I Siciliani - dicembre 2014

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I Siciliani giovani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”

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Sparano, ammazzano, fanno pogrom, ma soprattutto fanno politica

dicembre 2014 n.23

Bal

Roma come Reggio Calabria, Reggio come la Roma del ‘22

NON E’ PIU’ DELINQUENZA, E’ REGIME

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ALLARMI SIAM MAFIOSI! MA CHI SONO, A ROMA, I NUOVI LIMA E CIANCIMINO? Roccuzzo/ Cronache italiane Mazzetti/ Raipubblica italiana De Gennaro/ Alla luce del sole Mineo silenzi e affari Vitale/ Quanto sei stronzo caro mafioso Cillerai/ Quei business “antimafia” Capezzuto/ Fra 007 e Casalesi Appari-Di Girolamo, Giacalone/ Gli amici di Messina Denaro Baruzzo/ Mexico, no te riendas Periferie Vermigli, Domina, Bruno Mazzeo/ La nuova Nato Ficco,Portelli/Bambini migranti Baldo/General Punciutu Porcaro/ Medico a Castelvolturno Zavoli, Ferrara: Storie dal nostro mestiere Jack Daniel Vita/ Orwell & Bitcoin Abbagnato Castano Stimolo E.Camilleri Pitroso Trovato Grimaldi Maestri De Astris Catania Di Florio G.CARUSO Biblioteca popolare G.B.Scidà: i libri, l’antimafia sociale e i ragazzi del quartiere

Nassis/ Tre mesi dopo l’apocalisse sfiorata

Caselli/ Dalla Chiesa/ Supplente, Mafia 5 gennaio Ricordiamo pensaci tu Capitale Pippo Fava lavorando


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facciamo rete http://www..it/

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Dove stanno i mafiosi

“I mafiosi stanno in Parlamento, sono a volte ministri, sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione...". *** Non abbiamo molto da aggiungere a queste parole. Cerchiamo semplicemente di agire conseguentemente ad esse. Senza urlare, senza carriere politiche, cercando semplicemente di costruire alla base - fra le persone comuni, quelle che non urlano e non fanno carriera – un'alternativa a questo stato. Abbiamo infinita pazienza, sappiamo che il tempo è lungo e che tuttavia alle volte bisogna agire come se fosse molto breve. *** La mafia non è più corruzione, non è più un rapporto occasionale: fa parte profondamente dello stato di cose, in basso è una via di sfogo, in alto è un modello per tutti. Per essere veramente mafiosi, se si è importanti, non c'è alcun bisogno di essere formalmente mafiosi: non era fascista padre Gemelli (leggi razziali), né il senatore Agnelli (fabbriche imbavagliate), né la stragrande maggioranza dell'establishment degli Anni Trenta. Non è mafioso Veltroni, non lo è Marchionne, non lo è Renzi o Salvini, non lo è Beppe Grillo. Il loro Paese, il loro establishment, tuttavia è profondamente mafioso. *** “Non si può chiedere a tutti di essere un lupo solitario...”. Neanche qui abbiamo molto da aggiungere. Chi vuol lottare lotti, sapendo che non è entusiasmo momentaneo e che non ci sono ricompense. Ciascuno, sotto un regime, alla fine è solo con se stesso, non ha altri capi nè altri maestri. O sente intollerabile ciò che stiamo vivendo, o vi si può adeguare: spiegarlo a parole è difficile, in ambo i casi. *** Così, in questa fine d'annata, abbiamo ben poco da dire. “Che l'anno nuovo – auguriamo agli amici - per te sia bello, utile, e difficoltoso”. Oppure (aggiungiamo in silenzio) che almeno ti sia smemorato, che tu riesca in fretta a dimenticare il più possibile, a vivere “normale”. I Siciliani giovani (r.o.)

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I Sicilianigiovani dicembre 2014 numero ventitrè RIEPILOGANDO L'assemblea dei Siciliani giovani a Catania - il 5 gennaio, come sempre - quest'anno ha un'importanza particolare perché, mentre la situazione generale incancrenisce, le nostre capacità di reazione diminuiscono. Questo riguarda l'antimafia in genere ma noi dei Siciliani giovani in particolare, che ne ne siamo una parte piccola ma vitale. Il ruolo sempre più “politico” dei poteri mafiosi per noi - che deriviamo da Pippo Fava non è certo una novità. Questa consapevolezza però non è mai stata fine a se stessa: per noi ha sempre comportato un impegno a combattere questo potere, non solo sul piano giornalistico e investigativo ma anche e soprattutto su quello “politico”: che per noi si traduce direttamente in “fare rete”. Ecco: la nostra piccola rete in questo momento è in crisi. Non per debolezza o egoismo, ma perché oggettivamente i compiti si fanno sempre più duri. L'asticella si alza, e noi che siamo tutti precari, coi quotidiani problemi degli italiani comuni - abbiamo difficoltà a starle dietro. Speso viviamo, individualmente, questa situazione in maniera sbagliata, con sensi di inadeguatezza o con disilluso “realismo”, che di solito sono le due facce della stessa cosa. Noi rilanciamo, invece. Abbiamo sempre fiducia in tutti i componenti della nostra buffa armata Brancaleone, continuiamo a ritenerci all'altezza. Quindi, non lamentele ma nuovi obiettivi: nel corso del 2015 alzeremo il tiro con una serie di libri, con dei seminari specifici, di formazione, con delle assemblee operative per stringere e allargare le reti locali. E, ovviamente, col giornale. Questo non cambia il mondo, naturalmente: ma contribuisce a cambiarlo. E questo è quanto.

Questo numero Dove stanno i mafiosi I Siciliani “Supplente, faccia lei!” di Gian Carlo Caselli Mafia Capitale di Nando dalla Chiesa Per una Raipubblica fondata sul lavoro / di Loris Mazzetti Cronache italiane/ di Antonio Roccuzzo Cinque gennaio “Ricordiamo Pippo Fava lavorando” Paese Mafia capitana/ Da potere a regime/ di Riccardo Orioles Qualcuno l'aveva detto prima Complice l'opposizione/ di Riccardo De Gennaro Mineo: silenzi e affari/ di Rete antirazzista catanese Altri Sud Mexico, no te riendas/ di Giulia Baruzzo Libertà di stampa Storie dal nostro mestiere/ di Sergio Zavoli e Norma Ferrara Sicilie Camaro batte Tor Sapienza/ di Domenico Stimolo Bravo Signor Sindaco!/ di Luciano Bruno “Ma quanto sei stronzo, caro mafioso”/ di Salvo Vitale Modica: Pasta Amara/ di Piero Paolino Poteri Business “antimafia”/ di Monica Cillerai Il golpe che non ci fu/ di Aaron Pettinari Fra 007 e Casalesi/ di Arnaldo Capezzuto Venti di guerra La nuova Nato flessibile e globale/ di Antonio Mazzeo Militari somali in Italia/ di A.M. Netanyahu: anti-palestinese e antiiisraeliano Periferie Brasile/ Il bambino e la favela/ di Antonio Vermigli Sicilia/ Coca: chi ci campa e chi ci muore/ di Toti Domina Sicilia/ Un teatro mancato/ di Luciano Bruno Ambiente Milazzo tre mesi dopo / Olga Nassis, R.O. Meno bonifiche più malattie/ di Carmelo Catania Sblocca Italia/ Trivelle dappertutto di Alessio Di Florio

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SOMMARIO

DISEGNI DI MAURO BIANI

Accoglienze Augusta: il limbo dei ragazzini/ di Marino Ficco 44 Migrazione e neocolonialismo/ di Stefano Portelli 47 Italie I volti dell’assessore / di Simone Olivelli 50 Una casa contro la crisi dei diritti/ di Giulio Pitroso 51 Un medico a Castelvolturno/ di Salvatore Porcaro 52 Un viaggio ad Africo/ di Claudia Procentese 55 Fotoreportage Gapa La storia continua/ a cura di Giovanni Caruso 57 Islamici a Catania/ di Mara Trovato 67 Mafie Riti di ‘ndrangheta in Lombardia/ di Ester Castano 68 Caso Manca: e ora l’attacco a Ingroia/ di Lorenzo Baldo 70 Borsellino e il generale “punciutu”/ di Lorenzo Baldo 71 Servizi e boss a Capaci/ di Miriam Cuccu 72 L’Italia nascosta che ammazzò Spampinato/di Andrea Gentile 73 Messina Denaro Il cerchio magico del boss/ di Appari e Di Girolamo 74 Qui regna ancora/ di Rino Giacalone 76 Antimafia Vedo sento parlo/di Mattia Maestri 79 Europol/ di Monica De Astis 80 Donne Sugar Queen/ di Valeria Grimaldi 81

BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

Pianeta Assange, Orwell e il Bitcoin / di Fabio Vita Il Bitcoin nel 2014/ di F.V. Storia Siciliane senza paura 1923-1942/ di Elio Camilleri Storie Mondo Zombie N.1 di Jack Daniel Consumo critico Fa’ la cosa giusta... e in rete/ di Giovanni Abbagnato Il filo Mafia: un’enorme confusione / di Giuseppe Fava

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da rileggere ORA!

“Un pamphlet scintillante e spietato sugli ultimi invasori dell'Urbe: gli Alemanni”

PIETRO ORSATTI L'ERA ALEMANNA maggio 2003

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Politica e magistratura

“Supplente faccia lei” (mentre il prof dorme) di Gian Carlo Caselli Fior di politici (anche con posizioni istituzionali di altissimo rilievo) da qualche tempo proclamano la fine della “guerra civiIe” fra politica e magistratura che secondo loro ha contrassegnato gli ultimi vent’anni della nostra storia. Posto che di “guerra civile” e dintorni favoleggiano - trasversalmente rispetto ai diversi schieramenti - soprattutto quei politici che al semplice pensiero di essere sottoposti al controllo di legalità gli viene l’orticaria, possiamo serenamente fare a meno delle iperboli belligeranti, in quanto mera black propaganda o torbido fumo negli occhi. Al dunque: non può esservi dubbio, in democrazia, sul “primato della politica”. Vale a dire che spetta alla politica, e ad essa soltanto, operare le scelte finalizzate al buon governo. Nessun altro può arrogarsi questa funzione. Meno che mai la magistratura. Fatto si è (per scrivere con un tono aulico consono all’argomento...) che proprio alla magistratura, e alle forze dell’ordine, sono stati delegati a ripetizione, in questi vent’anni, gravi problemi che la politica non ha voluto o saputo affrontare o risolvere. E’ successo per:

- La mafia (con una legislazione perennemente “del giorno dopo”, piena zeppa di bis, ter, quater, quinquies ecc., inseriti per colmare buchi o voragini che non disturbavano prima che un qualche “fattaccio” ci risvegliasse di brutto); - Il terrorismo brigatista (almeno all’inizio, con le incertezze e le ambiguità che speso sfociavano in contiguità); - Il terrorismo nero e stragista (segnato anche dai tranelli e depistaggi che hanno ostacolato le indagini); - La corruzione (Tangentopoli, preannunziata da Italcasse, Lockheed e Petroli, gridava vendetta, cioè postulava una legge anticorruzione finalmente efficace: per contro, ci son voluti più di quattro lustri per la “legge Severino”, che appena varata ha rivelato vistosi difetti e lacune che impongono…. una nuova riforma!); - La tutela dell’ambiente e della salute; - La bioetica (caso Englaro); - La sicurezza sui posti di lavoro (dove si è giunti al punto di affidare ai magistrati l’alternativa tra la vita ed il lavoro dei dipendenti dell’ILVA di Taranto …); - L’evasione fiscale, dove la delega iniziale è stata poi sterilizzata, cancellando nel 2001 la legge del 1892 nota come “manette agli evasori”. Delega ma con riserva... Ma attenzione: non solo delega. Delega con una riserva, una specie di “asticella” non scritta, da non oltrepassare.

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Perché oltrepassandola si toccano certi interessi, che non ci stanno. E reagiscono, con una litania di accuse (“straripamento”, “governo dei giudici”, “giustizialismo”, “teoremi e non prove”, “politicizzazione”), intrecciate con insulti e calunnie volgari (“cancro da estirpare”, “pazzi”, “brigatisti”…). Altro che guerra civile! L’attacco alla giurisdizione che osi funzionare in maniera indipendente;- mentre gli elementi di conoscenza desumibili dai processi, invece di essere utilizzati per riforme contro l’illegalità, servono ad impedire nuovi superamenti della “asticella”. Quindi per riforme dirette a favorire di fatto i potenti, i cosiddetti gentiluomini a prescindere: presunti innocenti per censo, posizione politica o sociale. Un quadro non confortante. Del tutto anomalo rispetto agli insegnamenti di Cesare Beccaria e del suo “Dei delitti e delle pene” di cui ricorre il 250^ anniversario della pubblicazione. Secondo Beccaria, per prevenire i delitti occorre che “le leggi sian chiare, semplici e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle”. Tutta la forza della nazione... Molto diversa la storia del nostro Paese negli ultimi vent’anni. Di molti problemi, di molte storture, di molte emergenze che ci affliggono e che restano irrisolte, la politica non accetta di rendere conto. E preferisce inventarsi un’altra storia, quella appunto di una guerra civile con la magistratura.


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Italia

Mafia Capitale di Nando dalla Chiesa Quanto costa una delibera? Quanto una perizia? E un emendamento? O una sentenza? O un appalto? Tutti atti pubblici, tutte decisioni pubbliche. Mafia Capitale ci spiega che sono tutte in vendita. Che si trova sempre qualcuno disposto a farne mercato. Qualche brava persona, certo, può essere indisponibile. Ma “loro” troveranno sempre, il modo di non passare proprio di là. Aggireranno l’ostacolo, troveranno il modo di cambiare di etichetta o di categoria il progetto da finanziare, per farlo ricadere sotto le giuste competenze. O faranno promuovere/rimuovere il reprobo, il riottoso perché si occupi di altro. O faranno avocare la decisione da un superiore più comprensivo. Tutte cose a loro volta da comprare. Una sentenza per annullare un atto politico sacrosanto (per esempio di limitazione delle sale gioco in una città). Ma anche, al contrario, un atto politico per annullare una sentenza sacrosanta. O da una parte o dall’altra il corrotto, il venduto si trova.

E dietro di lui trionfa sempre un clima di indulgenza, la voglia di farsi i fatti propri, l’amor di quiete, perché ormai è legge non scritta che la carriera spetta di diritto solo a chi non combatte i disonesti. L’onestà è tollerata, la lotta alla disonestà no. Ecco che cosa viene fuori dallo scandalo romano, sommato con lo scandalo dell’Expo, con lo scandalo del Mose, con gli scandali che come oceano limaccioso travolgono la pubblica fede dalle contrade d’Italia. Perché stupirsi? Perché stupirsi se la ‘ndrangheta e la criminalità organizzata imperano in tante nostre pubbliche amministrazioni succhiando soldi che non esistono mai per i bisogni e i servizi sociali o per creare imprese e posti di lavoro, ma ci sono sempre, accidenti sempre!, per predoni e malfattori? Se le decisioni pubbliche sono per principio in vendita, è ovvio che se le compri chi ha più soldi. E che nessun funzionario, giudice, politico, nel momento in cui si fa corrompere, si porrà il problema se le sta vendendo a un corruttore non mafioso o a un corruttore in rapporti con la mafia.

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Dove tutti incontrano tutti Basterà poi che il prezzo da pagare nel gioco degli scambi sia in parte anche di voti, che qualcuno chieda cioè i pacchetti di voti sicuri di ‘ndrangheta o camorra, per traghettare con assoluta naturalezza i poteri mafiosi dentro la grande arena pubblica. Nel “mondo di mezzo”, dove tutti incontrano tutti. Ecco la ragione per cui gente con la quinta elementare, che non solo non parla l’inglese, ma nemmeno si esprime in italiano, ma parla solo il dialetto calabrese o il romano della suburra, può comandare su una città, anzi, sulla Città eterna o sulla ex Capitale morale. Smettiamola dunque con i nostri alibi ammuffiti. Con l’idea che la criminalità che avanza sia vincente perché sofisticata, nulla più “coppola e lupara” ma smoking e studi all’estero, così da darci qualche giustificazione, perché ci starebbe sconfiggendo gente che il denaro ha spinto su un altro, superiore pianeta. A comandarci sono i boss che non sanno nemmeno come arrangiarsi durante uno scalo aereo a Parigi o i malavitosi che parlano e bestemmiano come “il Cecato”. E’ la fase suprema della corruzione: mettere una civiltà millenaria alla mercé di caproni e pistoleri.


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Monopolio di fatto o sana informazione?

Per una Raipubblica fondata sul lavoro “Liberiamo la Rai”, diceva Renzi. Ma davvero? Intanto, il prossimo CdA Rai sarà regolarmente lottizzato a colpi di legge Gasparri... di Loris Mazzetti Matteo Renzi non passerà alla storia per aver cambiato l’Italia, ma per aver illuso tanti elettori, per le promesse mancate e per aver azzerato i diritti dei lavoratori. Un rapporto della Banca d’Italia dice che gli investitori esteri non vengono da noi, non per colpa dell’articolo 18, ma perché non si combattono la corruzione e le mafie. Nel marzo scorso il presidente del Consiglio, a proposito di lotta alla criminalità organizzata, era stato criticato da Roberto Saviano per il suo “approccio generico al problema” nel discorso di fiducia al Senato. Renzi, come suo solito, in risposta ha sparato promesse: “Mafia Spa, che è presente in ogni comparto economico, al Nord come al Sud, va aggredita”. A distanza di nove mesi nessun segnale di discontinuità con l’immobilismo e la collusione dei passati governi. E’ sconvolgente che le istituzioni, a cominciare dal governo, non facciano nulla a difesa e a sostegno del pm di Palermo Nino Di Matteo, titolare del processo sulla trattativa Stato-mafia, condannato a morte da Totò Riina, con il tritolo già arrivato in Sicilia. Scaglione, Terranova, Chinnici, Costa, Livatino, Falcone, Borsellino e tanti altri, rischiano di essere ancora una volta morti inutilmente. Allo stesso modo Renzi si sta comportando con la Rai e più in generale con il sistema radiotelevisivo regolamentato da una legge del 2004, la Gasparri, esempio di ad personam voluta da Berlusconi per condizionare il mercato a favore delle sue aziende.

Una delle prime cose che Renzi ha detto da premier: “Il nostro obiettivo è di liberare la Rai dai partiti”. Se nei prossimi giorni non arriverà in Parlamento una proposta di riforma, il cda della Rai, che scadrà in primavera, sarà nuovamente nominato con la legge Gasparri: lottizzazione confermata, indipendenza rimandata. Giacomelli, sottosegretario con delega alle Comunicazioni, aveva annunciato che via Internet avrebbe sondato il parere dei cittadini per creare l’identikit della nuova Rai. Niente di tutto ciò è accaduto. Il mondo cambia e il governo non lo sa Il governo fa finta di non vedere che il mondo dei media cambia rapidamente: le testate giornalistiche abbandonano la carta per la Rete, i tg delle tv generaliste hanno perso oltre il 30% di ascolto. Col digitale la tecnologia ha rivoluzionato non solo i sistemi di comunicazione, ma la fruizione della tv: i programmi sono visti attraverso il classico elettrodomestico prevalentemente dal pubblico più anziano, mentre i giovani li guardano esclusivamente su Internet (youtube e le web tv). Sono milioni gli italiani che fruiscono i prodotti televisivi attraverso nuovi mezzi: computer, tablet, smartphone. Quando, poco tempo fa, si è parlato di rinnovo del canone e di lotta all’evasione (circa 600 milioni di euro), il governo ha fatto capire che l’imposta andrà pagata non solo dai possessori di tv ma anche da chi utilizza altri mezzi per guardare ciò che viene trasmesso nell’etere e in Rete. Sono 600.000 i cittadini che nei fine settimana seguono il Calcio e la Formula 1 attraverso tablet e smartphon.L’arrivo poi, grazie a Sky Atlantic, delle serie tv americane: House of Cards, True detective, Breaking bad, Homeland, o Gomorra la serie (venduto in 50 paesi nel mondo), sta dimostrando che il tradizionale rilevamento d’ascolto Auditel non funziona più. House of Cards, di cui tutti parlano, secondo Auditel sarebbe stato visto in prime time da un massimo di 9.000 telespettatori con uno share dello 0,03%, mentre Sky, che ha un proprio sistema di rilevamento, assicura che i numeri sono ben diversi.

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Nazareno? Rai + Mediaset Il duopolio Rai Mediaset, ancorato all’Auditel per spartirsi la pubblicità, come il topo al formaggio, in questi ultimi anni è stato più volte superato per introiti dalla tv di Murdoch (4.750.000 abbonamenti, nel 2013 ha portato in cassa 2,6 miliardi di euro, distanziando la Rai al secondo posto e Mediaset al terzo). Sky consente di seguire la programmazione attraverso Sky Go (usato regolarmente da 2 milioni di abbonati), Sky Online, oppure On Demand, che nei primi 10 mesi di vita ha superato i 25 milioni di download, di tutto ciò l’Auditel non ne tiene conto. Il futuro della tv inevitabilmente passerà attraverso la banda larga: Mediaset sta trattando con Telecom la vendita della pay tv Premium e cercando di acquisire quote della stessa compagnia telefonica; Sky ha unificato in un’unica azienda (BSkyB) la tv satellitare di cinque paesi: Italia, Germania, Austria, Regno Unito e Irlanda (30 sedi, 31 mila dipendenti e 20 milioni di abbonati); nel 2015 sbarcherà in Italia, fruibile attraverso la Rete, l’americana Netflix (50 milioni di abbonati, leader in Francia, Germania e Gran Bretagna). E la Rai? E’ costretta a subire gli isterismi di Renzi per fare cassa: 150 milioni di mancato canone in cambio della quotazione in borsa di Rai Way dal giorno alla notte, mentre nulla ha fatto ancora sulla legge Gasparri che prevede per il 2016 la fine della concessione del servizio pubblico alla Rai. A questo punto è legittimo domandarsi non se ha senso il servizio pubblico, ma un servizio pubblico ancora una volta condizionato dai partiti. E’ in gioco la democrazia, per il suo bene andrebbe strappato al più presto il patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, che sta condizionando tutte le riforme di cui il paese ha bisogno: legge elettorale, lotta alla corruzione, alle mafie e all’evasione fiscale, prescrizione, ripristino del reato di falso in bilancio, e non meno importante una vera legge sul conflitto d’interessi che renderebbe la Rai finalmente libera dagli imprenditori che usano la politica per fare affari e dai partiti.


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Giornalismo

Cronache italiane In Germania non ha importanza se i protagonisti dei fatti di cronaca siano nati nel Paese o no. In Italia i giornali sono pieni di “di origini albanesi”, “di origini turche” ecc. Non è solo un fatto di stile: è che da noi il razzismo regna ancora di Antonio Roccuzzo La (fascio)mafia è ufficialmente approdata a Roma. Dunque, parlerò d’altro o forse no. Germania, Europa. Tugce Albayrak, (23 anni), cittadina tedesca, è morta così: il 15 novembre, a Offenbach (Assia), aveva difeso due ragazzine minorenni dall’aggressione di un branco di bulli nel bagno di un noto fast food. “Non si era fatta gli affari suoi”, insomma. Il gruppo di bulli autori della aggressione l’ha attesa fuori dal fast food, Tugce è stata circondata e il capo-bullo Sanel M. (18 anni) l’ha colpita alla testa con un pugno. Tugce è caduta, ha battuto la testa sul marciapiedi. Un uno-due fatale. Nulla da fare. Coma, irreversibile. I medici hanno detto ai familiari che la ragazza era clinicamente morta e, se loro volevano, poteva sopravvivere attaccata a una macchina. Due settimane dopo la scena truce avvenuta in quel fast food tedesco, i genitori di Tugce hanno autorizzato la “buona morte” e i medici hanno staccato la spina. Fine della storia?

Una storia di violenza, non di “razze” No. In Italia, nessuno o pochi ne ha parlato. Giornali e Tg l’hanno considerata “Cronaca locale tedesca” (e forse lo era, ma la cronaca locale è – di questi tempi globale). In Germania c’è stata una mobilitazione popolare amplificata dal tam tam sul web; Tugce è diventata un simbolo della lotta all’indifferenza in una società indifferente. Il governo Merkel alla fine le darà la medaglia federale al valor civile. Attenzione: Tugce e Sanel sono nati e cresciuti tedeschi, sono tedeschi e (come è evidente dai nomi e dalla storia della Germania) hanno radici in altre parti del mondo. Ma nelle cronache che hanno riempito i giornali di Berlino, Amburgo e Francoforte (perfino sulla “famigerata” e strillatissima Bild) c’è stato assoluto, normalissimo silenzio sulle origini etniche, religiose e culturali della ragazza e del suo aggressore. Un violento e la sua vittima. La notizia e i ruoli non cambiano se si aggiunge che l’una aveva i bisnonni turchi e l’altro i genitori serbi. Se fosse accaduto in Italia... Cosa racconta a noi questa storia? Un sacco di cose. Ma soprattutto una sul linguaggio di una società tollerante, multirazziale e multietnica. Racconta che i cittadini (soprattutto in cronache così delicate e violente) sono e devono essere tutti eguali, senza pre-giudizi; e insegna che non c’è differenza tra chi subisce o compie violenze in relazione al luogo dove sono nati genitori, nonni o antenati dei protagonisti. Uno può obiettare: ma noi italiani che cosa c’entriamo? E invece noi c’entriamo, eccome. C’entriamo perché ormai non ci rendiamo più conto di quanto può essere “violento” e quanto può indurre al pregiudizio il nostro linguaggio. Anche quello usato dai nostri giornali.

I Sicilianigiovani – pag. 08

Fate un esercizio usando uno qualunque dei nostri giornali locali e immaginate che la storia di Tugce sia avvenuta (come è possibile) in un Mc donald’s di Verona o di Forlì o di Alessandria. Cronaca: “Una ragazza residente in Italia, ma di origini turche… è stata picchiata a morte da un cittadino italiano ma di origini albanesi…”. E’ quotidiano trovare cronache simili sui giornali italiani. Dove quel “ma” scava un doppio fossato profondo tra mondi e tra due modi di raccontare la medesima cosa. Basterebbe solo mettere una “e”, una congiunzione anziché una contrapposizione, per dare un tono doverso alle cronache. Un “ma” anziché un “e” suona diverso. Insomma: suona come una presa di distanza e come una invito a “stare tranquilli”. Una cosa un po’ razzista: “tranquilli questa vicenda è tra noi ma lontana da noi”. Un linguaggio giornalistico che crea mostri o li allontana dalla comunità alla quale si rivolge. Un linguaggio che allontana Io, per alcuni anni, ho fatto il capocronista in un giornale locale del gruppo Finegil-Espresso, nel profondo nord italiano, anni 2000-2005, anni di turbinose e massicce immigrazioni. E me le ricordo le cronache scritte da tanti colleghi: “arrestato Samir Abdullah, residente nella nostra città dove è nato e dove lavora, ma di origine maghrebine…”. Quando arrivava un testo così, mi toccava cambiare quel “ma”, in una “e”. Almeno in questo, le parole usate nelle cronache tedesche su Tugce raccontano che la Germania è una società senza pregiudizi. Infatti, che importanza ha sapere dove sono nati i nonni di Tugce? Post scriptum, per tornare alla “fasciomafia capitale”: la banda criminale del neofascista Carminati si è arricchita e ha arricchito un ceto politico proprio sfruttando i flussi di immigrati. Altro che “razzismo” del linguaggio e delle parole!


5 gennaio

Disegno di Luca Ferrara Grafica di Luca Salici

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Ricordiamo Pippo Fava lavorando Ore 17 – via Giuseppe Fava Presidio alla lapide ore 18:00 – Centro Zo, piazzale Asia 6 Fondazione Fava: consegna Premio Fava

4 gennaio - Ore 17

Palazzolo Acreide, Aula Comunale Dibattito: Giornalismo ieri e oggi Proiezione “I ragazzi di Pippo Fava” Consegna del Premio Fava Giovani

ore 21 - Città Insieme, Via Siena 1 Assemblea dei "Siciliani giovani": il giornale, l'organizzazione, i progetti

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Giuseppe Fava I Sicilianigiovani – pag. 10

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Nel corso dell’assemblea verranno esposte .. e discusse le iniziative dei Siciliani giovani . per il 2015: rivista, libri, seminari, assemblee . .


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Mafia capitana

Da potere a regime Chi lo crea, chi lo combatte

Foto di Tano D'Amico

Chi è Ciancimino oggi, a Roma? Chi sono i banchieri Salvo? Chi è Salvo Lima? Davvero il capo supremo è Carminati?

Il “concorso esterno” A Palermo, giudici e poliziotti fedeli (che a Catania mancavano) colpirono non solo i mafiosi-killer ma anche i loro capi e mandanti: il “concorso esterno”, attaccato dai giornali perbene ma difeso daimagistrati, diventò l'incubo della borghesia mafiosa. All'altro capo dell'isola, se non giustizia, si conquistò almeno una verità: il potere mafioso è politico e imprenditoriale, i Cavalieri contano molto di più di Santapaola. Furono i ragazzi delle scuole, non i vari politici, a gridarlo per le strade: eppure alla fine divenne l'opinione comune. E adesso eccoci a Roma.

di Riccardo Orioles Allora: Carminati era il capo della mafia a Roma, Liggio a Palermo, Santapaola a Catania: signori assoluti delle rispettive città, padroni dopo Dio. A Palermo i comunisti pensavano diversamente: Lima, i Salvo, Ciancimino, il potere dc, gl'imprenditori; ma erano comunisti e lo dicevano per pura cattiveria. A Catania Giuseppe Fava: i “cavalieri dell'apocalisse”, gli appalti, gli assessori. Ma era era un pazzo isolato e lo diceva per pura poesia. Il vecchio “L'Ora” a Palermo, “I Siciliani”a Catania, stampavano queste cose: ma loro soli. Più facilmente, i giornali locali (e quelli nazionali, quasi tutti) difendevano dc e cavalieri dalle orrende accuse: appalti regolarissimi, piani regolatori esemplari; politici e capimafia sconosciuti a vicenda, per non parlare degl'imprenditori. E i morti ammazzati? E la giungla? Eh, delinquenza incontrollata, malavita: del resto non c'è più ordine, signora mia.

L'attacco ai magistrati

Arrivò Chinnici, arrivò Falcone, e Borsellino e Di Lello e tutti gli altri. Anno per anno e affare per affare buttarono giù la maschera ai veri capi. “Chiedo l'incriminazione del teste Andreotti per falsa testimonianza!” urlò l'avvocato antimafia nell'aula del tribunale. “I quattro maggiori imprenditori di Catania conquistano Palermo con la tolleranza della mafia” enunciò il generale antimafia, e telefonate frenetiche s'intersecarono sbigottite e feroci da palazzo a palazzo.

I Sicilianigiovani – pag. 11

A Roma, “i magistrati debbono scrivere le sentenze, non mettersi a fare comunicati!”. Davanti alle reazioni dei politici (questo era il povero Renzi) chi ha vissuto la Sicilia non può che sogghignare ironicamente. E' l'identica stessa reazione (“Silenzio, entra la Corte!”) dei politici siciliani ai tempi loro. I giudici, ammesso che abbiano voglia di occuparsi di mafia (ammesso che la mafia esista, e che esista davvero proprio nella nostra città), si occupino dei singoli reati, e non s'azzardino a indicare da che cosa derivano, che cosa gli sta dietro. Sennò sono - secondo i tempi – o “antipolitici” o “comunisti”.


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“I politici rimuovono la funzione politica della mafia, il potere. Per i vari Renzi e Fonzi ciò non è affatto strano. Per i nazifascisti, da Alemanno a Salvini, è solo una questione d’affari”

La sinistra qui era nata come antimafia I politici (a parte quelli proprio punciuti, che sono un discorso a parte) in genere tendono a ignorare la mafia, o quando questo è impossibile a ignorarne comunque la funzione politica, il potere. Per i vari Renzi e Fonzi, ovviamente, ciò non è affatto strano. Per i nazifascisti, da Alemanno a Salvini, è solo questione d’affari. Ma la sinistra? I compagni, quaggiù in Sicilia, erano nati combattendo contro i mafiosi, servi dei latifondisti e nemici spietati dei contadini. Più di cento ne abbiamo perso, in questa guerra, generazioni prima di Falcone. Al quale, per ingiuriarlo, davano abbondantemente del “comunista”. E ora? Com'è andata a finire? A parte i tradimenti individuali, che sono molti, a parte i tradimenti collettivi (Lega Coop, ad esempio), che non son pochi, s'è persa completamente la visione sociale della lotta alla mafia, l'idea che sia una lotta politica e non solo una cosa da Procure. Colpisce moltissimo, nel dibattito di questi anni (non privo di novità: i vari No, le rifondazioni, le altre Europe) l'assenza quasi totale di ogni riferimento ai poteri mafiosi. Come se La Torre o Licausi non fossero mai esistiti, come se Peppino Impastato fosse un monumento.

MA QUALCUNO L'AVEVA DETTO PRIMA

Io me li ricordo benissimo, gli anni di Peppino. Non è vero - come dice la favola - che alla fine il popolo si commosse. I cinisani restarono mafiosi, dall'inizio alla fine, e lo sono probabilmente tuttora. Certo, non c'erano solo loro: a Partinico, a pochi chilometri, l'antimafia era forte e popolare. Quanto ai compagni “politici”, erano impegnati sì, ma su altre cose: indiani metropolitani, problemi del “personale”, grandi e lontane rivoluzioni: battersi contro il boss del paese, come Peppino, era decisamente sorpassato. Non furono moltissimi quelli che restarono con lui, prima durante e dopo. Poi venne, per altre vie, la nuova antimafia di massa, i nuovi movimenti (anni '80 e '90). E tutto ricominciò. Ma sui rivoluzionari senza antimafia io resto profondamente diffidente. I movimenti antimafia... A un certo punto l'antimafia per certuni diventò pure un mestiere. Non esattamente un'industria, per carità; ma insomma qualcosa che non danneggiava la carriera (niente a che vedere, quindi, coi vecchi “professionisti dell'antimafia” di Sciascia che erano semplicemente, secondo il giornale piduista per cui Sciascia scriveva, gli antimafiosi conseguenti). Un'antimafia fra virgolette, anche quando era perbene. Fra i pochissimi giornalisti che avevano lanciato a tempo l'allarme sulla mafia a Roma andrebbe citato anche - e soprattutto - Pietro Orsatti, col suo "Grande Raccordo Criminale" (Imprimatur editore) e, prima ancora, con una serie impressionante di articoli ed ebook.

… e l'antimafia di palazzo Fu allora che cominciammo, per evitar confusioni, a parlare di antimafia sociale (cosa in fondo pleonastica, dal momento che se non è sociale l'antimafia non si vede cosa mai possa esserlo). A palazzo la mafia, che prima “non esisteva”, a un certo punto ufficialmente diventò “di merda”. Peccato che a dirlo fosse Cuffaro il quale, fra una battuta e l'altra, finì in galera. Gli successe Lombardo, anche lui ferocissimo nemico dei mafiosi e anche lui - sicuramente per equivoco - alla fine indagato. Crocetta, eccentricamente per un presidente siciliano, non è indagato: ma ha messo parecchia acqua nel vino della sua antimafia originaria, succedendo linearmente - ne era stato fra i principali sostenitori - al suo predecessore Lombardo, succeduto a sua volta fraternamente e senza intoppi a Cuffaro. Ma neanche questa catena di successioni, politicamente significantissima, è valsa a dar dignità politica - nelle strategie delle varie sinistre - alla questione mafiosa. In Sicilia, l'antimafia di palazzo raggiunse per virtù religiose e civili, e per buona o cattiva effettività di potere, i fasti della vecchia Dc. Con i Siciliani Giovani pubblicò una decina di articoli, fin dal primo numero, e un ebook - "L'Era Alemanna" - che praticamente diceva già tutto. Per fortuna, a parte gli amici poveri dei "Siciliani", a un certo punto Orsatti ha trovato anche un editore in grado di stamparlo come Dio comanda. Ma anche così, non sembra che l'attenzione dei colleghi e delle testate perbene sia stata eccessiva. Orsatti esercita ancora il suo mestiere, e conduce una vita quotidiana, immerso fino al collo nella precarietà. Ma questo, qui in Italia, è nelle regole del gioco.

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www.isiciliani.it Cemento e democrazia Lumia ispiratore di Crocetta, Alfano alleata di entrambi, il catanese Bianco, categoricamente democratico nelle interviste ma cementizio quanto a strategie, divennero, sulla stampa ammessa, la faccia nuova della Sicilia: l'”antimafia”,appunto. Parallelamente, si rinnovava anche la categoria tradizionalmente più collusa in Sicilia, quella dei costruttori.La Confindustria siciliana, rinnegando il “pizzo” (prima tranquillamente erogato), diventava ipso fatto un baluardo, pure lei, di ”antimafia”, con diritto al silenzio su tutti i tradizionali traffici, non di molto variati. Commemorazioni commosse, accoglienze solenni a tutti i buoni notabili d'Europa, virtuose presentazioni di libri, querele a chiunque insinui che qualche familiare di mafiosi possa a volte votareper la bianca “antimafia” ormai imperante. Su tutto, la coltre antimafiosissima d'un Ciancio, col suo monopolio di cronaca per diritto divino, imparzialmente ospitante scrittoresse d'Arcadia e boss di Cosa Nostra, sia fuori che dentro le patrie galere. Non fa meraviglia che a un certo punto tutta questa “antimafia” abbia cominciato a far sorridere, e che qualche tradizionale flautista del regime (i vari Merlo e Buttafuoco, “sinistra” e “destra” ) abbia opportunamente cominciato a soloneggiarci su, magari dalle pagine da integerrimi ma smemorati fogli d'opposizione.

Sotto gli occhi di tutti COMPLICE L'OPPOSIZIONE I giochi dell’ex sindaco Gianni Alemanno, indagato nell’inchiesta Mondo di mezzo, erano sotto gli occhi di tutti. La sensazione che avevamo, noi abitanti di Roma, durante i cinque anni della giunta di centrodestra, era di una città immobile, dove qualsivoglia anelito sociale era soffocato. Non venivano più sostenuti i centri culturali, non c’era alcuna iniziativa che coinvolgesse i cittadini, le mostre con il bollino del Comune erano dedicate esclusivamente al Futurismo (come prima cosa l’assessore Croppi allestì una grande mostra e manifestazioni dedicate a Marinetti e Balla per un’intera settimana). Roma, la capitale, era una città morta.

L'antimafia, quella vera, frattanto continua - business as usual - a lavorare. Non è un lavoro facile, non lo è mai stato ma adesso è più complicato del solito. I motivi sono due, uno riguarda noi stessi e uno la situazione generale del Paese. Per la maggior parte della nostra storia, noi abbiamo lottato in un Paese prevalentemente civile e sotto istituzioni (complessivamente) democratiche. Entrambe queste condizioni non ci sono più. Lo stato civile del Paese Sullo stato civile del Paese ci sarebbe molto da dire. La sostanza è questa: i mafiosi e i fascisti (e i rinnegati “di sinistra”) che hanno organizzato la mafia a Roma hanno potuto contare non solo sulle loro capacità criminali, ma anche su una comunanza di valori con una parte del popolo romano. Così, quando hanno avuto bisogno di una “manifestazione spontanea” contro gli zingari, per i loschi affari loro, è bastato un fischio e la manifestazione c'è stata. Non solo con i razzisti professionali di Casa Pound e roba del genere, ma anche con la gente comune, le madri di famiglia, la ggente. Questo, Mussolini non era mai riuscito ad ottenerlo. C'era riuscito Hitler, c'era riuscito lo zar dei primi pogrom, ma in Italia una cosa del genere s'era vista solo in posti marginali e isolati, tipo la Corleone anni '50 o qualche paesino della Calabria profonda. I soldi del Comune andavano a finire nelle tasche degli ex camerati del sindaco, che faceva assumere i parenti all’Atac, faceva sedere ai vertici dell’Eur spa e dell’Ama i suoi “compagni di merende”, acquistava l’immobile di CasaPound perché i suoi “inquilini” rimanessero dentro (il figlio di Alemanno è un esponente di CasaPound), tollerava i raid squadristi di Forza Nuova a Villa Ada. Roma non era più Roma, noi si viveva un’atmosfera cupa, come prigionieri sotto una cappa di piombo. Ora la magistratura ha scoperchiato il letamaio, ma la sua puzza si è sentita per cinque anni. La novità è che oggi sappiamo perché l’opposizione in Campidoglio assisteva muta allo scempio, un’opposizione di cui non si ricorda un solo atto da opposizione, un’opposizione complice in assoluto.

Riccardo De Gennaro

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Chi fa veicolo a modelli fascisti Ora succede a Roma, succede in Lombardia, nelle zone già “civili” del Paese. La mafia fa da veicolo, e veicola a sua volta, a modelli pre-democratici o apertamente fascisti. Non è successo all'improvviso ma in una progressione durata oltre dieci anni, con partiti moderatamente nazisti come la Lega Nord (la cui popolarità non a caso va crescendo ora) e con solidarietà e tolleranze - classicamente - di forze “responsabili” e “moderate” e a volte persino (il caso di Grillo) “sovversive” e “ribelli”. Weimar più la mafia La crisi economica, come sempre, ha fatto il resto. In assenza di una sinistra combattiva a difesa dei ceti poveri, gran parte di questi ultimi - Weimar - sono finiti a destra. Il sindacato, che ora finalmente si batte ed è anzi l'ultimo riferimento democratico rimasto, ha responsabilità gravissime per un'assenza durata vent'anni.

Il risultato è che il nazismo e la mafia ora hanno una, non maggioritaria ma significativa, base di massa in Italia. Tra Falcone e Heider, oggi molta gente sceglierebbe tranquillamente il secondo.


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“Io sono io e tu sei tu" MINEO/ SILENZI E AFFARI RILEGATI IN PELLE UMANA Le indagini su Mafia Capitale coinvolgono il CARA di Mineo e la disastrosa (per i migranti) gestione d'ingentissime risorse pubbliche per il business della “accoglienza”. Da allora la situazione si è incancrenita: dal 2013 le presenze nel CARA sono più che raddoppiate (da 1800-2000 a 4500), mentre le commissioni per l'esame delle richieste d'asilo hanno dimezzato le audizioni. Nei primi anni furono numerose le proteste dei migranti e purtroppo anche i tentativi di suicidio. Dalla fine dell'anno scorso i gestori del CARA, grazie a solide conoscenze nelle istituzioni locali e nei governi di larghe intese, hanno tentato di riverniciare la loro “missione umanitaria”. Non è bastata la vergogna della coop Sisifo a Lampedusa che dopo la strage del 3 ottobre accoglieva i migranti nel CPSA con metodi degni dei nazisti. Proprio a dicembre scorso il sindaco Bianco presentava a Montecitorio il film “Io sono io e tu sei tu”, per dipingere il CARA di Mineo come il paradiso terrestre dell'accoglienza.

Falcone non è più solo, pertanto, l'operatore di una giustizia “tecnica” nel quadro di uno Stato civile, ma il punto di riferimento di un'infinità di rivendicazioni, di dolori, di oppressioni, di attese, che a uno a uno bisognerà raccogliere - non lo fa nessun altro - e che ci accollano dunque, in quanto antimafia sociale, un'enorme supplenza. Siamo Peppino Impastato a Cinisi: antimafia, sinistra, libera informazione: tutto. Antimafia, sinistra, informazione La disoccupazione generale sopra il tredici per cento. Il presidente di una commissione parlamentare che la dirige da casa in quanto ai domiciliari per condanna penale. I neonazi che cantano a squarciagola “Anna il forno ti aspetta”. I padroni proclamati tout-court “gli eroi del nostro tempo”. Il quarantatrè per cento dei giovani senza lavoro. La Lombardia che chiede l'esercito (Bava Beccaris?) contro gli abusivi. Il record degli emigranti annegati (3.419 nel 2014) di cui nessuno si fotte. L'altra statistica di cui non frega niente a nessuno, gli ottantacinque miiardari (rapporto Oxfam) dal reddito equivalente a metà dell'intero pianeta. I cinque anni in meno di vita (secondo Inmp) dell'operaio medio rispetto al suo medio dirigente. I lavoratori che - secondo il premier - “cercano scuse per scioperare”. I centouno

Pochi giorni dopo, il 14 dicembre, il ventunenne eritreo Mulue Ghirmay s'impiccò dentro il CARA e il 19 dicembre, a migliaia, i richiedenti asilo manifestarono lungo la statale Catania-Gela e subirono all'ingresso di Palagonia violente cariche poliziesche, quando volevano solo rendere pubbliche le ragioni della loro protesta. Il sistema Odevaine proprio nel CARA di Mineo ha consolidato un sistema clientelare che accontenta tutti, dalle istituzioni ai media, dai sindacati all'associazionismo. Peccato che le condizioni di vivibilità per la stragrande maggioranza dei richiedenti asilo siano progressivamente peggiorate, con almeno venti persone per casa (per i militari di Sigonella erano monofamiliari); mentre la miseria (il pocket money quotidiano di euro 2,50 viene versato in sigarette) costringe molti migranti a lavorare in nero per 10-15 euro al giorno nelle campagne; stanno dilagando anche la prostituzione e lo spaccio di droga. Con tutto ciò, i media si son bevute senza batter ciglio le tranquillizzanti versioni dei candidi gestori.

ammazzaprodi richiamati alle armi per scegliere il nuovo Re d'Italia, la carica di Presidente essendo ormai abolita da vari anni). I trentasei ragazzini cacciati a furor di popolo da casa loro, dal rifugio di legge in cui vivevano in pace. I cento giovani ariani – più disgraziati di loro – che gli urlavano contro, bravi piccoli hitlerjugend d'Italia. E, naturalmente, la mafia. Tutto ciò, a quanto sembra, è ormai prevalentemente affar nostro. Nostro, come negli anni '20, non di un partito o di una terra, ma di una generazione. Molti, pochi? Non lo sappiamo, e non ha poi tanta importanza. I comunisti, i gobettiani, gli antifascisti veri e non retorici, furono poche migliaia in quel momento; ma furono sufficienti. Il difficile 2015 Ecco, uno dei motivi che ci renderanno difficile il 2015 ve l'abbiamo detto. Ma non erano due, i motivi? Dov'è l'altro? L'altro motivo è che siamo ragazze e ragazzi comuni (qualcuno un po' più grande degli altri...), dei precari dunque. Non siamo affatto sicuri di riuscire a portare a termine entro oggi quel che dovevamo finire

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Nel primo anniversario della morte di Mulue Ghirmay facciamo appello a riprendere la mobilitazione affinché il CARA di Mineo venga chiuso, moltiplicando in alternativa gli SPRAR in piccoli e medi centri, per favorire così un reale inserimento sociale, seguendo l'esempio di comuni come Riace nella Locride, a costi molto inferiori ed a condizioni più umane. Riteniamo fondamentale l'immediato superamento a Mineo del “sistema CARA”, con il suo svuotamento, nel rispetto dei tempi previsti dalle normative per la permanenza (35 giorni), con la conseguente moltiplicazione delle apposite Commissioni. Questo mega-CARA, unico in Europa, è un esperimento fallito di contenimento forzato dei migranti, parcheggiati a tempo indeterminato (in media 18 mesi) mentre si crea un conflitto artificiale tra autoctoni e migranti. Da un lato i richiedenti asilo vengono supersfruttati dai caporali nelle campagne, dall'altro la destra xenofoba alimenta nel calatino la “guerra fra poveri”. Mentre con Mafia Capitale i fascio-mafiosi si sono arricchiti sulle nostre spalle e dalle nostre tasche.

LA RETE ANTIRAZZISTA CATANESE per stasera, di poter scrivere il pezzo, di poter dare gratis le dieci ore di lavoro di cui abbiamo assoluto bisogno per campare. Abbiamo la più alta percentuale di camerieri, distributori di pubblicità, fotografi di matrimoni, pizzaioli avventizi e quant' altro di tutta la storia giornalistica mondiale. Tuttavia siamo ragionevolmente convinti di vincere, anzi a dire la verità ne siamo del tutto certi. Perché sappiamo benissimo - nei momenti in cui abbiamo il riposo e la calma per ragionare - che vincere o no, alla fine del gioco, dipende solo da noi. Abbiamo le risorse umane (provate a vedere quanta gente è passata dalle parti dei Siciliani e dintorni in tutti questi anni), abbiamo uno strumento efficiente, il nostro tipo di giornalismo, e abbiamo una “politica” molto più concreta e realista delle altre, vale a dire l'antimafia sociale. Abbiamo solo un problema, l'estrema difficoltà di stare uniti (noi qui diciamo fare rete). Ma è un problema comune a tutti i pezzi di avvenire. Fidarsi ciecamente l'uno dell'altro, coordinarsi le mosse, imparare a vicenda, fare il più gran spettacolo del mondo, volare insieme, alla fine. Impossibile? Eppure, tutti gli acrobati lo fanno.


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Libri I redattori di Giuseppe Fava Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia”, di Antonio Roccuzzo, e Prima che la notte, di Claudio Fava e Miki Gambino, raccontano gli anni dei Siciliani di Giuseppe Fava come vennero vissuti dai ragazzi che con lui condivisero la più bella storia del giornalismo italiano. Una storia che non è finita.

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Messico

Dietro la strage Quarantatrè ragazzi assassinati dai mafiosi perché manifestavano contro i politici corrotti di Giulia Baruzzo www.liberainformazione.org “Mexico, ten fe y no te rindas, porque más poder le da al tonto gobierno” “Messico: abbi fede e non arrenderti perché daresti più potere allo stupido governo”. Così si legge in uno dei cartelloni che continuano a colorare le innumerevoli manifestazioni per i desaparecidos di Ayotzinapa in tutto il Messico, che sono scomparsi lo scorso 26 settembre: 43, meno uno ritrovato da pochi giorni, di cui sono stati accertati i resti; oltre a sei persone morte ed una in coma. Ma su queste morti non è calato il silenzio. Il governo di Enrique Peña Nieto non è riuscito a placare la guerra invisibile cominciata dal suo predecessore Felipe Calderon, anzi. La sua volontà di apparire come il riformatore e soprattutto salvatore del Paese si scioglie tra le invadenti cifre che sottolineano l’escalation di violenza e corruzione cha hanno invaso il Messico, e che sono riportate dal settimanale ZETA del 5 Dicembre 2014. Neanche il mediocre decalogo del Presidente per un nuovo piano di sicurezza, formulato a due mesi dalla strage di Ayotzinapa, riesce a nascondere la grande strage. Sono cifre, sono persone. Sono la conseguenza tangibile della situazione di corruzione e mafia che vive oggi il Messico.

In due anni quarantamila omicidi Grazie ad un’attenta analisi dei dati, ZETA riporta che dal 1 dicembre 2012 al 31 ottobre 2014 vi sono stati 41.015 omicidi dolosi in Messico: a differenza del mandato di Calderon, durante il quale sono stati 33.239, gli omicidi non sono più concentrati per lo più nello stato di Chihuahua ma altresì nel Distretto Federale di Città del Messico (13% del totale). Per quanto riguarda le desapariciones forzadas, che in Messico sono un fenomeno abbastanza comune, perdura la grave espansione del problema: durante i primi 23 mesi del governo Calderon si riportano 21.920 indagini premilinari per omicidio doloso (di cui più di 7.000 non hanno mai trovato identità certa), mentre con Nieto si arriva addirittura a 33.186. Un capitalismo diventato criminale Questa guerra invisibile però non è opera predominante dei cartelli del narcotraffico. Qui operano parti dello Stato, autorità federali e statali, che con l’appoggio dei narcotrafficanti portano avanti un’economia capitalistica diventata criminale, diventata mafiosa. Il capitalismo contemporaneo infatti non può rinunciare alla mafia, perché non è la mafia che si è trasformata in una moderna azienda capitalista, ma il capitalismo che ha trasformato sé stesso in un’organizzazione mafiosa. Il crimine di stato attuato ad Ayotzinapa è parte di una più ampia strategia di militarizzazione del Messico che ha lo scopo di reprimere i movimenti sociali e le classi popolari. Il NAFTA (ovvero l'accordo “North American Free Trade Agreement”) ha bisogno infatti di una garanzia militare per gli investimenti corporativi transnazionali che attua nel paese, affinchè il popolo non opponga resistenza, dopo essere stato espropriato delle sue terre e ridotto spesso in miseria.

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Dalle miniere all’agrobusinnes, dal settore energetico alle banche, il Messico è stato sottomesso dalle lobby internazionali ed attraverso il Plan Mexico ha assunto il ruolo militare di garante per l’internazionalizzazione degli investimenti nel suo territorio. Col pretesto del narcotraffico Grazie al narcotraffico, inoltre, l’economia messicana si è stabilizzata, con un’entrata media di 25 miliardi di dollari annui nell’economia del Paese, ed una estesissima realtà di collusione con la politica ed il mondo imprenditoriale. La “guerra al narcotraffico” di cui tanto si parla è il pretesto utilizzato per militarizzare il Paese e giustificare una repressione sistematica di ogni possibile dissenso, ed inoltre per sequestrare e recludere legalmente il maggior numero possibile di “incitatori alla resistenza”, per diffondere la paura e minacciare la società civile con il controllo totale delle azioni pubbliche e private. Il Plan Mexico finanziato dagli Usa Ma il governo messicano non è solo. Se tutto ciò avviene quotidianamente è perché esistono interessi internazionali in Messico. Il Plan Mexico è stato finanziato con più di tre miliardi di dollari dal governo Usa e il supporto americano offerto sia al governo Calderon sia al governo Nieto non ha fatto altro che contribuire all’assoluto stato di impunità per coloro che violano i diritti umani, conducono le sparizioni forzate ed i massacri di innocenti, instaurando la corruzione e la violenza sempre più nella quotidianità del paese. Ed Ayotzinapa non è estranea a tutto ciò. La strage del 26 settembre 2014 non è un errore, una reazione esagerata delle autorità alla minaccia di ribellione degli studenti ad un comizio cittadino.


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“Libera chiede una commissione indipendente per la verità e la giustizia, seguita dall’Alto Commissariato per i diritti umani dell'Onu”

I fatti di Ayotzinapa rientrano nella strategia, sono un messaggio, che, se per la comunità internazionale rimane sconosciuto, mira a comunicare a selezionati destinatari un messaggio preciso: ci siamo e vi controlliamo. La scuola Normale Rurale di Ayotzinapa infatti è stata fondata nel 1926, e come tutte le altre scuole di questo tipo è basata sull'idea del Messico post rivoluzionario di portare l'educazione al popolo, massificare l'educazione rendendo centrale quindi la formazione di nuovi professori, normalistas. La tradizione sociale delle scuole Nel periodo del governo Cardenas le scuole rurali hanno incorporato l'idea dell'educazione socialista ed in particolare quella di Ayotzinapa ha alimentato sempre più la tensione con il governo centrale messicano. Nelle sue aule si sono formati personaggi politici e rivoluzionari come Lucio Cabañas Barrientos, Genaro Vázquez Rojas y Othón Salazar che hanno guidato organizzazioni come il Partido de los Pobres, la Federación de Estudiantes Campesinos

Socialistas de México (FESCSM)e la Asociación Cívica Guerrerense. Come conseguenza, la normale rurale di Ayotzinapa è considerata da sempre come un autentico semillero de guerrilleros, oscurando l'attivismo politico e sociale che contraddistingue la scuola. Rivendicavano i diritti Negli anni quindi, gli studenti e gli insegnanti della scuola normale rurale di Ayotzinapa hanno continuato a rivendicare i loro diritti davanti alle riforme ed alle restrizioni economiche attuate dal governo federale e statale, ed i fatti dello scorso 26 settembre non sembrano slegati dalla volontà di “limitare” ed impaurire l'azione degli attivisti. Sui fatti di Ayotzinapa non si è fatta ancora chiarezza: non è chiara la dinamica, non è accertata la tempistica, non è verificata la motivazione riportata dalle Autorità. Non si sa il perchè di questi attacchi, che sono stati molteplici – almeno quattro in diversi punti della città, e non si sa quanti realmente vi erano coinvolti, almeno cinque autobus, dalla ricostruzione più recente.

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Cosa nasconde il governo? In tutta questa ambiguità è necessario quindi provvedere ad investigazioni approfondite, che vista la situazione attuale del Messico, non possono essere gestite internamente al paese. La richiesta dell’associazione Libera, che in Messico collabora da diversi anni insieme a molte realtà di base del paese, è di istituire una Commissione Indipendente per la Verità e la Giustizia, che sia seguita dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. “Vivos se llevaron...” Se il Messico non ha nulla da nascondere, la garanzia di questa Commissione sarà solo di giovamento al suo governo. In caso contrario, non sarà comunque più possibile cercare di zittire e scoraggiare la società civile messicana, ya se despertaron, ed insieme al loro urlo di giustizia per le migliaia di desaparecidos, ormai a moltissime latitudini si chiede verità. Perché vivos se lo llevaron, y vivos los queremos: il Messico dopo Ayotzinapa non sarà più lo stesso.


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S C A F F A L E

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Libertà di stampa?

Storie dal nostro mestiere Giornalisti e non

IL GIORNALISMO DI LIRIO ABBATE di Sergio Zavoli *

www.notiziario.ossigeno.info L’assalto contro di lui non ha precedenti, rivela tracotanza, è necessario reagire con una catena di solidarietà e la copertura dei giornali e delle TV. È il “caso” più recente che ci muove a chiedere se il nostro sia o no un Paese in cui il giornalismo investigativo affronta rischi via via più gravi. D’altronde, in questo paese, i cronisti che subiscono minacce e intimidazioni, che vivono allo scoperto o sotto protezione, testimoniano una realtà alla quale, sempre più, non si prestano le dovute attenzioni. L’attentato dell’11 novembre a Lirio Abbate ha raggiunto un’indicibile tracotanza, i poteri investiti dalle sue inchieste hanno reagito con una inedita spavalderia; che io ricordi non si era mai assistito al tentativo di assaltare, in corsa, l’auto di un giornalista protetto dalla polizia, a speronare la vettura con a bordo la scorta. Ciò inaugura una sprezzante modalità della violenza. E dunque occorre risponderle, a partire da una risoluta catena di solidarietà; giornali e tv, intanto, raccontino ogni volta, in dettaglio, ciò che è accaduto perché si sappia fin dove la sfida si spinge. Non incoraggiano un giornalismo impegnato nelle sue forme più a rischio le rade, esili tracce di quest’ultima notizia, né si può dire che le attestazioni di solidarietà abbondino; è un disincanto che inquieta e non riguarda soltanto i media. Tutti si assumono una responsabilità minimizzando, come si va dicendo, anche una “sofferenza dell’informazione”. Non posso dimenticare quando, a Il Mattino, fui testimone dello sforzo profuso dal giornale al fine di tener vivo nell’opinione pubblica e nelle istituzioni lo sdegno per i ritardi e le reticenze, i travisamenti, l’assuefazione e infine il silenzio sull’uccisione di Giancarlo Siani, vittima, prima e dopo, del suo solitario coraggio. Non avrebbe dovuto dirci qualcosa, da allora, il persistere e l’aggravarsi di un fenomeno su cui si sarebbe dovuto ostinatamente, e responsabilmente, indugiare?

Un segnale di disattenzione più o meno innocente, ben al di là del giornalismo, può offrire argomenti – in ogni ambito e grado della responsabilità – al pregiudizio e, infine, non di rado, alla dimenticanza; e non si può giustificare l’invito a una prudente, retorica “moderazione” con il pretesto o la discolpa o l’alibi di non inquinare il sacrosanto, arduo “bene di viver bene”. In quanto a isolare queste vicende ciascuna nel proprio “caso” si favorisce il rincaro delle provocazioni e dell’impunità. Lirio Abbate deve sapere, e vedere, di non essere solo; e nessuno può credere che si possa uscire indenni dal ridurre il senso, e i lasciti, del suo coraggio. *presid.onorario di Ossigeno per l’Informazione

L'ALTRA FACCIA DEL “COPPOLONE” di Norma Ferrara

www.liberainformazione.org E’ stata la “prima pagina” più efficace fra i quotidiani in edicola. Si tratta della copertina del quotidiano “Il Tempo”, diretto da Gian Marco Chiocci dedicata all’operazione “Mondo di Mezzo”. Eppure nell’ordinanza che racconta il “Coppolone” – come l’ha chiamato il giornale – fra le storie delle 37 persone arrestate nell’inchiesta su mafia e appalti, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, c’è spazio anche per un incontro che si sarebbe verificato fra il boss che governava questa “Mafia Capitale” Massimo Carminati e il direttore del “Tempo”. A sostenerlo, nella loro informativa (confluita, solo in sintesi, nell’ordinanza dei magistrati della Dda) il Ros dei carabinieri. L’incontro sarebbe legato ad uno degli aspetti che più ha fatto notizia: il business delle cooperative del sociale che facevano capo a Salvatore Buzzi, numero uno della coop. “29 giugno” e braccio operativo dell’organizzazione. I fatti. A seguito di alcune intercettazioni sulle utenze di due indagati nell’inchiesta, il Ros mette sotto la lente d’ingrandimento un articolo de “Il Tempo” pubblicato il 12 marzo del 2014. Il giornale romano si occupa in quei mesi di immigrazione ed emergenza sicurezza nella Capitale.

I Sicilianigiovani – pag. 19

E titola:“Centro rifugiati bloccato dai francesi. Palla al Tar”. Secondo l’informativa dei Ros l’articolo era “volto a promuovere da parte del Buzzi e del Carminati una campagna mediatica favorevole al primo (ovvero, al Consorzio Eriches 29, che si era aggiudicata la gara d’appalto europea bandita dalla Prefettura di Roma, nonostante l’esiguità del prezzo; ragione per la quale, in seguito al ricorso proposto dalla francese GEPSA il TAR aveva sospeso l’assegnazione) e volta ad ingenerare dubbi sull’imparzialità dell’autorità giudiziaria amministrativa […]”. Il giorno dopo, sempre secondo l’informativa Ros, Carminati si sarebbe “addirittura mosso di persona” e incontrato direttamente con il direttore del “Il Tempo”. A provare questa regia dietro una delle cronache finite nell’indagine dei carabinieri, una serie di sms inviati da Buzzi e che fanno riferimento a questo articolo e al ruolo di Gianni Alemanno. In uno si legge: “il grazie ad Alemanno perché abbiamo chiesto a lui di farci uscire sul Tempo in chiave nazionale antifrancese” e nella stessa giornata, un altro ringraziamento “buongiorno Gianni e uscito un ottimo articolo su il Tempo ringrazia per noi il Direttore e ancora grazie per la tua disponibilità. Un abbraccio S. Buzzi”, sms al quale l’ex primo cittadino rispondeva:”un abbraccio. Gianni”. L’ex primo cittadino di Roma, lo ricordiamo, risulta fra i cento indagati dell’inchiesta sulla “Mafia Capitale” “La zona grigia”. La vicenda – spiegano nell’ordinanza – è “sommariamente richiamata” dall’informativa del Ros “al solo fine di rendere evidente come l’associazione operi nella “zona grigia”, tra lecito ed illecito, così cercando e riuscendo a raggiungere i propri scopi, considerando che, senza dubbio, l’attività delle cooperative riconducibili al Buzzi, portava “alle casse” dell’associazione enormi somme di denaro, tenuto conto delle gare che riesce, ben operando in detta “zona grigia” ad aggiudicarsi”. Si tratta, chiaramente, di una vicenda – come spiegano nell’ordinanza – che non ha rilevanza penale. Ma spiega come al “Coppolone”, non sfuggisse quasi nulla. Neppure il ruolo strategico dell’informazione per la gestione e il rafforzamento degli affari nella Capitale.


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I PROBLEMI DI CATANIA

Bravo, signor Sindaco! di Luciano Bruno

ACCOGLIENZA

Camaro batte Tor Sapienza di Domenico Stimolo

Nel quartiere di Camaro Superiore, un’area “difficile”, disagiata e popolare (come il Tor Sapienza), dell’estrema periferia messinese, da tempo c’è la Casa Mosè. Un Centro di Prima Accoglienza istituito in un edificio concesso in comodato d’uso all’associazione delle Suore Figlie di Maria. Un protocollo d’intesa viene stipulato con l’assessorato comunale alle Attività Sociali. Dal dicembre del 2013 ha ospitato circa cento minorenni migranti – non accompagnati dai genitori -. Un’attività di accoglienza, sostegno e solidarietà – gestita dall’Aibi, “Amici dei bambini” -, egregia. Denominata “ Bambini in alto mare”. Poi, la drastica “svolta”. I fondi pubblici (promessi) a sostegno di un’azione comandata dalle nostre norme costituzionali, non ci sono più (circa 20 euro giornalieri per migrante). Parte lo sloggio. Il Comune è ancora in attesa dei 120.000 euro stanziati a favore dei Misna – I Centri dei minori migranti non accompagnati -. Ci sono 18 ragazzini africani. Ebbene, i cittadini, in tanti, non ci stanno, e si ribellano. Manifestano per diversi giorni davanti a Casa Mosè. A sostegno dei ragazzini migranti, per non farli mandare via! Al centro della cancellata principale un grande cartello: “Siamo tutti africani”. Ben altro degli sputi e dei sassi… volati nel quartiere romano. Le leggi razziali in Italia ci sono state già state, operate dal regime fascista dal 1938.

Complimenti Signor Sindaco, Lei ha centrato il problema. La vera seccatura nella città di Catania sono i volantini, che contaminano le strade e offendono il decoro della città, otturano le caditoie e impediscono il deflusso delle acque piovane, sporcano il verde pubblic e addirittura possono anche provocare incendi… “Il problema di Palermo è il traffico”, si diceva nel film di Benigni, qui invece ” il problema di Catania sono i volantini”. Il dolce olezzo della spazzatura che esce dai cassonetti pieni fino all’orlo o degli escrementi di animali nelle vie del centro non deturpano invece la nostra bella città. Per non parlare del resto... Da sua Ordinanza, intanto, abbiamo appreso che verrà vietato fino al 6 febbraio del 2015 il volantinaggio sotto qualsiasi forma, pena multa dai 25 ai 500 euro più spese di notifica.

Io e un mio carissimo amico in condizioni diverse saremmo dei giornalisti, ma in una città come Catania, beffarda, bugiarda, matrigna e mafiosa, per guadagnarci il pane, per campare, siamo proprio degli sporchi volantinatori... Come per noi, anche per tanti altri disoccupati che si davano da fare coi volantini fino al 6 febbraio niente pane se non si vuole rischiare una multa. Ma d’altronde a chi come Lei ha lo stipendio certo a fine mese tali problemi sembreranno delle cose di ben poco conto di fronte al presunto decoro della splendida Catania.

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CARO MAFIOSO...

Ma quanto sei stronzo! di Salvo Vitale

La costante con cui gli uomini di merda, siano essi mafiosi doc, sguazzabbuttigghi, sciacquapalle, scassapagghiara, o, come li chiamava Peppino, "strascinaquacina", è sempre la stessa, la vigliaccheria. Sono capaci di esercitare la violenza solo con i più piccoli, penso a Giuseppe Di Matteo, con i più deboli, penso a Giuseppe Letizia, con gli indifesi, penso a Padre Puglisi, con le donne, penso a Lia Garofalo. Agiscono di notte, come i vampiri, pronti a nutrirsi del sangue altrui, ovvero del denaro che gli altri hanno guadagnato duramente con il loro lavoro. Agiscono armati e spesso uccidono, in un paese in cui sono proibite le armi e la pena di morte. Qualche volta agiscono su commissione di un padroncino di cui so sono messi agli ordini, spesso agiscono di propria iniziativa, per presentare il proprio biglietto da visita ai padrinelli che vogliono servire. Sono pronti a sfogare i loro bassi istinti quando sono sicuri che nessuno può disturbarli, quando agiscono in gruppo e perciò si credono i più forti. Se la prendono con gli animali, i tuoi poveri due cani o il labrador della vecchietta di ieri, preso a pistolettate (a proposito, chissà se nel corso delle indagini a 360 gradi gli inquirenti hanno esaminato i bossoli).


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s Se la prendono con gli anziani, la coppia selvaggiamente picchiata dell’altro ieri, e, se non trovano niente comprano il bidoncino di benzina e si illuminano d’immenso bruciando qualche macchina o la porta di qualche casa. Insieme si sentono forti, soli si cacano sotto. Non c’è dubbio che non saranno queste bravate da ragazzini a farci paura, ma la paura è una componente della nostra esistenza, specie quando si fa un mestiere delicato, come quello d’informare la gente e di convincerla, non in un solo giorno, che il crimine non paga, che la “malandrineria” serve solo ad abbrutire se stessi, a rovinare la propria vita e quella delle persone che stanno intorno, oltre che delle persone più care. Ed è proprio nel rispetto della vita delle persone più care che si misura la distanza tra la nostra cultura della vita e la loro cultura della morte. Noi ci teniamo ai nostri figli e desideriamo che crescano senza di loro, essi invece non se ne occupano se non per farli diventare balordi come sono loro stessi. I due cani barbaramente trucidati con il fil di ferro, ci ricordano troppo da vicino cani e gatti che, anni fa i ragazzini del clan dei Fardazza appendevano ai muri della Cantina Borbonica. Li vorremmo vedere in faccia questi sciacalli, per mostrare la loro faccia a tutti, come fai tu quando riesci a procurarti le immagini, incorniciarli con una bella scritta che esce dalla loro bocca: “Chi sugnu forti!!!!”, ma solo per poter dire loro: “Ma quanto sei stronzo!”.

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MODICA

Pasta Amara di Piero Paolino

www.ilclandestino.info È l'ultimo cioccolattiere ambulante di Modica, Luigi Baglieri. Casa per casa, via per via per vendere quel pezzo di dolcezza realizzato con la ricetta “più artigianale che esista, non quelle che alcuni fanno ora”. Lo ho seguito per giorni Ivano Fachin, un giovane regista modicano che per anni ha vissuto tra Perugia e New York, se ne è innamorato e alla fine ha realizzato il documentario Pasta amara. È un uomo d'altri tempi il signor Baglieri. Laborioso, umile, generoso. “È un uomo irripetibile, rappresenta il nostro patrimonio immateriale più grande - dice Ivano – mi ha subito affascinato. Me lo hanno presentato lo chef Carmelo Chiaramonte e Franco e Pierpaolo Ruta dell'antica dolceria Bonajuto, che ha collaborato al progetto”. Chi conosce il signor Baglieri rimane colpito per la sua intelligenza, l'acume e la dedizione. “E anche per il suo bellissimo giardino – interviene il regista di Pasta Amara dove ha quello che lui chiama l'asilo: un piccolo angolo in cui fa crescere le piantine più piccole per piantarle nella terra”. Ivano ha passato tanto tempo con l'ultimo cioccolataio ambulante. Ne ha studiato il linguaggio, i gesti, la storia.

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“Lui ripete spesso le cose due volte, un suo modo divertente di sottolineare i concetti alla fine del discorso, e io per molto tempo ho fatto altrettanto, ma su di me aveva un effetto davvero buffo”, ricorda il regista. Anche Ivano è sempre più un pezzo importante di Modica. Tanti i riconoscimenti ricevuti. L'ultimo a Torino: è stato selezionato tra i dodici finalisti del laboratorio di scrittura FictionLab, il laboratorio di scrittura organizzato dalla Film Commission Torino Piemonte, volto a sviluppare progetti di fiction televisive. Ivano ha trascorso tanti anni all'estero per formarsi fino al ritorno nella sua città. “Stare fuori è stata un’esperienza magnifica che mi ha cambiato. Mi ha anche insegnato ad amare la mia città, a percepirla in una prospettiva diversa, vederne i punti di forza proprio grazie al fatto di vederne i limiti. E mi ha insegnato il valore profondo e inestimabile della diversità”. Non è la prima volta che mette davanti alla telecamera un “superstite” di una professione perduta. Prima del signor Baglieri è toccato a don Giugginu, il gelataio ambulante. “Non volevo realizzare qualcosa che potesse assomigliare al lavoro precedente. Ma come tutte le belle storie, poi decidono per te”. Non si ferma qui, Ivano. Tra poco sarà ultimato Americazuela, un documentario sull'emigrazione siciliana in Venezuela. “Poi c'è anche qualcos'altro, ma non lo dico, sono scaramantico”, sorride Ivano.


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Beni sequestrati

Ci sono anche i business “antimafia” Decine e decine di beni affidati agli stessi amministratori. Il caso Seminara di Monica Cillerai www.telejato.it In quest’isola piena di contraddizioni, i paradossi sembrano non finire mai. Anche là, in quel Tribunale simbolo di giustizia e legalità, qualcosa non va, non funziona. Stiamo parlando di business, un business di milioni di euro. Un business “antimafia”. La mafia fagocita il mondo sano, il commercio, l’economia, il lavoro, la vita. Dà come favore ciò che ogni uomo dovrebbe avere per diritto. Trentadue anni fa, nel pieno della guerra che i Corleonesi iniziarono contro lo Stato, venne ammazzato un uomo, Pio la Torre; un comunista che aveva avuto l’idea di togliere ai mafiosi ciò cui più tengono: i soldi, e il territorio. Quattro mesi dopo viene approvata la legge Rognoni-La Torre (1982), che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato ha le armi per attaccare i loro patrimoni, per riappropriarsi di quei soldi. Fino a quel momento, i mafiosi potevano anche andare in carcere, ma da là continuavano ad amministrare tranquillamente il loro patrimonio rimasto inviolato. La storia va avanti.

Prima Pio La Torre, poi Libera Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che dispone l’uso sociale dei beni confiscati, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità, patrimoni insanguinati che vengono lavati e rigettati nella società per creare un’economia pulita, che dia un’alternativa reale al giro di soldi creato dalla criminalità organizzata. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono uno dopo l’altro. Il novanta per cento di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. La pericolosa contraddizione che porta a pensare che quando c’è la mafia si lavora, e quando arriva lo Stato si fa la fame. La scusa è sempre la stessa: le imprese mafiose facevano lavorare in nero, avevano i conti irregolari, facevano riciclaggio etc. E sicuramente per numerosi casi è così. Ma ciò non giustifica il fallimento e la liquidazione totale di aziende che fatturavano milioni. E anche quelle aziende che poi vengono riconsegnate ai legittimi proprietari perché dichiarati innocenti, poi, falliscono. Imprese vuote, devastate. Distrutte. Perché aziende sane finiscono a pezzi? Com’è possibile? Se quelle aziende erano pulite, nel giro “sano” dell’economia, perchè quando arrivano nelle mani dello Stato ne escono a pezzi? Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecitomafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione

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del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. Dodicimila beni confiscati Ma vediamo i numeri: i beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40 per cento. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un giro di circa 30 miliardi di euro, solo a Palermo. Una marea di soldi, un oceano di denaro che potrebbe sollevare quest’isola in crisi ma che purtroppo finiscono nelle tasche dei soliti pochi eletti, distruggendo anzi il fragile capitalismo siciliano. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendoli in attività e tenendoli agli stessi livelli che precedevano il sequestro. La prima fase del sequestro Questa fase di sequestro, secondo la legge modificata nel 2011, non deve superare i sei mesi, rinnovabili al massimo per altri sei. In questo periodo vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se estraneo a tali attività viene restituito al proprietario precedente. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettati i tempi di legge. In media, il bene resta sotto sequestro per cinque-sei anni; ma ci sono casi in cui i tempi si prolungano fino ad arrivare a sedici anni.


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L’albo degli amministratori competenti, che è stato costituito nel gennaio 2014, per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. Non per capacità accertata, visto hce la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro (anche se magari vengono dichiarati esterni alle vicende in esame e gli imputati assolti da tutte le accuse). Facciamo un esempio: Cappellano Seminara, il “re” degli amministratori giudiziari,“l’uomo dei cinquantasei incarichi”, è arrivato a amministrare quasi una sessantina di beni, che con le varie ramificazioni diventano 254 tra imprese, aziende e immobili. Un’avvocato che si occupa di fare economia e business, e che mensilmente guadagna 2500 euro per ogni azienda a suo carico “L'uomo dai 56 incarichi”

E sarebbero anche soldi giustificabili se quest’amministratore fosse competente. Ma con 256 incarichi risulta impossibile anche solo visitarle una volta tutte all’anno. Come fa quindi ad amministrarle? Molte aziende falliscono. Il soggetto in questione al momento è indagato, per truffa aggravata, per il caso di una discarica in Romania: la discarica di Glina, che amministrava parzialmente, avendo tentato tramite prestanome di entrare nel consiglio di amministrazione. Ma nonostante ciò, continua il suo lavoro e gli vengono affidati altri incarichi. Seminara è ora uno degli avvocati più ricchi della Sicilia, con uno stipendio milionario: (provate a fare 256x 2500 euro, per dodici mesi: fanno circa settemilioni e mezzo l’anno) ma con

decine di lavoratori licenziati – quelli delle aziende fallite sotto la sua amministrazione – sulle spalle. Questi stipendi “manageriali” devono essere pagati dall’azienda stessa, che teoricamente dovrebbe funzionare. Ma ai 2500 euro mensili per Seminara si sommano gli stipendi dei vari collaboratori che dovrebbero aiutare l’amministratore a far funzionare il bene, e che percepiscono un onorario di circa 1500 euro. E non è finita: c’è ancora il perito (sempre nominato dal tribunale) incaricato di dare un valore economico al bene, cui spetta un compenso pari all’un per cento della valutazione. Seminara – a parte tutto - è incompatibile con alcuni degli incarichi che svolge. E’ il proprietario di un albergo a Palermo, l’albergo Brunaccini. L’amministratrice delegata è la nonna, di 84 anni. Lo stesso Seminara ha contribuito a far sequestrare un altro albergo vicino – e concorrente al suo perché, a suo giudizio, “vicino ad ambienti mafiosi”. Ma a chi rendono conto questi amministratori giudiziari e i vari coadiutori e periti? A controllarli sono gli stessi giudici che li hanno nominati, e solo loro. A Palermo, sulla sezione delle Misure di Pre-

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venzione del tribunale, con a capo la dottoressa Silvana Saguto, ricade la responsabilità di gestire – affidandoli a terzi beni per circa trenta miliardi di euro. Troppi soldi per troppo poche mani.. La messa in liquidazione La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro è abbastanza consolidata: succede così di ritrovarsi con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, sia esso di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le incapacità del sistema.


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Trattative

Il golpe che non ci fu “In Calabria riunioni negli anni Novanta. Si parlava di Colpo di Stato”. Ma poi “le famiglie erano contrarie e non se ne fece nulla” di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com “Tra il 1991 ed il 1992 si parlava di Colpo di Stato per destabilizzare. O qualcosa così. Si parlava di dividere la Calabria, c'era un discorso della Magna Grecia, dividere l'Italia con nord e sud. Venne anche un esponente di Cosa nostra che non ricordo chi fosse. Molte famiglie calabresi erano contro e non se ne fece nulla. Anche in altre occasioni c'erano state riunioni simili, io ero ragazzino. Le famiglie si vedevano con personaggi ambigui come Delle Chiaie, Freda”. Le dichiarazioni sono del collaboratore di giustizia Antonino Fiume, ex ndranghetista ed ex cognato del boss Giuseppe De Stefano, sentito al processo Capaci bis nell'ultimo giorno di trasferta all'aula bunker di Rebibbia a Roma. Il pentito ha parlato dei rapporti tra la 'Ndrangheta ed altre organizzazioni criminali spiegando che esisteva “una banca di favori della 'Ndrangheta. Si facevano degli scambi d'interesse, si poteva collaborare scambiandosi anche armi 'sporche', impiegate in altri delitti”.

Tuttavia nell'ambito di questi favori sarebbe da escludere il coinvolgimento delle famiglie calabresi nell'attentato di Capaci con la consegna dell'esplosivo proveniente dalla nave Laura C. Arrabbiati con Riina “Io so che le famiglie calabresi erano contrarie alla strage di Capaci e a quella strategia che venne dopo. L'idea era che i magistrati o si avvicinano o si delegittimano, non si uccidono. C'erano riunioni a Milano, in Calabria, con i De Stefano, i Piromalli i Mancuso. Io non so se sia stato consegnato dell'esplosivo a Cosa nostra, quella 'Ndrangheta che conoscevo io so che era contraria ed era arrabbiata con Riina”. Fiume ha anche raccontato un episodio il giorno della strage. “Eravamo in un bar e tutti parlavano dell'attentato si vedeva la macchina. E tutti iniziarono a dire Totò, Totò, un tifo come se fosse Schillaci. Ricordo che De Stefano mi disse 'che stai facendo cose che ti rovini, che fai il tifo'. Ma ero giovane e da giovane si fanno cose così”. Esplosivo e servizi I pm, ricordando comunque che vi sono delle indagini in corso da parte di altre procure, hanno chiesto alcuni approfondimenti anche sulla questione dell'esplosivo in quanto in passato lo stesso Fiume avrebbe suggerito di comparare quello utilizzato in alcuni attentati calabresi con quello usato a Capaci. “Lo dissi perché era una voce che c'era e che circolava – ha spiegato innanzi alla Corte nissena - anche se io non davo molto peso. E di favole ne ho sentite tante. Ad esempio quella che Riina è arrivato a Reggio su di un motoscafo per fare la pace tra le famiglie coinvolte nella guerra di 'Ndrangheta”.

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Dopo aver spiegato quelli che erano gli schieramenti durante la guerra di 'Ndrangheta, scoppiata tra il 1985 e il 1991, Fiume ha anche parlato di alcuni contatti tra le famiglie calabresi ed i servizi segreti, pur ribadendo di non sapere se vi fossero interessamenti “istituzionali” per l'esplosivo della Laura C. “Fanno la guerra e fanno la pace” “Io ricordo che Giuseppe De Stefano una volta, parlando dell'autobomba di Villa San Giovanni (quella che l’11 ottobre del 1985 provocò la morte di tre persone senza però raggiungere l’obiettivo principale, Antonino Imerti alias nano feroce, che diede inizio alla guerra), disse: I Servizi fanno la guerra e i Servizi fanno la pace”. “Lui e suo padre – ha proseguito Fume erano rimasti scottati da alcune cose del passato. Era una paura che mi avevano trasmesso. Un'altra frase che ricordo era in merito ai Condello. Diceva: Condello ci ammazza e ci paga come reati. I Servizi ci ammazzano e non ci pagano. Comunque c'erano delle famiglie che avevano dei rapporti con amicizie ambigue. I Mazzaferro, i Nirta”. E’ stato ultimato l'esame del collaboratore di giustizia siciliano Pietro Romeo ed il controesame di Giovan Battista Ferrante. Cosimo Lo Nigro, tra gli imputati nel 'Capaci bis’ è intervenuto con delle dichiarazioni spontanee con cui ha voluto evidenziare quelle che, a suo dire, sarebbero incongruenze rispetto a quanto riferito dai pentiti Romeo e Grigoli.


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Trattative

Fra 007 e casalesi Per evitare dei possibili attentati, esponenti dei Servizi tentarono accordi con camorristi? di Arnaldo Capezzuto ladomenicasettimanale.it

Forse non è stata una trattativa tra Stato e cosca dei Casalesi ma sicuramente non è sbagliato parlare di una sorta di “promessa indecente”. Solite storie borderline di “riduzione del danno”, messe in atto da entità non bene identificate: leggi settori dei servizi e apparati deviati. Sbirri, spioni, intermediari, strutture segrete e come per incanto ci ritroviamo dentro alle trame nascoste dello “Stato parallelo”. Tra il 2008 e 2009 il boss dei Casalesi Giuseppe Setola, il finto cecato, a capo di una falange militare, – si è attribuito 46 omicidi – semina il terrore nel casertano. Agisce con un gruppo di efferati killer armati di kalashnikov e bombe. Impongono la “propria” legge facendo scorrere fiumi di sangue. Imbottiti di cocaina, onnipotenti e impuniti mettono in atto una vera e propria strategia stragista di tipo corleonese. Sono giorni tragici: si comincia con l’uccisione di sette cittadini africani a Castel Volturno e poi è un continuo di omicidi a strascico. E’ una furia Setola: in assenza dei capi – alcuni latitanti e altri in galera – prende il comando e agisce d’impeto.

Giuseppe Setola e Antonio Iovine

A capo della spedizione Nel mirino finisce anche il povero Domenico Noviello, un imprenditore perbene, un eroe silenzioso, che in tempi difficilissimi, prima fa arrestare e poi condannare gli estorsori dei Casalesi. Il suo nome è al primo posto nella black list. Anche lui è eliminato per vendetta. Era il 16 maggio del 2008 a capo della spedizione c’è proprio ‘O Cecato. Senza pietà, il gruppo di fuoco crivella di proiettili Noviello mentre è a bordo della sua auto. Dolore, sofferenza, rabbia. E poche settimane fa, per quell’efferato omicidio, c’è stata la durissima sentenza pronunciata dai giudici della Corte d’Assise del Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere: ergastolo all’intero commando di fuoco. Dicevamo, lo Stato tentò di mettersi di traverso e spezzare quel disegno criminoso. Un approccio che puntò a creare un canale di dialogo con il latitante Antonio Iovine detto ‘O Ninno (oggi collaboratore di giustizia). La trattativa – sostengono le carte del pool anticamorra partenopeo riportate da alcuni quotidiani – passò attraverso un incontro riservatissimo tenutosi pare a pochi chilometri da Viareggio. Qui un emissario del padrino tale Maurizio di Puorto, pregiudicato per estorsione e associazione camorristica, e alcuni 007 non identificati s’incontrarono. Cinquanta chili di tritolo Due le richieste: l’arresto di Setola e dei componenti del suo gruppo, la fine della strategia stragista. Sembra che in cambio lo Stato garantisse a Iovine e sottoposti libertà assoluta nei loro territori d’influenza e altre utilità. A spingere agli “indicibili accordi” un’allarmante intercettazione ambientale in cui due camorristi alludevano all’arrivo in Campania di 50 chili di tritolo.

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Esplosivo da utilizzare per operazioni plateali: colpire magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e giornalisti. La trattativa, a quanto parrebbe, non andò in porto. Iovine, infatti, pretende dalle “entità” la scarcerazione immediata della moglie Enrichetta finita dietro le sbarre per un’estorsione e altri vantaggi. Il boss latitante elabora le sue richieste in un documento: una sorta di papello. Lo affida a un altro suo fedelissimo, tale Benedetto Cirillo, suo vivandiere. Il fascicolo giudiziario sulla presunta trattativa Statocamorra è destinato sicuramente a ingrossarsi e diventare un fiume in piena. Una trattativa non riuscita Una trattativa non riuscita che forse fu seguita da altre. Saranno coincidenze, infatti, ma l’arresto di Setola, lo smembramento del gruppo di fuoco, la cattura dello stesso Iovine e dell’imprendibile padrino Michele Zagaria sono solo frutto dell’impegno dello Stato e del cosiddetto “Modello Caserta” tanto pubblicizzato dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni oppure di altro? Interrogativi a cui il pool di magistrati partenopei sta tentando – attraverso indagini segretissime – di dare risposte. E’ chiaro che il cuore dell’inchiesta dovrà chiarire: chi ha autorizzato gli 007 a prendere contatti con i capi dei Casalesi, chi poteva – in caso di accordo – garantire i vantaggi ai camorristi e più che altro perché i magistrati non sono stati avvisati delle iniziative coperte? Insomma sembra di essere ripiombati di botto ai tempi del “caso Cirillo” dove vertici istituzionali, apparati dello Stato, servizi, camorra e terroristi seduti attorno allo stesso tavolo decidevano il da farsi bypassando le leggi. Tornano i soliti scenari torbidi, inesplorati che fanno apparire le mafie per un attimo nella loro vera essenza e sostanza. www.ilfattoquotidiano.it


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Base Italia

La nuova Nato flessibile e globale Armi sempre più potenti e sofisticate, droni-killer e sistemi missilistici, ma anche di testate nucleari moderne e pronte ad ogni uso. Il nostro Paese fornirà le basi e il MUOS metterà in rete centri di comando di Antonio Mazzeo Dal prossimo anno il Joint Forces Command (JFC) di Napoli, il comando strategico alleato interforze in Sud Europa, guiderà la Nato Response Force (NRF), la forza di pronto intervento di 25.000 militari in grado d’intervenire in poche ore in qualsiasi area di crisi del pianeta. Una task force iper-specializzata che ha a disposizione basi, depositi di munizioni e infrastrutture di supporto principalmente nei paesi Nato prossimi alla frontiera con la Russia, potenza contro cui Bruxelles intende scatenare altre crociate per la supremazia mondiale. Due anni fa il quartier generale del JFC Nato è stato trasferito da Bagnoli a Lago Patria, in una modernissima megainfrastruttura di 85mila metri quadri costata 165 milioni di euro. Vi operano 2.100 militari e 350 civili di 22 paesi dell’Alleanza: Belgio, Bulgaria, Canada, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia, Ungheria e Stati Uniti d’America.

Il legame Nato-Ue A Lago Patria è stato pure trasferito il distaccamento dell’Unione europea che sovrintende alle operazioni militari in Bosnia-Erzegovina, a conferma dell’ormai inestricabile legame tra l’Alleanza Atlantica e l’Ue. La “nuova” Nato flessibile e globale ha bisogno di armi sempre più potenti e sofisticate, droni-killer e sistemi missilistici innanzitutto, ma anche di testate nucleari moderne e pronte ad ogni uso. Per questo è stato avviato in Europa un programma di ammodernamento delle testate a caduta libera del tipo B61, novanta delle quali sono ospitate oggi nelle basi di Ghedi di Torre (Brescia) e Aviano (Pordenone). Nello scalo bresciano le aree di stoccaggio delle testate sono custodite dal 704th Munitions Maintenance Squadron (MUNS) dell’US Air Force che in caso di conflitto può armare i velivoli delle forze aeree italiane e di altri paesi Nato. Le unità nucleari operano alle dipendenze del 16th Air Force, il comando delle forze aeree Usa in Europa di stanza ad Aviano con due squadroni con cacciabombardieri F-16 in grado d’intervenire regionalmente ed extra-area su richiesta del Comando supremo alleato in Europa (Saceur). Aviano: unità nucleari La base friulana, dove operano stabilmente oltre 4.000 militari e 594 civili statunitensi, è oggetto di un articolato programma infrastrutturale per un importo complessivo superiore ai 610 milioni di dollari (“Aviano 2000”). Oltre alle unità dell’US Air Force, ad Aviano ci sono pure un centinaia tra militari e contractor nella custodia dei depositi di US Army Africa (USARAF), il comando per le operazioni terrestri in territorio africano che il Pentagono ha attivato sei anni fa a Vicenza.

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Proprio questa città veneta, patrimonio Unesco, è stata promossa dal Dipartimento della difesa nella “capitale dell’esercito statunitense di stanza in Sud Europa”. Con un investimento di 465 milioni di dollari sono stati realizzati nuove, caserme, depositi, centri di telecomunicazione, ecc.. Il progetto più costoso e devastante dal punto di vista territoriale ed ambientale ha visto la trasformazione dell’ex aeroporto civile “Dal Molin” in hub operativo del 173rd Airborne Brigade Combat Team, il reparto di pronto intervento aviotrasportato dell’esercito Usa, impiegato nei maggiori scacchieri di guerra mediorientali (Iraq e Afghanistan) e più recentemente in Africa ed Ucraina. Oggi la nuova infrastruttura di Vicenza ospita i comandi della brigata e quattro battaglioni, due provenienti dalla Germania e due dalla storica base militare di Camp Ederle. Anche a Vicenza il numero dei militari Usa supera le 4.000 unità. La capitale dei droni, Sigonella Altri 5.000 militari statunitensi operano a Sigonella, la maggiore installazione aeronavale Usa e Nato per gli interventi in Europa orientale, Africa, Medio Oriente e Sud-est asiatico. Entro un paio d’anni, la base siciliana opererà da vera e propria capitale mondiale dei droni. Da un lustro i velivoli senza pilota “Global Hawk” di US Air Force decollano da Sigonella per “sorvegliare” e individuare gli obiettivi da colpire in un’area geografica che dal Mediterraneo si estende sino all’intero continente africano. Nella base aeronavale è entrato in funzione un grande centro di manutenzione e riparazione dei droni di US Air Force e US Navy, compresi i famigerati velivoli killer tipo “Predator” e “Reaper” utilizzati per bombardare in Medio oriente, Libia, Somalia, Mali e Congo.


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“Il MUOS metterà in rete tutti i vari centri di comando, controllo e intelligence e tutte le unità operative, dalle navi ai sommergibili, dai missili ai droni” Scheda MILITARI SOMALI IN ITALIA LI ADDESTRA LA “FOLGORE” Un mese di training in Italia per fare la guerra ai miliziani al-Shabab in Corno d’Africa. Da qualche giorno, una trentina di militari somali sono ospiti a Livorno per partecipare a un “corso di scorta, protezione ravvicinata e antiterrorismo” che li abiliterà a guardie del corpo dei leader di governo e delle forze armate del martoriato paese africano. Ad addestrare il personale somalo in alcuni poligoni della Toscana ci sono gli incursori del 9° Reggimento d’Assalto “Col Moschin”, reparto d’eccellenza della Brigata Folgore. Queste attività rientrano nel programma di cooperazione italo-somalo, avviato dopo la firma a Roma, nel settembre 2013, di un Memorandum nel settore Difesa e gli accordi messi a punto con la visita a Mogadiscio, il 10 ottobre 2014, del Capo di stato maggiore, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli. I militari “ospiti” a Livorno avevano frequentato nei mesi scorsi i corsi di addestramento basico per la fanteria curati da EUTM Somalia, la missione addestrativa che l’Unione europea ha attivato nell’aprile 2010 in collegamento con il Comando militare statunitense per il continente africano (US AFRICOM) ed AMISOM, la missione militare dell’Unione africana in Somalia. Schierata inizialmente a Kampala, EUTM Somalia avrebbe dovuto operare per non più di tre anni, ma nel gennaio 2013 il Consiglio Europeo ha deciso di estenderla sino al 31 marzo 2015, stanziando 11,6 milioni di euro e ampliandone i compiti alla “consulenza politico-strategica” e all’addestramento specializzato delle forze governative in “attività anti-insurrezione e anti-terrorismo e al combattimento in ambiente urbano”. Nella seconda metà del 2013 la missione Ue ha trasferito il quartier generale a Mogadiscio. La missione Ue vede schierati in Somalia 125 militari di 10 paesi (Italia, Germania, Svezia, Ungheria, Spagna, Belgio, Finlandia, Olanda, Portogallo e Serbia). Dal 15 febbraio il comando della missione è affidato al generale Massimo Mingiardi, vice comandante della Scuola di fanteria di Cesano ed ex comandante della brigata “Folgore”. L’Italia fornisce oltre il 60% del personale EUTM: un’ottantina di militari provenienti dal 186° Reggimento della “Folgore” e alcuni addestratori specializzati dell'Esercito e dei Carabinieri.

I corsi addestrativi EUTM hanno preso il via a fine febbraio, col compito di formare i militari somali destinati ad addestrare le future reclute del Somali National Army (SNA). La missione europea ha pure organizzato corsi specialistici per ufficiali e sottufficiali dell’esercito somalo e per le forze di polizia. Particolare enfasi è data alle attività d’intelligence e di contrasto delle milizie armate al-Shabab, ritenute vicine ad al-Qaeda e, dei flussi migratori tra il Corno d’Africa e l’area mediterranea. Ad agosto, i parà della “Folgore”, insieme ad alcuni “consiglieri” militari statunitensi, hanno condotto un corso addestrativo al combattimento in ambiente urbano per 250 militari somali. “L’attività è volta a potenziare le capacità operative necessarie all’esercito somalo affinché possa sconfiggere i gruppi terroristi e garantire la sicurezza nazionale”, ha spiegato il generale Massimo Mingiardi. Il corso ha coinciso con l’addestramento fornito dalle forze armate statunitensi a due compagnie delle forze speciali somale nelle “attività contro insurrezione e anti terrorismo”. Nonostante Usa e Ue abbiano intensificato il proprio impegno a favore delle forze armate somale, il generale Mingiardi ha chiesto a Bruxelles ulteriori risorse finanziarie e umane. “Aiutare la Somalia a ricostruire le sue forze armate è una missione importante e impegnativa”, ha dichiarato ad Adnkronos. Dal 22 settembre, due velivoli-spia a pilotaggio remoto “Predator” del 32° Stormo dell’Aeronautica militare, di stanza ad Amendola (Foggia), sono stati schierati a Gibuti nell’ambito della missione antipirateria dell’Unione europea “Atalanta”. I “Predator” vengono impiegati tuttavia per altre attività di sorveglianza e ricognizione a terra, anche a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie vicine ad al Qaeda. Il 3 ottobre ha preso il via in Somalia anche la missione di addestramento “MIADIT” dell’Arma dei Carabinieri. Una trentina d’istruttori dell’Arma sono impegnati in un percorso formativo di 12 settimane con 150 agenti della polizia somala. La missione, spiega il colonnello Paolo Pelosi, comandante di MIADIT, è “volta a favorire la stabilità e la sicurezza della Somalia e dell’intera regione del Corno d’Africa, accrescendo le capacità nel settore della sicurezza e del controllo del territorio da parte delle forze di Polizia somale”. A.M.

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Entro il 2017, a Sigonella sarà pienamente operativo pure il programma Alliance Ground Surveillance (AGS) della Nato. Il nuovo sistema alleato di “sorveglianza e riconoscimento” si articolerà su un centro di coordinamento e controllo (con 800 militari provenienti dai paesi dell’Alleanza) e cinque velivoli senza pilota RQ-4 “Global Hawk” Block 40, versione più avanzata dei droni Usa. Mobile User Objective System Sempre in Sicilia, 70 km più a sud di Sigonella, nel cuore della riserva naturale di Niscemi (Caltanissetta) è stata completata una delle quattro stazioni mondiali del MUOS (Mobile User Objetive System), il nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari in altissima frequenza della Marina militare statunitense. Il MUOS metterà in rete centri di comando, controllo e intelligence, infrastrutture logistiche, le migliaia di utenti mobili come cacciabombardieri, unità navali, sommergibili, reparti operativi, missili Cruise, aerei senza pilota, ecc., decuplicando la velocità e la quantità delle informazioni trasmesse nell’unità di tempo. Uno strumento di dominio planetario Uno strumento di guerra e dominio planetario di proprietà ed uso esclusivo del Pentagono che genererà potenti fasci elettromagnetici con gravissimi effetti per l’ambiente e la salute degli abitanti di un’ampia area della Sicilia e pesanti limitazioni perfino sul traffico aereo civile negli scali e nei cieli dell’Isola.


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L’EUCARISTIA MAFIOSA La voce dei preti di Salvo Ognibene www.eucaristia mafiosa.it

Navarra Editore Pagine: 144 Prezzo: 12,00 €

L’autore: Salvo Ognibene Dopo qualche anno torna con la famiglia a Menfi, in Sicilia. Ha studiato Giurisprudenza all’Alma Mater Studiorum di Bologna discutendo una tesi sui rapporti tra Chiesa, mafia e religione. È giornalista (non iscritto all’albo) e arbitro di calcio (A.I.A.). Nel 2011 ha fondato il sito di informazione e dibattito www.diecieventicinque.it e collabora, tra le altre, con “I Siciliani giovani” e “Telejato”. Impegnato nella promozione della legalità e della cultura antimafia, ha contribuito alla formazione di dossier di denuncia sul fenomeno mafioso in Emilia Romagna. Da diversi anni si divide tra associazionismo ed impegno politico, occupandosi anche delle politiche giovanili, studentesche e universitarie. www.salvatoreognibene.blogspot.it

Cos’hanno in comune le organizzazioni criminali e la Chiesa di Roma? Com’è possibile che proprio nelle quattro regioni più devote di Italia - Sicilia, Calabria, Puglia e Campania - siano nati questi fenomeni criminali così feroci? A queste e molte altre domande cerca di dar risposta lo spinoso lavoro di Salvo Ognibene. L’eucaristia mafiosa - La voce dei preti, opera prima di Salvo Ognibene, affronta il controverso rapporto tra mafia e Chiesa cattolica, una storia che va dal dopoguerra ai giorni nostri. Una storia di silenzi e di mancate condanne che dura da decenni e che è stata interrotta da rari moniti di alti prelati, dall’impegno di pochi ecclesiastici e da alcune morti tristemente illustri come padre Pino Puglisi e don Peppe Diana. La riflessione prende il via dal tema della ritualità come manifestazione di potere: la processione come compiacenza; l’affiliazione come nuova religione; uomini che indossano la divisa di Dio per esercitare il loro potere in terra. Uomini di morte e di pistola con i santi sulla spalla. l’ La fede di Provenzano nel libro di Dio, la Bibbia, ma anche ateismo di Matteo Messina Denaro. Le due facce della mafia nello scontro con i mezzi di Dio. Pur percorrendo la linea già segnata da due grandi studiosi come Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, L’eucaristia mafiosa - La voce dei preti si presenta con un taglio diverso: non si basa su strutture, non dialoga con i sistemi, ma indaga la realtà di prima mano, interroga i protagonisti di questo dualismo e cattura le ‘voci’, gli esempi concreti del presente per rivalutare la missione e la posizione della Chiesa di oggi. Le voci dei religiosi-testimoni all’interno del libro ripercorrono tutta l’Italia: Monsignor Pennisi; Don Giacomo Ribaudo; Monsignor Silvagni; Don Giacomo Panizza; Don Pino Strangio, Suor Carolina Iavazzo. Preti e suore che hanno preso posizione e hanno fatto del Cristianesimo, ognuno a modo proprio, uno strumento di lotta alle mafie.

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Netanyahu fuori controllo

Anti-palestinese e anti-israeliano Martoria la Palestina e isola Israele. Non è un interlocutore politico ma un problema

di R.O. RAMALLAH - Torna alta la tensione tra Israele e Palestina dopo la morte del ministro palestinese Ziad Abu Ein. Il ministro è deceduto dopo alcuni incidenti con l'esercito israeliano durante una manifestazione vicino a Ramallah. “E' morto dopo che un soldato lo ha colpito al petto con l'elmetto", ha detto all'agenzia Maan il direttore del comitato di informazione Jamil al Barghouti. Per l'agenzia il ministro ha inoltre inalato grandi quantità di gas lacrimogeno lanciato nell'area della manifestazione dai soldati dell'esercito israeliano. *** "TEL AVIV - Un italiano di 30 anni che manifestava insieme a un gruppo di solidarietà con i palestinesi - è stato ferito all'addome in maniera grave in scontri avvenuti con l'esercito israeliano in un villaggio nei pressi di Nablus in Cisgiordania. La Farnesina conferma il ferimento di un connazionale in Cisgiordania. L'italiano, si apprende, è in condizioni stabili e fuori pericolo...". *** Scrive (o meglio, detta) Shadi Alanzen, il fotografo palestinese che abbiamo pubblicato sul numero scorso: “Hello my friends, don't worry about me soon I will be fine. The Gas entered my eyes by the isreali army in the north of Gaza and i still have little pain in my eyes and i need 3 days or week and will be fine inshallah... and really I miss all of you”.

Mai così isolati Dopo la Svezia, primo paese Ue a riconoscere lo stato della Palestina, monta nella Ue e all'Onu la pressione a favore di Ramallah. Da New York fonti diplomatiche rivelano che entro gennaio, potrebbe essere sottoposta al voto del Consiglio di sicurezza la bozza di risoluzione palestinese che chiede la fine dell'occupazione israeliana in Cisgiordania. A breve la plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo voterà una risoluzione di sostegno al riconoscimento dello Stato palestinese, facendo eco alle analoghe prese di posizione dei parlamenti di Gran Bretagna, Spagna e Francia. Si tratta probabilmente del momento di maggior isolamento internazionale vissuto, dalla sua fondazione, dallo Stato d'Israele. Un governo di estrema destra Il governo Netanyahu, formato da una destra estrema, è ormai decisamente fuori controllo: il pensiero ebraico, che per duemila anni è stato il cuore dell'Europa civile, è stato sostituito da uno dei tanti fanatismi mediorientali, pericolosi per sè e per gli altri. Sono ben poche, oramai, le differenze sostanziali fra Netanyahu e Hamas. *** Ci si chiede se in queste condizioni sia ancora opportuno per il nostro Paese il mantenimento di ordinari rapporti diplomatici con tali soggetti, e se non lo sia invece una loro temporanea sospensione. Nell'interesse italiano, europeo, palestinese e soprattutto del peggior prigioniero della destra fanatica, lo Stato d'Israele.

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Scene di vita quotidiana in Palestina (foto di Younes Arar).


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Periferie/ Brasile

Il bambino e la favela "Minha brincadeira è usar droga”, il mio divertimento è la droga. Infanzia nel pianeta Terra di Antonio Vermigli www.reterr.it

Il sole è già alto e forte, illumina e scalda San Paolo, già stremata da un traffico sempre più infernale. Tutti aspettano la pioggia che non arriva, e, quando giunge, è lieve, non bagna, non fuma e non riempie la Barra da Cantareira, il grande bacino idrico della città che si sta giorno dopo giorno prosciugando. In molti quartieri l'acqua è razionata. I ricchi però possono permettersi l'arrivo di camion "pipa" cisterna, per sedare l'assenza di un bene talmente essenziale, di cui ci si ricorda, solo quando manca, senza mai riflettere realmente sul perché, sulle cause. Sandro, responsabile del Centro San Martino da Lima, dove ogni giorno passano 600 uomini e donne di strada, mi accompagna nel centro della città. Scesi dal metro, ci dirigiamo verso Praça Dom Josè Gaspar. E' il luogo di riferimento e d'incontro dei bambini e degli adolescenti che vivono direttamente sulla strada. Un censimento dell'associazione di Sandro, ha registrato la presenza di 212 bambini e 221 adolescenti. In piazza ce ne sono almeno una cinquantina, formando piccoli gruppi, come a difesa.

Ci avviciniamo ad uno di questi. Sono in sei, tutti adolescenti. Iniziamo a parlare con Diego, ma non è il suo vero nome, è il suo soprannome, il suo nome di "guerra" come ci dice. Vive lì da 7 anni, vi è arrivato quando ne aveva 6. Ha subito imparato a procurarsi il mangiare, l'acqua, vestiti, un po' di denaro e altre cose che incontra camminando. Ci chiede di seguirlo per mostrarci come si procura queste cose. Arrangiarsi nella strada Sandro ed io ci guardiamo, pensando che voglia coinvolgerci in qualche malefatta. Niente di tutto questo. In pochi minuti, muovendosi come a casa, riesce a procurarsi dai negozianti -dai quali è certamente conosciuto - una bottiglia di acqua, dei biscotti, un panino con la mortadella, una bibita e un complimento. "Tu sei bello", gli ha detto una giovane ragazza bionda. Si sono fermati a parlare rapidamente. Lei gli ha fatto un altro complimento e un sorriso, poi ha ripreso il cammino. Diego restò molto felice. Continuando la conversazione ci ha spiegato che vivendo nella strada si deve "arrangiare": ou usar o seu carisma - a usare il suo carisma. Egli ruba e ci racconta senza mezze parole i segreti di questo suo "lavoro", lo chiama così. "Prende i cellulari dalle borse delle persone senza farsene accorgere". Ci spiega che mai ruba nelle borse leggere di tela, è pericoloso, se ne accorgerebbero subito. Diego non sa né leggere né scrivere. Ha provato ad andare a scuola, ma non si trovava bene. Era ribelle, litigava continuamente con i compagni. Fu espulso e non ci è più tornato. Improvvisamente si avvicina a Diego Davi 2, nel suo gruppo c'è un altro Davi, più grande, di conseguenza lui è il n. 2. Ha sette anni. Al contrario di Diego, chiede l'elemosina e qualsiasi tipo di aiuto.

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La notte dorme in un carretto E' troppo piccolo! Ci racconta che cammina e corre tutto il giorno per il centro. La notte dorme in un carretto al lato della strada con altri due suoi compagni. Dà baci, dice ciao a tutti con una tale simpatia che molti sorridono, mentre alcuni si fermano. Per adesso, ci dice, ho tutto ciò che mi necessita. Diego ha passato la sua infanzia senza che nessuno avesse cura di lui. Non sa cosa è giocare. Ci racconta che il suo gioco è stato sempre picchiarsi con altri suoi coetanei. Nel frattempo ci hanno raggiunto altri due suoi amici adolescenti. Ascoltando Diego, uno di loro entra nella conversazione. Gli chiediamo il nome e l'età, niente nome, dice solo che ha 13 anni. Ci rivela che il suo divertimento e': "minha brincadeira é usar droga” - “il mio divertimento è usar droga", con voce roca e gli occhi quasi chiusi da tanto tirar colla e fumare crack. Non una voce, ma un lamento, come a lanciare un ultimo grido, sapendo di non essere ascoltato e che di lì a poco la sua vita si alzerà come fumo nel cielo. Una baracca piccola, per bambini Ci guardiamo Sandro ed io. Ci sediamo su una panchina di cemento all'inizio del giardino che orna la piazza Josè Gaspar. Il silenzio diventa parte di noi, comprendiamo che il tempo è qui, dentro di noi, è un sentimento che ci accompagna, mentre i nostri sguardi cadono su questi silenzi di vita, che urlano. Spesso il tempo è un nemico che ci corrode la vita e ci consegna al nulla. O è un dono affidato alla nostra responsabilità, rivelandosi compagno? E' come uno svegliarsi quando Mateus, otto anni, batte la sua mano sinistra sul mio ginocchio scoperto, vecchio e fragile. Con il dito ci indica una baracchina piccola, per bambini.


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“Il piccolo Mateus fa finta di avere una casa. Lui sogna così”

Il progetto Agua Doce Ci chiede di seguirlo, è lì a pochi metri, ci fa girare intorno alcune volte, come a farci capire che quella è la sua casa. Mi inginocchio, ma dopo pochi secondi i miei ginocchi chiedono di rialzarsi. Ci tira per i pantaloni, non vuole che ce ne andiamo. Si avvicina un uomo di strada, alto, si chiama Adalberto. Sicuramente deve avere osservato il nostro stare con Mateus. Ci dice, guardandolo: "Mateus, finge que essa e uma casa, ele tem este sonhoMateus-fa finta che questa è la sua casa, questo è il suo sogno". Ho passato cinque giorni tra Petropolis e la Baixada Fluminense (Rio de Janeiro) ospite di Waldemar Boff. Ho visitato le realtà operative e fatto incontri con gli educatori e formatori popolari che insieme a Waldemar sono punto di riferimento per le popolazioni del quartiere "Sertao de Carangola" a Petropolis e in vari quartier della Baixada in cui operano.

Attualmente il progetto è così sviluppato: Petropolis-Sertao de Carangola: Nel centro sociale operano tre educatori, Devanise, Delia e Julia. Da lunedì al venerdì, dalle 14 alle 18; circa 30 giovani della comunità partecipano a varie attività: doposcuola, lettura, danza, piccolo artigianato e capoeira. Baixada Fluminense: Asilo Vera con quaranta bambini e Casa della Delicatezza (sede Agua Doce). In questi due locali si svolgono corsi di formazione sulla sostenibilità e l'alfabetizzazione ecologica per adulti delle comunità della Baixada e per le classi delle scuole di Magè. Negli altri due municipi: Duque di Caxia e Belfor Roxo, sono gli educatori che vanno direttamente nelle scuole primarie a fare i corsi di alfabetizzazione ecologica. Corsi di formazione politica. Sviluppo della conoscenza dei diritti (più avanti troverete un esempio pratico). Corsi di prima scolarizzazione, richiesto da donne-madri che abitano intorno alla struttura, i "vicini" che non sanno leggere

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e scrivere bene, sono una ventina le partecipanti. Nella Casa della Delicatezza si svolgono anche corsi di cucito e di pittura su tessuto. La biblioteca ecologica All'interno della Scuola elementare di Magè è stata realizzata una biblioteca ecologica, coordinata da Mery. Remanso. E' la località dove si trova la foce del rio-fiume Surui, zona di preservazione ecologica che fa parte della Baia di Guanabara, la grande baia che si apre a partire dalla città di Rio de Janeiro. Proprio al termine della foce sorge una struttura di Agua Doce, dove Wanderli, quotidianamente accoglie e spiega l'importanza delle preservazione ambientale, mostrando diapositive. intrattenendo conversazioni con le persone che arrivano, in particolare nel periodo estivo, quando la gente vi si reca per prendere sole o fare un bagno. Recupero fonti naturali di acqua. Sono state recuperate attraverso un lavoro storico a partire dalla "conoscenza" dei nativi due fonti di acqua purissima.


“La strada è vita ed emarginazione, incontro e violenza”

Sono stati fatti i lavori di incanalatura, costruita un'area di sosta, con panchine in muratura per permettere alle persone comodità e possibilità di relazione mentre attendono che il loro turno. E' stato realizzato un grosso pannello in cui si spiega la storia della fonte e l'importanza della salvaguardia dell' stessa. Tre volte alla settimana un educatore si siede alla fonte e si intrattiene con i presenti, spiegandone l'importanza e altro che nasce... Centro “Nonna Angelina" Centro "Nonna Angelina". E' un centro dove la comunità degli anziani si può ritrovare e passare delle ore parlando, bevendo qualcosa, un biscotto dove, - esempio pratico richiamato sopra, sui diritti un'educatrice ricostruisce tutta la storia di queste persone per far si che sia riconosciuto loro il diritto ad una pensione sociale o una pensione da lavoro, per chi ha lavorato ma si trova in una condizione di povertà e indigenza che non gli permette di non conoscere i propri diritti. Molte sono le ricostruzioni che vanno a buon fine. Gli educatori e i formatori che partecipano a questi progetti si chiamano: Waldemar, Sueli, Maria dos Rimedios, Odette, Zè, Conceiçao, Popunha e Ivette. Asilo Carrara e Centro Barcella All'arrivo nel quartiere di Vila Esperança dove si trovano l'Asilo Michele Carrara e il Centro sociale Maria Barcella al primo piano, si percepisce subito un'aria pesante. Entriamo nella strada dedicata a Michele, incontriamo due pioli di cemento piantati ai due lati, sporgono un metro dal marciapiede, nel restante spazio un grande tronco ne impedisce l'accesso. Waldemar saluta alcuni giovani, apparentemente nulla facenti che chiacchierano e passeggiano intorno al tronco.

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Come d'incanto sorridono, spostano il tronco fino a fare lo spazio per poter passare con la piccola Fiat mille. Percorsi i duecento metri che ci separano dall'asilo che si trova a sinistra e dalla casa da Farinha, dove si preparano rimedi-medicine naturali, qui vi opera Francisca, dobbiamo fermarci una quindicina di metri prima. Da una settimana i capi del traffico della droga hanno fatto costruire due muri di cemento larghi un metro e mezzo nel centro della strada per impedire l'accesso. Ci avviamo a piedi verso l'asilo. Attualmente è chiuso. Lo cura Alexandra, che coordina al primo piano diversi corsi di formazione che vedono impegnate una trentina di donne del quartiere: manicure e pedicure, parrucchiera, taglio e cucito, artigianato riciclando carta lucida delle riviste, biscotti e cioccolatini. La casa da Farinha dove si producono medicine popolari: sciroppi, pomate, capsule, infusi vari, per vari tipi di problemi, oltre a shampo e saponi, è molto frequentata dalle donne del quartiere, avendo queste produzioni un costo bassissimo. Francisca intrattiene le donne spiegando i benefici. Dopo la casa da Farinha, c'è un terreno dove Alexi, un vecchio contadino, insegna a coltivare a orto e frutteto, a otto giovani della favelas dai 13 ai 16 anni. In merito all'asilo, Agua Doce, è in continuo contatto con il Comune affinché lo prenda in carico. Ma ci sono al momento ci sono grossi problemi. La zona è controllata dai trafficanti e le persone che "dovrebbero" andarci a lavorare se il Comune l'assume, hanno paura. Il capo del traffico ha inviato un emissario da Waldemar, affinché Agua Doce lo passi a loro. Waldemar e la direzione di Agua Doce, si sono naturalmente rifiutati. L'asilo ha funzionato per quasi venti anni. Accogliendo 40 bambini seguiti da 5 educatrici, una cuoca e una donna delle pulizie. Da ormai un anno è chiuso per mancanza di fondi per sostenerlo.

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Casa Vida 1 e 2 Lavoro con il popolo della strada a San Paolo: le due Case Vida attualmente accolgono, la prima, 31 bambini, mentre la seconda 32. Tutti nati con AIDS. La stragrande di loro sono abbandonati dopo la nascita in ospedale senza sapere che ne sono colpiti. Altri, perchè la mamma una volta venuta a conoscenza, lo abbandona, perchè povera e senza un compagno. Qui sono accuditi e accompagnati da educatrici, seguono tutto il normale percorso di crescita ed educativo. In alcuni si manifestano dopo qualche anno problemi neurologici e di ritardi. All'età scolare frequentano le scuole come gli altri ragazzi, alcune psicologhe, durante questa crescita aiutano i ragazzi e le ragazze a comprendere la loro malattia. L'associazione Nossa Senhora do Bom Parto, che sostiene questo lavoro e il Centro San Martino de Porres, di cui scriverò dopo, all'età di sedici-diciotto anni li introduce al lavoro attraverso corsi di formazione o inserendoli nella stessa associazione. Centro San Martino de Porres E' il punto di riferimento del Popolo della strada della zona est della città. Il Centro quotidianamente accoglie circa ottocento persone. Queste hanno a disposizione bagni, docce, una biblioteca, un pranzo caldo e abbondante, un punto di riferimento dove possono lasciare il proprio indirizzo per ricevere lettere o comunicazioni, una psicologa e vari assistenti sociali, oltre a trenta persone salariate che ci lavorano. La metà di loro sono ex persone di strada che frequentando il Centro sono riuscite a ricrearsi un'identità e una dignità. La strada è vita e emarginazione, è incontro e violenza.


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Periferie/ Sicilia

Coca: chi ci campa e chi ci muore Dilaga nei quartieri popolari, come San Cristoforo di Catania. Per alcuni un modo per vivere. Per altri... di Toti Domina www.associazionegapa.org Arrivarono in ritardo al doposcuola del Gapa quel pomeriggio a S.Cristoforo. Sara, Marco e Luca arrivarono sconvolti, piangevano. Ci volle un po’ per capire cosa era successo. Tra le lacrime riuscirono a stento a raccontare che alcuni poliziotti erano entrati di forza dentro casa loro e avevano arrestato il padre, non prima di averlo picchiato e messo la casa sottosopra. Tutto davanti ai loro occhi, davanti agli occhi di bambini di 7, 9 e 11 anni. L’accusa, poi scoprimmo, riguardava il traffico di droga. Alla fine degli anni 80, fu il nostro primo contatto diretto con il mondo del traffico delle droghe in un quartiere e in una città dove si commettevano in un anno centinaia di omicidi per mafia, e forse molti, per il controllo di questo traffico. Il Gapa allora era formato da volontari, ragazzi e ragazze della cosiddetta “Catania bene” che avevano deciso di entrare nei dedali e nelle vene di un quartiere, San Cristoforo, mai frequentato prima, conosciuto solo per i fatti di cronaca nera. Ragazzi e ragazze che comunque sentivano il bisogno di uscire dalle loro stanze ovattate e finte, sentivano il bisogno di capire perché c’erano due città, sentivano il bisogno di agire concretamente e lontano dai salotti intellettuali della città dove si elargivano ricette anacronistiche e borghesi davanti ad un bicchiere di un costoso vino rosso e seduti in una terrazza di un lussuoso appartamento del centro o dell’esclusiva scogliera dei Ciclopi.

Per capire, per trovare insieme agli abitanti delle risposte. Mentre nel quartiere cresceva lo spaccio di droga, mentre nel quartiere cresceva l’uso di droghe. “Molti amici miei sniffano ogni mattina prima di cominciare la giornata come se si prendessero una granita con la brioscia” ci raccontava Antonino che era agli arresti domiciliari in via Cordai e a cui facevamo del doposcuola a casa per aiutarlo a prendere la terza media. Era il 1989. Negli anni successivi i nostri contatti sono stati molto più forti dal momento che molte delle nostre attività si realizzavano nelle strade e in alcune piazzette del quartiere. La piazzetta di via Barcellona, ora intitolata a don Pino Puglisi, dopo le lotte che hanno fatto eliminare la discarica, è stata animata da giochi, mamme col passeggino, vecchietti che innaffiavano le poche piante presenti, ma poi piano piano è diventata regno dello spaccio e i ragazzini del nostro centro non volevano più andarci a giocare. Quelli della “Catania-bene” Per due estati (1992 e 1993), la piazzetta Maravigna e il cortile Fuochisti sono state sottratte allo spaccio per le attività dei murales, ma lì uno di noi fu minacciato chiaramente. Resistemmo e finimmo il murales, ma da settembre si ripresero la piazzetta. Era un piazzetta nascosta del quartiere ma vicina alla Movida catanese e “I fighetti della Catania bene” che si rifornivano nella vicina S.Cristoforo erano clienti affezionati e importanti. Il termine me lo suggerì un simpatico e storico barbiere del quartiere, nato, vissuto e … “Morirò qui - diceva - qui c’è la vita, qui non ci si annoia, qui c’è tutto e il contrario di tutto. Qui per merito di questi fighetti ci campano decine e decine di famiglie, furriano soddi, anche se sono ormai troppi i padri di famiglia del quartiere che la usano e che spendono i pochi guadagni di un lavoro precario per questo schifo di sostanza. Tanti però potrebbero spacciare ma preferiscono alzarsi alle cinque per andare al mercato, per guardare i propri figli senza vergogna”.

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Una città a due velocità Era veramente dispiaciuto per questi padri che usavano cocaina. Invece il tono con cui definiva i “fighetti della Catania bene” faceva intendere che di loro importava un po’ meno, loro portavano soldi, in una sorta di restituzione storica del maltolto, visto che magari i loro padri (politici, grandi professionisti, imprenditori) avevano creato una città a due velocità, una città che doveva avere al suo interno porzioni di popolazioni ricattabili, da assistere e quindi da controllare, da manipolare . Una città da ricattare II nostro lavoro continua ancora, tra alti e bassi, mentre nel quartiere il traffico delle droghe cresce a dismisura e i periodici rastrellamenti delle forse dell’ordine assomigliano, con tutto rispetto, un po’ al lavoro del contadino che con la sua motozappa cerca di eliminare la gramigna dal suo terreno, non sapendo (o forse sapendo) che quando si interra e si sminuzza questa erba spontanea, dopo un periodo di calma apparente, lei ritorna più forte di prima e che quindi forse serve ripensare completamente la gestione del campo. Forse servirebbe ripensare completamente tutta la questione droghe-spaccioconsumatori-quartieri-perbenismo-repressione-legalizzazione-mafia-controllo del voto-istruzione-servizi sociali-lavoro... In questi primi ventisette anni di impegno nel quartiere ci sono stati molti momenti di sconforto: come quando nel 2001 Luca (uno dei tre bambini di cui si parlava all’inizio) fu ucciso proprio nel suo quartiere dopo una corsa disperata tra la sue viuzze matrigne, fu ucciso per un regolamento di conti tra spacciatori. Poi nel 2010 arriva un ragazzino di 14 anni che nella sua scuola media di quartiere (ora chiusa da tre anni dalle criminali scelte dell’amministrazione cittadina) ha seguito un corso di giornalismo organizzato dalla redazione de iCordai insieme alla Scuola Media Doria. Lorenzo scrive su iCordai un articolo su questo importante argomento, e a quel punto si riaccende una piccola speranza.


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Periferie

Teatro Moncada, teatro mancato Appaltato, riappaltato, inaugurato in gran pompa da due sindaci differenti... e abbandonato al degrado e alla devastazione. Tanto, pensa qualcuno là in alto, che se ne fanno di un teatro a Librino, in un quartiere così? di Luciano Bruno www.isiciliani.it Catania. Proviamo solo a immaginare per un attimo come potesse essere, prima di tutto il degrado e l’abbandono che ci compare oggi davanti agli occhi, tutta la zona di viale Moncada 3, dove sorgono adesso il cosiddetto “Palazzo di cemento” e il teatro ormai distrutto, detto appunto “Teatro Moncada”.

Il Piano Piccinato Facciamo adesso un salto in avanti: nel 1964 l’architetto Luigi Piccinato termina il P.R.G. di Catania. In quest’ultimo, unico finora esistente, vi era progettato un nuovo quartiere: Librino; e arriviamo agli anni ’70, gli anni della speculazione edilizia. Nel 1976 il Comune di Catania incarica la S.T.A. progetti s.r.l. di redigere il P.d.z. (Piano di zona) di Librino. Proprio dove sorgeva un agrumeto dovevano passare i lotti C2, C3 e il B2 29, l’attuale Teatro Moncada. I terreni che erano dei contadini furono espropriati, pagati quattro soldi, per pubblica utilità. L'appalto venne vinto dalla impresa di costruzioni “cav. Lavoro Finocchiaro”, in data 30 Marzo 1981; dare gli appalti in concessione in quel periodo era prassi per gonfiare le spese e guadagnare più soldi.

Il nome dei Moncada in realtà, in passato, evocava solo nobiltà, come quello dei Grimaldi, dei Bummacaro, che possedevano i terreni cui ora sono intitolate le strade principali di Librino. A quei tempi vi erano terreni agricoli e come tali poi vennero in seguito espropriati. Allora vi erano aranceti, uliveti, vigneti; si sentiva il fresco profumo dell’erba, dove le lepri correvano indisturbate. Per i signori lavoravano i “massari”, che si occupavano delle terre. Esistevano molte famiglie umili e modeste, che vivevano del lavoro di campagna e nonostante la loro vita semplice erano felici. Questo stile di vita era bello per chi non conosceva nient’altro

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I lavori vengono bloccati nel 1984; uno dei motivi potrebbe essere il rinvio a giudizio di Francesco Finocchiaro nel 1984 per scandali nella concessione di appalti. Passano due anni, 15 maggio 1986, una nuova gara d'appalto viene bandita, ad aggiudicarsela è la ditta "Structura Costruzioni S.a.s." di Agrigento. I lavori del futuro Teatro Moncada sono in stato avanzato e non risulta nemmeno vandalizzato; cosa molto ricorrente quando si parla di edifici pubblici a Librino. Mai consegnata alla città Finalmente la struttura viene completata, ma mai consegnata alla città. Inaugurato da: Enzo Bianco, Umberto Scapagnini e da Rocco Buttiglione, ex ministro dei Beni culturali, il teatro viene abbandonato e vandalizzato.


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“Dove c'erano gli agrumeti ora c'è solo devastazione e abbandono”

La giunta Scapagnini tra il 2003 e il 2005 accende due mutui con le banche per lavori di restauro all'interno del teatro. Il primo di 2,5 milioni di euro, il secondo di 2 milioni di euro. Ma questi lavori non sono stati mai realizzati. Era questa la “pubblica utilità”? Supponiamo adesso che uno dei contadini cui furono espropriate le terre per “pubblica utilità” tornasse dopo tanto tempo, essendo emigrato in Germania per tantissimi anni. Le prima cose che noterebbe entrando a Librino sarebbero: le rotonde, le strade larghe, i casermoni di cemento; non sentirebbe più il fresco profumo della natura ma l'odore sordo del cemento… vedrebbe un via vai di macchine pronte a comprare la morte per pochi euro, le vedette in sella ai motorini che fanno da pusher, un teatro completamente devastato e abbandonato, proprio lì dove sorgeva il suo agrumeto. Potrebbe solo chiudere gli occhi e ritornare con la mente a quel meraviglioso profumo. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: è servito a questo l’esproprio per pubblica utilità? Soprattutto lì dove avrebbe potuto esistere un teatro, non nel senso tradizionale del termine, ma un teatro sociale. Era questo il principale intento quando il teatro Moncada, teatro mancato, teatro rubato, venne inizialmente costruito e quando venne successivamente e ripetutamente inaugurato? Oppure era semplicemente quello di farne una mangiatoia per tutta la classe politica sia di destra che di sinistra? Chi, infine, ha il coraggio di non ammettere l’importanza di un teatro sociale e popolare a Librino?

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ILVE D'ITALIA/ CASO MILAZZO – TRE MESI DOPO

“Non vedo, non sento e parlo d'altro” “Il 27 settembre? Un incidente qualunque, tutto sommato. Danni ambientali? Niente di particolare. Inquinamento? Sotto controllo”. Un “normale” pezzo d'Italia, una “normale” catastrofe annunciata

di Olga Nassis e Riccardo Orioles [1] Seleziona il falso testo.

In alto: politici attivamente impegnati per risolvere il problema della Raffineria. In basso: cittadini milazzesi mobilitati sullo stesso tema.

Comunità, Paese

CHI ATTACCA E CHI DIFENDE

Un prete di paese, una trentina di “donne dei lenzuoli”. E' tutto ciò che si oppone, concretamente e nei fatti, a un'altra catastrofe ambientale - in parte già cominciata - in Italia, una delle tante. Ma nessuno ha reagito, in novanta giorni, non s'è mosso nessuno? E come no. Ci sono stati convegni serissimi, appelli, studi, poesie sui muri. Le autorità hanno doverosamente rassicurato la popolazione. I politici hanno fatto la loro campagna elettorale, il sindacato ha “difeso i posti di lavoro”.

I partiti ragionevoli hanno ricordato che in fondo l'industria serve a fare profitti, di cui qualche parte può anche ricadere sulla popolazione. I più radicali hanno proclamato un No-questo e No-quello, parlandone fra di loro in accanite concioni. E la raffineria è andata avanti. Testa sotto la sabbia e il resto in aria Nessuno ha seriamente cercato, nei primi giorni di attenzione, di ottenere dei risultati concreti, di fermare almeno per qualche mese la macchina della distruzione. Nessuno ha seriamente cercato di parlare con i lavoratori terrorizzati dalla crisi, di spiegare che i posti di lavoro non si difendono ficcando la testa sotto la sabbia e il sedere per aria.

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Ciascuno ha fatto regolarmente la propria parte, chi doveva strillare ha strillato, chi doveva rassicurare ha rassicurato. Ma a organizzare davvero, parlando con le persone, senza alzare la voce e senza nascondere niente, sono stati in pochi. E sono tuttora là, senza grandi parole e senza sentirsi importanti, unica forza reale a difesa di questa piccola comunità nel momento più difficile della sua storia. Piccola comunità? Certo, Milazzo e la Valle del Mela sono solo periferie; l'intera Sicilia lo è, in un certo senso. Purtroppo, le questioni che vi si affrontano - l'attacco dell'imprenditoria al territorio, il collasso dei poteri pubblici, il collaborazionismo della sinistra moderata e la fuga di quella radicale - non sono affatto periferiche, sono esattamente la macchina che un passo dopo l'altro sta ammazzando l'Italia.


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“Il bene supremo non è la produzione o l’economia, ma la dignità della persona umana”

LETTERA APERTA A CHI NON VUOL SENTIRE di padre Giuseppe Trifirò

parroco

Al Sig. Presidente del Consiglio Ai Sig. Ministri della Repubblica Al Sig. Presidente Regione Sicilia Al Sig. Prefetto di Messina Ai Sig. Assessori Regione Sicilia Ai Sig. Onorevoli nazionali e regionali/ ecc. ecc. ecc.

Carissimi, sono passati dei mesi dal famoso incendio della Raffineria di Milazzo e come è costume dei nostri Governanti e Politici, passata la tempesta, tutto torna alla normalità e questo lo dico non ssoltantoper l’incendio della Raffineria, ma per tutti i disastri e alluvioni che sono diventati ormai il pane quotidiano della nostra Italia. In una prima fase, quella immediatamente dopo il disastro, tutti i Governanti e Politici nazionali e regionali si attivano a fare la loro comparsa con dichiarazioni e promesse di interventi immediati, scaricando ognuno la responsabilità sugli altri. In una seconda fase si parla di meno e in maniera più pacata senza fare riferimento a interventi concreti. In una terza e ultima fase cade il silenzio assoluto. Carissimi Ministri dell’Interno, della Salute e dell’Ambiente, carissimi Politici Nazionali e Regionali, a che punto siamo? Sono passati dei mesi e il nostro Territorio è come prima tale e quale: la Raffineria continua nel suo ritmo indisturbata, la Centrale termoelettrica di Archi insiste sul CSS, mentre l’aria è sempre irrespirabile, gli odori molesti continuano a provocare nausea e malessere, la popolazione è sempre più preoccupata e vive con l’incubo di un nuovo disastro. Ancora una volta mi rivolgo a voi tutti che avete il potere legislativo,politico, amministrativo ed economico e vi esorto a cambiar politica prima che sia troppo tardi.

La difesa del Creato La dottrina sociale della Chiesa, specialmente nella “Sollecitudo rei socialis” del 1987 e della “Centesimus annus” del 1991 di Giovanni Paolo II, ci invita a riflettere su questi tre principi: - Il bene supremo non è la produzione o l’economia, ma la dignità della persona umana. - La Chiesa si impegna con ogni energia a difendere i diritti umani contro ogni forma di razzismo, di violenza e di sfruttamento. - La difesa del Creato è una delle più grandi preoccupazioni del mondo di oggi. A questo terzo punto fanno eco il papa Benedetto XVI quando dice “Uno dei campi, nei quali appare urgente operare, è senz’altro quello della salvaguardia del creato” e papa Francesco, che sta preparando una nuova enciclica sull’Ambiente. Egli ha detto tra l’altro: “... che il creato non perdona”. Non si può compensare col denaro Carissimi, penso che molte leggi dello Stato, le quali ci hanno portato al disastro ecologico e alla fame, siano sbagliate perché vanno contro la Legge Naturale e vi esorto a cambiarle subito se volete salvare la vita, la salute, il lavoro e il creato. Prima di tutto bisogna cambiare le leggi che regolano tutti gli inquinanti emessi dalle industrie e basate sulla media giornaliera, mensile o annuale. Non deve esistere nessuna media e il limite stabilito dalla legge, il minimo possibile, non deve essere mai superato perché il superamento anche di pochi minuti può recare un danno enorme alla salute e all’ambiente. Bisogna cambiare anche la legge che regola la produzione e il trasporto dell’energia elettrica e far si che non sia tutto concentrato su un piccolo territorio. Non si può accettare neppure la legge che dà un compenso in denaro ai Comuni dove passano gli elettrodotti. Questo denaro dovrebbe essere impiegato per fare degli impianti il meno inquinanti possibili.

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Sinceramente non riesco a capire, come in alcuni posti i cavi elettrici possono essere interrati o passati in centri non abitati mentre qui da noi passano tutti e numerosi nei centri abitati e sulle campagne, causando molto danno alle persone e all’agricoltura. Certamente si tratta solo di questione economica e questo è imperdonabile! Abbiamo fatto capire, in moltissimi modi, il danno prodotto e che continua a produrre Terna, ma senza alcun risultato. Nell’ultimo incontro a Palermo si era deciso di rivolgersi all’OMS, per uno studio serio e approfondito, sull’elettrodotto a doppia Terna di 380 Kv. Questo studio non è stato mai fatto mentre l’elettrodotto è quasi terminato, pronto a entrare in funzione. Fatte per avvantaggiare i potenti Carissimi, prima di terminare, sento il dovere di ringraziare tutti i Sindaci e Amministratori del Comprensorio che hanno preso a cuore il problema della salute dei cittadini e il risanamento ambientale e li invito a non demordere, ma a continuare a lottare accanto ai cittadini e di organizzarsi per creare un fronte comune sul Territorio. Inoltre voglio ricordare che da più di 50 anni si sta facendo di tutto per distruggere non solo il nostro Territorio, ma tutto il Pianeta Terra. Stiamo toccando con mano, dove ci ha condotto questa politica affaristica che sta procurando disoccupazione, fame e miseria. Sono convinto che siamo giunti a questo punto perchè le leggi sono fatte per avvantaggiare i potenti, gli industriali e il potere politico ed economico. “Vi supplico, cambiate!” In quasi 40 anni di lotta contro questi signori dell’inquinamento, della morte e del disastro economico, ho ricevuto e ricevo sempre la stessa risposta. “Noi lavoriamo in conformità alla legge e per il bene dei cittadini”. Carissimi Politici e Legislatori, siete stati poco attenti alle esigenze e ai suggerimenti del popolo, togliendogli tutti i diritti e lasciandogli solo i doveri. Vi supplico, cambiate!


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Scheda

Autonomie fasulle, “GRAZIE, RAFFINERIA” Dal sito ufficiale della Raffineria: governatori-bluff, promesse Nuovo manto erboso campetto Oratorio Olivarella - L'Oratorio di Olielettorali bianche, nere, rosse e varella Giovanni Paolo II è un punto di riferimento per tanti ragazzi di San “verdi”, clientelismo, presepi vari Filippo e di Milazzo. La struttura realizzata da Padre Mostaccio è partifanno da cornice ad una lotta tra uomo colarmente attrezzata per svolgere attività di natura e mercato che di locale non ha proprio niente. sociale, sportiva e ricreativa e permette a tanti gio-

IL DIO PETROLIO E NOI ESSERI UMANI di Olga Nassis Fernand Braudel parlava della Sicilia come di un “continente in miniatura” coi tratti di un microcosmo, un osservatorio privilegiato delle dinamiche di scambio e conflitto fra culture. Una metafora, oggi, della relazione tra società e capitale. Tre millenni di colonizzazione: greci, arabi, Savoia. Sembrava finita con i Borboni e invece è arrivata l’Eni e al suo seguito Terna ed Edipower. I greci arrivavano con le triremi, gli arabi con le navi lanciafuoco, i Savoia con mille colorati uomini grazie ad una astuta intuizione di Crispi. L’Eni arriva a suon di decreti e autorizzazioni in deroga, sbloccaItalia, art.38, protocollo Mise, convenzioni e ‘compensazioni’, con l’aperta complicità di amministrazioni locali ormai svuotate e di una “autonomia” eterodiretta, ripescata solo per agevolare l’ingresso dei coloni con sconti percentuali e tappeti rossi. Sulle coste meridionali si profila uno scenario di trivellazioni che accomuna tutto il bacino del Mediterraneo, dalle Canarie alla Grecia, dove di ritorni economici e occupazionali non si vede neanche l’ombra, mentre si vedono fin troppo bene i danni irreparabili prodotti all’ecosistema ed alle economie tradizionali.

Sulla costa tirrenica, nel messinese, in un’area di appena venti chilometri c’è tutto un accanimento di industrie inquinanti: Raffineria, Terna (con elettrodotto da 380 Kv), Centrale termoelettrica (da convertire a combustione di rifiuti).

vani della zona di trovare un luogo di divertimento. "Il campetto – ci scrive un giovane del luogo - è diventato un punto di riferimento per i giovani, un luogo in cui ritrovarsi, giocare e divertirsi. Dopo 6 anni di utilizzo da parte di molti ragazzi, anche dei dintorni, si è reso necessario il rifacimento del manto di erba sintetica che risultava usurato dal calpestio gioioso dei noi giovani. Grazie al contributo della Raffineria di Milazzo, questa speranza continua". www.raffineriadimilazzo.it

Il vecchio modello di sviluppo Un fatto locale? Nient’affatto, è il vecchio modello di sviluppo che Pierroux chiamava “polarizzazione”, dove un polo dominante - quello della raffinazione apre la via a tutti gli altri, un po’ come le triremi greche aprirono la strada alla colonizzazione. Solo che i greci esportavano anche modelli culturali, conoscenza, saperi. Oggi si prende e basta, lasciando in cambio malattie, sottosviluppo, marginalità. Certo, per anni la raffineria ha “dato occupazione”, e nonostante l’attuale flessione continua a darne: frenando quel processo di coscientizzazione che invece è più diffuso altrove. Si intravedono, però, delle forme di resistenza, drammatiche, grottesche, minoritarie ma anche consapevoli e pazienti, come è di solito la resistenza al femminile. L'economia del profitto Esse tuttavia restano ancorate alla protesta contro la singola industria inquinante, una mera preoccupazione ambientale che non ha ancora la maturità di percepirsi parte di un processo molto grande, quello dell’Europa in crisi e, più in là, del sistema globale. Una resistenza che è nella sostanza contro l’economia del profitto nel suo paradigma estrattivo legato ai fossili.

I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / dir.responsabile riccardo orioles

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Scheda GRAZIE, RAFFINERIA Duecentocinquanta ragazzini in età puberale con altissimo tasso di cadmio nel sangue e gravi anomalie nello sviluppo degli organi genitali. È il dato che emerge dal recente studio dell’Istituto di Tossicologia dell’Universitá di Messina, acquisito dalla Guardia di Finanza per conto della Procura di Barcellona. Il dossier, del professor Francesco Squadrito, è stato certificato dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Numerosi adolescenti di Pace del Mela, Giammoro e Milazzo, tra i 12 ed i 14 anni, sono stati messi a confronto con i coetanei di Montalbano Elicona, il borgo montano che domina la valle. Per i montalbanesi é tutto normale. Gli adolescenti della Valle, invece, presentano forti ritardi negli sviluppi degli organi genitali. Lo studio è ora all'esame, con altri elementi, della Procura di Barcellona.

Un sistema che proietta ormai sui singoli corpi umani tutti i suoi drammi. Dalla Colombia alla Sicilia Le trivellazioni sono l’inizio di un processo che ha il suo approdo nella raffinazione, in un modello di sviluppo reso ostaggio del petrolio, da Pozzallo a Gela, dalla Colombia a Milazzo. E come il movimento NO TRIV è un caso di resistenza postmoderna legata alla sensibilità ecologica, quello dei poli petrolchimici rappresenta, a Milazzo come già a Gela, in forme di sudditanza o di opposizione, la nuova “lotta di classe”: dove i simboli che si scontrano sono il modernissimo Dio Petrolio e l’antica Madonna della Catena.


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Cosa chiediamo VITA, SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO: I PUNTI DEL COORDINAMENTO UNITARIO

“Svegliati e fai sentire la tua voce!”

Le associazioni e i comitati ambientali di Milazzo e Valle del Mela, e molti amministratori locali, hanno elaborato un Memorandum per il diritto alla vita, alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Eccone i punti essenziali:

UN VOLANTINO

Ai Cittadini dei comuni di: VILLAFRANCA TIRRENA, SAPONARA, ROMETTA, SPADAFORA, VENETICO, ROCCAVALDINA, VALDINA, TORREGROTTA, MONFORTE SAN GIORGIO, SAN PIER NICETO, CONDRO’, GUALTIERI SICAMINO’, PACE DEL MELA, SANTA LUCIA DEL MELA, SAN FILIPPO DEL MELA, MILAZZO, MERI’, BARCELLONA

Vuoi la tua salute distrutta da tumori e leucemie? Vuoi che i nostri bambini rischino di rimanere sterili per tutta la vita? Vuoi che per il profitto di pochi si giochi la salute di tutti? Vuoi che un’intera generazione debba emigrare? Vuoi che il nostro territorio, un tempo così ricco e naturale, venga definitivamente distrutto dall’inquinamento? Vuoi che i frutti della nostra terra diventino velenosi? Vuoi che la povertà si stabilisca - senza turisti, senza campagna e senza lavoro - per sempre qui? NON CONTINUARE A RIMANERE IN SILENZIO! In poco più di venti chilometri c’è più inquinamento che in mezza Lombardia RAFFINERIA - TERNA – ORA ANCHE CENTRALE/ INCENERITORE!

Ma davvero la tua vita vale

64 centesimi?

Terna vuol dare 9 milioni alla provincia e ai comuni per “COMPENSARE” l’inquinamento. Siamo 140.000. Facciamo i conti...

SVEGLIATI e fai sentire la tua voce! AMA quello che la natura ti ha regalato, RISPETTA la tua stessa vita! Non facciamoci rubare anche il cervello!

TUTTI UNITI! Il comitato lenzuoli “27 settembre” I Sicilianigiovani – pag. 39

● Coordinamento di tutti i Comuni della zona per prendere sempre insieme, e col concorso di associazioni e comitati, ogni decisione ambientale; ● Piano di Emergenza Comprensoriale; ● Immediata rimozione dei pericolosissimi serbatoi adiacenti alle case; ● Coinvolgere i Comuni nelle procedure di autorizzazione; ● Pubblicità controlli sanitari e ambientali; ● Rete di monitoraggio effettivo; congrui stanziamenti per l'Arpa; ● Screening tossicologico; ● Progetto di sviluppo alternativo, con Università, Ordini e associazioni; ● Dissalatore contro le acqua di falda; ● Piano di Risanamento, con bonifica e riqualificazione; ● Finanziamento del Registro Tumori; ● Strutture sanitarie per patologie croniche ed emergenze; ● Accertamenti periodici sul rischio ambientale percepito; ● Valutazione di Impatto Sanitario. Invitiamo tutti i Comuni ad appoggiare questi obiettivi e a non consentire nuovi impianti alla Raffineria e alle altre industrie a rischio; a chiedere periodiche ispezioni straordinarie (Ispra/ Arpa /Ctr), e a elaborare con le associazioni, i comitati e la cittadinanza la pianificazione degli interventi a carico delle industrie presenti. Richiamiamo inoltre tutte le forze politiche e sindacali al dovere di sostenere con serietà, disinteresse e determinazione la lotta delle popolazioni per il diritto alla salute e alla vita, senza tentare di scatenar guerre fra poveri in nome di un diritto al lavoro che può essere sostenuto realmente e senza false promesse solo dai movimenti democratici, non certo dalle multinazionali basate sulla sola logica del profitto. Firmato: padre Giuseppe Trifirò, Associazione Abc Sikelia, Associazione Consumatori Siciliani; Italia Nostra di Milazzo; Associazione Il Maestrale; Associazione Adasc, Comitato Luciese Salute e Ambiente; Coordinamento Ambientale Milazzo-Valle del Mela , Comitato Lenzuoli “27 settembre”, Comitato Respiriamo Monforte; Comitato Tutela Ambiente- Archi; Isde; Tsc, Ucid.


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Ambiente e veleni/ Valle del Mela

Bonifiche al palo e malattie in aumento Il grave incidente all’interno della raffineria Eni-Q8 di Milazzo ha riproposto tra gli abitanti dell’intera Valle del Mela la questione delle bonifiche e della messa in sicurezza

A eccezione dell’Acna di Cengio, in Liguria, nessuno ha visto l’inizio dei lavori di bonifica del territorio. Da Venezia a Milazzo – dove il 27 settembre si è verificato un grave incidente all’interno della raffineria Eni-Q8 che ha riproposto tra gli abitanti dell’intera Valle del Mela la questione delle bonifiche e della messa in sicurezza – sei milioni di italiani vivono in zone contaminate in cui l’incidenza delle malattie è straordinariamente più rilevante che nel resto d’Italia. I risultati del progetto Sentieri...

di Carmelo Catania Tecnicamente si chiamano Sin (Siti di interesse nazionale) sono la pesante eredità di qualche decennio di industria chimica, di petrolio, di metallurgia, di un’errata fiducia nel progresso e nell’industrializzazione. Ora stanno lì e continuano ad avvelenare la terra che li ospita senza che nessuno – governo, regioni, privati – faccia niente. Sono 57, il taglio di 18 unità operato dal governo Monti e scaricato sulle regioni è stata soltanto un’alchimia burocratica che non cancella la situazione di fatto.

Il progetto Sentieri (Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento), promosso dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, i cui obiettivi, metodi e primi risultati sono stati pubblicati nel 2010 e 2011 su Epidemiologia & Prevenzione ha fatto emergere con forza le conseguenze epidemiologiche dell’esposizione all’inquinamento prodotto da fonti industriali ben individuabili. Qualche dato: nei 18 siti in cui esiste il registro tumori – che sarebbe obbligatorio per legge – i tumori sono aumentati del 9°% in dieci anni. Aumentati esponenzialmente anche i ricoveri: a Milazzo si rileva un +55% per gli uomini e un +24% per le donne. Altri risultati di interesse riguardano le patologie del sistema urinario, sono presenti incrementi in entrambi i generi per patologie ad alta sopravvivenza come il tumore della tiroide e le malattie respiratorie.

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Nelle considerazioni conclusive relative al sin di Milazzo si legge: «L’eccesso della mortalità osservato nel SIN per condizioni perinatali nel primo anno di vita merita particolare attenzione, visto che è ragionevole ritenere che vi abbia avuto un ruolo eziologico l’esposizione a impianti chimici e petrolchimici. Per questa è stata infatti riportata un’evidenza a priori di associazione Limitata, oltre che con gli impianti chimici e petrolchimici, anche con l’inquinamento atmosferico, e Sufficiente con il fumo passivo. L’aumento di rischio per il tumore della laringe nei soli uomini, concorde con quanto emerso in alcune delle indagini precedenti svolte nell’area, fa ipotizzare un ruolo delle esposizioni professionali, anche se non è da escludere un contributo delle esposizioni ambientali. In tali incrementi, così come nell’aumento della mortalità per i disturbi circolatori dell’encefalo, potrebbe aver avuto un ruolo eziologico l’inquinamento atmosferico». È stata infine suggerita come prioritaria la conduzione di indagini ad hoc sulle malattie respiratorie in età pediatrica. … e quelli dell'Università di Messina Sull’area sono state condotte altre indagini epidemiologiche, per valutare gli effetti dell’inquinamento sulla popolazione. Nel 2013 l’indagine Iniziativa per la tutela della salute e per la protezione delle popolazioni delle aree ad elevato rischio di crisi ambientale esposte a “distruttori endocrini” quali i metalli pesanti (Area di Milazzo-Valle del Mela)


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eseguita dal Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università degli studi di Messina, l’Istituto Superiore di Sanità, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, presso le scuole medie della Valle del Mela, comprese in un raggio di 10 km dal sito industriale e che ha riguardato 200 partecipanti di età compresa tra i 12 e i14 anni ha riscontrato valori di cromo totale e cadmio superiori ai valori di riferimento e la presenza della metilazione del Dna, cioè «un'alterazione di alcuni gruppi dell'acido desossiribonucleico che comporta un errata lettura nella catena del Dna», individuando come aree maggiormente esposte quelle dei Comuni di San Filippo del Mela, Santa Lucia del Mela e Milazzo. La bonifica? Una chimera Di fronte a questi dati la bonifica dovrebbe essere considerata una priorità. E invece le autorità non hanno dimostrato nessuna fretta. Secondo i dati della Direzione generale per la tutela del territorio e delle risorse idriche del Ministero dell’ambiente la situazione aggiornata a marzo 2013 – alla base del dossier di Legambiente Bonifiche dei siti inquinati: chimera o realtà? – mancano all’appello ancora tanti piani di caratterizzazione: a Milazzo solo il 63% delle aree ne ha visto la presentazione. Ritardo che emerge anche sui progetti di bonifica presentati e approvati (solo per il 18% delle aree interessate). Una gestione “lacunosa” e “improvvisata” – quella del SIN di Milazzo – dove risulta evidente come non sia stato attuato nessun intervento. Un iter farraginoso... Portare a termine la bonifica di un sito inquinato è un’operazione complessa, sia dal punto di vista tecnico che amministrativo. Per aprire un cantiere serve un piano di caratterizzazione completo. Bisogna sapere tutto su quel sito:

estensione, tipo e diffusione dell’inquinamento. Inoltre capita che servano piani diversi per lo stesso sito, magari perché aree diverse sono contaminate in modo differente. Finché tutta la documentazione non è completa, non si può procedere alla realizzazione dei progetti di intervento. Questi progetti devono essere approvati e solo allora si può cominciare a pensare di aprire il cantiere. Un iter abbastanza lungo dunque se le parti interessate non si danno da fare per accelerare al massimo le procedure. L‘altra questione decisiva riguarda i soldi da spendere, ma quanto costa risanare i siti inquinati? Si tratta di una opera pubblica il cui giro d’affari complessivo è stato recentemente stimato in 30 miliardi di euro (Giovanni Pietro Beretta, 2013), e chi dovrebbe tirarli fuori questi soldi? Il problema del reperimento delle risorse ancora necessarie per le bonifiche è davvero rilevante, i soldi pubblici sono pochi – dal 2001 al 2012 sono stati messi disposizione 1,9 miliardi di euro (4,5 milioni per il sito di Milazzo) – e spesso male usati – la Procura di Palermo ha aperto un inchiesta sull’utilizzo dei fondi europei per le bonifiche in Sicilia – anche se qualche strumento a disposizione dello Stato per recuperarle c’è: il principale è il risarcimento del danno ambientale. … a vantaggio di chi inquina Tuttavia i ritardi cronici del pubblico nel gestire una partita così complessa e articolata – 1507 conferenze dei servizi, di cui 804 istruttorie e 703 decisorie, in cui sono stati valutati 22.880 documenti presentati dai soggetti coinvolti nelle opere di bonifica – ha consentito a chi ha inquinato, e dovrebbe affrontare un investimento importante per risanare suoli e falde dai rifiuti prodotti dalle proprie lavorazioni, di approfittare della dilatazione dei tempi per spalmare la spesa da

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affrontare su un orizzonte temporale biblico, con la conseguenza che – a volte – le aziende falliscono o chiudono e chi s’è visto s’è visto. Né i governi sembrano adoperarsi per far rispettare la legge, anzi. «In una serie di provvedimenti - denuncia Angelo Bonelli - si è cercato, con la scusa delle semplificazioni, di ridurre la portata del principio “chi inquina paga”, caricando sulla collettività spese che andrebbero sostenute da chi è responsabile del problema». Bonificare conviene Eppure bonificare converrebbe, a giudicare dai conti fatti da uno studio italoinglese pubblicato nel 2011 su Environmental Health. Solo considerando i comprensori petrolchimici di Priolo e Gela (dove per ora sono stati spesi in opere di bonifica rispettivamente a 744 e 127 milioni di euro) si potrebbero risparmiare 10 miliardi di euro in 50 anni in morti e malattie ambientali evitate a seguito di una completa bonifica delle aree. Come spiega il responsabile del progetto Fabrizio Bianchi del CNR di Pisa «1l calcolo si basa sulla cosiddetta willingness to pay, vedendo cioè quanto si è disposti a pagare per evitare malattie o l’accorciamento della vita per cause ambientali». La stima è inevitabilmente incerta, ma ha il pregio di dare un valore economico alla bonifica dei siti inquinati.


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Sblocca Italia

Trivelle e inceneritori: sistema Mose dappertutto Approvato il decreto “Sblocca Italia”: più commissariamenti e meno democrazia. Trivelle e inceneritori ovunque, acqua privatizzata e coste invase dal cemento di Alessio Di Florio www.ritaatria.it Una legge che sa di primo Novecento e che gratterà il fondo del barile per svendere quel che rimane dell’ex Belpaese. E’ una delle descrizioni più efficaci e sintetiche del decreto “Sblocca Italia”, recentemente approvato in Parlamento. Tanti i provvedimenti contestati e che andranno a influire negativamente su salute pubblica, ambiente, gestione dei beni comuni e della cosa pubblica. Il 12 e 13 giugno 2011 milioni di italiani, dopo tantissimi anni, con il loro voto resero “valida” una consultazione referendaria esprimendosi più che nettamente per una gestione dei beni comuni (a partire dall’acqua, il bene comune per eccellenza) pubblica, trasparente, democratica.

Tre anni e cinque mesi dopo è stata prevista la collocazione in Borsa del 60% delle società che li gestiscono oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Tenore non diverso per il demanio pubblico e le nostre bellissime coste, già oggi in gran parte aggredite dalla speculazione del cemento e dalla ricerca privata del profitto ad ogni costo. Gli immobili demaniali inutilizzati potranno essere venduti solo ai privati. Dal Mose all'Expo E’ cronaca di alcuni mesi l’inchiesta, e l’esplosione del relativo “scandalo”, relativo al sistema Mose (e nelle stesse settimane anche l’Expo ha occupato pagine e pagine di cronaca giudiziaria). Passate le settimane del clamore e i relativi proclami di prammatica, si è tornati alla crudissima verità. Lo “Sblocca Italia” regalerà il più possibile sempre nuovi “sistemi Mose”. Il sistema che non ha potuto arginare quel che è accaduto in laguna approderà in tutta Italia. Il primo laboratorio sarà l’ex Italsider di Bagnoli (e, per essa era stato inizialmente previsto il provvedimento) ma poi si estenderà a tutta la Penisola: commissariamenti per le bonifiche e “procedure straordinarie per interventi di rigenerazione urbana ed ambientale” che – come hanno denunciato il Forum Nazionale dei

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Movimenti per l’Acqua Pubblica, l’Associazione A Sud e il Coordinamento Nazionale No Triv – esproprierà “i cittadini, le assemblee elettive locali e gli organi di controllo statali […]del diritto di pianificare il territorio di loro competenza, che viene affidato ad un commissario governativo-podestà”. “Grandi opere” contro l'ambiente Il sistema delle “Grandi opere”, dove corruzione e cartelli criminali sono spesso prosperati cancellando l’interesse comune, con lo “Sblocca Italia” è il “mantra” dello “sviluppo” previsto. Un quarto dell’intera legge per il WWF indebolisce le tutele e le valutazioni ambientali e dà mano libera ad interessi speculativi, tra cui “la proroga delle concessioni senza gara e l’allargamento dei poteri delle concessionarie autostradali in violazione delle normative comunitarie” fino alla “elusione del nulla osta paesaggistico delle soprintendenze e del via libera agli appetiti dei privati sul patrimonio pubblico sulla base di semplici accordi di programma”. Il grande business dei rifiuti I rifiuti sono diventati negli anni uno dei business più prosperi, dalla Campania all’Abruzzo, dal Lazio alla Lombardia, di mafia, camorra e altri cartelli criminali.


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Altro che i “quattro gatti” di Renzi: la gente ormai protesta dappertutto Alla faccia delle direttive europee L’Italia appare lontanissima da una gestione virtuosa e da Stati molto più avanzati in materia. La Direttiva europea 98/2008 e la legislazione italiana in materia prevedono una gestione il più possibile virtuosa ed ecologicamente sostenibile del ciclo dei rifiuti, a partire da precisi obiettivi di raccolta differenziata. Leggiamo nel Preambolo della Direttiva “la priorità principale della gestione dei rifiuti dovrebbe essere la prevenzione ed il riutilizzo e il riciclaggio di materiali", che "dovrebbero preferirsi alla valorizzazione energetica dei rifiuti". Lo “Sblocca Italia” si allontana da tutto questo e vira decisamente verso l’incenerimento (la “valorizzazione energetica dei rifiuti”…) dei rifiuti, arrivando addirittura a prevedere una rete nazionale di inceneritori. Una vera e propria rete di inceneritori E quindi se una Regione produce di più e ad un’altra mancano i rifiuti da incenerire ci saranno camion che attraverseranno lo Stivale per questa rete di “mutuo soccorso”. Sterminata è anche sul web la letteratura che accusa gli inceneritori di danneggiare la salute umana e inquinare in maniera gravissima l’aria che respiriamo quotidianamente.

Così come è incalcolabile il numero di Comuni autori di una raccolta differenziata più che virtuosa e che si ritrovano penalizzati da impianti, consorzi e società di gestione. Chiedono aiuto da anni e, invece, anche questa volta verranno messi all’angolo. Il provvedimento più contestato dell’intero Decreto (fino ad aver portato migliaia di persone in piazza in molte mobilitazioni in tutta Italia, la maggiore probabilmente in Basilicata quando davanti alla sede della Regione è avvenuta una vera e propria rivolta popolare) è relativo alle fonti energetiche. Lo “Sblocca Italia”, nonostante in tutta Italia non ci siano solo i “quattro comitatini” (come in maniera sprezzante lì definì Renzi...) ma una mobilitazione capillarmente diffusa e che smuove la popolazione in molte regioni, ha definito prioritarie le attività di “prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale a carattere strategico” accentrando a livello nazionale gli iter autorizzatori a partire

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dalle procedure di Valutazione d’Impatto Ambientale. Le trivelle petrolifere vengono quindi favorite e per loro il Governo avrà anche vere e proprie corsie privilegiate e preferenziali. I bellissimi golfi di Napoli e Salerno, Ischia, Capri, Sorrento, Amalfi e la costiera cilentana (sede di un Parco nazionale) – vere e proprie perle pregevolissime del Belpaese – vedranno quindi il rilancio di attività petrolifere e trivelle in bella vista. Quarantamila in piazza a Pescara L’Abruzzo, che dal 2007 è permanentemente mobilitato contro questa prospettiva (l’anno scorso a Pescara scesero in piazza oltre quarantamila persone, un numero sideralmente maggiore anche delle maggiori mobilitazioni sindacali locali), Sicilia, Lombardia, Campania, Emilia Romagna, Marche, Basilicata, i mari Adriatico, Ionio e il canale di Sicilia si vedranno imposti la “deriva petrolifera” e i distretti minerari. Il Coordinamento Nazionale No Triv ha ribattezzato per queste “scelte fossili” il decreto “Sblocca Idrocarburi” denunciando che è la traduzione in legge dello Stato “del manifesto programmatico scritto vent’anni fa da Assomineraria” e da alcuni gruppi economico-finanziari.


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Accoglienze

Augusta: il Limbo dei ragazzini In una scuola inagibile, centinaia di migranti minorenni. Due settimane con loro di Marino Ficco Si chiama Ousman. Ha diciassette anni. Viene dal Senegal. Ha rischiato la vita per arrivare in Italia. Dopo un lungo viaggio da Agadez è giunto a Sabha, in Libia. Lì è arrestato perché nero sette mesi fa. È rinchiuso nelle famigerate carceri libiche per due mesi. Carceri cofinanziate dall’Italia e dall’Unione Europea (Nobel per la Pace) gestite da personale di polizia addestrato anche da noi. Poi è riuscito a fuggire. Il primo tentativo di evasione fallisce. Lo catturano di nuovo, lo rinchiudono cinque ore in un armadio e lo sommergono d’acqua per cercare di convincerlo a pagare un riscatto per essere liberato. Fuggito una seconda volta passa due mesi nella campagna di Sabha lavorando come bracciante raccogliendo pomodori. Racimola abbastanza denaro per partire per Tripoli. Lì, senza un soldo né conoscenti, lavora altri due mesi facendo le pulizie nelle case di famiglie ricche. Così facendo si è potuto pagare la traversata. Dopo tutto questo ha ancora la forza di essere ottimista e di sorridere. Adesso Ousman vive ad Augusta. Augusta, sulla costa tra Catania e Siracusa. Oggi se ne parla solo a proposito dei migranti che la raggiungono. Il porto commerciale, uno dei più grandi della Sicilia orientale, accoglie dall’anno scorso centinaia di migranti ogni due-tre giorni. In città da alcuni mesi le scuole Verdi, dichiarate inagibili, ma evidentemente adatte ad accogliere ragazzi stranieri, ospitano un centro di accoglienza per minori non accompagnati. Il centro è stato concepito come posto di passaggio. La legge prevede che la permanenza in questo posto non possa superare le 72 ore. Tre giorni.

Aspettano anche da tre mesi La realtà è che molti ragazzi aspettano di essere trasferiti in comunità anche da tre mesi. Per i più piccoli è facile trovare una comunità disponibile ad accoglierli. Per chi ha dai diciassette anni in su è tutto molto più difficile. I responsabili legali di questi ragazzi sarebbero gli assistenti sociali del Comune. Decido di passare due settimane in questo centro. Arrivo la settimana di Ferragosto. Al mio arrivo ci sono 123 “ospiti”. Non è stato difficile avere la possibilità di passare due settimane con dei minori come volontario. È bastato chiedere. Anche perché in questo periodo la maggior parte dei dipendenti preferirebbe essere in vacanza. Purtroppo le centinaia di reportage che sono stati scritti non hanno cambiato per niente la situazione di questi ragazzi. Inoltre un conto è passare qualche ora nel centro giusto per scrivere il pezzo e andarsene e un conto è viverci due settimane. Uno di loro mi ha chiesto di raccontare quello che ho visto anche solo per migliorare la situazione alimentare. Non che non siano nutriti. Eppure i pasti sono più o meno sempre gli stessi. Pasta e pollo o coniglio. E a molti fa impressione il coniglio. E non concepiscono il fatto di doverlo mangiare. Inoltre dopo tre mesi che si mangia sempre lo stesso pasto a pranzo e cena si capisce un po’ di insofferenza. Come se non bastasse la ditta che fornisce i pasti, vincitrice di un appalto dove era l’unica a presentarsi, ignora la legge rifiutandosi di sigillare le porzioni di cibo. Perché se il cibo è destinato a ragazzi stranieri si possono ignorare le misure igieniche più elementari. Alcuni ragazzi hanno un tutor in attesa di essere affidati ad una comunità. Questo significa che hanno una famiglia che li accudisce e li assiste. Altri non hanno nessuno. Non hanno niente da fare durante la giornata e sono impazienti di partire per il nord Italia o per il resto dell’Europa. La mattina ne approfitto per fare due chiacchiere con i francofoni e gli anglofoni. Vengono dal Gambia, dal Mali, dal Senegal dal Sudan e dal Bangladesh.

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Poi ci sono gli egiziani che parlano quasi solo arabo. Sono quasi tutti traumatizzati. Hanno tutti la stessa storia. Vivono in cameroni da 10-12 brandine ricavati dalle classi della scuola. Nel pomeriggio facciamo lezioni di italiano e di geografia. Nessuno sa dove si trova né quale sia la forma dell’Europa. E quasi nessuno sa l’italiano. Dal lunedì al giovedì c’è una permanenza in infermeria garantita dall’azienda sanitaria provinciale e da Emergency. Nel fine settimana il dottor Parisi viene volontariamente e gratis a curare questi ragazzi garantendo un servizio che lo stato sarebbe tenuto a pagare. Per molti l’unica attività è chiedere l’elemosina per le strade di Augusta. La gente è molto generosa e regala soldi e cibo. Alcuni riescono a racimolare anche 40-50 euro al giorno. I volontari delle parrocchie 11/08/2014 Al mio arrivo conosco Enzo. Insieme ad Aldo è il responsabile del centro. Da quel che vedo dedica tutte le sue energie a questi ragazzi. Ha un turno massacrante dalle 8 alle 22. Prova a imporre le regole del ben vivere in comune e al tempo stesso cerca di creare situazioni simpatiche e di distensione. Chi collabora e lo aiuta nelle varie mansioni riceve una pepsi o più cibo come ricompensa. Mi colpiscono gli odori: fortissimi e molti acri. Candeggina e disinfettante si fondono all’odore di liquami e cibo in decomposizione. Le pulizie vengono fatte due volte al giorno. Due volte a settimana un gruppo di volontari delle parrocchie distribuiscono vestiti ai ragazzi che ne sono sprovvisti. Mancano mediatori. C’è difficoltà a comunicare e sale la tensione. Nel pomeriggio un gambiano tenta di prendere a bastonate un egiziano perché qualcuno gli ha rubato il cellulare. 12/08/2014 Entrando alle 8 vedo la scena più normale delle due settimane: cinque ragazzini egiziani di 10-13 anni sono seduti su una panchina a vedere Kung-Fu Panda. I loro occhi sono persi nello schermo e sognano beati. Guardare i cartoni animati è l’unica attività da bimbi che gli sia rimasta.


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Grandi cicatrici sulla gola Abdullah viene trasferito in ospedale. Ha enormi problemi psichici e delle grandi cicatrici su tutto il corpo e la gola. Rischia di fare del male a sé e agli altri. Viene dal Ghana. Slcuni dicono che lo abbiano ridotto così le torture in Libia. Altri che quei tagli sarebbero la traccia di un rito fatto in Ghana per cacciare il male. “Michele” mi chiede di parlami in privato. Viene dal Gambia. È orfano di padre. È strabico e ha una cicatrice alla schiena. Il suo dramma supera il viaggio nel deserto, la fatica della traversata e i problemi fisici. Qualche mese fa un signore inglese decide di adottarlo. Michele capisce immediatamente che c’è qualcosa che non va: suo “padre” adottivo non si limita ad accarezzarlo ed a coccolarlo come farebbe un padre. Gli propone di rapporti. Michele scopre di trovarsi coinvolto in un caso di turismo sessuale. Qui la voce si fa molto fioca e il suo inglese diventa più difficile da seguire. Mi parla di giornalisti e di poliziotti corrotti che lo accusano di essere omosessuale. Mi racconta di aver passato alcuni giorni in centrale tenuto chiuso in una stanza. Poi la fuga verso l’Europa. Un ragazzo maliano parte alle 11 per Siracusa: va a fare un provino presso la locale squadra di calcio. È molto promettente ed ha capito che il suo permesso di soggiorno passa dalle sue gambe. I nove ragazzi del Bangladesh mi chiedono di insegnar loro l’italiano. Sono molto felice del loro entusiasmo e della loro forza di volontà. Non immaginavo che ci saremmo fermati solo quattro ore. In queste ore ripassiamo le pronunce, rivediamo il verbo essere e avere, i colori, come leggere l’orologio, come presentarsi. Alla fine della lezione sono senza voce e i ragazzi insistono per offrirmi una fetta di pizza, parte della loro cena. Mi raccontano il loro viaggio: in aereo da Dacca a Dubai. Da lì al Cairo e infine in Libia, da dove si sono imbarcati per la Sicilia. 13/08/2014 Al mio arrivo i ragazzi mi raccontano che durante la notte un egiziano è stato derubato e che qualcuno gli ha pure acceso la maglietta con un accendino.

Dalle 22 alle 8 questi ragazzi, minori, vengono lasciati soli e senza tutele. Chiacchierando coi ragazzi un nome ritorna frequentemente: Porto Palo. Qui sorgerebbe un centro di accoglienza dove i ragazzi sono trattati come animali, con pochissime risorse e gestito dalla mafia. Alcuni ragazzi mi chiedono in continuazione quando saranno trasferiti in comunità o saranno affidati a un tutor. Altri mi chiedono i documenti perché hanno bisogno di una sim. Pensavo che gli fossero già fornite, ma debbono comprare sim intestate ad altri, che se ne approfittano. All’improvviso arriva una tv americana. Se questi fossero italiani li tuteleremmo e non basterebbe l’autorizzazione del prefetto per riprenderli e filmarli. Ma evidentemente la legge non è uguale per tutti, e comincia la visita allo zoo. La mia scuola di italiano è l’attrazione principale perché a quest’ora quasi tutti dormono. Siamo in sei nel giardino attorno ad una lavagna all’ombra e impariamo alfabeto, pronunce, cia, gia, gn, gl, gli oggetti. La colletta per il pallone 15/08/2014 Molti faranno presto 18 anni. Saranno trasferiti in un centro per adulti e lì le condizioni sono molto diverse. I ragazzi ne sono davvero ossessionati. Oggi ripenso ad una notizia che circolava tempo fa. Qualcuno diceva che gli immigrati non mangiavano il cibo che gli veniva fornito e come prova mostravano sacchi della spazzatura pieni di cibo. La notizia era stata diffusa da persone avverse a questo modo di accogliere. Effettivamente ogni giorno vengono buttate dalle 30 alle 40 porzioni di cibo per pasto. Non perché i ragazzi siano schizzinosi, ma perché che il catering fornisce più del necessario. Questa settimana mangio sempre con i ragazzi e sia a pranzo che a cena il menù è stato sempre pasta al sugo, pollo, patatine. 16/08/2014 Per le 5 vedo che alcuni ragazzi stanno facendo una colletta e mi informo. Vogliono comprare un pallone nuovo e stanno radunando 20 euro. Mi intrometto dicendo che mi pare un po’ troppo per un pallone. Mi rispondono che quello è il prezzo migliore che gli abbiano fatto.

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Gli spacciatori nel parco Decido di accompagnarli a comprare il pallone. Al mio arrivo, dopo aver fatto capire che sono italiano e che non sono scemo il prezzo scende misteriosamente a 5 euro. La gratitudine è tanta che mi invitano a dare il primo calcio nel campetto del parco dove giocano vicino alla scuola. Là, un signore mi chiede chi sono. Sembra disturbato dalla mia presenza. Mentre gioco cerco di informarmi sul suo conto e mi dicono che gestisce lo spaccio al parco. Altri mi confermano la stessa storia dicendomi che la sera alcuni egiziani sono soliti comprare hascisc e marijuana. Mi faccio coraggio e ne parlo ai Carabinieri appostati di fronte alla scuola, che non fanno assolutamente niente tutto il giorno. Mi chiedono tutti i dettagli e mi promettono che manderanno qualcuno a presidiare il parco. In realtà dopo due settimane non è cambiato nulla. Enzo mi conferma che se non vedo più da tre giorni Beletsa, il ragazzo eritreo, il motivo è che è scappato seguendo le indicazioni di un suo contatto. Rientrando conosco Lamin, 17 anni, del Gambia. E' orfano di madre e per questo dopo le medie il padre gli ha chiesto di cominciare a lavorare. Ma lui vorrebbe studiare informatica. Mi racconta che la sua famiglia si era trasferita inizialmente in Senegal e poi lui era stato costretto a partire per l’Europa. Ripercorriamo insieme le tappe del viaggio nel deserto. Oramai quei posti, quelle prigioni, sempre gli stessi mi sono quasi familiari. Ne ho sentito parlare così tanto in questi giorni che per certi versi mi sembra di esserci già stato. La settimana scorsa ho scoperto che la maggior parte degli immigrati arriva via aereo grazie a documenti falsi. Chi arriva in barca è proprio disperato. Lamin ha passato tre mesi nelle prigioni di Tripoli. È stato arrestato durante una retata della polizia libica contro i neri. Ha passato tre mesi in carcere stando anche tre giorni senza vedere cibo. Ora capisco perché molti di questi ragazzi non vogliano avere a che fare con gli egiziani: li confondono coi libici.


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Mentre ceno c’è una rissa tra un egiziano ed un senegalese. Rissa tanto violenta che intervengono i carabinieri. Senza manco ascoltare le due voci in capitolo viene data ragione all’africano e il ragazzo egiziano piange. Mi fa capire che l’altro lo stava strozzando perché gli dava fastidio che intonasse la preghiera serale ad alta voce. Non posso far altro che chiedergli scusa a nome di tutti coloro che non l’hanno voluto manco ascoltare. Bruciata la brandina 17/08/2014 Questa mattina non trovo per strada Ibrahim. A scuola non c’è. Dopo la colazione vado a vedere se è ancora nella sua brandina ma scopro che è stata parzialmente bruciata. Chiedo agli altri egiziani. Mi dicono che è partito per Milano. 18/08/2014 Alle 17 mi avvertono che sta per avvenire uno sbarco. Quando arriviamo al porto scopro che lo sbarco sarà di 181 siriani. Mi dicono che sarà uno sbarco di lusso: sono calmi, puliti e non avranno problemi a lasciare subito il Paese. Arrivano su una nave mercantile, un portacontainer che li ha imbarcati in acque greche. La nave non può attraccare nel porto e i passeggeri vengono fatti salire su una piccola imbarcazione all’imboccatura Mentre aspettiamo sulla banchina la portacontainer si spartisce il panorama con la San Giusto della Marina Militare. Enorme, armatissima, puzzolente, accesa tutto il tempo. Prende parte anche alle missioni di Mare Nostrum. Sono le 19, siamo stati chiamati alle 17 e prima delle 20.30 l’attracco non avverrà. Con a noi sono presenti Croce rossa, Medici senza frontiere, Misericordia, Protezione Civile, Polizia, Guardia di Finanza, Carabinieri, Marina, Guardia Costiera, Autorità portuale… Sono più le persone pronte ad accogliere che quelle che effettivamente arriveranno. Fotografati senza permesso C’è anche un giornalista di Catania che lavora per Repubblica. Non dico nulla sul suo operato siccome non lo conosco ma è immorale, oltre che illegale, scattare foto a minori che sbarcano sul suolo italiano.

Capisco la necessità di fare un reportage ma se fossero bambini italiani dovresti far firmare la liberatoria ai genitori. La legge parla chiaro: i minori hanno tutti gli stessi diritti sul suolo europeo. Ma nessuno ci fa caso.

Per fortuna gli uomini di Terres des hommes l’hanno riconosciuto per strada e hanno fatto in modo che fosse riportato in ospedale.

Funcalmente arrivano i siriani

23/08/2014 Quando arrivo trovo la scuola in mano ad un dipendente comunale con gravi problemi psichici che gli impediscono di operare degnamente in questo contesto difficile. Questa persona non può essere assegnata ai turni delle scuole Verdi. È realmente pericoloso. Al mio arrivo i ragazzi si lamentano perché il pane è duro. Scopro che il signore ha deciso di dare per colazione il pane del pranzo del giorno primo, duro e dal caratteristico sapore di cartone, perché “se hanno fame devono mangiare”.

Passo il tempo chiacchierando con tutti coloro che trovo sul molo per farmi raccontare un po’ di esperienze e per chieder loro le prospettive che si aspettano. Uno mi dice che secondo lui l’Italia non spara ai barconi come fanno gli altri paesi solo perché costano troppo le munizioni. Finalmente i siriani arrivano. Se non sapessi che sono rifugiati che vengono da un paese in guerra che sta facendo migliaia di vittime penserei ad un traghetto turistico con destinazione Ischia o Lipari. Appena toccano col fianco il molo parte l’applauso. Ci salutiamo con la mano. Ci vogliono 10 minuti per trovare una scaletta per farli scendere. Vengono condotti a 200 metri di distanza, dove vengono offerti loro un panino, acqua, mela biscotti. Subito dopo vengono “identificati” dalla polizia: sono fotografati e ad ognuno viene affidato un numero. Nome, cognome, data... Gli viene chiesto nome, cognome e data di nascita. Nessuna impronta. Mi dicono che quello è compito della scientifica ma lo fanno solo per i presunti scafisti. Per le 22 parte il primo autobus per Melilli. Intanto sono tutti attaccati ai loro cellulari per chiamare i parenti in Siria ma soprattutto per organizzare la loro partenza per il nord Europa. Una ragazza mi dice che il fidanzato sta venendo a prenderla. Domani mattina partiranno in macchina per la Svezia, dove richiederanno asilo. Vengono trattati bene i siriani. 19/08/2014 Sempre risse fra egiziani. Un ragazzo lancia una bottiglietta d’acqua contro Enzo. Tensione, Carabinieri. Questa mattina all’improvviso è tornato il ragazzo del Ghana con problemi psichici che era stato ricoverato in ospedale ad Augusta… era riuscito ad andarsene.

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Pane duro

L'inviato del grande giornale Nel pomeriggio arriva l’ennesimo giornalista americano, del Washington Post, che dedica a questi ragazzi l’onore di un’intervista. Mi chiede se conosco ragazzi con storie tragiche. Gli faccio notare ce già il fatto di dover lasciare la famiglia a 13 anni mi sembra una storia tragica. Dice di no. Sta cercando qualcuno che magari sia stato torturato in Libia. E dice che non gli interessano i bengalesi. Peccato che tra di loro ce ne sia uno che ha fatto tre mesi nelle carceri libiche ed ha ancora il polso rotto. Come se visitassero uno zoo Decido di non aiutare il giornalista, sempre più disgustato verso questa gente che visita questi posti colmi di dolore come se visitasse uno zoo. Vengono qui, danno un’occhiata, ascoltano due storie e scrivono inutili reportage colmi di pietismo. L’atteggiamento è quello di che non vuole approfondire, cercare di capire e provare a dare un contributo per cercare possibili soluzioni. Io pensavo che ogni giornalista dovesse avere questo spirito. Qui non ne ho incontrati. Molti ragazzi rispondono alle domande del giornalista. Pensano che raccontando quello che non va le cose si sistemeranno.


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Accoglienze

Migrazione e neocolonialismo in Sicilia Il “triangolo” AugustaMelilli-Priolo di Stefano Portelli www.napolimonitor.it Quando i migranti sbarcano dall’enorme nave della marina militare che li ha salvati in alto mare, li accoglie un dispositivo di emergenza che è ormai diventato abituale. I medici individuano chi ha bisogno di cure speciali; la polizia registra i nomi e assegna un numero a ognuno; poi entrano sotto il gran tendone della Protezione civile e si siedono o si sdraiano sulle brandine. Intorno al porto di Augusta c’è una delle zone industriali più grandi della Sicilia orientale: il petrolchimico di Siracusa, che dagli anni Quaranta ha insieme salvato l’economia e devastato la salute degli abitanti di questa zona. La fascia costiera compresa tra Augusta, Melilli e Priolo Gargallo è conosciuta qui come il “triangolo della morte”, anche se non ha mai ottenuto la stessa attenzione pubblica che hanno avuto l’Ilva di Taranto o altri scandali nazionali. Da quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti, negli anni Ottanta, alla disoccupazione si è aggiunto un inquinamento che sembra irreversibile: un bambino su venti nasce con una malformazione, e un adulto su tre muore di tumore. L’aria brucia e all’orizzonte brillano le fiamme sulle ciminiere. L’Etna è a cinquanta chilometri, ma raramente si vede, nella spessa bruma; a volte, al porto, ti invitano a metterti al riparo perché una nube di zolfo colora l’aria e avvelena i polmoni. Sono proprio questi tre i paesi scelti dalle autorità provinciali di Siracusa per i centri di accoglienza per minori stranieri. Per tre mesi ho lavorato per una ONG nei centri del “triangolo”. Ma perché li chiamiamo così, se del centro questi luoghi non hanno nulla? L’unica cosa che se ne può affermare con certezza, è che sono periferici, come è periferica la storia dell’inquinamento di queste terre.

Qui non si viene in vacanza... La vicinanza all’Africa, che oggi significa immigrazione, in altri tempi significava idrocarburi; e nella stessa fascia di mare che ora attraversano i migranti, vengono installate nuove piattaforme petrolifere, proprio di fronte all’altro gran porto della zona, quello di Pozzallo. Ma lo sa solo chi vive qui; nella punta della Sicilia si viene in vacanza, non per sviluppo industriale. Stessa cosa per i centri. Quel che vi succede dentro, in genere, non filtra fuori, o lo fa in una forma che ha poco a che vedere con la realtà. Innanzitutto, bisogna abituarsi alla lingua franca che si è sviluppata all’interno. I ragazzi “ospitati” (tutti maschi, e di diversi paesi) parlano una lingua come quelle dei porti, fatta di pezzi di inglese, arabo e italiano, mischiati con qualcosa dei vari dialetti siciliani. Una parola mi ha colpito sin dall’inizio: il cibo viene chiamato mangerìa. Sulle prime pensavo che fosse siciliano, e che l’avessero sentito da qualche operatore del posto. Ma la parola ha una storia più strana, come ho scoperto dopo: i subsahariani l’avevano imparata in Libia, nascosti o rinchiusi nei vari carceri e campi di prigionia, e l’avevano portata qui, molti pensando addirittura che fosse arabo di Libia. Non era arabo ma una parola italiana antica, che da noi ha assunto tutt’altro significato, ma che è rimasta in Libia anche dopo l’espulsione degli italiani nel '70. Sin dai primi giorni, quindi, questi luoghi evocano frammenti sommersi di colonialismo. Nessun migrante chiama il luogo in cui è ospitato con la parola centro. Il termine che usano è camp. Ma campo, in Europa, è una parola vietata: smuove troppe memorie che vorremmo tener lontane (tranne che per i campi rom). Chiamano campi anche molti dei luoghi in cui sono rimasti intrappolati in Libia, posti di violenza estrema, di cui molti ancora portano le tracce. Il parallelo in loro sorge spontaneo, tra i campi/prigioni istituiti da Gheddafi per trattenere i migranti (in cambio dei finanziamenti italiani) e i nostri centri, che amiamo rappresentarci come luoghi di salvezza dopo le violenze in Africa.

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E dal colonialismo passiamo al fascismo, visto che i primi campi di concentramento del XX secolo sono proprio quelli che i fascisti italiani istituirono in Libia per rinchiudervi gli sfollati della Cirenaica durante la rivolta di Omar Mukhtar. Tutte le parole con cui si parla di questo fenomeno (emergenza, trafficanti, minori) nascondono una menzogna, una struttura discriminante che ha radici profonde: un occulto dispositivo di segregazione, che continuamente si sposta e si ridefinisce, per restare incomprensibile e inafferrabile. Prima era a Lampedusa; ora in Sicilia.; presto in qualche altra periferia ancora più difficile da osservare. Ogni aspetto di questo sistema cambia continuamente; capirne a fondo uno richiederebbe una vita intera. Una lunghissima provvisorietà Perché, ad esempio, se i ragazzi dovrebbero stare qui massimo tre giorni, tanti ci passano anche nove o dieci mesi? “Mancano i posti nelle comunità”; “la legge non chiarisce chi deve pagare”; “le coop preferiscono tenerli qui più a lungo”... Ogni tanto qualche centro chiude per mafia. Si parla di legami tra qualche coop e qualche politico. Il comune di Augusta da un anno è commissariato per mafia. C’è anche chi dice che sono solo stereotipi, e che quarantacinquemila migranti in un anno sarebbero un problema anche per una grande città, figuriamoci per un paese di quarantamila abitanti; o che, data la situazione, è ammirevole che non ci siano state violenze come a Tor Sapienza. L'altra volta, intanto, qualcuno ad Avola ha tirato una molotov contro un centro. A differenza di Pozzallo, dove a volte non si può uscire neanche in cortile, qui i centri sono tutti più o meno aperti. I ragazzi sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, anche di “scappare”, se la parola ha un senso. Di fatto i siriani, gli etiopi e gli eritrei (la metà dei migranti che arrivano in Sicilia) non passano mai per i centri: appena sbarcano contattano un taxi o cominciano a camminare sull’autostrada, e velocemente proseguono il viaggio verso il nord.


www.isiciliani.it Istituzioni totali Questo cambierà presto, con i nuovi regolamenti Ue; ora però arrivano nei centri solo ragazzi del Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, le due Guinee, Bangladesh (tutti via la Libia), e poi gli egiziani. Uno su tre finisce per scappare, magari per raggiungere qualche familiare al nord; gli altri restano qui, a cancelli aperti. Aspettano per mesi il famoso transfer verso una comunità per minori che gli regolarizzi i documenti e gli permetta di andare a scuola. Ma passano lì dentro così tanto tempo, che molti perdono la speranza, o anche la voglia, di andar via un giorno da questi centri. È chiaro che queste sono istituzioni totali: quella che non è ancora chiara è la loro funzione. Si tratta solo di separare, segregare, allontanare? O forse anche educare all’attesa? Abituare i migranti all’idea che non saranno mai veri cittadini, anche se un giorno otterranno un documento? A questo si aggiunge l'elemento della minore età, spesso solo dichiarata strategicamente per ottenere più facilmente il soggiorno. Spesso chi lavora o frequenta i centri, anche se sa che sta parlando con degli adulti, finisce per infantilizzarli; così rispondono meglio allo stereotipo di vittime di cui l’Europa ha bisogno. Se molti avevano pensato di essere arrivati in qualche posto, quando sono sbarcati ad Augusta, questi centri gl'insegnano che c’è ancora molto viaggio da fare. Il tempo qui è uno strumento d'esclusione: i tempi si dilatano all’infinito, la quotidianità è dominata dall’attesa; la ripetizione e la mancanza di futuro generano anche vere e proprie malattie (una variante dell’institutional neurosis descritta da Russell Barton mezzo secolo fa). Lo spazio è un fattore di cui si parla meno, e va oltre il fatto che i centri siano ubicati in luoghi malsani. Nessuna di queste strutture è nata per essere quel che è: una era un vecchio albergo, un’altra clinica per anziani, o deposito di taxi, o una scuola abbandonata. Il comune e le coop sociali hanno adattato i luoghi per alloggiarvi i minori. I ragazzi stendono i panni sulle reti di recinzione; le camerate hanno ancora i disegni dei bambini alle pareti; la reception della clinica è occupata dalla polizia; una tettoia per i taxi diventa una moschea, e i ragazzi usano il lavandino del bar dell’albergo per lavarsi i piedi. Tutto trasmette un messaggio di provvisorietà, che governa le vite per mesi e mesi. Questa riconfigurazione dello spazio è anche una crepa attraverso cui penetra un processo inverso, l’appropriazione. Anche se le ONG che lavorano qui, e a ragione,

spingono perché i ragazzi non mettano radici, e che siano sempre pronti al trasferimento, quel che rende la loro vita meno miserabile è proprio questo processo di continua presa di possesso e ridefinizione - individuale e collettiva - dei luoghi. Vivendo ventiquattro ore al giorno, per mesi, in questi luoghi mal definiti, i migranti costruiscono degli usi dello spazio che i lavoratori del centro finiscono per accettare, anche malvolentieri. Gli spazi devono essere negoziati per forza; e se non sempre queste forme di agency sono apertamente sovversive (i piedi nel lavandino) rappresentano comunque delle strategie di contestazione e affermazione della loro presenza qui. È una variante di ciò che scrive Michel Agier sui campi profughi. Questi usi dello spazio indeboliscono delle potenziali istituzioni totali, ponendo freni alla loro pretesa di controllo e infondendo invece in esse una vita, una parte delle loro vite. Nuda vita, forse, ma senza dubbio vita sociale. I qundicenni fra spazzatura e vetri rotti Questo è stato evidente nel caso della scuola di Augusta. Quest’estate il comune ha deciso di alloggiare oltre centocinquanta minori in una scuola abbandonata in mezzo al paese, senza neanche affidarne la gestione a una coop. Le pessime condizioni igieniche e le continue lamentele dei paesani hanno portato il caso all’attenzione di giornali e tv; le foto dei quindicenni “abbandonati” in cortile tra spazzatura e vetri rotti, come la “promiscuità” delle vecchie aule in cui si dormiva in diciasette, erano ideali per gli articoli di denuncia del National Geographic e del Wall Street Journal. Quest’ultimo ha titolato “In Italy Migrant Children Languish in Squalor”, con lo stesso verbo usato da Al-Jazeera per le prigioni libiche (“Libya Migrants Languish in Camps”). Così, in occasione di una visita di delegati Ue, il comune ha chiuso la scuola da un giorno all’altro, spostando tutti in un altro centro (sempre nel “triangolo della morte”), con condizioni igieniche molto migliori, e una coop incaricata dei ragazzi. Ad Augusta questi restavano soli tutta la notte; con episodi di violenze decisamente inaccettabili, al punto che molti non riuscivano a dormire, e c’era gente del paese che entrava senza alcun controllo, implicando i ragazzi in traffici illeciti o altro. Ma l’igiene era l’altra faccia del proposito evidente di ristabilire l’ordine. Venti poliziotti, armati, stavano lì giorno e notte , girando liberamente per i corridoi o addirittura (in caso di risse) nelle stanze, manganello alla mano.

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La pulizia del centro riposava la vista; ma il trattamento era molto rigido, e i ragazzi erano chiamati per numero anziché per nome. Molti hanno cominciato a idealizzare Augusta nel ricordio. Per quanto degradata, la scuola era al centro del paese, dov'era facile incontrare ragazzi italiani della loro età, giocare a calcio nel parchetto, addirittura conoscere qualche ragazza. Queste relazioni avevano permesso a molti ragazzi di sentire che erano arrivati in Italia, non solo in un campo: di prendere confidenza col nuovo paese, di passeggiare per le strade, di mettersi alla prova con la nuova lingua. Nel nuovo centro sono invece quasi completamente isolati, in mezzo a un’urbanizzazione semideserta, lontano da tutto, accanto a un ospizio; i cancelli chiudono la sera e i ragazzi hanno dovuto imparare a controllare gli orari, quando non hanno scelto direttamente di non uscire più perché non hanno soldi per prendere l’autobus. E di nuovo niente schede per telefonare a casa. Quindici giorni dopo il trasferimento, molti ragazzi del Gambia hanno scatenato una piccola rivolta, distruggendo i condizionatori d’aria e scrivendo sulle pareti. Ma non c’erano più giornalisti del Wall Street Journal ad ascoltarne le richieste, né ad osservare le reazioni dei lavoratori del centro o delle forze dell’ordine. Almeno finché qualcuno non ha scoperto che anche la coop che gestisce questo centro è implicata in traffici mafiosi. Questa nuova Odissea Un giorno, senza dubbio, qualcuno di questi ragazzi scriverà, o racconterà in qualche modo, com’erano questi campi dal loro punto di vista. Quelli che sono ora solo una categoria burocratica, “minori migranti non accompagnati”, riveleranno la loro vera natura storica: nuovi esuli, che attraverso il deserto, il mare, la morte e l’inganno, fonderanno nuove città in nuove terre. Chissà che ruolo avrà Augusta, con il suo triangolo della morte, in questa nuova Odissea. Sarà l’isola di Ogigia, dove il tempo passava tranquillo, anche se vuoto? O quella della maga Circe, dove bisogna fare molta attenzione per non essere trasformati in animali?


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Mauro Biani

chi semina

racconta sussidiario di resistenza sociale Contributi di Antonella Marrone, Carlo Gubitosa, Cecilia Strada, Cinzia Bibolotti, Ellekappa, Franco A. Calotti, Gianpiero Caldarella, Makkox, MaoValpiana, Massimo Bucchi, Nicola Cirillo, Pino Scaccia, Riccardo Orioles, Stefano Disegni, Vincino Gallo Formato 17x24, 240 pagine, colori ISBN 9788897194057 15 euro

I

l meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, autore di satira sociale a tutto tondo che unisce la vocazione artistica all’impegno professionale come educatore in un centro specializzato per la disabilità e la non disabilità mentale. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti quando serve, per toccare temi universali come la

nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie. L’AUTORE Mauro Biani (Roma, 6 marzo 1967) ha pubblicato vignette in rete per anni per poi fare il salto verso il professionismo su quotidiani e settimanali nazionali, riviste del terzo settore e organi di informazione indipendente. Ha fondato la I Sicilianigiovani– – pag. 49 5

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rivista di giornalismo a fumetti “Mamma!” che ha chiamato a raccolta un gruppo nutrito di giornalisti, vignettisti e fumettari in cerca di nuovi spazi espressivi. Collabora con il gruppo internazionale “Cartooning For Peace” sotto l’alto patrocinio dell’Onu. Nel 2009 ha pubblicato il volume “Come una specie di sorriso”, una antologia di illustrazioni ispirate alle canzoni di Fabrizio De Andrè.


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Sicilia

I volti dell'assessore Assessore a Palermo, caro amico ad Acireale, protagonista del fallimento della clinica privata Santa Rita a Messina... di Simone Olivelli Questi i volti di Giovanni Battista Pizzo, l’uomo chiamato a sostituire Nico Torrisi alla guida dell’assessorato alle Infrastrutture, Mobilità e Trasporti del terzo governo Crocetta Annunciato per una presentazione che aveva fatto storcere il naso a chi trovava quantomeno curiosa una visita ufficiale ancor prima dell’insediamento a Palazzo d’Orleans, Pizzo ad Acireale in realtà c’è stato davvero. Ma non nei locali del Comune, il nuovo assessore è stato avvistato (o per meglio dire seguito, fotografato, salutato) dalle parti di uno dei locali più frequentati dai politici acesi. Più che una stanza dei bottoni, un salotto delle asole. Perché è proprio tra i tavoli di legno e i divanetti in pelle che da queste parti sembrano saldarsi i legami, siglare gli accordi, rinsaldare le fiducie della politica acese. E così ad accompagnare il neoassessore, tra i tanti, c’era anche l’onorevole Nicola D’Agostino, il quale aveva già tranquillizzato chi alla notizia della mancata riconferma di Torrisi aveva temuto che potesse venire meno il punto di riferimento alla Regione, quella figura che grazie ai propri buoni uffici potrebbe agevolare la ripresa di Acireale.

«Abbiamo al governo il nostro caro amico Giovanni Pizzo» ha detto il deputato , come a sottolineare che con Torrisi o Pizzo per la città nulla cambierà, perché i legami instaurati con Palermo non verranno meno per un mero rimpasto. I problemi? Soldi e igiene D’altronde, il neoassessore non è certo l’ultimo arrivato: Pizzo, come si legge dal curriculum vitae pubblicato sul sito della Regione, è stato negli ultimi mesi capo di gabinetto proprio di Torrisi. Ciò che però non compare sul suo curriculum è l’esperienza da amministratore unico della clinica privata Santa Rita di Messina. La struttura, convenzionata con la Regione, è stata chiusa nel 2012 dall’allora commissario straordinario dell’Asp 5, Francesco Poli, per «carenze igienico sanitarie» e soprattutto per importanti problemi economici. La clinica – che prima della chiusura aveva registrato un mancato pagamento di dieci mensilità ai 53 dipendenti che tutt’oggi rischiano il posto di lavoro – in una nota inviata all’Asp scrisse: «Non abbiamo i soldi per comprare i farmaci necessari per curare i pazienti». Della mancanza di soldi – su cui sono aperti diversi contenziosi – si occupò all’epoca il settimanale Centonove. “Non solo l’Azienda sanitaria 5 ci deve un milione di arretrato per il 2012, ma ci hanno trattenuto somme di denaro quantificabili in un milione e mezzo. In tutto fanno 2 milioni e mezzo, la cui mancanza ci ha messo in ginocchio” scriveva Pizzo.

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“Non è assolutamente vero - ribatteva il manager Francesco Poli - i ritardi nei pagamenti sono quelli ordinari che riguardano tutti i fornitori. Quanto alle somme trattenute è denaro che l’Asp aveva pagato ad una società di factoring per un credito che poi si è rivelato inferiore a quello vantato dalla clinica. Il recupero era dovuto”. Secondo Centonove, infatti, l’Asp 5 fu «costretta a chiedere indietro dei soldi alla Santa Rita poiché «agli inizi del 2008 […] la casa di cura Santa Rita aveva ceduto il credito atteso (e quindi futuro) del 2008, quantificato in quasi 4 milioni di euro (ovvero il budget che la casa di cura aveva avuto l’anno prima) a Ifitalia Spa». La società di Bnl, secondo questa ricostruzione, aveva anticipato l’intero importo del credito all’azienda di Giovanni Pizzo ma a fine anno il budget della Santa Rita era stato tagliato di un milione e mezzo di euro; ma l’Asp 5, a sua volta, aveva pagato l’intero credito a Ifitalia. «Successivamente - sempre il settimanale – ha iniziato a recuperare la somma pagata e non dovuta non a Ifitalia, ma trattenendo somme che doveva a pagare alla Santa Rita». “Beh, forse qualche errore l'ha fatto” Intanto, chi ha un ricordo ben definito della faccenda sono i lavoratori della Santa Rita, che dal 2012 vanno avanti nella propria lotta, confidando nella possibilità di riuscire a recuperare gli arretrati e difendere il proprio posto di lavoro. «È stata ed è una situazione molto difficile – dice Clara Crocè della Cgil – ci sono tantissime persone che hanno sofferto. Cosa penso di Pizzo? Umanamente si è sempre dimostrato comprensivo, ma la comprensione certe volte non basta. Il fatto che sia diventato assessore? Beh, da amministratore unico della Santa Rita qualche errore mi pare che lo commise».


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Ragusa, Italia

Una casa contro la crisi dei diritti La crisi non è solo economica, ma anche sociale e di valori. Come inter venire nelle città? di Giulio Pitroso www.generazionezero.org Il momento che viviamo è attraversato da una crisi profonda. Una crisi non solo semplicemente economica, ma anche sociale e valoriale, nella cui confusione vengono messe a rischio le conquiste sudate e pagate a caro prezzo dalle generazioni passate. L’idea stessa di cittadinanza ha subito uno svuotamento e uno stravolgimento preoccupanti, mentre si consumava sempre di più la distanza tra la classe politica e la massa elettorale. Invece di reagire come accaduto altrove, nella Repubblica la costruzione di alternative e progetti si è inceppata spesso e volentieri: la fase ristagnante della sola critica (o peggio della restrizione dentro vecchi schemi) ci ha bloccato in una prospettiva in cui sembra impossibile riprendersi quello che viene gradualmente eroso ed è certamente impensabile sviluppare modelli di gestione della politica e dell’economia nuovi e sostenibili. Oggi tutte le grandi discussioni dei nostri peggiori e meglio pagati rappresentanti si vanno concentrando su questioni il più delle volte effimere o basate sul nulla. E quando si affrontano temi di importanza centrale, il livello è talmente basso da essere imbarazzante. Gli spazi per elaborare le risposte e per definire le domande non sembrano più essere collocati laddove ci si aspetterebbe. Per un periodo si è anche creduto che a trovare soluzioni e piazze di partecipazione e responsabilizzazione della cittadinanza ci avrebbe pensato la grande intelligenza collettiva della Rete. La quale, al più si è dimostrata uno strumento, utile anche a rivelare il peggio dei cittadini.

Questo non vuol dire che manchino del tutto spazi di elaborazione ed educazione politica: centri culturali, centri sociali, associazioni, fondazioni e movimenti assicurano ancora oggi meglio degli organismi classici di partecipazione delle aree di questo tipo. Ma non sono proprio appannaggio di tutti e né in genere uno spazio di mediazione tra Istituzioni e cittadinani. La Casa dei Diritti Il Comune di Milano ha costituito un’oasi che risponde a questi bisogni. La ‘Casa dei Diritti’ è sia il luogo in cui si concretizza l’erogazione di servizi che quello in cui partecipare attivamente all’applicazione dei diritti democratici, anche attraverso la proposta e l’organizzazione di eventi. Il filo conduttore alla base di tutto è la lotta alle discriminazioni. ‘Housing sociale – Residenzialità – Tutoring (dipendenze ed HIV/AIDS)’, Prevenzione e contrasto alla violenza di genere’, ‘Contrasto al fenomeno della tratta’ sono i servizi a cui si può accedere. Mentre una sequela di sportelli fa fronte a tutta una serie di necessità legate al mondo LGBT, degli italiani di seconda generazione, dei migranti. Un centro del genere fornisce un terreno comune ai rappresentanti delle minoranze e gli può essere deputato il ruolo di mediazione tra esse e le Istituzioni: è un luogo dove i conflitti sociali possono essere armonizzati ed elaborati praticamente. Non solo: è un luogo dove si fa riferimento agli ultimi, spesso esclusi da qualsiasi agenda politica, se non chiamati a interpretare il ruolo di comparse. Due sportelli esemplari Ci sono poi due sportelli che potrebbero essere presi ad esempio come ricettacolo di tutte le potenzialità di un simile centro.Il primo si chiama ‘Tutta la genitorialità possibile’: “Con la collaborazione di VOX Osservatorio sui Diritti, SOS Infertilità ONLUS ed alcuni ginecologi specializzati, è uno spazio informativo, di orientamento e di consulenza in Italia per le coppie, finalizzato a chiarire aspetti medici, legali ed operativi della procreazione

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assistita dopo la sentenza della Corte Costituzionale sulla Legge 40 e sulla fecondazione eterologa”. Si pensi a quanto sia difficile per tanti genitori concepire un figlio ed essere anche informati su come affrontare l’infertilità, relegata all’angolo della vergogna e repressa come un argomento da cui fuggire senza spiegazioni. Si pensi alle incredibili difficoltà di chi vuole anche semplicemente sapere come affrontare l’evenienza di una simile circostanza. L’altro, il ‘Registro per il deposito delle attestazioni anticipate di volontà’, rappresenta un altro tentativo coraggioso di mettere in luce un argomento-tabù: ‘Offre ai cittadini milanesi la possibilità di iscrizione in un registro istituito per l’attestazione del deposito delle dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari, in materia di prelievi e trapianti di organi e tessuti, nonché in ordine alla cremazione e alla dispersione delle ceneri e, se individuati, i nominativi ed i dati anagrafici dei fiduciari che hanno il compito di collaborare all’attuazione delle volontà espresse’. Ne va da sé che un luogo come questo mette anche le persone in condizioni di capire che cosa sia un testamento biologico, alimenta il dibattito, solleva una questione, informa. Non lascia che una conquista civile si deteriori nel disuso o nell’abbandono. Un approccio dinamico ai diritti Questo approccio dinamico ai diritti e a tutta la difficile attrezzatura della democrazia potrà apparire perlomeno non sufficiente, specie come luogo di educazione alla cittadinanza. Eppure svolge una funzione pratica, d’esempio, di stimolo. È la concessione degli spazi e il loro uso critico che può servire ad avvicinare interi segmenti della società completamente abbandonati a se stessi. Perché non dare anche a Ragusa questa occasione? Perché non permettere la declinazione locale di questo esperimento? Perché non darci questa occasione? È velleitario, è costoso, è inutile? Ma quanto costa, invece, non investire nei diritti?


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Italiani

Un medico a Castelvolturno Ci sono italiani vigliacchi, pronti a picchiare gli zingarelli o a cacciare i bambini rifugiati. Ma ci sono anche italiani coraggiosi, con le palle e il cuore per vivere aiutando. Eccone uno di Salvatore Porcaro www.napolimonitor.it Ho iniziato negli anni Novanta da solo, poi mi sono aggregato all’allegra compagnia della Jerry Masslo, nel ’98 più o meno. Da allora cerco di curare un ambulatorio che definisco una Uomi, unità operativa materno infantile. Qui opera il ginecologo, l’infettivologo, il pediatra, il medico di medicina generale, il medico condotto, che poi si definisce medico di prossimità, e l’assistente sociale. Tutto qui. Io vengo da una famiglia contadina, ho perso mia madre all’età di undici anni, nel 1968. Il mio medico di famiglia era una persona che si prendeva cura di tutta la famiglia, veniva a casa mia in campagna, a volte arrivava all’ora di pranzo, si sedeva con noi, ci onorava della sua presenza, e guardava te, lei, me, lui, tutti, di tutte l’età e di tutti i generi. Talvolta ci dava anche una mano a far partorire la mucca, perché era un medico (sorride). E lui è stato il mio vero maestro, il mio pallino insomma, me lo sono sempre ricordato, mi diceva che le persone le devi annusare, guardare, toccare, parlarci.

Oggi non so voi con quali miei colleghi avete a che fare, spero persone valide, ma è difficile fare questo mestiere, io trovo sempre una grossa difficoltà, tanto è vero che ho deciso di cambiare attività: ritorno in campagna a fare il contadino e riprenderò quelle attività che forse sono più valide dello stesso somministrare farmaci. Avrebbero bisogno di essere ascoltati Queste popolazioni avrebbero bisogno di essere ascoltate un po’: ascoltare una persona, guardarla in viso, darle tutto il tempo possibile. In inverno prendo il fornellino, bluffo con l’amico direttore dicendo che mi serve per disinfettare gli strumenti, invece no, facciamo il decotto di mele annurche. Per cui, per una tosse, eviti di dare dei farmaci e gli fai assaggiare in ambulatorio questo medicinale che è un prodotto della campagna, ci metti un po’ di fichi secchi, un po’ di alloro, le cicerchie. I bisogni qui sono proprio minimi, come insegnare a quella donna a riprendere l’allattamento al seno come faceva in Africa. Pensate che in Africa allattano per tre anni, talvolta non c’è più latte, però pensate alla bellezza di avere il contatto fisico col proprio bambino per tre anni. Come mettono il bambino, avete visto? È fenomenale come riescono ad annodarlo sulla schiena. Gli stiamo togliendo anche questo. I miei cari colleghi pediatri e ginecologi, compresa l’ostetrica e l’assistente sociale, per prima cosa alla dimissione, molto spesso senza volerlo – perché oramai è la prassi – prescrivono un latte formulato, in aggiunta casomai al latte materno. L’ostetrica dovrebbe, prima di tutto in ospedale, insegnare a quella donna come cominciare a dare il latte al suo bambino, come mettere la boccuccia vicino all’areola mammaria, come non produrre ragadi, cose banali. Se uno riuscisse a far capire che i bisogni sono semplici...

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C’è bisogno di educare a una sana alimentazione e a un percorso di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Nel frigo ci sono i condom, e questa è prevenzione, a volte quando tu sai che ci sono persone a rischio gli dai un pacco. E un pacco non ti costa niente, vogliamo parlare di economia? Bene, un pacco di centoquarantaquattro condom sapete quanto costa? Cinque euro e mezzo. Se andate in farmacia e ne prendete sei, quanto costano? Sette euro e quaranta! La terapia mensile che a volte devo somministrare ai pazienti sieropositivi costa mille euro, trenta capsule per trenta giorni, ed è quella a costo più ridotto perché hanno messo in un’unica capsula la tripla. Una medicina povera Con una medicina povera siamo riusciti a dare una mano a migliaia di donne, in questi anni. Ogni anno si fanno mediamente diecimila trattamenti tra donne e bambini. E si riesce a ridurre tanti danni con una medicina misera, ma proprio umile. Se per comprare l’acqua Amorosa, l’omogeneizzato, il Libenar, tu hai bisogno in un giorno di dieci euro, significa una marchetta. Se tu le dai quello di cui ha bisogno, cioè pochissimo, ma che è esente da ticket, da costi, risparmi una marchetta. Molte ragazze qui lavorano su strada e sono mie pazienti, e quindi tu cerchi di tutelare loro sotto certi aspetti, ma anche l’utenza e quindi fai sanità pubblica: preservi la salute di quella ragazza e preservi la salute del nostro genere nei confronti della ragazza, della moglie, della fidanzata eccetera, perché fai in modo che le ragazze nere qui facciano indossare il condom al cliente. Poi se loro hanno un problema: “Dottor Gianni si è rotto il condom”. Allora facciamo tutta una serie di esami per i sei mesi successivi, e loro ti seguono.


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“Quando arriva una creatura che esprime un bisogno e che arriva da un altro continente...”

ARCHIVIO DISEGNI DI NAPOLI MONITOR

ARCHIVIO DISEGNI DI NAPOLI MONITOR

La nostra medicina è troppo veloce Quando arriva una creatura che ti esprime un bisogno e che viene da un altro continente, con altre culture, altre misure, e tu utilizzi le stesse metodologie che hanno inguaiato la nostra società che era contadina, allora ci stiamo inventando una serie di bisogni inutili. La nostra medicina lo ripeto è troppo veloce. La mia medicina quella vecchia, quella antica, non vecchia, antica, era lenta, tempus omnia medetur dicevano gli antichi, il tempo cura quasi tutto, aggiungiamo un “quasi”, ma prima era il tempo che curava tutto. “Think think think” In questi ultimi anni, all’interno della comunità africana, è aumentato il numero di persone che soffre di disturbi psichici. Quali sono le cause e come si può affrontare questo problema? Loro spesso dicono: “Think think think”, penso penso penso. Immaginate, da una stanzetta così (indica l’ambulatorio), loro possono ricavare quattro stanze a centocinquanta euro.

Il compagno al massimo fa buongiorno, sapete cos’è buongiorno, no? Va a vendere i fazzolettini per strada con una carrozzina facendo: “Buongiorno!”, quello è il lavoro che si chiama buongiorno. Oggi riesce a guadagnare dieci euro, domani venti, dopodomani niente. Lo voglio immaginare se uno non va un poco fuori di testa. Di psichiatrico c’è poco, ma c’è molto di contingente. Ognuno di noi non sapendo cosa mettere sul fuoco, avendo due o tre bambini, va un attimino fuori di testa. E chi si è portato dal suo paese qualche problema di tipo psichiatrico è chiaro che qui a un certo punto si cronicizza. Però, il problema dove sta? Quel ragazzo, che era forte e sano nel suo paese, arriva qui, e se a casa sua riusciva ad avere un piatto di riso e un po’ di semolino, qui non riesce a trovare manco o cazz’ perché deve andare ad alloggiare in un casale abbandonato nelle campagne di Villa Literno, e quindi non ha l’acqua, non ha niente, ha solo un giaciglio che spesso è fatto di un materasso preso da strada e portato lì a terra, è normale che comincia a vivere male, a campare peggio, ad alimentarsi na zoza.

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E quale sanità pubblica noi assicuriamo? Da lì la mia incazzatura politica... È lì la mia incazzatura politica, come fai a rispondere alla persona che fa “think think think”, pensa pensa pensa, se non gli assicuri il minimo possibile? Non li puoi mandare nei centri di salute mentale, il problema non è allertare gli amici psichiatri di un qualcosa che nel novanta per cento dei casi è legato al fatto che non tengo la casa, non tengo i soldi per pagare la casa quando la tengo, e se lo dico al proprietario mi dà un calcio in culo e mi dice: “Esci fuori che non c’hai il soggiorno!”. Vorrei far capire a me stesso che se mi metti in un altro continente, senza i miei parenti, senza i miei cari, con amici opportunisti come le tenie in un intestino, e se sei donna e sei capace di lavorare su strada, la madame ti prende e ti porta su strada, e se sei uomo e sei capace di spacciare ci sta quello lì che ti fornisce la droga, se non sei capace di questo ti mettono da parte. È chiaro che tante persone vanno un poco in crisi...


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“Provo a continuare finché ho la forza. 'A Maronna m'accumpagna”

ARCHIVIO DISEGNI DI NAPOLI MONITOR

Queste creature che partoriscono qui... Voi immaginate queste creature che partoriscono qui, senza i loro genitori, se non avessero qualche amico – che io mi reputo amico di queste persone – che cominciasse a dare una mano: pannolini, a patto che tu allatti, non allatti niente pannolini; acqua del rubinetto calda, tiepida, temperatura normale per il bambino, lo lavi sotto al rubinetto con il sapone... Sono persone sane, altrimenti non affronterebbero un viaggio, si ammalano qui in Italia, ma si ammalano di depressione, di solitudine, vanno fuori di testa perché sanno che vengono trattati da merce. Non tieni il soggiorno? Questa è la casa. Avete visitato qualche casa? Umidità che arriva a un metro e mezzo di altezza, letti addossati alla parete, bambini con la bronchite. È normale! Tu stai vicino all’umidità, ti pigli pure la bronchite. Allora io che cosa faccio? Sapete quei fogli di polistirolo che usano gli imbianchini da mettere vicino le pareti e isolarle? Arrivo con il polistirolo, c’ho la borsa da medico, sì anche, ma dopo, prima vado col polistirolo, allontano il letto, ci metto questa cosa qua, gli avvicino il letto, dico: “Guarda adesso è caldo”. Poi parliamo del bambino, lo visito, gli do l’antibiotico, poi ordino dei regimi di vita normali. La stessa cosa avviene in estate con il ventilatore, quelle case insane, ventilatore direttamente sul bambino, e arrivano che ha la mucosite con l’infiammazione delle prime vie aeree, ma è normale, anche a noi capiterebbe. Allora tu cosa dai? Consigli. Anche telefonicamente. Loro mi lasciano il messaggio, io li chiamo, gli do i consigli. Quindi un medico a distanza ma anche un medico di prossimità, una medicina a distanza ed anche una medicina di vicinanza.

Quella stupenda bambina che avete visto qua, con l’elenco dei libri, è stata bocciata l’anno scorso, voleva fare il liceo scientifico, non ce l’ha fatta, è venuta da me piangendo: “Gianni, mi dai una mano?”, certo che ti do una mano. Chiaro che le do una mano, a un certo punto sarebbe una ragazzina a rischio, per l’età, per la bellezza, no? E io che mi occupo di prostituzione che faccio? Non lo permetto a lei, lei che è nata qui, è bianca, ed è nera, è bianca e nera, è una bimba mulatta? La madre alle due del mattino te la trovi su strada e l’altra volta si mise in ginocchio per ringraziarmi. Questa è medicina. Eri un uomo ricco e sei diventato un uomo povero, poi eri un uomo povero e sei diventato un uomo ricco per tutte le esperienze che hai assorbito. “Io vorrei studiare, dottor Gianni..” C’è una magnifica creatura che ha completato un master in Scozia. L’ho conosciuta nel ’95 e aveva difficoltà, mi disse: “Io vorrei studiare, dottor Gianni”. Si è laureata all’Orientale di Napoli in Lingue e letteratura straniera, con 110 e lode, il bacio della commissione. Poi è riuscita a fare un master e l’ha concluso. Però se non c’era un tamburo che sapeva suonare, quel tamburo non serviva, diventava altro. Poteva stare ancora a fare un altro tipo di lavoro, poteva trattare a sua volta altre persone. Perché così funziona in questo mondo: una volta che una ragazza si è affrancata, poi compra un’altra ragazza. La tratta è fatta, molto spesso, dalle stesse persone trattate, cioè: “L’ho fatto io, perché non lo devi fare tu? Allora io ti compro, e tu fai la stessa vita che ho fatto io”. E lì si diventa cattivi. Perché si rimuove l’etica, la morale, la coscienza si rimuove tutto dicendo: “L’ho fatto io, lo puoi fare anche tu”.

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Perché è così che funziona Allora, o spezzi questa situazione che dura da tempo o non riesci a fare sanità. Con cinquecento euro compri i libri e il camice, e assicuri a questa creatura di andare a scuola. Non sono molti: un euro e mezzo al giorno, è un cornetto e un cappuccino, ma nemmeno. Per questo loro mi adorano, ma mi pigliano pure per pazzo. Ne ho altre due oltre a questa qui, che andranno all’università come quella. Tutto questo è sanità! Vi dico soltanto un’ultima cosa sulla bellissima tesi di questa donna. Lei l’ha dedicata a suo padre che non c’era più, e alla sua sorellina, letteralmente uccisa al suo paese a diciotto anni. Noi avevamo pensato di farla studiare in Nigeria, non farla venire qui assolutamente. Ma ovviamente questa cosa, se passava, era pericolosissima per la tratta, perché l’idea di una ragazza che può studiare nel proprio paese perché c’è qualcuno che la finanzia con pochi naira - il costo lì è minimo rispetto a quello che paghiamo qui per l’università - era pericolosissimo. Le avranno somministrato qualcosa, alla fine quella ragazzina è andata fuori di testa per due anni ed è morta. La sorella poi si è laureata dopo un po’ di anni, perché si era fermata a pensare alla sua sorellina, diceva: “È anche colpa mia, perché se la facevo venire qui, probabilmente...”. Perché è cosi che funziona: “Mi fai venire? Mi fai venire? Mi fai venire?”, e tutti quanti vanno fuori poi arrivano qua e non trovano niente. Sembrava una buona sperimentazione, ma è fallita. Fallita perché è morta quella creatura. Insomma, alla fine questa creatura che si è laureata ha messo sulla tesi una dedica ai suoi genitori, alla sorellina che non c’era più, e a questo fratello qui che dice sempre: “Cos’è mai un tamburo se nessuna mano lo suona?”. Il tamburo io ce l’ho, provo a suonarlo finché ho la forza. A Maronna m’accumpagna.


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Calabria

Un viaggio ad Africo Nella “terra dei fuochi” calabrese di Claudia Procentese www.napolimonitor.it Arriviamo ad Africo nel primo pomeriggio di un caldo novembre. Ci colpisce la desolazione di un posto abitato da quasi tremila anime lungo la Statale 106. Una fila di palazzine basse affacciate sullo stradone principale. Addentrarsi all’interno vuol dire scorgere il cemento della nuova cittadina nata tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in una parte del confinante comune di Bianco, poi diventata Africo nuovo, dopo che un’alluvione costrinse gli abitanti a spostarsi a valle, abbandonando Africo vecchio, di cui ora restano i ruderi del borgo arroccato sulle pendici dell’Aspromonte. Percorro la via del cimitero. “Ma l’anima non muore” è scritto a vernice bianca sul muro accanto all’entrata. Un camposanto con “per metà morti uccisi, per metà morti di tumore”, mi dice Totò del comitato che si batte per scoprire perché ad Africo negli ultimi dieci anni è aumentato in maniera esponenziale il numero dei malati e dei decessi per cancro. La terra “bedda” avvelenata da chi? Duecento morti dal 2004: si contano come in un bollettino di guerra. Totò li segna tutti in quadernetti a righe. Nome, cognome, età, data della dipartita, tipo di tumore. Elementi e numeri ricavati da un minuzioso porta a porta tra gli abitanti del piccolo paese e purtroppo aggiornati di continuo. Non solo una sorta di registro dei tumori fai da te, ma un diario di vittime civili, in un piano inclinato di dolore che colleziona supplizi e sperimenta impotenza. Acqua inquinata, presenza di fusti tossici, cattiva gestione dei rifiuti bruciati nelle vicine fiumare? Sono arrabbiati ad Africo, la “terra dei fuochi” calabrese.

Il cuore della 'ndrangheta Una rispondenza del simile in un Sud dove i chiaroscuri generano penombra. Qualunque sia la zona, se la Locride o se le province campane di Napoli e Caserta. Appelli, esposti, petizioni. Un’indignazione che non promette requie né ristoro, ma che è consapevole necessità di resistenza. Una resurrezione imperfetta, maldestra, come quando uno tenta di voltare pagina per diventare se stesso. Ma diventare chi, se si continua a delegare l’impegno al coraggio solitario di chi lotta? Ed è così che tra fiumare, valloni, gole e dirupi, mette radici la ’ndrangheta, la cui cellula base è la ’ndrina, la famiglia criminale di appartenenza. Un termine recente, ’ndrangheta, come la sua percezione e conoscenza. Ancora nel 1982, quando viene introdotto l’articolo del 416 bis del codice penale (reato di associazione per delinquere di stampo mafioso), la ’ndrangheta viene designata semplicemente come tra le “altre associazioni comunque localmente denominate”. Solo nel 2010, al testo dell’articolo 416 bis si aggiunge la parola “ndrangheta”. Un’organizzazione criminale che, dopo il periodo stragista dei Corleonesi che incrina la posizione di Cosa nostra, fiaccata dalla lotta che la vede contrapporsi allo stato, conquista il primato su mafia e camorra. È il marchio dell’ascesa. Già presente all’estero (Australia e Canada), la ’ndrangheta colonizza il nord Italia, nuovo spazio per investire i proventi illeciti, contando su politici ed imprenditori collusi. Ma il cuore è sempre lì, nel triangolo dell’Aspromonte tra San Luca, Platì e Africo, dove sono nati quasi tutti i capi, dove si sono consumati gli eccidi. Entriamo in un bar, osservati da un mantello d’occhi invisibile che ci fruga irrispettosamente. Qui ci si conosce tutti, lo straniero è riconoscibile e da riconoscere. Non c’è sfarzo in questi luoghi.

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Tutto è addomesticato a una quotidianità senza pretese, retaggio di chi ha vissuto l’asperità di terre che non concedono fronzoli. Se chiedi cos’è la ‘ndrangheta, ti viene risposto che non esiste. Insistiamo. «La ndrangheta erano i galantuomini, ora non esiste più, è solo delinquenza». L’ultimo uomo d’onore, di rispetto fu Giuseppe Morabito, u tiradrittu, nativo di Africo, arrestato nel 2004 dopo dodici anni di latitanza. Già nel 1994 Morabito, secondo i servizi segreti, in cambio di una partita di armi avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, proprio nella zona di Africo, scorie tossiche, forse radioattive, trasportate su autotreni dalla Germania. “La cosa più semplice che esista” E allora, se la ndrangheta non esiste, se “è fatta di uomini normali”, come si spiegano le faide, i morti ammazzati? «Colpa nostra, delle donne», è la risposta data senza esitazioni da una giovane. Non uno scontro per il comando degli affari illeciti, ma regolamenti di conti in famiglia, dentro un circolo vizioso che, una volta innescato, è difficile da spezzare. Una risposta che ammorbidisce di parecchio i contorni della “vera” verità. «Non ci si ferma più se la vedova o la mamma continuano a chiedere vendetta, se impongono agli uomini di casa che il sangue del marito o del figlio deve essere punito con altro sangue». Vengono in mente le Erinni, le dee vendicatrici di mitologica memoria, viene in mente la bellezza di Elena che fa scoppiare una guerra. Tutto pare flusso antico di una catarsi femminile ciclica. Come se questo popolo cercasse nelle radici l’espiazione al delitto compiuto, quello di aver ceduto all’ingannevole seduttore. Per sopravvivere. Ma mentendo a se stesso. Sbirciamo fuori: la sera accantona l’azzurro. C'è anche il marito della ragazza. Lo guardiamo, lui sa che attendiamo anche la sua risposta. Ci tiene per un attimo in sospeso, poi con voce pacata mi dice: «In fondo morire è la cosa più semplice che esista».


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g autor d scaricabi e

no alla guerra, the Holy Bile no al nucleare

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n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.

I

mP

nicola.

r–esistenza precaria

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KaNJaNo & car o gubi osa

La mia terra la difendo

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l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.

erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

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ISBN 9788897194026

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ISBN 9788897194033

I Siciliani 56 Sicili igiovani p giov ni – pag.

a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.


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Nasce la Biblioteca Popolare Giambattista Scidà

GAPA La storia continua

Nino era piccolo di statura, aveva dieci anni e quando mi incontrava al doposcuola mi veniva incontro urlando: “u gicanti, arriva u gicanti!” e incominciava ad arrampicarsi su di me fin sopra alla testa, poi, una volta sceso, mi diceva:”ni facemu i compiti?”. Questo la prima immagine che mi ricordo di quel 1988, quando quei quattro ragazzi decisero di avvicinarsi a San Cristoforo per promuovere il protagonismo e i diritti dei ragazzine e ragazzine del quartiere.

di Giovanni Caruso

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Nasce la Biblioteca Popolare Giambattista Scidà - GAPA/La storia continua

GAPA

La storia continua di Giovanni Caruso foto Archivio GAPA, Mara Trovato www.associazionegapa.org Erano passati quattro anni dall’uccisione di Giuseppe Fava, il movimento antimafia catanese incominciava a disperdersi ma alcuni pezzi di questo movimento volevano agire in quei quartieri dove la mafia “presidiava” il territorio. Nacque il GAPA, con l’intenzione di relazionarsi con i bambini e bambine, con gli uomini e le donne del quartiere per un percorso comune verso la democrazia e il rispetto della costituzione. Nei primi anni si andava per pochi giorni nel quartiere per il doposcuola, poi arrivarono le stragi del 92 e la nostra indignazione si trasformò in azione politica per un inizio che ci avrebbe portato a praticare una antimafia sociale. Sono passati 27 anni, Nino è cresciuto e come lui tanti altri che sono diventati padri e madri, e i loro figli vengono al GAPA a continuare quel percorso comune. Oggi siamo ancora qui, nel nostro “Gapannone Rosso”, con il doposcuola, le attività ludiche, la palestra popolare e il nostro giornale di quartiere. Siamo qui con nuovi progetti che ci consentano di contaminarci con la diffidente “altra città”, per denunciare le ingiustizie che provocano tanta infelicità sociale. Lo facciamo con la leggerezza e l’allegria che ci trasmettono i nostri bambini, con la cultura attraverso la nostra “biblioteca popolare”, il teatro, e il tutto senza chiedere nulla, attraverso l’autofinanziamento. Insomma, adesso e da qui, noi ci siamo.

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La biblioteca che viene dal basso di ivana Sciacca foto Collettivo Scatto Sociale, Mara Trovato www.associazionegapa.org Una serata, il 22 novembre, che ha racchiuso anni di speranze, lotte e lavoro. Un altro gradino in più scalato con la stessa gioia di chi, scalando una montagna, sa di non essere ancora in cima ma sa anche che sta provando ad avvicinarsi. L’inaugurazione della Biblioteca Popolare “Giambattista Scidà” è stato un momento di aggregazione importante, a tratti persino toccante, perché simbolicamente pregnante di mille significati. La disoccupazione, l’abbandono scolastico, lo spaccio, i mille volti della criminalità, le miserie che costellano le viuzze del San Cristoforo hanno un solo nome: INGIUSTIZIA SOCIALE. E si scrive così ma si legge “ASSENZA DELLO STATO”.

La risonanza che assume in un posto del genere una biblioteca popolare è tagliente ma non farà male a nessuno perché i libri sono conoscenza, sono altri mondi possibili cui si può accedere, rappresentano uno strumento fondamentale per poter cambiare ma anche per potersi difendere da uno Stato che si ostina a fare il forte con i più deboli. Uno Stato che sotto la bonaria veste democratica continua ad esercitare trucemente una tirannia crudele verso i sudditi. Ed è proprio qui il punto: dedicare uno strumento così potente a un magistrato come Scidà, simbolo dell’antimafia catanese, è come gridare all’unisono che siamo, vogliamo essere, è nostro diritto costituzionale essere cittadini e non sudditi! Fu proprio Scidà a donare i primi soldi per questa biblioteca. Ci sono voluti ben tredici anni per racimolare il resto, e chissà quanti altri ce ne vorranno per cu-

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rare ogni dettaglio. Ma questo conta poco: l’esperienza insegna che la volontà è la forma più pulita di potere per costruire qualcosa di buono. Al San Cristoforo a volte ci si sente dei Don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento ma poi segue sempre un momento in cui ci si accorge che se nessuno lottasse tutto rimarrebbe ben peggiore di quanto già non sia. E in serate come quella del 22 novembre dove ci si ritrova a inaugurare una biblioteca popolare nel quartiere e a condividere la cena e le emozioni, dove ci ritrova a giocare e a ridere con i giocolieri e i personaggi fiabeschi di Gammazita, in una serata come questa dove qualcuno prima di andar via dice “Ha vistu chi bella sirata ha statu!”, in momenti così ci si accorge che un mondo possibile, come quello contenuto nei libri, è sempre a disposizione: volendolo…


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Il nostro Scidà UN UOMO, UN MAGISTRATO E adesso è disteso qui, nella stanza vicina a quella in cui scrivo ed è piena notte. Nella sua casa, come sempre, non ci sono che persone buone: il fedelissimo Ferrera, la brava Abeba, Titta, Giuseppe, Luca... Una donna ha portato dei fiori gialli, un’altra delle spighe di grano. Ci sono due computer e una stampante, ma centinaia e centinaia di libri. Braudel, Lefebvre, Verga, Guicciardini, i Canti, Mallarmé, Cervantes... vecchi amici. C’è il suo giornale di otto anni fa, Controvento, quello che il distributore non volle mettere in edicola perché “sennò Ciancio ci leva il pane”. Ci sono carte e fascicoli dappertutto. Ci sono, chi addormentato in poltrona chi su un divano, amici che gli vogliono bene. Lui, nella stanza accanto, dorme sorridendo. Avremmo dovuto parlare dei Siciliani, fra pochi giorni. Era fra i promotori, proprio in questa casa ci siamo riuniti un mese fa. “Mannaggia – penso – dovremo fare i Siciliani senza di lui”Fra poco è l’alba. Lontano, la notte s’è fatto impercettibilmente meno scura. “Senza di lui? - pensiamo - Chissà se davvero siamo senza”.

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Islamici a Catania

Moschea casa comune

COLLETTIVO SCATTO SOCIALE

"Sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono” di Mara Trovato È a Catania che nel 1980 si inaugura la prima moschea italiana poi in seguito abbandonata, per arrivare al 15 dicembre 2012, data in cui viene inaugurata la più grande nel sud Italia, la "moschea della Misericordia". Cosa rappresenti per i fedeli la possibilità di riunirsi in un luogo familiare, un luogo che sia accogliente e sicuro, è facile da immaginare. Oggi più di ieri l’Islam, grazie ad una maggiore facilità di migrazione per i più abbienti, ma purtroppo spesso difficoltosa e mortale per i meno (come per chi attraversa il canale di Sicilia in un barcone), si pone in uno spazio territoriale che è multiplo e non delimitato ai paesi d'origine. Per fare in modo che il musulmano non si ritrovi privato di un solido legame tra la sua religione e la società che lo circonda, bisogna che l'Italia dia voce alla sua vera natura costituzionale: la laicità. Nessuno insegna a ricambiare il saluto islamico di un bambino musulmano, ma il bambino musulmano impara da subito cos'è il segno della croce.

Raccontati dal Collettivo Scatto Sociale Se “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume (art. 19 della Costituzione)”, perchè in Italia ci si oppone con fervore e puntualmente alla costruzione di moschee come luoghi di culto? Per ignoranza? Paura dettata dai media che propongono slogan divisori ed intimidatori come “Moschea e Terrorismo”, “Islam e Kamikaze”? Basterebbe abbandonarli questi slogan per scoprire invece che esiste una “normalità” musulmana. E questa normalità l'hanno voluta raccontare un gruppo di fotografi catanesi, il Collettivo Scatto Sociale, alla loro prima mostra “ISLAM: Viaggio all’interno della moschea di Catania”. La scelta del luogo come prima presentazione al pubblico è stata il GAPA, associazione che dal 1988 è socialmente attiva nel quartiere popolare di S.Cristoforo. Qui il gruppo ha partecipato al primo Corso di Fotografia Sociale e Giornalistica organizzato da“I Siciliani giovani” e “I Cordai”. Ed è al GAPA, oltre che in altre associazioni, che il Collettivo è impegnato in attività di volontariato.

MARA TROVATO

Un'integrazione semplice e naturale

COLLETTIVO SCATTO SOCIALE

All’inaugurazione eravamo in tanti ma particolarmente gradita è stata la partecipazione della comunità musulmana, felice di riconoscersi protagonista nelle foto presentate. L' Imam della comunità etnea Keith Abdelhafid ha ribadito che la Moschea è un luogo di incontro e di preghiera, dove tutti sono benvenuti. "Sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono”, ha detto. Riconoscerle e dar loro vita renderebbe questo processo d'integrazione molto più semplice e naturale.

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'Ndrangheta

Cerimonie in Lombardia Una riunione segreta della 'ndrangheta, tra riti, giuramenti e una vera e propria liturgia di Ester Castano Aprile 2014, Castello di Brianza: in un capanno del cuore della ‘Lecco bene’ si sta svolgendo un rito di affiliazione alla ‘ndrangheta. Capolocale, vangelisti, santisti, mastri di giornata, sgarristi, picciotti semplici: sono tutti lì riuniti, ciascuno col proprio titolo, per conferire all’affiliato Giovanni Buttà una ‘dote’ di prestigio. Si è distinto per particolare spregiudicatezza in ambito criminale e serietà rispetto agli altri membri dell’associazione e per l’operaio di Calolziocorte originario di Messina è tempo di promozione. Parole, gesti, mimica facciale: come testimoniano le ricostruzioni degli inquirenti dal 1800 ad oggi queste litanie simili a filastrocche sono le stesse, tramandate di padre in figlio. Dalla Calabria agreste del XIX secolo alla cementificata Brianza felix vicina di casa di Milano Expo 2015: in Lombardia la ‘ndrangheta si rigenera attorno a una tavola imbandita con capretto recitando formule dalle radici massoniche, figlie di una religiosità deviata. E non bastano gli arresti ad interrompere la degenerata tradizione calabrese che con estrema rapidità negli ultimi trent’anni ha attecchito anche al Nord Italia: come dimostra l’operazione Insubria che oggi ha portato in carcere 35 indagati e altri 3 ai domiciliari, la detenzione per gli affiliati è solo una pausa momentanea, una sorta di cassaintegrazione da ‘Ndrangheta Spa alle spese dello Stato, periodo di sospensione dalla quotidiana attività criminale in cui si trova il tempo per rigenerarsi.

Per uscire dal vincolo di affiliazione siglato in un cerimoniale vecchio due secoli ci sono solo due modi: o collaborare con lo Stato, o la morte. “Qui davvero ogni commento appare superfluo, attesa la straordinaria chiarezza e la indiscussa univocità dei contenuti delle intercettazioni captate nel ‘sancta sanctorum’ di una riunione segreta di ‘ndrangheta”, scrive il Gip di Milano Simone Luerti nell’ordinanza di custodia cautelare in riferimento alla cerimonia di conferimento della ‘santa’ al 52enne Govanni Buttà di Calolziocorte (LC), già condannato per omicidio in concorso. La cerimonia intercettata La cerimonia dell’aprile 2014, intercettata dagli inquirenti, si svolge in tre momenti distinti: gli atti preparatori, la fase liturgica e l’indottrinamento. Dieci minuti in tutto: dalle 11.40 alle 11.50, la celebrazione dura il tempo di un paio di sigarette. Al capanno di Castello di Brianza, oltre al proprietario Michelangelo Panuccio e al Buttà si trovano il boss Antonino Mercuri detto ‘Pizzicaferro’, Rosario Gozzo, Antonio ‘Occhiazzi’ Mandaglio, Bartolomeo Mandaglio e Giovanni Marinaro. Per il conferimento della carica di ‘santa’ sono sufficienti cinque persone che abbiano nella scala gerarchica dela mafia calabrese almeno il grado di santista, ovvero l’equivalente della ‘dote’ o ‘fiore’ che sarà attribuita all’adepto. Dote, carica o fiore sono sinonimi dello stesso termine e indicano il grado di affiliazione del singolo mafioso legato all’organizzazione criminale attribuito in base alle capacità del soggetto. La Santa, da cui deriva la dote di ‘santista’, è una struttura interna alla ‘ndrangheta: nata a metà anni ’70 come organizzazione interna all’organizzazione stessa, i suoi membri possiedono regole diverse degli ‘ndranghetisti ordinari. Il santista, ad esempio, è autorizzato ad avere contatti con i non affiliati, ovvero con politici, magistrati e massoni: il suo ruolo è quello di infiltrarsi capillarmente nelle logge e nei partiti, nei gruppi imprenditoriali e nelle società di pubblica amministrazione.

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E’ questo il ruolo che il boss Mercuri e il Locale di Calolziocorte hanno riconosciuto per Giovanni Buttà. Il “capo” e il “vangelista” I primi ad entrare al capanno sono il boss Mercuri e Panuccio, rispettivamente ‘capo locale’ e ‘vangelista’: a loro il compito di predisporre il necessario per il rito. Il cerimoniale prevede l’utilizzo di diversi oggetti, portatori di antichi significati: una pistola, un ago, un coltello e un fazzoletto. L’intento era quello di preparare bene tutto in anticipo: contrattempi e dimenticanze capitano anche agli ‘ndranghetisti. Difatti: la pistola è scarica, il Panuccio l’ago se l’è dimenticato a casa e pare che il coltello non sia abbastanza affilato per una ‘pungiuta’ come tradizione comanda. Manca anche il veleno, ma la cerimonia la si farà con quello che c’è a disposizione. Ma non c’è tempo da perdere, gli affiliati hanno una certa fretta. “Venite, dai”, esclama ai compari il boss Mercuri. Si da inizio alla fase liturgica: la formazione della ‘Società’ e il conferimento della dote di ‘santista’. Ad intervallarsi nel dialogo dal tono ieratico sono Mercuri e Panuccio che, fra tutti, posseggono le doti più alte. Inizia Mercuri: “Buon vespero e santa sera ai santisti… ai santisti buon vespero. Giusto appunto questa santa sera… giusto appunto questa santa sera nel silenzio … nel silenzio della … della no … nel sile … nel… nel silenzio della notte … e sotto la … sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna … è...”. La “santa catena” Prosegue Panuccio: “è formata la santa catena”. Conclude Mercuri invitando il prescelto Buttà a presentarsi dinanzi a loro: “Formo la santa catena! Con parole… eh … a nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora … fo … con … parole di uomo e di umiltà, formo la santa società! … eh, dunque, fatelo venire … è formato … fatelo venire”.


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“Spegni il telefonino e giura nel nome di Lamarmora”. “Lo giuro!”. Fra tecnologie e medioevo...

“Mettete la sicura!”, esclama l’imprenditore edile Bartolomeo Mandaglio accertandosi, come richiede la tradizione, che la pistola fosse messa in sicurezza. Una volta cominciata la cerimonia non può essere interrotta per alcun motivo, e nessuno può entrare o uscire dal luogo prescelto, salvo l’arrivo delle Forze dell’Ordine. A vigilare sulla porta d’ingresso resta il ‘trequartino’ Antonio Mandaglio detto ‘Occhiazzi’, ‘capo società’ di Calolziocorte. “Santa sera ai santisti” Il rito è pronunciato con estrema chiarezza: “Buon vespero” e “Santa sera ai santisti” sono i tradizionali saluti di ‘ndrangheta che anche in questa occasione i capi clan utilizzano per salutarsi. Buttà entra, e si posiziona di fronte al boss Mercuri: “A nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora passo la mia prima votazione sul conto di Buttà Giovanni. Se prima lo conoscevo da camorrista di sgarro fatto e fedelizzato d’ora innanzi lo conosco per un camorrista per, per un santista, fatto e per un camorrista appartenente e non appartenente a questo Corpo di Società”. Ci sono due strade, illustra il boss Mercuri a quello che sta per essere battezzato come santista: quella del bene e quella del male. La prima, per gli ‘ndranghetisti lì riuniti, è l’associazione criminale di stampo mafioso; la seconda è quella che gli affiliati indicano come ‘Società Criminale’ ovvero lo Stato e tutti coloro che riconoscono l’autorità nelle Forze dell’ordine. “Da ora vi giudicate da solo!” “Oggi, da questo momento in avanti, non vi giudicano gli uomini… si ‘ncesti cosa vi giudicate da solo! Ci sono due alternative. Se, facendolo nella vita nostra ci sarà una trascuranza grave, non devono essere i fratelli vostri a giudicarvi.

Dovete essere voi a sapere che avete fatto la trascuranza. Vi giudicate voi quale strada dovete seguire”, afferma consegnando a Buttà una pistola. “Fino a ieri, fino a ieri appartenevi alla ‘Società Criminale’. Oggi state prendendo un ‘altra strada! Voi, per salvaguardare, devi essere armato (…) dovete rinnegare tutto quello che conoscevate fino a ieri!”. Ed infine il giuramento: MERCURI: dite appresso a me: “Giuro” BUTTA': giuro MERCURI A.: di rinnegare BUTTA': di rinnegare MERCURI A: tutto fino alla settima generazione BUTTA': tutto fino alla settima generazione MERCURI A.: tutta la società criminale da me, fino a oggi, riconosciuta. Tutto registrato dalla polizia Nonostante tutte le accortezze, il rito celebrato in Lombardia è stato interamente registrato dalle forze dell’ordine. Ed è la prima volta che accade. In questi ultimi anni gli ‘ndranghetisti lecchesi e comaschi si sono ritenuti fin troppo fortunati rispetto ai colleghi brianzoli o dell’hinterland milanese: essendo stati coinvolti solo marginalmente dagli arresti del luglio 2010 di Crimine Infinito, da cui l’operazione di oggi prende spunto, credevano che avrebbero continuato a farla franca anche negli anni successivi. Da quell’operazione capitale scaturirono decine di blitz: in particolare Metastasi, nell’aprile 2014, tentò di addentrarsi nelle dinamiche lecchesi, ma nessuna inchiesta sino all’odierna ‘Insubria’ era riuscita ad entrare così capillarmente nelle logiche delle cosche operanti in questo lembo di nord Italia confinante con la Svizzera.

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Ma che la magistratura milanese da qualche anno ha gli occhi sulle famiglie di ‘ndrangheta calabrese residenti in Lombardia lo sanno tutti: lo dicono i giornali, ne parlano in televisione, si organizzano conferenze e corsi universitari sul tema. Quindi per gli affiliati lecchesi e comaschi, pur credendosi immuni, qualche accortezza prima di recarsi ai summit e alle riunioni di ‘ndrine era d’obbligo: spegnere il cellulare, assicurarsi che la propria vettura non sia seguita da polizia in borghese, dare poca confidenza ai non affiliati se non per trarne vantaggi economici. “Tenete spenti i telefonini...” Anche in occasione della cerimonia del Buttà erano state messe in campo una serie di precauzioni: “Sono arrivato qua, l’ho chiuso e l’ho posato nella macchina”, “Io l’ho chiuso pure io”, “L’ho chiuso l’ho chiuso! Sai com’è! Coi tempi che corrono è meglio che il telefono sta in macchina!”, esclamano il boss Antonino Mercuri e il ‘vangelista’ Rosario Gozzo di Calolziocorte al compare di ‘ndrina Ivano Bartolomeo Valente quando quest’ultimo, ‘santista’ di Cermenate nipote del ‘capo locale’ Giuseppe Puglisi, si lamenta coi due che mentre erano al capanno a battezzare non rispondevano ai cellulari: non riusciva a contattarli telefonicamente per avere informazioni sul luogo in cui si sarebbe svolto il summit. I telefoni in occasioni del genere devono restare spenti: “Avere un cellulare in tasca è come portarsi appresso un carabinieri”, spiegano gli affiliati. Il timore di essere intercettati è forte, e la ‘ndrangheta lombarda ha bisogno di un profilo basso per continuare a gestire i propri affari. Anche perchè le conversazioni, una volta intercettate, forniscono sempre preziose informazioni per gli inquirenti riguardo ai sodalizi criminali, ai programmi illeciti e ai legami ad oggi indussolubili tra gli indagati del locale Lombardia, ovvero l’insieme delle famiglie di ‘ndrangheta della regione già tracciato da Infinito, alla casa madre calabrese.


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Caso Manca

E ora l'attacco a Ingroia Viterbo: la Procura lo indaga per le sue dichiarazioni al processo di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com La Procura di Viterbo iscrive nel registro degli indagati l’ex pm per alcune dichiarazioni rilasciate durante l’udienza preliminare al processo per la morte del giovane urologo di Barcellona P.G. Palermo. “Mostruosità giuridica”. Non usa mezzi termini l’avvocato della famiglia Manca, Antonio Ingroia (che lavora in team col collega Fabio Repici). A Viterbo il pm Renzo Petroselli lo accusa di aver incolpato ingiustamente il dirigente della Squadra Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, di falso ideologico per la sua informativa relativa alla morte di Attilio Manca, trovato morto nella sua casa di Viterbo nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004. Le accuse di “depistaggio” con costruzione di prove false secondo Petroselli sono state pronunciate nell’udienza preliminare del 3 febbraio scorso, unica imputata la romana Monica Mileti, accusata di aver ceduto la dose di eroina che ha causato la morte di Manca. Ingroia sottolinea l’evidente anomalia dell'avviso di garanzia: è la prima volta che un avvocato viene incriminato per calunnia per ciò che ha dichiarato in udienza. Bisogna essere “analfabeti del diritto” - ribadisce - per non conoscere che l’art. 598 del codice penale prevede una specifica causa di non punibilità per le offese contenute negli scritti e discorsi che le parti, pm e difensori, rendono davanti all’Autorità giudiziaria.. Il 9 gennaio il giornalista di Chi l’ha visto Paolo Fattori aveva confrontato il verbale della Mobile di Viterbo, guidata all'epoca da Salvatore Gava, coi registri dell'ospedale “Belcolle” dove Attilio Manca lavorava. Dal confronto emerge che non era in ospedale nei giorni del ricovero di Bernardo Provenzano a Marsiglia.

Date in contrasto

Strane manovre

Un fatto incontrovertibile che si scontrava – e si scontra – con la relazione firmata dallo stesso Gava nella quale veniva scritto invece che l'urologo siciliano era di turno all'ospedale nei giorni in cui il boss si trovava in Francia per sottoposti ad un'operazione alla prostata. I giorni in cui è segnata la mancata presenza del giovane urologo sono quelli tra il 20 e il 23 luglio 2003, poi dal 25 al 31 luglio 2003 e infine nei giorni del 25, 26 e 31 ottobre 2003 (il 30 se ne era andato via intorno alle 15:30, prima quindi che terminasse il suo turno). Il dott. Manca era quindi rientrato in servizio la mattina del 1° novembre. E proprio i giorni in cui l'urologo era assente dal lavoro coincidevano con il periodo nel quale Provenzano (tra esami preparatori, intervento alla prostata e successivi esami di controllo) si trovava in Francia.

Quello che vuole essere fatto passare come un suicidio per droga nasconde in realtà un bieco tentativo di occultare qualcosa di molto più terribile. Resta da cristallizzare il ruolo di Cosa Nostra all’interno di quello che a tutti gli effetti appare come un omicidio. Così come il ruolo di determinati apparati investigativi. Durante la conferenza stampa lo stesso Ingroia annuncia di voler denunciare il pm Petroselli al Csm o anche per via penale. Per l’ex pm è del tutto evidente che non si voglia arrivare alla verità sul caso di Attilio Manca. E questo perché secondo la ricostruzione del legale della famiglia Manca quella strana morte è collegata alla trattativa Stato-mafia in quanto la copertura della latitanza di Provenzano – garante di quel patto – rientrava in determinati accordi. Attilio Manca sarebbe stato coinvolto inconsapevolmente nella cura dell’anziano boss e poi, una volta resosi conto della sua reale identità, sarebbe stato eliminato attraverso la più classica delle manovre firmata dalla mafia in sinergia con apparati “deviati”. Ingroia traccia quindi un filo che unisce i misteri di questo omicidio con l’isolamento del pm Nino Di Matteo. “Non è un caso – ha ribadito l’ex pm – quello che si sta verificando per la nomina del nuovo procuratore di Palermo”. Per Ingroia il rischio dell’arrivo di un procuratore “normalizzatore” ostile al processo sulla trattativa che isoli ulteriormente Di Matteo è tutt’altro che peregrino. L’ex magistrato si appella quindi alla Presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che poche settimane fa ha definito il caso Manca “un omicidio di mafia”, affinchè mantenga la promessa di istituire al più presto un’apposita commissione a tema. “Chiedo di essere sentito dal procuratore facente funzione Leonardo Agueci – conclude l’ex magistrato – in quanto ritengo che ci siano le condizioni per aprire un fascicolo a Palermo sulla morte di Attilio Manca in quanto questo fatto è collegato alla latitanza di Provenzano e alle indagini sulla trattativa”.

I protagonisti Salvatore Gava è lo stesso pubblico ufficiale già condannato a 3 anni, in via definitiva, per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz. La sua informativa sul caso Manca è stata quindi smentita dal confronto con i registri dell’ospedale dove lavorava Attilio Manca. Perché mai in quella relazione si leggeva che la presenza di Attilio Manca sul luogo di lavoro era stata appresa “in via informale” quando “formalmente” i fogli dell’ospedale dicevano tutto il contrario? Dove sono quindi i presupposti di calunnia da parte di Antonio Ingroia? Il pm Petroselli è lo stesso magistrato che, dopo svariate richieste di archiviazione sul caso specifico, ha chiesto e ottenuto l’esclusione della famiglia Manca, quale parte civile, dal processo che si sta celebrando a Viterbo nei confronti di Monica Mileti. Per motivare la sua decisione Petroselli ha affermato che i genitori e il fratello di Attilio non sono stati danneggiati dalla morte del loro familiare. Probabilmente basterebbero queste sue poche parole per qualificare la caratura morale del magistrato.

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Trattativa

Borsellino e il generale “punciutu” Cavaliero: "La vedova Borsellino mi disse che Subranni era..." di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com Palermo. “Circa dieci anni fa, sei o otto mesi prima del matrimonio di Manfredi (Borsellino, ndr), la signora Agnese utilizzò un’espressione nei confronti del generale Subranni”. Le parole dell’ex sostituto procuratore di Marsala, Diego Cavaliero, amico e collega di Paolo Borsellino negli anni di Marsala, ora giudice del lavoro a Salerno, hanno riacceso l’attenzione su una rivelazione di cinque anni fa. “La signora Agnese – ha specificato Cavallero deponendo al processo sulla trattativa – mi disse che poco tempo prima di morire, in un momento di rabbia, il marito le aveva detto che il generale Subranni era punciuto (affiliato a Cosa Nostra, ndr). E che in quella occasione Paolo aveva vomitato appena tornato a casa”. Alle domande del pm Roberto Tartaglia Cavaliero ha risposto senza esitazione. Anche quando ha ricordato “la frenesia” di Borsellino al pensiero di aver perduto la sua agenda rossa. Era il 12 luglio 1992 e il giudice palermitano era venuto a Salerno per fare da padrino al battesimo del primo figlio di Cavaliero. “Lo andai a prendere a Baia e andammo da mia madre. Ricordo che Paolo aveva appoggiato l’agenda rossa sul letto. Appena scendemmo dalla macchina Paolo ebbe la percezione che non aveva l’agenda. Era visibilmente agitato. Mi fece ‘smontare’ la macchina, alzare i sedili... Non trovandola mi fece tornare a Baia, e lì la trovammo sul letto dove l’aveva lasciata. Solo allora si tranquillizzò. Era un maniaco delle annotazioni. Era l’archiviazione fatta persona.”.

“La consapevolezza della fine” “Il 28 giugno 1992 - ha raccontato ancora Cavaliero - c'incontrammo a Giovinazzo per un congresso. Le misure di protezione per Borsellino erano aumentate. Mi manifestò la sua forte preoccupazione, non lo disse apertamente, mi invitò ad accompagnarlo a prendere le sigarette e mi disse: Sai, quando muore una persona cara tu vai al funerale e ti addolori perché hai la consapevolezza che la tua fine è più vicina. La cosa mi turbò molto”. “Il suo umore era completamente diverso, aveva perso quella giovialità che lo caratterizzava, e il 12 luglio, al battesimo, si vedeva che era ‘assente’. Io venni a Palermo dopo la morte di Falcone e alloggiai a casa di Borsellino. Lui era preoccupato. Ricordo la camera ardente… Paolo mi aveva detto: Fino a quando c’è Giovanni mi fa da parafulmine”. Cavaliero ha quindi ricordato “il moto di stizza” di Paolo Borsellino nel sapere della telefonata della batteria del Viminale che lo cercava da parte del prefetto Vincenzo Parisi. La percezione del significato della “fretta” che aveva Borsellino per cercare di “fornire una chiave di lettura di quella che era stata la morte di Falcone” è stato un altro aspetto fondamentale della deposizione di Cavaliero. “Che Paolo avesse fretta era evidente - ha specificato - Diceva di avere bisogno di una giornata di 48 ore. Era evidente che stesse inseguendo qualcosa dal punto di vista investigativo”. Il pm Tartaglia ha ripreso il verbale di interrogatorio di Cavaliero del 2012 in cui emergevano ulteriori dettagli in merito alle confidenze della vedova del giudice. “C’era una nota fondamentale di amarezza nella signora Borsellino, di carattere generale - aveva deposto allora - per ciò che riguardava gli sviluppi investigativi, ciò che più o meno stava succedendo nell’ambito delle indagini dell’epoca per la morte del marito.

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Mi disse che praticamente il marito aveva capito, non si capisce bene cosa, in quella condizione di frenesia...”. Ma cosa poteva aver capito il giudice Borsellino in quei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio? Nel periodo successivo al 19 luglio ’92 il rapporto tra Cavaliero e la famiglia Borsellino si era rinsaldato ancora di più. Nel mese di agosto del ’92 lo stesso magistrato campano aveva portato la signora Agnese e i suoi tre figli nella sua casa di villeggiatura vicino Salerno per dar loro un po’ di respiro. “In quel periodo la signora Agnese è sempre stata molto critica su tutto ciò che le gravitava attorno, si lamentava che c’erano amici e conoscenti che non avevano mai partecipato alla loro vita e che ora invece volevano un posto in prima fila...”. Alla domanda se avesse mai conosciuto una persona di nome Angelo Sinesio Cavaliero ha risposto negativamente. Quella strana lettera del “corvo” Sul ruolo di Sinesio non è stata fatta ancora piena luce. Si sa che è stato un agente dei Servizi segreti dal passato decisamente misterioso e che attualmente è Commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie. Ma soprattutto è stato tra coloro che nel ’92 si erano particolarmente preoccupati dell’esposto anonimo “Corvo2”, di quella strana lettera, scritta tra il 23 maggio e il 19 luglio del ’92, inoltrata a trenta destinatari fra cui anche Paolo Borsellino. In essa si riferiva di una sorta di canale di comunicazione, in seguito all’omicidio di Salvo Lima, tra esponenti politici, tra cui Calogero Mannino e i vertici di Cosa Nostra. Poco dopo la strage di via D’Amelio lo stesso Sinesio aveva chiesto ossessivamente al pm Alessandra Camassa quali fossero state le ultime indagini di Borsellino senza ottenere, però, alcuna informazione.


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Mafia e politica/ Le confessioni di Villani

“Servizi e boss insieme a Capaci” Sulla regia occulta della strage di Capaci, continua il collaborante, “Lo Giudice mi disse che la strage di Capaci era voluta dai servizi segreti deviati e da appartenenti allo Stato deviati. Che Cosa nostra è stata usata come manovalanza. L’obiettivo era dare un avvertimento allo Stato perchè al suo interno era contrapposta una corrente di personaggi legati a Cosa nostra, per non far uscire fuori fatti di corruzione e collusione di esponenti politici. Si è deciso di eliminare persone che stavano dando disturbo in quel momento per varie indagini. In accordo con questi personaggi romani è stato deciso di commettere le stragi. Lo Giudice aggiunse che dietro la strage di via D’Amelio c’era la stessa motivazione”.

Sul luogo della strage di Capaci non ci sarebbe stata solo Cosa nostra. Ma anche due agenti dei ser vizi segreti, un uomo e una donna, che avrebbero avuto un ruolo nella preparazione dell’attentato al giudice Falcone di Miriam Cuccu

“Un favore a Cosa Nostra”

www.antimafiaduemila.com Nell’aula bunker di Rebibbia, al processo Capaci bis, è il pentito di ‘Ndrangheta Consolato Villani a raccontarlo. Picciotto, camorrista, poi santista e quindi vangelista della cosca Lo Giudice (cugino del capobastone Antonino, ndr) Villani nel 2002-2003, appena ricevuta la santa, è stato il depositario di alcune confidenze da parte del cugino: “Mi parlò di ex esponenti delle forze dell’ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati: un uomo deformato in volto e a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino. Per la strage di Capaci erano tutti e due sul posto, insieme a uomini di Cosa nostra. Avevano partecipato alla commissione della strage. L’uomo, mi disse Lo Giudice, era brutto, malvagio, un mercenario, ma la donna non era da meno. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra. L’uomo era coinvolto anche nell’omicidio di un poliziotto in Sicilia”.

Il pentito sostiene poi di aver visto i due personaggi nel corso di un incontro, risalente al 2007-2008, al quale doveva partecipare Lo Giudice: “Non sapevo con chi mio cugino si incontrasse e decisi di andare a vedere. C’erano lui, il fratello Luciano Lo Giudice e un uomo e una donna. L’uomo era particolarmente brutto, sfregiato o deformato sul lato destro all’altezza della mandibola, come se avesse subito un intervento. Aveva i capelli neri brizzolati, più lunghi del normale, mentre la donna li aveva alle spalle, lisci. Quando sono entrato si sono fermati, c’è stato uno scambio di sguardi poi sono andato via. Nino non mi ha mai detto niente ma io ho dedotto che si trattasse degli stessi soggetti di cui mi parlava per la descrizione che mi fece dell’uomo”. La regia della strage Da lui, però, non seppe altro: “Non eravamo di pari grado” precisa Villani.

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Secondo quanto detto da Villani tutti nella ‘Ndrangheta sapevano che erano state le cosche calabresi a fornire l‘esplosivo per l’attentato a Falcone: “Tutti sapevano che proveniva da Saline Joniche, controllata dalla cosca Iamonte, molto vicina ai Santapaola. Era contenuto dalla Laura C, una nave affondata ai tempi della guerra. Lì c’erano diverse tonnellate di esplosivo, gli uomini delle cosche lo recuperavano sott’acqua. Potrebbero dirlo anche altri collaboratori come Paolo Iannò, Antonino Fiume, Giuseppe Lombardo. La ‘Ndrangheta – sempre stando alle confidenze ricevute da Lo Giudice – su determinate situazioni (come le stragi, ndr) non si voleva esporre dopo l’omicidio del giudice Scopelliti”. Anche nel recupero dell’esplosivo, sostiene Villani, i due soggetti menzionati da Lo Giudice avrebbero avuto un ruolo: “Avevano il duplice ruolo nell’organizzazione della strage e nel recupero dell’esplosivo, nel senso di interessarsi su dove trovarlo. Per questo hanno mediato”.


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Memoria

Quell'Italia nascosta che ammazzò Spampinato Raccoglieva informazioni sui contatti tra Campria e Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale e collaboratore del principe Borghese. Aveva raccontato della provincia ragusana come rifugio dorato per latitanti fascisti, di campi d'addestramento paramilitare nelle campagne e di sbarchi clandestini di armi. Lo scrisse nei suoi articoli, che lasciarono indifferenti gli abulici concittadini.

Neofascisti, mafiosi e notabili cittadini. E, sullo sfondo, un apparato golpista bene inserito nello Stato. Su tutto ciò indagava Giovanni Spampinato, cronista senza paura

Un intreccio eversivo

di Andrea Gentile Quando Giovanni Spampinato è stato ucciso a Ragusa, aveva venticinque anni. Il 27 ottobre 1972 Rosario Campria, principale indiziato del delitto Tumino e Giovanni Spampinato, cronista ragusano de L'Ora di Palermo, avevano appuntamento. Campria voleva incontrare chi, unico tra i giornalisti locali, lo aveva accusato di essere tra i responsabili dell'omicidio di Angelo Tumino, costruttore, trafficante di reperti archeologici ed ex consigliere comunale del Movimento Sociale. Campria, figlio del presidente del tribunale della città, era un appassionato d'armi, che abitualmente frequentava neofascisti e anche Angelo Tumino, il quale venne ucciso in una contrada il 25 febbraio. Aveva un alibi fornito dal genero nonostante, durante la notte dell'assassinio, fosse andato a casa di Tumino, portando via dei documenti. La magistratura iblea rispettò il cognome del sospettato ed ebbe riguardi più che particolari.

Golpisti e boss mafiosi Giovanni Spampinato non ebbe invece alcun timore reverenziale – proprio di molti cronisti locali – nel raccontare la vicenda. Superando le versioni ufficiose ed omertose divulgate, si convinse che Campria fosse coinvolto nell'omicidio, che la Procura di Ragusa non stesse indagando con il necessario rigore, per tutelare il figlio del suo autorevole rappresentante, e che l'indagine dovesse essere trasferita. Con occhio lucido, ricostruì un articolato mosaico che lasciava intravedere un oscuro disegno: dietro l’omicidio Tumino, probabilmente, stavano correnti della destra eversiva, che in quegli anni erano al centro di trame golpiste e che stringevano una fitta rete di relazioni con Cosa Nostra.

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Quella sera la Cinquecento di Spampinato, su cui viaggiava anche Campria, era alla ricerca di un bar ancora aperto. Quando questa rallentò nel traffico la sua corsa, di fronte all'ingresso del carcere di Ragusa, Campria esplose sei colpi a bruciapelo da una delle due pistole che aveva con se, scese dall'auto e andò a costituirsi immediatamente attraversando la strada. Il giornalista morì pochi minuti dopo, mentre alcuni automobilisti cercarono di portarlo in ospedale. L'assassinio di Giovanni Spampinato fu una cinica operazione per mettere a tacere chi voleva raccontare il complicato intreccio di relazioni tra le forze criminali di Cosa Nostra e le organizzazioni eversive fasciste che puntavano al colpo di stato. L'isola però quella notte perdeva un brillante e coraggioso narratore di verità occulte.


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Messina Denaro/ 1

Il “cerchio magico” del boss Internet è più sicuro del telefono, pensano gli amici di Messina Denaro. Ma finiscono intercettati lo stesso. Uno sguardo dall'interno di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.tp24.it Si circonda sempre di tipi particolari Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano, latitante numero uno in Italia. Il suo Eden, come hanno definito gli inquirenti il cerchio di fiancheggiatori del boss, è molto sempre molto variopinto.

Altro che pizzini: facebook e Skype Ci sono quelli calmi, che nel sottobosco si muovono e intavolano pacatamente trattative. Ci sono quelli più esaltati. C'è chi si ingegna per trovare soldi per la latitanza del boss. Lo fanno organizzando il tutto tramite Facebook e Skype. Altro che pizzini, e incontri riservati. I picciotti di Messina Denaro sono un po' come lui, al passo coi tempi. E nell'inchiesta Eden 2 finiscono anche conversazioni intercettate su internet. Più sicuro, credono, delle telefonate. Occhio però alla connessione: “Ciao compà...ho avuto problemi con la chiavetta...non c'era linea dopo il temporale...lo lascio acceso...scrivimi qui, anche se non ci sono poi ti risponde”. Hanno username particolari: “sedatel22”, o “ucocacola1”. Parlano in chat con la lingua di internet, fatta di abbreviazioni ed errori grammaticali: “Debbo sentire il dott. X qualche gg penso di si..cmq spero di fare tutto...Sno andato a vedere l'ospedale”.

I Sicilianigiovani – pag. 74

Lessico incomprensibile per un tipo come Beppe Rocky Fontana, il poeta che dedicava strofe strappalacrime al boss, arrestato nell'ambito dell'operazione. Un'affinità “culturale” E' un ribelle, Beppe Fontana, una personalità fuori dai soliti schemi di Cosa nostra. Il soprannome, Rocky, arriva dai suoi trascorsi nella boxe dilettantistica. Le sue frequentazioni con Matteo Messina Denaro sono lontane, dalla fine degli anni 80, quando Beppe Fontana ha cominciato ad adoperarsi nella ristorazione. Tra Fontana e il boss di Castelvetrano ci fu da subito una affinità, come dire, culturale. Pare che i due condividessero la passione per la letteratura, e avessero, a Selinunte, una casetta con una discreta libreria. L'ispiratore In molti lo indicano anche come ispiratore per Messina Denaro, i due hanno condiviso in gioventù viaggi, cene, donne e magari qualche segreto. Un colto “globe trotter” capace di girare il mondo e usare fluentemente l'inglese, francese, spagnolo e anche il tedesco. Anima ribelle, si è sempre definito “prigioniero di stato” durante la sua lunga detenzione durata diciassette anni (dal 1994 al 2011). In carcere Fontana ha sviluppato i suoi interessi culturali e ha pubblicato diversi volumi di racconti, poesie, aforismi, e pagine di diario. In “Delirium”, uscito nel 1997, c'è anche una poesia dedicata al suo amico di vecchia data, intitolata proprio “Matteo”. Fontana, si è scoperto nell'ultima inchiesta, dopo essere uscito dal carcere si sarebbe messo di nuovo a servizio della famiglia.


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Racconti, aforismi, pagine di diario e poesie. Una dedicata a “Matteo” “E' finita la festa...”

Tant'è che era il custode di oro e gioielli della madre di Matteo. Grande fiducia. Poi glieli rubano, un ladruncolo che non sapeva a chi appartenessero. Allora chiama a raccolta tutti. C'è da rintracciare il responsabile e fargliela pagare. I picciotti lo trovano e lo lasciano in fin di vita. La spedizione punitiva C'era anche Calogero Giambalvo alla spedizione punitiva. “Lillo”, amico di famiglia su cui si può sempre contare, è consigliere comunale a Castelvetrano. Bazzica nella politica da anni, ma solo lo scorso luglio, per un rimpasto di giunta, riesce a entrare in consiglio. L'ultima “apparizione” politica è stata pochi giorni prima delle elezioni amministrative a Campobello di Mazara, a metà novembre. Da quelle parti è molto conosciuto. “Lillo”, così lo chiamano tutti, aderisce subito ad Articolo 4 di Paolo Ruggirello. E proprio con il deputato regionale all'Ars sarebbe stato intercettato nei giorni precedenti le elezioni di Campobello. Le microspie dei Ros avrebbero registrato una conversazione tra i due.

Il consigliere comunale Con il consigliere comunale che gli avrebbe chiesto di seguirlo in auto per parlare con una persona. Ruggirello, guardingo, chiede chi fosse. E Giambalvo avrebbe risposto: “E' uno condannato a vent'anni, cchiù mafiusu i mia”. Potrebbe essere una battuta, ma arriva proprio pochi giorni prima del blitz dei Ros. Avrebbe fatto di tutto per il boss e per la sua famiglia, amici da anni. Lo racconta lui stesso al collega Francesco Martino, consigliere comunale dell'Udc, che ascolta con partecipazione la storia di quando Giambalvo incontrò per l'ultima volta don Ciccio Messina Denaro e poi anni dopo il figlio Matteo. “Ti pare dove era all'Africa? Qua dentro il paese era! Restando tra di noi, io lo vedevo tutte le settimane. Io ogni volta che lo vedevo mi mettevo a piangere perchè... mi smuvia..” “Mezz'ora di pianto” Giambalvo a Martino confida di aver incontrato tra il 2009 e il 2010 anche Matteo Messina Denaro. “Abbiamo fatto mezz'ora di pianto tutt'due. Lillo come sei cresciuto? Lillo, e io mezz'ora di pianto”.

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Eden 2 è il seguito dell'operazione scattata a Castelvetrano nel dicembre 2013, e che porto in carcere 30 persone fedelissime a Messina Denaro. Tra cui la sorella del boss, Patrizia. Giambalvo entra nel panico al solo pensiero che potessero arrestare Girolamo Bellomo, nipote e ambasciatore a Palermo del super latitante. Giambalvo si sfoga con suo cognato, Daniele Notarnicola: “Minchia a Patrizia si sono portati? Minchia che cose tinte. Ma come si fa? Minchia non se ne può vero picciotti miei. Ti faccio vedere che hanno arrestato a Nino Amaro, il fratello di Aurelio. Bada tutto a lui lì. Minchia “nzama Dio” mi dispiace troppo assai. Già sto male per Patrizia. Minchia ma come dobbiamo fare? E' finita la festa...speriamo u signuruzzu che non ci nuocciono... minchia non si coglionia più picciotti non c'è niente da fare. Minchia... se si sono portati a Luca (Bellomo, ndr) tutti consumati siamo, la terza guerra mondiale succede. Minchia, come dobbiamo fare?”. E come dobbiamo fare con quel Lorenzo Cimarosa, membro della famiglia Messina Denaro, che ha deciso di collaborare con i magistrati? Non si dà pace Lillo Giambalvo: “Minchia se ti racconto l'ultima. Cimarosa collaboratore di giustizia! Troppo tinta la parte è! Io non capisco più niente....a tutti consuma chissu... la prima volta se l'è fatta bello sereno la galera e ora si scantà”. Giambalvo però l'avrebbe la soluzione: “Si fussi iè Matteo ci ammazzassi un figghiu...e vediamo se continua a parlare... perchè come si fa? Tutti possono parlare tranne lui!!”. Non sa che l'operazione Eden 2 scatta anche grazie alle confidenze fatte da Cimarosa. Parente di Matteo Messina Denaro, il primo della famiglia a svelare i segreti di Cosa nostra.


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Messina Denaro/ 2

Trapani: qui regna ancora Chi si muove davvero contro Messina Denaro? A parte le indagini degli investiatori, a parte i magistrati: c'è ancora quella tolleranza (o complicità) diffusa nella borghesia mafiosa che gli ha permesso di regnare non solo su Cosa Nostra ma su un intero pezzo di società? di Rino Giacalone La mafia trapanese è ben capace. E' viva e vegeta e ad ogni caduta di testa ne ha pronte altre tre e pronte a rialzarsi. A dipingerla come un'idra non si sbaglia. O come un'araba fenice. Scenario completo, rende chiaro il momento. Quello che manca nello scenario sono le indagini. Attenzione, nello scenario gli investigatori ci sono, eccome se ci sono. Per loro non c'è caldo o freddo che tenga, non ci sono orari di servizio, impegni personali o familiari che vengono prima del lavoro. Non percepiscono straordinari, non lavorano per il vile denaro. Cosa significa allora il riferimento alla mancanza di indagini? Ecco: manca un coordinamento, una testa pensante che eviti che le forze dell'ordine si sovrappongano, che faccia in modo di trovare momenti di incontro.

Un pm che svolge funzioni da sostituto procuratore distrettuale non può lavorare con l'etichetta sulla giacca come un prodotto commerciale, lasciar tutto all'ottavo anno, salutare indagini e colleghi e dedicarsi ad altro. Anni addietro, se non sbaglio a dirlo era l'allora presidente dell’Antimafia Luciano Violante, si proclamava che dinanzi alla mafia organizzata anche lo Stato doveva esserlo altrettanto. Un mafioso lo è per sempre. Ha una mentalità mafiosa così inculcata che forse mafioso, culturalmente, lo resta anche se decide di collaborare con la giustizia. Noi al contrario abbiamo magistrati impegnati nelle indagini antimafia che arrivati all'ottavo anno devono gettare la spugna “in nome della legge”. Io non mi discosto dall'assunto del prof. Fiandaca e del prof. Salvatore Lupo: sono convinto che la mafia non ha vinto ma, aggiungo, lo Stato ha ancora da portare a casa i “tre punti” della partita. Siamo agli sgoccioli del 90°, siamo nei tempi supplementari, ma la situazione – in termini calcistici - è che lo Stato in vantaggio ma la mafia è all'attacco. Le molte strategie della mafia Prendiamo il caso Di Matteo (il pm del processo sulla trattativa). Le minacce, il tritolo pronto, le proteste per il “bomb jammer” che non c'è. Ma intanto attorno che succede? In una periferia non marginale come Trapani ci sono blindate che hanno fatto troppi chilometri, che si fermano, e la scorta che comunque deve uscire si ritrova a viaggiare su macchine non blindate. E la mafia sta all'erta, pronta a sfruttare ogni debolezza. La mafia che vuole pareggiare e vincere la partita utilizza molte strategie. Infiltra propri uomini nella squadra avversa, li mette in barriera. Non sono esperto di calcio, non so se questo si possa fare, ma mettiamo che si possa fare (e poi la mafia mica ha l'interesse o il piacere di giocare rispettando le regole): la mafia lo sta facendo. Oggi in mezzo alla squadra dello Stato si sono infiltrati i mafiosi.

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Ci sono anche i bugiardi e i collusi Direte, hai scoperto l'acqua calda. Mi spiego meglio allora: oggi al fianco di chi vuol combattere la mafia, dal basso, con le associazione, con il volontariato, con il sociale, si sono schierati anche dei bugiardi e dei collusi, addirittura dei soggetti con precedenti per mafia e favoreggiamento, e si mostrano al fianco di giudici e magistrati ignari. Le foto sono pubblicate anche su Facebook, una l'ho vista qualche giorno addietro: un imprenditore che a suo tempo fu condannato per avere favorito il capo della mafia trapanese, Vincenzo Virga, fotografato al termine di una “cena sociale”. Si chiama Valerio Campo. Certamente il presidente del Tribunale di Trapani che era lì, il pubblico ministero Anna Trinchillo, anche lei fotografata, non sapeva nulla del soggetto. Non sappiamo se la stesso si possa dire per altri fotografati in quella occasione. Valerio Campo fa parte della schiera di imprenditori trapanesi colti con le mani nel sacco, che si sono presi la condanna e non hanno mai pensato a dire una parola per agevolare le indagini antimafia. E' l'unico caso? No, purtroppo dalle parti di Trapani non è l'unico caso. Mafiosi e complici ogni giorno tentano di mettersi in mezzo all'antimafia. Solo il desiderio di inquinare? No. Oggi l'antimafia, quella seria e impegnata, come quella di Libera o di Libero Futuro - per fare qualche esempio - è diventata interlocutore privilegiato della Giustizia che si occupa di sequestri e confische. La mafia sul maltolto vuole rimetterci le mani. Allora si infiltra, o ancora agita il discredito. Libera nel mirino Mai come oggi Libera è nel mirino. Nel trapanese quando si deve parlare di mafia, i favoreggiatori , gli sciocchi, i politici che sanno, cominciano a parlare (male) dell'antimafia. Si additano gli antimafiosi per dar loro in testa, per “mascariare”; pochi quelli che fanno i nomi dei mafiosi.


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“Mannaggia, si è messa di mezzo la società civile...”

Nessuna indagine sulla Iside 2 Uno di questi incarichi un giorno andò all'allora fidanzata di un giudice, l'attuale pm Massimo Palmeri; e si dissolse nel giro di pochi giorni. Poi, come può accadere nelle cose siciliane, il caso volle che Palmeri si ritrovasse ad essere, molti anni dopo, titolare del fascicolo sul delitto Rostagno. A lui, come ad altri prima di lui, non venne mai in mente di annusare se la Iside 2, e le relative inchieste di Rostagno, potessero avere a che fare con il delitto. Una delle archiviazioni, prima che le indagini finissero alla Dda di Palermo, la firmò anche il dott. Palmeri. Ecco, i suoi colleghi non hanno tenuto segreta neanche questa notizia. Anche tra i giornalisti, il cui unico credo dovrebbe essere quello di riferire fatti e circostanze con tanto di nomi e cognomi, anche tra i giornalisti c'è chi ammicca, chi vuol far intendere, chi ha dimenticato che si ha la tessera in tasca non per fare i giornalisti su Facebook ma per scrivere sui giornali. Serve coraggio. Servono magistrati che coordinino le indagini, che sappiano guardare in faccia la realtà. Una magistratura che quando agisce non deve guardare in faccia a nessuno. Lo hanno dimostrato nel processo per il delitto di Mauro Rostagno i due pm che hanno vinto quel processo, Francesco Del Bene e Gaetano Paci, mandando all'ergastolo i due imputati, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, ritenuti dalla Corte di Assise, presieduta dal giudiuce Pellino, a latere Samuele Corso, colpevoli, dalla testa ai piedi, di quel delitto. Per ventidue anni la mafia era riuscita ad evitare quel processo. Il processo Rostagno Rostagno fu ammazzato il 26 settembre del 1988, il processo è potuto cominciare solo nel 2011.

Vito Mazzara, intercettato in carcere, tra un dire e l'altro spiegò alla moglie che “mannaggia si è messa di mezzo la società civile, quelli che non accettavano il silenzio dinanzi all'inchiesta in archivio, e così i magistrati si sono rimessi a indagare”. E poi, rivolto alla figlia: “Tu va là, nella casa in campagna, sposta quella piastrella e metti la mano dentro, tira fuori qualsiasi cosa che c'è e buttala via”. I poliziotti arrivarono prima, trovarono quel buco, fatto apposta per metterci dentro un fucile, ma era vuoto. Vito Mazzara alla figlia aveva detto che non ricordava se questo lavoro lo aveva già fatto lui, prima di essere arrestato per l'omicidio di Giuseppe Montalto, un poliziotto della penitenziaria ammazzato il 23 dicembre 1995: la sua morte era stata il regalo di Natale dei mafiosi liberi a quelli detenuti. I pubblici ministeri Del Bene e Paci non guardarono in faccia a nessuno nella loro requisitoria. Ricordarono anche che Rostagno aveva preso di mira la loggia massonica segreta Iside 2, dove si trovavano iscritti insieme sia dei mafiosi che dei colletti bianchi. Questa loggia era nelle mani di un professore, Gianni Grimaudo, che dispensava incarichi per aver sempre una corte qualificata attorno.

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“L'onorabiità del signor Agate” La Magistratura non deve guardare in faccia nemmeno i giornalisti. Se uno di questi ha scritto che la mafia è una montagna di merda e quindi... il mafioso Mariano Agate che ne faceva parte “era un gran pezzo di merda”, deve fare il processo, deve portare a processo quel giornalista, se c'è una querela di parte. Magari potrebbe evitare di usare il modulo per questo genere di reato ma scriverne uno di suo pugno, perchè a leggere che il presunto reato è quello di avere leso “la onorabilità del signor Mariano Agate”, viene difficile da comprendere come la stessa magistratura abbia tolto la patria potestà dell'Agate, proprio perchè privo di onorabilità. Siccome è giudiziariamente provato... Qualche sciocco ha scritto che si è dato del pezzo di merda ad Agate perchè era già morto. Allora rimediamo subito: siccome è giudiziariamente provato che la mafia è una montagna di merda, dei pezzi di merda sono Bernardo Provenzano, Totò Riina, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Virga, Vito Mazzara; e Francesco Messina


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“Usando le armi oppure da perfetti manager”

Denaro per il quale dal 1999 il Giornale di Sicilia accoglie la pubblicazione del necrologio sulle sue pagine, quando dovrebbe rifiutare quei soldi che hanno il tanfo del sangue di tanti morti ammazzati. Pronti a tornare all'opera a modo loro E torniamo a Matteo Messina Denaro. Il capo in assoluto della mafia trapanese, capo di una serie di picciotti che sono usciti dal carcere e sono pronti per tornare all'opera come vogliono loro. Usando le armi, o comprtandosi magari da perfetti manager; oppure andando in giro a rifornire le pasticcerie o i negozi di ortofrutta. Oppure, classicamente, continuando a fare i campieri delle grandi famiglie, o i mediatori di campagna. Quando Messina Denaro verrà catturato - perchè verrà catturato - non lo si troverà mai tra ricotta e cicoria, ma in un residence come fu per Totò Riina: e chissà se qualcuno si ricorda ancora di quella latitanza e di come veniva condotta. Il boss sta in mezzo a noi, non è lontano dal suo regno, Castelvetrano, dove la mafia ha dimostrato ancora di comandare. Non ha bisogno di mille o cento uomini, gliene basta qualcuno, messo al posto giusto, come fu per Santo Sacco e Lillo Giambalvo, consiglieri comunali a Castelvetrano. A Matteo Messina Denaro basta che qualcuno vada in giro mettendo avanti il suo solo cognome, che lo porti o no, per far capire a tutti l'aria che tira.

Mafia, politica e massoneria Qualche tempo addietro ho seguito la presentazione del libro di Luciano Mirone sull'urologo Attilio Manca. Ho sentito parlare in una certa maniera di Barcellona Pozzo di Gotto: un paese dove mafia, politica e massoneria si mischiavano, costituendo un intreccio mortale (come lo fu per il giornalista Beppe Alfano). Quell’intreccio l'ho di colpo rivisto dalle mie parti, Campobello di Mazara. Un comune due volte sciolto per mafia, due volte commissariato; elezione dopo elezione, a comandare sono sempre gli stessi. Campobello di Mazara era dove abitava Salvatore Messina Denaro, il fratello “pulito” del boss, quello che lavorava in banca e faceva il preposto. A Campobello ha governato la mafia che stringeva accordi con la massoneria. Quale scenario più comodo per una latitanza che vuole continuare? A Campobello ogni anno, per la raccolta delle olive, si danno appuntamento decine e decine di extracomunitari che sono la manodopera dei tanti coltivatori. Quest'anno tutti sono stati raggruppati dentro un oleificio sequestrato alla mafia. Libera e Libero Futuro hanno fatto un gran bel lavoro da quelle parti. E quest' anno a Campobello è esplosa l'”emergen za extracomunitari”. Esposti al prefetto, paure, addirittura pagine su facebook: “Cacciamoli via”, c'era scritto. L'anno scorso, mentre i braccianti extracomunitari erano accampati in mezzo al fango della

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campagna, uno morì per l'esplosione di una piccola bombola di gas che alimentava la sua cucina. Nessuno si indignò come adesso. E’ quell'accampamento dentro quell'oleificio confiscato alla mafia che non andava giù a qualcuno. E questo qualcuno ha convinto gli altri. Mentre accadeva tutto ciò, un mafioso, tale La Cascia, girava per i campi confiscati. Un giorno affiancò uno di quelli che si occupava della raccolta e gli disse: “Ma una manciata pi nuatri un ci po' nesciri”. Ricevette una risposta lapidaria: “Zu Vicè cu tutti i vai c'aviti vuliti fare puro na manciata?”. Ma il tale La Cascia non cercava “mangiate” da organizzare: chiedeva se una parte del raccolto potevano farlo “loro”, gli ex padroni. Chi lo ascoltava aveva capito bene... e rispose per le rime. Come bisogna rispondere quando s’incontra un mafioso. Torniamo alla nostra “partita”. Lo Stato ha trovato un tifo che all'inizio dei 90 minuti non aveva, quello dei tifosi in curva. Oggi questo tifo c'è, si sente. Preoccupa un altro silenzio, quello della tribuna. Non tifano per la mafia ma nemmeno per lo Stato. Ed è come se stessero con i giocatori mafiosi in campo. *** Infine. Vorremmo fare a meno di un ministro dell'Interno come Alfano. Non c'entra la politica. Avremmo voluto fare a meno di vederlo arrivare un giorno a Castelvetrano e vederlo abbracciare fra i primi l'on. Giovanni Lo Sciuto. Che, è vero, siede in commissione antimafia regionale; ma è pure citato in un rapporto della Dia per suoi pregressi e lontani nel tempo contatti con i Messina Denaro (che dicono di essere orgogliosi del cognome che portano) e poi con un imprenditore Giovanni Savalle del quale si sono interessati certi investigatori antimafia. Uno di questi ultimi, proprio per decisione di Alfano, oggi ha lasciato la Sicilia per essere impegnato sul fronte anticamorra: Giuseppe Linares. Linares da direttore della Dia a Napoli ha perquisito la Soprintendenza partenope e per gli appalti a Pompei ha trovato anche il nome di Savalle.


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Movimenti

“Vedo, sento e parlo” Dall’Arco della Pace, luogo in cui Lea fu vista per l’ultima volta, ai giardini di Viale Montello, dedicati lo scorso anno al corag“Cosa aveva Lea Garofalo in più di gio di Lea Garofalo, proprio davanti alla noi?”, si chiede un ragazzo dell’Istituto Volta. Non aveva niente in più di noi. Era sua ex casa, che lei denunciò come il fortisemplicemente una donna, che ad un certo no della ‘ndrangheta, dove si svolsero le azioni criminali, dal traffico di droga agli punto della sua vita, si ribella allo status omicidi. Accompagnati dalle musiche comquo rompendo gli equilibri, animata dall’amore immenso verso sua figlia De- moventi del maestro Raffaele Kolher, si colorano le strade milanesi di arancione, rosa nise. Cinque anni sono passati. E più di un centinaio di persone si sono e giallo, come le bandiere raffiguranti Lea, e la scritta ‘Vedo Sento Parlo’. Davanti alla date un appuntamento importante. Con di Mattia Maestri targa, posta lo scorso anno dopo i funerali una fiaccola in mano, hanno ascoltato le www.stampoantimafioso.it civili, tanti applausi e tanta emozione, a sitante letture dei ragazzi del Presidio Lea gnificare ancora una volta di più, l’attaccaLuce. Quella del fuoco vivo delle fiac- Garofalo e delle scuole superiori e medie. mento di questa città e dei tanti giovani a Era presente anche la presidente della cole, che ha illuminato l’Arco della questa donna semplice, coraggiosa e donaPace e i giardini di Viale Montello. Ma Commissione antimafia, Rosi Bindi, che trice d’amore, verso sua figlia. Ma non solo. anche quella degli occhi della gente, oc- con la bandiera sulle spalle ha voluto Anche donatrice d’amore verso tutti noi, chi di riscatto, occhi di speranza, occhi ricordare il coraggio di questa donna, che che aspettiamo spesso il passo di qualcun non deve mai essere dimenticata. di ringraziamento. altro per fare qualcosa che ci compete.

Cinque anni dopo, i ragazzi di Milano non hanno dimenticato Lea Garofalo. “Una di noi” dicono, mentre la ricordano nel corteo

Semplicemente una donna

Dandoci l'esempio Infine, la Costituzione Italiana. Quella che si vuole cambiare per stare al passo con i tempi. Ma la nostra Carta fondamentale è forse il più bel scritto civile, politico e sociale a nostra disposizione. E anche ieri sera, di fronte ai 13 pannelli dedicati ai principi di giustizia, dignità ed eguaglianza della Costituzione Italiana, ci siamo sentiti tutti uniti. Perché questi sono valori che uniscono e che rendono liberi. Si, liberi. Come Lea, che denunciando la sua famiglia ‘ndranghetista ha assaporato “il fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”, come disse Paolo Borsellino, nella fiaccolata in ricordo dell’amico Giovanni. Perché lei è riuscita a Vedere, Sentire e Parlare. Dandoci l’esempio. Ciao, Lea. http://www.stampoantimafioso.it/2014/11/25/vedosento-parlo-anni-dopo/

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Europol

Lotta dietro le quinte alle mafie in Europa Network delle forze di polizia dei 28 paesi UE, Europol fornisce a tutte supporto strategico e operativo, assistenza e valutazioni di Monica De Astis www.wikimafia.it Sono ben 3600 le organizzazioni criminali che oggi in Europa, con le loro attività illecite, minano alla prosperità delle istituzioni e della società. La criminalità organizzata è un fenomeno complesso che per essere contrastato efficacemente necessita - diceva Falcone di una lotta in cui abbiano un ruolo tutti gli attori della comunità internazionale. La cooperazione di polizia è quindi un elemento essenziale, in quanto (come s'è visto fin dagli anni Settanta col terrorismo politico e più tardi col traffico di stupefacenti, con la tratta di esseri umani e a altre attività illecite) non si ha a che fare con sfide fronteggiabili entro i confini nazionali ma con organizzazioni dinamiche, flessibili, a composizione internazionale e in grado di sfruttare gli elementi della modernità, tra cui gli avanzati sistemi finanziari e la rete, per inserirsi, tra l’altro, sempre più nell'economia legale. Europol, l'agenzia dell'Unione Europea per il coordinamento delle forze di polizia, in virtù del suo mandato che prevede il contrasto alla criminalità organizzata, è chiamata a essere protagonista nell’allarmante scenario criminale europeo. È per questo, che, sulla base della sua natura istituzionale, ha posto in essere numerose strategie volte all'attività di contrasto all'impunità, all'espansività, e anche all’invisibilità della criminalità organizzata, individuando proprio le abilità che le organizzazioni hanno saputo sviluppare nel tempo.

Gli obiettivi comuni Per raggiungere obiettivi criminali comuni la criminalità organizzata può contare sulla cooperazione e sulla mobilità che i membri delle organizzazioni sanno adoperare. Allo stesso modo però, Europol sfrutta tali elementi per la sua attività di contrasto: l'agenzia è infatti promotrice di una forte collaborazione tra forze di polizia ed esperti, dispone di una c.d. rete degli ufficiali di collegamento tra i vari Paesi membri dell'Unione Europea e di enormi database con informazioni utili alle forze dell'ordine e consultabili per ogni emergenza, e può mobilitarsi anche in senso 'fisico' grazie alle sue attività di supporto in loco e all'invio di esperti. La criminalità organizzata è sempre più internazionale anche per la nazionalità degli affiliati, tenendo conto del fatto che, sulla base degli studi condotti da Europol, il 70% delle organizzazioni attive in Europa sono a nazionalità eterogenea. Tuttavia, anche Europol ha tra i suoi caratteri principali l'internazionalizzazione: non solo coordina le forze di polizia dei 28 Paesi UE ma è in grado di coordinare azioni in cui sono coinvolti Paesi terzi e altre organizzazioni internazionali. A organizzazioni criminali dotate di enorme flessibilità, Europol risponde col network delle forze di polizia e con la condivisione di strategie comuni ma anche con supporto strategico, operativo e supporto finanziario, molto importante in tempi di spending review. Il ruolo del cybercrime Ultimamente, si parla poi molto di cybercrime, anzi, secondo Europol, la capacità della criminalità organizzata di essere sempre più al passo con gli strumenti offerti dalla rete rende la criminalità informatica la principale emergenza nell'Europa di oggi. Europol è a sua volta all'avanguardia nelle competenze informatiche e tecnologiche, grazie a sistemi per lo scambio di informazioni protette e sicure, soprattutto, da quando è nato lo European

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Cybercrime Centre, centro specializzato per lo studio e il contrasto al cybercrime. La criminalità organizzata sa come esercitare la propria influenza sulla società: controllo del territorio, usura, intimidazione, utilizzo della violenza, induzione alla connivenza, induzione a un atteggiamento passivo e di rassegnazione da parte dei più deboli. Almeno indirettamente, anche in questo caso si ritrova Europol, in quanto il coordinamento delle forze di polizia ha l'obiettivo di difendere i cittadini e le istituzioni e di far capire, sia alla società in generale che alla stessa criminalità organizzata, che il crimine non è impunito e libero di espandersi senza alcuna opposizione. Anche se al momento Europol non pare essere così tanto conosciuto della società europea, va sottolineato che le sue relazioni, i suoi studi e le sue valutazioni sulle minacce della criminalità organizzata sono sempre più utilizzate dal mondo accademico, dagli studiosi, dalle istituzioni nazionali e internazionali e dai media (sia di carattere nazionale che internazionale). Le valutazioni di Europol sulla criminalità organizzata sono oltretutto strumenti per l'influenza della politica, dal momento che l'agenzia fornisce alle istituzioni europee tutti i dati e le informazioni necessarie all'inserimento della lotta alla criminalità organizzata tra le priorità d'agenda. Sono tre, dunque, gli ambiti su cui Europol agisce nel suo contrasto alla criminalità organizzata: le forze dell'ordine, a cui vengono offerti il coordinamento, lo scambio di informazioni, il supporto strategico, operativo ed economico; la dimensione politica, influenzata attraverso le valutazioni e le raccomandazioni per attività di contrasto comuni ed efficaci; la dimensione sociale, in cui si delegittima la criminalità organizzata e si pubblicizzano i successi strategici e operativi.


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Donne

Sugar Queen: una favola dolce, e reale La storia di Giada Baldari, dalla mancata carriera in magistratura a pasticcera di successo, nel nuovo libro di Cristina Zagaria. Una storia per donne, ma non solo di Valeria Grimaldi www.diecieventicinque.it

Capita molto spesso che nei romanzi ti ritrovi a immedesimarti nei personaggi per quello che stanno vivendo, per alcuni aspetti del loro carattere, o magari semplicemente perché ti proietti nella loro storia fino a farla diventare tua. Ancor di più con una storia vera.

Cadere, rialzarsi, scontrarsi Giada Baldari, laureata col massimo dei voti in giurisprudenza, coltiva il sogno di fare il magistrato: eppure non sempre il primo sogno che ci si prospetta nella vita è quello "giusto". E le virgolette in questo caso stanno ad indicare una sorta di barriera tra quello che noi crediamo sia giusto e quello che effettivamente lo è. Evidentemente il sogno, per diventare tale, ha bisogno di oltrepassare alcuni ostacoli, cadere, rialzarsi, scontrarsi con il mondo esterno. Come uno scultore davanti ad un blocco di marmo: magari ha in mente una certa idea dell'opera d'arte che vuole realizzare; ma durante il percorso, si accorge che è meglio smussare, levigare, scalpellare di più o di meno. Il risultato finale è diverso, ma sempre il sogno di partenza: più vero, e quindi più giusto. In questa storia ci sono pasta di zucchero e utensili di pasticceria: Giada è diventata una delle migliori pasticcere di Napoli, dove ha il suo laboratorio, e in tutta Italia. Comincia dal confezionare una torta di compleanno per la sua bambina, Mirea, nel piccolo appartamento dove abitano insieme a Ianù, marito e compagno di viaggio; per arrivare ad una vera e propria pasticceria professionale. Il tutto all'interno di un percorso di donna, e di madre, che non vuole rinunciare a queste due realtà fra cui si chiede sempre di scegliere, quando in realtà sono assolutamente complementari e indispensabili l'una per l'altra. Poi arriva il secondo figlio, il piccolo Massimo: il mondo del lavoro respinge il suo essere madre quasi con cattiveria.

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Eccola che torna, l'esclusione: o sei madre, o sei una donna in carriera. E se provi ad essere entrambe, il senso di colpa verso te stessa o verso chi hai cresciuto nel tuo grembo diventa un pensiero costante, permanente...a volte distruttivo. “Che mamma sono?” “Massimo fino a tre giorni fa era dentro di me, parte di me. E ora lo lascio in una culla, mentre immergo le mani nell'impasto di uova e farina? Lo guardo e guardo le mie mani. Io amo mio figlio. Dipendo da lui. Eppure non riesco ad annullarmi per lui. Non ci riesco. Io amo. E non ho un limite. E' questa la mia forza. Amo i miei figli e amo me stessa. E' questo il mio essere mamma: è amore." Una nonna, Minù, con un passato lavorativo glorioso alle spalle, tra merletti e stoffe, e che vorrebbe la nipote proseguire con la carriera giuridica, invece di preparare i "pasticciotti"; un padre che ha dedicato la sua intera vita al giornalismo, ma che nonostante la sua posizione non si offre al gioco della raccomandazione, e dice a sua figlia che deve farcela da sola. Lo scontrarsi continuo di Giada, prima con tutti i sacrifici di anni immersa in codici e normative, poi con se stessa madre, lavoratrice, compagna. Per arrivare, immersa con le mani nell'impasto, a ricostruire tutto da capo. Ritrovando se stessa. Bisogna perdersi per ritrovarsi. Ma senza compromessi. Per le donne, la prima azione da applicare nella vita non è rinunciare, ma amare. Amare i figli da madri, il partner da amanti. E se stesse, solo per se stesse.


Pianeta

La moneta senza banche

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"Un'arma semplice e democratica che dia artigli ai deboli" La invocava Orwell, settant'anni fa. Secondo Assange di Wikileaks oggi forse c'è. Ed è la tecnologia del Bitcoin di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com Le accuse orwelliane nel mondo informatico non sono una novità; trent'anni fa Apple si poteva permettere di fare uno spot in cui Ibm era il mostro del controllo governativo uscito dagli incubi lucidi di George Orwell. Quell'Ibm che negli anni Trenta aveva collaborato con la moderna burocrazia nazista continuando a fornire schede perforate per il censimento della popolazione. Ora è Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, ad accusare Google e Facebook di essere strumenti orwelliani: con le ordinanze dell'Alta corte europea sul "diritto all'oblio" e la distruzione sistematica della privacy attraverso il programma di sorveglianza segreto del Nsa "Prism". Secondo Assange, il "diritto all'oblio" è un punto di svolta che definire orwelliano è ormai banale. Nell'articolo del 1945 Tu e la bomba atomica - dice Assange - Orwell più o meno anticipa la forma geopolitica del mondo per il prossimo mezzo secolo. "Un'epoca in cui l'arma dominante è costosa o difficile da realizzare – spiega tende ad essere un'età del dispotismo, mentre quando l'arma dominante è semplice ed economica la gente comune ha una possibilità. Un'arma complessa fa il forte più forte, mentre un'arma semplice dà artigli ai deboli".

“Un'età del dispotismo” Descrivendo la bomba atomica (che appena due mesi prima era stata lanciata su Hiroshima e Nagasaki) come "arma intrinsecamente tirannica", Orwell prevede che il potere si concentrerà nelle mani dei "due o tre mostruosi super-stati" che hanno le basi industriali e di ricerca avanzate necessarie per produrlo. “Supponiamo – dice – che le grandi nazioni sopravvissute facciano un tacito accordo di non usare la bomba atomica l'uno contro l'altro e di usarla solo come minaccia contro le persone che non sono in grado di reagire...". Il risultato probabile, conclude, sarà "un'epoca così orribilmente stabile come gli imperi di schiavi dell'antichità."Sarà "un permanente stato di guerra fredda (termine inwentato da Orwell, ndr), una pace che non è la pace" in cui "le prospettive per i popoli soggetti e le classi oppresse sono ancora più disperate". Assange mostra due parallelismi con l'epoca di Orwell: si parla dell'importanza del proteggere la privacy ma poco del perchè ciò sia importante; non c'è alcun valore intrinseco nella privacy. La vera ragione sta nel calcolo del potere: la distruzione della privacy allarga lo squilibrio di potere esistente tra le fazioni dominanti e tutti gli altri. Lo stesso vale per coloro che criticano lo stato di sorveglianza ma continuano a trattare la questione come se si trattasse di uno scandalo politico attribuibile a pochi uomini cattivi, che un paio di leggi basterebbe a fermare. "In realtà – dice Assange – la situazione è molto peggiore. Viviamo non solo in uno stato di sorveglianza, ma in una società della sorveglianza. Una sorveglianza totalitaria che non s'incarna solo nei nostri governi ma è incorporata nella nostra economia, nei nostri usi della tecnologia e nelle nostre interazioni quotidiane”. Lo stesso concetto di Internet – “un'unica rete globale, omogenea, che irretisce il mondo” - secondo Assange è l'essenza di uno stato di sorveglianza.

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Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale

Internet secondo lui è stata costruita in modo “amichevole alla sorveglianza”, perché i governi e “giocatori vincenti” dell'Internet commerciale hanno voluto così. “C'erano alternative ad ogni passo del cammino, ma sono state ignorate”. “Al loro interno – continua Assange - le aziende come Google e Facebook hanno funzioni simili a quelle della National Security Agency del governo Usa. Raccolgono grandi quantità di informazioni sulle persone, le conservano e integrano e le utilizzano per prevedere i comportamenti individuali e di gruppo, che poi vendono a inserzionisti e altri. Questa somiglianza li ha fatti partner naturali per la NSA, e questo è il motivo per cui sono stati contattati per far parte del PRISM, il segreto programma di sorveglianza di Internet. A differenza delle agenzie di intelligence, il complesso di sorveglianza commerciale attira miliardi di esseri umani, con la promessa di servizi gratuiti. Il loro modello di business è la distruzione industriale della privacy. Eppure anche i critici più stridenti verso la sorveglianza del NSA non sembrano chiedere la fine di Google e Facebook”. Ricordando le osservazioni di Orwell osserva ancora Assange - c'è un innegabile lato "tirannico" di Internet. Però Internet è troppo complessa per essere inequivocabilmente classificata come "tirannica" o come "democratica". Quando la gente, in epoca antica, ha cominciato a riunirsi nelle città, è stata in grado per la prima volta di coordinare gruppi di conoscenza e di scambiare idee in modo rapido. I conseguenti progressi tecnici e tecnologici hanno portato allo sviluppo della civiltà umana. Qualcosa di simile sta accadendo nella nostra epoca. E' possibile più di quanto lo sia mai stato nella storia che molte persone, lontane tra loro, possano comunicare e scambiare informazioni in un solo istante.


www.isiciliani.it Gli stessi sviluppi che rendono la nostra civiltà più facile da sorvegliare la rendono più difficile da prevedere. Tutto ciò ha reso più facile per la maggior parte dell'umanità di educare se stessa, sfidare l'opinione dominante, e competere con i gruppi di potere radicati”. *** Questo è incoraggiante, ma a meno che non venga continuamente rinnovato, può essere di breve durata... “Certo. Ma se c'è è un'analogia moderna con “l'arma democratica" e "semplice" di Orwell, che "dà artigli al debole" questa è la crittografia: quella che sta dietro Bitcoin e nei migliori programmi di comunicazione sicura. Il software di crittografia si può produrre

a buon mercato, può essere scritto sul computer di casa. E' ancora più conveniente da diffondere: il software può essere copiato in un modo che non è possibile per gli oggetti fisici. Ma è anche insormontabile - la matematica al centro della crittografia moderna è in grado di sfidare la forza di una superpotenza. Le stesse tecnologie che hanno permesso agli Alleati di crittografare le comunicazioni radio contro le intercettazioni dell'Asse possono ora essere scaricate in Internet e distribuite con un computer portatile a basso costo. Mentre nel 1945 gran parte del mondo aveva di fronte mezzo secolo di tirannia a causa della bomba atomica, nel 2015 siamo di fronte alla diffusione inarrestabile

Bitcoin nel 2014 PICCOLE STARTUP E COLOSSI DELL'INFORMATICA

“Loro ovviamente hanno già le loro idee su come utilizzarla - aggiunge - e si rendono conto che con la nostra tecnologia si può capire cosa sarà possibile fare nel prossimo anno o due". Google dove non arriva prima, spesso prova a rincorrere, Google plus nei confronti di Facebook (o Google Wallet dopo non essere riusciti ad assumere gli ingegneri di eBay che crearono Paypal) Google e il Bitcoin Come scrive sul sul blog, il 12 dicembre, lo sviluppatore Jeff Garzik: "Google internamente ci sono alcune fazioni interessate. Alcuni fan interni, altri critici. Eric Schmidt ha detto buone cose su Bitcoin. L'attuale sviluppatore Bitcoin Mike Hearn ha lavorato a progetti su Bitcoin, nell'ormai lontano 2011, mentre era dipendente di Google con l'approvazione di un dirigente della compagnia" Un po' come Overstock (ma anche NewEgg e TigerDirect) nei confronti di Amazon, Microsoft trovandosi a rincorrere è arrivata prima. Gli investimenti Gli investimenti nelle aziende che orbitano attorno al mondo Bitcoin nel 2014 sono stati almeno 295 milioni di dollari. Per fare dei confronti diretti, l'anno scorso sono stati investiti quasi 100 milioni di dollari in aziende Bitcoin. Gli investimenti dei venture capitalist nelle aziende di Internet nel 1995 erano stati 250 milioni di dollari. Alcune delle aziende fondate nel 1995 sono eBay, Yahoo e Amazon. Chi sono queste aziende e cosa fanno? Alcune vengono hardware per l'estrazione della moneta (BitFury), altre strumenti e servizi per negozianti (Coinbase, BitPay), alcune possono intregrare portafogli Bitcoin (Blockchain, Coinbase), o fornire servizi di cambiavalute e finanziari (Circle).

Microsoft accetta Bitcoin, dal 11 dicembre negli Stati Uniti, per tutti i giochi e i programmi e altri contenuti digitali, come musica e film, per Xbox e Windows. Microsoft batte sul tempo le altre grandi aziende informatiche e di internet Google, Apple, Amazon e supera Dell come azienda più capitalizzata ad accettare Bitcoin. Microsoft ha iniziato ad accettare Bitcoin prima di molte altre grandi multinazionali forse per merito del suo nuovo amministratore delegato Satya Nadella che ha avuto dichiarazioni di apprezzamento nei confronti della tecnologia bitcoin; ma anche il fatto che forse Google, Apple, Amazon, eBay, si sentano abbastanza forti da poter lanciare o imporre il loro sistema (al momento Google Wallet, Apple Pay, Amazon Coin). I contatti tra Microsoft e BitPay, (la startup Bitcoin scelta per processare i pagamenti) sono iniziati tre mesi fa, quando dirigenti di BitPay hanno avuto una conversazione di due ore a Seattle con specialisti e ingegneri di Microsoft; con l'idea di integrare Bitcoin in tempo per le feste. Il direttore commerciale di BitPay, Sonny Singh indica che l'integrazione di Bitcoin come metodo di pagamento da parte di Microsoft è la fase uno di un piano più vasto: "Microsoft ha una visione a lungo termine per Bitcoin, BitPay e la blockchain. Iniziare con i beni elettronici negli Stati Uniti è stato logicamente il primo passo, comunque hanno l'intenzione di espandersi in Europa e globalmente, e aggiungere supporto per altri prodotti da aggiungere a questi già lanciati". Secondo lui Microsoft è interessata anche alle innovazioni di fondo che supportano Bitcoin e la sua rete di transazione globale.

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della sorveglianza di massa invasiva e al trasferimento di potere di chi la gestisce. E 'troppo presto per dire se alla fine vincerà il lato "democratico" o quello "tirannico". Ma riconoscerli - e percepirli come un campo di battaglia - è il primo passo verso un'azione efficace. L'umanità non può respingere Internet, ma può neanche cedere il suo controllo. Invece, dobbiamo lottare per esso. Proprio come l'alba delle armi atomiche ha inaugurato la guerra fredda, il meccanismo di Internet è la chiave per comprendere la guerra che si avvicina al centro intellettuale della nostra civiltà”. http://www.nytimes.com/2014/12/04/opinion/juli an-assange-on-living-in-a-surveillance-society.html?_r=1

Coinbase è salita in testa nella classifica di investimenti ricevuti da una startup Bitcoin nel 2014, con altri 50 milioni di dollari di investimento. 75 milioni di dollari in tutto da parte di gruppi di investitori: Andreessen Horowitz, Union Square Ventures, Ribbit Capital. BitFury Group, 40 milioni di dollari; BitPay, oltre 30 milioni di dollari; Blockchain, oltre 30 milioni di dollari. Tra i clienti di Coinbase, startup fondata nel 2012, con sede a San Francisco, ci sono il produttore di computer Dell, il sito di prenotazioni di viaggi online Expedia, Overstock, Dish, Wikipedia Tra i clienti di BitPay, fondata nel 2011 negli Stati Uniti ad Atlanta, ci sono Microsoft, i grandi negozi online NewEgg e TigerDirect, e accordi con Paypal. Da giugno 2014 BitPay è anche sponsor principale della squadra di football St. Petersburg Bowl. Dal fallimento di MtGox a inizio 2014, il valore di cambio di Bitcoin è sceso da 1000 dollari agli attuali 350 (ma a gennaio 2013 valeva 15 dollari). Tra i motivi che potrebbero aver influito il finanziamento, con circa 300 milioni di dollari complessivi nel corso dell'anno, di queste aziende startup che operano con Bitcoin e alcune hanno l'ambizione di poter essere come Yahoo, eBay e Amazon nel 1995. https://www.cbinsights.com/blog/bitcoin-startupfunding-2014/ http://insidebitcoins.com/news/investment-dollarsbitcoin-today-versus-the-internet-1995/26382 http://www.coindesk.com/following-money-trendsbitcoin-venture-capital-investment/ https://cdn.panteracapital.com/wpcontent/uploads/Pantera-Bitcoin-Letter-November2014-1.pdf http://garzikrants.blogspot.it/2014/12/survey-oflargest-internet-companies.html http://www.coindesk.com/bitpay-microsoftaggressive-global-vision-bitcoin/


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Storia

Siciliane senza paura 1923-1942 Donne e ragazze contro gerarchi e grandi proprietari. Breve cronologia di una lotta oscura di Elio Camilleri 1923

Casalvecchio Siculo (ME) Idra Muscolino uccisa durante una manifestazione. Molte donne arrestate Alì (ME) Molte donne prendono a sassate i carabinieri. Biancavilla (CT) Manifestazione contro le tasse. Incendio della sede del Fascio e del Circolo dei civili. Numerosi arresti. 1924

Palermo Numerose donne partecipano a una sottoscrizione per una corona di bronzo per Giacomo Matteotti. 1926

Catania Santa Giuffrida per insulti a un milite e a Mussolini condannata a 6 mesi di carcere e a pagare una multa di L. 70 1927

Collesano (PA) Lucia Barreca per offese a Mussolini 6 mesi e multa di L. 1000 1930

Francofonte (SR) Lucia Caponetto per propaganda anarchica 1 anno di carcere Raffadali (AG) Numerose donne appoggiano lo sciopero operaio. Sassate contro l’abitazione del gerarca. Tunisi Angela Battifora e la figlia Clara mantennero i contatti con gli antifascisti (Giulio Barresi, sua sorella Elisabetta e con la figlia Clelia) Linguaglossa (CT) corteo di protesta per l’acqua, maresciallo malmenato dalle donne che furono poi condannate a più di 70 anni di carcere 1934

Palermo Carmela D’Agostino arrestata e denunziata per offese alle istituzioni e al milite. Mistretta (ME) Carmela Merenda di 44 anni e madre di 6 figli diffidata per proteste contro le tasse. Cefalù (PA) Teresa Failla diffidata per invettive contro Mussolini.

Caltagirone (CT) Nunzia Giliberto, 34 anni, moglie di Felice Chiaramonte, un confinato, diffidata per litigio con un milite e per offese a Mussolini. Roccalumera (ME) Carmela Campagna, contadina di 25 anni e madre di 3 figli diffidata per offese a Mussolini per il pignoramento della macchina da cucire, unico sostentamento per la famiglia. Castellammare del Golfo (TP) Fiorello Giacoma, vedova con due figli, casalinga, antifascista. Confinata per un anno per avere sobillato più volte la popolazione contro delle imposte comunali. 1935

Bronte (CT) Maria Grassia, 28 anni, arrestata per offese a Mussolini pronunciate durante una lite con un cugino fascista innamorato di lei. Caltanissetta Donne sdraiate sui binari contro partenza per la guerra d’Etiopia S. Maria di Licodia (CT) Carmela Arcidiacono, analfabeta, urlò “Mussolini lazzarone”. Arrestata e incarcerata. 1936

Fiumefreddo (CT) Ignazia Petitto, 43 anni, vedova, nullatenente con due figli, per offese a Mussolini e per oltraggio a Podestà fu da quest’ultimo denunziata al Tribunale speciale che negò l’autorizzazione a procedere. Sommatino (CL) Nunzia Ribellino: sua osteria “covo di sovversivi”. Chiusa. 1937

S. Pier Niceto (ME) Maria Antonazzo, Maria Bongiovanni, Anna Catanese, Annunziata Corso, Paola Maimone, Rosa Milicia, Angela Nastasi,Maria Pizzurro, Anna Pulejo arrestate avendo protestato per la riduzione del numero delle fontanine e avendo invaso la sede del Fascio. Palermo Clelia Barresi, figlia di Giulio, pubblicò un Appello alle donne. S. Alfio (CT) Giovanna Cardillo coniugata con due figli, analfabeta, casalinga, apolitica. Arrestata il 10 dicembre 1 937 per avere fomentato il malcontento delle donne contro il parroco che aveva venduto alcuni oggetti donati dai fedeli ai santi protettori del paese. 1938

Paternò (CT) Angela Lucchese diffidata per offese a Mussolini.

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Da vari scritti di Santi Correnti, da Jole Calapso “Donne ribelli” e dal Casellario politico centrale.

Palermo Una prostituta fu trasferita per un mese in carcere per offese a Mussolini 1940

Comitini (AG) Carmela Sajeva diffidata per offese a Mussolini. S. Domenica di Vittoria (ME) Carmela Giardina, in ansia per figlio a Tripoli, per offese a Mussolini incarcerata 15 giorni.. Palermo Giovanna Buscemi diffidata per offese a Mussolini. Monterosso Almo (RG) Giovanna Burgio, Rosa Giaquinta, Paola Noto e Rosa Trapani diffidate pr “diffusione di notizie false e tendenziose”. Marettimo (TP) Maria ed Elena Ernandes (madre e figlia) confinate a Marettimo per disfattismo. Xitta (TP) Giuseppa Giacalone per critiche alle autorità 2 anni di confino S. Salvatore di Fitalia (ME) Angelina Armali e Giuseppina Orlando diffidate per critiche alle autorità militari. Catania Natalina Cervini, 5 anni di confino per “opposizione al regime fascista”. 1941

Adrano (CT) Maria Caruso diffidata per offese a Mussolini. Agrigento Francesca Puma diffidata per “sentimenti anglofili”. Palermo Giovanna Sustari arrestata “discorsi antifascisti” Palermo Maria Papadakis, Gertrude Halberthal, Clara Riechier e Maddalena Galessi arrestate per sospetti. Sortino (SR) Lucia Pistritto e il marito arrestati per “attività sobillatrice” Licata (AG) Alessandra Morreale diffidata per offese a Mussolini. Caltagirone (CT) Giuseppa Cosolito diffidata per offese a Musolini. S. Teresa Riva (ME) Amalia Gregorio condannata per “vilipendio delle forze armate”. 1942

Pantelleria (TP) Bonomo Maria nubile, analfabeta, operaia, antifascista. Arrestata per aver pronunciato la frase: “Se avessi il duce sotto le mie mani gli taglierei il collo, perché ci fa morire di fame, mentre se ci fossero stati gli inglesi saremmo stati ricchi”- Assegnata al confino per anni uno liberata il 29 dicembre 1942 condizionalmente nella ricorrenza del ventennale.


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Storie

Mondo zombie N.1 Il classico scienziato pazzo, i passi minacciosi su per le scale... e Andreotti. Ehi, che ci fa Andreotti nell'Italia del 2014? Mica siamo in un film dell'orrore! di Jack Daniel La mia fine si avvicina, scrivo queste righe nella speranza che un giorno, leggendole, la nuova umanità possa evitare i nostri errori. I miei errori. Sì, perché quello che sta succedendo è in gran parte colpa mia. Non c’è il tempo per biografie, vi basti sapere che ero un ricercatore chimico in un’importante azienda farmaceutica. Lavoravamo, notte e giorno, ad uno speciale farmaco in grado di rigenerare le cellule, di impedire l’invecchiamento, una miniera d’oro, ci avrebbero pagato miliardi, attrici, cantanti, chiunque. Altro che chirurgia estetica... “Eccoli, stanno arrivando!” Eccoli, stanno arrivando, sono già al piano di sotto. Le poche difese che ho approntato saranno in grado di reggere solo pochi minuti… Miliardi, e già ci vedevamo in un mondo nuovo, un mondo che si sarebbe gettato alle spalle il vecchio, le sue tensioni, i suoi conflitti, le sue ansie. Credevamo, poveri coglioni, povero coglione io, che garantire una vita lunghissima e priva o quasi di sofferenze avrebbe reso il mondo migliore... Stanno cercando di abbattere le difese, tra poco saranno sulle scale… Alla fine fu trovata una molecola, la testammo in vitro e in laboratorio. I risultati erano promettenti. L’età media delle cavie quasi raddoppiava.

Non solo, le cellule rigenerate erano in grado di aggredire i tessuti tumorali e ripristinare l’originaria funzionalità. Erano in grado di riparare cuori infartuati, midolli ossei. Se un uomo non fosse perito in incidente d’aereo o cose del genere avrebbe potuto campare secoli, rimanendo sempre giovane e bello. Il mondo dei giovani, era questo che volevamo, nuove generazioni padroni del futuro che potessero guardare il mondo nei secoli a venire e orientarlo al meglio. Manca poco, la devo fare breve. La molecola funzionava, ma funzionava troppo. Fui io ad accorgermene. Una nostra cavia di controllo, una di quelle a cui non somministravamo il farmaco, per poterle confrontare con le altre sottoposte a trattamento, morì. Per un’intuizione, per scherzo, che ne so?, ebbi la sciagurata idea di somministrarle il farmaco. Tornò a vivere, ma il cuore non batteva Non posso raccontarvi lo shock, ma dopo essermi ripreso rimisi la cavia in gabbia con le altre (forse nel tentativo di nascondere quello che avevo combinato, o forse per prendere tempo). Altro errore. Il giorno dopo, anche se sembrava tutto normale, anche le altre due cavie in gabbia si muovevano col cuore fermo. Stupidamente non diedi subito l’allarme, e mentre ero nel mio studio a pensare come dare la notizia, successe l’irreparabile: un inserviente aprì la gabbia per dar da mangiare alle cavie e fu morso.

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Il resto lo sapete. L’epidemia si trasmise in poche settimane in ogni angolo della Terra. Forse in Amazzonia, e nelle foreste del Congo c’è qualche tribù immune. Speriamo, è per loro, per i loro discendenti che scrivo queste righe, se mai verranno qui. Ma poi accadde il peggio. Antichi scheletri inumati chissà dove ripresero vita, pelle e organi. Rovesciando le loro stesse lapidi si unirono agli altri. Alcuni presero il comando, guidando truppe disorganizzate di zombie… Ecco, sono sulle scale, mi resta poco. “Governo di giovani?” Eh eh eh Governo di giovani? Nuovo mondo? Belli per sempre? Che deficienti…. Sono alla porta, tra poco l’abbatteranno. Conosco questo gruppo, è il più furbo, è Andreotti, o, almeno, il suo zombie, che li guida ed Evangelisti è sempre con lui. Prima hanno puntato a Campidoglio e Montecitorio, poi ai ministeri e, infine, dopo aver distrutto i centri di comando hanno cominciato la pulizia di fino, raccogliendo nei cimiteri resti di delinquenti di ere passate, fascisti, banditi, Magliana. E ora sono qui. Abbiamo provato ad abbatterli, a distruggerli ma non c’è niente da fare, risorgono sempre, sempre, e ritornano a divorare i vivi. La porta sta cedendo, non c’è più niente da fare. Addio…


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Sicilia

Fa’ la cosa giusta... possibilmente in rete Palermo. Ai Cantieri Culturali della Zisa a dicembre terza edizione della Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili di Giovanni Abbagnato Ormai è un appuntamento consolidato quello che propone “Fa la cosa giusta Sicilia” a produttori, consumatori, amministratori, studiosi e istituzioni culturali in campo sociale ed economico, associazioni e coop che agiscono nel campo del profit ma anche del no-profit. Filo conduttore della manifestazione è la caratterizzazione in termini di innovazione di comportamenti individuali e di sistema, in una prospettiva alternativa ai modelli socio-economici dominanti sul piano politico e culturale. Nove i settori tematici della Fiera riguardanti il cibo, i beni comuni, lo spazio da abitare, i servizi etici, il viaggiare, la pace e la partecipazione, l’editoria, la moda e la cosmesi e l’equo e solidale. All’interno di questi settori, oltre alla presenza degli operatori con i loro prodotti, va segnalato lo svolgimento di numerosi laboratori e momenti di incontro in coerenza con l’interpretazione di questo terzo raduno da parte del Comitato promotore che dichiara di immaginarla ”…come luogo di progettazione, d’incontro e di voglia di futuro…”. Il titolo dato alla Fiera – in rete si cresce – indica anche una prospettiva di politica e pratica economica sollecitata dal basso, da quegli uomini e da quelle donne che ogni giorno, con le loro mani e le proprie intelligenze, costruiscono “luoghi di alternative possibili”, ma che devono imparare – meglio e di più – a collegarsi in reti locali, nazionali ed internazionali.

L’apertura delle imprese siciliane ai mercati europei, ma con strutture commerciali compatibili con la filiera corta e con la lotta alla intermediazione parassitaria, può essere veicolata solo da un sistema di relazioni tra persone che condividono una concezione della vita solidale e responsabile sul piano etico e ambientale. Da qui l’incontro e il confronto tra operatori siciliani con loro colleghi - ma sempre più amici - francesi e tedeschi che, insieme allo scambio economico, condividono valori e ideali complessivi che si manifestano in tanti modi, per esempio, anche con la costituzione di reti internazionali antitratta degli esseri umani e, in particolare, delle donne sfruttate che sono state al centro di un dibattito tra studiosi ed operatori, supportato da una interessante ed originale mostra fotografica. Le buone pratiche del consumo critico In difesa dei consumatori, tante altre occasioni di dibattito e diffusione di buone pratiche che attengono al consumo critico e consapevole e ad un cambiamento delle filiere alimentari con un incremento delle produzioni biologiche, del cosiddetto Km Zero (uso delle produzioni dei luoghi in cui si consumano) per un minore impatto antropico, in difesa dell’ambiente. Il programma culturale si è arricchito quest’anno anche di un ragionamento sul cosiddetto pesce “povero”, ma povero solo per gli intermediari che lo considerano poco redditizio economicamente, condannandolo alla distruzione, nonostante le sue qualità nutritive siano eccellenti. Infatti, i bravissimi ragazzi dell’Istituto Paolo Borsellino con i loro insegnanti hanno potuto esaltare con la loro arte il valore nutritivo e il gusto del pesce, presunto “povero”, offerto ai partecipanti all’iniziativa. Molto significativa anche l’iniziativa della Fai Cgil e della Cooperativa di produttori Fiori di Corleone, nata accanto all’ormai consolidata esperienza della

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Cooperativa “Lavoro e non solo” sui terreni confiscati alla mafia: una produzione di passata di pomodoro biologica di un gruppo di produttori del corleonese, riuniti in associazione e impegnati in un Protocollo d’Intesa, non semplice dichiarazione di intenti, ma segno di una produzione che rispetta e tutela i diritti di lavoratori, consumatori e ambiente. Anche quest’anno il Progetto Scuola ha portato ai Cantieri oltre 1500 bambini e ragazzi che, oltre a visitare gli stand, hanno partecipato a numerosi laboratori che traducevano in situazioni concrete i temi della Fiera, dall’alimentazione alla tutela dell’ambiente e a tanti altri argomenti. Non trascurato nemmeno il terreno dell’elaborazione teorica che è stata affrontata con riflessioni convergenti tra finanza etica e decrescita che hanno preso spunto da due testi di Ugo Biggeri sul “Valore dei soldi” e di Paolo Cacciari su “Vie di fuga e decrescita felice” alla presenza degli autori e di altri autorevoli esperti, anche reduci dalla recente assise sulla decrescita tenutasi a Lipsia. La riflessione sui beni comuni Molto significativa anche la riflessione sui beni comuni affrontata in modo assembleare con un’ampia partecipazione di movimenti che si sono misurati, tra gli altri, con i Sindaci delle città di Caltanissetta (Giovanni Ruvolo), Messina (Renato Accorinti) e Palermo (Leoluca Orlando). E’ stata un’altra occasione di “respiro” socio-economico e culturale per la città di Palermo, ma, vista la presenza di operatori e di ospiti da tutte le aree geografiche dell’Isola, anche per la Sicilia che dovrà essere ancora più protagonista come Regione con la costruzione delle condizioni per la presenza di un “Fa la cosa giusta” itinerante in varie città, così come previsto dal progetto. Allora, arrivederci a “Fa la cosa giusta!” comunque e in qualche parte della Sicilia.


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IL FILO

Mafia: un'enorme confusione di Giuseppe Fava

“I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, sono a volte ministri, sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”

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La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare Il sito permette la consultazione gra tuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografi co e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebra zioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

“Sono ai vertici della nazione” Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. Questo signore ha avuto a che fare con quelli che dalle nostre parti sono chiamati ''scassapagliari”. Delinquenti da tre soldi come se ne trovano su tutta la terra. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, sono a volte ministri, sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Bisogna chiarire questo equivoco di fondo: non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale... quella è piccola criminalità che credo esista in tutte le città italiane e europee. Il problema della mafia è molto più tragico e importante, è un problema di vertici della nazione che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l'Italia. “Sono degli esecutori” [...] Si fanno i nomi dei fratelli Greco. Si dice che siano i mafiosi vincenti a Palermo, i governatori della mafia. Non è vero: sono anche loro degli esecutori. Sono nella organizzazione, stanno al posto loro. Un'organizzazione che riesce a manovrare centomila miliardi l'anno. Più, se non erro, del bilancio di un anno dello Stato italiano. È in condizione di armare degli eserciti, di possedere flotte, di avere una propria aviazione. Infatti sta accadendo che la mafia si sia impadronita, almeno nel medio termine, del commercio delle armi.

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Gli americani contano in questo, ma neanche loro avrebbero cittadinanza in Italia, come mafiosi, se non ci fosse il potere politico e finanziario che consente loro di esistere. Diciamo che questi centomila miliardi, un terzo resta in Italia e bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo. E quindi ecco le banche, questo prolificare di banche nuove. “Bisogna frugare nelle banche” Il Generale Dalla Chiesa l'aveva capito, questa era stata la sua grande intuizione, che lo portò alla morte. Bisogna frugare dentro le banche: lì ci sono decine di miliardi insanguinati che escono puliti dalle banche per arrivare alle opere pubbliche.

(Dall'intervista rilasciata a Enzo Biagi il 28 dicembre 1983)


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

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Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

www.isiciliani.it

Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

SOTTOSCRIVI IT 28 B 05018 04600 000000148119 Associazione I Siciliani Giovani/ Banca Etica


In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

I Siciliani giovani

www.isiciliani.it


il coraggio di lottare?” “a che serve vivere , se non c’è

Per dare una mano:

IT 28 B 05018 04600 000000148119 (IBAN Banca Etica, “Associazione Culturale I Siciliani Giovani")

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Per saperne di più: www.isiciliani.it

1983-2013 Trent’anni di libertà

“Un giornalismo fatto di verità

impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo” Giuseppe Fava

In rete e per le strade

“I Siciliani giovani” sono una rete di testate di base, da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Bologna a Napoli. Il racconto quotidiano di un paese giovane, fatto da giovani, vissuto. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.


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