma a seguito del contatto in acqua tra l’ozono e lo ione bromuro e che è classificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come possibile cancerogeno per l’uomo. A inquinare le fonti idriche delle due installazioni sarebbero stati i prodotti chimici utilizzati per la disinfezione. In un primo momento, il Comando di US Nave aveva respinto ogni addebito, poi ha dovuto ammettere l’incidente impegnandosi a ridurre l’uso di disinfettanti «al minimo necessario». «L’acqua delle stazioni NAS I e NAS II a Sigonella e dell’installazione di telecomunicazioni di Niscemi è stata contaminata dal bromato e al personale militare è stato ordinato di non bere più dai rubinetti», spiegò a Stars and Stripes il portavoce del comando US Navy di Napoli, Timothy Hawkins. «La scoperta è stata fatta durante le analisi di routine effettuate il 17 maggio 2012 dal personale sanitario della Marina. I test hanno provato che la quantità di bromato è superiore al valore massimo stabilito dall’EPA, l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente». Mentre l’EPA consente l’uso per fini potabili di acqua con valori di bromato inferiori a 10 microgrammi per litro, a Sigonella e Niscemi sono state riscontrate concentrazioni oscillanti tra i 52 e i 170 microgrammi. Nessuna informazione è stata però trasmessa alle autorità sanitarie civili italiane o ai sindaci dei comuni. Secondo il Dipartimento della Salute dello Stato di New York, l’ingestione di quantità ridotte di bromato può causare disfunzioni gastrointestinali, nausea, vomito, diarrea e dolori addominali. «Le quantità rilevate nelle installazioni siciliane non possono causare alcun sintomo», si sono

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però premurate a dichiarare le autorità USA, ma dal 29 maggio 2012 è stata ordinata la distribuzione obbligatoria di acqua imbottigliata al personale militare di Niscemi e Sigonella. Livelli di bromato superiori ai limiti di legge sono stati riscontrati anche nelle analisi svolte a Niscemi tre mesi dopo. All’inizio del 2013, l’US Army Public Health Command Region Europe e il Public Works Department, Environmental Division di NAS Sigonella hanno dichiarato potabile l’acqua della stazione NRTF «anche se nel 2012 non c’è stata piena corrispondenza con quanto richiesto dagli standard in tema ambientale del governo italiano». Secondo i dati US Navy, la media annuale del bromato riscontrato a Niscemi è stata di 26,68 microgrammi per litro (più di due volte e mezzo il valore consentito dalla legge), con punte massime però di 240 microgrammi. Per gli enti medico-militari USA, questi valori non causerebbero però alcun effetto immediato sulla salute. Eventuali conseguenze negative si realizzerebbero però con un’esposizione a lungo termine. Attualmente l’installazione di Niscemi riceve l’acqua da una villa privata, rifornita a sua volta da Caltaqua - Acque di Caltanissetta, la SpA che dal 2006 gestisce il servizio idrico integrato in tutta la provincia di Caltanissetta. Prima di essere distribuita al personale militare, l’acqua è processata e disinfettata con il composto al bromato. Le analisi sono effettuate mensilmente su 110 diversi parametri chimicoinorganici, chimico-organici volatili, pesticidi, disinfettanti, radionuclidi, contaminanti microbiologici e cloro-residui. Le tabelle allegate al rapporto di US Navy, mostrano nell’acqua della stazione NRTF di Niscemi presenze significative di cadmio, nitrato e ammonio, poco al di sotto però dei limiti stabiliti dalla legge. Il primo inquinante originerebbe dalla corrosione di oleodotti o serbatoi di gasolio e lubrificanti. La presenza di nitrato e ammonio potrebbe essere causata invece dall’uso intensivo di pesticidi in agricoltura. A NAS Sigonella, oltre al bromato, nel 2012 ha destato preoccupazione la rilevazione nelle acque di notevoli quantità di ferro, 163 microgrammi per litro come media annuale, ma con picchi massimi di 380 (la legge vieta di superare i 200 microgrammi). Dati che, ripetiamo, sono sempre stati occultati a sindaci, autorità sanitarie civile, coltivatori e abitanti. La guerra uccide. I processi di militarizzazione dei territori pure. Antonio Mazzeo, giornalista e militante pacifista e dell'antimafia sociale, ha pubblicato numerose inchieste sui “Siciliani giovani” , di cui è fra le “firme” più note.


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Libri/

“Suicidio” di mafia

La strana morte di Attilio Manca “Provenzano è stato visitato in Sicilia, a Barcellona. E proprio da Attilio Manca”. La drammatica storia di un mistero italiano che ne contiene tanti altri. Un caso ufficialmente chiuso, e molto in fretta di Luciano Mirone da Un “suicidio” di mafia

“Provenzano è stato visitato in territorio barcellonese durante la sua latitanza. A prestargli cura, dopo l’operazione di cancro alla prostata effettuato a Marsiglia, è stato proprio Attilio Manca». A fare questa rivelazione non è un tizio qualsiasi, ma una delle personalità più autorevoli in tema di lotta alla mafia: l’on. Sonia Alfano, figlia del giornalista barcellonese ucciso da Cosa nostra, e presidente della commissione parlamentare antimafia europea. Se una notizia del genere viene svelata da una persona che in tema di lotta alla criminalità organizzata conosce molto, vuol dire che la pista di un omicidio potrebbe essere vera.

Una testimonianza sconvolgente Le dichiarazioni della figlia del giornalista ucciso, tuttavia, sono accompagnate dalla testimonianza sconvolgente, resa all’autore, da un investigatore di cui – per ovvie ragioni – non vengono svelate le generalità: «Nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta latitanza di Bernardo Provenzano a Barcellona Pozzo di Gotto», dice l’investigatore, «a un certo punto si scoprì che l’urologo aveva visitato e curato il boss nei dintorni della cittadina messinese, grazie a una struttura messa a disposizione da qualche medico locale. Venne accertato, tra l’altro, che il dottor Manca, prelevato con un elicottero, era stato trasportato fino a Barcellona per i controlli di cui necessitava Provenzano. Dopo la morte dell’urologo, quando l’indagine stava per prendere consistenza, qualcuno, grazie all’alta posizione istituzionale che ricopriva, chiese il fascicolo sulla latitanza del boss, in relazione ai movimenti e alla morte di Attilio Manca. Questa richiesta destò non poche perplessità all’interno dello staff investigativo del tempo. Si disse: “Qui le cose sono due, o questo signore chiede gli atti perché è deciso a fare chiarezza, oppure vuole insabbiare tutto”. Si prese un po’ di tempo. Non passarono neanche due giorni che lo stesso personaggio chiese “senza ulteriori indugi” (testuale) che gli atti gli venissero trasmessi. Cosa che fu fatta immediatamente. Subito dopo arrivò l’ordine di lasciar perdere quell’inchiesta e infatti l’inchiesta non andò avanti». Un clamoroso insabbiamento Una testimonianza che, se dovesse risultare vera, metterebbe a nudo delle circostanze gravissime perché svelerebbe un clamoroso insabbiamento sia sulla latitanza di Provenzano a Barcellona, sia sul decesso dell’urologo barcellonese.

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Non sarebbe male se oggi, anche a distanza di un decennio, si accertasse l’esistenza di questo eventuale carteggio e si individuasse l’autore della presunta richiesta di atti così delicati mai venuti alla luce, ma da trasmettere immediatamente, «senza ulteriori indugi». “Delitto di mafia”, afferma Ingroia Oggi, anno 2014, uno spiraglio di luce sembra rischiarare questa vicenda buia. Uno dei tanti segnali lo dà un grande investigatore come Antonio Ingroia, il quale, se prima di vedere le carte sulla morte di Attilio Manca, parlava di «sciatterie giudiziarie», dopo averle lette, parla ormai, anche pubblicamente, di «insabbiamento». «È certamente un delitto di mafia», afferma l’ex allievo di Falcone e Borsellino. Luciano Mirone, autore del primo libro-inchiesta sui giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia (“Gli insabbiati”, Castelvecchi 1999), è stato fra i giornalisti a denunciare il “caso Manca”. Fa parte dei “Siciliani giovani” dal 1985.


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Libri/ “La confusione”

Trattative, tarocchi, papelli e altri anonimi Un ebook che non piacerà ai due protagonisti e alle tifoserie: perché non si parla solo di “trattativa”, ma anche di qualcosa di più... di Sebastiano Gulisano da La confusione

Questo non è un ebook sulla trattativa Stato-mafia, ma su come non si fa un processo. In questo libro si parla, sostanzialmente, di due persone estremamente diverse fra loro – per storia, caratteristiche personali, funzioni e senso dello Stato –, il “testimone” Massimo Ciancimino e il magistrato Antonino Di Matteo. Il primo s’è conquistato la scena mediatica con una oculata gestione delle proprie “rivelazioni” sulla suddetta trattativa; il secondo è un servitore dello Stato che, in virtù del proprio lavoro al servizio della collettività, rischia la vita. Il primo mischia abilmente vero, verosimile e falso; il secondo è chiamato, per il mestiere che s’è scelto, a distinguere fra vero, verosimile e falso con gli strumenti che lo Stato gli mette a disposizione. La confusione non è un attacco al dottor Di Matteo (e alla Procura di Palermo) ma un libro-inchiesta in cui ricostruisco fatti ed esercito il mio legittimo diritto di critica nei confronti delle scelte sue e dell’Ufficio che rappresenta. Senza tesi precostituite, ma ricostruendo meticolosamente episodi circostanziati.

È un lavoro che non piacerà ai due protagonisti e alle tifoserie, ma è un lavoro che andava fatto per tentare di avviare un confronto pubblico e schietto su alcuni anni cruciali della storia d’Italia che finora sono stati raccontati solo nell’ottica della contrapposizione quasi ideologica fra supporter della Procura e del Ros dei Carabinieri e/o della banda Berlusconi. Quando, alla fine del 2009, la Procura di Palermo depositò nel processo MoriObinu i verbali di Ciancimino sulla trattativa ed ebbi la possibilità di leggerli ero sgomento: come avrebbero fatto a gestire in dibattimento un fabbricante di contraddizioni? Ma è possibile che capitino tutti a Di Matteo? L’ho pensato. E l’ho pure detto a qualche amico. Uno di questi m’ha rassicurato: «Lo conosco, è una persona perbene». «Allora vuol dire che è scarso», replicai io. (…) “E' stata una trattativa” Capiamoci: quella tra i Ros e don Vito è stata una trattativa. Senza presunta e senza virgolette. E non perché l’abbia “rivelato” Massimo Ciancimino, la cui credibilità ritengo nulla, o perché lo sostengano valenti magistrati bersaglio di furibonde campagne istituzionali, politiche e mediatiche. Nemmeno perché è ormai sancito in diverse sentenze, ma perché emerge indubitabilmente dalle parole degli stessi protagonisti: il prefetto Mario Mori, il tenente colonnello Giuseppe De Donno e il loro interlocutore, l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Sono loro a dichiarare che don Vito fece da tramite per dialogare con Totò Riina. (…) Ma, come dicevo, La confusione non è un libro sulla trattativa, bensì su come non si possa approdare a una verità giudiziaria su quei tragici anni della storia italiana affidandosi a un testimone che sembra un generatore di trattative possibili e a un pubblico ministero che scambia lucciole

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per lanterne. Ché finché si tratta di farci titoli di giornali o show televisivi, il verosimile lo si può spacciare per vero, ma quando gli stessi elementi li si sottopone al vaglio di un Tribunale è assai improbabile che l’impianto accusatorio regga. Sebbene la vicenda Borsellino (ma non solo quella: i casi di depistaggi giudiziari sono tanti) ci abbia insegnato che anche Tribunali e Corti d’assise possano farsi grandi dormite. Nei primi due capitoli mi sono limitato a evidenziare svariate contraddizioni di Ciancimino. Nel terzo, partendo da un clamoroso svarione del pm Di Matteo durante la requisitoria conclusiva, svarione che considero metafora dell’intero impianto accusatorio del processo al generale Mori e al colonnello Obinu, ho ricostruito i fatti rendendo evidente il plateale errore del pubblico ministero.

Sebastiano Gulisano, da anni uno dei più esperti cronisti di mafia, è stato redattore dei “Siciliani” di Giuseppe Fava


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Libri/ “Grande raccordo criminale”

La Capitale

del Sistema Magliana Adesso tutti ammettono che la mafia è fortissima a Roma, con un intreccio di poteri politici economici e criminali senza pari. Ma c'è chi lo denunciava da anni, fuori dai media “ufficiali” di Giulio Cavalli prefazione a Grande Raccordo Criminale C’è qualcosa di peggio dell’ignoranza sulle mafie: l’indifferenza. L’abbiamo letto e sentito mille volte nei libri, nelle campagne elettorali, nei convegni e, se siamo fortunati, nelle cerchie di amici anche tra i discorsi da aperitivo. Eppure l’indifferenza che sta sopra Roma e il Lazio in generale è un’indifferenza come la trovi solo qui: ostile, arrabbiata, confusa, infastidita. Proprio mentre al Nord gli arresti e la società civile aprono finalmente una lucida discussione sulle mafie senza fermarsi alle negazioni e agli allarmi, mentre nel Sud sono centinaia i focolai di rivoluzione e bellezza, Roma cova silenziosamente le proprie braci mafiose come se fosse stata saltata a piè pari dalla scossa della consapevolezza nazionale. Ecco perché questo libro di Floriana Bulfon e di Pietro Orsatti abbiamo il dovere (noi, cittadini di questo centro d’Italia) di farlo diventare essenziale: non c’è bisogno di previsioni o di sospetti poiché le mafie della Capitale sono già tutte nelle cronache quotidiane, tra gli articoli che nessuno vuole prendersi la briga di mettere in fila o tra le storie che troppo in fretta abbiamo deciso che sono terminate.

“Facendo i nomi e i cogmomi” Grande raccordo criminale collaziona finalmente le famiglie facendo i nomi e i cognomi, andando a riprendere i protagonisti della banda della Magliana che si sono riciclati in anelli di raccordo con la criminalità organizzata, reinserisce i Casamonica in un contesto più ampio e smette (finalmente) di considerare Ostia un’enclave criminale apolide così come le confische del centro città romano come piccoli “avvertimenti” da sbattere in prima pagina per un paio di giorni. Serve tirare le fila, serve mettersi con dovizia, intelligenza e amore (perché c’è tutto l’amore che si potrebbe trovare in un romanzo sulla difesa della propria terra, in questo libro) a studiare, scriverne e farne parlare. Quando le mafie si attorcigliano tra politica, estremismi e pezzi di istituzioni diventano qualcosa difficile da raccontare e descrivere cominciano a contare su una impunità culturale oltre che troppo spesso giudiziaria: così le sparatorie in giro per la città, la condanna di Carmine Fasciani posto al 41bis oppure la colonizzazione dei bagni al lido di Ostia (senza dimenticare l’emblematico caso Fondi) non riescono a scuotere le coscienze soprattutto grazie ad una mancata coesione sociale sul tema (quella politica facciamo che per ora non ce l’aspettiamo nemmeno). “Tirare le fila di un'antimafia sociale” Roma e il Lazio hanno bisogno di un’evoluzione consapevole e veloce, devono tirare le fila di un’antimafia sociale, politica e culturale che decida per davvero di mettersi in gioco per strutturare un presidio antimafioso di studio e di racconto che spalanchi gli occhi su una città sommersa tra le slot machine, i “compro oro” pubblicizzati finanche all’interno degli ospedali, le discariche come percolato della legalità, i bingo e il gioco d’azzardo che tengono lati interi di strade al limite del raccordo, di ipermercati che non hanno giustificazione di mercato e un’edilizia selvaggia com’è selvaggia l’edilizia al

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soldo del riciclaggio; poi c’è la droga (e finalmente se ne parla) che per chissà quali strani percorsi dell’informazione sembra diventa roba calabrese e lombarda dimenticando quanto la capitale sia snodo fondamentale per i commerci: droga finalmente riportata anche qui, dove l’attività giudiziaria la racconta sempre in transito; poi le minacce: negozi bruciati, uomini gambizzati, usurai fuori dai bar come nei bassifondi di qualche città sudamericana e invece si è appena di qualche chilometro in periferia. “Un primo fondamentale avviso” Questo libro è un primo fondamentale avviso: le mafie ci sono, stanno bene, godono di ottima salute e continuano a saccheggiare Roma per riciclare soldi, fare soldi e costruire alleanza. Se le mafie in un territorio stanno bene quindi significa che lo Stato (in tutte le sue forme da quelle politiche a quelle civilissime e sociali) non le combatte abbastanza o addirittura ha trovato l’accordo. Per questo la speranza di questo libro è che si accenda qualcosa dopo, appena sfogliata l’ultima pagina, per riappropriarsi della propria terra e tirarla fuori finalmente da questo alone di incompetente nebbia che è scesa (o salita) fino a qui. Pietro Orsatti, autore di numerosi libri sul Terzo Mondo e sui poteri mafiosi, fra il 2012 e il 2013 ha pubblicato sui “Siciliani giovani” alcune fondamentali inchieste sulla mafia a Roma.


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Società

Le donne dell'antimafia Le loro vite, le loro storie, le loro paure di Miriana Squillaci ww.associazionegapa.org/icordai.html Donne, semplicemente donne. Sorelle, mogli, madri, figlie e nello stesso tempo giornaliste, sindaci, giudici, collaboratrici e testimoni di giustizia. Donne che hanno sofferto per la perdita delle persone che più amavano e di cui sono state capaci di proteggere e protrarre la memoria anche dopo la morte, trasformando l'assenza dei loro cari, in una grande testimonianza di coraggio, forza, onestà e fiducia nel futuro delle nuove generazioni e di questo paese. Alcune di loro le conoscete sicuramente: Felicia Bartolotta, Elena Fava, Maria Falcone, Rita Borsellino, Rosaria Costa. Altre sono forse meno note: Anna Puglisi, Renate Siebet, Teresa Principato... Donne comuni nella maggior parte dei casi, che mai avrebbero immaginato di diventare simbolo della lotta alla mafia. A loro è stata dedicata la mostra “Donne & Mafie”, proposta dall'Udi ed organizzata in collaborazione con il Comune e la Provincia di Catania all'inizio dell'anno presso il Palazzo della Cultura.

La partecipazione degli studenti Nonostante la scarsa sponsorizzazione, questa mostra ha visto una grande partecipazione delle scuole medie e superiori della città, oltre che dei singoli cittadini. Ma quanto è difficile raccontare con soli 46 pannelli le vite, le storie, le paure ma anche il coraggio di chi ha fatto della lotta alla mafia la ragione del proprio vivere? E, soprattutto, quanto è difficile raccontare tutto questo a dei ragazzi? Diventa facile rispondere a queste domande dopo aver assistito a una visita guidata per gli alunni della scuola media Aandrea Doria (scuola che, nonostante il grande impregno contro la dispersione scolastica, è stata sfrattata dal quartiere San Cristoforo di Catania a causa della morosità del Comune). Non servono strategie Le difficoltà, infatti, spariscono quando a guidare i ragazzi sono donne attualmente impegnate nell'antimafia sociale o nella difesa delle famiglie coinvolte come vittime nei processi di mafia, come Elena Majorana e Adriana Laudani. Ti rendi conto che non servono strategie, piuttosto una grande voglia di riscatto per la verità, per la memoria, per i diritti di cui ogni giorno le mafie privano i cittadini di questo paese. I ragazzini e le ragazzine seguono attentamente con lo sguardo le loro mani indi-

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care i volti delle protagoniste della mostra, ascoltano con interesse queste storie spezzate, scattano qualche foto ai panelli che raccontano le vite di chi ancora resiste e non si arrende all'oppressione delle cosche. L'assenza dello Stato Arriviamo quasi alla fine della mostra e una sezione viene dedicata anche alle donne mafiose, quelle che hanno sostituito i mariti a capo delle “famiglie”, ritenendo più opportuno entrare a far parte dei clan per vendicare i propri cari piuttosto che affidarsi allo Stato. Quello Stato che, con la sua assenza, ha contribuito alla morte di tanti testimoni e collaboratori di giustizia. Sarebbe stato bello sentire i commenti degli alunni ma nessuno fa domande, nessuno esprime un pensiero. Non importa, la loro attenzione ha detto tutto, la mostra li ha colpiti! Ed una nuova classe sta arrivando. Ricominciamo dalle donne Molte volte mi sono chiesta quanto valore abbiano le parole: spesso, guardando i telegiornali e leggendo i giornali, mi sono detta che le parole non servono a niente, verba volant... Giorno dopo giorno tutti continuiamo a rinunciare ai nostri diritti e ci pieghiamo ad una mentalità mafiosa, se non alla mafia: “io non posso farci niente, tanto sono tutti così e non cambierà mai niente. Allora tanto vale essere come loro!”. Oggi invece mi sono ricreduta: è vero, le parole non bastano, ma da qualche parte bisogna pur cominciare! Ricominciare dalla consapevolezza, dalla memoria, dalla rivendicazione dei diritti. Ricominciamo insieme dalle donne, dalla loro forza e coraggio, ricominciamo dalla loro “normalità” anche nell'essere simbolo di una lotta lunga quanto la storia di questo paese.


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Società

Ragazzi di mafia A quattordici anni sono già uomini fatti di Michela Mancini www.liberainformazione.org Vivono una guerra permanente in un mondo diviso da una trincea. Schierati come soldati: da una parte ci sono loro, dall’altra c’è il Paese. Sono cresciuti imparando una sola “regola”: quella mafiosa. Prima d’ogni altra cosa viene la famiglia, che nelle loro terre vuol dire ‘ndrangheta Per conto dei loro padri, latitanti o in galera, hanno chiesto il pizzo ai commercianti, hanno trafficato droga, hanno ucciso. Fa parte delle regole, non si può dire di no, non sono ammessi passi indietro. Alcuni, raccontano, sotto ai piedi hanno tatuate facce di carabinieri, camminano calpestando lo Stato. Uno Stato che non conoscono. Dalla 'ndrangheta alla casa-famiglia Luca – lo chiameremo così – era uno di loro. Il padre fu ucciso in un agguato mafioso quando era ancora piccolo, i fratelli sono stati arrestati per omicidio e associazione mafioso, uno è al 41 bis, la madre non lo tocca da dieci anni. Luca è abbandonato a se stesso, recita il ruolo che la ‘ndrangheta gli ha assegnato, si prepara alla stessa sorte scontata dai fratelli maggiori. Passa la notte in compagnia di pregiudicati, a scuola non ci va, alla fine la lascia. La madre è una donna stanca, non ha la forza di indicargli una direzione diversa. Passano i giorni, i mesi, gli anni, Luca è ostaggio di un mondo che non ha scelto. Assoldato nelle schiere di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta del reggino, legge un copione già scritto.

La “strada nuova” scelta dalla madre Finché un giorno viene sorpreso dalle forze dell’ordine con degli amici attorno a un’auto danneggiata della Polizia ferroviaria di Locri. Il processo per furto e danneggiamento si conclude con l’assoluzione per carenza di prove. Il suo fascicolo però viene letto con attenzione dai magistrati del Tribunale dei minori di Reggio Calabria. I giudici Roberto Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, decidono di emettere un provvedimento – d’urgenza e inaudita altera parte (senza contradditorio con la famiglia contro parte, rimandato ad un secondo momento) – con il quale Luca «viene affidato al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale». In un primo momento la madre oppone resistenza, non vuole che anche questo figlio le venga portato via. Quando le viene spiegato che l’allontanamento del ragazzo non è punitivo ma volto ad evitare che il figlio subisca la sorte dei fratelli e del padre, accetta di seguire un percorso di recupero , ma soprattutto non si oppone a quello programmato nell’interesse del figlio, nella speranza – inconfessata – di evitare quello che anche a lei sembra un destino ineluttabile e al quale non sembra avere le risorse per contrapporsi. Paradossalmente, anche i fratelli più grandi del ragazzo incoraggiano la madre a seguire “la strada nuova” indicata da “un giudice che per una volta si interessa di loro”. Luca è ancora in comunità, tra poco potrà ritornare a casa. L’apertura ad un nuovo mondo è stata graduale; ha avuto inizio nel momento in cui ha capito che qualcuno si stava prendendo cura di lui e che quel qualcuno rappresentava lo Stato, il nemico per eccellenza. All’inizio del percorso, voleva essere invisibile agli sguardi, ai sentimenti, si nascondeva agli altri e a sé stesso. Adesso partecipa agli eventi organizzati dalle associazioni antimafia

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del territorio in cui vive. Ha cominciato anche a lavorare come volontario in una struttura che si prende cura di bambini disagiati, li aiuta a fare i compiti, ci gioca. Luca ha ripreso a studiare. Periodicamente va a trovare la madre; i loro percorsi procedono parallelamente, quando si incrociano le loro mani, la speranza di un cambiamento smette di essere un’utopia. Una rivoluzione silenziosa La storia di Luca è solo un tassello di una rivoluzione che sta avvenendo in un piccolo tribunale di frontiera. Proprio quello che ha seguito il percorso di Luca. Il presidente del Tribunale dei minori Roberto Di Bella, prima gip nella stessa struttura, ha visto passare in quelle stesse stanze i padri e i fratelli maggiori dei ragazzi che ora si trova davanti. La conferma che la ‘ndrangheta si eredita, e che le famiglie si assicurano il potere sul territorio grazie alla continuità generazionale. Una spirale che – spiegano gli inquirenti – bisogna interrompere. Il tentativo – avviato con questi provvedimenti, adesso se ne possono contare una ventina – non è la mera sottrazione di questi ragazzi ai boss. Una volta emanato il provvedimento di allontanamento, i minori vengono ospitati in case-famiglia, dove educatori e psicologi creano dei percorsi di rieducazione individuali. Come a dire: spostarli non basta, bisogna che lo Stato si impegni a fornire una valida alternativa al contesto mafioso da cui provengono. Un percorso che affonda le radici nel dolore di una donna. La morte di Maria Concetta Cacciola Tutto inizia nel 2011, dopo la morte di Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia calabrese. Costretta ad abbandonare la località protetta e a tornare in Calabria sotto pressione dei genitori e del fratello (ora condannati per maltrattamenti), Cetta è morta il 20 agosto del 2011 dopo aver ingerito acido muriatico.


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“La ‘ndrangheta ha bisogno di uomini e se li garantisce allevandoli fin da quando sono bambini”

È stato proprio il suo caso a dare l’impulso a questa serie di provvedimenti che allontanano provvisoriamente (e in casi particolarmente gravi) alcuni minori dalle famiglie d’appartenenza. Famiglie di ‘ndrangheta. Queste misure, emanate dal Tribunale dei minori di Reggio Calabria, hanno in sé una portata rivoluzionaria, proprio in virtù della struttura familiare della mafia calabrese. Si propongono, infatti, di spezzare i legami di sangue su cui si regge l’organizzazione criminale. La storia della Cacciola e dei suoi tre bambini è un caso limite – come tutti quelli presi in esame – che ha acceso i riflettori sull’uso che le famiglie di ‘ndrangheta fanno dei minori. I figli di Maria Concetta sono stati utilizzati come merce di scambio per far ritornare la donna a Rosarno. Hanno subito violenze psicologiche senza pari dai loro nonni diventando protagonisti di una storia così tanto più grande di loro. Violenze psicologiche Dopo un’interrogazione parlamentare sollevata dalla deputata del Pd Laura Garavini (in seguito alla morte di Maria Concetta) il Tribunale dei minori ha richiesto un’indagine da parte dei servizi sociali in casa Cacciola – dove in quel momento risiedevano i genitori di Cetta – per valutare le condizioni in cui i tre ragazzini vivevano. I servizi non annotarono nessun caso di maltrattamento. L’indagine fu archiviata. Quando il 4 febbraio del 2012 il gip di Palmi Fulvio Accursio emise l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Michele Cacciola, sua moglie Anna Rosalba Lazzaro e il figlio Giuseppe, fu chiaro il ruolo che i tre minori avevano avuto nella vicenda. Un mese dopo con un provvedimento a firma dei giudici Francesca Di Landro e Roberto Di Bella, i tre minori sono stati allontanati. Il padre Salvatore Figliuzzi ha perso la sua potestà genitoriale. I tre bambini sono stati in un primo momento ospitati in una casa-famiglia, successivamente li ha accolti una parente.

Le due bambine, affiancate da uno psicologo, stanno facendo un percorso di rieducazione. Il figlio maggiore di Cetta, ormai maggiorenne è ritornato a vivere nel suo paese. Lo stesso provvedimento è stato emesso dal Tribunale dei minori di Reggio per i figli di Giusy Pesce, per consentire ai suoi tre bambini di raggiungere la madre in una località protetta. In questi casi la decisione dei magistrati reggini era necessaria, non solo per la tutela dei minori, ma anche per garantire il proseguimento delle collaborazioni. Sapere di poter portare i figli con sé, incoraggia le donne ad affrancarsi dalla famiglia d’origine. La ‘ndrangheta le teme più delle operazioni delle forze dell’ordine. Non solo per la reputazione dei clan: ciò che più li spaventa è l’allontanamento dei minori dalle proprie famiglie. Senza soldati, la ‘ndrangheta che esercito è? In una delle intercettazioni relative al caso Cacciola, il padre Michele dice: «Avevo una famiglia che… che me la invidiavano. Guarda questi indegni di merda, guarda! Mi divertivo a guardarli a questi nipoti. Il giorno chi c’era più contento di me, chi c’era più contento di me. Almeno mi hanno lasciato questi, ma mi hai preso la figlia. Oh indegni gli prendete i figli ai padri, ai padri… ai padre gli prendete i figli, dov’è questa legge? Questa legge è? Per combattere a me mi prendi la figlia?! Per combattere a me?!». La chiusura di un cerchio Il provvedimento di allontanamento di questi minori rappresenta la chiusura di un cerchio: dalle donne ai figli. Il percorso è già segnato, a Reggio hanno avuto il merito di intuirlo. La cosiddetta “primavera calabrese”, il fenomeno del collaborazionismo femminile, è solo l’input di un processo interno alla ‘ndrangheta.

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Se i figli sono il motore propulsore della collaborazione – ma al contempo possono rappresentarne il tallone d’Achille – su di loro che bisogna concentrarsi per estirpare il problema alla radice. La ‘ndrangheta ha bisogno di uomini: se li garantisce allevandoli fin da quando sono bambini. Lo Stato può intervenire su questo nodo, questi casi – ci spiegano - non sono sufficienti a scardinare l’intero sistema ma è un inizio. Ma i giudici da soli non possono vincere. Bisogna creare una rete che sia a sostegno di questo percorso. “Liberi di scegliere” Con questo obiettivo nasce l’idea di “Liberi di scegliere”, un percorso da presentare al ministero della Giustizia, firmato dal Tribunale dei minori reggino, dall’associazione Libera-Calabria, dal centro comunitario Agape e dalla camera minorile di Reggio Calabria. Il piano coinvolge un’équipe multidisciplinare che vede schierata non solo la magistratura, ma anche psicologi, educatori e volontari di Libera, della Caritas italiana, dell’associazione Giovanni XXIII e di Addio Pizzo Sicilia. Alla base c’è il tentativo di coinvolgere anche i servizi di giustizia minorile, gli enti locali, gli uffici scolastici territoriali e le agenzie di collocamento professionale. Se il progetto venisse finanziato, spiegano i responsabili, quelli che ora sono piccoli germogli potrebbero diventare alberi enormi. E toglierebbero la terra sotto ai piedi alle ‘ndrine in Calabria e nel resto del Paese.


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Storia

Un “pentito” si confessa Parla Filippo Malvagna di Elio Camilleri I contenuti di questo articolo sono tratti dall’intervista a Filippo Malvagna realizzata da un gruppo di miei studenti del Liceo Scientifico “Galilei” di Catania con la preziosa collaborazione della Procura della Repubblica di Catania, nella persona del suo capo di allora, Dott. Gabriele Alicata e della DIA che ha consegnato al “pentito” le domande degli studenti, restituendone le risposte.

“Facevo parte della famiglia Santapaola-Pulvirenti. Si agiva prevalentemente a Catania e provincia, ma non si tralasciavano fuori provincia, fuori regione, su tutto il territorio nazionale ed anche, alcune volte in territorio internazionale. Le organizzazioni criminali non delineano mai i propri confini: l'avidità e l'ambizione le porta a voler operare in qualsiasi posto e campo e questo è uno degli elementi base degli scontri cruenti e crudeli che spesso vi sono in organizzazioni diverse e contrapposte con altissima densità di vittime e spargimenti di sangue. Basti solo pensare che dal 1980 ad oggi per mani ed affari mafiosi sono state ammazzate circa 2000 persone nella sola provincia di Catania.

Lascio a voi fare una stima a carattere nazionale di quanti morti e quanto sangue la mafia ha fatto”. “Il pentimento è un sentimento e anche uno stato d'animo che attraversa ogni essere umano nell'arco della propria vita, nel mio caso più volte mi sono pentito delle azioni e dei comportamenti di cui ero partecipe. Ma non riuscivo a divincolarmi da quel circuito negativo che giorno dopo giorno mi risucchiava sempre di più. Tante volte ho fatto buone azioni degne dell'essere più corretto e caritatevole, dimostrando amore e rispetto e tante altre buone qualità, che mai al mondo avrebbero fatto immaginare che io in realtà ero una persona che agivo nella negatività; chi più chi meno la negatività è solo un fattore parassitario che si impossessa di noi, ma che la nostra natura ed esistenza sia stata creata per la positività e che chiunque, chi prima o chi dopo, si pente di tutto l'operato negativo della propria vita. Io oggi più che mai ho capito di avere sbagliato contro tutta l'intera comunità e sappiate che la tranquillità non ce l'avevo prima e non l'avrò mai, ma almeno mi sento più tranquillo con la mia coscienza. “Due cose diverse” “Sono pienamente consapevole della mia collaborazione con la giustizia ed annesso pentimento, che sono due cose diverse, ma che nel caso stanno a significare le stesse cose.

Secondo me le conseguenze più importanti che io e i miei familiari andiamo incontro sono di essere individuati e massacrati barbaramente che nemmeno la vostra immaginazione potrebbe cercare di immaginare. Ma ci sono altre cose, situazioni, sensazioni e sentimenti che bisogna vivere per poterli spiegare. Tutte queste conseguenze e sacrifici non sono niente al confronto di ciò che sono stato in passato e quindi li accetto e li faccio senza alcun rimpianto”. “La mia famiglia” “La mia famiglia è stata uno dei fondamenti basilari alla mia volontà e decisione di collaborare con la giustizia. Io provengo da una famiglia di onesti e sinceri lavoratori; l'unico punto nero della mia generazione sia paterna che materna sono stato io e posso dirvi che anche mia moglie, che essendo una Pulvirenti proviene da una famiglia dal culto mafioso, è stata d'accordo ed ha contribuito alla mia scelta di collaborare con la giustizia, accettando tutti i sacrifici e i rischi che una scelta del genere comporta unitamente ai miei genitori. Di questo e di tutto ne sono orgoglioso e fiero oltre che riconoscente”. “Io mi sono pentito davanti a tutto ciò che esiste nella comunità in cui tutti gli esseri umani vivono e, naturalmente, anche davanti alla mia coscienza spirituale e morale; di questo ne darò atto nell'arco della vita che mi rimane da vivere. Mi sono pentito anche davanti alla legge, ne sto dando atto e sempre ne darò collaborando con la giustizia. Penso che solo così facendo si possa manifestare pentimento totale e chiedere scusa e perdono per tutti i mali che ho fatto a tutta quanta la comunità in cui ho vissuto e vivrò”. L'integrale è su a “Il ruolo dei pentiti nella lotta contro la mafia”, a cura di Elio Camilleri): hwww.liceogalileict.it/Aulaperta/popdown.asp? cod=26

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Storie

Gli amici dell'anno XIV

dajackdaniel.blogspot.it/

Ne ho più di mille. E senza bisogno di uscire di casa, anzi neanche di alzarmi dalla mia poltrona di Jack Daniel A rapporti sociali non sto messo male, anzi. Su Facebook ho più di duecento amici e una dozzina di followers su Twitter. Sto anche su alcuni forum, uno di cucina, uno di televisione e uno di egittologia anche se però non sono mai stato in Egitto. Però non ne ho bisogno, in effetti, perché quello che c’è da sapere già lo so: le piramidi non sono state costruite quando ci vogliono far credere ma molto, molto prima. E non erano solo umani terrestri quelli che le progettarono. C’è l’analisi al carbonio 14 che lo dimostra, ci sono le prove, ma non lo vogliono ammettere. E poi che ci vado a fare in Egitto? Fa caldo, e quello che c’è da vedere me lo vedo tranquillamente a casa sul mio nuovo televisore. Smart. Il televisore, dico, si vede benissimo e l’audio 5.1. è fenomenale. Sembra di stare lì, veramente. Comunque, no, in Egitto non c’ho bisogno di andarci, le cose le capisco meglio qua. Ecco, questa è una cosa che solo qualche anno fa non si sarebbe potuta fae.Un tempo mi sarei dovuto leggere un libro, oggi invece accendo internet e so tutto quello che devo sapere.

E se proprio proprio mi serve un libro me lo posso ordinare su Amazon. Fino a cento anni fa questo non succedeva, la gente era ignorante, chiusa in un buco di villaggio, senza sapere cosa succedeva nel mondo. Oggi invece fai. click e c’hai tutto quello che ti serve, anche le prove sulle piramidi. Poi il cinema, l’ho già detto che ho il televisore nuovo? E’ smart, e anche 3d. Pensa a prima: se ti volevi vedere un film dovevi uscire di casa, metterti in fila, andare al cinema con accanto un bambino che ride come un deficiente per due ore. Che poi magari era proprio deficiente. E chatto un po' con chi mi trovo Adesso mi metto sul divano sdraiato come un pascià e mi vedo il film senza che nessuno mi rompa le scatole. Lo stesso per le partite, le vedi meglio a casa che allo stadio, costa di meno e stai al caldo. Quando poi mi va di passare una serata con qualcuno vado al computer e chatto un po’ con chi trovo. C’è gente incredibile, gente che non avrei mai incontrato, che abita in capo al mondo. E cosa fai, cosa hai mangiato, come sta il tuo cane, ci parli spendendo niente.

Prima dovevi alzarti, scendere giù al bar, ordinare da bere, aspettare qualcuno che magari non passava e poi guardare sempre le stesse facce. Non devo proprio vedere nessuno Ora, col progresso, per fare amicizie non devo manco uscire sul pianerottolo anzi, non devo proprio vedere nessuno. E sono le amicizie migliori, quando sei stufo di certa gente la banni e ne cerchi un altro mentre prima se mi rompevo di un tizio non c’erano santi e me lo dovevo sorbire tutte le sere. Come per la politica, no? Chi li aveva mai visti i politici, prima? Stavano a Roma, nelle auto blu e se dovevi votare votavi per il politico che stava qua o per il partito che c’aveva la sezione qua sotto. E se non sapevi chi votare dovevi uscire di casa, ascoltare un comizio, parlare con i vicini che stavano nei partiti e perdevi ore e ore a discutere, a cercare di capire e poi a decidere. Senza comizi, senza fatica Ora, invece, accendi la televisione, che poi la mia è smart, e trovi sempre quello che devi votare: te lo puoi guardare tutte le sere e capire se è il tipo giusto o no. Senza sbattimenti, senza fatica, senza comizi, sezioni o partiti: non servono più, inutili.

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Bitcoin

La moneta senza banche

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale

La bancarotta (protetta) di MtGox Chiude Mtgox: derubati o scappati col malloppo? E come mai non è crollato il Bitcoin? di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com

Non è la truffa del secolo (quella di Maddoff viene stimata cento volte più grande) ma l'impatto è notevole, almeno per il numero di utenti coivolti. Mtgox, il sito cambiavalute di Bitcoin, primo negli scambi fino a metà dell'anno scorso, chiede la bancarotta protetta alle autorità giapponesi in cui ha sede. Il vice ministro delle finanze giapponese Jiro Aichi dice che il governo considera possibile regolamentare Bitcoin ma che questo deve'eessere fatto in sede internazionale. Oltre 800.000 bitcoin, al cambio del giorno dell'annuncio 450 milioni di dollari, (580 dollari l'uno) un quindicesimo dei 12 milioni in circolazione, sono stati rubati, truffati o

Cronologia L'AFFAIRE MTGOX Agosto 2013 Iniziano i problemi di Mtgox sui previevi in valuta. Inizia uno "spread" notevole con gli altri exchange (i bitcoin vengono valutati di più su Mtgox perchè passa anche un mese per ricevere i bonifici) Dicembre 2013 Falkwinge, del partito pirata svedese, segnala che Mtgox non porta a termine prelievi in valuta di un certo valore Gennaio 2014 Falkwinge denuncia che in Mtgox che alcuni prelievi di bitcoin non vanno a buon fine 7 febbraio Mtgox blocca i prelievi e depositi in bitcoin (ma accetta dollari in entrata, e gli scambi di bitcoin rimangono ancora possibili internamente al sito) scaricando la colpa ad un bug e agli sviluppatori 21 febbraio Jeff Garzik nel team di sviluppo bitcoin e della foundation, ancora rassicura su Twitter. Contattato da noi di Bitcoin Quotidiano sulla notizia, sul forum bitcointalk, dell'apertura di una causa legale contro Mtgox, e del fatto che fosse ancora Gold Member della fondazione. Garzik rassicura dicendo di aspettare e vedere, le cause legali

persi; poco più di un milione di utenti, a quanto pare, coinvolti. La situazione è degenerata il 7 febbraio, quando vengono bloccati sul sito Mtgox depositi e pagamenti in Bitcoin. Mtgox dichiara che è per un problema noto come "malleability bug": esso però è conosciuto dalla community dal 2011, e nessun programma che usa Bitcoin incappa in questo problema da anni. Il sistema di pagamento Bitcoin è rimasto perfettamente in funzione: nè il protocollo, nè i software hanno avuto bisogno di essere aggiornati. Siti come quello del cambiavalute Mtgox permettono lo scambio di Bitcoin con valute tradizionali.

succedono, dicendo anche che la Linux Foundation è stata chiamata in causa da Ibm e Intel 23 febbraio Mtgox Ltd e Mark Karpeles ammistratore delegato, lasciano la Bitcoin Foudation 24 febbraio Viene pubblicato un Pdf come se si trattasse di un documento interno di Mtgox "Crisis Strategy Draft". Salta subito all'occhio dello sviluppatore del settore sicurezza di Blockchain.info Andreas Antonopoulos che il furto sarebbe del "cold storage" ma è una contraddizione nel termini o "una spaventosa bugia", perchè il cold storage per definizione non va online. È come se una banca dicesse che ha il cavou negli sportelli Poche ore dopo sei compagnie legate a Bitcoin rilasciano un comunicato "Joint Statement Regarding Mtgox" dicendo che i loro siti sono sicuri e impegnandosi per avere al più presto dei controllori terzi sulle loro compagnie. Lo stesso giorno Mtgox chiude definitivamente ogni forma di transazione sul sito 27 febbraio Fioccano le ipotesi di cause legali, complottismi, e ricerca di documentazione sui forum Reddit e bitcointalk 28 febbraio Viene avviata e accettata dal tribunale di Tokyo la procedura di bancarotta protetta per Mtgox; Mark Karpeles (di lingua francese) ammistratore delegato di Mtgox si scusa in giapponese con tanto di inchino; il film non è ancora finito.

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Saperne di più Jeff Garzik su Twitter: https://twitter.com/bitcoin_ita/status/436856270558343 168 Il New York Times su Mtgox e SecondMarket: http://www.nytimes.com/2014/02/25/business/apparent -theft-at-mt-gox-shakes-bitcoin-world.html Speculazioni sulla fine di Mtgox: http://www.hackingdaily.com/2014/02/Mtgoxspeculations.html?m=1 Su urban dictionary (dizionario del gergo di strada, in inglese) il termine "Goxxed" esiste dal 2011 e significa qualcosa tipo "rovinato dall'incompetenza": http://it.urbandictionary.com/define.php?term=goxxed La moneta dei nativi americani: http://www.telegraph.co.uk/technology/news/10668018 /Native-Americans-adopt-bitcoin-clone-as-officialcurrency.html

Ma Mtgox non è Bitcoin, nè Mtgox è "la banca dei Bitcoin" come scrive "La Stampa". Ma allora c'è stato un furto di enormi proporzioni? Hackingdaily.com: "Noi non stiamo dicendo che [Mtgox] non ha perso delle monete per colpa del malleability

Fabio Vita Senza banche Bitcoin, la moneta di Internet

bug [nel 2011] ma non c'è modo che 500.000 monete siano state rubate". La Bitcoin Foundation - che promuove l'uso e la diffusione di Bitcoin ma non ha compiti di supervisione - non esce molto bene dalla vicenda, visto che Mtgox era tra i membri Gold della fondazione. E appena il 27 gennaio scorso, Charlie Shrem vicepresidente della fondazione si era dimesso perchè incriminato per riciclaggio e rilasciato su cauzione a New York per vicende connesse a Silk Road. Da notare che parte dei bitcoin sequestrati dal Fbi a Silk Road stanno per essere venduti all'asta. Il procuratore di New York, incriminando Charlie Shrem, tenne a precisare che la giustizia combatte il riciclaggio sia in bitcoin che in dollari: illlegale non è il bitcoin mama l'uso che può esserne fatto. La Bitcoin Foundation La comunità bitcoin italiana, nel forum bitcointalk, ha messo spesso in guardia nei confronti di Mtgox. In maniera netta e precisa almeno dall'estate 2013, quando Mtgox accusa i primi problemi nei prelievi di moneta da parte degli utenti. Molti giornali, in Italia, preferiscono sottolineare genricamente la paura: il Sole24ore dice che è impossibile "stimare la perdita da un punto di vista non monetario ma di credibilità" e che "un crack del genere è un colpo dolorosissimo, che po-

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trebbe bloccare la vertiginosa ascesa della criptomoneta nella finanza mondiale". Altrove, il New York Times parlando di Mtgox anticipa la notizia che SecondMarket sta sviluppando un exchange Bitcoin con sede e documentazione americane. SecondMarket promuove Bitcoin dall'autunno scorso ai suoi investitori tradizionali, scrivendo che usare un portafoglio Bitcoin è difficile per un "utente qualsiasi" e che il loro fondo è più sicuro degli exchange in giro. Intanto la California... Un bitcoin valeva 822 dollari su Bitstamp a inizio febbraio, 550 il 10 febbraio, 400 il 25 febbraio, 710 il 3 marzo. Senza la vicenda Mtgox i riflettori delle notizie su Bitcoin sarebbero rimasti puntati sullo stato della California che vuole legalizzarne a tutti gli effetti l'uso o sulla polemica lanciata da Mike Hearn (sviluppatore Bitcoin proveniente da Google) che lamenta una scarsa collegialità nel team di sviluppo. Oppure su Auroracoin, una cryptomoneta che un privato intende distribuire a tutta la popolazione islandese; o su MazaCoin, moneta ufficiale della "Oglala Lakota Nation" negli Stati Uniti. O sul fantomatico ritrovamento di Satoshi Nakamoto.


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Società

“Io gay e mio padre comunista” “Quando è successo che la sinistra in cui credevo ha tradito i nostri ideali e le nostre aspettative?” di Marino Buzzi

Lo ha capito senza grosse tragedie. Lui, che è sempre stato un uomo schivo, riservato, uno di quelli che cerca sempre di capire come funzionano le cose, ha semplicemente accolto il mio compagno in casa così come aveva accolto il compagno di mia sorella. Ha le mani d'oro, mio padre. Se gli porti qualcosa che non funziona lui te lo aggiusta, trasforma oggetti inutili in cose utili; io, invece, non so stringere nemmeno un bullone. Un po' meno uguale

Un po' di tempo fa, ascoltando il sociologo Asher Colombo presentare la nuova edizione del suo libro Omosessuali moderni, scritto insieme a Marzio Barbagli, e pubblicato da Il Mulino, ricordo una frase molto interessante. Colombo disse: “In passato era più semplice dirsi omosessuali con un padre cattolico che con uno comunista, i cattolici hanno questa strana idea del “perdono” e della “carità cristiana”, per un comunista duro e puro un figlio omosessuale era qualcosa difficile da digerire”. Io con un padre comunista ci sono cresciuto: uno di quelli che credeva nel partito e ogni tanto metteva in un grosso giradischi un vinile che conteneva Bandiera rossa, apriva le finestre e lasciava che tutta la via ascoltasse, mentre mia madre gli urlava di piantarla. Sono cresciuto con il ritratto di Marx appeso alla parete e l'idea che il comunismo fosse cosa buona e giusta. Ho visto, crescendo, la disillusione negli occhi di mio padre. Anche se non lo ha mai ammesso ho visto che la politica lo ha tradito, anche se mentre la politica gli girava le spalle lui rimaneva saldo nei suoi ideali. Operaio. Proletario. Un uomo che ha sempre anteposto gli altri alla propria felicità. A mio padre che sono omosessuale non l'ho mai detto apertamente, non ce n'è stato bisogno.

Siamo diversi, io e mio padre. Eppure ci somigliamo più di quanto siamo disposti ad ammettere. La morte dell'ideologia di sinistra ha ferito lui così come ha ferito me. Il sogno di un futuro senza classi sociali è fallito miseramente. Non siamo mai stati tutti uguali e non lo saremo mai. Solo che io che sono frocio mi sento un po' meno uguale degli altri. Quando ho raggiunto l'età per votare c'era Rifondazione comunista, era il 1994 e tutti sappiamo come andò. Non si parlava ancora di matrimonio per le coppie omosessuali, non si parlava di tutelare gli/le omosessuali contro l'omofobia, ma l'immagine che mi ero fatto era quella che la sinistra fosse la casa “naturale” per lesbiche, gay, trans e bisex. La colpa, lo ammetto, è stata anche nostra. Forse troppo conniventi con una certa idea di politica, ingenui nel credere che la sinistra avrebbe fatto qualcosa di concreto per noi. Qualcuno si è fatto illudere dall'idea che bastasse avere rappresentanti politici omosessuali per cambiare le cose. Eppure nel duemila il fermento culturale e sociale di questo paese mi aveva indotto a pensare che le cose sarebbero cambiate sul serio. Mi guardo indietro, ora, per cercare di individuare esattamente qual è stato il punto di rottura.

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Cosa resta della sinistra? Quando è successo che la sinistra in cui credevo ha tradito i nostri ideali e le nostre aspettative? Quando sono venute meno le promesse sui PACS? Quando hanno proposto i DICO? Quando mi sono reso conto che molti politici GLBT si occupavano, come molti altri, di un meschino interesse personale a discapito della comunità? O quando la sinistra ha svenduto il futuro delle nuove generazioni, facendo accordi con chi ha creato ingiustizie sociali e ridotto i diritti? La disillusione fa male, ma ti permette di avere una visione neutrale. Cosa resta della sinistra in questo paese? Renzi? Gente che in campagna elettorale parla di diritti per tutti e poi, una volta al governo, fa capire che i diritti non sono una priorità? Uno che sceglie come ministri persone vicine a ideologie che vanno contro i fondamenti stessi della sinistra? Credo ancora nella lotta Incredibilmente, oggi, mi rendo conto che non posso scindere il mio essere figlio di operaio, proletario, ex comunista, gay. La sinistra, lo capisco mentre scrivo, non ha tradito solo le persone GLBT. Ha tradito in più occasioni il suo elettorato. Ha tradito i suoi ideali. Il suo mandato. Non mi chiedo nemmeno più per chi votare perché, di fatto, una sinistra vera oggi in questo paese non esiste più. Esiste un'apparenza, qualcosa che serva a dirsi sempre meno diversa da una destra che non è mai stata al passo con i tempi. E non credo più alle promesse, agli “io farò”; non credo più alle rappresentanze GLBT in politica, non credo più ai diritti sponsorizzati. Credo invece ancora nella lotta. Solo che la lotta è qualcosa che costruisci e porti avanti ogni giorno e, francamente, in questo paese non vedo più nemmeno questo.


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Politica

La Padania fa scuola Ma è incredibile che un leader oggi si abbassi a scherzi da asilo infantile, come quella domanda: che cosa faresti alla Boldrini in macchina? Oppure che non censuri De Rosa e Messora dopo le volgarità nei confronti, rispettivamente, delle deputate del Pd o della stessa Boldrini.

Lo stile “vaffa” dilaga nel web. Non si tratta più di singoli episodi, ma di un modo di esprimersi che è diventato “normale” di Riccardo De Gennaro www.ilreportage.eu

Il web è la Padania di Grillo. È qui che il leader del Movimento 5 stelle può scorrazzare a suo piacimento, dare la linea politica ai suoi, decidere i bersagli, bacchettare, anche insultare (“i politici ciarlano col c…”, una delle sue ultime finezze), senza che gli aggrediti possano difendersi. Nel web, attraverso il suo sito, Grillo raccoglie consensi, travasa voti non solo dalla Lega, recluta gli attivisti, ascolta quella che ritiene sia la vox populi nell’ambito di una pretesa, sebbene male interpretata, “democrazia diretta”. Come il primo Bossi con i suoi fucili e le sue pallottole, Grillo arma i suoi, di volta in volta, contro Napolitano, Boldrini, Oppo, Augias e chiunque altro osi criticare il pensiero e la prassi dei “pentastellati”. È un’escalation, ma qualcosa gli è sfuggito di mano.

Sotto quota Borghezio

A questo punto non ha più importanza se abbia torto o ragione: senza dubbio qualche volta ha ragione, ma chi alza i toni e abbassa il livello del linguaggio fino al turpiloquio si colloca automaticamente dalla parte del torto. Il polverone mediatico Il rischio è che, nel polverone mediatico sollevato per aumentare contatti sul web e “adepti”, nonché – di conseguenza – gli introiti pubblicitari del sito, Grillo dilapidi rapidamente (e molto prima delle prossime elezioni politiche) il patrimonio di credibilità che, con la parte più intelligente dei “grillini”, era riuscito ad accumulare dimostrando, non solo al suo elettorato, che il potere oggi è in mano a un “re nudo”. Sappiamo che Grillo ha costruito la sua fortuna con i “Vaffa-day”, un “vaffa” gridato nelle piazze tutte, non solo virtuali, dove tuttavia argomentava quei “vaffa” con dati, cifre, opinioni di esperti talvolta con lui sul palco.

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Non si pretende un parlare forbito, ma è evidente che il livello del linguaggio è sceso ai minimi storici, addirittura sotto quota La Russa, sotto quota Borghezio. In questo l’M5S appartiene, come la Lega, alla peggiore tradizione del populismo di destra: nell’uso della parola. Quando saltano le regole del confronto civile rischiano di saltare anche quelle della convivenza. A quel punto, il fascismo è dietro l’angolo. L’onorevole Di Battista, considerato l’esponente tra i più persuasivi e telegenici del movimento (tranne forse quando sostiene di sentirsi all’altezza di fare anche il presidente del Consiglio) ha recentemente pronunciato un suo “me ne frego”, sebbene edulcorato in un meno arrogante “me ne infischio”. La deriva del movimento La strada rischia di diventare questa. Sarebbe bene che i grillini più seri si rendessero conto della pericolosa deriva che il movimento può conoscere. Oltre che attraverso il web e la sua mancanza di controllo, anche per l’assenza di autocontrollo.


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Palermo

Una proposta contro la povertà Se il patrimonio immobiliare della Curia vemisse usato per aiutare i senzacasa? Forse anche il Papa sarebbe d'accordo... di Nino Rocca La povertà dilagante in città ha costretto per la strada centinaia di famiglie che non possono più pagare un affitto perché hanno perso quel lavoro, sia pure precario, che consentiva loro di sbarcare il lunario. Coppie giovani, per lo più, ma anche coppie di cinquantenni, che non hanno più una occupazione e non sanno come campare giorno dopo giorno, vagano senza meta, come fantasmi nella città. La Istituzioni a causa della grande crisi economica e delle ristrettezze imposte dall’Europa sempre più votato ad un rigido liberismo economico, hanno tagliato, in modo drastico le spese sociali. Nell’ottocento e nei gli anni del primo novecento sino agli anni ’60 gli ordini religiosi hanno supplito alle carenze delle Istituzione assumendosi il carico dei po-

veri con il ricovero per i senza casa, con gli orfanotrofi, con l’assistenza ai più poveri. Tanti ordini religiosi vecchi e nuovi sia maschili che femminili non hanno fatto sentire la loro mancanza andando incontro ai bisogni degli ultimi. Tra i più noti, nati a Palermo, Il Boccone del povero di Giacomo Cusmano e l’orfanotrofio di padre Messina, e tanti altri ordini, nati nel resto dell’Italia e all’estero, si sono dedicati ai più poveri. Tanti altri ordini religiosi si sono dedicati ai più ricchi attraverso le scuole e i collegi, il più noto a Palermo l’Istituto del Sacro Cuore, nato nel 1909. Oggi, per la crisi delle vocazioni e per il cambiamento della società, molti di questi ordini non sono più in condizioni di mantenere le grandi strutture sorte a favore dei poveri o della ricca borghesia o della nobiltà, e chiudono i battenti. E’ il caso dell’Istituto del Sacro Cuore posto in vendita nel 2004, l’Istituto delle figlie di san Giuseppe in via Oberdan, gioiello del migliore liberty, messo in vendita nel 2008, entrambi occupati dai senza casa. Oggi nella nostra città, a causa dell’assenza delle Istituzioni, si rischia, ,da una parte, di non riuscire a governare il disagio sociale che esige una risposta certa e urgente e dall’altra, di mettere a repentaglio la ricchezza inestimabile degli Istituti e conventi religiosi che vanno chiudendo svendendosi al migliore offerente.

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Palermo rischia di essere impoverita ulteriormente non solo per una povertà che ha raggiunto livelli preoccupanti ma anche, per la dispersione di una parte del suo preziosissimo patrimonio artistico, culturale, storico e religioso. A questo punto avanziamo una proposta che ci sembra ragionevole per rendere compatibile sia l’assistenza non più prorogabile ai senza casa e ai più poveri della città, sia la salvezza dell’incomparabile patrimonio artistico e religioso della nostra città. Affidiamolo in comodato d'uso Chiediamo alle Istituzioni, Regione e Comune che aprano un dialogo con i rappresentanti delle Congregazioni religiose e con la Curia, perché si valorizzi l’immenso patrimonio immobiliare di entrambi, attraverso degli accordi che prevedano l’affido, in comodato d’uso, dei Conventi e degli Istituti che le congregazioni o la Curia non sono più in grado di mantenere per il costo della manutenzione, perché vengano utilizzati dalle Istituzioni, in accordo con il privato sociale, per le finalità per cui furono utilizzati dagli stessi in passato. E in tal modo l’appello del papa verrebbe accolto nel migliore dei modi mettendo in sicurezza lo splendore artistico e il valore religioso e morale di cui godevano nel passato. Comitato di lotta per la casa 12 luglio


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Palermo

L'EcoMuseo Urbano MareMemoriaViva: memoria e riqualificazione del fronte a mare di Palermo di Giovanni Abbagnato Spesso viene considerato anacronistico l'uso di ricorrere alla saggezza popolare per comprendere fenomeni anche assai complessi, come l'involuzione sociale e ambientale di una città tragicamente importante come Palermo. Per esempio, una testimonianza straordinariamente lucida di un anziano di una borgata marinara ha fissato, in modo indelebile, l'evidente abbandono del mare da parte della città di Palermo. Una città che, incredibilmente, ha “girato le spalle” alla straordinaria risorsa della sua lunghissima costa, il cosiddetto “fronte a mare” o water front, come si ostinano a dire gli irriducibili dell'esterofilia linguistica, anche quando francamente inopportuna. Constatava il vecchio saggio con le sue parole essenziali: “A Palermo quando si vuole sottolineare l'inutilità assoluta di qualcosa, a volte insieme al suo essere dannosa, si consiglia o si intima, secondo i punti di vista: ma vallo a buttare a mare!” E questo hanno fatto nei decenni i palermitani, a partire dalle loro istituzioni che dovevano salvaguardare lo straordinario patrimonio ambientale del litorale – tanto vario quanto attraente- di una splendida città di mare e dell’enorme potenziale socio-economico che da esso poteva derivare. I palermitani hanno buttato nel loro mare di tutto: rifiuti e scarti di tutti i tipi, addirittura le macerie dei bombardamenti alleati.

Il sacco edilizio dei Lima e Ciancimino E poi quelle del sacco edilizio della Palermo dei Lima e Ciancimino, comprese quelle delle ville liberty fatte esplodere di notte dai palazzinari mafiosi per aggirare sbrigativamente ogni eventuale vincolo legale per fare posto a orrendi e altissimi scatoloni in dedali stradali inestricabili. Palermo ha anche girato le spalle al suo mare sovrapponendo alla sua vista quante più barriere possibili, spesso lerce e bruttissime, in un arco ampissimo, ponendo una frattura profonda tra terra e acqua e impedendo, di fatto, quella continuità tra mare e città che in giro per il mondo ha fatto fortune socio-economiche, anche in contesti urbani di ben minore potenzialità rispetto a Palermo. Da qui prende le mosse – e non è poco – l'intuizione dei giovani di Clac, un gruppo di organizzatori culturali, parte di una delle più interessanti realtà di giovani imprenditori siciliani sorta all'interno del coworking Federico II, che ha progettato e realizzato un Ecomuseo urbano denominato Mare Memoria Viva. Il progetto è stato selezionato per il finanziamento della Fondazione Sud e ha ottenuto il partenariato del Comune di Palermo, della Regione Siciliana e della Soprintendenza del Mare. Nell'antico Arsenale L'EcoMuseo, ospitato in due interessantissimi luoghi della Palermo costiera: l'antico Arsenale e l'ex Deposito delle locomotive di Sant'Erasmo, è costituito da un insieme di installazioni che organizzano video, foto, tracce sonore, testi di diversa natura, per una fruizione efficace e coinvolgente. Come hanno voluto precisare i progettisti, “L'EcoMuseo è un museo del territorio che mette al centro la funzione sociale e la partecipazione della comunità”. O per dirla con le parole dello studioso Hugues De Varine, “un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio”.

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Infatti, l'EcoMuseo è principalmente il prodotto del lavoro dei giovani progettisti e realizzatori che hanno avviato un lungo lavoro di ricerca sul territorio, non solo tra gli scaffali delle biblioteche e degli archivi pubblici, ma soprattutto tra la gente della “Palermo a mare”, che ha donato i suoi racconti ed esperienze ed ha aperto i cassetti dei ricordi di famiglia: fotografie, video, lettere, oggetti... Un museo non statico Si tratta di un museo non statico, la cui originalità è data dal naturale coinvolgimento della gente per farne il proprio luogo dei ricordi, ma anche di un presente da costruire partecipando ancora, anche con attività proposte per bimbi ed adulti. Un EcoMuseo fatto dalla gente e quindi sempre in divenire, perché potrà continuare ad arricchirsi di tanti altri apporti che riemergeranno da quello stesso mare così offeso e dimenticato. Un EcoMuseo che -raccontando attraverso le persone la storia di un territorio, nel caso del litorale di Palermo, violato, ferito e negato– evidenzia il fluire della vita, per quella che è stata e che è, con tutta la gamma dei sentimenti e delle vicissitudini presenti. Insomma, il racconto attraverso un Ecomuseo del mare fatto da Memoria Viva perché, come puntualizzano ancora i giovani di Clac “il mare racconta molto della città che c'era, che c'è e che potrebbe esserci”: storie positive di lavoro, di relazioni umane, di solidarietà, di quotidiano eroismo. Ma anche storie negative, fatte di abbandono e degrado sociale, dominio mafioso, corruzione e devastante abusivismo edilizio. Allora l'EcoMuseo può diventare soggetto culturale rilevante per la crescita di una società attraverso la riqualificazione di una costa di straordinaria bellezza, di enorme potenzialità; e non possiamo capire come Palermo abbia voluto e potuto voltare le spalle al mare, con cieca volontà di abbandono e distruzione.


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Catania

San Berillo abbandono annunciato “Se qualche amministrazione risanasse davvero San Berillo sarebbe ricordata nella storia di questa città” di Vincenzo Rosa Eh già, risanare. Riferito allo stato attuale del quartiere sembrerebbe qualcosa di lontano e difficilmente raggiungibile. Eppure, un semplice giro basta per accorgersi della bellezza di questi luoghi, di come sarebbe facile immaginare un nuovo sviluppo del quartiere. Siamo tornati per guardare da vicino l'evoluzione dell'attività sociale nel quartiere e per capire -in qualche modo- se nei piani alti dell'amministrazione catanese sia cambiato qualcosa relativamente ai progetti su San Berillo. *** Il comitato popolare degli abitanti è nato da poco meno di un anno, ma il suo lavoro all'interno del quartiere è già riconosciuto e apprezzato dagli abitanti. Al nostro passaggio tutti salutano i ragazzi che ci accompagnano, chiedendo loro consigli, scherzando, cercando di informarsi sull'ultima notizia che disturba la paciosa mattinata del rione. Un edificio è stato dichiarato inagibile dopo due incendi e al proprietario sono stati recapitati delle intimazioni a murare gli accessi. Quel luogo, infatti, era stata eletto dimora da alcune prostitute.“Devi dire a Maria che può spostarsi nell'altro basso, in quello non può più stare, ho già parlato con le altre, è tutto ok”. I ragazzi del comitato hanno aiutato le ragazze “sfrattate” a trovare nuova occupazione, spiegando più di mille parole la natura e le modalità dell'intervento sociale nel quartiere.

Approfittiamo della bella giornata per fare un piccolo giro. Iniziamo da dove, nel giugno del 2013, un ragazzo tunisino di poco più di vent'anni venne ucciso a sassate sulla testa “le pietre le hanno prese da qui. Dopo che hanno tolto il basolato antico, sostituendolo con uno a buon mercato, ogni volta che piove salta tutta la pavimentazione”. Viene indicata una colata di cemento alla buona, intervento del comune dopo le recenti piogge. Altre pietre sono adagiate ordinatamente in un gradino, accanto a quello che fu il luogo del delitto. Mentre camminiamo gli attivisti del comitato ci parlano dei loro progetti e della rete sociale avviata, di quelli che sono gli obiettivi da raggiungere e quali i problemi da risolvere: “Parliamoci chiaro, qui vogliono fare passare il messaggio che San Berillo sia un'erbaccia da estirpare perchè dentro ci sono solo prostitute e immigrati. Per ora, nell'attesa che si sblocchino i loro 'piani di riqualificazione' lasciano tutto com'è, degrado e sporcizia. In questo modo saranno legittimati ad appropriarsi di tutto per fare quello che vogliono.” Svoltiamo l'angolo e arriviamo in via Carramba. Una strettissima viuzza a sinistra delimitata da un muro il quale non si capisce bene per quale principio fisico riesca a stare in piedi e non crollare. Dietro c'è una sciaretta, un piccolo sputo di verde in mezzo al quartiere, trasformata in discarica dagli operai del comune quando, nel 2009, ripulirono l'edificio di fronte. Questo immobile, donato circa vent'anni fa al comune di Catania da un privato, è oramai quasi del tutto diroccato. Da un po' di tempo è stato occupato da

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una prostituta, che lì ha trovato la propria alcova per viverci e lavorare. Eppure, da un'intervista rilasciata alla Sicilia nel 2009 dall'allora assessore ai lavori pubblici Filippo Drago, sappiamo che proprio quello stabile fatiscente sarebbe dovuto essere il punto di partenza per una 'completa riqualificazione del quartiere'. Addirittura, dichiarava l'assessore, furono investiti 3 milioni di euro, i quali, a guardare bene il palazzo, non si sa capisce come siano stati spesi, anzi, meglio, se siano stati mai spesi. Ovviamente, essendo del tutto pericolante, l'edificio necessita di una profonda messa in sicurezza per la quale il comune non ha fondi a disposizione. Per cercare di limitare le proprie responsabilità, gli uffici comunali hanno avuto la geniale pensata di mettere due cartelli indicanti divieto di transito. Se ti cade un palazzo addosso, peccato, ma è colpa tua che non hai visto il cartello. E dire che basterebbe poco Proseguendo nel percorso, viene da chiedersi il perchè dell'abbandono di questi luoghi. Basterebbe un'opera di riqualificazione che semplicemente sappia non sconvolgere l'armonia architettonica e la bellezza degli scorci. Un esempio del 'volontario abbandono' al quale è stato sottoposto San Berillo è quello di piazzetta delle Belle. Un piccolo slargo nel quale confluiscono varie stradine del quartiere, squadrato e con delle piccole case tutt'attorno. L'unico edificio che svetta è un antico palazzo del '700. Ci raccontano come per molti anni è stato impedito ai proprietari di poter restaurare le costruzioni nella piazzetta per vincoli imposti dalla Soprintendenza. Dopo anni di incuria la riqualifica verrebbe a costare , molti attuali proprietari stanno pensando di svendere le loro proprietà. L'edificio più grande si trova a ridosso del “Romano Palace”, l'albergo di lusso del gruppo Virlinzi nella zona “riqualificata” del quartiere.


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“Una babele di interessi economici e di centri di potere” Da qualche tempo ci sono state varie offerte per il suo acquisto da parte di rappresentanti della società, con prezzi abbassati relativamente al cattivo stato strutturale. Un'esposizione di graffiti Tempo fa il comitato ha ricevuto la visita dell'assessore all'urbanistica del comune di Catania Salvo Di Salvo, il quale, tra proclami e intenti dell'amministrazione, ha presentato un nuovo progetto su San Berillo: un'esposizione di graffiti in via delle Finanze. In collaborazione con l'Accademia delle Belle Arti e l'istituto detentivo Bicocca, il progetto di istallazione di alcune opere da strada nella celeberrima via vedrà la partecipazione di una cinquantina di detenuti del carcere che, istruiti dagli allievi della Scuola Edile catanese, prepareranno i muri per le opere dei ragazzi dell'accademia. Questo, dunque, il primo progetto per San Berillo della nuova amministrazione Bianco. Non incentivi fiscali ai proprietari per la ristrutturazione degli immobili, non la creazione di presidi civili come un centro per la prevenzione di malattie sessuali, non la completa sanitarizzazione del quartiere, ma una semplice esposizioni di graffiti. A parte quindi qualche legittimo dubbio rispetto alla reale efficacia dell'idea, le istallazioni sorgerebbero sui muri delle storiche palazzine settecentesche che caratterizzano l'ambiente architettonico (di ciò che è rimasto) del quartiere.

“Uno scempio continuato nel tempo che lascia l'amaro in bocca”

Da qui, la controproposta del comitato: “Invece di intervenire su via delle Finanze, proponiamo di effettuare questi interventi artistici in via Zara, una stradina interna del quartiere, abbandonata a se stessa e trasformata in vespasiano a cielo aperto, dove non passano neanche i net-

turbini comunali. Invece di limitarsi esclusivamente al montaggio delle opere artistiche, noi proponiamo che vengano sfruttate davvero le competenze di chi è occupato nel progetto. Perchè non far ripristinare agli studenti dell'accademia gli antichi altarini votivi sparsi nel quartiere invece di farli disegnare sui muri di palazzine settecentesche? Inoltre, pare che ci sarà anche il coinvolgimento della Questura, nell'ottica di 'preparare' la zona per l'arrivo dei detenuti. Tutto sarà guidato dal vice questore ag-

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giunto De Girolamo, lo stesso che ha diretto gli inconcludenti blitz degli ultimi tempi all'interno del quartiere, lo stesso che, tra l'altro, detiene la proprietà di alcune aree del quartiere. Così, ed è fatto notorio, come altri esponenti delle forze dell'ordine, divenuti proprietari negli anni '90. Queste sono solo alcune delle “particolarità” del nuovo progetto del Comune di Catania in sinergia con l'Accademia delle Belle Arti, la Scuola Edile e i detenuti del carcere di Bicocca. Un'idea interessante di certo, ma che non riesce minimamente ad intervenire sugli aspetti problematici del quartiere. Quello che rimane di questo giro di San Berillo, dalle chiacchiere con gli attivisti, dal contatto diretto con la realtà di questa zona di Catania è una forte sensazione di amaro in bocca. Di fronte ad uno scempio continuato nel tempo non si può fare altro che porsi delle domande su quali siano le effettive volontà (e di chi siano) dietro a tutto ciò. Quello che potrebbe essere il gioiello barocco incastonato nel cuore della città è lasciato a se stesso, a marcire, in attesa della solita colata cementizia che accontenterà tutti, proprio tutti, tranne quelli che oggi dentro il quartiere ci vivono. Una babele di interessi economici e politici, di centri di potere più o meno velati, impediscono la nascita di un reale progetto di valorizzazione del quartiere.


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Antimafia

Emilia: come vigiliamo sulla legalità L’Anagrafe degli esecutori: uno strumento per la legalità e l’innovazione firmato Regione Emilia-Romagna di Sara Spartà www.diecieventicinque.it “Legalità, trasparenza, equità” sono da anni le parole chiave delle politiche messe in campo dalla Regione Emilia-Romagna che racchiudono un impegno profuso in ambito legislativo in costante evoluzione ed un coinvolgimento sempre maggiore di diversi soggetti istituzioali. All'inzio di aprile è stata presentata presso la sede della Regione EmiliaRomagna in Viale Aldo Moro, l’Anagrafe degli Esecutori, un prodotto nuovo ed innovativo, che offre un aiuto importante a tutti i soggetti coinvolti nella filiera dell’affidamento di contratti pubblici. Uno dei principali punti di forza dell’azione delle politiche regionali risiede nella consapevolezza dell’importanza strategica che può offrire alle organizzazioni criminali di stampo mafioso il controllo di larga parte dell’edilizia pubblica, e della necessità, quindi, di operare in questo ambito con maggiore attenzione e fermezza. Operare nella legalità significa evitare distorsioni nel mercato della concorrenza in favore degli operatori economici e della collettività tutta. E questo è quanto emerso dal convegno “Nuovi strumenti per la Legalità: l’anagrafe degli esecutori. Un innovativo prodotto nell’officina della legalità”, con Massimo Parrucci (coordinamento di progetti informatici e Anagrafe) il Prefetto Ennio Mario Sodano, Natale Maugeri del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere, l’Assessore

alle Attività produttive Giancarlo Muzzarelli e Enrico Cocchi, Direttore Generale della programmazione territoriale e negoziata. “Lavorare per conciliare equità, trasparenza e legalità alla fatica quotidiana significa ragionare non soltanto per un territorio dove sono un rischio gli eventi calamitosi ma anche dove lo sono gli eventi criminosi” ha l’Assessore Muzzarelli evidenziando tutti i passaggi compiuti per giungere a questo risultato, dalle leggi regionali sulla promozione della cultura della legalità, passando a quelle che regolamentano l’edilizia pubblica e privata si è cercato di creare le basi per un maggiore monitoraggio e controllo delle imprese da parte dei vari centri decisionali. Da ultimo, il sisma del maggio 2012 ha reso l’azione amministrativa ancora più ardua nel tentativo di evitare l’infiltrazione mafiosa in tutta la fase della ricostruzione. Nello specifico si è ravvisata l’esigenza di adottare misure organizzative capaci di agevolare l’azione di controllo “antimafia”, individuata oggi nell’Anagrafe degli esecutori, prevista dalle Linee Guida C.C.A.S.G.O. e accessibile soltanto alla Direzione Investigativa Antimafia, ai Gruppi Interforze delle Prefetture interessate, al GIRER nonché al Servizio Alta Sorveglianza Grandi Opere del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, concernente i soggetti e gli operatori economici aggiudicatari e affidatari nonché ogni altro soggetto della “filiera delle imprese”. Un modello per tutta l'Italia L’Anagrafe degli Esecutori prevista per la ricostruzione post sisma trova l’unico precedente nell’Anagrafe degli Esecutori post sisma in Abruzzo e per Expo 2015 di Milano, nata con l’obiettivo di assicurare trasparenza ed evitare il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti concernenti le opere essenziali. La piattaforma informatica concepita dalla Regione EmiliaRomagna, però, ad oggi, rappresenta il primo e unico modello mai realizzato prima in Italia, sia per la filosofia sottesa a

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tale sistema sia per l’impianto informatico utilizzato. L’obiettivo è quello di creare una anagrafica completa dell’impresa in modo da poter agevolare i committenti sia pubblici che privati negli affidamenti per una maggiore garanzia circa la legalità della stessa impresa. Un cubo di dati “L’Anagrafe non è altro che un cubo di dati, cd. “datawarehouse”, nel quale si sono inserite, attraverso un procedimento ad “interrogazioni”, tutte le informazioni presenti nelle varie banche dati già esistenti, quali SFINGE, MUDE, Elenco di Merito, SICO, Trasporto Macerie, SITAR”, spiega il Dott. Parrucci. Dato che ogni banca dati contiene una propria anagrafica dell’impresa esecutrice e non è detto che questa sia corretta, si è integrato nel sistema anche l’anagrafica delle imprese provenienti da Parix (InfoCamere). Si procede così ad un tipo di verifica che parte dall’iscrizione dell’impresa alla Camera di Commercio, e si procede poi, attraverso l’elaborazione, la trasformazione e la pulizia dei dati, con l’integrazione delle varie vicende che riguardano l’impresa. Questo garantisce una buona qualità del dato e cerca di porre fine ai problemi inerenti la non omogeneità delle informazioni sull’impresa e di poter sfruttare tutta la reportistica inerente la stessa impresa. Un sistema, insomma, che permette di avere una panoramica generale degli operatori economici che operano sul territorio e di controllarne le attività intraprese. Ad oggi l’Anagrafe potrebbe costituire un importante strumento soprattutto per le Prefetture, che con “l’interdittiva vanno ad incrementare il patrimonio di conoscenze relative alle imprese”, così come sottolinea il Prefetto Sodano, per il quale un aspetto cruciale per controllare le irregolarità è costituito dal controllo effettivo sui cantieri. Un importante traguardo raggiunto che adesso costituirà uno strumento operativo aggiunto al servizio della legalità e del territorio.


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Università

Good bye, via Zamboni Dire addio al limbo universitario per essere sbattuti in prima linea e senza addestramento nella vita reale... di Beniamino Piscopo www.diecieventicinque.it Gli antichi popoli etruschi celebravano periodicamente la primavera sacra, che vedeva i membri più giovani lasciare la tribù, per andare a colonizzare nuove terre. A Bologna, al contrario, vige l'autunno sacro, che arriva puntuale con i primi bagliori dorati delle foglie sugli alberi: anziché far partire i suoi giovani, Bologna ogni anno ne accoglie di nuovi, migliaia. Nell'estate del 2009, tra questi stuoli di sbarbatelli euforici c'ero anch'io. In qualità di matricola dell'Alma Mater mi apprestavo a seguire le lezioni della facoltà di giurisprudenza che fu di Irnerio e Accursio.

Lo stile amabile dei professori L'impatto con la mitologica università di Bologna era stato tranquillizzante. Lo stile amabile dei professori, era distante anni luce dalla figura ancient régime di molti insegnanti liceali che avevo conosciuto (cordialità dovuta al contributo in tasse universitarie da elargire a questi colti e educati signori?). Metteteci che approdato all'Alma mater, fui accolto da un tripudio di bellezza femminile, con colleghe carine ovunque mi girassi, e capite con quale roseo ottimismo mi sia dedicato alla mia novella vita universitaria. L'iter standard è questo di solito. Le matricole più previdenti si organizzano già da metà Luglio: le aspetta un posto in doppia con un vecchio compagno di liceo a trecento euro. Per tutti gli altri, si prevede un concitato mese di Settembre, scandito dal tradizionale vagare, scortati da un genitore o a coppie di amici, fra le bacheche fitte di messaggi. Seguiranno chiamate convulse al cellulare, appuntamenti con potenziali padroni di casa o, spesso, con studenti più anziani impegnati a subaffittare porzioni di appartamento.

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Tutti prima o poi, trovano la loro tana, il proprio ritmo, una consuetudine inattesa nel muoversi tra il nuovo alloggio e la zona universitaria. E così, Bologna ti tiene la mano, mentre attraversi la strada che ti porta sul marciapiede dei grandi, col privilegio però, di dover fare ancora i compiti a casa, come quando si è piccoli. Sono uno studente da sempre, da ventiquattro anni la mia coperta di Linus è sapere che studiare in cambio di voti e promozioni significa aver concorso con onore al progresso materiale e spirituale della società. Vecchie certezze e domande nuove Queste vecchie certezze che mi hanno cullato nei miei tanti anni da pischello con lo zaino, stanno però sgusciando via, man mano che vengono sostituite da domande nuove. La consapevolezza del carnaio che aspetta al varco i laureandi italiani, attenua parecchio l'entusiasmo della corona d'alloro adagiata al capo, e contribuisce a rendere la laurea una vittoria agrodolce. Chi come me, si appresta a staccare il traguardo, può ben comprendere questo conflitto interiore. Finire e lasciare per rimpiangere quello che si sta lasciando. Dire addio a quel magico limbo che è la vita universitaria, per essere sbattuti in prima linea e senza addestramento, nella vita reale. Ho ventiquattro anni, e dicono che sia normale sentirsi inadeguati, dicono che il cervello di un venticinquenne sia più o meno lo stesso di quello di un'adolescente. Posso confermarlo: se do un'occhiata al mio guardaroba, vedo ancora felpe da liceale e converse consumate. Di giacche, colletti bianchi e cravatte, neanche l'ombra. A pensarci però, rifondare un intero guardaroba non ha senso, è un cambiamento finto, forzato, non spontaneo. I guardaroba si evolvono un poco alla volta, così come, solo un po' per volta, cambiamo anche noi.


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Rimini

Il processo Vulcano La massiccia e radicata presenza della camorra fra riviera adriatica e San Marino di Patrick Wild www.gruppoantimafiapiolatorre.it Lo sguardo si posa sui giudici, quindi sugli avvocati e sul pubblico. Francesco Vallefuoco, per gli amici “Franco”, presunto boss dell’organizzazione camorristica attiva in Riviera, si trova per la prima volta in aula per il processo a suo carico. Siamo alla terza udienza del processo Vulcano: quindici imputati (tra cui noti imprenditori sammarinesi e marchigiani, esponenti del clan dei casalesi) a vario titolo per estorsione e usura aggravate dal metodo mafioso si trovano alla sbarra al Tribunale di Rimini. Controllato a vista dagli agenti della polizia penitenziaria, Vallefuoco si sposta da un capo all’altro della cella di sicurezza.

Quasi esattamente tre anni fa, l’operazione Vulcano faceva la sua prima apparizione sui giornali locali. Titoli eclatanti, a caratteri cubitali: “Rimini-Gomorra”, “La riviera romagnola in mano ai casalesi”, titolavano i più prudenti. La complessa indagine della DDA di Bologna, poi sfociata in altri procedimenti paralleli (Staffa, Vulcano II, Titano), aveva portato all’arresto di un gruppo di persone accusate di estorcere denaro ad imprenditori locali. “Una capillare e frenetica attività” Ma con Vulcano non si evidenziava soltanto la massiccia e radicata presenza della camorra in questo lembo di terra, da un lato bagnato dal mare Adriatico e dall’altra confinante con la Repubblica di San Marino. Emergeva, in particolare, la capillare e frenetica attività di gruppi criminali che, presentandosi attraverso la copertura apparentemente legale di società di recupero credito e finanziarie, ne approfittavano per estorcere denaro e prestarlo a tassi usurai alle proprie vittime, imprenditori loali in gravi difficoltà economiche.

“Metodi tipicamente mafiosi” Metodi violenti e tipicamente mafiosi, dalle minacce di morte alle vere e proprie percosse, finalizzati a rilevare le loro attività economiche, per penetrare sempre più nel tessuto socio-economico del territorio. Denunce? Pochissime. Quasi nessuna tra le vittime ha denunciato le vessazioni. E Vallefuoco e i suoi hanno continuato indisturbati ad accreditarsi in Romagna. A margine degli articoli dei giornali erano stati pubblicati diversi anonimi comunicati stampa di amministratori locali, attraverso i quali si lanciava il monito “a fare attenzione”, “a vigilare sulle infiltrazioni (termine utilizzato spesso impropriamente ndr) mafiose”. Tra quelle righe trapelava copiosamente e in maniera evidente l’imbarazzo della politica locale, silente e immobile per trent’anni, scopertasi infine nuda di fronte all’evidenza e alla gravità dei fatti. Per decenni l’imperativo era stato negare, minimizzare. Parlare di mafie in Romagna avrebbe inevitabilmente danneggiato il turismo rivierasco e non parlarne affatto stata sicuramente la soluzione migliore. Questo il ragionamento alla base. E la politica taceva “La sottovalutazione è una responsabilità quando si è istituzione”, dichiara Ennio Grassi (parlamentare riminese per tre legislature) nel nostro documentario “Romagna Nostra: le mafie sbarcano in Riviera”. E mentre tra Romagna, Marche a e San Marino la camorra e i casalesi facevano affari, mietevano vittime e intrattenevano rapporti, la politica si svegliava tardi, ancora una volta.

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Milano

Expo senza mafia. Si può? Un Expo libero dalla mafia. Questo l’intento delle istituzioni che riunite in prefettura a Milano hanno siglato l’accordo “Expo 2015 Mafia Free” di Roberto Nicolini www.stampoantimafioso.it Dieci punti per incrementare il contrasto e la prevenzione. Dieci punti per evitare, dicendolo con le parole del Sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che gli “inevitabili tentativi” di infiltrazione mafiosa “diventino realtà”. Presenti all’incontro anche il Ministro degli Interni Angelino Alfano, il Presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, il Prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca e il commissario unico delegato dal governo per l’Expo Giuseppe Sala. Incremento della presenza delle forze dell’Ordine e maggiore scambio di informazioni. Si punta a costruire una solida rete per arginare il fenomeno che, secondo il commissario unico Sala, “sarà bello se potrà lasciare dopo di sé una struttura di controlli e prevenzione contro le infiltrazioni mafiose che resteranno a Milano”.

Intanto, da ieri, una volta alla settimana si riuniranno la Regione e gli Enti locali coinvolti per monitore la situazione. Lo stesso farà il Comitato Nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica ma con scadenza bimestrale. Ma si punta anche alla cooperazione internazionale. Su base volontaria però. Infatti, lo stesso Sala ha voluto chiarire che si chiederà ai Paesi partecipanti di aderire – senza obbligo – ad una versione semplificata del protocollo per la legalità. In più si è sottolineato come i controlli sulle imprese che avranno in gestione la costruzione degli stand delle diverse nazioni saranno sottoposte a controlli non in via preventiva ma “comunque verranno eseguiti”. I controlli sui cantieri Per i controlli, non solo sui cantieri ma anche per l’incolumità delle persone sui siti di Expo, il Viminale tramite Alfano ha assicurato un potenziamento della presenza delle forze che verrà garantita grazie a nuove assunzioni e allo sblocco del turnover per gli agenti di pubblica sicurezza. Sul punto il Presidente Maroni ha riportato l’attenzione sulle difficoltà che finora hanno impedito la costruzione del commissariato di Polizia e della caserma dei Carabinieri a Rho che “devono essere realizzate in tempi rapidissimi. “Non possiamo aspettare”, ha continuato il governatore chiarendo che queste strutture servono a “a garantire la legalità, non solo rispetto

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ai rischi derivanti dall’infiltrazione mafiosa, ma anche dal malaffare, che non sempre è connesso con la criminalità organizzata”. “Lo Stato è più forte dell’antistato” e “noi siamo una squadra forte e unita che si chiama Italia, di chiama Stato, si chiama Milano”, così Alfano ha voluto salutare la firma del protocollo. I dieci punti del piano I dieci punti del Piano “Expo 2015 Mafia free”: 1. Potenziamento della presenza delle forze dell’ordine, grazie a nuove assunzioni rese possibili dallo sblocco del 55% del turn over 2. Stanziamento nella legge finanziaria di circa 126 milioni in due anni da destinare alla logistica all’accoglienza e ai mezzi 3. Riunioni bimestrali del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica 4. Maggior ruolo della Direzione investigativa antimafia (Dia), che gestirà le attività info-investigative, ovvero monitoraggio dei flussi finanziari, white list e gestione informazioni 5. Rilascio delle certificazioni antimafia agli imprenditori per rendere più veloce ed efficace il controllo da parte della Direzione Investigativa Antimafia 6. Maggiore incisività degli accertamenti per le decisioni prefettizie 7. Favorire la circolarità informativa tra soggetti istituzionali, grazie ad applicativi informatici già approntati 8. Incrementare l’accesso ai cantieri e i controlli 9. Favorire la cooperazione internazionale delle forze di polizia 10. Favorire i controlli e le attività della polizia locale nei territori dell’Expo.


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Europa

Un'assemblea antimafia a Marsiglia “Banditismo pesante, ecco tutto”. Qua la parola “mafia” sembra ancora lontana. Tuttavia... di Marino Ficco “Ma c’è anche a Marsiglia la mafia?” chiede, preoccupato, uno studente del Liceo don Bosco di Marsiglia. Ci troviamo nel capoluogo della Provenza, da molto tempo d’attualità per i numerosi omicidi, regolamenti di conti e problemi di criminalità organizzata legati allo spaccio di droga. Siamo qui perché Valérie, professoressa d'italiano del liceo, vuole sensibilizzare i suoi allievi alle tematiche legate all’antimafia in Italia. Ha quindi invitato quattro membri di Libera France, l’antenna parigina dell’associazione Libera che dal 1995 si occupa di lotta alle mafie e promozione della legalità in Italia. Stando alla stampa francese, la risposta alla domanda del ragazzo sarebbe scontata: cinque omicidi per regolamenti di conti dall’1 gennaio ad oggi, i “quartieri nord” in preda agli spacciatori ed alle bande che si spartiscono territorio e poteri, insieme ad una politica locale sempre più debole parlano chiaro. Marsiglia è in una situazione pericolosa. Marsiglia è nelle mani della criminalità organizzata locale e straniera. Ma cosa rispondere al ragazzo? Ha usato proprio la parola mafia. Un tabù in Francia, salvo rare eccezioni Ne abbiamo parlato anche con una magistrato francese che conosce molto bene le dinamiche e la situazione della criminalità organizzata.

“Marsiglia non ha niente a che vedere con la mafia che si conosce in Italia”, sono le sue prime parole. Ci ha detto, poi, che nel caso della Francia “si può parlare di banditismo “pesante” e ben organizzato. La sola analogia che si possa fare con l’Italia è con la malavita napoletana”, ha poi continuato. Qui, infatti, uno Stato forte esiste, a differenza dell’Italia. “Il problema si risolverebbe con due azioni: rafforzando gli effettivi e le risorse delle forze dell’ordine e rilanciando l’economia di Marsiglia”. I tanti modi di non dire “mafia” Ma guai a pronunciare la parola mafia tout court in riferimento alla Francia. La versione ufficiale, che traspare dall’ultimo rapporto annuale del Sirasco (Service d’information de rensieginement et d’analuse stratégique sur la criminalité organisée), è che la mancanza di una gerarchia stratificata, sovversiva e segreta in questi fenomeni criminali francesi, contrariamente a camorra, ‘ndrangheta, mafia etc. sarebbe sufficiente per declassarli in “banditismo pesante”. L’unica eccezione riguarda la presenza delle mafie italiane, russe, albanesi, cinesi ed il caso della Corsica. A proposito della criminalità organizzata corsa, infatti, la quasi totalità degli inquirenti ed esperti si trova d’accordo: in questo caso si può parlare senza problemi di mafia tout court. Addirittura un magistrato ci ha consigliato di indagare sui numerosi locali, bar, ristoranti ed attività commerciali corse che punteggiano la città di Marsiglia. Ma, come è noto, il rapporto tra la Corsica e Parigi è alquanto complesso. Quindi bisogna procedere con attenzione. “Mentre lo Stato e le forze dell’ordine – nota un ragazzo - si dilettano in acrobazie linguistiche ed etimologiche per non parlare di mafia, la criminalità prolifera! Non sarebbe meglio fare qualcosa?”

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“Meglio fare qualcosa...” Fabrice Rizzoli, rappresentante di Flare France ed esperto della mafia italiana, sostiene che senza un associazionismo omogeneamente diffuso su tutto il territorio nazionale difficilmente si riuscirà a risolvere il problema. Effettivamente chiunque potrà constatare l’enorme numero di associazioni locali e di quartiere con sede nei degradati quartieri nord di Marsiglia. Tuttavia si tratta di tante piccole associazioni la cui portata, seppur importantissima e fondamentale, resta sempre a cortissimo raggio. E contro la criminalità transnazionale, l’associazionismo locale rischia di essere poco efficace. “L'unica a non pagare il pizzo” Un altro ragazzo ci ha raccontato con orgoglio che la madre, che gestisce un negozio in centro a Marsiglia, sarebbe la sola a non pagare il pizzo alla criminalità nel quartiere. Il pizzo a Marsiglia? Abbiamo fatto qualche domanda in alcuni negozi della zona Vieux Port e Opéra. Ma nessuno si è detto a conoscenza di racket in città. “Una trovata pubblicitaria della madre del ragazzo?”, mi suggerisce un commerciante scettico. Eppure non è un mistero che la brasserie David, un locale alla moda in posizione privilegiata sulla famosa Corniche, sia stata incendiata due volte. E gli inquirenti parlano di roghi dolosi. Un’altra donna, che preferisce restare anonima, ci ha confidato che molti locali ed attività commerciali del quartiere della Plaine sono vittime del racket, oppure i proprietari sono obbligati ad installare dello slot machine (vietate al di fuori dei casinò in Francia) da parte della criminalità organizzata. Venendo da Parigi, da sempre diffidente nei confronti della più antica città di Francia, ci aspettavamo di vedere una città degradata e pericolosa.


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Ci è sembrato giusto far luce anche su altre questioni e realtà che spesso la stampa tralascia o decide di omettere. È troppo facile scaricare tutti i problemi di Marsiglia sugli immigrati dei quartieri nord. Capitale del Mediterraneo

Al contrario, mai una situazione di pericolo, mai un momento in cui ci siamo sentiti insicuri. Ma allora la stampa si inventa tutto solo per fare notizia e vendere di più? E poi, perché le redazioni parigine non danno altrettanto spazio alla criminalità dell’Ile de France, addirittura più concentrata e ugualmente potente? Questo modo di fare giornalismo rischia di rivelarsi pericoloso poiché invece di spegnere un disagio aumenta la vergogna degli onesti cittadini del posto, con la conseguente chiusura in se stessi e l’isolamento di Marsiglia. Quello che si può osservare facilmente è la scelta politica di spaccare Marsiglia in due parti: da un lato la zona turistica, del centro storico, ad est della Canebière, sicura, tranquilla e dinamica capitale della cultura 2013; dall’altra parte la zona dei quartieri nord, da sempre il bastione della sinistra, dove si concentrano gli alloggi popolari, dove si annida la miseria, dove le associazioni di quartiere lamentano l’assenza dello stato? La sensazione è proprio questa. Quella di una sorta di ghettizzazione dei quartieri a nord ovest: quelli dal tredicesimo al sedicesimo arrondissement . Dove abita un terzo della popolazione. Non bisogna dimenticare che Marsiglia è il capoluogo della Provenza non solo nei quartieri centrali dove passeggiano i turisti e si vota UMP. Marsiglia si estende da l’Estaque ai calanchi.

L'incontro al liceo L’incontro nel liceo Bosco, un istituto professionale, è durato due ore e mezza circa. Una settantina di ragazzi e tre ragazze hanno ascoltato con la consueta attenzione delle assemblee di istituto quattro interventi molto diversi ma con un filo conduttore comune. Per rompere il ghiaccio, una presentazione emblematica del modus operandi della ‘ndrangheta tramite delle scene di documentari e reportage scelte e commentate da Fabrice. A seguire, Concetta ricordava brevemente la vita e le opere dei personaggi più importanti nella lotta alle mafie in Italia. Chiara analizzava e decrittava la scena del backstage di Gomorra che potremmo intitolare “l’angoscia di morire”. Infine i ragazzi erano esortati a passare all’azione attraverso la presentazione della realtà di Libera e dei campi estivi. Infatti dall’estate 2014 gli ormai famosi campi di Libera sono attrezzati per accogliere anche ragazzi e ragazze stranieri. Un’occasione unica per fare antimafia in maniera concreta attraverso il lavoro nei campi un tempo appartenenti ai mafiosi. Un modo efficace per mostrare come la lotta all’illegalità ed alle mafie non possa essere limitata all’Italia ma debba avere per protagonisti tutti in Europa. Abbiamo deciso di non andare a “La Croix-Rouge” in compagnia di polizia e del presidente della locale associazione di quartiere per scattare due foto, constatare il degrado e l’abbandono da parte dello Stato, avvicinare due ragazzi che spacciano e poi documentare con dovizia di particolari l’eroica fuga verso la civiltà scortati dai gendarmi mentre dei delinquenti spietati ci lanciano pietre addosso insultandoci. Fin troppi reportage, anche molto ben fatti, giacciono ignorati o strumentalizzati nel web e nella stampa.

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Sabato sera, al tramonto, ci godiamo il panorama, superbo, dalle pendici che ospitano la basilica di Notre Dame de la Garde. Qui si ha l’impressione di poter controllare tutta Marsiglia. Si vede il porto più antico di Francia, fondato 2600 anni fa in seguito al matrimonio tra un turco ed una ligure, Protis e Gyptis. Affianco svetta la Maison de la Méditerranée: ci ricorda che questo lato del Mediterraneo è ancora sinonimo di casa e di speranza per molti che sono nati dalla parte sbagliata del mondo e che spesso decidiamo di lasciar morire. Una volta che si viene qua sopra si capisce tutto e non si hanno più dubbi: Marsiglia può essere la capitale del Mediterraneo. La città che è nata ed è diventata una grande potenza grazie al suo crogiuolo di culture deve agire adesso per risolvere i suoi problemi. Può collassare o affrontare la realtà e trasformare i suoi problemi in risorse. “Riusciremo a vincere?” “Ma c’è anche a Marsiglia la mafia?” Senza il consenso e la connivenza della gente le mafie e la criminalità non sopravvivono. I marsigliesi hanno più che mai l’occasione e la necessità di prendere l’iniziativa per risvegliare le coscienze di un Paese e di un Continente. Per riaffermare il diritto ad una vita felice, sicura e libera. “Ma si riuscirà a vincere le mafie?” è l’ultima domanda che ci viene posta al liceo don Bosco. Il giudice Giovanni Falcone amava ripetere che “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”.


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Libera informazione

Da Radio dei poveri cristi a Radio Aut Danilo Dolci e Peppino Impastato: cosa ci insegnano, come può continuare la loro storia oggi? Uno dei protagonisti racconta

panorama desolato su cui volteggiavano i corvi del clientelismo, della mafia, della disoccupazione, della disperazione. Il messaggio , accuratamente preparato, faceva appello all’art. 21 della Costituzione italiana: “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ventisei ore di libertà

di Salvo Vitale Il 25 marzo del 1970, alle ore 19,30 chi si fosse sintonizzato sui 98,5 mhz della modulazione di frequenza e sulla lunghezza d’onda di m 20.10 delle onde corte, avrebbe potuto sentire uno strano messaggio: “ S.O.S…S.O.S…Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova resistenza. Qui si sta morendo…Siciliani, Italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto di enorme gravità, assurdo, si lascia spegnere un’intera popolazione…” L’appello durava circa 20 minuti ed era seguito da una serie di altri messaggi che denunciavano lo stato di abbandono e di sfascio della popolazione delle Valli del Belice, dello Jato e del Carboi, ovvero di quella zona della Sicilia occidentale dove, due anni prima, un terribile terremoto aveva causato circa cinquecento morti e distrutto interi paesi: baracche, freddo, situazioni igieniche assenti, fame, sete, un

L’esperienza durò 26 ore, dopo di che un centinaio di carabinieri, già stati preavvisati con lettera, della natura non violenta dell’iniziativa, “attrezzatissimi di potenti mezzi meccanici, in pochi minuti scassavano, con innegabile perizia, porte e cancelli, impadronendosi delle trasmittenti” (1). Nei locali di Palazzo Scalia, a Partinico, si erano asserragliati, con il trasmettitore, Franco Alasia e Pino Lombardo, due collaboratori di Danilo Dolci, con cento litri di benzina, che avrebbero dovuto servire a dissuadere chi avesse voluto penetrare con forza nei locali: in realtà si è poi saputo che non si trattava di aspiranti kamikaze, ma che il carburante serviva ad alimentare un generatore di corrente, in caso di interruzione dell’energia elettrica. I due redattori vennero arrestati, assieme a Danilo, processati e infine rilasciati per una sopravvenuta amnistia. Era nata “Radio Sicilia Libera”, la prima radio libera italiana, “la radio della gente che solitamente non ha voce, che non riesce a farsi sentire” (1) Dall’esperienza della “Radio dei poveri cristi” (1970) a quella di “Radio Aut” ( 1977) passano appena sette anni, all’interno dei quali matura e si configura una situazione completamente diversa e una trasformazione radicale nel campo delle radiocomunicazioni. Nel ’70 Danilo progettava “per evitare al massimo inciampi, di trasmettere su ac-

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que extra-territoriali su un’imbarcazione di bandiera non italiana”. Qualche altro tentativo, come quello di Radio Milano International venne effettuato e subito fermato con il sequestro delle attrezzature nel 1975 (10 marzo): il 26 aprile dello stesso anno il pretore di Milano, Cassala, definì legittima “l’attività di trasmissioni radiofoniche fino a quando non si determinano interferenze che possano nuocere o disturbare le emittenti di stato”. La totale “deregulation” consentiva, tra il ‘75 e il ‘77 una grande fioritura di emittenti private, in gran parte commerciali, in piccola parte legate al circuito delle “radio libere”, con forti caratterizzazioni politiche. Peppino e Danilo Peppino aveva sentito parlare di Danilo sin dai tempi in cui frequentava il Liceo Classico di Partinico. Le lotte per la diga sullo Jato, l’attenzione verso la vita e i problemi del mondo contadino, la denuncia delle collusioni politiche tra la mafia e Bernardo Mattarella, gli scioperi della fame, le scritte murali, ma soprattutto la grande capacità di Danilo di coinvolgere masse di gente e di intellettuali provenienti da ogni parte d’Europa, avevano affascinato il giovane studente. Nel ’67 egli aveva partecipato alla “Marcia della protesta e della pace” : il resoconto di quella storica iniziativa venne scritto da Peppino, in qualità di corrispondente, su un giornale locale “L’idea”, che lui stesso aveva contribuito a creare e costituì un forte momento di contatto tra una personalità politicamente matura, come Danilo, e un giovane di 20 anni, alle sue prime esperienze politiche.(2) Qualche mese dopo, durante il terremoto del gennaio ’68, Peppino fu tra i tanti volontari che raccoglievano abiti, cibo, merci, per portarle nei paesi terremotati:


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“La radio come strumento pedagogico per la formazione di coscienze politiche e come strumento di lotta”

frequentò anche alcuni seminari sulla ricostruzione della Valle del Belice organizzati a Borgo di Dio, la grande struttura creata da Danilo a Trappeto. Sul modo con cui Peppino visse le vicende della “Radio dei poveri cristi” non ho testimonianze, tuttavia stupiscono alcune impressionanti analogie sul modo di concepire la comunicazione come momento politico fondato su una precisa concezione dell’intervento. Il confronto è possibile sull’analisi di due documenti: un opuscolo dattiloscritto di sei pagine, scritto da Danilo tra il dicembre del ’69 e il marzo del ’70, con il titolo: “Radio libera: alcune considerazioni preliminari”, (3) e pochi appunti, scritti da Peppino, nell’estate del ‘77 dal titolo “Proposte d’intervento radiofonico”. (4) Non lasciar nulla all'improvvisazione La posizione di Danilo si sviluppa su alcuni punti fermi: 1) non lasciare nulla all’improvvisazione; 2) analisi della situazione 3) indicazione dei tempi: un’ora la mattina e un’ora la sera, con una parte culturale e una parte d’attualità; 4) organizzazione e rete di redattori e corrispondenti locali; 5) individuazione degli obiettivi: carattere educativo inteso come auto-educazione, autogestione culturale, processo democratico; 6) individuazione dei problemi: finanziario, tecnico, organizzativo, culturale, politico, giuridico; 7) favorire la“produzione di nuove strutture democratiche attraverso la denuncia e il superamento di quelle clientelari-mafiose attraverso una presenza costante penetrante. La struttura radiofonica è pertanto concepita come “espressione del malcontento sociale, come strumento di conoscenza

per determinare direzioni alternative di sviluppo e come strumento di coagulo”, considerate le carenze di vita associativa che caratterizzano la zona. La radio come strumento per realizzare il diritto-dovere all’informazione e alla libertà d’espressione e come espressione diretta della cultura popolare, come “comunicazione dal basso” che faccia sentire “le voci dei lavoratori, di chi più soffre ed è in pericolo”. Alla base del progetto una semplice premessa : “Il mondo non può svilupparsi in vera pace finché una parte degli uomini è costretta alla disperazione”. Nelle sue “Proposte” Peppino Impastato manifesta singolari analogie con il documento di Danilo, che egli non conosceva: uguale la concezione della radio come momento di formazione e di aggregazione di un gruppo di lavoro, come strumento d’informazione alternativa rispetto all’informazione di regime e come espressione dei drammi e dei problemi esistenziali delle classi sociali subalterne, uguale la concezione dell’intervento radiofonico come strumento pedagogico per la formazione di coscienze politiche e come strumento di lotta. Molte affinità presentano anche l’individuazione delle fasce orarie e delle organizzazioni sociali con cui confrontarsi: Abbiamo una uguale concezione della radio come strumento di comunicazione diretta dei bisogni e della cultura della gente: quelli che per Peppino sono gruppi di “organizzazione autonoma del sociale”, per Danilo sono “persone, tavole rotonde, gruppi come consorzi, cooperative, sindacati e così via”: termini diversi per indicare gli stessi soggetti.

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“Fare esprimere tutti direttamente” - Scrive Danilo: “Occorre uno strumento di comunicazione che arrivi a ciascuno facendo esprimere alla popolazione direttamente , esattamente il contrario di quanto avviene oggi, la sua più autentica cultura e i suoi bisogni…uno strumento che sia occasione non solo di conoscenza, ma, sia pure nel modo più aperto, di nuova organizzazione; sia martellante pressione sugli organi male e non funzionanti degli enti pubblici, dello stato, delle vecchie strutture in genere; scelga e si esprima dunque in modo rivoluzionario”. - Scrive Peppino: “Solo a partire da una premessa politico-culturale nel territorio, che sia al tempo stesso proposta di mobilitazione e organizzazione autonoma del sociale (comitati di disoccupati, organismi di lotta dei precari, collettivi femministi, circoli e cooperative culturali ed economiche, associazioni sportive ecc.) si può pretendere di costituire un rapporto dialettico tra la struttura radiofonica e l’ambiente” - Danilo; “non c’è dubbio che sia determinante allo sviluppo di una nuova società democratica l’infrangere il monopolio dell’informazione e dell’espressione, in mano alle vecchie strutture del potere”. “Il primo livello è l'informazione” - Secondo Peppino “esiste un primo livello, quello dell’informazione e controinformazione, che si presenta immediatamente come momento di rifiuto e di ridimensionamento dell’informazione di regime e del monopolio dell’industria del consenso (Rai, TV, stampa e mass media in genere)”; - Danilo: “agendo in modo concentrato e massiccio da alcuni punti strategici di zone omogenee attraverso l’azione di centri-pilota dal rompere la crosta in un punto nevralgico, sarebbe derivata una notevole facilità nel determinare screpolature in tutta la superficie interessata.


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“Il secondo è l'intervento politico” Peppino: “un secondo livello è quello dell’intervento politico. La radio diventa strumento diretto, come il volantino, il videotape o il megafono. dell’iniziativa di lotta e del progetto politico complessivo di una struttura di base “dislocata socialmente e territorialmente”. E’ questo il livello dell’agitazione politica vera e propria, dell’istigazione alla rivolta e all’organizzazione autonoma delle proprie lotte…” - Danilo “una precisa conquista in questo senso non ha solo un significato locale e riesce a produrre reazioni a catena, non solo in quanto riesce a produrre qualità attraverso il lavoro: una propulsiva reazione a catena può venire dal diffondersi della valorizzazione stessa dello strumento. - Peppino “il tutto è da intendere evolutivamente in direzione del terzo livello, quello degli spazi autogestiti. E’ il livello in cui la realtà sociale si appropria dello strumento radiofonico e lo usa direttamente per allargare e difendere le “macchie liberate” e come mezzo di coordinamento delle lotte e delle iniziative di massa”; “Le radio di liberazione” - Danilo “l’esperienza ci dice come e quanto la popolazione ascolti la radio, soprattutto le notizie locali, pur sapendo da che parte vengano e che non ce ne si può fidare: tanto più e meglio ascolterebbe la propria voce, la voce che la esprime e la libera. Chi di noi ha avuto esperienza diretta delle radio di liberazione sa cosa esse rappresentano”

- Peppino “la notizia discende direttamente dal sociale e va riproposta, in maniera amplificata, al sociale stesso, senza filtri e interventi manipolatori…Tutto questo presuppone un uso molto ampio di registrazioni dal vivo e di notevole disponibilità della presenza politica.” - Danilo “il carattere complessivo delle trasmissioni deve essere educativo sulla base delle esperienze locali (secondo un’educazione concepita come autoeducazione, autogestione culturale, processo democratico)” - Peppino: : “questi spazi si inseriscono a pieno titolo nel processo di crescita di un movimento di opinione democratico e di opposizione” “Premere con la non-violenza” - Danilo: “Premere non-violentemente, scioperando attivamente e passivamente, non collaborando a quanto si stima dannoso, protestando e operando pubblicamente in forme diverse che possono venir suggerite dalle circostanze, dalla propria coscienza e dalla necessità: valendosi delle leggi buone quando esistono e contribuendo a realizzarne di nuove quando sono insufficienti, ma premere con forza serena finché non vincono il buon senso e il senso di responsabilità” (5) – Peppino: “Per quel che riguarda la selezione della notizia, il criterio di priorità viene indicato dalla collocazione che una radio si è data all’interno della dinamica dello scontro politico e di classe e delle esigenze del sociale ad emergere autonomamente. Centrale è la creazione di un forte movimento di opinione non scissa dalla crescita di ogni movimento di contropotere”.

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La formazione e la rivoluzione Queste due ultime note tuttavia evidenziano la differenza tra le due formazioni politiche e culturali di Danilo e Peppino e il diverso rapporto con lo strumento della comunicazione che si è sviluppato nei sei anni che dividono l’esperienza delle due radio: in Danilo c’è la costante ricerca di strumenti di formazione popolare per la costruzione progressiva di un mondo diverso fondato sui principi della non violenza e della conquista lineare della democrazia, in Peppino c’è l’urgenza di costruire questo mondo nuovo attraverso la frattura traumatica della lotta di classe e della rivoluzione come momento catartico di eliminazione delle ingiustizie. Comune invece l’esigenza di conquistare la libertà d’informazione come strumento per la conquista della democrazia e quindi l’uso del mezzo informativo come strumento di formazione politica oltre che di denuncia di tutte le distorsioni e le malversazioni del potere. Messaggio attualissimo.(6) Note: 1) Danilo Dolci: “Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi” Bari Laterza 1970 – premessa 2) Salvo Vitale: “Nel cuore dei coralli” Rubbettino 1995 pag.78 3) Danilo Dolci: ”La radio dei poveri cristi” a cura di Salvo Vitale e Guido Orlando, edizioni Navarra Palermo 2008 4) Salvo Vitale: “Peppino Impastato, una vita contro la mafia” Rubbettino, 2008 pagg.147/152 5) Danilo Dolci: “Esperienze e riflessioni” Laterza 1974 pag. 204 6) Questo articolo, a parte alcune integrazioni, è stato pubblicato in: “Peppino Impastato e i suoi compagni: Radio Aut – materiali di un’esperienza di controinformazione” Edizioni Alegre Roma 2008 pagg. 37-42


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Documentari

I morti dimenticati di Alcamo Marina Inter vista al regista Ivan Vadori di Giuseppe Cugnata www.generazionezero.org Salvo: “Adesso vediamo cosa prevede il programma: distribuzione gratuita di ricotta in ciotole.” Peppino: “Tutti a pigghiari a ricotta! Tutti a pigghiari a ricotta! A mia! A mia!” Salvo: “Fermi, fermi: i primi ad essere serviti devono essere i componenti del consiglio comunale.” Peppino: “A ricotta p'u Sinnicu, pigghia a ricotta p'u Sinnicu!” Salvo: “Don Tano! Don Tano! Vinissi ccà, a ricotta ppi Don Tano.” Peppino: “Qua sono, fatemi posto. Grazie, grazie.” Salvo: “L'amministrazione comunale è stata servita, e ca cci vinissi a tutti un gran cacaruni! Eccoli che scappano! Corrono, corrono! Cos'è successo?” Peppino: “Oè, si ni stannu iennu a cacari tutti rarrieri u spitalettu. A carta igienica, a carta igienica p'u sinnicu!” Salvo: “Don Tano, chi ci sta viniennu u cacaruni puri a vossia?” Peppino: “Stai attento a comu parri, pirchì Don Tanu nun caca e se caca, caca duru.” Bastano poche battute e la platea esplode in una risata generale. A pronunciarle è Salvo Vitale, uno degli amici e collaboratori più intimi di Peppino Impastato, riferendosi alla trasmissione radiofonica “Onda Pazza”, attraverso la quale Peppino e gli altri autori della celebre “Radio Aut” facevano satira nei confronti dei politici e dei mafiosi dell’epoca. Salvo Vitale è uno dei dieci interlocutori, protagonisti del film-documentario “La Voce di Impastato”, del giornalista e regista friulano Ivan Vadori, che dopo Milano, Parigi e Agrigento ha fatto tappa anche a Ragusa, all'auditorium del Liceo Fermi. Durante la proiezione del film, cogliamo l'occasione per avvicinare il regista.

Usciamo dall'auditorium e, sebbene la porta si trovi a pochi metri dal grande schermo, in pochi notano la nostra mancanza, tanta è l'attenzione rivolta al film. Fuori dall'auditorium l'aria è meno pesante, saliamo le scale e troviamo posto a pochi metri dall'ingresso del Liceo, nell'androne centrale. Le parole rimbombano e dalle segreterie vicine fuoriescono tipici rumori d’ufficio. Devo tenere il registratore vicinissimo al mio interlocutore. “Nel 2012 mi stavo laureando in scienze multimediali e ho pensato di fare la tesi attraverso uno dei new media, che è rappresentato dalla radio. Radio, Radio Aut, Peppino Impastato: un'amicizia mi stringe alla famiglia Impastato dal 2006. Inizio le ricerche e vengo a scoprire che tutto l’archivio di Peppino Impastato (nel mio documentario il giornalista Salvo Palazzolo di Repubblica parlerà di dieci sacchi di materiale e documenti) è scomparso la notte tra l'8 e il 9 Maggio '78. Durante la ricerca mi imbatto in una cosa nuova: Alcamo Marina, 1976, erano morti due carabinieri ed erano stati arrestati quattro ragazzi innocenti. Uno dei quattro, Giuseppe Vesco, si suicida. Nel 2012 finalmente arriva la sentenza di scarcerazione e di innocenza su Giuseppe Gullotta, che stava scontando l’ergastolo. Peppino Impastato aveva capito che dietro la morte dei due carabinieri e dietro l’arresto fin troppo repentino dei quattro ragazzi c’era qualcosa di non corretto, per questo aveva raccolto del materiale dentro ad una cartellina, con su scritto: Strage di Alcamo Marina. Quella cartellina, come l'agenda rossa di Paolo Borsellino, non c'è più. Forse, se avessimo ritrovato quella cartellina, il signor Giuseppe Gullotta e gli altri tre ragazzi non avrebbero scontato tutti questi anni di carcere.” Si parla di processi, quindi non posso astenermi dal chiedere un parere sul caso Impastato. Vadori sottolinea che “il processo Impastato è durato 23 anni. La maggior parte delle persone che hanno cercato

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la verità sono state uccise (Chinnici, Falcone), mentre la totalità delle persone che hanno depistato (Antonio Subranni, diventato generale dei ROS), hanno fatto carriera. Forse Peppino Impastato aveva toccato degli interessi che non erano soltanto quelli di Tano Badalamenti, forse aveva toccato degli interessi che vanno oltre: parliamo di istituzioni, di forze dell'ordine deviate. Sicuramente in quei dieci sacchi di materiale, c’era qualcosa di ancora più interessante. Non penso che si sia detto tutto di Peppino Impastato e il mio documentario in parte lo dimostra”. Che ne pensa Vadori del giornalismo in Italia? “Purtroppo viviamo in un Paese che per libertà di stampa è messo abbastanza male, siamo al pari di Paesi sottosviluppati, come Israele, Benin. Dico che il giornalismo, soprattutto quello di inchiesta, non è un lavoro per tutti, ma è una passione che va oltre. Il problema è che i grandi editori sono ammanicati con i poteri forti. La mia speranza sono esclusivamente le nuove generazioni”. Suona la campanella e il discorso viene interrotto. Dopo qualche istante, però, torna la quiete e Vadori può riprendere: “Io ho ritrovato la speranza con le nuove generazioni. Un ragazzino di Bagheria mi scrive su Facebook: 'grazie a questo film mi hai dato la speranza'. Ecco, le parole di quel ragazzino, mi fanno credere che questo Paese possa cambiare e quando cambierà questo Paese cambierà anche il giornalismo.”


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Contro le antenne della guerra

La forza della nonviolenza

Continua la lotta degli abitanti di Niscemi, sostenuti da pacifisti di tutt'Italia, contro il MUOStro ormai incombente di Danila Sammito www.ilclandestino.it

foto di Maurizio Parisi Turi Vaccaro osserva il digiuno e medita. Dal 21 marzo. Beve acqua e, di tanto in tanto, si concede qualche frutto. Adesso si trova a Comiso, ospite del Reverendo Gyosho Morishita, nella Pagoda della Pace, e si è unito al digiuno che il Reverendo osserva durante i primi tre giorni di ogni mese. Il pacifista, che in una fredda e piovosa giornata di aprile dello scorso anno si era arrampicato su una delle quartasei antenne Nrtf, continua la

sua battaglia nonviolenta contro il Muos, strumento di guerra, e contro lo stesso sistema Nrtf, che dal 1991 trasmette ordini alle unità militari della Marina statunitense, bombardando il territorio con le sue potentissime emissioni elettromagnetiche. A lui si sono uniti Antonella Amato, Antonella Santarelli, Salvatore Giordano, e molti altri pacifisti. che nelle ragioni della pace e del disarmo hanno trovato spazi di condivisione. Con una lettera inviata a Salvatore Giordano ha aderito anche il pacifista torinese Enrico Peyretti. Il digiuno di protesta Per loro, il digiuno non è un'arma di ricatto politico. E chiariscono che tra i tanti livelli di azione e dissenso contro il Muos, questo è uno strumento in più, che serve a richiamare l'attenzione sulla gravità e sull'importanza della questione. Il Coordinamento dei Comitati NoMuos annuncia che il digiuno proseguirà fino al 25 aprile, giorno della Liberazione, quando il presidio permanente di contrada Ulmo a Niscemi, ove saranno presenti numerosi attivisti attesi da ogni parte d'Italia e dall'estero, e l'Arena di Verona saranno idealmente collegate nell'iniziativa “Arena di pace e disarmo”. Intanto, l'attesissima sentenza del 27 marzo al Tar di Palermo ha inflitto ai NoMuos, e al popolo siciliano, una cocente

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delusione: la sentenza definitiva sui cinque ricorsi riguardanti il Muos è stata rinviata a novembre. Il Presidente del Tribunale D'Agostino si è riservato di acquisire lo studio dell'Istituto Superiore di Sanità – che, in realtà, era già stato prodotto dalle parti ed era, perciò, in possesso del Tribunale – e di chiedere al suo stesso consulente tecnico, il prof. D'Amore, di “confrontare le proprie conclusioni con quelle alle quali è giunto l'Istituto Superiore di Sanità”. Per i Comitati, e per il legali che seguono la vicenda, le motivazioni su cui si è basato il rinvio non sono affatto condivisibili e appaiono dettate dalla mera volontà di rimandare la decisione finale. “La consulenza del verificatore prof. D'Amore e lo studio dell'ISS non sono fra loro sovrapponibili: la prima riguarda la regolarità delle autorizzazioni rilasciate nel 2011,


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il secondo riguarda invece gli effetti delle onde elettromagnetiche sulla salute”. I gravissimi vizi rilevati dal prof. D'Amore, negli atti sui quali sono fondate le autorizzazioni, da lui definiti “di una superficialità imbarazzante”, erano già sufficienti a far pronunciare l'annullamento delle autorizzazioni e in nessun modo possono essere sanati dal parere dell'ISS, che è un atto estraneo al procedimento autorizzatorio, di parte, e dichiarato dallo stesso ISS “non utilizzabile a fini autorizzativi”. “A scopi sperimentali” Se si pensa che, a breve, il Muos potrebbe essere messo in funzione “a scopi sperimentali”, questo temporeggiare appare molto pericoloso. Ecco perchè i legali NoMuos si dichiarano pronti a depositare una nuova richiesta di sospensiva. Lo scorso ottobre, il Tar aveva accolto la loro richiesta cautelare ma senza sospendere gli atti impugnati, ritenendo l'esigenza cautelare sufficientemente tutelata dall'anticipazione, proprio al 27 marzo, della sentenza. L'avvocato Paola Ottaviano non ha dubbi: “Ora che la decisione è slittata chiederemo, in forza delle stesse esigenze cautelari già accertate, che le autorizzazioni siano sospese e con esse la messa in funzione del Muos, sia pure a fini sperimentali”.

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Appuntamenti/ Febbraio-marzo, Bologna 2014

Processo alla Nazione Giuseppe Fava trent'anni dopo Un omaggio collettivo e itinerante tra cinema, giornalismo, teatro, cultura

a cura di Nomadica, Caracò, I Siciliani giovani Con la collaborazione di: Fondazione Fava, Coordinamento Fava, Kinodromo, SpazioMenomale, MadreporaTeatro (Centro delle donne/ Associazione Orlando), SalaDoc, Cineteca di Bologna, Distribuzioni dal basso, Il Campanile dei Ragazzi, Dieci e Venticinque, Ass. Gli anni in tasca / Il cinema e i ragazzi, Presidio Studentesco e Universitario di Libera-Bologna Col patrocinio di: Comune di Bologna - Quartiere San Vitale; Media Partner: Radio Città del Capo, Libera Radio, Indaco

*** Durante gli ultimi anni di vita Giuseppe Fava giunge ad un'analisi lucida: la mafia è un potere multinazionale che siede nelle poltrone del parlamento. E' un potere che riguarda e tocca tutti noi sin da bambini, anche se non ce ne accorgiamo, e che fa di noi, in partenza, dei mafiosi. Solo attraverso una consapevolezza profonda del fenomeno come delle sue innumerevoli manifestazioni è possibile prendere coscienza di questo rapporto e cercare di superarlo. Fava parla di un'isola che è l'Italia, di un'Italia che è il mondo occidentale. Da questo il "Processo alla Nazione" – parafrasando il titolo del suo primo libro-inchiesta "Processo alla Sicilia" (1967) – ma fatto a colpi di cultura: di cinema, di televisione, di romanzi, di opere teatrali, di vero giornalismo; fatto con la convinzione che solo attraverso la dignità di questi mezzi è possibile costruire una società altrettanto degna. Un "processo", di cui conosciamo già la sentenza, diventa così l'omaggio stesso a Giuseppe Fava, 30 anni dopo il suo assassinio (Catania, 5 gennaio 1984). Questa manifestazione toccherà decine di spazi differenti della città di Bologna e verrà riproposta in altre città d'Italia.

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Giovedi 6 Febbraio, Sala Silentium, Vicolo Bolognetti h18.00 "Processo alla Nazione". Evento di presentazione. Con la presenza di: - Antonello De Oto, Presidente della commissione legalità del Quartiere San Vitale; - Elena Fava, presidente Fondazione Fava; - Ester Castano, giornalista e Premio Fava Giovani 2014; Con le associazioni organizzatrici dell'omaggio bolognese

Lunedì 10 Febbraio, KINODROMO – h20.00 Giuseppe Fava, un uomo. Incontro con: - Massimiliano Perna, giornalista e scrittore; - Elena Fava, presidente Fondazione Fava; - Maurizio Chierici, giornalista, Premio Fava 2014 Nel corso dell'incontro verrà presentato il libro-inchiesta "I siciliani" (1978, ried. 2014). Proiezione di: "Da Villaba a Palermo. Cronache di mafia" (regia Vittorio Sindoni, di e con Giuseppe Fava, 1980, 55') Venerdì 14 febbraio, SALA DOC – h18.45 Il viaggio legale. Dall'Emilia alla Romagna. Presentazione del libro "Non diamoci pace" di Alessandro Gallo e Giulia Di Girolamo (ed. Caracò, 2014) Incontro con: - Stefania Pellegrini, docente Sociologia del Diritto e mafie e Antimafia, Università di Bologna; Proiezione di: "Romagna Nostra: le mafie sbarcano in riviera", un documentario realizzato dal G.A.P. (Gruppo Antimafia Pio La Torre), Ita, 2013, 50' (anteprima bolognese con la presenza degli autori) Mercoledì 19 febbraio, Facoltà di Giurisprudenza, ore 18.00 Giornalismo e mafie in Emilia-Romagna. Incontro con: - Gaetano Alessi, giornalista, Premio Fava Giovani 2011; - Lucia Musti, magistrato; - Federico Lacche, giornalista Radio Città del Capo; Proiezione di: “Senza regole: l’avanzata criminale, economica e culturale delle mafie nell'Emilia-Romagna che resiste” un documentario-inchiesta di Giovanni Tizian, Federico Lacche, Laura Galesi (Ita, 2013, 50') Mercoledì 26 febbraio, SalaNomadica|SpazioMenomale h21.45 Giuseppe Fava, l'intertestualità tra scrittura e cinema. Reading di articoli tratti dal libro-inchiesta "I Siciliani". Legge Marinella Manicardi, attrice e regista Proiezione di: dalla serie "Siciliani": "Opere Buffe" e "La rivoluzione mancata" (regia Vittorio Sindoni, da e con Giuseppe Fava, 1980, durata complessiva 60') Sabato 1 marzo, Il campanile dei ragazzi - Magazzino di Socialità e Cultura, Pioppe di Salvaro (Grizzana Morandi) – h16 La nostra storia, la loro storia: Giuseppe Fava. Incontro con: - Valeria Grimaldi, Diecieventicinque, I Siciliani giovani; - con un intervento di Nomadica; Proiezione di:- "Violenza e Mafia, i giovani e la scuola contro", intervento di Giuseppe Fava a Palazzolo Acreide (20 dicembre 1983, 30')

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Mercoledì 12 marzo, Scuole superiori (nelle assemblee) Giuseppe Fava e i giovani. In diverse scuole di Bologna e provincia, in contemporanea, verranno presentati e proiettati due film tratti dalla serie "Siciliani", realizzati da Giuseppe Fava nel 1980. Giovedì 13 marzo, Biblioteca delle donne – h18.00 "Mi dovete fare parlare!", un grido contro la mafia. Presentazione del libro "L'osso di Dio" (Flaccovio Editore) di Cristina Zagaria Incontro con: - Giancarla Codrignani, - Cristina Zagaria, scrittrice a seguire reading di alcuni estratti dal libro a cura di Miriam Capuano e Alessandro Gallo; Proiezione di: La madre nelle opere di Giuseppe Fava, con estratti dai film: "Da Villalba a Palermo" (interpretata da Ida Di Benedetto), "La Violenza" (interpretata da Mariangela Melato), "Anonimo Siciliano" (interpretata da Mariella Lo Giudice). Venerdì 14 Marzo, Cineteca di Bologna – h20.30 Prima che vi uccidano. Giuseppe Fava, idea di un'isola. Incontro e presentazione con: Riccardo Orioles, I Siciliani; Claudio Fava, vice presidente Commissione parlamentare antimafia; Salvo Ognibene, giornalista I Siciliani giovani; Alessandro Gallo, autore teatrale e scrittore, Caracò editore ; Giuseppe Spina, cineasta e direttore di Nomadica; Proiezione di: Palermo oder Wolfsburg regia: Werner Schroeter sceneggiatura: Giuseppe Fava, Werner Schroeter, O. Torrisi, K. Dethloff origine: RFT/Svizzera 1980 durata: 175' Con Ida Di Benedetto, Antonio Orlando, Nicola Zarbo, Brigitte Tolg, Gisela Hahn 21 Marzo, Sala Silentium, Vicolo Bolognetti – h17 / 20

YoungLegalità (Giornata della legalità in ricordo delle vittime della mafia, nell’ambito del Festival Youngabout) Proiezione di: dalla serie "Siciliani": "La rivoluzione mancata" (regia Vittorio Sindoni, da e con Giuseppe Fava, 1980, 30') Presenta Giuseppe Spina, direttore di Nomadica Ven 21 Marzo, Vag61, Distribuzioni dal basso – h21.00 Anime morte Incontro e presentazione con: Giuseppe Spina, direttore di Nomadica Proiezione di: dalla serie "Siciliani": "Da Villaba a Palermo. Cronache di mafia" (1980, 50’) “Opere Buffe” (1980, 30’) “L’occasione mancata” (1980, 30’) Mercoledì 26marzo – SalaNomadica|SpazioMenomale – h21.45 La Repubblica Criminale Incontro con : - Arnaldo Capezzuto, giornalista (La Domenica Settimanale, I Siciliani giovani); - Milena Cozzolino, attrice; - Alessandro Gallo, autore teatrale e scrittore, Caracò editore; - Maria Cristina Sarò, regista teatrale; Spettacolo teatrale: "Di carne" di e con Alessandro Gallo, con la partecipazione di Miriam Capuano; regia Maria Cristina Sarò Info: info@processoallanazione.it Serena Viola _ ufficiostampa@processoallanazione.it www.processoallanazione.it https://twitter.com/ProcessoNazione https://www.facebook.com/pages/Processo-allaNazione/499433930175889?ref=hl

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IL FILO

Mafia e antimafia in tempo d'elezioni di Giuseppe Fava

Cosa c'è al centro di tutto, cosa determina gli equilibri di potere più profondi? Che cosa divora il Sud e insanguina la Nazione? Qual'è la battaglia politica da cui tutto il resto dipende? Che cosa bisogna chiedere prima di tutto ai politici e (quando ancora c'erano) ai partiti? ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Per molti anni il cuore politico del Sud non ha avuto palpiti, ribellioni, sussulti. Inerte, la gente ha capito che non valeva più battersi per gli immensi problemi collettivi. Era inutile, spesso pericoloso, sempre ridicolo. Per campare si potevano soltanto scegliere gli uomini di potere o le correnti di partito che ti davano maggiore garanzia di efficienza, non era una lotta ideale di moltitudini, ma una oscura, spesso miserabile sottomissione di individui, ognuno per risolvere il suo problema. Dipende anche da questo la glorificazione di tanti imbecilli, disponibili tuttavia alle infinite, piccole corruzioni personali. E nemmeno la mafia è un caso: nasce dalla convinzione che almeno il mafioso può risolvere il tuo problema umano e tanto vale essergli amico, o almeno non essere contro di lui. Da questo punto di vista l’appiattimento del voto su posizioni che da decenni sembrano indeformabili, non significa certo coerenza politica ma letargo dell’anima popolare nel Sud. Questa anima popolare del Sud formata da milioni di individui, ognuno dei quali, lapidariamente, si fa i cazzi suoi! Per chi detiene il potere, questa è la condizione politica privilegiata. L'assenza politica dello Stato E tuttavia stavolta potrebbe essere diverso! Non che questa anima, improvvisamente acquisti coscienza del suo compito storico, e si levi intrepida e romantica, a rivendicare il ruolo del Sud nella evoluzione della nazione, né che possano verificarsi sconvolgimenti elettorali tali da influenzare il futuro dei governi nazionali o regionali, ma almeno i partiti stavolta non potranno più mentire su alcuni problemi di tragica attualità. Che sono problemi siciliani ma stanno anche nella pelle di tutti gli italiani. I seguenti: l’assenza politica dello Stato provoca lo scoramento dei cittadini; lo scoramento la vigliaccheria collettiva; dalla vigliaccheria germina fatale la mafia. Questo è un teorema!

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Nella massoneria, nelle banche... La mafia! Essa è dovunque oramai. Ha divorato le energie produttive del Meridione, sta insanguinando tutta la nazione. La mafia è nelle pubbliche amministrazioni, nella massoneria, nelle banche, nella giustizia, negli enti locali, nei parlamenti. La mafia controlla l’amministrazione di intere province, decide quale opera pubblica s’abbia da fare e da chi debba essere fatta, e quanti miliardi debba costare. La mafia controlla i mercati, le iniziative economiche, i commerci. La mafia governa centinaia di migliaia di miliardi per lo smercio della droga nel mondo. La mafia è padrona di Palermo e incalza su Catania e la Sicilia orientale. La mafia ha ucciso tutti i migliori siciliani: Terranova, Costa, Basile, Russo, Giuliano, Mattarella, La Torre che hanno osato opporsi in nome dello Stato. Esiste una legge antimafia che certo non ci sarebbe se Pio La Torre non avesse pagato con la vita la colpa di averla proposta, e il generale Dalla Chiesa non si fosse fatto uccidere per averla voluta applicare prima ancora che fosse approvata. È' una legge micidiale contro la mafia perché, attraverso le indagini nelle banche, consente veramente di ferire il cuore oscuro della mafia. Appunto per questo è micidiale: soprattutto per coloro che passano per galantuomini, o capipopolo, e hanno sotterrato nelle banche il marchio della loro mafiosità. Ogni partito deve prendere posizione Ogni partito deve assumere posizione: cioé deve spiegare attraverso quali costanti azioni, nel parlamento, nella giustizia, e in qualsiasi altro luogo di dibattito pubblico, intende pretendere e garantire l’esercizio della legge antimafia. I Siciliani, giiugno 1983


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Gaetano Alessi, Lorenzo Baldo, Antonella Beccaria, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Giorgio Bongiovanni, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Alessio Di Florio, Tito Gandini, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Valeria Grimaldi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Massimi- liano Nicosia, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Mattia Maestri, Michela Mancini, Sara Manisera, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Loris Mazzetti, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Maurizio Parisi, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Antonio Roccuzzo, Alessandro Romeo, Vincenzo Rosa, Roberto Rossi, Luca Rossomando, Francesco Ruta, Giorgio Ruta, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Adriana Varriale, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Revisione testi: Sabina Longhitano ignazia@mail.com Web editing: Salvo Ognibene salvatoreognibene@hotmail.it Ebook editing: Carmelo Catania carmelo.catania@gmail.com Coordinamento: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles riccardo@isiciliani.it Progetto grafico di Luca Salici

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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.

Lo spirito di un giornale "Un giornalismo fatto di veritĂ impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalitĂ , accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo". Giuseppe Fava

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Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

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Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

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1983-2013 Trent’anni di libertà

“Un giornalismo fatto di verità

impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo” Giuseppe Fava

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“I Siciliani giovani” sono una rete di testate di base, da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Bologna a Napoli. Il racconto quotidiano di un paese giovane, fatto da giovani, vissuto. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.


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