I Siciliani - gennaio 2013

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gennaio 2013

I Siciliani giovani www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

Società civile Tutti ne parlano ma pochi la prendono sul serio

Giornalisti imbavagliati, centri di quartiere presi a revolverate: eppure per la politica non sono ancora degli interlocutori

TRATTATIVA: CONTINUA ORA!

MAZZEO FERRARA Noi giornalisti marchionnizzati CASTANO Mafia al Nord: il giorno della svolta Spartà/ NoMuos fra botte e lividi Capezzuto/ Apocalisse rifiuti Pettinari/ Un manager di Cosa Nostra Di Florio/ Mafia in Abruzzo Catania/ Un ponte d'inquinamento Vita/ Bitcoin Satira “Mamma!” Caruso/ Periferie Pisciotta/ Buon anno,Gapa La primavera di Messina Spina/ Il cinema di Giuseppe Fava Vitale/ La lunga attesa di Felicia ITALIA DOVE: ROCCUZZO D'URSO ORSATTI DE GENNARO ABBAGNATO

Dalla Chiesa/ La famiglia Brembrilla

Caselli/ Antimafia e politica

SALERNO

Operaie Un album di famiglia

ebook gratis


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facciamo rete http://www.marsala.it/

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Società civile

A Catania, una delle città d'Italia a più alto indice di criminalità minorile, le atttività educative nei quartieri veri sono ridottissime (ultimamente il Comune ha anche chiusto una scuola e fra i pochissimi a farle il più presente è probabilmente il Gapa. Nell'alto milanese, una delle zone d'Italia più a rischio 'ndrangheta in questo momento, i giornalisti che fanno informazione sulla mafia sono pochissimi e di essi i più attivi sono probabilmente quelli del settimanale Altomilanese. Quasi contemporaneamente, un paio di settimane fa, il Gapa è stato “infastidito” a colpi di rivoltella poche settimane fa e Altomilanese è stato messo a chiusura da un giorno all'altro dal suo editore. Coincidenza casuale, ma significativa. Non esistono altri presidi sostituutivi, nelle due diverse funzioni, nei luoghi di cui parliamo. Senza i volontari del Gapa la cultura mafiosa non incontrerebbe più ostacoli nel vecchio centro storico di Catania, né la ìndrangheta ne incontrerebbe - senza i giornalisti di Altomilanese – a nord di Milano. Eppure gli uni e gli altri, barriera a pericoli gravissimi per le rispettive comunità, sono sostanzialmente soli. Ecco: di questo parliamo quando parliamo di società civile. Non è solo un elegante dibattito, materia da talk-show più o meno spettacolari. E una questione di vita o di morte, in prospettiva non lontanissima, per due pezzi d'Italia – ai capi opposti della penisola – che fra dieci anni potrebbero ritrovarsi immerse nella più profonda e devastante barbarie. Da cui li separa solo l'impegno di poche decine di volontari. Non c'è molta traccia di questo, nel panorama politico - e giornalistico – attuale. Quando c'è, si presenta di solito come materiale mediatico, oggetto d'entertainment, folklore. Ci sono compagni nostri impegnati in entrambi i casi in questione, e perciò possiamo dire di conoscerli abbastanza bene. Temiamo però che si tratti solo di punte d'iceberg, di isole nel mare della disinformazione nazionale. E che tutto il Paese non sia in realtà che un gran San Cristoforo, un gran Sedriano – i due luoghi esemplari di cui abbiamo parlato – in cui di fronte alla violenza e alla disinformazione pochi si oppongono e molti stanno a guardare. Quei pochi di solito sono giovani e senza risorse, e i molti hanno età, status, opportunità e potere. La rete dei Siciliani giovani, con le sue testate di base e i suoi giornalisti militanti, è un tentativo di andare in controtendenza, di opporsi all'”autobiografia della nazione” di cui parlava un altro giovane giornalista - Gobetti – molte anni fa. I Siciliani (R.O.)

DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119 I Sicilianigiovani – pag. 3


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I Sicilianigiovani GENNAIO 2013

numero tredici Questo numero

Società civile I Siciliani Antimafia in tempo d'elezioni di Gian Carlo Caselli La famiglia Brembrilla in vacanza di Nando dalla Chiesa Giornalismo/ La Fiat a casa nostra di Norma Ferrara Eppure, cambiare si può di Riccardo Orioles

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Italia

NoMuos/ Fra botte e lividi di Sara Spartà "Privatizziamo lo Stato di Antonio Roccuzzo Mafia al Nord/ Il giorno della svolta di Ester Castano Donne di 'ndrangheta di Vittoria Smaldone

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Rewind/Forward di Francesco Feola

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Poteri

La trattativa continua ora di Antonio Mazzeo "Viva Sansonetti con tutti i filistei" di Rocco Lentini Expo fugit di Valerio Bella

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I Sud

RIEPILOGANDO Come mai non siamo ancora in edicola? Semplice: i soldi. La sottoscrizione è riuscita bene fra i lettori poveri, ma non fra gli amici più titolati: la maggior parte dei quali ci colma generosamente di auguri e lodi, che però cartiere e tipografi tendono a non accettare. Dopo un anno di buon lavoro, sul livello professionale dei Siciliani giovani c’è poco - crediamo - da eccepire. Nel milanese come in Sicilia i nostri redattori fanno il loro dovere, scrivono, fanno inchieste, subiscono avvertimenti e querele. Vecchi colleghi e giornalisti nuovi lavorano tranquillamente a questo prodotto collettivo, che ha il suo baricentro nella rete ma che ha bisogno anche dell’edicola come fatto simbolico e di “ritorno in campo” pieno e totale. Pensiamo di riuscirci presto, ma in definitiva questo dipende da voi.

*

Questo numero è dedicato ad Aaron Swartz (Chicago, 8 novembre 1986-New York, 11 gennaio 2013). Avremmo avuto difficoltà a fare il giornale senza di lui: è stato lui a inventare una cosa che si chiama RSS e che ci permette di far circolare facilmente i contenuti della nostra rete. Quanto c'è costato? Niente: l'ha messo a disposizione gratis.

"Quella camurria di Rostagno" di Rino Giacalone Sgarbi, i picciriddi e... di Rino Giacalone Messina/ "Babba a chi?" di Ilaria Raffaele Apocalisse rifiuti di Arnaldo Capezzuto Diario da una scuola napoletana di Andrea Bottalico L'Abruzzo ha scoperto le mafie di Alessio Di Florio Si privatizza il cimitero di Enrica Frasca e Giorgio Ruta Un ponte d'inquinamento di Carmelo Catania

Lo usiamo noi, lo usano i grandi giornali, lo usano milioni di siti in tutto il mondo - un regalo di Swartz al progresso umano. S'è ucciso due settimane fa, per sfuggire a una galera di venti o trent'anni: aveva messo in rete testi vietati, di altissimo valore culturale ma copyrightati dalle varie società. Aveva ventisei anni ed è un gran peccato che regali del genere non possa farcene più. Noi, qui nella lontana Sicilia, gli siamo grati.

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SOMMARIO DISEGNI DI MAURO BIANI

Bologna/ Il Master "Pio La Torre" di Salvo Ognibene

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Satira

"Mamma!" a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani

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Periferie

I beni confiscati usiamoli per i quartieri di Giovanni Caruso I tesori mafiosi smascherati dai ragazzi di Elio Camilleri I Briganti e i Salesiani di Federica Motta e Leandro Perrotta L'ospedale che non si fa di Luciano Bruno e Vincenzo Rosa Rapporto da Partinico di Pino Maniaci e Salvo Ognibene

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Testimonianze

La lunga attesa di Felicia di Salvo Vitale

60

Pianeta

Bitcoin: l'anno della svolta di Fabio Vita

65

Cultura

Il cinema di Giuseppe Fava di Giuseppe Spina

66

Musica

Bix, Jerry e il signor Igor di Antonello Oliva

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Persone

Appunti di un diario collettivo di Fabio D'Urso

72

Polis

Paese senz'anima, voto senza attese di Pietro Orsatti "E io vi marchionno tutti" di Riccardo De Gennaro Dove nulla finisce mai del tutto di Giovanni Abbagnato

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Sicilie

Un manager di Cosa Nostra di Aaron Pettinari Noi l'abbiamo ricordato cosĂŹ di GiulioPitroso La primavera di Messina di Irene Romeo Belice 45 anni di Francesco Appari e Giacomi Di Girolamo

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Il foglio dei Siciliani giovani

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L'immagine

Quale pace in Europa di Giovanni Caruso

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Il filo

Noi emigranti di Giuseppe Fava

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Buon Anno, Gapa di Domenico Pisciotta

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Un ebook in omaggio con questo numero

Lorena Salerno Operaie/ Un album di famiglia Pippa e la Manifattura tabacchi

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Giustizia

Mafia e politica in tempo d'elezioni di Gian Carlo Caselli

Le candidature di Ingroia e Grasso alle “politiche” hanno scatenato infuocate discussioni. Fra i due magistrati ci sono differenze abissali. Grasso si è ritagliato una “nicchia” in un partito che gli garantisce un’elezione sicura. Ingroia per contro ha scelto di dar vita ad un nuovo movimento per una “rivoluzione civile”, affrontando un’avventura densa di incognite e rischi. Ma la candidatura dei due ha soprattutto rinfocolato polemiche mai sopite sulla conduzione delle inchieste antimafia, in special modo sul versante dei rapporti mafia/politica. Le polemiche su mafia e politica Ovviamente hanno diritto di cittadinanza le opinioni più diverse, purché non si dimentichi mai che questi rapporti sono nel DNA della mafia e che non li hanno certamente inventati inquirenti “creativi”. E purché le opinioni siano fondate su fatti e non su ipotesi di fantasia, al limite dell’onirico. Come nel caso di coloro che citano Giovanni Falcone come grandinasse, per sostenere che certe inchieste lui non le avrebbe mai cominciate o sviluppate perché se non ci sono le prove è fatica sprecata.

Prima delle stragi, dopo le stragi A parte che si tratta di banalità per le quali scomodare Falcone non ha senso, il punto decisivo è un altro: nessuno al mondo può arrogarsi il diritto di millantare che l’orientamento di Falcone dopo le stragi del 1992 sarebbe stato questo o quello. Se non altro perché dopo le stragi tutto ontologicamente cambia. Basti pensare che Tommaso Buscetta a Falcone non disse niente dei rapporti mafia/politica, perché temeva che lui e lo stesso Falcone sarebbero stati presi per folli. Soltanto dopo le stragi (obbedendo ad una specie di comandamento morale) Buscetta decise di rivelare quel che sapeva ai Pm di Palermo. Che pertanto si trovarono di fronte ad un dovere imperioso: affrontare il tema cruciale dei rapporti mafia/politica senza sconti, applicando la legge anche agli imputati “eccellenti”, con determinazione ed incisività assolutamente nuove, posto che in passato l’esistenza di tali rapporti di solito veniva solennemente proclamata sul piano teorico, per negarla sistematicamente nel perimetro delle prassi investigativo-giudiziarie. I magistrati delle Procura di Paler-

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mo del dopo stragi hanno semplicemente assolto il loro compito istituzionale, traducendo la scritta che campeggia in tutte le aule di tribunale (la legge è uguale per tutti) in realtà operativa. Differenziandosi da coloro che non vogliono vedere, o se vedono preferiscono “distrarsi”, magari accampando la scusa che è troppo difficile trovare le prove. Privilegiare il quieto vivere? Le prove prima si cercano, senza timidezze; e se risultano sufficienti per affrontare il giudizio si va avanti, anche quando l’esito non é scontato. Senza preoccuparsi di coloro che privilegiano normalizzazione e quieto vivere; e perciò preferiscono le opzioni investigativo-giudiziarie meno scomode. Magari tirando indebitamente per la giacca anche i defunti ( meglio se illustri come Falcone) attribuendo loro – con colpevole arroganza - linee di ipotetico intervento prospettate come se fosse possibile applicare al “dopo stragi” parametri e criteri che a tutto concedere si riferiscono ad ere “geologiche” tutt’affatto diverse, perché ante 1992.


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Società

La famiglia Brembrilla in vacanza... di Nando dalla Chiesa

Alla fine la vicenda della candida-

sano nella cintura sud milanese. Uno

streghe è finito nel medioevo (della

tura di Bruna Brembilla al parlamento

dei quali è stato definito “capitale

serie: è la modernità, bellezza), non

si è conclusa con la rinuncia dell’inte-

sociale” della ‘ndrangheta in una

sapete nemmeno di cosa state par-

ressata. Ed è un bene. Bruna Brembil-

recente ordinanza di custodia

lando, sono cose vecchie, è tutta una

la, per chi non lo sapesse, è una consi-

cautelare. Insomma, mentre alcuni

montatura.

gliera provinciale del Pd milanese, già

suoi colleghi (e colleghe) di partito

assessore provinciale all’Ambiente

denunciavano, rischiando, le

con Filippo Penati e prima ancora sin-

collusioni tra ‘ndrangheta e politica lei

daco di Cesano Boscone, hinterland

le alimentava. In qualsiasi democrazia

sud-ovest di Milano. La questione del-

questo dovrebbe bastare a chiudere il

quale c’è purtroppo una lunga storia di

la sua candidatura era stata sollevata

discorso.

indifferenza, di aree grigie, di conti-

sulla stampa e nel partito democratico milanese per una ragione molto sem-

Una discussione surreale Una discussione surreale, dietro la

guità, di affarismo, di neutralità etica, “Ma non è stata condannata...”

plice.

di cene elettorali, di scambi di favori alla faccia del primato delle istituzio-

Il discorso invece è stato tenuto I clan calabresi

aperto per intere settimane. Ed è ciò che stupisce al di là del suo esito fina-

La signora è stata a suo tempo in-

ni. C’è una palude che resiste a farsi bonificare. Oggi che il pericolo della ‘ndran-

le (forse dovuto a una lettera aperta

gheta al nord è stato indicato nelle sue

inviata a Bersani dagli esponenti anti-

vere dimensioni, continuare ad aspet-

tre trattava

mafia del partito milanese). Perché

tare le condanne penali invece di in-

voti e soste-

vuol dire che alla nostra democrazia

tervenire tempestivamente (e con radi-

gni elettorali

mancano ancora i cosiddetti “fonda-

calità) sui comportamenti pubblici si-

con perso-

mentali” della virtù pubblica, o della

gnifica farsi complici.

naggi vicinis-

questione morale.

tercettata dai Ros dei carabinieri men-

simi a espo-

Basta vedere le argomentazioni

Sempre che sia vero quel che i politici di sinistra dicono tra gli applausi

nenti di spic-

addotte per respingere le obiezioni

nei convegni: che la mafia o la ‘ndran-

co di quei

alla candidatura: non è stata condan-

gheta non sono semplici forme di de-

clan calabresi

nata, è incensurata, tutto è stato archi-

linquenza organizzata, ma sono poteri,

che da decen-

viato (ma le intercettazioni sono

sistemi, economia e cultura. Cultura,

ni imperver-

vere…), il tempo della caccia alle

appunto.

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Giornalismo

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La Fiat a casa nostra "Dài, dài, dài, siamo tutti con te!" ci dicono a ogni aggressione o minaccia. Noi questo mestiere continuiamo a farlo. Ma è sempre più stretto, sempre più precario. Ci sentiamo, come dire,un po' marchionnizzati... di Norma Ferrara www.liberaintormazione.org Gennaio 2013, il bollettino di questo mese registra nelle prime settimane: tre colpi d'arma da fuoco contro un centro di quartiere che a Catania si occupa di formazione e informazione, due proiettili sparati contro l'abitazione di una cronista in Abruzzo, un giornale dell'hinterland milanese che rischia di chiudere, perché dopo le querele e le minacce è arrivato (anche) il passo indietro dell'editore. E così siamo sui giornali (anche i nostri): “il cronista antimafia” “la giornalista minacciata” il “centro sociale contro i boss”. E ancora, il giornalista precario (che spesso è minacciato). Pronta la solidarietà della categoria “continua, siamo con te!”. Siamo tutti, ad esempio, Ester Castano, giovane cronista milanese che ha subìto “le attenzioni” dell'ex sindaco del suo paese. Ester fa parte di una generazione che chiede di entrare nella macchina organizzativa di un giornale, come si fa in fabbrica, il prima possibile. Anche se sa che non c'è più posto. Da un pezzo. Fra un esame di storia e uno di letteratura all'università, in questi mesi dovrà correre in tribunale a Biella, perché a dispetto dei suoi ventidue anni anni ha già da barcamenarsi con una denuncia per diffamazione plurima aggravata sporta dall'ex sindaco di Sedriano, Alfredo Celeste, indagato per corruzione all'interno dell'inchiesta della Procura di Milano che

ha portato all'arresto dell'assessore regionale alla Casa, Domenico Zambetti, accusato di aver acquistato voti dalla 'ndrangheta. Mesi fa il caso arriva alla grande stampa nazionale e il resto del Paese viene a conoscenza – grazie al monitoraggio dell'osservatorio “Ossigeno” - anche “delle attenzioni” e delle querele del primo cittadino contro Ester, ragazza dai capelli lunghissimi e lo sguardo attento, che collabora con il settimanale “Altomilanese”. Far domande, studiare le carte... Ester e i suoi colleghi, anche loro nel mirino, hanno l'abitudine di fare domande alle conferenze stampa, studiare le carte giudiziarie dei processi, esercitare il diritto di cronaca rispetto agli atti amministrativi e alla gestione della cosa pubblica. Fanno semplicemente i giornalisti. “In questi giorni sono scaduti i termini di custodia cautelare per l'ex sindaco Celeste - ci racconta Ester - è ed aberrante che su alcuni giornali locali sia stato quasi “assolto” quando il procedimento a suo carico continua ad essere in corso. C'è persino qualcuno che ha chiesto al sindaco “si sente una persona onesta, finalmente”?». Cronista in terra di mafia Superficialità? Convenienza? Forse entrambe, in paese piccolo si hanno meno guai se rimani al tuo posto e non disturbi chi comanda. Ester, invece, ha un altro concetto di cosa voglia dire “stare al proprio posto”.

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Così vive da cronista di provincia in un giornale che si scopre, suo malgrado, di frontiera in una terra che non è più immune dalla mafia. Durante quest'ultimo anno la giovane cronista è soprattutto una ventenne sorpresa da tutto quello vede, che sente e che vive perché quando ha scelto di scrivere e occuparsi di quello che accade in città, tutto è cambiato rapidamente. Durante i primi anni ha conosciuto sulla propria pelle l'isolamento e il cono d'ombra informativo che circondava l'hinterland milanese. «Nessuno nel resto del Paese vedeva quello che stava accadendo da noi» - spiega. Ma adesso le cose sono cambiate. «La nota positiva di questa storia che mi ha coinvolta e ha coinvolto il territorio - spiega Ester – è che ha stimolato una presa di coscienza collettiva, oggi la cittadinanza vuole essere informata e ci sostiene. In questi giorni in cui il giornale ha rischiato di chiudere in tanti hanno fatto sentire la propria presenza, persino con donazioni. Noi abbiamo scelto di non mollare anche per loro». Cinquecento euro al mese Cinquecento euro al mese per capiredattori e direttori e così a scendere per tutti gli altri: questo il prezzo che l'“Altomilanese” ha scelto di pagare per evitare la chiusura del giornale “al momento – chiosa Ester – siamo certi di riuscire ad andare in edicola sino al mese di aprile e speriamo di continuare”. La storia di Ester come quella di Ilaria che da sette mesi aspetta di esser pagata dal suo giornale (leggetela qui su Errori di stampa) non sono un affare privato, né un problema di ordine pubblico o di politiche sindacali, non sono infine la conseguenza della crisi di un settore, quello dell'editoria.


“Ma non siamo all'anno zero” Sono, piuttosto, tutte queste dinamiche insieme ma soprattutto la cronaca di una fine annunciata: quella del giornalismo. Non è politicamente corretto dirlo dalle pagine di questo giornale (o forse si) ma la verità è che non sappiamo ancora cosa diventerà davvero questo mestiere. Forse lo stiamo ripensando, progettando, alcuni di noi sognano che torni ad essere un lavoro al servizio dei fatti e delle persone, nell'interesse della democrazia, ma di sicuro - come si scriveva nelle vecchie cronache di nera - c'è solo che è morto. Pochi hanno avuto il coraggio Non siamo all'anno zero, però. Oggi più di ieri riusciamo a raccontare queste storie, anche grazie al web, ma il passato e il presente di questo mestiere sono ancora stretti fra doppia morale e menzogne. “Come si diventa giornalisti”? chiedono ancora i giovani aspiranti cronisti sulle pagine dei giornali “famosi” e i direttori forniscono spavalde risposte che hanno in comune tutte un dato: mentono sapendo di mentire. Pochi, infatti, in questi lunghissimi anni di agonia del giornalismo come mestiere hanno avuto il coraggio di raccontare che quello in cui “comandavano” era soprattutto il luogo della schiavitù legalizzata (spesso perversa perché faceva leva su sentimenti diametralmente opposti, dalla passione civile al narcisismo, ad esempio). Poi - a sollevarli dall'incarico è arrivata a fine 2012 l'approvazione della legge sull'equo compenso per i giornalisti e la campagna coraggiosa che l'ha preceduta. L'unica risposta onesta Cosa avrebbero dovuto dire? Solo la verità, per quanto crudele, sarebbe stata l'unica risposta onesta che avrebbe reso meno fragile il giornalismo, messo meno a rischio i cronisti di frontiera, fatto sentire meno soli i colleghi in tribunale. Invece è accaduto che in questi anni siamo stati con i lavoratori della Fiom e contro Marchionne, ma non abbiamo visto la Fiat che cresceva in casa nostra.

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Un volantino

Sosteniamo i Siciliani giovani

"A che serve essere vivi, se non c'è il coraggio di lottare?”

Vi ricordate quando Santoro vi chiese i soldi per il suo “servizio pubblico”? Dieci euro per sostenere il progetto. In centomila risposero, una grande dimostrazione di affetto e di sostegno sicuramente. Lo sapevate che ora Servizio Pubblico va in onda su La7? E i soldi che avevate dato per creare quel progetto autonomo? Vi sono stati restituiti? Noi adesso vi chiediamo di sostenerci, promettendo di non passare a La7. E’ passato un anno da quando al Festival del Clandestino abbiamo annunciato ai microfoni di Telejato la rinascita de I Siciliani. Non abbiamo più rifatto un giornale, abbiamo fatto I Siciliani giovani, che poi, forse, lo eravamo già. I Siciliani sono un gruppo sparso per l'Italia, Diecieventicinque a Bologna, Stampo antimafioso a Milano, Telejato, Il Clandestino, Napoli Monitor, La Domenica, e potrei continuare. I Siciliani sono un patrimonio comune, sono ragazzi e ragazze sparsi un po' in tutta Italia, sono anche professionisti e giornalisti come Mazzeo, Capezzuto, Giacalone, Finocchiaro, Salvo Vitale, Pino Maniaci. I Siciliani siamo noi giovani, che almeno qui non rappresentiamo il futuro, siamo il presente e lo viviamo da protagonisti con a fianco degli ottimi maestri. Abbiamo provato a mettere insieme il vecchio e il nuovo, passato e futuro, vivendo insieme in questo presente. I Siciliani giovani da un anno hanno faticato e lavorato, e quello che abbiamo fatto l'avete visto, ci siamo anche beccati le denunce e le intimidazioni. Siamo nati perché Giambattista Scidà ci ha ridato l'idea, perchè Giancarlo Caselli e Nando Dalla Chiesa si sono imbarcati con noi, su questa barca che vuole attraversare e raccontare la Sicilia e l'Italia, insieme, facendo rete, perseverando quella pubblica verità che ci ha insegnato il Direttore de “I Siciliani”, Pippo Fava. I Siciliani giovani però si fa anche con tutti voi. Usciremo, probabilmente, in edicola come mensile fra un mese, trent'anni dopo i "vecchi” Siciliani. Noi ci stiamo provando a fare tutto ciò ma abbiamo bisogno di voi. Tanti piccoli aiuti fanno un grande aiuto. Adesso vi chiediamo un contributo per sostenerci promettendovi che come sempre andremo avanti, navigando su questo mare in tempesta, rimanendo liberi, senza padroni alle spalle e di certo non daremo via la baracca come qualcuno, passando a La7. Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it

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(Banca Etica/ “Associazione CulturaleI Siciliani Giovani”)

oppure C/C 001008725614

(“Associazione Culturale I Siciliani Giovani, via Cordai 47, Catania”)

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Italia

Eppure cambiare si può I partiti (vecchi e nuovi) non riescono a prenderli sul serio. Ma i movimenti crescono lo stesso, e pesano sempre più di Riccardo Orioles - E lei per chi vota?”. “Beh, io voto per i ragazzi del NoMuos, oppure quelli che stanno facendo il teatro libero a Messina”. - Ma non si presentano! Sempre voglia di scherzare, lei! Beh, in realtà non è che non si siano presentati. Anzi. Hanno addirittura vinto le elezioni, due anni fa. Quando? Giugno 2011, referendum sull'acqua. Là non c'era porcellum, così ci siamo contati. I progressisti, in Italia, sono decisamente la naggioranza. Il problema politico, per il potere, è di non farglielo sapere. Finora ci sono riusciti. “Grillo!”, “Bersani!”, “Ingroia!” “Io voto per Beppe Grillo!”. “Calma: meglio Bersani”. “Sì, però con Sel, così lo spingiamo avanti”. “Ingroia, Ingroia!”. Cari lettori, avete tutti ragione. Nel senso che più o meno volete tutti, più o meno convinti, le stesse cose. Siete gente civile, no? Basta ladroni, maledetti mafiosi, che schifo il precariato... Le cose un pochino si complicano quando dalla base si passa ai massimi dirigenti. “Antipolitico!”. “Estremista!”. “Servo di Monti!”. In Sicilia, ad esempio, uno penserebbe che dopo vent'anni d'antimafia (da cui molti politici sono pur venuti fuori) alla fine qualcosa insieme si sarebbe fatta, almeno sul tema antimafia. E invece no. Chi s'è messo a salvare il mondo da solo, chi a fare strani governi con l'Udc, chi complicatissimi accordi con questo e quello. Tutti beninteso giurando sulla politica nuova e sulla società civile. Che nel frattempo continua tranquillamente a ruminare il suo lavoro, tirando pazientemente la sua carretta (al Gapa lo fanno da venticinque anni), votando senza illusioni chi va votato, ma in fretta e pensando al lavoro, per non perdere tempo.

A Catania, ultimamente, la società civile aveva ottenuto (altro esempio) una vittoria abbastanza importante: il riavvìo della Procura e l'arrivo di un giudice estraneo non coinvolto in niente. Si riuniscono i generali della sinistra, recitano le preghiere di rito a Santa Società, e scelgono (in una stanza) il candidato: che è esattamente l'unico esponente della sinistra locale che a quella battaglia civile non aveva partecipato, l'unico che con la società civile reale non aveva voluto avere nulla a che fare. Non è un caso isolato. Parliamo dei rivoluzionari di Ingroia, ma altrove non è che le cose vadano meglio. Per Grillo la mafia non esiste e fra fascismo e antifascismo non sa che dire. Bersani “non è Robespierre”, e dunque niente mai patrimoniale. Vendola finalmente è andato dagli operai, appena iniziata la campagna elettorale. “Qualunquista!”. No, io li voto, mannaggia a me. Ma mi piacerebbe votare invece per l'asino, quello che fa il lavoro duro e tira brontolando e ragliando la comune carretta. “Sono tutti una casta!”. No... “Maledetti partiti, sono tutta una casta!”. Non è così. Il livello dei gruppi dirigenti non è incivile. Il Pd ha concesso delle primarie vere, con larga partecipazione; l'estromissione di Crisafulli sarebbe stata impenssabile ai tempi di D'Alema o di Veltroni. Ai grillini (nonostante il rapido imbarbarimento del leader) va riconoscito un sincero spirito d'impegno civile. Vendola è un ottimo amministratore della sua regione. E Ingroia ha il merito di avere osato per primo (parliamo dei politici) per brevi istanti una politica di società civile e di movimento. La colpa non è loro, evidentemente. E' del decadimento collettivo del “popolo di sinistra”. Esperienze e valori che un tem-

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po erano ovvi e condivisi - l'organizzazione collettiva, le idee sopra le persone, la dignità individuale di ogni “compagno”, l'importanza dell'impegno personale, il voler essere partecipi e non spettatori ormai non ci sono più. Sarà colpa di Berlusconi o Monti,.del Ventennio, chissà. Fatto sta che non ci sono più, e non fra i politici ma fra la “gente”. Emergono ancora a volte - nelle ultime primarie, per esempio - ma episodicamente, come delle riscoperte improvvise o una indistinta nostalgia. E' facile, per il vecchio mondo, riassorbirle paternalisticamente e digerirle nei media. Di tutto si può fare dibbattito, purché resti tale. Libera, Gapa, i movimenti... Sono molto più solidi, quei valori, e bollono anzi in continua incandescenza, quando sono vissuti fuori dalla politica ufficiale, nell'impegno immediato. Penso ai ragazzi di Libera, del Gapa, di alcuni altri centri di quartiere, ai movimenti per la terra e per l'acqua, ad alcuni sindacati e, naturalmente, ai nostri giovani redattori. La politica antica (qui è un complimento) a mio parere sta rinascendo esattamente lì. Quanto tempo ci vorrà ancora perché essa si autogestisca del tutto, si omogeneizzi, porti a maturazione il percorso che anticamente dai primi sindacati e cooperative di poveri portò al grande e radicatissimo movimento socialista? Speriamo, a ogni tornata, che l'occasione sia questa, che non ci sia più da aspettare. Che si possa finalmente lottare per qualcosa di più che non la difesa pura e semplice della democrazia. Perché anche di questo si tratta: si parla di seconda e terza repubblica, ma la verità è che la repubblica non c'è più. Metà dei diritti costituzionali (a partire dall'articolo uno) sono stati ufficialmente cancellati.


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“Perché non posso votare il mio candidato? Quando me lo faranno, un contratto? E perché non posso iscrivermi a quel sindacato? Possiamo votare ancora, ma non scegliere i candidati. Non c'è (ma c'è già in fabbrica) una dittatura, ma non c'è più una totale democrazia. A poco è cresciuto un regime nuovo, che potremmo anche chiamare una semidemocrazia. E' facile abituarcisi, considerarlo “normale”. Ma noi no, dobbiamo restare ancorati alla realtà - quella della nostra repubblica, non quella fittizia dei media. Dov'è finito l'ufficio di collocamento? Perché non posso votare più per il mio candidato? Quando me lo faranno, un contratto? Va bene le primarie ogni tanto, ma poi non posso decidere più niente? E perché non posso iscrivermi a quel sindacato? Perché non possiamo farci una casa e sposarci, se oramai stiamo insieme da tre anni? Domande banali, d'accordo. Ma in realtà la politica sta là dentro. Attento alle cose “normali” “Ma insomma, per chi debbo votare?”. E che ne so, io. Certo, non voterai per Monti o Berlusconi o per il babbo del Trota (o il successore), se no non mi avresti letto fin qui. E questo è l'importante. Per il resto, sbrigatela tu. A me l'unica cosa che importa è che faccia qualcosa di piccolo, ma concreto e visibile, nel tuo paese; o nella tua scuola o fabbrica o quartiere. Qualcosa che sia fatto da te e non delegato agli altri, e senza affidarti ciecamente a nessuno. Se c'entra un po' d'antimafia, tanto meglio; non c'è nulla che faccia più danno ai padroni del paese, e nulla che ci tenga uniti più strettamente. E sta' in campana... E' tempo d'elezioni, perciò sta' in campana che non ti freghino il nome e non ti ritrovi sui cartelloni elettorali a tua insaputa com'è capitato al povero Pino Maniaci; non ti fidare dei leader, di nessun leader, perché se uno vuol fare il leader ha qualcosa di storto dentro la testa. Non puoi votare per me, perché non mi candido; ma per caso un giorno o l'altro mi candidassi, allora dimmi “fanculo”. Se un giorno ti candiderai tu, che sia in elezioni libere, senza bisogno di leader e senza montarsi la testa. Aspetta la repubblica, insomma. E lavora per farla arrivare, senza stancarti mai, senza paura.

Promemoria Le tre parole della crisi “La mafia? A Catania non esiste”. “La mafia? Non c’è mafia a Roma”. “La ‘ndrangheta? Qualche caso isolato, qui a Milano”. Quante volte s’è sentito questo discorso, borbottato da un politico o elaborato con molti particolari mediatici da un giornale. Eppure la mafia c’era, fin dal primo momento. Pochi magistrati a combatterla, e fra noi giornalisti qualche collega eccentrico e qualche ragazzo. Così siamo arrivati fin qui. Ed ecco cosa c’era dietro il loro muro di gomma. Adesso, tutti i problemi sono esplosi ma la mafia per prima, perché è la cultura mafiosa, l’economia mafiosa, il potere mafioso a far da modello per tutto il resto. La mafia, e tutti i suoi inconsapevoli allievi a ogni livello. Forse non è ancora troppo tardi, a condizione di muoversi subito e con durezza. A monte, una scelta precisa: non ci fidiamo più della loro informazione. Perciò ce la facciamo da noi. Facciamola tutti insieme (noi diciamo “in rete”, in più sensi), e oggi tecnicamente si può. Ma senza vip e senza guru. Da noi, al centro della nostra moderna e sofisticata rete c’è in fondo un modesto doposcuola di quartiere.

MAFIA E’ il principale problema d’Italia, quello che ci impoverisce di più. Non è una patologia criminale ma il principale potere economico del paese, che ormai fa da modello anche a molta economia legale. “Tratta” con tutti, e sempre ottiene qualcosa. Ma ha un punto debole: è molto vulnerabile alla mobilitazione popolare. Negli anni '90 è andata molto vicina ad essere sconfitta, e s’è salvata solo grazie alla “timidezza” dello Stato. Bisognerebbe: ● Confiscare tutti i beni mafiosi o frutto di malversazione, di corruzione o di grande evasione fiscale; ● Assegnarli alle cooperative di giovani lavoratori, e sostenerle adeguatamente; anagrafe dei beni confiscati; sgravi fiscali ai commercianti che se ne fanno clienti; ● Vigilare (comuni, regioni, assemblee cittadine) sull’applicazione; ● Punire non ritualmente gli scambi politico-mafiosi (riforma 416ter). La mafia può essere non solo sconfitta, ma eliminata del tutto. A condizione di cominciare dai sedicenti “non mafiosi” (nelle imprese, nella politica, nello Stato) senza il cui aiuto e complicità non potrebbe sopravvivere un giorno.

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OPERAI Era una parola nobile, adesso è schiavitù. La crisi economica non pesa perché gli operai “pretendono”, ma perché troppi imprenditori non sanno fare il loro mestiere (vediFiat) o portano tutto all’estero, alla faccia della (nostra) economia. Iniziative utili: ●Applicare l’art.41 della Costituzione (“programmi e controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”); ●Applicare l’art.42 della Costituzione (esproprio per motivi d'interesse generale) per sanzionare le delocalizzazioni, l’abuso di precariato e il mancato rispetto degli accordi di lavoro; ● Separazione fra capitale finanziario e industriale; tetto alle partecipazioni finanziarie nell’editoria; Tobin tax; ● Regolarizzare per legge i rapporti di lavoro di fatto; ● Gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali (scuola, università, difesa, acqua, energia, infrastrutture tecnologiche, credito internazionale); ristrutturazione della Rai su base pubblica; limite regionale per l’emittenza privata; ● Progetto nazionale di messa in sicurezza del territorio, sul modello TVA, come volano economico soprattutto al Sud; divieto di ulteriori cementificazioni; ● Responsabilità personale degli amministratori per il mancato uso di fondi; ● Controllo del territorio nelle province ad alta intensità mafiosa. EUROPA L’Italia ormai è troppo piccola per risolvere da sola i suoi problemi: Cina, India, Giappone, Russia, l’America che raddoppia... Va bene, ma non abbiamo l’Europa per questo? Eh no che non ce l’abbiamo. L’Europa, fatta così, non ci appartiene: al massimo siamo utenti, non cittadini. Ma se provassimo a rifarla in un altro modo? Con più, come dicono i greci, più “dimokratìa”? E quindi con meno banchieri, per logica conseguenza. L’occasione ci sarebbe: nel 2013 in tre dei principali paesi europei (Francia, Germania, e noi) avremo con ogni probabilità tre governi di centrosinistra. Saranno tre altri governi delle banche? O possiamo provare a chiedergli qualcosa di meglio, a gran voce e tutti insieme? (1914 2014: fra poco è un secolo che l’Europa non c’è più)


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NoMuos/ Niscemi

Fra botte e lividi la notte della verità “Oggi è il giorno dei lividi. Oggi è il giorno della vera lotta”. di Sara Spartà

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Sono le parole a caldo di Elvira, attivista del No Muos Niscemi, dopo la notte dell’11 gennaio. Cinquanta giorni di presidio permanente per bloccare la gru che dovrebbe montare le parabole del terminale terrestre Muos, già in fase di completamento. Cinquanta, più o meno, come i ragazzi che quella notte si trovavano di fronte alla base per bloccare l’avanzata di sei camion Comina e di due gru partite da Belpasso. “La strategia adottata dalle forze dell’ordine per fare entrare quei convogli dentro la base si può paragonare tranquillamente ad una strategia militare. Erano circa quattrocento uomini fra carabinieri e polizia. Hanno bloccato tutte le vie di accesso al paese, impedendo così che altri attivisti No Muos dei paesi vicini potessero raggiungere la base. Ci siamo accorti che, per quanto cercassimo di contattare telefonicamente amici e parenti a Niscemi, era praticamente impossibile farlo. Per tutta la notte i cellulari non hanno funzionato, non c’era campo. È stato impossibile contattare chiunque. Questo, pensiamo, indubbiamente faceva parte della loro strategia".

Una notte di resistenza che è sfociata in scontri con le forze dell’ordine. “Calci, pugni, qualche manganellata. C’eravamo sdraiati per terra in segno di protesta passiva ma pacifica. Io sono stata sollevata da quattro uomini che mi hanno presa per le gambe e per le braccia e mi hanno di peso allontanata dalla base, fino all’ordine del commissario di poggiarmi a terra. Ho temuto il peggio in quel momento”. Le forze dell’ordine, dal canto loro, parlano di "azioni di alleggerimento" e smentiscono qualsiasi azione violenta. Elvira ha un livido alla schiena, così come molti altri; e il ginocchio e il polso gonfi. “Azioni di alleggerimento” “O con le buone o con le cattive, noi stanotte dobbiamo entrare” queste sono le parole riportate dalle testimonianze dei ragazzi. Senza se e senza ma l’operazione doveva giungere al termine, così com'è stato. Evidentemente urge per gli americani ultimare i lavori che dovevano, secondo le previsioni iniziali del progetto, il Muos già in funzione oggi. L’alba non è stata delle migliori. Rammarico, sfiducia, delusione. Non si parla d'altro, dal barbiere, nella bottega, nelle piazze, per le strade. I ragazzi del liceo “Leonardo da Vinci” indicono un’assemblea straordinaria dove invitano alcune dei ragazzi coinvolti negli scontri. Ascoltano in silenzio, con i loro profes-

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sori. “Il ricordo di quella notte non passerà tanto in fretta” commenta Fabio. Poi sta in silenzio per molto tempo, senza dire altro. “Non tocca a noi parlare, adesso, aspettiamo la risposta dai nostri politici che hanno permesso tutto questo”. Il presidente Crocetta e l’assessore Lo Bello si sono spesi per l’emanazione di un provvedimento per la sospensione dei lavori e la messa in mora dell’esercizio dell’impianto. Quindi un provvedimento che non revoca, ma sospende, cosa ben diversa che non sfugge ai comitati. Il presidente si mostra cauto, vorrebbe aspettare valutazioni sull'impatto sulla salute più sicure, come dall'Istituto superiore di sanità e dall'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente. La “politica” ha altro da fare... Non si percepisce lo stesso atteggiamento dalla ministra Cancellieri che invece si affretta a definire "d'importanza strategica militare" la struttura, sia per gli Usa che per le forze Nato e italiane. Anche se questo non risulta dai documenti ufficiali che ne attribuiscono invece l'uso esclusivo ai militari americani. Un'altra bella batosta per la Regione, che si vedrebbe così esautorata da ogni potere sulla zona. Fraa l'altro parliamo di una Regione a Statuto speciale, che potrebbe gestire in maniera diversa la situazione. Aspettando una risposta più decisa e convinta da parte della "politica", che forse ha la mente occupata o preoccupata per le prossime elezioni, il movimento sembra oggi più convinto che mai. Il 19 di questo mese è indetta una giornata dedicata alla sensibilizzazione al problema in tutte le maggiori città siciliane e non solo; il 30 marzo la seconda manifestazione nazionale No Muos. E intanto tutta Italia si cerca di coordinarsi e di crescere. La notte del 15 un alluvione improvviso ha distrutto la struttura del presidio. Ma tutti restano lo stesso là, fermi, a presidiare.


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Riforme

“Privatizziamo lo Stato” Ma l'idea non è di Mr B.: già trent'anni fa un famoso "cavaliere dell'apocalisse mafiosa" aveva detto... di Antonio Roccuzzo L’idea di Mr B. è che lo Stato vada privatizzato. Sul palcoscenico di Santoro (10 gennaio) l'ha detto chiaro e tondo: “Nel prodotto interno non viene calcolato il sommerso”. Sommerso? Sì, l’evasione fiscale che “fa ricchezza nazionale”. Berlusconi parla per la prima volta di "moralità dell'evasione" in una conferenza stampa a Palazzo Chigi, il 17 febbraio di nove anni fa: ''Se si chiede una pressione del 50 per cento, ognuno si sentirà moralmente autorizzato ad evadere''. Il 18 febbraio 2004, a “Radio anch’io”, torna sulla "giustificazione morale" dell'evasione, insita - a suo parere - nel "diritto naturale". “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche - dice la Costituzione, articolo 53 - in ragione della loro capacità contributiva”. Un articolo spazzato via dalle esternazioni di Mr B. In un dibattito pubblico impoverito, con un’informazione nell'angolo e una comunità civile senza orgoglio. Dove i fatti privati (economici, giudiziari e perfino i comportamenti sessuali) di Mr B sono stati al centro del voto del popolo sovrano, dell’attività degli organi di controllo giudiziario e di quelli che regolano i mercati, per non parlare dell’attività del Parlamento.

A me questa storia della trasformazione di un dovere (o di un diritto) privato in oggetto di battaglia pubblica che torna ogni volta che il cavaliere va in scena, fa pensare ad alcune parole del cavaliere del lavoro catanese Mario Rendo, uno dei più grossi e controversi costruttori edili italiani degli anni Ottanta. Nella primavera '83, in un’intervista a "Repubblica" disse: “Perché non debbo occuparmi della nomina di un prefetto a Catania? Sono il primo contribuente qui e ho il diritto di farlo”. La Sicilia (e l'Italia) dell'83 Il generale Dalla Chiesa era stato ucciso pochi mesi prima, dopo aver denunciato a Giorgio Bocca che “le quattro principale imprese catanesi, con il consenso della mafia, sono sbarcate a Palermo”. L’Italia scopriva che la mafia non era solo un problema di coppola e lupara e non riguardava solo i siciliani. Rendo era sotto inchiesta per una mega evasione fiscale: in un suo ufficio in Toscana erano state trovate delle “cartelline” in cui, con pressioni su tutti i partiti indistinamente, la sua impresa si occupava di incarichi pubblici, nomine di ministri, apparati dello Stato e appalti. Certo che il cittadino Rendo si poteva occupare pubblicamente della nomina di un prefetto: ma non se era indagato per truffa ai danni dello Stato e se erano in

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corso indagini su collusioni mafiose della sua impresa. Non con pressioni occulte e metodi illegali. Non nel fondato sospetto che quell’interessamento fosse legato a tentativi di "aggiustare" processi. Come poi fu dimostrato dal Csm e dal Ministero della Giustizia: un procuratore e un Pm – per questo trasferiti da Catania – postdatarono a penna i certificati di carichi penali pendenti sul cittadino Mario Rendo per permettergli di partecipare a gare d’appalto eludendo la legge Rognoni-La Torre. Fu il primo, forse il più clamoroso, caso di corruzione a palazzo di giustizia che la storia giudiziaria italiana ricordi. Perché ricordo quella vecchia storia su cui “i Siciliani” di Giuseppe Fava fece campagna? Cosa c’entrano le cartelline Rendo con le comparsate tv di Mr B.? Sono una piccola anteprima del dramma della nostra vita pubblica degli ultimi vent'anni. Essere il primo contribuente non concede più diritti. Pagare le tasse sul reddito non è una concessione da mecenati ma è un dovere civile. Pagare molte tasse non dà il diritto di contare di più. Di non farsi processare, di sviare i processi, di corrompere magistrati. Soprattutto se poi le tasse - alla Rendo - non le paghi tutte. Ecco perché anche in questa storia di Berlusconi che – ora, trent'anni dopo – giustifica l’evasione non c’è niente di personale. In questo intreccio di interessi pubblici e privati sta il dramma italiano. Giustificare i “fatti propri” facendoli diventare il problema centrale in vista di elezioni decisive per il futuro del Paese. Esattamente come accadde nella Sicilia di 30 anni fa.


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Milano/ La sentenza “Infinito”

Mafia al Nord Il giorno della svolta Non passa un secondo dall'ultima parola del presidente dell'ottava sezione penale Maria Luisa Balzarotti che l'aula esplode in un boato di insulti. Si conclude così il maxiprocesso alla 'ndrangheta in Lombardia di Ester Castano www.stampoantimafioso.it

I magistrati posano i fogli della sentenza sul banco, sollevano i faldoni, voltano le spalle ai presenti e lasciano l'aula: il loro lavoro, almeno per oggi, è terminato. La cinepresa si stacca e sposta l'obiettivo correndo velocemente verso la parte opposta della stanza: passa rapida sul volto del pubblico ministero Alessandra Dolci e gli uomini della scorta; sulle toghe nere degli avvocati, fra cordoni oro e argento; soffia sui taccuini dei giornalisti che improvvisamente si voltano incuriositi dal rumore e sale, sale lungo la gradinata circondata dalle sbarre: è lì che si agitano amici e parenti degli imputati. Da qui arriva il frastuono. Un grande e falso applauso - il suono del disprezzo invade il bunker di piazza Filangieri.

Ad essere processata a Milano è la 'ndrangheta al Nord, l'associazione criminale di stampo mafioso nata in Calabria e capace di salire lo stivale fino a corrodere la capitale morale del Paese, la politica e le sue imprese. Quaranta le condanne di primo grado pronunciate giovedì 6 dicembre a conclusione del rito ordinario di Infinito, in un pomeriggio freddo e confuso di inizio inverno. Lombardissimi imprenditori... Pene da 3 ai 20 anni, risarcimenti fino a 1 milione e 200 mila euro. Un dirigente sanitario, un commercialista esperto in finanza, lombardissimi imprenditori del movimento terra con esperienza pluriennale nell'edilizia, carabinieri che indossano la divisa per proteggere i capi delle cosche; e poi: carpentieri, padroncini, autotrasportatori, trafficanti d'armi in pensione, rivenditori di automobili. Un mondo stratificato, quasi dantesco, differente al suo interno per ambiente culturale, classe sociale e linguaggio. C'è chi ha studiato e ha un lavoro ottimamente retribuito, come Carlo Antonio Chiriaco, odontoiatra amico dei politici ed ex vertice dell'Asl di Pavia, condannato a tredici anni. C'è chi ha distrutto per sempre la solida impresa di famiglia che nel comasco dava lavoro a molte persone, mettendola irrimediabilmente nelle mani delle cosche in cambio di fallaci vantaggi: una vita sopra la media, feste e auto di grossa cilindrata. E' il caso di Ivano Perego, lombardissimo titolare della Perego General Contractor. Gli anziani genitori di Ivano li si distingue subito, fra il pubblico presente in aula che muove convulsamente braccia e

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mani: composti nel vestire, biondi, “nordici” nello sguardo e nel pallore del viso, si isolano dai parenti degli altri imputati dai vestiti griffati e sberluccicanti con cui pensano di avere poco in comune. Ma la Lombardia non è mai stata più Sud di oggi, e la conseguenza è di fronte ai loro occhi: il figlio si assomma le colpe di un'intera generazione di negazionisti opportunisti che per decenni hanno sminuito il problema infiltrazione, ed è condannato a 12 anni per partecipazione in associazione mafiosa per aver appoggiato il boss di Seregno Salvatore Strangio nei suoi affari, fra cui la corsa agli appalti rhodensi di Expo 2015. Condannato a 10 anni e 10 mesi Cesare Rossi, 70enne originario di Tropea e residente a Nerviano in provincia di Milano, piccola cittadina di 18mila abitanti bagnata dall'Olona. Un mondo quasi dantesco Qui, nel magazzino del signor Rossi, uomo distinto, capelli bianchi e baffo curato, si sono svolti importanti summit di 'ndrangheta. Gli affiliati sfruttavano la tipica tradizione calabrese della macellazione del maiale per potersi incontrare in gran numero fra compaesani senza destare particolari sospetti fra gli autoctoni lùmbard. "Razzisti, bastardi, pezzi di merda: siete voi i mafiosi": anche i condannati, da dentro le gabbie, non risparmiano frasi ingiuriose contro la magistratura e i giornalisti presenti in aula. "Si costituisce parte civile, ma è la Regione Lombardia ad essere mafiosa, Formigoni è mafioso, questa è l'Italia!". Una donna bruna e minuta si accascia per terra: è Angelica Riggio, la giovane fidanzata del sessantasettenne Pio Domenico.


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Società

Donne di 'ndrangheta Boss nell'ombra Si dimena sul pavimento, grida, piange. Lui, condannato a 16 anni di carcere, responsabile delle estorsioni di Desio, comune lombardo della provincia di Monza e Brianza; lei, condannata a 6 anni e 6 mesi, complice e vicaria degli affari dell'amante 'Mimmo'. “Infinito” è lo specchio di quella parte di società lombarda in cui la politica dell'arrivismo si è intrecciata ad un'economia criminale nel più indifferente silenzio delle Istituzioni, mietendo sul proprio cammino vittime di racket e usura, aziende fallite e persone costrette dal timore a versare reverenzialmente i propri soldi nelle casse della 'ndrangheta. “Massoneria dei poveri” la definisce l'avvocato tributarista Pino Neri che nell'ottobre 2009 partecipa al tristemente celebre summit di Paderno Dugnano organizzato al circolo Arci Falcone e Borsellino. Politica ed economia criminale Sotto il quadro che ritrae i due magistrati, Neri prende le redini dell'associazione criminale riconfermando la stretta dipendenza dagli affiliati operanti in Lombardia alla casa madre, conferma necessaria dopo dell'uccisione del boss secessionista Carmelo Novella morto sparato un anno prima a San Vittore Olona. Per Neri, laureato a Pavia con una tesi sulla 'ndrangheta e condannato oggi a 18 anni di carcere, è tutta una questione di folclore. Ma quali summit e summit: solo mangiate tra meridionali migrati al settentrione, soppressata piccante e vino buono. Minacce e concorrenza sleale fra le imprese edili? Macchè, è un'idea tutta dei polentoni visionari: “fra calabresi ci si conosce tutti e ci si aiuta sempre”.

Donne che condannano a morte altre donne. Madri, sorelle e figlie che progettano lo sterminio di intere famiglie di Vittoria Smaldone Nel villone in stile Scarface del boss latitante Michele Bellocco, arrestato a novembre dello scorso anno nell’ambito dell’inchiesta “Blue Call”sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nei call center milanesi, sono stati rivenuti dei dipinti di donne che imbracciano dei mitra. Probabilmente un omaggio alle donne d’onore della 'ndrangheta. La ‘ndrangheta è l’unica mafia ad avere un carica sociale riservata alle donne, “la sorella di omertà”. E’prevista un’affiliazione al femminile che diventa automatica nel caso in cui si nasca in una famiglia ‘ndranghetista. Altrimenti è necessario dimostrare la propria affidabilità per potervi accedere. Senza peraltro aspirare a far carriera. La donna di solito coadiuva l’uomo nelle attività illecite, supporta l’organizzazione e apparentemente non svolge funzioni di comando o comunque fondamentali alla vita della cosca. Ma agisce nell’ombra. Conserva la memoria. Educa i figli alla cultura mafiosa e tiene in vita la sua ‘ndrina tutelandone l’onore. E’la donna che alimenta la vendetta serbando nel cuore i morti e pretendendo che il sangue venga lavato con altro sangue.

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Gli elementi emersi dall’operazione “Blue Call”, condotta dalla squadra mobile di Reggio Calabria e coordinata dalla Dda reggina in collegamento con le procure di Palmi, Milano e con la procura federale svizzera, confermano che il ruolo della donna nella ‘ndrangheta non è affatto marginale e soprattutto che le donne sono spietate quanto i loro uomini e non fanno sconti a nessuno. In un’intercettazione telefonica, Maria Teresa D’Agostino, madre di Umberto Bellocco, rampollo della potente cosca di Rosarno al centro dell’indagine, discute col figlio di una probabile faida che vedrebbe contrapposta la loro famiglia a quella dei Pesce, storici alleati della cosca. Sono stati uccisi due affiliati al clan e i sospetti ricadono sul clan amico. Si paventa l’inizio di una faida, tanto più che il giovane Bellocco, piccato, afferma: ”Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro sennò non è di nessuno”. La madre replica:“Una volta che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti… dopo, o loro o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo… pure ai minorenni… Pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”. La miccia della vendetta Ad innescare la miccia della vendetta è la donna che insinua nel figlio propositi funesti. Lei l’ha educato e l’ha cresciuto secondo i dettami della mafia. E sarà sempre lei, la madre, a decretare la sua sposa. Nella ‘ndrangheta, spesso, i matrimoni vengono utilizzati per stipulare delle alleanze più forti o per ricomporre delle faide. Ma non sempre i figli recepiscono l’insegnamento delle proprie madri e accade che, soprattutto se crescono in luoghi diversi dalla terra d’origine, si emancipino e vogliano addirittura rispettare le leggi.


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“La ribellione non è tollerata. Lo imparano sin da piccole. Non appartengono a loro stesse bensì alla famiglia. E’ la ‘ndrina che governa le loro vita. E per i figli valgono le stesse regole...” Saveria Strangio, appartenente ad una delle più antiche famiglie di ‘ndrangheta di San Luca, rimproverò i suoi figli, milanesi d’adozione, perché avevano osato pagare le bollette. “Ma siete pazzi? Come sarebbe a dire che avete pagato le bollette? Io non vi ho educato per farvi spendere soldi per l’acqua e la luce”. I ragazzi provarono a spiegare alla madre che non vivevano più in Calabria ma in Lombardia e che le bollette andavano pagate, ma la donna non voleva sentir ragioni. “Il tuo Stato è la 'ndrina!” Le microspie sparse in casa di uno dei due figli seguitarono a raccogliere l’indignazione di Saveria. Pagare le bollette o le tasse, dare soldi allo stato, ad enti che erogano dei servizi, è impensabile in una logica mafiosa. La ribellione poi non è tollerata. Le donne lo sanno perché lo imparano sin da piccole. Loro non appartengono a loro stesse bensì alla famiglia. E’la ‘ndrina che governa le loro vite e per i figli valgono le stesse regole. Nessuno può liberarsi dai tentacoli della ‘ndrangheta. La famiglia controlla persino i matrimoni. Merce di scambio, istituzione di potere, da contrarre solo ed esclusivamente con i cognomi amici per mera utilità. Una donna di ‘ndrangheta, ormai radicata al nord, confida ad un’altra di aver ostacolato il rapporto sentimentale del proprio figlio con una ragazza del Nord. Sacrilegio. Le unioni le stabilisce la ‘ndrina. E se, come in questo caso, il boss-padre in carcere ha dato ordine a sua moglie che il figlio dovrà sposare un determinata fanciulla di buona famiglia mafiosa, l’altro matrimonio non s’ha da fare. Le donne entrano con facilità in carcere, prendono ordini dai loro compagni e mandano avanti gli affari nei periodi di detenzione dei boss. Le donne di ‘ndran-

gheta sono al corrente dei traffici e dei business del clan e partecipano in prima persona alle attività. Lo dimostrano le conversazioni telematiche delle sorelle di Giovanni Strangio, condannato in primo grado all’ergastolo con l’accusa di essere stato l’organizzatore e esecutore materiale della strage di Duisburg (15 agosto 2007). Teresa e Angela avevano creato dei nickname per comunicare sul web. Parlavano di armi, droga e facevano spesso riferimento all’episodio di Duisburg e al coinvolgimento del cognato Giuseppe Nirta, altro presunto autore della strage. Dagli atti dell’indagine Fehida III, in seguito alla quale le due sono finite in carcere insieme con l’altra sorella, Aurelia Strangio, moglie di Nirta, apprendiamo che le due signore nel 2008 si trovavano nel sobborgo di Amsterdam, dove poi verranno acciuffati sia Giuseppe Nirta che Giovanni Strangio. Teresa, moglie Franco Romeo finito in manette nella capitale olandese insieme con i cognati, risulta essere la reale proprietaria di due pizzerie a Kaarst, intestate al fratello. A volte la 'ndrangheta è donna La ‘ndrangheta che investe il denaro sporco a volte indossa la gonna. Le donne di ‘ndrangheta finiscono in carcere e sanno, se vogliono, come uscirne. Sono maestre nel depistare, fanno attenzione a cosa dicono in casa o al telefono. Sanno di essere ascoltate e inventano linguaggi cifrati. Gli inquirenti, indagando sul narcotraffico di alcuni clan ‘ndranghetisti nel 2007, si erano convinti che appartenesse ad una donna l’idea di dare dei nomi femminili ai paesi destinatari dello stupefacente. Le donne di ‘ndrangheta non sono affatto delle ingenue o delle sprovvedute. Sanno sempre come muoversi e come comunicare. Se è necessario, scendono

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persino in piazza per chiedere giustizia. Le signore Strangio parteciparono ad una manifestazione antimafia per sostenere l’innocenza del fratello Giovanni, allora latitante. Dicono di essere brave persone. Poveri abitanti di paesino di montagna dimenticato dal sole. Vivono in case apparentemente modeste. Di solito incompiute, non intonacate, con i mattoni a vista. Ma poi si scopre che il loro tenore di vita è altissimo, basta varcare l’uscio per immergersi nel lusso. Nel cuore dell'Aspromonte Le donne in ombra, le donne vestite di nero, “col lutto di sempre” canterebbe Rino Gaetano, il 1 settembre si ritrovano a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, al cospetto di un’altra donna, la Madonna della Montagna, che per molti è diventata la madonna della ‘ndrangheta perché, secondo gli inquirenti, durante la sua festa, si svolgerebbe la riunione annuale dei massimi esponenti della ‘ndrangheta, compresi nella “Provincia”, il vertice della mafia calabrese. Vengono dal Nord Italia, dal Canada, dall’Australia e dalla Germania e si riuniscono nei dintorni del piccolo santuario in pietra incastonato nella roccia. Protetti dalla natura, gli ‘ndranghetisti informano il capo crimine, considerato la massima autorità del sodalizio, su quanto accade nei loro territori. Comunicano il numero di affiliati, se c’è una faida in atto da far rientrare, e chiedono consiglio sulle decisioni da prendere nel corso dell’anno. Gli uomini si riuniscono in gran segreto, mentre le loro donne pregano in ginocchio davanti all’effigie della Madonna. Una donna ruvida con i tratti del volto contratti le guarda dall’alto della sua nicchia scavata nella roccia, una madre accoglie, suo malgrado, altre madri dai cuori oscuri, boss nell’ombra.


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accadrà ieri

REWIND

FORWARD accadde domani a cura di Francesco Feola

Ormai rubano

La lingua

Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio viene sottratto il bambinello dal presepe allestito in piazza Sant’Oronzo, nel cuore di Lecce. Nel 2010 era toccato alla statua della Madonna, mentre nel 2007 ad uno dei Re Magi. Fino a questo momento le ricerche non hanno dato alcun esito.

Il 13 febbraio, a Firenze, presso l'Istituto storico della Resistenza (via G. Carducci 5) si presenta La lingua di Ana (Infinito edizioni), un romanzo di Elvira Mujčić che racconta la storia di un’adolescente moldava in Italia e dei suoi sforzi per integrarsi. www.infinitoedizioni.it

DI ANA

PURE IL BAMBINELLO...

C'est tojours LA VILLE LUMIERE

Il 13 diverse centinaia di migliaia di persone sfilano per le vie di Parigi per protestare contro la legge sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Promessa da Hollande in campagna elettorale, la legge comincerà il suo cammino parlamentare il 29 gennaio.

Raddoppiano

I CITTADINI ONESTI A BARI

Il 9 vengono resi noti gli interventi compiuti dalla Guardia di Finanza di Bari nel corso del 2012. Sono quasi raddoppiate le segnalazioni fatte dai cittadini in merito a reati di natura fiscale, come la mancata emissione dello scontrino da parte dei negozianti e gli affitti in nero.

Femministe A SAN PIETRO

Nelle stesse ore in piazza San Pietro a Roma quattro attiviste del gruppo femminista ucraino Femen manifestano a favore dei diritti degli omosessuali durante l’Angelus del Papa. Le quattro donne, che sulle schiene nude mostravano la scritta “In gay we trust”, sono state poi fermate dai carabinieri.

Palestina per principianti

Il 15 febbraio a Roma, presso il Cinema Detour (Via Urbana 107), si terrà il secondo Palestina per principianti, una rassegna di film e documentari a cura della Rete romana di solidarietà con la Palestina. Il programma prevede alle ore 20.30 il videoreportage "Voi non potete non sapere", di Nandino Capovila, e alle 21.00 il film-documentario “OCCUPATION”, di Sufyan e Abdallah Omeish, che racconta la vita sotto il controllo militare e analizza gli elementi che ostacolano il raggiungimento di una pace duratura e giusta.

“Manager CONTENTATEVI”

Il 10 la Banca Cantonale di Glarona, in Svizzera, annuncia che dal 2014 i suoi top manager non potranno guadagnare più di 10 dei loro dipendenti con il salario più basso. E intanto anche a livello federale si preparano iniziative di legge per mettere un tetto agli stipendi dei manager.

Corso di diritto DELL'IMMIGRAZIONE

Il 25 febbraio chiudono i termini per le iscrizioni al corso di specializzazione in Diritto dell'immigrazione e riconoscimento della protezione internazionale, un corso organizzato dall'associazione Jus&Nomos con la collaborazione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, del Consiglio Italiano Rifugiati e di altre organizzazioni attive nella tutela dei diritti umani. Il corso si terrà a Roma, presso la sede dell'Unicef (via Palestro 68). segreteria@iusnomos.eu

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IL CASO CATTAFI

Mafia-Stato

La trattativa continua ora Trattative per evitare attentati, trattative per difendere il potere politico, trattative per instaurarne uno nuovo. Difficile, in tutti questi anni, distinguere fra chi – fra gli uomini dello Stato – trattò “a fin di bene” e chi per fini eversivi. Comunque le trattative ci furono – e questo ormai non lo nega più nessuno – e uno dei principali “ambasciatori” fu il boss dei boss messinese, Rosario Cattafi. Che adesso sta continuando a “trattare”, riempiendo cartelle su cartelle... I Sicilianigiovani – pag. 18

di Antonio Mazzeo


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“Nonostante i “non ricordo” di ministri e presidenti...” Un immenso cratere in autostrada, allo svincolo per Capaci. Il gran botto in via d’Amelio, carcasse d’auto e corpi straziati. Poi le bombe e le stragi a Roma, Firenze, Milano. L’offensiva mafiosa, la sapiente direzione strategica delle centrali del terrore. E la trattativa degli apparati infedeli dello Stato. Sino alla capitolazione: la seconda repubblica di matrice neoliberista, i nuovi interlocutori politici all’ombra del biscione, il colpo di spugna sul carcere duro per boss e gregari. Vent’anni di segreti e veleni, una tragedia infinita su cui indagano senza sosta tre Procure. Per inchiodare i mandanti dal volto coperto, esecutori e protettori, spie e doppiogiochisti. Nonostante i “non ricordo” di ex ministri e presidenti. Fra Stato e Antistato Sui presunti registi e intermediari della trattativa tra Stato e Antistato girano nomi eccellenti. Alcuni sono deceduti e non potranno fornire chiarimenti né difendersi. I Pm di Palermo nutrono forti sospetti sull’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. E sull’alto dirigente del Sisde, il servizio segreto civile, Bruno Contrada. Nella black list c’è pure l’ex capo dei Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, Mario Mori. O l’ex ministro Calogero Mannino che, secondo gli inquirenti, avrebbe esercitato “indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione del 41bis”: nel novembre ’93 fu deciso di non rinnovare il carcere duro a 326 mafiosi, 45 dei quali ai vertici di Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita. Gli inquirenti ipotizzano che tra i consiglieri dell’ammorbidimento del regime detentivo nei confronti della criminalità organizzata ci fosse l’allora vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Di Maggio, il magistrato tutto d’un pezzo scomparso prematuramente nel 1996, noto per l’inchiesta sulla scalata criminale di Angelo Epaminonda “il Tebano”, il re delle bische e della droga di Milano, convertito in collaboratore di giustizia. Dopo un breve e travagliato periodo all’Alto commissariato antimafia, Di Maggio aveva preferito trasferirsi a Vienna per fare da consulente giuridico dell’agenzia antidroga delle Nazioni Unite. Poi inaspettatamente, nel ’93, veniva chiamato a Roma per assumere l’incarico

di supervisore delle carceri italiane. Ciò ha insospettito i Pm palermitani: non aveva alcuna competenza specifica per quel ruolo, non era magistrato di corte d’appello, titolo richiesto dalla legge. Per aggirare l’ostacolo fu nominato consigliere di Stato. Chi e perché lo volle alla guida del Dap? “L’ho scelto io”, ha spiegato Conso. “Era una persona che andava un po’ in televisione, quindi era combattivo, attivo, era un esternatore e mi era parso molto efficace”. Di diverso parere l’allora capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti: “Ebbi l’impressione che a Conso, a sua volta, Di Maggio gli fu imposto”. I rapporti tra il guardasigilli e il magistrato erano tutt’altro che idilliaci. “Una volta ho assistito a una violentissima lite tra i due”, ha aggiunto. “Mi misi di mezzo perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, insultava Conso e io non potevo permetterlo…”. La nota di Capriotti Il 29 ottobre 1993 Capriotti aveva sottoscritto una nota in cui si chiedeva a diverse autorità istituzionali un parere sull’eventuale proroga del 41bis a oltre trecento detenuti “per creare un clima positivo di distensione nelle carceri”, spiegava il capo del Dap. La nota fu poi consegnata a Conso dall’allora capo di gabinetto del ministero, Livia Pomodoro, odierna presidente del Tribunale di Milano. “Il ministro mi diede la direttiva di attendere ulteriori aggiornamenti, che avrebbero dovuto essere forniti dal vicecapo Di Maggio”, racconta Pomodoro. Nessuno però è in grado di ricordare cosa poi veramente accadde e quale fu davvero il ruolo del magistrato richiamato da Vienna. Quello stesso Di Maggio che in un’intervista in piena stagione terroristica si era dichiarato “decisamente a favore” del carcere duro per i mafiosi. “Era ritenuto un forcaiolo al Dap perché voleva mantenere il 41bis, ma riteneva che la sua linea fosse disattesa dal Ministero degli Interni”, ha rivendicato il fratello, Salvatore Di Maggio, all’udienza del processo che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra dopo la mancata cattura del superboss Bernardo Provenzano nel 1995. A rendere più fitto il mistero è spuntato un vecchio verbale d’interrogatorio dell’ispettore della polizia penitenziaria,

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Nicola Cristella, che fa il punto sulle frequentazioni di allora di Francesco Di Maggio. Cristella avrebbe dichiarato che, nell’estate delle bombe del ’93, il magistrato era solito cenare con il giornalista Guglielmo Sasinini, poi finito sotto inchiesta per i dossier illegali di Telecom, l’immancabile generale-prefetto Mori e il colonnello dei carabinieri Umberto Bonaventura, morto nel 2002 per arresto cardiocircolatorio. Figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, Bonaventura era stato prima membro dei nuclei antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, poi capo della 1.a divisione del Sismi, il servizio segreto militare subentrato al Sifar. Cene sospette. Inopportune. Inquietanti. Quasi a confermare la relazione privilegiata tra Mario Mori e il giudice Di Maggio un’annotazione nell’agenda personale del militare, alla data del 27 luglio 1993, vigilia della notte in cui esplosero tre autobombe, la prima a Milano e le altre due a Roma, a San Giovanni in Laterano e davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. “Per prob. detenuti mafiosi” c’è scritto in riferimento ad un appuntamento fissato quel giorno con Di Maggio. La notte delle autobombe Stranamente, cinque mesi prima, la mattina del 27 febbraio, presso la Sezione Anticrimine di Roma, Mori aveva incontrato il magistrato (ancora consulente dell’agenzia antidroga dell’Onu) per discutere sull’omicidio del giornalista de La Sicilia Beppe Alfano, assassinato dalla mafia l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. E da quanto accertato dal Pm di Firenze, Gabriele Chelazzi, recentemente scomparso, Di Maggio e Mori s’incontrarono nuovamente il successivo 22 ottobre, congiuntamente all’allora colonnello Giampaolo Ganzer, poi comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione e 65 mila euro di multa per traffico di stupefacenti, falso e peculato. Come Alfano, anche Francesco Di Maggio era originario di Barcellona, il maggiore centro tirrenico della provincia di Messina. E barcellonesi sono pure alcuni dei padrini in odor di massoneria e servizi segreti entrati a pieno titolo nelle cronache nere italiane di quegli anni o certi strani garanti dell’impunità e del depistaggio istituzionale. Mere coincidenze, forse.


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“In logge e para-logge s'incontravano notabili e mafiosi” Ma a Barcellona convergono e s’incrociano più di un filo investigativo, troppi attori, programmi eversivi, esplosivi e telecomandi. La città è crocevia di poteri più o meno occulti, laboratorio sperimentale per le alleanze della seconda repubblica, centro strategico di traffici di droga ed armi, eldorado delle ecomafie, pontecerniera tra organizzazioni criminali siciliane, ‘ndrangheta, camorra ed estrema destra. Un paradiso dorato per i latitanti di primo livello, come Bernando Provenzano, Pietro Aglieri e Benedetto Santapaola. Una Corleone del XXI secolo Una Corleone del XXI secolo dove campieri, ex vivaisti e piccoli allevatori semianalfabeti hanno imposto il proprio dominio agli eredi di una borghesia locale consociativa e parassitaria. Una colonia di cosche efferate, sanguinarie, predatrici. I vincitori e i perdenti di una guerra che negli anni ’80 ha lasciato sul campo un centinaio di morti e una decina di desaparecidos. Omicidi brutali, corpi arsi vivi nei greti dei torrenti, minorenni torturati e sgozzati, arti mozzati. Il devastante saccheggio delle risorse di un territorio unico per bellezze e tradizioni; la capacità d’infiltrazione in ogni livello delle istituzioni. Mafia finanziaria e imprenditrice, onnipresente nella gestione delle opere pubbliche e private, dai lavori ferroviari e autostradali sulla Messina-Palermo alla discarica a cielo aperto di rifiuti di Mazzarrà Sant’Andrea, una delle più grandi del Mezzogiorno d’Italia, ai complessi turistici del golfo di Tindari e di Milazzo. E la bramosia d’impossessarsi del padre di tutte le Grandi infrastrutture, il Ponte sullo Stretto. Per lungo tempo le fittissime rete di relazioni e contiguità trasversali si sono tessute all’interno delle logge massoniche più o meno spurie e nel “circolo culturale” Corda Fratres, l’officina che ha forgiato l’élite politica, sociale, economica e amministrativa locale. Della Fédération Internationale des Etudiants Corda Fratres Consulat de Barcellona (questo il nome ufficiale) sono stati soci e dirigenti giudici, avvocati, insigni giuristi, poeti, scrittori, artisti, giornalisti, diplomatici, militari, liberi professionisti, parlamentari, sindaci, consiglieri provinciali e comunali. E un buon numero di frammassoni. Su 36 iscritti nel 1994 alla loggia Fratelli Bandiera del Grande Oriente d’Italia, ben

14 erano soci Corda Fratres. Tra i cordafratrini “onorari” pure due uomini di vertice dei Carabinieri, i generali Sergio Siracusa (già direttore del Sismi ed ex comandante dell’Arma) e Giuseppe Siracusano (tessera n. 1607 della P2), indicato dalla relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori sulla superloggia atlantica come “fedelissimo di Gelli da antica data”. Stelle di prima grandezza del panorama politico-culturale nazionale i partecipanti ai convegni della Corda. Compreso il vicecapo Dap Francesco Di Maggio, relatore all’incontro su Principio di legalità e carcerazione preventiva, anno 1994. Gullotti e la Corda Frates Nel circolo di Barcellona si contano pure presenze e frequentazioni perlomeno imbarazzanti. Come quella del mafioso Giuseppe Gullotti, condannato in via definitiva quale mandante dell’omicidio di Beppe Alfano. Gullotti è stato membro del direttivo di Corda Fratres nel 1989 e socio fino all’autunno del 1993, quando fu “allontanato” a seguito dei pesanti rilievi fatti dalla Commissione parlamentare antimafia in visita nella città del Longano. “Venne ordinato uomo d’onore nel 1991, per intercessione del vecchio boss di San Mauro Castelverde, Giuseppe Farinella”, ha raccontato Giovanni Brusca. “Sempre il Gullotti si sarebbe dovuto occupare di reperire l’esplosivo necessario per l’attentato che venne progettato tra il ’92 e il ’93 contro il leader del Partito socialista Claudio Martelli, attraverso l’interessamento e la mediazione del clan di Nitto Santapaola”. “Il telecomando me lo dette Gullotti” Deponendo al processo Mare Nostrum contro le cosche della provincia di Messina, lo stesso Brusca ha dichiarato che il telecomando da lui adoperato per la realizzazione della strage di Capaci, gli era stato materialmente consegnato poco prima proprio da Gullotti. L’assegnazione al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca, sarebbe stata patrocinata dal mafioso Pietro Rampulla (originario di Mistretta), l’artificiere del tragico attentato del 23 maggio ‘92 contro Falcone. “Anch’io avevo rapporti con Gullotti -ha raccontato nel giugno del 1999 il controverso collaboratore Luigi Sparacio, già a capo della criminalità messinese- mi era

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stato presentato da Michelangelo Alfano come persona vicina a Cosa nostra, e in tale ambito fornii al predetto uno-due telecomandi da utilizzare per attentati e che erano stati per me realizzati su commissione, da un dipendente dell’Arsenale militare di Messina…”. Nome ancora più indigesto dell’albosoci di Corda Frates quello di Rosario Pio Cattafi, professione avvocato, ritenuto il capo dei capi della mafia barcellonese. “Numerosi collaboratori di giustizia, tra i quali spiccano Angelo Epaminonda e Maurizio Avola hanno indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti operazioni finanziarie illecite e di numerosi traffici di armi, in cui sono emersi gli interessi di importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono”, hanno scritto i giudici di Messina nell’ordinanza del luglio 2000 che ha imposto al Cattafi l’obbligo di soggiorno nel Comune di Barcellona per la durata di cinque anni. I pestaggi insieme a Rampulla Da giovanissimo egli aveva militato nelle file della destra eversiva rendendosi protagonista nell’ambiente universitario messinese di alcuni pestaggi (unitamente all’allora ordinovista Pietro Rampulla), risse aggravate, danneggiamento, detenzione illegale di armi. Trasferitosi in Lombardia a metà degli anni ’70, Cattafi fu sospettato di essere stato uno dei capi di una presunta associazione operante a Milano, responsabile del sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto miliardario. All’organizzazione fu anche contestata la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case da gioco per conto delle famiglie mafiose siciliane. Nel maggio 1984, i presunti appartenenti alla cellula in odor di mafia furono raggiunti da un mandato di cattura firmato dal Pm Francesco Di Maggio. Cattafi, residente in Svizzera, sfuggì all’arresto. Pochi giorni dopo fu però l’autorità giudiziaria locale ad ottenerne l’arresto nell’ambito di un’inchiesta per traffico di stupefacenti. Così il 30 maggio dell’84 Di Maggio potè raggiungere Cattafi in cella a Bellinzona per un interrogatorio ancora top secret: i verbali furono infatti trattenuti dalle autorità elvetiche.


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“Al vertice delle organizzazioni mafiose siciliane” Negli stessi mesi, Angelo Epaminonda riferì ai magistrati (tra cui ancora Francesco Di Maggio) che nel 1983 il Cattafi, per conto del clan Santapaola, gli aveva inutilmente proposto di gestire in società l’attività di cambio-assegni ai giocatori del casinò di St. Vincent. Il fatto tuttavia non fu ritenuto rilevante, e il barcellonese venne tenuto fuori dalle inchieste sulla penetrazione mafiosa a Milano. “Cattafi, per conto di Santapaola...” Di Maggio e Cattafi si sarebbero incrociati pure nel corso delle indagini sull’efferato omicidio del Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia. Lo ha raccontato al Corriere della sera (8 giugno 1995), l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, recentemente condannato in primo grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo contro le organizzazioni mafiose barcellonesi Mare Nostrum. “Fu Di Maggio ad arrestare Cattafi nell’85 per l’inchiesta sull’omicidio Caccia a Torino. Fu il giudice istruttore ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. Cattafi, in verità, non venne arrestato a seguito dell’assassinio del magistrato, ma fu interrogato in carcere dai pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta. Anche Canali conosceva da lungo tempo Di Maggio. Con il magistrato barcellonese, egli aveva fatto un periodo di tirocinio da uditore a Milano. “Sempre Di Maggio, il cui padre era stato maresciallo dei Carabinieri a Pozzo di Gotto, m’informò, in generale, sulla situazione barcellonese prima di trasferirmi in Sicilia”, ha spiegato Canali. Un oscuro passaggio sui rapporti tra Di Maggio e Cattafi fu riportato in quegli stessi anni in uno dei dossier anonimi fatti circolare ad arte per screditare la figura del giudice Antonio Di Pietro e finiti nelle mani del leader Psi Bettino Craxi, latitante ad Hammamet. Bufale e mezze verità “Cattafi - vi si legge - a Milano, dove aveva iniziato un’attività nel campo dei farmaceutici e sanitari, rivede e frequenta il giudice Francesco Di Maggio, che ha passato la sua giovinezza fra Milazzo e Barcellona, dove ha frequentato le scuole, compreso il liceo (il padre era appuntato dei carabinieri), e dove ha conosciuto Cattafi, di cui è coetaneo.

Di Maggio introduce Cattafi nell’ ambiente dei magistrati, dove pare Cattafi abbia conosciuto Di Pietro (allora sconosciuto) e la sua donna, poi divenuta sua moglie”. Quella su Di Pietro era una bufala, quella su Di Maggio una mezza verità. “Il giudice Di Maggio l’ho visto un paio di volte e sono stato anche inquisito e poi prosciolto per una vicenda relativa ad un conto corrente bancario con sede in Svizzera…”, ammetterà lo stesso Cattafi in un’intervista al settimanale Centonove a fine anni ‘90. Qualche mese fa, il controverso avvocato barcellonese è stato arrestato perché ritenuto uno degli uomini di vertice delle organizzazioni mafiose siciliane. Da allora, ha riempito pagine e pagine di verbali fornendo in particolare tutt’altra versione sui suoi rapporti con il giudice Di Maggio. Al centro, ancora una volta, la trattativa Stato-mafia negli anni delle stragi e delle bombe in mezza Italia. Le dichiarazioni di Epaminonda Il racconto di Cattafi parte da quando venne arrestato in Canton Ticino e fu sentito in carcere dal magistrato barcellonese. “I pm di Milano Di Maggio e Davigo emisero un mandato di cattura nel quale ero accusato, fra l’altro, di essere il cassiere della mafia”, ha raccontato il boss. “Il mandato fu notificato all’Autorità svizzera ed io fui arrestato il 17 maggio 1984. All’incirca nello stesso periodo, quando comunque già Di Maggio si stava convincendo della mia estraneità alla vicenda del sequestro Agrati, costui mi chiese se ero disposto a rilasciare dichiarazioni sul conto di Salvatore Cuscunà detto Turi Buatta, indicandolo come uomo di Santapaola. Ricordo che Epaminonda aveva fatto dichiarazioni contro il Cuscunà sostenendo che costui faceva parte della famiglia Santapaola e che lui stesso aveva venduto al Cuscunà alcuni chili di cocaina. Egli negava tutto ciò ed affermava che Epaminonda lo accusava per malanimo nei suoi confronti. A questo punto intervennero le mie dichiarazioni rese al pm Di Maggio ed io confermai le frequentazioni fra Angelo Epaminonda e Cuscunà…”. Cattafi aggiunge che “negli anni '89-'90”, dopo essere tornato in libertà, ricevette la visita in casa a Milano di un carabiniere che gli chiese di raggiungere la caserma di via Moscova dove lo attendeva

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per un colloquio Francesco Di Maggio. Giunto in caserma, Cattafi incontrò il giudice in compagnia del capitano dei carabinieri Morini. “Da pochi giorni l'attentato” “Di Maggio mi comunicò che aveva ricevuto una nomina presso l’Alto commissariato antimafia. -ha raccontato - Sempre in quel frangente, Di Maggio mi disse: so che lei ha contatti con personaggi di vario genere, con imprenditori, se lei sa qualcosa sul riciclaggio di denaro, io sono qui. Non posso definirmi un informatore di Di Maggio ma semplicemente una persona che era entrata in buoni rapporti con costui e che dunque era disposta a fornirgli informazioni nel caso in cui ne fossi venuto a conoscenza. Io garantii la mia disponibilità ed il dottor Di Maggio mi disse: da me troverete sempre un amico”. Cattafi afferma di non aver più rivisto il magistrato sino al maggio del ‘93: “Di Maggio si trovava a Messina, mandò un carabiniere nella casa di mia madre e mi fece sapere che mi aspettava al bar Doddis, ed è lì che lo incontrai. Mi disse che era stato nominato vicedirettore del Dap. C’erano state le stragi Falcone e Borsellino e da pochi giorni l’attentato a Maurizio Costanzo. Dobbiamo bloccarli questi porci, mi disse. Dobbiamo prendere la cosa in mano e portare avanti una trattativa, il concetto era quello, ma non so se usò questa parola”. “Promettergli qualunque cosa” Di Maggio aveva individuato un potenziale interlocutore, Benedetto Santapaola, al tempo latitante, ritenendolo un capomafia “più malleabile”. “Di Maggio mi chiese se, attraverso il boss Salvatore Cuscunà che avevo frequentato a Milano nell’Autoparco di via Salomone, potevo cercare un contatto con Santapaola, che non ho mai conosciuto, per tentare di aprire un dialogo - ha aggiunto Cattafi - dovevo contattare l’avvocato di Cuscunà promettendogli qualunque cosa, tutti i benefici possibili per il suo cliente, pur di riuscire a parlare con Santapaola per riuscire a trovare nuove strade per disinnescare la violenza di Cosa nostra. Mi parlò anche di dissociazione ma così…”. Stando a Cattafi, al faccia a faccia con il magistrato si aggiunsero in un secondo tempo anche i carabinieri del Ros.


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“L'indisturbata “latitanza” del boss mafioso” “Al bar giunsero cinque-sei persone, alcune delle quali in divisa ed altre in borghese. Ricordo ancora che Di Maggio mi presentò nominativamente tutti i carabinieri presenti. Anzi aggiunse che per le eventuali esigenze avrei dovuto contattare due di essi (…). Qualcuno di questi ufficiali era particolarmente spiritoso e raccontava barzellette. Non escludo che fra costoro ci fosse anche il generale Mori, ma onestamente non posso dirlo con certezza”. Il racconto, in verità, è poco convincente. “Ma se Cattafi da decenni è in rapporti con Santapaola perché rivolgersi a terzi per avere un tramite?”, si domanda l’avvocato Fabio Repici nell’e-book “La peggio gioventù”, pubblicato con il numero scorso de I Siciliani giovani. “E perché poi incontrare il giudice a Messina quando Cattafi poteva incontrarlo più comodamente in qualche ufficio romano?”. Santapaola a Barcellona Lo stesso Santapaola fu arrestato a Mazzarrone, in provincia di Catania, il 18 maggio 1993, qualche giorno dopo il presunto incontro Cattafi-Di Maggio a Messina e dopo aver liberamente scorrazzato “latitante” nel barcellonese almeno fino al 29 aprile di quell’anno. Una prova certa della presenza di Santapaola nella città del Longano è emersa dalle intercettazioni telefoniche e ambientali avviate subito dopo l’uccisione del giornalista Beppe Alfano. E come poi accertato dal Servizio anticriminalità organizzata della Guardia di Finanza, tra il 30 aprile e il 2 maggio 1993, in un hotel della città di Milazzo avevano preso alloggio il fratello di don Nitto, Giuseppe Santapaola, sua moglie, i quattro figli e il pregiudicato catanese Salvatore Di Mauro. Quell'albergo di Milazzo Responsabile dell’ufficio contabile di quell’albergo era il barcellonese Stefano Piccolo, commercialista di fiducia di Rosario Cattafi. E la moglie, Ferdinanda Corica, ha ricoperto sino a tempo fa l’incarico di rappresentante legale e socia della Dibeca Sas, la società tuttofare della famiglia Cattafi oggi tra i beni posti sotto sequestro dalla DDA peloritana. Strane coincidenze. Davvero. Rosario Cattafi ha pure spiegato di avere avuto un altro contatto con Francesco

Di Maggio nel carcere di Opera tra il 1994 e il 1995, dopo il suo arresto nell’ambito dell’inchiesta sui traffici di armi e droga nell’Autoparco di Milano. “Nella stanza del direttore” “Mentre ero detenuto a Milano fui convocato nella stanza del direttore, dottore Fabozzi”, riferisce Cattafi. “Una volta che venni portato lì trovai il dottor Di Maggio. Costui mi comunicò che presso il carcere di Opera era o forse sarebbe arrivato il palermitano Ugo Martello, che io non conoscevo. Di Maggio mi disse che si trattava di un personaggio importante appartenente alla mafia palermitana e che proveniva dal 41bis e che era stato collocato nel mio stesso carcere e nella mia stessa sezione. Di Maggio mi chiese di recare un preciso messaggio al Martello che doveva essere poi recapitato agli altri mafiosi palermitani. Il Martello, in sostanza, doveva riferire che si doveva portare avanti il discorso della dissociazione e che in cambio costoro avrebbero ricevuto dei vantaggi da parte delle Istituzioni. Di Maggio mi specificò che in questo modo, ci sarebbe stato un atteggiamento di emulazione da parte dei mafiosi cosicché dopo le prime dissociazioni ben presto ne sarebbero arrivate tante altre. Di Maggio mi fece l’esempio del bastone e della carota e mi disse che la carota sarebbe conseguita a questa eventuale dissociazione. Mi ribadì che io potevo promettere qualsiasi cosa…”. Il messaggio a Cuscunà La lusinghiera proposta avrebbe però scatenato le proteste del pregiudicato. “Gli risposi male, rinfacciandogli che mi ero prestato a recare il messaggio a Cuscunà come mi era stato richiesto e tuttavia mi trovavo in carcere ingiustamente… Di Maggio mi rispose: per quella vicenda abbiamo risolto, abbiamo fatto tutto, tutto a posto, senza specificarmi altro”. Cattafi avrebbe incontrato Cuscunà nel centro clinico del carcere milanese di san Vittore. “Presso quello stesso centro, in un’altra stanza posta sulla mia sinistra c’era il Cuscunà. Costui mi trattò malissimo dal momento che lo avevo accusato nell’ambito del procedimento Autoparco. Io cercai di calmarlo: ti dico una cosa che forse può aiutarti a farti uscire e gli riferii quello che mi aveva detto il Di Maggio: che se fossi riuscito a trovare un contatto con il Santa-

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paola c’era la disponibilità del giudice a fargli ottenere gli arresti domiciliari”. L’allora direttore Aldo Fabozzi, odierno provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, ha seccamente respinto sul settimanale Panorama le dichiarazioni del barcellonese: “All’epoca non c’era il regime del 41bis ad Opera e nella mia lunga esperienza professionale, mai ho permesso che un detenuto oltrepassasse la porta carraia”. Fabozzi ha tuttavia ammesso di aver conosciuto molto bene il giudice Di Maggio. “Posso garantire che era un magistrato serio, fra i migliori, con valori istituzionali ferrei e inossidabili, mai avrebbe trattato con la mafia, mai sceso a compressi o a semplici contatti con malavitosi. Queste dichiarazioni sono un affronto alla memoria di un magistrato per bene e alla sua intelligenza”. Diversamente la pensava Loris D’Ambrosio, il consigliere del Quirinale scomparso prematuramente qualche tempo fa. “La linea di Di Maggio era quella di consentire un agevole accesso nelle carceri ai suoi amici che in qualche modo collaboravano, come confidenti…”, si lasciò sfuggire in un colloquio telefonico del 25 novembre 2011 con l’ex ministro degli interni Nicola Mancino, che lamentava le modalità d’indagine sulla “trattativa” dei magistrati di Palermo. Nel carcere di Sollicciano Come se non bastasse, il 28 settembre 2012 Rosario Cattafi ha raccontato ai Pm di Messina di aver avuto rapporti telefonici con il giudice Di Maggio anche quando era detenuto in isolamento nel carcere di Sollicciano. “Venivo portato nella stanza del direttore Quattrone, costui chiamava al telefono il Ministero e mi passava il dottore Di Maggio. Il suo ufficio era al primo piano, di fronte all’ingresso avvocati. Di Maggio anche in questo caso mi esortò ad avere contatti con Cuscunà”. Per la cronaca, il direttore Paolo Maria Quattrone è morto suicida nel luglio del 2010 dopo essere stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, nell’ambito di un’inchiesta sui lavori di ammodernamento del carcere di Cosenza. A difenderne la memoria sono scesi in campo i familiari che in una lettera aperta hanno definito come ridicole, oltraggiose e vergognose le parole di Cattafi.


“Gli inquirenti hanno accertato che fra il 1990 e il 1993 Marcello Dell’Utri realizzò 58 viaggi aerei tra Roma e la Sicilia. Di essi, ben 34 ebbero come destinazione la città di Catania, per lo più concentrati nell'arco del 1992” “Il dottor Quattrone è sempre stato un leale e integerrimo uomo di Stato, di Giustizia e di Cultura”, hanno spiegato. “Dalla ‘ndrangheta ha ricevuto numerose intimidazioni e attentati. Il più grave, una bomba esplosa nella sua camera da letto, quando dirigeva il carcere di Reggio Calabria. L’allora capo del Dap, Nicolò Amato, per salvargli la vita lo trasferì a Sollicciano”. Chi non ha voluto il 41 bis nel '93? Nicolò Amato ha ricoperto l’incarico al Dap fino al 4 giugno 1993 quando fu sostituito da Adalberto Capriotti. Originario di Messina, animatore negli anni ’50 dell’associazione “universitaria” Corda Fratres insieme a Franco Antonio Cassata (odierno Procuratore generale della città dello stretto) e Francesco Paolo Fulci (poi ambasciatore a Washington e alla Nato e, negli anni delle stragi mafiose, direttore del Cesis, il comitato esecutivo dei servizi segreti), Amato ha poi intrapreso l’attività di avvocato. Tra i suoi assistiti, secondo Massimo Ciancimino, il padre don Vito “su consiglio del generale Mario Mori”. Adesso Nicolò Amato sostiene che fu proprio Francesco Di Maggio a non aver voluto il rinnovo del 41bis contro i mafiosi nel novembre del ’93. “Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui

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redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi”, rilevano l’avvocato Fabio Repici e Marco Bertelli in una documentata inchiesta giornalistica. “Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica (…) Nei verbali di quel comitato, risulta che fu lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41bis”. E i giochi in quei tragici giorni delle stragi si fanno ancora più torbidi. I giorni delle stragi Nelle carte della Procura palermitana sulla trattativa Stato-mafia si ripete, troppo spesso, il nome del senatore Marcello Dell’Utri, una condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa annullata con rinvio dalla Cassazione. Dell’Utri, per gli inquirenti, potrebbe essere stato uno dei maggiori “intermediari” con Cosa nostra che cercava d’imporre gli obiettivi del papello minacciando altro sangue dopo Capaci e via d’Amelio. Nel biennio 92-93, secondo alcuni collaboratori di giustizia, il manager di Publitalia sarebbe stato un visitatore abitudi-

nario del messinese. Maurizio Avola ha riferito di avere accompagnato nel 1992 a Barcellona Pozzo di Gotto il boss Marcello D’Agata per un appuntamento con Dell’Utri. Nel corso di un interrogatorio davanti ai Pm di Catania e Caltanissetta, Avola ha pure accennato ad un incontro avvenuto sempre a Barcellona - tra Marcello Dell’Utri e i boss catanesi Aldo Ercolano, Nino Pulvirenti e Benedetto Santapaola. I viaggi di Dell'Utri Gli inquirenti hanno accertato che nel periodo compreso tra il 1990 e il 1993, Marcello Dell’Utri ha realizzato ben 58 viaggi aerei tra Roma e la Sicilia, di cui ben 34 da e per Catania nel solo 1992. Nella loro requisitoria al processo contro il braccio destro di Silvio Berlusconi, i pubblici ministeri di Palermo riportano che, quando Santapaola era ospite dei clan barcellonesi, Rosario Cattafi si teneva in contatto con l’utenza in uso a Giuseppe Gullotti. “E non deve sfuggire che lo stesso Cattafi è stato identificato come soggetto più volte chiamato da persone appartenenti al circuito del Dell’Utri, cioè da persone entrate con lui in contatto telefonico od esistenti nelle sue agende”, specificano i pm. Sempre e ancora Cattafi. E l’inferno di Barcellona Pozzo di Gotto.

Fabio Repici La peggio gioventù Mafia, estremisti neri, servizi segreti

Rapporto su Rosario Cattafi scaricabile liberamente su http://www.isiciliani.it/

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Calabria/ Informazione

“Viva Sansonetti con tutti i filistei” Dopo l'epurazione di Paride Leporace e di Paolo Pollichieni, Piero Sansonetti smorza la dissidenza e la critica che ha coinvolto CalabriaOra e gli editori Fausto Aquino e Piero Citrigno di Rocco Lentini

Angela Napoli, ex finiana, componente della commissione antimafia, in un'intervista pubblicata da Il Fatto Quotidiano il 1 luglio 2010, definì “allarmante problema etico la partecipazione ad una festa con i boss”, riferendosi alla presenza del governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti alla festa dei Barbieri, come emerso nel corso dell'operazione Meta. Angela Napoli parlò apertamente della “democrazia calabrese come di una palude melmosa, in cui la connessione fra ‘ndrangheta e politica continua ad essere forte e radicata, in un intreccio di poteri mafiosi e massoni”. A Scopelliti si addebitano la candidatura e l’elezione di Massimo Labate, ex capogruppo An, arrestato per collusioni mafiose, come il consigliere regionale Santo Zappalà, ex sindaco di Bagnara, arrestato e ancora detenuto con l’accusa di essere il referente delle cosche di San Luca. Ma il “modello Reggio” non finisce qui . I locali utilizzati per la sua campagna elettorale del 2007 furono messi a disposizione dal “re dei videopoker” Nino Campolo.

Da qua il sospetto del sostegno alle campagne elettorali da parte della 'ndrangheta, aspetto che emerge dalle dichiarazioni del pentito Nino Fiume nell’ambito del processo “Testamento”. A questo si aggiunga il contributo concesso a Paolo e Francesca Labate, figli del boss Michele, beneficiari di un finanziamento comunale di novantamila euro per l'apertura di un salumificio e il tenore delle intercettazioni dei consiglieri comunali Marcianò e Flesca, contenute nell'Operazione “Meta”, dalle quali si delinea, sull'asse di commistioni politica-mafia-imprenditoria, il quadro dei suoi consensi elettorali. Un ginepraio che ha portato allo scioglimento del comune di Reggio Calabria e che fornisce elementi quotidiani a CalabriaOra, che Paolo Pollichieni ha diretto da quando è stato epurato il direttorefondatore Paride Leporace – attualmente alla guida del Quotidiano della Basilicata – insieme ad un gruppo di bravi giornalisti calabresi. Gli albori di Calabria Ora Leporace, già caporedattore centrale del Quotidiano della Calabria – giornale dove ha lavorato fin dalla fondazione nel giugno del 1995 contribuendo con Ennio Simeone a farne uno dei giornali più letti della regione – ha ricoperto il ruolo di direttore responsabile di CalabriaOra e ha fatto aumentare la lettura dei quotidiani in una regione con indici molto bassi di diffusione, portando le vendite a settemila copie al giorno. Nella sua breve direzione, durata tredici mesi, il giornale si è caratterizzato per alcuni scoop ripresi dai maggiori mass media italiani e in un anno e mezzo è riuscito a dargli un’anima e un ruolo nel dibattito politico e culturale. Poi è stato costretto a lasciare le inchieste sulle collusioni tra politica e criminalità organizzata e sull’omicidio di Francesco Fortugno, vice presidente della Regione Calabria assassinato il giorno delle primarie nel seggio elettorale: un caso da nascondere a tutti i costi. Una storia che

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nessuno ha raccontato fino in fondo. Si è preferito – come scrive Piero Orsatti – dimenticarla nel cassetto della memoria. È la storia della nascita e dei primi anni di vita di Calabria Ora, tuttora in edicola ma con un corpus redazionale mutato. Il clima attorno alla direzione di Leporace, nonostante i grandi successi, mutò infatti in brevissimo tempo. Gli editori tentarono di addomesticare un'inchiesta nella quale risultò coinvolto un politico di Forza Italia. La vicenda si dipanava in un ristorante dove si incontrava la politica calabrese e uno degli editori chiese a Leporace di non mettere il nome del politico in prima pagina. Poi la condanna per usura di Piero Citrigno, uno degli editori, e la pubblicazione della notizia. È il tempo di “Why not”, delle inchieste di Luigi De Magistris, del disvelamento dell’intreccio fra affari e politica in Calabria; Leporace e i giornalisti di CalabriaOra puntano a smascherare le terribili commistioni emerse, non ancora del tutto, sull'omicidio Fortugno, sulle connivenze, sui gruppi di potere, sulle dichiarazioni profetiche di Francesco Cossiga che prevedeva nel mese di giugno "omicidi eccellenti in Calabria". Ma gli editori Fausto Aquino, amministratore delegato, vicepresidente nazionale della Piccola industria e Piero Citrigno, direttore generale della società editoriale Cec Sc. indirizzano, decidono, censurano. “Quando ci cacciarono” La Calabria è una regione complicata, difficile, qui le regole non esistono per una classe dirigente insensibile, inadeguata, sulla quale la classe politica ed il consiglio regionale più inquisito d'Italia stendono la patina di legittimità conferita loro dal consenso popolare. Per Leporace l'esilio resta l'unica alternativa possibile. Alcuni dei giornalisti vengono costretti alle dimissioni o allontanati, anche quelli che hanno contribuito alla fondazione, come il sottoscritto, lavorando senza retribuzione per tredici mesi (si offre un contratto a riga: quattro centesimi, prendere o lasciare).


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Scheda CITRIGNO E AQUINO: LE MANI SU L'ORA L'Ora, dichiaratamente di sinistra, ha rappresentato, attraverso le coraggiose inchieste contro i poteri occulti, l’indagine, i servizi, l’informazione di frontiera facendo del giornalismo uno strumento di lotta politica. La testata palermitana ha però pagato a caro prezzo l'attività di denuncia di piccoli e grandi scandali, corruzione, collusioni politiche: in termini di sacrifici umani, infatti, è il quotidiano che nella storia della stampa italiana ha il più alto numero di giornalisti uccisi dalla mafia: Mauro De Mauro, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato. Il quotidiano non fu però solo questo. La redazione palermitana è stata centro di cultura e di aggregazione per un numero impressionante di intellettuali italiani: Vicenzo Consolo, Danilo Dolci, Gioacchino Lanza Tomasi, Vittorio Nisticò, Salvatore Quasimodo e Giuliana Saladino. Accanto a queste “penne” vi erano anche i “pennelli” di Renato Guttuso e le “matite” di Bruno Caruso. Alla fine degli anni Ottanta il Pci decise di cedere la gestione editoriale del quotidiano alla società Nuova Editrice Meridionale, ma i contrasti tra i rappresentanti della cooperativa e i fiduciari del partito sugli indirizzi editoriali, portarono alla decisione del Pci di sostituire in blocco il gruppo dirigente del giornale. Segnò il destino del quotidiano. La tiratura calò a picco passando da 25 mila copie a poco più di mille, fino a cessare le pubblicazioni nel 1992. Nel 2000 la proprietà giunse nelle mani dell'imprenditore Vinicio Boschetti, poi arrestato per bancarotta fraudolenta, che riportò la storica testata in edicola per un breve periodo prima del passaggio agli imprenditori calabresi Piero Citrigno e Fausto Aquino.

Si aprono delle vertenze legali, qualcuno intenta causa presso il Tribunale di Palmi ma, dopo anni d'attesa, deve prendere atto che la Cec Sc cambia, si svuota, e aumentano le scatole cinesi. La Cec Sc Acquisisce due marchi importanti, storici, quello del giornale siciliano L’Ora e quello del romano Paese Sera e oggi la società che edita CalabriaOra, affidata all'amministratore unico Nunzio Aquino – solo omonimo di uno dei compratori – si chiama proprio Paese Sera. La società "Paese Sera srl".

Chi sono gli editori Ma chi sono gli editori di CalabriaOra? Piero Citrigno. Il 15 dicembre del 2006, davanti alla seconda sezione penale del Tribunale di Cosenza si conclude, con diciotto condanne, il processo per la maxioperazione dell’inchiesta anti-usura “Twister”, condotta dai Carabinieri e dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nel 2004 contro un’organizzazione che gestiva un vasto giro di usura a Cosenza, un’associazione a delinquere capace di tenere mezza città in pugno con prestiti usurari che hanno creato una vera e propria economia parallela; sequestrano 30 milioni di euro in beni e società, ma soprattutto arrestano 39 persone per associazione per delinquere di stampo mafioso, usura, estorsione e riciclaggio. Tra questi Piero Citrigno, al quale fu inflitta una pena di 3 anni e 8 mesi di reclusione. Leporace e gli altri pubblicano. È la goccia che fa traboccare il vaso. Qualche mese dopo, il 10 aprile 2007, avviene il cambio della guardia alla direzione del quotidiano calabrese. L'incarico di direttore passa a Paolo Pollichieni. La difesa dell’imprenditore e anche la Procura hanno proposto appello, chiedendo rispettivamente l'assoluzione dell’imputato e l’aggravamento della condanna; il 9 febbraio 2010, la pena inflitta in primo grado è aggravata. Il collegio di secondo grado ha ritenuto l’editore di “Calabria Ora” Pietro Citrigno colpevole del reato di usura e ha rideterminato la pena in 4 anni e 8 mesi di reclusione, 10 mila euro di multa ed il risarcimento alle parti civili da liquidarsi in separata sede. L'impianto accusatorio resiste anche alla Cassazione, che il 17 giugno conferma le condanne, anche se la posizione di Citrigno viene stralciata per richiesta degli avvocati. La vicenda “Sanitopoli” Paolo Pollichieni, massone, nel luglio 1999 fu vittima di un attentato dinamitardo che gli distrusse l'auto. In quell'anno però ci fu un altro episodio analogo: a febbraio fu bruciata la vettura di Giuseppe Costantino, allora direttore generale

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dell'Asl numero 11. Nella stessa estate, gli investigatori intercettarono una telefonata tra il giornalista e Marco Minniti, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo D'Alema, nonché compagno di scuola dello stesso Pollichieni. Minniti, parlando al telefonino di Pollichieni, rassicurava il direttore della Gazzetta del Sud Nino Calarco, all'epoca presidente della "Ponte sullo Stretto", che avrebbe fatto di tutto per inserire in finanziaria 5-6 miliardi per pagare gli advisor della società rimasti senza una lira. «La chiamo oggi perché sono qui a Scilla con Marco e la voleva salutare» dice il giornalista al proprio direttore, Nino Calarco, nel corso di una telefonata intercettata dagli investigatori il 30 luglio 1999. Il cellulare passa al politico diessino: «Senti una cosa... l'unica potenza che tu non riesci a esplicare... con questi maledetti burocrati del ministero dei Lavori Pubblici... ancora questo decreto del bando non c'è!». Si tratta di un bando per il finanziamento della Società Stretto di Messina: Calarco, il presidente, vorrebbe che fosse acquisita dall'Anas. Un tema già trattato direttamente dal direttore della Gazzetta col premier Giuliano Amato. Minniti: «Con Giuliano Amato come è andata?». Calarco: «Oh! Favoloso, favoloso... Però il problema caro Marco è che bisogna trovare nella Finanziaria un po' di spiccioli perché io debbo chiudere la società perché non ho più una lira! ... Non è che è una grossa cifra... 4... 5 miliardi...». Anche il generale dei carabinieri Francesco Delfino (condannato in primo grado per truffa ai danni dell'imprenditore sequestrato Giuseppe Soffiantini) in una telefonata intercettata il 9 settembre '99 si rivolgeva a Pollichieni per sollecitare un intervento di Minniti in relazione alla sua vicenda processuale. Si aprono le indagini che conducono all'arresto, l'anno dopo, di undici personalità tra cui anche Paolo Pollichieni, allora responsabile della redazione reggina della Gazzetta del Sud, il più filogovernativo quotidiano meridionale.


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Scheda “IL GATTO E LA VOLPE” PERDONO PAESE SERA Il "gatto e la volpe" perdono Paese Sera. Si gioca sull'asse Roma-Cosenza il futuro dello storico quotidiano. A disputarselo Citrigno e Aquino da una parte e la Nuovo Paese Sera srl, una società editoriale che fa capo al commercialista romano Massimo Vincenti. La battaglia legale allontana, per il momento, i discussi imprenditori calabresi da Paese Sera. Non basta pubblicare qualche numero unico di una testata per mantenerne la proprietà. Lo stabilisce una "calda" sentenza dell'estate scorsa del Tribunale Civile di Roma, IX sezione, che ha rigettato il ricorso di Pietro Citrigno e Fausto Aquino editori di CalabriaOra, per rivendicare la proprietà di Paese Sera. Il "gatto e la volpe" già editori de La Provincia Cosentina, avevano rilevato nel 2008 il marchio attraverso la Pieffe Holding. Dal '99 la testata usciva con un numero unico all'anno; da qui l'estinzione di ogni diritto da parte dei vecchi proprietari che hanno venduto ai due la testata, visto che, come osserva il giudice Massimo Falabella con rinvio alla legge sulla tutela della proprietà intellettuale, "la pubblicazione con cadenza annuale di un quotidiano è senz'altro assimilabile a una non pubblicazione". La sentenza spiana adesso la strada alla cordata di imprenditori romani raccolti intorno ad Alessio D'Amato, ex consigliere regionale del Pd, che nell' estate del 2007 si era fatto tra i promotori del rilancio di Paese Sera, registrandone il marchio e il dominio internet. Nel novembre dello stesso anno è così nata la Nuovo Paese Sera srl, una società editoriale che dopo diversi passaggi azionari fa oggi capo al commercialista Massimo Vincenti (46%), presidente del collegio sindacale dell'Agenzia Sviluppo Lazio, all'imprenditore Roberto Capecchi (25%), e per le restanti quote a Giuseppe Diana, Alessandro Radicchi, Angelo Muzio (già socio degli Editori Riuniti) e alla Umbra tel coop.

Per il giornalista furono disposti i domiciliari, anziché i due anni di reclusione. Secondo gli inquirenti, con i suoi articoli aveva contribuito a delegittimare il direttore dell'Asl oltre ad “avere, in concorso con altri esponenti del mondo politico ed imprenditoriale, costituito un gruppo di potere politico-affaristico-imprenditoriale che,

avvalendosi delle specifiche competenze e dei relativi ambiti di intervento di ciascuno, previa ripartizione dei ruoli, nel campo della politica, della informazione, della amministrazione pubblica e privata, era in grado di condizionare l’indirizzo gestionale dell’Azienda Ospedaliera di Reggio Calabria, facendo ricorso all’intimidazione ed al ricatto per conseguire il controllo degli appalti e servizi relativi alla detta Azienda e per pilotare nomine ed incarichi di dirigenti sanitari ed amministrativi". La delegittimazione pubblica permise la rimozione dall'incarico di Costantino ad appannaggio di Neri prima e Cosentino poi, entrambi intenzionati ad appoggiare la Edil Minniti nelle gare di appalto. Pollichieni sarà poi assolto in Appello. Sulla vicenda – anche perché alcuni degli inquisiti appartenevano ai Ds – si avventarono nel 2003, con una interrogazione parlamentare, i deputati di Alleanza Nazionale Meduri, Bevilacqua ed altri. Nel 2008, il direttore del quotidiano CalabriaOra è coinvolto nell’inchiesta sulla malasanità che ha portato all’arresto del consigliere regionale Domenico Crea, il politico subentrato a Franco Fortugno dopo la sua uccisione, e nelle indagini sulla talpa e la fuga di notizie relativa alla vicenda "toghe reggine". Si tratta di una storia all'interno della quale ritroviamo anche la figura del corvo (si firma così l'autore di una serie di missive che gettano fango su alcuni magistrati quali Luigi De Magistris, Nicola Gratteri, titolare delle indagini sulla strage di Duisburg, e Franco Scuderi) e la questione delle coperture politiche. Come all'epoca di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ritroviamo anche denunce di anomalie nella gestione del caso De Gregorio (il senatore avrebbe agevolato affari immobiliari in favore di cosche reggine) e un’inchiesta "segretissima" finita sulle pagine di CalabriaOra insieme all’indagine sul presunto voto di scambio del senatore Marcello dell’Utri. Sotto la direzione Pollichieni CalabriaOra guadagna la fiducia del diessino pluri-inquisito vice presidente della Giunta regionale della Calabria ed assessore regionale al Turismo Nicola Adamo; attacca il movimento antimafia Ammazzatecitutti e il suo leader Aldo Pecora.

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Luigi De Magistris, in uno degli interrogatori rilasciati ai suoi colleghi di Salerno, rileva che nel corso delle sue inchieste Poseidone e Why not, “Pollichieni ha messo in atto una vera e propria strategia di stampa per cercare di screditare le indagini, con delle ricostruzioni assolutamente inverosimili e capziose, per cercare di rafforzare l'ipotesi dell'incompatibilità ambientale e quindi rafforzare le ragioni poste a fondamento della richiesta di trasferimento cautelare. Ritengo che Pollichieni abbia rapporti stretti, per esempio, con Pittelli, con Nicola Adamo, ma ciò che è più preoccupante sono i rapporti stretti che stavano emergendo tra Pollichieni ed anche alcuni magistrati. E su questo credo sia opportuno anche andare a verificare: è un'indagine che io avrei fatto perché stavo lavorando su Pollichieni, sulla proprietà di Calabria Ora, cioè verificare che non vi fossero magari degli interessi collegati proprio a questo aspetto”. Paolo Pollichieni era il vice presidente della società che, con Nicola Adamo, ha gestito diversi miliardi nella campagna promozionale della regione affidata a Oliviero Toscani. “E Peppe incontrò il mafioso” Su che cosa si è dunque rotto l'equilibrio tra gli editori e il direttore di CalabriaOra Paolo Pollichieni? Presto detto. Peppe, il governatore. Gli interessi economici, e non solo, dei due imprenditori si incontrano con una realtà politica regionale che esige rispetto, si fa sentire, e quando Pollichieni, che ha il dente avvelenato contro Peppe e il centrodestra per le prese di posizione sui suoi "infortuni" giudiziari, entra in possesso delle carte del processo "Meta" nel quale è coinvolto il governatore Scopelliti, pubblica tutto in prima a piena pagina con risalto di colore. Scopelliti frequenta uomini della 'ndrangheta, ma Citrigno e Aquino non vogliono che si dica, l'alzata di scudi del centrodestra è prevedibile, la reazione degli editori anche.


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Pollichieni pensa di poterla contenere ma lo mettono alle strette. Decide di pubblicare tutto. La sua prima pagina costruita con le indiscrezioni legate all’inchiesta della Dda di Reggio e Milano sulla 'ndrangheta esce con titolo e sottotitolo in rosso: E Peppe incontrò il mafioso. A Milano Scopelliti vide più volte Martino, ambasciatore del clan De Stefano. Gli editori sono infuriati, intervengono con tagli sulla distribuzione del giornale che in molte zone della regione non giunge in edicola, in altre con molto ritardo. La scelta di pubblicare quelle notizie costa la sedia a Paolo Pollichieni. Con lui si sono dimessi alcuni bravi giornalisti: Pietro Comito e Agostino Pantano, il caporedattore centrale Barbara Talarico, i vicecaporedattori Francesco Graziadio e Stefano Vetere, il caposervizio di Cosenza Pablo Petrasso, quello della cultura Eugenio Furia e il responsabile delle cronache politiche Antonio Ricchio. Di Peppe e di questo governo regionale gli editori hanno bisogno per portare avanti i loro interessi economici. "Sapevamo che nessun politico importante di questa regione poteva rimanere indifferente agli articoli che parlavano delle sue equivoche frequentazioni, dei ricevimenti organizzati da imprenditori oggi arrestati per mafia, di quei banchetti dove con i mafiosi brindavano politici eccellenti – scrive Pollichieni nell'editoriale di commiato –; sapevo, e con me i colleghi che hanno firmato gli articoli, che raccontando le inchieste giudiziarie delle ultime settimane, scrivendo dei rapporti tra la mafia e la politica, non limitandoci al doveroso applauso verso le forze dell’ordine e i magistrati, ma raccontando anche i retroscena più inquietanti di quella zona grigia che è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta, avremmo pagato dei prezzi altissimi". Quell’editoriale però non giunge in edicola. Il giornale è arrivato solo in quelle di Cosenza, a Reggio Calabria poche copie dopo le undici, niente nelle altre province calabresi. Guasti alle rotative a detta degli editori. Poi è uno degli editori, Fausto Aquino, a prendere le redini e dirigere, "temporaneamente" - disse - CalabriaOra. Non è usuale nel panorama della stampa italiana che l'editore assuma la direzione

Sansonetti e il “Boia chi molla”

del giornale, ma qui si può. Il quotidiano nei giorni successivi dà ampio spazio all'attività politica della giunta regionale e ai fondi europei portati in Calabria da Scopelliti mentre non vi è traccia dell’inchiesta sulle frequentazioni del governatore con elementi del clan De Stefano. Alla redazione, il direttore responsabile dice di non essere più in grado di garantire l’autonomia dei giornalisti nel pieno rispetto della libertà di stampa. L’Assemblea dei giornalisti del quotidiano, rispondendo all’appello del segretario del Sindacato dei Giornalisti della Calabria Carlo Parisi, componente della giunta esecutiva Fnsi, si compatta: elegge il comitato di redazione e rivendica con forza la massima chiarezza sul “caso Pollichieni”, le più ampie garanzie a tutela dei posti di lavoro e il pieno rispetto dell’autonomia e dei principi etici e deontologici della professione giornalistica. L’Assemblea dei giornalisti ha, quindi, votato all’unanimità la decisione di proclamare da subito lo stato di agitazione in attesa dei chiarimenti da parte degli editori e della presentazione del piano editoriale da parte del nuovo direttore responsabile e, in attesa dei chiarimenti richiesti da parte degli editori, pur ribadendo il massimo impegno nella fattura del giornale, ha infine deciso di ritirare le firme dagli articoli invitando i corrispondenti ed i collaboratori esterni ad imitarlo. Il comportamento degli editori di CalabriaOra “provoca sconcerto e preoccupazione" ha commentato l'onorevole Maria Grazia Laganà, deputata del Pd e vedova di Francesco Fortugno, ora condannata per gli appalti truccati dell’Asl di Locri. «Nessuno deve sapere: il classico linguaggio mafioso per fare tacere chi fa il proprio dovere». Di “attentato alla libertà di stampa" e di "plateale ingerenza del centrodestra calabrese nella vita di CalabriaOra” parla l'onorevole Michelangelo Tripodi, segretario regionale del Pdci.

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Ci vuole una scelta autorevole per smorzare la critica che ha coinvolto i due editori Fausto Aquino e Piero Citrigno, CalabriaOra, il sindacato dei giornalisti, i citrigniani della redazione. Un nome grosso, ma chi? Piero Sansonetti, giornalista “rivoluzionario”, pupillo di Fausto Bertinotti. Arriva con la promessa del ritorno in edicola di Paese Sera lo storico quotidiano protagonista di mille battaglie. Un sacrificio si può fare: confino in Calabria e un quotidiano, storico, tutto per lui a Roma. Le cose, però, non sono mai come appaiono e Sansonetti, guida del proletariato antagonista e nemico del padronato, chiude entrambi gli occhi sui guai giudiziari di Citrigno e Aquino e sui licenziamenti dei giornalisti “ribelli”. Diventa poi fustigatore dei giornalisti, di Susanna Camusso, passando per Ciccio Franco e il “Boia chi molla”. Dopo aver licenziato il cronista Lucio Musolino, minacciato dalla 'ndrangheta – e poche ore querelato dal presidente della Regione Peppe Scopelliti - dopo aver annunciato e poi rinunciato un incontro su fascismo e antifascismo con Roberto Fiore presso Forza Nuova di Milano, ha riesumato persino il "Boia chi molla" della rivolta di Reggio di quarant’anni fa. “Boia chi molla” è la parola d’ordine. Era lo slogan della “rivolta di Reggio”, una delle pagine più buie della storia italiana, un misto di massoneria, eversione, interessi politici e mafia, che Sansonetti riabilita. Altro che slogan fascista, scrive in un editoriale, “Boia chi molla lo inventarono gli insorti della Repubblica napoletana e fu ripreso da Carlo Rosselli”. Il 13 novembre, a Lamezia Terme, CalabriaOra-Sansonetti e l’editore Piero Citrigno hanno discusso su “Il vento del sud” perché "il nord sfrutta il sud, vuole il suo lavoro, la sua fatica, la sua ricchezza, le sue tasse. Vuole dominarlo, vuole comandare. Per questo la Calabria deve ribellarsi, insorgere, aprire una grande vertenza, riprendersi i suoi diritti e la sua dignità. Boia chi molla!".


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Una sorta di leghismo dalle tinte nere non senza riferimenti revisionisti, come quello di considerare sbagliata ed «insensata» la scelta dei sindacati di manifestare nel 1972 a Reggio Calabria contro la rivolta di Ciccio Franco e camerati - a pochi giorni da Forza del Sud, il topolino partorito da Gianfranco Miccichè in Sicilia. La manifestazione unitaria dei sindacati del 1972, centinaia di migliaia di lavoratori e studenti da tutta Italia, “fu sbagliata, sbagliatissima” - scrive Sansonetti - perché animata da una “logica da occupazione militare”, e poi quello slogan “Nord e Sud uniti nella lotta era insensato”. Il giudizio di Sansonetti sui “Boia chi molla” ha rivoltato le budella a molti tra i quali un personaggio mitico della sinistra calabrese, Peppino Lavorato, amico fraterno di Peppe Valarioti, il segretario del Pci di Rosarno ucciso dalla mafia nel giugno del 1980, sindaco, consigliere provinciale e parlamentare comunista: “Sansonetti ha aperto una riflessione sui moti di Reggio che io contesto. Altro che storie, ci sono atti e sentenze che dimostrano come quella rivolta fu un fatto eversivo, si stava preparando il terreno di massa al consenso per una svolta fascista. Non dimentichiamo che poi venne il tentativo di golpe del principe Borghese. Allora Pci e sindacati difesero la democrazia. L’ho scritto in un articolo inviato a Calabria Ora che però non è stato mai pubblicato”. Contro questa operazione politicoeditoriale è partita una petizione da parte di alcuni sindacalisti della Cgil. «Tutti sanno che si tratta di un motto fascista – denunciò Bruno Talarico, segretario della Cgil di Catanzaro – adoperato quarant’anni fa a Reggio. Il motto, usato da

Sansonetti, riabilita anche Peppe Scopelliti, l’ultimo segretario del Fronte della Gioventù, che dà il patrocinio della regione all'iniziativa e Calabria Ora, in caduta libera con le vendite, cerca di ritagliarsi uno spazio di mercato cavalcando un fronte autonomista meridionale che guarda con nostalgia ai moti reggini. Alla riunione nostalgica dei "Boia chi molla" c’è Peppe Bova, consigliere regionale espulso dal Pd, - 211mila euro di benzina spesi in un anno e prontamente rimborsatigli dalla Regione - l'imprenditore Antonino Gatto, presidente di Despar Italia, la cui ascesa economica è stata ricostruita nella relazione dell’Antimafia sulla ‘ndrangheta, Enza Bruno Bossio, l’imprenditrice del Pd - moglie del consigliere regionale Nicola Adamo, altro espulso dal Pd oggi inquisito per l’affaire dell’energia eolica, rinviata a giudizio dalla procura di Lecce per i finanziamenti equivoci della 488, Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e Nicola La Torre. Le conclusioni a chi sono state affidate? A Peppe Scopelliti. E’ questo il “nuovo vento del Sud” ? La notte su “Paese Sera” Scende la notte su "Paese Sera". Dopo gli anni ruggenti con il Pci, le storiche firme e il sofferto fallimento che portò alla chiusura del 1994, il quotidiano "rosso anche nella testata" finisce nelle mani di due signori particolari: Pietro Citrigno e Fausto Aquino, sua storica "spalla". Questo sembrava il destino di Paese Sera con in sella l'ex rivoluzionario Piero Sansonetti e l’obiettivo di 120mila copie di tiratura iniziale e 80mila a regime.

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"Faremo battaglie civili e politiche - affermò Citrigno - e combatteremo là dove ci sarà da combattere". Per ora le uniche battaglie che combattono i due soci, noti in Calabria come "il gatto e la volpe", sono quelle giudiziarie. Citrigno condannato a quattro anni e otto mesi per usura nel processo "Twister" in cui 39 persone, vicini alle famiglie Presta e Chirillo che controllano la città di Cosenza e il territorio di Tarsia, furono accusate di associazione per delinquere di stampo mafioso, usura, estorsione e riciclaggio. Tra gli arrestati anche l'editore di CalabriaOra-Paese Sera, Pietro Citrigno. Il suo nome salta fuori anche nel corso di un’altra inchiesta, quella sulla casa di cura «Giovanni XXIII», la cosiddetta "clinica degli scandali" di Serra D’Aiello, in provincia di Cosenza. A tirarlo in ballo, pur senza mai nominarlo, è l'ex parlamentare dell’Udeur Ennio Morrone, oggi nelle patrie galere, secondo cui un assessore della giunta di Agazio Loiero, insieme a un magistrato, brigavano per far finire la clinica nelle sue mani. Il pm dell’inchiesta, Eugenio Facciolla, decide di sentire sia Citrigno che Fausto Aquino per il quale invece è stato chiesto il rinvio a giudizio per aver affittato all’Asp di Cosenza un palazzina di cui la sua società, «L’Edera srl», non aveva la proprietà ma solo un mero diritto di superficie.


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Milano

Expo fugit... Mancano solo 850 giorni all'evento. E la Expo Spa? Segna il passo di Valerio Berra www.stampoantimafioso.it

Tic-tac-tic-tac. Il rumore dei rintocchi, il rumore silenzioso del tempo che scorre, accompagna gli uomini da secoli. «Tempus fugit», diceva Virgilio, il tempo fugge, e non può essere più ripreso. Sul sito ufficiale di Expo 2015 compare il numero dei giorni che distano dal primo maggio 2015, quindo i nastri tricolori dell'inaugurazione verranno tagliati e comincerà ufficialmente l'esposizione universale. Ad oggi mancano circa 850 giorni prima dell'inizio del grande evento, giorni che si preannunciano molto densi per i suoi organizzatori. Il tempo diventa quindi un fattore fondamentale per capire le vicende che interessano e hanno interessato Expo 2015. Nel febbraio 2012 era stato varato dai vertici della società pubblica Expo S.p.a., quella che si dovrà occupare della realizzazione e gestione dell'evento, un documento chiamato «Protocollo di legalità». Un plico di fogli all'interno dei quali si potevano leggere le linee guida che avrebbero accompagnato i cantieri. I buoni propositi c'erano tutti: controlli per evitare infiltrazioni d'appalto, white list per garantire che le aziende fossero pulite, e tante promesse sulla trasparenza e sulla legalità. Peccato che tutto questo non aveva fatto i conti con le lancette prima citate, con quei rintocchi che si susseguono freddi e incuranti di ogni tipo di scandalo che può accadere. Secondo le previsioni degli organizzatori la macchina Expo dovrebbe essere pronta circa due mesi prima dell'inaugurazione. Tempi ottimistici che

stanno creando problemi sia dal lato finanziario che dal punto di vista della legalità, come si è subito capito nell'ambito del primo dei tre cantieri che dovranno garantire la realizzazione della grande opera. Iniziamo dalla parte strettamente economica. Il primo appalto riguarda la «rimozione delle interferenze», si occupa cioè di sistemare la viabilità attorno al sito dell'esposizione universale e garantire il collegamento con le reti idriche ed elettriche. Questo cantiere è partito nel novembre 2011, guidato dalla CMC di Ravenna. L'azienda che si è aggiudicata la gara di appalto al massimo ribasso offrendo ben il 42, 83% di sconto sula base d'asta, 65 milioni di euro contro i 90 stimati dai periti che hanno valutato i lavori. L'azienda si è accorta però che i tempi previsti erano troppo stretti e nel novembre 2012 ha richiesto ad Expo S.p.a. altri 30 milioni per poter finire i lavori. In questo modo non solo viene a mancare tutto quello sconto che era stato promesso dall'azienda, ma si aggiungono altri 5 milioni di euro al prezzo stimato in partenza. Se però dal lato economico la perdita non è poi tanto eclatante rispetto alla quantità di soldi in gioco, il vero problema emerge subito sul versante della legalità. Per capire quanto questa mancanza di tempo possa diventare pericolosa, basta analizzare due casi, sempre inerenti a questo primo cantiere. Il primo riguarda le modalità con cui è stata concessa la gara d'appalto. Il criterio utilizzato è quello del «massimo ribasso», vince cioè l'azienda che offre lo sconto maggiore sulla base d'asta. Questo è un metodo molto pericoloso, perché più si abbassa il prezzo, più è probabile che le imprese mafiose entrino ad inquinare l'appalto. Tali aziende possono infatti contare su un enorme quantitativo di denaro sporco da riciclare oltre che su metodi di persuasione poco ortodossi, potendo così facilmente battere la concorrenza di altre imprese. La motivazione per la quale il primo cantiere è stato assegnato in questo modo è però proprio quella tempo, la tabella di marcia era già stata ritardata e

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quello del massimo ribasso è il modo più veloce per assegnare i lavori. Con questo non si vuole dire che la CMC di Ravenna sia direttamente collegata alla società criminale, ma il rischio che lo sia una delle moltissime aziende che hanno ottenuto i subappalti, oppure un'azienda esterna che si occupa di qualche fornitura, è molto alto. La Procura apre fascicoli Tanto alto che il 25 maggio 2012 i pm Paolo Filippini e Antonio D'Alessio hanno aperto presso la Procura di Milano un fascicolo per indagare sul possibile reato di turbativa d'asta su questo appalto. Il secondo problema nell'ambito della legalità risale al 6 luglio 2012, quando sulla base di un'informativa della Prefettura di Milano, Expo S.p.a decide di rimuovere dal cantiere una delle aziende che avevano in gestione un subappalto, la Elios di Piacenza. I vertici della società che si occupa di realizzare l'esposizione universale, dichiarano infatti che dalle carte della Prefettura emergono elementi tali da pregiudicare il rapporto di fiducia con questa impresa, sulla base del «Protocollo di legalità» firmato pochi mesi prima. La scelta viene immediatamente ripresa da tutte le figure politiche che ruotano attorno ad Expo 2015, riportata come una fiera testimonianza di un sistema di controlli fitto ed intransigente. Peccato però che i giorni scorrono in fretta e un cambio di impresa richiede tempo, così poche settimane dopo la revoca del subappalto, il Tar sostiene l'illegittimità dell'allontanamento e reintegra le Elios nel cantiere. Una decisione presa in fretta, per non perdere neanche un giorno nei lavori. Tic-tactic-tac. Quando il tempo scorre così veloce, non ci si può fermare a controllare che tutto sia a norma, che tutto sia trasparente. Bisogna procedere. Andare avanti scavo dopo scavo, colata dopo colata, rendendo così poco più che carta straccia tutti i protocolli firmati. Per i processi, le polemiche e la giustizia, ci sarà tempo dopo. Expo fugge, Expo non aspetta.


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Così dicevano i boss

“Quella camurrìa” di Rostagno!” Un delitto di mafia: la Corte di Trapani riassume quasi due anni di processo di Rino Giacalone Ventiquattro pagine: una ordinanza che non riapre il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, non scrive nuovi scenari, non cancella le ipotesi dell’accusa, il delitto di mafia, l’omicidio ordinato dal patriarca belicino Francesco Messina Denaro, il killer, Vito Mazzara, mandato ad uccidere dal capo mafia del mandamento di Trapani Vincenzo Virga. C’è sempre qualcuno a dire che quello di Rostagno non fu un delitto di mafia. E’ successo anche dinanzi ad un'ordinanza che invece, se letta bene, svela l’unico intento della Corte di Assise di Trapani, e cioè quello di avere un quadro ben chiaro. La Corte ha messo nero su bianco la propria convinzione che tante delle cose ascoltate durante le quarantuno udienze ed i quasi due anni di processo possono essere perfettamente vere e vanno, semmai, approfondite. L' ha fatto con le previsioni dell’art. 507 del codice che prevede, finita l'escussione dei testi, la possibilità di esaminare nuovi testi o documenti in qualche modo richiamati nella prima fase. Ci sono state le richieste delle parti, la pubblica accusa che ha puntato dritto contro il presunto killer, Vito Mazzara, sicario conclamato della mafia trapanese; ci sono state le richieste delle parti civili a proposito delle indagini giornalistiche svolte da Rostagno nel territorio e con la indicazione di alcune fonti; ci sono state le richieste delle difese degli imputati, che hanno puntato essenzialmente a introdurre altri scenari (corna tipo “Beautiful”, traffici d'armi, Gladio, l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin).

A tutte le richieste la Corte ha concesso tanto, ma il grosso dell’ordinanza è frutto delle valutazioni proprie dei giudici, togati e popolari. Le richieste della Corte guardano verso una unica direzione: le colpe della mafia nel delitto, ipotesi che resta il fulcro del processo. "Rostagno, una camurrìa", diceva passeggiando sotto gli aranci del suo giardino il boss di Castelvetrano Ciccio Messina Denaro. Non è escluso che a commettere quel delitto la sera del 26 settembre 1988 sia andato anche suo figlio, l’attuale latitante Matteo Messina Denaro, uno che con Vito Mazzara spesso andava a sparare - e per uccidere. Perché quell'ordine partito da Castelvetrano? Perché Rostagno aveva puntato l’attenzione in quel 1988 sulla mafia belicina, seguendo il processo per un delitto eclatante, quello dell’ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, ammazzato otto anni prima. Nell'esordio dell’ordinanza i giudici cominciano subito ad approfondire. Sono stati chiesti atti su perizie balistiche di armi usate da Cosa nostra, trovate all’imputato Vito Mazzara, nochè le perizie relative all'omicidio del giudice trapanese Alberto Giacomelli, ucciso per vendetta (era già in pensione) per ordine di Totò Riina. Qualche giorno prima, nelle campagne di Trapani era diventata definitiva una confisca, disposta a suo tempo da Giacomelli, contro il fratello di Totò Riina. Nel corso del processo è emerso con forza il livore dei capimafia contro Rostagno: ne hanno parlato diversi collaboratori di giustizia come Angelo Siino e Giovanni Brusca. Il segnale era arrivato anche all’editore di Rtc, la tv dove Rostagno lavorava. All’imprenditore Puccio Bulgarella (deceduto da poco)il pentito Siino ha detto di avere riferito che Rostagno stava "dando fastidio"; la moglie di Bulgarella, prof. Caterina Ingrasciotta (che verrà riascoltata dai giudici), ha detto che si coglievano fastidi “nei salotti” della città. Un giornalista di Rtc, Ninni Ravazza, a dibattimento e non prima, si è ricordato che un giorno Bulgarella irruppe in redazione, assente Rostagno, per dire, e non con buone maniere, che era ora di abbassare certi toni.

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I giudici vogliono conoscere gli affari di Bulgarella, le indagini che lo hanno riguardato, gli appalti truccati ai quali la sua impresa avrebbe partecipato, sempre raccomandato da Cosa nostra. Aveva la stanza vicinissima a quella di Mauro Rostagno: se Peppino Impastato a Cinisi conduceva le sue battaglie a cento passi dalla casa di don Tano Badalamenti, Rostagno faceva tv a cinque passi dalla stanza dove di tanto in tanto arrivava Angelo Siino, l’emissario più vicino all’allora latitante Totò Riina. A cinque passi dalla stanza di Siino La Corte di Assise ha deciso di guardare negli armadi dei segreti sui traffici di armi passati per Trapani, e in quelli delle indagini sul Gladio trapanese: verranno sentiti il senatore Massimo Brutti, che a livello nazionale per il Pci si occupò di Gladio, l’ex vice presidente dell’Ars Camillo Oddo, che da segretario del Pci a suo tempo fece un documento legando il delitto Rostagno a Gladio, ed i più alti ufficiali di Gladio, Piacentino, Fornaro e Martini - se ancora in vita - ed è stato chiesto alla Procura di depositare senza omissioni il verbale di interrogatorio del capo centro Vincenzo Li Causi, morto misteriosamente durante una missione in Somalia proprio mentre i magistrati di Trapani si apprestavano a risentirlo. La difesa ha molto insistito su questi aspetti (ma non sono state ammesse testimonianze eccezionali come quella dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro): non fu un delitto di mafia, ma un delitto ordito da altre entità perché Rostagno aveva scoperto affari segreti dei “servizi segreti”. La Corte vuole scandagliare anche questo terreno, ma anche in questo caso l’ombra della mafia c’è: è stato il pentito Sinacori a fornire un dato storico, che Cosa nostra nei traffici di armi c’è sempre entrata. E quindi Rostagno poteva essere diventato una “camurrìa” -come andava sbraitando il patriarca della mafia Francesco Messina Denaro - perché avrebbe potuto mettere gli occhi su questi interessi.


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Intanto però c’è una smentita rispetto alla storia che lui, in compagnia di una donna, avrebbe scoperto un atterraggio segreto su un aeroporto chiuso (Chinisia o di Milo, tutti e due in punti opposti ed esterni rispetto al centro urbano trapanese): la donna che lo accompagnava, Leonid Heuer, moglie di un generale dei servizi segreti, Angelo Chizzoni, sentita di recente a verbale, ha smentito di avere mai conosciuto Mauro Rostagno. Verrà il giornalista Sergio Di Cori (palesatosi d’improvviso amico di Rostagno e suo buon conoscitore nell’estate del 1996, quando la Polizia arrestò per favoreggiamento la compagna di Mauro, Chicca Roveri, e per omicidio una serie di ospiti di Saman: la pista cosiddetta interna totalmente caduta) a dire come seppe di quel traffico e come parlò con Rostagno, cosa gli disse il giornalista, a lui, amico fidato, “all’insaputa dei familiari di Mauro”. Ma tutto questo si troverà nella parte finale dell’ordinanza, perché prima di arrivare a questi punti la Corte di Assise ne ha posti altri, come la necessità di interrogare Giacoma Filippello, compagna del boss campobellese Natale L’Ala, mafioso e massone, ammazzato dai suoi rivali corleonesi dopo tre tentativi andati a vuoto, che prima di morire avrebbe incontrato Rostagno e a lui avrebbe svelato segreti della massoneria. Le presenze di Licio Gelli In secondo piano è passata la circostanza che Rostagno aveva ottenuto informazioni importanti proprio sulle logge segrete trapanesi, come le ripetute presenze nel trapanese del gran maestro della P2 Licio Gelli: se questa conoscenza oggi sembra poca cosa mentre all’epoca l’Italia veniva attraversata da strane trame, forse si commette un grave errore di sottovalutazione. E’ Licio Gelli in quegli anni a “benedire” con il rito massonico la loggia segreta di Trapani dove si troveranno iscritti mafiosi, politici, burocrati, banchieri, colletti bianchi, professionisti, funzionari di prefettura, questura, loggia frequentata da cardinali e anche da emissari di Gheddafi. La Corte di Assise vuole sapere di più sull’omicidio di Vincenzo Mastrantonio, ammazzato pochi mesi dopo Mauro Rostagno. Mastrantonio era il tecnico dell’Enel che faceva le manutenzioni a Lenzi, sul luogo del delitto, e quel 26 settembre 1988 c’era buio nella zona, un corto circuito aveva spento i fanali: ma Mastrantonio era anche l’autista di Vincenzo Virga, e il pen-

tito Milazzo ha detto che fu ucciso perché non era capace di tenersi dentro i segreti, e con lui parlò del delitto di Mauro Rostagno. Per questa ragione in aula tornerà l’ex capo della Mobile di Trapani, oggi questore di Piacenza, Rino Germanà. Si colloca ugualmente nel filone degli appalti mafiosi l’approfondimento investigativo su mafia e riciclaggio dei rifiuti che proprio in quel 1988 conosceva il suo apice: il boss Vincenzo Virga, che gestiva tranquillamente un impianto di riciclaggio costruito a Trapani con finanziamenti pubblici, andava dicendo sornione: “trasi munnizza e nesci oro”. “Trasi munnizza e nesci oro” Nomi eccellenti quelli che la Corte vuole pure sentire, come il giornalista Corrado Augias che dedicò una puntata della sua serie “Telefono Giallo” al delitto Rostagno quando si parlava tanto di pista interna, o ancora i giornalisti Palladino e Scalettari, che di recente sul Fatto Quotidiano hanno scritto di contatti tra servizi segreti e uno dei sospettati del delitto, poi archiviato: Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter, braccio destro del guru Francesco Cardella. Anche Cammisa la Corte vuole sentire, così come il giornalista maltese Stagno Navarra che si occupò degli interessi illeciti a Malta del guru Cardella. Ed infine la giornalista Valeria Gandus, per delle dichiarazioni rese mentre la Procura di Trapani indagava sulla pista interna. Siamo a quasi due anni dall’inizio del processo (prima udienza 2 febbraio 2011). Si sono tenute sino al 14 dicembre 41 udienze, la prossima è il 18 gennaio, e nel frattempo si attende il deposito di una super perizia a proposito dei reperti che vengono ricondotti all’abile tiratore Vito Mazzara, campione di tiro a volo della nazionale italiana e tiratore scelto della mafia trapanese, molto bravo ad ammazzare cristiani. La Corte di Assise con la sua ordinanza vuole ancorare a precisi riscontri fatti dibattimentali molto importanti, a cominciare dalla cosiddetta firma di Cosa nostra su quelle cartucce che Vito Mazzara era solito sovraccaricare e sparare a freddo per sovrapporre diverse striature. Lui che poteva permettersi di girare con il suo fucile calibro 12 in auto, pronto ad andare ad uccidere per ordine dei boss, se fosse stato fermato avrebbe detto che stava andando ad esercitarsi per la sua passione sportiva pluripremiata, e invece, come hanno raccontato i pentiti, spesso andava ad uccidere in compagnia di Matteo Messina Dena-

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ro o ancora con coperture eccellenti come quella dell’allora consigliere comunale del Psi Franco Orlando che, sebbene condannato per mafia, fu assolto dalle accuse di avere partecipato a delitti. Un proiettile scomparso dai reperti Però c’è un giallo da risolvere: la scomparsa di un proiettile calibro 38 dai reperti. Un proiettile estratto dal corpo di Mauro Rostagno durante l’autopsia. Mistero, giallo, c’è una indagine in corso ma sembra che se qualcuno abbia voluto togliere di mezzo una prova: di fatto di quel proiettile esistono fotografie che pare siano più nitide del proiettile stesso, e poi con la perizia su Mazzara non c’entra nulla. Potrebbe entrarci con qualche altro accertamento ora chiesto dalla Corte, tra le comparazioni per le quali i giudici hanno mostrato attenzione e curiosità non fine a se stessa ma per potere giudicare. Se ciò è vero, quella sparizione potrebbe essere stata frutto di una azione preventiva, non per aiutare agenti di servizi segreti, gladiatori o altro, ma solo e sempre mafiosi, perché i delitti sui quali la Corte ha puntato attenzione sono omicidi di mafia, decisi dalla cupola, la stessa che volle Rostagno morto. Ma diamo tempo al tempo, la Procura di Marcello Viola sta indagando e il giallo non resterà tale ancora per molto. Intanto, scorrendo l’ordinanza della Corte di Assise è difficile che il processo Rostagno possa concludersi nel 2013. La Trapani di 25 anni fa – cioè di ora Si arricchirà ancora di ulteriori elementi lo scenario trapanese di quel 1988. Un puzzle che si va componendo, presentando elementi molto attuali. Il processo Rostagno ci sta raccontando la Trapani di 25 anni fa, ma molte cose oggi sembrano proprio le stesse. A cominciare dalle delegittimazioni e dai falsi gialli grazie ai quali mafia e poteri forti hanno piantato qui salde radici. E Mauro Rostagno era una "camurrìa" perché le sue denunce irridevano quella mafia che non era più fatta da contadini ma da menti fine.


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Occhiello

Sgarbi, i picciriddi e... “Toglieteli di mezzo se no li uccido”. Certo: non parlano di affari... di Rino Giacalone Dell’ex sindaco di Salemi e noto critico d’arte Vittorio Sgarbi si sanno tante cose, ma che nutra “un odio verso i bambini” è risulta nuovo. Eppure sta scritto nero su bianco su un atto giudiziario. “Il sindaco Sgarbi ha avuto sempre un rapporto difficilissimo con i bambini” recita la testimonianza in Tribunale di un suo ex assessore, l’avvocato Ketti Bivona. “Quando si vedevano bambini in giro, lui diceva: toglieteli di mezzo perché sennò li uccido”. La Bivona è stata sentita a Trapani nel procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione e la confisca dei beni contro l’ex deputato Dc Pino Giammarinaro. Il contenuto dell’accusa è noto: riguardo all’amministrazione comunale di Salemi, nel periodo in cui c’era a guidarla il critico prof. Sgarbi, Giammarinaro avrebbe esercitato un preciso ruolo di influenza sulle decisioni del sindaco e della Giunta, sempre secondo l’accusa con una impronta dichiaratamente mafiosa. Caratteristica che Sgarbi ha sempre negato recisamente, e invece denunciarono assessori della sua amministrazione, come il famoso fotografo Oliviero Toscani, che si dimise. E l’assessore Bivona, sentita nel procedimento, ha ricostruito un po’ quello che accadeva durante la sindacatura di Vittorio Sgarbi. E i retroscena non sono pochi. Se i bambini per lui erano come fumo negli occhi, Giammarinaro invece sarebbe stato perennemente il suo punto di riferimento. “Appena arrivava a Salemi – ha detto la teste – non faceva altro che chiedere dove fosse Giammarinaro, chiedeva che venisse chiamato, che doveva stare con lui…Vittorio Sgarbi aveva un rapporto fortissimo con Giammarinaro. Appena metteva piede a Salemi, si rivolgeva a noi e diceva dov'è quel Giammarinaro? Chiamatelo e... si rapportava con lui, parlava con lui, loro parlavano, loro facevano…”. La sede dell’amministrazione, Sgarbi di

fatto l’aveva trasferita in un appartamento di grande bellezza artistica che lui aveva preso in affitto per risiedere a Salemi, “ma con la scusa che in Municipio c’erano lavori in corso una stanza veniva usata per le riunioni di Giunta, e le altre stanze erano di sua personale pertinenza”. Riunioni di Giunta che spesso di facevano a notte fonda, alle 2 o alle 3, oppure qualche ora prima dell’alba, alle 5, “lui decideva di fare Giunta e chiamava il segretario generale, poveraccio, o il vice segretario”. “Noi – ha proseguito l’ex assessore - lo dovevamo rincorrere per fare le giunte. Vittorio si muoveva sempre con un codazzo, con una corte di...infinita. C'erano ballerine, artisti, scrittori…Noi approfittavamo della sua presenza perché avevamo bisogno di indicazioni, lui veniva saltuariamente due, tre, volte al mese…”. E mentre si facevano le riunioni di Giunta “Giammarinaro…poverino veniva anche lui e stava nell’anticamera”. E la storia dei bambini? Presto spiegata. “Giammarinaro? Veniva anche lui” Ogni anno la scuola elementare per le recite di Natale doveva andare in un locale a Gibellina. A Salemi era stato recuperato un immobile e all’assessore Bivona venne l’idea di proporre al sindaco di concedere alla scuola quel locale: “Lui (Sgarbi ndr) fece un inferno, che schifo, se un bambino mette piede lì, io faccio un macello. Finì così e io mi sono tenuta questa cosa. Poi arrivò l'istanza del direttore della scuola e io gliela firmai e poi mi sfogai con Giammarinaro…io non avevo nessuna intenzione di fare brutta figura col direttore”. Una vicenda che nel procedimento ha fatto ingresso per via di una intercettazione in la Bivona pare ricevere da Giammarinaro l’assenso a firmare quell'autorizzazione anche col dissenso di Sgarbi, circostanza che però l’ex assessore ha negato: “Sarei stata una cretina a fare una cosa del genere…Mi sono solo sfogata come mi sono sfogata altre volte con lui”. I retroscena dell’amministrazione Sgarbi però non si fermano a queste circostanze. Ce ne sono anche altre. Come quando Sgarbi decise di nominare il cantante Morgan come assessore. Erano i giorni in cui era scoppiato lo scandalo per le dichiara-

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zioni rese dallo stesso cantante a proposito dell’uso di droga che lui aveva fatto, cosa che gli aveva provocato l’esclusione dal Festival di Sanremo. E Sgarbi allora decise di nominarlo assessore. “Vittorio ridendo ci comunicò ora lo facciamo venire qua come assessore…eravamo tutti così, allibiti... dicevamo ma ancora gente porta? gente che non ci porta niente… cominciava a emergere la delusione, la stanchezza. Non arrivavano soldi, non arrivano progetti, non arrivava... non arrivava niente, tranne quella sua potenza mediatica che ci ha resi noti in tutto il mondo. Noi avevamo altri obiettivi per cui ci lamentammo, tutti non solo io…”. La Bivona ad un certo punto si è messa anche a piangere dovendo ricordare un affronto subito da Toscani: “Quando comunicai che ero in attesa di un bambino, Toscani mi chiese chi avevo incastrato… Qualche tempo dopo ero presente ad una manifestazione con il mio compagno, Giuseppe Parrino (figlio della senatrice alcamese ed ex ministro dei Beni Culturali ai tempi della prima repubblica, Vincenza Bono Parrino ndr), che si presentò a Toscani dicendogli che era lui che si era fatto incastrare”. Poi i discorsi sono tornati su Sgarbi che invece di parlare di problemi amministrativi “guardava le donne e le giudicava a secondo se avevano o meno i tacchi alti”. E Giammarinaro non si è mai pentito della scelta fatta di candidare e fare eleggere sindaco Vittorio Sgarbi? “A me non me l'ha mai detto, ma...”. Il discorso è stato completato dall’ex vicesindaco Scalisi, uomo di Pino Giammarinaro senza dubbio: ha raccontato quando durante una riunione al Kempiski (magnifico hotel di Mazara del Vallo scelto da Sgarbi per i suoi soggiorni) per parlare del progetto della vendita a un euro delle case terremotate di proprietà comunale (iniziativa servita solo a riempire pagine di giornali senza altri concreti risultati), ad un certo punto Sgarbi e Giammarinaro si appartarono in una stanza, e qualche minuto dopo si sentì un gran fragore di piatti che si rompevano. Sottovoce, in aula, durante la testimonianza di Scalisi, l’ex onorevole Giammarinaro ha confermato che Sgarbi gli scagliò addosso una serie di piatti che si trovò a portata di mano. Gli avrà gridato anche “capra capra capra”?


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Messina

“Babba” a chi? Sulle rive dello Stretto la mafia prospera, ma pochi ci fanno caso di Ilaria Raffaele «Andatevene via, qui la mafia non c'è». Con queste parole i ragazzi di Addiopizzo sono stati cacciati dalla tradizionale festa della Vara, il carro costruito dai devoti della Vergine Maria che ogni anno il 15 agosto attraversa il centro della città. Eppure i giovani del comitato di Messina sono miti, anche se determinati nel portare la lotta alla mafia in riva allo Stretto. Giorgia Celi ed Enrico Pistorino di mestiere fanno gli operatori sociali, hanno da anni la passione per il volontariato e in cima ai loro desideri per la Sicilia ce n'è uno: liberarla dalla mafia. Sono loro il cuore del comitato Addiopizzo. «Io collaboravo già con alcune associazioni di volontariato, come la Caritas – racconta Giorgia – e parlando con Enrico ed altri amici abbiamo pensato di dare il nostro contributo alla lotta alla mafia». Insieme ad altre tredici persone si sono iscritti ad Addiopizzo e hanno cominciato la loro attività. Ora gestiscono un bene confiscato a un uomo accusato di usura. «Questo edificio è stato confiscato nel 2001, ma l'affidamento al comitato è avvenuto per caso – spiega Enrico – Avevo saputo dai giornali che c'era un bene in via Roosevelt, ma non riuscivo a individuarlo fra queste palazzine. Così mi sono informato all'Agenzia nazionale per l'amministrazione dei beni sequestrati e mi hanno comunicato che era un appartamento in un limbo: non era né di loro proprietà né del Comune perché l'amministrazione non aveva avviato le procedure per acquisirlo».

Un salone con una parete dipinta coi ritratti di Falcone e Borsellino, una piccola cucina, uno stanzino pieno di carte: in questa, che era la casa di un usuraio, si raccolgono e impacchettano i cesti natalizi con i prodotti che ci arrivano da Libera, dal consorzio Terre del Sole e dalla cooperativa Goel, due associazioni calabresi che gestiscono terre confiscate alla 'ndrangheta, ma da gennaio inizieranno anche i cineforum e i dibattiti. Intanto vanno nelle scuole a spiegare la legalità. “Qui la mafia c'è sempre stata” Il primo passo per combattere la mafia è riconoscere che c'è. La Direzione investigativa antimafia descrive così la provincia di Messina: «Caratterizzata dalla presenza di distinte strutture criminali di tipo mafioso, ciascuna operante su una propria area di influenza, ma tutte accomunate dalla capacità di condizionamento del tessuto economico-imprenditoriale e della pubblica amministrazione». Gli investigatori della Dia descrivono un quadro ben diverso dalla città “babba” in cui i messinesi pensano di vivere. «Qui la mafia c'è e c'è sempre stata – dice il questore Carmelo Gugliotta – Controlla il territorio in base a una spartizione che divide la città in tre macro-zone (nord, centro e sud), ciascuna con alcuni quartieri sotto il controllo delle famiglie. Faccio gli esempi di Giostra nella zona nord, Camaro al centro e Villaggio Cep e Santa Lucia Superiore nella zona sud di Messina». Oltre a queste, ci sono altre zone critiche: Contesse, Gravitelli e Mangialupi, «per lo più guidate da reggenti, dato lo stato di detenzione dei capi storici». La 'ndrangheta e le cosche Messina, schiacciata com'è dall'influenza delle cosche di Palermo e Catania e da quella della 'ndrangheta calabrese, viene descritta dal questore come una «città cuscinetto, dove viene mantenuta una calma

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Scheda LA CITTA' SPARTITA

Il territorio di Messina e provincia, così come tutta la Sicilia, è rigorosamente diviso fra le cosche locali. Barcellona Pozzo di Gotto è notoriamente sede di uno dei clan più minacciosi della regione, Mistretta è segnalata per la famiglia locale, e la cronaca descrive una situazione di controllo del territorio da parte della mafia: è del 19 dicembre scorso l'arresto a Messina di otto persone per estorsione e usura (per alcuni di loro è stata ipotizzata l'aggravante mafiosa); il 21 novembre la Direzione investigativa antimafia di Messina ha sequestrato beni per un valore di 600 mila euro agli imprenditori Antonino e Tindaro Lamonica di Caronia, accusati di essere vicini ad esponenti di spicco di gruppi mafiosi operanti nella fascia tirrenica della provincia (a marzo agli stessi imprenditori la Dia aveva sequestrato beni per un valore di 30 milioni di euro); il 13 dicembre 2 milioni di euro erano stati sequestrati al latitante della famiglia barcellonese Filippo Barresi.

apparente per preservare i rapporti economici fra siciliani e calabresi, che fanno affari soprattutto con la droga». L'acquisto e l'importazione in Italia delle sostanze stupefacenti vengono gestiti dalle famiglie palermitane e calabresi. «Messina è per lo più una piazza di spaccio mentre manca il livello più alto della gestione dei rapporti per l'acquisto all'ingrosso della droga». Il consumo di queste sostanze, dice il questore, è aumentato: «Negli ultimi quindici anni è cresciuto quello di cocaina, che è una sostanza eccitante e quindi era indicata per ritmi di lavoro più sostenuti e una vita che diventava più complessa. In questa fase di crisi è in aumento l'uso di eroina, che è depressiva». La strada da fare a Messina è ancora lunga. «Bisogna cambiare la mentalità di questa città» dice Massimo, che non è ancora iscritto ufficialmente ad Addiopizzo ma è già impegnato a dare una mano in sede. E racconta: «Ci sono persone che vengono ad acquistare qui i loro regali per Natale ma ci chiedono di togliere il logo Addiopizzo dalla confezione perché “chissà cosa pensa la gente”. Io non me lo riesco a spiegare: se vieni a comprare qui vuol dire che credi nel progetto, no? Allora che ti importa di cosa pensano gli altri?».


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Coi soldi di logge e clan

Apocalisse rifiuti da Nord a Sud camente pianificato e attuato dal 1989 ai giorni nostri il traffico di rifiuti chimici e industriali dal Nord Italia alla Campania.

Il disastro è stato fissato per l'anno 2064 quando il percolato inquinerà le falde un disastro ambientale senza precedenti

Le scorie dell'Acna di Cengio

di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it

“É una storia maledetta. Un lungo e tossico romanzo criminale. Qui la camorra c'entra, eccome. Ma non è la sola. É un intreccio di poteri, saldature e coessenze da mettere i brividi. Un piano parallelo dove la politica e le istituzioni sono state piegate agli interessi e agli affari più spregiudicati. La massoneria ne è diventato il punto di sintesi, il porto sicuro, la corazza”. Il quadro d'insieme, i fatti ricostruiti e tratteggiati dall'ordinanza controfirmata dal Gip Anita Polito fa letteralmente accapponare la pelle. Nero su bianco in oltre cinquecento pagine sono ricostruiti un quarto di secolo di attentati all'ambiente e alla salute dei cittadini che fotografano l'industria del ciclo delle ecomafie nel territorio campano. Per la prima volta in assoluto viene contestato nel provvedimento cautelare il reato di disastro ambientale ad un capo della camorra casalese: il padrino ergastolano Francesco Bidognetti detto Cicciotto 'e mezzanotte.

L'ambasciatore della cosca Con lui c'è il cugino Gaetano Cerci, considerato l'ambasciatore della cosca e più che altro il referente della massoneria di Castel Fibocchi facente capo al gran maestro e fondatore della P2 Licio Gelli. Ma non è finita. C'è spazio anche per l'avvocato Cipriano Chianese, prima titolare della Sestri, quindi della Resit srl, società che gestivano le discariche ubicate su un'area di 21.4 ettari, che assieme a Cicciotto 'e mezzanotte e a Cerci era il grande ideatore che avrebbe organizzato e portato a interrare negli invasi illegali 806.590 tonnellate di rifiuti, solo in trascurabile parte proveniente dal sud. L'altra tessera del mosaico porta il nome di Giulio Facchi, sub-commissario all'emergenza rifiuti nominato dall'allora governatore e commissario distratto Antonio Bassolino. Questi “compagni di merenda” a più riprese subentrando al progetto - secondo l'inchiesta dei magistrati della Dda di Napoli - avrebbero scientifi-

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Dai riscontri, dalle analisi, dalle perizie è emerso che nelle discariche, nelle cave, nei terreni di Villaricca, Giugliano e Parete sono stati smaltiti circa 31mila tonnellate di scorie provenienti dall'Acna di Cengio. Ma questo non è tutto perché al peggio si aggiunge il disastro. C'è un timer che lento e inesorabile scandisce un countdown quotidiano con scadenza fissata al 2064. Quella massa di scorie tossiche interrate ha prodotto 57mila tonnellate di percolato e toccherà la punta massima di inquinamento e contaminazione delle falde acquifere nel 2064. Gli effetti sulla popolazione - stimano in maniera prudenziale gli studiosi - dureranno fino al 2080. Le patologie can- cerogene e le malformazioni - specialmente nei bambini - saranno simili a epidemie. Lo scenario è apocalittico. Territori violentati, devastati, stuprati irrimediabilmente. Un attentato e un disastro ambientale che non ha pari al mondo. Una tragedia immane. Come i genocidi nazisti. Società a capitale di camorra L'ingegneria massonica aveva pensato proprio a tutto. Addirittura è riuscita a costruire una società la “Ecologia 89” a capitale di camorra e gestita dai capi casalesi tra cui i big Francesco Schiavone “Sandokan” e Antonio Iovine “'O ninno”. Incontri, riunioni, conciliaboli settimanali alla circumvallazione esterna di Villaricca, un ristorante scelto come luogo neutro per ritrovarsi e intrecciare i fili di quel tessuto d'illegalità di poteri che ha messo in ginocchio una intera regione.


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“Un contesto collusivo dove camorristi, imprenditori, impiegati infedeli tramavano per favorire i grandi gruppi industriali del Nord Est” Era il 4 febbraio del 1991 quando Mario Tamburrino, autista di un tir che trasportava rifiuti chimici della Ecomovil di Cuneo fino alle campagne Di Qualiano, Villaricca e Giugliano, restò intossicato.

Dalle indagini si capì che sotto a quei terreni ci andava a finire di tutto e di più. A squarciare definitivamente il velo di omertà ed a mettere a nudo la piovra mostruosa dell'affare rifiuti tossici fu Gaetano Vassallo, l'imprenditore pentito che con i suoi racconti ha svelato la struttura e la sovrastruttura del sistema. I nomi dei politici si confondono con quelli dei camorristi, dei funzionari dello Stato infedeli, dei settori degli apparati di sicurezza diventando un enorme impasto che ha attentato la vita democratica di un paese. Il referente politico Il referente politico e di collegamento è - secondo l'accusa – il parlamentare Nicola Cosentino, ex sottosegretario all'Economia, ex coordinatore regionale del Pdl e attuale deputato in cerca disperata di un posto in lista per garantirsi immunità e impunità.

Le indagini hanno scoperto e acclarato che tra l'area di Villaricca, Giugliano, Qualiano, Parete, Chiaiano e Pianura sono state smaltite illegalmente centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti ospedalieri, fanghi speciali, polveri di amianto, residui di verniciatura, alimenti avariati, medicinali scaduti e le scorie della lavorazione di alcune industrie del torinese, milanese, bolognese e veneto. Di cosa parliamo? La Campania infelix a tavolino è stata designata e adibita sulla scacchiera degli affari a grande discarica del Nord Italia. Ancora agli inizi degli anni Novanta, Carmine Schiavone spiegò come i casalesi, per soddisfare le esigenze del Settentrione, non esitarono a riempire gli scavi realizzati per la costruzione della superstrada Nola-Villaliterno, con tonnellate di rifiuti trasportati da tutta l'Italia. “Beviamo acqua minerale” Stesso concetto ribadito qualche anno dopo da Domenico Bidognetti: “Nei terreni agricoli per anni sono stati smaltiti i fanghi di depurazione provenienti da aziende della Lombardia. L'organizzazione guadagnava e faceva risparmiare centinaia di milioni di euro alle industrie del Nord Est garantendo sempre documenti puliti”. A chi, preso da un rimorso di coscienza, rifletteva: “Tutti questi rifiuti posso inquinare le falde acquifere”, il boss manager rispondeva: “A noi che cazzo c'importa, beviamo l'acqua minerale”.

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Società civile

Diario da una scuola napoletana Michele, Antonio, Domenico... Fra inganno e solitudine, e vita amara di Andrea Bottalico www.napolimonitor.it

Forse avevi ragione tu, Titina mia. Io mi domando ancora chi me l’ha fatto fare. Resto seduto a guardare al di là della finestra. Piove. Le gocce sbattono sui vetri, le pozzanghere si allargano e il traffico va in tilt. Si sentono i clacson in lontananza, le sirene della polizia e dell’ambulanza. Le ringhiere di alcuni bassi nel vico sono addobbate a festa, qualcuno spara i raudi anche sotto il diluvio. Nella stanza ci sono gli spifferi, fa talmente freddo che indosso due maglioni di lana e quattro paia di calzini. Guardo il temporale mentre provo a scriverti due righe. Sono trascorsi altri due mesi. Il panorama da qua m’inganna ogni mattina, quando mi sveglio e bevo il caffè dietro al vetro della finestra prima di andare a scuola. E osservo mezzo assonnato i tetti dei palazzi bagnati, i campanili, le terrazze piene di antenne e le navi in rada che aspettano di entrare nel porto, e penso di scappare via, raggiungerti, ma lei mi si piazza davanti senza dire niente. Ricordi quei versi di Bodini? «Qui non vorrei morire dove vivere/ mi tocca, mio paese,/ così sgradito da doverti amare...». Come questo tempo, Tina. Passeggiare per le strade trafficate, girare l’angolo. Camminare. Leggere i titoli delle prime pagine con la stessa estraneità di un cane randagio nel parcheggio di un centro commerciale. Respirare a pieni polmoni quest’aria, restare assuefatti, bere bicchieri di Negroni sbagliati per sopperire al cinismo. E osservare i manichini delle vetrine, pensare al destino, alla barbarie somministrata in pillole. La storia drammatica, il traffico di stupefacenti, il Rom di ventuno anni ucciso in una sparatoria con la polizia, e le cari-

che, le dichiarazioni ufficiali degli ultimi sottosegretari, le indagini preliminari, i sequestri, le statistiche, gli arresti, tutti quei morti ammazzati. Lasciamo perdere. L’altra volta, nel corso del laboratorio in una classe era in atto una discussione sul nome da dare alla testata del giornalino. Allora un alunno ha gridato: «La scissione! Chiamiamolo “La scissione”». Si tratta della stessa scuola media vandalizzata nella notte tra il 13 e il 14 novembre da ignoti. Istituto allagato, estintori aperti, danni gravi. Un mese prima a Marianella due sicari uccidevano per errore Lino Romano, trent’anni, sotto casa della fidanzata. Quattordici colpi di pistola, Tina, già ne parlammo. Il bersaglio era un altro, quella sera si trovava nello stesso palazzo. Uno dei responsabili è stato arrestato a San Giovanni a Teduccio. Ha ventidue anni, si chiama Giovanni Marino. Ha avuto il ruolo di basista nell’omicidio. “Chiamiamolo La Scissione!” L’hanno preso grazie al pentimento della zia della fidanzata della vittima designata. Lei doveva inviare un messaggio ai killer per far uccidere il fidanzato della nipote, ma quelli non aspettarono e spararono a Lino Romano, scambiandolo per il vero obiettivo dell’agguato. Nel giorno dei funerali, il ministro dell’interno si è recato nell’abitazione dei familiari della vittima assicurando che gli assassini sarebbero stati presi. Il sindaco dopo l’arresto di Giovanni Marino commentava così: «Non posso che esprimere tutta la soddisfazione, personale e della città, per l’arresto di uno dei sicari che hanno ucciso Lino Romano. Un grazie alle forze dell’ordine e alla magistratura che sono impegnate nel contrasto al crimine organizzato. L’arresto non servirà a restituire Lino ai suoi familiari, ma rappresenta un importante atto di giustizia e un segnale di speranza per la città e il Paese che, senza tentennamento…». Il presidente della Regione? «Una notizia che dà fiducia (…) Una risposta che significa che lo Stato c’è e che è un successo della giustizia. Risultati così positivi ci rendono

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tutti fiduciosi». I due figli della donna pentita hanno avuto un ruolo minore, adesso stanno ai domiciliari. “Dove la verità suona come menzogna” Da quando lavoro nella zona orientale mi pare di tenere i piedi inchiodati per terra. Entro in certe scuole tra Ponticelli, Barra e San Giovanni, e oltre all’inadeguatezza mi sento come schiacciato da un peso irriducibile, essenziale. La comparazione con il carcere è troppo scontata, e poi in un carcere non ci sono mai entrato. Ogni tanto mi ritrovo a riflettere sulla natura del potere che subiscono passivamente i ragazzi; anzi, la natura “dei poteri”. Ci sono scuole in cui i professori rinunciano alla didattica, e gli alunni, oltre al mancato diritto all’apprendimento, si sentono privati del diritto di scegliere di non seguire la lezione del docente ignavo di turno. Questa è una delle immagini dell’istituzione ai loro occhi. So di un ragazzo in un istituto superiore, che disse di volersi togliere lo sfizio di vedere almeno una volta la faccia del suo professore di matematica. Quell’esigenza nascondeva la voglia di vedere il volto dell’autorità. Poi avrebbe deciso lui se sputargli in faccia o meno. Di tanto in tanto immagino di portarti in classe con me, farti conoscere Michele, Antonio, Domenico, Mauro, Vincenzo. Dai loro sguardi capiresti l’inganno e il significato della solitudine, Tina. Reagiresti con il silenzio di chi ha visto una verità, consapevole che “ci sono persone in presenza delle quali ogni verità suona come una menzogna”. Un giorno entrai nella loro classe con le Cronache di Napoli, il solo giornale di merda che i ragazzi sentono vicino alle loro vite, quello che pare scrivere e descrivere il loro mondo (che è anche il nostro). Michele quasi me lo strappò dalla mano. Avevano arrestato un certo Mariano Abete il giorno prima. Ventun anni. Il Viminale l’aveva inserito nell’elenco, in uno dei tanti elenchi, dei cinque latitanti più pericolosi del momento. Si nascondeva in un’intercapedine ricavata tra due pareti. Michele lesse tutta la pagina dedicata all’arresto.


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Non l’avevo mai visto così impegnato e attento nell’esercizio della lettura. In quel momento pensai di sfuggita alla relazione tra il potere criminale e il potere dello stato, e a una frase letta anni addietro: “È inutile chiedersi se è più dannoso il secondo o il primo. Senza il secondo il primo non ci sarebbe. Senza il primo, il secondo lo inventerebbe”.

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Poteri criminali e non A Barra, nei pressi della Vesuviana, vedo spesso un vecchio che sta da solo. Aspetta, cammina avanti e indietro, ogni tanto dice qualcosa ma nessuno l’ascolta. I murales degli ultras ricoprono il muro che costeggia i binari, si avverte un forte odore di caffè tostato proveniente da una torrefazione, si vedono le ciminiere delle fabbriche dismesse. Se chiedi ai ragazzi della media da dove provengono, loro rispondono con orgoglio ‘Ind ‘a Bbarra. Sembrano circondati da un recinto invalicabile. Mimmo, paffutello; Armando, il padre in carcere; Elena e Bianca timide, bocciate due volte. Mimmo e Armando calzavano quei jeans aderenti, dallo smartphone ascoltavano le canzoni della festa dei gigli, simulavano i movimenti per i corridoi finché la bidella non cominciava a urlare. Dopodiché si placavano. Pensammo di far intervistare ai ragazzi uno storico della festa. Durante la conversazione emersero momenti interessanti, ma a tratti i ragazzi avvertivano il peso del giudizio sui loro idoli che orbitavano intorno all’attuale festa dei gigli, oggi ricettacolo di malavitosi, a detta dello storico. Mimmo e Armando, così ossessionati dai gigli, non gli posero alcuna domanda. Mimmo s’incuriosì quando lo storico mostrò alcune foto d’epoca. C’era in mezzo suo nonno. Agli inizi di dicembre portai di nuovo il giornale in classe di Michele, nell’istituto superiore di San Giovanni. Un uomo era stato ammazzato in pieno giorno nel cortile della scuola materna “Eugenio Montale”. La vittima era stata inseguita dai sicari fin dentro il cortile dell’istituto, non lontano dall’ingresso principale. Lo avevano già colpito, poi l’avevano raggiunto nella scuola dove il ferito cercava scampo. Due giorni prima un altro morto, sull’asse mediano all’altezza di Giugliano. Si chiamava Mirko Romano. Ventisette anni. «Sparare nel cortile di una scuola è un atto terroristico di una gravità indefinibile che fa male a questa città, in particolare alla società civile che, proprio a Scampia, è da sempre impegnata nel contrasto ai clan. Come sindaco non posso che rin-

tra cui una enorme: Basile ‘o Ras. C’erano graziare le forze dell’ordine e la magistraDomenico tura, ma al governo non posso che chiede- Ciro, Fatima, Davide, Maria e Carla, bocciata tre volte, fidanzata con un ragazzo di re un potenziamento delle strutture giuditrent’anni. I ragazzi chiamarono il loro ziarie e investigative, oltre che una maggiornale “La scuola dell’infame”. In cogior presenza delle forze dell’ordine sul pertina c’erano alcune immagini di uomini territorio. Resta, infine, il tema centrale che impugnavano pistole verso un uomo per contrastare e vincere le…». con le mani legate. Sempre a Scampia, Tina, dieci giorni In quella scuola un giorno entrò un prodopo. Da una macchina in corsa avevano fessore nel corso del laboratorio perché lanciato una bomba carta. Le schegge dell’esplosione ferirono una ragazza di tre- aveva bisogno dei ragazzi, avrebbero dovuto spazzare a terra in una sala. Aprì la dici anni e un bambino di nove. Un altro bambino fu soccorso per uno stato di choc. porta senza bussare. Gli chiesi se era proprio necessario, dissi che stavamo lavoranDopo le cure all’ospedale, i bambini furodo, lui quasi perse la pazienza e mi ripose no dimessi. Il giorno dopo i carabinieri trovarono un ordigno inesploso in un piaz- la domanda: «Possono venire si o no?». zale delle cosiddette case celesti. Interven- Gli risposi di no, e lui stizzito chiuse la nero i militari del nucleo artificieri. Si trat- porta. I ragazzi rimasero increduli. Alla fine del laboratorio il professore mi tava di una bomba a mano dello stesso tipo di quelle utilizzate durante il conflitto aspettò all’esterno della scuola, disse di seguirlo. Osservarono tutti la scena. Quel nell’ex Jugoslavia. “no” aveva delegittimato il suo misero poNapoli finiva a Poggioreale tere in quell’edificio. Doveva ristabilirlo in maniera plateale e loro dovevano capirUn insegnante una volta mi raccontò di lo, proprio quelli che avevano assistito alla una lezione con i ragazzi sulla geografia richiesta negata mezz’ora prima. Il profesdella città a partire dalle loro impressioni. sore mi fece entrare in una classe e tra le Il mare per loro era a Mergellina, Napoli era Poggioreale, “dove sta il carcere”; San altre cose disse: «La prossima volta che mi Giovanni era irraggiungibile, Ponticelli era rispondi in quel modo io vi caccio, perché se voi siete qui lo dovete soltanto a me!». un paese. Eravamo all’interno di un edificio scolastico basso che appare non appena lasci alle spalle via Argine, non lontano dalle schiere di palazzine di edilizia popolare che s’intravedono oltre. Sembra studiato a tavolino, Tina, come se gli architetti avessero progettato anche i comportamenti umani degli abitanti di quegli spazi. O viceversa i comportamenti umani degli abitanti deportati in quegli spazi hanno condizionato i progettisti? Da quelle parti c’ero già stato per un’intervista a una famiglia di occupanti, con la figlia agli arresti domiciliari per detenzione e spaccio e il padre morto di overdose. Tra i nomi delle strade di Ponticelli ricordo viale della Metamorfosi, ci passammo dopo esserci persi per l’ennesima volta. L’impatto con l’edificio cambiava a seconda dell’orario e del mezzo con il quale arrivavi fin lì. In autobus, in motorino, quando i ragazzi uscivano da scuola, quando erano ancora dentro. Fuori invece la distanza spaziale coincideva con la distanza mentale, una percezione che sentivi non appena l’odore della nafta penetrava nelle narici all’altezza dei serbatoi, tra San Giovanni a Teduccio e Gianturco. Gli alunni in quella scuola media erano pochi, c’era poca luce nell’atrio. La stanza che utilizzavamo sembrava il deposito di un vecchio teatrino. Sui muri tante scritte,

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“La prossima volta vi caccio” Titina mia, ti chiederai perché ti ho raccontato tutto questo. Per mitigare la nostalgia, sublimare la rabbia che tengo dentro e che mi corrode a poco a poco se non la caccio fuori. Ti prometto che un giorno ti porterò a vedere il tramonto da Castellammare, poi andremo in costiera, ti regalerò una rosa e mangeremo i frutti di mare a Vico Equense. Continuo a pensare che forse avevi ragione tu, e mi domando ancora una volta chi me l’ha fatto fare. Avrei dovuto seguirti, ma è probabile che avremmo litigato perché io e te siamo come i due mari che s’accavallano giù all’isola delle Correnti, l’uno calmo piatto, l’altro agitato inquieto. Ricordi quella notte, quando andammo a vedere se era veramente così? Non dimenticare, Tina. Quando ci rivedremo saremo felici come due bambini, avremo dimenticato gli errori, le paure, le insicurezze, avremo dimenticato le parole inutili, e sarà inverno e avrai come al solito freddo, e avremo vergogna di guardarci negli occhi, e allora le tue mani tremeranno, e la coscienza mia si dimostrerà mite, libera di andarsene via da qui, con la testa fieramente trafitta dal pensiero di sapersi ancora vivi.


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Abruzzo

L'”isola felice” che ha scoperto le mafie Qui per decenni prosperità e ricchezza sono stati garantiti dal clientelismo e dal familismo Dc. Nel '92 il sistema è crollato, mentre le mafie penetravano nel profondo della società di Alessio Di Florio Zio Remo. Era il nomignolo (affettivo o dispregiativo, a seconda di chi lo pronunciava) di Remo Gaspari, parlamentare e per 16 volte ministro della DC, nato a Gissi, un paese montano abruzzese. Per tutti i decenni del dopoguerra l'Abruzzo era Zio Remo. Non c'era industria, ospedale, opera pubblica, ufficio postale, che non fosse sorto grazie a lui. Tutto in cambio di voti e sostegno. Intorno a Remo Gaspari la DC abruzzese ha incardinato il suo sistema di potere clientelare. Il tessuto industriale ed economico abruzzese, dopo la guerra, è risorto tra le processioni di migliaia di persone in ginocchio da Gaspari nella sua natìa Gissi o negli stabilimenti balneari di Vasto Marina o Casalbordino. Quotidianamente centinaia di persone accorrevano presso il "re del clientelismo", disposti ad attendere anche ore e ore.

L'Abruzzo è stato forgiato dal clientelismo e dal sistema di potere clientelare della DC: la libera iniziativa non esiste, il riconoscimento dei propri diritti neanche. Per ottenere l'agognata pensione dopo anni e anni di duro lavoro o per avere un lavoro (anche sottopagato e schiavizzati), si chiede il "favore", ci si inginocchia al potente di turno. E' una mentalità che, ancora oggi, domina le menti degli abruzzesi. Nel 1992 il ciclone Tangentopoli investe anche l'Abruzzo. Varie amministrazioni comunali(tra le prime Casalbordino) e anche quella regionale furono azzerate dalle inchieste giudiziarie. Tra i Comuni va segnalato il capoluogo di provincia Chieti (che, essendo la provincia natìa, era anche il feudo più solido di Remo Gaspari), con l'arresto del febbraio del sindaco Andrea Buracchio e di due terzi dell'intera giunta. Il 29 settembre 1992 vengono arrestati Rocco Salini (che sarà poi condannato) e altri esponenti della giunta regionale. Ottobre '91: arrivano i primi killer E' il crollo del potere democristiano, "l'agonia di un regime" come l'ebbe superbamente a descrivere anni dopo il compianto (e purtroppo quasi da tutti dimenticato) Sergio Turone. Ma c'è un altro episodio di cronaca di quei mesi che va evidenziato e che segnò uno spartiacque nella storia recente dell'Abruzzo: il 4 ottobre 1991 viene assassinato a Pescara l'avvocato Fabrizio Fabrizi. L'omicidio Fabrizi, rimasto praticamente senza colpevole ufficialmente, è considerato il primo delitto di mafia in terra abruzzese. Quella notte l'Abruzzo perse la sua

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verginità, smise definitivamente i panni di isola felice. In Abruzzo si faceva affari illeciti, anche gli interessi criminali prosperavano. E si uccideva. Nello studio di Fabrizi gli investigatori trovarono enormi faldoni di documenti che, dai rifiuti ai centri commerciali, testimoniavano il sistema di corruttela e malaffare che portò alla fine della DC e alcuni degli arresti riportati sopra. L'inchiesta Re Mida Cominciò allora la storia recente dell'Abruzzo, la storia di una classe politica in larga parte sempre più asfittica e incapace di qualsiasi visione, pronta solo a soddisfare gli interessi di lobby e gruppi di potere privati. Arrivando a favorire tranquillamente anche gli interessi delle mafie, che stanno prosperando proprio lì dove la politica è più incapace. A partire dal campo dei rifiuti, dove la gestione pubblica appare sempre più incapace e inefficiente, mentre monopoli privati e traffici con altre regioni (negli ultimi 15 anni sono oltre 20 le inchieste della magistratura, così come documenta anche un dossier dei mesi scorsi di PeaceLink Abruzzo e Ass. Antimafie Rita Atria, che hanno scoperto reti di traffico illecito nazionale e internazionale di rifiuti che avevano uno dei perni in Abruzzo) dominano incontrastati. L'inchiesta Re Mida della Procura di Pescara, che il 22 settembre 2010 coinvolse anche i senatori Paolo Tancredi e Fabrizio Di Stefano (già noto alle cronache nazionali come promotore dell' dell'abolizione della disposizione costituzionale che vieta la ricostituzione del Partito Fascista).


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“Ma qualcuno resiste: Peacelink la Rita Atria, Zona 22, Site.it...”

E ricostruì la vicenda di vera e propria spartizione affaristica del territorio della Regione Abruzzo, tra politici e imprenditori privati, con i primi che avevano il compito di piegare le leggi agli interessi dei secondi. La nazionale adriatica Per non parlare della speculazione edilizia: la costa abruzzese è attraversata per tutta la sua lunghezza dalla strada nazionale adriatica, nel percorrerla il mare si vede solo in piccolissimi spicchi, mentre dominano colate e colate di cemento. Pura speculazione edilizia, che sta mettendo in gravissimo rischio il territorio, ma anche fonte di affari illecito. A partire da Vasto, al confine con il Molise, dove centinaia e centinaia sono gli immobili sequestrati dalla magistratura. Davanti a questi scempi, e all'evidenza dei fatti acclarati anche da studi universitari (che fanno espresso riferimento anche al riciclaggio del denaro sporco nel "ciclo del cemento" abruzzese), larga parte della politica abruzzese continua a contorcersi solo nel balbettìo di videosorveglianze che dissanguano le casse pubbliche, ronde più o meno neofasciste, ideologie xenofobe e sicuritarie buone solo per la propaganda. Oltre a continuare a favorire le lobby del cemento (basti pensare alla recente legge regionale sull'edilizia o alla mancanza da quasi trent'anni di una legge regionale che disciplini le cave) e della speculazione. La Regione che si vanta di essere la "Regione verde d'Europa", la Regione dei Parchi e delle Aree Protette, grazie al saldarsi di destra e centrosinistra (PDL e

PD per intenderci, insieme a FLI), continua da oltre dieci anni ad impedire la definitiva istituzione del Parco Nazionale della Costa Teatina (diventata ormai un'unica immensa colata di cemento) o a ridurre l'Area Marina Protetta Torre del Cerrano per favorire espressamente alcuni costruttori. E nel frattempo la penetrazione delle organizzazioni criminali, dedite anche ai floridi mercati di prostituzione, sfruttamento illegale del lavoro dei migranti e delle droghe, continua la sua escalation. La prima 'ndrina abruzzese Nel 2007 la Procura di Vasto ha sgominato la prima 'ndrina nata e cresciuta interamente in Abruzzo, sorta intorno al boss della camorra in esilio Michele Pasqualone ma che coinvolgeva anche professionisti e personaggi della locale società(nel 2008 in una seconda inchiesta la magistratura accusò anche un secondino del carcere locale di continuare a permettere a Pasqualone di continuare a comandare la 'ndrina dagli arresti). Il 2012 è iniziato con una nuova inchiesta, che coinvolse quasi cento persone, che sgominò addirittura due reti criminali dedite allo spaccio di cui fu accusato di essere a capo il boss camoristico in esilio Lorenzo Cozzolino. Nell'estate scorsa furono arrestati moltissimi giovanissimi (nessuno con un'età superiore ai 30 anni), che hanno importato in Abruzzo il cobrat, una nuova droga derivante dal processo di raffinazione dell'eroina. Droga e prostituzione sono tra gli affari che più permettono alle mafie di movimentare capitali, ma sono solo la punta

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avanzata di un'iceberg molto più profondo che coinvolge e devasta il tessuto sociale ed economico. A partire da L'Aquila, dove il terremoto del 6 aprile 2009 è diventato occasione incontrollata di affari criminali. Nei mesi scorsi una nuova inchiesta della procura di Roma ha fatto nuovamente tornare a parlare di Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco DC di Palermo e considerato vicino alle cosche mafiose palermitane. Quell'inchiesta è stata solo l'ennesima partita da L'Aquila. E' cronaca di queste settimane, e si sta evolvendo ancora mentre sto completando queste righe, il sequestro di sette società di capitali, immobili e molti altri beni tra Roma, la Campania e il Vastese, la zona abruzzese al confine con il Molise. Secondo l'accusa le persone coinvolte sono prestanomi del clan dei Casalesi. Ieri la Dc, oggi i “poteri forti” Oltre 20 anni dopo il crollo del sistema di potere clientelare Dc, il vuoto politico non è stato mai "riempito", anche se mentalità clientelare e che attende i favori del potente di turno sopravvive. Oggi il presente è questo, infiltrazioni criminali sempre più in profondità, lobby che dominano incontrastate, nessuna visione del futuro. Qualcuno resiste (la rivista Site.it, l'Associazione Antimafie Rita Atria, PeaceLink, il centro sociale Zona22, associazioni storiche come Arci e WWF, alcuni esponenti politici coraggiosi comunisti, alcuni comitati e movimenti) e non si arrende. Sono I Siciliani abruzzesi. Hanno contrastato il sistema di potere democristiano, oggi contrastano i nuovi "poteri forti".


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Modica/ Si privatizza anche qui. E i prezzi lievitano

Le mani sul cimitero Parte il project financing che affida il cimitero alla gestione privata. Migliorìe evidenti sono state apportate alla struttura, ma i prezzi dei loculi e dei ser vizi sono aumentati di Enrica Frasca Caccia e Giorgio Ruta www.ilclandestino.info In occasione dei referendum del 2011 la stragrande maggioranza degli italiani si è dichiarata contraria alla gestione privata dei beni e dei servizi pubblici a rilevanza economica. Con buona pace della sovranità popolare, però, si è continuato a preferire la via della privatizzazione per i beni comuni, e perciò per l’acqua, i rifiuti e i servizi cimiteriali. A Modica, la gestione privata del cimitero entra in pieno regime e i prezzi aumentano. Si sapeva. Invece non si sapeva bene se il servizio fosse migliorato. Ma girando per il cimitero non si può dire il contrario. La struttura è tenuta bene e tutto sembra orientato a un’ottica di efficienza. Sono state sistemate le fontanelle e messi 110 cassonetti, c’è il servizio di custodia 24 ore su 24 e gli ascensori sono entrati in funzione. I lavori di costruzione dei loculi e di manutenzione della parte vecchia sono iniziati. Il tutto targato SCM (Servizi Cimiteriali Modica).

L’ingresso della Edilzeta dei fratelli Zaccaria nelle mura del camposanto ha provocato tanti pruriti. I primi a storcere il naso sono coloro che hanno dato ad un’occhiata ai prezzi. Per un loculo, con la gestione pubblica, si spendevano 1400 euro. Oggi ce ne vogliono mediamente 2000. Un loculo costa 600 euro in più Prendiamo un loculo di terza fila. Oggi costa 2135 euro, prima ne costava 1400. Prevedibile: adesso il prezzo comprende pure l’Iva e l’utile del privato. Per Giorgio Zaccaria, di Edilzeta, va considerato anche un altro aspetto: “I prezzi applicati dal Comune erano stati stabiliti nel 2001. Oggi è chiaro che c’è un aumento del costo della vita. Lo abbiamo calcolato riferendoci agli indici Istat”. Il Comune di Scicli ha riformulato, con il Commissario Margherita Rizza, il prezziario del cimitero nel maggio di quest’anno. Se prendiamo come riferimento ancora un loculo di terza fila il prezzo è di 1600 euro. Tra Modica e Scicli la differenza è quindi di 500 euro. “Ogni cimitero ha una storia a sé e dei costi diversi. Se prendiamo Ragusa il prezzo è maggiore”, spiega Zaccaria. L’aumento dei prezzi è una valanga che coinvolge tutti i servizi. Per esempio oggi una tumulazione in tombe di famiglia costa 302,47 euro più Iva al 10%. Secondo Graziana Stracquadanio della Fillea-CGIL l’aumento è consistente: “Prima il prezzo che facevano le ditte andava dagli 80 ai 150 euro”. Negli ultimi mesi da Contrada Piano

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Ceci sono partite delle lettere per la preassegnazione dei loculi. Nelle lettere, oltre a scoprire i prezzi, i destinatari hanno subito l’ennesima doccia fredda alla notizia del pagamento del 50% della spesa entro cinque giorni per poi veder realizzati i lavori nel 2015. Per fortuna il Comune è intervenuto e i cinque giorni si sono trasformati in quindici. Ma poco cambia. Per Vito D’Antona, consigliere di Sel, “questo aspetto va regolamentato perché non è stato disciplinato. Va colmato il vuoto per evitare imprevisti”. “C'è un monopolio di fatto” La questione che si gioca all’interno del cimitero non è soltanto quella dell’aumento dei prezzi in cambio di un aumento dei servizi. La questione è più complessa e i sindacati mostrano segni di preoccupazione. “All’interno del cimitero lavoravano cinque ditte edili, con circa una decina di operai. Ora queste ditte – spiega Stracquadanio - sono in seria difficoltà perché Zaccaria ha un monopolio di fatto. Questi lavoratori porteranno soldi a casa non per molto tempo ancora. Che futuro avranno? Saranno lasciati per strada?”. È chiaro che la Edilzeta nella realizzazione dei loculi sui suoli ottenuti in concessione dai cittadini ha una posizione di vantaggio. Anche questo si sapeva, ma cosa si farà per gli operai che rischieranno di perdere il lavoro? C’è confusione anche per i venditori di fiori. “Saranno trasferiti in alcuni box che stiamo realizzando” spiega Zaccaria. Ma qualcuno ha ancora delle perplessità. L’amministrazione capeggiata da Buscema ha più volte rassicurato chi temeva i rischi di una gestione privata. Per il primo cittadino una commissione di saggi controllerà che tutto sia regolare. Ma ad oggi nessuno ha visto né i saggi né la commissione.


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B A C H E C A

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Sicilia/Ambiente

Un ponte d'inquinamento tra Sicilia e Calabria Sul versante tirrenico del messinese il colosso Terna vuole piazzare un gigantesco elettrodotto. I cittadini protestano. Ma invano di Carmelo Catania

senti il presidente di Terna, Luigi Roth (uno dei pezzi grossi della Compagnia delle opere di CL) e l’amministratore delegato, Flavio Cattaneo, è stato definito dall’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo «Un’infrastruttura che migliora l’ambiente, il territorio perché avremo una minore emissione di CO2, 670 mila tonnellate in meno all’anno. E questo è uno straordinario aiuto al Paese a raggiungere gli obiettivi europei e internazionali. Quindi, un passo concreto per un Sud, una Sicilia che ha bisogno di occupazione , di sviluppo, di competitività.» Decidono le Giunte

C’è un altro ponte tra la Sicilia e la Calabria che alimenta il dissenso di molti cittadini siciliani e calabresi, è il cosiddetto “ponte dell’energia”, un nuovo elettrodotto Terna, l’importante società a controllo pubblico e quotata in Borsa che possiede e gestisce la rete di trasmissione elettrica italiana. L'infrastruttura, il cui iter è iniziato nel 2004, è un’opera, per la quale il gestore prevede un investimento di oltre 700 milioni di euro, con una capacità di 2.000 megawatt di 105 km di lunghezza complessiva di cui 38 in cavo sottomarino, 61 km in linea aerea e 5 km in cavo interrato. Unico al mondo Da Rizziconi, in Calabria, i cavi si immergeranno nel mar Tirreno a Favazzina, per poi approdare in corrispondenza del torrente Gallo a Villafranca Tirrena, in Sicilia, da dove partirà il collegamento aereo che attraverserà tutta la fascia collinare del versante tirrenico della provincia messinese, fino alla stazione elettrica di Sorgente-Corriolo, a San Filippo del Mela. Presentato in pompa magna al Palacultura di Messina nel giugno del 2011, pre-

Per l’ad Terna, Flavio Cattaneo la nuova infrastruttura annullerà «tutti questi black out quotidiani che abbiamo in diverse zone della Sicilia. Oltre a far risparmiare 800 milioni di euro all’anno in bolletta.» I lavori dovrebbero terminare per la fine del 2013, e la struttura diventare operativa tra la fine 2013 e l'inizio 2014. Dalle 670.000 tonnellate in meno l’anno di emissioni di CO2 ai 10.000 metri quadri di territorio non occupato, sono tanti i grandi “numeri” dell’opera sciorinati da Terna sul suo sito ufficiale. Eppure tra questi ce n’è uno, piccolo piccolo, che invece è rimasto nel silenzio più totale da parte degli organi di stampa nazionale. Sono 21 comuni coinvolti tra Sicilia (13) e Calabria (8). Dalla dorsale peloritana e della valle del Mela, nel messinese, alle zone di Cosoleto, Sinopoli, Sant’Eufemia D’Aspromonte e Scilla in Calabria. Nonostante la fase di concertazione fosse partita nel settembre 2005 per concludersi a gennaio 2007 con la firma del Protocollo di Intesa tra Terna, la Regione Sicilia, la Provincia di Messina e tutti i Comuni interessati con il quale è stata condivisa la localizzazione del nuovo elettrodotto, non sono mai stati sentiti i consigli comunali e tutte le decisioni sono state prese con delibere di giunta.

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Le proteste A metà del 2010, si scopre l’esistenza del progetto e si diffonde tra i cittadini dei comuni coinvolti la notizia che l’elettrodotto transiterà vicinissimo ai centri abitati. Preoccupati per le possibili ricadute sulla salute e sul territorio – l’elettrodotto ricade infatti in parte nell’Area ad Alto Rischio Ambientale del Mela interessa aree Zps, Sic riconosciute da norme comunitarie e contrasta con piani paesaggistici e con la tutela dell’avifauna – iniziano a formarsi diversi comitati e movimenti “no elettrodotto” e partono le prime iniziative di lotta: petizioni, manifestazioni, appelli al Governo nazionale e al Capo dello Stato – caduti nel vuoto – fino ad arrivare alla recente clamorosa occupazione di un traliccio dell’alta tensione. Il quartiere delle parrucche A Pace del Mela ad esempio il tracciato di elettrodotto passerà all’interno del centro abitato di Passo Vela, una zona che già risente in maniera pesantissima dall’accumulo di fattori inquinanti, dove per i progetti di elettrificazione precedenti ed un errato modello di sviluppo economico, basato sull’industria pesante ad elevato impatto industriale, si registrano già centinaia di morti sospette per tumori o altre malattie dipendenti da inquinamento ambientale. Tristemente noto è, proprio per questo, il “quartiere delle parrucche”, dove ogni anno decine e decine di persone si ammalano e muoiono. Un traliccio in mezzo al parco Un altro centro interessato è Serro, frazione di Villafranca. Qui è prevista l’installazione di uno dei tralicci al centro del parco urbano di Pietra Giuliana, il luogo della memoria dei serrentini, meta delle passeggiate estive, luogo di incontro dei giovani, di spettacoli musicali spontanei.


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Il traliccio di 80 metri con i cavi verrebbe posto sulla strada che porta al vicino Puntale Serra, punto panoramico di notevole bellezza e di visione di impareggiabili tramonti. La strada è percorsa continuamente per raggiungere le altre abitazioni della zona, le vicine campagne, una struttura di ristorazione posta sulla collina. Tutto l’elettrodotto che riguarda Serro ricade all’interno di una delle citate Zone di Protezione Speciale. Il ricorso al Tar Contro l’autorizzazione unica rilasciata per decreto dal ministero dello Sviluppo economico nel luglio 2010 di concerto col ministero dell’Ambiente, hanno fatto ricorso al Tar del Lazio Legambiente, i Comuni di Pace e S. Filippo del Mela, gli abitanti di Serro e l’associazione MAN. La pronuncia del tribunale amministrativo emessa lo scorso novembre è però risultata favorevole a Terna. Nel rigettare i ricorsi i giudici sottolineano come «non sia mancato il coinvolgimento degli enti locali nel procedimento di autorizzazione unica e nei sub-procedimenti di “Valutazione d’impatto ambientale”, preceduti da interlocuzioni, tavoli tecnici, sopralluoghi, protocolli d’intesa (ricordato quello del gennaio 2007) e di programma con le Regioni (2004)»

Ed è proprio sulla “leggerezza” dei sindaci che punta l’indice padre Trifirò, parroco di Archi e San Filippo del Mela, secondo il quale nel firmare quel protocollo d’intesa i primi cittadini sarebbero stati «molto faciloni» e avrebbero fatto «tutte le cose di nascosto» perché «non si sono resi conto del danno che procuravano alla comunità». Terna non fa un passo indietro Sorda alle proteste dei cittadini e “infastidita” dalla campagna contro il progetto, Terna non intende fare passi indietro «non è accettabile – si legge in un comunicato diffuso all’indomani dell’occupazione del traliccio di Passo vela – che dopo anni e anni di incontri, tavoli tecnici e protocolli firmati dalle amministrazioni competenti, un’opera fondamentale per la sicurezza del sistema elettrico siciliano e per abbattere i costi della bolletta a beneficio di imprese e cittadini, venga continuamente osteggiata senza tenere nel minimo conto che il progetto ha ottenuto tutti i permessi ed è stato regolarmente autorizzato dal governo centrale che, fino a prova contraria, ha l’ultima parola su opere simili». Per Terna, sulla base di uno studio realizzato dall'ingegnere Vittorio Cecconi «non ci sono casi conclamati di relazione tra le esposizioni alle onde elettromagne-

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tiche e i danni alla salute dei cittadini e che non è perseguibile, per la tratta dell’elettrodotto nell’area di Villafranca e Pace del Mela, la soluzione interrata». Due cantieri già aperti Sono già due sono i cantieri aperti sul territorio comunale di Villafranca, in fase molto avanzata. Quello sulla spiaggia di Divieto, vicino all’area industriale ex Pirelli e a pochi chilometri di distanza il secondo che servirà alla realizzazione, a ridosso di una montagna, della stazione elettrica di Villafranca. Opera strategica. Ma per chi? Nonostante la Sicilia produca più di quanto consumi – il bisogno di energia della Sicilia è di circa 300 chilowattora al giorno e già da fonti alternative ne arrivano 2700 – e paghi da svariati anni un costo dell’energia elettrica quasi raddoppiato rispetto all’Italia continentale – così come testimoniano gli ultimi dati tra il 2005 e il 2010 registrati dall’Autorità per l’energia – Terna sta focalizzando la sua attenzione proprio sull’Isola e nel 2011 è stato ulteriormente rafforzata la collaborazione con la Regione con la firma di un accordo per lo sviluppo sostenibile della rete elettrica, integrando il protocollo Vas del 2007.


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Per Cattaneo la Sicilia «è un nodo strategico e questo nuovo elettrodotto è un tassello ulteriore per fare dell’Italia un vero e proprio hub elettrico del Mediterraneo per la trasmissione di energia elettrica. La Sicilia è una piattaforma energetica ideale anche per la sua conformazione geografica per connettere tra loro il Nord Africa e la sponda sud del bacino del Mediterraneo e del centro Europa». Nelle bollette per 40 anni... Complessivamente sono previsti in Sicilia investimenti per 1 miliardo di euro sui complessivi 7,5 a livello nazionale. Oltre al “Sorgente-Rizziconi” sono previsti altri due mega elettrodotti a 380 kV, il “Paternò-Priolo”, nell’area compresa tra Catania e Siracusa e il “Chiaramonte Gulfi-Ciminna” tra Ragusa e Palermo. Completeranno l’anello che circonderà tutta l’Isola la linea “Partanna-Ciminna”, la “Sorgente-Ciminna”, entrambe a 380 kv – in fase di concertazione – e la linea a 150 kV “Partinico-Fulgatore”. Chi pagherà? I costi saranno diluiti sulle bollette dei prossimi 40 anni.

Inter viste/ Nino La Rosa

“Via Terna dalle nostre case”

Con “politici locali poco sensibili alle tematiche ambientali” tocca ai cittadini far sentire la propria voce...

Nino La Rosa, avvocato di Villafranca Tirrena, è stato tra i primi ad opporsi al progetto di realizzazione dell’elettrodotto Terna tra Sorgente e Rizziconi, fa parte del pool di legali che sta contrastando il progetto di Terna davanti ai giudici amministrativi. Ascoltiamolo. Per padre Trifirò i sindaci sono stati «molto faciloni» e hanno fatto «tutte le cose di nascosto». Condivide questa sua valutazione o c'è qualcos'altro dietro il comportamento ambiguo tenuto in questi anni dalle amministrazioni locali?

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I nostri politici sono notoriamente poco sensibili alle tematiche ambientali; nel caso specifico, Terna si è presentata al tavolo di concertazione sventolando ben nove milioni di somme compensative da dividere. Come ha dichiarato qualche Sindaco, l’unica preoccupazione è stata quella di ottenere il più possibile senza valutare che un’opera di queste dimensioni incide in maniera irreversibile nel territorio. 9 milioni di ragioni Purtroppo, la possibilità di offrire somme a compensazione altera la serenità del confronto tra chi ha tutto l’interesse a realizzare l’opera nella maniera più economica e gli amministratori degli enti locali sempre alla ricerca di soldi per le opere pubbliche.


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“Senza il coinvolgimento dei rappresentanti dei cittadini”

Il ruolo della Provincia

Caso emblematico della disattenzione dei tecnici di Terna e dei tecnici e gli amministratori comunali è quello della frazione Serro del Comune di Villafranca Tirrena dove, con un semplice e poco costoso spostamento del tracciato, si sarebbe abbattuto del 70 % l’impatto e l’interferenza con il centro abitato. Nel rigettare i ricorsi promossi dai comuni di Pace del Mela e San Filippo del Mela e dai cittadini di Serro, i giudici sottolineano come «non sia mancato il coinvolgimento degli enti locali nel procedimento di autorizzazione unica e nei subprocedimenti di “Valutazione d’impatto ambientale”, preceduti da interlocuzioni, tavoli tecnici, sopralluoghi, protocolli d’intesa (ricordato quello del gennaio 2007, ndc) e di programma con le Regioni (2004)». Pensate di poter ribaltare in appello la decisione dei giudici romani? Il ricorso in appello Innanzitutto sono stati rigettati in primo grado solo i ricorsi dei Comuni di Pace e San Filippo del Mela e dei 101 ricorrenti di Serro; i ricorsi delle Associazioni MAN e Legambiente Sicilia non sono stati ancora discussi dal Tar del Lazio. I nostri ricorsi erano imperniati su diversi motivi di impugnazione della procedura di autorizzazione che continuiamo a ritenere fondati. La Sentenza del Tar del Lazio è eccessivamente generica e priva

di precisi riferimenti sia alla disciplina applicabile, sia alle vicende procedimentali sottese al rilascio dell’autorizzazione unica. È mancato il coinvolgimento dei consigli comunali – organi rappresentativi della volontà popolare e titolari della potestà in tema di programmazione del territorio; è mancato il coinvolgimento delle popolazioni che dovranno subire gli effetti di un’opera di così alto impatto ambientale. Noi auspichiamo che un’analisi più approfondita delle argomentazioni proposte, con un criterio paritario delle parti in causa, possa sicuramente orientare il Consiglio di Stato verso una revisione della procedura che consenta a tutti gli interessati di partecipare alla procedura. Con Terna o coi cittadini? In una nota del comitato del sei dicembre scorso si legge che "La Provincia, per mezzo del suo assessore all’ambiente Carmelo Torre, ha affossato nello scorso mese di settembre il tavolo tecnico faticosamente attivato su spinta del Consiglio Provinciale e delle associazioni ambientaliste, schierandosi apertamente con la società Terna, intimidendo le associazioni, escludendole dal tavolo, e chiedendo alle stesse di dare la prova delle criticità denunciate. Perché la giunta provinciale - a differenza del consiglio - sembra pendere più dalla parte di Terna che da quella dei cittadini?

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Grazie anche all’azione di diversi consiglieri, alla fine di febbraio si è tenuto un consiglio provinciale aperto dove le associazioni ambientaliste, i sindaci del territorio e gli stessi consiglieri provinciali hanno preso coscienza, alla presenza dei tecnici di Terna, delle problematiche sollevate dal progetto; il consiglio ha votato all’unanimità una mozione che impegnava l’Amministrazione Provinciale a chiedere a Terna una revisione del progetto. Due milioni di compensazione Su questo aveva preso un preciso impegno il Presidente Ricevuto; gli stessi concetti sono stati ribaditi in occasione della riunione del 7 agosto dopo che Terna aveva presentato il progetto esecutivo. Al tavolo tecnico del 21 settembre, dopo che l’Assessore Torre si è rifiutato di allargare la delegazione delle associazioni (era stato chiesto di far partecipare un rappresentante per ogni zona dove era emersa la criticità), invece di discutere sugli interventi per l’eliminazione delle criticità si è chiesto alle associazioni di “dimostrare che vi erano delle criticità”. Terna, con il supporto della Provincia, ha fatto passare la tesi che bisognava dimostrare che vi erano delle persone (definite recettori) che sarebbero state danneggiate dall’inquinamento elettromagnetico. Non dobbiamo dimenticare che la Provincia di Messina ha svolto un ruolo di coordinamento per la stipula della convenzione del 27/1/2007 e che riceve una compensazione di due milioni di euro. Terna procede nella realizzazione dell’opera e risponde alle preoccupazioni per la salute con uno studio realizzato dall'ingegnere Vittorio Cecconi, secondo il quale «non ci sono casi conclamati di relazione tra le esposizioni


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alle onde elettromagnetiche e i danni alla salute dei cittadini» Possibile che non esistano alternative che siano rispettose delle istanze della popolazione? Le alternative ci sono L’ingegnere Cecconi è un consulente di Terna, non sappiamo se pagato o no, ma non ha alcun titolo professionale per escludere tassativamente, come ha fatto, gli effetti negativi di un’esposizione al campo elettromagnetico a bassa frequenza. È un ingegnere, non un medico. Diversamente avrebbe ben presente il Principio di Precauzione del Trattato della Comunità Europea. Basti pensare al parere diametralmente opposto dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, ai ripetuti documenti dell’Istituto Superiora di Sanità e al grande dibattito in corso sull’argomento sin dal 1994 presso la Comunità Europea. Impedita ogni discussione Purtroppo, il documento presentato da Cecconi, alla riunione del 21 settembre 2012 (ma inoltrato prima alla provincia regionale) è stato fatto proprio dalla Provincia per impedire qualunque discussioni, alla faccia dell’abbondantissima letteratura reperibile su Internet da un qualunque lettore di buona volontà. In merito alle diverse soluzioni, l’asserzione del prof. Cecconi è priva di fondamento ed è in contrasto con quanto

ripetutamente dichiarato dai vari tecnici di Terna in occasione dei numerosi incontri in merito ai costi o agli spazi necessari. In Calabria, per esempio, è previsto un tratto in galleria, come richiesto dalla Soprintendenza, per lo stesso progetto di elettrodotto. Terna deve fare marcia indietro Il fatto è che mentre per le altre regioni le diverse soluzioni sono state discusse e scelte in una fase preliminare, in Sicilia le istituzioni interpellate non hanno certamente brillato per la tutela del territorio e dei cittadini. Terna ora deve difendere delle scelte, quando pensava già di avere superato tutti gli ostacoli ed ha ovviamente difficoltà a fare marcia indietro. Non siamo noi a dover dare indicazioni sulle scelte tecniche; Terna aveva ed ha il dovere di progettare e realizzare un elettrodotto che tenga conto delle istanze, ed anche delle paure, delle popolazioni nel rispetto dei principi che salvaguardano la salute, ma anche nel rigoroso rispetto dell’art. 9 della Costituzione che obbliga alla tutela del paesaggio quale risorsa per la nostra vita e la nostra economia. All'indomani dell'occupazione del traliccio di Passo Vela da parte di alcuni esponenti delle associazioni "no elettrodotto", il presidente della regio-

Sebastiano Gulisano Frammenti d'Italia

“Oggi, in tempi di liberismo sfrenato, di Unione europea solo bancaria (i popoli possono aspettare), di compressione dei diritti individuali, di macelleria sociale, di crisi economica, le mafie – non più e non solo quelle italiane, ma anche tante straniere – si sono insediate su tutto il territorio nazionale, controllano ampie fette di economia legale, “pesano” sul Pil più della Fiat e sono le sole a possedere enormi liquidità di denaro che consentono alla Nazione di non dovere dichiarare bancarotta o, come si dice ora, default.

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“La Regione dovrebbe chiedere la revisione del progetto”

ne Crocetta ha disposto l'invio di ispettori nell'area interessata dai lavori dell'elettrodotto aereo e per ascoltare anche i comitati e i cittadini del comprensorio. Ritieni che questo porterà a dei passi concreti nella revisione del progetto di Terna? Confidiamo in Crocetta In situazioni normali la Regione non dovrebbe più poter incidere sull’iter del progetto. Noi non sappiamo quali argomenti ha Crocetta, così come non sappiamo con quali argomenti Terna ha ottenuto per il progetto una attenzione particolarmente favorevole. Esempio: come ha fatto la Regione a dimenticare nel febbraio 2010 che già nel giugno del 2009 aveva approvato il Piano di Gestione della ZPS Monti Peloritani, che prevede l’obbligo di effettuare i nuovi elettrodotti con interramento? (non esiste negli atti una motivazione sulla disattenzione a questa prescrizione di Piano, pur nell’ambito dello stesso Assessorato Regionale Territorio e Ambiente). Auspichiamo, però, un intervento politico a difesa dell’autodeterminazione delle popolazioni interessate; speriamo che il Presidente Crocetta chieda a Terna una revisione del progetto per renderlo compatibile con la valorizzazione del pregevole territorio che possa servire ad un rilancio economico dei paesi della fascia tirrenica.

Frammenti d’Italia allinea una serie di istantanee di pezzi Paese, fino a ricomporne l’insieme, attraverso sedici testi più una notizia d’agenzia (con l’aggiunta delle “note”, cioè dei link di approfondimento che ne fanno un prodotto multimediale), dalle stragi del ’92 ai giorni nostri, facendo intravvedere come la Repubblica che verrà sia pericolosamente vicina a diventare Repubblica criminale”.


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Antimafia/ Bologna

Un Master sui beni confiscati intitolato a Pio La Torre Per formare dei giovani professionisti in grado di gestire i beni e le aziende confiscate alla mafia

quere di tipo mafioso all’interno del nostro codice penale ed ha indicato la confisca dei beni ai mafiosi come uno tra gli strumenti più efficaci di contrasto alla criminalità organizzata.

di Salvo Ognibene

Il 30 aprile 1982, Pio La Torre viene ucciso da Cosa Nostra, ma per l’emanazione della legge n. 646/1982, cosiddetta “Rognoni-La Torre”, si dovranno attendere ancora quattro mesi ed un’altra morte, quella di Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto di Palermo. A completare il percorso ci penseranno la legge n. 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, il 7 marzo 1996, voluta fortemente dall’associazione Libera e l’istituzione dell’Agenzia nazionale (istituita con d.l. 4/2010), che si occupa dell’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie. Il Master è rivolto soprattutto a professionisti che vogliano rivestire il ruolo di amministratori giudiziari di beni e/o aziende confiscati alla criminalità organizzata, funzionari e/o dipendenti di Enti Locali. Il Master, che si concluderà a luglio, è iniziato lo scorso 23 novembre ed ha visto salire in cattedra, alla prima lezione, oltre che la Prof.ssa Stefani Pellegrini, anche il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri ed il Dott. Antonio Nicaso. Come si dice, chi ben comincia è a metà dell’opera.

La legge La Torre

www.diecieventicinque.it In Italia esiste un patrimonio che rischia l’abbandono: ville, aziende, case e terreni edificabili. Sono quei beni confiscati alle mafie e condannati al degrado dalla burocrazia. Bologna, profondo sud, dove fino a pochi anni fa la mafia “non esisteva”: è proprio qui che si è dato vita al primo Master Universitario annuale in gestione e riutilizzo di beni e aziende confiscati alle mafie, intitolato a Pio La Torre. S’inserisce in quel percorso portato avanti in questi anni dalla Prof.ssa Stefania Pellegrini, docente di Mafie e Antimafia e direttrice del Master, e dalla sua cattedra. Negli ultimi due anni ha dato vita ad un laboratorio di giornalismo, coordinato da Gaetano Alessi, che insieme ad alcuni studenti ha realizzato due dossier sulle mafie in EmiliaRomagna. (scaricali qui: http://www.diecieventicinque.it/2012/08/07/ii-dossier-sulle-mafie-inemilia-romagna/ )

Oggi in Emilia Romagna dei 110 beni confiscati negli ultimi sedici anni, solo 55 sono stati destinati e assegnati. Si tratta di un tesoro confiscato alle mafie che non viene riutilizzato per problemi burocratici o per mancanza di risorse e di competenze adeguate. Dalla custodia alla confisca Il Master in oggetto si propone di formare professionalità in grado di gestire un bene o un’azienda dal momento della custodia a quello della confisca, per poi divenire oggetto di una richiesta di assegnazione a fini sociali e ritornare a produrre una ricchezza “sana”, diversamente da come accadeva quando era di proprietà delle mafie. Al Deputato siciliano, Pio La Torre, si deve la proposta di una legge che ha introdotto il reato di associazione a delin-

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MAMMA

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Periferie/ I beni confiscati

Confiscati ai mafiosi e lasciati a marcire: usiamoli per i quartieri! Chiediamo un uso sociale dei beni confiscati. Restituiamoli ai quartieri. E uno, destiniamolo a Casa dell' informazione nel nome di Giuseppe Fava di Giovanni Caruso www.associazionegapa.org/i-cordai.html Prima di scrivere questo pezzo avevo bisogno di respirare l’aria di via Caprera dove è stato abbattutto l’immobile confiscato alla mafia. Seduti sulla panchina, Domenico mi descriveva il luogo, circondato da case basse più o meno fatiscenti e una casa restaurata e ben tenuta, quella di Santo Mazzei. Mi si avvicina una signora: “Buongiorno, si ricorda di me, sono Anna del comitato delle “donne madri” che occupò l’Andrea Doria”. - “Si certo che mi ricordo…” Anna: “Certo è stato un bellissimo momento, l’occupazione dell’Andrea Doria… adesso i miei figli frequentano le scuole superiori e forse è merito di quella lotta”. Ritornando sui nostri passi, pensavo a quei giorni: l’occupazione, le assemblee i momenti divertenti, la prima vittoria contro lo sfratto e quella lista civica del 2008 per il consiglio di quartiere dove “brindammo per la sconfitta” felici per aver fatto un percorso democratico e di base.

*** Dal Giornale di Sicilia 28 novembre 2012 “Quanto avviene oggi – ha detto Raffaele Stancanelli - ha una valenza non solo simbolica ma anche concreta perché l’immobile confiscato fu realizzato con una copertura in amianto con rischi per la salute dei cittadini… questo è un segnale di legalità forte e chiaro da parte di tutte le istituzioni per lottare concretamente la mafia e le organizzazioni criminali. In sostituzione di questo rudere sorgerà una piccola piazzetta, recuperando uno spazio per la pubblica fruizione in uno dei quartieri più disagiati della città. Proseguiamo in questa azione di legalità fatta di gesti e atti concreti e non di parole che restituisce alla legge situazioni che da tempo erano rimaste sospese”. *** “Bravo! Il nostro sindaco Stancanelli è proprio bravo!” In queste parole ci sono alcune contraddizioni. La prima è sicuramente, secondo noi, e per i motivi raccontate alle cronache di questi ultimi anni, Stancanelli e la sua amministrazione non brillano per legalità. La seconda contraddizione è tutta lì nel quartiere di San Cristoforo davanti a noi, davanti ai nostri occhi. Se il sindaco Stancanelli ha realmente a cuore la lotta alle mafie e all’illegalità dovrebbe guardare prima le illegalità istituzionali che si compiono quotidianamente nel quartiere di San Cristoforo: povertà, evasione scolare, chiusura per sfratto della scuola media Andrea Doria, le piazze abbandonate alla mafia e allo spaccio, come piazza Don Puglisi, piazza Don Bonomo e l’area verde attrezzata di via De Lorenzo, realtà che il sindaco Stancanelli non può negare.

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Più volte abbiamo descritto su queste pagine le condizioni delle piazze citate che Sindaco, Municipalità, forze dell’ordine, Magistratura e Prefettura nonostante le denuncie, le tante parole scritte, le immagini mostrate fanno finta di non vedere e di non sentire. Non vedono e non sentono Abbiamo qualche dubbio che quella stalla di via Caprera 28 confiscata alla famiglia Mazzei andasse abbattuta; ci sta bene che sia diventata una piazzetta, ma non ci starà bene se verrà abbandonata come le altre piazze che dovevano essere luoghi di svago e di libera fruizione per i cittadini e le cittadine di San Cristoforo, per i loro figli e figlie luoghi di incontro e di aggregazione. Questo non è, perché la gente ha paura dei motorini che scorazzano, dei pusher che vendono tutti i tipi di droghe e molte volte anche sotto gli occhi delle forze dell’ordine. Il controllo mafioso sul territorio Comprendiamo che le ormai prossime elezioni del sindaco di Catania sono vicine e che il nostro “bravo sindaco” legittimamente si faccia la propria campagna elettorale e che mostri il suo “volto pulito” di buon amministratore; ma sappiamo anche che conosce la situazione di quelle piazze che non può o non vuole recuperare o perché sa in quali situazioni disastrose versano o perché non vuole spezzare gli equilibri del controllo mafioso sul territorio.


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“Vogliamo davvero recuperare le piazze che adesso sono in mano a mafiosi e spacciatori?”

Crediamo che sia necessario recuperare quelle piazze, oggi, chiamate “piazza della cocaina” e “super market della droga” e riconsegnarle agli abitanti del quartiere con una buona sorveglianza delle istituzioni. Pensiamo che l’immobile di via Caprera 28, magari bonificando soltanto il tetto in amianto, potesse a parer nostro diventare un presidio sociale consegnato a un associazione. Prendiamo per buone le parole del sindaco e gli chiediamo con fermezza di “liberare” e assegnare quei sessanta beni confiscati alla mafia che dovrebbero essere assegnati alle organizzazioni sociali, senza dover aspettare quindici

anni come accaduto per via Caprera, o chiudere dopo averlo assegnato, i locali del Centro Astalli nel quartiere di San Giorgio o mettere paletti e difficoltà nei locali di via Anapo destinati all’Associazione Fiadda Onlus che non ne usufruisce pur pagando il condominio del bene confiscato e pagando l’affitto di un’altra sede per poter operare. Insomma che non scoraggi e anzi involi i tanti giovani organizzati, che di questi beni confiscati potrebbero realizzare luoghi di lavoro, in un momento così delicato per la nostra economia e punti di riferimento per i quartieri più disagiati di Catania. Assegnare davvero i beni confiscati Proponiamo e chiediamo al signor sindaco, alla Prefettura e alla Magistratura di essere coerenti e di accellerare in collaborazione con l’”Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata”, l’assegnazione di tali beni e l’attivazione di contributi per il restauro degli stessi, in modo da non costringere le associazioni a rivolgersi alle banche a cui poco importa di finanziare cooperative e organizzazioni sociali. Chiediamo a questi organi una conferenza dei servizi per agevolare la consegna dei beni confiscati. Chiediamo che due di questi beni con-

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fiscati siano assegnati, uno per adibirlo alla “Casa delle associazioni” prive di sedi, e una seconda alle testate giornalistiche cartacee e on line che tanta buona informazione danno a questa città, intotolandola al giornalista ucciso dalla mafia nel 1984, Giuseppe Fava; testate che sono reale alternativa, per un giornalismo di verità, al monopolio dell’informazione a Catania da parte de “La Sicilia”. Belle parole e comizi elettorali Solo in questo modo le sue belle parole, caro signor sindaco Stancanelli, avranno un valore e nessuno potrà dire nei prossimi mesi che quelle parole erano solo un comizio elettorale. I beni confiscati alle mafie appartegono alla collettività, e possono creare lavoro ed essere volano per una nuova economia. Né il Comune né gli altri enti preposti alla loro assegnazione possono “incatenarle” con la burocrazia e tante altre scuse. Sulla porta di quella stalla, in via Caprera, vi era scritto, “ Faveti i cazzi vostri”, l’intimidazione era chiara ma noi non ci facciamo intimidire né dalla mafia né dalla cattiva politica. Al Procuratore della Repubblica di Catania, Giovanni Salvi chiediamo che attivi tutti i poteri di sua competenza per accellerare le procedure di assegnazione dei beni confiscati. Una casa dell'informazione Per quanto riguarda le testate che compongono la rete de “I Siciliani giovani” da subito inizieremo questa battaglia che finirà soltanto quando avremo la casa “dell’informazione libera e indipendente” chiamata “Giuseppe Fava”.


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UNA STORIA ESEMPLARE

IL BENE CONFISCATO E ABBATTUTO A SAN CRISTOFORO IN VIA CAPRERA

Il bene confiscato alla mafia al numero civico 28 di via Caprera, di appena 32 mq, apparteneva alla famiglia mafiosa di Santo Mazzei, soprannominata “i carcagnusi”, famiglia legata alla cosca Santapaola. Santo Mazzei sconta il 41bis e fu nominato “uomo d’onore” dallo stesso Riina nel 1992. Il bene fu confiscato alla suddetta famiglia nel 1992 ed era adibito a garage o stalla abusiva, dove si tenevano i cavalli per le corse clandestine. Rispetto a tutte le altre case questa piccola costruzione era ben curata e sulla porta c’era scritto a mo’ di intimidazione “fatevi i cazzi vostri”. Nel 1999 il bene confiscato fu assegnato al Comune di Catania, che avrebbe dovuto utilizzarlo come suggeriva l’Ente di recente costituzione “Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata”, per fini sociali. Il suggerimento che dava l’Agezia era una scelta di buon senso, in quanto il quartiere di San Cristoforo è un quartiere che presenta problematiche assai gravi come: fatiscenza e precarietà degli edifici, assoluta mancanza di spazi pubblici, di verde e di servizi, e un alto tasso di dispersione scolastica e criminalità, considerando che le strade del quartiere sono prive di segnaletiche stradali, che indicano divieti o direzioni, insomma, una vera “anarchia” urbanistica. Il controllo del territorio da parte della criminalità organizzata individua immediatamente il “forestiero” e a chi chiedeva cosa accadeva al civico 28 di via Caprera difficilmente avrebbe avuto delle informazioni. Smentiti i dati del Comune Nella lista dei beni confiscati in possesso della Prefettura e in quelle del Comune di Catania il civico 28 risulta un rudere, in netta discordanza con il parere dell’Agenzia. Il Comune sosteneva che fosse un rudere pericoloso per le case vicine e perché poteva essere utilizzato come deposito per nascondere armi o altri affari illeciti. Ma l’immobile smentiva le cose dette dal Comune. Eppure la legge, prima delle modifiche

apportate dalla norma n. 50 del marzo 2010, non prevedeva la demolizione di un bene dello Stato. La concessione di poterla abbattere fu data a patto che l’area venisse utilizzata per scopi sociali. Il Comune, che all’ultima richiesta di aggiornamento della Prefettura aveva risposto che il locale non era ancora stato demolito perché era indeciso su cosa farne e come utilizzarlo, ha difatto nel mese di novembre dello scorso anno, demolito quello che definiva un rudere. Nell’elenco dell’Ente di recente costituzione al quale spetta in via esclusiva il potere decisionale sui beni confiscati, l’edificio di via Caprera risulta essere consegnato come sede per le organizzazioni sociali. A nostro parere l’indicazione dell’ Agenzia era più che giusta in quanto in quel luogo si sarebbe potuto creare un presidio di legalità e per la politica sociale. Quello di via Caprera a Catania è solo uno dei sessanta beni, aziende escluse, confiscati nel Comune di Catania per un valore di quasi 8,5 milioni di euro. Di questi solo cinque sono utilizzati. Fra i beni consegnati e utilizzati c’è quello di via Grasso Finocchiaro, 112 a Catania nel quartiere di Picanello al coordinamento provinciale dell’Associazione “Libera” di Catania e all’Associazione “Addio Pizzo”. Quest’ultimo è un appartamento trovato in condizioni fatiscenti e che è stato recuperato e restaurato dopo diversi anni grazie ai contributi dei fondi speciali della Provincia Regionale di Catania la cui inaugurazione fu fatta alla presenza del presidente Castiglione.

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Mentre invece il bene cosegnato al Centro Astalli che lavora a sostegno e all’assistenza degli emigranti e sito nel quartiere di San Giorgio a Catania, dopo poco tempo dalla cosegna è stato sequestrato perché pare non avesse le caratteristiche indicate dalle normative sulla sicurezza per gli stabili. Infine c’è da dire che i contratti di comodato d’uso gratuito stipulati dal Comune di Catania sui beni confiscati è di appena solo due anni, il che è un tempo troppo breve e scoraggia le tante organizzazioni sociali che volessero chiedere l’utilizzo di un bene confiscato, così come è successo all’Associazione Fiadda Onlus una delle prime a chiedere l’utilizzo di un bene confiscato alla mafia all’allora sindaco di Catania Scapagnini, confiscato nel 1986 al boss Benedetto Santapaola e assegnato al Comune fin dal 1999. Assegnati solo per finta Da allora è stata una lunga battaglia e attesa, fino a quando nel 2009 l’appartamento è stato assegnato. Per questo bene è già stato stanziato un finanziamento, ma i lavori non sono ancora iniziati. L’Associazione è costretta dunque a operare in un’altra sede per la quale paga 800 euro di affitto, che si sommano alle 35 euro di condominio che l’Associazione versa per l’appartamento di via Anapo da quando ha stipulato il contratto di comodato d’uso col Comune da soli due anni. G.C


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“Già nel 2004 gli studenti del Galilei, guidati da un vecchio militante dei Siciliani, avevano iniziato il censimento dei beni mafiosi” LICEALI CONTRO LA MAFIA

I TESORI MAFIOSI SMASCHERATI DAI RAGAZZI

di Elio Camilleri

A Catania i primi a fare una mappa dei beni confiscatisono stati gli studenti di un liceo col loro insegnante, un vecchio militante dei Siciliani. Non sono stati purtroppo presi a interlocutori dalle successive iniziative "ufficiali" sul tema. (r.o.)

La legge Rognoni La Torre (646/1982) aveva indicato come itinerario da percorrere quello del sequestro e della confisca dei tesori mafiosi accumulati con il traffico internazionale della droga, il racket, ecc. …, introducendo nel Codice Penale l’art. 416/bis che permise di delineare la particolarità dei reati e dei soggetti criminali. Nel corso dell’anno scolastico 2004/2005 un gruppo di studenti del Liceo Scientifico “Galilei” di Catania, coordinati dal sottoscritto, volle impegnarsi a svolgere, per la prima volta in Italia, una ricerca sul tema dei beni confiscati essendo motivati dalle seguenti curiosità: a) tenuto che dopo la legge Rognoni La Torre è stata promulgata la legge 109/1996, che disciplina, in particolare,

tutte le fasi successive al sequestro ed alla confisca dei beni mafiosi e ne indica le modalità di riconversione per fini sociali, quali obiettivi e risultati si sono effettivamente raggiunti in particolare a Catania e provincia? b) Quali sono stati gli effetti della costituzione di un Osservatorio permanente sui beni confiscati e della istituzione, nel 1999, di un Ufficio del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati? c) Quali sono state le conseguenze della soppressione dell’Ufficio del Commissario straordinario deliberata con decreto del Governo Berlusconi in data 23 Dicembre 2003? d) Quali problematiche ineriscono al tentativo governativo di riformare la legge 109/1996 e quali sono le preoccupazioni riguardo alla prosecuzione della lotta contro le organizzazioni mafiose? Abbiamo chiesto collaborazione ai Magistrati e prontamente si è reso disponibile il Dott. Vincenzo D’Agata, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Catania, la Dott.ssa Marisa Acagnino, consigliere di Corte

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d’Appello, il Dott. Alfio Spadaro, dirigente dell’Ufficio del Demanio di Catania, L’On.le Giuseppe Lumia, componente della Commissione Nazionale Antimafia, ha indotto, con una relazione efficace ed articolata, all’attenzione, alla riflessione ed all’impegno per la legalità tutti i giovani presenti in aula magna. In estrema sintesi abbiamo preso coscienza che: a) la confisca dei beni è, in sé, un formidabile strumento per fare indietreggiare l’offensiva mafiosa nel controllo del territorio. b) che si sono registrati gravi ritardi nella esecuzione delle confische e nell’assegnazione dei beni ai Comuni e allo Stato, c) che è in atto un tentativo di depotenziamento del progetto di smantellare i patrimoni accumulati dalle organizzazioni mafiose, d) che le organizzazioni mafiose denunciano grande sofferenza per l’attacco ai loro patrimoni e che, quindi, è assolutamente necessario insistere nel progetto di sequestro e confisca, e) che ogni incertezza e ritardo permette alle organizzazioni mafiose di acquisire e mantenere formidabili mezzi economici e di esercitare tutte le sciagurate pressioni possibili sul territorio. http://www.liceogalileict.it/Aulaperta/popdown.asp?cod=25


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Librino/ Il campo di San Teodoro

“Lo levo ai Briganti e lo dò ai salesiani...” Catania. Abbandonato dal Comune, restaurato dai cittadini, l'unico moderno campo sportivo della perferia rischia la fine. Il Comune non copre le spese. Non c'è un progetto. Affidarlo ai salesiani? La squadra di rugby del quartiere (che mesi gestisce il campo a sue spese) non ci sta di Federica Motta e Leandro Perrotta www.ctzen.it

«Il campo da rugby un oratorio? Non possiamo accettare che diventi un’altra cosa e che il lavoro svolto in questi mesi dai ragazzi del quartiere per renderlo nuovamente fruibile venga sminuito così». Piero Mancuso è il fondatore dei Briganti rugby di Librino, quartiere alla periferia sud di Catania dove non c'è niente.

Un dormitorio dove però dallo scorso 25 aprile un comitato locale, con in testa gli amanti della palla ovale, ha deciso di sostituirsi alle istituzioni e riqualificare l'impianto San Teodoro. Una mega struttura costruita per le Universiadi del 1997 che comprende due palestre, spogliatori, campo da calcetto e campo da rugby, costata 10milioni di euro e consegnata solo in parte nel 2003. “Settemila firme, e nessuna risposta” Adesso l'intenzione del Comune di affidare il campo ai salesiani fa infuriare i Briganti. «Sono stati i nostro ragazzi i primi a strappare l’erba e ripulire le palestre fino a renderle un luogo di incontro – racconta Mancuso – Da allora, qui, nessuno si è più permesso di sporcare o distruggere qualcosa». «Da aprile abbiamo raccolto e presentato al Comune oltre settemila firme per farci affidare ufficialmente la gestione del campo, ma non abbiamo mai avuto risposte concrete», lamenta Mancuso. «Alla fine, circa un mese fa, siamo stati finalmente convocati. Dal confronto è emerso che i salesiani sarebbero diventati beneficiari di una parte del campo, assumendo un ruolo di presenza salvifica per la struttura», racconta Mancuso. «Una situazione per noi inaccettabile. Si tratta chiaramente di un modo della vecchia politica di gestire i beni comuni con interessi privati. Non si spiegherebbe altrimenti perché a noi, che abbiamo ri-

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messo in sesto il campo, non possa essere affidata la gestione, mentre alla Chiesa sì». “Perché a noi no e alla Chiesa sì?” Intanto dal Comune nessuno conferma né smentisce la voce. «Di scritto non c’è nulla», dice l’ingegnere Orazio Palmeri, alla direzione dell’ufficio Patrimonio, a cui fa riferimento la gestione del centro sportivo. «Di certo il Campo San Teodoro fa parte di quel terreno che dovrà essere ceduto alla società che costruirà il nuovo stadio del Calcio Catania», continua Palmeri, ricordando il progetto del sindaco Raffaele Stancanelli, espresso pubblicamente circa un anno fa. E che, se dovesse concretizzarsi, cancellerebbe definitivamente il sogno dei Briganti di poter utilizzare il campo. “Nè conferme né smentite” Con la costruzione dello stadio, diventerebbe impossibile parlare di cessione del terreno. «Semmai di comodato d’uso gratuito per un paio d’anni ancora, in attesa che inizino i lavori», chiarisce Palmeri. D'altronde «per rimettere in sesto il centro sportivo, sarebbero necessari almeno 200 mila euro – continua - E considerato che tutti gli impianti sportivi della città sono in passivo, il Comune non può permettersi di investire in una struttura a scopo sociale senza averne un ricavo economico».


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Scheda BRIGANTE A CHI? La storia del campo San Teodoro nasce nei progetti del piano di zona Librino a metà anni '70 . La sua costruzione è iniziata però a metà anni '90, per essere utilizzato nel corso delle Universiadi siciliane del 1997, ma la consegna dell'impianto incompleto è avvenuta solo nel 2003, senza il previsto stadio da trentamila posti , ma con due campi di calcio e palestre per gli sport al chiuso. Il San Teodoro è stato utilizzato per la prima volta nel 2006, l'anno della fondazione della squadra di rugby dei Briganti. Nata per iniziativa del centro sociale Iqbal Masih di Librino, che da quasi vent'anni opera in una delle zone più problematiche della popolosa città satellite etnea, quella del palazzo di cemento di viale Moncada. Proprio di fronte a uno dei simboli più potenti del malaffare si estende l'area del San Teodoro. L'unico campo in erba sintetica completo dell'impianto sportivo è stato utilizzato fino al 2009, quando l'amministrazione comunale lo ha concesso in comodato d'uso al Catania calcio per realizzare una scuola calcio, mai avviata. Dopo anni di esilio dal quartiere, i Briganti hanno deciso di ripristinare l'area dove era previsto il secondo campo di calcio, da convertire al rugby. Un'impresa riuscita con sei mesi di lavoro. Ma l'uso ufficiale della struttura è impedito da una promessa dell'amministrazione comunale: realizzare in project financing il nuovo stadio da affidare al Catania calcio.

Una lettera all'assessore

Eppure grazie al lavoro degli attivisti del Comitato campo San Teodoro - formato dai Briganti rugby, dal centro Iqbal Masih e da molte altre realtà del volontariato sociale catanese - dove prima c'era una struttura abbandonata all'incuria e al vandalismo, adesso c'è un luogo di incontro, usato periodicalmente per attività sportive. E non solo. Il centro sociale del quartiere Mentre la domenica i Briganti, a fine partita, sfruttano alcune delle strutture a bordo campo per accogliere gli avversari durante il cosiddetto terzo tempo, nel resto della settimana il San Teodoro ospita concerti, rappresentazioni teatrali e persino un progetto di orto sociale. Il vecchio centro sportivo di Librino è diventato a tutti gli effetti il centro sociale che mancava ai ragazzi del quartiere, oltre a essere il campo d'allenamento che i Briganti, attivi in tutte le serie giovanili a partire dall'under 14, aspettavano da anni. A partire dal 25 aprile, giorno della Liberazione anche del campo, i volontari hanno zappato la terra ed estirpato le erbacce, anche nei giorni di festa.

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Un incontro ormai fisso, quello della domenica al campo, per dare una mano, incontrarsi, progettare e costruire, insieme. Tanti in città si sono uniti. Altri attivisti hanno appoggiato la brigata e aiutato i ragazzi a ripulire. Perfino i vertici della Federazione italiana rugby sono intervenuti. Il 19 marzo scorso, infatti, il presidente nazionale della federazione Giancarlo Dondi ha scritto una lettera all’allora assessore allo sport di Catania Ottavio Vaccaro, per sollecitare l'amministrazione nell'affidamento della struttura alla squadra di rugby. L'ennesimo appello caduto nel vuoto. Da qui l'occupazione, il lavoro continuo e la nascita del Comitato, qualche mese dopo. Fino ad arrivare ad oggi, al rischio che tutto possa essere gestito da altri. “Non molleremo” «Evidentemente per una questione di scelte ideologiche», commenta Mancuso. Ecco perché «esigiamo che l'ter venga seguito regolarmente – continua l'attivista – Non vogliamo creare scontri, anzi, siamo disposti a collaborare con chiunque, anche con i salesiani. Purché si tratti di un dialogo in senso orizzontale – chiarisce – Vogliamo che la struttura resti un centro di aggregazione culturale e sportiva, quello per cui è nata e per cui stiamo lavorando. Non molleremo».


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Librino/ L'ospedale che non si fa

“Vi ricovero al centro commerciale!” Catania. L'ospedale San Marco è in costruzione da vent'anni, fra giri d'appalti e speculazioni. In compenso, fioriscono i centri commerciali... di Luciano Bruno e Vincenzo Rosa

Librino, il quartiere più popoloso di Catania, conta circa 80.000 abitanti. Un agglomerato di palazzoni da tipica edilizia popolare fatto sorgere nella periferia sud della città, in una zona che un tempo era coltivata ad arance e vigneti, definita ”terra forte” dagli abitanti del luogo per la sua fertilità. Un progetto ambiziosissimo fu alla base della costruzione di Librino negli anni settanta, quando ancora la recessione economica non c'era e i progetti edilizi dagli appalti miliardari foraggiavano e ingrassavano i centri di interesse e i comitati d'affari a Catania. Librino doveva diventare la new town, il naturale sbocco architettonico alla vocazione modernistica di Catania per ospitare uffici e strutture pubbliche all'avanguardia. Addirittura per dirigere i lavori venne chiamato il notissimo architetto Kenzo Tange, che immaginò un quartiere innovativo e futuristico, con grandi strade a 3 corsie per separare spazi abitativi pieni di verde e forniti di tutti i servizi. Del progetto originale dell'architetto giapponese rimangono purtroppo solo gli stradoni malsani e poco illuminati, che sembrano voler cingere in un abbraccio mortale i palazzoni popolari che dividono.

Librino è diventato in poco tempo dalla sua costruzione quello che è adesso, uno dei simboli maggiori del degrado e dell'abbandono delle periferie popolari: un quartiere mancante dei principali servizi pubblici, poco collegato con il resto della città e non solo nel significato “viario” del termine, a causa del sostanziale abbandono nei suoi confronti da parte delle varie amministrazioni comunali che si sono succedute nel tempo. Cementificazione selvaggia Eppure Librino, insieme alle altre zone vicine come il Pigno e San Giorgio, è un quartiere molto dinamico dal punto di vista edilizio. La cementificazione procede imperterrita nel tempo, con nuove costruzioni dalla dubbia qualità stilistica e non solo a modificare continuamente il suo skyline. La conformazione del quartiere negli anni è stata affidata a continue e disorganiche varianti al piano regolatore che hanno permesso la creazione di un quartiere enorme, scomposto ed alienante, senza precise idee sulla collocazione e distribuzione degli abitati e dei servizi pubblici essenziali. Basti ricordare come esempio quando nell’aprile del 2008, prima che il sindaco Scapagnini si dimettesse, fu votata una variante al PRG che permise una nuova cementificazione della città. Tra il Pigno e Librino stanno attualmente nascendo circa un milione di metri cubi di case; facendo un rapido calcolo, 330 mila metri quadri di appartamenti. Questa abbandonata periferia di Catania, con i palazzoni e le altre colate di cemento che deturpano il suo volto, rappresenta una continua ed enorme occasione di speculazione edilizia che ha arricchito e arricchisce i poteri economici della città, i soliti personaggi noti, alcuni dei quali potrebbero sicuramente essere considerati al di sopra di ogni sospetto. Librino, pur essendo il quartiere più popoloso della città, non ha mai avuto neppure un ospedale. Pur essendo ormai più di 25 anni che il quartiere attende la creazione di un presidio ospedaliero, una

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nebulosa vicenda ha contraddistinto la sua costruzione nel corso del tempo. Risale infatti al 1986 il piano di costruzione, quando l'Usl dell'epoca avanzò il cosiddetto “progetto Prometeo” che prevedeva la costruzione di tre ospedali nelle periferie della città: il Cannizzaro, il nuovo Garibaldi e appunto il San Marco, quest'ultimo pensato per Librino. Un primo bando di gara esce nel 1990 e ad aggiudicarselo è il raggruppamento Cogefar-Impresit che però non inizierà mai i lavori di costruzione a causa di successive controversie giudiziarie. Sono gli anni delle tangenti per la costruzione del nuovo Garibaldi, a causa dei quali verranno successivamente indagati per corruzione e turbativa d'asta personaggi del calibro di Giuseppe Castiglione e Pino Firrarello. Per molti anni il progetto rimane bloccato. Ma come nella migliore tradizione catanese, anche quello sul San Marco è un silenzio che conta più di mille parole. L'odore degli immensi guadagni fatti col cemento è nell'aria e una sorta di macchina speculativa sembra mettersi in moto. Fra i proprietari c'è Ciancio Una vastissima area interessata, che comprende i 230.000 mq dove sorgerà il San Marco oltre che altre zone a ridosso del Pigno, viene fatta oggetto di operazioni transattive; dopo le compravendite dei terreni (tra i proprietari ritroviamo anche Mario Ciancio Sanfilippo con 80 ettari) viene autorizzata una variazione d'uso per la suddetta area con un decreto regionale del 2005 seguito da una modifica al PRG, che da zona verde rurale verrà classificata come adibita a “servizi generali”. Questo significa che quei terreni sono considerati edificabili e conseguentemente il loro valore aumenterà di molto. A beneficio degli espropriati, ma soprattutto a danno degli espropriandi, cioè l'Azienda Ospedaliera “Policlinico-Vittorio Emanuele”. Non si sa a che titolo, ma dalla variazione d'uso dei terreni saranno coinvolti anche quelli su cui


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Scheda APPALTI E SUBAPPALTI

Soggetto affidatario progettazione e costruzione: Uniter cs a rl Progetto architettonico: Studio Valle progettazioni srl, prof. ing. Giliberto Valle, arch. Tommaso Valle Progetto strutture: Studio Sia Get srl, ing. Renato Grecuzzo, ing. Concetto Costa Progetto impianti cogenerazione, hvac, gas, antincendio: prof. ing. Francesco Patania Coordinatore per la progettazione: ing. Renato Grecuzzo Coordinatore per l’esecuzione: ing. Silvio Torre Responsabile unico del procedimento: ing. Angelo Spampinato Direzione dei lavori: ing. Pietro Nicolosi Direttore tecnico e responsabile di commessa: ing. Daniele Naty Direttore cantiere: ing. Carmelo Leone Responsabile del servizio di prevenzione e protezione: ing. Carmelo Leone Subappaltatori: Cag srl

sarà successivamente edificato l'immenso centro commerciale “Le Porte di Catania”, di cui è proprietario Mario Ciancio Sanfilippo con una quota del 30% circa. Poco tempo dopo l'A. O. farà uscire un nuovo progetto. Viene prevista la costruzione non solo della struttura ospedaliera nel territorio di Librino ma anche la creazione di un Centro di Eccellenza Ortopedico, previsto nell’accordo di programma quadro siglato per il settore degli investimenti sanitari nel 2002, tra il Ministero della Salute, il Ministero dell’Economia e la Regione Siciliana. Quest’ultimo avrebbe dovuto rappresentare uno dei punti di forza del nuovo piano di offerta sanitaria regionale, oltre che un centro specialistico moderno e all’avanguardia, costruito per diventare punto di riferimento nel settore. Tutto questo ovviamente con un sensibile aumento di spesa pubblica: si passa infatti da 90 a 140 milioni di euro, attrezzature e arredamenti inclusi. La nuova gara d'appalto La nuova gara d'appalto per la costruzione del San Marco e del polo ortopedico viene fatta uscire nel 2008: a vincerla è l'Unite Consorzio Stabile, un gruppo di aziende che vede come capofila la Tecnis Spa, guidata dal dott. Mimmo Costanzo e dall'Ing. Concetto Bosco e i tempi di consegna dell’opera vengono previsti per ottobre del 2011. La vicenda sembrava finalmente con-

progettazione, non è ancora stato costruito. Pare passerà ancora altro tempo prima della conclusione dei lavori e della sua consegna. A patire le conseguenze di una così palese incapacità amministrativa e politica, che sembra a volte guidata (anzi deviata!) da interessi di consorterie economiche e del malaffare, saranno gli abitanti di Librino e di tutta la grande fascia periferica a sud di Catania che dovranno ancora aspettare per vedere costruito l’ospedale San Marco. Sulla pelle degli abitanti

clusa e Librino avere il suo ospedale, oltre che un polo specialistico all’avanguardia nel proprio territorio che, chissà, avrebbe potuto contribuire allo sviluppo lavorativo ed economico del quartiere e combattere il degrado sociale nel quale lo stesso versa. Poco tempo dopo però si scopre che il Centro di Eccellenza non potrà più essere costruito: con una legge regionale del 2009 vengono infatti sciolte le fondazioni responsabili dei centri di eccellenza e quindi anche quella che avrebbe dovuto occuparsi del polo specialistico di ortopedia. L'allora assessore alla Sanità Massimo Russo, con i classici slogan di quei politici che ti pisciano in testa ma ti dicono che piove, assicura che non cambierà molto: “puntiamo ad avere eccellenza nella normalità” dichiara. Tradotto: l'ortopedia avrà un regolare reparto all'interno del nosocomio con 96 posti letto. Dal progetto esecutivo, invece, risultava che ne avrebbe avuti 160, oltre ad un'autonomia amministrativa che ne avrebbe fatto il principale polo ortopedico regionale. Dopo l'abbandono del progetto, i terreni da utilizzare per la costruzione del Centro di Eccellenza accoglieranno un parcheggio multipiano da 600 posti oltre che un gran numero di negozi e altri esercizi commerciali. In questa lunga e frastagliata cronistoria l’ospedale San Marco, 26 anni dopo la sua

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E’ davvero inaccettabile che in una delle zone più povere di Catania vengano progettati e rapidamente costruiti enormi parchi commerciali, quando per la costruzione di una struttura pubblica volta a soddisfare le reali esigenze del territorio debbono aspettarsi decenni. Pare proprio che il più grande quartiere catanese rappresenti una specie di zona franca, un grande cantiere aperto dove l’interesse economico e speculativo scavalca e mette in secondo piano le normalissime esigenze di pianificazione urbana costituite dalla costruzione di un ospedale in una zona periferica, densamente abitata e poco conurbata con il resto della città. Librino rappresenta null'altro che una grande occasione di guadagno, un quartiere dove sulla pelle degli abitanti è possibile ricavare enormi quantità di denaro. Vincono i potenti, che coi progetti, i finanziamenti e le leggi (e i soldi dei cittadini) fanno il vecchio gioco, tradizionale in Sicilia, della speculazione edilizia. A dicembre è arrivato il neo-presidente Crocetta per una riunione di giunta organizzata “fuori porta”. Tra macchine fotografiche, riflettori, giornalisti e microfoni, Librino, quartiere marginale di una regione marginale, ha avuto i suoi 15 minuti di fama con qualche servizio nei tg. E la domanda sorge spontanea: tolto il dorato velo dei media, la nuova politica siciliana, tra grillini e crocettiani, sarà in grado di dare un nuovo corso allo sviluppo di Librino?


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Antimafia

Rapporto da Partinico Dall'operazione “The End” ad oggi. La presa della mafia, le indagini dei carabinieri, i guai della giustizia, la crescita della società civile. E una piccola tv senza paura di Pino Maniaci e Salvo Ognibene www.telejato.globalist.it www.diecieventicinque.it

Il 30 novembre 2010, tra Partinico, Borgetto e Balestrate, circa 200 Carabinieri del Gruppo di Monreale, a conclusione di una mirata e prolungata attività investigativa condotta dal Nucleo Investigativo convenzionalmente denominata The end, hanno eseguito 23 ordinanze di custodia cautelare in carcere (associazione di tipo mafioso, estorsioni, incendi, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, spaccio di sostanze stupefacenti e altro) nei confronti di altrettanti soggetti ritenuti appartenenti al mandamento mafioso di Partinico.

La famiglia “Fardazza” L'attività investigativa, durata quasi due anni, ha permesso di: - Menomare fortemente lo storico mandamento mafioso di Partinico, molto importante sia per la sua collocazione geografica a cavallo delle province di Trapani, Agrigento e Palermo, sia per i complessi fenomeni criminosi che lo caratterizzano; azzerare la capacità operativa della famiglia dei Vitale, alias "Fardazza", attraverso l'arresto di Leonardo e Giovanni Vitale, giovani figli del boss ergastolano Vito Vitale, ed attualmente reggenti del mandamento mafioso. - Scoprire un'imponente attività di estorsione ai danni degli imprenditori edili presenti nel territorio, effettuata attraverso l'imposizione della fornitura del cemento, allo scopo di finanziare le casse dell'organizzazione criminale; - Disarticolare sul nascere un traffico di sostanze stupefacenti necessario ai Vitale per avere maggiori guadagni per il pagamento delle spese legali e per l'assistenza alle famiglie dei detenuti. Il potente “mandamento” di Partinico L’operazione antimafia The End ha azzerato i nuovi vertici e leve del potente mandamento di Partinico, ha assestato un duro colpo in un territorio considerato dagli investigatori un irrequieto e irriducibile regno dell’omertà. Il mandamento di Partinico “è strategico per l’intera

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Cosa nostra e non sfugge l’influenza della figura di Matteo Messina Denaro. Di recente Giuseppe Giambrone - detto Pino Stagnalisi - tra i personaggi di spicco del comprensorio e implicato in vari omicidi di mafia nei territori di Partinico e Borgetto, è tornato il libertà causa scadenza dei termini di custodia cautelare. Scaduti i termini di custodia, c'è poco da fare: è la legge -giusta o sbagliata che sia - che impone la scarcerazione. Molti processi, pochi giudici Una legge malata, in questo caso, quella che regola il nostro ordinamento giudiziario. Una legge che permette a pluriomicidi, uomini di spicco della criminalità organizzata, di poter camminare liberamente per la strada. Processi interminabili, che non hanno come risultato quello di fare giustizia ma di perder tempo. Processi gestiti da un personale, quello della procura palermitana, che ogni giorno viene ridotto. Il numero dei processi cresce, il numero di chi i processi li deve celebrare diminuisce. Il risultato è questo. Lo vediamo con i nostri occhi. Tutte le operazione compiute sul territorio vengono nullificate, l'impegno delle forze dell'ordine viene vanificato. La magistratura non può far nulla, la cittadinanza nemmeno. E il risultato è che un elemento così pericoloso è tornato a calpestare queste strade già così disgraziate.


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“La mafia domina spietatamente il territorio con estorsioni e minacce. Ma molti si ribellano e cominciano a denunciare” L'ordinamento giuridico italiano ha delle regole complesse. Non basta che un soggetto sia "pericoloso" per trattenerlo in carcere. Se i termini per la custodia scadono, a causa dei lunghi tempi processuali, è la legge stessa a imporre la scarcerazione. Da una parte la legge quindi, e dall'altra la realtà. Il clima che si respira a Partinico non verrà certo favorito dal ritorno di Giuseppe Giambrone. I cittadini come fanno a sentirsi sicuri sapendo che criminali di tale rango girano per le strade? Dobbiamo prepararci ad un'altra stagione di faide? Ad un'altra guerra? Dobbiamo ricominciare a vedere morti ammazzati distesi sulle nostre strade? Dobbiamo credere che questa lotta quotidiana contro la mafia non serve a niente se la legge non è dalla nostra parte? Il ritorno di Giuseppe Giambrone Ma facciamo alcune supposizioni su quello che è accaduto in questi giorni. Supponiamo che Nicolò Salto, un altro pezzo da 90, uomo dei Vitale “Fardazza” si trovi a casa con problemi di salute; immaginiamo che “u stagnalisi” si trovi a casa perché non riescono a processarlo per via della motivazioni sopracitate: entrambi sono liberi di scorrazzare, nonostante i colpi inflitti dalle diverse operazioni delle forze dell’ordine. Quindi supponiamo anche che le condizioni socioeconomiche del territorio siano molto diverse rispetto a quando entrambi sono stati arrestati. E’ passato

molto tempo. Logicamente, cambiano anche gli assetti di “cosa nostra” ed i due tenteranno di riorganizzarsi nel territorio, con l’estremo tentativo di riappropriarsi dei giri economici persi durante la prigionia, attraverso gli appalti ed il pizzo. Il monopolio del calcestruzzo Supponiamo che nel territorio ci siano tre impianti per la produzione del calcestruzzo, e che Giambrone realizzi una attività di forniture di materiale sabbioso ad utilizzo edile. Immaginando che uno di questi impianti sia direttamente riconducibile a Benny Valenza, mentre l’altro appartenga ai figli di Impastato, oggi soci attivi di un’associazione antiracket, rimane l’ultimo impianto, gestito dai figli di D’Arrigo, anche loro soci della stessa associazione. Ammesso che costoro, attenendosi allo statuto dell’associazione, non si siano piegati alle estorsioni, continuano a lavorare. In che modo uno dei tre potrebbe avere il monopolio del mercato? Semplicemente se e soltanto se gli altri due impianti fossero annullati oppure distrutti! Adesso facciamo un ultimo sforzo ed immaginiamo che le nostre supposizioni siano corrette: la logica porta a pensare che quei due uomini incappucciati, registrati dalle telecamere di sorveglianza, uno dalla corporatura robusta con andamento molleggiato, l’altro un po’ più basso, ingiubbottato e incappucciato, potrebbero presto essere individuati dalle attività inquirenti.

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Supponiamo ancora che l’ambiente di Partinico e Borgetto, già abbastanza caldo, potrebbe diventare rovente: presto le nostre telecamere potrebbero filmare i cadaveri scannati per le strade. Intanto, dall’altro lato, se ancora non si fosse notato, c’è già una rivoluzione culturale in corso, i commercianti e gli imprenditori alzano la testa e denunciano alle forze dell’ordine, i soprusi, le prevaricazioni ed il racket delle estorsioni, contribuendo alla cattura dei "pezzi di merda" liberi di scorazzare in giro per il territorio. I soci dell’associazione antiracket e consumo critico aumentano in maniera esponenziale: persone oneste, che lottano per una cultura di riscatto... Il contributo di Telejato Siamo curiosi di sapere da voi che ogni giorno ascoltate l’informazione libera di Telejato una cosa fondamentale: quanto ha contributo a questa rivoluzione culturale il sacrificio di Telejato? Se davvero questi grandi risultati sono stati ottenuti grazie anche al nostro contributo, possiamo affermare con orgoglio che stiamo realizzando il nostro sogno. Possiamo ribadire che c’è ancora speranza e che stiamo raccogliendo i frutti di anni e anni di duro lavoro nel territorio. Stiamo disonorando gli “uomini d’onore” e camminiamo mano nella mano con gli uomini liberi della nostra terra. Insieme si può vincere.


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Testimonianze

La lunga attesa di Felicia Felicia Impastato, “mamma Felicia” per i ragazzi dell'antimafia, raccontata da un vecchio compagno e amico di Peppino. Amore e sofferenza, e una siciliana ironia di Salvo Vitale

Ho conosciuto Felicia intorno al ’67, quando cominciai a frequentare la casa di Peppino e con lui ci scambiavamo qualche libro o qualche giornale. In quel tempo la ricordo come un’ombra silenziosa, la classica “vestale” del focolare domestico: solo chi avesse guardato bene i suoi occhi avrebbe potuto intravedervi un dramma interiore di cui all’apparenza non c’era segno.

Mi resi conto di questo anni dopo, quando mi disse, tra un singhiozzo e l’altro: “un martirio…quello che ho passato….la dittatura…sul niente attaccava brighe…disperazione e paura…quando lo sentivo arrivare mi pisciavo addosso…mai una parola dolce, mai uno svago, mai una festa, mai una lira… teneva tutto in mano… mi faceva uscire solo per andare a trovare Tanino Badalamenti e parlare con sua moglie… mai un regalo, quello che ho passato, solo io lo so, e anche Peppino se lo immaginava, mi diceva: “io vegnu cà sulu pi tia” (1).

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Nel suo silenzio non c’era ostilità né diffidenza: io ero l’amico di suo figlio, il nipote di Cola Maltese, quello del Molinazzo, non certo quello che lo portava sulla cattiva strada. Peppino abitava ancora in famiglia e suo padre contava su di me perché lo stimolassi a studiare e a prendersi “un pezzo di carta”. Successivamente, quando si accorse che tutto era inutile lo buttò fuori di casa, per dare agli “amici” una stupida dimostrazione di forza e di presa di distanza. Zia Fara, una seconda madre Peppino andò ad abitare alla stazione, con la zia Fara, una sorella di Felicia, che lo aveva ospitato più volte e che fu per lui come una seconda madre. Quando Fara restò vedova, egli si trasferì definitivamente nella casa della stazione per farle compagnia e lì rimase, anche dopo la morte del padre. Morto Peppino, Fara si trasferì a casa di Felicia: due donne sole che si tenevano compagnia. Fara era una donna molto semplice e silenziosa: aveva sofferto per la morte di Peppino come per quella di un figlio, ma sapeva nascondere bene la sua sofferenza.


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Cominciai a scoprire un’altra Felicia cinque giorni dopo la morte di Peppino, ovvero il 13 maggio 1978, giorno delle elezioni comunali: in quella circostanza, rompendo una regola secolare che imponeva a chi è a lutto di non uscire di casa almeno per il primo mese, Felicia e sua sorella Fara si recarono al seggio elettorale a votare per Peppino. Poco prima dell’ingresso al seggio c’erano due galoppini che distribuivano facsimili democristiani: quando videro Felicia e Fara si avvicinarono per fare le condoglianze, dicendo loro che stavano invitando la gente a votare per Peppino e per la sua lista: Felicia li guardò con fierezza, quasi con disprezzo, senza dire una parola: non appena le due donne voltarono le spalle, essi continuarono a distribuire i loro facsimili. Per noi era “mamma Felicia” Da quel momento non volle più ricevere i fratelli e parenti del marito, tra i quali Iacuzzu (Giacomo), detto “U Sinnacheddu” e Peppino, detto “Sputafuoco”, mafiosi di rango, a cui imputava la responsabilità di avere dato il proprio assenso alla decisione di uccidere suo figlio. La sua casa divenne per noi quasi un posto di pellegrinaggio: a turno andavamo a trovarla e lei era sempre curiosa di sapere cosa stava succedendo fuori. Il suo “Chi è? Cu c’è? Chi stati cumminannu? Stamu attenti e ‘un vi raccumannu autru” rivelava, per un verso, una sorta di vicinanza affettiva e di partecipazione spirituale alle nostre iniziative, per l’altro la paura che non ci succedesse qualcosa, ma, più di tutto, che non succedesse qualcosa al figlio Giovanni. Per tutti noi compagni di Peppino era diventata “mamma Felicia”, la madre che tutti avremmo voluto avere. Una volta mi disse: “Quannu viru a tia è comu si virissi a me figghiu”, lasciandomi commosso per un intero giorno. Uscì di casa pochissime volte: per andare a votare o per difendere in tribunale l’immagine del figlio, ma era sempre bene informata, sia di quello che succedeva in paese, sia di quello che succedeva in Italia e nel mondo: sue fonti la televisione e alcuni parenti e vicini di casa, tra cui una cugina, Maria, detta Parasacca e il fratello di lei Peppino, Parasaccu anche lui, malato di cancro al polmone, il quale scelse di morire continuando a fumare le sue nazionali senza filtro. Un giorno Maria le portò la strana no-

tizia che Procopio Di Maggio, il boss locale, da sempre nemico di Badalamenti, aveva fatto sapere della sua intenzione di rendere giustizia a Peppino e alla sua famiglia e che andava cercando “Tanino” per liquidarlo. Felicia la guardò con sufficienza e le rispose : “Non per mio figlio, ma per suo figlio”. Nella sua risposta si nascondeva tutta una storia: uno dei figli di Procopio, che corteggiava una figlia di Sarino Badalamenti, era infatti morto in uno strano incidente: poiché i Badalamenti erano contrari a questo rapporto, Procopio si era convinto che fossero stati loro a liquidarlo. Felicia conosceva bene il modo di ragionare dei mafiosi. Aveva anche una memoria lucidissima ed era in grado di raccontare episodi anche lontanissimi della sua vita e della vita del paese, come ha fatto nella lunga intervista pubblicata ne “La mafia a casa mia” Non aveva peli sulla lingua per nessuno: qualche mese dopo la morte di Peppino venne convocata dal giudice Signorino, che conduceva le indagini e, mentre aspettava, venne avvicinata da una persona con un taccuino in mano: “Signora, mi chiamo Mario Francese e sono un giornalista del Giornale di Sicilia. Posso farle qualche domanda?”. La risposta di Felicia fu violenta: “Non voglio parlare con nessuno. Voi giornalisti avete trattato mio figlio come un criminale”. Si addolcì un po’ quando Francese le disse di essere convinto anche lui che Peppino era stato ucciso da Badalamenti e parlarono per un bel po’. Non poteva sapere che qualche mese dopo, il 27 gennaio del '79, quel giornalista sarebbe stato ucciso, come suo figlio, dalla stessa mafia. Tra il 1981 e il 1990 la guerra di mafia arrivò a Cinisi lasciando sul terreno una quarantina di morti: fu il massacro della cosca dei Badalamenti, (che Mario Francese chiamava “dei guanti di velluto”) ad opera dei Corleonesi di Totò Riina e dei loro alleati locali. Quando nell’81 venne ucciso Nino Badalamenti e mi recai da Felicia, il suo commento fu spietato e preciso: “Buonu ficiru: appi chiddu chi si miritava”. Felicia ignorava, o sospettava solamente che Nino Badalamenti era stato uno degli assassini di suo figlio, come verrà poi testimoniato dal pentito Salvatore Palazzolo. Nella radicalità del suo rancore era rimasta una traccia visibile di quella cultura mafiosa nella quale era stata educata e dentro la quale era stata

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cresciuta. Nessuna ombra di pietà dentro il suo dolore, dove il suo desiderio di giustizia si mescolava con la voglia di vendetta. Nessun perdono nei confronti di chi l’aveva privata di una parte del suo sangue. Felicia non sapeva fare l’ipocrita e non aveva nessuna voglia di perdonare. A chi glielo chiedeva, rispondeva in maniera netta: “Vorrei capire perché dovrei perdonare un mafioso che ha ucciso mio figlio, soprattutto se non ha mai chiesto perdono. Il Signore deve perdonarlo, se ci riesce, perché viene difficile pure a lui e li manderà tutti all’inferno”. Il brindisi e i fiori Non ci si dovrebbe rallegrare per la fine violenta d’una persona, ma, in quella occasione mi scappò di dirle: “Allora dobbiamo brindare”. Non se lo fece dire due volte: tirò fuori dalla vecchia vetrina una polverosa bottiglia di amaretto e due bicchierini: appena poche gocce per un brindisi, più simbolico che reale, tra due persone profondamente ferite dentro. Da allora quel gesto divenne un’abitudine, quasi una forma di complicità: tornammo a ripeterlo per l’omicidio di Giuseppe Finazzo, “u Parrineddu”, indiziato nell’omicidio di Peppino, dalle cui cave era presumibilmente uscito il tritolo per farlo saltare in aria. In quell’occasione, ancora una volta i carabinieri, invece di indirizzare le indagini negli ambienti mafiosi, effettuarono una perquisizione nella casa a di Giovanni Impastato, proprio dirimpetto a quella di Felicia, sospettandolo dell’omicidio, per vendetta. Felicia ebbe una reazione violenta, gridando ai carabinieri: “Chi vuliti? Nun v’abbastau a prima vota? Ca ‘un c’è nienti. Itivi a circari l’assassini nna li casi d’i mafiusi” (Che volete? Non vi è bastato la prima volta? Qua non c’è niente. Andate a cercare gli assassini nelle case dei mafiosi) Tornammo a brindare per la morte di Leonardo Galante, di Natale Badalamenti, di Leonardo Rimi. Poi ci fermammo, non solo perché la bottiglia era quasi alla fine, ma perché quel gioco non ci piaceva più e non ci apparteneva più. Una lunga pausa durata molti anni, a parte un cin cin per l’arresto di Badalamenti (1984) e per la morte di Ciccio Di Trapani, (1996), da noi sospettato e poi anche lui indicato dal pentito Salvatore Palazzolo come uno dei killer di Peppino.


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Intanto la figura di Peppino intanto cominciava a varcare i confini del suo territorio e ad essere nota a una cerchia sempre più vasta di persone. La casa di corso Umberto I, oggi ribattezzata “Casa Memoria”, dove fa bella mostra una lapide messa privatamente per iniziativa del Centro Impastato, è diventata nel tempo un punto di riferimento e d’incontro per i ragazzi e per ogni genere di persone che si riconoscono nelle idee e nella lotta di Peppino contro il dominio mafioso. Una cosa che lei amava dire spesso era che la sua era una casa viva e piena di gente, quella di Badalamenti chiusa e deserta. “Assassino, tu fusti!” Nessun brindisi neanche per la condanna di Vito Palazzolo prima e di Tano Badalamenti poi, nel 2002. Felicia aveva pazientemente atteso quel momento. Era sopravvissuta a un ictus cerebrale, che l’aveva costretta anche a un’operazione, era sopravvissuta alla rottura del femore, alla sua difficoltà di respirazione, alla bronchite, all’asma, alla morte della sorella Fara solo per arrivare a quel momento, aspettato da venti anni.

Il suo gesto nell’indicare, secco e spietato, la sua voce ferma nell’accusare Badalamenti dell’assassinio del figlio, il suo terribile: “Assassino, tu fusti” hanno avuto un ruolo decisivo per giungere alla condanna dei due mafiosi. In quella donna magra, vestita di nero, che a stento riusciva a muoversi, ma che conservava dentro tanta rabbia e tanta energia, c’erano tutte le donne siciliane, c’era il riscatto della loro dignità dopo secoli di silenzio, di umiliazioni, di violenze subite, di sopportazione. Le manifestazioni molto partecipate degli ultimi anni le hanno riempito il cuore di gioia: puntualmente si affacciava a salutare, mentre un’onda di gente urlava il suo nome. Nei suoi occhi ci fu una forte commozione quando venne la Commissione Antimafia a consegnarle la propria inchiesta sul depistaggio iniziale delle indagini, assieme alla lettera di Peppino, usata proditoriamente come prova per giustificare l’ipotesi del suicidio: nel momento in cui Beppe Lumia chiese scusa, in nome dello stato, per gli errori allora fatti e per la mancata giustizia, Felicia disse: “E’ come se mi aveste restituito Peppino ancora vivo”. Non potevo mancare di andarla a tro-

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vare appena sentito della morte di Gaetano Badalamenti, il 30 aprile del 2004: si era diffusa la voce che il boss potesse tornare in Italia per estradizione o per condono della pena; c’era il timore che ricominciasse l’attesa snervante di giustizia attraverso il processo di appello, ma di colpo ogni timore venne meno e forse da quel momento Felicia cominciò ad avvertire di avere ormai chiuso vittoriosamente e definitivamente la sua lunga attesa e il suo conto con la vita. Si era vendicata degli assassini e li aveva seppelliti. Le chiesi se l’era rimasto qualche goccio d’amaretto per l’ultimo brindisi. Mi rispose: “Figghiu meu, quannu ntisi ca ddu porcu avia murutu, dd’anticchia chi c’era m’u vippi tuttu” (Figlio mio, quando ho sentito che quel porco era morto, quel po’ che c’era me lo sono bevuto tutto). Qualcuno mi ha rimproverato per avere raccontato questo personale ricordo, con un’osservazione tipicamente cinisara: “I cristiani chi hannu a diri, ca era na ‘mbriacuna?” (le persone cosa devono dire, che era un’ubriacona?). Come se bere poche gocce significasse ubriacarsi: in tal senso anche i preti dovrebbero essere ubriaconi, quando celebrano la messa. E poi, chi se ne frega di quello che possono dire “i cristiani”?


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E’ morta otto mesi dopo e sarebbe stata felice di sapere di essere diventata un punto di riferimento per tutto il movimento antimafia. Nella sua ultima apparizione in pubblico, filmata dal regista Gregorio Mascolo, Felicia è ripresa davanti alla porta della sua casa, mentre distribuisce fiori ai partecipanti al tradizionale corteo del nove maggio: un’immagine per ricordarla, con un mezzo sorriso, mentre dà un fiore a tutti, con alle spalle una strada lunga 87 anni e un viso dov’è scavata e scolpita la sua storia, insieme a quella delle donne della sua terra.

Una poesia U chiantu di dù madri di Sara Favarò Sta sira avanti a mia ‘na vecchia ca si chiama storia chianci scunsulata picchi l’anni passaru senza lassari signi di vittoria e rasti supra a terra. Mi dici ca ddi picciotti ca luttavanu cu idda e ci currianu appressu c’à speranza all’occhi, ora sunnu n’a panza d’a terra vurricati. Mi fici du nomi, unu chiù granni e l’autru chiù nicu, ca patri e figghiu essiri putianu e appiru a stessa sorti. Mi dici: Pippinu Impastatu i Cinisi dicia ‘nt’e chiazzi: pi jiri avanti iuncemu vrazza, manu e cori, dicemulu u nomi d’assassini ca mpastanu a terra cu u sangu d’i travagghiatura. E continua a vecchia: ‘na matina d’u 78 u truvaru nn’a linia d’a ferrovia a pezzi e muddichi, comu siddu u trenu passannu dda notti l’avissi macinatu. U trenu unn’era trenu: era bumma a tritolu d’i mafiusi scattata nn’a panza di Pippinu pi vinnitta. L’occhi, sulu l’occhi eranu vivi, circavanu a Cristu ncelu e ci addumannavanu pietati. Pietati pi mia,vecchia sempri a luttu, e iu sugnu cca, a malidiri li mafiusi barbari, can un vulianu e nun vonnu ca li picciotti lottanu pi nna Sicilia libbira, unni a terra ngrassari si putissi cu l’onestà e no cu u sangu limpidu di li ‘nnucenti ‘mputenti contro l’omertà. E chianci a vecchia, chianci, chianci, un chianti comu marusu ntimpesta, u chianti di du matri. Chi sira! Chi sira!” (4)

Tra le donne siciliane offese dalla mafia esiste una straordinaria vicinanza tra Felicia e Francesca Serio, la madre di Turiddu Carnevale, il sindacalista ucciso dai mafiosi di Sciara il 16 maggio 1955. Anche Francesca si costituì parte civile per l’assassinio del figlio: “Una donna sola, prima abbandonata dal marito e poi vedova, che ha allevato l’unico figlio tra mille sacrifici e che è cresciuta accanto a lui, nel dialogo quotidiano con un militante coraggioso e spesso isolato dal suo stesso partito. Dopo la sua morte accusa gli assassini, ne ottiene una prima condanna ma poi deve subire lo smacco della loro assoluzione. Da allora continua a testimoniare la sua vicenda, parlando del figlio con tutti quelli che vanno a trovarla, e le sue parole sono pietre, come scriverà Carlo Levi che ha scritto le pagine più intense su di lei e su suo figlio. Mamma Carnevale partecipa anche a manifestazioni pubbliche accanto a Pertini, organizzate da un partito che sarà sempre più un’altra cosa. Il 18 luglio 1992 è morta dimenticata nella sua casetta di Sciara”(2).

Il richiamo al libro di Levi e l’accostamento tra le due donne risaltano in questo passaggio: “Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa. alternando il dialetto e l’italiano, la narrazione distesa e la logica dell’interpretazione. ed è tutta e soltanto in quel discorso senza fine, tutta intera…niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta nella sua sedia accanto al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello stato. Essa stessa si identifica totalmente nel suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole e le parole sono pietre”(3).

Quello che Levi dice per Francesca vale, parola dopo parola, pietra dopo pietra, per Felicia. Pietrificazione del dolore nei più profondi abissi dell’animo. Francesca e Turiddu ebbero immortalata la loro storia dal poeta Ignazio Buttitta in una famosa ballata, Peppino e Felicia hanno incontrato sulla loro strada il regista Marco Tullio Giordana che dalla loro storia ha ricavato due personaggi cinematografici di grande effetto emotivo. In tempi in cui l’immagine ha finito con il sostituirsi alla parola, Francesca è morta dimenticata da tutti, Felicia è diventata un simbolo nazionale della Sicilia che non si piega alla prepotenza mafiosa.

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I funerali di Felicia hanno avuto una notevole risonanza sulla stampa e sulle televisioni. La presenza di magistrati, artisti, sacerdoti, studiosi, di figure impegnate nella lotta contro la mafia, non è stata tuttavia sufficiente a ingrossare un corteo al quale hanno partecipato circa cinquecento persone. Il neo-sindaco di Cinisi ha proclamato il lutto cittadino e si è presentato ai funerali con la giunta e buona parte del Consiglio, tuttavia all’ordinanza non è stata data opportuna diffusione e molti l’hanno ignorata. Al passaggio del feretro alcuni commercianti hanno abbassato la saracinesca, altri hanno continuato tranquillamente a vendere la loro roba. Quasi tutti i giornali hanno scritto che Cinisi era assente e hanno affrettatamente concluso che il paese è rimasto mafioso, malgrado la fine del dominio dei Badalamenti. Qualche giorno dopo la morte di Peppino, in un comizio Umberto Santino disse: “Sino a quando queste finestre resteranno chiuse Peppino sarà morto invano”. Su questa storia delle finestre chiuse voglio tuttavia fare una constatazione. Da sessant’anni conosco il corso di Cinisi ed ho sempre visto chiusa la maggioranza delle finestre, sia d’estate, per proteggersi dal caldo, sia d’inverno, per ripararsi dal freddo; molte case sono vuote perché i loro proprietari sono emigrati, altre appartengono a gente che va a lavorare fuori dal paese, altre a gente che non vede il motivo di aprirle se passa un corteo. Si potrebbe obiettare che ai funerali di Peppone, (settembre 2000), il figlio ucciso del boss Procopio Di Maggio, c’erano circa ottocento persone, che il feretro è stato salutato con un applauso, che le saracinesche erano tutte abbassate, che molti gettavano fiori al suo passaggio, che le ghirlande erano fatte di orchidee. Ma anche in quell’occasione c’erano le finestre chiuse, per cui l’appello ad aprirle ha più un valore simbolico che un riferimento reale.


www.isiciliani.it In basso: Il Comune di Anzola in Emilia concede la cittadinanza onoraria a Felicia Impastato (2002).

Resta il fatto che gli abitanti di Cinisi, se si eccettuano i parenti, le autorità, qualche esponente politico e gli irriducibili compagni di Peppino, malgrado il paese fosse stato tappezzato da un bel manifesto con la foto di Felicia, non c’erano. Sarebbe ingiusto però dire che non c’erano perché sono mafiosi. Se a Cinisi ci sono alcuni mafiosi questo non vuol dire che tutti i cinisari sono mafiosi. Si tratta di quelle accuse, facilmente strumentalizzabili, studiate per sviare l’attenzione dal problema reale. E il problema in quel momento era Felicia e l’importanza della sua figura. Molti cinisari hanno fatto rimostranze, altri si sono offesi, altri hanno preso le distanze dall’“antimafia funeralaia”, altri hanno tentato di giustificarsi e di motivare la loro assenza mettendo in giro cumuli di menzogne: il docente di una scuola mi ha riferito di aver sentito dire da un alunno di Cinisi,sicuramente imbeccato dai genitori, che Felicia era una donna inutile e insignificante, salita alla ribalta solo dopo il film, che non amava Peppino perché lo aveva abbandonato e lasciato alla sorella Fara, che mentre era fidanzata con uno era fuggita con un altro, che poi sarebbe stato Luigi Impastato. Perché la gente avrebbe dovuto andare ai funerali di una simile disumana persona? Tutto ciò ci rimanda alla secolare trasmissione di valori sedimentati nel tempo, come la paura, la diffidenza, la conservazione dei principi ereditati, il rifiuto dell’innovazione, il sospetto, la cultura del rispetto nei confronti del potente, l’orgoglio di far parte di una catena che ti protegge, il servilismo, la svendita della propria dignità, il ricatto, la roba, l’affermazione della famiglia, anche a costo del delitto, cioè quella che in due parole si chiama cultura mafiosa, della quale un paese come Cinisi è imbevuto. La tecnica della diffamazione è uno degli archetipi fondamentali della strategia mafiosa nei confronti delle persone su cui si vuole gettare il discredito, specialmente se si tratta di accuse non controllabili e non verificabili, utilissime a generare un sospetto e un dubbio, studiate per far morire il morto un’altra volta, distruggendone la memoria. Per citare qualche esempio di sviamento diffamatorio della dignità d’una persona, Giuseppe Fava sarebbe stato ucciso da un marito cornuto, Cosimo Cristina si sarebbe suicidato perché si sentiva un fallito, Mauro Rostagno sarebbe stato ucciso dalla moglie Chicca e dall’amico Cardella che se la intendevano, Giuseppe Impasta-

to sarebbe andato a mettere una bomba per far saltare in aria un treno carico di operai (bel compagno!) e così via. Non siamo certamente nell’ambiente mafiogeno di un quartiere malfamato: l’ambiente di Cinisi è più raffinato, la sua piccola e media borghesia è infarcita di ipocrita perbenismo ed ha la capacità di credere e fare credere anormale ciò che in altri modelli di società è normale e viceversa. Normale è ciò che è omogeneo al sistema di valori in circolazione, al codice mafioso, anormale è ciò che lo nega e ne vuole proporre un altro. Quell’ambiente su cui l’anticonformismo di Peppino ha infierito con la satira, mettendolo in ridicolo, non può riconoscersi in figure così diverse da sé, come lo sono state Peppino e sua madre e così normali: rischierebbe la propria estinzione. Qualcuno ha detto che il paese si è chiuso a riccio nei confronti di chi lo aveva ferito e denigrato, cercando di colpevolizzare, ancora una volta, chi da anni si batte per fare entrare un soffio d’aria nuova. Il paese era chiuso a riccio già da molto prima, allorché ha scelto l’indifferenza e il distacco, così come fa ogni anno in occasione delle manifestazioni per ricordare Peppino. Ecco perché Mafiopoli deve fare ancora molti passi per arrivare dalla casa di Badalamenti a quella di Peppino e di Felicia, prima di rendersi conto che “se tra le donne siciliane ce n’è qualcuna che merita un ruolo di primo piano nella lotta contro la mafia, per la sua modestia, per la sua decisa volontà di denunciarne i delitti, di accettare la sofferenza senza rassegnarvisi, per la sua insistenza nel volere un paese e una società più puliti, questa è Felicia Bartolotta”.(5) NOTE: 1 Salvo Vitale, Nel cuore dei coralli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, p. 47. 2 Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Roma, Editori Riuniti, 2000, p. 179. 3 Carlo Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, 1955, p.160. 4 Salvo Vitale (a c. di),Quasi un urlo di libertà, Palermo, Ed.della Battaglia,1996, p. 21. 5 Salvo Vitale, Nel cuore dei coralli, p.186. Questa testimonianza è stata pubblicata anche nel volume Cara Felicia, pubblicato nell’aprile 2005 dal Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato.

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BIBLIOGRAFIA SU FELICIA IMPASTATO Anna Puglisi e Umberto Santino (a c. di), Cara Felicia, Palermo, “Centro Siciliano di documentazione Giuseppe Impastato”, 2005, che contiene una serie di atti giudiziari, testimonianze e messaggi: “Dalle pagine di questo libro Felicia esce con tutta se stessa, senza coloriture retoriche, con la sua tenacia e le sue accuse che già suonano come condanne irrevocabili, ma pure con le sue paure e le sue contraddizioni” (p.?). Gabriella Ebano, Felicia e le sue sorelle, Roma, Cedam 2006 (seconda edizione 2010). Interviste a 20 donne vittime della violenza mafiosa: una via scavata attraverso la memoria, il dolore, la speranza. Il libro è stato ripubblicato nel 2012 in una nuova edizione contenente un cd. Salvo Vitale (a c. di), “Peppino è vivo”, poesie per Peppino Impastato, Cinisi, Associazione Culturale Peppino Impastato, 2006, che contiene diverse poesie dedicate a Felicia, riprodotte nella presente pubblicazione. Il libro è stato ripubblicato, in edizione interamente rinnovata, nel 2008, dalle edizioni EGA di Torino. Giacomo Pilati, Felicia Impastato, Trapani, Coppola, 2006. Si tratta di un’intervista che fa parte della collana “i pizzini della legalità”. La stessa intervista è stata pubblicata nel libro “Le Siciliane”, curata dallo stesso autore e dallo stesso editore nel 1998 e nel 2008. Nando Dalla Chiesa, Donne ribelli, Milano, Melampo, 2007. Salvo Vitale e Guido Orlando (a c. di), Felicia (tributo alla madre di Peppino Impastato), Palermo, Navarra, 2006. Film di Gregorio Mascolo, Felicia” (la mafia uccide, il silenzio pure (2010). Lo stesso regista è autore di alcuni cortometraggi su Felicia.


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Bitcoin: l'anno della svolta In questo momento vale 13 dollari. Un anno fa ne valeva quattro... di Fabio Vita bitcoin-italia.blogspot.com L'anno s'è concluso col Bitcoin che supera i 13 dollari (o i 10 euro). A gennaio 2012 valeva solo quattro dollari: è una crescita superiore a quella di qualunque altra valuta e persino dell'oro. Il valore del blocco premio è sceso come previsto da 50 a 25 Bitcoin, e quindi anche la quantità di moneta immessa giornalmente viene dimezzata, in uno scenario deflazionista. Nella rete Bitcoin la quantità di monete create viene dimezzata ogni quattro anni, come nel paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga. Nel 2030 saranno stati generati circa 20 dei 21 milioni di Bitcoin complessivi previsti. Il contrario accade nella tradizionale moneta a corso legale, che è tendenzialmente inflazionata (e dagli accordi di Breton Woods in poi ha perso ogni legame con l'oro). Poco prima della rielezione di Obama la Fed (Federal Reserve) con il “Quantitative Easing 3” ha immesso alcuni miliardi di dollari sul mercato, diminuendo di fatto valore il valore della moneta più diffusa del pianeta. Il "mining" del Bitcoin (cioè la pratica di "fabbricare" nuove monete in rete) avrà TWIT DEL MESE Gavin Andresen risponde su Twitter sulle prospettive del Bitcoin: Bitcoin IT News @bitcoin_ita @gavinandresen What do you think of ASIC? Repercussions on mining? Or benefit of those who produce the cards before selling? #bitcoin Gavin Andresen @gavinandresen @bitcoin_ita ASICS: meh. Difficulty will go up, the blockchain will keep chugging along, just like the CPU->GPU transition we went through

una spintra entro la fine di gennaio. sta per avere nel corso del mese di gennaio una nuova spinta. Quattro anni fa per minare Bitcoin si utilizzava ancora il processore del computer (Cpu); poi si è passati a sfruttare la maggior potenza computazionale delle schede video (Gpu). Adesso stanno per essere commercializzati dispositivi hardware appositi per minare Bitcoin limitando i consumi elettrici, gli Asic. Da un lato aumenta quindi la difficoltà teorica di generazione della moneta, ma dall'altro aumenta la potenza computazionale immessa nella rete. Se si considera che in questo momento sono già attivi circa dieci milioni di monete, possiamo star tranquilli sulla morbidezza del salto dalla fase iniziale alla fase matura del Bitcoin. Almeno così assicura Gavin Andresen – il crittografo a capo del team di sviluppo del software Bitcoin - rispondendo su Twitter a vari interlocutori. Dove dollari non ce n'è “Meno dollari, gli iraniani scoprono la moneta virtuale”: intanto un articolo del Business Week mette in evidenza come in un paese sotto embargo il valore della moneta locale tenda a calare precipitosamente. Il rial iraniano è passato dai 20.160 a dollaro di agosto (nel mercato su strada) ai 36.500 a dollaro di ottobre. Adesso è attorno ai 27.000. Il tasso fisso ufficiale della banca centrale è di 12.260. Questo ha portato - secondo il popolare musicista iraniano Mohammad Rafigh - a una diffusione dell'uso del Bitcoin in quel Paese. Parecchi negozianti di tutto il mondo (dalla panetteria di San Francisco al dentista scandinavo) accettano ormai i Bitcoin. Le persone che li posseggono e vogliono scambiarli con monete fisiche come euro o

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dollari possono usare siti di scambio come Localbitcoins.com, un sito finlandese fondato da Jeremias Kangas. Così, per esempio, " Beyond Matter" - l'ultimo album di Mohammad Rafig - può essere tranquillamente scaricato per .039 Bitcoin in negozi online (simili agli iTunes store) come coinDL.com. “Io credo che Bitcoin sia, o possa essere in futuro, uno strumento molto efficace per persone che hanno bisogno di aggirare sanzioni, restrizioni di moneta, e alta infla-

zione in paesi come l’Iran” scrive Kangas in una email. “Bitcoin è così interessante per me” scrive in un'altra email Rafigh, che oltre che essere musicista studia ingegneria informatica - che vorrei che la cultura della moneta digitale si diffondesse nel mondo, perché non ha alcuna dipendenza da qualcosa come la politica”. Rafigh ha tradotto alcuni programmi Bitcoin in lingua Farsi per i suoi amici. “Io amo l’Iran, e se Bitcoin è buono per me, può esserlo per altri iraniani come me”. “In Iran ne sono stati affascinati - ha detto, di ritorno da Teherano, il consulente Farzad Hashemi - Gli iraniani che vivono all’estero possono mandare Bitcoin alle famiglie, e possono usare uno dei servizi online per trovare qualcuno con cui scambiare Bitcoin per euro, rial o dollari. Sono utili anche per gli iraniani che vogliono spostare soldi all’estero, o semplicemente tenerli in un luogo sicuro...”


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Cinema

Una voce contro il potere I film di Giuseppe Fava Dopo i film di Vancini e Zampa, l'Orso d'Oro a Berlino, Fava realizza due serie televisive per la nascente RaiTre. Ancora sconosciute a molti queste opere torneranno in giro per l'Italia, tra la gente. di Giuseppe Spina www.nomadica.eu

A colpirci profondamente sono stati sei film che gli amici del “Coordinamento Fava” di Palazzolo Acreide ci hanno mostrato esattamente un anno fa, sei film a noi prima sconosciuti nonostante da tempo siamo vicini alle opere di Fava. Lavoriamo fuori dai confini di un ambiente cinematografico caratterizzato da forti rapporti di potere, seguendo la nostra pratica quotidiana di resistenza: la diffusione di film non visibili, in molti casi realizzati a bassi budget, che spesso non sono “regie” in senso classico, ma testimonianze, sforzi narrativi che tirano dall'oblio spaccati di realtà, portandola su un piano parallelo, quello del cinema appunto. Dopo aver conosciuto questi aspetti del lavoro di Fava, così vicini al lavoro

che facciamo, abbiamo sentito la necessità di trovare il modo di diffondere queste opere, convinti che siano, oggi ancor più di ieri, dei documenti illuminanti, utili, originali, tanto nei contenuti che nelle forme. Un veicolo contemporaneo per portare il pensiero di Fava tra la gente. La scrittura e l'immagine L'interesse di Fava per il cinema si avverte già dai primi scritti, segni evidenti e continui di note, particolari e didascalie che esprimono un rapporto con il frammento narrativo e scenico sempre in tensione, come se la spinta descrittiva interna a questi lavori fosse trasportata da un movimento teso e continuo verso un rapporto diretto con i personaggi e con l'attenta osservazione della realtà (per quanto immaginata, inventata, ripresa e/o rimodellata). Prima che vi uccidano - primo romanzo del 1967 ma pubblicato da Bompiani solo nel 1977, dopo il successo di Gente di rispetto - possiede già pienamente questo linguaggio e qualcuno ha fatto notare (nella seconda di copertina dell'edizione citata) la relazione con alcuni tratti tipici dei kolossal cinematografici, tanto per l'epopea che vi si racconta quanto per la quantità di personaggi che si muovono tra le storie. Ma è importante notare come Fava spoglia questa dimensione dal divismo e dall'esagerazione romantica a cui la mente subito

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corre: non ci sono eroi, le scene di povertà, di violenza, di potere sono spesso dure e impressionanti a causa della loro crudezza e di quei primi piani lucidi e atroci che solo un racconto minuzioso (o una sequenza ben costruita) è in grado di generare. Adatte a questo caso le stesse parole di Florestano Vancini che, sotto la spinta di Dino De Laurentiis, riprese il testo teatrale La Violenza del 1970, per il film La violenza: Quinto potere (1972), che “non fu accolto bene dalla critica. Probabilmente a causa del fatto che era un film privo di un eroe. I film di mafia che funzionavano all'epoca, quelli di Damiani o di Petri per intenderci, avevano sempre una risoluzione... c'è sempre una figura emergente. Nel mio film invece questa figura non c'è. Tanti personaggi e nessun eroe: nessuno è protagonista” (in Florestano Vancini. Intervista a un maestro del cinema di Valeria Napolitano). Questa dimensione di equilibrio tra i personaggi, è già propria del testo teatrale. É una dimensione che si ripresenta spesso nelle opere di Fava: la moltiplicazione dei personaggi centrali che rappresentano di volta in volta parti differenti di società, e parlano, agiscono o urlano in nome di quelle precise parti sociali. È l'individuo che predomina, con la sua forza e la sua disperazione, la supremazia, la vigliaccheria, il male, la debolezza e la speranza.


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“Un veicolo contemporaneo per portare l'opera di Fava tra la gente” È nota l'importanza che la fotografia ha avuto nel lavoro di Fava, dal giornalismo alla pittura. Allo stesso modo credo che la sua scrittura nasca da un rapporto intrinseco con l'immagine in movimento: è la scrittura di un regista che fa vedere e racconta attraverso un movimento della descrizione. Vittorio Sindoni ci dice che sono stati necessari solo tre giorni per scrivere la sceneggiatura delle 6 puntate per la Rai. 6 film, tra documentario, fiction e teatro, scritti in soli tre giorni. Sono infatti film tratti dalle inchieste contenute in Processo alla Sicilia e I Siciliani, testi che sono già in sé delle sceneggiature complete. Film che contengono estratti di quelle opere teatrali le cui didascalie sono così minuziose che lo stesso Giorgio Albertazzi ne sottolineò la bellezza dicendo che “avrebbero meritato una pubblicazione a parte” (è una dichiarazione di Pippo Pattavina, contenuta negli Atti della giornata di studi dell'Università di Catania). La sceneggiatura è dunque già scritta, è il risultato di trent'anni di lavoro e analisi, basta spezzare, riallacciare, incastrare i pezzi in questo grande quadro postmoderno di cui Fava conosce ormai le venature più sottili, i solchi più profondi, poetici, terribili. Le opere tra cinema e televisione È intorno alla fine degli anni settanta che Fava prende in considerazione la

possibilità di usare - in prima persona - le immagini in movimento, di scrivere e agire mediante il cinema, o meglio, la televisione. E' il periodo in cui si comprende il potere (anche il più oscuro) del mezzo e le guerre combattute su vari fronti porteranno al conosciuto predominio della Tv commerciale. Dal canto suo Fava ha sempre preferito il teatro come veicolo di pensiero, perché arriva in modo diretto alla gente, quindi più adatto a “restare dentro la verità” (Cronaca di un uomo libero, di Rosalba Cannavò, p.107), evita le trappole e le crisi economiche del cinema, e può “...essere fruibile anche da un punto di vista televisivo. [...] Attraverso lo strumento televisivo il teatro può essere portato alla conoscenza di immense moltitudini [...]” (Pietro Isgrò, Cinque domande “cattive” a Giuseppe Fava, “La Sicilia”, 25.1.1975). Mediante le immagini televisive poteva intrecciare le inchieste, mettere in scena stralci delle opere teatrali, ricostruendo – ancora - certi personaggi, riadattando storie e narrazioni, poteva mettere in gioco la stessa propria presenza fisica e mostrare a milioni di persone quello di cui stava così assiduamente scrivendo. Fava in passato aveva collaborato con registi di spessore: con Vancini per La violenza: quinto potere, con Zampa per il deludente Gente di rispetto, con Werner Schroeter per Palermo oder Wolfsburg, Orso d'oro a Berlino, capolavoro mai distribuito in Italia.

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I FILM La violenza: quinto potere regia: Florestano Vancini (Italia, 1972, 85') dal testo teatrale “La Violenza” di Giuseppe Fava. Gente di rispetto regia: Luigi Zampa (Italia, 1975, 115') dal romanzo omonimo di Giuseppe Fava. Palermo oder Wolfsburg regia: Werner Schroeter (RFT/Svizzera, 1980, 175') sceneggiatura: Giuseppe Fava, Werner Schroeter, O. Torrisi, K. Dethloff (Orso d'Oro a Berlino, mai distribuito in Italia. Dalla sceneggiatura Fava trasse il romanzo Passione di Michele). LE SERIE PER RAITRE “Siciliani” regia Vittorio Sindoni da e con Giuseppe Fava 1980 - durata totale 210' (per ordine di trasmissione RAI) Gaetano Falsaperla, emigrante L'occasione mancata La conversazione mai interrotta Opere Buffe La rivoluzione mancata Da Villalba a Palermo “Effetto luna sulla Sicilia ellenica” regia e sceneggiatura Giuseppe Fava 1982 – durata totale 114' Il tempo, la bellezza, il silenzio Clowns del teatro antico ovvero il Miles siciliano Anonimo siciliano


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Conosce quindi la povertà culturale di cui soffre l'industria-cinematografica italiana, e non si fida: troppe trappole, il cinema è in piena crisi economica, le sale iniziano a svuotarsi e da lì a poco una percentuale altissima passerà ai porno e successivamente chiuderà i battenti. E' durante l'esperienza con Schroeter che Fava segue la troupe a Berlino e Wolfsburg, per intere settimane, scoprendo così i segreti della macchina-cinema: questo viaggio sarà fondamentale per il suo rapporto con la macchina da presa che da lì a breve si svilupperà. L'esperimento televisivo Nello stesso periodo Mario Giusti viene nominato direttore della Terza Rete siciliana della Rai. Giusti non è solo un amico di Fava, ma anche uno stretto collaboratore: è direttore del teatro Stabile di Catania, ha lavorato su diverse opere di Fava, dunque accetta la richiesta di quest'ultimo e approva il progetto per una serie di episodi televisivi che raccontino “gli aspetti più agghiaccianti dell'isola” (da un articolo ritrovato su ufficiostampa.rai.it). Si arriva così alla serie televisiva “Siciliani” - un misto tra documentario, film d'inchiesta, teatro filmato – girata in 16 mm, che verrà trasmessa sulla rete nazionale un'unica volta nel 1982. La Rai affida la regia a Vittorio Sindoni ed è quest'ultimo che chiama Riz Ortolani per la colonna sonora. Il viaggio di

Fava e Sindoni lungo l'isola dura circa un mese. “Vogliamo proporre al resto degli italiani un'immagine dei siciliani diversa da quella stereotipata che si sono fatti ancor prima dell'unità d'Italia”, questa la dichiarazione che Fava e Sindoni rilasciano all'ufficio stampa della Rai. Siciliani: i sei film Il risultato sono 6 film dalle caratteristiche molto diverse tra loro ma con una precisa coerenza nella ripresa e ricostruzione della realtà, tra improvvisazione e finzione. I temi sono diversi: la lucida sintesi storica dalla vecchia alla nuova mafia (Da Villalba a Palermo), lo scandalo dei terremotati della Valle del Belice (L'occasione mancata), la miseria in cui i bambini vengono fatti emigranti (La rivoluzione mancata), i “paesi buoni” senza criminalità ma “morti” (La conversazione mai interrotta), la devastazione delle industrie e la beffa delle miniere (Opere Buffe), l'emigrazione forzata (Gaetano Falsaperla, emigrante). Al cambiare dei temi cambiano i registri narrativi, il linguaggio che si dà è a volte freddo e serrato altre volte triste e malinconico. La regia di Sindoni è semplice, si limita a seguire la voce e l'intrecciarsi dei testi, mentre la voce-off, dello stesso Fava, è a tratti onnisciente a tratti talmente umana da confondersi con quella della gente, per strada: in Da Vil-

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lalba a Palermo Fava chiede ad un ragazzo “ma se vedessi ammazzare una persona per strada, andresti alla polizia?”, e il ragazzo risponde “e se io le chiedessi la stessa cosa? Lei cosa farebbe?”. La voce-off rende esaltante e amplifica la presenza fisica di Fava che intervista, sta dietro la camera, entra in relazione con i personaggi, recita, con la leggerezza di chi sa parlare con le persone (di teatro o di strada che siano), con la sicurezza di chi conosce altrettanto a fondo quell'intricata situazione sociale dominante. Fava intervista uomini, donne, bambini, vecchi, che sono minatori, disoccupati, casalinghe col marito all'estero, migranti, mafiosi, professori, poeti, artisti. Si serve di fotografie, ricostruisce scene di omicidi, di viaggi in treno, si cala dentro le miniere dell'entroterra, tira fuori testi di teatro, di romanzi, di inchieste. Alcuni di questi incontri sono fortuiti, fatti lungo il viaggio, altri sono scritti e recitati. Effetto luna sulla Sicilia ellenica (l'immagine come scrittura) Dietro questi lavori c'è una struttura creata a Catania da Fava per il teatro, la Cooperativa Alpha, che inizia a occuparsi di produzione cinematografica lavorando con un gruppo di giovani tecnici siciliani.


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Dopo la serie Siciliani, la Cooperativa produce per RaiTre le serie Minoranze etniche in Sicilia, dell'allora sconosciuto Giuseppe Tornatore; Le feste popolari, di Orazio Torrisi (che era stato aiuto regia nel film di Schroeter e organizzatore di produzione per Siciliani); e andrà coi conti in rosso per Effetto luna sulla Sicilia ellenica, le quattro regie di Fava. Uno di questi quattro film – si parla di una Medea siciliana con Ida Di Benedetto - lo stiamo ancora cercando, ma scoprire le tre regie realizzate interamente

LE PROSSIME DATE 24 e 25 gennaio Sala Trevi - Cineteca Nazionale (Roma) 28, 29 e 30 gennaio Museo Nazionale del Cinema (Torino) Per info e programmi: www.nomadica.eu info@nomadica.eu

da Fava (con l'aiuto di Orazio Torrisi), con una troupe leggerissima è stata una grossa emozione, soprattutto per la totale libertà di espressione che risulta subito evidente. Certo da un punto di vista tecnico questi film sono disastrosi, ma Fava è finalmente svincolato dai linguaggi che in un modo o nell'altro i suoi collaboratori hanno apportato nei film precedenti e si sente libero di sperimentare: Il tempo, la bellezza, il silenzio è una poesia per immagini, in Clowns del teatro antico ovvero il Miles siciliano riadatta Plauto, in Anonimo Siciliano riprende la sua regia teatrale, Foemina Ridens, lasciandola impressionata su pellicola. La retrospettiva La retrospettiva sul cinema di Pippo Fava curata da Nomadica – circuito autonomo per il cinema di ricerca è itinerante, e intreccia spazi istituzionali e non, centri sociali, teatri, scuole e quant'altro.

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“...Una serie di episodi che raccontino gli aspetti più agghiaccianti dell'isola...” Vogliamo superare quelle divisioni che purtroppo regnano nella cultura italiana rendendo sterile ogni manifestazione, da una parte e dall'altra. Questi eventi sono organizzati con il sostegno e il prezioso aiuto della Fondazione Fava, del Coordinamento Fava, de I mille occhi – festival del cinema e delle arti, di Fuori Orario – Raitre, della Cineteca Nazionale di Roma, del Museo Nazionale del Cinema di Torino, della Deutsche Kinemathek, di Aiace Torino, di Prime Bande e di tutti quei centri e gruppi che ci permetteranno di ridare liberamente alla gente immagini e pensieri.


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Musica

Bix, Jerry e il signor Igor Ovvero, come può un’ottica di precisione viaggiare a ritroso nel tempo, trovarsi sul letto di morte di un fragile trombettista bianco, e salvargli, ancora per poco la vita? Niente paura, si tratta di un disco… di Antonello Oliva

… Un bel disco, per spiegare il perché però bisogna prima capire da dove cominciare e di cosa esattamente parlare. Andiamo con ordine. Il lavoro è di Mauro Ottolini, che qui si presenta con la sua Sousaphonix band composta da 11 elementi ( Mauro Negri, Vincenzo Vasi, Dan Kinzelman, Paolo Botti, Danilo Gallo, Zeno De Rossi, etc.), che con lui fanno dodici. Lui si sa, suona il trombone ed è uno dei più brillanti ed eclettici jazzisti italiani del momento. Per chi non seguisse molto il jazz diciamo che è quello col cappello che suona il trombone – anche - nella band di Vinicio Capossela.

Il disco in realtà sono due, due CD, per una durata totale di 85 minuti suddivisi in venti tracce, il che lascia intuire uno sforzo produttivo e compositivo niente male, ma poi sbirciando meglio si scopre che Ottolini di queste tracce in effetti ne firma una soltanto, e che le altre sono distribuite più o meno procapite tra Stravinsky, La Rocca, Victor Young, Blind Willie Johnson, W.C. Handy, Hoagy Carmichael, Bix Beiderbecke, e altri. Non si capisce. Il titolo, Bix Factor, potrebbe far pensare a un lavoro dedicato a Bix Beiderbecke, un omaggio come si dice, ma l’ipotesi non regge, c’è un solo brano di Bix in scaletta. Per cominciare a capire qualcosa bisogna allora tirar fuori il libretto che accompagna i dischetti, dove oltre a tutte le solite cose relative a missaggio, ringraziamenti, eccetera, ben quaranta pagine sono occupate da un racconto: Bix Factor, racconto fantastico scritto da Mauro Ottolini e Vanessa Tagliabue Yorke. Lei prima non l’avevamo citata ma è anche una delle due –bravissime- cantanti della band. L’altra è Stephanie Ocèan Ghizzoni. Insomma, capita che musicisti in vena di romanzerie approfittino del libretto per buttarci dentro anche un raccontino scritto qua e là. Non separabili, musica e scrittura Non c’è niente di male a leggerselo, magari però prima si fa intanto la recensione del disco, giusto per non parlarne un anno dopo. In questo caso però è diverso, perché già dalle prime pagine del racconto fantastico si capisce che libro e disco in realtà non sono separabili. Cioè, lo sono,

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ma sarebbe come vedersi Les Triplettes de Belleville senza l’ausilio della colonna sonora e viceversa. Doppio lavoro quindi, bisogna leggerselo tutto il libro, che non è proprio un librettino. Venti capitoli per venti tracce musicali, non fa una piega. Ma è un’operazione fondamentale, perché è solo a questo punto che il tutto finalmente risulta chiaro, e si può quindi usufruire della complessità del lavoro nella sua interezza. Forse, era il disco dell'anno Prima era solo un bel disco, anzi diciamolo pure, un gran bel disco, insolito per il panorama italiano, inciso magnificamente, e perche no? candidabile pure a disco dell’anno con buone probabilità di successo. Insieme però diventano un’altra cosa, una sorta di terzo elemento, finale e sommatorio, che stravolge le leggi aritmetiche e ottiene cinque da due più due. Geniale. Il racconto è una mirabolante metafora che coglie in modo intelligente una porzione di spirito di questo presente e ne trattiene con passione la parte offesa, quella mancante. Il respiro è quello di un Triste, Solitario y Final ambientato nella musica americana degli anni Trenta, qua e là mischiato con cazzate stile Blues Brothers. Scritto, sembrerebbe, tutto d’un fiato, bene, quasi senza però voler mostrare pretese letterarie. Con un pizzico di immaginazione lo si può leggere anche come un film, irresistibile nel ritmo, e con una strepitosa colonna sonora. Chissà se qualche regista stavolta troverà il coraggio di farlo.


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Persone

Appunti di un diario collettivo Dopo la sentenza della Cassazione sull'affidamento di un figlio alla madre lesbica di Fabio D'Urso - Pronto? Quella mattina di qualche giorno fa, prima di leggere sui giornali la notizia della sentenza della Corte di Cassazione, mi era arrivata la telefonata di una amica di cui vi racconterò fra un poco. Questa telefonata inaspettata, un po' maldestramente mi aveva messo l'ansia di scrivere qualcosa, come se ci si aspettasse da me un'azione che doveva prodursi. La mia anziana amica mi conosceva da piccoletto, aveva in qualche modo seguito tutta la mia "sformazione” da cattolico a laico. Da giovinetto ad ora, a parte una frequentazione periodica di un paio di anni, ci eravamo visti tante volte, ma i nostri incontri per strada, sempre casuali, di volta in volta mi avevano reso sempre il piacere della nostra amicizia. Lei oggi ha più o meno ottanta anni, e io quarandue. E per ricordamelo scrivo più di diciotto dopo il mio coming out, e il collettivo gay di Circuito elettrico, Catania: e tanto è cambiata la vita da gay dichiarato. Perciò non appena finita la telefonata , ho aperto il motore di ricerca del web, e sono andato a leggermi la notizia della Corte di Cassazione che affida il figlio a una donna che vive in coppia con la sua patner. La nostra vita reale Il diritto all'affidamento, penso leggendomi la notizia, è solo una delle questioni che hanno a che fare con la vita reale di tante donne e uomini in Italia. Con la mia e con la tua che leggi. C'è anche il diritto alla vivibilità, alla visibilità, a non essere discriminati, a non dover dissimulare stile di vita per non dovere essere licenziati dal lavoro, o per es-

sere semplicemente assunti come tutti. Il diritto alla visibilità, le nuove generazioni lesbiche e gay in Italia a mio avviso se lo sono dimenticato. Perchè è un diritto che non serve, che non funziona in un sistema sociale come il nostro. Perchè non serve? Perchè prima o poi ti può relegare all'esclusione. Questo però lo ammetto, è un giudizio di parte, che va confrontato con la vita singola di ognuno, e con i veloci cambiamenti collettivi. Il giudizio di un ex giornalista che oggi di professione non fa il sociologo ma il volantinatore. Un giudizio dopo due decenni di visibilità passati in un quartiere di periferia catanese con la gente che mi ha visto andare a vent'anni in televisione, a trenta a fare il cameriere, a quaranta con uno zaino per le strade a spartire pubblicità. E ancora per me, c'è la questione della violenza di ogni giorno, quella dell'intolleranza culturale, o quella straodinariamente reale delle botte di ogni genere, in una strada solitaria, o in un pub, o allo stadio, negli angoli della città dove il diritto ha a che a fare con la sopraf-fazione concreta, ma invisibile. Leggendo e rileggendo E torniamo così all'oggetto iniziale, alla sentenza della Corte di Cassazione. Leggendo e rileggendo la notizia, mentre scrivo, cucino, lavoro con Pedro, Antonio Andrea , gli altri alla pagina facebook “LGBTQfobia?Nograzie” e telefono per confrontarmi, mi chiedo: come mai in Italia, nessuna proposta di legge per la tutela dei diritti di uomini e donne omosessuali sia stata approvata? Perchè la vita e le relazioni omosessuali rimangono ferme all'interno degli spazi privati, e sono rese solo come fatto mediatico, o come bandiera appartenente alla politiche dei movimenti? Quando davvero il termine gay indicherà davvero una felicità solidale per tutti? Questi diritti non riguardano solo una minoranza, appartengono a tutto il paese, così come le battaglie per la “Rivoluzione civile” dell'Italia.

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Allora penso che prima del matrimonio gay in Italia avremo dei figli di coppie lesbiche e gay, che hanno per legge un solo genitore, e quindi non possono essere adottati dall'altro compagno. Senza il formale passaggio da “compagni a coniugi”, senza il diritto all'adozione da parte di uno dei patner, comunque senza una risoluzione positiva sulla questione dell'omogenitorialità, questi figli non avranno i diritti necessari alla loro tutela ma saranno di fatto discrimati. “Parliamone, dài!” Ma ritorniamo a quella telefonata che mi ha svegliato, per spiegarvi la mia ingenua felicità a proposito della sentenza. - Pronto, Fabio. Segreto svelato, l'anziana amica è la mia vecchia catechista di cresima. Si chiama Ida. Ha gli occhi allegri e ti ricorda Papa Giovanni se fosse stato donna. “Pronto Ida!”. - Pronto Fabio! Come stai, stai scrivendo? Stai lavorando? Come sta il compagno? La telefonata finisce e a me viene in mente quella discussione con Gabriele, uno dei miei cari amici che fa il frate francescano. Come per darmi coraggio, mi dice: - Fabio, lo fai un figlio?. “Dove? Qui, dove la discrimazione parte dalla struttura religiosa e sociale del paese ?”. - E però il comportamento pian piano cambia. Come alla clinica ostetrica dell'ospedale di Padova, due settimane fa alla compagna di una donna che ha dato alla luce un bimbo, le hanno segnato nel braccialetto “patner”; così che l'hanno fatta entrare e uscire dal reparto come per ogni altro genitore. Ma il senso comune è ancora lontano da queste eccezioni; è la cosidetta “sensibilità” dei cattolici il solo terrerente all'impossibilità ai cambiamenti effettivi? Quali altri motivi, in definitiva, ci fanno soffrire una mancata applicazione dei diritti sociali, che sono anche orientamenti specifici dell'Unione Europea da due decenni?


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Non solo la Cassazione Qui ci vogliono tante donne e uomini come Ida, e fra Gabriele che in ogni “luogo” del paese sanno superare quella incapacità intriseca al cambiamento e che sanno spiegare alla gente che ogni relazione di per se è bella e positiva quando è vissuta serenamente. Ma non solo, ci vuole anche il coraggio di saper render questo conflitto implicito, come un fatto che rientra davvero nei programmi politici. Oggi in Italia la Corte di Cassazione ci dice che qui il diritto c'è. E la politica quanto ci metterà a spiegare che il diritto, alla famiglia e ai figli è di tutti? Che siamo dentro alla Costituzione, e all'Europa dei popoli e dei diritti? Lo sappiamo bene che in ogni stato, il diritto e la vita della gente viaggiano con tempi diversi, ma qui in Italia, bisogna passare dal giudizio della Cassazione all'estensione del diritto al matrimonio, e all'adozione come un fatto giuridico, intregato con la vita della gente. Alla televisione, il riformatore Monti ci ha spiegato con tre parole - un uomo, una donna, una famiglia - che il sistema di equilibrio finanziario ed economico e politico del paese, che unisce l'Italia con l'euro e l'euro con l'Europa passa dallo Stato del Vaticano. E che le direttive europee sui diritti degli individui valgono poca cosa. Bersani invece si appella al rispetto per la sensibilità cattolica. Ma allora c'è davvero un' incapacità ad affrontare questa questione, o no? Pertanto qui in Italia non basta solo il si della Cassazione. Ci vuole una affermazione del diritto dentro la politica dei partiti. Prima ancora quel sì sincero della società civile. E infine il nostro, quello della nostra mente, e delle nostre azioni specifiche, che ci mettono in condizioni di affrontare un processo di cambiamento. “Cosa ci manca” In questi giorni, me la sono discussa con tanti amici. Vorrei finire con due rifles- sioni, la prima è di Luigi Malerba ventisei anni; questa è una parte del suo diario, postato nel suo blog, e risponde alla domanda "che ci

Scheda LA SENTENZA 601

La Prima sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 601, ha affrontato il caso dell'affidamento di un figlio. La Corte d'appello di Brescia, con la sentenza del 26 luglio 2011, aveva affidato il bambino alla madre. Il padre si era opposto, con la motivazione che l'ex moglie conviveva con una nuova partner, e che il bambino sarebbe stato inserito in una famiglia omosessuale con «ripercussioni negative sull'equilibrio emotivo e psichico del bambino». La Cassazione ha confermato l'affidamento esclusivo alla madre, evidenziando che alla base delle lamentele «non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale». Daniela Tomasino Arcigay Palermo

manca come gay e come giovani, in questo paese". "In teoria non mi manca nulla. Ho un lavoro, ed ho pure la fortuna che faccio il lavoro che desidero. Ho una famiglia e sto bene e non ho problemi nè di salute nè di altri tipi. Ho degli amici, non tantissimi, ma nemmeno pochi; anzi penso che siano proprio il giusto. Con loro mi diverto e anche adesso che son lontano li sento ancora come se ogni sera ci mettessimo daccordo per uscire, per spassarcela. E potrei continuare questa lista inserendo tantissime altre cose scontate, passando dalla buona salute ad altre banalità che non voglio nemmeno soffermarmi, non perche non voglio pensare chissà che e non voglio nemmeno piangermi addosso. Voglio solo riflettere perchè alle volte dentro di noi sentiamo certi vuoti. Ci manca cosa? L'affetto di una persona al nostro fianco? Ci manca l'amore? O forse è solo colpa di questo brutto tempo?". La seconda è di Guido Alabiso, che vive a Bergamo. Eccola qui: "Io ho sofferto da sempre nel dover accettare il fatto di non diventare padre; io un figlio lo adotterei subito se potessi, anche se sarebbe difficile e complicato farlo crescere e vivere nella nostra società. Ma ammetto che dell'ultima frase non ne sono pienamente convinto. Perchè sulle mie spalle ho provato che ad essere se stessi si riceve sempre tanto bene".

Commenti/1 IERI E OGGI

Sapevamo che una lesbica può essere una buona madre, un gay può essere un buon padre. Ce lo diceva la vita reale, il nostro desiderio genitoriale, i sorrisi dei bambini. La Corte Costituzionale lo conferma con una recentissima sentenza e noi lo prendiamo come riscatto delle sofferenze e dei pregiudizi che ostacolano i nostri percorsi di persone lesbiche, gay, bisex, transex, queer. Volevo ricordarvi che oggi che ricorre il quindicesimo anniversario del suicidio di Alfredo Ormando, poeta e scrittore siciliano bruciatosi vivo a Piazza S. Pietro, in Vaticano, in quella stessa piazza quattro femministe del gruppo ucraino Femen svestono i loro corpi rivendicando le istanze dei nostri diritti civili. Dimostrando così a noi, e al mondo che niente ci sarà regalato e che dovremo lottare per avere quello che ci spetta. E allora copriamo le nostre paure con il loro coraggio, e lottiamo, lottiamo. Ancora. Fino a quando non avremo né paura e nemmeno sensi di colpa. e saremo finalmente lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer liberi e liberati, tutte e tutti! Sara Crescimone Open Mind Catania

Commenti/2 “E' QUASI BANALE”

La sentenza 601 della Cassazione è quasi banale. Non esiste uno studio scientifico che confermi il pregiudizio che essere cresciuti da una persona o da una coppia omosessuale danneggi la salute psico-fisica di un bambino. Di contro, esistono studi che evidenziano una minore incidenza di disagi psichici in bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali. In altre parole, le teorie secondo cui le coppie omosessuali non sono buoni genitori sono balle. Bugie ideologiche, spacciate come vere da giornalisti superficiali e politici omofobi. Per questo la sentenza è banale nella sua semplice ovvietà: se non esiste alcuna prova delle affermazioni del padre (che l'aveva abbandonato quando aveva 10 mesi, e aveva malmenato madre e compagna), il figlio resta affidato alla madre. Semplice buon senso. A riuscire ogni volta a stupirmi sono le polemiche e i commenti: la Cei, alcuni prelati, alcuni politici affannati a rilasciare dichiarazioni: anche se scienza e buon senso dicono il contrario, la sentenza sarebbe “contro natura". Queste persone credono che sia giusto e “naturale” strappare un bambino alla propria famiglia o consegnarlo a un padre violento. Sono queste le persone che impediscono, in Italia, l'adozione di provvedimenti di legge che sono baluardi di civiltà e che garantirebbero la pienezza dei diritti di cittadinanza per le persone LGBT: la legge contro l'omofobia (ovvero un'aggravante per i crimini commessi per omofobia, come già succede ad es. per il razzismo) e il riconoscimento del diritto di matrimonio per tutti. Sono loro che impediscono all'Italia di diventare un Paese pienamente civile, anteponendo alla cultura dei diritti umani un'ideologia cieca e violenta. Daniela Tomasino

Video: https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=_doGMGG6dl0https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=_doGMGG6dl0https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=_doGMGG6dl0#)

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Politica/ La vigilia

Il voto senza attese di un Paese senz’anima Tempo di elezioni. Nonostante le attese, nulla di epocale... di Pietro Orsatti

La classe politica, vecchia e nuova, da una parte e il Paese dall'altra a cercare di capire non cosa sia meglio ma cosa sia meno peggio. Non perché ci sia un deficit da parte dei partiti in termini di progetto o di costruzione di programmi e architetture di governo, ma perché sono gli italiani a non avere nessuna idea di come uscire da una crisi economica, sociale, etica e culturale che ha trascinato il paese in un vortice, nel collo di un imbuto che tutto inghiotte e tutto fa ricadere al suolo. Bisognerebbe ringraziare Mario Monti per aver dissipato ogni dubbio sulla vera natura del suo progetto politico e culturale con la sua discesa in campo. Altro che "salita". Ha scelto di far emergere il gioco sporco (e basso) che ha tenuto in piedi il suo governo: rappresentare gli interessi di un'élite ristretta (molto più angusta della presunta borghesia italiana) a discapito del paese, della maggioranza dei cittadini e dell'insieme di bisogni (molto diversi dagli interessi) degli italiani. Un'élite che non ha nessun punto di contatto con la realtà produttiva ed economica nazionale (ed anche europea) ma che guarda solo agli utili finanziari a breve durata. E che ha governato per un anno prima millantando una missione salvifica e poi con la minaccia di un fantomatico Armageddon: "senza noi il baratro". A dimostrazione di quale sia il vero mandato di Monti, il disagio di pezzi importanti (anche clericali) del cosiddetto mondo cattolico che pur appoggiandolo non mancano occasione di chiedere a gran

voce una maggiore attenzione al sociale e all'economia reale e una via di uscita dall'ossessione finanziaria del professore. Ulteriore conferma di quale sia il mondo di riferimento di Monti e di quanto sia stato poco tecnico e molto invece corporativistico e politico il suo mandato di governo ci viene fornita dai comportamenti del professore sulle alleanze non tanto a livello nazionale quanto in Lombardia con l’appoggio al candidato Albertini in chiave anti centrosinistra. Appoggio dietro il quale ci sarebbe come architetto Gianni Letta che sta cercando, con la sua usuale abilità, di creare i presupposti per rendere instabile un governo nazionale di centro sinistra a guida Pd/Sel sottraendo, attraverso i cavilli del porcellum, la maggioranza assoluta alla coalizione guidata da Pierluigi Bersani al Senato e costringendo quindi il Pd a cercare un’alleanza post elettorale con lo strano oggetto politico montiano. E quindi con i poteri che rappresenta. Letta e Berlusconi La chiave delle elezioni è in Lombardia. E sul voto e sul premio di maggioranza sul piano regionale previsto dalla attuale legge al Senato. Basta un voto in meno in Lombardia per togliere la maggioranza assoluta alla coalizione Pd/Sel. E’ Berlusconi che comanda Letta o è Letta che condiziona Berlusconi? Letta è uomo di contatto (e di governo?) di un certo mondo culturale e finanziario Italiano. Ben prima dell’innamoramento con il cavaliere. Non è un caso che sia il fondatore (e il condizionatore) di un oggetto particolare come l’Aspen Institute Italia, dove politici e esponenti del mondo economico e finanziario, si incontrino “riservatamente” (non lo diciamo noi ma lo stesso statuto dell’Istituto) per studiare assieme strategie comuni. Una sorta di forum delle lobby principalmente finanziarie che da vent’anni almeno ha cercato di condizionare le scelte economiche e politiche non solo dei governi guidati da Silvio Berluscuni ma anche quelli guidati dal centro sinistra.

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Che Letta sia stato in tutti i governi del cavaliere il braccio destro del premier (senza passare mai attraverso la verifica del voto) racconta quanto questi sia stato uomo di garanzia per la finanza italiana (e non solo) e forse di “vigilanza” per tenere sotto controllo il tornado Silvio. Ed è anche interessante rilevare come si tenesse in disparte nelle convulse fasi finali del governo Pdl/Lega e come cercò in tutti i modi di tenere bassi i toni nel passaggio di consegne fra Berlusconi e Monti. Che Letta oggi sia artefice dei giochetti di prestigio in Lombardia in favore di Monti (nonostante il suo presunto “padrone” tuoni ogni giorno contro il professore) dimostra quanto e come le lobby che siedono al tavolo delle riunioni riservate alla Aspen siano attive in questi tempi. In questo tipo di scenario Berlusconi assume più che la caratteristica di un avversario del centro sinistra quella di un’arma utilizzata dal potere finanziario per condizionare le scelte di governo del Pd attraverso, se il progetto avrà successo, un’alleanza obbligata di Bersani con Monti per garantire il sogno di governabilità. E le alleanze significano precisi punti programmatici (no alla patrimoniale e no alla tassazione delle rendite e transazioni finanziarie). Berlusconi ha pochissime possibilità di vincere le elezioni, Bersani ne ha molte di vincerle zoppe, cioè con la maggioranza assoluta solo alla Camera e con l’obbligo quindi di trattare con Monti. Qualcosa si muove nel centrosinistra Le primarie per la scelta per il premier prima e per selezionare parte dei candidati al parlamento poi, hanno innescato, purtroppo timidamente, un meccanismo di rinnovamento della classe politica. Purtroppo il cosiddetti “listini” (che sono diventati dei listoni per cercare di accontentare correnti e correntine) hanno condizionato e non poco sia il Pd che Sel. Inaspettatamente è il Pd che sembra aver metabolizzato meglio il meccanismo primarie. In particolare grazie all’ingresso di moltissime donne in posizioni “eleggibili” nelle liste elettorali.


www.isiciliani.it Questa è una novità di non poco conto che però ha riguardato se non marginalmente anche la composizione delle liste di Sel. Alla fine la struttura-partito del Pd (con tutte le sue difficoltà e contraddizioni) si è aperta più del partito di Vendola. In parte favorita anche dall’apparente ritirata degli eterni duellanti Veltroni e D’Alema. In parte perché Vendola, che guida un cartello elettorale più che un partito, tenuto insieme più dal suo carisma che da un progetto culturale comune, anche se contraddittorio come quello del Pd, ha subito di più le pressioni delle varie anime della sua organizzazione. E ancora, Sel non ha trovato una forma di organizzazione e di rappresentanza interna delle varie anime e priorità che gli consentissero di avviarsi in termini ancora più evidenti del Pd a un processo di apertura e di rinnovamento del ceto politico. In ogni caso l’alleanza di centro sinistra sembra tenere, il programma anche se “monco” su molti piani ha una sua forma e un suo chiaro indirizzo. Che reggerà anche con una maggioranza chiara alla Camera a fronte di un mancato obiettivo “di sicurezza” al Senato? La questione è tutta lì. Con la necessità di aprire al centro montiano per governare cosa accadrà alla coalizione nata dal popolo delle primarie? Il sospetto è che ci sia all’interno del Pd chi si augura una mancata maggioranza al Senato per imbarcare il professore. Con effetti a medio termine pesanti per il centro sinistra che probabilmente deflagrerebbe con conseguenze (visto il momento storico che stiamo attraversando) ben peggiori di quelle provocate dalla caduta del secondo governo Prodi nel 2008. Personale o messianico? Il partito-Grillo Il comico genovese, nonostante i proclami e lo tsunami tour (scrivo nel giorno di partenza della campagna elettorale di M5S) sta attraversando un momentaccio. L’abbraccio con Gianroberto Casaleggio si è fatto troppo stretto, gli ha provocato un sacco di guai (mezzo movimento in Emilia espulso, problemi anche in Piemonte e polemiche a non finire interne ed esterne sulla democrazia nel M5S). Per il resto ha fatto il carattere del “messia” (parola sempre del buon Gianroberto) che non tollera discussioni, dibattiti e tanto meno critiche. Si è capito ormai che l’unica forma di democrazia tollerata da Grillo è la democrazia “diretta” da lui. Poi a metterlo in difficoltà c’è anche un programma elettorale che spesso si contraddice da se, che guarda poco alla realtà economica del paese (mica basta urlare

contro l’euro per essere credibili imitando o facendosi imitare solo da Berlusconi) e che non tocca i problemi chiave che affliggono gli italiani: peso della tassazione e lavoro. E gli effetti si vedono. Il M5S sta erodendo il consenso nei sondaggi. E non di poco. Certo, il fenomeno M5S rimane lì dove il movimento si è mosso, a prescindere da Grillo e da Casaleggio, sul territorio. Ma si sta trasformando da consenso diffuso di opinione a consenso esclusivamente fidelizzato. E in termini percentuali al voto fra una forte spinta degli elettori “free” e quelli “di movimento” questa stretta si farà sentire. Anche perché amici e ex amici caduti in disgrazia in conseguenze qualche impennata umorale di troppo del “messia” si sono organizzati. E andranno a pescare nello stesso bacino elettorale di Grillo. Il cartello di Ingroia Parliamo ovviamente di Antonio Ingroia e del cartello elettorale che si è raccolto attorno alla sua candidatura. Un cartello strano assai, dove la convivenza fra Ferrero, Diliberto, Bonelli, De Magistris e Di Pietro e pezzi dell’Antimafia e dei movimenti sociali sarà sicuramente difficile. Molto complicata anche se su alcuni punti sono riusciti a trovare un quadra a prima vista improbabile. Non me ne voglia l’ex procuratore aggiunto di Palermo, ma le prime mosse sue e della novella formazione politica sono state non proprio all’altezza delle aspettative visto il valore della sua candidatura. Prima l’attacco a Pietro Grasso, l’ex procuratore nazionale antimafia candidato col Pd, poi le polemiche sempre verso il Pd per la mancata risposta da parte di Bersani alle richieste di contatto, potevano essere facilmente evitate e comunque hanno rappresentato una repentina caduta di stile. Che ben poco ha portato al suo progetto e molto invece ai suoi detrattori. Un peccato, perché nonostante il cartello spurio che si è formato, il tentativo serio di dare voce a chi spesso voce e rappresentanza non la ha era ed è una cosa seria e importante. Ancora più importante dopo la cancellazione dal Parlamento nel 2008 di temi e realtà che un peso e un valore ben più rilevanti della semplice testimonianza ne hanno. Probabilmente ha giocato il fattore della mancata esperienza a inficiare in parte le prime mosse di Ingroia. Non basta, in questa fase e sempre, essere un magistrato del valore dell’ex pm per scendere in politica e conquistarsi spazi e interlocuzioni con altri soggetti. Cercando di ignorare, poi, le

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difficoltà di Bersani con Di Pietro da un lato e di Vendola con Ferrero e Diliberto dall’altro. La recente storia politica (e in alcuni casi personale) non è ignorabile e soprattutto non va sottovalutata. La malattia italiana E’ il Paese il grande malato, la politica di conseguenza. La cultura del berlusconismo è difficile da cancellare e superare in così poco tempo. Ha inquinato la società ben più profondamente di quanto si potesse immaginare. Non ha solo rappresentato un pezzo del paese, ha penetrato profondamente etica, cultura, tenuta sociale, processi di coesione, percezione della realtà. Il berlusconismo, che va ben oltre alla figura di Berlusconi, rappresenta la faccia maggioritaria anche se occultata dell’Italia. Di questa Italia che non riesce a scrollarsi di dosso egoismi e furbizie mutuate dall’ormai ex unto del signore e che si incupisce oggi nell’inasprirsi della crisi. E che vede emergere gli istinti peggiori e i poteri più occulti. Che la grande criminalità organizzata sembri (in particolare in Sicilia) stare lontana dalla politica non significa che questa non stia già cercando di individuare chi saranno i prossimi interlocutori con cui sedersi al tavolo o ai quali apparentemente mettersi al servizio per inquinarli e condizionarli a caccia di guadagno e impunità. Che l’élite finanziaria, direttamente con Monti e indirettamente con il ricatto di un ipotetico default, intenda soffiare sul fuoco della recessione per continuare a speculare sui flussi provocati dagli sbalzi borsistici e dai parametri di indebitamento rende chiaro chi vuole guadagnare sulle spalle del paese reale. Che il paese sia diventato socialmente egoista, che la già ampia fascia di poveri dell’ultima stagione berlusconiana sia precipitata dalla povertà alla miseria e che la classe media stia repentinamente contraendosi rende evidente lo stato di ricattabilità sociale di questo paese. Un paese che svuota il concetto di sovranità popolare cedendolo a una presunzione di governabilità. Dalle politiche sociali a quelle del contenimento del disagio in gabbie fra loro impermeabili. E l’unica via di uscita è che la società e la politica trovino il coraggio di ricostruire quelle reti di relazioni e di elaborazione collettiva che trasformino questa palude di interessi corporativistici e personali che hanno attraversato questo ventennio in un processo di ricostruzione culturale e sociale per tornare ad essere un paese europeo e non una tragica barzelletta.


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Politica/ L'agenda Monti

“E io vi marchionno tutti” “Tutta l'Italia deve diventare come Menfi e Pomigliano”. Un programma semplice, forse “tecnico” ma sicuramente anche politico. E senza sconti di Riccardo De Gennaro

La sua campagna elettorale è cominciata nello stabilimento Fiat di Melfi, davanti ai vertici della casa automobilistica e a una platea plaudente fatta di dirigenti, ma anche di operai non sindacalizzati o iscritti alla Fim e alla Uil, mentre i delegati Fiom venivano tenuti fuori per evitare dissensi al patto d’acciaio Monti-Marchionne. Quest’ultimo, ora, è il manager di riferimento, che molto prima di Monti e di Elsa Fornero aveva sottratto altri diritti ai lavoratori. L’obiettivo di Monti, d’altronde, è facilmente sintetizzabile: trasformare tutti i lavoratori italiani in lavoratori di Melfi e Pomigliano con iniezioni progressive di thatcherismo nelle riforme. L'uomo della provvidenza

Il presidente del consiglio uscente, Mario Monti, non più un “tecnico” ma definitivamente uomo politico dopo la conferenza stampa di fine anno, punta alla conferma per acclamazione della sua leadership. L’uomo delle istituzioni creditizie europee, che è riuscito anche a “strappare” senza troppi problemi il Vaticano a Berlusconi, è intenzionato a proseguire il suo cammino in politica. Oltre al sostegno dell’Udc, di Fli e del “centro” di Montezemolo, è infatti impegnato a strappare pezzi del Pd da un lato (vedi Ichino e altri quattro senatori) e del Pdl dall’altro con il solo richiamo della sua “agenda”.

È Monti, oggi, l’uomo forte, l’uomo della provvidenza. La lotta tra Bersani e Renzi per le primarie è dimenticata. Se fino a qualche settimana fa lo scenario più probabile era un governo Bersani con Monti ministro dell’Economia, ora si è ribaltato e i nomi si sono scambiati il posto: Monti nuovamente presidente del Consiglio con Bersani ministro, magari con una delega alle liberalizzazioni. Che Monti possa “ripiegare” sulla carica di presidente della Repubblica non è da escludere, ma non è questo il suo obiettivo. La sua volontà è di continuare a riformare l’Italia a modo suo, cosa possibile soltanto nelle vesti di primo ministro, anche perché è chiarissimo che il “mandato” della grande finanza e delle banche europee gli è stato rinnovato.

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Visto il predecessore... Forte del riconoscimento che gli viene da molte parti per aver recuperato credibilità all’Italia agli occhi del mondo (lo sforzo richiesto non era dei più difficili considerato il predecessore), Monti non avrebbe problemi se decidesse di diventare presidente della Repubblica, ma non ora: “Per me sarebbe conveniente non fare assolutamente niente, ma è un imperativo morale tentare di contribuire a cambiare la cultura del Paese”, ha detto. Sappiamo benissimo quale cultura Monti intende modificare e l’impegno profuso: qui, nel settore del lavoro, della contrattazione, delle pensioni il suo incarico l’ha portato “brillantemente” a termine, ma è in altri ambiti, dove la cultura del Paese va senza dubbio cambiata, che purtroppo ha mancato. Provvedimenti arenati Tra i provvedimenti che sono rimasti nei cassetti (di Palazzo Chigi o di qualche commissione parlamentare) ci sono quelli che dovevano migliorare la trasparenza degli atti e dei bilanci pubblici, tagliare il numero delle province, ridurre deputati e senatori, accorciare i tempi del divorzio, riconoscere la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, garantire la possibilità del testamento biologico, provvedimenti portati avanti con il massimo entusiasmo dalla propaganda, ma che poi – senza voti di fiducia o corsie preferenziali utilizzati per questioni che il premier aveva maggiormente a cuore – si sono arenati. Un caso?


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Sicilia

Dove nulla mai inizia o finisce del tutto Movimenti simmetrici del governo Crocetta di Giovanni Abbagnato La percezione che si ha della Sicilia è di una terra in cui sembra che tutto non sia mai iniziato perché c’è da sempre e non sembra possa mai finire, dato che il preesistente tende a rimodellarsi in forme che non perdono mai del tutto il loro profilo originale. Con tutto il rischio della strumentalità delle congetture, prendiamo il caso del Parlamento e del Governo regionale. Si può oggettivamente dire che nulla sia cambiato dopo le recenti elezioni, marcate pesantemente da un assenteismo record? Di contro, è possibile affermare che è in atto una trasformazione del sistema politico e di governo in Sicilia? Ognuno a queste domande dia le risposte che la sua esperienza e la sua osservazione gli suggeriscono. Ma il commento del cronista, forse, non può che essere impietoso rispetto ad una politica siciliana che sembra perennemente e inesorabilmente schiacciata tra il freddo calcolo - spesso almeno eticamente discutibile - dei mediatori politici di tutti gli interessi presenti nella società e l’improvvisazione un po’ vanesia di chi pensa che il nuovo si afferma per definizione e non per pratica rigorosa e competente di scelte coerenti. Se non si vuole dare la stura al conformismo di maniera, non si può non essere molto perplessi sulla gestione delle origini di questo Esecutivo del Presidente Crocetta, a prescindere dalle giustificate diffidenze iniziali su certe alleanze, ufficiali o ufficiose.

Con il metodo della cronaca, proviamo a mettere in fila alcuni episodi emblematici di questa indefinibilità di scelte, francamente imbarazzanti per come condotte e motivate, anche pubblicamente. Ma Battiato è un assessore? La gestione improvvida, e a tratti tragicomica, della vicenda dell’Assessorato “anomalo” per Battiato, ancora irrisolta in punta di diritto e di regolamenti amministrativi e surrettiziamente affidata alle cure istituzionali di un commis della politica siciliana come il Professor Pitruzzella, noto per essere uomo per tutte le stagioni. La doppia scivolata sulle vicende degli Assessori Valenti e Zichichi, forse relativamente gravi per gli addebiti etici attribuiti, ma sicuramente molto mal gestite, prima che rientrassero in una ricomposizione che, dati i trascorsi dei due, non può certo rassicurare circa la vocazione all’innovazione dei due personaggi. L’uno - il tecnico - suggerito dalla componente centrista del governo che vuole capitalizzare al massimo il suo potere d’interdizione, l’altro - lo scienziato noto, più che per l’elaborazione di leggi di fisica, per le sue capacità di gestione di istituzioni scientifiche, fortemente “benedette” da potenti padrinati politici. La troppo fresca gioventù, nel senso di non supportata da adeguato curriculum, dell’Assessora Scilabra, è probabilmente segno di attenzione troppo estemporanea e viziata da procurato coup de scéne, considerata la grande perizia ed esperienza necessarie per sradicare e trasformare i con-

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tenuti politici della formazione professionale, uno dei più gravi bubboni del bilancio regionale. A questi fatti strani vanno aggiunti il rientro tempestivissimo, per non meglio definite motivazioni personali, di una prima nomina al fondamentale Assessorato al bilancio della Dottoressa D’Amelio Basilio e la designazione dell’Assessore Cartabellotta che del sistema di potere di Cuffaro nell’Agricoltura siciliana ne dovrebbe sapere qualcosa, anche per essere stato candidato in una lista di “Vasa vasa”. L’impressione impietosa di chi, sotto diverse forme e ruoli, segue le cose di Palazzo d’Orleans è che, a certi imbarazzanti “ritorni al passato” nelle occasioni istituzionali, pubbliche e interne al palazzo, si contrappone un’aria - per certi versi simpatica - da armata Brancaleone. Imbarazzanti esternazioni Ma ovviamente questi giudizi, ancorché confermati in modo imbarazzante da alcune esternazioni del Presidente e degli Assessori, potrebbero essere smentiti dall’entrata a regime dell’azione di governo. Intanto, passando all’altro inevitabile polo del nostro ragionamento sul governo della Sicilia, nonostante la presenza neofita e anche un po’ goliardica dei numerosi grillini, domina all’Assemblea regionale uno scenario, sicuramente molto meno naif di quello del governo, ma molto più inquietante e complesso. La situazione assai traballante di una maggioranza praticamente inesistente, da cercare provvedimento per provvedimento, rappresenta l’ennesima grande occasione, che si può cogliere con molte trasversalità, per fare emergere prepotentemente quanto ci si affanna a negare in questo nuovo corso della politica siciliana. Ossia una paralisi incombente da sbloccare con la continua soluzione di ricatti, più o meno discreti.


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Poteri

Un manager di Cosa Nostra Sul piano più generale, sempre mettendo in fila solo alcuni degli argomenti, il rischio più grave è rappresentato (non necessariamentein quest'ordine) da un Presidente della Regione che dimostra di pensare che la cifra riformatrice antimafiosa di un Governo possa essere perseguita essenzialmente sul piano di una nuova immagine mediatica da contrapporre a quella dei Governatori siamesi Cuffaro e Lombardo che, però, da parte loro. I Beni culturali di Zurigo...

Estradato dalla Thailandia Vito Roberto Palazzolo, tesoriere di Riina e Provenzano. “Potrebbe chiarire molti misteri italiani” di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com

E, non senza qualche fondamento, continuano a dirsi convinti di essere in qualche modo parte, discreta fino ad un certo punto, di questo Governo un Assessore che continua a cercare un suo centro di gravità permanente mentre qualcuno, non del tutto disinteressatamente, sta provando a cucirgli addosso un improbabile vestito amministrativo; un altro che pensa di potere governare la risorsa -insieme straordinaria e terribile- dei Beni culturali siciliani da Zurigo, mentre in altre faccende affaccendato e con metodi ed equilibri da padrinato politico democristiano; e un’Assessora che -si capisce chiaramente dalle sue dichiarazioni- se non è ancora del tutto consapevole di quello che le è successo, figurarsi se sa da dove iniziare. Con questo panorama, da allargare alle incredibili contraddizioni delle maggioranze inevitabilmente variabili, e se è vero, com’è vero, che in politica gli spazi vuoti prima o poi vengono sempre occupati, il rischio ancor più forte è che se l’Amministrazione regionale non la farà il Governo qualche altro la farà sicuramente. E allora si dimostrerà ancora una volta che è inesorabilmente vero che in Sicilia mai nulla inizia dal nulla e finisce del tutto.

La Corte penale di Bangkok il 20 dicembre ha ordinato l'estradizione del finanziere italiano Vito Roberto Palazzolo, considerato il riciclatore di denaro sporco per la mafia. Condannato nel 2009 per associazione mafiosa a nove anni con sentenza definitiva, Palazzolo era stato arrestato lo scorso marzo in Thailandia mentre si preparava a lasciare il Paese. L'ambasciata italiana a Bangkok ha condotto nove lunghi mesi di battaglie diplomatiche, con il boss che ha tentato il tutto per tutto, forte della cittadinanza sudafricana acquisita nei quasi 25 anni anni di latitanza vissuti alla luce del sole in Sud Africa. Protetto dalla falsa identità di Robert Von Palace Kolbatschenko, dal 1988 viveva infatti da uomo libero nello Stato africano, frequentando i salotti buoni dell'alta finanza e dell'imprenditoria locale. Tra i suoi business più conosciuti la produzione di vini, il controllo di sorgenti idriche, l'imbottigliamento dell'acqua “La Vie” (venduta alla compagnia aerea di bandiera “South African Airways”), l'allevamento di struzzi, lo sfruttamento minerario del terreno per l’estrazione di pietre preziose in Angola e la gestione in Namibia di una esclusiva riserva di caccia frequentata da facoltosi personaggi locali.

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Palazzolo l'imprendibile Era ricercato sin dagli anni '80, ai tempi della storica indagine Pizza Connection, coordinata da Giovanni Falcone. Le autorità italiane e straniere eseguirono importanti sequestri di sostanze stupefacenti in Inghilterra, Canada, Olanda e alla frontiera italiana con la Svizzera. Le indagini che seguirono alle operazioni, condotte anche negli ambienti bancari, permisero di comprendere che a tirare le fila dell’illecito traffico vi era un’unica organizzazione con molteplici ramificazioni, la quale occupava un circuito operativo e finanziario che vedeva coinvolti paesi di tutto il mondo: dalla Thailandia e l'India (fornitori di eroina e hashish), alla Turchia e il Libano (fornitori di morfina base), dall’Italia agli Stati Uniti, al Canada, alla Gran Bretagna e alla Svizzera. Alla complessa associazione appartenevano diversi gruppi di persone che operavano in sinergia e fra il 1980 e il 1983 trasferirono circa 50 milioni di dollari. I conti sulla banca svizzera La loro attività, gestita da Cosa Nostra, aveva base centrale in Sicilia, dove veniva raffinata la morfina base proveniente dalla Turchia e dal Medio Oriente e rientravano i proventi delle vendite del prodotto finito, realizzate negli Stati Uniti. Punto di convergenza era invece la Svizzera, paese in cui il denaro, attraverso conti bancari, veniva materialmente incassato e reso disponibile per altri traffici. Tra i tanti conti correnti in uso all’organizzazione ce n'era uno, denominato “Coer Establissement” della UBS di Ginevra, su cui operava /oltre ad Alfonso Caruana, a Giuseppe Cuffaro ed a Pasquale Cuntrera) proprio lui, Vito Roberto Palazzolo, che partecipava attivamente sia come intermediario tra fornitori e boss mafiosi per l’approvvigionamento della droga, sia come collettore dei proventi destinati agli appartenenti all’associazione mafiosa.


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“Cerniera fra mondo imprenditoriale e associazione criminale” Palazzolo contribuì poi, con operazioni bancarie di ridistribuzione delle somme, al rifinanziamento di singoli episodi di traffici che si sono nel tempo susseguiti. Nel 1984 venne arrestato in Svizzera. La sua pena cinque anni e mezzo di reclusione a fronte delle pesantissime condanne che le autorità italiane e americane distribuirono a decine di altri imputati. A pochi mesi dall’inizio della detenzione, durante la quale venne più volte richiesta e mai ottenuta la sua estradizione in Italia, le autorità elvetiche, il 26 dicembre del 1986, commisero un errore concedendogli un permesso premio. Palazzolo non fece più ritorno in carcere rifugiandosi in Sudafrica con un passaporto falso intestato al compagno di cella Domenico Stelio Frapolli. “Evaso” dalla Svizzera Il 31 gennaio dell’88 venne nuovamente arrestato nei pressi di Città del Capo e successivamente estradato in Svizzera; le autorità elvetiche lo trovarono in possesso di un passaporto e di una carta d’identità, rilasciati dallo stato del Ciskei, intestati a Robert Von Palace Kolbatschenko. Con questa nuova identità, nel 1994, con l’avvento al potere dell’African National Congress e l’inserimento del Ciskey fra gli stati membri, ottenne il passaporto ufficiale. Anche questa volta il carcere è solo una breve parentesi: 18 mesi di ottimi trattamenti, nonostante la sua precedente evasione, e poi la liberazione, presumibilmente per buona condotta, e il rientro definitivo in Sudafrica. Dallo Stato africano riuscì a evitare la prima richiesta di estradizione, emessa il 24 dicembre del 1991, nascondendosi sotto le ali dell’allora dittatore militare del Ciskei Oupa Gqozo. Negli anni a seguire la Dia mise sotto controllo le utenze telefoniche intestate al Palazzolo scoprendo, tra l’altro, che questi era in costante contatto con la sorella Sara. In particolare emerse che quest’ultima

svolgeva un ruolo di broker nelle attività commerciali svolte dai fratelli Vito, Roberto e Pietro Efisio in Sudafrica. Nel corso di una telefonata intercettata il 22 marzo del 1996, Palazzolo chiese alla sorella di prendere contatto con tale Abbate, medico di Cinisi, perché costui avvertisse Giuseppe Bonomo della necessità di contattare suo padre Giovanni, latitante, ospite del Kolbatschenko in Sudafrica. Il contatto tra i due avvenne quello stesso giorno. Due mesi dopo, nell’ambito di un’operazione di polizia nel territorio di Partinico, sfuggirono alla cattura due personaggi strettamente legati al boss Giovanni Brusca. Uno di questi è proprio Giovanni Bonomo, l’altro è Giuseppe Gelardi. Entrambi rifugiati nel paradiso sudafricano del Palazzolo. Il 30 maggio, con una ulteriore telefonata, Giacomo Gelardi comunicava a suo fratello di “non chiamare più per nessun motivo, in quanto sono successe male cose… bruttissime…”. Il riferimento era non solo all’operazione condotta dal Ros, ma soprattutto alla conferma che Bonomo e Gelardi si trovavano in Sudafrica. Il contatto in Sudafrica Il 19 febbraio 1997 il giudice per le indagini preliminari di Palermo emise un’ulteriore ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss di Terrasini. L’accusa, stavolta, è di associazione mafiosa, ”per avere, in concorso con numerosi altri associati, tra i quali Riina Salvatore, Bonomo Giovanni e Gelardi Giuseppe”, commesso reati “finalizzati al traffico di sostanze stupefacenti e di T.L.E., nonché di armi e valuta” e “per avere inoltre favorito la latitanza, anche in territorio straniero, di associati mafiosi”. Le indagini che hanno portato alla richiesta di arresto, specificavano i giudici, riguardano fatti commessi successivamente al 29 marzo 1992 e nascono nell’ambito di un complesso procedimento

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riguardante il riciclaggio internazionale di pietre preziose e l’insediamento in Sudafrica di soggetti di origine siciliana legati a Cosa Nostra. Nel giugno del 1998 arrivò l’ennesima richiesta di estradizione, ma ancora una volta venne bocciata. Persino Mandela, messo sotto pressione da autorità italiane, americane e stampa si vide costretto ad intervenire ordinando agli Scorpioni, l’élite dei corpi speciali del Sudafrica che raggruppa pubblici ministeri, poliziotti e agenti segreti, di indagare su Robert Von Palace Kolbatschenko. Niente da fare: in tribunale emerse a suo riguardo l'immagine di un uomo rispettabile come le sue amicizie. “Cerca Dell'Utri” Nel 2003, l'intercettazione di una serie di telefonate, sempre con la sorella Sara, avevano rivelato un suo tentativo di “aggiustamento” del processo in corso contro di lui, per il quale il boss aveva detto alla sorella di cercare il senatore Marcello Dell'Utri, specificando: “Non devi convertirlo, è già convertito”. Come lo aveva definito in passato la Procura di Palermo, Vito Roberto Palazzolo è sicuramente “una delle più importanti e oscure figure dell'associazione Cosa Nostra”, inserito “da oltre vent'anni nelle dinamiche associative mafiose, con funzioni rilevanti di cerniera tra il mondo imprenditoriale internazionale e l'associazione criminale, con lo scopo precipuo di consentire a Cosa Nostra la gestione e il reimpiego dei capitali assunti illecitamente”. Un profilo che risalta ancora di più l'importanza dell'arresto. In manette grazie a Facebook L'operazione che nello scorso marzo ha portato al fermo del boss finanziere all'aeroporto di Bangkok, è avvenuta in maniera fulminea per violazione delle leggi thailandesi sull'immigrazione.


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“Questo non è un pentimento. E' un accordo alla luce del sole” La Procura di Palermo e l’Interpol erano sulle sue tracce ormai da due mesi, quando lo avevano individuato ad Hong Kong, prima che si spostasse improvvisamente in Thailandia. Per arrivare a lui avevano eseguito una serie di attività investigative, coordinate dalla locale Dda e sviluppatesi attraverso intercettazioni telematiche e acquisizione di notizie da fonti confidenziali. In particolare il Nucleo Investigativo, in collaborazione con il Ros, aveva seguito i profili Facebook e di altri social network riferibili al latitante e al nucleo familiare. Da Hong Kong alla Thailandia Ed ora gli sforzi compiuti potrebbero davvero essere ripagati con la notizia dell'estradizione. A risultare decisivo sarebbe stato il ruolo della Farnesina che, in collaborazione con l'Ambasciata, è riuscita a far pesare il mandato di cattura internazionale emesso dall'autorità giudiziaria italiana ai sensi dell'articolo 416-bis del Codice penale (associazione a delinquere di stampo mafioso). Infatti lo scorso 20 aprile le autorità thailandesi hanno disposto l'arresto a fini di estradizione di Palazzolo, accogliendo la richiesta italiana e il 9 luglio si è svolta a Bangkok la prima udienza del processo di estradizione. In quella data l'Ambasciata italiana ha trasmesso alle autorità thailandesi la richiesta di rogatoria della Procura della Repubblica di Palermo, volta ad ottenere l'interrogatorio a Bangkok di Palazzolo da parte dei pm Ingroia e Paci. Un'istanza accolta lo scorso 10 ottobre da parte del ministero thailandese. Un verbale di Brusca Adesso, dopo anni di richieste andate a vuoto, potremmo essere davvero ad una svolta anche perché il fascicolo su Palazzolo, nel frattempo, si era arricchito di nuovi elementi. Tra le carte presentate dall'ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e dal sostituto, Gaetano

Paci, alle autorità di Bangkok, vi era anche un verbale del pentito Giovanni Brusca, reso nel 2010, che chiama in causa Palazzolo come il fornitore di droga e dell’esplosivo di tipo Semptex (provenienti entrambi proprio dalla Thailandia). Il Semptex della strage “Quest’ultimo è lo stesso utilizzato -sostiene il gip di Napoli Alessandro Modestino nell’ordinanza di custodia sui mandanti e gli esecutori della strage del rapido 904 del 23 dicembre 1984- anche per la strage di via D’Amelio”. Questo verbale è stato acquisito anche dalla Procura di Caltanissetta, che indaga sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. “Nel 1986 -racconta Brusca durante una delle udienze del maxi-processo- io ero libero, Pippo Calò e Antonino Rotolo, che invece erano detenuti, mi chiesero di far sparire del materiale esplosivo che faceva parte di un arsenale che avevamo occultato a San Giuseppe Jato, e che aveva la medesima provenienza del materiale e della droga che erano stati rinvenuti nel casale vicino Roma, ove, nel 1985, era stato scoperto, dietro una parete , quell'esplosivo che era nella disponibilità del Calò e che venne poi ricollegato alla strage del Rapido 904”. Prosegue il pentito: “Tale materiale -e anche la droga- proveniva tutto dalla Thailandia, tramite il medesimo canale, ovvero Vito Roberto Palazzolo, attualmente latitante forse in Sudafrica”. Ma il nome di Palazzolo emerge anche tra i partecipanti a una riunione con una delegazione italiana in Angola e compare nell’inchiesta sugli affari di Finmeccanica e Agusta condotta dalla Procura di Napoli. Le accuse sono sempre state smentite dal prestanome dei boss. In un'intervista del 2010, rilasciata al quotidiano La Stampa, Palazzolo aveva dichiarato di essere un perseguitato, negando di conoscere i capimafia Riina e Provenzano. Tuttavia non negava di aver conosciuto i latitanti Gio-

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vanni Bonomo e Giuseppe Gelardi e, rispondendo alle domande, interveniva anche sul tema delle stragi. “È impossibile che i mafiosi abbiano fatto tutto da soli - sosteneva - Come potevano sapere gli spostamenti di un magistrato che viaggiava con voli privati di Stato? E poi che interesse avevano a colpire Falcone, quando ormai si era trasferito a Roma?”. Sull'ipotesi di una trattativa tra Stato e mafia aggiunse: “solo i capi del Ros lo sanno”: rivelazioni che il boss potrebbe tornare a fare di fronte ai pm. “Solo i capi del Ros lo sanno” Lo scorso giugno il suo legale, Baldassare Lauria, si era detto disposto a non opporsi all'estradizione “a condizione che venga celebrato un nuovo processo. Palazzolo è stato condannato in contumacia, nel 2007, a 9 anni di reclusione per mafia, in violazione dei diritti della difesa”. Ma aveva aggiunto: “Vito Roberto Palazzolo potrebbe chiarire molti irrisolti misteri italiani”. E a quanto pare con l'estradizione sarebbero state portate avanti le premesse per una possibile collaborazione con la giustizia. Raggiunto da alcuni quotidiani, il legale di Palazzolo avrebbe infatti confermato: “Questo non è un pentimento ma un accordo alla luce del sole”. “Per potermi difendere dall’accusa di essere un mafioso devo raccontare chi sono e cosa ho fatto nella mia vita di finanziere”, avrebbe detto il finanziere ai pm che l'hanno raggiunto in Thailandia nei mesi scorsi. Entro venti giorni è previsto l’arrivo in Italia, con destinazione top secret così come segreti restano i nomi che Palazzolo avrebbe citato nel corso dei suoi colloqui con i magistrati. Quel che è certo è che la sua collaborazione potrebbe aprire scenari inediti e di grande rilevanza investigativa, in particolare sui metodi del riciclaggio internazionale. E in tanti, forse, iniziano già ora a tremare.


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Ragusa

Noi l'abbiamo ricordato così Un torneo di calcio - il "Memorial Giuseppe Fava" - per ricordare un uomo. E per parlare fra di come continuare la sua lotta di Giulio Pitroso www.generazionezero.org. 4 gennaio 2012. Davanti all’ingresso del City di Ragusa, ci sono una manciata di ragazzi, distribuiti qua e là sull’architettura futuristica del complesso, a quattro passi dalle porte della villa Margherita. Aspettano il momento della premiazione, in una puntualità disarmante, più o meno alle quattro del pomeriggio. Hanno partecipato al torneo Coppa Natale-Memorial Pippo Fava, che ha coinvolto 12 squadre di calcio a cinque; gli incontri si sono disputati interamente presso un complesso sportivo privato durante il periodo natalizio. Gli organizzatori intrattengono questi giovani, perlopiù premiati o amici degli stessi. Ciccio è un anello di un piccolo cerchio di persone sullo spiazzo; è un ragazzo trentenne con i capelli un po’ lunghi e l’aria serena, che tutti conoscono in città per i tornei calcistici che mette in piedi con la società sportiva “Golden Boys”. Simone Lo Presti, Generazione Zero, è più in là, sulle scale, con un altro gruppetto: insieme a Ciccio, ha costruito il torneo e anche scelto alcuni premiati. Seduto ad uno dei tavoli, c’è Paolo Caligiore, presidente dell’Associazione Antircacket di Palazzolo, quella intitolata a Pippo Fava nella città che gli ha dato i natali; coordina anche le altre Associazioni Antiracket della provincia di Siracusa.

Si è prestato gentilmente come relatore, insieme a Giorgio Abate di Libera. Giorgio è il referente provinciale dell’organizzazione a Ragusa e, se si cerca bene, si può trovare la sua firma in diversi numeri de Il Clandestino di Modica. Il City è un locale pubblico realizzato nell’ambito della riqualificazione dell’area villa Margherita-via Natanelli dall’amministrazione Dipasquale e concesso nel 2008 alla Medisol srl e, nel 2012, per avvenuta scissione parziale, passata alla Ciana srl. Lo stesso Dipasquale ha avuto modo di indicarlo come un luogo di aggregazione giovanile. Per via di questa sua peculiare e doppia natura, è possibile, in un territorio in cui la mancanza di spazi sociali è stata più volte denunciata, che le associazioni possano usufruire dei locali gratuitamente per attività non a scopo di lucro. Il che lascia tutti i margini alla critica: un luogo pubblico deve essere comunque un luogo di consumo, dove sia sempre l’acquisto a farla da padrone o a circondare gli aspetti della condivisione delle idee? D’altro canto, questa sua peculiarità permette al City di contribuire all’animazione economica della vita cittadina e a creare un’area di condivisione tra chi intende aprire spazi di confronto e chi vuole bere una birra nel mercoledì di coppa. Giù, nel piano sotterraneo del locale, è stata allestita la sala, con i trofei in bella vista. I relatori preferiscono non sedersi dietro il tavolo preparato per loro e affrontano in piedi un pubblico di circa venti ragazzi. Sono liceali, universitari, lavoratori, nati perlopiù dopo il crollo del muro di Berlino. Si discute di mafia e di lavoro Giorgio interviene per primo. Il problema mafioso è strettamente connesso al lavoro e alla sua mancanza e «Il problema è anche stato nostro, dei nostri genitori, dei nostri nonni» che non hanno avuto il coraggio di denunciare. Pippo Fava rappresenta, dato questo contesto, un esempio di rara coerenza. Chi avrebbe il coraggio oggi di fare quello che lui ha fatto?

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«Come popolo Siciliano, siamo abituati ad essere schiavi» dice Giorgio con tono pacato. In Libera dei ragazzi si incontrano per parlare anche e non solo di mafia, spiega. Non tutti siamo eroi, chiarisce Giorgio: «Non so se ho il coraggio di mettere a disposizione la mia vita per questi ideali» chiarisce - anche se suona più come una battuta per non spaventare l’uditorio. Paolo Caligiore parte da Palazzolo nella sua esposizione: da piccola isola felice divenne un luogo dove far pagare il pizzo. Ne pagò personalmente il prezzo con il suo supermercato, perché si ribellò. Alla fine, la scelta della denuncia non è rimasta isolata. Adesso ci sono dodici associazioni che fanno antiracket nel siracusano. Poi i premi e le foto di rito E c’è un nesso tra l’operato di Paolo e lo sport: «Legale significa rispettare», anche nel calcio. Inoltre, il pizzo alza i prezzi e crea svantaggi a tutta l’economia:«Io ho due figli in età di lavoro che sono disoccupati». Del resto, «Non è semplice stare dalla parte della legalità», ma, quando paghi il pizzo «Già stai vendendo la tua anima, la tua dignità». Anche se un po’ lunghi, i discorsi hanno creato un certo interesse o almeno così sembra: aleggia a margine della schiera di sedie e sui visi di tutti una pacata soddisfazione. Ma bisogna pur arrivare al dunque: Ciccio passa alla consegna dei premi e alle foto di rito. Prima classificata è la Nigga Team, seconda Aston Vigna, terza Savini, quarta Golden Boys. Premi individuali: Miglior Giocatore Marco Mandarà (Nigga Team), Miglior Difensore Angelo Cavalieri (Aston Vigna), Miglior Portiere Nicola Lupu (Savini), Capocannoniere Giovanni Bellio (Golden Boys). Applausi e generale allegria, flash e sorrisi.


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Società civile

La primavera di Messina Abbandonato in vista della speculazione: il destino, da anni, del Teatro Fiera. Finché un bel giorno una folla di ragazzi l'ha occupato, e ne ha fatto il nuovo cuore della città di Irene Romeo

A fine novembre apprendemmo che Forza Nuova intendeva sfilare per le strade di Messina. Si decise di indire un corteo antifascista, consapevoli del rischio che comportava. Ma decidemmo di farlo comunque. Perchè il fascismo non è solo un fatto storico ma un rischio permanente in cui qualunque paese può incorrere, maggiormente in periodi di crisi come quello che stiamo attraversando. Così il 15 dicembre 2012 ci siamo ripresi le strade. Decidemmo di dare un segnale forte: contro l'ignoranza fascista, riprendiamoci la cultura. Attivisti, lavoratori precari e intermittenti, artisti e studenti, donne e uomini che sceglievano di non subordinarsi al sistema dei più forti contro i più deboli, tutti insieme decidemmo di restituire alla città uno spazio da tempo sequestrato dall'incompetenza e dall'incuria delle istituzioni.

Il Teatro in Fiera, da quel giorno, rappresenta il luogo in cui è possibile abitare questa crisi (non solo economica e finanziaria ma di vita individuale e collettiva) provando a tenersi, a stare insieme, a riscoprire un “senso” mentre tutti intorno sembrano averlo smarrito. Il “senso” per noi è risieduto, dal 15 dicembre in poi, nella gratuità del dono, nel recupero del patrimonio culturale e artistico della nostra città. Risiede nella forza che ci ha permesso di non terrorizzarci quando, appena saliti sul palco, il nostro sguardo si è affacciato sulle macerie della platea: un cratere senza fondo nel quale non abbiamo voluto sprofondare ma che abbiamo deciso di esporre agli avventori di questo luogo. Abbiamo provato ad aprire una “finestra sulla realtà”. E da quel momento le nostre ragioni acquisivano autoevidenza, splendevano sullo sfondo di una catastrofe. "L'arte rinata", dice l'istallazione che a lettere cubitali separa oggi il palco dalla realtà. Non più spettatori ma attori Visto che la platea era inagibile abbiamo deciso di prenderci il palco. Non più spettatori delle nostre vite ma tutti attori protagonisti. Dal 15 dicembre, a Messina, sembra iniziata una fase nuova. Si sono intrecciate esperienze, storie, vite personali. Da quel giorno s'è capito che la strada da percorrere era quella rivitalizzare la cultura, decretandola come non-neutrale, motore di trasformazione della storia mediante le lotte. Una cultura che scende sul terreno di battaglia, che comprende che non c'è liberazione individuale ma solo collettiva; che esonda dalle mura accademiche e si fa della società, del cambiamento. Il Teatro in Fiera, ribattezzato “Pinelli”da noi occupanti, era stato costruito nel cuore di una città sventrata da

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anni e anni di politiche privatistiche. Noi abbiamo scelto di riportare alla luce quelle esperienze che rappresentano un baluardo di resistenza: ci siamo connessi con le vertenze dei lavoratori in lotta,cercando di affiancare alla ricostruzione fisica di un teatro la ricostruzione di una trama di brandelli di società; elaborando di politiche dal basso, riprendendoci e gestendo insieme spazi fin qui negati. Debbono diventare beni comuni Questi spazi debbono diventare beni comuni, luoghi attraversabili da tutte e tutti, luoghi aperti al confronto; non solo il teatro ma l'intera cittadella fieristica non possono più essere concepiti come oggetto di meccanismi speculativi nell'interesse di pochi privati. E' una battaglia aperta, che da qualche giorno vede l'ex Irrera a mare – un altro spazio ri-aperto e restituito – minacciato di sgombero. Il volto ambiguo che le autorità avevano assunto in questo mese riacquista la sua più propria attitudine repressiva. Ma questo non ci spaventa. Sentiamo che s'è iniziato a costruire un percorso comune, che nasce da un territorio preciso ma tiene uno sguardo cosmopolita sul mondo. Sento già forte – e lo leggo anche nei volti delle mie compagne e dei miei compagni – il senso di appartenenza ad una comunità larga, che vuole la liberazione degli spazi ma che non dipende da essa, che ha deciso di tenersi e di lottare insieme. "Possono tentare di recidere tutti i fiori direbbe Brecht - ma non possono fermare la primavera".


Memoria

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Belice 45 anni dopo Quasi mezzo secolo è passato. Che ne oggi è di quei paesi, sconosciuti all’alba del rivoluzionario ’68, che vennero rasi al suolo? di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it

Un minuto interminabile, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, per cancellare dalle cartine geografiche piccoli centri come Vita, Santa Ninfa, Poggioreale, Salaparuta, Calatafimi. Gibellina e Salemi. Montevago e Santa Margherita. 370 vittime fece quel sisma, 1000 feriti, 90.000 sfollati. E cosa ne è della ricostruzione del Belìce? Paesi poveri in cui vigeva ancora quel sistema primitivo fatto di feudi, casupole e coppole. Gente semplice, umile, che vedeva per la prima volta le telecamere. I giornalisti arrivavano in questo pezzetto di Sicilia occidentale, e storpiavano il nome al microfono: “Bèlice”. Raccoglievano le testimonianze di chi aveva perso tutto, pur non avendo niente. I salemitani, ad esempio, raccontano con amarezza quel lunedì di 45 anni fa. Il giorno prima, la domenica, le famiglie religiosamente a tavola, che vedono oscillare i lumicini appesi al soffitto. E le prime scosse di assestamento sottovalutate. Poi il boato, nella notte. E ancora più amare furono le domeniche degli anni seguenti. Prima la tendopoli, in una piana fuori città. Poi le baraccopoli. Anni e anni, nelle baracche, aspettando i soldi per la ricostruzione delle case andate distrutte. I primi soldi erano per le opere pubbliche. Arrivarono subito, ma non tutti. E quando si aprirono i rubinetti per la ricostruzione delle case private, la speculazione di palazzinari improvvisati fu incredibile. Con centinaia di famiglie truffate. Paesi distrutti, dicevamo. In tutti i sensi. Prendiamo Gibellina ad esempio. Rasa al suolo. È stata ricostruita da un’altra parte. Doveva essere un museo a cielo aperto,

fatta dall’ingegno dei migliori artisti mondiali del tempo. Poi è stata praticamente abbandonata. Oggi la nuova Gibellina è deserta, la gente non ha fiducia. Ci ha fatto il callo. Passando per la piazza di Vita, o Salemi, la stessa Gibellina, non incontri un ventenne nemmeno a pagarlo. Il prima possibile i giovani scappano. A Salemi, la città dei cugini Salvo, gli esattori della mafia, la città di Vittorio Sgarbi, quello che urlava che la mafia non c’era a Salemi mentre il comune veniva sciolto per inquinamento mafioso. Irpinia, Umbria, Marche, Abruzzo... Qui, il più grande centro del Belice colpito dal terremoto, sono ancora presenti i segni del sisma. Case crollate e abbandonate. Peggio ancora a Poggioreale, dove sono emblematiche le parti del paese fantasma. Eppure, a 45 anni dal sisma, si parla ancora di ricostruzione. Una ricostruzione infinita. Perché sono state tante le promesse fatte e non mantenute in questi anni. “La burocrazia uccide più del terremoto”, scrisse Danilo Dolci che aveva anche messo su la prima radio libera italiana nelle ore successive al sisma. Gliela fecero chiudere dopo un giorno. Tantissimi gli sprechi. Le ruberie e le magagne durante il post terremoto del Belice, se vogliamo, sono state da antipasto a quelle delle altre calamità naturali avvenute negli anni successivi: Irpinia, Umbria e Marche, Abruzzo... Servono ancora 390 milioni di euro per la ricostruzione del Belice. 390 milioni. Eppure poco prima di Natale sono stati stanziati altri soldi, ancora, per la ricostruzione all’interno della legge di stabilità: 45 milioni di euro. Si aspetta il decreto del Ministero delle Infrastrutture che stabilisca la ripartizione tra i 14 paesi della valle. Per trovare questi soldi è stato necessario tagliare il Fondo per lo Sviluppo e la Coesione. Per non parlare dell’accisa di 10 lire sul prezzo della benzina, ancora in vigore, applicata per reperire fondi nell’immediatezza della tragedia. Ma quanto è costata l’eterna ricostruzione nella valle del Belice? I conti, dal 1968, si fermano al 1995. E fanno accapponare la pelle. Lo stato ha stanziato infatti 2.272 miliardi di vecchie lire. Ma la spesa autorizzata era ancora più alta. 3.100 miliardi di lire. La differenza, appunto, porta a quei

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390 milioni di euro che adesso i sindaci della Valle del Belice chiedono. È un’eterna ricostruzione, ma 45 anni dopo di sviluppo nemmeno l’ombra. Eppure questa valle, che incantevole e violenta fu via preferenziale degli antichi greci, oggi è minacciata dalle trivelle. La società Enel Longanesi Developments srl, costola del gruppo Enel Trade spa, da tempo ha messo gli occhi sul Belice, presentando alla Regione Siciliana un permesso di ricerca di idrocarburi, petrolio e gas naturale. Il 10 ottobre scorso, l’Ufficio regionale per gli idrocarburi e la geotermia (secondo quanto reso pubblico dall’associazione L’Altra Sciacca, organica al comitato No trivelle nella Valle del Belice) avrebbe dato il primo via libera alla ricerca. Si aspetta ancora la ricostruzione Il permesso, inquadrato sotto il nome di “Masseria Frisella”, consentirebbe alla Enel Longanesi di perforare in un’area notoriamente ad alto rischio sismico di ben 680 chilometri quadrati, che comprende parchi, bacini idrici, strutture zootecniche e zone strategicamente importanti dal punto di vista paesaggistico e culturale. La richiesta di perforazione prevede la realizzazione di un pozzo esplorativo profondo dai 2.000 ai 3.500 metri entro 42 mesi dalla concessione del permesso. Niente trivelle. Allora è meglio l’energia pulita nel Belìce. Non proprio, perché negli anni le colline che circondano la valle sono state violentate da parchi eolici costruiti da imprese e soggetti a braccetto con la criminalità organizzata. Ancora una volta razziando il denaro pubblico: quello dell’Unione europea per l’esattezza. Tutte ferme le pale, nessuna in funzione. Non producono un Watt di energia. Non producono sviluppo. Mentre si aspetta ancora la ricostruzione.


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TRATTATIVE L’anello mancante MILANO

“Expo fugit”, sospirò il poeta...

CATANIA caso ? Qualche ‘ndrangheta discorso, Roma”. “La tito questo c’è mafia a volte s’è sen n te olari No an ? rtic Qu fia . pa “La ma con molti a Milano” i o qu rat o, bo non esiste”. lat ela iso dal primo co o fia c’era, fin da un politi borbottato Eppure la ma , e fra noi giornalisti un giornale. batterla com mo a mediatici da ti sia sì tra ragazzo. Co Pochi magis a. momento. o e qualche ro di gomm lega eccentric a c’era dietro il loro mu r prima, qualche col pe cos fia o ma la ma qui. Ed ecc i fin los ti e esp iva arr sono sa, il poter ti i problemi omia mafio , e tutti i Adesso, tut fiosa, l’econ to. La mafia cultura ma r tutto il res perché è la modello pe da o. far ell a oversi mafioso i a ogni liv mu iev di all e oli ion ev diz n ci suoi inconsap o tardi, a con precisa: no ancora tropp i una scelta Forse non è insieme (no . A monte, ti za tut rez ola du i. Facciam Da noi, al no subito e con ru. da gu mo e senza la faccia vip ce e. ò za ier rci art sen Pe ola di qu si può. Ma ormazione. sto doposcu nicamente della loro inf do un mode si), e oggi tec fidiamo più e c’è in fon , in più sen ret e” ret ata stic “in diciamo rna e sofi nostra mode centro della

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A Catania “La mafia?

CULTURA

Tutto il cinema di Giuseppe Fava

rola nobile, Era una pa iavitù. La adesso è sch ca non mi no eco si cri blema pro le pa gli operai nci é E’ il pri pesa perch n ello che ci prenditori no im i d’Italia, qu pp è n tro perché di più. No rtano ma ce po è ”, ris o ai no ve t) do po im (vedi Fia le ma “preten L’Italia orm re na mi stie : cri me na ia r o a pe il lor a. Bisog una patolog sanno fare troppo piccol a) economi ai fa da trolli della (nostr sola i suoi ese, che orm rammi e con o, alla faccia risolvere da mico del pa con tutti, e uzione (”prog e privata possa tutto all’ester a, India, potere econo ale. “Tratta” 1 della Costit lica leg rt.4 bb a pu l’a mi lto problemi: Cin rica e no ca il principale mo bole: è economi - Applicar molta eco de a ità me nto ttiv l’A che ; l'a pu a, an i”) è é rch Russi social modello . Ma ha un tivi di anni Novanta Giappone, opportuni pe ta e coordinata a fini iene qualcosa oprio per mo lare. Negli ia... za sempre ott zione popo uzione (”espr zzazioni, l’abuso vata solo che raddopp essere indiriz alla mobilita tta, e s’è sal 2 della Costit non abbiamo vulnerabile re le delocali : care l’art.4 essere sconfi na ; pli na zio ad og Ap oro Va bene, ma bis san lav ina r o di vic lto Adess accordi nerale”) pe r questo? andata mo rsazione, di ” dello Stato. petto degli l’Europa pe o. interesse ge tetto alle “timidezza tto di malve mancato ris industriale; n ce l’abbiam grazie alla cariato e il mafiosi o fru anziario e ni pre fin be di Eh no che no i ci le ; n TTI ita no ; tax TU ale e e fra cap ta così, a; Tobin - Confiscare evasione fisc i, e sostenerl - Separazion nell’editori L’Europa, fat to; siamo o di grande ni lavorator i finanziarie cari o di fat fiscali ai : al massimo corruzione ive di giova partecipazion i rapporti di lavoro pre ati; sgravi appartiene li (scuola, alle cooperat lici essenzia i beni confisc izzare Assegnarli bb cittadini. de lar e n pu go i no raf logiche, Re , viz ag un nti ute dei ser ente; an tture tecno rifarla in lica ; tru a tam bb nti zio ras ua pu mo clie lica eg inf ssi ne pp no ad ia, fan o sull’a - Gestio i su base Ma se prova acqua, energ ti che se ne come dicon e cittadine) ione della Ra tà, difesa, ? Con più, commercian incapaci; raz rsi i, assemble ri ttu ive i ion na tru un ind reg zio ris qu ); ni, E altro modo ? mu o i fun azionale nza privata; “dimokratìa” ne, cacciand - Vigilare (co scambi rio, sul credito intern regionale per l’emitte i greci, più logica iamente gli ite zza del territo d; divieto nchieri, per 6ter). - Punire ser ssa in sicure pubblica; lim al Su (riforma 41 con meno ba zionale di me soprattutto na co-mafiosi co liti tto mi a. po ge no nz Pro eco ue : lano conseg ci sarebbe A, come vo L’occasione modello TV ioni; tre dei cementificaz nel 2013 in di ulteriori esi europei degli pa ità li bil pa nci nsa pri - Respo e ia, an il r rm pe i Ge tor (Francia, amministra o con ogni di fondi; noi) avrem mancato uso tre governi territorio ntrollo del probabilità Co , tta nfi sco istra. ce ad alta non solo vin ere pro ess di centrosin lle ò ne sedicenti vvero, pu vare i da da pro sa. o e o fio iar iam am ma ci decid il cui e di cominc intensità e? O possi La mafia, se Stato) senza A condizion delle banch insieme? ta del tutto. voce e tutti politica, nello altri governi . ma elimina solo giorno prese, nella glio, a gran Saranno tre im un me lle di ere (ne viv ” osa qualc “non-mafiosi trebbe soprav a chiedergli plicità non po aiuto e com ) non c’è più che l’Europa olo sec un : fra poco è (1914-2014


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5 GENNAIO NAPOLI

MILANO

ei Maya Alla faccia d heta) ng (e della ‘ndra

Catania, La nave per la Marsigliese , ri a n o rb a c i

Ricordare lavorandoia i cittadini

tan Ogni anno a Ca , il 5 trano liberi si incon go dove i luo gennaio, nel città fecero padroni della e Fava. pp uccidere Giuse alle 17. Più Saremo tutti lì o Zo, c’è un tardi, al Centr zzato dalla ricordo organi e va. Infine, all Fondazione Fa e in via Siena, em 21 a Cittàinsi ni dei Sicilia c’è l’assemblea e il punto sul giovani, per far zzare il ani org e giornale idarietà. lavoro e la sol ole ma col par i Senza grand laoro

giornalista tà normale. Il n li non è una cit mande e se no i intorno: Napo agare e fare do ind , are Inutile girarc ent a: docum i intendo la list cos io rna no gio il me e per deve far domande. Al est'anno passa fare di nuovo più bella di qu ti rispondono altro. Niente ta. L'esperienza che non siete no batte sione di cronis . fes ria o, creduloni ai” go nd pro ord gre mo il “C lii cco po ito o), nave Na Non è fin ze. Almana (in senso buon de 2013 di nione l'imbarco sulla cati nè pestilen meggio e ato in una riu vo per le agen asteroidi infuo colme di Il tempo dell'or piro di sollie Mi sono ritrov son ia. sos e: tan un rat Ca , da do ya lo sta ne po rmi un canno calendario Ma in coda alle ur di carbonari com colleghi e ex già ero a gusta i e magistrati a 500 sti, riva la vecchi politici, tecnic volontari, attivi alla crema. Ar , peccato dar Fava, per i un felice anno omi al po per ecc Pip uri ed di aug io appuntamenti ori di tar att red tanto di un volon foro ani”. he coalizione. “Siciliani Giov buca a qualc re di San Cristo e la sua foto. si i o Ci cuo str ov e! no , nu nel a on pa cas un Ga per Gi , scambi accesi poranea, la mafiosa dei Siamo salvi, Passione, grinta della famiglia Quasi in contem uno è a alc ioni del zon qu ide di ti, dec tut i olo ion manip rifless i, vis Edizion un le, i Blu era allarmati aro e Qu to lep la. tric fat ma to edi pao han i Santa vincia che nti, altri e aver partecipa e di chiudere cronisti di pro ti dal capitano fuggito sui mo e mondo: è com irrevocabilment che no le scatole “pazzi” guida . Una pendolar testata, condan circa 20 ia di orchestra mente rompo la da fon ace o r sin con ten scorta di farina rus a ti Pe ro un Ca a. ten i car ad bat la rire Giovann i bardo, più e malapolitic rsigliese. Ecco redazione a mo le bambine e a 'ndrangheta su un treno lom non intonava la Ma nando l'intera anni lavora con nel diritto al seggieri: "Io le edicole. non la fermi. e e i ragazzi e un 2013 libero merci che pas o stampa, bella, senza uscire nel , domani ra bellezza bini, le ragazz zut pu oro pez bam la . lav Ca o, nel liz al do un rea ero rire nal alc Ar oro, lib quartiere voglio mo A meno che qu vis- lav le famiglie del icio!". imafia. a porta essere soprav della lotta ant non vado in uff mensile porta onoscente di Castano na un ric ter no og do Es teg bis zan n sos no dia il suo Signori miei, are suto ai Maya, i ni per profetizz zione di quest campar cent'an o evitando l'estin ndo finirà sol che questo mo di farci i no mo ire quando fin k NI orecchie coi tal CON I SICILIA solleticare le ata. e seconda ser show di prima del te lan tola par Fuori dalla sca maxi gli angoli del salotto, oltre sono accaduti , hd l ful o scherm tra e des di i era li: op a fatti incredibi nelle versione) in un rete scesi insieme quest’ultima una sinistra sono le vani è nata (in ato del 2011: fare up e e hann occ dei Siciliani gio battista Scidà nell’estate iem ia ins tal dea e d'I L’i par zze pia a di Giam su web, svilup riportare in ovani studenti riunione a cas i di base, sia su carta che o poi, fabbriche. Gi ebook e, prima va. di tate giovan sostenuto con ie tes no ser di a han un Fa e esi milan ista pdf Giuseppe estazioni le un sito, una riv le ispirato ai Siciliani di rna presidi e manif come edicola un gio tere mafioso: arsala), hanno aderito Marsala.it (M vittime del po che e o dio tat lor Ra , tes sco Le nise Co a), Mamma! rdai, La la piccola De DaSud (Calabri afia Duemila, ora sono I Co Il fin ), ti, nia Tet o ata (C ren tim untu coetanea, o Lo . (Bologna), An one, Agoravox. Periferica e Uc ica), Telejato azi ato dagli usurai od Liberainform to da Gian Carlo paninaro strozz Clandestino (M o Antimafioso fat obbavamo ico), Stamp Il giornale è rtin a, E mentre add (Pa e lo qu nticin o dalla Chies al fresco nd eve o nd Na eci tte li, Di ), sel me no o Ca (Mila ), La sco l'alberell nia ata o, Giovanni (C di rus en Ca ore i Natale, France dirett i, Giovann par (Bologna), CtZ anale (Napoli), Ap Rosa Maria Di rrara, Pino sco champagne, il nce ttim Fe ulio Cavalli, settimanale Abbagnato, Fra Valerio Berra, Domenica Se ro (Ragusa), Feola, Norma olo Fior, Enrica elo Catania, Gi arla Altomilanese, rm , va Ca ldo eve Ba Ze ric e zo Pa Loren ni, Magenta, ino, Gianc Generazion Finocchiaro, o , no, Mauro Bia i, Antonio Cim d'inchiesta di o Galasso, Rin sso, Nando Benig rio Costantino busta chiusa con Frasca, Renat so, Paolo Brog Codrignani, Da Fabio D’Urso, Giammu un proiettile in Lello Bonaccor Anna Bucca, , lone, Marcella ico aca Am Gi D’ o rlo o, Tan olisi, Ca Luciano Brun Riccardo De Giuseppe Giust tiano Gulisano, Giulio Cavalli, Jack Daniel, mo Di Girolamo, Elio Camilleri, o, Ester GIORNALI Gubitosa, Sebas Massimiliano zut Gennaro, Giaco opino, Arnaldo Capez talano, Iac a un Br Ca Guglielmino, Castano, Salvo Nicosia, Max ki, Bruna ws lia, Diego Gutko rgherita Ingog Ma , ino Iacop no Liardo, Kanjano, Gaeta hitano, Luca Sabina Long no, i giornali la alismo italia Salici, Miche chi, nel giorn io tamente Sono stati po Fava, comple Mancini, Anton ina e pp use . Gi ne ni di un padro zzeo,Mart alc Ma tto come i Sicilia ire che ind o an o, tut ne po zze za Ma ero liberi e sen tutti avess Emanuele o stati così. Se . Se avessero Se tutti fosser ente la verità Midoli, e e semplicem loro di ciò ch di a scrivere solo av Lufid si po chi avvertito in tem tando. en più div molto è , po l’Italia stava tem in n denunciata trattati La mafia, no ori e corrotti, ima. Speculat to avanti la potente di pr li, hanno porta carriere, ria ust ind i come grand adulazioni e ca stessa, fra toccato il crisi. La politi cosa. Adesso, ata in un’altra po di risalire. s’è trasform tem è tono che sen lti mo , fondo

giovani Tanti giornali le strade In rete e per

NI GENERAZIO

DA’ORUTANREAINMEDAICONOLA

Non illusi, ti non rassegna

, erazione dopo lotta, una gen ominciare la E’ possibile ric ni? Noi siamo ilia Sic I e com di un giornale o filo non ché noi quest sicuri di sì, per lti dei errotto mai. Mo l’abbiamo int i, al non erano nat nostri redattori Ma ni. mi Sicilia pri dei po tem ni sono loro. adesso, i Sicilia

A RIP I SICILIANI:

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ciano Mirone, Pino o Maniaci, Attili lvo Occhipinti, Sa o ell ton Ognibene, An tro do Orioles, Pie o Oliva, Riccar Perrotta, Giuli Orsatti, Salvo Pettinari, Petrelli, Aaron ne, Antonio ito ca Giuseppe Pip cenzo Rosa, Lu Roccuzzo, Vin orgio Ruta, Luca Gi rio Rossomando, Ma , ito Samm Salici, Daniela à, Giuseppe art Spada, Sara Sp uillaci, Sq Spina, Miriana Marilena Teri, i, Giudrppe Ter lvo Vitale, Fabio Vita, Sa , Andrea Chiara Zappalà . Zolea

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0 IT 28 B 05018 0460 000000148119 ale I Siciliani (“Assoc.Cultur

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100872 C/C 00tale oppurecorren Ass.Culturale te pos ) (Conto 47 Catania vani,v.Cordai I Siciliani Gio

.Tribunale vani, registr I Siciliani gio 011 del 20/09/2011, 3/2 Orioles Catania n.2 ile Riccardo sab pon res dir.

ico di ProgettogigroafMaoloni Piergior 1993) (da un inedito

del

I Siciliani Sici igiovani pag 85 iov ni – pag.

scosto Il disastro na ostruire ric e il tempo di


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Foto di Giovanni Caruso

L'immagine

Quale pace in Europa Ricordando Pio La Torre SIGONELLA 1999

Immaginiamo quei capi di stato dentro i loro scuri vestiti. Li immaginiamo con le facce pulite, sorridenti, mentre stringono mani lorde di sangue e polvere da sparo. Hanno ritirato il premio Nobel per la pace alla comunità europea. Una pace, dicono, che continua nella vecchia Europa da 68 anni. Può essere - e non è così - che la terra europea dal '45 non sia stata insanguinata dalle guerra. Ma l'hanno esportata, insieme alle false democrazie, in Africa e in Medio Oriente. I paesi Europei, è vero, non si sparano più fra loro. Ma con l'ingiustizia sociale, la negazione dei diritti più elementari, la discriminazione razziale, hanno creato tante guerre e violenze. Non usano più le armi ma le vendono, per destabilizzare e ottenere potere. Questo bambino e i suoi genitori - i movimenti per la pace e contro la guerra - non avranno alcun premio Nobel ma semmai, riceveranno una carica della polizia in nome della pacifica Europa. GIOVANNI CARUSO

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Catania

”Buon anno, Gapa”

Tre colpi di pistola contro la sede del centro di Domenico Pisciotta www.associazionegapa.org

A Capodanno, a San Cristoforo si spara per festeggiare. C’è un luogo che ogni anno subisce le conseguenze di questi festeggiamenti, l’ufficio postale di via Plebiscito. Alcuni colpi di pistola sono stati sparati contro la vetrata e la porta dell’ufficio postale. Per non lasciar le cose a metà, alcuni giorni dopo lo stesso ufficio è stato luogo di una rapina. Durante i festeggiamenti per il nuovo anno, qualcuno ha pensato bene di coinvolgere anche il Gapa, sede de I Cordai e centro di volontariato che da venticinque anni lavora con le bambine, i bambini e

Scheda IL QUARTIERE DI SAN CRISTOFORO Quartiere storico di Catania, vive tutte le difficoltà delle zone periferiche. È situato tra il Duomo, l’area portuale e la Playa. Un tempo era sede di numerose attività produttive, quali mobilifici e botteghe artigiane. Oggi, di quelle attività produttive, rimane molto poco. Con la loro scomparsa, molti hanno perso il posto di lavoro, non riuscendo a trovare, altrove, una sistemazione lavorativa dignitosa. L’assenza di lavoro ha determinato un terreno fertile per la

le famiglie del quartiere. Tre proiettili sono stati esplosi contro la sede del centro; uno ha rotto una finestra, gli altri due hanno bucato una porta di metallo. La sede, nell’occasione, non era aperta. I danni si riparano; la finestra e la porta si cambiano. Rimane il gesto, che lascia perplessi e incerti sulla sua natura e sul suo significato, ma al tempo stesso dimostra, con certezza, che tanto, ancora, va fatto. Sicuramente, sarebbe stata più gradita una cartolina d’auguri, ad ogni modo buon anno a tutti.

criminalità organizzata che, oggi, riesce a re clutare manodopera con molta facilità. La vendita di sostanze stupefacenti non conosce sosta e numerose famiglie riescono a vivere con i relativi proventi. Oggi, San Cristoforo è un quartiere povero, abbandonato al controllo della mafia da politica e istituzioni, che se ne ricordano solo in periodo elettorale. Numerose testimonianze confermano che partiti di ogni tipo, in periodo elettorale, promettono buoni benzina, sacchi della spesa o pagamento di bollette. Il quartiere è un sacco pieno di voti di cui dimenticarsi una volta conclusasi la campagna elettorale.

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IL FILO

Noi emigranti Dalla Sicilia partivano i Gasterarbeiter, i “lavoratori ospiti” dell'Europa perbene. Erano loro a fare le fabbriche, le miniere, le autostrade. Eppure l'Europa ricca – allora – non li amava

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La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

I limiti della tragedia siciliana sono precisi. Viviamo in una terra potenzialmente ricca come nessun’altra poiché ha miniere, terra fertilissima, una posizione storica e geografica al centro di tutte le civiltà e di tutte le rotte commerciali, bellezze della natura incomparabili, e talento umano, cioè fantasia, pazienza, sopportazione al dolore, coraggio. E tuttavia da centinaia di anni siamo colpiti e feriti, siamo sempre più poveri, sempre più lontani dall’Europa, vittime di tutte le violenze.

Neri cantieri, nelle miniere... C’è un dato obbiettivo che riassume tutte queste miserie e violenze: un milione di siciliani emigrati, quasi tutti nell’età più vigorosa, dai venti ai quarant’anni, sono dispersi nel mondo dei cantieri, nelle miniere, nelle piantagioni, la maggior parte a lavorare come bestie. Hanno dovuto abbandonare il paese, la casa, la famiglia, gli amici, azzerare la loro esistenza per ricominciarla da un’altra parte. Ogni mese in media mandano alle famiglie rimaste in Sicilia quattrocento o cinquecento mila lire perché possano sopravvivere, mettere le fondamenta di una casa civile, pagare il cibo, le scarpe, le medicine. Sudore, sacrificio, dolore umano Riduciamo le cifre al sicuro: ottocentomila emigrati che spediscono ogni mese quattrocentomila lire, significano trecentoquaranta miliardi al mese, e in un anno quasi quattromila miliardi. Noi siciliani viviamo su questo immenso fiume di denaro, inutile negarlo: denaro, sudore, sacrificio, dolore umano, disperazione. (I Siciliani, febbraio 1983)

I Siciliani giovani – pag. 88


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Lorenzo Baldo, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Tano D’Amico, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Massimiliano Nicosia, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Michela Mancini, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Pietro Orsatti, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Antonio Roccuzzo, Vincenzo Rosa, Luca Rossomando, Giorgio Ruta, Luca Salici, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea

Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Coordinamento: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles

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Progetto grafico di Luca Salici (da un'idea di C.Fava e R.Orioles)

redazione@isiciliani.it I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / d.responsabile riccardo orioles

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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.

Lo spirito di un giornale "Un giornalismo fatto di veritĂ impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalitĂ , accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo". Giuseppe Fava

Una piccola


libertĂ

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I Siciliani giovani ­ rivista di politica, attualità e cultura fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Antonio Roccuzzo, Giovanni Caruso, Margherita Ingoglia, Norma Ferrara, Michela Mancini, Sara Spartà, Francesco Feola, Luca Rossomando, Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari. Salvo Ognibene, Beniamino Piscopo, Giulio Cavalli, Paolo Fior, Arnaldo Capezzuto, Pino Finocchiaro, Luciano Mirone, Rino Giacalone, Ester Castano, Antonio Mazzeo, Carmelo

Cronache

Catania, Giacomo Di Girolamo, Francesco Appari, Leandro Perrotta, Giulio Pitroso, Giorgio Ruta, Carlo Gubitosa, Mauro Biani, Kanjano, Luca Ferrara, Luca Salici, Jack Daniel, Anna Bucca, Grazia Bucca, Luciano Bruno, Antonello Oliva, Elio Camilleri, Fabio Vita, Diego Gutkowski, Giovanni Abbagnato, Pietro Orsatti, Roberto Rossi, Bruna Iacopino, Nerina Platania, Nadia Furnari, Riccardo De Gennaro, Fabio D'Urso, Sabina Longhitano, Salvo Vitale.

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dalla vita com'è

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Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / Dir.responsabile Riccardo Orioles/ Associazione culturale I Siciliani giovani, via Cordai 47, Catania / 30 agosto 2012

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Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

I Siciliani giovani

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I Siciliani giovani 1982 -2012 "A che serve essere vivi, se non c'è il coraggio di lottare?"

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