I Siciliani - febbraio 2012

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n.2 febbraio 2012

I Siciliani giovani www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

Rita Atria, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola

La strage MAFIA

delle donne

Uccise o costrette a uccidersi perché si ribellano al clan. La loro società le condanna. Spesso, fra i primi aguzzini trovano fidanzati o genitori. Succede solo fra i mafiosi?

Fior/ Expo: gli appalti/ Catania/ Liberty & Ruspe Mazzeo/ Droni a Sigonella

Traffici/ L’asse Vittoria-Fondi Operai/ La nave dei diritti Sgarbi in Sicilia Depistaggi di Stato Caruso Campese Cortina Vitale Abbagnato De Gennaro Prete operaio a Catania Orsatti/ Italian Tabloid Mondo nuovo/ Apple nel G-20 La rivolta del Megastore Messina sepolta Satira/“Mamma!” Jack Daniel CASELLI/ L‘ETERNIT E I DIRITTI DALLA CHIESA/ GOVERNO E ANTIMAFIA CAVALLI/‘NDRANGHETA AL NORD


facciamo rete http://www.marsala.it/

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Donne e mafa

Compongono e subiscono la criminalità organizzata. La storia delle mafie è anche una storia di donne, una questione di genere. Le loro vite servono a capire la natura stesse delle mafie, i “sentimenti” che le muovono, la cultura di cui sono portatrici, il sistema di “valori” che le caratterizza, il modello sociale di riferimento in cui hanno potuto farsi strada. Le donne in maniera trasversale rappresentano un elemento di “normalizzazione” e nello stesso tempo di “eccezionalità” che caratterizza il fenomeno criminale. L’esempio più lampante è la vendetta. Il torto subito in un contesto che non le riguarda direttamente: la guerra tra cosche per il controllo del territorio, lo sgarro perpetuato tra boss o affiliati, affari economici irrisolvibili se non attraverso il sangue trovano l’apice della soddisfazione e del risarcimento colpendo donne e bambini. Cioè attraverso l’oggetto più importante del possesso. Colpisco la “cosa” che ti è più cara e simbolicamente, per questo motivo, quella che non andrebbe mai colpita. È lo sfregio più grosso da ricevere e anche il più infamante da commettere. Le donne servono per alimentare il silenzio, il silenzio che serve alle cosche per andare avanti nei propri affari. La cura del silenzio permette agli uomini di “lavorare”. Sono madri, mogli che subiscono o che, con complicità, agiscono e creano la cappa d’isolamento del territorio in cui vivono, operano e inviano ordini. Sono però anche quelle che quando rompono il silenzio mettono in crisi l’intero sistema. È una donna la prima testimone di giustizia della storia e sono sempre donne quelle che in Calabria stanno indebolendo la ‘ndrangheta: come Tita Boccafusca e Maria Concetta Cacciola, che hanno taciuto per sempre ingerendo acido muriatico. Dalla bocca sono uscite rivelazioni che non si dovevano fare e attraverso quella stessa bocca si lava via la tentazione di continuare, la disperazione di averci provato, il “disonore” di averlo fatto. Dall'unità d'Italia a oggi sono più di centocinquanta le storie di donne, messe assieme e di nuovo raccontate dal dossier “Sdisonorate/ Le mafie uccidono le donne” dell’associazione daSud (www.dasud.it) I Siciliani giovani (di Celeste Costantino, Irene Cortese, Sara Di Bella, Cinzia Paolillo, Angela Ammirati, Danila Cotroneo e Laura Triumbari)

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I Sicilianigiovani FEBBRAIO 2012

numero due

Questo numero

Donne e mafia L'Eternit e i diritti di Gian Carlo Caselli Antimafia e governo di Nando dalla Chiesa Mafia a Barcellona di Riccardo Orioles Shylock e la Grecia di Paolo Fior

3 6 7 8 9

Mafia (e antimafia)

Aveva scelto la libertà di Michela Mancini Testimoni di giustizia di Nadia Furnari Ndrangheta al nord di Giulio Cavalli Expo di Paolo Fior Bologna del riciclo di Salvo Ognibene La meglio gioventù di Martina Mazzeo

10 12 14 16 18 19

Rewind-forward di Francesco Feola

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I tempi

Freddo

Liberty e ruspe di Max Vacirca

Un freddo medievale, con centinaia di vittime – selezionate fra i poveri – nella civile Europa. Si discute moltissimo, di cose civilizzate e moderne, governi, politiche, strategie di lungo e medio periodo, eventi vari, cultura, ma la verità è che alcuni elementi del nostro panorama sono ormai premoderni. Sono tornate la tubercolosi e la servitù della gleba. In zone circoscritte (periferie romane, latifondi campani) e per una parte circoscritta della società (meteci, iloti, non-cittadini) ma in modo assolutamente lineare. Non quanto nel medioevo, ma come nel medioevo. Il centro di questo giornale è pericolosamente vicino al medioevo. Nel capannone dove facciamo doposcuola (il Gapa di Catania, oltre a organizzare giornali, organizza anche questo) viviamo quotidianamente a contatto con bambini di cui nessuno sa se saranno tutti vivi fra un anno o due: morti violente, malattie, ipersfruttamento, feudalità mafiosa, esercitano i loro diritti con sempre più prepotenza. Il servizio che stavamo preparando sulla squadra di rugby infantile di Librino - di cui siamo orgogliosissimi - improvvisamente è diventato futile, un lusso intellettuale da borghesi: perché un bambino è scomparso, e non si sa dove sia. In questo mondo viviamo, e non distogliamo lo sguardo da esso. Nè cerchiamo di illuderci - come fanno quasi tutti: probabilmente anche tu che leggi – che sia un mondo minore, da rimuovere facilmente. Guardare le cose in faccia non rende più lieve la vita. C'è molto amore, ogni giorno, ma esile e continuamente minacciato.

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Le nuove rotte

Visto da Vittoria di Giorgio Ruta Visto da Fondi di Maria Sole Galeazzi Depistaggi di Stato? di Lorenzo Baldo

24 26 28

I nord e i sud

I droni di Sigonella di Antonio Mazzeo Da Rosarno a Roma di Bruna Iacopino

*

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DISEGNI DI MAURO BIANI

SOMMARIO L'isola

L'avventura di Sgarbi in Sicilia di Rino Giacalone Megastore di Attilio Occhipinti, Giulio Pitroso Appello per il lungomare di Catania Gli occupanti di Marettimo di Rino Giacalone Solidarietà Treni di Tommaso Maria Patti e Francesco Midolo

34 38 41 42 45 46

Satira

Mamma di Mauro Biani, Carlo Gubitosa, Marco Pinna, Lelio Bonaccorso Lasciamoli giocare di Jack Daniel

49 56

Immagine

Messina sepolta di Dino Sturiale, Sebastiano Ambra

57

Società

Forconi di Francesco Appari, Giacomo di Girolamo Senzatetto Milano di Federico Beltrami Senzatetto Catania di Domenico Stimolo Il pezzo di carta di Claudia Campese Sant'Agata di Giovanni Caruso, Miriana Squillaci

66 64 65 66 68

Tecnologie

Apple nel G-20? di Fabio Vita

Storia

Turiddu Carnevale di ElioCamilleri

71

Economia

Interviste/ Stefano Bartolini di Laura Cortina

Viaggi

Cracovia di Giuseppe Scatà

72

Teatro

Il coraggio di Beatrice Canali e Marta Cavallini

74

75

78

Polis

Colletti sporchi di Gabriele Licciardi Diffamati di Salvo Vitale Palermo di Giovanni Abbagnato Governo di Riccardo De Gennaro

Musica

Stravinsky e l'i-Pod di Antonello Oliva

76

80 81 82 83

Memoria

Italian Tabloid di Pietro Orsatti Padre Greco di Fabio D'Urso e Luciano Bruno

84 88

Il filo

Banche di Giuseppe Fava

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Immagine

Occupiamoci di Scampia di Raffaele Lupoli

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Giustizia

Thyssen, Eternit e i diritti tutelati dalla Magistratura di Gian Carlo Caselli

Una volta i Procuratori generali fa-

Siamo tutt’ora in cima alle statisti-

La prova che questi diritti, scolpiti

cevano a gara nel presentare gli infor-

che europee, con l’aggravante che da

nella Costituzione, cessano di essere

tuni sul lavoro come mere fatalità.

noi stranieri e minori hanno ancor più

scatole vuote e si trasformano in realtà

probabilità di infortunarsi di quella –

vivente quando funzionano gli strumen-

in fabbrica non si poteva morire: nel

già elevata – dei lavoratori

ti che la stessa Costituzione prevede a

senso che se capitava un incidente

“indigeni”. Eppure qualcosa è cambia-

presidio di essi.

mortale, l’ambulanza doveva subito

to. Lo provano i processi di Torino per

trasportare l’infortunato in ospedale,

il rogo della Thissen Krupp e quello

perché lì apparisse avvenuto il deces-

Eternit per l’amianto che ha causato

so.

oltre 2.200 vittime, delle quali 1.649

A Torino, di fatto, la regola era che

Senza timori reverenziali

Primo presidio – fra i tanti – è la magistratura, purchè autonoma ed in-

uccise. Un problema tragico

dipendente, capace cioè di fare il suo Una nuova sensibilità

Oggi il problema della sicurezza sui

dovere senza timori reverenziali per questo o quel potente.

posti di lavoro è ancora tragico. E fa

Testimonianza di una nuova sensi-

benissimo il Capo dello stato a ricor-

bilità e cultura per la tutela di fonda-

vorrebbero, come dimostra il recentis-

darcelo spesso.

mentali diritti dei cittadini , la sicur-

simo colpo di mano del Parlamento

ezza nei posti di lavoro e la salute.

sulla responsabilità civile dei giudici.

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Proprio il contrario di quel che tanti


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Società

L'antimafia è importante per il governo? di Nando dalla Chiesa

Lo so, il governo Monti non ha praticamente nominato la mafia nei suoi programmi. Nessuno vi veda però

mafia non era tra i maggiori problemi

cambiate. Nel 2011, nella sola facoltà

della sua terra.

di Scienze Politiche a Milano si sono

Perciò ha segnato l’esistenza di una

laureati quarantuno studenti sulla cri-

l’effetto di complicità inconfessabili.

nuova era il seminario che il 9 e 10

minalità organizzata: beni confiscati,

Semplicemente, i professori da cui è

febbraio scorsi si è tenuto all’istituto

criminalità albanese e cinese, narco-

nato appartengono a un’altra era (geo-

Cattaneo di Bologna, e che ha messo

traffico, ‘ndrangheta in Lombardia,

logica, starei per dire) dell’università

insieme decine di maturi docenti e

mafia e giornalismo…

italiana.

giovani ricercatori, da Palermo a Ox-

Per loro la mafia non esisteva...

ford. Lo sviluppo economico, il rici-

Nuove generazioni di professori A loro è stata dedicata una serata

Quando nacquero i “Siciliani” di

claggio, il nord, la corruzione, la tran-

con facoltà aperta, intitolata “La

Pippo Fava non c’erano accademici

snazionalità del crimine, i metodi del-

meglio gioventù”. Quella che sposa

che si occupassero della materia. Per-

la ricerca, gli stereotipi culturali, i

scienza e impegno etico-civile. C’era

ché mai legare la propria identità a un

nuovi movimenti. Non era mai acca-

anche don Ciotti, venuto apposta per

fenomeno del passato e appeso a

duto. Non un convegno, ma due giorni

ringraziarli.

un’isola? E nemmeno, tranne eccezio-

insieme senza pubblico. Solo per dare

Il governo dei professori non ne

ni rarissime, se ne occupavano gli ac-

all’intelligenza del paese e delle nuo-

parla. Ma ci sono nuove generazioni

cademici di Sicilia.

ve generazioni una consapevolezza

di professori e soprattutto di studenti

più alta.

che ne parlano. Statene certi. Quando

Per loro, infatti, la mafia non esisteva. Il più autorevole di loro

Le nuove generazioni. Anche queste

toccherà a loro, anche la lotta alla

scrisse nell’86 (!), nel grande volume

alla fine degli anni settanta preferiva-

mafia farà parte dei programmi di

Einaudi La Sicilia da lui curato, che la

no studiare altro. E anche loro sono

governo.

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Polemiche

Sarà sciolto per mafia il Comune di Barcellona? di Riccardo Orioles Dal primo numero di questa nuova serie (come già in quella degli anni '90) i Siciliani hanno hanno dato particolare attenzione alle vicende di Barcellona in Sicilia, un tempo isolata enclave mafiosa nel messinese ma poi rapidamente cresciuta fino a diventare uno dei luoghi nevralgici della mafia (massomafia, avrebbe detto il professore D'Urso) nazionale. Momenti di svolta furono la latitanza di Santapaola, la partecipazione alla strage di Capaci, l'assassinio di Beppe Alfano (che, stando sul luogo, aveva compreso molto) e altri episodi, criminali e no. Già alla fine degli anni '70, peraltro, la zona era frequentata da trafficanti internazionali di droga (i Cutaia), che s'incontravano in un rifugio alpino sulle montagne. Dagli anni '90 vi fu, probabilmente un salto di qualità complessivo, in parte legato all'espansione “militare” di Cosa nostra, in parte a rapporti politici e imprenditoriali facilitati dalle locale camere di compensazione di tipo massonico, frequentate da tutto l'establishment senza distinzioni. Tutte queste belle cose, su cui da anni lavorano le migliori “firme” di Cosa nostra, sono ben note ai cittadini di Barcellona, alcuni dei quali hanno dato vita ad associazioni - la “Rita Atria”, la “Città SCHEDA LA LETTERA DI NANIA

Aperta” ed altre – per cercar di salvare la loro città. Questi gruppi, affiancati da giornalisti capaci come Antonio Mazzeo (un redattore dei Siciliani), meritano l'appoggio più convinto di tutti i cittadini democratici e antimafiosi, per motivi che dovrebbe essere inutile spiegare. Contro Mazzeo, contro Città Aperta, contro l'Associazione Rita Atria e contro l'antimafia di Barcellona ha invece deciso di schierarsi il principale politico locale, il già ministro e ora senatore Domenico Nania. L'ha fatto addirittura in sede parlamentare, del che – trattandosi di prassi inconsueta – ho espresso perpelssità ai nostri lettori. Nania risponde con una lettera al Fatto (sul cui sito era il mio pezzo), che riportiamo appresso. Nulla a che fare col sindaco Da essa si evince che l'on. Nania non ha nulla a che fare con la discussa amministrazione locale, guidata da suo cugino. Si evince altresì che egli è convinto che tutte le inchieste su Barcellona sono ispirate dai suoi avversari politici (ma erano cominciate ben prima dei suoi coinvolgimenti: Mazzeo ne scrive da parecchi anni); che questi suoi avversari politici

Egregio Direttore, nel blog di Riccardo Orioles si fa riferimento a una mia recente interrogazione parlamentare (A.S n. 4-06576), attraverso la quale avrei, secondo Orioles, sottoposto il giornalista Mazzeo a "pressioni". Il giornalista Orioles nel suo blog, riporta la notizia della mia interrogazione - un'attività svolta nell'esercizio del mio mandato e a difesa della verità - e la definisce appunto “un'iniziativa senza precedenti....” e allude ad una mia presunta responsabilità e volontà nel voler "censurare" il suo collega Mazzeo. Nell’interesse di una corretta e completa informazione, vorrei ricordare al giornalista Orioles che: a) non è il sottoscritto che “si è sentito toccato dalle sue inchieste” ma l’amministrazione comunale di centrodestra nella quale mi riconosco. b) la mia interrogazione è successiva a quella del sen. Lumia del 12 gennaio 2010 (A.S. n 4-02499); la sua di attacco, la mia di difesa ma entrambe rigorosamente legittime. Nella mia, ho semplicemente e dovero

sono i nostri “suggeritori” (di cui evidentemente abbiamo un gran bisogno); e soprattutto che a Barcellona la mafia non esiste, dato che questo argomento non sembra fra i suoi principali motivi d'interesse Noi naturalmente torneremo su Barcellona, sperando di convincere anche l'on. Nania che trattasi (al di là di questo o quel dettaglio, e persino della locale geografia politica in cui l'onorevole ha tanta parte) di una delle capitali di Cosa Nostra, su cui l'attenzione giornalistica non sarà mai abbastanza. Attendiamo con un certo interesse la scadenza del 10 marzo, quando il ministero dell'interno dovrà decidere se sciogliere o meno, per questioni di mafia, l'amministrazione comunale di Barcellona, con cui l'on. Nania non ha alcuna relazione. Un simile provvedimento, come abbiamo scritto chiaramente, è auspicato da tutti i buoni cittadini; i quali – a nostro avviso – farebbero bene a incontrarsi pubblicamente a Barcellona, verso la metà di marzo, per festeggiarlo o per richiederlo ancora, secondo i casi. E' improbabile, purtroppo, che a questi festeggiamenti (o richieste) partecipi l'on. Nania, e ce ne dispiace.

samente analizzato, punto per punto, il contenuto dell'interrogazione Lumia e delle fonti dallo stesso ripetutamente citate; b) il nome di Antonio Mazzeo, come fonte e suggeritore dell'interrogazione Lumia, non è una mia invenzione ma è fatto, e ripetutamente, dallo stesso sen. Lumia nella sua interrogazione e, quindi, gli addebiti di “esposizione” vanno mossi nei riguardi del senatore predetto; c) per quanto riguarda l'articolo di Orioles a difesa del suo collega Mazzeo, valgono, come per oqualunquegiornalista, le regole che disciplinano i dloro overi professionali: prima accertare la veridicità della notizia e, solo dopo, scrivere. Le “sviste clamorose” in cui Mazzeo è incorso sono ben evidenti da una lettura comparata delle due interrogazioni, mia e del sen. Lumia. (A.S 402499 del 12/01/10 e A.S. 4-06576 del 12/01/12). sen. avv. Domenico Nania

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Europa

Shylock e la carne viva della Grecia di Paolo Fior L’accanimento con cui si infierisce sul-

Ciò avviene con il complice silenzio di

Il diritto fallimentare assicura alle

la Grecia e sui suoi cittadini non ha nulla

tutta l’Unione europea e dei media, che

aziende e alle persone una protezione

di ragionevole e molto di europeo. Di

mandano i loro inviati ad Atene per gli

ben più larga dai creditori. Uno Stato so-

quell’Europa che vorremmo scomparsa

scontri di piazza e non per raccontare

vrano e i suoi cittadini, invece, possono

con la fine dei totalitarismi e che invece

cosa accade nella quotidianità in un Pae-

essere considerati al pari di un bottino di

si ripropone oggi in forme inedite nel bel

se europeo nel 2012.

guerra.

mezzo di una devastante crisi economica. Davvero finiti i totalitarismi? Pretendere, come si sta facendo, altre

Scarseggiano i farmaci Negli ospedali greci scarseggiano molti farmaci, a partire dall’insulina, e cre-

Bisogna riflettere su questo e soprattutto sui nostri silenzi dal retrogusto cinico del “mors tua vita mea”. L'indifferenza e l'orrore

garanzie e altri tagli da un Paese ormai

scono i casi di malnutrizione infantile.

stremato equivale a chiedere una libbra

Intere famiglie vivono al buio perché non

di carne viva alle persone. Una richiesta

sono state in grado di pagare la nuova

toccare a noi, ma l'indifferenza con cui

degna di un Shylock, l'usuraio del Mer-

tassa sulla casa addebitata direttamente

spalanchiamo nuovamente le porte

cante di Venezia, non di un consesso di

sulla bolletta elettrica.

all'orrore.

nazioni che si autodefiniscono democratiche e civili.

Soldi non ce ne sono più, lavoro neanche. Disperazione e angoscia affliggono persone incolpevoli.

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Il problema non è che domani potrebbe


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Testimoni di giustizia

Fatta morire dalla sua famiglia perché aveva scelto la libertà Maria Concetta Cacciola aveva trentun anni, viveva a Rosarno, era sposata e aveva tre figli. Il 20 agosto del 2011 si suicida ingerendo acido muriatico. Pochi giorni fa, il padre, la madre e il fratello vengono arrestati di Michela Mancini Maria Concetta era una testimone di giustizia: figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere dal 2002 per associazione a delinquere di stampo mafioso. Vivevano tutti nella stessa casa: erano i nonni a pensare alla famiglia. In quei posti il vincolo di sangue non lo scioglie nemmeno l’acido. La famiglia non si deve macchiare di vergogna altrimenti la cosca perde potere: la vergogna non consiste solo nell’avere “un pentito” sotto al tetto, basta tradire tuo marito mentre lui è in carcere. Per la ndragheta il matrimonio è per sempre: di divorzio manco a parlarne.

La storia di Maria Concetta comincia così. In una lettera alla madre, scrive del marito: «A tredici anni, sposata per avere un po’ di libertà, credevo che potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo, e tu lo sai». Si sposano dopo una “fuitina”, poi nascono i figli. Troppo tardi per pentirsi. Forse Maria Concetta la sua vita se l’era immaginata diversa, nessuna particolare ambizione. Ci sono luoghi dove nemmeno i sogni ti puoi permettere, perché finisce che ti mangiano il fegato, peggio dell’acido muriatico. Maria Concetta, dopo l’arresto del marito,probabilmente incontra altri uomini e a Rosarno certe notizie viaggiano veloci. A casa cominciano ad arrivare lettere anonime, siamo a giugno del 2010. Non la fanno più uscire, rimarrà fra quelle mura fino al maggio dell’anno successivo. Le rare volte in cui valica la porta di casa viene pedinata dal fratello. Non basta: viene picchiata, le botte sono così forti che le sue costole si incrinano o forse si rompono. Non si saprà mai: non verrà mai portata in ospedale. Viene curata a casa da un medico di fiducia. Maria Concetta è sola, non può parlare neppure con la madre. Nelle famiglie mafiose il mondo delle donne si è spaccato a metà: ci sono le madri, che hanno mangiato fin da piccole pane e omertà, che proteggono i propri mariti, che tengono unita la famiglia, la lucidano come l’argenteria, cancellano la vergogna a colpi di spazzola. E poi ci sono le figlie,

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che pensano troppo, che proprio non riescono a quietarsi. Maria Concetta a maggio viene chiamata dall’Arma di Rosarno perché Alfonso, il figlio più grande, aveva combinato un guaio col motorino. Arrivata in caserma, chiede aiuto e racconta tutto quello che sa, prima ai carabinieri e poi alla Dda di Reggio Calabria. È stata la paura a farle scegliere lo Stato, l’amore di mamma che voleva un futuro diverso per i suoi figli? Maria Concetta semplicemente chiama le cose col loro nome, da’ un’identità a luoghi e a persone fino ad allora nell’ombra. Decide che quel vincolo di sangue non è per sempre. Lontano, più lontano che si può Da quando entra a far parte del Servizio Centrale di Protezione, non può più rimanere a casa sua: un pomeriggio dice che andrà a fare visita al suocero e scappa. Per un primo periodo alloggerà nel cosentino, ma qualcuno potrebbe riconoscerla: viene trasferita dall’altra parte d’Italia, a Bolzano. La parola d’ordine è: lontano, più lontano che si può. Sola, in una città straniera Maria Concetta pensa ai figli che non ha potuto portare con sé. Aveva scritto alla madre: «Ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare». Non è solo la distanza, ha paura che la famiglia possa ritorcersi contro di loro.


“Le impongono di ritrattare tutto”

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SCHEDA OPERAZIONE CALIFFO Pochi giorni fa un’operazione denominata Califfo, coordinata dalla procura di Palmi e dalla Dda di Reggio Calabria ha dato una un duro colpo alla cosca Pesce, fra le più rilevanti nella cittadina di Rosarno. È stato fermato il latitante Giuseppe Pesce, diventato boss dopo l’arresto del fratello Francesco. Insieme a lui sono finiti in manette altri dieci presunti affiliati. Fondamentale, per il nucleo del Ros, un “pizzino” che Francesco Pesce aveva vanamente cercato di far arrivare al fratello dal carcere. Il foglietto conteneva una serie di indicazioni che insieme alle dichiarazioni di Maria Concetta Cacciola e di Giuseppina Pesce, altra testimone di giustizia, hanno permesso la ricostruzione del puzzle. Le dichiarazioni delle due donne erano apparse convergenti seppur fatte in archi temporali differenti - sul ruolo svolto da Saverio Marafioti: il cosiddetto “muratore”, che costruiva bunker a prova di bomba, dotati di ogni comfort. Marafioti sceglieva luoghi inaccessibili e isolati per edificare le tane della ‘ndrangheta. M.M.

Cede e telefona alla madre. Lo confesserà alla scorta che la trasferisce a Genova. «Da Genova io ho richiamato di nuovo mia madre dicendo che la voglio vedere perché a me mi mancava». La famiglia di Maria Concetta arriva fino in Liguria, la mettono in macchina per riportala a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno si fermano per una sosta a Reggio Emilia, lei si pente e telefona ai carabinieri, che la riportano a Genova. Ma probabilmente qualcuno le impone con più decisione di «spegnere tutto». Richiama la madre per l’ultima volta: «Portami a

casa». A Genova arrivano in tre: il fratello, una delle figlie e la madre. E’ il dieci di agosto quando arrivano a Rosarno. Pochissimi giorni dopo, Maria Concetta scrive una lettera e registra un nastro. Racconta dei colloqui con la Dda: «Gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa, ho detto pure delle cose che mi sono infangata anche io stessa per il fatto di andare via da casa mia». Pausa nel nastro: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei aggiungere che avevo scritto una lettera che aggiungo con questa registrazione e vorrei lasciata in pace in futuro. E non essere chiamata da nessuno». Le dichiarazioni rese alla magistratura vengono sconfessate da quel nastro: la testimone dice di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. La ‘ndrangheta? Non ne sa nulla, Maria Concetta vuole essere lasciata in pace. Il 20 agosto va in bagno e ingoia l’acido muriatico. Muore in ospedale. Istigazione al suicidio Viene aperta un’inchiesta per istigazione al suicidio. Laura Garavini del Pd solleva un’interrogazione parlamentare: perché la testimone è stata separata dai figli? Il Servizio di Protezione che opera per il ministero dell’Interno ne era a conoscenza? Dal Governo nessuna risposta. Pochi giorni dopo il suicidio, la fami-

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glia Cacciola presenta un esposto col quale accusa i magistrati di aver convinto la figlia a collaborare con false promesse. La madre di Maria Concetta scrive anche ad un giornale locale: «Al di là del mero dato parentale, né mio marito, né alcun componente del mio nucleo familiare ha mai condiviso vicissitudini giudiziarie ovvero sia pure semplici rapporti di frequentazione criminale con Gregorio Bellocco». “Violenza fisica e psicologica” Lo scorso 9 febbraio, all’alba, la famiglia Cacciola viene arrestata; secondo la procura di Palmi avrebbe portato la donna a suicidarsi “attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica”. Grazie alle dichiarazioni che la testimone fece alla Dda, lo stesso 9 febbraio, con l’operazione Califfo vengono messe in manette undici persone, probabilmente legate alla cosca Pesce. Ha vinto lo Stato? Maria Concetta ha scelto il coraggio, come Lea Garafolo, come Tita Buccafusca, come tante altre donne, come tante altre madri. È perdonabile la distrazione di uno Stato che affida i figli di una testimone di giustizia alla stessa famiglia da cui questa sta scappando? Maria Concetta è tornata da loro per proteggerli, poco dopo sceglie di far vedere il proprio cadavere a quegli stessi occhi per cui è tornata indietro. Questa volta quei tre ragazzini, la cui intera famiglia è in carcere, a chi verranno affidati?


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Testimoni di giustizia

Ma la responsabilità morale è anche nostra Tutta una società ha concorso alla morte di Maria Concetta. E di Rita. E di molte altre di Nadia Furnari Associaz. Antimafie “Rita Atria”

Partiamo dalla notizia: "Alle 19.00 di sabato 20 agosto, Maria Concetta Cacciola si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l'acido muriatico". Ad agosto la notizia arriva sotto l'ombrellone e al più, per i più informati e per quelli che hanno il vizio di leggere i giornali, è un evento drammatico sul quale esercitarsi in ipotesi, valutazioni, sentenze… Maria Concetta viene chiamata pentita, collaboratrice, donna di 'ndrangheta come a volere sminuire l'importanza di quella morte. Qualcuno dalla Calabria urla: è una Testimone! Ma l'Italia sotto l'ombrellone è troppo impegnata a gestire la quotidianità per soffermarsi su questi particolari e i giornalisti delle testate nazionali troppo affaticati per approfondire il "dettaglio": collaboratrice o testimone? Solo pochi si sono interrogati sulla donna Maria Concetta Cacciola, sulla sua vita, sul perché a quattordici anni si sposa un uomo che non si ama e si diventa madre da adolescente. La nostra associazione è intitolata a Rita Atria: anche Rita si è suicidata a soli di-

ciassette anni, perché uccidendo Paolo Borsellino le avevano ucciso la speranza. Anche Rita Atria come Maria Concetta era nata in un contesto mafioso, anche Rita Atria ha denunciato per avere il diritto di non farsi rubare i sogni e le speranze. Proviamo dunque a capovolgere la notizia, e a raccontare come una donna che nasce in un contesto culturalmente degradato, a soli trentun anni - con tre figli e un marito in galera - conclude la sua esistenza perché vede nella morte la sua liberazione. Sarebbe bello risalire la filiera delle responsabilità e non soffermarci solo su quei genitori che danno e tolgono la vita con una efferatezza che sembra avere poco a che fare con logiche umane.Lasciamo agli studiosi della materia approfondire l'argomento. Per il prete era normale? Maria Concetta si sposa a quattordici anni con un uomo della 'ndrangheta. Vero. L'ha sposata un prete? Immagino di sì. Per il prete era normale che una ragazzina di soli quattordici anni si sposasse? Maria Concetta era cittadina di Rosarno. Gli amministratori di questa cittadina hanno mai istituito un monitoraggio sociale per tutelare i minori? Assistenti sociali, medici, operatori sanitari, sacerdoti, suore, associazioni, etc. si sono mai accorti della violenza su Maria Concetta? Insomma, qualcuno ha mai sondato la felicità di Maria Concetta? Ma Maria Concetta è una che ha parenti 'ndranghetisti e che si è sposata pensando: "Sognavo un po' di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l'amo e tu lo sai" (così scriverà alla madre); Maria Concetta è una giovane donna che ha partorito il suo primo figlio a sedici anni… insomma perché occuparsi di un "essere inferiore"? Ormai è opinione comune che il valore della vita di una persona si misuri in base al colore, alla razza, alla famiglia di nasci-

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ta, a chi ti sposi e ad altri parametri "sociali" e "civili". Per noi, ad esempio, un uomo di colore che muore mentre cerca di raggiungere la speranza su un barcone scassato è una non notizia, una vita tra le tante. Per noi un uomo di colore che sgobba nei campi per 15 euro al giorno pagando anche i caporali è un "extracomunitario" e non uno schiavo. Quando arrestano il marito, Maria Concetta, rimane da sola e la sua vita di ventenne deve proseguire tra figli e visite in carcere per portare la sportina all'uomo che non ha mai amato. E mentre faceva tutto questo Maria Concetta viveva a Rosarno tra due morse: la famiglia aguzzina e la società civile a cui non poteva avere accesso perché comunque era pur sempre la moglie di uno 'ndranghetista e parente dei Bellocco. Insomma senza via di fuga. Maria Concetta l'anno scorso si innamora e capisce il significato di amore, ma la 'ndrangheta ha sistemi di intercettazione molto sofisticati e così qualcuno appartenente all' "onorata società" decide di andare dai genitori di Maria Concetta per svelare il tradimento. Le violenze e le vessazioni sono automatiche. Non immagina tanto male Ma Maria Concetta è giovane e vuole vivere e poi è innamorata e vede in quella caserma dei carabinieri non un nemico, come le avevano insegnato da quando era nata, ma la liberazione. Racconta Maria Concetta, dice quello che ha sentito, quello che ha visto, senza alcuna complicità se non quella di essere nata e vissuta in quel contesto (almeno così risulta dagli inquirenti), entra nel programma di protezione ma fa l'errore più grande: non porta i figli, scegliendo di lasciarli ai nonni, perché Maria Concetta non immagina che un padre e una madre possano fare del male ad una figlia o a dei nipoti.


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Ma quei figli le mancano, soprattutto nella solitudine di un programma di protezione, privo di qualsiasi incoraggiamento sociale, civile, politico e senza alcuna assistenza psicologica. Torna a Rosarno il 10 di agosto per riprenderseli, i figli, ma trova un comitato di accoglienza organizzato: avvocati, medici, consiglieri a vario titolo. L'obiettivo è quello di dimostrare che Maria Concetta ha agito sotto effetto di psicofarmaci e si è inventata tutto. Il silenzio sociale La memoria torna agli anni '90, a quando gli avvocati definivano Rita Atria una ragazzina dalla personalità instabile e la madre la ripudiava: meglio la morte che una figlia infame. Maria Concetta doveva ripartire per rientrare nel programma di protezione ma stava cercando di capire quale fosse il momento ideale per lasciare quella casa… purtroppo è passato troppo tempo e la 'ndrangheta con tutti i suoi collaboratori esterni e sicura del silenzio sociale, politico e amministrativo, ha torturato Maria Concetta fino ad indurla ad un gesto che non può che trovare le radici nella disperazione. Uccidersi con l'acido. “Un mondo di cose semplici” Quando abbiamo fondato l'associazione Rita Atria, nel lontano '94, qualcuno ci criticava perché non si intitola un'associazione alla figlia di un boss di mafia. Ma Rita in un suo tema aveva indicato la strada: "L'unico sistema per eliminare [la mafia] è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore".

"Andiamo tra i ragazzi che vivono tra la mafia...". Quando ha scritto queste parole Rita pensava a se stessa, al giudizio e al pregiudizio e diceva a tutti che ai figli dei mafiosi si nega la libertà di un "mondo fatto di cose semplici". “Salvare i figli dei mafiosi” Rita ci chiedeva di salvare i figli dei mafiosi la cui unica colpa è quella di nascere e crescere in un contesto senza alternative. In molti hanno puntato il dito denunciando l'inefficienza del Servizio Centrale di Protezione. Vero, potevano fare di più. Chi ci conosce sa perfettamente che da anni denunciamo la gestione del Servizio Centrale di Protezione; sa perfettamente che da anni diciamo che i Testimoni hanno bisogno di un tutor a supporto psicologico, perché quello che devono affrontare è troppo grande e la solitudine della località protetta non aiuta e ti fa cadere nella disperazione. Gli amministratori di quei paesi Oggi però, per onestà intellettuale, chiediamo a quei "molti" di puntare il dito innanzitutto contro gli amministratori di quei paesi, contro i politici di quella regione, contro assistenti sociali, medici, avvocati, chiesa e società connivente, che vedono e tacciono, perché ci si indigna (ma non più di tanto) solo se uccidono uno di "noi". La morte di Maria Concetta deve lasciarci l'amaro in bocca e deve indurci a chiederci se le nostre attività sono di vero contrasto alle mafie. A parole è tutto facile, ma vivere il territorio è altra cosa e spesso chi lotta e sta accanto a donne come Maria Concetta viene poco considerato, perché svolge un'attività sociale che non conquisterà mai gli onori della cronaca. Rita Atria oggi è considerata un esem-

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pio, ma se fosse in vita forse sarebbe una "infame" e la figlia e la sorella di un mafioso, ergo una donna di serie z. “Una donna di serie z” Parafrasando il pensiero di Sandro Marcucci (per la cui morte stiamo ancora chiedendo giustizia): finché il sangue dei figli degli altri varrà meno del sangue dei nostri figli, fin quando il dolore degli altri per la morte dei loro figli, varrà meno del nostro dolore per la morte dei nostri figli, fino a quando la vita di una donna che nasce non per scelta ma per destino in una famiglia mafiosa ma che porta dentro il senso della libertà, varrà meno della nostra vita, allora ci saranno altre Maria Concetta Cacciola, altre Rita Atria che penseranno che la morte sia fonte di libertà. Un riflettore dentro noi stressi E la responsabilità morale di quella morte sarà anche la nostra. Mettiamo un riflettore sulle terre di frontiera, mettiamo un riflettore su queste donne coraggiose che chiedono solo di vivere ed essere felici. Mettiamo un riflettore dentro noi stessi e cerchiamo di capire tutti che parte possiamo fare. Anche piccola. Ma fare e agire anche con la paura di sbagliare, senza pregiudizio, pensando che ogni donna, ogni bambino e ogni uomo debbano avere almeno una opportunità nella vita di ribellarsi al proprio destino. E noi abbiamo il dovere di aiutarli. A Rita Atria hanno negato anche il funerale e oggi risposa in pace a Partanna di Trapani. Sua madre e sua sorella, nell'indifferenza comune (amministrativa e sociale), non hanno ritenuto opportuno mettere neanche il nome sulla sua tomba. Maria Concetta Cacciola è stata seppellita dai suoi carnefici. A tutti noi il compito di fare Memoria.


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Come la mafia ha abolito le regioni

La 'ndrangheta e i suoi refusi al nord La relazione della DNA sfata diversi miti sulla mafia al nord. Che è una cosa seria, “moderna” e radicata, non sanguinario folklore

E allora ecco il perché del cappello obbligatorio a qualsiasi discorso o pezzo per riprendere le fila cominciando a smontare prima di avere il tempo e il terreno per montare un discorso che provi a guardare al presente e al futuro. La relazione annuale della DNA sul fenomeno della 'ndrangheta è un pennarello blu sugli errori da non ripetere, una bacchettata sulle dita. Soldi, radicamento e struttura

di Giulio Cavalli

Facciamo un patto. Ma facciamolo sul serio: decidiamo che non ci sia concesso di dimenticarci le parole già dette su mafie, cittadinanze e socialità giù al nord. Che non ci sia bisogno ogni volta di un ripasso generale prima di ricominciare, che non è opportuno avere bisogno ad ogni giro di un riassunto delle puntate precedenti. Non per cominciare a dire qualcosa di scontatoma perché almeno non isoliamo i professori (cioè, quelli che professano valore), gli studiosi (quelli che analizzano prima di avventurarsi nelle più disparate tesi) e i cittadini per vocazione (quelli che non sopravvivono, ma vivono a costo di farsi male per tutti gli spigoli che ci sono intorno). Ogni giorno che si sfoglia un giornale (o un sito o un blog: sono lo stesso affacciarsi su finestre diverse della stessa stanza) c'è un abbondanza di ridondandismi (non esiste ma rende bene l'idea) che distolgono dal punto e banalizzano per vanificare: le "infiltrazioni che stanno arrivando al Nord", gli imprenditori che "finiscono per essere vittime senza accorgersene" o i politici "che non sapevano".

Il quadro investigativo e processuale complessivamente considerato evidenzia inequivocabilmente che la ‘ndrangheta è caratterizzata non solo da una illimitata disponibilità finanziaria (derivante principalmente dal traffico di stupefacenti e dai lucrosi investimenti immobiliari e di imprese già rilevati ed evidenziati nella precedente relazione, ma anche da una allarmante e provata diffusione territoriale che non conosce confini; le indagini dispiegate negli ultimi anni denunciano una “presenza massiccia” nel territorio che non trova riscontro (rectius: possibilità di comparazione) nelle altre organizzazioni mafiose. L’organizzazione si avvale di migliaia di affiliati che costituiscono presenze militari diffuse e capillari e al contempo strumento di acquisizione di consenso, radicamento e controllo sociale. Quindi basta con le ipotesi di brigantaggio evoluto. Per favore, basta con le proiezioni di qualche rurale malfattore. A Milano dalla Chiesa, Barbacetto, Portanova e tanti altri lo dicono da qualche decennio. Diamolo come concetto digerito. Qui, lì, dappertutto Le indagini dell’operazione Crimine 1 e Crimine 2 consentono di radicare, altresì, il fermo convincimento che il processo di internazionalizzazione dell’organizzazione in parola è vieppiù progressivamente avanzato: alla presenza in terra stra-

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niera di immigrati calabresi “fedeli alla casa madre” ed operativi (sul piano degli investimenti e del riciclaggio di profitti illeciti) si è aggiunta una strutturale presenza (militare e strategica) di soggetti affiliati a “locali” formati ed operanti stabilmente in terra straniera che, fermo restando il doveroso ossequio alla “casa madre”, agiscono autonomamente secondo i modelli propri dei locali calabresi autoctoni. Il disvelamento di organizzati locali in Germania, Svizzera, Canada ed Australia (si vedano gli arresti colà eseguiti in esecuzione delle ordinanze Crimine) conclama vieppiù detto processo di progressiva globalizzazione della ‘ndrangheta che, da fenomeno disconosciuto (o, per meglio dire sottovalutato), può oggi essere considerata una vera e propria “holding mondiale del crimine”. Siffatti mutamenti ontologici dell’organizzazione in esame sono stati, indubbiamente, favoriti ed accelerati dalla “nuova generazione” di ndranghetisti che, pur conservando il formale rispetto per le arcaiche regole di affiliazione, oggi non sono solo in grado di interloquire con altre ed altre categorie sociali, ma anche di mettere a frutto le loro conoscenze informatiche, finanziarie e gli studi intrapresi. Basta con il federalismo antimafia. Le regioni non esistono più sullo scacchiere delle 'ndrine. E' un federazione di luoghi oliata e perfetta. Il provincialismo (che è enormemente diverso dall'attenzione per i territori) antimafioso è un condono morale che lasciamo ai barbari sognanti. Politica mafiosa, mafia politica E’ bene, quindi, rilevare ed evidenziare che gli allarmanti (rectius: inquietanti) rapporti intrattenuti con rappresentanti delle istituzioni, con politici di alto rango, con imprenditori di rilevanza nazionale (disvelati da numerose indagini dispiegate in varie regioni nel corso del periodo


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in esame) non sono soltanto frutto esclusivo del clima di intimidazione e della forza intrinseca del consorzio associativo, bensì il risultato di una progettualità strategica di espansione e di occupazione economico-territoriale, che, oramai, si svolge su un piano assolutamente paritario; rapporti con istituzioni ed imprese volto ad intercettare flussi di denaro pubblico, opportunità di profitti e, contestualmente, ad innestare nel libero mercato fattori esterni devianti (di nitida derivazione criminale e d'inquinamento economico), ma tendenti verso una nuova fase di legittimazione imprenditoriale e sociale idonea a conferire un grado di “mimetismo imprenditoriale” e ciò allo scopo di eludere le indagini patrimoniali ed assicurare, nel tempo, stabilità economica alle attività imprenditoriali. Detto fenomeno è ancor più evidente nel nord ove la ‘ndrangheta opera in sinergia con imprese autoctone o, in talune occasioni, dietro lo schermo di esse. Nuova generazione di criminali Esiste, a ben vedere, una nuova generazione di criminali calabresi che “si muovono a una velocità diversa rispetto alla tradizione dei giuramenti, dei riti e delle formule di affiliazione”. L’intensa e straordinaria attività di indagine dispiegata dalla DDA di Reggio Calabria, Catanzaro, Milano, Roma e Torino ha, vieppiù, evidenziato le “due nature” della ‘ndrangheta: l’una, quella militare, volta all’acquisizione di poteri di controllo territoriale e sociale e, l’altra legata in modo indissolubile alla prima, la ‘ndrangheta “politica” ed imprenditrice che intesse rapporti con uomini politici, favorisce ed agevola in modo interessato, “cariche politiche” ovvero instaura rapporti economici con realtà imprenditoriali esistenti sul territorio al fine di fagocitarle e/o inglobarle. Ndrangheta, politica e imprenditoria

non si incrociano per caso e non sono vittime una dell'altra: convergono (c'è un bel libro di Nando dalla Chiesa che si intitola, indovina un po', “La Convergenza”). Milano capitale della 'ndrangheta Lo diceva già Vincenzo Macrì, sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia e lo ripete l'ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia: I dati di un recente studio del Centro di ricerca della Università Cattolica individuano nella città di Milano la “capitale economica del crimine organizzato”, la città ove operano “i manager delle cosche”: il numero di beni immobili e mobili confiscati nonché di imprese mafiose operanti in vari settori (appalti pubblici, edilizia, movimento terra, turistico-alberghiero e ristorazione) in Lombardia conclamano l’importanza della regione quale luogo eletto di reinvestimento di profitti illeciti delle organizzazioni criminali italiane ed il ruolo assolutamente egemone della ‘ndrangheta. Chi nega o non ne vuole parlare è ignorante e cretino. L'antimafia si fa ovunque Dice la Relazione della DNA che il grado di attenzione ed informazione sull’evoluzione del fenomeno ‘ndrangheta, sulla pericolosità di essa, sulla sua potenza economica nonché sulla pervasiva presenza su tutto il territorio nazionale ha raggiunto, nel periodo in esame, livelli insperati e comunque idonei a rendere partecipe l’opinione pubblica della gravità sociale ed economica dell’agire criminale dell’organizzazione. Orbene siffatto mutamento di rotta informativa non è da ricondurre soltanto all’eclatanza dei gesti intimidatori commessi in danno di magistrati, professionisti, giornalisti (di cui si è detto sopra), ma anche, e soprattutto, a due diversi fatto-

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ri: da un lato l’intensità del contrasto ed i “successi investigativi” e processuali che hanno dato corpo ad una palpabile presenza dello Stato e delle sue Istituzioni e, dall’altro lato, ad una “sorta di risveglio della coscienza civile”, ossia una marcata e consapevole presa di posizione civica che lascia intravedere l’inizio di una strenua lotta culturale ed etica volta al riscatto ed alla progressiva emarginazione del “cancro sociale” che ha attanagliato da decenni la Calabria. Non solo i magistrati Le numerose manifestazioni di solidarietà a Magistrati ed alle instancabili Forze di Polizia, le iniziative culturali, i dibattiti di cui la stampa nazionale ha dato contezza e rilievo fanno intravedere la concreta possibilità di una presa di coscienza collettiva che fa ben sperare per il futuro e, comunque, fanno intravedere un percorso di contrasto più articolato che si congiunge con quello tracciato dalla Magistratura che non può essere delegata in modo esclusivo. Ognuno fa la sua parte. Ognuno gioca il proprio ruolo senza timidezze e fanatismi. Gli errori in rosso Queste le righe in blu e gli errori in rosso che ci vengono riconsegnati. Così almeno con più memoria si scrivono i prossimi capitoli. Non tanto perché sia un "compito in classe", almeno per non perdere troppo tempo a smentire le bugie e perché la 'ndrangheta su al nord è già più nazionalpopolare nell'instillare la distrazione di un comizio leghista ben detto, ma se si rimane fermi sulla grammatica della memoria viene tutto più semplice. E perché come dice Piercamillo Davigo "è l'oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni".


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Milano

L'Expo è ferma ma gli appalti no A che punto è il più grande evento imprenditoriale (e politico) di Milano? Quali interessi si muovono, quali sono in attesa? L'eredità Moratti pesa ancora sulla città. Ma la nuova classe dirigente potrebbe correre di più di Paolo Fior

“Il tempo gioca a nostro sfavore e i ritardi finora accumulati rischiano di trasformarsi in un formidabile cavallo di Troia nelle mani delle organizzazioni criminali”. Lo scrive la Direzione nazionale antimafia nella Relazione 2011 presentata al Parlamento poche settimane fa. In quelle pagine si rilancia l’allarme su Expo 2015: “V’è il timore che l’approssimarsi delle scadenze imposte dal Bureau di Expo 2015 possano imporre soluzioni accelerate e protocolli d’urgenza che potrebbero vanificare ogni possibilità di contrasto alle infiltrazioni criminali”.

Ecco, se vogliamo fare il punto su ciò che sta accadendo a Milano dobbiamo necessariamente partire da qui, dai ritardi, e dalla fotografia per nulla tranquillizzante scattata dai magistrati della Dna, secondo cui non si registrano novità di rilievo sul fronte delle infiltrazioni “per effetto di una sostanziale paralisi delle attività progettuali e realizzative”. In altre parole, l’Expo è ancora ferma ma la torta degli appalti è sempre lì e fa gola a molti. Anche se il progetto ha perso molti pezzi rispetto alla versione originale con cui Milano ha ottenuto nel 2008 l’assegnazione dell’Esposizione universale dal Bie (Bureau international des Exposition), stiamo pur sempre parlando di oltre 13 miliardi di investimenti diretti e indiretti che potrebbero generare un beneficio economico per il territorio superiore ai 34 miliardi di euro con una creazione di circa 70mila nuovi posti di lavoro nell’arco di 5 anni. Queste almeno le stime attuali di Assolombarda, l’associazione degli industriali che fa capo a Confindustria. Discontinuità col passato Per sgomberare il campo da possibili equivoci, va detto subito che la nuova amministrazione comunale guidata da Giuliano Pisapia ha ereditato i ritardi accumulati dal centrodestra che fino allo scorso anno aveva tutte le leve del potere in mano (governo nazionale, regionale, provinciale e cittadino) e che è riuscito a

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perdere oltre due anni in lotte al coltello per le poltrone senza fare nessun concreto passo in avanti su Expo. E va detto anche che la nuova amministrazione di Milano è riuscita finalmente a dare un forte segnale di discontinuità rispetto al passato con l’istituzione della Commissione antimafia cittadina, la cui nascita era stata apertamente osteggiata dal prefetto Gian Valerio Lombardi (lo stesso che nel gennaio 2010 aveva detto alla Commissione nazionale antimafia che “a Milano e in Lombardia la mafia non esiste”) e bloccata dal precedente sindaco Letizia Moratti e dalla sua maggioranza. Il “Protocollo di legalità” Detto questo, però, i problemi restano tutti sul tappeto. Di recente è stato finalmente siglato in prefettura il “Protocollo di legalità” che contiene le linee guida fissate dal Viminale per prevenire le infiltrazioni mafiose in vista dei lavori per Expo e che prevede l’accentramento in Prefettura del rilascio di tutte le certificazioni antimafia per le aziende, anche se domiciliate fuori dalla Lombardia. Tra i punti qualificanti dell’intesa, l’istituzione di una “white list” di imprese a cui i vincitori degli appalti potranno affidarsi con assoluta tranquillità. Si tratta infatti di aziende che si aprono ai controlli antimafia dentro e fuori i cantieri in modo molto più approfondito di quello previsto dalla legge e per questo vengono incluse in uno speciale elenco.


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Il protocollo accende un faro specifico sui subappalti, sul reclutamento della manodopera per prevenire il lavoro nero e sulla tracciabilità dei flussi finanziari. E’ la premessa indispensabile per dare il via alle gare d’appalto che avrebbero dovuto svolgersi già più di un anno fa e che – di rinvio in rinvio – non sono ancora partite. E se la cittadella espositiva è in clamoroso ritardo, che dire delle infrastrutture principali che avrebbero dovuto essere pronte per il 2015? Le opere accantonate Diverse opere sono state accantonate, come la Linea 6 della metropolitana, altre rischiano di restare solo sulla carta e altre ancora – crisi finanziaria permettendo – saranno pronte solo dopo l’Expo. Lo si legge chiaramente nel Rapporto annuale dell’Osservatorio territoriale infrastrutture che fa i conti in tasca ai cantieri. Per il collegamento ferroviario diretto tra l’aeroporto di Malpensa e il polo espositivo si prevede la costruzione di un terzo binario per 25 chilometri e la risistemazione del nodo ferroviario di Rho. Mancano però all’appello 220 milioni, mentre altri 140 milioni (che non ci sono) servirebbero a collegare su rotaia i due terminal aeroportuali. La Linea 4 del metrò Se tutto andrà bene, per il 2015 della Linea 4 della metropolitana, quella che dovrebbe collegare l’aeroporto di Linate al centro, saranno pronte solo tre ferma-

te, mentre per il potenziamento delle altre linee mancano del tutto i fondi: per la linea Verde ci sono 6 milioni su 477; per la linea Gialla, 9 su 750. Stiamo parlando di infrastrutture necessarie non solo per l’Expo, ma per una metropoli moderna che dovrebbe investire sempre più sul trasporto collettivo e sull’efficienza dei collegamenti. Metropoli che, se tutto andrà bene, dall’Expo dovrebbe guadagnare almeno la riqualificazione della Darsena (l’antico porto milanese), il ripristino di alcune vie d’acqua e una pista ciclabile di 21 chilometri che dai navigli porterà fino a Rho per un investimento complessivo di 17 milioni di euro. Tra le opere più controverse ci sono poi le nuove strade e autostrade. Sono opere indipendenti dall’Esposizione, ma per le quali l’evento avrebbe dovuto fungere da traino. E su queste infrastrutture su cui si concentrano forti interessi economici occorrerebbe di certo una maggior vigilanza. La Milano-Brescia Per il 2015 potrebbe essere pronta solo la cosiddetta Brebemi, ossia la MilanoBrescia, a patto che vengano dissequestrati i cantieri bloccati a fine novembre in seguito all’arresto di una decina di persone tra cui il vicepresidente della regione Lombardia, Franco Nicoli Cristiani, nell’ambito di un’inchiesta su corruzione e traffico illecito di rifiuti: i cantieri sarebbero stati utilizzati per smaltire il-

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legalmente rifiuti tossici, tra cui amianto, come sottofondo del manto stradale. Quanto alla Tangenziale Est Esterna e alla Pedemontana, non ci sono i tempi e, soprattutto, i fondi. Colpa certo della crisi economica che ha colpito duro l’intero progetto dell’Esposizione universale: dall’Orto planetario che avrebbe dovuto superare la vecchia formula dei padiglioni tradizionali, si è arrivati a una sorta di “Fiera campionaria” in grande: l’idea di un’Expo basata sull’agricoltura e sulla sostenibilità declinava benissimo il tema dell’esposizione (“Nutrire il pianeta, energia per la vita”), ma non sposava a sufficienza le ragioni commerciali. La “cittadella digitale” Di qui la decisione di ripiegare su una più ragionevole “cittadella digitale” che verrà realizzata su quel milione di metri quadrati acquistati a caro prezzo dalla società mista Regione-Comune: 200 milioni di euro, di cui poco meno di 50 sono andati ai privati e il grosso è stato pagato alla Fondazione Fiera che essendo proprietaria di buona parte di quell’area agricola ed essendo anche membro del comitato promotore di Expo ha provveduto fin dal 2008 a rivalutare i terreni nel suo bilancio. Una scelta che non ha mancato di sollevare un vespaio di polemiche. Fin qui la storia. Ma di ritardo in ritardo, di taglio in taglio, cosa ne sarà di Expo? Il rischio non è tanto quello di un flop o dell’ennesima occasione sprecata,


Mafie al nord

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Bologna del riciclo A Bologna non si spara ma si ricicla tanto anche se per molti, ancora, la mafia è un problema degli altri. Niente “coppola e lupara” ma tanti soldi, una barca di soldi da “pulire” e da investire. Pochi ne parlano, ma mafia qui è arrivata ormai da cinquant’anni, con la legge sul soggiorno obbligato. Giusto nelle settimane scorse il presidente di Confindustria Emilia Romagna, Gaetano Maccaferri, aveva parlato di una situazione regionale assolutamente sotto controllo e “sana”. "Non abbiamo di questi problemi. Le infiltrazioni mafiose o il pericolo mafia non sono all'ordine del giorno. E non ci sono mai state, finora, perché non abbiamo mai avuto di questi problemi". La verità è che le attività svolte dalle mafie a Bologna sono le stesse di quelle svolte a Palermo, Napoli o Reggio Calabria. Attività evolute nel tempo, adattate alla realtà sociale, fonte di ingenti guadagni. Dal traffico di armi alla droga, gli appalti, le bische, il giro della prostituzione, il “pizzo” che qui a Bologna si chiama “imposizione dei propri prodotti”. E vogliamo parlare del fenomeno dei “compro oro”, proliferati come i funghi? Sono più di quaranta. Abbiamo assistito alla chiusura di ristoranti e pizzerie, di negozi in pieno centro, addirittura nella scorsa primavera sono stati messi i sigilli antimafia alla famosa pizzeria “Regina Margherita”, sottoposta a sequestro preventivo su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Ventidue tra aziende e beni immobili confiscati, latitanti arrestati, ‘ndranghetisti, casalesi, Cosa nostra e mafie straniere. Ma a Bologna si parla ancora di “infiltrazione” e non di radicamento. In questo quadro generale il Comune lavora ad un osservatorio per la legalità e ci si appresta all’apertura di una sezione della Direzione Investigativa Antimafia. Durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario il Pg di Bologna Ledonne ha lanciato l’allarme: “La criminalità organizzata in Emilia Romagna continua a far affari e vive una delle situazioni ideali: la pax mafiosa”.

Salvo Ognibene

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ma soprattutto quello che i due commissari Roberto Formigoni e Giuliano Pisapia, accampando ragioni d’urgenza, inizino a derogare dalle normative com’è loro potere. E’ già accaduto con la decisione di esentare dalla Valutazione di impatto ambientale (Via) uno dei progetti più invasivi: la deviazione e la parziale copertura del torrente Guisa che attraversa l’area espositiva. Potrebbe accadere su altri, ancor più delicati fronti. Cementificazione selvaggia E’ proprio questo il rischio paventato dalla Direzione nazionale antimafia e anche da associazioni come Legambiente e Wwf che temono come l’Expo, perdendo la sua connotazione originaria caratterizzata da scelte a “impatto zero”, trasparenza e sostenibilità, finisca con il lasciare in eredità scempi ambientali e cementificazione selvaggia. Come dargli torto, visto che ancora non si sa nulla circa la destinazione post 2015 dell’area espositiva e che al momento l’unica certezza è che, grazie a Formigoni, con la scusa dell’Expo si

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darà mano libera alla speculazione selvaggia su Milano e sulla Lombardia. Il testo del piano casa lombardo che sta per essere approvato dalla commissione regionale, infatti, sancisce un vero e proprio far west: gli alberghi potranno essere ampliati quasi a piacimento, le volumetrie dei capannoni industriali potranno essere aumentate di un 10% anche in deroga alle normative urbanistiche, mentre potranno essere cedute o trasferite volumetrie su aree sia pubbliche sia private senza il consenso dei Comuni. La lobby dei costruttori Oltre al recupero dei sottotetti trasformabili in abitazioni, il piano prevede anche la possibilità di abbattere un edificio e ricostruirlo più alto del 30%. L’unica speranza è che la bozza venga pesantemente emendata, ma la lobby dei costruttori è molto potente sia in Regione sia a Milano, come dimostra la controversa nomina del presidente dei costruttori, Claudio De Albertis, alla presidenza della Triennale, una delle più prestigiose istituzioni culturali milanesi.


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Società civile

La meglio gioventù Storie dalla Milano che studia Non si può dire che la vecchia generazione di professionisti e studiosi abbia assolto al suo dovere di proteggere dall'assalto mafioso il Paese, specialmente al Nord. Perciò toccherà ai giovani. Ce la faranno? di Martina Mazzeo www.stampoantimafioso.it

Metti una sera in una Facoltà dell’Università Statale di Milano. Metti una motivazione a sfidare la temperatura sotto zero, un freddo che fa tremare, di quelle che promettono di rinvigorire più del vin brulè in piazza. Prendi il tutto e ottieni “La Meglio Gioventù”. Sotto gli auspici e l’entusiasmo del Preside, il Prof. Daniele Checchi, orgoglioso che la Facoltà sia tornata ad essere un “luogo di coscienza civile”, Scienze Politiche apre le porte – o meglio, eccezionalmente le tiene aperte – per un evento promosso e organizzato dal professor Nando dalla Chiesa e dal Dipartimento di Studi Sociali e Politici.

“La Meglio Gioventù” significa premiare le migliori tesi di Sociologia della criminalità organizzata prodotte nelle sessioni di laurea del 2011. Quarantuno lavori di ricerca, quarantuno volti, quarantuno storie di caffè nero la notte e grattacapi senza tregua. La Sala Lauree gremita è lì per applaudire i risultati di quei quarantuno “studenti e studiosi” che con il loro impegno si fanno ogni giorno “promotori attivi di consapevolezza”, portando la loro determinazione scientifica e civile nelle loro realtà locali e dandosi pervicacemente da fare per organizzare eventi pubblici in cui denunciare il radicamento mafioso nei loro territori. Quarantuno “studenti e studiosi” “Alcuni diventano esperti e la qualità delle loro conoscenze gira l’Italia”, assicura dalla Chiesa, che di tutte queste storie è motivatore e di tutte queste tesi relatore. L’evento di ieri sera celebra, di riflesso, la ritrovata sinergia tra università e società civile, ne svela il riscoperto dialogo, ne esalta la vitalità rimasta per anni latente. E le nove tesi presentate delle quarantuno premiate (con libri messi a disposizione dalle case editrici Melampo e Chiare Lettere) testimoniano esattamente questo: guai a parlare degli studenti come di spugne acritiche e inconcludenti. E basta parlare dell’università come fosse l’anticamera della disoccupazione. Investire energie nei propri studi e investire i propri studi nel sociale e nell’impegno civile a partire dal proprio territorio paga. Laureati a pieni voti “Con la cultura non si mangia”, diceva un tale. Non ci si abbuffa come certi pa-

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rassiti statali, questo è sicuro, ma altrettanto certo è che può garantire un guadagno dignitoso – molte delle quarantuno tesi si tradurranno in progetti editoriali per riviste del settore, non solo italiane – oltre che una vita ricca di quel bene prezioso che si chiama soddisfazione. E chi ha assistito alla presentazione dei lavori di ricerca non ha visto altro che soddisfazione sui volti di quegli studenti, tutti laureati in corso a pieni voti e in gran parte lavoratori part o full time. Ragionevolmente il senatore Antonino Caruso, membro milanese della Commissione Parlamentare Antimafia, si dice “impressionato dalle illustrazioni appassionate”. E ha tutti i motivi anche Basilio Rizzo, Presidente del Consiglio Comunale di Milano, per definire “fondamentale il ruolo del sapere” tanto da auspicare un costruttivo “rapporto tra studenti e amministrazione” comunale. Quel sapere che ha il colore della “assunzione di responsabilità”. “Siete voi che insegnate” “Siete voi che insegnate delle cose a noi”. I soliti occhi chiusi di don Luigi Ciotti che parlano. E denunciano che “l’ultimo codice antimafia è fitto di tranelli e contraddizioni” che ostacolano la vera lotta contro la mafia. La vera lotta per l’alternativa, che ieri sera portava i nomi di quarantuno studenti e studentesse, “persone innamorate della vita e lontane dai compromessi”, persone “disposte a crederci” ogni giorno nel valore di quella “ricerca e cultura che arricchisce tutti noi”. E allora evviva tutti loro. Evviva questa Milano che studia.


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accadrà ieri

......

Si dimette in tv Il poliziotto IL PREMIER DELLA ROMANIA

SI RIBELLA

Il 6 febbraio si dimette in diretta tv il premier romeno Emil Boc. Sono state decisive le proteste che da metà gennaio hanno coinvolto migliaia di cittadini, scesi in piazza contro il piano di austerità e di privatizzazioni deciso dal governo. Le manifestazioni hanno coinvolto più di 40 città e provocato decine di feriti.

Intanto alle Maldive il presidente Mohamed Nasheed si dimette dopo che le forze di polizia hanno occupato la televisione di stato chiedendo alla popolazione di ribellarsi. Al suo posto subentra il vicepresidente Mohammed Waheed Hassan. Il portavoce del ministero del turismo informa che gli stranieri in vacanza alle Maldive non verranno coinvolti in alcun modo dalla crisi politica in corso.

Governo-bomba SIRIA: 50 CIVILI UCCISI

Nello stesso giorno in Siria le truppe governative bombardano la città di Homs, considerata la roccaforte dei ribelli al regime di Bashar al-Assad. Sono 50 i civili uccisi. Molti altri moriranno nei bombardamenti dei giorni successivi.

Anonymus CONTRO IL TIRANNO

Il 7 febbraio il gruppo hacker Anonymous rende pubbliche le email tra il presidente siriano Bashar al-Assad e il suo staff. Viene anche svelata la password di molti account governativi, tra cui quello del ministro degli affari presidenziali e quello dell’ufficio stampa di Assad. La sequenza è banale: 12345.

Anonymous CHIEDE IL PIZZO

Qualche giorno dopo un gruppo di hacker indiani, che sostengono di essere affiliati ad Anonymous, fa sapere di aver rubato il codice sorgente di due programmi di Symantec, noto produttore di antivirus. Gli hacker pubblicano le email di Symantec, in cui l’azienda si dice disposta a pagare 50.000 dollari in cambio dei codici.

Il demos

PERDE LA PAZIENZA Il 10 febbraio il governo greco approva il pacchetto di misure di austerità richieste dall’Unione Europea, dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca centrale europea in cambio del nuovo piano di salvataggio. Due giorni dopo il parlamento darà il suo voto favorevole, mentre in piazza decine di migliaia di persone manifesteranno la loro rabbia scontrandosi con la polizia.

Vietato uccidere I LAVORATORI

Lunedì 13 arriva a Torino la sentenza del processo Eternit: l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny e il belga Louis De Cartier De Marchienne vengono riconosciuti colpevoli di disastro doloso e omissione dolosa di misure antinfortunistiche, e condannati a 16 anni di reclusione. La condanna riguarda i reati commessi negli stabilimenti piemontesi di Casale e Cavagnolo dall’agosto 1999 in avanti, mentre quelli

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REWIND

a cura di Francesco Feola

precedenti - contestati negli stabilimenti di Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia) - risultano prescritti. Lunghissimo l’elenco dei risarcimenti: si è calcolato che fino al 5 ottobre del 2011 siano state 1830 le persone decedute a causa dei danni provocati dalla lavorazione dell’amianto.

I danni

DELLA MONSANTO Nelle stesse ore a Lione un giudice condanna la Monsanto, la multinazionale statunitense che produce pesticidi e altri prodotti agricoli, ritenendola responsabile dei danni neurologici subiti da un contadino francese, ammalatosi per aver usato il diserbante Lasso. È la prima volta che una multinazionale viene condannata per i danni provocati dai propri prodotti, ma si calcola che nella sola Francia, dal 1986 a oggi, vi siano 200 casi sospetti all’anno.


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FORWARD

. . . . accadde domani

Primo marzo

FESTA DI (TUTTI) I LAVORATORI Anche quest’anno il primo marzo i lavoratori immigrati sciopereranno insieme ai lavoratori italiani per chiedere l’abrogazione della legge Bossi-Fini, la chiusura dei Cie, la cittadinanza immediata per i bambini nati in Italia da genitori stranieri, la regolarizzazione generale di tutti coloro che non hanno il permesso di soggiorno.

Fiom

DIFENDE LO STATUTO Il 9 marzo sciopereranno invece i metalmeccanici della Fiom per difendere l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e protestare contro gli accordi separati della Fiat, che hanno cancellato nel gruppo il contratto nazionale metalmeccanici.

Firenze

NO-TAV DI TUTTA EUROPA Il 3 e 4 marzo a Firenze il Comitato contro il sottoattraversamento Tav di Firenze organizza, presso il Saloncino del Dopolavoro ferroviario di via Alamanni 6, un convegno sulle grandi opere pubbliche. L’obiettivo è quello di collegare i movimenti che in tutta Europa si oppongono alla realizzazione di grandi infrastrutture, che distruggono i territori senza produrre crescita. info: notavfirenze@gmail.com, http://notavfirenze.blogspot.com

Marsiglia FORUM MONDIALE DELL'ACQUA Dal 14 al 17 marzo a Marsiglia si terrà il Forum alternativo mondiale dell’acqua, che vedrà la partecipazione di tutti quei movimenti della società civile che lottano per sottrarre alle imprese private la gestione dell’acqua. Finora hanno dato la loro adesione 118 associazioni di 40 paesi diversi. info: http://www.fame2012.org/it/

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Padova

LO SCHERMO PRIGIONIERO Si terrà a Padova, dal 23 febbraio al 22 marzo, la rassegna cinematografica “Jafar Panahi, lo schermo prigioniero”, dedicata al regista iraniano condannato a sei anni di carcere e al divieto di dirigere film per 20 anni per aver preso parte alle manifestazioni di protesta contro il regime di Ahmadinejad nel marzo del 2010. Saranno proiettati cinque suoi lavori, dal film d’esordio, Il palloncino bianco, al recente Offside. info: www.cinemainvisibile.info


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L'antico liberty catanese

La città va a fondo e il relitto eccolo qua Nel centro di Catania sorge un relitto. Non è la Costa Concordia, ma è l'emblema di un naufragio equivalente. E' l'antica nobile Villa Bonaiuto, vandalizzata dalle ruspe e abbandonata al degrado in piena vista della città di Max Vacirca Catania com’era e com’è. Esattamente uguale a se stessa. La continuità del degrado urbanistico eccola lì materializzata e immobile da trent’anni, nel bel centro di corso Italia. E’ come se la Costa Concordia, da qui al 2042, fosse lasciata a dar mostra ddi sé con la pancia coricata davanti al porto del Giglio. Ma qui parliamo del naufragio di un elegante palazzo. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, gli anni in cui il giornalista Giuseppe Fava veniva ucciso in una traversa dello stesso viale due chilometri più su, maturava questo piccolo, simbolico delitto urbanistico nel cuore borghese della città. Nel silenzio collettivo più assoluto. Che perdura, assordante, finoggi. Come molti dei delitti compiuti tra queste strade. Un monumento al degrado Protagonista della storia è Villa Bonaiuto, diventata un monumento vivente del degrado estetico della città. Non si può non vederla, sventrata e impudica; mostra le sue ferite senza vergogna.

Ma nessuno sembra vederla più. Fa parte del panorama così com’è, per metà sbriciolata. La sua storia racconta l’abbrutimento di una collettività più di un intero quartiere abusivo, proprio perché quel moncherino di un antico palazzetto liberty fa spudoratamente mostra di sé in pieno centro storico, su uno dei viali dove la gente passeggia e fa shopping. Distratta e rassegnata a convivere anche con quel moncherino di città. L’edificio storico in questione sanguina per l’aggressione a colpi di ruspe che ha subito tre decenni or sono e sanguina perché nessuna autorità ha mai fatto nulla per evitare e poi coprire la vergogna di quella ferita. Sembra un paziente capitato nell’ospedale sbagliato, sotto i ferri di un chirurgo senza capacità e coscienza. Gli hanno amputato un braccio senza ragione e poi lo hanno lasciato lì, a marcire in corsia, senza neanche suturare il moncherino. Una storia di ordinaria mala-urbanistica, tra vizi privati e pubbliche distrazioni. Catene di ferro tengono in piedi quel

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relitto di villa Bonaiuto, ma la ruggine e alcuni rampicanti su quell’imbracatura metallica rendono ancora più grottesca la visione. La gente passa accanto a quella villa amputata, la guarda sbriciolata a metà, osserva gli interni di quello che fu un salotto borghese e commisera l’intera città. Come se fosse un monumento ai caduti della civiltà urbana. Architettura liberty E invece no. Questo non è un monumento commemorativo. Villa Bonaiuto è, anzi era, un pregevole esempio di architettura liberty. A Palermo e a Catania gli anni Venti e Trenta del secolo scorso furono una stagione artistica importante, grazie a una generazione di architetti con la testa e la passione rivolti a modelli europei. La villa era stata costruita nel 1934, dall’architetto Paolo Lanzirotti. In base a una legge sulla tutela del patrimonio urbanistico è vietato abbattere edifici di pregio storico-artistico costruiti da più di cinquant’anni.


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“Senza pudore. Senza passato né futuro”

I proprietari della villa e un’impresa locale avevano agito per tempo, ben prima della scadenza che avrebbe impedito lo scempio: nel 1977 avevano chiesto al Comune l’autorizzazione a demolirla, per edificare al suo posto un palazzone simile a quelli che circondano villa Bonaiuto, unica sopravvissuta agli anni della speculazione selvaggia degli anni Sessanta. La giunta presieduta dal sindaco Salvatore Coco – la stessa dello scandalo della refezione scolastica che fu la prima (e ante litteram) amministrazione comunale italiana a finire dentro un processo per Tangentopoli – aveva concesso l’autorizzazione. ma quei lavori non avevano il nulla osta della Sovrintendenza, contraria alla demolizione e dunque subito pronta a mettere un vincolo e a fare un primo ricorso alla giustizia amministrativa. Sei anni dopo e passata molta carta bollata, nel 1983, il Tar dà torto alla Sovrintendenza e ragione ai privati che ripresentano una nuova istanza: visto che non era ancora passato mezzo secolo, ma “solo” 49 anni – questo il senso di quella sentenza che accolse il ricorso dell’impresa edile – la villa si può demolire. I tempi della giustizia amministrativa – si sa – sono lunghi e nel frattempo corrono i mesi, siamo al 1984, l’anno dell’as-

sassinio Fava, l’anno in cui scade il mezzo secolo ed entra in vigore il divieto di demolire, ma nessuno sospende l’intervento delle ruspe. La Sovrintendenza insiste e – non avendolo fatto per i decenni precedenti mette un nuovo vincolo paesaggistico, considerando la villa parte del patrimonio di verde privato vincolato. Nuovo ricorso di proprietari e impresa e, nel maggio 1985, nuova bocciatura del consiglio di giustizia amministrativa, l’appello della giustizia amministrativa. Entrano in azione le ruspe La mattina del 5 giugno 1985 entrano in azione le ruspe. Non autorizzate allo scempio, abbattono un quarto di villa e un patio interno. Ma riescono a fare il lavoro solo a metà. Quel giorno, nella vicina caserma del comando provinciale dei carabinieri, le autorità locali celebravano il rito del 171° anniversario della fondazione dell’Arma. Un fotografo, arrivato in caserma per fare qualche scatto sulla cerimonia, racconta a un amico quanto aveva visto poco prima a meno di un chilometro sullo stesso viale, giù verso il mare: «Le ruspe si stanno mangiando

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Villa Bonaiuto». Un giovane “pretore d’assalto” dell’epoca, Renato Papa, presente alla cerimonia in onore dei carabinieri, ascolta quella conversazione e corre di persona a dare un’occhiata. Poi, torna in ufficio e interviene. Ordina sigilli e fine della demolizione. Ma è tardi, la violenza è consumata, la villa deturpata per sempre, destinata a restare lì per i decenni successivi. Deturpata e abbandonata. Quando i vigili arrivano con in mano l’ordinanza di stop alle ruspe, un quarto di villa è già demolito. Solo negli anni successivi, la Regione interverrà e porrà vincoli. Solo davanti al relitto di quel monumento liberty a Catania le autorità porranno vincoli e faranno piani urbanistici per tutelarla. Ma la tutela, da trenta e più anni, riguarda uno scempio avvenuto. La villa smozzicata sta lì, congelata nella sua distruzione. La villa Bonaiuto mostra al mondo circostante quanto sia inutile, qui, pensare alla tutela della bellezza e della storia comune. Almeno mentre quella bellezza esiste e prima che sia ferita. Qui la storia (e la sua bellezza) si rade al suolo con le ruspe. E i ruderi si espongono senza pudore. Senza passato né futuro.


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Mafia/ Le nuove rotte

L'asse Vittoria-Fondi/ Visto da sud Il mercato ortofrutticolo di Vittoria ha sempre garantito due certezze per i ragusani: soldi e malaffare di Giorgio Ruta Il Clandestino

Sessantacinque persone sono state denunciate per rialzo fraudolento dei prezzi, 63 per truffa, 41 per turbata libertà degli incanti, 8 per abuso d'ufficio, 3 per peculato, 2 per favoreggiamento reale, 1 falso in scrittura privata, 1 per bancarotta fraudolenta. A saltare agli occhi è un dato: oltre 27.000 kg di ortaggi provenienti dalla Tunisia sono stati spacciati per locali. Un danno enorme alla credibilità della produzione locale, già in forte difficoltà. La doppia attività

Il vaso di Pandora è stato scoperchiato dalla Guardia di Finanza di Ragusa che in due anni di attività ha controllato e ricontrollato cifre, nomi, storie. Si è messo il bastone tra gli ingranaggi di un meccanismo consolidato e perverso. Gli uomini guidati dal Col. Francesco Fallica, il primo febbraio, hanno denunciato 74 operatori e scovato 18 milioni di euro di evasione fiscale, in quella che è stata battezzata operazione “Right price”. Quello che è venuto fuori è sconvolgente, se pur sospettato. Un sistema basato sull'illegalità e sul caos. Il mercato di Via Fanello sembra essere una zona franca.

Ma il punto nevralgico dell'indagine delle Fiamme gialle ragusane è un altro: la doppia attività. Alcuni commissionari gli intermediari tra i produttori e la grande distribuzione - non si limitavano al lavoro di tramite intascando il 10% previsto di commissione. Spesso il commissionario era al tempo stesso acquirente, snaturando illegalmente le logiche del mercato e mettendo in ginocchio i produttori costretti a vendere a prezzi talvolta umilianti. E proprio gli agricoltori sono stati i primi ad esultare dopo l'operazione. Secondo dati Cia con la doppia attività sarebbe stato sottratto ai produttori una somma che si stima tra i 250 e 300 milioni di euro. Non c'è stata tregua per gli operatori del mercato ortofrutticolo più grande del meridione. Infatti, le fiamme gialle, su disposizione del Procuratore di Ragusa Carmelo Petralia, il 10 febbraio, all'alba,

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hanno di nuovo varcato i cancelli della struttura ed hanno sequestrato 15 box, sempre nell'ambito dell'operazione “Right price”. Qualche giorno dopo sono stati dissequestrati 5 box. La città trema e la politica cerca di non esser travolta dall'onda. Al mercato di Vittoria, sono presenti 74 box, e ogni hanno girano centinaia e centinai di milioni. La struttura oggi è gestita dal Comune dopo un lungo contenzioso con la Regione Sicilia. Anno dopo anno, anomalia dopo anomalia, si è capito che l'unica soluzione per avere un po' di trasparenza fosse cambiare la gestione. Tra gli obiettivi del sindaco Pd, Giuseppe Nicosia - ormai al secondo mandato - c'è pure quello di affidare la gestione del mercato ad una srl. Già due anni fa sembrava tutto pronto: la società è costituita ma mai entrata in funzione. Cambiare la gestione Peppe Cannella, ex consigliere comunale di Rifondazione Comunista, ci aveva visto bene ed oggi dichiara: “più e più volte, proprio il sindaco ha condiviso e fatto sue le nostre denunce politiche ma non sono seguiti i fatti. Si deve capire da subito quale ruolo deve avere la politica di questa città. Subire in silenzio limitandosi ai complimenti per il lavoro svolto da altri, oppure aprire un confronto che porti in tempi brevi ad una profondo cambiamento del Mercato? Per noi non si può continuare a far finta di nulla”.


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Intanto, a seguito dell'operazione della Finanza qualcosa si è mosso: è stato approvato il regolamento per l'affidamento delle licenze ai commissionari. Per molti è ancora poco: “va cambiato il regolamento generale che risale al '71”. Subito dopo l'operazione Rosario Lo Monaco, assessore con delega al mercato al Comune di Vittoria afferma: “Il comune ha approvato il bando per la verifica triennale delle concessioni al mercato e per l’attribuzione di nuove concessioni. Ora, cominceremo ad occuparci del regolamento del mercato, che risale al 1971”. Molto più di un'ombra Ma il mercato di Vittoria non è solo poche regole e furbetti. È molto di più. Qui la mafia è molto più che un'ombra. E la Guardia di Finanza lo ha capito e annuncia un coordinamento con il servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata di Roma. Non è sulla stessa lunghezza d'onda Filippo Giombarresi, che rappresenta i commissionari: “Vorremmo chiarire, una volta per tutte, che i concessionari di Vittoria nulla hanno a che fare con la mafia, come si vorrebbe far credere, anzi sono per la legalità e soprattutto per il lavoro”. L'interesse della criminalità L'interesse della criminalità organizzata non può che essere forte in un mercato che conta 74 commissionari e un giro di

affari annuo di centinaia e centinaia di milioni di euro. L'Operazione Sud Pontino della Dda di Napoli, per ultima, ha collegato i tasselli del potere mafioso nel settore ortofrutticolo. Joint venture mafiosa Una vera e propria joint venture mafiosa si è formata tra le cassette di ortaggi. Camorra, Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Stidda si sono spartite il settore a suon di minacce e soldi. Ad avere un ruolo principale la Camorra che con la Paganese Trasporti controllava gran parte del trasporto della merce tra i mercati. L'operazione della Dda di Napoli ha coinvolto pure il Mercato di Vittoria. In alcune intercettazioni è emerso il ruolo di una delle agenzie di trasporto più grande che operano all'interno della struttura commerciale ragusana, la Sud Express dei Di Martino. Una telefonata In una telefonata, del dicembre 2008, Costantino Pagano, titolare della Paganese, uomo dei Schiavone, ordina ad un suo uomo di entrare nel mercato vittoriese con un accordo con la ditta locale. “...Tu devi fare il padrone del camion dentro l'agenzia Di Martino... questi ci tengono a te? …fai il padrone del camion...”. Qualche giorno più avanti la risposta: affare fatto. I Di Martino hanno un passato opaco.

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“Uomini con pesanti precedenti penali”

Secondo Carmelo Barbieri, una doppia vita da professore di educazione fisica e da picciotto - oggi pentito - i Di Martino si appoggiavano ad ambienti vicini a Stidda e Cosa Nostra, a seconda della maggiore influenza dei due gruppi nel vittoriese. Sul versante trasporti Ma sul versante trasporti non c'è solo la Sud Express a far sorgere qualche interrogativo. Sono numerose le ditte che contano all'interno soggetti che in passato sono stati ritenuti vicini agli ambienti mafiosi. Per esempio la Tutto Trasporti amministrata dalla compagna di Raffaele Giudice ritenuto in passato, dal Tribunale di Ragusa, interno al clan “Dominante Carbonaro”. Così come tranquillamente girano all'interno del mercato e delle agenzie uomini con precedenti penali pesanti e parenti di mafiosi. Infettato il mercato Dai trasporti all'imballaggio il discorso non cambia. Il sospetto di molti è che attraverso l'imposizione di alcune ditte si paghi il pizzo. Intanto una riunione della Dda a Catania ha discusso del “caso Vittoria”. Dai presenti nessuna dichiarazione ma non si esclude che oggetto della discussione siano stati personaggi mafiosi e meccanismi criminali che hanno infettato il mercato ortofrutticolo più grande del meridione.


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Mafia/ Le nuove rotte

L'asse Vittoria-Fondi/ Visto da nord Il viaggio in treno per il Mercato Ortofrutticolo di Fondi sarebbe di sola andata. Accanto al gigante verde, si fermano due binari morti ultimati agli inizi degli anni ’80 di Maria Sole Galeazzi

I binari servivano per incrementare il trasporto su rotaia delle tonnellate e tonnellate di prodotti ortofrutticoli. L’equazione è semplice, con i treni i costi si sarebbero abbattuti così come i livelli di inquinamento dovuti al trasporto su gomma. Fin qui tutto quadra anche in considerazione del fatto che il socio pubblico nonché di maggioranza del Mof, è la Regione Lazio. I lavori vengono ultimati, ma da allora all’interno del mercato i treni merci non sono mai passati. Ne parliamo con il referente regionale di Libera Lazio Antonio Turri.

- In questi anni al mercato ortofrutticolo di Fondi è entrato di tutto tranne che i treni, perché? “Dal punto di vista tecnico perché poche decine di metri di rete metallica impediscono l’accesso ai treni merce che dovrebbero trasportare i prodotti ortofrutticoli che vengono commercializzati in un’area strategica quella del Mof di Fondi che unisce sud, centro e nord Italia ed apre le rotte per i mercati europei. Ma non sono certamente queste superabilissime cause tecniche ad impedire l’accesso ai treni. Fondi e il mercato ortofrutticolo sono stati e rimangono una sorta di laboratorio dove le mafie tradizionali italiane una volta infiltratesi nel settore del commercio dell’agro alimentare hanno contaminato pesantemente pezzi di economia, di politica e di criminalità locale. Nei fatti quei treni non entrano e non entreranno mai fino a quando la Quinta Mafia, non lo riterrà opportuno”. La quinta mafia Circa trent’anni che segnano giorno dopo giorno il fallimento di quello che allora poteva essere un riuscito progetto economico, un treno, è proprio il caso di dirlo che per il Mof non passerà mai. - Ma comunque qualcosa in movimento c’è, un soggetto nuovo che piano piano si definisce e che Libera chiama oggi la Quinta Mafia. Di cosa stiamo parlando? “La Quinta Mafia – continua Turri -

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rappresenta l’evoluzione del sistema mafioso e cioè un mix esplosivo composto dalle mafie tradizionali ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra capaci di contaminare la criminalità autoctona, pezzi dell’economia e della politica al di sopra del confine geografico fino agli anni ’80 rappresentato dal fiume Garigliano che segnava il confine tra la Campania prima regione del meridione e l’Italia del centro- nord. Armi e droga fra gli ortaggi È questa joint-venture criminale che ha ritenuto conveniente e meno rischioso fare viaggiare armi e droga celati tra gli ortaggi e la frutta sulle migliaia di tir che annualmente partono o fanno scalo dal Mof. Del resto sarebbe stato impensabile organizzare i traffici illeciti utilizzando i treni delle Ferrovie dello Stato”. L’operazione condotta nel 2010 dalla Dia di Napoli denominata Sud Pontino, partendo proprio dal mercato ortofrutticolo di Fondi dimostra non solo quanto sia saldo l’asse camorra - ‘ndrangheta mafia nella gestione del trasporto dei prodotti ortofrutticoli su gomma e nel commercio di armi e sostanze stupefacenti, ma anche come emergano dal giro famiglie autoctone, laziali, dai ruoli tutt’altro che secondari. Armi e droga fra gli ortaggi C’è però una svolta. La Mof spa dichiara che “la dirigenza e i suoi operatori


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“Il mancato scioglimento del Consiglio comunale”

quella commissione “a titolari di attività commerciali pienamente inserite nel mercato ortofrutticolo di Fondì”. La sentenza di primo grado

costituiscono il primo baluardo di contrasto contro tentativo di infiltrazione criminosa nel suo tessuto sano”, e si costituisce parte civile nel processo Sud Pontino. Il Mof legittimamente reagisce ma con un precedente che fa comunque ombra. Il silenzio per un'altra inchiesta Ovvero il silenzio per un’altra inchiesta, la Damasco 2, quella nota ai più per la vicenda del mancato scioglimento del consiglio comunale di Fondi. Il processo inizia il 20 ottobre 2010, le parti civili vengono ammesse ma il Mof, da più parti chiamato in causa, comunque non si fa avanti.

- La pressione mediatica sale e supera anche i confini nazionali, l’immagine del Mof non viene di certo lesa meno che per l’operazione Sud Pontino. Perché la costituzione di parte civile non arriva? “Penso siano fortemente significative le risultanze della commissione di accesso nominata dall’allora Prefetto di Latina Bruno Frattasi – spiega Turri – in cui si evincevano senza ombra di dubbio le connessioni tra famiglie della ‘ndrangheta, della camorra casertana e di cosa nostra legate anche per via parentale ad elementi di spicco della criminalità organizzata del basso Lazio, a loro sono legate a figure di vertice del Comune di Fondi, nonché, come si legge negli atti redatti dagli ufficiali di polizia giudiziaria che componevano

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Tutto questo trova anche un riscontro giudiziario nella sentenza di primo grado recentemente emessa per il processo cosiddetto Damasco 2. Tra gli imputati ce ne sono sette condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso o delitti ad esso collegati e tra questi ben cinque sono politici, o imprenditori nati e da sempre residenti nella regione Lazio. Infiltrate e radicate Questo a dimostrazione di come le mafie una volta infiltratesi e radicatesi su altri territori siano capaci di contaminare”. Le vie del commercio sono rimaste chiuse per i treni, sono state aperte per migliaia di camion, poi c’è un terzo tragitto, quello scelto dai clan per arrivare sulle tavole delle famiglie italiane. E non è una questione di gusti.


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Strage di via D'Amelio

Depistaggio di Stato? Dietro la richiesta di revisione del processo per l'assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta di Lorenzo Baldo antimafiaduemila.com

“Cortese Signora Agnese e figli, Signora Rita e figli, signor Salvatore e figli, sono Scarantino Vincenzo che Le scrive e mi creda non è una cosa facile per me essendo con uno stato d'animo difficilissimo. (...) Io non avevo nessun motivo di depistare le indagini ne tanto meno ne avevo voglia, ma per la mia fragilità nelle decisioni è diventata un'arma infallibile per chi invece ne aveva di motivi e di voglie per depistare tutto. Fatto sta che hanno vinto loro. Le indagini sono state depistate. Infatti oggi sono rimasto un uomo solo e abbandonato da tutta la famiglia e da tutti. Sono sicuro che quel poco che fino a ora ho scritto non darà mai la rispettabilità dovuta al dottor Borsellino. Lui è stato tradito dalla mia inconsapevole fragilità, ma anche da chi volutamente ha fatto capire altro. Detto tutto ciò vengo da voi a chiedervi umilmente perdono per quanto accaduto e per il coraggio che non ho mai avuto a fermare quella macchina di disobbedienti e di menti più qualificate della mia. Vi chiedo perdono per tutto e vi ringrazio per essere stati la fonte di un coraggio a me sconosciuto il quale da oggi mi libererà da un peso terribile. Perdono”.

Mafiosi, pentiti, depistatori E’ il 2 ottobre del 2010 quando Vincenzo Scarantino scrive questa lettera dal carcere di Velletri. A distanza di un anno, il 14 ottobre 2011, le agenzie diramano la notizia che il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, ha avanzato alla Corte di Appello di Catania l’istanza di revisione dei processi per la strage di via D’Amelio denominati “Borsellino uno” e “Borsellino bis” per alcuni imputati già condannati in via definitiva. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, ex uomo d’onore del mandamento di Brancaccio, sono risultate attendibili a tal punto da scardinare la versione fornita da Scarantino rivelatosi un collaboratore di giustizia falso e soprattutto “imbeccato”. La richiesta di sospensione della pena e di revisione riguarda quegli stessi imputati condannati per strage sulle dichiarazioni di quest’ultimo: Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino (già condannati all’ergastolo) e Salvatore Candura, lo stesso Vincenzo Scarantino, Giuseppe Orofino e Salvatore Tomaselli (condannati a pene fino a 9 anni). Per Orofino, Candura e Tomaselli l’istanza riguarda unicamente la revisione del processo in quanto i tre hanno già scontato la pena per i reati in ordine ai quali era stata ritenuta la loro responsabilità. In attesa della Cassazione Le revisioni dei processi “Borsellino uno” e “Borsellino bis” si faranno. Ma non subito. La decisione della Corte di Appello di Catania si basa su un orienta-

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mento giurisprudenziale. Per poter celebrare un nuovo dibattimento occorre un'altra sentenza definitiva che accerti responsabilità di altre persone e che quindi contrasti con il primo verdetto. Al momento si resta quindi in attesa di una sentenza di Cassazione relativa alle nuove ricostruzioni di Gaspare Spatuzza, così come quelle di Fabio Tranchina, sull'eccidio del 19 luglio 1992. La richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena viene invece accolta immediatamente per: Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino e Gaetano Murana. Tutti liberi. Anche per Vincenzo Scarantino si aprono le porte del carcere, ma su di lui viene attivato un servizio di protezione lontano da Palermo per evitare prevedibili vendette mafiose nei suoi confronti. Gaetano Scotto, l’uomo di Cosa Nostra legato ai Servizi, resta invece in carcere per scontare il residuo di pena di due condanne definitive. Le pagine dei magistrati nisseni I principali protagonisti delle vecchie e nuove indagini sulla strage del 19 luglio 1992 si ritrovano uno dopo l’altro nelle pagine scritte dai magistrati nisseni. A partire da Salvatore Candura che per primo accusa Vincenzo Scarantino di essere colui che lo ha incaricato di rubare la Fiat 126 convertita in autobomba. Nelle carte vengono successivamente riscontrate le dichiarazioni del pentito Fabio Tranchina che indica Giuseppe Graviano come colui che, nascosto in un giardino dietro un muretto in fondo a via D’Amelio, avrebbe premuto il telecomando collegato all’autobomba.


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“Quali istituzioni avevano interesse a depistare le indagini? E perché?”

Su Antimafia Duemila n.68 il dossier completo sulla strage di via D’Amelio

In base alla ricostruzione di Tranchina e ad altre prove raccolte dagli investigatori cade quindi la pista del Castello Utveggio quale possibile luogo dal quale i killer di Borsellino avrebbero premuto il telecomando. Al posto del castello torna sotto i riflettori la pista del palazzo dei fratelli Graziano, situato di fronte a via D’Amelio, dalla cui terrazza il mafioso di Brancaccio, Fifetto Cannella, avrebbe avvisato Giuseppe Graviano dell’arrivo di Borsellino. La figura del boss di Brancaccio e dei suoi collegamenti con Forza Italia viene passata ai raggi X al pari di quella di Arnaldo La Barbera, allora capo del pool che investigava sulla strage di via D’Amelio (deceduto nel 2002). Contro di lui e contro altri tre componenti della sua squadra si scagliano oggi Scarantino e i suoi due compari Candura e Andriotta che li accusano di violenze e pressioni per obbligarli a recitare una parte all’interno di una pista già prestabilita. Un copione preordinato? La memoria conclusiva della procura di Caltanissetta e l’istanza della procura generale nissena rappresentano un punto di partenza dal quale si deve necessariamente ripartire per poter giungere alla totale verità sulla strage di via D’Amelio. L’ultima versione di Vincenzo Scarantino e dei suoi compari di sventura, scaturita dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, riapre gli scenari su possibili depistaggi istituzionali già presenti nelle stragi di Stato che hanno insanguinato il nostro Paese. Siamo di fronte ad una regia occulta capace di scrivere il copione che è stato fatto leggere a Candura, Scarantino e Andriotta?

A quali ordini ha obbedito Arnaldo La Barbera, alias “Rutilius” (nome in codice ai tempi della sua collaborazione con i Servizi), quando lui e i suoi uomini impartivano “lezioni” a Scarantino e compagni? Dal canto suo il picciotto della Guadagna ha riferito negli anni una quantità di bugie che sono crollate miseramente con l’avvento di Gaspare Spatuzza. Ma altresì ha saputo fornire elementi veritieri, successivamente confermati dai nuovi collaboratori. Secondo quale strategia si è deciso quali notizie “confidenziali” dovevano essere messe in bocca a Scarantino, Candura e Andriotta? Alcune di queste dovevano essere veritiere, altre invece erano destinate a sbriciolarsi. Un grave errore o un rischio da correre sull’altare di una “ragione di Stato” figlia di una “trattativa” tra mafia e istituzioni vigente da decenni? E soprattutto quale “trattativa” è stata intuita da Paolo Borsellino al punto che la sua scoperta ha accelerato il programma del suo omicidio? Al momento le indagini sulla strage di via D’Amelio proseguono. Ma anche questa volta è una lotta contro il tempo. Contro l’oblio che incombe sulla fragile memoria del nostro Paese. Indifferente e complice a tanti crimini commessi. La risposta di Agnese Borsellino a Vincenzo Scarantino restituisce integra quella dignità e quella sete di giustizia calpestata ripetutamente da chi non vuole la verità sulla strage di via D’Amelio. A futura memoria. La lettera di Agnese Borsellino Caro Vincenzo, ti fa onore che tu abbia avvertito il bi-

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sogno di chiedermi perdono, è un sentimento che io accetto. Mi chiedo tuttavia quali siano i motivi per i quali mi chiedi perdono, quale ribellione ha la tua coscienza, come sei stato coinvolto in questa immane tragedia? Prima della strage quali sono stati i referenti che ti hanno indirizzato nella cattiva strada approfittando delle tue fragilità? Dopo la strage di via d’Amelio quali sono le persone che ti hanno “zittitto” e “minacciato”? Quali istituzioni avevano interesse a depistare le indagini? E secondo te perché? Tutto quello che mi scrivi può essere anche realtà. Aiuta chi ti ascolterà a conoscere la verità su questo drammatico depistaggio, talmente grave che i suoi autori meritano di essere puniti e smascherati quanto coloro che hanno armato la mano degli attentatori. Inizia una nuova vita rivelando tutto quello che sai ai magistrati di Caltanissetta, i tempi sono cambiati, solo così ti sentirai un uomo libero; racconta tutta la verità evidenziando prove valide ai fini processuali, un vero uomo deve possedere in tutti i momenti della sua vita il coraggio delle proprie azioni, siano esse cattive siano esse buone, non ti arrendere dinnanzi alle difficoltà, solo così guarirai definitivamente dalla depressione e onorerai la memoria di un santo uomo quale verosimilmente è stato mio marito Paolo. Parla solo e soltanto con il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, il dottor Sergio Lari, che ti assicuro paternamente ti ascolterà. Con umana cristianità ti auguro tutto il bene possibile. Agnese Borsellino


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Fortezza Sicilia

Le guerre future di Sigonella La Sicilia sacrificata sull’altare del dio di tutte le guerre. Quelle di oggi e quelle future. Negli oceani, in cielo, in terra di Antonio Mazzeo

Guerre satellitari, spaziali, stellari. Disumanizzate e disumanizzanti. Da combattere su un monitor a migliaia di chilometri distanti. Con aerei senza pilota e bombe teleguidate. Ordigni di ogni tipo, forma e dimensione. Al laser o all’uranio impoverito, killer elettromagnetici o nucleari. Target “virtuali” ma terribilmente reali: bambini, donne, anziani di cui nessuno conoscerà mai volti e identità. Corpi da spezzare, stuprare, dilaniare. Continenti da affamare. Popoli da sterminare. I signori e i marcanti di morte hanno ipotecato ruolo e funzioni dell’isola: trampolino di guerra per colpire regimi disobbedienti e perpetuare ingiustizie e disuguaglianze planetarie; enorme centrale di spionaggio per incunearsi nelle vite di ognuno, dall’Atlantico agli Urali, dall’Africa all’estremo oriente. Il territorio siciliano è divorato dal cancro Sigonella, la più grande base militare Usa, Nato ed extra-Nato nel Mediterraneo.

lE metastasi hanno pervaso Niscemi, Birgi, Augusta, Pantelleria, Lampedusa, Marsala, Noto-Mezzogregorio, Pachino, sedi di supersegrete installazioni militari e laboratori sperimentali dell’olocausto del terzo millennio. Sigonella principale base AGS A Bruxelles, l’ultimo summit dei ministri della difesa della Nato ha ufficializzato la scelta di Sigonella come “principale base operativa” dell’AGS (Alliance Ground Surveillance), il nuovo sistema di sorveglianza terrestre dell’Alleanza: un Grande Orecchio per monitorare il globo 24 ore al giorno, individuare gli obiettivi e scatenare il first stike, convenzionale o nucleare, in nome della guerra globale e permanente, preventiva e distruttiva. Entro cinque anni, nella grande stazione aereonavale saranno ospitati i sistemi di comando e di controllo dell’AGS che analizzeranno le informazioni intercettate da migliaia di sistemi radar satellitari, aerei, navali e terrestri. Per poter poi pianificare e ordinare gli attacchi, ovunque e comunque. Senza vincoli e regole morali. Il più grande velivolo senza pilota Strumento cardine del nuovo sistema Nato, il più grande e sofisticato velivolo senza pilota mai progettato, l’RQ-4 “Global Hawk”, un falco globale di 13 metri e mezzo di lunghezza e un’apertura alare di oltre 35, in grado di volare a circa 600 chilometri all’ora a quote di oltre 20.000 metri. Con un’autonomia di 36 ore, è in grado di perlustrare un’area di

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103.600 chilometri quadrati, in qualsiasi condizione meteorologica, grazie ad un potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande infrarosse. La sua rotta è fissata da mappe predeterminate, un po’ come accade con i famigerati missili da crociera “Cruise”, ma da terra gli operatori possono cambiare le missioni in qualsiasi momento. Un velivolo a tecnologia avanzata che tra ricerca, sviluppo e produzione comporta un costo unitario di 125 milioni, sperimentato proprio da Sigonella in occasione del recente conflitto alla Libia. Predatori teleguidati Per gli strateghi del Pentagono, la Sicilia dovrà fare da vera e propria caput mundi di falchi e predatori teleguidati: una decina i “Global Hawk” che l’aeronautica e la marina militare Usa si apprestano a dislocare; ancora più numerosi i “Predator” e i “Reaper” lanciamissili e lanciabombe. Per l’AGS di Sigonella, i “Global Hawk” dovrebbero essere ufficiosamente quattro, forse cinque e magari sei. O perfino otto, come riferì in Parlamento il 12 giugno 2009 l’allora ministro della difesa Ignazio La Russa. “L’Alleanza atlantica acquisterà un sistema di sorveglianza aerea basato su una flotta di otto velivoli a pilotaggio remoto e un segmento terrestre di guida e controllo, da integrare nell’ambito del sistema C4ISTAR della Nato”, annunciò il ministro che più si è battuto per fare di Sigonella la centrale strategica del nuovo sistema di sorveglianza. Di otto falchi globali ha parlato pure Ludwig Decamps, caposezione dei programmi di armamento della Nato.


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“Un radicale cambiamento nei rapporti tra piano strategico, operativo e tattico”

“Il sistema AGS sarà fondamentale per le missioni alleate nell’area mediterranea ed in Afghanistan, così come per assistere i compiti della coalizione navale contro la pirateria al largo della Somalia e nel Golfo di Aden”, ha dichiarato. “L’AGS fornirà un preciso quadro della situazione operativa soprattutto per tutti i responsabili della Nato Response Force, la forza d’intervento rapido alleata, accrescendo le capacità di sorveglianza aerea. Il sistema consentirà inoltre di supportare i crescenti requisiti operativi anche per la gestione delle crisi, la sicurezza nazionale e gli aiuti umanitari”. Apprendisti stregoni Per comprendere appieno la vocazione umanitarista degli odierni apprendisti stregoni bisogna dare un’occhiata alla nuova dottrina strategica dell’Alleanza, denominata NCW Network Centric Warfare. “L’AGS è di vitale importanza per poter applicare sul campo la NCW e puntare all’integrazione in tempo reale delle forze militari in un’unica rete informativa globale”, spiegano a Bruxelles. “La NCW prevede un radicale cambiamento nei rapporti tra piano strategico, operativo e tattico e un diverso modo di comunicare, pianificare ed operare tra Comandi e forze militari”. Per farla breve, stabiliti gli obiettivi prioritari “senza limiti geografici”, gli interventi vengono demandati alle componenti spaziali, aeree, navali e terrestri che operano “in piena autonomia” nei teatri di guerra. Un network dunque che azzererà le tradizionali catene di comando-decisionali e impedirà qualsivoglia forma d’interfe-

renza da parte delle autorità politiche sulle scelte e l’operato delle forze armate. Un modello ritenuto “indispensabile” perché “il campo di battaglia è ormai indefinito, la minaccia è asimmetrica e il nemico è invisibile, onnipresente e capace di colpire ovunque”. Un’orgia di follia, mentre cresce l’assuefazione dei giusti e dei pii all’odore acre della morte. Come in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Libia, Somalia. E il sonno della ragione genera nuovi e più terribili mostri. AGS, affare Usa sulle tasche Nato Come dare torto al segretario della difesa USA, Leon Panetta. È sicuramente un “ottimo accordo” quello raggiunto tra i paesi Nato per l’AGS a Sigonella. Ottimo per i massimizzare i profitti delle industrie chiave del complesso militare industriale degli Stati Uniti d’America e trasferire ai partner europei gli oneri finanziari e gli insostenibili impatti ambientali e sociali. La patria dei falchi globali Merita di essere rammentata la storia che ha portato a fare della Sicilia la patria-colonia dei falchi globali per le missioni di guerra del XXI secolo. Maturata la decisione di dar vita a quello che per voce di Bruxelles è il più “ambizioso e costoso” programma della storia dell’alleanza atlantica, l’ultimo governo Prodi candidò l’Italia quale main operating base del sistema AGS, negli stessi mesi in cui offriva segretamente l’ex scalo Dal Molin di Vicenza alle truppe aviotrasportate dell’esercito USA e la riserva naturale “Sughereta” di Niscemi al MUOStro per le telecomunicazioni spaziali della Us Navy.

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Il 19 e 20 febbraio 2009, durante il vertice dei ministri della difesa Nato, venne raggiunto un accordo di massima per assegnare a Sigonella i comandi e gli aerei senza pilota AGS, dopo una lunga e lacerante trattativa che aveva visto ridurre progressivamente a 13 il numero dei paesi disposti a contribuire economicamente al programma (Stati Uniti, Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia e Slovenia). Commesse ultramilionarie Originariamente, il piano di sviluppo del sistema di sorveglianza vedeva associate 23 nazioni. Tutte determinate a dividersi le ultramilionarie commesse per allestire aerei e centri d’intelligence. “C’erano in gara due consorzi d’industrie che proponevano piattaforme diverse, la Transatlantic Industrial Proposed Solution (TIPS) ed il Cooperative Transatlantic AGS System (CTAS)”, ha riferito l’esperto John Shimkus all’Assemblea Parlamentare della Nato. “Tutti e due i consorzi proponevano di utilizzare lo stesso sistema radar di base. La principale differenza era il tipo di piattaforma aerea suggerita. TIPS prospettava una combinazione del velivolo europeo Airbus A321 e dell’aereo senza pilota Global Hawk di produzione statunitense, mentre CTAS prevedeva un’associazione di Bombardier e Predator. Quest’ultima proposta sarebbe risultata meno costosa per l’acquisto del velivolo, ma avrebbe presupposto il doppio di stazioni a terra rispetto al sistema TIPS (49 contro 24)”.


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“I velivoli senza piloti disturbano l'aeroporto civile”

Fu così che il vertice Nato di Istanbul dell’aprile 2004 attribuì al consorzio TIPS la ricerca e la progettazione delle apparecchiature terrestri e aeree dell’AGS. La scelta accontentava quasi tutti i maggiori protagonisti dell’industria bellica transatlantica: dai colossi Usa Northrop Grumman e General Dynamics, al gruppo aerospaziale franco-tedesco-olandese EADS, ai francesi di Thales, agli spagnoli di Indra sino alle italiane Selex e Galileo (gruppo Finmeccanica). Senza consultarsi con gli alleati Nel novembre 2007, il colpo di scena. Senza consultarsi con gli alleati, l’amministrazione degli Stati Uniti annunciò l’abbandono della soluzione “mista” e affidò in esclusiva la realizzazione dell’intero sistema AGS alla Northrop Grumman, produttrice dei Global Hawk. La delusione degli europei fu incontenibile e, uno dopo l’altro, Belgio, Francia, Ungheria, Olanda, Portogallo, Grecia e Spagna ritirarono il proprio appoggio finanziario ed industriale, con la conseguenza che aumentò l’onere a carico dell’Italia. Centosettanta miliardi di euro In cambio di una subfornitura delle due aziende Finmeccanica di apparecchiature destinate alle stazioni terrestri e alle comunicazioni e la trasmissione dei dati, il governo italiano si accollò una spesa di 177,23 milioni di euro, pari al 12,26% del costo globale del programma (stimato in 1.335 milioni di euro). Nel settembre 2009, il memorandum sottoscritto in sede Nato per definire il

quadro giuridico, organizzativo e finanziario dell’AGS ha tuttavia stimato i costi finali del programma a non meno di 2 miliardi di euro. Ciò significherà per il nostro paese un esborso di 245 milioni circa, a cui si aggiungeranno i costi per le trasformazioni infrastrutturali necessarie ad ospitare a Sigonella il personale Nato preposto al funzionamento del sistema, 800 militari circa, secondo l’ex ministro La Russa. Con la conseguente spinta ad accrescere la già asfissiante pressione militare sui territori della regione. Le ombre più funeste riguardano però il futuro del traffico aereo in Sicilia. Quando le autorità spagnole che in un primo tempo avevano candidato Zaragoza come base operativa dell’AGS decisero di ritirarsi, spiegarono che i velivoli senza pilota avrebbero pregiudicato il normale funzionamento del vicino aeroporto della città. I rischi per l'aeroporto di Catania “Dato che le aeronavi della Nato voleranno continuamente per catturare le informazioni, si potevano generare restrizioni al traffico aereo, saturazione nello spazio aereo e problemi durante gli atterraggi e i decolli”, dichiarò un portavoce dell’allora governo Zapatero. Una valutazione dei rischi per la sicurezza dei sei milioni e mezzo di passeggeri in transito annualmente dallo scalo di Catania-Fontanarossa che i governi Prodi, Berlusconi e Monti non si sono sentiti di dover fare. Il 31 marzo 2008, l’allora comandante del 41° Stormo dell’Aeronautica militare italiana, colonnello Antonio Di Fiore,

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aveva assicurato un parlamentare e i rappresentante della Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella che mai sarebbero stati trasferiti nella base siciliana i Global Hawk in quanto “la gestione di quel tipo di aerei senza pilota non è compatibile col traffico civile del vicino aeroporto civile Fontanarossa”. L'appalto alla CMC di Ravenna Oggi, però, nella base ci sono attivi perlomeno tre falchi globali e il Congresso ha approvato un piano di 15 milioni di dollari per installarvi una selva di antenne e generatori di potenza per supportare le telecomunicazioni via satellite dell’Unmanned Aircraft System (il sistema degli aerei senza pilota) e gestire le operazioni dei droni. “Nel nuovo centro sorgeranno dodici ripetitori con antenne, attrezzature e macchinari, con la possibilità di aggiungere altri otto ripetitori della stessa tipologia”, è riportato nella scheda progettuale del Dipartimento della difesa. Intanto procedono celermente i lavori di realizzazione del Global Hawk Aircraft Maintanance and Operations Complex, il complesso che consentirà ai militari Usa di eseguire a Sigonella la manutenzione dell’intera flotta senza pilota schierata in Europa e Medio oriente. L’appalto per 16 milioni e mezzo di euro è stato assegnato dal Pentagono alla CMC - Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna, società di costruzioni leader della “rossa” Lega Coop. Rossa di vergogna per aver disseminato l’Italia di basi e infrastrutture Usa e Nato. E gestire da mercenaria i centri-prigione per migranti, rifugiati e richiedenti asilo.


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Emigranti

Vita di un“invisibile” da Rosarno a Roma Saydou sta in cucina a pelare patate da mettere in forno: al centro sociale c'è una cena di autofinanziamento. Si lascia andare ai ricordi: “Quando stavo a Rosarno era brutto...” di Bruna Iacopino

Saydou scuote la testa e sorride. “Eh” mi fa “ niente acqua, niente luce e poi porte e finestre rotte, troppo freddo, come si fa ?” Lo dice come se raccontasse un brutto sogno, una cosa ormai passata che non può più far male, come la racconterebbe a un figlio, se lo avesse. Ripercorre le tappe di una storia costellata di violenza, di soprusi, ma anche di battaglie e di piccole vittorie. Sì, perchè Saydou la sua vittoria ce l'ha in tasca e se la tiene anche stretta.

Il permesso ottenuto per motivi umanitari appena lo scorso anno dopo una fitta serie di manifestazioni, sit-in, assemblee, interviste a giornali e televisioni è stato rinnovato per un altro anno. Saydou respira e sorride. Le iniziative promosse a gennaio in tutta Italia contro il lavoro nero e lo sfruttamento nel settore agricolo – specie per gli immigrati: 274.000 regolari e 400.000 in nero sotto caporale - hanno compiuto un piccolo miracolo: far sì che la mannaia di una scadenza (la conversione del permesso umanitario in permesso di lavoro) non costringesse questi uomini a tornare nel limbo dell'invisibilità. “Vogliamo i documenti!” Invisibili sono sempre i “fratelli” che lavorano ancora nelle campagne di Rosarno o nel foggiano, in quel non-luogo che tutti ormai chiamano “Gran ghetto”, giunti in forze nella capitale, per la manifestazione del 13 gennaio: presidio la mattina davanti al Ministero dell'Agricoltura, pomeriggio in piazza all'Esquilino. Un viaggio lungo una notte, una giornata di lavoro persa, e una sola richiesta, urlata a gran voce: “Vogliamo i documenti!”. Permesso di soggiorno, sanatoria generalizzata, estensione dell'articolo 18, abolizione della Bossi-Fini, politiche pubbliche di sostegno all’agricoltura contadina... Sono queste le richieste dei braccianti agricoli stranieri che affollano le

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nostre campagne, pagati venti euro al giorno, assoldati da caporali, oggi come nel 2010 quando il mondo intero scoprì la vergogna di Rosarno. Queste richieste giacciono in attesa di risposta presso il Ministero delle politiche agricole e forestali, quello del Lavoro, quello dell'Interno e quello della Solidarietà. Ma qualche frutto l'hanno già hanno sortito. Una piccola vittoria Quei cento permessi rinnovati sono una piccola conquista, frutto di un cammino di lotta iniziato ormai due anni fa. Dalla rivolta di Rosarno all'arrivo (la deportazione, come la definiscono gli antirazzisti della capitale) a Roma, alla solidarietà civile che ha fatto muro attorno a questi ragazzi abbandonati a se stessi, fino all'inizio di un percorso di auto-determinazione con la costituzione dell'assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma (Alar), incoraggiata e sostenuta passo passo dall'Osservatorio antirazzista Pigneto-Prenestino. Le domeniche pomeriggio passate a discutere hanno così portato un centinaio di africani a confrontarsi direttamente con la politica di palazzo e con le associazioni di categoria, dalla prefettura alla sede di Confagricoltura, al grido di: “Agricoltura sì, lavoro nero no!” E la lotta, in questo caso, ha pagato. Saydou aspetta. Il suo permesso lo tiene in tasca e per campare si fa la stagione a Foggia, lavorando in nero.


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L'avventura di Sgarbi in Sicilia

Sindaco di Giammarinaro Alla faccia dei siciliani La provincia di Trapani, fiore all'occhiello della borghesia mafiosa, ha bisogno di ripulirsi l'immagine. Serve qualcuno che non faccia troppe domande e che si presti... di Rino Giacalone

Salemi non è un paese qualsiasi né della provincia di Trapani né della Sicilia, ma il luogo dove la mafia borghese ha cominciato a piazzare le sue radici mentre nel resto dell’isola i mafiosi si ammazzavano per la droga o ancora per i latifondi. Due nomi su tutti, quelli degli esattori Salvo, i cugini Nino e Ignazio, eredi di un altro notabile, Luigi Corleo, scomparso dopo un sequestro “anomalo”. A questi nomi si potrebbe aggiungere quello dell’imprenditore Ignazio Lo Presti, il personaggio, ammazzato poi da Riina, che sotto anonimato parlava per telefono coll sig. Roberto che stava in Brasile e al quale confidava, preoccupato, la mattanza di uomini che stava insanguinando la Sicilia, questi altri non era che Tommaso “Masino” Buscetta. Il paese di Pino Giammarinaro

Salemi. Cominciamo dalle dimissioni del critico d’arte Vittorio Sgarbi da sindaco di Salemi? O dalle dimissioni che annunciate sino all’8 febbraio sono state presentate solo il 15 febbraio in un Consiglio comunale super affollato dove ognuno ha cercato di avere la sua “fetta di notorietà” e Sgarbi ancora ha stupito tutte, mi dimetto – ha detto – ma dalle 21 del 21 febbraio”? O dalla relazione degli ispettori prefettizi che hanno accertato l’inquinamento mafioso dell’attività amministrativa e politica del Comune di Salemi? O ancora dal maxi sequestro di beni da 35 milioni di euro che ha colpito l’ex deputato regionale della Dc e capo degli andreottiani trapanesi, Pino Giammarinaro, “rais” di Salemi, la cosidetta operazione “Salus Iniqua” condotta nella primavera dell’anno scorso?

Salemi è anche il paese dove si trovano i segni della mafia irruenta, violenta, quella che muove i grandi traffici di droga, che ha come suo uomo il potente Salvatore Miceli, che riesce a parlare con Riina quanto con Provenzano e quindi con l’odierno super latitante Matteo Messina Denaro. Anche Miceli è mafioso per eredità, è nipote di un altro mafioso e trafficante di droga, salemitano, Salvatore Zizzo. Ma Salemi è oggi il paese di Pino Giammarinaro, “Pinuzzu” per gli amici, o ancora “Pino Manicomio” come si dice sia appellato, non per dileggio, dai suoi amici di oggi, gli stessi che frequentavano il sindaco che Giammarinaro volle fortissimamente volle…Vittorio Sgarbi. Giammarinaro, imprenditore edile, cominciò le sue fortune con l’imprenditore Lo Presti; negli anni ’80 conobbe la sanità pubblica, diventando presidente della Usl di Mazara. Da allora non ha lasciato questo terreno fertile, di voti, consensi e mazzette, costruendo una ampia tele di relazioni e di potere. Nel 1991 l’elezione plebiscitaria all’Ars con oltre 50 mila voti di

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preferenza presi con la Dc. Poco tempo dopo l’ordine di arresto e la latitanza, cominciata su un peschereccio partito da Mazara verso la Tunisia e finita in Croazia dove la Finanza andò ad arrestarlo, mentre contro di lui si aprivano altre indagini sulla malasanità trapanese. Pino Giammarinaro non è stato mai condannato per mafia, è uscito assolto da un processo, quello che mentre era in corso fu condizionato dall’entrata in vigore, retroattiva, della cosidetta legge sul giusto processo, e praticamente non si poterono utilizzare le dichiarazioni di accusa fatti contro di lui dai pentiti che nel dibattimento entrarono attraverso la produzione dei vari verbali di interrogatorio. La nuova norma vuole che le dichiarazioni dei pentiti siano utilizzabili solo se il collaboratore di giustizia ripete le accuse davanti ai giudici. Il pm Ingroia dovette chiedere l’assoluzione per Giammarinaro, e però quelle dichiarazioni finirono dentro il procedimento per la misura di prevenzione, e a Giammarinaro furono inflitti 4 anni di sorveglianza speciale. Gli incontri con Cuffaro Misura che non gli impedì di continuare a fare politica, addirittura di candidarsi all’Ars e sfiorare per una manciata di voti la rielezione, sorvegliato speciale che riceveva nella sua casa di Salemi politici importanti come l’allora Governatore della Sicilia Totò Cuffaro. O di muoversi, grazie a certificati medici di favore, per andare a Palermo a incontrarsi con altri maggiorenti della politica come l’on. Saverio Romano, capo dell’Udc siciliana. Tutti sapevano che Giammarinaro era un sorvegliato speciale per mafia, ma facevano spallucce. E se non stava a Salemi oenon andava a Palermo, Pino Giammarinaro era facile incontrarlo davanti all’ingresso della Usl di Trapani, a ricevere i “clienti” mandati dagli amici.


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“E' stato eletto sindaco senza bisogno di campagna elettorale. L'importante era l'appoggio di don Pinuzzo Giammarinaro...”

Sicilia

Un documentario di Stefano Maria Bianchi (uno della «truppa» di Santoro) ha fotografato, anni fa, la «mafia bianca», ossia gli interessi di Cosa nostra nel filone sanitario siciliano. Nel 2005 la Commissione nazionale antimafia in missione a Trapani si interessò alle ingerenze mafiose nella sanità trapanese. Ma le infiltrazioni dei boss dentro il mondo sanitario non sono di oggi ma di molti decenni fa. Bisogna risalire al 1926 ad un certo dottore Melchiorre Allegra, «punciutu» e primo vero pentito di mafia. Certo, il rapporto tra mafia e camici bianchi da allora si è evoluto. Ma sempre borghesia mafiosa, bianca come il colore dei camici dei sanitari. Un capo mafia famoso è stato il medico Michele Navarra di Corleone. Oggi si sentono fare i nomi di altri medici, palermitani, ma legati a Matteo Messina Denaro, come Antonino Cinà e Giuseppe Guattadauro, fratello di Filippo cognato diretto del boss latitante, il numero 104 nei pizzini di don Binnu. Medico e capomafia Mafioso e pentito come Melchiorre Allegra è l’alcamese Vincenzo Ferro, figlio di Giuseppe che con la sanità ha avuto un altro genere di legame, riuscì per anni a fingersi pazzo, poi scoperto decise di seguire il figlio nella strada della collaborazione. Altro medico-mafioso ad Alcamo è Ignazio Melodia, altro camice bianco famoso è stato il partannese Vincenzo Pandolfo, seguì il «patriarca» della mafia belicina, don Ciccio Messina Denaro nella latitanza per garantirgli assistenza medica, si consegnò in carcere nel 2006, due anni addietro ancora giovane è morto in cella. Insomma la mafia i «colletti bianchi» li ha sempre avuti, e non solo come affiliati ma addirittura fra i capi. Non a caso si parla di «borghesia mafiosa» perchè qui a comandare non sono stati mai i «viddani» alla corleonese, ma persone istruite, di un

certo «lignaggio». Allegra parlò della mafia trapanese come di una organizzazione dove l’onore aveva un senso «cavalleresco». All'ombra delle cosche Una situazione che non è cambiata, ricalca quella odierna dove a comandare le cosche restano i "borghesi" forti della loro in sospettabilità, quelli che pretendono rispetto e lo ottengono ancora meglio di un vero mafioso, quelli che proteggono la latitanza di Matteo Messina. Una atmosfera di grandi connivenze dove tutto spesso si palesa alla luce del sole in un territorio dove si dice che la mafia non c’è più solo perché non si ammazza più. Vittorio Sgarbi, arrivato da ultimo in provincia di Trapani, è stato plebiscitariamente eletto sindaco di Salemi senza una sola ora di campagna elettorale. E' bastato che lo volesse Pinuzzu Giammarinaro. E ha cominciato a recitare una parte che lo aveva già visto protagonista, l'attacco frontale ai soggetti più esposti nella lotta alla mafia. Ha detto subito che la mafia non esiste esistono i mafiosi sparsi, che non contano nulla. La mafia è nell’eolico, ha continuato, sfondando una porta investigativamente già aperta. Il mandato di sindaco l’ha trascorso attaccando, un giorno si e l’altro pure, l’attivismo (per la verità mai molto acceso, per mancanza di forze) dell’antimafia. Con l’arrivo di Sgarbi, sindaco a Salemi, scoppiò l’apocalisse. La prima ad insediarsi fu una squadra di “dandy”, assessori chiamati da Sgarbi, come Oliviero Toscani. Salemi diventa il palcoscenico di una sorta di reality show. Non c’è fine settimana che non arrivino a Salemi troupe tv. Sgarbi riempie la scena, il resto lo fanno i suoi assessori, mostre, musei, anche quello della mafia (“la mafia non esiste più”, roba da museo secondo lui, ma una diffida gli fa presto togliere tutto ciò che riguarda l’esattore Nino Salvo, morto sen-

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za condanne). Un'iniziativa pubblica è quella della vendita ad un euro delle case abbandonate e diroccate del centro storico: sulla carta vengono vendute, ma in realtà la magistratura di Marsala le ha sequestrate perché la vendita non ha eliminato i pericoli di crollo. Crescono le iniziative propagandistiche di Sgarbi e con esse i debiti fuori bilancio. Lui con gli scritti al vetriolo del suo addetto stampa smentisce e minaccia querele. Tutto questo regge finchè non arriva il sequestro di beni contro l’on. Giammarinaro e non saltano fuori le intercettazioni che svelano come l’ex deputato fuori dal Comune di fatto era e restava il deus ex machina. Dal maggio scorso ad ora è storia contemporanea. Lunedì 6 febbraio il sindaco Vittorio Sgarbi ha annunciato le dimissioni. Anzi: appreso dal Fatto Quotidiano.it che gli ispettori nominati dal Viminale (e anche questa nomina “scaturiva” da una sua richiesta avanzata appena 24 ore prima dell’ufficializzazione all’allora ministro Maroni) avevano concluso l’ispezione proponendo lo scioglimento per inquinamento mafioso degli organi politici del Comune, dapprima aveva detto che la notizia non era vera, annunciando richieste di risarcimento milionarie, poi dopo qualche ora accertando che bugia non era annunciava la nomina a vice sindaco di Pino Giammarinaro, dopo qualche ora ancora l’annuncio delle dimissioni e la notizia di un incontro col ministro Cancellieri per la giornata dell’8 febbraio. A presentarlo al ministro un’altra dichiarazione dirompente: “Mi sentivo in pericolo e me ne torno al Nord. Incontrerò il ministro Cancellieri alle 9 di mercoledì prossimo per riferire il mio compiacimento per questa scelta". Gli ispettori, un vice prefetto, un commissario di Polizia e un tenente dei carabinieri, hanno lavorato nei termini affidati, e la conclusione è stata inequivocabile:


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“Qui c'è mafia” disse Toscani. E Sgarbi: “Visionario! Omosessuale!”

l’amministrazione del sindaco Vittorio Sgarbi “è stata oggetto di infiltrazione mafiosa”. L’amministrazione, non la città come ha voluto dire il sindaco Sgarbi. L'amministrazione, non la città Gli ispettori hanno “fotografato” la realtà che era stata descritta dall’ordinanza di sequestro di beni – oltre 35 milioni di euro – che ha colpito l’ex deputato Giammarinaro. Gli ispettori hanno certificato che Giunta e Consiglio comunale, i vertici della burocrazia, hanno subito pressioni e influenze nelle decisioni da prendere fuori da ogni contesto di democrazia e confronto, ma con un metodo tipicamente mafioso. Punto di partenza l’onorevole Giammarinaro rispetto al quale Sgarbi non ha mai rinnegato il legame. Dopo che per l’operazione “Salus Iniqua”, Sgarbi aveva minacciato querele per il questore Esposito e per il comandante della stazione di Salemi dei carabinieri, maresciallo Teri, alla notizia del contenuto della relazione ispettiva ha preannunciato querele per i tre ispettori: «Ho lavorato come un matto, ho io contrastato gli interessi mafiosi, come nel caso delle pale eoliche e ora mi attaccano. Sa che faccio? Nomino vice sindaco Pino Giammarinaro; se accetta continuerò a fare il sindaco». «E non è - precisa - una provocazione. Non mi sono mai accorto in tutti questi anni di infiltrazioni mafiose nel Comune di Salemi e non sono verificate in alcun atto. Non sono mai stato condizionato nella mia attività. Ero sotto scorta - aggiunge - e tutti vedevano quello che facevo. Penso che la Sicilia non abbia possibilità di fare qualcosa di nuovo, di ipotizzare un futuro diverso. Invito il consiglio comunale a dimettersi prima che i consiglieri vengano smobilitati, sarebbe una cosa non onorevole. Io ho creato il museo della mafia - prosegue - ho portato Picasso, Rubens, Caravaggio stavo portando Van Gogh e hanno trovato infiltrazioni mafio-

se ignari delle infiltrazioni culturali. Non ho alternative devo ringraziarli...». Sui contatti con Giammarinaro, ha risposto risposto: «Non c'è nessun legame, semmai c'è' stato nell'aver sostenuto la mia candidatura a primo cittadino di Salemi. È poi va sottolineato che Giammarinaro non è indagato: è un politico democristiano che si è occupato di realizzare le mie liste. Francamente non credo che questo sia un atto politicamente rilevante». Per Sgarbi perfettamente legittimo che Giammarinaro può avere avuto dalla sua assessori, consiglieri, funzionari e dipendenti comunali.A raccontare un’altra storia, rispetto a quella recitata da Sgarbi, è stato il famoso fotografo Olieviero Toscani, assessore nella sua Giunta. “Qui c’è mafia”, ha detto Toscani e Sgarbi gli ha dato del visionario e anche “omosessuale”. La “tassa” per diventare deputato La storia dello zio Calò. C'è un «filo rosso» all'interno dell'indagine che ha portato al sequestro dei beni nei confronti dell'ex parlamentare regionale Pino Giammarinaro. Ed è il filo dei collegamenti politici che comprende il retroscena dell'elezione a deputato dell'ex presidente dell'ordine dei medici Pio Lo Giudice. Questo fu convinto da Giammarinaro a candidarsi e fu alle ultime regionali l'unico parlamentare dell'Udc eletto. Già in campagna elettorale qualcosa era suonato in modo strano, in particolare gli incontri elettorali ai quali Giammarinaro era sempre presente e che concludeva con una «novella»: raccontava, parlando con Lo Giudice, della storia di un politico potente agrigentino, "u zu Calò" che un giorno notificò al parlamentare che era eletto che non lo sarebbe stato più, dandogli pubblicamente dell'«ex» quando ancora era in carica. Il «messaggio» a Lo Giudice insomma arrivò forte e chiaro su quello che avrebbe dovuto fare e su come sarebbe finita se

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avesse girato a lui le spalle. Non contento a Lo Giudice a risultato ottenuto notificò una richiesta: il pagamento di 200 mila euro per spese elettorali sostenute. Lo Giudice protestò, si rivolse al segretario del partito Romano e da questi ebbe ad apprendere che a Giammarinaro direttamente erano stati consegnati 40 mila euro di rimborso elettorale che in realtà sarebbero spettati a lui. Terreni confiscati Ma nell'indagine c'è anche altro: la storia di un terreno confiscato al narcotrafficante mafioso di Salemi Salvatore Miceli. Confiscato da oltre 10 anni non è stato mai assegnato. Incartamento rimasto fermo al Comune e ancora di più da quando è sindaco Sgarbi. C'era un progetto per assegnarlo a Slow Food e a Libera, ma il sindaco Sgarbi è stato intercettato a parlare con un assessore vicino a Giammarinaro, l'avv. Caterina Bivona, mentre assicurava che Giammarinaro non sarebbe andato deluso, «A don Ciotti quel terreno non verrà mai dato». Parlando con Giammarinaro, Sgarbi poi si faceva dire a chi doveva assegnarlo e Giammarinaro gli indicò l'Aias e il signor Francesco Lo Trovato. Ad oggi comunque l'assegnazione non è andata avanti e il terreno, 70 ettari, resta non produttivo. L’agenzia nazionale dei beni confiscati se lo è ripreso indietro, e Sgarbi ha presentato la circostanza come una vittoria e non una sconfitta. E il mafioso, arrestato in Venezuela dai carabinieri e ora in carcere, se la ride. E il mafioso se la ride Il ministro dell’Interno Cancellieri nella giornata di mercoledì 8 febbraio ha incontrato Sgarbi, ancora sindaco di Salemi, a Roma. Il Viminale non ha fatto comunicati sulla “visita”, Sgarbi ha diffuso un lungo documento.


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“Cala il sipario, parte la pubblicità...”

Nessun cenno alle dimissioni, assunzione dei poteri prefettizi per avviare l’accesso in tutti gli enti locali della provincia, rilascio del nulla osta di bontà sull’operato di Giammarinaro a Salemi dove aveva pieno diritto a fare il “rais”. Perché la sintesi risulti riscontrata, diamo di seguito il comunicato stampa di Sgarbi. Il comunicato di Sgarbi < Vittorio Sgarbi ha incontrato stamane a Roma, nella sede del Viminale, il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Nel corso del colloquio, durato poco più di un’ora, Sgarbi ha esposto la situazione di Salemi e illustrato «l’azione di rinnovamento e di pieno contrasto ad ogni abuso, anche nella tutela del centro storico e nello sforzo di impedire abbattimenti e distruzioni». Il ministro ha molto lodato, tra le altre cose, l’iniziativa delle «Case a 1 euro», «dispiacendosi dell’interruzione del procedimento di assegnazione delle case che riterrebbe opportuno anche in altre città di Sicilia». «Ho detto al ministro – spiega Sgarbi – di ritenere la richiesta di scioglimento ingiusta e discriminatoria. Ho difeso la dignità, l’onore di Salemi e dei consiglieri regolarmente eletti nelle liste promosse dall’ex deputato Pino Giammarinaro che aveva dunque legittimo titolo a discutere progetti e proposte politiche». Vittorio Sgarbi ha manifestato al ministro «la decisione di inoltrare un esposto, oltre che al ministro stesso, alla magistratura e al Prefetto di Trapani, per chiedere perché la valutazione delle presunte “infiltrazioni mafiose” sia stata ritenuta “necessaria” soltanto per il Comune di Salemi, dove l’azione dell’ex deputato Giammarinaro è stata legittimata da libere elezioni con presentazione di liste approvate dalla Prefettura e con un programma esposto in liberi comizi alla presenza delle forze dell’ordine, senza che nessuno mettesse sull’avviso il sindaco

della, se non illegittimità, della inopportunità di fare attività politica con l’esplicito sostegno e accordo del suddetto Giammarinaro». «Né il Prefetto né il Questore e neppure il Comandante dei Carabinieri della locale stazione, che pure ben conosceva e conosce Giammarinaro – ha sottolineato Sgarbi al ministro – hanno mai manifestato perplessità o critiche al suo pubblico ruolo di leader politico che aveva titolo e obbligo di rappresentare la maggioranza, con lui, legittimamente eletta. Su queste ovvie considerazioni il ministro ha convenuto». «Ho inoltre annunciato al Ministro – rivela Sgarbi – la mia decisione di chiedere “ l’accesso agli atti” in tutti i comuni in cui sia provata l’influenza politica di Pino Giammarinaro e la presenza di rappresentanti della sua corrente politica, tanto più senza la presentazione di liste elettorali, ma solo sul piano della persuasione e delle conoscenze personali (ciò che può essere conseguentemente considerato “infiltrazione” o “regia occulta”. A Salemi la “regia” fu manifesta e il sindaco fu il primo attore). «Chiedo così che venga verificata l’influenza politica di Pino Giammarinaro a Mazara del Vallo, dove ha appoggiato la lista del candidato sindaco sostenuto dall’ex Pm Massimo Russo, in una singolare coincidenza tra quello che fu il magistrato inquirente e il suo indagato; a Castelvetrano, dove Giammarinaro ha indicato rappresentanti della sua corrente politica in giunta, oltre ad avere consiglieri di suo riferimento; a Marsala, dove vi sono consiglieri e assessori espressione sempre di Giammarinaro; ed ancora ad Alcamo, Calatafimi, Gibellina e Partanna. E alla Provincia regionale di Trapani dove la corrente di Giammarinaro ha espresso consiglieri e assessori che a lui rispondono. Ovvero in quelle città – osserva Sgarbi – in cui sono stati eletti consiglieri o nominati assessori amici, conoscenti, sodali, esponenti po-

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litici della stessa area del noto “ex sorvegliato speciale”». «Solo a Salemi – ricorda Sgarbi – di cui si propone, senza alcuna indicazione di fatti ma solo sulla base di supposizioni, lo scioglimento dell’amministrazione, l’ex deputato Pino Giammarinaro ha agito alla luce del sole, con ciò negando il principio stesso di “regia occulta” o “infiltrazioni mafiose”. Su questo piano Giammarinaro può aver condizionato qualunque amministratore e, anche in passato, non si è mai, da parte delle Forze dell’Ordine, omissivamente, indicato la sua influenza occulta. L’unica amministrazione che non era in grado di influenzare, per la presenza di un sindaco, senza liste politiche, che lo ha culturalmente e democraticamente contraddetto e contrastato su ogni proposta, è quella di Salemi. «Il paradosso vuole che – aggiunge Sgarbi – che quando Giammarinaro “influenzava” realmente, le amministrazioni sono state risparmiate. Quando invece non era in grado di farlo, e i suoi stessi consiglieri non rappresentavano le sue istanze, com’è accaduto a Salemi, si è proposto un immotivato scioglimento. Gli ispettori e gli inquirenti sembrano avere agito sulla suggestione di un noto mistificatore di professione, abituato a creare illusioni: Oliviero Toscani. Il quale ha chiamato mafia, come egli stesso ammette, la burocrazia». In compenso, contro la volontà di Giammarinaro – conclude Sgarbi – ho realizzato infinite iniziative per restituire onore al nome di Salemi, tra le quali, paradossalmente, lo stesso “Museo della Mafia”. Stessa scena in Consiglio comunal. Con l’annuncio che lui da Salemi non va via, o almeno resta il nome perché a Salemi avrà sede la sua fondazione. > Cala il sipario A questo punto, tanti saluti. Cala il sipario, parte la pubblicità, arrivederci alla prossima puntata.


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Sicilia/ Cronache di democrazia

“No al mostro Megastore Fuori dal mio paese!” La provincia di Catania ha il record dei centri commerciali: molti (non cristallini) investimenti, pochissimo lavoro. Il più terrificante di tutti è previsto a Scordia. La gente del posto non è d'accordo di Attilio Occhipinti di Generazione zero

E' il 10 febbraio, pioviggina a Scordia, una macchia di case nella valle del Calatino. Il sole non sembra aver voglia di uscire stamattina. Sono le 9,30 circa, c'è freddo, il tipico freddo di febbraio. La sciarpa al collo è d’obbligo. Davanti al municipio si raduna un po' di gente, studenti con lo zaino in spalla e signori fra i quaranta e i sessanta che parlano tra di loro. Fumano nervosamente, come se il fuoco delle sigarette possa confortarli dal freddo, mentre la pioggia leggera smette di cadere e, finalmente, qualche timido raggio di sole trafigge il cielo nuvoloso. "Siamo tutti per il no! Il sindaco è l'unico contro i suoi concittadini! Deve andare via! Non lo vogliamo ‘sto Megastore!" grida quaòcuno dalla folla, mentre

un altro, uno sulla quarantina con la barba lunga e una giacca nera, urla: "Dicono che il Comune ha bisogno dei seicentomila euro di ‘sto centro commerciale, ma la verità è che il sindaco cura solo i propri interessi! E a noi commercianti chi ci pensa?". Ed eccone un altro che, fissandoci negli occhi e agitando le mani, incalza: "Questo sindaco non ha orecchie per la gente di Scordia!!". Già, la gente di Scordia. Sulle scale del municipio un ragazzo si sistema la kefiah intorno al collo guardando la folla, poi avvicina le labbra al megafono: "Popolo di Scordia, commercianti e studenti, oggi siamo qui per dire no... Una volta per tutte!". Applausi. "Non vogliamo lo Scordia Megastore! Facciamolo capire a questi signori!". Applausi e cori. “Posti di lavoro finti” Ma perché sono qui? Che ragioni muovono questa gente? Fra un'ora inizierà al municipio la conferenza dei servizi: Camera di Commercio, Regione Sicilia, Provincia Regionale di Catania e il Sindaco di Scordia, Agnello, decideranno se costruire o meno il centro commerciale “Scordia Megastore”. Dal megafono continuano a fiorire parole e grida mentre, accanto al gruppo

dei commercianti, una donna soffoca la sigaretta con la punta dello stivale: è Lina Basso, presidente della Confcommercio di Scordia. “La Confcommercio di Scordia oggi è qui per stare vicino ai propri commercianti e lavoratori e per dichiarare tutto il proprio dissenso: il Megastore schiaccerà l'economia di Scordia. Vengono inoltre promessi dei posti di lavoro a progetto, cioè finti, e secondo le nostre analisi per ogni posto di lavoro di questo tipo se ne perdono tre normali. Non riusciamo a trovare un motivo per dire sì a questo centro commerciale!". La Scordia Megastore Srl Ricomincia a piovere, ma sempre in modo leggero. I ragazzi di Rifondazione Comunista e Italia Dei Valori si alternano al megafono, sono quasi le 11 e c'è davvero molta gente. "La ditta Scordia Megastore Srl risulta essere in mano ai Fratelli Basilotta Immobiliare" dice Marletta del Prc, occhi scavati, barba di un paio di giorni. "E Vincenzo Basilotta, uno dei fratelli, ha ricevuto una condanna definitiva e gli sono stati pure sequestrati beni per un totale di 30 milioni di euro. A causa di questo sequestro ha dovuto vendere le azioni della sua ditta ai fratelli, ed è anche il proprietario della caserma dei Carabinieri proprio di Scordia!".

SCHEDA I NUMERI DEI CENTRI COMMERCIALI Centri commerciali in Italia: Centri commerciali a Catania: Centri commerciali prima del 2000: Centri commerciali oggi: Centri commerciali provincia di Catania:

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250 metri quadrati ogni 1000 abitanti 360 metri quadrati ogni 1000 abitanti 40.000 metri quadrati 388.929 metri quadrati 0,5 metri quadri per abitante


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“La povera democrazia del paese contro i grandi affari decisi altrove”

"Sappiamo - aggiunge - che Basilotta è molto vicino al presidente Lombardo, ha svolto dei lavori privati per la moglie di lui, ed è anche vicino a Rosario Di Dio, entrambi di Castel di Judica". “All'aula consiliare!” urlano tutti Ora piove con più intensità, pare si sia aperto il cielo. E’ ora di entrare in municipio. Ci dirigiamo insieme alla folla verso la stanza del sindaco Agnello, la dentro ci sarà un tavolo attorno al quale si decideranno le sorti del Megastore e

quindi di tutta Scordia. La gente vuole assistere alla conferenza, ma la stanza è troppo piccola per contenere tutti. "All'aula consiliare!" urlano dal fondo, ma i carabinieri schierati davanti alla porta invitano alla calma. Ore 11,45: ancora nessuna traccia della Regione e della Provincia, un gruppo di studenti si siede sulle scale, c'è chi appoggia la testa al muro e chi sbadiglia. Aspettiamo ancora. Ore 12, tutti in aula consiliare. Il sindaco ha deciso che si svolgerà lì la conferenza dei servizi. Ci sediamo in seconda fila, davanti a noi i tavoli, i microfoni, le poltrone, ma

SCHEDA I PROTAGONISTI DEL MEGASTORE Angelo Agnello, sindaco di Scordia Vota “no” alla conferenza dei servizi del 10 febbraio. E’ tuttavia considerato uno dei promotori del Megastore. E' oggetto di intimidazione nell’aprile 2011, quando ignoti gli rubano l’auto, che sarà poi ritrovata con un foro di proiettile sul cofano posteriore. Mario Ciancio, editore/imprenditore Viene citato dal Prc come protagonista di un altro caso di costruzione di centro commerciale sospetto. “Non possiamo dimenticare i milioni di euro che entrarono nelle tasche dell’editore Mario Ciancio proprietario dei terreni dove è sorto il centro commerciale del quartiere Pigno”. Proprio dall’episodio in questione sarebbe poi nato l’interessamento della magistratura catanese a Mario Ciancio del marzo 2009 (Fatto Quotidiano, Antonio Condorelli). Nella società che ha realizzato il centro commerciale vicino all’aeroporto di Catania ci sarebbero il fratello del senatore azzurro Carlo Vizzini e il figlio (incensurato) dell’ex parlamentare di Forza Italia Tommaso Mercadante. I lavori per la costruzione del centro sono stati realizzati da Basilotta. Possiede le tv locali Antenna Sicilia, Teletna, Telecolor e Video 3, e le radio locali Radio Sis, Radio Telecolor e Radio Video 3. Ha quote azionarie nei quotidiani Giornale di Sicilia, Gazzetta del Sud e La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha partecipazioni in LA7,

ancora nessuno di quelli che dovranno decidere ha preso posto, mentre in platea non ci sono più posti a sedere. L'impazienza dell'attesa Commercianti, studenti, rappresentanti di associazioni o di parte politica hanno riempito letteralmente l'aula. Sui loro volti si legge, oltre alla stanchezza, l'impazienza dell'attesa, come prima di una grande partita, quando la squadra di casa è già schierata e pronta a giocare e si attende la squadra ospite.

MTV, Telecom, Tiscali e L'Espresso/Repubblica. Stampa e distribuisce quotidiani nazionali in Sicilia e Calabria. Gaetano Anastasi, consigliere comunale Mpa Genero di Vincenzo Basilotta. Rappresenta l’azienda di famiglia alla conferenza dei servizi. E’ considerato il tramite per i lavori privati che Basilotta ha eseguito per Lombardo. E’ consigliere comunale per l’Mpa a Castel di Iudica. Bisignani Biagio, ingegnere Progettista Megastore. Nel 2003/2008 docente a contratto per l’insegnamento di Gestione Urbana, raggrupamento ICAR20, Università di Catania, Facoltà di Architettura sede Siracusa. Nel 2007/2009 docente a contratto per l'insegnamento di Tecniche Urbanistiche, modulo interno al laboratorio di Progettazione Architettonica 2a/2b. Nel 2009/2010 docente a contratto per l'insegnamento di Progettazione Urbanistica, Architettura sede Siracusa. Nel 2010/2011, Docente a contratto per l'insegnamento di Progettazione Urbanistica, Architettura sede Siracusa. Nel 2005/2007, direzione lavori (60%) e parte di progettazione dell'area commerciale integrata Etnapolis, Belpasso (zara, Oisho, Berska, Emmelunga, Camille, C'art, Segafredo, Zona Food); 2005/2009, Pilotage centro commerciale Etnapolis, Belpasso; 2006/2010, progettazione di un centro commerciale a Biancavilla; 2007/2010, altra progettazione analoga a Scordia; 2010, progettazione di un centro servizi-commerciale a Catania.

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Giulio Pitroso Generazione zero


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L'attesa è finita, l’orologio segna un orario imbarazzante, le 12:30. Abbiamo aspettato un’ora e mezza. Tutti prendono posto, Camera di Commercio, Regione, Provincia, Sindaco dietro al tavolo decisionale, di lato; da una parte la Confcommercio Sicilia e dall'altro il rappresentante della società “Scordia Megastore Srl”, Anastasi ( genero di Vincenzo Basilotta), e il progettista della struttura, l'ing. Bisignani (lo stesso dell'Etnapolis). “Il piano presenta incoerenze” Il sindaco apre i lavori, il pubblico rumoreggia, ma appena si accendono i microfoni subentra subito il silenzio. Il rappresentante della Regione Sicilia, Leonardo Pipitone, e quello della Camera di Commercio, Franco Virgillito, chiedono di vedere le necessarie autorizzazioni per la costruzione dell'edificio: viene mostrato il progetto, i vari permessi, i diversi incartamenti e, dopo una fase di lettura e analisi molto lunga, si passa agli interventi. La Confcommercio Sicilia: "Il piano di impatto commerciale, presentato dalla società Scordia Megastore Srl, presenta diverse incoerenze. Parliamo di una società che stima di fatturare un importo

annuo inferiore a quello che fatturerebbe un centro commerciale che va male!", e poi: "Il fatturato previsto è di circa 4.900.000 euro, laddove le altre strutture fanno 11 milioni di euro, se va male, e 24 milioni se va bene!". Applauso di tutta la platea. Lo striscione rimosso Ora la parola all'ingegner Bisignani, il quale con un breve intervento sulla "normale non perfettibilità del piano di impatto commerciale", difende il proprio operato, dato che oltre alla progettazione della struttura si è anche occupato della realizzazione del già menzionato piano di impatto. Sono circa le 15:45, quando gli addetti ai lavori sono chiamati a votare. In aula c'è trepidazione, dietro di noi i commercianti in silenzio sembrano quasi pietrificati, mentre i ragazzi di Rifondazione Comunista espongono uno striscione: "NO SCORDIA MEGASTORE". Glielo faranno togliere poco dopo. Per prima esprime il suo voto la Camera di Commercio, ed è no; tocca alla Provincia di Catania, ed è un altro no. Adesso si insinua un misto di allegria e preoccupazione tra i cittadini, mentre l’ansia serpeggia nei loro ventri e sbarra loro gli

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occhi. Mancano ancora due voti, quello della Regione e poi quello del sindaco Agnello. Sì o no. Il momento della decisione Alla nostra destra un ragazzo seduto di fianco a me tiene gli occhi chiusi, muove leggermente le labbra, come se stesse pregando. Come prima di un rigore. E arriva il terzo no, quello della Regione. Tifo da stadio in aula, c'è il sorriso stampato sul volto di tutti i presenti e partono pure i cori. “Pure il sindaco ha votato no!” Viene negata la concessione alla realizzazione del centro commerciale Scordia Megastore. La partita è chiusa. Lasciamo la sala insieme alla folla, i commercianti che avevamo sentito stamattina, nervosi, ora mostrano tutta la loro gioia. C’è un ragazzo, magrolino con i dread, i jeans a vita bassa e con uno zainetto sulle spalle; ci dice: " Scrivetelo che pure il sindaco oggi ha votato no!" Verso le 17 lasciamo Scordia, la lasciamo diversa da come l'abbiamo trovata stamattina. Il sole non c'è, è calata la sera, ma in cielo non c'è traccia di nuvole.


Catania

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Contro il sacco del lungomare Appello della società civile contro il progetto Viabilità di scorrimento Europa-Rotolo Al sig. Sindaco di Catania Al commissario ad acta relativo al procedimento "Viabilità di scorrimento Europa-Rotolo" Il 31 luglio 2009 tredici associazioni catanesi, numerosissimi cittadini, professionisti, tecnici e docenti universitari avevano rivolto un appello agli organi di informazione, alla cittadinanza ed alle istituzioni affinché non venisse realizzato il progetto denominato "Viabilità di scorrimento Europa-Rotolo" nei termini descritti in un'inchiesta pubblicata nei giorni precedenti sul "Quotidiano di Sicilia" a firma di Antonio Condorelli: «400 mila metri quadri di sbancamento a 10 metri sul livello del mare, 56 mila metri quadri di centro commerciale e 48 mila mq di parcheggi a pagamento spalmati tra una strada che doveva essere una via di fuga antisismica e un pezzo di costa lungo 1200 metri, in concessione per 38 anni ad un gruppo imprenditoriale». Le conseguenze del progetto Dopo avere esaminato approfonditamente il progetto, seguì l'8 febbraio 2010 una seconda lettera nella quale altrettante associazioni argomentarono le loro forti perplessità affermando che il progetto così come ideato, originariamente quale viabilità di scorrimento per motivi di protezione civile, alla quale venne associata una vasta area commerciale al fine di poterlo realizzare in project financing, avrebbe comportato: - il cambiamento di finalità della strada V.le De Gasperi, che da prevista viabilità di scorrimento, sarebbe diventata copertura di un Centro commerciale, perdendo quindi le sue finalità a servizio della sicurezza in caso di terremoto per diventare una strada di accesso o di avvicinamento al sottostante Centro commerciale ed ai vari parcheggi, alcuni interrati; - l'aumento del traffico veicolare ed incremento della quantità complessiva di cittadini che in caso di pericolo abbandonerebbe l’area con conseguente riduzione del livello complessivo di sicurezza; - l'annullamento dell’unicità del Borgo

marinaro di San Giovanni Li Cuti, attualmente separato tramite il lungomare dalla città, con due soli ingressi, mentre col progetto sarebbe stato integrato al Centro commerciale essendovi una fusione completa fra il Centro ed il borgo; - la modifica della visione prospettica del Borgo di San Giovanni Li Cuti dai punti di visuale del Lungomare (V.le Ruggero di Lauria); - la trasformazione del Lungomare in percorso commerciale e in copertura trasparente dei negozi sottostanti con conseguente perdita della sua attuale funzione di percorso ambientale, di jogging, di relax; - la polarizzazione delle attività commerciali verso il lungomare e le aree limitrofe a discapito delle attività commerciali poste lungo le strade interne della città come Corso Italia o Via D’Annunzio; - la disgregazione della scogliera lavica e delle relative grotte in corrispondenza di Piazza Tricolore a causa della realizzazione di un altro grande parcheggio interrato la cui costruzione per dimensioni e posizione avrebbe indebolito la coesione fra le varie colate nella fascia rimanente fra il parcheggio ed il mare; - la mancanza di una pianificazione complessiva che contemperi e integrari le diverse esigenze di quell’area della città col resto della pianificazione urbana. “Forti perplessità” Le forti perplessità ed i rilievi tecnici suesposti sembravano avere incontrato il consenso dell'Amministrazione comunale che, infatti, per bocca del Sindaco dichiarò: «Qualunque progetto sia stato elaborato il mio pensiero, che ho sempre illustrato apertamente, è che non si possa procedere con un intervento demolitorio che non abbia alla fine effetti benefici per la città. Questa amministrazione sgombrerà il campo da dubbi e con chiarezza va detto che non sarà fatto nulla che possa deturpare il territorio, men che meno si può pensare che questa amministrazione voglia procedere a una cementificazione selvaggia del lungomare. Quindi dico a tutti, associazioni, consiglieri, cittadini comuni di stare tranquilli perché il Comune procederà con la massima cautela e attenzione» (La Sicilia, 3 agosto 2009); e ancora: «Si tratta di un progetto di finanza già aggiudicato prima del mio insediamento. Per

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quanto mi riguarda non ho firmato la relativa convenzione. Sono contrario al restringimento della carreggiata del Lungomare e ai progetti invasivi, ma concordo con il completamento dell’asse viario di viale De Gasperi. Non permetteremo altri scempi» (La Sicilia, 21 giugno 2010). A seguito però di un ricorso esperito dinanzi al TAR dalle società aggiudicatarie dei lavori per l'asserito comportamento inadempiente del Comune, il giudice amministrativo ha con sentenza del luglio 2011 nominato nella persona del Segretario del Comune di Messina il commissario ad acta deputato a sostituirsi al Comune inadempiente per il completamento della procedura relativa al progetto di finanza "Viabilità di scorrimento Europa-Rotolo". Il commissario risulterebbe essere già insediato con provvedimento del novembre 2011. “Annullare la gara” L'inerzia delle istituzioni comunali nel definire questa vicenda, seppur ereditata da amministrazioni del passato, ha comportato la soccombenza in un giudizio le cui non indifferenti spese graveranno sulle tasche dei contribuenti catanesi. Ora l'auspicio è quello che, subito dopo avere ottemperato alla sentenza, l'Amministrazione provveda, con i poteri di cui gode, all'annullamento della gara. Con la presente, pertanto, le scriventi ventisette associazioni chiedono al Sig. Sindaco di assumere senza indugio tutti i provvedimenti necessari perché venga posta fine all'ennesima operazione speculativa ai danni dell'ambiente, della cittadinanza, del bene comune. Cittàinsieme, Comitato Porto Del Sole, Federconsumatori, Italia Nostra, Legambiente Catania, Lipu Catania - Wwf Catania, Addiopizzo Catania, Centro Astalli Catania, La Città Felice, Cives Pro Civitate, Decontaminazione Sicilia, Associazione Domenicani Per Giustizia E Pace, Ecologisti E Reti Civiche Catania, Forum Catanese Acqua Bene Comune, Gapa (Centro Di Aggregazione Popolare San Cristoforo), I Cordai, Laboratorio Della Politica, Coordinamento Provinciale Di Libera, Nike, Rifiuti Zero Catania, Ass. Antimafie Rita Atria, Akkuaria, Artists&Creatives, 51 Pegasi, 25 Novembre Giornata Mondiale Contro La Violenza Alle Donne, U Cuntu


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Marinai/ Gli occupanti della “Marettimo”

Da mesi dentro la nave per non perdere il lavoro Garibaldi doveva sbarcare a Trapani, dicono, non a Marsala. Un grande porto, rifinanziato da poco per Coppa America: e tuttavia è in crisi, coi creditori non pagati e gli operai senza lavoro... di Rino Giacalone Trapani. Qualcuno li potrebbe anche chiamare i “forconi” del mare. La loro è una protesta per il giusto lavoro, per vedere riconosciuti i propri diritti dopo che hanno fatto fino in fondo il loro dovere. A differenza però dei “forconi” certamente nessuno può venire in mezzo a loro dicendo di avere sentito “odore di mafia”. E poi loro non hanno fermato alcuna attività, non hanno determinato chiusura di aziende, cassa integrazione, file ai distributori. Stiamo parlando dei trenta operai che da quasi tre mesi vivono dentro una petroliera costruita dal Cantiere Navale di Trapani e che occupano, abitandovi giorno e notte, una parte del piazzale del Cnt, sotto una tenda. Il Cantiere ha conosciuto una crisi improvvisa dopo feste e festicciole, bottiglie di champagne stappate, attorno alla petroliera che adesso è diventata la casa della manovalanza del cantiere.

D’improvviso lo stop, il Cnt è in crisi, non ci sono soldi per pagare gli stipendi, non ce ne sono per mantenere i livelli occupazionali di prima. L’annuncio di nuove commesse di colpo è come se si fosse sciolto come neve al sole, il Cnt deve sbaraccare e deve fare subentrare nella concessione demaniale una nuova società, la Satin. Come in tutte le cose siciliane c’è un risvolto: Cnt e Satin sono due società che vivono sotto lo stesso gruppo imprenditoriale, quello della famiglia D’Angelo, Salvatore è un anziano capitano, per anni consigliere comunale della Dc a Trapani, a prendere le redini però della società è stato presto suo figlio Giuseppe. Ad affiancare il gruppo D’Angelo è un ingegnere, Vincenzo Sorge,nel cantiere già da quando, tantissimi anni fa, era a gestione pubblica. E' conosciuto anche come ex attivista prima del Pci e poi del Pd. Sorge, da direttore tecnico del cantiere, oggi con i D’Angelo è uno dei componenti del Cda del Cantiere Navale di Trapani. Praticamente i D’Angelo escono dalla porta con il Cnt e rientrano nemmeno dalla finestra ma dallo stesso cancello con la Satin, lasciandosi però per strada un bel po’ di operai. Nella nuova società infatti non c’è spazio per tutti. La società ha spento il motore Gli operai destinati alla mobilità (parola che fa intendere tante cose ma il cui vero significato è “licenziamento") non hanno fermato nulla. A spegnere il motore del Cnt è stata la società imprenditoriale. Liquidità azzerata, impossibile tirare avanti nonostante annunci di nuove commesse (l’ultima da sette milioni e mezzo di euro da parte della Marina Mi-

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litare). La petroliera - Marettimo M. – appartenente a un gruppo armatoriale Mednav di Catania - doveva essere il fiore all’occhiello della società. Ma dopo un paio di vari (ha avuto come madrina l’avv. Antonia Postorivo D’Alì, moglie del senatore Tonino, ex sottosegretario all’Interno di Forza Italia; il sacerdote che la “benedì” fu monsignore Ninni Treppiedi, adesso al centro di indagini su vorticosi ammanchi di denaro in Curia) è rimasta incompleta. Quando fu varata, giugno 2009, si diceva che in due mesi sarebbe stata consegnata all’armatore;. L’armatore provò a prendersela, dopo avere saputo che la società era in crisi ed i lavoratori occupavano già il cantiere, ma gli operai quando capirono che la “loro” nave stava per essere portata via, sono saliti a bordo per bloccarla. Da quel giorno non sono più scesi a terra. A turno i 30 operai si danno il cambio, in attesa che la loro protesta sortisca l’effetto sperato, e la disoccupazione venga scongiurata. Cantieristica navale da sempre Breve cronistoria. Il Cnt occupa una delle più estese aree demaniali del porto di Trapani. Qui si è fatta cantieristica navale da sempre. Un tempo a gestione pubblica, poi sono arrivati i privati. A disposizione fino a poco tempo fa c’erano anche due bacini galleggianti. Adesso ne è rimasto solo uno. La Regione ha mantenuto la proprietà, ha stanziato parecchi soldi, 9 milioni di euro, per la manutenzione facendo re “regalo” alla società che gestisce il cantiere. Sullo sfondo non mancano cronache giudiziarie. Si dice che quando, molti anni fa, ci fu da mettersi d’accordo su quale cordata dovesse


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prendere in gestione il Cantiere, si mosse il capo mafia Vincenzo Virga per “mediare”. Voci. Nei fatti fu il gruppo D’Angelo, assieme al gruppo Morici, a prendere in gestione il cantiere. Morici è uno dei più grossi imprenditori edili della città, ha fatto i lavori più importanti, poi uscì dal cantiere (anche per vicissitudini nei rapporti familiari) per tornare ai lavori edili. Nel frattempo i Morici, padre e figlio, Francesco e Vincenzo, sono citati nelle pagine dell’indagine per mafia nei confronti del senatore D’Alì, a proposito di rapporti tra mafia, politica e impresa. Francesco Morici ha anche in tasca un avviso di garanzia. Non solo per colpa della crisi Non si può certo dire che questa sia un’altra storia. La politica ed i rapporti politici fanno più che capolino nelle vicende odierne. Questa protesta non è solo una delle tante storie della nostra Italia colpita dalla crisi. E’ una storia di lavoratori che di colpo hanno visto svanire lavoro e stipendi, ma non solo per colpa della crisi. Il che, a Trapani, è paradossale. Il porto, osannato e festeggiato con le lussuose barche a vela della Coppa America, trasformato da una infinita serie di lavori pubblici condotti in un battibaleno (ma con la super visione di Cosa nostra: vedi sentenze), è rimasto incompiuto (40 milioni di euro di nuove banchine spesi senza risultato) quando si è scoperto che i fanghi provenienti dall’escavazione dovevano finire su di una chiatta per essere gettati al largo, o ancora finire su dei camion diretti in discariche “abusive”, il porto di Trapani, quello che la storia dice

doveva essere l’approdo vero di Garibaldi quando invece i Mille finirono con lo sbarcare a Marsala, il porto che vorrebbe essere la porta del continente Europeo e che guarda verso quello Africano, il porto dai mille traffici (anche illegali), ecco, questo porto che mai avrebbe dovuto conoscere la crisi invece è in crisi. Profonda crisi e già da prima che lo “spread” si mettesse a fare le bizze. L'alleanza D'Alì-D'Angelo Il porto che doveva rinascere, così andavano dicendo i politici locali, che se la prendevano con la magistratura quando andava scoprendo illeciti di varia natura, oggi rischia di scomparire. Quando si andavano facendo quelle dichiarazioni altisonanti sul porto – bipartisan, da destra a sinistra, passando per il centro – c’erano una serie di alleanze alle spalle. La più importante era quella tra l’allora sottosegretario all’Interno senatore Antonio D’Alì e la famiglia D’Angelo. In questo scenario un giorno arrivarono a Trapani imprenditori dalla Sicilia Orientale che chiesero al cantiere navale di costruire la prima di una serie di petroliere. I politici al cantiere Comunicati esaltanti, ricchezza fatta toccare con mano, girandola di meriti tra politici e imprenditori, ma presto cominciarono i guai. Si ruppe l’alleanza tra i D’Alì e i D’Angelo, proprio mentre gli allora candidati premier a Roma e Palermo, Veltroni e Anna Finocchiaro, entravano in pompa magna nel cantiere per parlare agli operai, coi D’Angelo felici per essere stati scelti per l’unico appuntamento elettorale trapanese della coppia aò vertice del centrosinistra.

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Foto A.Malatesta/Arci

Presto però la società imprenditoriale cominciò a presentare diversi problemi. Le proteste degli operai, dopo che avevano affettuosamente lanciato in aria il loro patron Peppe D’Angelo il giorno che venne fatta la prova di galleggiamento della petroliera (filmato su youtube), cominciarono a farsi incessanti, fino a esplodere. Il Cnt decide di sbaraccare. Le imprese dell’indotto cominciano a non vedere arrivare i pagamenti, le imprese che facevano da satellite al Cantiere Navale di Trapani si rivelano quasi delle scatole vuote, non c’è giorno che passi senza che ci sia una protesta. Casse diverse, ma stesse persone La soluzione è presto trovata. La società che controlla a sua volta la società Cantiere Navale di Trapani (Cnt) è la “Satin” entrambe del gruppo D’Angelo. La Satin ha lavorato nell’area demaniale nei lavori per la petroliera commissionata da “Augusta due”, per un importo pari a 44 milioni di euro. “Augusta due” paga la “Satin” che, a sua volta, sta corrispondendo il prezzo del subappalto alla società “Cnt”, la società che di fatto ha realizzato il bene per il committente. Tra dare e avere non si è ben capito chi è in credito e chi ha il debito. Accade quando a gestire casse diverse sono le stesse persone. I soldi per pagare i dipendenti “in crisi” di “Cnt” subiscono dunque il “filtro” della “Satin” deciso dal medesimo soggetto amministrante. “Cnt” è attualmente sotto procedura fallimentare e l'amministratore “in comunione” vorrebbe mettere in mobilità (leggasi licenziamento) i dipendenti ed ottenere, in favore della società “Satin”, l'affitto del ramo di attività della società “Cantiere


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Navale Trapani”. Per la Capitaneria, titolare del rilascio della concessione, si può far passare il titolo dal Cnt alla Satin. Nel frattempo i lavori per la petroliera sono stati completati, “Augusta due” per ultimare i pagamenti, saldati al 90 per cento, chiede la consegna della nave ma i lavoratori a rischio di mobilità (licenziamento) si stanno opponendo poiché non capiscono per quale ragione “Augusta Due” abbia pagato la commessa mentre la società che ha eseguito i lavori (CNT) è in crisi ed è inoltre orientata ad affittare l'attività a condizioni agevolatissime alla “Satin”, che sarebbe sua debitrice. La storia però non finisce qui. Perché sugli accordi sindacali c’è una clamorosa divisione. Cgil, Cisl e Uil hanno infatti sottoscritto gli accordi con l’azienda. I trenta operai che protestano, a differenza degli altri 50 che stanno in silenzio sotto il “cappello” dei confederali, dicono che un accordo che non è discusso non può definirsi sancito da niente. E hanno costituito un sindacato autonomo e di base. Nel disinteresse della città La cosa che colpisce è quella che la protesta di questi operai da mesi va avanti nel disinteresse più assoluto della città. Pochissimi quelli che sono a loro vicini. I giovani di Rifondazione, Idv, il circolo Arci Amalatesta, qualche consigliere provinciale: il resto delle istituzioni non s'è visto. L’assessore regionale Venturi si è fatto avanti riuscendo a convocare le parti in prefettura ma anche lì c’è stato il classico buco nell’acqua. La città ha fatto festa per Natale con tanto di neve sparata nella piazza del Municipio in occasione di una festa per la legalità organizzata da Comune di Trapani e Questura, a distan-

za c’era il serale tam tam dei tamburi che vengono battuti sulla nave dagli operai senza più lavoro speranzosi che qualcuno si ricordi di loro. Alle sorti di questa 30 operai si è interessata la trasmissione “Piazza Pulita” di La 7, ma quando le telecamere dovevano essere accese per la diretta è giunta la diffida dei proprietari del cantiere, la trasmissione ha rischiato di saltare “per occupazione abusiva” del suolo demaniale, i tecnici hanno fatto salti mortali ma alla fine da Trapani il collegamento c’è stato. Una diffida che non suona proprio bene a proposito di annunciata volontà al dialogo del gruppo D’Angelo che adesso ha fatto un’altra diffida stavolta contro gli occupanti della petroliera e del cantiere. Licenziati e pure abusivi. Un'area che fa gola Ma è proprio vero che il porto e la cantieristica sono così in crisi? A Trapani non tutti la pensano così, qualcuno è convinto che in crisi sono entrati rapporti personali e politici. L’area demaniale oggi occupata dal cantiere Navale di Trapani è un’area che fa gola e altri imprenditori del mare la vorrebbero far propria. Un nome per tutti? Quello dell’armatore Morace, patron del Trapani Calcio e prima ancora deus ex machina della compagnia di navigazione Ustica Lines. Morace, napoletano verace, è arrivato a Trapani da Messina, doveva essere una gita la sua e invece qui si fermò, abbandonando la cantieristica messinese. apprima qualche aliscafo, poi la flotta è cresciuta, negli ultimi anni un investimento di oltre 14 milioni di euro per comprare una serie di navi e traghetti che però spesso sono rimaste ferme in ban-

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china, qualcuna di queste navi è stata usata dalla protezione civile nazionale per portare via da Napoli immensi carichi di rifiuti. Morace ha ora pensato a fare anche un suo cantiere. E ha messo gli occhi sull’area del Cnt. Intanto le sue navi per i lavori in cantiere a quello di Trapani, dietro l’angolo, ne preferiscono uno di Napoli. Il suo sponsor in tutto e per tutto è l’attuale sindaco di Trapani, Girolamo Fazio, che è tanto amico di Morace da avere pensato a lui, e anche alla moglie dell’armatore, per le prossime elezioni a sindaco. Fazio è al secondo mandato non può ricandidarsi ma l’erede vuole sceglierlo lui. Diffidata anche Libera... La “Satin” in questi giorni si è fatta risentire. Ha promesso che tutti saranno riassunti ma non ha voluto sottoscrivere la dichiarazione. Poi altra alzata d’ingegno. Gli operai potrebbero diventare padroni di se stessi, entrare come soci nella Satin. E con quali denari? Quelli del “loro Tfr”. Siccome a quanto pare non ci sono nelle casse nemmeno i soldi per pagare il Tfr si fa una manovra tutta sulla carta e quei soldi vengono trasformati in azioni. Chissà se quei pezzi di carta saranno disposti a prenderseli le banche per far credito oppure il supermercato sotto casa dove andare a fare la spesa. Risposta scontata, della serie “non ci provate neppure”. Noi dalla petroliera non ci muoviamo. Contro padroni spietati e sindacati che non sono di tutti i lavoratori. La parola fine a questa storia è messa da un’altra diffida. Quella fatta sempre dal gruppo D’Angelo a Libera che l’11 febbraio voleva fare svolgere la sua cena annuale dentro al cantiere occupato.


Solidarietà/ 1

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“Insieme per Anna Maria” Lunedì 20 febbraio 2012, alle ore 9:00, presso la sezione distaccata del Tribunale di Palmi, a Cinquefrondi (RC), udienza per uno dei processi partiti dalle denunce di Anna Maria Scarfò. Anna Maria aveva 13 anni quando un branco ha iniziato ad abusare di lei nel paesino in cui è nata e cresciuta, San Martino di Taurianova. Le violenze sono proseguite per due anni, finchè Anna non ha trovato il coraggio di denunciare, spinta dall'amore verso la sorellina, su cui il branco aveva deciso di accanirsi di lì a poco. Appena quindicenne, dunque, Anna Maria ha iniziato la sua battaglia per riappropriarsi della sua vita. Da sola e contro tutti: contro i suoi stupratori, ma anche contro il suo paese, che l'ha emarginata e condannata, anzichè riconoscerne il coraggio e starle vicina. Come fosse lei la colpevole. Come una "malanova" da tenere lontana... Da dieci anni Anna Maria combatte la sua lotta ed è riuscita a far condannare, con sentenza definitiva in rito abbreviato, sei dei suoi dodici stupratori. Per gli altri sei è in corso il processo d'appello con rito ordinario (in primo grado sono stati condannati anche loro). Inoltre è riuscita a fare ammonire una decina di persone per stalking. Le belve e i loro sostenitori hanno ucciso l'adolescenza e la giovinezza di questa ragazza sfortunata e coraggiosa, ma non la sua dignità e la sua forza. Due anni fa Anna Maria è stata però costretta a "scappare" da San Martino, ad abbandonare la sua terra a causa delle minacce e persecuzioni che continua a subire dalla "sua" gente.. Vive in località protetta, in una terra che non le appartiene, lontana dai suoi affetti, estirpata dalle sue radici per la sola colpa di essersi ribellata all'ingiustizia, alla violenza, a una mentalità mafiosa e retrograda che troppo spesso al Sud prende il sopravvento su tutto il resto. Aiutare Anna Maria a riprendersi la sua vita significa aiutare i calabresi onesti a riprendersi la loro terra. A far capire, alle "belve" di ogni tempo e spazio e a chi le protegge e sostiene, che le vere "malanove" sono proprio loro e che sono loro a dover essere estirpate, come una gramigna che rovina i raccolti. Associazione “Rita Atria”, Fondazione "Filianoti", Le Siciliane, Casablanca, Libera Reggio Calabria, Comitato "Se non ora quando?" Reggio Calabria, Le autrici di "Non è un paese per donne", Comitato "Se non ora quando?", Associazione "Jineca" Reggio Calabria, Stopndrangheta.it

Solidarietà/ 2

Catania città aperta? Vorremmo dire alcune cose in merito all'ennesima aggressione avvenuta il 14 febbraio in un pub del centro storico catanese ai danni di una trans che in quel locale aveva deciso di trascorrere la serata. Michelle Santamaria, estetista transessuale di Licata, si trovava in compagnia di un' amica dentro un pub in via Michele Rapisardi, vicino al Teatro Massimo Bellini. Le ore erano trascorse ballando, festeggiando il giorno di San Valentino ma verso le 4 del mattino Michelle viene insultata da un ragazzo con l'immancabile "Bastardo frocio devi morire" e colpita con un pugno in pieno viso. Altre persone, il branco, giovani e giovanissimi, la fanno cadere e la colpiscono nuovamente con calci e pugni. Michelle non viene soccorsa da nessuno, nemmeno dai gestori del locale ma anzi viene inseguita dagli aggressori, alcuni dei quali armati. Riesce ad arrivare in Questura e denunciare il fatto, viene soccorsa e medicata all'ospedale Garibaldi dove le riscontrano trauma cranico e toracico e una vertebra fratturata, con una progosi di 25 giorni. Vogliamo esprimere la nostra solidarietà a Michelle, riconoscendole il coraggio di essersi esposta con una denuncia pubblica e augurarle di rimettersi al più presto da questa ignobile avventura conoscendo perfettamente le dinamiche incontrollabili che scatenano questi accadimenti. Come Open Mind siamo accorsi in difesa di una trans sieropositiva che a San Berillo non era stata fatta salire in ambulanza, chiamata perché si era sentita male, e tante volte abbiamo raccolto il disagio, il dolore e le lacrime di volti e anime ferite nei corpi e nella dignità, accompagnati in questo, dalla solidarietà concreta di donne e uomini, compagne e compagni.Catania non è una città immune dalla violenza contro chi ha il coraggio e il desiderio di mostrare un aspetto diverso e non conforme alla cultura dominante del nostro paese. Le parole di Michelle ce lo confermano. "Mi hanno aggredita perché ho un viso maschile e non femminile come si aspettavano". Come a dire che ognuno di noi deve corrispondere a ruoli e comportamenti normati, che non diano scandalo. Se pensiamo che a dicembre una donna, Stefania Noce, una ragazza giovane e fiere della sua donnità, è stata massacrata dal suo fidanzato, ci rendiamo conto di come la nostra terra sia ancora pregna di cultura patriarcale che si traduce in disprezzo e violenza contro i corpi che la mettono in discussione. Donne, gay, lesbiche e trans, nella loro identità non normata, e quindi rivoluzionaria, sono comunemente considerat* soggetti fragili e a rischio. Capovolgiamo questo paradigma, facciamo diventare il limite una risorsa, così costruiremo un mondo altro. Sara Crescimone Open Mind, Catania

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Trasporti

Com'era bello il mio treno Nostalgie ferroviarie Ne ho fatti di viaggi sulla Freccia del Sud e treni simili. Tutto cominciò nel 1969... di Tommaso Maria Patti CTzen

Per quasi quattro anni i miei viaggi Catania-Bologna, dove frequentavo il triennio di ingegneria, furono incontri di amore-odio proprio con la Freccia del Sud: di odio le partenze verso il freddo e il dovere; di amore i ritorni verso casa, il caldo, il mare… la mia ragazza. A quei tempi la Stazione ferroviaria di Catania era sempre affollatissima. Partiva e arrivava tantissima gente, mentre l’aeroporto, sebbene in crescita, sembrava ancora quello di una piccola città. Nei due anni successivi, trascorsi a Padova, prendevo il treno per Venezia; credo si chiamasse Freccia della Laguna. Si è trattato sempre di viaggi in cuccetta. Poi seguirono trentacinque anni e più di cuccette e vagoni letto (da quando ho cominciato a potermelo permettere) tra Roma e Catania. Ormai però le partenze e i ritorni erano da Roma e per Roma. La mia ragazza intanto era diventata mia moglie. Ho viaggiato anche in macchina, in aereo, in nave, in pulmann, è vero, ma il treno è stato sempre il mio mezzo di trasporto preferito.

Era divertente il treno. Vi accadeva di tutto. Mi piaceva. In certi periodi in cui ho fatto il pendolare settimanale RomaPadova in treno ci ho praticamente vissuto: ci dormivo due notti a settimana. Confesso che soffrivo e soffro quando sento certi commenti, soprattutto a Catania: «Che schifo i treni! Sono carri bestiame. Non capisco come faccia certa gente a prenderli… lenti, sporchi, mal serviti, mai puntuali; ci invecchi sui treni…». Io quei treni invece li ho amati, anche se forse ci sono invecchiato veramente. All’inizio avevo tutti i capelli ed erano scuri, come la barba. Oggi capelli ne ho pochissimi e sono bianchi. E bianca è pure la barba. Ma i treni del sud sono serviti sempre peggio e ormai quelli per la Sicilia, un po’ alla volta, li stanno sopprimendo: prima quelli da e per il nord, poi i notturni da e per Roma. Alla fine li aboliranno tutti Alla fine aboliranno anche i diurni. Costa troppo la gestione dei traghetti ferroviari. Non fanno più neanche la manutenzione di quelli guasti. Ne sono rimasti solo due operativi dei cinque di una volta. Quando, a breve, saranno anche quelli inservibili… abbiamo chiuso! Prima o poi tutti i treni si fermeranno a Villa e si dovrà traghettare per conto proprio. Nell’isola vinceranno definitivamente i pullman delle compagnie private. E’ ovvio che allora l’aereo non avrà più alternative neanche da Roma. Intanto Alitalia avrà acquistato Windjet e, in mancanza di concorrenza, torneranno i prezzi carissimi di una volta. Che peccato. E che passo indietro per la Sicilia! Le centinaia di volte che il mio treno ha dovuto traghettare ho sempre

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considerato assurdo che si impiegassero circa due ore e mezza dall’arrivo a Villa alla ripartenza da Messina. A lungo mi sono illuso che prima o poi si sarebbe costruito quel benedetto ponte. E quando ancora non si associava l’idea del ponte a un personaggio preciso e a una parte politica precisa… quasi tutti la pensavano come me. Ricordo Giuseppe Fava, che pure era di sinistra e certamente schierato contro la mafia, come lo auspicava quel ponte. Scrisse pagine infuocate per dimostrarne la necessità. L'Italia, senza saperlo, cresceva Ma torniamo ai treni: ricordo che fino a qualche anno fa il treno occorreva prenotarlo con due mesi di anticipo, soprattutto nei periodi di punta, a Natale, Pasqua, d’estate… altrimenti col cavolo che la trovavi la cuccetta. Nel periodo che ancora il dollaro valeva stabilmente 625 lire (la nostra liretta era stabile) e l’Italia, anche senza accorgersene, cresceva velocemente, la cuccetta costava 1.600 lire. Poi a lungo il prezzo mi pare sia stato di 1.950 lire. Il biglietto vero e proprio, di qualche decina di migliaia di lire, variava in base alla lunghezza del viaggio e alla classe. Viaggi a volte avventuros I viaggi erano abbastanza sicuri, ma certe volte avventurosi. Scioperi che costringevano a scendere a Villa per risalire su un altro treno a Messina. Nevicate che facevano fermare a lungo i treni anche a pochi chilometri dalle città di destinazione. Pullman sostitutivi per tratti inagibili, ad esempio per mareggiate in Calabria. Ne ho viste, ah se ne ho viste! Ricordo


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un viaggio con partenza da Venezia in piedi… anzi su un piede solo fino a Bologna, poi ho potuto proseguire su due piedi finché da Firenze in giù sono cominciati i turni per sedersi. Un'atmosfera di simpatia Oggi ci si lamenta di treni scomodi e sporchi… Ma vedeste allora... Ricordo l’assalto a un aranceto in Calabria, visto che il treno era fermo da ore e i viveri erano finiti... Ricordo certi incontri simpatici. Una ragazza in particolare: era di Augusta. Fu un viaggio piacevole, sebbene pieno di disagi. Avrei volentieri proseguito per quella città se a Catania non mi avesse aspettato una persona che per me contava molto. Ricordo certe partite a carte, più viste che fatte. Ricordo certi scompartimenti a cuccette, pieni di mamme con bambini neonati che piangevano tutta la notte… e gli odori... e i rumori... Ricordo che certe volte nascevano discussioni piuttosto accese, mentre altre volte si creava una magica atmosfera di simpatia e armonia. Un'antica cultura contadina Ricordo un viaggio speciale un 26 dicembre con l’intera vettura vuota. Eravamo solo mia moglie ed io e nessuno avrebbe potuto sorprenderci. Ricordo che i litigi fra i viaggiatori sono sempre stati rarissimi. La gente era paziente e mostrava un’antica cultura contadina fatta di saggezza. Mai sentito di furti, ma tanto di notte ci si chiudeva dentro, bloccando la porta. Sul traghetto si andava al bar solo se si poteva lasciare qualcuno di guardia nello scompartimento. C’erano anche piacevo-

li abitudini. Ricordo alla stazione di Firenze una voce che gridava «hàffe hàldo!!!» e quant’era buono quel caffè! Di ritorno dal nord l’arancino sul traghetto era il primo incontro con la Sicilia. Ricordo la ressa al bar: «A me cinque». «Io ne voglio due!». «Dieci arancini per me!». Una scena non la dimenticherò mai. Al barista, a un certo punto, ne era rimasto solo uno, anziché i dieci richiesti. Il cliente deluso e piuttosto maleducato, afferrato con rabbia l’unico arancino, lo scagliò in faccia al povero cameriere. Erano soprattutto emigranti Ho visto lentamente cambiare il livello culturale e l’educazione dei viaggiatori: soprattutto emigranti prima, povera gente che le famose valigie di cartone legate con lo spago le aveva davvero e che spesso proseguiva per la Germania; studenti, militari, turisti, o gente che viaggia quotidianamente per lavoro più di recente. Prevaleva il dialetto prima, l’italiano oggi. Si fumava dappertutto prima, poi gradualmente si è smesso e chi ancora fuma deve scendere alle stazioni. Da un certo momento in poi hanno istituito gli scompartimenti a cuccette per sole donne. Per un certo numero di anni sono stati operativi i viaggi «treno con auto al seguito». Che comodi che li trovavo! Chiedevano “Vuol favorire?” Dal ’69 è passato tanto tempo. Oggi nessuno getterebbe l’arancino in faccia ad un cameriere. Ma in compenso nessuno ti chiederebbe «Vuol favorire?» come si faceva una volta, quando con modi cerimoniosi, ma quasi sempre sinceri, si of-

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“Di ritorno dal nord, l'arancino del traghetto...”

frivano, tirandoli fuori da incredibili barattoli o da cartocci di carta oleata olive, acciughe, formaggio…ed era una pena per me rifiutare, ma francamente non ce la facevo. Loro ci restavano male… Quanti ricordi, quanti episodi… troppi per raccontarli tutti. Per molti quelli erano solo viaggi nella geografia del paese. Per chi, come me, ha sempre viaggiato su e giù per l’Italia, si è di fatto trattato di un incredibile e magico viaggio nel tempo, che peraltro non è ancora finito. Più ricchi e meno gentili Oggi la gente non ha più né le gentilezze né le rozzezze di una volta. E’ cambiato tutto. Le persone sono mediamente più colte, più educate, più ricche, ma forse anche meno pazienti e gentili. Forse comunque le persone sarebbero anche oggi ben felici di avere pure al sud e in Sicilia treni moderni, confortevoli ed efficienti come i Freccia Rossa. Se si potesse andare a Roma in quattro ore perché prendere l’aereo? Ma già oggi, purtroppo, o forse fra poco, la Sicilia non avrà più neanche i treni brutti e puzzolenti di una volta… Mentre i treni comodi e veloci saranno riservati solo alla parte più ricca del paese, quella che va da una certa latitudine in su e che è proiettata verso l’Europa. Poi ci si domanda come e perché nasca il divario nord-sud… Mah! Oggi la stazione ferroviaria di Catania sembra la stazione, poco frequentata, di una piccola città periferica: ci si vedono più cani randagi che viaggiatori. L’aeroporto, invece, sembra quello affollatissimo di una metropoli del terzo mondo, dove i treni non possono permetterseli.


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Trasporti

Siracusa-Milano Odissea sul binario Non tutti i chilometri sono uguali... Dall'estrema Sicilia sono molto più lunghi di Francesco Midolo Ci sono tre imprenditori, Giovanni di Ragusa, Lucio di Siracusa e Antonio di Bari. Sono tutti e tre alle stazioni ferroviarie delle loro città alle ore otto del mattino. L’imprenditore ragusano ed l’imprenditore barese, vogliono raggiungere Milano per promuovere la loro azienda alla B.I.T. L’imprenditore siracusano vuole andare a Trapani per scegliere dei prodotti locali da proporre nella propria azienda. Partono in treno perché hanno tanto materiale pubblicitario da portarsi dietro. Giovanni parte da Ragusa alle otto del mattino. Arriverà a Milano – facendo due cambi – alle sei e cinquantacinque del giorno dopo. 22 ore e 55 minuti di viaggio per 1.447 Km. Il suo treno viaggerà a 62Km/h di media. Lucio parte da Siracusa alle dieci e trenta del mattino, perché prima di quell’ora non ci sono treni. Arriverà a Trapani – dopo aver effettuato tre cambi – alle ventuno e cinquanta. 11 ore e 20 minuti di viaggio per 489 Km. Il suo treno viag-

gerà a 43 Km/h di media. Antonio parte da Bari alle otto del mattino. Arriverà a Milano – senza effettuare cambi – alle quindici e venticinque dopo appena 7 ore e 43 minuti di viaggio per 880 Km. Il suo treno viaggerà a 118 Km/h di media. Giovanni e Antonio partecipano alla B.I.T. Antonio vende più pacchetti viaggi di Giovanni. Giovanni non andrà mai più alla B.I.T. Almeno con il treno. Lucio trova tanti prodotti che potrebbe essere utili alla sua azienda. Prende ciò che può e li porta a Siracusa. Ma è poca roba, dovrebbe tornare. Lucio non andrà mai più a Trapani. Almeno con il treno. I personaggi non sono reali. La situazione delle ferrovie dell’estremo sud Italia, sì. “Siracusa e la Sicilia stanno piano piano perdendo il ruolo di piattaforma economica strategica nel Mediterraneo - afSCHEDA SUD-NORD IN TRENO Ragusa-Milano con cambio a Siracusa e Roma costa 113,65 in seconda classe per 22 ore e 55 minuti di viaggio (08:00-06:55). Siracusa-Trapani con 3 cambi (Messina, Palermo e Piraino) costa 35,60 per 11 ore e 20 minuti di viaggio (10:30-21:50, 489 Km) . Bari-Milano (nessun cambio) costa 85 euro in seconda classe per 7 ore e 42 minuti (07:43-15:25, 880 Km). Fonte: Trenitalia.com Prezzi calcolati su posti a sedere

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ferma Roberto Aloisi della Cgil - Le politiche aziendali stanno mettendo in discussione il diritto alla mobilità delle persone, senza contare le conseguenze per il trasporto delle merci“. Il problema è noto. In un consiglio comunale aperto, tenutosi a Siracusa, convocato dalla conferenza dei capigruppo su richiesta del consigliere Sergio Bonafede, si è discusso proprio dei tagli dei treni e degli investimenti ferroviari nell’estremo sud. Visto dal sud del sud Il primo a intervenire è stato il sindaco, Roberto Visentin, che ha denunciato la sordità di Ferrovie dello Stato rispetto alle tante richiesta di incontro partite dagli enti locali. Per Visentin, che ha chiesto la firma in tempi brevi del contratto di servizio tra Regione e azienda, i recenti blocchi stradali hanno dimostrato l’importanza dei collegamenti su rotaie ed è “inaccettabile” che gli investimenti nel settore riguardino solo il centro-nord. L’abbandono di una regione come la Sicilia, ha aggiunto, è un fatto grave e rende vani gli sforzi che gli enti locali, pur in un momento di crisi finanziaria, mettono in campo per il turismo. Ad ascoltare le parole del sindaco di Siracusa, oltre ad una folla di gente accorsa per sapere delle sorti della stazione ferroviaria, erano presenti i deputati regionali Roberto De Benedictis e Bruno Marziano e i rappresentati sindacali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl.


MAMMA !


www. i si ci l i ani . i t

Un ape r i c ol os ai n noc e nz a Qualche giorno fa, mi trovavo in un liceo di Angoulème in Francia, per parlare a dei ragazzi della storia di Peppino Impastato che insieme a Marco Rizzo abbiamo raccontato a fumetti. Ovviamente parlammo della mafia, e di come la vivessimo ogni giorno quaggiù in Sicilia. Domande, curiosità e tanti luoghi comuni, come potete immaginare. "Certo che potete venire in Sicilia, non vi sparano mica addosso come si vede nei film, è tutto molto diverso da quello che vi raccontano ".

assassini Gerlando Alberti Jr e Giovanni Sutera, latitanti di Cosa Nostra nascosti proprio a Villafranca, verrano successivamente scoperti e condannati all'ergastolo.

E' vero, oggi non si spara più, poi a Messina, si è sempre sparato pochissimo, a Messina, "la città babba" non accade quasi mai nulla di rilevante, figuriamoci a Villafranca Tirrena, il paese in cui abito e in cui devo dire, si vive anche abbastanza bene.

L'altro giorno sono venuto a sapere della morte di Santo Sfameni, presunto boss del paese, uomo rispettato e di cui so poco, se non quello che si può appunto leggere sui quotidiani, e cioè che fu lui a presentare al sindaco e al maresciallo dell'epoca quelli che poi diverranno gli assassini della piccola Graziella.

Quasi 20 anni fa però, era il 1985, la piccola Graziella Campagna veniva barbaramente trucidata in quella che sembrava un'esecuzione mafiosa. Gli

Su questo nulla da dire, in fondo ci sono tanto di inchieste che hanno parlato del fatto, e se ci sarà da giudicare, cosa che non amo fare, non spetta certo a me.

La cosa che però fa riflettere, sono le parole del parroco Pelleriti "fu un benefattore perchè aiutò la nostra comunità", e la presenza dei politici locali, tra cui il vicesindaco De Marco ed i vigili urbani. Tutto sotto l'indifferenza quasi totale del paese, anche forse per la paura di parlare di certe cose. Mi chiedo con non poca emozione, come ci si possa però dimenticare di Graziella Campagna, una bambina massacrata come un cane, di gente come padre Puglisi, Falcone e Borsellino a cui restano sterili celebrazioni, inutili targhe su vie o piazze, come l'obolo pagato da una coscienza addormentata, per continuare a dormire. Credo dunque, riflessione.

sia

doverosa

una

Mentre scrivo queste righe, il mio pensiero va a quei ragazzi francesi che hanno timore a venire qui da noi, che in fondo ci diciamo, sono solo vittime del pregiudizio, dell'ignoranza, e a quanto davvero non abbiano ragione a pensare certe cose di noi siciliani. Perchè è vero che oggi non si spara per strada come nel "Padrino", ma è altrettanto vero, che la nostra stessa dignità, la nostra profonda innocenza viene assassinata ugualmente, giorno dopo giorno. Lelio Bonaccorso

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gli autori di scaricabile

mP

KaNJaNo & carlo gubitosa

no alla guerra, the Holy Bile no al nucleare

nicola.

La mia terra la difendo

r–esistenza precaria

kanjano & gubi

LA MIA TERRA

LA DIFENDO

U

n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.

I

C

L

l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.

erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.

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ISBN 9788897194002

ISBN 9788897194026

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ISBN 9788897194033

48 pagine di incredibile godimento.

Da febbraio in libreria. In abbonamento su:




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Weimar?

“Lasciamoli giocare, poveri bambini”

George Grosz

Il ceto medio si sta liquefacendo. Ben pochi, nelle famiglie borghesi, avranno il tenore di vita dei loro padri. C'è un'aria di Weimar sempre più insistente. Ma i politici non lo sanno di Jack Daniel La casa, ancora bella, era stata un tempo bellissima. Ora, però, risentiva degli anni, se non dei secoli, e della penuria di restauri e manutenzioni. Qualche traccia di umido, l’intonaco qua e là sbrecciato, graffi su porte e infissi. In cucina, i pensili da tempo non formavano più una linea dritta e dal tavolo, nonostante bruciature e anelli di bicchieri, non era scomparsa la passata bellezza e solidità, nonostante il disordine di fogli e cartelline che lo ingombravano. «Il problema sono le rate del mutuo». «Quando scadono?», «A marzo». Dalla stanza accanto, dalla quale, per tutta la durata della discussione, era provenuto un brusio di sottofondo, si levò un urlo di trionfo che li costrinse ad interrompere l’esame dei conti. Trovarono la forza di sorridere «Beati loro, che riescono a divertirsi…». «Beati loro, che non si pongono questi problemi». Sguardi benevoli e comprensivi. E poi, scuotendo la testa per non farsi distrarre da pensieri troppo lievi, «Entro marzo bisogna trovare quei soldi, quindi. E dove?».

«Potremmo vendere qualcosa. La macchina, i libri.». «I libri?» e gli occhi preoccupati e tristi andarono alla libreria carica e affollata grazie a decenni di amorosi acquisti. «In fondo – le disse prendendole la mano – ormai se ne trovano tanti in rete. Non è più necessario averli di carta». «Lo so. Ma sono ricordi, i nostri ricordi…». Un barrito di trionfo si levò dalla vicina stanza. Per scaricare la tensione abbatté il pugno sugli estratti conto appoggiati sul tavolo, scostò fragorosamente la sedia dal tavolo, si alzò facendo volare altri estratti conto che teneva sulle ginocchia e, aperta la porta, «Volete piantarla, ragazzi?!». “Volete piantarla, ragazzi?” Si levarono deboli e poco convinte proteste che interruppe con voce ancora alterata «Con la mamma stiamo parlando di cose importanti! Cercate di stare buoni, una volta tanto». Si risedette sospirando, si chinò per prendere le carte atterrate sotto il tavolo. «In fondo dobbiamo solo stringere la cinghia per un paio d’anni. Magari se rinunciamo alle vacanze e tagliamo ancora un

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po’ le spese ce la possiamo fare, e senza dar via i libri». «Tagliare le spese? Ancora? Quali?». La domanda si perse nel silenzio. Un silenzio breve, di lì a poco interrotto da nuova grida dalla stanza vicina. Ancora una volta stava per alzarsi, ma lei lo prevenne, poggiandogli una mano sul braccio. «Lasciali fare, lasciamoli giocare». «Ma non si rendono conto di quello che stiamo passando?». «Forse no, ma è meglio così, lasciamoli sfogare.» «Lo facciamo, tutti i giorni, con le leggi elettorali, con l’Art18, con le riforme costituzionali. Li assecondiamo, passiamo ore con loro quando vogliono fare i sindacati o i politici. Ma in certi momenti dovrebbero capire.». «Forse è meglio che non capiscano, forse è meglio che non si rendano conto. Sarà più facile per loro sopportare questi anni.». «Hai ragione, Elsa. Ma poi ogni giorno si svegliano e chiedono un nuovo emendamento, altri fondi, ulteriori spese mentre noi, invece, siamo qui seduti a chiederci se sia il caso di vendere i libri.». «Devi aver pazienza, Mario. Sono solo dei ragazzi, lasciamoli giocare.».


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FOTOREPORTAGE

Messina sepolta viva La città nasconde, nel ventre, una storia millenaria che viene fuori appena viene smossa la terra. Eppure si continua a costruire senza indagini archeologiche e, a volte, senza fermarsi davanti al passato che risorge. di Dino Sturiale e Sebastiano Ambra I Sicilianigiovani – pag. 57


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Tomba a Tholos ritrovata nel cantiere “I granai”, in località Gazzi: i lavori per costruire delle palazzine è sorto lì dove fino a poco tempo fa c’erano dei mulini dove lavoravano il grano centinaia di lavoratori. I mulini sono stati chiusi circa due anni fa. Come finirà? C’è da dire che la presenza di conci fa intuire che lo scavo deve proseguire, perché più in là c’è dell’altro.

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Una villa di epoca tardo-romana venuta alla luce mentre costruivano un palazzo. I lavori, però, vanno avanti tranquillamente

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La Soprintendenza aveva previsto delle pompe di drenaggio da mettere in funzione per evitare infiltrazioni d’acqua, ma le pompe non sono mai partite a causa di un conflitto di attribuzione tra il Comune e l’Ato. I ritrovamenti più importanti legati a questo sito (una metopa e degli affreschi) sono stati portati altrove e, di fatto, salvati.

Dietro il Duomo c’è il sito archeologico di “San Giacomo”: 500.000 croceristi l’anno sbarcano a Messina e quella è loro prima tappa. Il sito è lasciato all’incuria, ed è posto dove si sa da tempo che scorre dell’acqua , quella del torrente “Portalegni”

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Cripta normanna decorata barocca nel Duomo. Un cantiere della soprintendenza che arranca da oltre 10 anni a causa delle infiltrazioni di acqua (che rallentano i lavori). Dovrebbero essere cambiati i pluviali esterni e dovrebbe farlo la curia. Ma c’è un ping-pong fra curia e soprintendenza e l’acqua si mangia tutto.

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Personaggi

Il re dei forconi Comincia da Palermo il nuovo corso di Martino Morsello, re defenestrato del Movimento dei Forconi per la sua vicinanza a Forza Nuova, e del suo decimato seguito. Sotto la finestra del governatore Raffaele Lombardo urlano “dimissioni!” di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it

Il movimento si è spaccato. C’è Morsello, e i suoi pochi intimi, che deposita il marchio tanto fortunato scatenando le ire dei ritardatari al seguito di Mariano Ferro, che adesso annunciano le vie legali. Uno contro l’altro, il teatrino può cominciare. Ma Martino Morsello è un tipo tosto, fantasioso e affezionato al suo broncio da vittima del sistema. Espressione esatta del Movimento anche da lui fondato: tante mezze verità.

Portabandiera dell’antipolitica, negli anni ’80 e ’90 ricoprì per diverse volte le cariche di consigliere comunale e assessore nella sua città, Marsala, col Psi. Dopo vari saltelli si candida alle regionali proprio con la coalizione di Lombardo raccogliendo solo 181 voti. Trova la soluzione ad ogni problema: contro chi gli oscura i manifesti usa l’arma dello sciopero della fame. Contro la crisi degli agricoltori trapanesi propone di coniare una nuova moneta. Sciopero della fame Si definisce imprenditore, vittima un po’ di tutto. Impiegato comunale a Petrosino, piccolo comune trapanese, finisce sotto processo per truffa e falso continuato. Avrebbe finto più volte di trovarsi in ufficio, quando in realtà si trovava altrove. Ma è anche imputato per bancarotta fraudolenta per il fallimento della sua azienda. Da qui prende quota il personaggio Morsello. Si incatena al Comune, racconta le sue avventure in tv. La moglie Vita, compagna di scioperi della fame, e la figlia Antonella, addetto stampa del padre, non lo lasciano mai solo. L'Ittica Mediterranea Nei primi anni ‘90 il suo allevamento di pesci, Ittica Mediterranea, va bene. Poi inizia il calvario, i pesci vengono colpiti da un virus e iniziano a morire. “Mi sono indebitato con le banche per

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salvare la mia attività, poi il tribunale di Marsala ci ha fatto fallire”, racconta a Fabrizio Frizzi. Nel 2003 l’azienda viene dichiarata fallita, e Morsello s’ingegna. Stipula un contratto di affitto dell’Ittica ad un’altra società intestata alla moglie, Acquacoltura Mediterranea, che prende in custodia i pesci. Ma dopo alcuni mesi avanza delle esorbitanti richieste di rimborso spese per il mantenimento dei pesci che nel giro di poco muoiono. E degli 800 mila euro chiesti al tribunale gliene vengono concessi 270 mila. Morsello non è soddisfatto e anche questa azienda fallisce. Denuncia il curatore fallimentare e il giudice rei, a suo avviso, di averlo fatto fallire. “I giudici ce l’hanno con me”. Scrive al Presidente Scrive al Presidente del Consiglio, Camera e Senato. E anche al Papa. Nel frattempo l’azienda viene messa in vendita, ma le aste vanno a vuoto. E puntualmente, poco prima delle aste, i locali subiscono incendi di chiara natura dolosa. Chi parla delle sue intricate vicende giudiziarie rischia di essere accostato a “certi poteri loschi”. Nel suo ultimo volantino elettorale si legge: “Sono un uomo schietto, umile, testardo, sincero, con senso di giustizia, legalità, umiltà, rispetto e bontà”.


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Senzatetto/ Milano

Alla faccia della neve alla faccia della 'ndrangheta Per sopravvivere alla neve e al gelo delle notti milanesi i senzatetto hanno a disposizione un nuovo dormitorio: il “For a King”, discoteca sequestrata alla ‘ndrangheta e riadattata a ricovero grazie a un accordo tra Sogemi e Comune di Federico Beltrami www.stampoantimafioso.it

Quarantacinque nuovi posti letto. Quarantacinque volti bianchi, neri e gialli. Qualcuno scavato dal freddo e dalla fame, qualcun altro rosso di quel vizio che è ormai necessità, compagnia, distrazione. Quarantacinque nuovi motivi per sperare. Da mercoledì 8 febbraio, e per le prossime notti, si trovano al terzo piano di un edificio in via Lombroso 54, poco fuori dal centro

Lì c’era un locale: “For a King”, “Per un re”, si chiamava. L’avevano inaugurato una sera di aprile del 2007: le ballerine, le luci, lo champagne. E gli uomini del clan di Salvatore Morabito. Due settimane dopo, gli arresti e il sequestro del bene. Cinque anni dopo, i senzatetto. Merito di un accordo tra il Comune di Milano e la Sogemi, la municipalizzata che gestisce i mercati annonari della città meneghina. Se non fosse vera, questa storia, parrebbe una metafora: del male che soccombe ai danni del bene, del puzzo di uno sfarzo arrogante, di una ricchezza unta di violenza e disonore cancellati dal profumo della dignità, del candore di un’esistenza vissuta senza compromessi, nel bene e – soprattutto – nel male. Del fortino dei (pre)potenti espugnato dal silenzioso esercito degli invisibili. E invece questa storia è vera e non è tutta rose e fiori: è anche spine. La più appuntita si trova proprio davanti al ricovero per i senzatetto.

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Si chiama Ortomercato e insieme a tanta buona frutta e verdura ospita(va) chili di droga, oltre a una discreta dose di violenze e minacce ai danni di sindacalisti, di sfruttati che non vogliono più farsi sfruttare ma che vi sono costretti, se non vogliono finire anche loro al terzo piano del palazzo di fronte al quale lavorano. Droga all'ortomercato Lì, come al “For a King”, dominava un facchino che facchino non era, tanto che al lavoro c’andava su una fiammante Ferrari: Salvatore Morabito. A coprirlo, lì come al For a King, un ex sindacalista che sindacalista non era più, tanto che pagava parte degli stipendi dei lavoratori della sua cooperativa in nero: Antonio Paolo. Oggi i due lì non ci sono più, condannati a 13 anni e 8 mesi uno e a 7 anni e 8 mesi l’altro. A questa storia, però, manca il lieto fine: a Milano, l’esercito di invisibili continua a crescere. E pure l’altro.


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Senzatetto/ Catania

Sono rimasti al gelo ma riscaldati da tante promesse Salvo la Caritas e qualche parroco, nessuno ha pensato a salvare i più poveri dal frddo che è arrivato anche qui. In compenso, i politici ne hanno parlato tanto

I pochi posti nei dormitori gestiti dai comuni sono esauriti da tempo. In molte città non esistono proprio. In parecchi casi sono stati smantellati. Non è produttivo impiegarvi qualche soldo. In mancanza di una certa ed efficace azione pubblica, si cerca di fronteggiare con l’intervento generoso dei volontari e della Caritas. Una goccia nel mare, che non può esaurire i compiti di aiuto, assistenza, accoglienza e reinserimento sociale. sanciti dalla nostra Costituzione. Qualche sindaco si commuove

di Domenico Stimolo

In questa Italia ghiacciata, loro muoiono. Sono i cosiddetti senza tetto, gli emarginati, i mendicanti; nostrani e “forestieri”.. Vivono quotidianamente all’esterno, avvolti negli stracci e in qualche lercia coperta; molti dentro un‘improvvisata “latta” montata, a far da casa. Quanti sono? Decine o centinaia di migliaia? Sono considerati scarti della razza umana, quindi non utili per il censimento. Le politiche di esclusione montate negli anni li hanno fatti assurgere alle cronache come sinonimo di oggetti da bastonare o da bruciare.

Nei giorni del gelo qualche amministratore, nelle grandi città, si commuove; se va bene si lasciano aperti per la notte gli atrii d’ingresso delle metropolitane e di qualche stazione ferroviaria. A Milano, dove il comune gestisce 1700 posti nei dormitori, insufficienti per il grande numero dei senza tetto, si spendono 570 milioni per costruire il nuovo edificio della Regione. A Bari il sindaco mette a disposizione il Teatro cittadino (il Petruzzelli) e le palestre di due scuole, a guisa di dormitorio. A Catania, dove non è mai stato realizzato il campo di transito per i Rom – in città ne sono presenti parecchie centinaia – e in centro centinaia di emarginati vivono drammaticamente in una indegna baraccopoli, siamo alla commedia. Ma truce.

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In tutta la città per i senza dimora sono disponibili 105 posti letto: ottanta gestiti dalla Caritas e venticinque da un consorzio convenzionato col Comune. Il 6 febbraio è stato comunicato che tra il sindaco Raffaele Stancanelli e il sottosegretario Filippo Milone era stato deciso di approntare sessanta posti letto nella caserma Sommaruga (una grande area con edifici e grandi cortili, in parte non più utilizzati). Ma l'idea è naufragata nell’arco di poche ore, per quanto si fossero già messi in opera i volontari. L’entusiasmo del sindaco e del sottosegretario non aveva infatti considerato che in caserma, come si è ufficialmente appreso, per gli ospiti si deve pagare. In questo caso ovviamente la struttura erogante doveva essere il Comune. Velocissima marcia indietro, e la caserma è rimasta chiusa. Luoghi pubblici inutilizzati E dire che la città è piena di ampi luoghi pubblici, privati e di culto - molti gli appartamenti vuoti - che in questo periodo di intenso freddo potrebbero ampiamente accogliere gli emarginati. Ma le chiacchiere sui simboli hanno totalmente prevaricato la nuda, cruda e drammatica realtà che riguarda gli umani. Nel silenzio totale, a parte la Caritas, si è fatto avanti solo padre Gianni Notaro parroco di una chiesa cittadina che ha alloggiato dieci disperati nel salone.


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Andare o restare? La storia di Edoardo

«Parto per tornare, è una battaglia di civiltà» Edoardo Cicero farebbe felice il viceministro Martone perché non ha ancora 28 anni ed è già laureato. Denuncia le storture universitarie e intanto viaggia per gli ospedali d’Europa, sognando un futuro nella ricerca. Ma alla fine torna sempre a Catania di Claudia Campese CTzen

Una laurea in medicina, un futuro sognato da ricercatore in neurologia, brevi boccate d’aria all’estero ma testa e cuore sempre a Catania. Nonostante ministri e viceministri. Edoardo Cicero, 25 anni, si è laureato a ottobre alla facoltà di Medicina etnea e adesso attende gli esami di abilitazione. Intanto ha fatto la parte di se stesso in Il pezzo di carta, il cortometraggio del catanese Marco Pirrello proiettato in anteprima lo scorso 13 febbraio al cinema King.

«Ci tengo a far sapere che non stavo recitando – spiega – manifestavo davvero». Megafono alla mano, denuncia storture e mancanze del sistema universitario cittadino e nazionale. Le stesse che scoraggiano il protagonista del corto, prossimo alla laurea, e dividono il suo destino da quello di un amico, in cerca di fortuna a Milano. Edoardo invece è rimasto, ma senza arrendersi.

Pazienti abbandonati Dopo gli sfigati del viceministro al Lavoro Michel Martone sono arrivati «i giovani che vogliono lavorare vicino a mamma e papà» del ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri. Tu che ne pensi? «E’ una cosa folle. Di una superficialità e una cattiveria che non mi aspettavo da un ministro. La realtà è più complessa. Tra i reparti degli ospedali vedo tanti pazienti abbandonati dallo Stato, privi di assistenza. Se non avessero le famiglie vicine, per loro sarebbe un dramma. In casi come questi restare è una scelta obbligata, per sopperire alle mancanze di un sistema. Che rabbia sentire la Cancellieri parlare così di queste persone». Tu 28 anni ancora non li hai e ti sei già laureato. Di cosa trattava la tua tesi? Resterà anche lei in Italia? «Diagnostica differenziale del Parkinson e delle sue varianti più aggressive. Detto in modo semplice, per questa malattia esistono solo diagnosi cliniche, nessuna

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analisi di laboratorio che consenta di approfondire la tipologia o lo stadio della patologia per effettuare una terapia efficace e mirata. Nel mio studio invece tento di dimostrare come sia possibile agire in modo diverso. Quella contenuta nella tesi, però, è solo una piccola parte di un anno di lavoro su 175 pazienti, un campione abbastanza rilevante. La gran parte dei dati devo ancora analizzarla e organizzarla per scrivere un articolo che spero verrà pubblicato all’estero. Ci sto ancora lavorando». Abilitazione permettendo, hai già scelto come vuoi continuare la tua carriera in medicina? «Dopo l’esame, si aspettano i bandi di concorso per le specialistiche. Io sono interessato alla neurologia, alla ricerca. La mia segreta speranza è quella di contribuire un giorno a trovare la cura per le malattie neurodegenerative. Come l’alzheimer, per intenderci». “Anche fuori non cambia molto” E tutto questo l’hai fatto e sognato a Catania. Come mai? «Per comodità. E forse anche per vigliaccheria, non lo nascondo. Perché è stato più comodo continuare dove sono nato e cresciuto e perché, fatti i miei conti, i punteggi da superare ai test d’ingresso mi consentivano di stare abbastanza sereno rispetto a quelli necessari in altre città d’Italia. E poi ho anche provato ad andare fuori ma ho scoperto che non cambiava molto».


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Una fuga alla Leopardi. Dove sei stato? «Tra il mio terzo e il quarto anno mi sono trasferito a Roma, all’università Tor Vergata. Ci sono stato solo due settimane ma mi sono bastate per capire che la situazione era uguale alla nostra, a Catania. I ragazzi si lamentavano delle stesse cose, come i tirocini programmati e mai fatti. Forse loro stanno messi un po’ meLAUREE E SOGNI DI FUGA UNA SOLA SOLUZIONE: «NON ARRENDERSI» Luca vuole restare in Italia. Per i suoi odori, il suo cibo e il coraggio nascosto di molti dei suoi abitanti. Così come un giovane laureando catanese, deciso a terminare l'università nella sua città. Al contrario di un suo amico, in partenza per Milano, verso un'opportunità e di Gustav, il fidanzato di Luca, che vorrebbe andare via dall'Italia, nauseato dal Rubygate e scoraggiato dalla fuga delle imprese. Due direzioni opposte in due diverse pellicole: Il pezzo di carta, cortometraggio di Marco Pirrello, e Italy: love it or leave it, documentario di Luca Ragazzi e Gustav Hofer. Due proiezioni che hanno attirato centinaia di spettatori – moltissimi giovani - al cinema King, per l'evento organizzato da CTzen, RadioLab e UPress in collaborazione con il Cinestudio. Una serata all'insegna di due domande – Andare? O restare? - ma con una sola certezza: «No surrender, fratello».

glio dal punto di vista delle infrastrutture, ma i problemi sono gli stessi». Perché allora, secondo te, si fa un gran parlare dell’andare o restare? «Perché è vero che i problemi sono gli stessi, ma qui sono anche aggravati da una disastrosa situazione precedente. L’immobilismo catanese è una condizione che ci trasciniamo dietro da tanto. Qui, a differenza di altrove, c’è una classe di docenti, quelli che si sono formati durante le contestazioni studentesche, che una volta ottenuto il posto ha iniziato a gestire il potere esattamente come quelli che combatteva da giovani. A questo aggiungiamo la mancanza di investimenti unita allo spreco di risorse e otteniamo questo risultato finale. All’estero, ad esempio, è tutto diverso». All'estero te la cavi Quindi all’estero ci sei stato. E’ andata meglio che a Roma? Ho fatto due tirocini estivi di un mese negli ospedali di Turku, in Finlandia, e a Bilbao, nei Paesi Baschi. In Finlandia, per tornare alla Cancellieri, i ragazzi riescono ad essere indipendenti anche vivendo nella stessa città dei genitori perché ogni studente ha diritto ad un assegno mensile di 400 euro. Considerato che l’affitto di un appartamento va dai 250, 300 euro, con un lavoretto o l’aiuto della famiglia te la cavi. A Bilbao, che ha uno dei sistemi sanitari migliori d’Europa, ho imparato invece come i docenti siano meno gelosi dei no-

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“Se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno”

stri e più disposti ad insegnare una loro tecnica in sala operatoria. Il motivo secondo me è abbastanza curioso. In queste occasioni si parla sempre in inglese, una lingua che non ha la terza persona. Questo abbatte qualunque distanza anche tra docente e allievo. Una cattedra fra noi e loro Nel cortometraggio ti si sente denunciare proprio la mancanza di dialogo all’interno dell’università e la condizione di studente come lotta per la sopravvivenza. Che intendi? Tra noi e i professori c’è sempre una cattedra. Non si sperimentano mai formule di apprendimento diverse dalla lezione frontale, magari più creative. L’università ti lascia solo. E’ difficile reperire informazioni, incontrare i professori, avere un rapporto con loro al di fuori delle lezioni e degli esami. Non si crea nessuna comunità. Ricapitolando: a Bilbao la sanità è migliore, in Finlandia ti pagano per studiare, a Roma i professori sono meno parrucconi. Dopo l’abilitazione intendi restare o andare? Se potessi me ne andrei. Ma solo per imparare e poi tornare. L’obiettivo dev’essere restare perché, se lasciamo quella che a Catania è anche una battaglia di civiltà, ci dichiariamo sconfitti in partenza. E perché sappiamo che, se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno. Oppure lo faranno quelli che non vorremmo e che hanno già contribuito allo sfacelo.


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Sicilia/ Una città unita per un giorno

“Cittadini! Viva Sant'Agata!” Cronaca da una festa E' la festa religiosa più affollata d'Europa. La gente partecipa in massa, i mafiosi ne approfittano per fare affari. Quest'anno, dopo l'inchiesta dei magistrati, la Chiesa è stata vigile contro la infiltrazioni. Non altrettanto le autorità civili di Giovanni Caruso I Cordai Osservo la cera ormai raffreddata sul selciato di via Plebiscito, in quel selciato ormai lucido e consumato dove si riflettono le luminarie di una festa appena

passata. Immagino l’odore della carne di cavallo sui focolai che si mescola con gli odori della “calia abbrustolita”, brusio e voci che si confondono con le trombette delle bancarelle, gli ottoni luccicanti che suonano Cacao meravigliao “. “Cittadini... Viva Sant'Agata!”. Lo hanno appena gridato quegli uomini e quelle donne, con i loro “sacchi bianchi”, in modo accorato, a tal punto da perdere la voce. “Agata, chi sei? - pensa qualcuno - Chi sei per far sentire tanti e tante, per un giorno, cittadini, in questa Catania maltrattata?". I volti delle donne del popolo somigliano tanto al suo, quelle donne che tengono i bambini in braccio col piccolo sacco bianco e con una candela in mano e si spingono sotto la “Vara “ per chiedere un miracolo. Quelle stesse donne di San Cristoforo che si danno da fare per allevare i figli; figli che crescono sulla strada, senza una scuola sicura, costretti a non lavorare o ad essere sfruttati. Donne che aspettano i mariti alla ricerca di un lavoro per un giorno, che si vendono

e si mortificano davanti a un “caporale” o un “padroncino”. "Chi sei Agata? Quale esempio per queste donne?". Catania 251 d. C. La forza romana domina il mondo. Il suo imperatore Decio Cesare perseguita i cristiani, uccide e massacra. Così, come oggi l’emigrante d’oltre mare, ieri il cristiano ribelle. Agata, cristiana, vive la sua adolescenza ribellandosi all’oppressione, appassionandosi al senso di giustizia e a Cristo. Quel Cristo che predica una rivolta senza armi, fatta di parole costruite sulla pace. Agata dice no a Quinziano, proconsole romano che schiaccia la città e vuole dominare su di lei, violando il suo corpo. Agata dice no, fino alla morte. Le spoglie vengono disperse, ma il vento della storia le riporta alla sua Catania. “Più forte ancora, cittadini!” Mi piace immaginare che il suo ritorno ci voglia dire qualcosa. Forse vuole dirci di resistere ai nuovi oppressori come lei stessa fece, gli oppressori di oggi che non rispettano i nostri diritti, gli stessi oppressori che comprano la nostra dignità per un voto. Gli stessi che "regalano" spesa e cellulari in via Plebiscito. Quelli che per stare al potere usano il malaffare, e si fanno usare dalle mafie. Quelli con le fasce tricolore che impunemente passeggiano per via Etnea, fra gli spazi delle festa e la folla. Cittadini, prima di chiamare Sant’Agata, alzate la testa, guardate gli occhi di Agata e iniziate a gridare. Gridate e sentitevi…”più forte e più forte ancora, cittadini”… e non solo per un giorno. FOTO DI ALESSANDRO ROMANO

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SANT'AGATA DURANTE LA CRISI/ CORAGGIO E COMPROMESSI, FEDE E ECONOMIA di Miriana Squillaci I Cordai E' necessario spendere 650mila euro per questa festa? La “Santuzza” preferisce i fuochi d’artificio o le opere di carità? C’è più fede o teatralità? Quante persone, e soprattutto quante donne si riconoscono nel coraggio di Sant’Agata? Abbiamo chiesto di rispondere a queste domande al signor SiRacusa, macellaio di via Plebiscito “devoto” da 60 anni, e al signor Liuzzo, commerciante anch’esso di via Plebiscito. Entrambi ci fanno notare come non si possa “fare di tutto l’erba un fascio”, i devoti, quelli veri, continuano ad esserci e a seguire la festa con la dovuta fede ma certo non si può negare che c’è anche chi indossa il sacco non per devozione ma per “fare teatro”. Allo stesso modo non si può definire la festa “commerciale”. “Indubbiamente quindici anni fa non si vendevano i cuori di gomma o i cuscini con la scritta “viva Sant’Agata”, cosi come non si vendeva carne di cavallo e salsiccia; ma i tempi sono cambiati e la crisi rende necessario sfruttare tutte le occasioni per guadagnare qualcosa e portare un po’ di soldi a casa.” In via Plebiscito si è interrotta anche

l’usanza di sparare i fuochi d’artificio in omaggio alla Santa. Il signor Siracusa, ad esempio, non lo fa più da 4 anni: “Dieci minuti di fuoco costano 1000 euro, una “torta” con 600 fuochi costa dagli 800 ai 1000 euro; prima, non dovevo aiutare i miei figli o i miei nipoti, ma adesso, con questa crisi preferisco dare a loro questi soldi, anche se la mia fede resta immutata”. Viene allora spontaneo chiedersi: visto che la crisi coinvolge anche il Comune, non sarebbe più giusto festeggiare in maniera più sobria?

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“Certo, magari, potrebbero essere ridotti i fuochi ma si potrebbe pensare anche a una soluzione alternativa: invece di ridurre le spese per la festa, si povrebbero ridurre i costi dei gettoni di presenza dei consiglieri comunali o di quartiere, che guadagnano dagli 80 ai 110 euro per ogni seduta” . “...'pa Santussa chistu e autru!” Insomma, 'pa Santuzza chistu e autru! Ma Sant’Agata, il suo coraggio, ci rappresenta ancora? “Dipende” ci dice qualche mamma “ ci sono cose per cui si può cedere e altre no”. “Certe volte bisogna scendere a compromessi, non sempre si può prendere una posizione netta”, ci risponde qualche altra. Una posizione netta la prendono, invece, i ragazzi di Addio Pizzo che hanno riempito le vie del centro di fogli con scritto “ SANT’AGATA NON VUOLE LA MAFIA, E I CITTADINI?” oppure “ SANT’AGATA LIBERACI DAL PIZZO”. Insomma Catania continua essere una città piena di contraddizioni, dove una magnifica festa riesce a mettere insieme fede ed economia, coraggio e compromessi.


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Sicilia/ Una città sfruttata tutto l'anno

Le infiltrazioni mafiose nella festa Parlano i collaboratori di giustizia Di Raimondo e Giuffrida Il 29 giugno 2006 davanti al magistrato Natale Di Raimondo dichiara: “Sono devoto di Sant’Agata e ancora oggi seguo la manifestazione tramite la televisione, via satellite. Nel 1992 e nel 1993, quale responsabile del gruppo “ Monte Po”, destinai i proventi di una bisca clandestina ove si giocava alla “ zicchinetta “ e i cui proventi erano destinati al mio gruppo, per pagare i portatori della candelora del circolo di Sant’Agata nel quartier Monte Po’. La candelora stazionò 2/3 giorni nel quartiere e pernottò sotto casa mia. Decisi di fare arrivare la candelora nel quartiere sia per acquisire maggiore prestigio quale “ mafioso “ sia per senso di devozione verso la Santa. Il quartiere era perfettamente a conoscenza che la candelora era a Monte Po per mia iniziativa. Scelsi la candelora del circolo di Sant’Agata in quanto mio zio era una dei portatori de quella candelora. Mio zio non faceva parte dell’organizzazione, ma era “lavoratore” alla fiera di Catania, ove aveva un posto fisso. “Acquisire prestigio come mafioso” La “ venuta “ della candelora nel quartiere, comportò una spesa di circa 30/40 milioni di lire l’anno, che io versai a mio zio, utilizzando- come ho già detto- i proventi della bisca. Con tali somme vennero pagati i portatori, l’lluminazione del quartiere e i fuochi d’artificio. Io non mi sono materialmente occupato dell’organizzazione, perché in entrambe le occasioni versai i soldi a mio zio il quale si ineteressò di tutto. A celebrazione della venuta della candelora nel quartiere, feci realizzare uno stendardo con l’indicazione del nome dellla mia famiglia, con la dicitura “ Di Raimondo 199271993”, che all’epoca costò qualche tre milioni di lire. Lo stendardo venne appeso alla candelora del

circolo di Sant’Agata e vi rimase anche negli anni successivi , mentre io ero detenuto. Poi, nel 1998, quando divenni collaboratore di giustizia, lo standardo venne tolto. Non so che decise di togliere lo standardo, anche se è chiaro che non venne più appeso perché io ero diventato collaboratore di giustizia. Io seppi da mia madre che non era stato più appeso. Da giovane partecipai attivamente ai festeggiamenti agatini nella città di Catania, anche vestendomi con il sacco bianco. Poi ritenni di non essere più degno di vestire il sacco e partecipai alla festa solo privatamente, recandomi con i miei familiari presso Piazza Borgo per assistere ai fuochi di artificio serali. Ricordo che in una di queste occasioni vidi anche Nino Santapaola, fratello di Enzo ed entrambi i figli di Salvatore Santapaola, fratello di Nitto, che vestito del sacco e portando un grosso cero sulle spallle, seguiva la processione all’interni dei cordoni. Ho conosciuto Pietro Diolosà. Me lo presentò mio zio come uno di quelli che “ contavano” per la candelora del circolo di Sant’Agata: ricordo che era alto e con i baffi. Nella stessa circostanza della venuta a Monte Po’ della candelora di Sant’agata, conobbi il commendatore Maina, che si è intrattenuto nel quartiere per quell’evento.” Secondo le indagini, le candelore dei pescivendoli, dei macellai, dei fruttivendoli e dei pizzicagnoli, proprio queste quattro, secondo Giuffrida, sarebbero state gestite dai clan affiliati ai Santapaola. Ed ecco quanto si legge nelle dichiarazioni di Daniele Giuffrida: “Il cereo dei pizzicagnoli, candelora dei “fummaggiari” era gestito dalle famiglie dei Ceusi e Cappello, alle quali il mio gruppo riuscì a sottrarla con la forza nel 1994-1995. Anche gli altri cerei venivano gestiti da clan mafiosi. Quello dei “pisciari” era gestito dal clan Savasta. Il cereo dei macellai, invece, era gestito dai Cappello che gestivano anche il cereo dei fruttivendoli.”

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Continua Giuffrida: “ L’interesse di gestire un cereo è di natura esclusivamente economica. Ogni settimana venivano raccolti offerte dai ciascun esrecente fino ad arrivare, alla fine dell’anno anche a 200 milioni di lire. Una parte veniva utilizzata per pagare i portatori, ai quali veniva anche fornita gratis cocaina detraendo il costo dalla somma complessiva. Altra parte della somma veniva destinata al pagamento del fuochista. Circa 150 milioni venivano versati in un fondo cassa del gruppo utilizzato per il pagamento degli stipendi o per acquistare cocaina o armi. Altri interessi economii riguardavano le scommesse che venivano fatte al momento della salita di San Giuliano e che si basavano sulla durata del tempo in cui il cereo veniva tenuto sollevato. Ricordo che in una occasione il mio gruppo scommise circa 15 milioni. “Altri introiti dalla festa” Il mio gruppo aveva altri introiti dalla festa di Sant’Agata. In particolare i devoti offrono al passaggio della Santa numerose candele, che vengono poi scaricate nelle soste della vara in alcuni camion. Ebbene, la ditta che si occupava di raccogliere questa cera, era obbligata a consegnare al nostro gruppo la somma di 50 lire per ogni chilogrammo raccolto. Fino a raccogliere alla fine della festa 15 milioni di lire. Inoltre ricordo che nel 1994-1995, mentre ero agli arresti dominiliari, feci un’evasione. Parlai con una persona che dirigeva i movimenti della vara. Si trattava di una persona grossa, con baffi e occhiali. Gli dissi che doveva sostare in via Plebiscito, dopo il bal Lanzafame, a San Cristoforo. Io deduco che la sosta aveva lo scopo di fare vedere la Santa a Natale D’Emanuele, a quell’epoca latitante e con molta probabilità nascosto in una casa in quella zona in via Plebiscito, ove egli possiede numerosi immobili. Di fatto la sosta avvenne per circa dieci minuti, come richiesto”.


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Storia

Un siciliano di nome Turiddu Carnevale A Roma c’era un comunista di nome Fausto Gullo che faceva il ministro dell’Agricoltura... di Elio Camilleri Il ministro Gullo aveva pensato bene di abbattere il latifondo e di distribuire le terre ai contadini, di cambiare le regole secolari della divisione del raccolto all’interno dei contratti di mezzadria. Crispi e poi Giolitti ed anche Mussolini avevano trovato nei latifondisti un sicuro sostegno politico e la schiera dei gabelloti, dei campieri e dei sovrastanti gestiva al meglio l’intermediazione mafiosa parassitaria e assicurava un solido consenso elettorale. Nell’ottobre del 1944, i decreti del ministro Gullo alimentarono le speranze di milioni di contadini e la rabbia dei feudatari, la ferocia dei gabelloti e la determinazione di migliaia di sindacalisti e di attivisti socialisti e comunisti. A Sciara, nel cuore del feudo della principessa Notarbartolo, passavano i mesi e gli anni e non cambiava niente; erano pure arrivate le notizie dei morti di Portella e delle centinaia di contadini ammazzati dalla mafia, ma tutto sembrava lontano, come accaduto in un altro pianeta. Solo nel 1951 anche a Sciara arrivò il momento della frantumazione del silenzio, della organizzazione contro la potenza e la prepotenza di don Peppino Panzeca, gabelloto del feudo Notarbartolo e boss mafioso e per Salvatore Carnevale fu l’inizio della fine.

Aveva aperto la sezione del partito socialista e a un contadino comunista che gli aveva chiesto perché non avesse aperto quella comunista rispose che non aveva nulla in contrario con i comunisti, ma che a causa della massiccia e sistematica propaganda secondo la quale i comunisti mangiavano i bambini e ammazzavano i preti, era forse opportuno scegliere un’opzione più accettabile. Ma per la mafia non c’era nessuna differenza tra socialisti e comunisti perché tutti meritavano di essere battuti e abbattuti. Malgrado gli avvertimenti, le minacce Turi Carnevale riuscì ad ottenere, il 1° settembre 1951, che per l’anno 1951 la raccolta delle olive sarebbe spettata ai contadini per il 30% del raccolto, mentre il 70% sarebbe andato al proprietario; dall’anno successivo il 55% al proprietario e il 45% al contadino, il raccolto del grano sarebbe stato ripartito secondo le disposizioni del Decreto Gullo. Il mese dopo, Turi Carnevale organizzò la prima occupazione simbolica del feudo per fare l’applicare la legge regionale 104 sul divieto della proprietà oltre i duecento ettari e sull’obbligo della buona coltivazione. Più di trecento contadini parteciparono alla manifestazione che a Sciara ebbe l’effetto dell'atomica: Turi Carnevale la guidò con cura, evitò che i contadini cadessero nelle provocazioni di don Peppino Panzeca e compari e i carabinieri non ebbero alcun motivo per intervenire. Con la scusa di accompagnarlo in Municipio, i carabinieri lo andarono a prendere a casa e lo portarono in carcere, così, tanto per dargli una lezione, ma la lotta sortì i suoi frutti e il 21 luglio 1952 fu emanato un primo decreto di scorporo delle terre del feudo eccedenti i duecento ettari e il 16 marzo 1954 un secondo decreto sancì la fine del latifondo anche se lo scorporo non produsse automaticamente proprietà contadina, se pur individuale, ma nuova proprietà ma-

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fiosa attraverso una colossale speculazione attivata nelle pieghe stesse della Legge 104. Fu una vittoria che Turi Carnevale pagò con la perdita del lavoro e con un biglietto per andare al nord per trovarne del nuovo e dell’altro, ma poi tornò a Sciara, richiamato dalla madre e dai compagni contadini per riprendere la lotta. Un’altra grandiosa occupazione delle terre del feudo, ancora più imponente ed impressionante della prima,insostenibile per la mafia, incontrollabile dai carabinieri, succubi della mafia e ingestibile politicamente dallo stesso PSI che, impegnato con la DC, a formare i primi governi di centrosinistra, lasciò praticamente solo Turi Carnevale. Migliaia di ettari già confiscati non furono assegnati ai contadini che furono praticamente espulsi dall’agricoltura e costretti a cercare lavoro in altri settori e ad emigrare. E tutto rimase come prima, anzi, peggio di prima perché la contraddittoria applicazioni della legge 104, alla fine, favorì quell’apparato mafioso e parassitario che già operava sul territorio, sicché Turi Carnevale lasciò i campi e trovò lavoro come operaio in una cava nella piana tra Termini e Cefalù. Ripropose tutti i contenuti della lotta per i diritti dei lavoratori, per il rispetto dell’orario di lavoro e per un salario giusto e regolare. Allora nuove intimazioni e minacce ed un terribile presentimento: una fucilata al fianco e poi altre quattro all’alba del 16 maggio 1955. Il giorno dopo: municipio sbarrato e sindaco irreperibile, la mamma che avvolge la bara con la bandiera rossa e poi un funerale infinito. Dopo sei anni, 21 dicembre 1961, ergastolo per esecutori e mandanti. Dopo otto anni, il 14 marzo 1963, in appello tutti assolti per insufficienza di prove. Dopo dieci anni, il 3 febbraio 1965, in Cassazione tutti assolti.


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Teatro

“Il coraggio dei Siciliani” va in scena a Milano Sarà il titolo del lavoro che noi studenti del laboratorio teatrale del liceo Virgilio di Milano porteremo in scena l'8 maggio nell’auditorium di via Peroni di Beatrice Canali e Marta Cavallini laboratorio teatrale sulla memoria del Liceo Virgilio di Milano

E' un adattamento del libro di Antonio Roccuzzo “Mentre l’orchestrina suonava Gelosia” che il drammaturgo Francesco Di Maggio ha elaborato, inserendo l’artificio del coro greco. Contaminazione che , ci ha spiegato, nasce dai brani di “Cronaca” di Ghiannis Ritsos. La realtà isolana di Samo e la realtà catanese: una visione mediterranea che fa riflettere su quanto l'indolenza e, peggio, l'indifferenza sia alla radice del cancro mafioso. Il lavoro che il nostro Liceo presenta nell'ambito della rete tra scuole “Il Futuro è la Memoria” presenta Pippo Fava come “testimone di verità”, portando un

parallelo tra vittime dei genocidi e vittime della criminalità organizzata, legata al contesto di una diffusa corruzione politica e istituzionale. Non è semplice capire e interpretare la realtà della Catania anni '80; noi abbiamo avuto una grande occasione, da un lato con un narratore e motivatore come il professor Giuseppe Teri, dall'altro con una regista come Lieselotte Zucca. Abbiamo capito via via di star facendo qualche cosa di importante, per chi ha vissuto direttamente questa storia e per chi ne raccoglie oggi il suo significato. Il prof. Teri è spesso tornato sui suoi ricordi catanesi, con spunti e spiegazioni preziose per la messa in scena e la recitazione. La mafia “che non esisteva” Spesso abbiamo discusso sugli stereotipi della “mafia che non esisteva” e del falso mito dei ricchi imprenditori della Sicilia orientale, i cavalieri del lavoro di Catania che, anche se collusi e favoriti da Cosa nostra, erano presentati dalla stampa e dal gran parte dei politici come la grande occasione di modernizzazione e dello sviluppo economico della Sicilia. Il 3 febbraio è venuto anche Antonio Roccuzzo, l'autore. Ci ha colpito il desiderio di verità e l’autentico valore del fare i giornalisti, rivendicati senza condizionamenti e censure. C’è una domanda che ritorna sempre in questo lavoro teatrale: Cosa sarebbe suc-

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cesso se Pippo Fava fosse stato ascoltato e la sua denuncia raccolta dallo Stato e dagli imprenditori? Se “ I Siciliani” avesse avuto anche un pochino di pubblicità? Quante cose potevano cambiare e potrebbero cambiare anche oggi, se tutti fossimo meno indifferenti e pigri ? Bisogna parlare di mafia a Milano? C'è bisogno di parlare di mafia a Milano? Pippo Fava lo aveva detto 30 anni fa e tutti girarono la testa dall’altra parte imbarazzati e un po’ piccati. Oggi molti avvertono quanto sia sottovalutata questa tematica e quanto inquinato possa essere il mondo politico e economico anche nel nostro “efficiente” e ricco Nord. La ricchezza e la possibilità di impiego di ingenti capitali attira gli appetiti della criminalità organizzata e le nostre disattenzioni hanno favorito una vera e propria colonizzazione. Essere anche anticonformisti Per questo vogliamo realizzare questo piccolo contributo, per ricordare a tutti come sia importante prendere posizione, raccontare la verità, essere anche anticonformisti, minoranza che testimonia, anche se apparentemente isolata. Come i Siciliani Giovani dell’84, quei ragazzini che al funerale di Fava gridavano che era stata la mafia e che i mandanti erano in prima fila a fingere contrizione.


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Musica

Ma l'iPod conta più di Stravinsky? i

Ti vendono le cose, e va bene. Ma non farti vendere anche il modo di sentire la musica... di Antonello Oliva Con tutti i problemi che abbiamo e in tempi così grami l’argomento potrebbe sembrare frivolo, secondario, ma su ciò che si considera -e perché lo si considera - prioritario o secondario, forse ogni tanto qualche piccola pausa di riflessione non farebbe male. Non guasterebbe neppure avere idee più proprie e chiare su ciò che realmente significa qualità di vita, o anche più semplicemente qualità.Nella riproduzione musicale domestica il concetto di qualità, quando si è avuto il bisogno di manifestarlo, lo si è associato prima al termine stereo, poi ad hi fi, e infine, quando tutto era già hi fi, ad hi end. Terminologia a parte, in realtà tale sviluppo non sempre ha coinciso con un effettivo miglioramento della qualità audio degli apparecchi, anche se questo, pomposamente, veniva dato ogni volta da intendere. Così è accaduto ad esempio nel passaggio da LP a CD, ovvero dal suono analogico a quello numerico. Sostanzialmente una bufala, spacciata però, e felicemente recepita, per una conquista, una specie di sbarco sulla luna della tecnologia finalmente alla portata di tutti. Progresso e democrazia; libertà obbligatoria avrebbe detto Gaber.

Ma cosa è accaduto davvero in quel passaggio? Chi ci ha veramente guadagnato? Due conti si fa presto a farli: Un CD, finito, incellofanato, e con tanto di bollino Siae, viene a costare al produttore meno di 50 centesimi, un vinile 33 giri circa 4 euro:otto volte tanto. Le spese naturalmente non sono solo queste, ma il rapporto è questo, ed è un rapporto molto interessante, che in un sol colpo a suo tempo, ha praticamente portato al raddoppio dei profitti. Bingo! Ma non solo. Il CD significava novità, tecnologia avanzata, maggior qualità, e queste sono cose che ovviamente si pagano, altrimenti che si diventa a fare più ricchi. E infatti il CD fu commercializzato da subito a un prezzo ben più alto dell’LP. Ma non è finita perché bisogna anche mettere in conto l’indotto che la novità mise in moto, rottamazione dei vecchi dischi e giradischi, riacquisto degli stessi titoli nel nuovo formato più acquisto del CD Player, etc... Altra bufala... Tra i seguaci più fedeli del credo audiophile non pochi furono pure quelli che cambiarono anche i diffusori, dato che nel frattempo girava voce accreditata che quelli vecchi non erano più adatti alle superiori capacità dinamiche delle nuove macchine. Altra bufala naturalmente, perché a dire il vero, si trattava esattamente del contrario, erano cioè i giradischi a restituire maggiore spunto dinamico, ma lasciamo perdere, visto che si era in ballo… Insomma, cosa più cosa meno l’affare fu questo. Il vero problema però, quello che dovrebbe fare riflettere, e seriamen-

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SCHEDA Otis Taylor Contraband Telarc/ TEL-33188/ Blues Il blues per definizione è una di quelle musiche che non necessita di rinnovamento per produrre opere che abbiano significato, e gli stessi quattro accordi sono bastati a intere generazioni di musicisti afro americani per produrre buona parte del suo sterminato canzoniere. Ma se esiste ancora e continua ad essere uno dei generi popolari più diffusi, lo si deve non poco a quei grandi innovatori che qua e là nel suo corso si sono affacciati. L’ultimo in ordine di tempo si chiama Otis Taylor, un musicista di Chicago che si è affacciato alla discografia non più giovanissimo, ma che ha poi mostrato una notevole prolificità. Per chi già lo conosce è sufficiente la semplice segnalazione, per gli altri, cioè quasi tutti, anche se non consapevoli amanti del genere, è opportuno il consiglio di ascoltarlo, perché è uno che ha cose interessanti da dire e lo fa in modo singolare e coinvolgente. A.O.

te, fu un altro. Il digitale suonava e suona tuttora peggio dell’analogico, ciò nonostante nell’immaginario collettivo passò, in totale adesione con quello pubblicitario, il messaggio opposto. Ecco, è questo il punto, perché questo si chiama “potere”, in certi casi prende il nome di mafia, in altri di dittatura, regime, in altri ancora di democrazia, ma la sostanza non cambia, sono solo i mezzi a cambiare, i modi di adattarsi alle circostanze. Il potere resta. Certe forme poi sono talmente raffinate e redditizie che, in democrazia ad esempio, i cornuti li produce già contenti. C’è da chiedersi però a questo punto cosa centri tutto ciò col concetto di qualità, perché è questo che invece frettolosamente percepiamo. Bene, passo dopo l’altro in questa luminosa via siamo finalmente giunti all’I pod, che è indubbiamente trendy pratico e leggero, utile in tanti casi, ed è certamente il mezzo migliore per spararsi al volo l’ultimo hit di chiunque sia ovunque ci troviamo. Bene. Ma da che parte si accende per sentirsi La Sagra della Primavera di Stravinsky?


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Apple entrerà nel G-20?

I nuovi Stati: come cambia il mondo xxxxx

Apple ha più dollari di Obama. In soldoni, è la notizia del Guardian di due settimane fa, secondo cui nelle casse di Apple c'è un patrimonio annuale netto (denaro disponibile) superiore a quello del governo degli Stati Uniti di Fabio Vita

Coi suoi 468 miliardi di dollari di capitalizzazione, d'altra parte, Apple ha già superato (come valore azionario) il prodotto interno lordo di uno Stato di media importanza come il Belgio. Se Apple fosse uno Stato – e non è detto che non lo sia – entrerebbe a pieno diritto nel G-20, l'insieme delle venti nazioni più industrializzate del mondo. Non ci entrerebbe da sola. La sola Exxon vale già quattrocento miliardi di dollari. Google centonovantasei.

Ci sono diversi nuovi Stati, nuovi imperi; vassalli che diventano re. Con i loro eserciti, le loro bandiere. Sono tutti attentissimi ai simboli ed agli stendardi: gli stemmi – chiamati loghi - dei nuovi stati sono onnipresenti. Ciascuno di loro ha il proprio motto (“Think different”, “Don't be evil”...) analogo a quelli (“E pluribus unum”, “In God we trust”) delle nazioni tradizionali. La nazione Apple La nazione Apple possiede – se parliamo di eserciti – ben 63mila dipendenti, di cui 43mila negli stati Uniti. Pochi, rispetto alla Royal Navy o al Corpo dei Marines, o anche (come fa osservare il New York Times) rispetto ai 400mila dipendenti della General Motors anni '50 o a quelli di General Electric anni '80. Ma ciascuno di questi dipendenti ha fruttato alla Apple, nell'ultimo anno, più di 400mila dollari (“più di Goldman Sachs, Exxon Mobil o Google”, chiosa il N.Y.Times). E soprattutto ad essi si affianca una marea di collaboratori in subappalto, quasi tutti asiatici: più di settecentomila. Un'orda. E qui i paragoni non vanno fatti più con le nazioni moderne, ma direttamente con Gengis Khan e Tamerlano. Le città-stato di Foxconn Le fabbriche di Foxconn in Cina (cioè i principali subappalti) hanno dimensioni galattiche, da città-stato. La più grande, a Shenzhen, chiamata – ovviamente - Foxconn City, secondo le stime più prudenti

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possiede 230mila operai (altri dicono 300 o anche 450mila). La maggior parte lavora sei giorni a settimana per dodici ore al giorno, per diciassette dollari al giorno. Molti alloggiano nei dormitori adiacenti. Una buona parte lavora di notte. Nella cucina centrale si cuociono tre tonnellate di maiale e quattordici di riso al giorno. Ci sono trecento guardie per “smistare il traffico” nelle strade. Nel giugno 2010, dopo una serie di suicidi fra gli operai Foxconn, Apple venne chiamata in causa per rispondere delle condizioni di lavoro di queste fabbriche. Con molto understatement, Steve Jobs in persona dichiarò che "hanno ristoranti e piscine... Per essere una fabbrica, è una fabbrica piuttosto bella". Da quell'ondata di suicidi in poi, se vuoi lavorare in Foxconn devi firmare una clausola aggiuntiva in cui t'impegni a non suicidarti, pena ritorsioni legali verso la tua famiglia. Devi inoltre partecipare, con la maglietta I-Love-Foxconn, alle manifestazioni in cui si inneggia alla compagnia e lavorare senza suicidarsi. E in ogni caso, dal giugno 2010 in poi sono state installate reti antisuicidio dappertutto. “Non sarà il 1984” "Non sarà il 1984 di Orwell" prometteva (ricordate?) la Apple, quando lanciò il primo Mac nell'84. Beh, Orwell non prevedeva l'uso di robot per sorvegliare i prigionieri, nel suo romanzo. Nella Corea


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del Sud invece il governo ha annunciato (magari non c'entra niente, ma insomma...) che in futuro le carceri saranno sorvegliate da appositi robot che come ci annuncia Repubblica - "hanno occhi grandi, un simpatico sorriso stampato, e sono capaci di parlare”. Sempre in Corea, è in costruzione anche la disneyland dei robot. E la solita Foxconn già mesi fa ha annunciato la costruzione - da parte di essere umani - di una fabbrica di automi. Il tablet indiano, il chip cinese Mercati. Nel 2011 tablet e smartphone hanno quasi raggiunto i computer (portatili di tutte le taglie e fissi). I processori Arm stanno quindi superando gli Intel. Fra i sistemi operativi Android, con Kernel Linux o Apple iOS sta soppiantando Windows. Il tablet indiano proposto a 35 dollari con aiuto governativo per allevare una generazione di programmatori è una risposta autoctona ai computer di Negroponte e di Intel.

Il processore per Android, interamente realizzato dalla cinese Icub che integra processore e scheda grafica in consumi ridotti mostra i progressi della Cina nel campo tecnologico, non solo come fucina ma anche come sviluppo e ingegnerizzazione di dispositivi e componenti. Un milione di prolet Note sparse. Foxconn ha oltre un milione e trecentomila di lavoratori, e oltre ad essere in Cina, di cui è primo esportatore, è sparso un po' ovunque: è il secondo esportatore della Repubblica Ceca; ha fabbriche in Messico, dove produce per Motorola e Cisco. Iniziò nel 1974 producendo connettori in plastica (si possono trovare nell'Atari 2600) e poi schede-madri per computer. Adesso produce per ditte americane (Apple, Amazon, Dell, HP, Intel), orientali (Samsung, Sony, Nintendo, Toshiba, Acer) ed europee (Nokia). Ancora Apple. L'ex sindaco di San Francisco, il 77 enne avvocato nero Willie Brown, a dicembre aveva esortato i

LINK http://www.repubblica.it/scienze/2012/02/05/news/robot_guardie_carcerarie-29022851/ http://www.economist.com/blogs/freeexchange/2012/01/supply-chains? fsrc=scn/tw/te/bl/appleandtheamericaneconomy http://www.nytimes.com/2012/01/22/business/apple-america-and-a-squeezed-middle-class.html? _r=2&pagewanted=all http://www.guardian.co.uk/technology/2012/jan/29/apple-windfall-spent?CMP=twt_gu http://www.repubblica.it/economia/2012/02/13/news/apple_vola-29821010/ http://www.sfgate.com/cgi-bin/article.cgi?f=/c/a/2011/12/17/BARA1MD5EO.DTL http://www.corriere.it/economia/10_giugno_02/foxconn-steve-jobs-fabbrica-carina_201f6a18-6e30-11dfb855-00144f02aabe.shtml http://en.wikipedia.org/wiki/Foxconn#China http://www.engadget.com/2012/02/17/visualized-ios-2011-sales-outsells-28-years-of-mac/

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manifestanti di “Occupy” della sua città a protestare contro Apple piuttosto che contro l'amministrazione del suo partito; erano già nell'aria le manifestazioni degli Occupy Apple contro l'iper-sfruttamento dei lavoratori cinesi. Seguite, mediaticamente, da “accuratissimi” controlli interni di Apple sulle fabbriche Foxconn. I “controllori” dopo un giorno di visita guidata nelle fabbriche, dichiarano che in Foxconn si sta meglio che delle altre fabbriche cinesi. La parola “bolla” Le previsioni degli analisti sul valore di Apple sono di ulteriore crescita (quelli stessi analisti prevedevano una discesa delle azioni, dopo la morte di Steve Jobs, che non è successo) ma con la quotazione di Facebook (la più grande IPO della storia, il 5% delle sue azioni, per un valore stimato della compagnia di 100 miliardi, 30 volte il fatturato, 80 volte gli utili) si legge la parola “bolla”.

La moneta elettronica

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (aggiornamenti in tempo reale)


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Inter viste/ Stefano Bartolini

Economia delle relazioni o economia del Pil? Un tempo l'economia era la “scienza umana” per eccellenza. Per qualcuno, dovrebbe esserlo ancora di Laura Cortina Stefano Bartolini insegna economia politica a Siena e fa parte di quella nuova leva di studiosi che si s'è presa l’onere di spiegare la seconda grande crisi del capitalismo, oltre i numeri e le analisi strettamente finanziarie, cercando di cogliere la complessità aperta davanti a noi e a tutte le società occidentali e non. Il suo recente Manuale per la felicità: come passare dal ben-avere al ben-essere (Donzelli), raccoglie dieci anni di osservazione e studio della storia economica, sociale e culturale, dagli Stati Uniti all’Italia, che ha avuto come epilogo il black-out finanziario del luglio 2007 e la crisi economica che è poi sopraggiunta. La crisi del luglio 2007 Professor Bartolini, possiamo definire il 2007 la seconda grande crisi del capitalismo, come è opinione comune, oppure, come invece lei in qualche modo ci induce a riflettere con le sue analisi, il vero disvelamento del capitale, nella sua più intima essenza? Il modello capitalista con la crisi iniziata a luglio 2007 ha senza dubbio tradito la sua promessa: vi renderò tutti più felici, a tutti sarà data la possibilità di usufruire di condizioni di vita migliori. Come in parte ha fatto, almeno fino ad un certo punto. Il capitalismo è stato senza dubbio uno strumento per superare indigenza, malattie, ingnoranza, disparità tra i sessi, condizioni di vita complessivamente misere.

Ma negli ultimi decenni è divenuto un capitalismo zoppo, soprattutto quello statunitense, perché ha camminato solo sulla gamba dei consumi garantiti dalla maggiore ricchezza a disposizione. Mentre l’economia diventava economicismo al seguito del totem del Pil. In questi ultimi anni gli economisti di tutto il mondo stanno infatti rivedendo gli indici economici che posso realmente darci la misura della condizione di una società. La sua proposta è quella di sostituire il Pil con un nuovo indice della felicità? Il Pil è un ottimo indicatore dello stato della congiuntura economica, un elemento importante ma non sufficiente a comprendere la complessità del ben-essere sociale. Una società non funziona a compartimenti stagni, né l’individuo può esistere solo come un’isola. La coesione sociale in larga parte del mondo occidentale è stata sopperita dal consumo e più ci si è trovati soli più si è consumato fino ad indebitarsi all’inverosimile. L'implosione dello sviluppo Questa dinamica perversa è stata più acuta negli Usa. In questo circolo vizioso il capitalismo ha tradito: ha reso uomini e donne sempre più infelici, soli e poveri di tempo. E per compensazione sempre più consumatori. La vecchia economia del Pil deve essere soppiantata da una nuova economia delle relazioni, umane, sociali, lavorative. Una società relazionale. In una parola un’economia che sappia ridare slancio a quell’idea di fare comune che è stata spazzata via dall’individualismo e dalla rincorsa edonista di questi ultimi trent’anni di sviluppo capitalista. Si badi bene, il mio non vuole essere un semplicistico attacco alla modernità. Lo sviluppo che abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra fino ad oggi, ha subito un implosione. E’ il cosiddetto nuovo capitalismo Neg, Negative endogenous growth, crescita endogena negativa.

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Ci può spiegare meglio l’evoluzione di questo capitalismo Neg, a crescita endogena negativa, di cui lei e altri economisti parlano in questi anni? L’aumento dei consumi come rivelano gli studi che ho compiuto insieme ad altri economisti, sono la cartina di tornasole della condizione di infelicità. La crisi finanziaria e poi economica cseguita al super indebitamento delle famiglie statunitensi e che ha contagiato tutto il mondo occidentale è il risultato del capitalismo Neg. Questo tipo di capitalismo è radicato soprattutto negli Stati Uniti La competizione sovietica produceva una pressione per l’umanizzazione del capitalismo. L'evoluzione europea Dagli anni Ottanta in poi, col declino e poi il crollo del sistema socialista, è venuta meno la spinta verso un capitalismo dal volto umano. Da allora sempre più la gente è stata fatta per l’economia anziché fare l’economia per la gente. Il capitalismo ha dato il peggio di sé. Oggi produce cioè infelicità, instabilità, povertà. E isolamento, una condizione che confligge con la nostra biologia. Ma Europa e Stati Uniti presentano però un percorso diverso rispetto a questo tipo di capitalismo sostanzialmente involutivo che lei ha analizzato in questi anni nelle sue ricerche. L’Europa ha avuto un’evoluzione diversa rispetto agli Stati Uniti. Il risultato è stato che mentre la felicità e la qualità della vita relazionale dell’americano medio sono peggiorate negli ultimi decenni, quelle dell’europeo medio sono leggermente migliorate o sono rimaste stabili. Inoltre in Europa gli orari di lavoro sono generalmente diminuiti mentre in America sono aumentati, rendendo la pressione sul tempo un fenomeno assai più estremo negli Usa. Quello europeo è stato un capitalismo più sociale, che garantiva istruzione e sanità pubbliche, un sistema pensionistico e


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misure di welfare, più protezioni per il lavoro; tutto questo ha garantito meno diseguaglianze e dunque più coesione sociale. Invece negli Stati Uniti una organizzazione economica, sociale e culturale ossessivamente votata al possesso e alla competizione ha generato, a partire dagli anni Ottanta, un circolo vizioso ha portato alla crisi del 2007: meno felicità, più consumi, ancora meno felicità. In questo quadro mondiale, tra i capitalismi europeo e statunitense, dove e come si colloca l’Italia dal suo punto di vista? L’Italia ha potuto beneficiare di tutti gli aspetti positivi di un capitalismo più sociale. Inoltre ha una peculiarità che manca ad altri paesi europei, quella di avere un tessuto industriale fatto di distretti, un sistema locale di piccole imprese che in cui i legami sociali e comunitari giocano un ruolo importante. Inoltre in questi sistemi è stata da sempre molto forte la mobilità tra capitale e lavoro. L’operaio specializzato ha aperto la sua micro impresa, si è messo in proprio o ha organizzato piccole società con altri lavoratori. Oggi il nostro paese si trova però in mezzo ad un guado. Mercato del lavoro duale Sta somigliando sempre più agli Stati Uniti, grazie ad una colonizzazione culturale che non ha paragoni in altri paesi europei, e questo riguarda soprattutto le nostri classi dirigenti economiche, e politiche che stanno prendendo la strada del modello iper competitivo americano. A questo si aggiunge l’anomalia di un mercato del lavoro sempre più duale, da una parte le garanzie inossidabili del pubblico impiego e della media grande industria, dall’altro la deregolamentazione selvaggia che ha prodotto la flessibilità e i nuovi contratti di lavoro atipici. Fa da cornice a tutto questo un sistema di welfare incongruo rispetto alla nuova società che abbiamo di fronte.

Quello che succederà nei prossimi anni dipenderà da come la classe politica saprà affrontare queste grandi sfide sociali ed economiche. Quindi secondo lei il nuovo accordo Fiat va nella direzione di un capitalismo a rischio di implosione? L’accordo Fiat e l’approccio Marchionne fanno parte di quello stile di management anglosassone, competitività a prezzo di super sfruttamento del lavoro, che finora non ha prodotto alcun successo industriale. Come si può riscontrare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, che l'hanno pagato con una forte deindustrializzazione. Ci sono altri approcci manageriali, come quello tedesco, che hanno funzionato meglio e che si concentrano invece sull’innovazione, su l’ideazione di nuovi modelli automobilistici e su relazioni cooperative con i lavoratori e le rappresentanze sindacali. Altri approcci manageriali Se dovesse dettare un’agenda politica per fronteggiare la condizione di disagio che sta vivendo il Paese… Una riforma urbana: mobilità sostenibile e qualità degli spazi pubblici. Ridiamo valore agli urbanisti che purtroppo sono scomparsi nel ruolo di progettisti delle relazioni e quindi della qualità della vita. Una riforma della scuola che sappia sostenere non solo intelligenze cognitive ma intelligenze emotive e creative dei più giovani e sappia ridare agli studenti un ruolo attivo nella proposta scolastica. Una riforma sanitaria che sposti la prevenzione fuori dai sistemi sanitari claustrofobici, ospedali, laboratori di analisti, e che sappia trasformare il rapporto medico paziente in una relazione terapeutica già in sé. Una riforma del mercato del lavoro e del sistema dei contratti che esca dal dogma del tempo indeterminato e dal mito della flessibilità come panacea.

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Quanto alle politiche internazionali... La deregolazione finanziaria ha creato un mondo in cui tutti i tipi di istituzioni finanziarie possono comprare e vendere tutti i tipi di prodotti finanziari. La libertà internazionale di movimento dei capitali seguita al crollo di Bretton Woods negli anni ’70, ha profondamente modificato le abitudini dei risparmiatori di tutto il mondo. Per esempio in Italia fino agli anni ’70 le occasioni di investimenti finanziari erano limitate sostanzialmente alla inaffidabile borsa italiana e ai Bot. Dopo Bretton Woods La liberalizzazione ha creato un mondo di occasioni finanziarie. In questa nuova era dove si sono prevalentemente diretti i capitali del mondo? Ovviamente verso i paesi più affidabili e le piazze finanziarie più grandi. Cioè verso gli Stati Uniti. È così che Wall Street ha finito per assorbire gran parte dei capitali del mondo e, quel che è peggio, del Terzo Mondo. I ricchi dei paesi poveri hanno sottratto i capitali da dove ce n’era più bisogno, per spedirli nel paese più ricco del mondo. Così l’estrema diseguaglianza tra i paesi del mondo in tema di credibilità e di dimensione delle piazze finanziarie ha finito per finanziare i consumi del paese che già consumava di più. In questo modo una crisi americana si è trasmessa al mondo. Perché più o meno tutto il mondo aveva titoli del debito delle famiglie americane e il motivo è che la proliferazione dei titoli era avvenuta basandosi su tale debito. Ed era avvenuta in modo da non poter più riconoscere la qualità dei titoli, cioè la loro rischiosità. Non riesco a immaginare altre soluzioni efficaci diverse dal revocare i cambiamenti legislativi che hanno permesso l’oscura cartolarizzazione del debito americano, limitare la speculazione ri-regolando il mercato in modo da segmentarlo e porre limiti alla mobilità internazionale dei capitali finanziari.


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Società

Colletti sporchi e politica debole La mafia è sinonimo di criminalità. Ma non solo: spesso è una patologia del potere. Dove sono le sue radici? di Gabriele Licciardi

Spesso queste manifestazioni del potere mafioso sono state rappresentate con la famosa immagine della piovra, una testa e tanti tentacoli, senza tenere conto del fatto che parliamo di gruppi che si affiancano e si sovrappongono, parliamo di reticoli affaristici sovra locali e spesso internazionali, ma che riescono a riconoscersi e a coordinarsi, reticoli fluidi, almeno quanto i mercati che cercano di insidiare quotidianamente.

Centro Studi Luccini, Padova Capitale liquido e mercati legali

Quando l’intreccio fra poteri legali e poteri criminali mina l’integrità, economica e morale, di un paese, diventa indispensabile capire da dove nascono queste pratiche criminali e attraverso quali canali riescono a manifestare la loro forza dirompente. Attorno alle mafie si muovono interessi economici, politici e sociali, identificabili nell’ampia zona grigia che storicamente ha legato gli interessi strettamente mafiosi, con quelli di chi con la mafia fa affari o intreccia pericolosi sodalizi politici, insomma la variegata gamma dei reati che la magistratura cerca di colpire attraverso la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel momento in cui parliamo di mafie che agiscono in territori lontani da quelli d’origine, la cerniera rappresentata da professionisti, uomini d’affari e più in generale, la tolleranza che un crimine economico, meno cruento delle stragi quotidiane degli anni ottanta, ha saputo costruire nell’immaginario comune, hanno determinato e continuano a determinare la condizione primaria affinché il robusto capitale liquido delle famiglie mafiose possa trovare uno sbocco nei mercati legali, distorcendone le forme, aggravandone i profili, ma soprattutto, deviandone la ragione sociale, non più profitto in un regime di libero mercato, ma alterazione delle libertà economiche in favore dell’arricchimento di criminali, e il conseguente rafforzamento di quell’asse che lega il mondo dell’economia mafiosa, con quello dell’economia reale. Il mondo di sopra e quello di sotto Di pari passo assistiamo ad un graduale e progressivo aggravarsi dei dati che

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certificano il diffondersi dei reati contro la pubblica amministrazione in tutte le regioni del nord italia; peculato, concussione, corruzione, diventano in questo modo la chiave d’accesso attraverso cui il mondo di sotto, quello dei mafiosi, entra in relazione col mondo di sopra, quello ufficiale, determinandone comportamenti e inficiandone l’efficacia. Nelle regioni settentrionali il pericolo delle infiltrazioni mafiose non è avvertito nella sua enorme portata, anche se i comuni sciolti, o i blitz dei mesi scorsi certificano l’esistenza. a volte, anche di un radicamento ben più profondo di comunque pericolose infiltrazioni. Una cerniera di invisibilità Le mafie al nord continuano in modo invisibile a riciclare i proventi delle attività delittuose grazie alla cerniera di colletti bianchi che ne permettono l’invisibilità, e grazie alla mancanza di una robusta coscienza antimafiosa. A costruire questo anticorpo dovrebbe pensarci principalmente la politica, che invece sembra declinare il tema secondo le logiche della polemica interna al sistema. Così ancora una volta l’antimafia sembra un discorso confinato nel limbo degli strumenti della repressione, un’emergenza della sicurezza che non lascia spazio ad iniziative strutturate miranti a codificare un’etica pubblica in grado di riconoscere ed espellere le manifestazioni del potere mafioso dai gangli del tessuto socioeconomico delle regioni settentrionali. La mafia al nord non è più un problema marginale, non lo è mai stato, oggi più di ieri.


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Società

Tecniche d'eliminazione I diffamati In Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza Luciano Mirone li ha chiamati “Gli insabbiati”. Claudio Fava ha intitolato un suo libro “I disarmati” di Salvo Vitale Ma potremmo chiamarli “I diffamati”, tutti i caduti di su cui si è provato a gettar fango, in vita e subito dopo la loro morte. L’esempio di Peppino Impastato è forse il più eclatante:da attivista politico schierato all’estrema sinistra, a terrorista che era saltato in aria con la sua bomba. Lo schema della diffamazione non poteva essere migliore, tanto più che il pazzo voleva far saltare in aria gli operai che andavano a Palermo col primo treno. Addirittura, per Sciascia, “se di delitto di mafia si tratta, è un “delitto anomalo”. E solo perché c’era alle spalle un nucleo di compagni bene organizzato e deciso, la provocazione non è passata. Vogliamo parlare di Beppe Alfano? Dopo la sua morte, scrive Mirone, “uno strisciante tam tam si diffonde con rapidità incredibile: Alfano è stato ucciso per questioni di donne o di debiti di gioco. Dice il pentito Maurizio Bonaceto: “Spesso, quando si verificava un omicidio nel barcellonese, veniva fatta girare la voce che si trattava di storie di donne, per nascondere la provenienza e la matrice mafiosa del delitto”.

Ma passiamo a Mauro Rostagno: “Un delitto in famiglia” lo definì il giudice Garofalo, che curò le indagini per diverso tempo: Rostagno sarebbe stato ucciso a seguito di una sorta di triangolo amoroso che vedeva sua moglie Chicca Roveri amante del socialista Cardella, amministratore e finanziatore della comunità “Saman”: Rostagno drogato, scoppiato, sovversivo, forse ucciso dai suoi ex compagni di Lotta Continua o dagli stessi tossicodipendenti della comunità di Lenzi. Per avviare le indagini sul delitto di mafia consumato dal mafioso trapanese Virga sono dovuti passare 22 anni e c’è voluta la testardaggine del giudice Ingroia. Fava, De Mauro, Rizzotto... Vogliamo citare Giuseppe Fava? Sin dal primo giorno venne avviata una campagna di delegittimazione con la quale il giornalista veniva dipinto come donnaiolo, incallito giocatore di carte, ricattatore. Perquisita la casa di Fava, la sede de “I Siciliani”, sospettati gli stessi collaboratori di Fava. Indagini ferme per otto anni, fino a quando il pentito Giuseppe Pellegriti e dopo di lui Maurizio Avola non fanno precisi nomi di mafiosi facenti capo a Nitto Santapaola. Su Mauro De Mauro è stato detto tutto: che era un fascista della decima Mas, che aveva scoperto l’inghippo dietro il delitto di Enrico Mattei, che sapeva molte cose del delitto Tandoy, (un commissario PS assassinato ad Agrigento), che era a conoscenza della preparazione del golpe poi fallito di Junio Valerio Borghese, che era rimasto vittima del mondo del traffico degli stupefacenti. Anche qua una catena di depistaggi, mai finita, per tenere lontana la mafia. Potremmo continuare all’infinito: Placido Rizzotto, la cui fidanzata sarebbe stata amante del suo assassino Luciano

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Liggio, Cosimo Cristina, giovane giornalista che si sarebbe gettato sotto un treno per delusione amorosa, per arrivare a don Diana, che una campagna di diffamazione ha tentato di far passare per prete mafioso. I veleni di Palermo Perché questa è una delle regole cardini di Cosa Nostra nei confronti dei suoi nemici: la delegittimazione. E' il primo gradino, fatto di fango, di calunnie, di voci messe abilmente in giro, spesso a conferma che tu sei colluso con coloro che fingi di combattere: chi non ricorda la “stagione dei veleni” al Palazzo di giustizia di Palermo e le lettere del “corvo” contro Giovanni Falcone Adesso qualcuno ci sta provando con Piero Grasso, reo di avere barattato la sua nomina a Procuratore Antimafia con la rinuncia a indagini che riguardassero i presunti rapporti tra Forza Italia e Bernardo Provenzano. Ma anche il procuratore Messineo, tenace e onesto, è entrato nel mirino dei diffamatori a causa di un suo fratello implicato in vicende di mafia. Per non parlare di Roberto Saviano che in “La bellezza e l’inferno” accenna al calvario di menzogne, accuse indimostrate, illazioni, carognate nei suoi confronti anche attraverso giornali nazionali. E infine, l'ultima soluzione Il fango che viene ad arte diffuso, prima da “radio ombra”, poi dai mass media, diventa una cortina fumogena che allontana l’immagine reale e la sostituisce con quella dei comuni mortali, felici di coinvolgere nella propria mediocrità coloro che cercano di trasmettere un messaggio diverso. La condanna a morte è l’ultima soluzione, quando i mafiosi si accorgono che non c’è niente da fare.


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Politica

Identikit del politico siciliano. E delle sue amnesie

GAETANO ARMAO

Atene piange ma Sparta non ride: l'una fa i pateracchi, l'altra finge di non ricordarsene più... di Giovanni Abbagnato I costumi dei governanti siciliani sono caratterizzati da una continuità che riporta un identikit del malcostume governativo ricorrente nel tempo, con facce diverse ma spesso identici vizi. Per capirlo non è necessario partire dalla sostanza di una politica basata sul favore parcellizzato per controllare i bisogni primari e gli istinti peggiori di ampie fasce clientelari. Si può anche partire dalle forme esterne dell’ostentazione del potere, ampiamente rivelatrici di una precisa idea della gestione del potere, a tutti i livelli.

La recente vicenda dell’Assessore regionale all’Economia Gaetano Armao mostra come un atteggiamento da yuppie rampante non cambi la sostanza del vivere il potere con una certa altezzosa volgarità. In questo senso fa scuola la recente notizia – per la Procura notizia di reato - dell’uso, a dire poco improprio, dell’auto blu, messa dall’Assessore a disposizione di persona a lui sentimentalmente vicina, ma che nulla aveva a che fare con l’Amministrazione. Se si aggiunge che la persona inopinatamente beneficiata è un Magistrato, si potrebbe concludere con il detto siciliano: "non si piglia se non si assomiglia".

Continuando su questo livello minimale si può commentare la notizia del posto d’auto riservato sotto casa – a Palermo indicatore di status importantissimo – ottenuto in quanto console onorario del Belize, che però l’Assessore si è guardato bene dal farsi revocare venuta meno la funzione diplomatica. Peccati veniali? No, punte di iceberg. Il problema riguarda solo questa compagine di governo e il suo componente Armao? Certo che no. Ma almeno la classe politica di un tempo non osava inneggiare - come suole l’Assessore - alla trasparenza, la legalità e l’innovazione etica nell’Amministrazione. Conflitto d'interesse Per la verità l’Assessore Armao è stato anche coinvolto in una polemica ben più rilevante che riguardava un possibile conflitto d’interesse tra i suoi ruoli di Assessore competente per il settore dei rifiuti e di consulente di una ditta di termovalorizzatori. L’esponente dell’allora opposizione Cracolici, nella sua funzione di capogruppo PD, accusò senza mezzi termini Armao, oltre che di avere consentito alle ditte di decidere il numero di inceneritori da costruire, anche di aver annunciato un

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possibile indennizzo alla società concessionaria da parte della Regione, producendo un effetto-annuncio a beneficio delle azioni della Actelios (gruppo Falk) di cui Armao era stato consulente. Come mai non ne parlano più? Armao si difese definendo farneticazioni le illazioni dell’avversario politico e dichiarando che da due anni aveva chiuso quella consulenza. E minacciava querela nei confronti di Cracolici e costringendo il presidente dell'Assemblea Cascio a richiamare l’articolo 6 dello Statuto sull’insindacabilità di voto e opinioni dei Deputati nell’esercizio delle loro funzioni. La polemica continuò e l’opposizione richiese le dimissioni di Armao, ma nulla accadde. Armao confermò il suo ruolo di Assessore forte del Governo Lombardo, con l’importantissima competenza dell’Economia, anche nella compagine di governo appoggiata dal PD. A questo punto, la domanda: come mai Cracolici e il suo Partito, dopo la svolta governativa, non hanno più ripreso la grave vicenda del conflitto d’interesse sui termovalorizzatori e si sono guardati bene dal commentare anche le recenti e disdicevoli vicende dell’Assessore?


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Politica

Governo in alto, la gente in basso e in mezzo un muro

MARIO MONTI

Al supermercato c'è chi “giustifica” i rapinatori: “Non c'è lavoro, che possono fare?”. Non è proprio una lode per la politica economica corrente... di Riccardo De Gennaro Il pensiero del governo Monti in materia di lavoro si può riassumere, a grandi linee, in tre no: no all’articolo 18, no al posto fisso per i nuovi assunti, no a un welfare più robusto che garantisca i disoccupati. L’abolizione dell’articolo 18 potrebbe essere sostituita da un allargamento della casistica prevista delle leggi sui licenziamenti individuali e collettivi, che oggi (fatta salva la giusta causa) sono permessi solo in caso di stato di crisi dell’azienda: ciò permetterebbe ai sindacati di cantare vittoria sull’art.18. Ai tre “no” si può aggiungere una pericolosa propensione del governo allo svuotamento del contratto collettivo, come da anni chiede Confindustria. Se tutto questo non è la legge della giungla applicata al mercato del lavoro poco ci manca. Sicuramente ci troviamo nell’alveo del liberismo più spudorato. Con l’aggravante di un’ironia che non ha fatto ridere nessuno se non i peggiori esponenti del precedente governo: i giovani che puntano al posto fisso sono pigri, “mammoni” e aspirano a una vita noiosa. È una storia vecchia: si aumenta la flessibilità del lavoro (una politica che, come dimostra l’ultimo decennio, non ha mai aumentato l’occupazione, semmai è il contrario) e nello stesso tempo si an-

nunciano nuovi ammortizzatori sociali, che resteranno semplici promesse perché alla fine, guarda caso, mancheranno le risorse. “Bisogna spalmare le tutele su tutti”, ha puntualizzato il ministro Fornero, senza dire dove, come, entro quando. Nel frattempo, i dati sulla disoccupazione giovanile e sulla povertà delle famiglie sono ogni mese più drammatici. Qualche giorno fa la padrona della tintoria vicino casa mi ha raccontato che la mattina era stata al supermercato. A un certo punto hanno fatto irruzione due giovani decisi, le pistole in pugno, che si sono avvicinati alle casse e si sono fatti dare i soldi. Il “welfare” della mafia Mi aspettavo che la donna mi manifestasse la sua rabbia nei confronti dei rapinatori, ma mi sbagliavo. Il suo era un sentimento di comprensione: “Ma è chiaro, non c’è lavoro, cosa possono fare d’altro?”. Se vuole evitare che i giovani si diano alle rapine o si affidino al “welfare” della mafia è indispensabile che il governo dei professori cominci a pensare con la testa degli studenti. Qualcuno ha detto che mai un governo è stato così lontano dalla realtà, dalla vita quotidiana del Paese che

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dovrebbe guidare. Non era difficile prevederlo al momento del suo insediamento, quando cioé ci si è resi conto che il nuovo esecutivo avrebbe preso ordini dal sistema bancario internazionle. Chi è più lontano dal Paese reale di un accademico o di un banchiere? E pensare che i professori Monti e Fornero, docenti di economia a Torino, dovrebbero saperlo. Hanno letto Keynes, le sue formule le avranno scritte migliaia di volte alla lavagna: il reddito nazionale aumenta se aumentano i consumi, gli investimenti o la spesa pubblica. Le prime due leve sono bloccate per la mancanza di una politica dei redditi (meno salari uguale meno consumi uguale meno investimenti uguale meno occupazione), mentre la terza è stata “inibita” ad arte con la costruzione di un’Europa esclusivamente monetaria, attenta soltanto ai vincoli di bilancio e non al benessere dei cittadini. I principali flussi finanziari hanno direzioni molto precise, non sarebbe difficile colpirli, ma chi li governa ha più potere di chi ci governa e spesso chi li governa e chi ci governa sono complici. È una sola gigantesca rapina internazionale che provoca e continuerà a provocare, se non muteranno gli equilibri, un’infinità di piccole rapine ai supermercati di quartiere.


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ANTICIPAZIONI/ Dal prossimo libro di Pietro Orsatti

Italian tabloid “...Li metto così, in fila, in ordine cronologico, i miei appunti, i lanci di agenzia, i ritagli di giornali su quella giornata. Frammenti di memoria. Questo sono. Memoria. Li metto in fila così perché non trovo altri modo di farlo questo lavoro che mi gira per la testa. Raccontare di un tesoro che non si trova più, di un tesoro grande, immenso. Ogni tanto ne compare qualche traccia, frammenti, poi il nulla. Ma quei soldi ci sono, pesano. Stanno lì. Producono affari, potere, politica e morte. E dalla morte inizio. Da quella di Stefano Bontade, Bontade il “Principe di Villagrazia” diplomato al liceo bene di Palermo, il Gonzaga, e diventato a soli vent’anni capo della famiglia si Santa Maria di Gesù. E’ il 26 aprile del 1981, quel giorno che cerco di ricostruire. E’ quello il giorno del suo funerale. Lui, il Principe, è morto nel giorno del suo quarantatreesimo compleanno...” I Sicilianigiovani – pag. 84


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Questa è una storia difficile da raccontare. Una storia che ha tanti punti di partenza e innumerevoli finali, se si riesce a trovarne. E’ la storia di un fiume di denaro, il denaro del traffico internazionale di eroina fra gli anni ’60 e i primi anni ’80. La storia del valore politico e economico di un gruppo di potere che è perfino limitato definire criminale perché si comportava come un governo di uno Stato che agiva, trattando, con un altro Stato, quello Italiano. Trattando. Dal 1943, in preparazione dello sbarco alleato e perfino all'atto della firma dell’Armistizio. E ancora nel ’47 a Portella della Ginestra nel sangue versato. E che non era espressione di una criminalità “popolare” ma di un’élite economica e culturale. Baroni, imprenditori, perfino luminari della medicina, imprenditori, politici. E una folla, comunque, di massoni. Tutti mafiosi, tutti Cosa nostra. La vecchia Cosa nostra Sto parlando di quella Cosa nostra retta dal cugino di Michele Greco, Salvatore detto “Cicchitedda”, il primo capo della commissione nata dalla “riforma” della mafia dopo la riunione nell’ottobre del 1957 all’Hotel des Palmes di Palermo fra i siciliani e gli americani, fra Lucky Luciano e Greco e compagnia bella. Con tanto di uomo di quel confine indefinibile fra i due mondi, Tommaso Buscetta, a presenziare all’incontro. Un “soldato” al cospetto dei capi e che con i capi si fa “una parlata”. E quando mai si è vista una cosa del genere? Ma c’era bisogno di uomini di confine, di persone come don Masino, di emissari verso il mondo degli affari, della politica e dei “servizi” non solo italiani. Un uomo di due mondi. Di un boss dei due mondi, appunto, come Buscetta era soprannominato. Perché si era in piena guerra fredda e la mafia serviva, su una sponda e sull’altra dell’Atlantico. Serviva la sua capacità militare, il suo controllo del territorio e il tanto, e davvero era un fiume, denaro non rintracciabile. Ai tempi della guerra fredda Guerra fredda, pochi se ne ricordano oggi. Dove valeva tutto, anche il patto con il diavolo per sconfiggere il pericolo rosso. Meglio i mafiosi di Cosa nostra che dei sindacati che funzionavano e la salita al governo di socialisti e soprattutto

di quei comunisti del Pci italiano che erano i più forti dell’Europa occidentale. Sto parlando di quella Cosa nostra che nonostante i capi della commissione fossero prima Salvatore Greco, poi Gaetano Badalamenti e infine Michele Greco alla vigilia del colpo di Stato e della dittatura di Totò Riina, era in realtà guidata dal carisma e dalla capacità politica e imprenditoriale del “principe di Villagrazia”, Stefano Bontate il cui patrimonio fu solo in parte affidato ai cugini Nino e Ignazio Salvo, ma soprattutto venne reso potere assoluto nelle mani e nella rete finanziaria di Michele Sindona, “il salvatore della lira” secondo Giulio Andreotti. E quei soldi poi nessuno li ha ritrovati. O forse ne ha trovato un pezzo quel Bernardo Provenzano, socio di Riina ma da lui distante galassie nella gestione del potere. Mafioso vecchio stile era diventato Provenzano a scuola di Cosa nostra nella sua lunga latitanza a Cinisi sotto l’ala protettrice di Tano Badalamenti (quello che per intenderci mafieggiava e uccideva Peppino Impastato e, come lui stesso ammise, contemporaneamente era confidente dei carabinieri). Riina era l’anomalia. Provenzano divenne, nonostante l’origine, la continuità con la vecchia mafia. Nella gestione dei soldi, della politica, dell’invisibilità e dei rapporti con poteri come quelli della massoneria, chiamiamola così, “deviata”. Il giudice Pierre Michel Rileggevo, nella notte, quegli appunti che avevo tirato giù qualche giorno prima di incontrare il mio personale Caronte nell’inferno di Cosa nostra. Quante conferme. Ora. E quante ne aspettavo ancora. E poi ecco quel frammento su Marsiglia. Soldi. E un mare di sangue. Una mattanza per prenderli. Una mattanza per mantenerli. Questa è una piccola storia. La storia di un magistrato francese ammazzato a Marsiglia il 21 ottobre 1981. Pierre Michel. Morto perché indagava, anche in collaborazione con i magistrati palermitani, sul traffico internazionale di eroina gestito da Cosa nostra ma che vedeva coinvolta anche la criminalità organizzata marsigliese che per prima si era avvicinata al business e aveva i “chimici” e la preparazione per avviare l’industria più redditizia dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Una storia totalmente rimossa, quella di Pierre Michel.

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*** Stava andando a casa sulla sua moto, Pierre Michel, quando venne affiancato da un’altra motocicletta con due uomini sul sellino. Solo due colpi, uno al corpo, l’altro alla testa. Fine. La sua vita, la sua carriera e le sue inchieste erano finite lì, su un viale di Marsiglia all’ora di pranzo. Giovane, alto e bravo nel suo lavoro. Un anticonformista in un posto di peso. In Italia lo avrebbero ribattezzato, senza starci tanto a pensare, un “giudice ragazzino”. Che stava indagando sulla criminalità della grande città del sud della Francia. Era il 21 ottobre 1981. Ricordiamola quella data, in memoria di un'altra vittima della guerra di mafia. *** Perché mi sono trovato a seguire questa storia praticamente dimenticata è stato sorprendente. Stavo facendo una ricerca sulla banca dati delle agenzie di stampa su un nome: Giusto Sciacchitano. Un magistrato discusso da quando era uno dei sostituti del procuratore Gaetano Costa. Uno di quelli che si erano rifiutati di firmare i mandati di arresto richiesti della grande inchiesta sul traffico di droga istruita all’inizio degli anni ’80 e che avevano lasciato il procuratore a firmare da solo e assumersi tutte le responsabilità di quell’atto. Pochi mesi dopo, il 6 agosto, Costa era stato ucciso da Cosa nostra. La conoscevo quella storia. Ma avevo ricontrollato quel nome per vedere se c’erano novità sulla carriera di Sciacchitano dopo che Massimo, il figlio di Vito Ciancimino l’ex sindaco e assessore ai lavori pubblici del “sacco di Palermo”, lo aveva accusato di essere stato proprio lui a spingerlo a non parlare in tribunale in relazioni agli imbrogli legati alla Gas, la società creata dal padre con l’aiuto del commercialista Gianni Lapis e con uno stuolo di soci occulti e il defunto Ezio Brancato. Brancato era suocero del magistrato palermitano. Luci ed ombre Il magistrato, che dai tempi della collaborazione con Gaetano Costa era arrivato fino a un incarico alla procura nazionale antimafia (nonostante il parere contrario dell’ex procuratore nazionale Vigna), aveva annunciato querele, ma la coincidenza era emersa e non era coincidenza da poco. Insomma, luci e ombre.


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E facendo quel controllo di routine avevo incrociato la storia dell’omicidio del giudice Pierre Michel. Perché di cose siciliane il magistrato marsigliese se ne occupava eccome. E da tempo. ZCZC079/RS R EST RS MAGISTRATO UCCISO A MARSIGLIA: LA ” FRENCH CONNECTION” (ANSA) – PARIGI, 21 OTT – IL GIUDICE PIERRE MICHEL, UCCISO OGGI DA DUE MOTOCICLISTI A MARSIGLIA, LAVORAVA DA DIVERSI MESI, IN COLLABORAZIONE CON I COLLEGHI ITALIANI, SULLA POSSIBILE RINASCITA DELLA FAMOSA ” FRENCH CONNECTION” , CIOE’ IL TRAFFICO DI STUPEFACENTI VERSO L’ EUROPA E GLI STATI UNITI. I TRE MAGISTRATI DELLA PROCURA DI PALERMO CHE EGLI AVEVA RICEVUTO ALL’ INIZIO DEL MESE A MARSIGLIA, ERANO VENUTI ACCOMPAGNATI DA GUARDIE DEL CORPO, MEMORI DELLA MORTE DEL GIUDICE GAETANO COSTA UCCISO NELLE VICINANZE DI PALERMO MENTRE SVOLGEVA UN ‘ INCHIESTA SU UN TRAFFICO DI STUPEFACENTI VALUTATO A CENTO VENTI MILIARDI DI FRANCHI (UN FRANCO VALE CIRCA 212 LIRE ITALIANE). I PRIMI INDIZI DELLA RINASCITA DELLA ” FRENCH CONNECTION” ERANO STATI SCOPERTI NEL MARZO 1980, NELL’ ALTA LOIRA, FRANCIA CENTRO SETTENTRIONALE. DIECI PERSONE AVEVANO ORGANIZZATO UN LABORATORIO CLANDESTINO PER LA TRASFORMAZIONE DELLA MORFINABASE IN EROINA. ARRESTATE, ERANO STATE TUTTE INTERROGATE DAL GIUDICE MICHEL. FRA LORO VI ERANO ELEMENTI GIA’ NOTI NEGLI ANNI SETTANTA. L’ INCHIESTA, SVOLTA DALLE POLIZIE ITALIANA E FRANCESE AVEVA CONDOTTO NEL GIUGNO 1980, ALLO SMANTELLAMENTO DI UN TRAFFICO FRANCO ITALIANO DI STUPEFACENTI, IL CUI QUARTIER GENERLE ERA NELLE VICINANZE DI MILANO. NELL’ AGOSTO DEL 1980 VENIVA SCOPERTO A PALERMO UN ALTRO LABORATORIO CLANDESTINO, CAPACE DI PRODURRE MEZZA TONNELLATA DI EROINA AL MESE. (SEGUE) RS/CE 21-OTT-81 21:19 NNNN

E poi, ancora, sempre l’Ansa forniva dettagli ancora più interessanti su questa morte totalmente stralciata dal racconto

del business dell’eroina e del traffico internazionale partito dalla Sicilia con l’aiuto dei marsigliesi. ZCZC041/03 R CRO 03 QBXB OMICIDIO GIUDICE MARSIGLIA : INDAGINI A PALERMO (ANSA) – PALERMO, 22 OTT – LA POLIZIA FRANCESE HA INVIATO ALLA QUESTURA DI PALERMO UN PRIMO RAPPORTO, DEFINITO” INFORMALE” , SULL’ OMICIDIO DEL GIUDICE PIERRE MICHEL DI MARSIGLIA, CHE DA QUASI UN ANNO LAVORAVA, CON I MAGISTRATI PALERMITANI GIOVANNI BARRILE E GIUSTO SCIACCHITANO SUI COLLEGAMENTI FRA LA MAFIA SICILIANA E LA MALAVITA. PIERRE MICHEL ERA ATTESO A PALERMO ENTRO LA META’ DI NOVEMBRE NELL’ AMBITO DI UNA SERIE DI INCONTRI PROGRAMMATI DA TEMPO CON I GIUDICI LOCALI, CHE INDAGANO SUL TRAFFICO DI EROINA TRA LA SICILIA, LA FRANCIA E GLI STATI UNITI. (SEGUE) MP/MC 22-OTT-81 09:44 NNNN

Le indagini di Carlo Palermo Era bravo, Pierre Michel. Ed era riuscito a mettere le mani su un filone di indagine fondamentale per capire le regole e i flussi dell’organizzazione internazionale del traffico di stupefacenti, scoprendo che i marsigliesi, che fino alla fine degli anni ’50 erano stati i “padroni” dell’eroina in Europa, alla fine degli anni ’60 erano diventati in pratica solo dei tecnici di laboratorio e degli specialisti nella trasformazione della morfina base in eroina al soldo delle famiglie siciliane che il traffico del derivato dell’oppio se lo erano preso tutto in blocco.Perché attraverso i rapporti con i “cugini” americani si erano visti affidare il monopolio del rifornimento del mercato statunitense. Rileggevo gli appunti, i lanci di agenzia, i resoconti, pochi, della stampa italiana dell’epoca e i tanti, giustamente, della stampa francese che su quel delitto clamoroso avevano centrato l’attenzione. E non riuscivo a prendere sonno. Perché c’era qualcosa che tornava. Che collegava quella storia a un’altra, ancora. Quella della pista dei soldi seguita da Carlo Palermo a Trento pochi anni dopo, e quella seguita, quasi contemporaneamente, da Giovanni Falcone a Palermo.

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Marsigliesi, turchi, bulgari, siciliani e “americani”. Le assonanze fra le indagini, quella di Palermo e quella di Trento, erano davvero troppe per considerarle una semplice coincidenza. Ritrovai un’agenzia “di contorno” relativo al quinto anniversario dell’omicidio di Michel, trattato di straforo dalla pigra stampa italiana solo perché alla cerimonia partecipò quello che all’epoca era di fatto il cuore del pool antimafia di Palermo, Giovanni Falcone. Falcone a Marsiglia ZCZC220/0B R EST R16 R29 S0B QBXB TRAFFICO STUPEFACENTI: GIUDICE FALCONE A MARSIGLIA(2) (ANSA) – PARIGI 21 OTT. – LE INDAGINI, COMINCIATE NEL DICEMBRE 1984 IN STRETTA COLLABORAZIONE TRA LA ”DRUG ENFORCEMENT ADMINISTRATION” DEGLI STATI UNITI, L’UFFICIO FRANCESE PER LA REPRESSIONE DEL TRAFFICO DI STUPEFACENTI, E LA POLIZIA ITALIANA, PORTARONO UN MESE FA ALL’ARRESTO A MARSIGLIA DI MARIANO PIAZZA, PROPRIETARIO DI UNA PIZZERIA DELLA CITTA’, E DI ALTRI SUPPOSTI COMPLICI. A QUANTO SCRISSERO ALL’EPOCA ALCUNI GIORNALI FRANCESI, L’ARRESTO DI MARIANO PIAZZA FU RESO POSSIBILE DA ASCOLTI TELEFONICI REALIZZATI A PALERMO. ”IL GIUDICE FALCONE – RIFERI’ ”LE MATIN” – HA CONSEGNATO ELEMENTI DETERMINANTI AI MAGISTRATI MARSIGLIESI CHE SONO ANDATI A VEDERLO LA PRIMAVERA SCORSA”. UNA DELLE CONVERSAZIONI TELEFONICHE PERMISE DI ACCERTARE CHE LA MORFINA BASE PER LA FABBRICAZIONE DELL’EROINA VENIVA ACQUISTATA IN TURCHIA E CHE AL FINANZIAMENTO PARTECIPAVANO ”ELEMENTI SICILIANI E MARSIGLIESI”, TRA CUI MARIANO PIAZZA. I MAGISTRATI HANNO QUINDI SEGUITO LA ”PIZZA CONNECTION” DALLA TURCHIA FINO A MIAMI, NEGLI STATI UNITI, ATTRAVERSO L’ EUROPA SUDORIENTALE. LE INDAGINI SONO VOLTE ANCHE AD ACCERTARE DOVE L’EROINA FOSSE RAFFINATA, SE IN FRANCIA, OPPURE IN ITALIA. A QUANTO SI E’ APPRESO OGGI, IL GIUDICE FALCONE CONTA DI TRATTENERSI A MARSIGLIA FINO A GIOVEDI’ PROSSIMO.(ANSA). PR/AV 21-OTT-86 16:46 NNNN


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“Troppe assonanze, troppe coincidenze. Tutti e tre i magistrati, mettendo quegli elementi in fila, stavano cercando di capire gli incastri dello stesso puzzle”

Poi andai a cercare le agenzie relative a uno dei momenti salienti delle indagini a Trento di Carlo Palermo, il blitz con sessantadue arresti del 29 agosto 1982. ZCZC030/01 U CRO 01 QBXB STUPEFACENTI: SESSANTADUE ARRESTI (ANSA) - MILANO, 29 AGO - A MILANO, TRENTO E VERONA POLIZIA E CARABINIERI HANNO ARRESTATO IERI 62 PERSONE NELL' AMBITO DI UN' INDAGINE DA TEMPO AVVIATA DALL' UFFICIO ISTRUZIONE DEL TRIBUNALE DI TRENTO, CHE HA PORTATO FINORA ALL' EMISSIONE DI 160 MANDATI DI CATTURA E ALLA SCOPERTA DI ALCUNI QUINTALI DI EROINA E MORFINA. L' ORGANIZZAZIONE, UNA DELLE PIU' IMPORTANTI MAI SCOPERTE, IMPORTAVA LA MORFINA DALLA TURCHIA, LA STIPAVA NEI DEPOSITI DI TRENTO, VERONA E BOLZANO, LA FACEVA RAFFINARE IN SICILIA E LA ESPORTAVA NEI MERCATI STATUNITENSI E MARSIGLIESI. IMPORTAVA ANCHE, ATTRAVERSO GLI STESSI CANALI, EROINA PURA CHE SERVIVA PER ALIMENTARE I MERCATI DEL NORD ITALIA. (SEGUE) VO/SG 29-AGO-82 12:41 NNNN (...) ZCZC038/01 U CRO 01 QBXB STUPEFACENTI: SESSANTADUE ARRESTI (3) (ANSA) - MILANO, 29 AGO - I RESPONSABILI DELL' IMPORTAZIONE IN ITALIA SONO CINQUE, TUTTI CITTADINI STRANIERI. SI TRATTA DI SALAH AL DIN WAKKAS, (ARRESTATO IN GRECIA); HZIR HEPGULER (ARRESTATO ALL' AEROPORTO DI TUNISI); MEHEMET ALI' KARAKAFA (SORPRESO A BELGRADO E ARRESTA-

TO INSIEME A VENTI CORRIERI); MUSTAFA' KISACIK (TROVATO A ISTAMBUL NEL MAGGIO SCORSO E FERMATO DALLE AUTORITA' TURCHE IN ESECUZIONE DI UN MANDATO DI CATTURA EMESSO DAL GIUDICE ITALIANO, CHE SI TROVAVA NELLA CAPITALE TURCA PEALCUNI ATTI ISTRUTTORI) E HASAN NEHIR (DA SOLO ACCUSATO DI SPACCIO DI 230 CHILOGRAMMI DI EROINA E DI TRAFFICO DI ARMI). GLI ARRESTI, AVVENUTI CON LA PIENA COLLABORAZIONE DELLE AUTORITA' DI POLIZIA TURCA E JUGOSLAVA, SI SONO SUCCEDUTI NEI MESI SCORSI E HANNO PORTATO ALLA SCOPERTA DEI RESPONSABILI ITALIANI, UNA PARTE DEI QUALI FERMATI IERI. MOLTI DI LORO, GIA' IN CARCERE, SI SONO VISTI NOTIFICARE IL NUOVO MANDATO DI CATTURA. TRA QUESTI GERLANDO ALBERTI, ROSARIO D' AGOSTINO E MATTEO BUCCOLA (GIA' INQUISITI PER I DUE LABORATORI PALERMITANI NEI QUALI VENIVA RAFFINATA LA MORFINA). E, ACCANTO A LORO, SETTE SICILIANI, ACCUSATI DI PARTECIPAZIONE ALLA MAFIA, CORRIERI DELLO STUPEFACENTE DAL TRENTINO ALLA SICILIA. DUE FRATELLI, INVECE, SECONDO GLI INVESTIGATORI TENEVANO I COLLEGAMENTI CON LA '' NDRANGHETA'' CALABRESE. (SEGUE) VO/SG 29-AGO-82 13:19 NNNN

Michel, Palermo, Falcone Poi Carlo Palermo si era trovato ad incrociare, sempre in collegamento con quella incredibile inchiesta, Bettino Craxi e una cupa vicenda di tangenti verso il Psi. Risultato, tutte le inchieste in corso sospese, poi il trasferimento a Trapani e

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dopo 55 giorni l’attentato da cui era sfuggito per puro caso ma con una scia di sangue terribile. Partendo dai soldi e dai movimenti di soldi collegati ai traffici di eroina. Seguendoli per mezzo mondo. Tre magistrati, una sola pista? Pochi giorni prima di morire Pierre Michel era andato a cena dal padre. Me lo immaginavo arrivare in moto, con la borsa colma di carte a tracolla, i capelli lunghi spettinati, la cravatta sciolta sotto il giaccone da motociclista. E quella sera al padre aveva confessato che stava per mettere le mani su altri trafficanti, su una rete ancora più vasta che vedeva coinvolte sempre, oltre ai soliti criminali locali, le grandi famiglie siciliane. Non più i vecchi "capi", i grandi del milieu marsigliese raccontati dai film con Jean Gabin. Non più i vecchi boss come Dominique Venturi detto Nick finito dietro alle sbarre come Al Capone per evasione fiscale o Barthèlemy Guerini più conosciuto come Memè e incastrato per l' assassinio di un piccolo pesce della criminalità locale. Comparivano i nuovi padroni. I Mariano Piazza e i suoi soci ancora non individuati. Rimasti, poi, nell'ombra. Come stava accadendo ed era già accaduto in Sicilia. La modernità era il frutto avvelenato del papavero. Erano stati dei marsigliesi ad ammazzare Michel. Anche se nessuno riuscì a capire davvero chi fossero i veri mandanti di quell’omicidio. Chi fossero e soprattutto di quale nazionalità fossero. Alla fine crollai davanti al monitor.


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Un prete operaio a Catania MEMORIA/ CONCETTO GRECO

“Io penso che vi sia bisogno per ogni confronto di una parità fra i due. Il sottoscritto ha scommesso la sua vita per i poveri, mentre altri hanno scommesso la loro perché i propri figli stessero bene - socialmente, economicamente – o possibilmente meglio degli altri. Questa è la vera disparità che ci separa” di Fabio D'Urso e Luciano Bruno Padre Greco è morto da quattro anni. Nella nostra memoria, rimane la sua testimonianza di un uomo che senza alcun potere ha difeso i poveri, con una pratica concreta di liberazione, al margine di un quartiere di perifera di Catania. Egli ora è cittadino dei cieli: “dei cieli degli occhi dei bambini, nel cuore dei semplici, dei sogni dei poeti, dei pastelli dei pittori, del rincrescimento dei deliquenti, del sostegno dei forti”. Di padre Greco rimangono moltissimi scritti, pagine fotocopiate per gli amici, per il gruppo, per la comunità cristiana,

per il quartiere del Pigno a Catania. Molte di queste girano in rete, in modo informale come frammenti di una vita evangelica. Sono pagine scomode che raccontano un impegno soffocato dall'anonimato dentro la chiesa e la società civile.Pagine che lui non mai nascosto, e di cui non ha temuto la pubblicazione. Questa sua testimonianza di vita da padre Giuseppe Ruggieri è stata paragonata nello stile a quella di Francesco di Assisi, resta tuttavia nell'oblio di questa cerchia di fortunate persone, e non ancora consegnata a tutti.

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Lui ne avrebbe sorriso. Ha rinunciato a ogni onore, ma non hai mai rinunciato a vivere con trasparenza, e in solidarietà con “qualunque uomo, giallo, rosso, nero o bianco, stanco o pimpante, debole o forte, infermo o sano, scartato o assimnilato, peccatore o santo, ignorante o sapiente, di ieri e di domani”. Ha sognato una chiesa aperta, che infrangesse ogni muro e in cui i soli poveri fossero i soli protagonisti della sua storia. Con questa intervista essenziale, fatta lo stesso anno della sua morte, lo vogliamo ricordare.


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INTERVISTA A PADRE GRECO di Fabio D'Urso

Si chiama Concetto Greco. E' prete da cinquantasei anni, a Catania. Vive tra la gente in una periferia della città, il Pigno. - Da quanto tempo?

“Da trentasette anni”. - Quanti anni aveva?

“ Quarantadue”. - Come era il Pigno negli anni settanta? Come ci è arrivato?”.

“Nel 1970, ci sono andato di mia iniziativa, ricevendone il mandato pastorale dal vescovo Bentivoglio, di cui ero stato il segretario. Sono venuto a fare il curato”. - Lei faceva parte della classe dirigente della chiesa catanese?

“Sì. Così pensavamo in molti. Ero molto attento al messaggio del Concilio, e alle vicende dei piccoli fratelli del Vangelo”. - Che vuol dire ?

“Charles de Foucauld è andato a morire nel cuore dell'Africa”. - Si è sentito liberato, quando è stato mandato qui?

“Sì, da una vita comoda, mai ricercata”. - E poi è venuto a vivere qui?

“Sì, in via dei Sanguinelli, accampato accanto agli altri”. - Ci vuol parlare del Pigno?. Questa periferia sud- ovest della città, dove nei prossimi anni potrebbe sorgere il più grande centro commerciale di Sicilia, che occuperà duecentoquaranta mila metri quadrati di spazio ( si parla del centro commerciale Porte di Catania, NdR).

“Ti racconterò del giovane proprietario, Giovanni Pulvirenti. Il Pigno prima degli anni sessanta era un feudo della sua famiglia. Un vigneto, di cui già il padre aveva venduto una metà ad un medico, che l'aveva in cura. Nella parte restante sarebbe passata dritta la tangenziale che collega con l'autostrada, tra Palermo e Catania. La parte finale in pratica poteva passare dove adesso stiamo parlando”. - Che cosa è successo ?

“Quel terreno per una sorta di obiezione allo stato, è stato venduto sulla parola e senza soldi, a quelle famiglie che arrivavano fin qui, chi da dentro della Sicilia, chi da altre regioni, per venire a lavorare a Catania”. - Come appariva il Pigno ?

“Era un contesto povero, desolato”. - Come che la gente è rimasta se non poteva farsi la casa”.

“Giovanni Pulvirenti portava lui stesso alla gente i sacchi di cemento, se li caricava e li portava con i suoi mezzi.”.

Alla fine del dibattito in seminario, partecipato a tutti i prei della diocesi; e dopo un processo alle intenzioni del rinnovamento della formazione, Ventorino aveva dato le dimissioni. Così era finita l'esperienza educativa del Pigno.

- Come lo pensa?

“Con l'animo nobile”. - Ci racconti del quartiere?

“Dall'inizio degli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta si son formati i diversi isolati del quartiere. Più famiglie che venivano dallo stesso luogo avevano qualche cosa che li accomunava e li faceva sopravvivere”. - Gruppi diversi?

“Volevo fare l'omelia in dialetto. Non mi capivano, i dialetti erano diversi. La gente era arrivata da Messina e da Enna, ma anche dalla Calabria e dalla Romagna”. - Che cosa ha fatto?

“Alla lunga hanno compreso la lingua italiana, divenuta simile a tutti. - La sua scelta ha avuto a che fare con il rinnovamento della chiesa di Catania, durante gli anni dopo il Concilio ?

“Alcuni preti furono molto sensibili alle nuove affermazioni del Concilio, aderendo non solo con la testa, ma anche con la vita: Biagio Apa, Giovanni Piro, Pippo Di Bella, Pippo Gliozzo, Pino Ruggieri, Carmelo Politi”. Alcuni mesi prima del 1970, prima di andare al Pigno, padre Greco, dovremo dire Monsignor Greco, aveva ricevuto il compito di assistere il rettore del seminario della città, monsignor Francesco Ventorino a formarne gli aspiranti sacerdoti. Era stati nominato insieme ad altri preti. Così tra la metà del 1970 e la fine del 1971, essi avevano rielaborato l'esperienza del seminario, a partire dalla vita comune e dal coinvolgimento dei seminaristi nel lavoro tra la gente nelle parrocchie. Questa vicenda è stata ben raccontata da Nino Indelicato, in un articolo, dodici anni dopo: “ si voleva dare la possibilità ai seminaristi di verificare la scelta, mettendoli in situazione di povertà, e di confronto la vita reale.” Perciò una parte di questi in aveva scelto di stare nella parrocchia del Pigno. La formazione degli aspiranti preti fuori dalle mura del seminario, venne contrastata da una parte dei preti della della diocesi.

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“La storia di questi trentasette anni, qui al Pigno sono una storia assai stramba”. - Per quale motivo?

“Ho dovuto dar conto al vangelo, piuttosto che ad altro”. - Che dice la gente di lei?

“All'inizio non capiva il motivo della scelta. Vivevo in appartamento piuttosto che in canonica, del lavoro di fabbro piuttosto che dei soldi che lo stato dà alla chiesa”. Padre Greco scrive ad un amico: “Avevo ventitré anni, quando sono stato ordinato . Per diciassette di questi anni sono esistito dentro la stanza dei bottoni. l'esercizio di un potere. Poi, per la causa dei poveri. ho fatto il curato in un villaggio con nessuna storia alle spalle”. E continua a scrivervi dalla gente: “. (.). con pane e cipolla, si sono rifinita la casa. Non pochi ragazzi, in questi ultimi venti anni, son giunti a laurearsi. Quando son venuto al Pigno, non si aveva acqua nelle case, e per lavarmi la faccia, alle sei del mattino, nelle rigide giornate d'inverno, andavo sulla strada, dove erano posizionate delle enormi botte di metallo. Quando le famiglie si costruivano la casa, appena possibile vi si cacciavano dentro; a posto degli infissi appendevano, su due chiodi, povere coperte”. “Insegnavo in un liceo, ma dopo il primo anno, sono andato a fare il fabbro”. - Per quanti anni?

“ Per quindici anni, dal 1971 fino al 1985”. - Poi che cosa è successo?

“Ho avuto un incidente sul lavoro. Oltre non sono riusciuto ad andare”. - Come si definisce rispetto al lavoro che ha fatto?

“Sono un anarcoide” - Che significa?

“ Pressoché anarchico? Chi ti paga diventa il tuo padrone. Ho rinunciato ai soldi dello stato, finché ho potuto”. - E la parrocchia?

“La sera vivevo il ministero nella parrocchia, insieme alla comunità di credenti”.


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- E i sacramenti ?

“Si vivono a partire dal vissuto dei credenti entro la comunità”. - Oppure?

“Si fanno discorsi severi e prassi facili.” - Cosa le sta a cuore ?

“Che i sacramenti siano segni di una fede, altrimenti sono segni magici; e poi questi non vengano pagati”. - Che pensa di questo tempo ?

“C'è paura e violenza. Riesce difficile andare avanti. Avverto un senso di soffocamento”. - Sul Vangelo ?

“Che è possibile che sfugga, che lo si perda di vista”. - Un'immagine di Dio?

“Dio - dice Gesù - non è abisso misterioso di forza che giustifica i potenti, non è mai volto irato che richiede sacrifici”. - L'uomo?

“ Fidarci di ogni uomo”. - Che possiamo ancora imparare?

“L'amore. Gesù ridona splendore ad ogni uomo che scorge in sé una dignità”. - E la fede?

“ Essa si spende nella vita, con la quotidiana fatica del vivere”. - Che cosa dire sempre ?

“ La novità del Regno”. - Che significa?

“Accostarsi a Cristo; distanziarsi dai potenti del mondo; pace, giustizia, amore, distacco dalle cose, priorità delle persone sulle cose, speranza ai disperati”. - Che cosa fa un cristiano ?

“Rende presente Lui, assume il suo stile e la sua disponibilità ad amare fino alla croce”. - E la Chiesa ?

“Ci vuole un confronto serio col suo divino fondatore, il Cristo”. - Di che cosa si preoccupava Gesù?”.

“Per lui era fondamentale sapere se era stata accolta o no la base risolutiva di ogni etica sessuale e della stessa convivenza civile: una vita spesa nell'amore gratuito, nel dono di sé”. - Cosa cosa le preoccupa della Chiesa?.

“Ha enorme difficoltà a riconoscere che lei non è la salvezza”. - Ci aiuti a capire.

“La chiesa è un semplice umile mezzo voluto dal Cristo per l'edificazione del Regno”. - E'..?

“Essa è popolo di Dio e poi dotata di gerarchia. Nasce dove due o tre si uniscono nel Cristo, e spezzano il pane”. - Le parole della chiesa.?

“Quelle di una comunità di battezzati”. - In pratica quanto conta il popolo di Dio, i cristiani laici ?

“Non sono ancora soggetto”. - Il Concilio ha chiesto alla chiesa di mettersi in servizio?”.

“...ma deve prima di tutto assumere la forma di Cristo, il suo stile”. - E invece?

“L'impressione che non sia essa ad evangelizzare il mondo ma, al contrario”. - Che vuol dire?

“Non vedo quel tentativo di non conformarsi”. - Di che sta parlando?

“La voglia di potere e d'insegnare è ben presente in maniera patetica”. - In pratica?

.”... uomini alla ricerca di una diocesi, di una parrocchia autorevole, di contatti con gente che conta, perfino di vittorie elettorali da fare pesare al momento opportuno nelle contrattazioni con i potenti”. - Che succede ..?

“Si entra così in una cerchia di compagnie”. - Che pensa del potere?

“E' un genere quasi sacro. I potenti si appoggiano a vicenda. Poco importa se uno è detentore del potere economico, un altro di quello mafioso, altri di quello politico o religioso”. - Che valori si perdono?

“Il bene comune, il potere come servizio e la politica come la forma più grande di amore”. - Cosa ancora?

“La bella notizia, la risurrezione del Cristo per l'uomo disperato. In giorni bui mi chiedo tuttavia se le risposte a queste domande, importino a molti.” - In particolare ?

“Mi chiedo se la difficoltà dei seguaci di Cristo di essere segno del Regno nel mondo, é presente nella vita degli uomini di chiesa. Se esiste la coscienza di un possibile, involontario tradimento del Vangelo. Ciò sarebbe premessa per la conversione. Purtroppo non sono ottimista”. - Cosa la preoccupa ?

“Questo oscillare della Chiesa tra i benpensanti e gli esclusi. Chi, se non la Chiesa, deve mostrare che si sta stravolgendo

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ogni pietà, ogni fede ed ogni umanità? - In particolare?

“La Boss- Fini trasforma in delinquente un disperato. E continuiamo a tacere. Siamo molto titubanti sui Centri di Permanenza Temporanea”. - Che pensa ?

“Ai tempi di Costantino si mise il segno dello Sconfitto, la croce, sui labari degli oppressori”. - E dove altro ancora, oggi ?

“Si benedicono bombe atomiche o portaerei o valorose truppe di occupazione.” I teologi?.

“Sanno tutto su Dio in cielo, ma così poco di quel Dio che nei suoi figli approda sulle coste della Sicilia in cerca di un inferno meno atroce di quello lasciato alle spalle”. - E l'ospitalità ?

“Non è un valore politico”. - Con chi sta la Chiesa ?

“Di chi si preoccupa questa mia madre? Non dichiaratamente con gli esclusi, non con i diversi, non con i poveri, non con i giovani, non con la classe operaia, non con i disoccupati”. - Che fa la chiesa?

“ Vede di malocchio quanti dei suoi figli osano trattare non solo il corpo eucaristico di Cristo ma anche il suo corpo mistico, ben visibile tra i crocifissi ed i reietti del Terzo Mondo e delle nostre periferie urbane?”. - Senza denuncia?

“Questo silenzio mi scandalizza, mi soffoca, perché vorrei poter dire, non solo in nome di Cristo ma vorrei poter dire che la Chiesa c'è per ogni disperato, lei portatrice di una felice parola”: - Infine?

“La chiesa appare come priva della parola. Non è possibile essere Chiesa di Cristo se non ridiventiamo Chiesa dei poveri e degli esclusi. Non ce la caviamo senza di loro. Se continuiamo ad essere sale scipito, cristiani fasulli, saranno fasulli la Chiesa e lo stesso Cristo”.


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UNA TESTIMONIANZA/ DA LIBRINO AL PIGNO di Luciano Bruno

E' la fine degli anni ottanta, a Librino, periferia a sud-ovest di Catania, un gruppo di ragazzini decidono di costruire con le loro mani un campo da calcio. Ogni pomeriggio usciti da scuola si incontrano sotto il portone di Rosso, capelli castani, occhi molto profondi. C'é Pirocchiu, capelli biondi e occhi azzurri, sembra un tedesco.Tigna e Luciano. E' il mese di giugno la scuola sta per finire; ed il pomeriggio, nonostante i quasi quaranta gradi all’ombra, riescono a finire il campo. Pirocchiu si occupa di fare i buchi per inserire i pali, Tigna con martello e scalpello in mano toglie i dislivelli dal terreno. Luciano toglie l’erbacce. Rosso va in un cantiere li vicino e chiede al capocantiere, i pali e le traverse. Dopo settimane il loro campo è pronto. “Immaginavati tutte le partite che potremmo fare, i campionati che si possono organizzare”. Il sogno dura poco. Una mattina mentre Rosso é in cucina, si sente un rumore di una ruspa. Questi si affaccia e vede che stanno abbattendo il campo, scende e va a chiedere spiegazioni: “Senta, chi sta facennu chistu è u nostru campu. h “Iu appi l’ordini do Comuni.” Quel pomeriggio, i giovani sono seduti sulla ringhiera, non hanno dove andare a tirare quattro calci al pallone. Si alza uno di loro, Luciano : “Carusi o Pignu c’è na sala di giocu, ci iemu? Chi ni pinsati?”. Il Pigno è il quartiere autocostruito dalla povera gente vicino a Librino. Ci vanno tutti e prendono quello stradone pericoloso che collega i due quartieri. Entrarono nella sala gioco e restano senza parole guardando “quella grande scoperta” Aspettano Pirocchiu: “Carusi dda c’è a carambola, na facemu na pattita?”. Pirocchiu in coppia Luciano, e Minnirossi con Tigna. Quello rimane il loro posto dove incontrarsi. Alcuni anni dopo, sempre al Pigno, conosco Padre Greco, prete alla parrocchia di San Giuseppe. “ Senti io vado al Pigno, stasera si riunisce il gruppo vuoi venire? h. “Sì, meglio di stare solo a casa.” Quando arriviamo a casa di padre Greco; la prima cosa che mi colpisce è il suo abito sobrio. Ma non è vestito da prete.

Tiene la barba, e mi restano in mente quei suoi occhi, la corporatura robusta. Quando ho detto quello che pensavo sulla chiesa mi ha lasciato libero di parlare. “Un prete deve stare fra la gente, insieme agli ultimi.” Lui ha vissuto in questa periferia, una delle tante dove i preti dovrebbero stare.

DUE SCRITTI

di padre Concetto Greco I deboli in Italia sono usati come cavie. Quello che di male può succedere, succede prima a loro. Di solito solo a loro. Sono i porcellini d’India della nostra società. I canarini usati in miniera per evitare gli incidenti da grisou. I deboli vivono vicino agli inceneritori. I deboli sono espropriati dei loro appartamenti popolari dai delinquenti. I deboli non possono mai permettersi di violare la legge. I deboli non conoscono gli avvocati. I deboli sono i primi a essere derubati dal finto esattore del gas. Dall’offerta della finanziaria a rate. Se un delinquente esce grazie all’indulto è certamente un vicino di casa dei deboli. I deboli non possono ammalarsi, morirebbero. Bevono acqua al cloro, respirano Pm10, hanno il riscaldamento spento. I deboli sono di solito persone oneste. Rispettano le istituzioni. Per questo non sono rispettati. Ogni buona legge ha bisogno di un periodo di sperimentazione. I deboli hanno questa funzione sociale. E’ meritoria, e preserva le classi più abbienti da conseguenze indesiderate. Un taglio alle pensioni, un nuovo ticket sanitario, la legge Biagi, un indulto produrranno reazioni sociali? I deboli sono qui per questo. Se loro sopravvivono, allora si può fare. Ai deboli va la nostra eterna riconoscenza. Ai deboli voglio dedicare un discorso proto evangelico. Più proto che evangelico. Il discorso della mezza montagna

I Sicilianigiovani – pag. 91

Beati i deboli, perché di essi sono le periferie. Beati i deboli, perché saranno consolati da Previti. Beati i deboli, perché erediteranno i debiti dei genitori. Beati i deboli che hanno fame e sete della ingiustizia, perché saranno saziati. Beati i deboli, perché troveranno il pusher sotto casa. Beati i deboli, perché vedranno la televisione di Stato. Beati i deboli, perché saranno chiamati populisti. Beati i deboli a causa della giustizia, perché di essi è il regno di Regina Coeli. Beati voi deboli quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, vi diranno demagoghi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra funzione sociale: quella di prenderlo nel c..o.”

***

E' vero o non vero che la chiesa ha negato i funerali a Piergiorgio Welby, per aver rifiutato l’accanimento terapeutico? Come se nel vangelo ci fosse scritto, che qualcuno doveva pur portare una bombola di ossigeno a Gesù in croce, così poteva durare di più e dire qualche altra parola impegnata a san Pietro. È vero o non è vero che la chiesa ha celebrato i funerali a Pinochet, un uomo che ha assassinato migliaia di persone? È vero o non è vero che la chiesa ha celebrato i funerali a Franco? È vero o non è vero che la chiesa ha celebrato i funerali ad un mafioso, della banda della Magliana, dopo essersi levato di torno parecchie persone?


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Io mi chiamo Giovanni Tizian

Cronista sotto scorta Parte la solidarietà al contrario

Sono passati due mesi da quando Giovanni Tizian, giornalista calabrese di 29 anni e militante dell’associazione antimafie daSud, è stato messo sotto scorta a causa delle sue inchieste giornalistiche sulle mafie al Nord, in particolare in Emilia Romagna. A metà gennaio daSud ha lanciato una campagna a sostegno del cronista che ha avuto ampio risalto sui media nazionali, raccogliendo l’appoggio di diverse personalità del campo dell’impegno civile, della politica e dello spettacolo. Sul sito iomichiamogiovannitizian.org sono arrivate migliaia di adesioni da tutta Italia. L’associazione daSud ha pensato sin da subito che la situazione in cui il giornalista si è trovato suo

malgrado, fosse un’occasione non per creare l’ennesimo eroe solidario, simbolo di una lotta antimafia delegata a poche persone, ma per ragionare al contrario sul bisogno dell’impegno collettivo. Se le mafie si possono permettere di minacciare giornalisti coraggiosi è perché in pochi fanno la propria parte. Per questo motivo la seconda fase della campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian” ribalta lo schema e chiede a chi vuol essere solidale con il giornalista calabrese di assumersi la responsabilità di mettere in atto buone pratiche antimafie. Con un video disponibile sul sito www.iomichiamogiovannitizian.org, su facebook, twitter e youtube, l’associazione ha raccontato alcune delle buone pratiche antimafie già I Sicilianigiovani – pag. 92

esistenti, che riguardano enti locali, giornalisti, imprenditori, consumatori, liberi professionisti, scuole, associazioni, artisti, bloggers e singoli cittadini. L’associazione daSud invita tutti i media a diffondere le buone pratiche antimafie e ognuno a scambiare la solidarietà a poco prezzo con l’impegno quotidiano. Tutti possiamo fare delle buone pratiche antimafia. Su www.dasud.it segnaliamo alcuni degli esempi più interessanti in Italia. Una lista, non esaustiva, di proposte possibili tenendo sempre presente che le buone pratiche, grazie all’impegno di tanti, si moltiplicano di giorno in giorno e coinvolgono sempre più cittadini.


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IL FILO

Banche di Giuseppe Fava ...Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c'è il livello dei pensatori, con la lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria alla quale è affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la grande strategia mafiosa.

“Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo celano...”

uamente prodotto dall'operazione droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una autentica capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di

tiepido carcere americano. All'aria aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita! Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'Italia, Michele Sindona, piccolo ragionie-

Scopo unico e massimo di questa strategia è la riciclazione del denaro contin-

co, terrorizzato, preferisce starsene in un

ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa. Un salto nella cultura mafiosa

re di provincia, riuscì in meno di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle gran-

Gli strumenti essenziali sono due: le

di città e nei centri di periferia dove per

essere immessi nel mercato economico e

banche e le grandi imprese economiche.

gestire gli affari economici, i micragnosi

diventare usufruibili, debbono passare at-

Anzitutto le banche: ricevono il dena-

centinaia e migliaia di miliardi che, per

affari della piccola borghesia commercia-

traverso una serie di operazioni legali

ro, lo fanno proprio, lo celano, lo ammi-

le e agricola sarebbe stata già d'avanzo

che li assorbano e magicamente li ripro-

nistrano, conservano, proteggono, reim-

un'agenzia del Banco di Sicilia.

ducano come ricchezza. Ci vuole talento,

piegano (cento miliardi provenienti dalla

____________________________________

droga, alle cui spalle sono decine di per-

“Eccomi, sono la nuova banca!”

La Fondazione Fava

sone miseramente morte o uccise, e mi-

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Banche invece che spalancavano di

gliaia di infelicità umane, possono essere

colpo i battenti: "Eccomi qua, io sono la

impiegati per la costruzione di un gratta-

nuova banca! A disposizione!", tutto l'ap-

cielo, un ponte, una diga, un'autostrada).

parato già pronto, direttori, impiegati,

Le banche gestite e controllate dallo stato

casseforti, banchi di metallo, sistemi

difficilmente potrebbero (ma non è detto

elettronici, computerizzazione, vetri anti-

che non possano) poiché c'è sempre il ri-

proiettile, uscieri, gorilla con la divisa di

Talune banche private ovviamente.

prefetti, "Taglia il nastro la gentile signo-

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Non a caso Sindona aveva la vocazione

ra di sua eccellenza", fiori, applausi, ban-

di creare banche, ne aveva l'estro, la fan-

chetto, champagne, capitali già depositati

tasia. Il giorno in cui dovesse decidere di

nelle casseforti.

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

schio di un funzionario di vertice che in-

sceriffo e la Smith Wesson, epiche ceri-

daga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le

monie inaugurali con interventi di parla-

banche private.

mentari, sottosegretari, ministri, questori,

raccontare finalmente tutta la verità, molti imperi finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile, stan-

I Sicilianigiovani – pag. 93

(Da “I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa”, I Siciliani, gennaio 1983)


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Celeste Costantino, Irene Cortese, Sara Di Bella, Cinzia Paolillo, Angela Ammirati, Danila Cotroneo, Laura Triumbari, Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Paolo Fior, Giulio Cavalli, Paolo Fior, Salvo Ognibene, Martina Mazzeo, Riccardo Orioles, Michela Mancini, Nadia Furnari, Francesco Feola, Max Vacirca, Giorgio Ruta, Maria Sole Galeazzi, Lorenzo Baldo, Antonio Mazzeo, Bruna Iacopino, Rino Giacalone, Attilio Occhipinti, Giulio Pitroso, Tommaso Maria Patti, Francesco Midolo, Mauro Biani, Carlo Gubitosa, Marco Pinna, Lelio Bonaccorso, Jack Daniel, Dino Sturiale, Sebastiano Ambra, Fabio Vita, Federico Beltrami, Domenico Stimolo, Francesco Appari, Giacomo Di Girolamo, Claudia Campese, Giovanni Caruso, Miriana Squillaci, ElioCamilleri, Giuseppe Scatà, Beatrice Canali, Marta Cavallini, Antonello Oliva, Laura Cortina, Gabriele Licciardi, Salvo Vitale, Giovanni Abbagnato, Riccardo De Gennaro, Pietro Orsatti, Padre Greco, Fabio D'Urso, Luciano Bruno, Raffaele Lupoli, Luca Salici

Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Coordinamenti: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it e Massimiliano Nicosia mnicosia@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles

riccardo@isiciliani.it

Progetto grafico di Luca Salici (da un'idea di C.Fava e R.Orioles)

I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / d.responsabile riccardo orioles

I Sicilianigiovani – pag. 94

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FOTO DI JJLICKY

periferie

#Occupiamoci di Scampia

OccupyScampia? Come dire di no! Anche se non fossimo all’alba di una nuova guerra di camorra, anche se non ci

che finalmente contribuiamo a restituire un luogo fisico ai suoi abitanti, i tanti che vorrebbero riprenderselo e affidarlo “in

fossero tweet e articoli di giornale a proporcelo, occupare

custodia” ai nonni, ai nipoti, alle madri, ai sorrisi e alle urla.

fisicamente e occuparsi materialmente di un pezzo di Sud da

#OccupyScampia per costruire una società e un’economia

liberare è un dovere di tutti noi. Ancor più se da quel pezzo di

diverse, perché il quartiere diventi “piazza di spaccio” di

Sud arrivano mille esperienze che ci chiedono di aggiungere le

esperienze positive, di occasioni di lavoro, socialità e

nostre braccia alle loro per dare una spinta forte se non

creatività.

definitiva al controllo mafioso che marchia a fuoco e soffoca

che cominciamo tutti a farci carico di quello che manca e a

un territorio grande quanto una capitale europea. È vero:

sostenere quelli che rappresentano l’altra Scampia – gli amici

l’occupazione è l’essenza stessa di uno spazio pubblico, ma

del Gridas, gli A67, Legambiente, Mammut e tanti altri – è un

l’occupazione di un giorno non fa la piazza e non rende

buon inizio. Occupiamo e occupiamoci di Scampia, dunque,

“pubblico” lo spazio. #Occupy non è e non può essere un

innanzitutto imparando a conoscere la sua vivacità e le sue

pomeriggio in piazza. #OccupyScampia sì, allora, se significa

storie di resistenza che diventa speranza. Raffaele Lupoli

Non accade in un giorno, ma se un giorno accade

I Sicilianigiovani – pag. 95


Nel 1984 gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. E ora?

Un tempo, gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. Perciò i giornali come I Siciliani alla fine dovevano chiudere. Nessun giornale può sopravvivere senza pubblicità, per quanto fedeli siamo i suoi lettori. Noi facciamo la nostra parte. Voi, fate la vostra. I Sicilianigiovani – pag. 96


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