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Meglio tardi che mai. Ma basterà?
Alla fine si vota...
Capezzuto IL TRAMONTO DI NICK 'O MERICANO Grimaldi ORFANI DI POLITICA Migliori BELAID VIVRÀ ANCORA Caruso IL MARTIRIO DI CORSO MARTIRI Mazzeo BAVAGLIO IN FACOLTA' Giacalone COSA SAPEVA ROSTAGNO C.Catania L'AFFAIRE CASSATA Occhipunti-Pitroso CARTOLINE DAL MUOS Satira "MAMMA!" Orsatti IL PATTO Vitale RADIO AUT E CHINNICI De Gennaro CALCIO, SESSO E PORTAFOGLIO Abbagnato PALERMO OGGI E IERI Vita AMAZON BATTE MONETA Periferie CATANIA COME ISTANBUL Jack Daniel SENSI DI COLPA D'Urso-Bruno CANZONE POPOLARE
ffebbraio 2013
I Siciliani giovani A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?
CULTURA VS POTERE MESSINA/ CROCETTA SCARICA I NO-VANDAL
GUBITOSA/ Kit di sopravvivenza per le GUERRE MEDIATICHE
Dalla Chiesa/ Formigoni il mantenuto
Caselli/ La politica e la giustizia
ebook gratis
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facciamo rete http://www.marsala.it/
I Sicilianigiovani – pag. 2
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Senza papa senza duce e senza re
Senza papa (incazzato), senza duce (letteralmente s-puttanato) e senza re (non è che il suo Badoglio-Monti abbia fatto gran cose) - e senza gli americani-paisà che alla fine del film buttano le Lucky Strike giù dai camion - noi siciliani siamo in uno dei più perplessi momenti della nostra storia. Che cavolo possiamo fare, stavolta? A chi dobbiamo battere le mani? La Sicilia, nell'Italia di oggi, comincia più o meno al Brennero e finisce a Lampedusa. La capitale è Catania, indubbiamente. Qui è cominciata la storia, dai politici ridanciani agli imprenditori-tiranni, con contorno di boss mafiosi, giornalisti-escort, imperi mediatici e “orgoglio siciliano” nei comizi, che poi andava a finire in Procura. Formigoni non lo sa, ma lui si chiama Lombardo, o Formica, o Cuffaro, uno dei tanti notabili di città e di villaggio che alla fine incontrano il loro destino in una screanzata visita del codice penale. E cedono il posto ad altri E Bossi, e Berlusconi, e tutto il “marcio su Roma” e tutto il Monte dei Paschi? Si sono incarnati in realtà, in una loro vita precedente, in Sicilia. E il re della Sicilia è il Gattopardo. Che forma assumerà, questa volta, in Italia? Il Gattopardo non è mai in malafede: accetta serenamente il potere, dovutogli per destino: nel mondo, non cambia niente. Neanche la rabbia, ciclica, dei viddani che agitano rabbiosi forconi sotto al palazzo gli fa paura: è una rabbia dovuta, un giusto sfogo. Questa meccanica semplice, quaggiù in Sicilia ha funzionato per circa duemila e cinquecento anni. Nel rimanente d'Italia arriva ora. Speriamo che duri solo qualche secolo e basta. Noialtri, tuttavia – i pochi ad osare vivere, a guardare negli occhi i gattopardi – abbiamo avuto un dono grandissimo, la dignità. Fin troppo presto imparammo che non sono le strategie a salvarci, le abili manovre, i giochi; ma semplicemente il tener duro, il non riconoscere le baronìe, a costo di passare la vita angariati e braccati su per i monti. Abbiamo molte storie così. Per questo, tutto sommato, siamo rimasti vivi. Sarà un anno difficile, con molte carte da giocare per i baroni e per noi viddani. Loro non dimenticano mai di essere baroni. Noi non dobbiamo dimenticare, neanche per un momento, che siamo giusto l'opposto. Tutto il resto, si vedrà. Saluti dalla Sicilia (da Roma o da Catania, fa lo stesso).
I Siciliani
DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119 I Sicilianigiovani – pag. 3
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I Sicilianigiovani GENNAIO 2013
numero tredici Questo numero
Senza papa, senza duce, senza re I Siciliani Politica e giustizia di Gian Carlo Caselli Formigoni il mantenuto di Nando dalla Chiesa
3 6 7
Polis
Quattro domande ai nostri amici di Riccardo Orioles "Voto anch'io" "No tu no" di Salvo Ognibene Orfani di politica di Valeria Grimaldi "Per la speranza contro l'ignoranza"
8 10 11 12
Agenda
RewindForward a cura di Francesco Feola Nord e Sud a cura di Tito Gandini Belaid vivrà ancora di Natya Migliori
18 19 20
Mafie e dintorni
RIEPILOGANDO Risultati elettorali: internet batte
accorga (compreso chi ne fa parte)
tivvù. Tolleranza batte autodafè.
non vuol dire che questa maggio-
Acqua pubblica batte acqua priva-
ranza non faccia storia.
ta. Emilia batte Brianza. Sorridere
I partiti reali, dell'Italia reale, ora
civilmente batte toccare il culo.
come ora sono questi. Gli altri,
Humphrey batte Rambo, e Totò
quando va bene, gli corrono dap-
batte on.Trombetta.
presso.
Sono tutte maggioranze, molto lar- Anche il Sessantotto e il divorzio, ghe, dal cinquanta per cento in su.
a suo tempo, arrivarono
Il fatto che nessuno se ne
“all'improvviso”. Eppure...
"Vincenzo Santapaola e Cosa Nostra" di Claudia Campese L'affaire Cassata di Carmelo Catania Interviste/ Luca Manca di Norma Ferrara "Se non ho lavoro non ho dignità" di Domenico Stimolo Un Maglio nella coscienza di Irene Costantino Il tramonto di Nick 'o mericano di Arnaldo Capezzuto Nel feudo degli amici di Cosentino di Rosa Parchi I ragazzi ammazzati e quelli nel rione di Andrea Bottalico
22 24 26 27 28 30 31 32
Paese
Abruzzo/ Lo spreco dei rifiuti di Alessio Di Florio Messina/ "A chi l'Università?" "A noi!" di Antonio Mazzeo Expo/ Acque torbide di Valerio Berra Cosa sapeva Rostagno di Rino Giacalone Yvan Sagnet/ Contro il caporalato di Daniela Sammito Alcamo di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo Angela e il Cavaliere di Luciano Bruno Cartoline dal Muos di Giulio Pitroso e Attilio Occhipinti
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I Sicilianigiovani – pag. 4
34 36 39 40 43 44 45 46
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DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119
SOMMARIO DISEGNI DI MAURO BIANI Satira
"Mamma!" a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani
51
Resistenze
Fra spot e drammi di Ilaria Raffaele Storia d'Italia/ Il Patto di Pietro Orsatti Chinnici e le indagini su Peppino Salvo Vitale
55 56 60
Storia
Donne e mafia in Sicilia di Elio Camilleri
64
Musica
Il genere ECM di Antonello Oliva
65
Politica
Sensi di colpa di Jack Daniel "Calcio, sesso e portafoglio" di Riccardo De Gennaro Ieri, oggi e l'altroieri di Giovanni Abbagnato
66 67 68
Tecnologie
Amazon batte moneta di Fabio Vita
70
LibertĂ di stampa
Un Paese di mezzo-bavaglio di Aaron Pettinari
72
Periferie
Mafia e Sant'Agata di Domenico Pisciotta 75 I martiri di corso Martiri di Giovanni Caruso 76 Diritti negati/ In mezzo a una strada di Marcella Giammusso 80 Fotoreportage
Fotoreportage/ Istanbul di J.Guner, M.Ulusoy, S.Orge
81
L'immagine
Canzone Popolare di Fabio D'Urso e Luciano Bruno
86
Il filo
Bisogna frugare nelle banche di Giuseppe Fava
Un ebook in omaggio con questo numero
Carlo Gubitosa Kit di sopravvivenza per la guerra mediatica Anticorpi culturali contro la propaganda
I Sicilianigiovani – pag. 5
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Tangentopoli 2013
Politica e giustizia di Gian Carlo Caselli
Ci risiamo. Varie Procure, facendo il loro dovere, scoprono scandali su scandali. Uno più grave dell’altro. Ma qualcuno, oscenamente, recupera stanchi ritornelli. E li ri-suona sperando che qualche testa permeabile se ne lasci ancora incantare. Dischi rotti che insultano i magistrati, accusandoli di fare politica con le loro “manone” giacobine e con interventi immancabilmente definiti ad orologeria. Un grande complotto giudiziario, in sostanza. Il “complotto giudiziario” Tesi all’evidenza senza pudore, sorretta unicamente dal disperato tentativo di sbianchettare le pesanti responsabilità penali, finanziarie, politiche e morali che emergono dalle inchieste. La realtà è ben diversa. L’intervento giudiziario è in crescita esponenziale in tutti i sistemi democratici. Ovunque esso occupa le prime pagine e spesso turba equilibri e destini politici. La sua stessa diffusione ne segnala la dimensione oggettiva, escludendo che vi siano – almeno di regola – forzature soggettive. Ciò vale anche per il nostro Paese, nel quale anzi i processi di Tangento-
poli (ieri ed oggi) pongono addirittura il problema drammatico se la corruzione costituisca un dato marginale , seppure esteso, della nostra democrazia o non piuttosto un suo elemento strutturale (in altre parole, se si tratti di corruzione “del” o “nel” sistema). Rassegnarsi alla corruzione? A questo punto, inevitabile è la domanda: è cosa buona e accettabile che l’indipendenza della giurisdizione possa provocare tutti questi sconquassi?; - oppure bisogna trovare qualche coordinamento con la politica? Sostengono la seconda posizione coloro (e non son pochi) che strillano che non vi è sentenza che possa valere più del voto di milioni di italiani. Ma la confusione dei piani è evidente. Il primato della politica, nel senso che il governo della società e il motore del “vivere giusto” possono stare soltanto in azioni politiche e non in provvedimenti giudiziari, è un fatto incontestabile. Com’è incontestabile che la giurisdizione non è in grado – per natura – di risolvere stabilmente le patologie del sistema, ma solo di riconoscere e contribuire a rimuovere le ingiustizie ed illegalità in atto.
I Sicilianigiovani – pag.6
Il bilanciamento dei poteri Senonché il primato della politica non è assoluto. In tutte le democrazie moderne la sovranità si esercita (deve esercitarsi!) nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione. E’ il sistema del bilanciamento dei poteri (“checks and balances”) che presidia l’ indipendenza della magistratura, senza di che (Toqueville lo insegnava un paio di secoli fa) la “tirannide della maggioranza” è sempre in agguato. Quei sedicenti statisti... Dunque, mai fidarsi di quei sedicenti statisti che sproloquiano di magistrati animati da proterva volontà invasiva. Perché sono gli stessi che da una ventina d’anni non fanno un bel niente per ridurre la debolezza dei controlli (sia amministrativi sia della stampa, senza più condizionata da forti interessi) e per ridurre l’anomalia tutta italiana di una concentrazione di potere (economico, mediatico e politico) che non ha eguali nelle democrazie occidentali. Mentre proprio in questi fenomeni affonda le radici l’ingiustamente vituperata espansione del giudiziario.
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Società incivile
Formigoni il mantenuto di Nando dalla Chiesa
Sembra folclore, ma è l’apice della corruzione. Sempre se, come si deve dire in questi casi, sono vere le ipotesi dell’accusa . Ecco la sintesi. Abbiamo un capo di governo, in questo caso il presidente della regione Lombardia, che fa una vita da nababbo senza spendere un euro. Che prende in uso ville di lusso, fa vacanze di lusso (anche se con ridicolo costumino rosso e ancor più ridicolo marsupio), va abitualmente in gruppo a cena in uno dei più costosi ristoranti milanesi pasteggiando a champagne, e lasciandoci conti equivalenti a quattro stipendi annui di un professore universitario, compra perfino cosmetici di lusso, senza intaccare mai il suo conto in banca. Le uscite dei pasti, dei viaggi, pare anche dei vestiti firmati, le paga un altro. Che non è né uno zio Paperone né un papà affettuosissimo. E’ un signore che prende tangenti da due grandi clinichefondazioni pri-
vate, la Maugeri di Pavia e la San Raffaele di Milano, per i finanziamenti che, grazie ai suoi buoni uffici, quel capo di governo stabilisce d’imperio a loro favore in nome dell’eccellenza della sanità lombarda. Un signore che verosimilmente usa parte della propria tangente per assicurare al capo di governo medesimo quella vita principesca. Insomma: un capo di governo mantenuto. Che non fa più la spesa, che può andare in giro senza portafogli e senza carta di credito. Paga il Signor Tangente. Oserei dire che la dipendenza quotidiana da quest’ultimo rende il quadro perfino più sconvolgente (e umiliante per le istituzioni) di quanto sarebbe se il capo di governo avesse intascato direttamente la tangente e se la fosse messa in banca. Zeppo e ingordo Colpiscono tante cose in questa storia, che non avendo precedenti è andata oltre ogni nostra fantasia criminale. Una soprattutto: che il capo di governo si riteneva del tutto al di sopra delle leggi. Zeppo e ingordo del suo formalismo leguleio, era convinto che non intascando materialmente sol-
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di nessuno potesse accusarlo di corruzione, quando invece lo indagano addirittura per associazione a delinquere. Anni di basso impero Non prendeva nemmeno la precauzione di fare ogni tanto un bancomat, chessò; o di usare una volta a settimana una carta di credito che aveva comunque alla spalle il cospicuo stipendio di un presidente di regione. Giusto per far vedere, per eventualmente potere obiettare. Nulla, un vero signore del cielo e della terra. Sempre pronto a offendersi e a minacciar querele invece di vergognarsi, di dire almeno, in un impeto di pudicizia, “i cosmetici no, erano per la mia amante”. Quando si racconteranno questi anni di basso impero, bisognerà partire anche da qui, dall’imperatore che non portava il portafogli e dai suoi cosmetici, oltre che dai festini e dalla ricattabilità per incontinenza di B. Ma anche quando bisognerà, più urgentemente, capire la cavalcata trionfale della ‘ndrangheta in Lombardia, bisognerà partire dal senso delle istituzioni di questo imperatore. E dall’idea che si era fatto di come governare la sanità e il pubblico interesse.
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Italia
Quattro domande ai nostri amici Grillo, Bersani, Vendola, Ingroia: non sono il massimo, ma c'è chi si fida di loro. Pertanto... di Riccardo Orioles Grillo: ma davvero Alemanno e Vassallo sono la stessa cosa? Bersani: ma insomma, fra Marchionne e la Fiom, chi dei due ha ragione? Vendola: perché il mio partitino è sempre l'unico buono e tutti gli altri no? Ingroia: un'idea: ma perché non fa una bella lista della società civile? Magari funzionerebbe... La base e i Lìder D'accordo, Bersani non è Berlinguer, Grillo non è Totò, e Ingroia e Vendola... beh, lasciamo andare. Ma quasi tutti quelli che conosco, che hanno una qualche voglia di “mettere a posto le cose”, votano per uno di loro: questo passa il convento. Il bello è che quasi tutti i miei amici del bar vogliono, con poche varianti, le stesse cose: a sentirli non si direbbe mai che i loro Lìder (grandissimi, s'intende, uno più napoleonico dell'altro) si accapiglino così tanto. Certo, è tempo d'elezioni.
Il brutto è che purtroppo le cose da volere (o non volere) ormai non sono molto complicate. Siamo arrivati al termine, non c'è più tempo per grandi strategie. L'Italia non sopravviverà fino al 2015, se non si cura. Non è solo il fallimento economico, è che proprio non sappiamo più chi siamo. Abbiamo lasciato la democrazia ormai da vent'anni, e non ci ricordiamo più neanche come funzionava. La democrazia eravamo noi, non chi ci governava. Sapevamo di avere dei diritti (lavorare, votare, scegliere qualche cosa) e persino, alla nostra maniera, dei doveri. Adesso aspettiamo i lìder, Padre Pio o qualcun altro (Monti, come taumaturgo, non ha funzionato) che ci tirino su per il colletto dal pantano. Ma questo non è mai successo. L'Italia, in tutta la sua lunga storia, non ha mai avuto dei salvatori. Ogni volta, quasi all'osso del collo, s'è salvata da sé. Il tenente Innocenzi, il compagno Peppone, Salvo che occupò il suo liceo nel Sessantotto: questi sono stati l'Italia. I lìder sono venuti sempre dopo, a cose fatte. *** Usciamo da vent'anni di dominio assoluto degli imprenditori. Sotto nomi diversi, la musica è stata
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questa. Il risultato s'è visto. Davvero basta cambiare un nome? Perché nessuno ha proposto - come sarebbe stato normale nella repubblica - di nazionalizzare la Fiat alle prime avvisaglie del suo (perché di ciò s'è trattato) colpo di stato? C'è' stato un golpe sociale, e nessuno s'è opposto. Domande che nessuno fa Abbiamo perso più di cento compagni, giornalisti e giudici, quaggiù in Sicilia, combattendo la mafia. Perché la provincia di Reggio – per dirne una – è ancora in mano ai mafiosi? Perché i soldati a Kabul e non, come sarebbe logico, a liberare Reggio dall'occupazione mafiosa? Calvi, Sindona, Banco Ambrosiano, Ior. Il capitale mafioso, vent'anni fa, si stava inserendo bene nel sistema. Adesso l'ha praticamente conquistato. Perché abbiamo ancora il segreto bancario? Perché Boris Giuliano, se tornasse ora, non dovrebbe essere ancora autorizzato a leggere i conti bancari, a fare indagini vere e non da disperato? Non sono domande difficili, come vedete. Eppure nessuno le fa. Certo, non per malafede. Ma si parla d'altro. E' dubbio che, come Italia, siamo ancora in grado (ormai siamo troppo piccoli per farlo) di risolvere i problemi economici che ci stanno strozzando. E che si chiamano, essenzialmente, deregulation e delocalizzazione. Riuscivamo a fatica, trent'anni fa, a tenere a bada gli allora poteri economici di medie dimensioni.
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“Ogni singola multinazionale è più potente dell'Italia. E allora...” Adesso è del tutto impossibile. Ogni singola multinazionale (e la Fiat fra queste) da sola ha già un potere superiore a quella di una piccola Nazione come la nostra. La soluzione è in Europa. Ma l'Europa è quella che ci bastona più di tutti, perché abbiamo permesso che diventasse, essa stessa, una multinazionale. Rimossa l'idea di Europa Perché la parola Europa è quasi totalmente estranea a queste elezioni? E' presente come spauracchio, come oscura potenza da propiziarsi o da maledire, ma non come quello che è, cioè il nostro Paese, che tocca a noi cittadini di governare? Governare l'Europa – e si può, visto che nelle principali regioni (Francia, Germania e Italia) ormai la maggioranza è, o sta per essere, democratica e civile – significa governare le banche, togliere gli artigli all'oligarchia. Ogni altra strada è illusoria, è come vincere le elezioni a Modena mentre Scelba e Tambroni governano indisturbati il resto del Paese. Nè rassegnati nè “ribelli” urlanti L'Europa non era nata così, non con le banche. L'Europa, da Mazzini in poi, era nata come una cosa di sinistra. Un'Europa dei popoli, si diceva. E' tempo di riprendere quest'idea. L'Europa come Unione europea non esiste più. Può nascere ricominciando da zero, dai primi paesi storici (Francia, Italia, Germania, Benelux) che stavolta, sull'onda del cambiamento elettorale, potrebbero anche pensare - per disarmare le banche e salvarsi dalla crisi - a qualcosa di molto più radicale che un'unione monetaria. Non è lasciare l'euro la soluzione, ma cambiargli il padrone. Nessuno lo può fare da solo, ma si può fare benissimo tutti insieme. Questo sarebbe potuto essere il tema portante di questa campagna elettorale. Ma siamo ormai troppo deboli culturalmente - almeno la classe politica per guardare al di là del nostro naso. Ci rassegniamo ai poteri, o ci “ribelliamo” urlando. Invece potremmo travolgerli, tranquillamente.
Promemoria Le tre parole della crisi “La mafia? A Catania non esiste”. “La mafia? Non c’è mafia a Roma”. “La ‘ndrangheta? Qualche caso isolato, qui a Milano”. Quante volte s’è sentito questo discorso, borbottato da un politico o elaborato con molti particolari mediatici da un giornale. Eppure la mafia c’era, fin dal primo momento. Pochi magistrati a combatterla, e fra noi giornalisti qualche collega eccentrico e qualche ragazzo. Così siamo arrivati fin qui. Ed ecco cosa c’era dietro il loro muro di gomma. Adesso, tutti i problemi sono esplosi ma la mafia per prima, perché è la cultura mafiosa, l’economia mafiosa, il potere mafioso a far da modello per tutto il resto. La mafia, e tutti i suoi inconsapevoli allievi a ogni livello. Forse non è ancora troppo tardi, a condizione di muoversi subito e con durezza. A monte, una scelta precisa: non ci fidiamo più della loro informazione. Perciò ce la facciamo da noi. Facciamola tutti insieme (noi diciamo “in rete”, in più sensi), e oggi tecnicamente si può. Ma senza vip e senza guru. Da noi, al centro della nostra moderna e sofisticata rete c’è in fondo un modesto doposcuola di quartiere.
MAFIA E’ il principale problema d’Italia, quello che ci impoverisce di più. Non è una patologia criminale ma il principale potere economico del paese, che ormai fa da modello anche a molta economia legale. “Tratta” con tutti, e sempre ottiene qualcosa. Ma ha un punto debole: è molto vulnerabile alla mobilitazione popolare. Negli anni '90 è andata molto vicina ad essere sconfitta, e s’è salvata solo grazie alla “timidezza” dello Stato. Bisognerebbe: ● Confiscare tutti i beni mafiosi o frutto di malversazione, di corruzione o di grande evasione fiscale; ● Assegnarli alle cooperative di giovani lavoratori, e sostenerle adeguatamente; anagrafe dei beni confiscati; sgravi fiscali ai commercianti che se ne fanno clienti; ● Vigilare (comuni, regioni, assemblee cittadine) sull’applicazione; ● Punire non ritualmente gli scambi politico-mafiosi (riforma 416ter). La mafia può essere non solo sconfitta, ma eliminata del tutto. A condizione di cominciare dai sedicenti “non mafiosi” (nelle imprese, nella politica, nello Stato) senza il cui aiuto e complicità non potrebbe sopravvivere un giorno.
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OPERAI Era una parola nobile, adesso è schiavitù. La crisi economica non pesa perché gli operai “pretendono”, ma perché troppi imprenditori non sanno fare il loro mestiere (vediFiat) o portano tutto all’estero, alla faccia della (nostra) economia. Iniziative utili: ●Applicare l’art.41 della Costituzione (“programmi e controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”); ●Applicare l’art.42 della Costituzione (esproprio per motivi d'interesse generale) per sanzionare le delocalizzazioni, l’abuso di precariato e il mancato rispetto degli accordi di lavoro; ● Separazione fra capitale finanziario e industriale; tetto alle partecipazioni finanziarie nell’editoria; Tobin tax; ● Regolarizzare per legge i rapporti di lavoro di fatto; ● Gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali (scuola, università, difesa, acqua, energia, infrastrutture tecnologiche, credito internazionale); ristrutturazione della Rai su base pubblica; limite regionale per l’emittenza privata; ● Progetto nazionale di messa in sicurezza del territorio, sul modello TVA, come volano economico soprattutto al Sud; divieto di ulteriori cementificazioni; ● Responsabilità personale degli amministratori per il mancato uso di fondi; ● Controllo del territorio nelle province ad alta intensità mafiosa. EUROPA L’Italia ormai è troppo piccola per risolvere da sola i suoi problemi: Cina, India, Giappone, Russia, l’America che raddoppia... Va bene, ma non abbiamo l’Europa per questo? Eh no che non ce l’abbiamo. L’Europa, fatta così, non ci appartiene: al massimo siamo utenti, non cittadini. Ma se provassimo a rifarla in un altro modo? Con più, come dicono i greci, più “dimokratìa”? E quindi con meno banchieri, per logica conseguenza. L’occasione ci sarebbe: nel 2013 in tre dei principali paesi europei (Francia, Germania, e noi) avremo con ogni probabilità tre governi di centrosinistra. Saranno tre altri governi delle banche? O possiamo provare a chiedergli qualcosa di meglio, a gran voce e tutti insieme? (1914 2014: fra poco è un secolo che l’Europa non c’è più)
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Studenti fuori
“Voto anch'io” “No, tu no!” Ma come fanno a votare coloro che, per ragioni di studio, vivono lontano dal loro seggio elettorale? Migliaia e migliaia di giovani esclusi di Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it Vi ricordate i referendum del 2011? Sicuramente studenti e lavoratori li ricorderanno bene e con piacere. Infatti in quei giorni ci fu data (sì, anch'io sono un “fuori sede”) la possibilità di esercitare il nostro diritto/dovere di voto in una regione diversa da quella di residenza. Peccato che per farlo si dovette usare come escamotage l’art.19 della Legge 25 maggio 1970, n.352. La legge prevede che alle operazioni di voto e di scrutinio presso i seggi possano assistere, ove lo richiedano, un rappresentante effettivo ed un rappresentante supplente di ognuno dei partiti o dei gruppi politici rappresentati in Parlamento, e dei promotori dei referendum. Per la consultazione referendaria esiste la possibilità per una piccola percentuale di fuori sede di poter votare in un seggio diverso da quello di pertinenza facendosi delegare come rappresentante di lista. Per le altre elezioni volte a determinare la politica nazionale, quindi europee e politiche, invece, non esiste alcuna possibilità. E la Costituzione? Non esiste democrazia, e chi se ne frega dell’Art.3 della nostra bella Costituzione, che recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, nonché
dell’Art. 48: “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. Il diritto di votare Alternative? La legge n. 241 del 1969 prevede rimborsi del 70% delle tariffe ferroviarie e marittime, delegando alle compagnie di emanare le direttive pratiche di applicazione della legge. Quindi se io volessi esercitare il mio diritto/dovere di voto la Repubblica Italiana mi permette di usufruire di questa agevolazione economica. Così partendo da Bologna alle 2:17, cambiando 3 treni e salvo problemi o ritardi, potrei arrivare nella vicina Castelvetrano (per arrivare fino a casa avrei altri 15 Km da percorrere) alle 21:50. 22 ore, quasi un giorno intero, per attraversare mezza Italia cambiando qualche treno. In realtà un’alternativa molto più semplice sarebbe esistita, ma buona parte dei nostri parlamentari ha preferito rimandare per poi saltare sull’attenti al grido di 25.000 Erasmus che denunciavano (giustamente) la mancanza di democrazia e la non possibilità di voto. Ascoltati sì, ma senza offrire nessuna soluzione. Qualche anno fa firmai un petizione lanciata dal comitato di IOVOTOFUORISEDE (oggi siamo più di 12.000) http://firmiamo.it/iovotofuorisede#petition poi insieme a loro scrissi un Disegno di Legge che prevede la possibilità di
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esercitare il diritto/dovere di voto per referendum/europee/politiche ovvero tutte quelle consultazioni elettorali effettuate su scala nazionale attraverso l’istituzione di un seggio speciale presso ogni Prefettura. Presentato da Pardi al Senato http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.js p?tipodoc=Ddlpres&leg=16&id=625029) e da Briguglio alla Camera (http://www.camera.it/126?tab=&leg=16&idDocumento=5260&sede=&tipo,
nonostante l’impegno di alcuni Senatori (pochi) ed un parere positivo che ha riconosciuto la validità della proposta è rimasto bloccato. Ad ogni consultazione elettorale, fra studenti e lavoratori fuorisede, restano esclusi quasi un milione di cittadini. Abbiamo raccolto le firme, scritto una legge (depositata in senato e discussa) e siamo costretti a “tornare per votare” mentre vorremmo solo “votare per tornare”. Per questo il 16 nelle maggiori piazze italiane è andato in scena il flash mob www.facebook.com/events/409527655788922
e alle elezioni del 24/25 febbraio voteremo parallelamente per via telematica (il 21 ed il 22) grazie alla piattaforma e-ligo. Un voto di protesta senza valore legale, che vuole evidenziare la mancanza di democrazia ed il trattamento ricevuto dallo Stato italiano. L’iniziativa è portata avanti da Voglio Votare http://www.vogliovotare.org/.
Lo Stato si dimentica di noi, ma noi non dimentichiamo di essere cittadini italiani. Vivere fuori sede è una scelta, votare fuori sede è un diritto.
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Votare a vent'anni
Orfani della politica (vera) “La vera antipolitica è quella dove siamo nati e cresciuti in questi venti anni...” di Valeria Grimaldi www.diecieventicinque.it Ci siamo. Tutti a votare. Il 24 e 25 febbraio sarà l'ora della politica, forse, dopo la parentesi del governo tecnico. Gli scenari sembrano mutare, in quanto a volti: alcuni sempre gli stessi, altri per fortuna diversi. Il centrosinistra, nella coalizione PD-SEL-Centro democratico, è reduce dalla volata guadagnata attraverso le Primarie, che hanno visto vincitore il segretario Bersani. Renzi, lo sconfitto, nonostante il pressing dei sostenitori, è tornato nella sua Firenze e si è messo a disposizione del partito, senza crearne uno proprio, al contrario di come siamo stati abituati in questi anni. Il centrodestra, nella coalizione PDL-Lega (sempre quella), vede il ritorno di Berlusconi (che non è il candidato premier, nonostante si comporti come tale), alla faccia delle primarie tanto invocate: dopo l'anno di silenzio è tornato sulla scena più in forma che mai, portandosi dietro i suoi successi migliori (i giudici comunisti, le colpe della sinistra, la riforma costituzionale per dare più poteri al premier) e individuando nel suo radar l'obiettivo da distruggere: l'ex premier “tecnico”.
Infatti il professor Monti è sceso in campo, e ricopre l'area di centro: insieme a Fini e Casini (politicamente moribondi) crea la "lista civica con Monti per l'Italia", ponendosi come alternativa al duopolio destra-sinistra, che secondo l'illustre bocconiano, in Italia non funziona granché. E poi c'è Grillo: via i sindacati, via i partiti, via il vecchio, via la destra e la sinistra, via tutto. Colui che è contro la televisione, ma che riesce ad utilizzarla più di tutti gli altri. Novità delle novità è Antonio Ingroia: l'ex pm antimafia della Procura di Palermo, dopo il suo breve soggiorno in Guatemala (ancor più breve di quello prefissato con l'ONU), ottiene l'aspettativa e si candida con "Rivoluzione Civile": convergono in questa nuova leghisti). Ehilà, ci sentite? E noi, che stiamo quaggiù... ehilà, ci sentite? Siamo uomini, donne, e soprattutto giovani che stanno cercando di capire. La crisi economica ci sta mangiando uno per uno, non c'è lavoro, non c'è futuro,
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non c'è presente. C'è solo l'attimo: l'attimo in cui pagare le bollette e le tasse senza avere i soldi; in cui realizzi che non potrai mai arrivare non a fine mese, ma alla seconda settimana del mese; in cui realizzi che hai 35 anni e non puoi permetterti una casa, una famiglia, una vita autonoma. La mafia, la corruzione... C'è la mafia, la corruzione, l'ignoranza, la paura del diverso, l'egoismo, il curarsi il proprio orticello. Questo nostro immane sacrificio, ci date garanzia che serve e servirà a qualcosa? Qualcosa di reale che riusciremo in futuro a vedere con i nostri occhi? Una sola è la verità: ci sentiamo tutti orfani, soprattutto noi giovani. Orfani di quella politica che al tempo dei nostri genitori e nostri nonni, era un rito di passaggio e di iniziazione alla vita pubblica e sociale, dove formarti, dove capire il mondo e il Paese in cui ti trovi, per cercare di migliorarlo. Al contrario dei nostri padri e nonni, reduci dalla guerra o figli del sessantotto, che hanno visto i giorni migliori trasformarsi in quelli peggiori, noi abbiamo potuto vivere nei risultati inconcludenti, nei comportamenti meschini, sull'orlo di quel baratro che non abbiamo contribuito a creare ma che pesa tutto su di noi. La vera antipolitica è quella dove siamo nati e cresciuti in questi venti anni. Ma forse, proprio per questo, riusciremo in futuro a mettere in atto una nuova ricostruzione.
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Messina/ I no-Vandal del Teatro Pinelli
“Per la speranza contro l'ignoranza” Una storia esemplare di incoltura siciliana: i politici lasciano andare in rovina il luogo più civile della città. I ragazzi lo occupano e lo rimettono in funzione. Gli imprenditori, dal loro giornale, ordinano alla polizia “buttateli fuori”. Come finirà? R.O. Messina, per poco più di un mese, ha avuto un teatro. E' il vecchio Teatro alla Fiera - nei '60 vi fece il suo debutto Andrea Camilleri - che le istituzioni cittadine, fra incuria e speculazioni, avevano letteralmente lasciato andare in rovina.
A dicembre una cinquantina di ragazzi l'hanno occupato. L'hanno ripulito, hanno restaurato il palcoscenico, hanno tenuto tutto nel massimo ordine e pulizia e hanno cominciato a usarlo per quello che era: un teatro. Una ventina di gruppi si sono alternati a recitare, cantare, fare performance. Il vecchio Camilleri, commosso, ha mandato una lettera entusiasta. L'anima della città Messina ha avuto un'anima, per poco più di un mese. Giocolerie per i bambini, dibattiti, teatro, musica, libertà. La vecchissima classe dirigente di Messina - da sempre una delle città più massoni d'Italia - non l'ha presa bene. Arte, teatro, musica, giuochi per i bambini? Questa è area edificabile, accidenti! Alla fine un furibondo editoriale sulla "Gazzetta del Sud" invitava il prefetto a sgombrare con la forza l'orrendo spettacolo. Il prefetto, brav'uomo, fino a un certo punto ha resistito. Il presidente Crocetta, o per propaganda elettorale o per sincera convinzione, è andato a complimentarsi
Messina PRENDE VOCE IL SILENZIO
Fuoriscena IL CROCETTA D'UNA VOLTA Gli oggetti occupati dal Teatro Pinelli da tempo erano stati commissariati – per la pessima amministrazione cui erano assoggettati – dalla Regione siciliana. Che per la prima volta da molti anni ha un presidente non inquisito o condannato per faccende di mafia. L'attuale presidente, Rosario Crocetta, è stato anzi un sindaco antimafioso nonché un rinnovatore, un “compagno” e via discorrendo. Cose che ha tenuto a ricordare in un (pubblicizzato) pubblico incontro con gli artisti occupanti, un mese fa. Che farà adesso? Prenderà carta e penna? Sospirerà sul destino che impone ai giovani messinesi di rinunciare agli spazi pubblici in nome degli interessi speculatori? Se la prenderà coi politici, colle istituzioni? “Compagno Rosario – potrebbe sussurrargli all'orecchio il Crocetta d'una volta – guarda che adesso le istituzioni sei tu. Non che 'sti ragazzi si aspettino grandi cose da te, dopo tutto. Ma, detto fra noi, non ce l'avresti la tentazione di fargli una sorpresa, alla faccia loro?”
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progetto. Di chi si appella ad un'istituzione universitaria tanto prestigiosa quanto distante, ad una politica tanto necessaria quanto assente. Il 15 dicembre il divelto Teatro in fiera, ribattezzato Pinelli, e l'ex Irrera Studenti universitari, e non pochi professori; architetti e ingegneri; e a mare di Messina sono stati occupati da un gruppo di cittadini. poi i musicisti, gli scrittori, gli sceneggiatori, i danzatori. I lavoratori Da sempre, la voce dei messinesi è stata sotterrata da boatos prepo- precari, i sottopagati e i cassaintegrati, gli esodati, i loro figli, messintenti e incontrastati. "Che parlo a fare", "Che ci resto a fare qui" , esi. Stanno insieme, parlano, si arrabbiano, producono documenti, "Che studio a fare, tanto...". Ma quando si è con le spalle al muro a documentari, disegni, progetti, libri, ricette. Si dotano di uno Statuto. volte arriva un coraggio fatto di paura, che prende il sopravvento. E' il Creano rete. Pensano al 16 marzo, il giorno della manifestazione nosilenzio che prende voce, pronto a travolgere gli ormai incerti bisbigli ponte, e al 30 marzo, il giorno della protesta contro il Muos di Nscemi. della politica cittadina. Il silenzio stanco di quelli che partono per le Fanno, ma soprattutto realizzano, con coraggio e con paura, la difficoltà, di quelli che nelle difficoltà ci restano, il silenzio degli spazi Messina che vogliono a dispetto di quelli che "a questo teatro Pinellichiusi così senza un motivo, e di quelli nuovi aperti così, senza un o-come-si-chiama che ci vado a fare...". Laura Pergolizzi
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“E' da prima del terremoto che qui non si vedeva tanta libertà”
FOTO STURIALE
Il “fumus” degli occupanti e il saccheggio impunito
Uno sgombero preventivo Chissà se i funzionari della questura di Messina ci hanno fatto caso. Lo sgombero del Teatro In Fiera “Giuseppe Pinelli” di Messina, occupato e restituito ai cittadini lo scorso 15 dicembre, è avvenuto proprio il giorno in cui in tutto il mondo è stata celebrata una giornata di lotta contro la violenza sulle donne. Una singolare e suggestiva coincidenza , nonostante - bisogna rilevarlo - l’operazione sia stata condotta senza torcere un capello a nessuno dei ragazzi sorpresi a dormire all’interno dell’ edificio o a quelli che hanno protestato pacificamente contro lo sfratto per tutta la giornata del 14 febbraio. Una sottile violenza psicologica è stata comunque esercitata contro coloro i quali , alla fine, si sono solo resi “colpevoli” di aver sottratto un vecchio teatro abbandonato al suo destino di discarica di fatto per restituirlo alla sua funzione originaria di luogo di incontro , di produzione di pensieri e parole, di bene comune, in altri termini. Uno spiegamento di uomini e mezzi imponente, che difficilmente si mette insieme in tempi di crisi per cause migliori di questa, ha accompagnato le ragazze e i ragazzi del Pinelli fuori dal teatro che avevano fatto rivivere, mentre –in una città dove difficilmente si pubblicano persino i nomi degli evasori fiscali conclamati o dei medici coinvolti in casi di malasanità- le generalità di dieci di loro ,soltanto avvisati dell’apertura di un’indagine a loro carico, sono finite nelle prime pagine di tutti i media. L’atto che si apre coi nomi e i cognomi finiti in bocca ai cronisti è – ad ogni modo - soltanto un decreto di sequestro preventivo degli immobili “teatro in fiera” ed “ex padiglione a1” ( il cosiddetto Irrera a Mare) , firmato dal Gip presso il
Tribunale di Messina, Daniela Urbani, su istanza del Sostituto Procuratore della Repubblica Diego Capece Minutolo. In esso si fa riferimento agli articoli 110 , 633 e 639bis del codice penale e 110 e 681 del cp in riferimento all’articolo 80 del Testo Unico delle leggi sulla Pubblica Sicurezza. Sono gli articoli che si occupano dell’ “invasione di fondi o edifici” , nello specifico del 639bis, di proprietà pubblica, e dell’”apertura di locali di pubblico spettacolo, intrattenimento, ritrovo” senza le autorizzazioni previste. In specie quelle menzionate dall’art.80 del TULPS , che parla delle richieste di agibilità. Ma la parte interessante del decreto viene subito dopo, quando il giudice ammette come “ la sussistenza del fumus commmissi delicti” in relazione all’articolo 681, quello sull’apertura di luoghi pubblici senza il rispetto delle norme a tutela dell’incolumità del pubblico, non sia” astrattamente apprezzabile”, se non in seguito alla relazione del comando Provinciale dei Vigili del Fuoco - datata 22 gennaio 2013 –che faceva presente l’esistenza di una “situazione di pericolo per la pubblica incolumità” che “non risultava” all’atto dell’occupazione e “fino a qualche giorno fa”,per cui “ a tutt’oggi” prende atto il giudice “ non vi sono formali prescrizioni a tutela della pubblica incolumità da parte dell’autorità di PS”. Siamo di fronte all’ammissione di ignoranza delle reali condizioni del teatro in fiera da parte dei poteri pubblici per non dire della sostanziale chiamata di correo nei confronti di tutte quelle istituzioni che nei quindici e più anni di chiusura al pubblico dello stabile mai si sono attivate – se non per la manutenzione ordinaria e straordinaria - neanche effettuare dei semplici accertamenti sul suo stato. Ce n’è abbastanza per dire grazie ai ragazzi del Pinelli per quello che hanno fatto e continueranno a fare per Messina. Altro che liste di proscrizione. Tonino Cafeo
coi ragazzi. Passare la serata a teatro, con i bambini dappresso, per le famiglie messinesi cominciava ad essere un'abitudine. “Rauss!” E' da prima del terremoto che a Messina non si vedeva tanta libertà. Ma alla fine è arrivata la Celere in te-
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nuta antisommossa, davanti al teatro occupato. "Rauss!". I vecchi teatri servono per costruirci cemento, mica per farci arte e cultura. Telefonate drammatiche, concitate. Adesso il teatro è sigillato, i ragazzi sono a fare spettacoli (all'improvviso, alla garibaldina) per strada, tutt'in giro per la città. Chissà cosa ne pensa il vecchio Camilleri.
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accadrà ieri
REWIND
FORWARD accadde domani a cura di Francesco Feola
Svizzera
SIAMO TUTTI PORTOGHESI
L’11 febbraio un’inchiesta del quotidiano svizzero Tages Anzeiger racconta l’aumento nel paese di cittadini italiani, spagnoli e portoghesi in cerca di protezioni sociali. Grazie all’accordo sulla libera circolazione con l’Unione europea e a contratti di lavoro fittizi, i migranti che lavorano, sia pure temporaneamente, possono infatti accedere agli assegni di assistenza, che per una famiglia di quattro persone possono toccare i 4mila franchi svizzeri (circa 3.200 euro). Solo nel 2012 il numero di cittadini comunitari finiti a carico dell’assistenza elvetica è aumentato del 6,2 per cento.
Nel bagagliaio DELLA CIVILTA'
Il 14 febbraio la polizia di frontiera di Brindisi scopre nel bagagliaio di una Renault Kangoo imbarcata sulla navetraghetto Catania proveniente da Patrasso, in Grecia, quattro migranti di nazionalità siriana. I quattro vengono fermati e rimpatriati, il conducente della Renault Kangoo viene arrestato.
Campania, da cui proviene la maggior parte dell’acqua pugliese, venga irrimediabilmente inquinata. A preoccupare sono le tecniche invasive – come getti d’acqua e solventi ad altissima pressione – che saranno utilizzate in un’area già ad elevata sismicità naturale.
Ma non è
CHE L'ILVA STIA INQUINANDO?
Il 16 febbraio dall’altoforno numero 5 dello stabilimento Ilva di Taranto si levano colonne di fumo considerate anomale dalla stessa azienda, che richiede l’intervento dei tecnici dell’Arpa per stabilirne la pericolosità per la salute. L’impianto è uno di quelli sequestrati nel luglio scorso dalla procura di Taranto perché ritenuti responsabili del disastro ambientale che ha provocato negli ultimi decenni l’impennata dei casi di tumore in città. Cinque giorni prima il gip del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, aveva respinto la richiesta di scarcerazione di Nicola Riva, 56 anni, ex presidente del cda dell’Ilva, ai domiciliari dal 26 luglio scorso per inquinamento, disastro ambientale ed avvelenamento di sostanze alimentari.
Di nascosto AI GRANDI
Il giorno dopo è la volta di quattro ragazzi afghani di età compresa tra i 14 e i 16 anni. Erano nascosti in un sottofondo alto trenta centimetri di un furgone sbarcato dalla Moto Nave Catania proveniente da Patrasso. I quattro hanno detto di aver pagato 4mila dollari a testa ad un’organizzazione greca. I conducenti del furgone, Dimitrov Slavi, di 52 anni, e Ivanov Ivo, di 44, sono stati arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
“Bevo acqua E NON PETROLIO”
Il 15 Onofrio Introna, presidente del Consiglio regionale pugliese, annuncia che la sua regione si batterà contro l’avvio delle trivellazioni petrolifere in cantiere nella vicina Irpinia. Il rischio è che la falda acquifera ai confini con la
Il primo maggio QUEST'ANNO E' A MARZO
Il primo marzo si terrà la quarta edizione della giornata nazionale indetta dalla Rete Primo Marzo per denunciare lo sfruttamento e il razzismo delle persone migranti. Tra le richieste della Rete c’è una nuova legge sull’immigrazione, l’abolizione dei Cie, la cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia, l’estensione del diritto di voto amministrativo agli stranieri non residenti. Adesioni: primo.marzo.ufficio.stampa@gmail.com, primomarzo2010comitati@gmail.com
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Ieri a Comiso OGGI A NISCEMI
Il 30 marzo a Niscemi (CL) si terrà una manifestazione nazionale contro la realizzazione del MUOS, il sistema di telecomunicazioni satellitari che la Marina Militare Usa sta installando all’interno del Parco della Sughereta. Info: www.nomuosniscemi.it
Actor's Studio DOVE? AL VALLE
Dall’11 al 23 marzo a Roma presso il Teatro Valle Occupato si svolgerà un Laboratorio di drammaturgia condotto da Antonio Latella. Si lavorerà sul tema della Menzogna, a partire dal romanzo Mephisto di Klaus Mann. Il laboratorio è aperto ad attori registi e drammaturghi che non abbiano superato i 20 partecipanti. Info: mailto:navescuola.tvo@gmail.com
Scrivi ragazzo scrivi L'APPELLO DI PITAGORA
L’1 e il 2 marzo 2013 presso l’Istituto Superiore “Pitagora” di Pozzuoli (NA) si terrà un festival letterario nell’ambito del concorso di scrittura “La pagina che non c’era”. Gli studenti delle scuole superiori italiane che partecipano al progetto incontreranno gli scrittori Andrea Bajani, Maurizio de Giovanni, Paola Soriga e Andrea Tarabbia e verranno chiamati a scrivere una pagina, quella che non c’era, da inserire in uno dei romanzi dei quattro autori. Info: www.lapaginachenoncera.it
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mondo su
NORD
&SUD
mondo giù a cura di Tito Gandini
Cernobyl
SALA TURBINE KO PER LA NEVE Il tetto della Sala Turbine della centrale di Cernobyl è crollato sotto il peso della neve. La sala turbine era stata danneggiata dall’incidente dell’84 ed è parzialmente coperta dal sarcofago di cemento armato usato per isolare le scorie. Stiamocene inquieti, un nuovo sarcofago è in costruzione, per investimenti da un miliardo di euro, i lavori vanno a rilento.
L'Europa
NON FALLISCE (PER ORA)
Dopo aver sfiorato il fallimento l’Europa si è accordata su di una riduzione di budget senza precedenti fino al 2020. Una riduzione del 3% rispetto ai sette anni precedenti, mentre rispetto alle ipotesi fatte la riduzione è dell’8%. Monti ritiene di aver ottenuto aggiuntivi 3,5 miliardi Euro, questa cosa andrebbe verificata.
sanzioni, tutte cose di cui tuttavia l’Iran si preoccupa poco, il timore è piuttosto quello di una riedizione Iraniana di Piazza Tahir e sembra proprio questa l’intenzione di Obama dietro questa nomina, provocare e sovvenzionare una rivoluzione inIran, senza intervenire direttamente.
“Non paghiamo, SIAMO INGLESI”
Obama
Il principale attore della riduzione di budget è stato David Cameron che con la decisione di indire in Inghilterra un referendum sull’Europa entro il 2017, ha tenuto in scacco tutta la negoziazione, ottenendo di mantenere lo “sconto” di 4 miliardi €, ottenuto dalla Thatcher negli anni ’80.
COME STA L'UNIONE?
Obama, discorso sullo stato dell’Unione. Avvertimenti di rito alla Corea del Nord e all’Iran; è stata confermata la riduzione del 50% dei militari presenti in Afganistan; l’intenzione di negoziare con la Russia una riduzione dell’arsenale nucleare e l’intenzione di creare un’area di libero scambio con l’Europa. Ha accennato all’aumento dello stipendio minimo; a un programma per impiegare i disoccupati sui cantieri di riparazione delle grandi infrastrutture; un miliardo di dollari è stato stanziato per rilanciare una rivoluzione verde, che dovrà contribuire alla riduzione della disoccupazione, anche se contemporaneamente si è detto intenzionato a concedere ulteriori permessi per lo sfruttamento dei giacimenti di energie fossili. Momento commovente, le vittime delle armi da fuoco in America meritano un voto, una legge sulle delle armi private. In sostanza dopo 4 anni di tira e molla con i repubblicani, Obama indica una via da percorrere per raggiungere degli obbiettivi moderati ma efficaci. (I commentatori sono unanimi nel dire che tutta la faccenda è stata di una noia mortale)
Tunisia
”SE TI OPPONI TI SPARO”
Tunisia: Chokri Belaid, capo dell'opposizione e destinatario di prediche incendiarie da parte degli Imam più estremisti, è stato ucciso. Brillante avvocato per la difesa dei diritti umani, ha spesso duramente criticato il regime di Ben Ali, estremamente comunicativo, leader studentesco, dopo la rivoluzione tunisina diventa membro del comitato di alta istanza per la realizzazione degli obbiettivi della rivoluzione. L'omicidio ha provocato la caduta del Governo Tunisino e manifestazioni in tutto il Paese.
“Qualunque cosa NE PENSI l'ITALIA”
L’annuncio del referendum sull’Europa di Cameron è avvenuto il giorno prima della sua partecipazione al Forum di Davos, dove ha affermato che si tratta di capire come rendere l’Europa più competitiva e flessibile. L’idea era quella di rilanciare l’Europa dopo aver salvato l’Euro con le riforme. Col senno di poi un doppio volo carpiato, salvataggio euro-riforme-taglio budget europeo: Qualunque Governo abbia l’Italia.
Niente bombe PER l'IRAN
Obama ha nominato Chuck Hagel al Pentagono, uno che ritiene non realistica una guerra in Iran ed è contrario alle
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A riéccolo!
ANCHE SARKOZY CI RIPROVA
Secondo Alain Juppè ex ministro degli esteri, Sarkozy avrebbe intenzione di ripresentarsi alle elezioni del 2017.
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Tunisia
“Se la sinistra si unisce Belaid vivrà ancora” Non è solo il fragile assetto politico tunisino ad essere spaccato dall'omicidio del leader del Fronte Popolare Chokri Belaid, ucciso a Tunisi il 6 febbraio, ma l'intero Paese di Natya Migliori
Mentre le opposizioni abbandonano l'Assemblea Costituente accusando il Governo di incapacità a guidare la Repubblica e Rached Gannouchi, capo carismatico del partito di maggioranza Ennhada, scende in piazza insieme a decine di migliaia di sostenitori di fronte all'intenzione del premier Hamadi Jebali di sciogliere l'esecutivo, avenue Bourghiba si infiamma, seguita dalle capitali della rivolta del 2011: Sibouzid, Mezzouna, Kala Keebira e Gafsa.
"Dopo l'assassinio di Belaid - spiega Lina Ben Mhenni - Tunisi è sconvolta e i tunisini sono confusi. Da quando Ennhada è al potere le armi in Tunisia circolano liberamente e si assiste ad un crescendo di violenza e omicidi a cui non siamo abituati. Quando Belaid è morto siamo scesi in piazza per esprimere la nostra rabbia contro il ministero degli Interni che ha fallito nel fare il suo lavoro e si è appropriato della rivoluzione popolare." "Chokri Belaid - prosegue Henda Chennaoui- era un militante politico, presidente del Movimento dei Patrioti Democratici. Prima del suo assassinio è riuscito, con l’aiuto dell’amico Hamma Hammami, presidente del Partito degli Operai Tunisini, a formare il Fronte Popolare che riunisce diverse forze della sinistra tunisina. Per questo Chokri Belaid è diventato un vero oppositore degli estremisti islamici, smarcandosi dagli altri partiti appartenenti al regime del deposto Ben Ali. Ha spesso criticato il partito al potere Ennahdha per la sua politica che condurrebbe il paese al caos. In seguito al suo assassinio, è divenuto un’icona, un simbolo della resistenza alla violenza politica. E’ riuscito a riunire più di un milione di tunisini durante i suoi funerali l’8 febbraio scorso. Il suo assassinio è insomma un evento di portata storica, al punto da poter parlare oggi di un prima e di un dopo la morte di Chokri Belaid." Frammentati e divisi
Perché? Cosa succede ancora in Tunisia? E chi era Chokri Belaid? A rispondere due delle più impegnate e censurate attiviste e blogger della Rivoluzione dei gelsomini: Lina Ben Mhenni e Henda Chennaoui.
Belaid aveva manifestato il suo rammarico per una sinistra frammentata e limitata, incapace di fermare il pericoloso salto indietro della Tunisia in seguito alla vittoria politica di Ennahda. È davvero così? La Tunisia, con l'estremismo islamico al potere, sta vivendo un ritorno al passato?
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Lina: "Ciò che Belaid diceva è proprio vero. Ennahda non ha fatto nulla per realizzare gli obiettivi della rivoluzione e sta spingendo il paese verso un bagno di sangue, dividendo la popolazione sulla base della religione." Henda: "E quel che è peggio, i partiti di sinistra pare non abbiano imparato la lezione neanche dopo la sua morte. Sono sempre divisi e si scontrano in una visione limitata che non va al di là dei propri interessi particolari. Utilizzano finanche la morte di Belaid per negoziare con Ennahda, la prima a finire sul banco degli accusati per questo assassinio. Penso che Belaid abbia avuto ragione a parlare di “salto indietro” della Tunisia sotto il governo di Ennahda. Le libertà sono continuamente minacciate in una transizione politica ancora lontana dall'esser democratica." Lina: "Gli islamisti al potere sono un grande pericolo per ogni singolo paese." In pericolo i diritti delle donne Una delle speranze dello stesso Belaid e della sinistra tunisina è stata la centralità del ruolo della donna. Tuttavia si sente sempre più spesso parlare degli attentati degli uomini di Ennahda e dei salafiti alla dignità e alla libertà delle donne. Si può parlare di vittoria dell'estremismo? E le donne tunisine come stanno reagendo? Lina: "Purtroppo i diritti delle donne, delle libertà e dei diritti umani in generale, sono in serio pericolo. Abbiamo sentito parlare di casi di violenza, abbiamo sentito parlare di alcuni leader del partito islamico che hanno tentato di modificare gli articoli del Codice di Statuto Personale. Abbiamo avuto un momento di grande dibattito quando i rappresentanti del partito di Ennahda nell'Assemblea Costituente
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“Non abbiamo più scelta: c'è da rifare la rivoluzione”
hanno cercato di cambiare la parola “parità” tra uomini e donne con “complementarità”. E abbiamo dovuto manifestare più volte per impedire loro di danneggiare i diritti delle donne..." Henda: "In effetti, Belaid era fra i rari attivisti politici a scommettere sul ruolo della donna tunisina quale attore principale del progresso e della democrazia della nuova Tunisia. Adesso la questione femminile si trova in un momento molto difficile. La nuova Costituzione, ancora in fase di scrittura, non garantisce l’uguaglianza dei generi e relega la donna soltanto all’interno del nucleo familiare. Ma, quel che è peggio, la discussione si fa sempre più rara e sempre più evidente è la diminuzione della presenza femminile nelle strade e nei media. Non è solo colpa degli islamisti Sfortunatamente, non possiamo rimproverare i soli estremisti islamici per tale situazione. Infatti, persino i progressisti partecipano, almeno in parte, all’aumentare dell’ineguaglianza fra i generi e rimandano l’argomento, asserendo che non si tratta di una priorità e che non è comunque il momento di parlarne. Non prendono parte – o vi partecipano poco – alle attività del movimento femminista, non ne sostengono l’attività di pressione verso il Governo e l’Assemblea Nazionale Costituente. In pratica, la questione della donna, malgrado la sua importanza e gravità, è rimasta circostanziale." Lina: "Tuttavia -dissente la blogger di A Tunisian Girl- Non credo che l'estremismo riuscirà a rubare i nostri diritti di donne tunisine, poiché siamo molto educate e consapevoli della loro importanza. Le donne tunisine continuano a fare pressione ogni volta che i loro diritti sono minacciati."
Verrà una nuova rivoluzione? L'omicidio di Belaid si inserisce in un quadro di generale disillusione delle speranza della rivoluzione dei gelsomini, aggravato dall'alto tasso di disoccupazione, che di regione in regione tocca picchi dal 19 al 26%, e dal divario sociale ed economico fra il nord e il sud della nazione. Ci sono reali speranze di rinnovamento per la Tunisia? E ci sono i presupposti per una nuova rivoluzione? Lina: "Parlare di cambiamento con le persone al potere in questo momento credo sia impossibile. Sono incompetenti e non stanno lavorando al miglioramento della situazione e alla realizzazione degli obiettivi della rivoluzione. Non sentiamo alcuna volontà di farlo da parte loro. Stanno solo lavorando per soddisfare i propri interessi." Henda: "La delusione è in realtà iniziata già dai primi mesi successivi al 14 Gennaio 2011. Innanzi tutto, il ministero degli Interni ha proseguito le stesse pratiche di repressione, ha utilizzato ogni volta la forza contro manifestanti pacifici. In secondo luogo, il popolo tunisino sperava in una vera giustizia che desse delle risposte a un popolo per decenni messo a tacere e oppresso. Non è stato così e lo è stato ancor meno con un Governo che si pretende legittimo. Il ministero della Giustizia rifiuta da mesi le proposte di riforma per affermare una sua reale indipendenza. A tal proposito, occorre ricordare che le famiglie dei Martiri e dei feriti della rivoluzione aspettano ancora un processo equo per gli agenti di polizia coinvolti negli omicidi
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dei loro figli. I simboli del regime decaduto di Ben Ali beneficiano ancora dell’impunità. Nel frattempo il tasso di disoccupazione non smette di crescere e siamo oppressi dalle spese surreali del Governo e dal carovita. Per tutto questo la delusione verso gli obiettivi mancati della rivoluzione è generale. E questa delusione si trasforma, poco a poco, in collera che prima o poi condurrà certamente a una nuova rivolta, stavolta contro gli islamici al governo del Paese. Le parole d’ordine e le domande saranno sempre le stesse: lavoro, dignità e libertà." Lina: "Da parte mia sono convinta che non abbiamo più scelta: la nostra rivoluzione non ha ancora avuto successo e dobbiamo portarla avanti." “Viviamo giorno per giorno” Come si profila il prossimo futuro della Tunisia? Un Governo tecnico? Henda: "Nessuno può pensare di vederci chiaro nel futuro della Tunisia. E ancor meno possiamo essere ottimisti. I dirigenti politici non dimostrano una vera volontà di uscire da questo impasse. La proposta di Jebali di formare un Governo di tecnici al di sopra delle dispute politiche, non sembra essere la soluzione concreta per condurre in porto la transizione, mentre l’Assemblea Costituente non riesce a produrre un qualunque progetto di Costituzione che rappresenti la maggioranza dei tunisini e che salvaguardi i diritti nella loro dimensione universale. Con tali problemi, non credo possiamo parlare di un futuro sereno per il nostro Paese. Dobbiamo attenderci il peggio." Lina: "Staremo a vedere giorno per giorno cosa succederà."
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Catania
«Vincenzo Santapaola capo di Cosa Nostra» Al processo Iblis protagonista il pentito Santo La Causa di Claudia Campese www.ctzen.it
Continua a Catania, dopo la pausa estiva, il procedimento originato dalle indagini sulle presunte collusioni tra mafia, politica e imprenditoria in città e nella provincia. Ad animare le lunghe udienze sono le deposizioni dell'ex esponente del clan Santapaola, collaboratore di giustizia dall'aprile 2012. Che racconta di una famiglia criminale litigiosa, alle prese con il tentativo di ricostruire il proprio potere e la cosiddetta “bacinella”, il fondo cassa comune alimentato dalle estorsioni alle imprese. «Nel 1998, quando sono uscito dal carcere, ho rincontrato Vincenzo Santapaola. Ma aveva una posizione diversa rispetto a prima: era il capo». Con i suoi racconti da collaboratore di giustizia ha riempito le pagine di 14 verbali, ma al momento la dichiarazione più importante di Santo La Causa, ex esponente del clan etneo Santapaola, resta questa: aver dato un nome e un volto – ancora da confermare – al presunto capo della storica famiglia catanese di Cosa nostra.
Enzo, figlio di Nitto Santapaola, un ruolo tramandato di padre in figlio ma con maggiore discrezione rispetto al passato. «Era coperto dal resto dell'associazione, in pochi sapevamo della sua posizione. Lui ci metteva la faccia solo quando era necessaria una conferma», racconta La Causa nelle sue lunghe deposizioni durante la seconda stagione del rito ordinario del processo Iblis in corso a Catania. Un'indagine sulle presunte collusioni tra mafia, politica e imprenditoria in città e nella provincia. Un unico filone da cui si sono ormai staccati una decina di processi, tra cui quelli che coinvolgono l'ex governatore siciliano Raffaele Lombardo e il fratello Angelo, deputato nazionale Mpa, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma, alla ripresa post estiva delle udienze, il vero protagonista è lui: Santo La Causa, considerato dai magistrati uno dei reggenti del clan etneo fino al suo arresto nel 2009, collaboratore di giustizia dall'aprile 2012. Due obiettivi comuni In aula, collegato in videoconferenza da un sito riservato dove si trova agli arresti domiciliari, La Causa racconta di una famiglia, il clan Santapaola, litigiosa e con un prestigio ai suoi minimi storici. «Dalle riunioni con i Lo Piccolo di Palermo erano emersi due obiettivi comuni: rimettere in sesto Cosa nostra nelle varie province in Sicilia e gli appalti, la gestione dell’edilizia pubblica». Per raggiun-
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gerli, racconta il collaboratore, Vincenzo Santapaola stava cercando di riportare l’ordine tra i suoi stessi affiliati e rendere più efficiente e organizzato il sistema della bacinella: il fondo cassa comune alimentato dalle estorsioni alle imprese. “Tutti dovevano pagare” Le riunioni si svolgevano sempre in posti diversi: case procurate da persone vicine all’organizzazione, ristoranti, campagne, capannoni alla zona industriale. Quasi mai sempre gli stessi, perché il caso è sempre dietro l'angolo. Capita di trovarsi al ristorante, nel tavolo accanto, le forze dell’ordine. O di accorgersi, con un sofisticato e nuovo sistema di rilevamento, della presenza di microspie. Com'è successo a casa del geologo Giovanni Barbagallo, uomo d'onore secondo i pentiti e condannato nel rito abbreviato di Iblis a nove anni e quattro mesi di carcere: «Il gruppo ristretto si vedeva spesso lì. Enzo Aiello (tra i vertici del clan ndr) ci andava anche a dormire quando a Catania c’era un po’ di maretta». Stabilito il piano, si passava al contatto con gli imprenditori. Non imposta se amici o membri stessi di Cosa nostra, «chiunque avesse per le mani un affare, doveva pagare. Magari di meno, ma tutti dovevano contribuire alla bacinella». E non con una cifra a caso: almeno cinquemila euro. Con meno, si rischiava di far fare brutta figura all'intermediario.
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“Quando per mezza parola ci si ritrovava incaprettati nel cofano di una macchina...”
«Cu cuali facci mi ci appresento ro ziu (Nitto Santapaola ndr) cu 1500 euro? Chi stamu cugghiendo l’elemosina?», racconta La Causa di aver sentito dire a un affiliato. Per andare incontro all'imprenditore però, «per far calare meglio il regalo, venivano promessi diversi appalti». Com'è successo all'imprenditore Francesco Pesce, anche lui imputato nel processo, con il centro commerciale etneo Tenutella, poi mai costruito. Ma se l'organizzazione dello speciale fondo-bacinella procedeva con pochi intoppi, a impensierire di più Enzo Santapaola era l'altro obiettivo: riportare l'ordine nella famiglia. Litigi, egoismi e manie di protagonismo ad opera soprattutto di Angelo Santapaola, secondo il capo di Cosa nostra etnea. Pur sempre un parente, cugino del padre Nitto, ma troppo indisciplinato. Uno che, ancora prima di essere affiliato, già faceva di testa sua e non portava nemmeno i soldi alla bacinella, tenendoli per sé. «Fino a quando Vincenzo Santapaola non ci disse “Sapete cosa dovete fare”», racconta La Causa. Ucciderlo, insieme al suo fedelissimo Nicola Sedici, nel settembre del 2007 in un macello in disuso alla zona industriale etnea. «Dopo abbia-
mo dovuto tranquillizzare i gruppi vicini ad Angelo Santapaola, come quello di Picanello, che temevano di fare la stessa fine», continua il collaboratore. A rassicurare tutti, bastò la presenza di Vincenzo Santapaola: «”Non c’era bisogno che ti scomodavi a venire di persona”, gli dissero». L'omicidio sarà uno degli ultimi ordini importati eseguiti da La Causa prima della scelta definitiva del pentimento. Uno tra i «quattro, cinque o sei, non ricordo» omicidi ammessi dal collaboratore. «Da tempo ero insoddisfatto, ma sapevo che tagliare con quel tipo di vita è possibile solo da morti. E forse è una liberazione», racconta. Eppure, durante una carcerazione proprio insieme ad Enzo Santapaola, La Causa ci aveva provato a chiedere il pensionamento. «La sua riposta fu “Ti do la mia benedizione” e io gli credetti. Fui contento, ma non era vero». Una richiesta inusuale, frutto anche della confidenza tra i due. La Causa e Santapaola jr si incontrano per la prima volta in carcere, proprio a Biccoca dove oggi si svolge il processo, ma negli anni ’90. Condividono la permanenza anche in altri istituti, come l’Asinara, L’Aquila
Sebastiano Gulisano Frammenti d'Italia “Le mafie – non più e non solo quelle italiane, ma anche tante straniere – si sono insediate su tutto il territorio nazionale, controllano ampie fette di economia legale, “pesano” sul Pil più della Fiat e sono le sole a possedere enormi liquidità di denaro”
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e Parma. Entrambi al 41 bis, ma capaci di comunicare. «Enzo Santapaola aveva il suo metodo – spiega il pentito – Si faceva recapitare i bigliettini cuciti nelle maniche degli accappatoi». Non solo messaggi, ordini e contatti con l'esterno. A Parma, i due si ritrovano proprio in due celle l'una di fronte all'altra. «E ogni tanto Enzo mi tirava attraverso le sbarre dei pacchettini con i dolcetti fatti da lui». Ma anche la spesa necessaria a cucinare gli arancini, «quelli catanesi che so fare io», dice La Causa. Scene di vita quotidiana che non impedisco al collaboratore di fare la sua scelta. «Perché mi sono pentito? Ero insoddisfatto, alla mia famiglia dovevo un cambiamento di vita. E questo purtroppo era l’unico modo. Cioè, purtroppo…». Eppure lui, tra tutti i pentiti della famiglia Santapaola, è l'unico a indicare il figlio di Nitto come il capo, contestano i legali della difesa. La risposta di La Causa è secca, come accade di rado nei suoi racconti: «Gli associati si ricordano ancora di quando per mezza parola ci si ritrovava incaprettati nel cofano di una macchina. Certo, allora Enzo Santapaola era un bambino. Ma oggi è il capo e sempre Santapaola fa di cognome». Una serie di istantanee di pezzi di Paese, fino a ricomporne l’insieme, attraverso sedici testi più una notizia d’agenzia (con l’aggiunta delle “note”, cioè dei link di approfondimento che ne fanno un prodotto multimediale), dalle stragi del ’92 ai giorni nostri, facendo intravvedere come la Repubblica che verrà sia pericolosamente vicina a diventare Repubblica criminale”.
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Giustizia/ L'affaire Cassata
Una toga color nero-corvo Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana viene condannato un Procuratore generale di Carmelo Catania
«La Magistratura barcellonese/ messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario.»
Con queste parole, scritte prima di suicidarsi il 2 ottobre 2008, Adolfo Parmaliana – cinquantenne professore di chimica dell’Università di Messina – lasciava il suo testamento morale, il suo “j’accuse” nei confronti di alcuni giudici barcellonesi e messinesi «così celeri nel rinviarlo a giudizio – diceva il suo legale e amico Fabio Repici pochi giorni dopo la tragica scomparsa – ma non altrettanto tempestivi» nel dar seguito alle sue pubbliche denunce delle connivenze tra mafia, politica, massoneria e ambienti giudiziari nella zona tirrenica di quella provincia che “babba” ormai non sembra proprio più. Già, perché Parmaliana non era soltanto uno stimato docente e scienziato. Per anni era stato anche segretario della sezione dei Democratici di sinistra a Terme Vigliatore – dove abitava – e nel 2005, con i suoi esposti sul Piano regolatore, sull’abusivismo edilizio, su certe transazioni fatte dai politici del suo paese, contribuì allo scioglimento per infiltrazione mafiosa del consiglio comunale della stessa Terme Vigliatore. Quel professore che non scendeva a compromessi finì con l’essere emarginato anche all’interno della sua parte politica. Al suo fianco era rimasto solo l’amico Beppe Lumia, tra i pochi – insieme a Claudio Fava e Sonia Alfano – a difenderne la memoria dopo la scomparsa. Nel settembre 2009, a quasi un anno dalla morte, una rabbia vendicativa, evidentemente scatenata da quell’ultima, drammatica denuncia, partoriva un dos-
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sier anonimo con cui si cercava di screditare la memoria di Parmaliana, mettendo in dubbio moralità e qualità professionali del professore. Un libro scomodo Il dossier veniva inviato a numerosi destinatari, tra cui lo stesso senatore Lumia e lo scrittore e giornalista Alfio Caruso, a poche settimane dall’ uscita del suo libro Io che da morto vi parlo (Longanesi, novembre 2009), il racconto dettagliato delle battaglie spesso solitarie, delle sconfitte, delle nefandezze compiute ai danni di Parmaliana, fino alla sua morte. Come accerterà in seguito la magistratura di Reggio Calabria, una delle finalità del dossier anonimo era proprio quella di ostacolare la pubblicazione del libro di Caruso. La famiglia Parmaliana sporge denuncia contro ignoti, evidenziando la circostanza che allo scritto anonimo era stata allegata una sentenza della Cassazione inviata da una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto alla segreteria personale del procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata, cioè il magistrato sul quale Parmaliana aveva presentato – nel dicembre del 2001 – una nota al Consiglio superiore della magistratura, e che sarà sentito – nel marzo del 2002 – dall’organo di autogoverno dei giudici nell’ambito di un procedimento per incompatibilità ambientale poi archiviato – a cui fa riferimento il memoriale lasciato al fratello prima di suicidarsi.
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SCHEDA IL MAGISTRATO ANTONIO FRANCO CASSATA
Il “dossier Parmaliana” La Procura di Reggio Calabria avvia le indagini e il 17 novembre 2010 il sostituto procuratore reggino Federico Perrone Capano – accompagnato dal capitano del Ros Leandro Piccoli – si reca negli uffici della Procura generale di Messina per interrogare i cancellieri in servizio in quell’ufficio. Il Procuratore generale Cassata fu molto ospitale con il suo giovane collega e l’ufficiale dell’Arma tanto da mettere a disposizione il suo ufficio per l’audizione dei testimoni. Durante la verbalizzazione delle dichiarazioni dell’ultima teste, Angelica Rosso, il capitano Piccoli nota in una vetrinetta una carpetta con un’annotazione manoscritta: “copie esposto Parmaliana”; appena più giù, la dicitura, sempre manoscritta, “da spedire”. Perrone Capano allora telefona al suo superiore Giuseppe Pignatone per riferirgli di quanto aveva visto. Pignatone telefona a sua volta a Cassata per spiegargli la necessità di procedere al sequestro. Quattro copie dell'anonimo La carpetta conteneva quattro copie del dossier anonimo – senza il timbro dell’ufficio con il numero di protocollo – e su due di queste erano attaccati due post-it con su scritto “Procura ME” e “Procura Reggio C.”. La Procura di Reggio Calabria iscrive Cassata nel registro
degli indagati e, emerse le responsabilità del procuratore generale, lo rinvia a giudizio il 3 dicembre 2011 per diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta. Una condanna storica Dopo quasi un anno di udienze – la prima si tenne il 6 febbraio 2012 – il 24 gennaio scorso Cassata è stato condannato: ad un’ammenda di 800 euro – il pm aveva chiesto una condanna a tre mesi – e al risarcimento alla famiglia da stabilire in sede civile, certo. Una sentenza di primo grado e che potrebbe essere ribaltata in appello, certo. Ma comunque una sentenza storica. Il magistrato più potente del distretto giudiziario di Messina degli ultimi decenni è stato condannato. Un altro giudice – pur concedendo all’imputato le attenuanti generiche – ha ritenuto sussistenti a suo carico le circostanze aggravanti dei “motivi abietti di vendetta” rispetto a quell’ultima lettera lasciata da Adolfo Parmaliana. Il sabato successivo – 26 gennaio – si è tenuta a Messina la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario con una sedia vuota, quella di Cassata – unico procuratore generale in carica con una condanna sulle spalle –, sulla cui trentennale carriera di ombre mai chiarite è forse calato il sipario.
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Antonio Franco Cassata – originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), dove gode di rilevante influenza sociale – è entrato in magistratura trentotto anni fa. Dagli inizi come pretore di Avola fino all’incarico di giudice istruttore al Tribunale di Patti e poi, nel 1985, l’approdo alla prima sezione penale del Tribunale di Messina, nel 1989 Cassata ha raggiunto la Procura Generale, dove ha prestato servizio con funzioni di sostituto fino alla nomina a Procuratore generale il 29 luglio 2008 al posto di Ennio D’Amico. Il suo nome compare nell’informativa dei carabinieri Tsunami del 2005: il magistrato sarebbe intervenuto più volte per bloccare le indagini dell’Arma, ed è stato al centro di diverse interrogazioni parlamentari presentate dal senatore Lumia e dall’onorevole Di Pietro per via delle sue discutibili frequentazioni, anche all’interno del circolo barcellonese Corda Fratres, (l’associazione della quale hanno fatto parte anche Pino Gullotti, boss della famiglia mafiosa barcellonese e l’enigmatico Saro Cattafi – ritenuto dagli inquirenti esponente di vertice dello stesso sodalizio criminale) e quindi per l’«incompatibilità» e l’«inopportunità» della sua nomina Procuratore generale. Già nove anni fa il Csm aveva archiviato una procedura di incompatibilità ambientale nei confronti di Cassata, ritenendo insussistente l’accusa di frequentazioni con personaggi mafiosi che gli era stata rivolta in alcuni esposti. Cassata ha sempre risposto alle accuse dicendo che gli organismi disciplinari «hanno ritenuto del tutto doveroso e irreprensibile» il suo comportamento, ribadendo, riguardo alla sua appartenenza alla Corda Fratres, di non aver mai frequentato il Cattafi. Il 7 febbraio la Prima Commissione del Csm ha chiuso la procedura per incompatibilità che aveva avviato a suo carico, con il deposito degli atti e adesso dovrà decidere se chiedere al plenum il trasferimento del magistrato o l’archiviazione. L’iniziativa sarebbe legata a un presunto “interessamento” del Pg a un’indagine su truffe assicurative a carico del figlio, da parte della procura di Barcellona Pozzo di Gotto. Resta ancora aperto un altro filone che riguarda l’eventuale incompatibilità ambientale di Cassata con il figlio, che esercita la professione di avvocato nello stesso ambito giudiziario del padre.
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Inter viste/ Gianluca Manca
“Sulla morte di Attilio silenzio istituzionale” Il giovane medico “suicidato” nel 2004 di Norma Ferrara www.liberainformazione.org E’ tutto fermo. A nove anni dalla morte del medico Attilio Manca, giovane urologo originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) trovato senza vita nella sua casa di Viterbo il 12 febbraio del 2004, nessuna novità sul fronte giudiziario su questo “strano suicidio” che ha dietro l’ombra della mafia. Mentre l’inchiesta è ferma sull’ipotesi di un suicidio i familiari e l’avvocato Fabio Repici, in questi anni di indagini, hanno trovato numerose tracce che portano dalla morte di Attilio alla latitanza di Bernardo Provenzano. Il giovane medico potrebbe essere stato l’urologo che ha operato, a Marsiglia, il boss di Cosa nostra, in quegli anni sostenuto da una rete di fiancheggiatori e coperture che attraversano le vicende della cosiddetta “trattativa mafia – Stato”. - Nove anni senza Attilio e una giustizia lenta: a che punto sono le indagini sulla morte di suo fratello? - Tanti anni dalla morte di Attilio e nessuna novità sulle indagini, ferme sempre alla richiesta di archiviazione del caso, come suicidio, presentata dai magistrati di Viterbo, cui ci siamo opposti il 15 ottobre scorso. Adesso la decisione è al Gip. Attendiamo da quattro mesi ma già in passato i tempi sono arrivati anche ad un anno. - Quali sono gli elementi principali che portano i magistrati a chiedere di archiviare questo caso come suicidio? - L’elemento centrale che motiva questa richiesta di archiviazione è la mancanza di impronte sulle siringhe che sarebbero state utilizzate per iniettare la dose letale che avrebbe ucciso Attilio. I pm sostengono che il tipo di siringhe usato, per intenderci quelle usate per l'insulina, siano così piccole da non permettere la rilevazione di elementi utili all’identificazione di im-
pronte. Questo dato però non ha fondamento poiché è dimostrato che è possibile trovarle persino su attrezzi piccoli come un bisturi. Un altro elemento che lascia perplessi è che su una delle due siringhe non sono state trovate tracce di alcun tipo. Risulta priva di qualsiasi impronta, anche minima. Questo ci fa pensare ad un uso di quella siringa con guanti in lattice o ad una “ripulitura” successiva. Quali sono gli elementi che invece avete sottoposto al Gip per opporvi alla richiesta di archiviazione? Sono numerosi poiché in questo suicidio ci sono tantissime che dimostrano il contrario e cioè che si è trattato di un delitto. Dagli elementi d'indagine sulle siringhe sino ai lividi che Attilio presentava sul volto (secondo gli investigatori causate dall’urto con un telecomando che però sostava lontano dal viso del medico, ndr), alle imprecisioni e ai numerosi vuoti dell’inchiesta, sin dall'inizio. Al netto di tutti gli strani comportamenti che hanno caratterizzato la vita di Attilio negli ultimi giorni di vita e le numerose coincidenze con le vicende legate alla latitanza di Provenzano. Attilio, uno dei pochi in Italia a saper operare il tumore alla prostata in laparoscopia, si è recato in Francia nello stesso periodo in cui le indagini oggi collocano l’operazione del boss a Marsiglia. A Servizio Pubblico abbiamo scoperto anche un altro importante dettaglio: Provenzano dopo l’operazione fu latitante proprio a Viterbo per tre mesi, proprio la città in cui viveva ed è morto Attilio. - Perché l’inchiesta non riesce a spiegare queste ed altre strane circostanze legate alla morte di Attilio? - Quello che abbiamo capito sin ad oggi è che ci troviamo di fronte ad un caso direttamente correlato alla latitanza del boss Bernardo Provenzano. Se il boss di Cosa nostra in quel periodo riuscì a muoversi fra la Francia, l’Italia e la Sicilia senza essere scoperto, come dimostrano le inchieste in corso, fu anche per alcune coperture istituzionali. La sensazione che abbiamo come familiari è che sul caso di Attilio sia
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calato un silenzio istituzionale, di Stato. Non sarebbe la prima volta. Altri delitti, penso a quello del poliziotto Agostino e della moglie, sono avvolti in un fitto mistero di Stato e non hanno dopo tanti anni una verità ufficiale. - In questi anni oltre al dolore avete dovuto fare i conti con l’isolamento sul territorio in cui vivete, è ancora così? - No. Nonostante il dolore per questo nono anniversario senza verità e giustizia, devo registrare che almeno il clima, intorno alla mia famiglia e in generale a Barcellona Pozzo di Gotto, è cambiato. Finalmente le persone non hanno timore a dimostrare pubblicamente la propria vicinanza a noi e alla memoria di Attilio. Questo è dovuto soprattutto al nuovo atteg giamento che l’amministrazione comunale, guidata da Maria Teresa Collica, ha dimostrato rispetto alla precedente. La sindaca di Barcellona si è schierata in maniera chiara contro la mafia e le altre forme di illegalità questo ha permesso alla maggioranza dei cittadini di prendere coraggio e riuscire ad esporsi in pubblico. Sentiamo vicina la parte perbene della città, sappiamo adesso di non essere soli. Anche qui. - E’ un periodo di transizione per la città, molti boss sono in carcere, ci sono stati i primi collaboratori di giustizia e tre omicidi negli ultimi mesi… - Si è una fase nuova ma al tempo stesso delicata. La presa di posizione chiara del sindaco favorisce una nuova partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini ma gli arresti e il nuovo quadro investigativo ha messo in luce una “faida” che ha portato a tre omicidi negli ultimi mesi. Io credo che ci sia ancora molto da fare soprattutto per colpire contiguità e connivenze. Per esempio, da poco un procuratore generale di Messina, Franco Cassata, da anni al centro di polemiche, è stato condannato per aver diffamato il professore suicida, Adolfo Parmaliana, eppure è rimasto al proprio posto. Questi sono segnali che non aiutano, vorremmo che si cominci a fare chiarezza su tutto quello che è stato in questi decenni il sistema locale di potere e complicità.
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Memoria
“Se non lavoro non ho dignità” Ricordo di Giuseppe Burgarella di Domenico Stimolo
Era un gran bel pezzo d’uomo Giuseppe Burgarella. A vedere la sua foto colpisce subito il volto aperto, lo sguardo fiero, limpido e sincero. Di combattente civile, pervaso dalle fatiche accumulate. Un viso “antico”, di manovratore di mani nel lavoro, guidate dall’arguzia dell’intelletto. A scorrere l’album del tempo molti identici tratti si ravvisano in altri visi che hanno caratterizzato tanti luoghi simboli della Sicilia, e di tant’ altri siti universali. Del contadino che, sfidando l’ira padronale e dello stato, occupò le terre abbandonate ed incolte dei feudi, in tanti uccisi dalla mafia per lavare l’onta perpetrata. Dell’operaio, delle ferriere, dei cantieri, delle nuove fabbriche ( oggi sparite) che, riballatosi alla frusta del più bieco sfruttamento, si organizzarono per fare comune fronte.
Dei minatori, delle miniere di zolfo ormai scomparse, che pativano a mille metri di profondità, assieme agli infanti che venivano utilizzati per infiltrassi negli anfratti più stretti e bui. Degli uomini utilizzati a costruire i nuovi palazzi, specie nelle fasi dei grandi sacchi dell’edilizia isolana; issati, sui ponteggi, a grandi altezze senza sostegni, sfidando le leggi della gravità. Gli uomini dei treni, le enormi torme dei migranti che, per sfuggire alla fame e alla disperazione, abbandonavano famiglie ed affetti per andare in terre assai lontane. Sempre più a nord. Le donne piangevano, si strappavano i capelli, poi si rassegnavano, rinchiudendosi nel dolore di sempre. Richiedevano tutti pane, lavoro, diritti e libertà. Pane, lavoro, diritti e libertà Oggi nell’isola la disoccupazione è molto alta, quasi stratosferica. I giovani, come già avvenne allora, partono di nuovo, a frotte. La povertà e le sofferenze prevalgono. Ognuno vive isolato la sofferenza e la sua fame. Le lotte, ormai poche e disarticolate, sbattono contro un enorme muro. Sopra, assiso a gambe larghe, sghignazza l’indifferenza del riccastro e dei laidi manovratori. Se va bene, il licenziato, il disoccupato, si prende il limitato soldo dell’assistenza statale, poi scatta la totale disperazione. Giuseppe Burgarella – muratore e marmista fin dalla giovane età, 61 anni, di-
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soccupato da tempo - impiccatosi alcuni giorni addietro, distrutto dal dolore d’essere “ cancellato” dalla società, impegnato nella Cgil e quindi ancor più cosciente, nel suo atto estremo, li rappresenta tutti. Ha lasciato scritto: “Se non lavoro non ho più dignità”: la dignità dell’onesto, riguardoso degli altri e degli ultimi senza confine, del lavoratore cosciente di confidare nella sua perizia e nel suo impegno, della scala dei diritti e dei doveri, rispettoso dei principi della legalità e della democrazia, dei valori della Costituzione, duramente conquistati. Umiliato, nella sua essenza di essere umano, dalle destrezze dei rapaci che hanno fatto piombare il Paese e tanti cittadini nel tetro dell’angoscia, privandoli del minimo essenziale per la sopravvivenza. Dentro una copia della Costituzione Aveva ben chiaro il grave tradimento perpetrato a danno della Costituzione, e di tanti italiani. Dell’art. 1, in specie, ove si sancisce che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. A fianco al suo corpo ha lasciato un foglio. Trascritto un lungo elenco. I nominativi dei senza speranza, privi di lavoro, sacrificatosi togliendosi la vita, negli ultimi due anni. Il foglio era deposto dentro una copia della Costituzione.
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Milano
Un Maglio nella coscienza dei bocconiani Qualcosa di insolito anima la via dell’Università più chiacchierata degli ultimi 15 mesi. Il Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, è in via Bocconi... di Irene Costantino
Intorno a lui una piccola folla di persone, una statua coperta, qualche ragazzo che assiste curioso. Telecamere, flash, il Rettore. Un’aria diversa si respira in questa via. Sarà perché molti tra i presenti hanno vissuto insieme l’esperienza dei moti studenteschi degli anni ’70. Perché hanno condiviso il dolore della perdita di un amico, di un fratello, di un figlio. Ricorre il quarantesimo anniversario della morte di Roberto Franceschi, bocconiano che in questo luogo fu raggiunto al capo da un proiettile impunito. La fondazione in suo onore opera, da allora, perché la morte e i valori di Roberto non siano motivo di mera commemorazione. Lo dice la madre, Lydia. Suo figlio è il simbolo di “un’ingiustizia che diventa,
Scheda ROBERTO FRANCESCHI, RAGAZZO La vita: Roberto Franceschi nasce a Milano il 23 luglio 1952 da Lydia e Mario, entrambi appartenenti a famiglie della media borghesia. Vive due anni in Sicilia, ma torna a Milano per completare gli studi liceali presso il Liceo Scientifico Statale "Vittorio Veneto", conseguendo il diploma di maturità con il massimo dei voti. Già negli anni del liceo si avvicina politicamente al Movimento Studentesco. Si iscrive alla facoltà di Economia politica presso l'Università "Luigi Bocconi", in cui diventa uno dei leader del movimento studentesco. Si opponeva all’idea che l’impegno politico potesse sopperire allo studio perché credeva che l'essere dalla parte degli sfruttati significa mettere a loro disposizione il meglio della ricerca scientifica. Il 23 gennaio 1973 avrebbe dovuto svolgersi un'assemblea del Movimento Studentesco, presso l'Università Commerciale Luigi Bocconi. Il Rettore dell'Università ordinò, contrariamente a quanto fino ad allora accaduto, che avrebbero potuto accedere solo studenti della Bocconi. Lavoratori e studenti delle altre università
per i milanesi, sorgente di speranza e di impegno”. Si racconta di un Movimento Studentesco forte che univa gli studenti di tutte le università milanesi e gli operai. Insieme volevano fare assemblea: un modo per confrontarsi, conoscere le esperienze di disagio, cercare una sintesi in questa strana e frammentaria corsa, per non correrla da soli. Il Maglio, commissionato dal Movimento Studentesco in memoria di Roberto, sorge nel luogo dell’omicidio dal 1977 ed oggi viene donato alla città di Milano. La dedica iscritta sul Maglio risuona forte in questa via: “A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella nuova resistenza dal ‘45 a oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”.
sarebbero rimasti, quindi, esclusi, contrariamente a quanto fino ad allora accaduto. Il Movimento Studentesco si oppose a questa decisione, e il Rettore informò la polizia, che intervenne con un reparto della celere, che si scontrò con gli studenti e i lavoratori. Mentre questi si allontanavano, poliziotti e funzionari spararono ad altezza d’uomo. Colpirono al capo lo studente Roberto Franceschi, che morì dopo una settimana di coma il 30 gennaio 1973. L’operaio Roberto Piacentini rimase invece gravemente ferito. Il monumento: Il Maglio è una scultura di sette metri d’acciaio, creato dalla collaborazione di diversi artisti, sotto la guida del designer Enzo Mari. È stato realizzato nel 1977 su commissione del Movimento Studentesco. La Fondazione Franceschi l’ha donato alla città di Milano, in occasione del quarantesimo anniversario dell’omicidio. La Fondazione Franceschi: nasce nel 1996, per ricordare Roberto. Svolge attività nel settore della ricerca scientifica di particolare interesse sociale. Promuove studi, ricerche, eroga borse di studio e premi di laurea a studenti universitari meritevoli i cui studi contribuiscano all'attività di ricerca scientifica della Fondazione.
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“La ricerca scientifica dev'essere messa a disposizione dei più deboli, degli sfruttati” Chissà quanti, nelle generazioni che si sono succedute, si sono imbattuti in queste parole. Chissà se ci hanno mai riflettuto sopra, se le hanno trovate insignificanti, o se invece qualcuno è riuscito a coglierne l’afflato ideale, a non trovarlo inconciliabile con la sua posizione proprio in questa via. Noi bocconiani In due occasioni, da quando sono una studentessa bocconiana, la nostra università è stata sede di protesta dei movimenti studenteschi esterni. Eravamo noi l’oggetto della protesta, noi servi del sistema, noi lobby, noi privilegiati che non soffriamo la crisi da noi creata. Noi, che nella nostra storia abbiamo avuto Roberto Franceschi. Quei ragazzi erano testimonianza di un forte disagio che pervade la nostra generazione, che nella perfezione della macchina bocconiana si vive poco. E se hanno trovato nella nostra casa il luogo del conflitto, il problema, pure in forma diversa, esiste. Mi sono chiesta se abbiamo avuto la colpa di esserci adagiati nell’etichetta dei
“privilegiati” che frequentano l’università privata e non subiscono la crisi, o se a questa rappresentazione falsata non siamo stati in grado di opporci. Che fine avevano fatto le lotte di Roberto, che eredità eravamo stati capaci di raccogliere? Ho temuto che con lui e con il Movimento Studentesco si fosse esaurita la capacità e la voglia di avanzare istanze solidaristiche. Ma questa ricostruzione non rende onore a una realtà: quella di tanti bocconiani, di sinistra e profondamente solidali, che non si riconoscono nelle etichette precostituite. Diritti che oggi paiono scontati La commemorazione di Roberto mostra che la mia Università è stata altro, e può continuare ad esserlo. È stata partecipe delle discussioni interuniversitarie, quando gli studenti conquistavano pezzo
per pezzo diritti che oggi paiono scontati, ma che scontati non lo erano affatto. Nelle parole del Rettore, che ha definito Roberto un “autentico bocconiano”, ma soprattutto nella partecipazione di tanti studenti alla commemorazione, mi convinco del fatto che è possibile rimanere sensibili anche nelle palestre considerate privilegiate della formazione. E questo vuol dire superare le barriere dell’individualismo, vuol dire che la solidarietà è un valore che travolge e appassiona. La solidarietà non è morta Non è morta negli anni ’70, non siamo diventati impermeabili al disagio sociale. Noi studenti tutti, non solo bocconiani, ci sentiremo tali nella memoria di Roberto. Nella sua convinzione che la ricerca scientifica deve essere messa a disposizione dei più deboli, degli sfruttati. Non solo del nostro egoista, singolo interesse.
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Addio “onorevole” Cosentino
Il tramonto di Nick 'o mericano Neanche Berlusconi ha il coraggio di candidarlo più di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it
Contrariamente alle previsioni della vigilia l'onorevole Nicola Cosentino, già sottosegretario all'Economia con Giulio Tremonti nell'ultimo governo Berlusconi con in mano una delega pesante, il Cipe; ex potente coordinatore regionale del Pdl in Campania e parlamentare della repubblica dal 1996, non è stato candidato alle elezioni del 24 e del 25 febbraio 2013. Bollato come impresentabile è stato escluso dalla competizione elettorale per garantire liste pulite. E' l'epilogo. E' la parabola di una storia politica cominciata il 15 maggio di 34 anni prima a Casal di Principe. Scandita a partire dal 2006 dai fasti elettorali di due elezioni politiche e quattro amministrative stravinte contro ogni previsione, e un incarico di prestigio di Governo. Ma anche macchiata dalle dichiarazioni di una dozzina di camorristi pentiti e da due richieste di arresto per contiguità con i clan dei Casalesi puntualmente non autorizzate dalla Camera dei Deputati e sfociate in due processi in corso. La storia è quella di Nick o' mericano e del “Cosentinismo”, fenomeno speculare al “Berlusconismo”. Paradigmi dello stesso potere per il potere in questi anni tormentati. I numeri rendono più chiaro il racconto. Cosentino in Campania ha rappresentato il forziere elettorale del centro destra italiano.
Nick o' mericano nel suo ruolo di coordinatore del Pdl in Campania ha costruito un'armata invincibile e consegnato a Berlusconi oltre un milione e 600mila voti di preferenze – poco meno del 12 per cento del bottino nazionale – eleggendo 34 deputati e 18 senatori. Per non parlare della sua famiglia che a Casal di Principe, infatti, è come dire Moratti a Milano. Non per i fasti sportivi ma per l'interesse di entrambe le famiglie nelle attività petrolifere ed energetiche. Non è solo l'uscita di scena di un mammasantissimo ma è la fine di un impressionante sistema di potere. I soli ricandidati o meglio superstiti a questa tornata elettorale della pattuglia di fedelissimi di Nick 'o mericano sono stati Giovanna Petrenga, Vincenzo d'Anna e al Senato Carlo Sarro. Stop. Nei fatti è stato smantellato il sistema “Cosentino”. Un violento regolamento di conti Una botta pazzesca. Un violento regolamento di conti. Silvio Berlusconi è stato costretto a metterlo fuori. Ma Nicola Cosentino non è il tipo che incassa e basta. L'ex coordinatore del Pdl campano ha tanto da dire e state sicuri che prima o poi comincerà a vuotare il sacco e togliersi i sassolini dalle scarpe. Sulla direttrice Caserta - Napoli - Roma si sono vissuti momenti di forte fibrillazione con l'ex premier attaccato al telefono nel dissuadere l'ex sottosegretario a non fare pazzie e nel non sparare nel mucchio. Ma qualche segnale in tal senso non è mancato. E' un gioco di ricatti e controricatti, promesse e ricerca di protezione. Ora però il pensiero di Nick 'o mericano è non finire dietro le sbarre. Quando decadrà l'immunità parlamentare, finirà anche la sua impunità che complice il Parlamento è riuscito a bloccare due autorizzazioni all'arresto. E' imputato davanti ai giudici in due processi per camorra e le esigenze cautelari non sono mai cessate. Anzi riba-
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dite in venti pagine da un’ordinanza depositata il 21 dicembre del 2012 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli Eduardo De Gregorio chiamato a pronunciarsi dai legali del deputato. Quadro che si sta ulteriormente complicando nel corso delle udienze al Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere dove stanno emergendo accuse circostanziate e precise che sembrano non dargli scampoS'intravedono i contorni inquietanti di quel potere per il potere che l'onorevole e i suoi uomini hanno costruito negli anni in Campania. Un trasversalismo consociativo che è stato il vestito della cosiddetta seconda Repubblica ed ha preso forma nel “Cosentinismo”. Chi del suo entourage è riuscito a chiacchierare con lui giura di averlo visto furente non appena si sussurra il nome del suo collega di partito e “compare” Luigi Cesaro noto come Giggino a' purpetta che nonostante il criterio dell' impresentabilità è stato ricandidato a sorpresa alla Camera dei deputati. Forse i vertici del Pdl non hanno resistito alle mozzarelle di bufala che Giggino è noto portare in dono all'ex premier alle riunioni nazionali a palazzo Grazioli Non è casuale che - in questi giorni dall'armadio sia uscito fuori lo scheletro dell'amicizia tra il padrino Raffaele Cutolo - 'o professor - e l'onorevole Giggino a' purpetta che ai tempi della Nco (nuova camorra organizzata) gli faceva da avvocatuccio e da autista per difendere gli interessi della sua famiglia per non essere taglieggiato. La guerra è guerra e va combattuta con ogni mezzo. Ne vedremo delle belle. E se il prossimo mese si spalancherà il portone del carcere di Poggioreale allora non ci saranno più telefonate e rassicurazioni che tengono: comincerà il festival delle vendette e delle ripicche a suon di dichiarazioni e racconti di venti anni di potere berlusconiano.
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Caserta
Nel feudo degli amici di Cosentino Contestazione antiZinzi: un tutore dell’ordine in borghese voleva manganellare giovani inermi – ma i suoi colleghi non gli hanno dato retta di Rosa Parchi pignataronews.myblog.it
Pignataro Maggiore (Caserta). Tra gli appartenenti alle forze dell'ordine in servizio durante la visita di Giampiero Zinzi a Pignataro Maggiore, il 14 febbraio, c'era qualcuno che aveva tanta voglia di menare le mani, anzi di assestare manganellate sulla testa dei giovani che avevano aderito all'invito del centro sociale “Tempo rosso” per contestare la famiglia dell'Udc che vorrebbe imporre ai cittadini di Capua e della zona un disastroso eco-mostro noto con il nome di “gassificatore”.
Il miracolato Gianpiero Zinzi, candidato alla Camera dei deputati (figlio del presidente dell'Amministrazione provinciale, il molto onorevole Domenico Zinzi), era appena arrivato in piazza Umberto I ed era entrato nella sede dell'Udc (nella foto, il comandante della Stazione carabinieri di Pignataro Maggiore, maresciallo Antonio di Siena), accolto da pochi intimi, non tutti pignataresi, quando un appartenente alle forze dell'ordine, in borghese ma con un manganello sotto il giubbino, ha tentato di convincere i suoi colleghi a sferrare, tanto per cominciare, quella che ha definito una “carica di alleggerimento”. La centrale di Sparanise Quella assurda “carica di alleggerimento” sarebbe stata una violenza immotivata e inutile, capace di scatenare pesanti conseguenze, tanto più che oggetto della manganellatura sarebbero stati ragazzi e ragazze inermi e in qualche caso giovanissimi. Talmente assurda quella invocata “carica di alleggerimento” che l’aspirante manganellatore, isolato, ha dovuto desistere ben presto perché nessuno dei suoi colleghi gli ha dato retta. Quando qualcuno tenta di innescare situazioni del genere, inevitabilmente si torna con il pensiero al grande affare della centrale termoelettrica di Sparanise, rea-
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lizzata per volontà del molto onorevole Nicola Cosentino che dettava la linea a tutti, ivi comprese certe articolazioni prefettizie, verso le quali poi si rivelerà generosamente riconoscente. E la protesta anticentrale e anti-Cosentino fu stroncata con denunce a raffica ai danni degli ambientalisti (tra cui i giovani del centro sociale “Tempo rosso”) e “cariche di alleggerimento”. A nostro avviso, si è impiegato troppo tempo nelle indagini della magistratura sulla centrale termoelettrica di Sparanise (si attende finalmente la grande retata). Ora, però, si può guadagnare il tempo perduto, accendendo i riflettori, oltre che sulla centrale di Sparanise, contemporaneamente sul dissennato progetto del gassificatore di Capua voluto anche – e con lo zampino di “Nick 'o Mericano”? - da un pupillo del molto onorevole Cosentino, il sindaco capuano Carmine Antropoli. E pare voler tornare in campo, come si è visto, pure qualche paladino delle “cariche di alleggerimento” contro persone inermi. Bisogna sempre fare molta attenzione quando c’è di mezzo il molto onorevole Nicola Cosentino, stavolta con il suo seguace Carmine Antropoli, profeta del gassificatore (in tandem con la famiglia Zinzi: il figlio Gianpiero e il padre “don” Mimì).
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Napoli
I ragazzi ammazzati e quelli dentro il rione xxxxx
Ponticelli. Due morti di camorra a pochi metri dalla nostra scuola di Andrea Bottalico www.napolimonitor.it
Tra San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli, nell'ultimo mese sono state ammazzate quattro persone. Il primo omicidio è avvenuto a San Giovanni il 12 gennaio scorso. Ciro Varrello detto Banana, ventiquattro anni. Nel luogo dell’agguato, non lontano dai laghetti, dal cimitero, dalla caserma dei carabinieri, dal centro Asterix e dalle palazzine del Bronx, c’è una panchina rivolta verso una rotonda. Sulla panchina sono stati appoggiati dei fiori. Dietro la panchina è stato appeso uno striscione: Nell’immensità del cielo ora vive un altro angelo. L’altro agguato a Barra il 23 gennaio, nelle Case gialle di via Mastellone. Ciro Valda, trentaquattro anni. Gli hanno scaricato addosso trenta colpi di pistola. La sera del 29 gennaio, in via Arturo Toscanini a Ponticelli viene ammazzato sotto casa Gennaro Castaldi. Vent’anni. Insieme a lui, Antonio Minichini, diciotto anni, gravemente ferito alla schiena e all’addome. Morirà nella notte dopo un disperato intervento chirurgico all’ospedale Loreto Mare.
La mattina del 30 gennaio, il questore di Napoli vieta i funerali pubblici per Antonio Minichini: «La decisione non è stata presa sulla base della personalità di Antonio Minichini, ma del contesto sociale in cui era inserito. Il ragazzo era nipote di Teresa De Luca Bossa, una delle poche donne detenute in regime di 41 bis. Pur provando profondo dolore per una giovane vita spezzata così presto, ritengo che il divieto sia d’obbligo». Quello stesso giorno nell’aula bunker di Poggioreale era in corso la requisitoria per la strage di San Martino, quando l’11 novembre del 1989, davanti al bar Sayonara di Ponticelli furono ammazzate sei persone, tra cui quattro innocenti. Ventiquattro anni dopo, il Pm D’Onofrio ha chiesto undici ergastoli e sei condanne a vent’anni per diciassette imputati. “Quel clima di odio cieco e violenza” Durante la requisitoria il pubblico ministero è tornato sul duplice omicidio e sulla scelta di vietare i funerali ad Antonio Minichini: «Si rischia di tornare a quel clima di odio cieco e violenza, perdendo tutto ciò che di buono è stato fatto negli ultimi anni. Anni in cui il clan Sarno è stato sconfitto e sradicato dal territorio, molti boss si sono pentiti e la gente ha cominciato a sperare in una vita diversa. Uno stato autorevole deve far sì che le persone si fidino delle istituzioni. Uno stato autorevole deve essere giusto e la decisione di negare i funerali per un ragazzo che veniva da una famiglia di camorristi, ma camorrista non era, è stata percepita nel quartiere come assolutamente ingiusta. In queste ore gli amici di Antonio Minichini, tanti giovanissimi come lui, si sentono lontani dallo stato».
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Palazzine e baracche All’inizio, quando andavo per le prime volte in quella scuola media, mi domandavo il significato della parola affibbiata alla schiera di palazzine che la circondano. Conocal: sarà una delle tante sigle di edilizia popolare, più o meno come la parola Incis o come le lettere accorpate ai numeri dei vari lotti sparsi intorno a quei dedali di stradoni costeggiati dalle sopraelevate della tangenziale, nuclei abitativi messi in piedi intorno alla desolazione, dalle caratteristiche eterogenee, diversi dalle baracche per un solo dettaglio, come diceva qualcuno: le baracche erano orizzontali, le palazzine sono verticali. Alte. I rioni di questo territorio a est di Napoli prima di ogni cosa sono vissuti da persone. Famiglie, donne, uomini, anziani, adolescenti, bambini. Cortili interni, torri, cancellate arrugginite, spazi ampi, isolati solitari, sterpaglie, cemento, amianto e muri pittati. Bisogna andare in fondo a tutto, lungo via Argine. C’è via Virginia Wolf, via Al chiaro di luna, via Il flauto magico. Da via Sambuco appare un murales che ritrae il volto di un calciatore, sembrerebbe Maradona. Periferia della periferia Conocal al di là del suo nome forse significa una cosa sola. Questo rione è stato costruito dopo il terremoto, nell’epoca dell’espansione edilizia legata ai piani di attuazione della legge 219/81, per metterci gli sfollati del centro storico. Costruirono i palazzi e lasciarono che accadesse ciò che è accaduto. Punto. Non è solo l’immagine dell’abbandono, dell’isolamento e dell’emarginazione. Non è neanche l’atmosfera degradante, l’accezione di periferia della periferia o la
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“Vedo scippi, ladri e poliziotti, vedo il fuoco, gli alberi, gli ubriaconi, vedo sempre le stesse cose...”
condizione di cattività in cui vive una parte della popolazione in questo angolo di dormitorio fatiscente al confine della metropoli, non lontano da Volla e da Cercola, ma lontano da tutto il resto. Ciò che infastidisce è l’assuefazione allo squallore, è quando un’alunna di una classe di quella scuola media devastata ti dice che sono gente di munnezza. In quell’affermazione c’è del vero, perché qua la gente è stata trattata come le ecoballe (Carla Melazzini lo spiegò meglio di qualsiasi sociologo). Li hanno ammassati lì e basta Li hanno ammassati lì e basta. Nessun luogo di aggregazione, nessun riferimento, a parte un campetto di calcio vandalizzato, il nulla circostante e un centro commerciale a Volla. Questo posto è controllato dai clan Perrella-CirconeErcolano, fedelissimi, secondo alcuni, ai clan barresi Cuccaro-Aprea, che comandano a Ponticelli, gestendo gli affari illeciti del territorio “in subappalto”. Agli occhi della maggior parte degli abitanti, la percezione dello stato è rappresentata da quattro o cinque istantanee: le sirene e le divise della polizia, i blitz, il carcere, gli arresti domiciliari, qualche iniziativa inconsistente e i politici che in tempo di campagna elettorale vengono a farsi un giro per accaparrarsi un po’ di consenso. Gennaro Castaldi e Antonio Minichini, i due giovani di ventuno e diciott’anni, sono stati uccisi qua, in una strada nei pressi della scuola media. Di conseguenza sono arrivate le telecamere dei tele-
giornali che hanno ripreso e sono andate via, e i posti di blocco dei carabinieri lungo le arterie stradali che da Barra portano a Ponticelli. Lo stato d’allerta si traduce in preoccupazione dissimulata, soprattutto per gli adolescenti che vivono ogni giorno questi spazi desolanti. C’è chi sa bene, tra di loro, che sono saltati gli schemi tra i clan egemoni, le famiglie Cuccaro-Aprea di Barra, e quelle di Ponticelli, i De Luca Bossa-Marfella, che adesso stanno cercando di opporsi al controllo sul territorio conquistato dai barresi nel tempo. Per questo motivo è probabile che ci saranno altri agguati, perché ora «devono vedere chi si deve pigliare Ponticelli», come aveva detto un alunno di sfuggita. “Chi si deve pigliare Ponticelli” L’irruzione in classe della morte di due giovanissimi provoca una moltitudine di reazioni disparate difficili da ascoltare, delicate perché c’è chi si sente coinvolto, investito, chi non ne vuole sapere perché sa già troppo, chi con l’indifferenza e il chiasso nasconde il rifiuto di accettare, chi si stanca di parlare, chi domanda di leggere ad alta voce il pezzo di cronaca sul giornale per trovare conferma di ciò che si mormora da tempo nel rione, chi chiede di parlare d’altro per poi uscire dalla classe, e chi invece è talmente abituato a tutto questo da apparire sfuggevole, consapevole molto più di chiunque altro che non è il primo agguato che fanno e a cui assistono direttamente o indirettamente. E non sarà l’ultimo. E allora da queste parti cresci con una
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convinzione confermata dallo sfacelo che vedi e senti quotidianamente, magari ci ridi sopra, oppure non ci ragioni neanche troppo. Sono convinzioni che difficilmente si comunicano attraverso le parole. Ti senti colpevole di essere nato qua e percepisci il vuoto, finché non ti ritrovi in classe a tredici anni, a tenere conto di questa condanna e a subire un giudizio senza appello. Ecco cosa significa il rione Conocal. Significa «la paura di fare un passo, poi due, poi tre, perché da quando sei nato ti dicono che sei una merda, e alla fine ti ritrovi a crederlo veramente». *** Post Scriptum: Da un esercizio collettivo insieme ai ragazzi della scuola media: “Quando esco di casa vedo le macchine, vedo le mamme che accompagnano i figli a scuola, vedo i papà che mangiano le pizze, vedo i palazzi, vedo merda, vedo spazzatura, vedo scippi, ladri e poliziotti, vedo incidenti, vedo il fuoco, il pastore tedesco che ti da addosso, vedo gli alberi, poi vedo gli ubriaconi con la birra in mano, vedo la gente che fa schifo, vedo persone con il pigiama, vedo sempre le stesse cose, non vedo niente, vedo bianco e nero, vedo le persone che rubano, gli zingari, la pioggia, il sole, le colombe, il merlo, il fruttivendolo, vedo una salita, persone che urlano, vedo mamme che picchiano i figli. Sento i rumori, i clacson, sento i venditori ambulanti, sento le sirene di polizia, carabinieri e ambulanza, sento strilli, schiaffi, sento il motore di una macchina, sento sgommate, sento motori di moto, sento la mamma che mi chiama, sento il gallo, la gallina, il cavallo, sento tanto silenzio, a volte non sento niente…”.
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Abruzzo
Fra inefficienza e business: lo spreco dei rifiuti La gestione pubblica del ciclo dei rifiuti segna il passo, mentre le mafie inseriscono l'ex isola felice nelle reti dei traffici illegali di Alessio Di Florio
Da molto tempo le mafie non sono più solo una struttura “militare”, abituata a marcare il proprio territorio con assassinii e bombe. Come ben sanno i lettori de I Siciliani, le mafie sono ormai soprattutto affarismo, colletti bianchi che dominano tramite intrecci economici e politici di altissimo livello. Nello scorso numero si è cercato di delineare, con una panoramica generale, la penetrazione e il consolidamento delle piovre nel tessuto economico e sociale dell'Abruzzo. In questo articolo ci si concentrerà su un business particolare: quello dei rifiuti. L'ex isola felice vive da moltissimi anni una vera e propria emergenza nella gestione pubblica del ciclo di raccolta e smaltimento dei rifiuti, segnati da inefficienze e gravissimi ritardi. Una situazione che ha permesso il consolidarsi di business privati. Spesso legali. Ma non sempre.
Nelle pieghe delle inefficienze pubbliche, e nel silenzio della classe politica (quando non connivente), l'Abruzzo è diventato infatti uno snodo privilegiato di reti nazionali e internazionali di traffici illeciti di rifiuti. Una vera e propria emergenza L'attuale situazione d'emergenza pubblica è iniziata nelle primissime ore del 17 febbraio 2006 quando l’intera massa dei rifiuti (mc. 450.000), mista a terra e percolato, della discarica “La Torre” (comune di Teramo) scavalca l’argine di contenimento e si riversa nel laghetto sottostante, provocando la fuoriuscita di acqua e percolato verso alcuni affluenti del fiume Vomano, principale corso d’acqua della Provincia di Teramo. La chiusura della discarica "La Torre" costringe l'intera provincia di Teramo (trovatasi improvvisamente senza alcun impianto) a doversi rivolgere alla discarica "Colle Cese di Spoltore". Il risultato è che in pochi anni anche "Colle Cese", nel maggio 2012, è costretta a chiudere anticipatamente le sue attività. Metà territorio regionale (due intere province, ma non solo) sono totalmente sprovviste di discariche e impianti di smaltimento. Tra le due chiusure, succedono vari altri fatti. Il 2009 vedrà la crisi di un altro impianto, costretto anche a chiudere al centro di uno scontro tra la Regione e alcuni Comuni, con la prima che arriva a formalizzare accuse di una gestione irregolare degli impianti, supportata da verbali dell'Agenzia Regionale per la Tutela dell'Ambiente che descrivono persino capannoni con tetti sfondati e percolato tracimante.
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Il 23 settembre 2010 irrompe nella cronaca giudiziaria l’inchiesta “Re Mida” della Procura di Pescara: le indagini portano alla luce una vera e propria rete affaristico-clientelare che girava intorno alla costruzione di un inceneritore nel Teramano e che vede coinvolti parlamentari abruzzesi, assessori regionali e vari altri politici. Coinvolti parlamentari e assessori La cronaca degli ultimi mesi è densa di nuove emergenze, che arrivano addirittura a penalizzare alcuni "Comuni Virtuosi" (ovvero quelli che hanno abbondantemente raggiunto e superato i limiti di legge della percentuale minima di raccolta differenziata) in Provincia di Chieti: ad Ottobre improvvisamente si vedono chiudere, con i camion già carichi, i cancelli dell’impianto del Vastese, dove conferivano la frazione organica, e sono costretti (dopo ore affannose) a conferire persino in impianti in Emilia Romagna, con costi molto più alti. In queste settimane gli stessi Comuni stanno vedendo anche l'impianto del loro territorio (Lanciano) in completa sofferenza, e quindi sono costretti ancora a rivolgersi altrove. E i costi, ovviamente, lievitano. Sempre nei mesi scorsi sono avvenuti altri due episodi clamorosi. Il progetto di ampliamento di un impianto già fortemente in sofferenza è stato rinviato dalla Commissione VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale) con tto prescrizioni tra le motivazioni, quasi un intero nuovo progetto.
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“Coinvolte sessanta ditte di tuttta Italia”
Fra le prescrizioni, è stata richiesta la cartina con indicata la distanza da un fiume, la gestione delle acque piovane, le distanze da altri insediamenti e … “tutta la documentazione progettuale” prevista dal Decreto Legge sulle discariche. Una megamulta dall'Europa Intanto arrivava la notizia che l’Italia rischia una megamulta dall’Unione Europea per 255 discariche illegali (56 milioni di euro e, se non si provvederà, altri 256 mila al giorno) mai bonificate. Subito dopo Campania e Calabria, la terza Regione per numero di discariche (37) è l’Abruzzo, anche a dimostrazione dell'intensa attività delle ecomafie nella Regione. Perché, come già accennato all'inizio dell'articolo, mentre il pubblico arrancava la criminalità organizzata si è inserita prepotentemente. Il Rapporto della Commissione Bilaterale Parlamentare sul ciclo dei rifiuti, sul finire Anni Novanta, concluse che “L’Abruzzo presenta, all’attualità, una particolare appetibilità economica ed è oggetto di attenzione da parte dell’imprenditoria deviata e della criminalità organizzata, che in questo territorio ricercano nuove frontiere per investire il denaro proveniente dalle attività illecite”. Ed infatti molteplici sono state le inchieste della magistratura (e della stampa) su traffici e smaltimenti illeciti. Il giornalista Gianni Lannes denuncia nel novembre 2008 l’aumento record di tumori tra Chieti, Pescara, Tollo, Miglianico e Spoltore, dopo l’arrivo nel 1994 di scorie industriali dal nord. L’inchiesta riporta che nel 1994 Nicola De Nicola, re-
sponsabile legale della Sogeri srl, ha innescato l’intera vicenda sfruttando la fornace Gagliardi in contrada Venna a Tollo. Almeno 30mila tonnellate di rifiuti sepolte in riva al torrente Venna e in due capannoni “aperti alle intemperie e ai visitatori”. Spiccano scarti sanitari, farmaceutici, di industrie chimiche, cadmio, mercurio, cromo esavalente, manganese, alluminio, idrocarburi pesanti. In meno di due anni, dal giugno 1994 al marzo 1996, fu documentata la gestione di centinaia di migliaia di rifiuti speciali, provenienti dal Piemonte e dalla Lombardia, da parte del clan camorristico dei Casalesi. I rifiuti derivano dalla lavorazione di metalli pesanti. Il business dei Casalesi I Casalesi acquistano i rifiuti tramite intermediari e, con documenti falsi, li fanno arrivare in centri di stoccaggio di Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo. Da lì i rifiuti vengono dirottati in aziende e discariche abusive delle provincie di Caserta, Benevento e Salerno. Nel dicembre 1996 viene avviata un’operazione che documenterà un giro di rifiuti speciali e industriali provenienti dalla Lombardia e smaltiti illegalmente nelle cave abbandonate della Marsica. Nel 1998 un’operazione condotta dai Carabinieri e dal Corpo Forestale dello Stato sgomina un’organizzazione che scaricava nella Marsica rifiuti industriali di varia natura. In soli ventitrè giorni erano confluite nella Marsica 440 tonnellate di fanghi provenienti da industrie di Caserta, Napoli, Frosinone, Rieti, Roma, La Spezia e Isernia. In quegli anni l'indagine "Gam-
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bero", su un giro di traffici di rifiuti industriali, coinvolse sessanta ditte di tutta Italia. L'inchiesta del 2002 Nel giugno 2002 un’inchiesta dei carabinieri di Chieti, di Macerata e del reparto territoriale di Castello di Cisterna (Na), porta all’arresto di 5 persone per associazione per delinquere finalizzata allo smaltimento illecito di rifiuti, alla truffa e al falso in bilancio. L’organizzazione simulava lo smaltimento in Abruzzo di 20 mila tonnellate di rifiuti, finite in realtà in discariche abusive in Campania. L’indagine della Procura di Chieti e del NOE di Pescara, denominata “Quattro Mani”, sgomina nel dicembre 2008 un’organizzazione dedita al traffico illecito di rifiuti con base in Abruzzo e diramazione in diverse regioni d’Italia. Centro del traffico illecito, che in due anni aveva smaltito centocvinquantamila tonnellate di rifiuti incassando tre milioni di euro, era un impianto della zona industriale di Chieti Scalo. Veri e propri network mafiosi L'obiettivo di quest'articolo certamente non era quello di riportare un mero elenco di inchieste (negli anni ne ho censite almeno 30, e sicuramente altre mi sono sfuggite), un "libro nero" che vede continuamente la scrittura di nuovi capitoli: ciò che si è cercato di delineare sono le radici dell’attuale emergenza dei rifiuti in Abruzzo e la presenza ramificata e consolidata di veri e propri network mafiosi.
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Messina
“A chi l'Università?” “A noi!” All’Università degli Studi di Messina comandano pure quelli della Brigata Folgore... di Antonio Mazzeo
Autori i sociologi Charlie Barnao e Pietro Saitta che articolano la ricerca sulla base del racconto autobiografico sul servizio di leva che il Barnao stesso svolse dal settembre 1993 al settembre 1994 nella Brigata Paracadutisti Folgore (i primi due mesi nella Caserma addestrativa di Pisa e il restante periodo nel 186° Reggimento di Siena), arricchito da alcuni ritorni sul campo e interviste a testimoni privilegiati tra il 2000 e il 2009. Formare personalità “semi-fasciste”
Anni addietro in tanti ci avevano messo gli artigli: massoni, ‘ndranghetisti e faccendieri, ordinovisti e avanguardisti, procacciatori di voti e clientele, le grandi aziende farmaceutiche e di costruzione, perfino le società arricchitesi con il mito del ponte sullo Stretto. Adesso arrivano pure i vecchi e i nuovi parà a dettar legge, imporre liste di proscrizione contro qualche docente e ordinare il disconoscimento e la rimozione delle ricerche scientifiche sgradite. Casus belli la pubblicazione nel gennaio 2012 nei quaderni del “Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto, dell’Informazione e delle Istituzioni Giuridiche” (CIRSDIG) di un saggio dal titolo Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle forze armate italiane.
La ricerca ha inteso dimostrare come il processo addestrativo che si svolge nel Corpo dei parà sia concepito per formare “personalità autoritarie e semi-apertamente fasciste”. In particolare vengono analizzati rituali, pratiche e meccanismi adattativi tipici dell’organizzazione militare ma anche la modalità di riproduzione ed espansione del background culturale di coloro che transitano poi dalle file dell’esercito a quelle delle forze dell’ordine (polizia, carabinieri, ecc.) interagendo con la popolazione civile sia in scenari di routine (pattugliamento, assistenza, pronto intervento) che di ordine pubblico. Per Barnao e Saitta la professionalizzazione e la sostanziale commistione di ruoli, attitudini, pratiche e ideologie delle forze armate e di polizia rappresentano un grave pericolo per la tenuta della debole democrazia italiana e per i diritti di libertà dei cittadini. “E la Folgore costituisce un modello di riferimento per il dispositivo sicuritario
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nazionale, rivolto al fronte interno come a quello esterno”, spiegano i ricercatori. Le pratiche quotidiane di formazione dei giovani parà, sin dal loro ingresso nell’istituzione, sono segnate da deliberati, ricorrenti e gravi episodi di violenza. “Si inizia con l’azzeramento delle abitudini acquisite, della cancellazione dell’orizzonte valoriale e normativo precedentemente appreso”, scrivono Barnao e Saitta. Lo scenario in caserma è quello magistralmente descritto nel film Full Metal Jacket di Stanley Kubrick: ordini urlati, annullamento di qualunque individualità, azioni imposte dai superiori in modo apparentemente illogico e per ragioni incomprensibili, ecc. “L’appellativo più usato per indicare l’allievo paracadutista è quello di mostro. Si è mostri perché si è vestiti con taglie sbagliate, con baschi troppo grandi o troppo piccoli, con divise che deformano. Si entra in quella terra di nessuno in cui non si è né carne né pesce, né civili né militari, né fanti né paracadutisti”. Annullamento dell'individualità A sancire e rinforzare il passaggio verso lo status di paracadutista c’è un rituale d’eccellenza: si tratta della cosiddetta “pompata”, una serie infinita di piegamenti sulle braccia, eseguita dai giovani su ordine diretto di un superiore. Per forgiare ed esaltare la forza bruta, muscolare, piegandosi con busto e braccia davanti all’autorità assoluta dei capi.
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“Rientrati dalla Somalia raccontavano storie atroci”
Ci sono poi le piccole e grandi tragedie della recente storia d’Italia, a partire dalle missioni di guerra in Corno d’Africa nei primi anni ’90. Il diario rivisitato di Charlie Barnao riporta alla primavera del 1994 quando nella Caserma Lamarmora di Siena i parà rientrati dalla Somalia erano soliti raccontare impunemente i crimini commessi contro la popolazione. “Si vantavano di avere sparato e ucciso a freddo un gran numero di somali e raccontavano di stupri e pestaggi fatti per rappresaglia. Gli abitanti erano solo sporchi negri”. “Si vantavano di aver ucciso a freddo” Nei racconti dei reduci c’era l’esplicito riferimento al “forte permissivismo” dei comandi italiani per l’uso di hashish e marijuana, sostante notoriamente disinibenti. E Barnao ricorda pure la grande delusione provata dopo un colloquio con il cappellano militare, alla vigilia della partenza di un nuovo contingente per la Somalia. “Gli chiedemmo di parlare della morte o di che significa uccidere un uomo per la patria o per una missione umanitaria. Il sacerdote ci rispose che doveva attenersi strettamente alla circolare ricevuta: i punti della discussione dovevano essere il linguaggio volgare e l’uso esasperato dei giornaletti porno nelle camerate. Cioè le bestemmie e le masturbazioni”. La pubblicazione online della ricerca sulla costruzione delle personalità fasciste nelle forze armate ha scatenato le proteste e le manifestazioni di dissenso
di numerosissimi (ex) appartenenti alla Folgore. In pochi mesi la casella di posta del Centro universitario messinese è stata letteralmente bombardata da centinaia di e-mail che invocano la gogna per i due ricercatori. Oltre 500 parà hanno sottoscritto una petizione al Rettore dell’ateneo Francesco Tomasello e al CIRSDIG. Giù le mani dalla Folgore! il leitmotiv. “L’articolo millanta una qualche pretesa di scientificità”, scrivono i militari. “Anche ad una prima lettura da parte di non esperti nella sociologia, esso appare viziato da gravi difetti metodologici, da interpretazioni estreme, da una carenza totale di fonti oggettive e, più in generale, da manifesta superficialità nell’affrontare le varie tematiche e nel riportare fatti senza verifiche”. Nei siti web che rilanciano la petizione imperversano le note di disprezzo a firma dei parà. Un lavoro mediocre finalizzato ad acquisire unicamente un titolo utile alla carriera universitaria, scrive uno. Per molti altri si tratta di fantascienza di serie C, collage di luoghi comuni e leggende da radio naja, abominio metodologico, squallide menzogne e calunnie, considerazioni scellerate, false, miserevoli e villanzone, chiacchere dei quaqquaraqquà” e, perfino di illecito grave e falso ideologico. C’è poi chi si spinge a etichettare il libello quale frutto della cultura egemone di stampo marxista, dottrina scientificamente orientata e programmata per la disinformazione e la mistificazione della realtà a fini politici.
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Ovviamente non mancano le bordate e le folgori contro i due ricercatori, affetti da vanagloria pseudoscientifica e che certamente si possono trovare tra i delinquenti che vanno alle manifestazioni in assetto di guerra. Per il comandante Vincenzo Arcobelli, presidente del Comitato tricolore per gli italiani nel mondo (sezione Nord America) Barnao e Saitta sembrano elementi del disciolto, per fallimento, KGB di sovietica memoria. Ma è soprattutto il sociologo ex parà a finire nel mirino. Rompere l’omertà significa tradire e rinnegare lo spirito di Corpo e il senso del cameratismo. I suoi istruttori di Lei non hanno fatto né un soldato né un uomo, si rammarica un ex militare. Una valanga d'invettive La valanga d’insulti non ha però indignato né preoccupato gli accademici peloritani e i due ricercatori hanno atteso invano qualsivoglia espressione di solidarietà e vicinanza. A far precipitare gli eventi, giunge la pubblicazione il 7 dicembre del 2012 di un articolo su Il Giornale, dal titolo “L’università di Messina infanga la Folgore”, pieno di invettive contro il saggio e i suoi autori. Per inficiarne il rigore scientifico, il quotidiano berlusconiano si rivolge a Marco Orioles, insegnante di sociologia del giornalismo presso la Facoltà di lettere dell’Università di Verona, già tutor nel 2005 di un progetto-convenzione tra l’ateneo di Trieste e lo Stato Maggiore dell’Esercito.
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“Simpatie diffuse per l'estrema destra”
“Si tratta di una grande bufala teoricamente debole e metodologicamente azzardata, che denota un grandissimo velo ideologico”, accusa Marco Orioles. Barnao e Saitta sperano in una replica dell’università a difesa della libertà di pensiero e di ricerca e invece il prof. Domenico Carzo, direttore dei Quaderni CIRSDIG, con una nota ufficiale prende le distanze dai due sociologi e rincara la dose. “Rammaricandomi dell’omissione della doverosa vigilanza, determinata da una mal riposta fiducia, rendo noto che il testo è stato pubblicato senza la mia autorizzazione ed a mia insaputa dal redattore dr. Pietro Saitta, che gestisce operativamente il sito”, scrive Carzo. “Il testo in questione, contrariamente alle regole dei Quaderni, non è stato preventivamente sottoposto alla procedura di referaggio anonimo, quindi è stato eliminato dal sito stesso. Informo, pertanto, di aver già provveduto a rimuovere dall’incarico il dr. Saitta, di concerto con il Comitato Scientifico”. Eliminato dall'univarsità Il sociologo messinese fornisce però una versione dei fatti ben diversa. “L’articolo raccoglie i lavori di un seminario pubblico, tenuto nel dicembre del 2011 presso il Dipartimento “Pareto” dell’ateneo peloritano”, spiega Saitta. “Per posta elettronica il successivo 27 gennaio avvisai il direttore e tutti i colleghi del nuovo inserimento. A distanza di qualche giorno ricevetti la sua approva-
zione e pubblicai l’articolo sul sito. Il prof. Carzo pagò le stampe di alcune copie da depositare presso le biblioteche nazionali e regionali e pure le spese di spedizione”. Saitta spiega di essersi volontariamente dimesso dal CIRSDIG il 13 novembre 2012, prima cioè dell’articolo de Il Giornale, in ragione di alcuni “accesi dissapori” sulla linea editoriale. “Comunque è abbastanza curioso che un articolo capeggi nella pagina web di un’istituzione per un anno senza che il suo direttore se ne avveda. La vicenda dimostra che i nostri sono tempi molto tristi per la libertà accademica, non solo in ragione degli attacchi esterni, ma anche e sopratutto per l’incapacità di alcuni di saperla difendere”.
dante della sua compagnia aveva tatuato sul petto la testa del Duce e che “non erano rare” le svastiche impresse sulle braccia dei parà delle varie compagnie. Anche certi canti dei commilitoni rispecchiavano una simpatia diffusa per l’estrema destra. “La più importante delle canzoni, Avevo un camerata, coronava il rituale di congedo dei parà”, aggiunge il sociologo. “Pochi dei congedanti sapevano però che era la versione italiana di una delle più note canzoni cantate dai nazisti, Ich hatt’ einen Kameraden. Ideale per sancire la conclusione di un percorso educativo autoritario come quello della formazione di un giovane paracadutista”.
Una certa nostalgia del Ventennio
Un legame nero pluridecennale che a leggere alcuni commenti in calce alla petizione online contro Barnao e Saitta, sembra non essersi mai interrotto. “Romantici, idealisti, interventisti, dannunziani? Se fedeltà, rispetto, onore e lealtà hanno questo significato, allora sì, possiamo considerarci tali”, scrive un ex ufficiale paracadutista. “Se poi amare il proprio Paese, la propria cultura e le proprie tradizioni significa essere fascisti, bene sia, piuttosto che rinnegare tutto a vantaggio dell’ipocrisia congenita in coloro che rinnegano l’amor di Patria”. E per epigrafe una velata minaccia. Ora sì, lasciamo pure che abbaino alla luna. Noi rimarremo qui, all’erta, sempre pronti alla difesa dei valori e dei principi in cui crediamo.
A più di 13 anni dalla prima pubblicazione del “diario” sull’esperienza militare di Charlie Barnao, l’intolleranza verso coloro che hanno l’ardire di analizzare valori, atteggiamenti e comportamenti all’interno delle forze armate è ancora la stessa. Guai poi a stigmatizzarne le ideologie pretoriane e parafasciste. Un certo spirito nostalgico per il Ventennio aleggia tra le caserme e i reparti della Folgore. Le sue radici storiche risalgono ai “Fanti dell’aria Libici”, voluti subito prima della seconda guerra mondiale da Italo Balbo, fedelissimo di Benito Mussolini, già Ministro dell’Aeronautica e Governatore generale della Libia. Charlie Barnao ricorda che il coman-
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“I valori in cui crediamo”
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Milano/ Expo
Acque torbide Molti interrogativi, poca trasparenza di Valerio Berra www.stampoantimafioso.it Conoscere quello che succede è fondamentale per poter intervenire sulla realtà. Nel caso di Expo 2015 sembra però che le informazioni siano potute passare solo per vie secondarie. Quella trasparenza ostentata nei documenti firmati all’inizio di questa storia si è infatti rivelata molto offuscata. Questa esposizione universale doveva essere in termini di informazione limpida come un lago alpino, ma si è rivelata torbida come una pozzanghera di città. La comunicazione che tre aziende operanti nei cantieri erano indagate per diversi reati, è arrivata infatti prima grazie al sito del Gruppo Radicale e poi è stata divulgata sul territorio dal centro sociale rhodense Sos Fornace. Una volta appresi questi dati, gli attivisti del centro hanno indetto una conferenza stampa, poi pubblicata sulle pagine on line del Fatto Quotidiano. Purtroppo anche per quasi tutti gli eventi successivi nella seconda strada di Expo vengono a mancare comunicazioni ufficiali, notizie chiare sullo stato dei cantieri ed elenchi dettagliati delle aziende e della loro storia. Un nuovo fascicolo Dal 25 maggio negli archivi della Procura di Milano c’è un fascicolo in più. I pm Paolo Filippini e Antonio D’Alessio, del pool specializzato in reati contro la pubblica amministrazione, hanno infatti iniziato un’inchiesta per indagare su un possibile reato di turbativa d’asta per quanto riguarda il primo cantiere di Expo. Questa indagine parte dalle dichiarazioni di un imprenditore bergamasco, Pierluca Locatelli, ed è solo un altro capitolo di quell’inchie-
sta sulla corruzione che nel novembre 2011 ha portato in carcere l’ex assessore regionale Franco Nicoli Cristiani. L’accusa della Procura si fonda sull’ipotesi che le aziende che hanno partecipato alla prima gara d’appalto siano riconducibili ad un «cartello». Si pensa cioè che abbiano creato un sistema che garantisca loro di spartirsi gli appalti pubblici, concordando offerte e strategie. Il progetto di fare di Expo 2015 il cantiere simbolo dell’onestà sembra essere sempre più compromesso. Meno aziende, più appalti Fra le aziende che hanno in subappalto i lavori del primo cantiere dell’esposizione universale c’è anche, come avevamo detto, la Elios Srl. Il 6 luglio 2012 l’ufficio stampa di Expo Spa inoltra un comunicato in cui afferma che a questa azienda è stata revocata l’autorizzazione per lavorare nei suoi cantieri. Il motivo non è molto chiaro, pare infatti che la Prefettura di Milano abbia segnalato degli «elementi suscettibili di valutazione tali da pregiudicare il rapporto fiduciario con Expo Spa». Nel comunicato viene specificato che questi motivi non implicano l’infiltrazione mafiosa, fatto sta che l’azienda viene allontanata dai cantieri e i lavori, già sull’orlo del ritardo, vengono ulteriormente rallentati. Almeno fino alla decisione del TAR di reintegrare la Elios, come si vedrà poi. A questo punto parte però il secondo appalto per l’esposizione universale, quello della famosa «piastra». Questo è il cantiere più importante dei tre in programma, perché dovrebbe occuparsi di creare tutto ciò che permetterà al sito di funzionare, dall’urbanistica agli impianti idrici ed elettrici, fino alla sistemazione paesaggistica. È quindi una gara molto complessa, che viene indetta all’insegna dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Per definire quindi il vincitore finale non è stata tenuta in conto solo la parte economica, ma anche altri criteri, come la qualità tecnica e i tempi di realizzazione. Ad aggiudicarselo il 16 luglio 2012 è
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però il raggruppamento di imprese capitanato da E. Mantovani Spa, che ha offerto il ribasso più consistente, scendendo al 41,80%. Il valore complessivo di tutto l’appalto ammonta a 165,13 milioni di euro, esclusa anche qui l’Iva e i costi per la sicurezza non soggetti a ribasso, ossia 16, 20 milioni di euro. Oltre ad essere l’offerta più economica, questa viene valutata da Expo Spa anche come quella tecnicamente più valida. Da notare è però che se nel primo cantiere le proposte arrivate al vaglio finale erano tutte intorno a quella che poi si è aggiudicata l’appalto, questa volta lo stacco dalle altre aziende è molto più consistente,i secondo ribasso più sostanzioso era infatti del 36 %, mentre gli altri si attestavo sul 20-30%. Silenzio a palazzo La stessa classe politica che si era posta a garante della trasparenza sembra essere sulla medesima linea d’onda. Dichiara infatti il 17 luglio 2012 il consigliere regionale del PD Carlo Borghetti: «Formigoni illustra Expo 2015 in Consiglio Regionale, parla di tutto ma non fa nemmeno un riferimento alla legalità per gli appalti, né nella relazione iniziale né in replica, nonostante gli abbia fatto notare in aula come il primo appalto Expo sia oggetto di indagine per turbativa d’asta… Speriamo recuperi presto la grave lacuna». Un altro episodio che testimonia questa tendenza risale al 28 dicembre 2012, quando il responsabile della comunicazione di Expo spa, Fabrizio De Pasquale, consigliere comunale PdL di Milano interviene ad un convegno sugli sviluppi urbanistici della zona di Rho. L’incontro è stato organizzato da AIL (Associazione Imprenditori Lombardi) e da Comitato Risorgimento, l’associazione che riunisce gli industriali di Mazzo, frazione rhodense che sarà interessata direttamente dalle opere di Expo. Nel suo intervento, De Pasquale parla di come si svilupperanno i cantieri, di come cambierà la viabilità, di quanta «trasparenza» ci sarà nell’informazione verso i cittadini. Ovviamente non vengono neanche citate le inchieste, i milioni in gioco, i rischi.
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Trapani
Mafia e massoneria Cosa sapeva Rostagno Un investigatore della Finanza conferma uno scenario già emerso nel processo. Scalettari e Palladino descrivono gli scenari trapanesi anni ‘90 di Rino Giacalone I testi citati dalla difesa degli imputati accusati del delitto di Mauro Rostagno continuano a provocare una sorta di ritorno addosso agli stessi imputati, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, quando secondo le intenzioni degli avvocati dovrebbero portare l’omicidio di Rostagno verso altri responsabili. Gli ultimi testi sentiti per richiesta delle difese, i giornalisti Luciano Scalettari e Andrea Palladino autori di libri e reportage a proposito degli affari “sporchi” condotti dall’intelligence italiana e non solo nella Somalia degli anni in cui furono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, chiamati a testimoniare dinanzi alla Corte di Assise di Trapani, che sta giudicando i due conclamati mafiosi imputati del delitto, per via delle loro inchieste sugli affari segreti della cooperazione internazionale, sulla presenza dei servizi segreti tra le bande in lotta in quella parte d’Africa, e sul traffico di rifiuti finiti se-
polti sotto le lunghe strade asfaltate di Bosaso, non hanno cacciato via, come la difesa pensava di riuscire a fare, le ombre della mafia sul delitto di Mauro Rostagno. Anzi. Gli scenari delineati, le risposte di Scalettari e Palladino non hanno fatto altro che confermare l’esistenza a Trapani di commistioni clamorose tra la mafia, i servizi segreti, centrali di intelligence straniere, gruppi di spregiudicati affaristi. Convergenze che negli anni ’90 erano oltremodo potenti e che negli anni in cui Mauro Rostagno faceva il giornalista dalla tv privata Rtc stavano prendendo forma. Ma andiamo con ordine. Parla Anna Di Ruvo Si è avuta l’attesa testimonianza di Anna Di Ruvo. Una ex ospite della Saman che avrebbe dovuto riferire dei contrasti dentro la Comunità, del famoso fax di forte rimprovero che Cardella mandò a Rostagno (la famosa cacciata dal Gabbiano qualche settimana prima del delitto), il ritrovamento dello stesso fax e la sua molto presunta distruzione, considerato che il fax come più volte ha rimarcato l’avvocato di parte civile Carmelo Miceli fa parte degli atti del processo e dunque nessuna distruzione vi fu, mentre la difesa continua a indicare questa cosa come avvenuta secondo una volontà che per telefono da Milano avrebbe espresso Chicca Roveri, la compagna di Mauro quasi a volere nascondere una prova.
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La Di Ruvo tra tanti non ricordo una cosa precisa l’ha ricordata: che il famoso verbale di interrogatorio reso dinanzi ad ispettori della Digos di Trapani (ai tempi dell’indagine denominata Codice Rosso, metà anni ’90) lei lo firmò senza rileggerlo e le cose lì scritte non corrispondono, a suo dire, al vero, almeno nelle risposte da lei date. Ha ricordato semmai un certo caos nel suo interrogatorio, presa e portata in questura e poi di corsa allontanata a interrogatorio terminato, “senza il tempo di rileggere il verbale”. Le rivelazioni del finanziere Voza. Dopo di lei citato dalla parte civile rappresentata dall’avvocato Fabio Lanfranca (per Carla e Monica Rostagno e Monica Conversano, sorella, figlia ed ex moglie di Mauro Rostagno) è entrato in aula l’investigatore della Guardia di Finanza Angelo Voza. A Trapani dal 1983, a fianco per tanto tempo del pm Carlo Palermo, sfuggito ad un attentato nel 1985, Voza ha ripreso un argomento già emerso per la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, cioè la forte e qualificata presenza della massoneria. E’ saltato fuori il nome di Licio Gelli, il capo della P2. Gelli e Trapani, P2 e Iside 2, due logge super segrete, la Iside 2 a Trapani era un “salotto” dove sedevano mafiosi e colletti bianchi, qui si decidevano le sorti della città. Elezioni , incarichi pubblici, gestione dei Palazzi del potere cittadino.
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“La mafia cambiava pelle e diventava imprenditrice”
Il giornalista Rostagno Questa è la scena che Mauro Rostagno da giornalista ha vissuto, respirato, perché andò a bussare alla porta di chi conosceva quei segreti. Voza a tutto quello che si sapeva ha aggiunto che “nel 1981 Gelli, all’epoca latitante, partecipò ad una riunione indetta dai massoni trapanesi, presenti anche funzionari pubblici come un vice prefetto e un vice questore”. Ovviamente la circostanza venne appurata molto tempo dopo da un punto di vista investigativo e nemmeno quando a metà degli anni ’80 saltò fuori la esistenza a Trapani della Iside 2. E Mauro Rostagno la conoscenza di questo fatto l’avrebbe potuta avere fatto quando seppe che Gelli a Trapani in quegli anni ’80 era tornato più volte e si era visto con i mafiosi di Campobello di Mazara (piccolo paese ricco però di logge massoniche sino ad oggi come certificato dalla relazione che ha condotto allo scioglimento per mafia del Comune in tempi recentissimi) e di Mazara del Vallo. Agate, il capomafia di Mazara Un nome per tutti? Quello di Mariano Agate il capomafia di Mazara, in carcere oramai dal 1992 e che secondo il qualificato giudizio di molti investigatori, se oggi fosse libero, avrebbe la guida di Cosa nostra: più potente del latitante Matteo Messina Denaro. E dal carcere
Mariano Agate ha mostrato grande capacità di continuare a comandare. Voza ha detto di essere stato testimone di quello che un giorno del 1988 accadde nell’aula della Corte di Assise a Trapani, “mentre era in corso il processo per il delitto del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, durante una pausa Agate dalla gabbia dell’aula attirò l’attenzione di un operatore tv di Rtc mandato lì apposta da Rostagno a seguire l’udienza, per dirgli di riferire “a chiddo ca varva vistuto di bianco” che la finisse di dire minchiate”. Rostagno seguiva in modo attento quel processo. “Io ero un investigatore – ha detto Voza – lui un giornalista; presto mi resi conto che stavamo dalla stessa parte e lui faceva il giornalista sul serio, giornalista che faceva indagini, il fare indagini ci univa”. Voza ha anche poi aggiunto un particolare sulla capacità che Rostagno aveva di essere ascoltato dall’opinione pubblica: “Quando alle 14 c’era il notiziario di Rtc era difficile incontrare qualcuno per strada a Trapani”. La testimonianza di Voza è stata ricca di particolari, i contatti tra Trapani e Catania a proposito di mafia e massoneria, le minacce che lui stesso ricevette per essersi occupato di Iside 2. Cosa accadeva in quegli anni '80 La mafia cambiava pelle, diventava imprenditrice, cominciava a interessarsi direttamente di politica, la scalata dei
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corleonesi di Riina era già abbondantemente cominciata, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, il regista di super appalti miliardari in mezza Sicilia veniva a Rtc a incontrarsi con l’editore Puccio Bulgarella. Rostagno aveva il suo ufficio a cinque passi da quello di Bulgarella, gli investigatori cercavano ancora il boss Totò Minore, ritenuto latitante, ma il capo mafia di Trapani era già morto e questo Rostagno deve averlo saputo perché in un appunto contenente un elenco di nomi di mafiosi, quello di Minore era depennato e già nel 1988 capo mafia di Trapani era Vincenzo Virga. Virga di mestiere faceva l’imprenditore e si occupava di rifiuti, diceva in giro commentando i suoi affari “trasi munnizza e nesce oro”. Scalettari e Palladino Scalettari e Palladino. Loro hanno parlato di quello che hanno appurato in un contesto successivo al delitto di mauro Rostagno. Armi,. droga e rifiuti che per Trapani sarebbero passati con coperture eccellenti. Le stesse esistenti già negli anni ’80 che cominciavano a mettere il cappello su diversi affari che interessavano la mafia. Mafia che dalla sua avrebbe avuto complici importanti, gli uomini di Gladio, del centro Scorpione di Trapani. Gladio secondo Scalettari e Palladino espressione dei servizi segreti con la mafia colloquiava.
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“Indagini fermate dalle ingerenze della politica”
Uomo cerniera un ex ospite della Saman, Giuseppe Cammisa detto Jupiter, braccio destro del guru della Saman prima e dopo il delitto Rostagno, diventato imprenditore in Ungheria. Citato ampiamente nelle indagini sul delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin “mai nessuno è andato a cercarlo per interrogarlo”. Protetto da qualcuno? Forse si. Gladio e la mafia Non è una novità che c’è l’ombra di Gladio sul tentato omicidio di Falcone avvenuto all’Addaura, il 21 giugno del 1989…che su questo episodio si intrecciano i segreti mai svelati sulla morte dell’agente Agostino e sulla sparizione di un altro agente dei servizi Emanuele Piazza. Tutti e due facevano la spola con Trapani. Teste importante poteva essere il capo centro di Gladio, il maresciallo Vincenzo Li Causi, morto però in circostanze strane in Somalia nel 1993, mentre la Procura di Trapani indagava su Gladio e dopo averlo sentito si stava preparando a rifarlo. Un particolare che spesso finisce dimenticato è quello che il tritolo usato all’Addaura nel 1989 è lo stesso usato nel 1984 e nel 1985 in altri due attentati, quello al treno rapido 904 e a Pizzolungo contro Carlo Palermo. Nel 1988 Rostagno stava cercando elementi su Pizzolungo, Carlo Palermo e sul delitto del 1983 di Ciaccio Montalto, co-
mune denominatore tra Ciaccio Montalto e Carlo Palermo, i traffici di armi e droga dalla Turchia, indagini fermate dalle ingerenze della politica e in particolare per Palermo dall’allora primo ministro socialista Bettino Craxi. E pezzi forti del Garofano erano di casa a Saman, ma i contatti con Craxi in quel 1988 erano gestiti direttamente da Francesco Cardella, il guru della Saman, le famose bobine delle intercettazioni sparite dal comando dei carabinieri pare contenessero le “chiacchiere” tra Cardella e Craxi, dopo il delitto Rostagno. L'unica matrice possibile è mafiosa Un’altra udienza insomma che riconduce il delitto di Mauro Rostagno all’unica matrice possibile, quella della mafia. Mauro Rostagno non taceva nulla in tv e certamente non avrebbe taciuto quello sul quale stava lavorando nel momento in cui avrebbe avuto ogni tassello al suo posto. E in quel settembre del 1988 mancava poco a lui per mettere apposto il puzzle. *** A seguire l’udienza seduto al fianco di Maddalena Rostagno, in aula c’era l’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri…..L’udienza l’ha commentata così: - Nell'udienza del processo per l'assassinio di Mauro Rostagno a Trapani, cui ho potuto assistere (un'udienza del tutto ordinaria, come altre dozzine) ho trascritto alcune frasi di testimoni che vorrei ri-
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portare senza commento. Una è la semplice domanda che una testimone, che a suo tempo, ragazza, si misurò con questo problema, ha rivolto al difensore dei mafiosi che la interrogava: "Ma lei sa che cos'è un tossicodipendente?". Le altre le ha pronunciate un sottufficiale della Finanza, che a suo tempo operava a Trapani. Domanda: "Ma lei come sa che il lavoro giornalistico di Mauro Rostagno era molto seguito?" Risposta: "Perché alle due meno dieci a Trapani, quando c'era il suo notiziario televisivo, non si vedeva più nessuno in strada". Domanda: "Ma lei che tipo di conoscenza o di amicizia aveva col dottore Rostagno?" Risposta: "Venivamo da mondi diversi e ci siamo accorti che facevamo la stessa battaglia". Una battaglia che continua Oggi questa battaglia non è finita e per questa ragione c’è chi pensa che la mafia non c’entri col delitto. La mafia c’entra invece, fece da “service” – come in altre occasioni – a poteri più forti, ma nel contempo si levò di mezzo una “camurria” di giornalista come disse il patriarca della mafia belicina, don Ciccio Messina Denaro. Oggi la mafia non spara più alle “camurrie”, le emargina in altro modo anche con l’aiuto delle istituzioni e con le intimidazioni che da queste parte solo ad alcuni cronisti arrivano “in nome della legge” che chiede, pretende silenzi.
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Inter viste/ Yvan Sagnet
“Diritti dei braccianti? Qui c'è il caporalato” Lo sciopero dei braccianti stranieri in Italia di Daniela Sammito www. ilclandestino.info
Yvan Sagnet viene dal Camerun. Nel 2007 viene a studiare al Politecnico di Torino. Nell'estate 2011, per pagarsi gli studi, va a lavorare a Nardò, in Puglia, dove nella masseria Boncuri si assumono lavoratori per la raccolta del pomodoro. Si rende conto delle disumane condizioni a cui i caporali costringono gli operai e prende parte al primo sciopero autonomo dei braccianti stranieri in Italia Yvan, tu sei stato protagonista della rivolta a Nardò. Un altro evento raccontato dai media – e in occasione del quale si è parlato del problema del caporalato – è stato quello della rivolta di Rosarno. Secondo il tuo punto di vista, che differenze e che analogie ci sono state tra questi due tipi di rivolta? A Rosarno la rivolta è partita dallo scontro tra un datore di lavoro e un lavoratore e poi il mondo intero ha scoperto cosa c'era dietro, a livello di sfruttamento, schiavitù, infiltrazioni della malavita. Però a Nardò la battaglia è partita dalla dimensione del lavoro, dall'unità del lavoratori. Un gruppo di lavoratori che si sono riuniti per rivendicare i loro diritti. Non era tra singole persone, come a Rosarno. Ecco perchè c'è una differenza notevole anche nei risultati che i due scioperi hanno dato. A Nardò i lavoratori erano uniti A Nardò abbiamo ottenuto più risultati perchè c'era unità dei lavoratori. Abbiamo ottenuto la legge sul caporalato, gli arresti degli imprenditori e dei caporali. Invece a Rosarno cosa abbiamo ottenuto due o tre anni dopo la rivolta, a parte il fatto che se n'è parlato?
L'introduzione del reato di caporalato è una conquista del 2011, una vittoria. Come sono cambiate le cose in conseguenza di questa importante novità legislativa? E' stato un risultato importante perchè dopo più di cento anni di caporalato in questo Paese, la rivolta di Nardò ha spinto verso l'introduzione di questo reato che danneggia i lavoratori. Però bisognerebbe completare questa legge, che attualmente punisce soltanto i caporali. Bisognerebbe ampliarla, in modo da punire anche i datori di lavoro, che sono i principali responsabili di questa piaga. Sapevamo che non potevamo ottenere risultati concreti solo dopo un anno perchè quello del caporalato è un fenomeno complesso e molto radicato nel territorio. Non è che, con l'introduzione del reato e con un anno di battaglia, possiamo ottenere tutti i diritti. No, è un lavoro quotidiano di impegno, di denunce, bisogna indirizzare il lavoratore, supportarlo e invitarlo a denunciare, sostenendolo nelle proprie denunce. La legge sul caporalato va completata E' un lavoro di fondo, che richiede impegno. E in un anno è difficile organizzare tutto. Mancano ancora molti passi da fare affinchè l'attuazione della legge sia effettiva. Che idea ti sei fatto delle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti nelle campagne ragusane? Le condizioni sono identiche a quelle delle altre parti d'Italia. Cambia pochissimo nelle condizioni dei lavoratori in Puglia, a Rosarno, nel siracusano e nel ragusano. E' uguale per tutti. Sono sottopagati. Dormono nei casolari abbandonati. I loro diritti non sono rispettati. Perciò la battaglia dovrebbe continuare.
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In questo periodo di profonda crisi economica, quando si parla dei temi dell'immigrazione, dell'integrazione, l'obiezione più facile è che “se non c'è lavoro per gli italiani, figuriamoci se c'è per gli stranieri”. A questa obiezione, tu, che questa situazione di compressione dei diritti l'hai vissuta sulla tua pelle, come ti sentiresti di ribattere? Alla crisi, soprattutto in agricoltura, non ci credo tanto. Perchè la domanda c'è. Consumiamo tutti i giorni, quindi il mercato dei prodotti c'è, la domanda c'è. Il profitto prevale sui diritti Solo che in questo settore economico molto importante in questo Paese c'è stata una assenza di regole da parte dello Stato, che ha fatto sì che si creasse una cultura del profitto. Non è possibile che un chilo di arance o di pomodorini Pachino venga comprato dall'agricoltore a sette centesimi e vada a finire in un supermercato del Nord a tre euro e cinquanta. Su questo bisogna riflettere. D'altra parte non condivido che, siccome c'è la crisi, le persone non dovrebbero avere diritti. Bisogna guardare al futuro di questo Paese, che sarà costruito dai cittadini italiani e dai cittadini stranieri. Bisogna cercare di costruire una società basata sul rispetto dei diritti di tutti i cittadini, a prescindere dalle loro origini. Quello che è in gioco è il futuro di questo Paese. Hai di recente pubblicato un libro dal titolo “Ama il tuo sogno”, in cui racconti l'esperienza di Nardò. Qual è, adesso, il tuo sogno? Il mio sogno era arrivare in Italia, in questo paese di cui mi sono innamorato quando ero piccolo, per via dei calciatori che seguivo e ammiravo. Io vivo il presente. Il mio sogno è il presente. E lavoro per cambiare il presente, e migliorare il futuro. Con un presente migliore, avremo sicuramente un futuro migliore. Un futuro che corrisponda ai nostri sogni.
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Alcamo: epidemia di bombe Nella geografia criminale siciliana la zona di Alcamo è strategica di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it
E' una zona cuscinetto, un'area che sta a metà tra i mandamenti mafiosi storici di Palermo e Trapani, che ha avuto sempre regole sue, godendo di uno stato di "terzietà" rispetto agli affari mafiosi. Non è un caso che tra Castellammare ed Alcamo abbiano trovato riparo fior di latitanti, da Brusca a Messina Denaro e che in tempi non lontani ci siano stati gli episodi più violenti delle guerre di mafia che hanno caratterizzato la storia di Cosa nostra. Il 2013 qui è cominciato con un'escalation di attentati incendiari a case di imprenditori, auto, abitazioni estive. Con il corredo di soliti avvertimenti: bottiglie incendiarie davanti casa, mazzi di fiori, etc. "E' come se d'improvviso fosse mutato qualcosa - dicono gli investigatori -, come se ci fosse una nuova banda in azione, che vuole farsi conoscere, imporre il suo pizzo". Sono soprattutto le aziende edili ad essere state colpite. Il 2 febbraio hanno incendiato un escavatore di una impresa di movimento terra. Pochi giorni prima un altro attentato incendiario, sempre a dei mezzi di un’impresa edile. E poi ancora fiamme ad alcune auto, gomme tagliate, danni alle carrozzerie ad altri imprenditori e professionisti. Tutto in serie. Con un’escalation incredibile nelle ultime settimane. Il clima ad Alcamo e Castellammare è teso. Dopo l’ennesima intimidazione, un centinaio tra commercianti ed imprenditori hanno sfilato in corteo ad Alcamo per dire no al racket.
Il loro striscione era chiarissimo: "Alcamo unita contro il racket". Anche il Sindaco di Castellammare, Marzio Bresciani, si è fatto sentire: "Questa comunità non è più disposta a tollerare i continui atti di qualcuno che persegue fini criminali - ha detto - . E’ inconcepibile ed inaccettabile che si voglia portare questa città indietro nel tempo”. Già, indietro nel tempo. In questi momenti a molti viene in mente la storia di Gaspare Stellino. Era titolare di una torrefazione nel centro di Alcamo. Taglieggiato, fino all’osso. Il 12 settembre del 1997 Stellino si impicca nella casa di campagna. Lo stesso giorno avrebbe dovuto testimoniare contro i boss di Alcamo, Melodia, che gestivano l’intenso giro di estorsioni a commercianti e imprenditori. Gli stessi che poi non alzarono un fiato di indignazione dopo il suicidio del collega. Il silenzio dei taglieggiati “Il pensiero di dover testimoniare contro i presunti boss del racket ad Alcamo lo atterriva, lo rendeva ansioso e teso, anche se cercava di non far trasparire nulla per non fare preoccupare la famiglia”, raccontò il figlio Isidoro. Non ebbe il coraggio di raccontare tutto, si sentiva solo, Stellino. E poco dopo, Alcamo tornò nel suo silenzio dei taglieggiati. E nel frastuono delle sirene delle varie operazioni antimafia, che via via decapitavano i clan. L'ultima operazione antimafia nella zona risale allo scorso giugno: “Crimiso”. Furono arrestate 12 persone accusate di associazione mafiosa, estorsione aggravata, incendio aggravato, violazione di domicilio e violazione delle misure di sorveglianza speciale. In cella sono finiti anche tre imprenditori. L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Teresa Principato, e dai pm Paolo Guido, Marzia Sabella, Carlo Marzella e Piero Padova, ruotava attorno alle cosche del mandamento mafioso di Alcamo e dei clan di
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Castellammare del Golfo e Calatafimi. Dall'inchiesta, che ha portato alla scoperta dei vertici delle cosche, è emersa una spaccatura all'interno della famiglia mafiosa di Castellammare: un gruppo di uomini d'onore che faceva riferimento a Diego Ruggeri, pregiudicato e sorvegliato speciale, avrebbe preteso il pizzo senza chiedere l'autorizzazione al capomafia Michele Sottile che, per “anzianità”, sarebbe stato il capo naturale del clan. Per evitare che scoppiasse una guerra di mafia e dirimere le controversie da altri due uomini d'onore coinvolti nel blitz, Antonino Bonura e Rosario Leo, venne convocata una riunione tra i vertici delle famiglie di Alcamo, Castellammare e Calatafimi. Diverse le estorsioni emerse dall'inchiesta: i clan riscuotevano il pizzo da ristoranti, bar, imprese di costruzioni facendo precedere le richieste estorsive da danneggiamenti e attentati incendiari. Oltre a chiedere somme di denaro alle vittime, i boss imponevano assunzioni di loro protetti e costringevano professionisti - è il caso di un dentista - a rinunciare al pagamento delle parcelle per cure fatte a un complice del capomafia Diego Ruggeri. Gli inquirenti hanno anche scoperto un tentativo della famiglia mafiosa di Alcamo di ottenere il monopolio del commercio di calcestruzzo imponendo alle imprese di acquistarlo da ditte vicine ai clan. Un lavoratorio mafioso È un laboratorio il territorio di Alcamo. Le forze dell'ordine, dal canto loro, fanno per il momento quello che possono: il controllo del territorio. Con grandi sforzi, data la scarsità di mezzi e uomini, i Carabinieri hanno passato al setaccio abitazioni di pregiudicati e sorvegliati speciali, messo posti di blocco, aumentato le ronde nel vastissimo territorio di mezzo tra le province di Palermo e Trapani. Per scongiurare quel ritorno al passato.
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Un viaggio (quasi) di Natale
Cartoline dal Muos Niscemi, nel cuore della Sicilia, è oggi – purtroppo – uno dei luoghi più avveniristici del mondo. Vi sta crescendo, con gran paura della popolazione, uno dei quattro sistemi di controllo militare globale del pianeta Terra di Giulio Pitroso e Attilio Occhipinti www.generazionezero.org FOTO DI SEBASTIANO GULISANO
Santo Stefano non è stato in Italia un giorno di festa fino al 1947. E’ l’ozioso prolungamento del Natale, il giorno in più, la guaina di sicurezza di un altrimenti disastroso ritorno ai giorni feriali. A volte, è il giorno in cui si smaltisce la sbornia o la crapula. Una delle risorse primarie della nostra isola è, del resto, l’abbuffata. Tutti ricordano l’orgoglio del presidente Cuffaro, mentre mangiava i suoi cannoli, in barba alle stupide pretese della dietologia, che se applicate, renderebbero triste e misera la vita isolana.
In questo nuovo decennio dalla data futuristica, però, una consolidata e valida tradizione gastronomica rischia l’estinzione. Il dolce minacciato trova la sua culla nella capitale del carciofo, Niscemi: è la scumma- che è forse meglio trascrivere schumma per renderne meglio il suono-, una delizia cui l’italica definizione di meringa non rende giustizia. E’ ricavata dall’albume dell’uovo e dallo zucchero. Insieme a questa, è in pericolo il tatò (totò) locale, un biscotto particolare, che trova un suo fratello più noto a Siracusa, dove viene prodotto in foggia macroscopica. I tatò e le schumme rischiano di essere colpiti dalle onde elettromagnetiche, forse dannose, del Muos, un impianto militare americano in costruzione nei pressi di Niscemi. Contro di esso, si è mobilitato un fronte di attivisti e cittadini, che è riuscito a portare in corteo circa cinquemila dei cinque milioni di Siciliani. Purtroppo, però, l’emergenza ambientalista e pacifista ha fatto passare in secondo piano l’importante rivendicazione del palato: possono le antenne danneggiare i dolci di Niscemi? E, se sì, vale la pena rischiare? Gli Americani, del resto, capirebbero la gravità della cosa, seppure non sia certo il danno che il Muos può portare alla fragranza dei biscotti e delle meringhe niscemesi: in fatto di cibo e bevande, hanno sempre imparato da noi e sono ben consci della loro inferiorità su questo piano. Gli antennoni incombenti Del resto, gli antennoni potrebbero colpire oltre alle schumme, anche i loro principali artigiani, nonché i loro fortunati estimatori: se ne potrebbero perdere segreti e utili opinioni.
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Il nostro viaggio conoscitivo di Santo Stefano s’immette su strada nel mattino chiaro. Saranno i segnali stradali o l’abilità del sottoscritto guidatore, ma sbagliamo strada. Finiamo a Contrada Ponte Olivo, dove la strada è interrotta e sorge un diadema di discarica abusiva. Ritorniamo indietro e svoltiamo alla prima per Niscemi. Sembra un segnale di demarcazione del territorio, come a segnalare l’entrata in una zona di conflitto: “No Muos”, scritto con uno spray rosso sul muro di una centralina elettrica. La strada di curve e pendii ci porta all’ingresso del centro abitato, che ci si palesa nel suo profilo arabico: case senza rifiniture esterne, con i mattoni avani e gialli in bella vista. Le bandiere del NoMuos Sulla sommità dei tetti, perlopiù piani, recipienti d’acqua blu: da queste parti quello idrico è un problema serio. Gli sguardi dei paesani ci si buttano addosso, indagatori. Noi - per meglio dire il sottoscritto- perdiamo la strada. Qua e là bandiere del No Muos, esposte sui balconi. Perlomeno, non abbiamo sbagliato paese. C’è persino una bandiera attaccata a una ringhiera a ridosso della caserma dei Carabinieri. In giro, solo branchi di canuti arrancano con i loro bastoni o disquisiscono nella locale varietà del siciliano. Il primo ragazzo che vediamo è un tipo in carne, abbarbicato a una panchina. Capelli corti, forse quasi ventenne, con la pelle dei Mori cucita addosso. Gli chiediamo dove sia la piazza principale. Lui è nel panico più assoluto. Si volta alla sua sinistra, un latrato gli sale su dall’esofago: «Ahu! Ahu! A tìa vonu (cercano te)!».
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Si rivolge a un ultrasessantenne, piazzato su una sedia e rapito nella sua quiete. Si ripete una seconda volta, mentre il pensionato si muove con lentezza. Sembrerebbe volersi portare la sedia fino a sotto la macchina; poi, avanza senza. Il ragazzo, nel frattempo, si è avvicinato, sembra perduto. Si volta descrivendo un percorso curvo con la mano, dicendoci: «A chiazza (la piazza)». Il vegliardo è ormai vicino, quando il giovane ci fa segno di aspettare, compulsivamente. Il signore anziano indossa lenti scure, sotto il tasco; ha l’unghia del mignolo lunga, che può voler significare una manifestazione di malindrineria o comando in un ordine gerarchico, se non una sua scarsa propensione all’igiene. Le sue indicazioni lasciano spazio all’interpretazione: «Voi dovete prendere la strada che ci diciamo (ndr, leggi “che noi Niscemesi chiamiamo”) “il ponte”» e poi «E la strada che ci dicono… Come ci dicono? Nun mou rivordu (non ricordo)». Indicandoci il segnale di divieto di transito, fa più o meno così: «Di qua non ci si può prendere, ma se volete ci potete andare». La base militare Non era la nostra meta, ma una tappa prevista, così, quando capitiamo a Masciò, non possiamo che fermarci. Qui una lunga tradizione di famiglia è infusa nel biscottificio in cui entriamo. I dolci bianchi con il cartellino “meringhe” sono in bella mostra. «Noi le chiamiamo schummi» ci fa il quarantenne dietro il banco. I tatò al cioccolato sono esauriti, mentre quelli classici ci sono ancora. Riponiamo il bottino in due sacchetti di carta e ci facciamo spiegare come raggiungere la grande attrazione turistica del luogo, la base militare dove sorgerà il Muos.
La via d'accesso alla base Testata la bontà e la dolcezza dei frutti dell’ingegno gastronomico siciliano, giungiamo a un incrocio, dove un gazebo segnala la presenza di un presidio di protesta. E’ quello che dicono “delle croci” per via degli ornamenti funebri di cui è vestito. Croci in legno e corona funeraria ornano l’area, dove il professore Giuseppe Maida ha condotto la sua personale lotta contro il Muos, giacendo in tenda anche nelle notti più fredde. Al momento, non sembra esserci nessuno. L’altrimenti anonima strada vicinale “Fonte Apa Martelluzzo Fico Polo” ospita il punto d’accesso alla via più nota per la base. Non c’è nessuno, per adesso. Il paesaggio rotto dalle antenne Mentre un’antenna si staglia lontana, in un’epifania molesta, ci inoltriamo per paesaggi argillosi. Sul muro d’un bivio c’è una freccia dello stesso colore rosso di una scritta che indica il presidio di Contrada Ulmo, quello verso cui siamo diretti, in prossimità della base; ma c’è anche una freccia di colore diverso e in direzione opposta. Soltanto uno sprovveduto potrebbe credere che sia quella la direzione giusta: quando si dice la persona sbagliata al momento sbagliato. Riprendiamo il giusto tragitto e arriviamo a destinazione. Sul terreno, a fianco della casa-serra costruita dai militanti No Muos, c’è una manciata di ragazzi su sedie di plastica, aria di arrustuta (barbecue), in un pacato stato di quiete. Ma non è sempre così. Il presidio dell’Ulmo è la linea del fronte della lotta contro l’impianto, soprattutto per i comitati No Muos sparsi sul territorio siciliano. Qui il conflitto si consuma più che altrove, si
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bloccano i camion con il materiale per costruire l’apparecchio. I ragazzi sono un gruppo di passaggio, con loro un locale, l’Indigeno, un ragazzotto diretto e schietto. Fa loro da guida in un’escursione fotografica, cui possiamo aggregarci. Saliamo sulla macchina infangata dell’Indigeno e partiamo. Si chiacchiera della serata di festa precedente, in cui s’è bevuto e mangiato a sazietà. «Mi pumiciai una (Ho pomiciato con una)…» ci fa il nostro, scanzonatamente. Ma è successo anche altro la notte passata: un ragazzo ubriaco è passato oltre la recinsione, scatenando la reazione di autorità locali e militari americani. Si racconta che uno di questi sia spuntato dal nulla, forse attraverso un bunker segreto, e che poi lui o un altro abbia scarrellato, che fosse quindi pronto a sparare. Una brutta storia, insomma. E’ un conflitto che si consuma anche su piani più banali: un ragazzo ha incastrato per scherzo e protesta uno stuzzicadenti nel campanello della base; è stato denunciato, ma non se n’è fatto nulla, perché era un’accusa piuttosto eccessiva - o almeno così ci racconta l’Indigeno. Lungo i reticolati La nostra escursione costeggia le reti della base. «Chisti u Medioriente u scassanu tuttu (Questi il Medioriente lo distruggono tutto)!» fa l’Indigeno. I ragazzi lo ascoltano, passeggiando. Sull’ accento ibleo, alcuni di loro sfoggiano coloritismi del parlato romanesco. Uno di loro, cappellino e barbetta, scambia due battute con noi. Si è laureato a Roma in Sociologia, ma adesso fa l’operaio in Germania, un lavoro non stressante, che serve per dargli il tempo di imparare il tedesco e progettare un futuro.
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“Anche l'ombra della mafia sulla vicenda della base”
Parte II/ AL COMUNE DI NISCEMI
Immersi nel rosmarino selvatico della riserva che sta attorno alla base, i ragazzi guardano le strutture americane, quando uno sparo sorprende la vallata. Sono dei bracconieri, niente paura: gli americani hanno lasciato delle porticine per i roditori, in modo che possano passare con agilità dentro la base inviolabile e sfuggire la morte. Bel paradosso. Quando torniamo al presidio, c’è il tempo di sentire gli attivisti. Sono perlopiù quelli con i capelli bianchi a starci stamane, causa la festa della notte passata. A detta di un signore, la partecipazione dei giovani non è mai stata così forte a Niscemi. Ma restare qui è difficile: i rapporti con la polizia non sono sempre facili, no-
nostante - come ci spiegano - il Comitato ha in comune con essa l’obiettivo finale della lotta alla mafia, la cui ombra ha impestato la vicenda Muos. Inoltre, una frangia ha contestato l’antifascismo e la strumentalizzazione politica che vi sarebbe nei comitati No Muos, dando vita al Movimento No Muos. lfonso Di Stefano, attivista di lungo corso, ci tiene a ribadire che la contestazione al Muos è figlia del pacifismo siciliano e della sua storia. Tuttavia, anche se i gruppi sono diversi, lo precisano anche in questo presidio, si riconoscono comunque nella lotta al nemico comune, seppur con mezzi e mentalità differenti. Giulio Pitroso
Scheda UN VOLANTINO Crediamo sia importante in questo momento rendere noto l'ennesimo attacco repressivo che il potere sta attuando, sul nascere di una lotta, per criminalizzare qualcuno e delegittimare un movimento popolare in difesa del proprio territorio, come stiamo vedendo dalla Val di Susa fino in Sicilia. Dopo aver notificato da poco il foglio di via da Niscemi, attaccandosi pretestuosamente a vicende trascorse riguardanti diverse lotte, il 13 febbraio 2013 a Bologna a casa di Peppe, compagno anarchico e attivista NoMuos,mentre alcuni compagni si stavano organizzando x andare a presentare la lotta in una tappa gia stabilita dal tour, si presenta la Digos che, con molta nochalance, gli consegna il foglio di via da Bologna, diventato ormai una pratica standard nei confronti di diversi compagni, che abitano in città o anche solo la frequentano. Il pretesto è la frequentazione di svariati compagni del capoluogo emiliano, coinvolti in un'inchiesta per associazione a delinquere , e il fatto che Peppe stia organizzando da Bologna un tour informativo riguardante la lotta al muostro di Niscemi. Mentre le contestazioni in Sicilia al presidio permanente continuano,
Stringiamo le mani ai ragazzi del presidio NoMuos, li ringraziamo per il loro tempo e velocemente saliamo in macchina. Torniamo a Niscemi alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, in effetti è ora di pranzo. C’è davvero una bella temperatura, non sembra proprio il giorno di Santo Stefano, questo pensiamo mentre divoriamo i nostri panini. Del resto la passeggiata vicino alla base ci ha messo un certo appetito. I ragazzi del presidio NoMuos Prima, al presidio, Alfonso Di Stefano ci aveva informato riguardo all’esistenza di un altro gruppo di protesta che si era stabilito all’interno del comune qualche giorno addietro. Un gruppo chiamato Movimento NoMuos che comunque è fuori dal Comitato regionale.
ogni giorno ed ogni notte diventando più forti e numerose, i poteri forti non perdono l'occasione per cercare di stroncare non solo la lotta sul posto stesso, ma anche la solidarietà e la complicità che si costruiscono nel resto d'Italia. Questi fogli di via fanno parte di un attacco purtroppo molto più ampio: infatti, nel catanese, nell'ultimo mese sono stati denunciati una quarantina di compagni, ognuno con 3 o 4 denunce a testa, per reati diversi, riguardanti lo sgombero dell'Esperia, l'occupazione del Minerva, l'occupazione di via Verginelli, la lotta popolare del palazzo di Cemento, i fatti accaduti durante il processo del compagno Peppe Sghigno, un corteo NOTAV non autorizzato, ed inoltre le lotte dei lavoratori per la loro situazione precaria. A Messina, inoltre, dopo lo sgombero del Pinelli, vari compagni saranno raggiunti da un'altra sfilza di denunce. È evidente che cercano di bloccare una lotta crescente, basata sulla solidarietà e la complicità di tutti nell'opporsi ad uno stato oppressore e repressivo. Non saranno valanghe di cartacce a bloccare la rabbia dilagante. Continueremo dall'Emilia a portare avanti la lotta NO MUOS, continueremo a supportare Peppe e tutti i compagni che si ostinano a tenere alta la testa e resistere alla devastazione dei territorio. (Attivisti No Muos)
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“L'inquinamento elettromagnetico fa paura e forse uccide”
Dopo aver pranzato ci dirigiamo subito alla piazza centrale del paese, a chiazza, dove si trova il comune. Prima però un buon caffè, senza sarebbe piuttosto difficoltoso andare avanti. Entriamo in comune, un paio di rampe di scale e notiamo subito una maglietta con la scritta No Muos attaccata ad una porta. Al di là della porta, aperta, davanti a noi un ragazzo batte le dita sulla tastiera di un portatile, ci guarda e fa un cenno, mentre facciamo due passi ed entriamo nella sala consiliare. «Prego», ci dice un signore che non avevamo notato, poiché nascosto in un angolo della sala. Ci presentiamo e lui prontamente prende il cellulare e chiama. «Sta arrivando Guglielmo, lui è il nostro portavoce. Potrete fare a lui tutte le domande che volete, accomodatevi ragazzi», così ci dice mentre riprende il suo posto, seduto su una sdraio.
Bottiglie d’acqua, posacenere, sedie, tutto quello che serve in questi casi, quando si ha l’intenzione di fermarsi in un posto per qualche tempo. Il signore sulla sdraio, un quarantenne con una voce rauca, sicuramente a causa del fumo, ci precisa che la loro occupazione dura esattamente da sedici giorni, dal 10 dicembre insomma, mentre il loro gruppo è attivo dal 22 novembre, «Ma per il resto Guglielmo vi saprà dire di più» e si accende una sigaretta. Quarantuno antenne installate Sono circa le tre del pomeriggio quando arriva Guglielmo Panebianco, lo abbiamo aspettato circa un quarto d’ora. Un ragazzo sui trenta, cappello sopra la testa e sciarpa rossa attorno al collo: «Ciao, piacere Guglielmo». Si accomoda
Scheda E SE REVOCASSIMO ANCHE LE TRIVELLAZIONI DEL BELICE? La vicenda politico-istituzionale con cui è stata revocata dalla giunta Crocetta l’autorizzazione amministrativa, concessa dal precedente Governo Lombardo, per la costruzione a Niscemi, del sistema satellitare MUOS (Mobile User Objective System) merita qualche riflessione. Se la revoca dell'autorizzazione al Muos, rimarrà un isolato e anomalo episodio di buona politica o diventerà prassi, presto lo verificheremo. Un naturale proseguimento potrebbe essere revocare l'autorizzazione per la ricerca di idrocarburi mediante trivellazione. nella Valle del Belice. In stretto comparaggio con una servile alta burocrazia Regionale la mala politica dei sedicenti difensori dell'autonomia Siciliana oltre al Muos ha autorizzato il 10 ottobre 2012, tre mesi dopo le dimissioni del presidente Lombardo, la ricerca di idrocarburi nella Valle del Belice, area protetta. L'autorizzazione per la ricerca di idrocarburi mediante trivellazioni è stata rilasciata alla Enel Longanesi, una società privata, per un’area di circa 600 kmq, in piena zona sismica, tra parchi, bacini idrogeologici e
davanti a noi, posa sul tavolo la sciarpa, toglie il cappotto e iniziamo a parlare. «Siamo qui perché vogliamo avere i documenti necessari per capire se ci sono le condizioni per bloccare i lavori», esordisce così Guglielmo, spiegandoci inoltre che la loro battaglia è una battaglia di testa perché «dopo quattro anni ancora non abbiamo i documenti per fare i ricorsi, per il controllo empirico sulle quarantuno antenne. Non abbiamo nessun monitoraggio, perché l’ARPA Sicilia soffre i poteri occulti, come quello mafioso e gli stessi Zucchetti e Coraddu (due professori del Politecnico di Torino che nel 2011 scrissero una relazione sui possibili danni provocati dal Muos, ndr) hanno lamentato la precarietà con cui sono stati fatti gli studi». Guglielmo ci spiega che la loro lotta è rivolta soprattutto alle quarantuno antenne che furono installate nel 1991, a causa delle quali, chissà se si tratta di un caso, tre militari italiani si sono ammalati di leucemia e uno di questi è morto: «Qua non si comprende l’inquinamento elettromagnetico. Abbiamo paura».
aree di fondamentale importanza dal punto di vista agricolo, culturale, paesaggistico e zootecnico. L’area interessa i Comuni di Montevago, Santa Margherita Belice (Agrigento), Bisacquino, Campofiorito, Camporeale, Contessa Entellina, Corleone, Monreale, Partinico, Piana degli Albanesi, Roccamena, San Cipirrello e San Giuseppe Jato (Palermo), Alcamo, Gibellina, Poggioreale e Salaparuta (Trapani). Un''area devastata dal terremoto del 1968, che provocò centinaia di vittime. Scientificamente è stato dimostrato un legame tra terremoti e trivellazioni: l'attività d'iniezione di liquidi altamente ad alta pressione influenza in maniera significativa le faglie sismiche, col pericolo di anticipare sismicità. Inoltre, i liquidi iniettati per "ammorbidire "la roccia sono fortemente tossici, con effetti devastanti nel medio periodo. La propaganda politica aveva detto che questi disastri ambientali e umani sarebbero stati risarciti con la riscossione dei diritti di estrazione, ma in Italia le royalties, al 10%, sono le più basse al mondo: negli altri Paesi produttori vanno dal 20 all'80%. Una politica dissennata, servile e ascara ha prodotto questo disastroso modello di sviluppo, che dobbiamo lasciarci alle spalle pensando alle generazione future. Ignazio de Luca
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Catania/ Storie dal mio quartiere
Angela e il Cavaliere Era il 1964 quando Angela viveva in contrada Moncada a Librino. Insieme ai suoi genitori. Lei aveva i capelli castani, gli occhi dello stesso colore, alta, un corpo esile ma forte. Il padre era un uomo di quarant'anni, aveva gli stessi occhi della figlia; i capelli brizzolati, alto, robusto e due mani ruvide rovinate dal lavoro in campagna di Luciano Bruno Infatti lui aveva un agrumeto immenso dove la bambina spesso andava ad aiutare il padre; innaffiava, zappava, seminava. Quando finiva di aiutare faceva delle lunghe passeggiate nello stradale San Teodoro fra uliveti, vigneti e palmenti; camminando lungo la strada un giorno si accorse una collina enorme, sembrava che toccasse il cielo. Restò ferma ai piedi della collina poi decise di salire in cima, appena arrivò lassù rimase senza fiato; davanti ai suo occhi vi erano immensi agrumeti, vigneti, uliveti.
Lei venne rapita dal fresco profumo della natura. La ragazza era molto felice quando arrivava il periodo del raccolto, passava intere giornate nei campi. Poi, una volta finito il raccolto, insieme al padre si recava al mercato a vendere i loro prodotti. La sua famiglia era umile e modesta, viveva del lavoro di campagna. Nonostante la vita semplice era felice. Ma questa serenità non durò per sempre. Il Piano di Zona di Librino Passarono un po’di anni, nel 1976 il Comune di Catania incarica la S.T.A. progetti s.r.l. di redigere il P.d.z. (Piano di zona) di Librino. Proprio dove il padre di Angela aveva il suo agrumeto dovevano passare i lotti C2, C3 e il B2 29, l’attuale Teatro Moncada. Quindi i terreni della famiglia furono espropriati per quattro soldi come terreni agricoli. Per il padre fu un duro colpo, provò a trovare qualsiasi altro lavoro ma non era facile. Angela andò ai piedi della sua collina che si trovava non lontano dalla casa dove abitava, salì in cima, rivide e sentì per l’ultima volta gli agrumeti del quartiere e il fresco profumo della natura. Con i soldi dell'esproprio andarono avanti per un po', poi furono costretti ad emigrare in Germania. L'impresa “Cavaliere Finocchiaro” L'appalto venne vinto dalla impresa di costruzioni “cav. Lavoro Finocchiaro”, in data 30 Marzo 1981; dare gli appalti in concessione in quel periodo era prassi per gonfiare le spese e guadagnare più soldi. I lavori vengono bloccati nel 1984; uno dei motivi potrebbe essere il rinvio a giudizio di Francesco Finocchiaro nel 1984 per scandali nella concessione di appalti. Passano due anni. 15 maggio 1986: una nuova gara d'appalto viene bandita, ad
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aggiudicarsela è la ditta " Structura Costruzioni S.a.s." di Agrigento. I lavori del futuro Teatro Moncada sono in stato avanzato e non risulta nemmeno vandalizzato; cosa molto ricorrente quando si parla di edifici pubblici a Librino. Finalmente la struttura viene completata, ma mai consegnata alla città. Inaugurato da: Enzo Bianco, Umberto Scapagnini e da Rocco Buttiglione, ex ministro dei Beni culturali, il teatro viene abbandonato e vandalizzato. La giunta Scapagnini tra il 2003 e il 2005 accende due mutui con le banche per lavori di restauro all'interno del teatro. Il primo di 2,5 milioni di euro, il secondo di 2 milioni di euro. Ma questi lavori non sono stati mai realizzati. Adesso regnano i pusher 6 febbraio 2013, dopo tantissimi anni Angela torna nel quartiere, non ha più i capelli castani, ma brizzolati, adesso ha una sua di famiglia, é madre di due figli. La prima cosa che nota entrando a Librino sono: le rotonde, le strade larghe, i casermoni di cemento; non sente più il fresco profumo della natura ma l'odore sordo del cemento. La donna vuole far vedere ai figli i posti dov'è nata e cresciuta. Appena arrivati Angela resta senza parole per quello che vede. Un via vai di macchine pronte a comprare la morte per pochi euro, le vedette in sella ai motorini che fanno da pusher, un teatro completamente devastato e abbandonato, proprio lì dove il padre aveva il suo agrumeto. Lei chiude gli occhi e immagina di sentire ancora per una volta quel meraviglioso profumo.
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Riguardo al vastissimo terreno su cui si erge la base militare americana Guglielmo afferma che «nella fase della compravendita del terreno ci sono dei misteri», facendo riferimento alla storia che avevamo sentito qualche ora fa al presidio, e cioè la presunta acquisizione del terreno da parte di Nitto Santapaola sul finire degli anni ’80 e la relativa vendita al Ministero della Difesa del nostro Paese. Il sequestro di ottobre «Il sequestro che c’è stato nel mese di ottobre è un dato fondamentale, ma comunque ci sono altri fatti. Hanno dato gli appalti a una ditta che non aveva l’etichetta antimafia, ma alla fine gli Americani, avendo il terreno in comodato d’uso, non sono obbligati a controllare. Insomma, ci vuole un percorso legale per accertare le responsabilità e per fare
un monitoraggio parallelo a quello dell’ARPA. Viviamo in una realtà controllata e non si può arrivare a smantellare tutto». In netta contrapposizione con quanto fatto dai manifestanti del presidio che sta sotto la base militare. Le differenze tra questo gruppo di protesta e quello che abbiamo conosciuto al presidio sono palesi. Due modi di gestire una battaglia, due tattiche per sconfiggere un nemico comune, anzi il Nemico. «La strumentalizzazione politica ha creato questa scissione. A quelli di destra per esempio è stato vietato di partecipare alla manifestazione del 6 ottobre. Qui a Niscemi alla scorse elezioni il PRC ha presentato la Lista NoMuos, prendendo duecento voti. Siamo stati accusati di fare noi della strumentalizzazione e poi il risultato è questo?», afferma ironicamente Guglielmo, mentre versa un po’ d’acqua in un bicchiere di plastica. «L’unico errore che si è fatto è stato que-
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sto: la strumentalizzazione delle forze politiche. E vi assicuro che noi non abbiamo nessun legame politico col sindaco di Niscemi». “I want you for NoMuos” Prima di chiudere Guglielmo ci inquadra la situazione sociale di Niscemi con questa frase, semplice e secca: «Niscemi è libera dal conflitto d’interesse perché ce l’hanno tutti». Sorridiamo leggermente, ringraziamo Guglielmo Panebianco per il suo tempo e usciamo. Una volta fuori, al centro della chiazza, scatto una foto alla facciata del comune, coperta da un grande manifesto che raffigura uno zio Sam di americana memoria che, puntando il dito, dice: I want you for NO Muos. Poi saliamo in macchina e prendiamo la via verso casa. Attilio Occhipinti
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Resistenze
“Fatti e non parole” Antimafia divisa fra spot e drammi “Nessuno finora ci ha dato un segnale di solidarietà”. Rosario Puglia, vittima dell'usura, non ce la fa più a combattere: “Mi hanno lasciato solo” di Ilaria Raffaele
È una bella giornata di sole di quelle che il Sud regala mentre il resto d'Italia gela al freddo, una giornata piena di luce in cui il sole si riflette sulle viti arrampicate sull'Etna: sono i filari delle Cantine Don Saro, di Rosario Puglia, un uomo che nel suo cuore non ha la stessa luce che fa buoni la sua uva e il suo vino. Rosario è una vittima dell'usura e nel 2008 ha deciso di denunciare i suoi aguzzini, nel silenzio generale di un paese dove tutti sanno ma nessuno fa nulla, dove vige il valore assoluto del “non esporsi”: chi è nelle forze dell'ordine, nella magistratura, nella politica locale – fatte salve rare eccezioni – non interviene.
Rosario, insieme ad altri due imprenditori di Linguaglossa, Letterio Giuffrida e Franco Ragusa, non mangia dal 25 gennaio scorso per protestare contro chi li ha lasciati soli nella loro lotta contro il racket. C'è voluto lo scatto di dignità di tre imprenditori ultrasessantenni per dare una speranza di riscatto a Linguaglossa. Pizzo e crisi Letterio Giuffrida e Franco Ragusa, ormai, non hanno più un'azienda da portare avanti. La mafia ha distrutto per ritorsione la rivendita di ricambi Giuffrida e gli autobus della ditta Ragusa. Ma loro non si sono lasciati intimidire, e hanno messo i cinque bus incendiati nella piazza centrale, monito alla cittadinanza che non vuole sapere, non vuole vedere, non vuole sentire. «Corriamo il pericolo di essere ammazzati perché abbiamo parlato troppo – ha dichiarato Rosario Puglia – Io smetterò lo sciopero della fame quando otterremo le carte definitive per i contributi che ci spettano, l'assistenza e la solidarietà delle istituzioni. Dobbiamo avere certezze concrete». Perché oggi questi tre imprenditori rischiano su un doppio fronte: la loro vita è in pericolo perché si sono ribellati al racket; le loro aziende perché non arrivano gli aiuti dallo Stato per ripartire. Sono come pesci che cercano di risalire il fiume controcorrente: i danni causati da incendi e danneggiamenti, la crisi e la burocrazia farragginosa sono ostacoli altrettanto pericolosi. Per questo Rosario, Letterio e Franco ce l'hanno soprattutto con l'antimafia del-
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le parole. Sono delusi e scoraggiati perché nessuno fino a oggi ha dato loro un segnale di solidarietà. I riflettori dell'informazione nazionale sono accesi altrove mentre la loro battaglia va avanti. Contro l'antimafia delle parole “L'antimafia è una bandiera da sventolare, ma quando si tratta di passare ai fatti e di mettere in collegamento i buoni propositi alle azioni, tutto diventa più difficile”. E così Rosario non riesce a far ripartire la sua azienda, che produce vini di qualità con un mercato che arriva fino negli Stati Uniti, non riesce ad avere una sospensione dei pagamenti dalla sua banca. La politica che si dice antimafia non bada a lui. Antonio Turri, dell'associazione “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, ha tentato invano di fare arrivare una telefonata del presidente della Regione Crocetta a Saro: un atto simbolico per comunicare la vicinanza delle istituzioni a chi lotta contro la mafia. Un gesto troppo difficile da organizzare, che a tutt'oggi non è stato fatto. Nella zona ci sono dieci aziende della grandezza di quella di Rosario, la metà è andata a fuoco. Lui ha già tentato più volte il suicidio, ma sta resistendo. Il perché lo ha scritto in una lettera: «Con l’aiuto di bravi psicologi ho capito che suicidarsi è un comportamento da vigliacco. Quindi ho deciso di mettermi a disposizione della collettività più debole».
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Storia d'Italia
Il patto La trattativa infinita fra mafia e Stato di Pietro Orsatti orsattipietro.wordpress.com
Mentre a Palermo il processo sulla trattativa fra Stato e mafia va avanti, sembra essersi dissolta nella polvere degli archivi, grazie anche alla cronica mancanza di memoria degli italiani, la lunga storia di interlocuzione (sfociata troppo spesso in collaborazione) fra settori dello Stato, dell'economia e della politica e le mafie e in particolare, fino a gli anni '90 con la mafia siciliana prima della sua parziale ritirata sul piano militare dopo l'emergere del nuovo potere "visibile" delle 'ndrine calabresi. Una storia, quella dell’interlocuzione, che potremmo far partire dalla Seconda Guerra Mondiale e che già aveva avuto possibilità di mettere radici profonde ben prima. Forse alla fine la questione sta tutta qui, in questo apparentemente innocuo frammento di diplomazia post-bellica. “L’Italia non perseguirà e non disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data dell’entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate ed Associate o aver condotto un’azione in favore di detta causa”. (Articolo sedici della seconda parte del Trattato di pace fra Usa e Italia, Parigi, 1947).
Di fatto questo articolo del Trattato concede l’immunità (con quel “non disturberà” si va ben oltre) a tutte quelle persone che, dichiarando semplicemente simpatia per gli obiettivi degli Alleati, avevano commesso reati, anche gravi. Da Lucky Luciano in poi Si va ben oltre all’aiuto fornito agli Usa da alcuni noti mafiosi italoamericani primo fra tutti Lucky Luciano in chiave di intelligence durante il conflitto. Luciano, per prevenire e bloccare atti di sabotaggio ai convogli diretti verso l’Europa e il Nord Africa dal porto di New York, venne contattato dai servizi statunitensi mentre era detenuto in carcere, a fine guerra venne liberato e da uomo libero si trasferì in Italia e qui venne accolto dal prefetto di Napoli, che gli consegnò un passaporto nuovo di zecca. L’impunità veniva messa nero su bianco nei confronti di quei mafiosi come Calogero Vizzini (all’epoca al vertice della mafia siciliana) e Genco Russo, che gli succedette: uomini d’onore che favorirono lo sbarco in Sicilia nel ’43 partecipando in alcuni casi come logisti e informatori durante l’avanzata e si trovarono a gestire di fatto una buona parte dei rifornimenti (e anche delle risorse farmaceutiche!) delle truppe alleate con loro società, mutuate dall' organizzazione di borsisti neri, settore di cui avevano il totale controllo. E fin qui il conto pagato dagli Usa alla mafia siciliana e americana per l’aiuto ricevuto, e imposto anche all’Italia con tanto di articolo nel Trattato. Un Trattato siglato mentre andavano in scena le prime fasi della Guerra Fredda e che in qualche modo riapre la porta ai partner innominabili in chiave Atlantica e anticomunista. E l’Italia solo vittima passiva di un patto fra Usa e mafia? Non proprio. Anzi
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per nulla, fin dalle fasi che condussero all’Armistizio del settembre ’43. Per cominciare, grazie a Vito Guarrasi, un giovane sottotenente di complemento dei reparti automobilistici e attendente del generale Giuseppe Castellano, che firmò a Cassibile l’Armistizio per conto di Badoglio dopo numerosi abboccamenti avvenuti nei mesi precedenti a Algeri e Lisbona. Un sottotenente che presenziò informalmente alla firma di quella che fu a tutti gli effetti una resa. Un sottotenente che l’anno successivo compare poi fra i possibili partecipanti a una riunione convocata nel ’44 dal governatore statunitense in Sicilia Charles Poletti su un tema a dir poco sfizioso: se lavorare o no alla secessione della Sicilia dall’Italia per darne il governo alla mafia, come letteralmente scrive al proprio governo Poletti stesso, in due lettere rintracciabili in riproduzione fotostatica fra gli allegati della relazione di maggioranza della Commissione Antimafia del 1976. “Attività di preparazione allo sbarco” Nella stessa relazione si legge un brano che ben fa comprendere quale fosse lo scenario in Sicilia nel ’43: “Mentre Galvano Lanza Branciforti di Travia e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative di armistizio, don Calogero Vizzini da Villalba, amministratore del feudo Polizzello, di proprietà dei Lanza, svolgeva attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia a livello tattico”. Perché quindi il giovane attendente a trattare l’armistizio? La vicenda mostra la necessità che venissero rappresentati determinati poteri: quello del latifondo agrario, della produzione mineraria, della finanza siciliana e non solo, legata direttamente e indirettamente a determinati poteri occulti.
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“E spunta l'avvocato Guarrasi”
Da un lato le logge massoniche tuttora fiorenti soprattutto nel trapanese, dall'altro quella che nel dopoguerra diverrà Cosa nostra, la mafia contadina e padronale che stava già puntando a urbanizzarsi. Le logge massoniche del trapanese E proprio per questo ecco materializzarsi Guarrasi, di un'ottima famiglia di Alcamo, avvocato, industriale, banchiere, “ingegnere” del piano di salvataggio con soldi pubblici delle miniere di zolfo dell’isola, ricco senza ostentazione e rispettato da tutti, morto nel suo letto a Mondello. Per un periodo aveva anche dimostrato simpatie per la sinistra entrando perfino nel consiglio di amministrazione del quotidiano L'Ora e candidandosi come parlamentare con il Fronte popolare nel ’48. Guarrasi il cugino di Enrico Cuccia, (sì, proprio il Cuccia di Mediobanca), nel consiglio di amministrazione dell’Eni di Mattei fino a poco tempo prima che questi morisse. Guarrasi era anche amico del giornalista Mauro De Mauro (che proprio su Mattei e il fallito Golpe Borghese indagava), rapito e ucciso da Cosa nostra, e venne sfiorato dal sospetto di essere uno dei depistatori delle indagini sulla scomparsa del giornalista. Non a caso il suo amico e commercialista Antonino Buttafuoco entrò nella vicenda facendo balenare il sospetto di una vera e propria gestione delle indagini in corso da parte di Guarrasi. La “disponibilità” di Cosa nostra Il potere politico e economico in Sicilia e non solo ha collaborato e ha usato spesso il potere di Cosa nostra. E’ un dato accertato, documentato.
Cosa nostra a volte scendeva in politica direttamente con i suoi uomini (Vizzini, Russo, Navarra e poi anche Salvo Lima, tanto per fare alcuni nomi), ma molto più spesso “si metteva a disposizione”: sia per la propria capacità di raccogliere denaro e voti sia per la propria forza (militare e violenta) di condizionare affari e andamento della politica. E ciò fin da prima della Seconda Guerra Mondiale (basti ricordare ad esempio il vortice di intrecci solo parzialmente individuabili attorno a due omicidi a cavallo dell’inizio ‘900, Notarbartolo e Petrosino), e sia durante che dopo: si è sempre trattato, collaborato, dialogato. Sempre fra l’enorme mole di documenti della Commissione Antimafia che produsse il rapporto del 1976, non resa pubblica perché di fonte in parte anonima, esiste una lista di oltre 600 politici locali e nazionali all’epoca ancora in attività collegati con la mafia se non appartenenti ad essa, come ricorda Michele Pantaleone in Omertà di Stato. Un nuovo fattore: la guerra fredda La Seconda Guerra Mondiale aggiunge solo un nuovo fattore: gli Stati Uniti e le loro due paroline magiche, “anticomunismo” e “guerra fredda”. E Cosa nostra americana e la mafia siciliana (il termine “Cosa nostra” per definire la mafia siciliana arriverà poi, come vedremo in seguito) “si mettono a disposizione”: prima per lo sbarco, poi per garantire il governo civile nel periodo di transizione (quanti sindaci mafiosi vennero imposto dagli Alleati durante l’occupazione?) e in seguito per cancellare i “comunisti” e il movimento sindacale contro il latifondo dall’Isola. Non si trattò solo di una “prestazione“ mercenaria bensì, in più fasi, di un vero e proprio patto di cooperazione fra diversi poteri. E la mafia si presta, a conflitto ap-
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pena terminato, a alimentare e gestire (anche affiancandosi alla banda di Giuliano, o viceversa consentendo a Giuliano di agire in suo concorso) atti di intimidazione, assalti a sedi sindacali e di partito, attentati, omicidi e partecipando, con ogni probabilità, alla logistica se non alla gestione diretta della strage di Portella della Ginestra nel ’47. L'anomalia Buscetta Ed è proprio in questa fase storica (il conflitto e la guerra fredda) che compare un altro giovanotto che diventerà il protagonista di un’altra anomalia: Tommaso Buscetta. L’anomalia in questione è la riunione fra i capi di Cosa nostra americana e i vertici della mafia siciliana all’Hotel des Palmes a Palermo nel 1957. Una riunione in cui ci sono tutti i boss di peso del momento da una parte all’altra dell’Atlantico, compreso Lucky Luciano, e un unico “picciotto”: Tommaso Buscetta. Un incontro in cui vengono decise due cose: la partnership fra americani e siciliani per prendere il controllo del traffico dell’eroina verso l’Europa e gli Usa sostituendosi ai marsigliesi, che ne avevano il controllo logistico e i rapporti con i produttori proprio grazie a un’alleanza con Lucky Luciano, e la creazione a Palermo della Commissione, la formula organizzativa di Cosa nostra. E in tutto questo venne invitato un “picciotto”? Da qui la domanda: a che titolo Buscetta partecipò a quella riunione? Lui, Buscetta, davanti alla Commissione Antimafia nel 1992 nega, anzi dice che non si trattò di giorni di lavoro, come riportato da altre fonti, ma solo di una cena. Anche Giovanni Falcone, probabilmente sposando la ricostruzione di quello che fu il primo e il più importante pentito di mafia e sul quale si costruì gran parte dell’impianto del maxi processo di Palermo, sembra dargli ragione.
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“Adesso hanno gioco facile i politici come Ciancimino”
Ma dall'ottobre '57 cambiò tutto, cambiò la mafia siciliana, cambiò il suo rapporto con la politica e la finanza, e Cosa nostra - come si chiamerà l'organizzazione dopo la nascita della Commissione prenderà il controllo del traffico mondiale di eroina. Solo una coincidenza? La presenza a quella riunione non sarebbe e non è l’unica anomalia della lunga carriera di don Masino Buscetta, che pur non essendo un boss -anche se la stampa lo chiamò “il boss dei due mondi”- fino alla “mattanza”, ossia la seconda guerra di mafia che portò al comando Totò Riina all’inizio degli anni ’80, fu presente e protagonista di innumerevoli passaggi criminali e misteriosi della storia italiana. Dal tentato golpe Borghese a una trattativa poi abortita con le Br per la liberazione di Aldo Moro, dal traffico internazionale di eroina all’ascesa di un ganglio di potere collegabile, attraverso Stefano Bontade, Michele Sindona e i cugini Salvo, alla corrente andreottiana e a Salvo Lima. E non è certo una partecipazione da “soldato”, quella di Buscetta: lui è parte, fungendo a volte da garante di quei passaggi. Buscetta informava la Cia? E’ un caso che più di una volta Buscetta sia stato indicato negli anni ’60 e ’70 (soprattutto negli USA) come un informatore della CIA? Di sicuro l'ipotesi non ci stupirebbe. Bisogna studiare bene gli inizi della sua carriera per capire come questo sospetto sia attendibile: il periodo trascorso in Argentina e in Brasile subito dopo la guerra e proprio nel momento in cui l’America latina era di fatto il supermarket delle spie, i probabili rapporti con i contrabbandieri brasiliano-marsigliesi a Rio De Janeiro. Contrabbandieri collegati al corso Pascal Molinelli, personaggio quasi leggendario che, subito dopo la fine della guerra, fu l’uomo centrale del traffi-
co di stupefacenti dall’Europa agli Stati Uniti. Molinelli, braccio destro e socio di Lucky Luciano da prima della guerra e -ancor prima della droga-, presente in ogni tipo di contrabbando -dai tabacchi agli esseri umani-, ebbe rapporti dopo il conflitto mondiale anche con i servizi israeliani in relazione all’emigrazione ebraica clandestina in Palestina. Dopo qualche anno, al suo ritorno in Sicilia, Buscetta entra nella famiglia del boss La Barbera e diventa uno degli uomini chiave a Palermo, e da Palermo agli USA e all’America Latina. Uomo simbolo anche poi, da sconfitto che resuscita inchiodando con la sua testimonianza i suoi nemici mortali: i corleonesi. E’ la Guerra Fredda, vale tutto in chiave anticomunista. E’ la ricostruzione, vale tutto per conquistare e mantenere il controllo del potere economico e finanziario. E’ la politica atlantica, e vale tutto pur di tenere lontano dal potere il PCI e il sindacato. Vale anche allearsi, collaborare, farsi infiltrare, ibridarsi con il potere mafioso. Vale tutto. E in questo scenario ha gioco facile Cosa nostra, non più mafia rurale ma impero finanziario grazie all’eroina e parte integrante del potere legale grazie alla compenetrazione e alla coincidenza di interessi con pezzi fondamentali della Democrazia Cristiana, non solo nell’Isola ma anche a livello nazionale. Ha gioco facile la Cosa nostra nata dalla strage di Viale Lazio, messa in atto per far fuori Cavataio, che aveva soffiato sulle rivalità fra le famiglie prima e poi si era preso il potere negli anni ’60, nella prima guerra di mafia. Hanno gioco facile Stefano Bontade e gli Inzerillo, i Cugini Salvo e don Tano Badalamenti, Vito Ciancimino e Salvo Lima. Con l'aiuto discreto di don Masino Buscetta che tesse, media, organizza, consiglia, si tiene ai margini e agisce, e fa avanti indietro dall’Italia agli Stati Uniti e all’America Latina.
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Una trattativa benedetta dalla Nato E’ la trattativa continua benedetta dal patto Atlantico e dall’alleato imperialista, che lascia fare ai suoi amici poco raccomandabili pur di mantenere il controllo di quel dente piantato al centro del Mediterraneo. E’ la trattativa continua benedetta dai soldi della Cassa del Mezzogiorno e della ricostruzione del Belice dopo il terremoto. E’ la trattativa dei voli diretti da New York carichi di valigie di narcodollari, dei processi aggiustati, delle talpe nei palazzi di giustizia. E’ la trattativa continua, quella che ti fa immaginare che l’omicidio Mattarella sia la posta lanciata sul tavolo di una partita fra Palermo e Roma. Una trattativa che proseguirà, inarrestabile, anche durante e dopo la mattanza e l’ascesa dei Corleonesi, dopo che avevano ammazzato il poliglotta e raffinato Stefano Bontade, chiamato il Principe di Villagrazia, e la Sicilia era un campo di sterminio. Vincenti e perdenti trattavano tutti, continuavano a farlo nonostante la tragedia in atto, chi dai covi di lusso con vista sulla casa di Falcone, chi dai luoghi protetti offerti oltreoceano, chi dagli attici milanesi. Fino alla caduta del muro di Berlino. Fino alla fine della Guerra Fredda. E dopo, negli anni ’90, con il paese stravolto dalle stragi, e ancora poi, meno in evidenza, nascosti, usando il denaro e non la violenza come merce di scambio, il potere finanziario al posto del tritolo, l’informazione al posto di una lupara. Se fosse ancora vivo Michele Sindona, “il salvatore della lira”, come lo definì Giulio Andreotti, cosa direbbe oggi della P3 e della P4, dell’infiltrazione capillare delle ‘ndrine nella politica e negli affari del nord, delle cricche e dei derivati, della finanza creativa e delle speculazioni sui titoli di Stato? Sorriderebbe, Sindona. E poi direbbe, sempre con un sorriso: “Non vi siete inventati nulla”.
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S C A F F A L E
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Memoria
Chinnici, Radio Aut, e le indagini su Peppino Fu Rocco Chinnici a riaprire e portare a una svolta decisiva le indagini sull'assassinio di Peppino Impastato. Con la collaborazione dei sopravvissuti di Radio Aut, che si fidarono di lui di Salvo Vitale
Il 19 gennaio 1925 nacque Rocco Chinnici. Quest'anno avrebbe compiuto 88 anni. Ma il 19 gennaio è anche la data di nascita di Paolo Borsellino. Per ricordare questi magistrati la Fondazione Chinnici ha organizzato una giornata di riflessione e di iniziative presso il Liceo Meli di Palermo. Su Borsellino è stato detto molto, su Chinnici un po’ meno. La sua carriera si svolse interamente tra Palermo e Trapani: in quest’ultima città e nella contigua Partanna fece i suoi primi passi di magistrato, prima di essere trasferito a Palermo, dove divenne capo dell’Ufficio Istruzione. È a lui che si devono tre grandi intuizioni che hanno rivoluzionato i metodi e il modo di agire contro la mafia: -La creazione del pool antimafia. Del primo gruppo fecero parte i giudici Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e, per esso lavorò anche Ninni Cassarà. Il pool agiva sulla base di una semplice considerazione, ovvero che il lavoro di gruppo è più facile a svolgersi, in gruppo si lavora meglio che individualmente, e crea una conoscenza collettiva e condivi-
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sa che rimane tale anche nel caso che qualcuno dei suoi componenti dovesse venir meno. -L’individuazione e l’aggressione ai patrimoni dei mafiosi. Questi costituiscono uno dei motivi della persistenza della mafia, poiché l’accumulazione di denaro attraverso la violenza è il fine ultimo che guida le azioni della criminalità organizzata: colpire i mafiosi nelle loro ricchezze è il sistema più concreto per ridurli all’impotenza e isolarli. Il lavoro nelle scuole - Il lavoro nelle scuole. Chinnici fu uno dei primi magistrati a dedicare parte del proprio tempo a interventi con gli studenti, nella convinzione che il momento della formazione sia prezioso e fondamentale se si vuole rimettere in discussione la subcultura mafiosa, che spesso accompagna le prime fasi della crescita, trasmessa sia dai nuclei familiari, che dall’ambiente circostante. - L’analisi sulle origini e sullo sviluppo della mafia. Smentendo una serie di storici che facevano risalire il fenomeno ai “bravi” nel periodo della dominazione
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“Il depistaggio di Subranni” di giro” tri. L’onda di luce, o la sua rifrazione sultale scelta cambiava interamente il rapporto con i compagni di Peppino, i quali, dopo alcuni mesi di difficili contatti con coloro che li avevano inquisiti come possibili soci di un terrorista, assunsero un rapporto di piena collaborazione, inviando al giudice un documento in cui si indicavano tutti i possibili punti di ricerca sui quali non s’era mai indagato. Un documento fondamentale
spagnola, alla setta dei Beati Paoli, al permanente feudalesimo diffuso nelle campagne siciliane, Chinnici, nella sua relazione in occasione dell’incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata il 3 luglio1978, disse: “Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita in Sicilia”, e più oltre aggiunge: “La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Il che offre una dimensione più realistica per studiare sotto una prospettiva diversa la spedizione garibaldina, l’invasione piemontese, la feroce repressione del dissenso, definito sbrigativamente “brigantaggio” e il dilatarsi della forbice del sottosviluppo meridionale dopo l’unità. Nel novembre del 1978 gli capitò tra le mani il caso di Peppino Impastato, ucciso nel maggio dello stesso anno. Il giudice Signorino aveva condotto le indagini condividendo all’inizio l’impostazione data dalle forze dell’ordine, in particolare dall’allora tenente Subranni, che si trattasse di un attentato terroristico o di un suicidio. Pare che, dopo una telefonata di Gaetano Costa, allora capo della Procura, Signorino si fosse deciso ad affrontare il caso per quello che era, ovvero un delitto ordito dalla mafia di Cinisi. Di fatto, nel novembre del ‘78 il giudice depositava gli atti, classificando il caso come “omicidio ad opera di ignoti”. Chinnici, allora consigliere capo, riservava a se stesso lo sviluppo delle indagini su Impastato e
Questo documento riveste un’importanza notevole nella storia della magistratura siciliana: è la prima volta che un gruppo di persone inizialmente inquisite si contrappone alle forze dell’ordine nella conduzione delle indagini, individua gli elementi fondamentali che stanno alla base del delitto, predispone e offre al magistrato prove e indizi. Sulla base di quelle indicazioni il magistrato diede una svolta decisa alle indagini, interrogando Giovanni Riccobono, al quale in cugino Amenta aveva detto di non andare a Cinisi la sera del delitto, incriminando per falsa testimonianza i cugini di Riccobono, inviando una comunicazione giudiziaria a Giuseppe Finazzo, detto “u Parrineddu”, presunto esecutore del delitto e titolare di una cava di pietrisco da cui probabilmente era uscito il tritolo per il delitto, e infine mandando i periti del tribunale a indagare sugli abusi edilizi consumati con la complicità dell’Ufficio Tecnico di Cinisi. Il documento non è stato mai ritrovato né tra le carte processuali, né tra le carte di Chinnici, il quale non lo avrà reso noto forse per proteggere i compagni di Peppino che glielo avevano consegnato. Probabilmente sarà saltato in aria con la borsa che il giudice si portava appresso al momento dell’attentato. Ecco il testo del documento, pubblicato nel libro di Salvo Vitale Nel cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la mafia (Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995): Il promemoria di Radio Aut All’attenzione del giudice Chinnici “Pur non volendo entrare nel merito delle sue competenze, sottoponiamo all’attenzione della S.V. alcuni punti ai quali, a nostro parere, nel corso delle indagini, non si è prestata sufficiente attenzione: 1) La torre di controllo dell’aeroporto dista dal luogo del delitto circa 500 me-
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la vicina montagna, causata dall’esplosione, avrebbe dovuto, necessariamente, essere notata dalla torre: riteniamo occorra una testimonianza degli addetti al lavoro e il prospetto del traffico aereo della sera dell’8-5-78, comprese le condizioni di visibilità, nel caso che l’esplosione fosse avvenuta in coincidenza con la partenza di qualche aereo che ne abbia potuto, in parte, coprire l’esplosione; 2) Tabella del traffico ferroviario dell’8-5 per delimitare il tempo intercorso dal passaggio dell’ultimo treno a quello del mezzo che ha rilevato la rotaia divelta; 3) La mattina del 9-5 i carabinieri di Terrasini si presentavano alla sede di Radio Aut aprendo con una chiave, che affermavano essere quella dell’Impastato. Siamo tutti certi che Peppino teneva questa chiave nella tasca destra dei pantaloni, separata dalle altre. Come mai i carabinieri sapevano che quella chiave isolata era quella della radio? Inoltre, la persona che ha raccolto i resti, tal Liborio, necroforo comunale, disse in giro che i carabinieri gli avrebbero detto di cercare in un determinato posto, dove, tra le pietre, egli avrebbe trovato la chiave. Riteniamo opportuna una verifica. 4) Il casello ferroviario dista circa 500 m. dal luogo dell’esplosione: come mai il casellante non ha sentito niente? Riteniamo opportuno risentire la versione di costui e, se fosse necessario, ripetere l’esplosione nello stesso posto, onde accertare un’eventuale falsa testimonianza; 5) Se è vero che l’esplosivo era del tipo DNT, usato nelle cave, controllare i registri di carico e scarico d’esplosivo della cava di pietrisco di Manuele Finazzo, distante poco meno di 600 m. dal luogo dell’esplosione, delle cave di sabbia dei D’Anna, noti mafiosi di Terrasini, di Caruso, anch’egli di Terrasini, nonché
“Uno strano guasto”
Disegni di Gaetano Porcasi
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delle cave di pietrisco di Giacomo Impastato e di Pastorelli, in contrada Cippe, vicino Montelepre;6) Prendere atto della versione di Giovanni Riccobono, venuto quella sera da Palermo, dove abitava nei giorni lavorativi, per avvisare Peppino Impastato che “doveva succedere qualcosa di grosso a Cinisi”, stando all’avvertimento fattogli dal cugino, e, di conseguenza, interrogare quest’ultimo: la pista potrebbe rivelarsi fondamentale; 7) Prendere atto della testimonianza di Vito Lo Duca che, quella sera, in macchina con Matteo Giammanco, è stato seguito, per parecchio tempo, dalla macchina di Pizzo Salvatore, abitante in via Caruso a Cinisi, indagando su eventuali connessioni dello stesso con ambienti mafiosi; 8) Circa dieci giorni prima del delitto, il motore della macchina di Peppino aveva subito uno strano guasto, dovuto all’immissione di zucchero e nafta nel serbatoio della benzina. Riteniamo opportuno sentire, in merito, il sig. Saverio Orlando, (via Nazionale, Cinisi), che è il meccanico che ha riparato la macchina; 9) Prendere atto del bollettino “Dieci anni di lotta contro la mafia” edito dalla Cooperativa editoriale Centofiori, e, in particolare, dei volantini scritti da Peppino ed ivi pubblicati a p. 10, con specifiche accuse ad alcuni individui e verso alcune speculazioni; 10) Prendere atto di alcuni passaggi della trasmissione “Onda Pazza”, di cui consegniamo i nastri, e del modo in cui erano ridicolizzate le figure di alcuni ma-
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di giro”
fiosi ed evidenziate alcune speculazioni, in particolare l’approvazione, in via segreta, dei due progetti del palazzo a cinque piani del Finazzo, che gestiva, assieme al citato fratello Manuele, la cava, e del progetto di costruzione di 600 mq. di seminterrati al camping z 10. Verificare la delibera del Consiglio Comunale; L'agenda di Peppino 11) Prendere atto dell’agenda di Peppino e della sua richiesta di comizio per il 12-5, presentata ai carabinieri; 12) Prendere atto degli appunti di Peppino, presumibilmente la scaletta di un comizio, in cui si denunciano alcune speculazioni dell’amministrazione locale; 13) Prendere atto delle foto della mostra del 7-5 e dei fatti ivi denunciati: tale mostra precede di un giorno l’assassinio; 14) Testimonianze sui contenuti dei comizi di Impastato; 15) Prendere atto delle strane effrazioni ad opera di ignoti, in cui niente è stato portato via, verificatesi giorni dopo l’omicidio, nelle case di campagna di Benedetto Cavataio, di Giuseppe Manzella, di Ferdinando Bartolotta e, per ben cinque volte, a casa della sig.ra Fara Bartolotta, presso la stazione, domicilio abituale di Peppino. Con ogni probabilità chi ha scassinato cercava qualche eventuale dossier scritto da Peppino, sulla cui esistenza a Cinisi si era sparsa la voce; Le speculazioni edilizie 16) Indagare sulle forniture mafiose fatte ai cantieri Mazzi e Romagnoli, per la costruzione dell’autostrada Punta Raisi-Mazara: in ciò sono implicati il solito Finazzo, i soliti D’Anna, Caruso, Impastato, Pastorelli: con quest’ultimo sembra lavori anche un geometra-capo dell’ANAS, Pino Lipari, azionista, nello stesso tempo, del villaggio turistico Z 10 e figlioccio del defunto mafioso Sarino Badalamenti, oltre che visitatore assiduo del di lui cugino Gaetano. Tali attività speculative sono state oggetto di denuncia in pubblici comizi, in particolare dell’ultimo, tenuto domenica 6-5 da Impastato; 17) Accertare la provenienza del pezzo di tela di sacco, sporco di sostanza gelatinosa di colore argenteo, in cui presumibilmente era avvolto l’esplosivo, telo ritrovato e consegnato ai carabinieri da alcuni compagni di Peppino (Faro di Maggio ed altri).
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momento in ci stava conquistandosi quel consenso popolare, confermato dalla numerosa presenza di ascoltatori ai suoi comizi e dai risultati della domenica successiva alla sua morte, quando, com’è noto, la lista di Democrazia Proletaria ha ottenuto il 6,5% di voti e Impastato ha riportato il maggior numero di suffragi, risultando eletto. Per qualsiasi altra delucidazione i redattori di Radio Aut e i militanti di D.P. di Cinisi si ritengono a disposizione della S.V. La Redazione di Radio Aut” Una grande umanità
Conclusione: la presenza, scontata, di Peppino al Consiglio Comunale, sarebbe, senza dubbio servita a documentare, con dati più precisi, le accuse sulla gestione amministrativa locale, dati i suoi poteri di consigliere. Dette accuse, formulate durante i comizi o per via radio, potevano essere anche ignorate dalle autorità, una volta ufficializzate in Consiglio comunale con interrogazioni, interpellanze, interventi, avrebbero inevitabilmente avuto ben altra efficacia: infatti, sulle stesse, né il Consiglio comunale né le autorità avrebbero potuto omettere un’indagine formale: Peppino Impastato consigliere comunale sarebbe stato ben più pericoloso di Peppino Impastato semplice militante comunista. Egli è stato ucciso proprio nel
Di Rocco Chinnici si ricorda la sua grande umanità, pari alla severità con cui istruiva i processi contro i mafiosi, la sua capacità di entrare all’interno dell’animo di coloro che stava interrogando e di trattare con riservatezza gli elementi delle sue indagini. Nel 1986 il giornalista Alberto Spampinato, nel Calendario del popolo, riferiva che, in un colloquio con Chinnici, a proposito del caso Impastato, questi gli aveva detto: “Ce la metto tutta. E’ come se avessero ucciso mio figlio”. E’ davvero emblematico un pensiero espresso da Chinnici e al quale si sono ispirati tutti i giudici che ne hanno raccolto l’eredità: “La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi
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“Una paura fondata” di giro” nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare”. Purtroppo la sua era una paura fondata. Aveva la precisa convinzione che all’interno del palazzo di giustizia esistessero talpe, funzionari, legali e magistrati al servizio della mafia. Scriveva di suo pugno i verbali, evitando di ricorrere al segretario. Nel suo diario, pubblicato dal Giornale di Sicilia dopo la sua morte e troppo frettolosamente tolto dalla circolazione, ci sono una serie di considerazioni e riflessioni amare sugli intrecci tra alcuni magistrati suoi colleghi e i mafiosi. Nel suo libro “Mafia” Enzo Guidotto racconta che, quando Chinnici e Gaetano Costa dovevano scambiarsi delle idee o parlare di cose riservate, si mettevano in ascensore pigiando più volte i pulsanti del sali e scendi, mentre comunicavano. Chinnici e Gaetano Costa Rocco Chinnici fu ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all'età di cinquantotto anni. Morirono con lui nell’esplosione il carabiniere Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della sua scorta, e il portiere dello stabile Federico Stefano Li Sacchi. Ad azionare il detonatore che provocò l'esplosione fu il killer mafioso Antonino Madonia. Senza nulla togliere a Falcone e a Borsellino e ad altri giudici vittime della mafia, possiamo considerarlo la più alta espressione della magistratura in Sicilia.
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Storia
Donne e mafia in Sicilia Fra omertà e ribellione di Elio Camilleri Buscetta diceva che la donna era lo “stampo” dell’uomo, cioè aveva la forma che il maschio che le stava accanto aveva voluto per lei: ubbidiente, sottomessa, silenziosa, rispettosa dell’autorità del capo famiglia. Dentro la Sicilia era così ed anche in tante periferie agresti del nostro Paese, ma dentro Cosa nostra la cosa era sicuramente più “sentita”, perché dentro Cosa nostra la prima regola è il silenzio e, quindi, l’omertà che pure comprende, oltre al “non parlo” anche il “non sento” e il “non vedo”. La donna siciliana ha, così, sofferto un condizionamento in più ed è sta costretta a rimuovere un ostacolo in più per liberarsi dalla soggezione e dalla sottomissione. Ma fu proprio Buscetta a stracciare la fondamentale regola del silenzio sulla quale Cosa nostra aveva costruito il suo dominio sui suoi affiliati e su pezzi significativi della società siciliana e, allora, dopo Buscetta, le cose cambiarono sensibilmente per tutti e, quindi, anche per la donna siciliana dentro Cosa nostra. Il “pentitismo” maschile inaugurato da Buscetta, avendo prodotto centinaia di arresti, decine di ergastoli e migliaia di anni di detenzione, aveva costretto, infatti, Cosa nostra ad affidare alle donne, cioè alle mogli o alle sorelle o figlie dei detenuti, quelle mansioni che da sempre erano state svolte dai “maschi”. Cosa nostra avvertì che le “affiliazioni” con tanto di rito, santino e “punciuta” e sangue e bacio non avevano più senso e si servì, piuttosto di gente abile a trafficare in droga e ad imporre il pizzo, ma non degna di diventare “uomo d’onore”: certo, perché l’ “uomo d’onore” poteva sapere tutto di tutti, ma le nuove reclute evidentemente non potevano accedere alle informazioni più riservate. Le donne, allora, cominciarono a tenere i contatti tra i loro congiunti detenuti e i
mafiosi in libertà, sia latitanti che no, a controllare il gettito delle estorsioni, delle altre attività lecite ed illecite e a ridistribuire le risorse così accumulate ai detenuti e per le parcelle degli avvocati. Come si vede, in Cosa nostra prima del “pentimento” di Buscetta, la donna era strumentalizzata per il suo silenzio, mentre nella nuova situazione la donna è strumentalizzata per il ruolo attivo che deve svolgere. Fra l’altro, la donna era ancora, per così dire, “favorita” dal persistere di stereotipi e di luoghi comuni sulla sua “arretratezza culturale” e sulla sua “dipendenza e sottomissione” all’uomo, sicché il giudice non aveva neppure gli strumenti per incriminarla per “associazione mafiosa” ma solo per favoreggiamento e, trattandosi di favoreggiamento nei riguardi di un familiare, non era neppure punibile. Ciò fino alla sentenza della Corte di Cassazione del 25 settembre del 2005 che imponeva di fare riferimento ai fatti accaduti e non più agli aspetti culturali e sociologi della condizione femminile. Naturalmente tali nuove incombenze furono soddisfatte in diverso modo dalle donne familiari dei detenuti: Pietra lo Verso, prima maledisse il marito “pentito” dicendo che per lei e per i suoi figli era morto, ma, poi, nel 1984, volle ricongiungersi a lui e cambiare vita. Anche Pina Spadaro nel 1987 prima maledisse il marito e poi chiese agli investigatori di poterlo raggiungere nel luogo segreto della “protezione”. Carmela Iuculano svolse per un certo periodo il compito di “postina”, ma poi, condizionate dai suoi figli ancora piccoli, decise, nel 2004, di “collaborare” con la giustizia, rompendo ogni legame col marito detenuto e con la “famiglia mafiosa”. Giusy Vitale svolse addirittura il ruolo di capo mandamento, a Partinico, in sostituzione del fratello detenuto, poi fu arrestata e, in previsione di una lunga pena detentiva, decise di iniziare anche lei, nel 2011, “la collaborazione” con la giustizia. Le familiari delle vittime della mafia, una dopo l’altra, da Serafina Battaglia (1962) in poi, presero coraggio e collaborarono con polizia e magistratura nella ri-
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costruzione dei fatti, nella individuazione delle responsabilità e nella conseguente incriminazione dei colpevoli: oltre alla già citata Pietra Lo Verso, Michela Buscemi nel 1987, e infine, il 2 novembre 1996, Filippa Spatola, vedova del boss Salvatore Inzerillo volle lanciare dalle pagine del Giornale di Sicilia il seguente, accorato appello: “Donne di mafia, ribellatevi. Rompete le catene; Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Basta con questa spirale senza fine. Lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell’amore di dio. Lasciate che i vostri figli crescano secondo i princìpi sani, capaci di esaltare quanto di bello c’è nel mondo ". L’universo femminile si è manifestato anche negli esempi del rigore e della “fedeltà” totale a Cosa nostra: Rosali Basile, moglie di Vincenzo Scarantino, implicato nella strage di Via D’Amelio. Giuseppa Mandarano, moglie di Marco Favaloro, imputato e “pentito” per l’omicidio di Libero Grassi dichiarò che il marito era un infame e che non lo avrebbe mai più voluto vedere. Rosa Romeo, sorella di Pietro, killer al servizio di Leoluca Bagarella, nel momento del “pentimento” del fratello, lo rinnegò giudicandolo pazzo e infame. Angela Morvillo tentò di dissuadere il marito Fedele Battaglia dal “collaborare con la giustizia, ma poi acconsentì a seguirlo con due delle quattro figlie nella località segreta per poi abbandonarlo per tornare a Palermo. Al termine di questa veloce e sommaria carrellata va ricordato il caso di Vincenzina Marchese, moglie di Leoluca Bagarella e devastata da formidabili e insopportabili preoccupazioni per non riuscire a dare un figlio al marito, da un senso di colpa per le responsabilità del marito per la scomparsa del piccolo Santino Di Matteo, avvertita come “punizione divina”. Vincenzina Marchese si suicidò, ma anche questo non è assolutamente certo, il suo corpo fu sepolto nel bosco accanto a Bellolampo, dissepolto, fatto a pezzi e bruciato.
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Musica
Il genere ECM 1969, secoli fa... di Antonello Oliva In Italia c’erano appena stati il ’68, Louis Armstrong a Sanremo e qualche bomba a piazza Fontana, in America Miles Davis pubblicava Bitches Brew, a Bethel si svolgeva il festival di Woodstock, e mentre in Vietnam si uccideva, un altro Armstrong, Neil, metteva il primo piede umano sulla luna. In Italia c’erano appena stati il ’68, Louis Armstrong a Sanremo e qualche bomba a piazza Fontana, in America Miles Davis pubblicava Bitches Brew, a Bethel si svolgeva il festival di Woodstock, e mentre in Vietnam si uccideva, un altro Armstrong, Neil, metteva il primo piede umano sulla luna. Tante altre cose naturalmente, ma tra queste, in Germania, a Monaco di Baviera, un certo Manfred Eicher, fondava la Edition of Contemporary Music, un’etichetta discografica conosciuta in seguito con l’acronimo ECM. Fatti di portata diversa certo, ma nessuno secondario, perché guidata dal lucidissimo pensiero di Eicher, la ECM nasceva per diventare una delle più importanti società di produzione musicale del nostro tempo.
Certamente la più esclusiva e singolare, sin dall’inizio, e in ogni suo carattere, dalla qualità delle incisioni alla sobria e distintiva eleganza della grafica, ma soprattutto, ed è in ciò che consiste l’unicità, la sola forse ad essere riuscita a raggiungere il successo commerciale, senza per questo aver dovuto mai mediare sulla qualità delle opere musicali proposte. E’ stato questo il capolavoro di Manfred Eicher, il resto sono meriti, preziosità come The Köln Concert di Keith Jarrett, Officium di Jan Garbarek e l’Hilliard Ensemble, The Sea di Kethil Bjornstad, Chaser, di Terje Rypdal, per citarne solo alcuni tra i più e meno noti degli oltre mille titoli pubblicati in quaranta’anni dall’etichetta bavarese. Il capolavoro di Manfred Richer Volendo banalizzare verrebbe da dire “la qualità paga”, ma poi bisognerebbe continuare con roba tipo l’amore è una cosa meravigliosa, tanto va la gatta al lardo e cose di questo genere. In realtà, soprattutto di questi tempi, nessuno investe più sulla qualità, non perché non ce ne sia domanda, ma perché intanto bisogna saperla riconoscere, e poi perché comunque sia quella del “poco impegnativo” è sconfinatamente superiore. Ma non è finta. Nel 1984 Eicher ha fatto una cosa ancora più sorprendente, apparentemente fuori da ogni logica commerciale: ha creato la linea New Series, e l’ha dedicata alla produzione di musica classica contemporanea. Se quella iniziale, stando alle finalità, si presentava come una impresa, questa della New Series più che disperata sembrava folle, perché voleva dire intervenire con il prodotto più
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ostico e difficile da vendere, in un settore, quello della classica, da tempo commercialmente in costante contrazione. Per inaugurare la serie fu scelto il magnifico Tabula Rasa del compositore estone Arvo Pärt, che non era uno sconosciuto, ma neppure a quel tempo ancora celebre, né tanto per cambiare musicista di facile fruizione. Nessuno insomma ci avrebbe scommesso una lira, e invece ancora una volta è stata la visionarietà di Eicher ad averla vinta, e la New Series non solo è sopravvissuta, ma è cresciuta, e spaziando dal barocco al contemporaneo, da Dowland a Giya Kancheli, György Kurtág, Meredith Monk, è forse al momento la realtà più viva e stimolante dell’intero panorama produttivo di musica colta. Tra le tante perle di questa collana è impossibile non ricordare oltre al già citato Tabula Rasa, sempre di Part la recente Sinfonia n.4, e il meraviglioso Little Imber del georgiano Giya Kancheli, per non dire delle ben tre magnifiche interpretazioni degli Inni Sacri di Gurdjeff, affidati a Keith Jarrett, al duo formato dal pianista Vassilis Tsabropoulos e la violista Anja Lechner e al Gurdjieff Folk Instruments Ensemble. Il famoso abbattimento degli steccati Unico comune denominatore di tutto ciò è sempre stato e continua ad essere il superamento della concezione di genere musicale, il famoso abbattimento degli steccati, ma ricercato con tale convinzione e personalità, da avere dato vita, paradossalmente quasi a un nuovo genere, il genere ECM.
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Storie
Sensi di colpa Un'isola di paradiso, fra pesci angelo e delfini. Nel mondo di domani vivremo tutti così... di Jack Daniel
Di tanto in tanto veniva colto da sensi di colpa. Talvolta la mattina, appena svegliato, quando il sole dei tropici premeva contro la tendina della finestra. Oppure poco dopo, scendendo le scale del bungalow, diretto al patio per consumare la sua colazione circondato dalla spiaggia bianchissima, bagnata dal turchese dell’Oceano. A volte, invece, quel senso di colpa lo coglieva nel corso della giornata, magari mentre nuotava nella laguna del suo atollo verso la barriera corallina, in cima alla quale si appostava per ore perdendosi a guardare i pesci angelo che volteggiavano sui coralli oppure a scorgere, nel blu, le ombre veloci dei delfini che passavano. Persino in certe sere poteva provare quel disagio, un’ombra sulle sue cene in compagnia della donna più bella che avesse mai conosciuto e corteggiato. Non era stato facile vincere le sue resistenze, all’inizio, ma poi era riuscito a convincerla, allettandola con la prospettiva di vivere lì, in quel paradiso in terra, la maggior parte del tempo.
Erano passati già due anni, volati come una sola settimana, da quando si erano trasferiti. Avevano a disposizione, solo per loro, un villaggio intero di bungalow e capanne mentre il personale di servizio, discretamente, abitava fuori dagli sguardi, nascosto dal fitto dei palmeti. Tutti i giorni tutti i mesi tutti gli anni In fondo non era del tutto scontento di quel senso di colpa, era un’ulteriore prova del suo animo gentile. La sua vita era quella di un privilegiato, non poteva certo negarlo: per fortuna, abilità, intelligenza, a lui era concesso ciò che gli altri potevano solo sognare. Gli altri, quel resto di umanità che popolava affollati dormitori, se non baracche di favelas, che si alzava la mattina per andare a sprecare la giornata in occupazioni noiose e alienanti al solo scopo di guadagnare quel minimo di sostentamento per un’ulteriore giornata sprecata. E così per tutti i giorni e tutti i mesi e tutti gli anni, senza speranza di un cambiamento e col solo conforto di un’oretta di collegamento in realtà virtuale la mattina o la sera, sempre che le forze lo per-
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mettessero. Quell’ora di realtà virtuale, che concedeva il sogno e l’illusione di essere l’imperatore del mondo o un grande sportivo o un acclamato divo era l’unico conforto ad una povera esistenza. Proprio pensando al resto dell’umanità, di tanto in tanto, veniva colto dai sensi di colpa, magari quando, come ora, ammirava la spuma bianca delle onde cavalcare le acque cobalto. Anche se, a guardar bene, quel blu tendeva a scolorirsi mentre una nebbia sembrava calare sul mare, densa, che annullava la differenza dei colori coprendo tutto di grigio. Il mormorio della risacca, un lieve sussurro poco prima, cresceva di intensità, copriva la brezza tra le palme e ad aumentava, ancora, sino a diventare un rumore, un frastuono, stridente, insopportabile, acuto, un urlo, quasi, una sirena. Le sette. L’ora di realtà virtuale era terminata; aveva dieci minuti, non di più, per prepararsi, correre alla lurida metropolitana e precipitarsi nel suo cubicolo dove avrebbe sprecato le prossime ore affannandosi per nulla. Dodici ore, doveva resistere dodici ore prima di poter tornare alla sua isola, nel suo atollo, tra i suoi pesci angelo che guizzano tra i coralli.
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Politica/ La campagna del signor B.
“Calcio, sesso e portafoglio” E intanto papa Ratzinger, anziché attendere il voto, ha preferito calare il suo pesantissimo “asso” nel bel mezzo della lotta politica per il governo del Paese di Riccardo De Gennaro
La promessa che abrogherà l’Imu sulla prima casa (dopo l’Ici di precedenti elezioni), la garanzia che creerà quattro milioni di posti di lavoro (dopo quell’ormai celebre milione), l’acquisto di un calciatore di spicco (Balotelli, dopo il ritorno di Kakà), l’annuncio di un condono tombale (questa volta fiscale ed edilizio insieme), lo sketch maschilista con una ragazza compiacente e compiaciuta (“quante volte viene?”), l’allarme per il pericolo rosso (Vendola, dopo Bertinotti) incarnato dallo schieramento avversario.
Nella sua campagna elettorale Silvio Berlusconi ha servito agli italiani la solita minestra ed è la terza o quarta volta che la riscalda. Bersani, il signor Un po' I sondaggi dicono che molti elettori la minestra riscaldata la berranno ancora, folgorati non si sa più da cosa, se si considera che Berlusconi non ha mai mantenuto una sola delle sue promesse elettorali. C’è ancora – tra i meno avveduti – chi gli crede, non perché colpito dalla sagacia del tycoon televisivo che trasforma la politica in spettacolo, ma perché condivide con lui l’adorazione della santissima trinità: calcio, sesso e portafoglio. Nessuna inchiesta giornalistica, nessun processo giudiziario, nessuna pubblica denuncia della sua ignoranza, della sua superficialità, della sua mancanza di stile, del suo vuoto morale farà mai desistere questa quota, purtroppo consistente, di elettori dal votarlo. Bersani, il signor Un po' In quanto a promesse, neppure il Pd ha fatto mancare al suo elettorato la principale bugìa, una bugìa buona per tutte le stagioni: “La prima cosa che faremo quando saremo al governo sarà la legge sul conflitto di interessi”, ha detto spudoratamente il leader del centrosinistra, Pierluigi Bersani, imitando in questo Prodi, che dopo aver vinto ha retrocesso il provvedimento in questione, invocato da tutto l’elettorato di sinistra, all’ultimo punto del suo programma.
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Bersani, il signor “un po’”, così come Veltroni era il signor “ma anche”, si è poi esibito in un gesto apparentemente nobile, un pubblico abbraccio a Chiara Di Domenico, una giovane precaria, che aveva appena terminato di spiegare a lui e allo stato maggiore del Pd il dramma esistenziale di tutti i giovani precari, dimenticandosi, Bersani, che la precarietà ha avuto avvio con il “pacchetto Treu”, varato dal governo Prodi del quale Bersani era ministro. La campagna elettorale è stata brutta, come ha scritto anche il politologo Sartori, noiosa, banale, priva di contenuti, caratterizzata più che altro dall’esibizione di un paio di cagnolini adottati (uno perfino dal professor Monti, che qui ha perso definitivamente la serietà e l’aplomb che lo distingueva, ad esempio, da un Grillo) e dai consueti slogan dove quello che conta è la famiglia. Un nuovo papa, un nuovo presidente... Una campagna elettorale talmente noiosa e prevedibile che è sembrato addirittura provvidenziale l’annuncio delle dimissioni dal suo pontificato di papa Ratzinger, il quale anziché attendere il voto ha preferito calare il suo pesantissimo “asso” nel bel mezzo della lotta politica per il governo del Paese. Ci sarà da eleggere un nuovo papa, un nuovo presidente della repubblica e, nel frattempo, vedremo se il vincitore delle elezioni sarà in grado di governare o se avremo un Monti bis in vista di nuove elezioni. È raro che in Italia qualcosa cambi, ma questa potrebbe essere un’occasione.
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Sicilia
Palermo di ieri, di oggi e dell'altroieri “Orlando come un moderno Prometeo incatenato all’emergenza sociale...” Giovanni Abbagnato
Tante sono le definizioni che si potrebbero attribuire ad una città come Palermo, condannata ad essere importante quinta città d’Italia, custode, invero molto disattenta, di un inimmaginabile patrimonio storico, artistico e ambientale. Una città che millanta continuamente di potere essere al passo con le sue storiche vestigia affondando le sue radici indietro nel tempo per illudersi, e illudere, di poterle gettare perfino oltre le difficoltà del presente. Forse, si potrebbe parlare di città che “ammutta” (spinge) per dare il senso di una comunità che da una parte fa tanta fatica a riemergere da una storia - antica e recente - di abbandono e saccheggio e dall’altra sa dimostrare una straordinaria vitalità. Eppure aleggia tra le grandi arterie urbane, come tra i vicoli, qualcosa che è un po’ più di un’illusione. La percezione che questa città, con la sua gente, possa riprendere un percorso che qualche tempo fa la portò - tra tanti limiti, contraddizioni e traguardi mancati - a cambiare indelebilmente il suo profilo, anche conservando i connotati di un ritardo diffuso sul piano socio-culturale.
Gli anni ‘80 e ’90 di Palermo – la cosiddetta “primavera” – non realizzarono certamente tutte le premesse che si erano affacciate prepotentemente alla ribalta nazionale ed internazionale grazie ad una parte della città – non certo maggioritaria, ma quantitativamente e qualitativamente significativa - che decise di prendere per mano un’altra parte più ampia della stessa città per andare oltre la presunta ineluttabilità del dominio incontrastato di un potere politico-affaristico mafioso che sembrava inamovibile. Meriterebbe più che un pensiero riconoscente tutto quello che, impetuosamente e torrentiziamente, si mosse in quella fase, sicuramente non senza errori, conformismi e sterili protagonismi. Lo meriterebbe quel tempo di rinascita, fosse solo per le contraddizioni che si aprirono nel mondo politico-istituzionale, giudiziario ed economico in quegli anni. Anni come figli rinnovati di una tradizione di riscatto civile e antimafioso non nuova per Palermo e la Sicilia. Ma poi venne il Sindaco Cammarata e le sue giunte caratterizzate, con riconoscimento unanime, per la vocazione allo sfascio data, oltre che dai vecchi vizi della politica cittadina, anche da un’evidente inadeguatezza amministrativa e culturale. Qualcuno, provocatoriamente, affermava che una città come Palermo poteva perfino permettersi un’amministrazione disonesta, ma giammai un’amministrazione demenziale e irresponsabile. Ma qualcun altro, anche dal campo dei democratici progressisti della città, dovrebbe anche ammettere che Cammarata non è stato solo il frutto avvelenato del berlusconismo, al suo massimo livello di espansione, ma anche il portato di tragici errori, tattici e strategici. Infatti, la “primavera” si diluì troppo presto in un trend assolutamente negati-
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vo che consegnò la città ai nuovi-vecchi dominatori e quel mondo variegato della politica rinnovata, spesso proveniente dalla cosiddetta società civile, magari spesso attiva nell’impegno sociale, sembrò annichilito e pronto a tollerare tutto, dimentico del fatto che ancora poco tempo prima aveva dato l’illusione di un progresso senza ritorno. L’avanguardia di un blocco sociale complessivamente virtuoso appariva, tutto di un tratto e come nella tradizione, divisa, disgregata e incapace di reagire al nuovo sacco della città.
Palermo delle speranze Eppure non era possibile pensare, anche in quel frangente buio, che Palermo non fosse diversa, anche sotto l’oscurantismo dei pretoriani berlusconiani, fatto anche da ricorrenti faide interne. Palermo delle rotture e delle speranze si era ancora una volta ingrottata, come i suoi fiumi sotterranei, normalmente assenti per tanto tempo da farne dubitare l’esistenza, ma capaci, nonostante il pesante depauperamento idrico-ambientale operato nel tempo, di riemergere imprevedibilmente vorticosi tra i vicoli e le piazze del vecchio centro storico. Oggi, sotto la morsa ferrea della crisi economica e del decadimento morale dell’intero Paese, si registra il ritorno al governo della città di un protagonista principale di quella primavera che, piaccia o no, è riuscito a dilatare l’uso comune del termine Sindaco che ormai a Palermo, nel linguaggio comune delle borgate, è sinnacuollando. Si, Orlando Leoluca ancora Sindaco, protagonista e metafora di una città che non sa andare oltre il suo passato e per sopravvivere non riesce e non può che vivere con il capo rivolto all’indietro.
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"Se un sogno è di uno solo, è solo un sogno; se lo sognano in tanti, è la politica"
Eppure la città, anche quella che vive l’orlandismo quasi con un carico di risentimento personale, sa che in questa fase non è possibile prescindere “ru sinnacuollando” e dal suo bagaglio politicoculturale e di relazioni. Lo sanno le schiere inferocite dei dipendenti della grande malata partecipata del Comune Gesip, e delle altre Aziende ex municipalizzate Amat e Amia, dove il saccheggio più tristo di irresponsabili amministratori è stato caotico ed incontrollabile. Lo sanno anche i circoli benpensanti dell’ancien régime borghese cittadino che hanno fatto la solita devastante alleanza con il sottoproletariato urbano per affidare irresponsabilmente le sorti della città a Berlusconi e al suo seguito più screditato e irresponsabile, rintracciabile nel già variegato mondo di nani, ballerini – con il massimo rispetto per i veri nani e ballerini – e di cultori dell’illegalità presenti nel suo partito di plastica. Orlando come un moderno prometeo incatenato dall’emergenza sociale, più forte che altrove, alla rupe della sua città che deve governare in un tempo in cui la rigida politica delle compatibilità economiche rischia di fare vivere le città, e le loro amministrazioni, nell’affanno costante dell’emergenza che tradizionalmente si propone alternativa all’innovazione dei metodi e dei processi. Un’alternativa ineludibile in una città come Palermo, “condannata” ad essere grande ed importante. Orlando che sa bene, e non ne fa mistero, di essere maggioranza elettorale, ma anche minoranza culturale. Orlando che però, forse, non ha ancora dimostrato di avere compreso che caricarsi tutti i bisogni di questa città – tantissimi, variegati e ancora troppo legati alla delega verso qualcuno – richiede uno sforzo di immaginazione, di forte impatto simbolico, ancor più eclatante di quello prodotto nella sua migliore sindacatu-
ra del passato. Basta ricordare l’amministrazione di Orlando che riaprendo il Massimo dopo più di un ventennio riusciva a legare gli aneliti di rinascita di tutta una città ad un Teatro magnificente dove tanta gente, entusiasta di questo traguardo, non aveva mai messo piede e, probabilmente, non ne avrebbe messo mai. L’Amministrazione che riapriva alla gente – di tutti i ceti ed orientamenti – prima il Palazzo e poi gli angoli più remoti del suo enorme centro storico, ancora degradato e “pericoloso”, non con il dispiegamento di Polizia e Carabinieri, ma con il “deterrente” coinvolgente delle orchestrine locali e multietniche, come degli artisti di strada provenienti da tutto il mondo. Palermo di Pina Bausch, Wim Wenders e altri artisti innovativi di straordinario talento e prestigio internazionale, che si trasferivano in città dichiarando che Palermo era in quella fase “il posto più interessante dove lavorare e inventare ”. I Cantieri della Zisa Oggi, probabilmente, la comprensibile fase di attesa di questa amministrazione sta andando non oltre il giusto, ma oltre il consentito per il semplice motivo che le difficoltà, interne e di contesto, non razionalizzano le aspettative della gente, ma le inaspriscono. E’ urgente che accanto a timidi segnali di innovativa ideazione si profilino progetti che rappresentino un autentico “colpo di reni” che rimetta alcuni aspetti della città al centro di un concreto immaginario collettivo. Di esempi se ne possono fare tanti ma, oltre ai segni significativi in atto rappresentati dal rilancio, in termini culturali e d’impresa innovativa, dei Cantieri Culturali della Zisa e dell’intervento turistico – produttivo della valle dell’Oreto, basta
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ricordarne qualche altro, oggettivamente tra i più qualificati ed importanti. La valorizzazione per un uso congruo dello straordinario Parco della Favorita e di tutta l’immensa area che corre lungo tutto il profilo sotto il massiccio di Monte Pellegrino. Un’area immensa che rappresenta monumento, pressocché perenne, dello spreco delle opportunità in questa città. Un waterfront – un fronte delle acque di Palermo - da recuperare interamente e che non riguardi solo l’area portuale, ma tutto il litorale, da est a ovest della città, che, sull’esempio di prestigiose città europee, possa valorizzare una città che ha la fortuna di adagiarsi sul mare in modo epicentrico, per rappresentare un valore e un’opportunità, non per gli immancabili comitati di affari, per tutta la gente che vive e visita il territorio cittadino. Tutto questo deve partire presto, con buona comunicazione e anche con una razionale e trasparente gradualità, per disinnescare a priori ogni ipotesi di affarismo, camuffato in opportunità per la città - foss’anche il masterplain di Confindustria sullo sviluppo, presentato con grande enfasi qualche tempo fa - e legare idealmente al cammino della città ogni persona, con il suo specifico e le sue aspettative. Il dindaco Orlando dovrebbe semplicemente coniugare, con realismo, due massime famose che ama ripetere spesso. La prima: "quando ci sono le buone idee, trovare i soldi non è mai un problema". Prudentemente chiosa la redazione: "i soldi non sono il più grosso dei problemi ". La seconda: "se un sogno è di uno solo, è solo un sogno; se lo sognano in tanti, è la politica". Ancora più prudentemente chiosa la redazione: ”potrebbe essere la politica se il tempo che passa non viene considerato una variabile indipendente".
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La moneta elettronica
Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (in tempo reale)
Pianeta
Amazon batte moneta Annunciata una moneta elettronica per acquistare (in App-Shop) prodotti per Kindle Fire su Android. Dal 25 aprile gli sviluppatori Usa di app e games verranno pagati anche in Amazon Coin di Fabio Vita bitcoin-italia.blogspot.com
E' una svolta epocale. Stiamo parlando di miliardi di dollari l’anno. Apple, per bocca del suo Ceo Tim Cook, alla conferenza di “Goldman Sachs' Technology and Internet” del 12 febbraio, fra i numeri di cui ha fatto vanto dell’ultimo bilancio, ha citato gli 8 miliardi di dollari elargiti nell’ultimo anno agli sviluppatori delle 800 mila App del suo store. Un miliardo di dollari solo nell’ultimo mese. Amazon lascia agli sviluppatori il 70 per cento dei guadagni, che ora verranno parzialmente pagati in Amazon Coin.
"In termini macroeconomici, - scrive l’Economist - si può pensare a questo programma di aggressiva espansione monetaria per stimolare l’economia del Kindle Fire. Spedendo un elicottero a lanciare Amazon Coin ai possessori di Kindle, Amazon spera di incrementare il consumo di contenuti per Kindle Fire. Non per aumentare il consumo di per sé, ma perché la maggiore domanda di contenuti che ci si aspetta dovrebbe stimolare gli investimenti di aziende terze per sviluppare contenuti Kindle". Un colpo d’occhio all’ecosistema – viene chiamato così l’insieme di servizi e prodotti che una multinazionale hitech offre – Amazon mostra fin dove la multinazionale potrebbe spingersi senza alcuna fatica. LINK DEL MESE
Apple paga un miliardo di dollari agli sviluppatori http://www.sfgate.com/technology/businessinsider /article/Apple-Paid-1-Billion-To-Developers-InJust-The-4274652.php L’Economist su Amazon Coin: “Valore e mondo virtuale: Amazon Coin contro un trilione di dollari” http://www.economist.com/blogs/democracyinam erica/2013/02/value-and-virtual-world Amazon Coin, guide e annunci ufficiali (in inglese) http://www.amazonappstoredev.com/2013/02/intr oducing-amazon-coins.html http://phx.corporate-ir.net/phoenix.zhtml? c=176060&p=irolnewsArticle&ID=1781498&highlight= https://developer.amazon.com/help/faq.html#Ama zonCoins Servizio della Tv tedesca Ard su Amazon e guardie della sicurezza neonaziste http://www.youtube.com/watch? feature=player_embedded&v=o1mVpdY8gjI “Amazon spacchettato” http://www.ft.com/intl/cms/s/2/ed6a985c-70bd11e2-85d0-00144feab49a.html#slide0 Altre inchieste su Amazon e lavoro http://www.mcall.com/news/local/amazon/
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Qualche esempio? Programmi come Affiliate (percentuale di guadagni sui prodotti Amazon commercializzati attraverso il proprio sito), Marketplace (vendere prodotti nuovi o usati, tipo eBay, poggiandosi sulla logistica di Amazon), TradeIn (prodotti usati venduti ad Amazon stessa in cambio di buoni acquisto). In futuro Amazon potrebbe persino permettere - ne ha un brevetto - la vendita di prodotti usati digitali. Un futuro totalmente differente Amazon è anche casa editrice, con Kindle Direct Publishing. Fa parte - dice qualcuno - di un futuro con meno librai, meno editori e grandi quantità di “scarti”, facilmente disponibili sul nuovo Kindle. “Se siete alla ricerca di una società che racchiude in sé la nausea dell’effimero di questa economia - prosegue l'Economist - non si potrebbe fare meglio di Amazon. Si tratta di una società il cui core business iniziale (che ancora vale un terzo del suo fatturato) è vendere “media” (supporti), cioè proprietà intellettuali (IP), che, come il denaro e le aziende stesse, non è altro che un’ utile finzione legale. In un primo momento Amazon ha venduto IP soprattutto spedendo fisicamente i supporti dove tale IP è ospitato (libri, cd), ma si può sempre più fare a meno della parte fisica. Il mercato ritiene Amazon incredibilmente importante, anche se non fa
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E intanto, in Germania...
“HEIL AMAZON!” GRIDO' IL CAMERATA
Pioggia, neve, maltempo. Il bus ci porta dal dormitorio al centro di smistamento, siamo Bad-Hersfeld, nell'Assia in Germania; siamo migliaia di persone venute da mezza Europa a passare dall’unica porticina di un recinto di cancelli. Le guardie, in completo abito nazista ci sorvegliano, ci perquisiscono ogni giorno in cerca di cibo, e intimoriscono chi vorrebbe protestare. Non è la Germania nazista negli anni trenta, ma quella democratica di oggi. Amazon, la multinazionale del commercio online, usa le guardie private di una ditta il cui nome fa aperto riferimento al braccio destro di Hiter (Hess Security). Vestite col marchio "Thor Steinar", vietato sia dalla lega calcio tedesca che dal parlamento federale per la sua associazione con i neonazisti (per cui, ironicamente, Amazon smise di vendere le magliette "Thor Steinar" nel 2009). Risulta da un’inchiesta della prima rete tv tedesca Ard, coadiuvata da attivisti e sindacalisti, su una sede Amazon tedesca. Il clima che vi respira, a parte picchiatori da stadio e neonazisti doc, è sconfortante.
I lavoratori dormono in gruppo in vecchi alberghi sciistici declassati, guadagnano nove euro lordi (con cui debbono comprare anche di che sfamarsi) e lavorano di solito nel turno di notte. Alloggi e bagni sporchi e pericolanti, per letto brande o vecchi divani sfondati Alcuni di loro, riconosciuti perché si sono fatti intervistare, hanno ricevuto subito la lettera di licenziamento. Ogni lavoratore ha un monitor su cui vede in tempo reale quanto avanti o indietro è rispetto alle proprie consegne e ai colleghi e può ricevere in ogni momento messaggi dai vertici che lo intimano a velocizzare il lavoro. Poi ci sono le guardie, di cui abbiamo visto la provenienza. E dire che il Financial Times, appena l’otto febbraio, aveva pubblicato un articolo “Amazon spacchettato – il gigante online crea migliaia di posti di lavoro in Uk. Ma perché gli impiegati sono meno che felici?”...
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praticamente profitti. E Amazon ora vuole fornire l'IP che vende in parte in cambio di "moneta virtuale", che è la mimesi più sconcertante di tutte, sia su Amazon o in qualsiasi altro gioco, mercato, piattaforma, società ... qual è la differenza?”. Il titolo – fin troppo significativo – dell'articolo è “Valore e mondo virtuale: Amazon Coin contro un trilione di dollari”. In effetti, l'Economist ci va giù pesante: Amazon "è come i conquistadores spagnoli nell'indifesa economia di oggi". Il Corriere, in Italia, dopo un articolo scettico si lascia andare nelle ultime righe a un desolato: “Col successo della nuova moneta i vantaggi sarebbero enormi e si verrebbe a creare un'economia proprietaria da cui sarebbe difficile uscire e da cui soprattutto non uscirebbero mai più i dollari immessi”. AmazonCoin vs GoogleBcks? Appena un anno fa il presidente di Google, Eric Schmidt, a una domanda precisa rispose che la sua compagnia stava per creare una propria moneta, che ne avevano già coniato il nome – “Google Bucks” – ma il progetto era stato momentaneamente accantonato per supposti problemi legali negli Usa. Siamo alle prime schermaglie della battaglia o, come dice l’Economist, la guerra è già iniziata?
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Libertà di stampa/ Il caso Italia
Un Paese di mezzo-bavaglio L'allarme di Reporter senza frontiere: l'Italia cinquantasettesima nell'indice sulla libertà di stampa
Ma, nonostante questo principio sia stato messo nero su bianco, la lotta è tutt'altro che conclusa con gli organi di potere che, specie negli ultimi anni, hanno tentato di mettere il cappio in torno al collo della libertà di stampa.
“ddl intercettazioni” (noto come ddl Mastella, riproposto anche dal centrodestra a più riprese), “ddl diffamazione” (scoppiato dopo il caso Sallusti), “commi ammazza blog” o per il controllo dei contenuti pubblicati sulla Rete (proposta di legge D'Alia).
Monitorati 179 Stati L'occhio sul mondo
di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com
Quella della libertà di pensiero (che si identifica anche nella libertà di stampa), nel corso della sua lunga storia è sempre stata una lotta travagliata all'interno della società. Ci sono voluti secoli e battaglie sanguinosissime, prima che nella coscienza dei popoli maturasse la convinzione che "la libertà di manifestare le proprie opinioni e quella di discuterne sono un bene e non un male". E' un principio fondamentale che nella Costituzione Italiana viene rabidato nell'articolo 21, “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Ed è per denunciare ciò che ogni anno Reporters Sans Frontieres, l’organizzazione non governativa che si pone come obiettivo quello di garantire il diritto ad una informazione libera in tutto il mondo, stila una classifica su 179 Stati. Secondo il rapporto, pubblicato lo scorso 30 gennaio, l'Italia, pur avendo recuperato quattro posizioni rispetto allo scorso anno, si trova al 57° posto, dietro a Paesi come Niger, Burkina Faso, Taiwan, Botswana e Moldavia. I parametri per l'analisi Altri parametri per l'analisi sono la forma di governo, il pluralismo, l’indipendenza dei mezzi di comunicazione, la trasparenza e secondo il rapporto ne consegue che l'Italia, dopo la caduta del governo Berlusconi, in questo senso è leggermente migliorata. La verità però è che la situazione resta assolutamente critica a causa della “cattiva legislazione osservata nel 2011, dove la diffamazione deve ancora essere depenalizzata e le istituzioni ripropongono pericolosamente 'leggi bavaglio'”. L'elenco è presto fatto tra
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“Dopo la primavera araba del 2011 che aveva provocato impennate e cadute – è scritto nel rapporto - la classifica mondiale della libertà di stampa torna ad una configurazione più tradizionale”. Nel processo di valutazione di RSF ogni Paese riceve un punteggio da zero a 100, dove zero rappresenta la “situazione ideale”. E così nella classifica restano sul podio, per il terzo anno consecutivo, la Finlandia (paese ormai consacrato come il più rispettoso della libertà di stampa), seguita da Olanda e Norvegia. Agli ultimi posti invece vi sono Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea, dove viene calpestata ogni libertà compresa quella di informazione e di stampa. Il “trio infernale” Queste tre ultime nazioni, definite come “trio infernale”, sono precedute dalla Siria, dove è in atto una guerra civile interna di cui si sa realmente poco, con le informazioni che vengono troppo spesso manipolate sempre dal potere.
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Per i paesi dell’Unione Europea la situazione è generalmente stazionaria, con 16 di essi che rientrano nei primi 40 posti della classifica, come la Germania (17°) e la Gran Bretagna (29°), la Spagna (36°) e la Francia (37°). L'erosione del modello europeo Una cosa che, a prima vista, sembrerebbe incoraggiante, ma che in realtà nasconde la lenta erosione del modello europeo a seguito di contraddizioni e sviluppi preoccupanti dove alcuni Stati sono finiti oltre l’ottantesimo posto. Scrive Rsf: “il modello europeo si sta erodendo, l’emorragia legislativa cominciata nel 2011 non ha rallentato nel 2012, specialmente in Italia, dove la diffamazione deve essere ancora depenalizzata” e si evidenzia un “pericoloso uso delle leggi bavaglio”.
no una costante fragilizzazione del modello economico nel settore mediatico, e cominciano a far sentire i loro effetti”. Tra i Paesi in “picchiata” vi è la Grecia, slittata all'84° posto, dove, segnala il rapporto, “i giornalisti operano in un contesto sociale e professionale disastroso e sono esposti alla vendetta popolare a alla violenza delle fazioni estremiste e della polizia”. Il primo in classifica fra i Paesi extraeuropei è la Nuova Zelanda , all’8° posto della classifica di RSF. La Namibia invece è la prima tra le Nazioni africane, con la 19° posizione, mentre scende di 74 posti il Mali (in particolare dopo le ultime vicende di guerra). L’est del continente continua ad essere il “cimitero per giornalisti”, con il record di 18 uccisi in Somalia (175°) e il più grande numero di lavoratori dell’informazione detenuti in Eritrea, almeno 30. La repressione di Occupy Wall Street
“Il marasma pubblicitario” Ad aggravare la situazione italiana – sottolinea l’Ong – è “il marasma pubblicitario e i tagli ai bilanci, che comporta-
Il Malawi (75°) ha registrato il più grande balzo in avanti nella classifica, ritornando quasi alla posizione che aveva prima degli abusi occorsi al termine dell’amministrazione Mutharika. Anche
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la Costa d’Avorio (96°), che sta uscendo dalla crisi post-elettorale tra i sostenitori di Laurent Gbagbo e quelli di Alassane Outtara, ha scalato la classifica, guadagnando la sua posizione migliore dal 2003. In Nordamerica, gli Stati Uniti salgono al 32° posto dopo la fine della repressione contro ‘Occupy Wall Street’, in Sudamerica il Brasile si attesta al 108° e l’Argentina si posiziona al 54°. Un posto sopra vi è il Giappone che è stato colpito da una mancanza di trasparenza e da una quasi totale assenza di rispetto per l’accesso alle informazioni sulle tematiche direttamente o indirettamente connesse al disastro di Fukushima. A questo si aggiunge l’istituzione dei ‘kisha club’, associazioni di giornalisti di media tradizionali che non ammettono fra loro freelance o operatori del web, mentre RSF celebra la “rivoluzione della carta” in Birmania. Dal 2002 era sempre stata nelle ultime 15 posizioni; adesso, grazie alle riforme senza precedenti della “Primavera birmana” e all'assenza di giornalisti in carcere, ha ottenuto la sua posizione migliore di sempre al 151° posto.
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“Io ho un concetto etico infatti che in una società quale dovrebbe essere il giornalismo rappresenti della società”
Il problema italiano I dati raccolti da Reporter Sans Frontiers non possono che portare ad una riflessione. Secondo il rapporto “Freedom House”, organizzazione indipendente statunitense che ogni anno pubblica i dati relativi alla libertà di stampa nel mondo, il nostro Paese è un raro esempio di nazione non 'libera' in Europa occidentale e si posiziona al pari di Guyana e Hong Kong. La caduta di Berlusconi non ha risolto i problemi proprio perché il potere politico, quello economico e quello occulto, intervengono sempre proponendo leggi ad hoc pur di mantenere salda la propria posizione di predominio controllando il più possibile il flusso di informazioni che vengono trasmesse all'opinione pubblica. Basti pensare al sistema che vige nella gestione interna della Rai dove, ad esempio, dal 1975, per legge, il Parlamento (e da quando esiste la legge Gasparri proprio il Governo), detiene il controllo sul sistema radiotelevisivo pubblico. Questo comporta una forte ingerenza da parte della componente politica su quella dell'informazione. La contemporanea assenza di una legge sul conflitto d'interessi ha fatto il resto. Restano pochi baluardi dell'informa-
del giornalismo. Ritengo democratica e libera quella italiana, la forza essenziale
zione, pochi giornali (e giornalisti) veramente liberi di raccontare la verità. La Rete, per il momento resta l'ultimo strumento “senza controllo” ma si provi solo ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere se qualche anno fa fosse passata alla Camera la legge proprosta dal senatore Udc D'Alia, per oscurare i siti internet. Una legge per obbligare i provider a oscurare siti, blog o social media come YouTube e Facebook, su richiesta del ministero degli Interni, per reati di opinione.
quei giornalisti che possono realmente svolgere il loro compito. Ma forse la verità più profonda è che c'è bisogno di coraggio. Lo stesso che hanno avuto quei padri del giornalismo che per la verità hanno lottato e sacrificato la propria vita, alcuni anche perdendola proprio per le loro inchieste scomode. Giornalisti come Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano, Giancarlo Siani, Walter Tobagi, Ilaria Alpi, Miran Horvatin e, Giuseppe Fava.
La legge contro i blog “Un giornalismo fatto di verità Un'azione che sarebbe stata possibile senza alcuna sentenza da parte della magistratura e che sarebbe degna di un Paese autoritario come la Cina. E il “ddl diffamazione” di cui si è tanto parlato nei mesi scorsi rappresenta certamente una nuova forma di “intimidazione legislativa” all’attività dei giornalisti e dei blogger. Continui “attentati” contro lo “spirito critico”. Impedire la loro realizzazione sta al popolo ma anche, se non soprattutto, agli addetti ai lavori. Sono pochi quelli che, per colpa di un sistema drogato dove “editoria e politica” spesso si trovano ad avere il coltello dalla parte del manico,
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Sono le parole di quest'ultimo quelle da tenere sempre a mente: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.
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Catania/ Mafia e Sant'Agata
Processo finito, tutti assolti “Per anni ci hanno raccontato che la festa era sotto il gioco delle cosche. E' stata infamata Agata e Catania”; “Lo sanno anche i bambini che la festa è sempre stata sotto il dominio della mafia...” di Domenico Pisciotta
Erano imputati nel procedimento l’ex presidente del Circolo Cittadino per le festività agatine, Pietro Diolosà, ma anche Francesco Santapaola, Antonino Santapaola, Vincenzo Mangion, Giuseppe Mangion, Alfio Mangion, Agatino Mangion e Salvatore Copia. Tutti sono stati assolti dal Tribunale perché il fatto non sussiste. Ad ogni modo, ad eccezione per Diolosà, il Pubblico Ministero aveva chiesto il proscioglimento per gli altri imputati perché, per lo stesso reato, erano già stati condannati. In forza del principio giuridico del ne bis in idem, nessuno può essere condannato due volte per lo stesso fatto. Gli imputati, infatti, erano già stati condannati per il reato di associazione mafiosa nel processo Dionisio. Interrogativi senza risposta
www.associazionegapa.org Così si possono sintetizzare le reazioni dei cittadini catanesi alla pronuncia della IV sezione del Tribunale di Catania, presieduta dal giudice Michele Fichera, che giorno 8 febbraio 2013 ha posto la parola fine su un procedimento che durava dal 2008. Il processo era stato incardinato per l’accertamento delle presunte infiltrazioni mafiose nell’organizzazione della festa di Sant’Agata.
Scheda IN NOME DELLA LEGGE Inizio del processo: 2008 Organo giudicante: Tribunale di Catania, sez. IV in composizione collegiale composto dai giudici: Michele Fichera, Trapasso e Pivetti Imputati: Pietro Diolosà, ex presidente del Circolo Cittadino per le festività agatine, imputato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa;
La pubblica accusa ha cercato di dimostrare il controllo della festa da parte delle cosche. Ciò non è stato ma, ferma la verità giudiziaria, i dubbi sulle infiltrazioni mafiose nella festa restano. Rimangono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che, lungi dal configurarsi come verità assoluta, sollevano interrogativi. Natale Di Raimondo, reggente a metà degli anni ’90 del gruppo di Monte Po, riferisce che, dietro pagamento di una somma di denaro, riuscì a far arrivare la candelora nel quartiere di Monte Po. Giustifica l’operazione con l’intento di acquisire Richiesta del Pubblico Ministero Antonino Favara: 2 anni e 8 mesi di reclusione per Francesco Santapaola, Antonino Santapaola, Vincenzo Mangion, Giuseppe Mangion, Alfio Mangion, Agatino Mangion e Salvatore Copia imputati per il reato di associazione mafiosa; “non luogo a procedere” perché per il medesimo reato gli imputati erano stati già condannati per tale reato nel processo Dionisio Decisione del Tribunale: Tutti gli imputati assolti per non aver commesso il fatto
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maggiore prestigio come “mafioso” e per senso di devozione. La somma pagata si aggirava intorno ai 30 milioni; Di Raimondo smentisce uno sfruttamento da parte delle cosche della festa per fini economici. Occorre chiedersi, però, a chi siano stati dati quei soldi e come siano stati utilizzati. Questi interrogativi si fanno più pressanti con le dichiarazioni di un altro collaboratore di giustizia, Daniele Giuffrida, membro del clan D’Emanuele. Giuffrida afferma che l’interesse a gestire un cero era di natura esclusivamente economica e che ogni settimana si raccoglievano somme dai commercianti. Tali somme erano utilizzate per pagare i portatori, il fuochista, ma anche per acquistare cocaina o armi. Riferisce anche delle scommesse fatte al momento della salita di San Giuliano e ai profitti derivanti dalla gestione della cera. I fatti che i collaboratori riferiscono risalgono agli anni tra il 1992 e il 1998. Dal 1998 sono passati 15 anni! In questi 15 anni, si sono verificati, annualmente, episodi che gettano ombre e inquietudini sui cittadini catanesi, devoti e non. Le scommesse documentate sulla durata di alcuni momenti della festa; la gestione non trasparente dei percorsi delle candelore e dei fondi raccolti; episodi, come il sabotaggio di un tombino, realizzato per prolungare i tempi della festa; questo e altro pone la necessità, per amore delle proprie tradizioni e della propria fede, di predisporre una regolamentazione che disciplini l’assunzione dei portatori, la regolamentazione dei percorsi e delle soste, una maggiore trasparenza nella gestione del denaro raccolto dalle candelore. Queste misure dovrebbero essere ritenute prioritarie sia dai candidati alle prossime elezioni comunali sia dalle associazioni che organizzano la festa che quelle che si auspicano una maggiore legalità della stessa.
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PERIFERIE
I martiri di Corso Martiri Catania. Un grande spazio “vuoto”, residuo dello sventramento edilizio degli anni Sessanta. Vuoto per modo di dire, perché – accampati alla meglio – ci vivono decine di esseri umani. Dove andranno a finire, ora che le ruspe degli imprenditori tornano a finire il “lavoro” interrotto cinquant'anni fa? Chi lo sa. Sono soltanto persone. Mentre a Catania contano solo i soldi e chi li fa girare. Legalmente o no di Giovanni Caruso - foto di Domenico Pisciotta I Sicilianigiovani – pag. 76
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“Il piano che si sta applicando adesso a Corso Martiri risale al 1973. Non può ritenersi moderno né adeguato alle esigenze attuali della città” I fragori della festa di Sant’Agata sono appena iniziati e Stancanelli entusiasta ha tanta voglia di parlare. Forse non è soltanto un entusiasmo dettato dalla festa, forse è un entusiasmo elettorale, infatti non parla solo della “Santuzza” ma anche di Piano regolatore e dell’inizio dei lavori in Corso Martiri della Libertà: “Sarà l’avvio di una stagione positiva per Catania, che adesso sarà possibile visto che la città è stata messa in sicurezza col Piano di “risanamento” appena approvato dal Consiglio, - e aggiunge – la prima operazione sarà quella della delimitazione e recinzione delle aree che in un secondo tempo saranno il teatro del risanamento vero e proprio. Si procederà anche allo sbancamento con le ruspe”. “E chi vive là dentro”? Qualcuno chiede: “E la comunità bulgara che vive in quelle fosse?”. Stancanelli risponde che se ne sta occupando l’assessore ai Servizi Sociali Carlo Pennisi con un piano definito “morbido”.
“Piano morbido”: cos'è? Mercoledì 6 febbraio Un tiepido sole riscalda la città di Catania, sono le undici e la “Santuzza” deve ancora rientrare in cattedrale; percorriamo il Corso Martiri della Libertà, vogliamo capire e sapere cos’è il “piano morbido” proposto dal Comune, che dovrebbe accompagnare fuori da quelle fosse la comunità bulgara. Vogliamo sapere da loro soprattutto se sono stati informati delle intenzioni che ha su di loro l’Amministrazione comunale. Vogliamo sapere se tali decisioni sono state condivise e partecipate. Mentre cerchiamo un varco per entrare in una delle fosse, una porticina si apre dalla recinzione, esce una donna, chiediamo se sa che l’indomani inizieranno i lavori: “no, qui non è venuto nessuno, sono venuti solo giornalisti!” - Ma proprio nessuno, vigili urbani, carabinieri, funzionari del comune? - No, nessuno! L’abbiamo saputo da voi giornalisti -Ma quanti siete? Rifiuti di ogni tipo La donna risponde, in uno stentato italiano: “Sì, siamo in tanti in questo buco, e molti altri si trovano nel buco di là”. Cerchiamo ancora un varco, lo troviamo, scendiamo giù nella fossa, e subito notiamo che i rifiuti di ogni tipo sono aumentati, forse meno puzzolenti di quando venimmo nel caldo giugno.
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Scheda UN PIANO URBANISTICO DI QUARANT'ANNI FA 1 - Il Piano che si attuerà risale al 1973, e non può quindi certamente ritenersi moderno, né rispondente alle esigenze attuali della città. 2 - La qualità del progetto non potrà essere garantita dal suo affidamento ad un “archistar”, che sarà inevitabilmente condizionato dalla vetustà del Piano urbanistico e delle sue regole, che fissano i perimetri, le densità e le destinazioni dei singoli lotti. 3 – Il Piano urbanistico, essendo palesemente obsoleto, non prevede aree libere con caratteristiche e dimensioni adeguate alle necessità della protezione civile in caso di grave evento sismico, facendo perdere alla città l’unica occasione per mettere veramente in sicurezza il centro storico circostante 4 – Il centro storico non ha bisogno della costruzione di altre strutture commerciali, ma di sostegno e valorizzazione delle attività già esistenti. 5 – Il Piano del ’73 manca di un’idea di fondo, forte e nuova, che possa veramente qualificare l’intervento, come ad esempio quella proposta poco tempo fa dall’arch. Zaira Dato. 6 – Qualora l’archistar dovesse invece interpretare con troppa disinvoltura le regole imposte dal vecchio Piano per esprimere liberamente la propria capacità progettuale, è ipotizzabile che il Direttore dell’Urbanistica, dovendo rilasciare la concessione edilizia, rischierà di incorrere in un reato penalmente rilevante.
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“Chi decide per loro?”
Incontriamo Bobo, un bulgaro che vive da otto anni a Catania e che ha sempre fatto da portavoce per questa comunità; insieme a lui c’è un ragazzo della “Chiesa cristiana evangelica pentecostale” di Picanello, chiediamo se gli hanno comunicato lo sgombero e loro rispondono che non lo sanno, e che nessuno è venuto a comunicargli nulla e che quel che sanno lo hanno saputo dai giornali. Rassegnato e scoraggiato Bobo si mostra rassegnato e scoraggiato: nè lui nè gli altri sanno cosa li aspetta, mi chiede soltanto “Cosa fareste voi al nostro posto?”. Rispondiamo che la cosa più giusta, secondo noi, è quella di chie-
dere all’assessore Pennisi di condividere con loro le decisioni dell’Amministrazione Comunale, di non delegare altri ed essere protagonisti in questa trattativa che li porterà fuori da quelle fosse, ma soprattutto chiedere prima dello sgombero dove andranno, e se è vero che li sistemeranno in case che siano case. Bobo è ancor più perplesso e spontaneamente gli viene da dire: -Siamo nelle mani di Dio… ma anche degli uomini che stanno decidendo della nostra vita futura. Le organizzazioni sociali cattoliche ed evangeliche come Manitese e Jesus generation, in particolare quest’ultima, si occupano da qualche anno dei bulgari che vivono nelle fosse, con attenta assi-
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stenza che ha aiutato questa gente concretamente, soprattutto dal punto di vista spirituale e con un approccio più religioso che laico. Il “presidio leggero” Inoltre, come dichiara Marco Basile, la sua organizzazione Jesus generation fa parte del “presidio leggero”, che è un tavolo di lavoro voluto dall’assessore Pennisi. Ma a noi risulta che in questo tavolo non ci sono rappresentanti della comunità bulgara, da cui deduciamo che non c’è alcuna partecipazione democratica della comunità, e invece sono altre organizzazioni, insieme all’assessorato, che decidono per loro.
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“Sessanta locali o appartamenti confiscati alla mafia ed assegnati al Comune più di dieci anni fa” Anche Manitese, attraverso Marco Gurrieri, ci informa che il “presidio leggero” sta lavorando per trovare una sistemazione, come dicono loro, “più morbida possibile”. Ci informa anche che i proprietari di quei terreni sono disposti a stanziare 20.000 euro che dovrebbero facilitare la ricerca di nuove case per questa gente. Il “risanamento” di San Berillo Le considerazioni sono facili, il Piano che completerà il “risanamento” del quartiere San Berillo ha un costo stimato di 200 milioni di euro, tutti da finanziamenti privati: evidentemente i proprietari che hanno stanziato i 20.000 euro vogliono fare della carità assistenziale e poco gli importa della comunità bulgara, l’importante è che vadano via mentre l’interesse vero e proprio è la speculazione edilizia. Tutti dicono che il tavolo del “presidio leggero” ha lavorato bene ma non con poche difficoltà: Marco Basile sostiene che l’assessore Pennisi competente nel settore dei servizi sociali non abbia le mani del tutto libere, ha difficoltà di confrontarsi con la giunta per quello che riguarda lo stato sociale, e considerando che fra pochi mesi questa giunta e questo consiglio comunale saranno sciolti per via delle nuove elezioni amministrative, non è detto che il “presidio leggero” esisterà ancora.
Sempre l’assessore Pennisi aveva proposto di utilizzare fondi della Comunità Europea per affittare case sfitte ed assegnarle ai “senza tetto”: per tre anni gli affitti li pagherebbe il Comune di Catania, ma nessun proprietario ha mai risposto all’appello.
Perché non usare i beni confiscati? Se volessimo fare i “conti della massaia” tali fondi potrebbero essere utilizzati per ristrutturare qualche ap-
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partamento di quei 60 beni confiscati alla mafia nella città di Catania ed assegnati al Comune nel 1999. Ma il Comune chissà per quale motivo i beni confiscati preferisce tenerseli stretti e non assegnarli: su questo potrebbe dirci ben di più il coordinamento provinciale di Libera a cui è stato assegnato uno di questi beni, che utilizza. Il recupero di Palazzo Bernini Un’altra soluzione potrebbe essere utilizzare tali fondi per il recupero di palazzo Bernini, di proprietà del Comune di Catania, sgomberato all’inizio dell’estate scorsa in una situazione analoga a quella delle fosse di Corso Martiri della Libertà, dove si potrebbero ricavare appartamenti per i nuclei familiari senza casa. Ma si sa che l’Amministrazione comunale catanese preferisce gonfiare i portafogli dei privati e pagare fior fiore di quattrini ai privati anzicchè utilizzare i beni di sua proprietà. Da qualche giorno attorno alle fosse si sono alzati nuovi muri che chiuderanno le aree impedendo il libero accesso a quei cittadini e cittadine. E quando si alzano i muri non si sa mai quando verranno buttati giù, anche se sicuramente al posto di quei muri prima o poi arriverà il cemento che distrugge: l’importante è che la città non veda e non sappia.
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Diritti negati
”In mezzo alla strada, senza una casa” Catania, San Cristoforo. Una donna di Marcella Giammusso www.associazionegapa.org
“Non so proprio come fare! Mi faranno lo sfratto coatto... con la forza pubblica..., ma io non me ne posso andare da qui perché non so proprio dove andare. Ho chiesto di darmi un po’ di tempo per trovare un’altra casa, ma non me lo hanno concesso. Mi ritroverò in mezzo alla strada, senza una casa! Ho cercato ma non ho trovato niente perché i prezzi degli affitti sono alti, io al massimo posso pagare 200, 250 euro al mese, e poi i padroni di casa vogliono due mesi di caparra e un mese anticipato e io da dove li prendo questi soldi? L’assistente sociale mi ha detto che se trovo la casa per un certo periodo il comune mi potrà rimborsare l’affitto, però il proprietario mi deve fare il contratto registrato ed è difficile trovare qualcuno che te lo fa. Ho anche fatto domanda per avere la casa popolare ma fino a oggi non ho avuto nessuna notizia.” È Eleonora che parla, trentasei anni e madre di tre figli, un maschio di 19 anni avuto dal primo matrimonio e due bambine di 8 e 2 anni dal secondo.
Racconta la sua storia senza rancori per nessuno se non per quella parte di istituzioni che non fa nulla per affermare e fare rispettare i diritti di tutti i cittadini, specialmente dei più deboli. Mia figlia senza papà - A che età ti sei sposata? -A sedici anni ho fatto la fuitina ed è nato il primo figlio, poi mi sono separata e dopo alcuni anni mi sono risposata con un altro uomo. È nata la prima bambina che adesso ha otto anni e quando sono rimasta incinta della seconda figlia mio marito mi ha abbandonata e se ne è andato con un’altra donna, e così quando ho partorito ero già sola, mia figlia è nata senza papà. Da allora sono passati due anni e mezzo. La mia bambina più grande soffre di attacchi di epilessia. Anche questa situazione è diventata un calvario per potere avere quello che ci spetta di diritto. Alcuni anni fa le avevano dato il sostegno e poi non so per quale motivo glielo hanno tolto. Hanno tolto il sostegno alla bambina Ho presentato nuovamente la domanda per l’invalidità, a maggio la bambina ha fatto la visita e fino ad oggi non ho avuto nessuna risposta e quando chiedo informazioni agli impiegati dell’Ufficio Invalidità nessuno mi sa dire a che punto è arrivata la pratica. Mi sono rivolta ai patronati e ognuno mi dice cose diverse. Uno mi dice che la USL ha mandato la lettera e non mi ha trovato in casa, un
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altro mi dice che la pratica è bloccata e la bambina deve rifare la visita di verifica! Ma perché fanno tutti questi giri? Perché le hanno tolto il sostegno quando la bambina ne aveva bisogno? - Come fai a mantenerti? -Io mi sono sempre data da fare per mantenere me ed i miei figli, ho sempre lavorato e continuo a lavorare come badante oppure faccio le pulizie, lavo le scale...ma non è un lavoro continuo e quindi i soldi non bastano mai.” L'indifferenza delle istituzioni - Ma il padre delle bambine non ti aiuta economicamente? -Ogni tanto mi da 15 o 20 euro e poi scompare. Spesso mi ha aiutato mia suocera a pagare le bollette della luce oppure a mangiare, però non può fare molto perché aiuta un’altra figlia. Io non pretendo molto. Ora ho questo problema della casa e vorrei solo che mi dessero più tempo per cercarne un’altra. Io non ce l’ho con nessuno, ma quello che mi dispiace è l’indifferenza delle istituzioni, non è che ti danno aiuto! E quando uno si ammazza sono loro che lo provocano. Non è giusto! Io sono religiosa e Dio dice che bisogna aiutare il prossimo e dobbiamo essere tutti più umani, quando la mia vicina ha avuto bisogno io l’ho sempre aiutata. Allora io vorrei un po’ di aiuto da parte delle istituzioni, non solo per il mio caso ma per tutti perché ci sono tante persone che vivono nel bisogno.
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Periferie
Tarlabaşı
Istanbul
Tarlabaşı è un quartiere povero di Istanbul in Turchia. Ma potrebbe essere anche un quartiere povero di Catania in Italia: San Berillo, ad esempio. Infatti si assomigliano moltissimo. Simili sono gli esseri umani che vi conducono per come possono la loro vita, e simili i potenti interessi economici che comprimono ai livelli minimi queste vite di Jivan Guner, Meltem Ulusoy, Sedef Orge I Sicilianigiovani – pag. 81
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Espulsi dal centro della città Non è un gemellaggio per scambi culturali e sociali, bensì la solita brutta storia che racconta di speculazione edilizia e commercio infame a discapito degli emigranti, ultimi fra gli ultimi, che vivono nei quartieri emarginati. Nel 1960 a Catania incominciò la distruzione del quartiere di San Berillo in nome della modernità: in realtà non era altro che l'inizio della prima e più grande speculazione edilizia, finita in uno scandalo fatto di corruzione fra politici e palazzinari. La stessa cosa ci raccontano tre fotogiornaliste di Istanbul. Ci raccontano del quartiere di Tarlabaşı, abitato da emigranti kurdi, anatolici e rumeni, troppo “brutti, sporchi e cattivi” per vivere al centro della città. Anche qui nasceranno centri commerciali e appartamenti lussuosi, mentre per gli emarginati c'è solo un destino di povertà ed ulteriore emarginazione: ma che importa? Per i poteri forti l'importante è che questa gente si disperda nei luoghi più oscuri. A Catania, in quel che rimane nel vecchio quartiere di San Berillo, accadrà la stessa cosa con i bulgari che vivono nelle "fosse" di Corso Martiri della Libertà.
PEZZI DI FERRO I lavoratori raccolgono pezzi di ferro da rivendere, dopo che il proprietario dell'attività ha dovuto abbandonare il negozio.
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Le autrici Jivan Guner Nata nel 1990 ad Istanbul. Studia giornalismo presso la Facoltà di Comunicazione di Marmara. Le sue foto furono esposte all'evento “Orient Express, Kars, Ani” ed al Festival 'UNIFOTOFEST Student Photographers’ con il titolo “Tarlabasi: Lasciaci Vivere!”. Il progetto “Nomadi” fu esposto nel Dicembre 2012 presso la Photography Foundation Gallery di Istanbul
Meltem Ulusoy Nata nel 1979 a Manisa. Nel 2000 completò l'Università in Kocaeli nel Dipartimento di Ingegneria Geofisica. Ha lavorato come Coordinatore Editoriale in un giornale delle Unioni delle Camere degli Ingengneri ed Architetti Turchi. Ha scritto di eventi artistici su giornali di architettura come Portfolyo and Yapi. Attualmente è una freelance grafica pubblicitaria.
Sedef Ozge Ha lavorato ad Istanbul con i cocchieri ed i loro cavalli per cinque mesi ed il suo lavoro, dal titolo “ Il cocchiere”, è stato esposto a Dicembre 2012 presso la Photography Foundation Gallery di Istanbul. Lavora come fotogiornalista e reporter per il portale di notizie online Ajans Tabloid. Tutt'e tre hano partecipato al Programma di Fotogiornalismo dell'Accademia di Fotografia Galata Fotografhanesi.
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Svendere la cultura della città Istanbul sta andando verso un enorme processo di trasformazione urbanistica. Quartieri situati nella penisola storica e distretti turistici sono stati abbattuti uno per uno per dare spazio a lussuosi palazzi residenziali e centri commerciali per il progetto di trasformazione urbana dell'area dei quartieri popolari che li renderà ricchi, puliti, raffinati. Tarlabaşı, situata nel cuore di Beyoglu, Instanbul, fu scelta nel 2007 per diventare gli “Champs-Elysees di Istanbul”. Tradizionalmente abitato da popolazione greca ed armena, a cui si sono aggiunti rumeni e curdi in fuga dai villaggi in fiamme dell'Anatolia Orientale, Tarlabaşı è un quartiere vivace che incorpora varie culture e stili di vita. Siccome gli edifici storici della zona non ebbero concessione di ristrutturazione, il quartiere, con i suoi affitti bassi, diventò centro di attrazione per la popolazione meno agiata: disoccupati, prostitute, riciclatori, emigranti illegali etc. Il progetto urbanistico di trasformazione di Tarlabaşı è stato promosso come la “sterilizzazione” di Beyoglu, per rimuovere “spacciatori, ladri, travestiti, senzatetto” e trasformarla in zona turistica e residenziale. Il progetto prevede lussuosi palazzi, hotels, parcheggi a più piani, per un totale di 278 costruzioni. Tutte le famiglie che lavoravano e vivevano nella zona sono state costrette a spostarsi in periferia o a ritornare nei loro paesi. L'intera area è stata transennata ed i palazzi sono stati abbattuti.
VITA DURA Cemre, residente e prostituta di Tarlabaşı, dice che la sua vita è diventata più dura da quando il posto dove lavorava è stato demolito, e ora deve lavorare in strada e pagare spesso multe alla polizia.
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Traduzioni di Maria Trovato Foto selezionate e curate da Alessandro Romeo
QUI VIVONO I CURDI Tarlabaşı è un quartiere a maggioranza curda, e sono i curdi ad organizzare frequentemente proteste contro la politica di governo. Per giustificare la trasformazione e convincere la gente a spostarsi, i palazzi storici evacuati furono intenzionalmente lasciati ai riciclatori. Le porte e i davanzali delle finestre furono rimossi, e i palazzi diventarono presto informi rovine.
E QUI VIVONO I SICILIANI Una vista dall'alto di Catania, centrata sul degradato quartiere di San Berillo.
POLIZIA La gioventù di Tarlabaşı è spesso molestata dalla polizia in uniforme ed è sempre nel mirino per spaccio di droga e problemi di sicurezza.
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L'immagine
Canzone popolare di Fabio D'Urso e Luciano Bruno
Così vogliono crocifiggere sul nascere della lotta, Così vengono maledetti, Con la legge e con i fogli, Quelle donne e uomini che lottano per la terra d'italia. E perché mai questa violenza? Perché questo dominio sulle nostre libertà Sulle nostre azioni di giustizia sociale. Perché non sia mai la sovranità popolare? Perché non sia mai il dominio del territorio da parte del popolo? Ma perché mai? Perché mai? Perché con gli strumenti della violenza magistra, Si vuol costringere al silenzio? Perché? Quei fogli di via da Niscemi? Perché? Quell'entrare nelle case? Quanti altri tredici febbraio ci saranno ancora? In quante altre case? Da Bologna a Niscemi, nessuna libertà si vuole, in questo paese. Nessuna cosa giusta ci sta ancora? Nessun falegname per dare forma alla buona notizia di ogni no! I Sicilianigiovani – pag. 86
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L'immagine
No alla Tav! No al Muos! Non c'è libertà di circolazione, Non c'è informazione, Non c'è libertà cittadinanza. Per Peppe e Maria, per l'asino e la mucca. Per tutti, dalla val di Susa alla Sicilia bedda. Per noi! Per il presente e il futuro di tutti i poveri cristi. Per questo servono le canzoni, Per questo serve la nostra memoria, Per questo cantiamo senza scordare: Quello sgombero dell'Esperia, La lotta popolare del Palazzo di Cemento, Gli avvenimenti a quel processo sghigno. E ogni grido dei non violenti. No alla Tav, e No al Muos, e No allo sgombero Pinelli. E ad ogni grido, un eco di denunce. Le parole e i fatti e la violenza. Ma chi ferma la nostra solidarietà? Chi ferra il popolo sovrano? La carta che toglie il diritto a circolare, Può mai bloccare la dignità di un popolo, Dall'Emilia alla Sicilia, da Bologna a Niscemi, Chi ferma la libertà?
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IL FILO
“Bisogna frugare nelle banche...” di Giuseppe Fava
Pochi giorni prima di essere ucciso, il direttore fu inter vistato in tv da Enzo Biagi. La mafia, allora, in Italia era vista come una tenebrosa organizzazione di banditi nascosta nel profondo Sicilia, fra romanzo noir e folklore...
citi, di possedere flotte, di avere una propria aviazione. Infatti sta accadendo che la mafia si sia impadronita, almeno nel medio termine, del commercio delle armi. Gli americani contano in questo, ma neanche loro avrebbero cittadinanza in Italia, come mafiosi, se non ci fosse il
I mafiosi non sono quelli che am-
potere politico e finanziario che con-
mazzano, quelli sono gli esecutori. An-
sente loro di esistere. Diciamo che que-
che al massimo livello.
sti centomila miliardi, un terzo resta in
Si fanno i nomi dei fratelli Greco. Si dice che siano i mafiosi vincenti a Pa-
Italia e bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo.
lermo, i governatori della mafia. Non è vero: sono anche loro degli esecutori. Sono nella organizzazione, stanno al posto loro. Un'organizzazione che riesce a manovrare centomila miliardi ____________________________________
La Fondazione Fava
La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________
l'anno. Più, se non erro, del bilancio di un anno dello Stato italiano. E' in condizione di armare degli eser-
“Decine di miliardi insanguinati” E quindi ecco le banche, questo prolificare di banche nuove. Il Generale Dalla Chiesa l'aveva capito, questa era stata la sua grande intuizione, che lo portò alla morte. Bisogna frugare dentro le banche: lì ci sono decine di miliardi insanguinati che escono puliti dalle banche per arrivare alle opere pubbliche. Si dice che molte chiese siano state costruite con i soldi insanguinati della mafia...
Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”
Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.
(Intervista di Enzo Biagi, 28 dicembre 1983)
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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura
Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Lorenzo Baldo, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Massimiliano Nicosia, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Michela Mancini, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Pietro Orsatti, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Antonio Roccuzzo, Vincenzo Rosa, Luca Rossomando, Giorgio Ruta, Luca Salici, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea
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I Siciliani giovani
Chi sostiene i Siciliani
Ai lettori
1984
Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani
Ai lettori
2012
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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani
Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.
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I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.
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