I Siciliani - giugno 2014

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I giovani Siciliani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”

giugno 2014

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Europa ESTATE ‘14

L’antimafia difficile

Il doposcuola del Gapa a Catania

Senza proclami. Senza poltrone. Senza tv. Senza sperare niente, se non salvarsi la pelle. E l’anima di un Paese che va sempre più giù

EBOOK GRATIS

Caruso LE MANI REPORTAGE Ferrara Rossomando Manisera Vita Castano G.Fava DEI POLITICI SUI I MILLE VOLTI CIELO SU Maliet Cugnata GUERRA LA CORSA PROCESSO UN GIORNO BENI CONFISCATI DI CATANIA BOGOTA’ MEDITERRANEO SENZA FINE AL BITCOIN LOMBARDIA A COMISO

Venezia CIAO Ferrara MAURO Spartà GIUSTIZIA Giacalone DOPO

Caselli Dalla Chiesa MAFIOSI EXPO CHE FUORI ALLEGRIA

Farina AI TEMPI DI BER LINGUER

Moiraghi U.Santino:

ECCO COSA NOSTRA

Roccuzzo APRITE E RACCONTATE

Mazzeo SVENTOLA IL TRICOLOR Capezzuto IL SALVAPOLIS Vitale DUE STORIE PARALLELE Beccaria e Spinoza FALANGE ARMATA Zolea ‘NDRANGHETA Di Florio ABRUZZO Lo Presti GUERRA DELLA MONNEZZA C.Catania RIFIUTI ZERO Jack Daniel STORIE D’Urso PER UNA CHIESA ANTIMAFIA Abbagnato SICILIA VA E VIENE Cuccu SCOTTI: NIENTE SO De Gennaro TANGENTOPOLI INFINITA


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facciamo rete http://www..it/

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L'antimafia difficile

“L'antimafia mediatica”, “l'antimafia delle poltrone”, “gli affari dell'antimafia”: non si può dire che l'antimafia goda in questo momento di una grande reputazione, né che le critiche che le vengono (adesso) rivolte siano tutte immotivate. Spesso però sono critiche ingenerose: la burocrazia (e a volte l'eccessiva diplomazia) di Libera è più che bilanciata dalla lotta per i beni confiscati e dale migliaia di ragazzi nei campi estivi. L'antimafia in politica è stata stata spesso usata a pretesto per portare avanti carriere altrimenti assai banali, ma diversi politici provenienti dall'antimafia hanno dato un buon contributo al Paese. E gli interessi che ruotano attorno al variegato mondo dell' “imprenditoria antimafia”, per quanto antipatici, in fondo sono abbastanza limitati. L'antimafia, tuttavia, è meno “simpatica” di quanto non fosse vent'anni fa. I giornalisti coraggiosi ci sono ancora, ma tendono a trasformarsi in Vip. Dei politici, nessuno ha ottenuto risultati paragonabili, nella pratica, a quelli di un Pio La Torre o un Luca Orlando. E le imprese continuano, buoni propositi a parte, a galleggiare benissimo nel mare dell'economia post-mafiosa. L'atmosfera, in generale, è sensibilmente diversa da quella dell'antimafia di vent'anni fa. Il motivo, in sostanza, è che un tempo l'antimafia era gratis, e ora invece vuole premi e ricompense. Meritevoli o meno, non ha importanza; è proprio l'idea generale che cambia tutto. Il capitano garibaldino diventa, con pieno diritto, generale sabaudo; e magari si comporta bene; però, chissà perché, comincia a non vincere più una battaglia. E' successo spessissimo, nella storia nostra; anzi si può dire che da noi accada a ogni rivoluzione (mancata), a ogni normalizzazione. *** “Va bene - dice qualcuno – Smettiamola di usare la parola antimafia”. Eh, no: torniamo invece a usarla a nel senso giusto. L'antimafia non è mondo dei Vip, non è spettacolo, non è potere. Chi fa antimafia non è affatto tenuto a fare ricordare il suo nome: deve semplicemente farla, punto e basta. Il bellissimo insulto - “professionisti dell'antimafia” - che ci rivolse il letterato Sciascia è in realtà la migliore definizione di ciò che dobbiamo essere: niente pennacchi al vento né dichiarazioni roboanti, ma serio e costante lavoro da militanti della libertà. *** Questa è la nostra antimafia, e ci scusiamo se non è affatto brillante. I giovani che la seguono, e che di solito ci arrivano per generosità ed entusiasmo, restano sovente perplessi dopo i primi mesi: tutto qua? Sì, tutto qua. Ma portatela avanti - come Gobetti, come don Milani - per tutto il tempo necessario, senza mai fermarvi, stando insieme. E alla fine così, e solamente così, avrete cambiato l'Italia. I Siciliani

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I Sicilianigiovani giugno 2014 numero venti RIEPILOGANDO Nei giornali italiani non si fanno più contratti da professionisti. La maggioranza dei contenuti è fatta da precari pagati (sui quotidiani!) 20.80 euri. Si chiama “equo compenso” e non prevede alcun diritto redazionale. Il giovane giornalista non può sperare più in n inserimento ma al massimo in un tesserino di “pubblicista”, pagato caro e soggetto di fatto a un costoso esame che ormai sostituisce, nella generalità dei casi, il vecchio esame di praticantato che dava pienamente accesso alla professione. Questo “equo compenso” è stato accettato dalla Federazione della Stampa (il sindacato) e contestato dall'Ordine dei Giornalisti. Su entrambi sono frequenti le polemiche, più o meno demagogiche (Grillo, ad esempio,non ha mai aiutato la stampa libera né contestato, in Sicilia, quella collusa) e completamente inutili. Nè sindacato né Ordine infatti contano più di tanto, nella totale deregulation in cui l'unico soggetto rimasto è il non-ufficiale ma potentissimo Ordine dei Padroni: contro il quale nessuno invece osa protestare. Noi, con la nostra storia, abbiamo idee chiarissime su tutto questo. Non c'è da fidarsi da nessuno dei grandi editori né “di sinistra” né di destra. Bisogna fare da sè, non isolatamente ma tutti insieme, il più possibile uniti, possibilmente in rete. I Siciliani giovani, da questo punto di vista, sono un buon modello.

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Questo numero L'antimafia difficile/ I Siciliani “Mafiosi, fuori dalla comunità” di Gian Carlo Caselli Verso l'Expo, allegramente di Nando dalla Chiesa Estate '14 di Riccardo Orioles Un sindaco coraggioso di Attilio Occhipinti Beni confiscati di Giovanni Caruso Un anno con Renato di Tonino Cafeo Un sindaco coraggioso di Attilio Occhipinti Sud Il cielo sopra Bogotà di Norma Ferrara Santa Rosalia liberaci tu di Giulia Crisci Colombia La guerra senza fine di Sara Manisera Mediterraneo "Io, scafista per caso di Giuseppe Cugnata Il rimorchio non porta al largo di Franҫois Maliet Napoli: divieto di mare di Luca Rossomando Città Bologna/ Vivere nel "Guasto" di Laura Pergolizzi Armi Somalia: sventola il Tricolor di Antonio Mazzeo Città Napoli: la nomina che salva Polis di Armando Capezzuto Cosa Nostra Umberto Santino: Palermo oggi di Francesco Moiraghi Periferie I meandri della droga di Ivana Sciacca Rostagno Ciao Mauro Giustizia è fatta di Lillo Venezia La notte in cui la mafia ha perso di Rino Giacalone Un'inchiesta lunga una vita di Norma Ferrara Un pugno stretto forte di Sara Spartà Due storie parallele di Salvo Vitale

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DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119 <----

SOMMARIO Italia Ai tempi di Berlinguer di Pierpaolo Farina Storia Sicilia arretrata: ci chi è la colpa di Elio Camilleri Storie "Mi chiamano Dudù..." di Jack Daniel Fotoreportage Catania: i mille volti a cura di Giovanni Caruso Territori Rifiuti zero: qui, ora! di Carmelo Catania Ragusa: la guerra della Monezza di Simone Lo Presti Abruzzo: il caso Vasto di Alessio Di Florio Italia Ndrangheta: in ottima salute di Andrea Zolea Il processo Zambetti di Ester Castano "Trattativa: Scotti: io non so niente" di Miriam Cuccu Falange Armata di Giovanni Spinosa e Antonella Beccaria Testimoni di giustizia: proposte di tutela di Assoc.Rita Atria

DISEGNI DI MAURO BIANI

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Pianeta La corsa al bitcoin di Fabio Vita Politica Ogni mattina una Sicilia diversa di Giovanni Abbagnato Tangentopoli infinita di Riccardo De Gennaro Giudici Prima isolati, poi esclusi di Mattia Maestri Società civile Pentecoste antimafia di Fabio D'Urso "Aprite la finestra e raccontate" di Antonio Roccuzzo Il filo Un giorno a Comiso di Giuseppe Fava

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Chiesa

“Mafiosi, fuori dalla comunità!” di Gian Carlo Caselli

Senza più ambiguità

Come se la mafia, coltivando i riti vuoti di un cattolicesimo tutto santini, devo-

Mafiosi, io vi scomunico! Sono le parole scandite da Papa Francesco in Calabria sabato 21 giugno , davanti ad una folla immensa. Parole pesantissime. Mai pronunziate prima. Altri Papi prima di lui avevano scagliato anatemi contro i mafiosi. Convertitevi! un giorno verrà il giudizio di Dio! , aveva urlato Giovanni Paolo II ad Agrigento vent’anni fa. Benedetto XVI aveva poi bollato la mafia come incompatibile con il Vangelo. Ma la condanna più grave ed esplicita, una condanna senza appello, è arrivata ora da papa Bergoglio. Cacciati definitivamente Fin dai primi tempi della Chiesa, la sanzione della scomunica veniva espressa – nel diritto canonico – con la formula “a communione repellatur”. Vale a dire che il colpevole - in quanto indegno - era cacciato, espulso definitivamente dalla comunione dei fedeli: comunità di persone e comunità di cristiani che con il sacramento della comunione realizzavano il momento più alto della loro fede.

Già il 21 marzo, in occasione della “Giornata della memoria e dell’

zioni ipocrite e confraternite, potesse nascondere sotto una crosta di falsa sacrali-

impegno” annualmente celebrata da

tà - insieme alla lupara - il suo comporta-

Libera, Papa Francesco (incontrando con

mento blasfemo, intriso di violenza, pre-

Luigi Ciotti i familiari delle vittime di mafia) aveva ricordato ai mafiosi che le loro malefatte li avrebbero inesorabilmente portati, dopo la morte, all’inferno.

potenza e sfruttamento. *** La speranza è che le parole di Papa Bergoglio riescano a spezzare questa cro-

La scomunica ora li colpisce già in vita e

sta ingannevole, ottenendo uno scatto di

nello stesso tempo è un severo monito

responsabilità che finalmente superi un

alla Chiesa perché sia reciso ogni rappor-

agire troppo vecchio o timoroso (se non

to con i boss, rinunziando alle ambiguità,

anche connivente), trovando il coraggio

passività e disattenzioni che troppo spes-

di rinnovare. Senza coraggio ( per dirla

so si son dovute registrare nel passato.

col linguaggio degli uomini di Chiesa)

Ai livelli più diversi: dal cardinal Ruf-

non c’è freschezza del Vangelo. Non c’è

fini, per il quale parlare di mafia era una

speranza di slegare le bende ed i bavagli

provocazione comunista o nordista (al

che per troppo tempo hanno reso forti i

punto da costringere ad una lunghissima,

mafiosi e mortificato i valori,

ostentata ed umiliante attesa Tina Ansel-

costringendo il nostro popolo a subire

mi, inviata apposta da Roma per chieder-

infamie tremende insieme ad un doloroso

gli qualche “orientamento” sulla mafia); fino al carmelitano padre Frittitta, capace

turbamento sociale e morale. In ogni caso, Papa Francesco obbliga

di celebrare messa - senza vergogna -

tutti ad una presenza davvero significati-

nella cappella privata che Pietro Aglieri

va sulla questione mafia: che significa –

aveva fatto allestire nel suo “covo”, lo

in particolare – obbligo di progettare sen-

stesso dal quale partivano ordini di morte

za limitarsi ad inseguire emergenze o

e di delitti assortiti.

pronunziare condanne occasionali ed isolate

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Italia

Verso l'Expo, allegramente di Nando dalla Chiesa Milano va allegra verso l’Expo. Preoccupata solo di non finire i padiglioni e le altre strutture in tempo. Finire, sbancare, tirar su, costruire. Così per arrivare al traguardo ha messo nel conto che si possa chiudere un occhio sulla legalità. Sono stati annunciati protocolli invulnerabili, si sono celebrate strette di mano a quattro in nome di un evento mafia-free, si sono accumulate le dichiarazioni ufficiali per rassicurare l’opinione pubblica. Ma al tempo stesso la città che conta volta la faccia dall’altra parte. Per non vedere, per non sapere. E’ venuto fuori un grumo di corruzione grande come una montagna e il commissario straordinario di Expo, Giuseppe Sala, che vi ha visto coinvolto il proprio braccio destro Angelo Paris, non ha trovato di meglio -di fronte alla cupola dei Frigerio e dei Greganti collettori di tangentiche chiosare che “si tratta di una cupoletta di pensionati della prima Repubblica”. E’ già stato tutto rimosso. Un episodio, si dice, in un tessuto sano: Paris, il numero due di Expo, era un ambizioso che ha perso la testa.

Eppure quando chiedeva favori si rivolgeva a un sistema, non a una persona. Non chiedeva soldi a un singolo imprenditore, ma garanzie sulla sua carriera, sul suo ruolo alla fine dell’Expo. Che solo un sistema di favori a metà tra pubblico e privato poteva assicurargli. Poi si è visto che la azienda Maltauro, già coinvolta nelle inchieste, aveva vinto un nuovo appalto. Ancora silenzio. Nel frattempo, senza nemmeno consultarsi con la commissione parlamentare antimafia, è stato alzato a 100mila euro l’importo degli appalti sotto i quali non valgono i controlli antimafia stabiliti all’inizio. E tutti sanno, a Milano proprio tutti sanno, tra imprenditori, tecnici e politici, che è quella la dimensione dei subappalti in cui si inseriscono di fatto le imprese della ‘ndrangheta. Le quali si fanno trovare nei cantieri, entrano nei lavori, con il sistema delle forniture più che entrando formalmente nei subappalti. Ora chi concede loro di far lavori non dovrà più certificare e garantire nulla. Inutili le denunce del comitato antimafia del Comune, minuscolo fortino di pochi innamorati della legalità. Dice che non si fa così “quale sarà l’immagine di Milano davanti al mondo?”.

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xxxx Già, che cosa penserà il mondo di Milano e della Lombardia se non si faranno in tempo tutti i padiglioni? A nessuno passa per la testa di chiedersi che cosa penserà il mondo di Milano se questa si confermerà la città delle tangenti per antonomasia (Tangentopoli, appunto…), o che cosa si penserà dell’Italia se si dovesse confermare che non riusciamo a produrre un’opera pubblica senza farci entrare dentro la mafia. Ma il giorno che la magistratura dovesse scoperchiare qualcosa tutti grideranno che l’avevano detto, che si sapeva dall’inizio. Ci sarà un capro espiatorio - un prefetto, un braccio destro, un assessore regionale - a garantire che il resto è sano. Ed è così che le grandi imprese e amministrazioni, pubbliche e private, combattono la mafia quando il pericolo viene annunciato da anni. Figuratevi gli altri quando c’è il silenzio. P.S. Naturalmente nessuno si chiede che cosa penserà il mondo se, una volta finiti i padiglioni, non avremo nulla da dire. Il nutrimento del pianeta, la fame nel mondo… E cosa volete che siano davanti alle smanie di costruttori e politici assatanati di guadagni?


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Europa

Estate '14 I mostri e i nuovi mostri. Il mondo visto da quaggiù di Riccardo Orioles L'Europa, come sapete, è morta ammazzata esattamente cent'anni fa. E' ancora un argomento di moda (quand'ero giovane io era addirittura sexy), ma ahimè solo fra i più benestanti o più colti, la crema. Per il comune europeo, l'Europa non è che uno dei tanti nuovi mostri - i marchionni, i blairthatcher, i renzaletti - che, ognuno per la sua parte, gli strappano ferocemente quel po' di società e di benessere che s'era pur conquistato dopo cinquant'anni di scannamento.

Non è che sia granchè furbo, l'europeo: vota per chi sbraita più forte, oppure per chi gli mette due monete in mano; oppure, più di frequente, non vota affatto (paesi interi, come la Polonia, alle elezioni europee di fatto non hanno partecipato; la maggioranza galattica, qui in Italia, comprende appena un quarto della gente). In Sicilia, a Catania - che noi ci ostiniamo a considerare, con apparente arbitrarietà, centro del mondo - ha vinto direttamente un giornalista crumiro, della corte di Ciancio; di Ciancio e di Cuffaro, il cui braccio destro - il famoso Leanza - è stato lo stratega della vittoria. Di mafia, a queste elezioni, non se n'è parlato; il che non manca, al solito, di stupire i turisti provenienti dai paesi civili. ("Ma come, in una regione con un presidente in galera per mafia e uno inquisito?". "Che debbo dirle, herr Goethe. Pensi che qua gli assessori di questi presidenti continuano tranquillamente ad assessorare, e magari a proclamarsi antimafia").

Scheda COME FARE SALTARE PER ARIA UN MONDO Guerre. Perché è scoppiata la prima guerra mondiale? Più ci studio, e più mi rendo conto che in realtà non è riuscito a capirlo ancora nessuno. Le ipotesi più coerenti, ai due estremi, sono quella di Nicola Lenin e Winston Churchill. Il primo era convinto che i capitalisti dovessero prima o poi scatenare una guerra globale per i mercati. Il secondo che il casino fosse nato dalla gara di potenza navale fra tedeschi e inglesi. Quasi tutti gli altri storici oscillano fra l'una e l'altra di queste posizioni. Non leggevo Lenin da molto tempo. Dell'Imperialismo malattia infantile del capitalismo (o la malattia infantile era quella dell'estremismo? boh: questi libri si assomigliano tutti) mi ricordavo più che altro una splendida copertina rossa. Rileggendolo ora, sono colpito dalla profluvie di dati minuziosi e "cattivi" su produzione, mercati, affari ecc. e soprattutto dal tono di lucida ostilità con cui essi vengono schierati. Tutto sommato, c'era la Bella Epoque, allora, e i compagni europei in fondo erano delle gran brave persone che tutto s'immaginavano fuorché rivoluzioni e guerre... Ecco: questo tono di estraneità, di gelida sfiducia in qualsiasi possibilità di evoluzione "buona", è ciò che, in quel libro, più colpisce adesso. Suppongo che, per l'epoca, questo fosse un sintomo abbastanza preciso, molto più impressionante delle cifre e i dati. Forse il sistema è collassato anche perché non riusciva più ad ispirare alcun senso di interlocuzione a uomini come il sig. Lenin.

La noiosa faccenda di Ciancio Che altro si può raccontare, su Catania? Ancora, noiosamente, la faccenda di Ciancio che ospita gli Ercolano, discute con loro di come far cronaca, pubblica le loro lettere (e loro, nell'indifferenza generale, progettano di far fuori Claudio Fava)? O dello stesso Ciancio inquisito per mafia ma riverito e ossequiato da tutti i politici isolani, dai vociferanti Crocetta e Bianco al distrattissimo Ingroia? La Città e l'Ateneo (quest'ultimo illustrato da luminari come Tino Vittorio, a suo tempo sostenitore dell'"omicidio non mafioso" di Fava) hanno finito di accogliere, in pompa magna, l'"ambasciatore" nazista di Bandera, della 14. Waffen-GrenadierDivision der SS. Meglio passare direttamente alla lontana Italia, dove l'imprenditoria milanese solidarizza fieramente (sul Corriere") col mafioso Dell'Utri, fondatore del partito che ha governato l'Italia per vent'anni e

Del quale non riusciamo a conoscere il nome e l'indirizzo attuali: personalmente immagino che sia da qualche parte dell'Africa, ma queste cose si vengono a sapere sempre dopo. Il libro di Churchill ("La crisi mondiale") invece è semplicemente affascinante. Churchill non era ancora quel vecchio politicante 'mbriagone che a un certo punto gl'inglesi chiamarono (con elfica genialità) a salvare la merry England e tutto il mondo. Era un giovane ex ministro con buone competenze nel campo della marina (i suoi dati navali sono ottimi) e ottime frequentazioni nei club di Londra. Noi inglesi, dice in sostanza, non potevamo farci superare in mare perché altrimenti per difenderci avremmo dovuto farci un grosso esercito e così saremmo diventati non più dei lord eccentrici ma dei militaristi. Ed elenca con garbo il numero delle corazzate, le le decisioni drammatiche prese all'Ammiragliato fra un tè delle cinque e l'altro; i (duri e cortesi) retroscena. E' molto più coinvolgente, sotto questo profilo, del suo rivale. Ci sono chicche splendide: si parla per esempio del nome da dare a un nuovo (nel 1912) cacciatorpediniere; ed ecco che viene fuori una vecchia canzone marinaresca su una fregata dei tempi di Nelson, la "sfrontata Arethusa", dalle tette al vento della polena. Tuttavia, anche qui, c'è qualcosa che non torna. Questo mondo di garbo diplomatico e di sigari al club,di gentlemen's agreements e di sorrisi civili: che mai poteva aveva a vedere col sanguinoso macello di pochi anni dopo? Davvero la radice della barbarie era nascosta là nei club, fra i bicchierini di Porto? Lenin, uomo feroce, sghignazzava: non c'era il minimo dubbo che quei signori, di nascosto, fossero dei cannibali. (s.l.)

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www.isiciliani.it Aprile 1913: i grillini processano Bersani, che aveva loro proposto di governare insieme. Alla fine, il dialogo negato al Pd “comunista” di Bersani è stato concesso al Pd “democristiano” di Renzi...

anzi - sostengono i pignoli - lo co-governa ancora, col suo pilatesco ma decisivo appoggio al governo, anzi al Partito (come ora si definisce) della Nazione. E' in atto un dibattito per stabilire se tale appoggio continuerà o verrà sostituito da quello dell'opposizione oppure, italianamente, da tutt'e due insieme. L'opposizione, in un tale paese, è ovviamente rappresentata (come d'altronde il governo) da un ex-democristiano, finalmente spostatosi, dopo molte urla, all'estrema destra britannica: Lord Grillo. Si dibatte, fra le altre cose, sulla Costituzione da "riformare" (Berlusconi la definì senz'altro "comunista"). Per ora verrà abolito il Senato (ridotto a refugium peccatorum per le varie formigonate e cuffaraggini), più avanti si passerà al resto. Fra "riforme", abolizione delle liste libere e regi poteri dell'ex Presidente-garante siamo già al "torniamo allo Statuto" sonniniano del 1897, che alla fine permise a S.M. il Re e aspirante Imperatore di proclamare arbitrariamente la guerra, nel lontano (ma non tanto) 1915; e siamo tornati in tema. La guerra borbotta già ("Guerra in Europa? Ma è impossibile!") ai lontani confini. I diplomatici si affannano, si parla di "iniziative europee" (allora, di "concerto delle nazioni").

“La Costituzione da “riformare”, l'abolizione delle liste libere, l'attribuzione di poteri regi a quello che una volta era il Presidente-garante: non è un percorso del tutto nuovo, e già una volta fu usato per “salvare la patria” in tempi d'emergenza...

Ma le iniziative politiche, oggi come cent'anni fa, contano quanto il due di coppe a briscola (quando la briscola è denari) di fronte ai poteri economici: il gasdotto, il petrolio, la ferrovia Berlino-Bagdad, il complesso militare-industriale, le nuove (nel 1913) corazzate a nafta, i droni. In Italia, in particolare, la politica riguarda ormai solo l'ordine pubblico, dal momento che la sequenza Marchionne (Pomigliano-Mirafiori-FCA), di ormai due anni fa, ha largamente deciso sulle questioni sostanziali. Un vero e proprio colpo di stato sociale, che aiuta a spiegare perché bisognava mettere il più possibile fra parentesi, in questi anni cruciali, la democrazia. La distamza fra società e palazzo

La concezione personalistica del partito, che aveva risparmiato solo il Pd, si è estesa (e con più virulenza che altrove) anche a quest'ultimo, in termini decisamente non tradizionali. La distanza fra società e palazzo si è ulteriormente allargata e il rapporto è tornato quello pre-democratico, fra monarca e massa: questa rassegnata o urlante, quello accigliato o sorridente, ognuno nel suo balcone o nella sua piazza. L'autorità, qualunque autorità, è impopolare: quasi tutti i sindaci uscenti alle ultime elezioni sono stati sconfitti clamorosamente. La partecipazione al voto è orTrame mai quella che è, tanto da convalidare con COMMEDIA ALL'ITALIANA una certa difficoltà la legittimità dei pote"Ehi, guarda un po' là... Ma non c'era la Fiat, ri. Questi ultimi sono ormai soprattutto laggiù?". "Vero... E dov'è finita la Fiat?". "Me mediatici, campagne-stampa mirate e sonla sono portata". "Ehi! Ma è cent'anni che ci daggi forzati avendo ormai preso il posto, facciamo un mazzo cosi per la Fiat! E noi nella vita politica, di comizi, bar-sport, come facciamo senza fabbriche?". "E che piazze e sezioni di partito. me ne frega. Io sono il padrone e nefaccio Si è ristretto lo spazio pubblico, ma non quello che voglio. L'ha detto pure il la complessità (e la fragilità) del comangoverno". "Ma io... ma noi...". "Arrivederci". do. Le opposizioni esistono ancora, ma "E dove va?". "A Londra, alla nuova sede non più in parlamento bensì a Corte. della ditta". "A Londra? E che c'entra la Fiat Dei famosi centotré congiurati che apcon Londra?". "Per non pagare le tasse a pena un anno fa fecero fuori l'ultimo notavoi fessi italiani". "Ma... non è possibile... bile democratico, Prodi, si parla ormai non è giusto...". "Giusto? Mi dispiace. Ma io per esempio - coi toni dei memorialisti di so' io, e voi nun siete un c...". (Sipario) Luigi XIV, e per allusioni comprensibili solo a chi vive a corte. Eppure si tratta della più potente lobby della Repubblica, e della post-repubblica anche...

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Termometro NOTIZIE ALLA RINFUSA Maggio. Intercettato un piano della famiglia Ercolano per un attentato contro Claudio Fava, dopo una sua interrogazione sulla condizione carceraria di Ardo Ercolano. Distratte reazioni del mondo politico. Maggio. Crisi. Secondo l Censis i duemila italiani più ricchi dispongono di un patrimonio complessivo di 169 miliardi di euro. Statisticamente, lo 0,003% della popolazione possiede quindi una ricchezza pari a quella del 4,5%. I dieci italiani più ricchi, da soli, possiedono circa 75 miliardi di euro, pari al reddito di circa 500mila famiglie comuni. Maggio. Santa Croce di Camerina. Un bracciante di origini tunisine ricoverato per lesioni: bastonate del caposquadra perché si era allontanato qualche minuto per espletare le proprie funzioni biologiche. Giugno. Londra. Triplicato (14-33%) il tasso di povertà in Gran Bretagna dall'83 a oggi. Giugno. Roma. Secondo la Corte dei Conti: l'economia sommersa in Italia ammonta al 21% del Prodotto interno lordo. Giugno. Disoccupazione giovanile al 46%. Giugno. Al via la privatizzazione di Fincantieri. Interessato un pool di banche fra cui Imi, Credit Suisse, Morgan, UniCredit, Citigroup, Deutsche Bank, Goldman Sachs. Giugno. Il 50% della Marmi Carrara al gruppo finanziario saudita Bin Laden. Giugno. Crollo delle nascite in Italia (515mila nel 2013, minimo storico). Aumenta l'emigrazione all'estero (+68mila), diminuisce l'immigrazione (-42mila).

Non c'è più nel sistema politico italiano - altra novità dirompente - una sinistra politica che possa far da bilancia a un sistema così squilibrato verso destra. Il mondo della vecchia Repubblica, ristretto in precisi limiti impostigli dall'esterno, internazionale, gravato da eredità pesantissime (i servizi segreti, il latifondo), dissanguato nel Sud dai primi poteri mafiosi, sottomesso a poteri esteri che spesso interferivano e a volte sanguinosamente, aveva tuttavia una sua saggezza di fondo, che consentì al nostro Paese di sopravvivere, ed anzi di conquistare qualche progresso.


www.isiciliani.it L'equilibrio italiano Questa saggezza consisteva essenzialmente nell'equilibrio. In una società come quella italiana, divisa geograficamente e socialmente, sarebbe stato impossibile andare avanti senza garantire a ogni componente uno spazio preciso di rappresentanza e di gestione possibile del bene comune. All'interno di questo equilibrio la "sinistra" (qualunque ambito si voglia dare a questo termine: dai romanzi di Italo Calvino al Consiglio di fabbrica della Breda) aveva una funzione essenziale che seppe adempiere degnamente. Senza mai rinunciare del tutto alla difesa degli interessi popolari, e spesso anche alla lotta di classe, essa riuscì a farsi carico - come si dice in politica - non solo dei propri stretti interessi, ma anche di quelli nazionali. Questi ultimi in certi momenti erano davvero drammatici (ad esempio sparare sui tedeschi o garantire lo sviluppo industriale), ma non vennero nel complesso mai abbandonati. Quando la sinistra entrò in crisi - il che non avvennne per motivi ideologici, ma

Promemoria Dieci obiettivi dell'antimafia sociale ● Abolire il segreto bancario; ● Confiscare tutti i beni mafiosi o frutto di corruzione o grande evasione fiscale; ● Assegnarli a cooperative di giovani lavoratori; aiuti per chi le sostiene; ● Anagrafe dei beni confiscati; ● Sanzionare le delocalizzazioni, l'abuso di precariato e il mancato rispetto degli accordi di lavoro; ● Separazione di capitale finanziario e industriale; tetto alle partecipazioni nell'editoria; Tobin tax; ● Gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali (scuola, università, difesa, acqua, energia, strutture tecnologiche, credito internazionale); ● Progetto nazionale di messa in sicurezza del territorio, come volano economico soprattutto al Sud; divieto di altre cementificazioni; ● Controllo del territorio nelle zone ad alta intensità mafiosa. ● Applicazione dell'art.41 della Costituzione. Articolo 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

per semplice stanchezza dei ceti medi che avevano finito per costituirne l'ossatura) non furono solo gli interessi delle classi povere ad essere abbandonati: lo furono, in larga misura, anche gli stessi elementi costituitivi della nazione. Una sinistra forte non avrebbe certo permesso i licenziamenti politici degli operai o la riduzione drastica dei salari reali; ma non avrebbe soprattutto permesso la pura e semplice eliminazione della Fiat dall'economia del Paese, la delocalizzazione selvaggia di praticamente tutta l'industria italiana, e la conseguente condanna del Paese a uno stato di crisi strutturale permanente. Nessuno ha lottato più per gli interessi collettivi. Sono sorte, sì, lotte meritorie e vincenti sul piano dei singoli episodi, a volte addirittura (queste, anzi, con più fora di prima) sul piano dei diriti umani. Ma sulla struttura materiale del Paese, sulla sua configurazione complessiva, nessuno - da un certo punto in poi - ha lottato più. Finché è svanita nella nebbia la stessa elementare percezione del problema. Una cultura politica “americana” La sinistra, così, o ciò che continuava a vedersi come tale, ha finito con l'assumere una cultura politica ”americana”: vivacità intellettuale, reazione ai casi singoli, attenzione - non sempre - a ogni grossa lesione dei diritti umani, ma sostanziale abbandono della lotta politica di massa. Un “partito repubblicano” (ma più autoritario e classista di quello americano) di milionari e poveri bianchi, un “partito democratico” (che ha finito per chiamarsi proprio così) di notabili e interessi consolidati, qualche partitino simbolico comunista, ecologista, trockista e chi più ne ha più ne metta, e il potere reale alle corporation (fra cui, da noi, Cosa Nostra e 'ndrangheta) sempre più presenti non solo solo nell'economia ma anche sul territorio. Lo scontro più diretto col Sistema Poteva andare diversamente, potrà andare diversamente? Certamente sì. Personalmente, da molto tempo ritengo che le carte da giocare vadano cercate nel terreno della società civile (o “movimenti”, o “volontariato”: chiamatevla come volete, anche se fra un termine e l'altro ci sono sfumature); e, all'interno di essa, nell'antimafia sociale, che per sua natura deve affrontare gli scontri più radicali diretti col sistema di potere, di cui la mafia ormai è una componente vitale.

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Certo, faccio attenzione anche a quel che succede nella politica tradizionale: ultimamente, qualcosa d'interessante (ma con una certa rozzezza, fra dirigenti vecchi e intellettuali “nuovi”...) s'è visto nella campagna elettorale di Tsipras, per quanto infelicemente condotta. Ma è ovvio che una formazione politica, dal nostro punto di vista, non può mai essere esaustiva, visto che un partito-cardine, onnicomprensivo, verosimilmente (e per fortuna) non esisterà mai più. Il mio modello resta quello, sconosciuto e efficientissimo, dei ragazzi di Modica del “Clandestino”, dei catanesi del “Gapa”, dei napoletani di “Monitor” e di tutti gli altri gruppi “politici” che trovate sulla home dei Siciliani giovani). Ci aiuta molto il fatto di essere, oltre che dei militanti civili, anche dei giornalisti. Partire da un lavoro preciso, da una cosa precisa da fare e non da semplici discorsi, probabilmente di questi tempi è anche un fattore politico importante. Del resto, da costruire c'è quasi tutto: ma non è una cosa strana né una gran novità visto che molto spesso, nel corso della storia, alla sinistra è toccato di guardarsi allo specchio e reinventarsi daccapo, ripartendo pazientemente dal lavoro. *** “Le mafie non sono solo bande di gangster che non sopravviverebbero oltre quarant'anni - dice Caselli, il più coraggioso combattente del periodo Andreotti - Resistono in Italia da oltre due secoli grazie a tutto un apparato di relazioni esterne con consistenti pezzi della politica, dell’economia, della società civile, un sistema di coperture, collusioni e complicità che non permette di affrontare il problema come andrebbe affrontato”.


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Antimafia

Un sindaco coraggioso Palagonia, provincia di Catania: una pallottola contro la speranza di Attilio Occhipinti

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Nella provincia di Catania c’è una porzione di territorio che raccoglie ben quindici comuni sotto un unico vessillo, come una provincia dentro un’altra provincia. Questa grossa fetta di terra, immersa tra alberi di arance e di olive, è il Calatino. Il nome si rifà alla città di Caltagirone, città che in tempi non troppo lontani ambiva a diventare capoluogo di provincia, ma che, invece, si dovette “accontentare” di essere il capoluogo di questo comprensorio. Palagonia, con i suoi sedicimila abitanti, è uno dei comuni calatini che più di tutti ha fatto buttare giù un po’ di inchiostro. Un territorio difficile, amministrato in passato da una classe dirigente che l’ha abbandonato a se stesso, con una gestione poco limpida e non troppo incline al “facciamo le cose per bene”. Tra i casi più recenti il coinvolgimento nel processo Iblis, che ruota attorno all’intreccio tra mafia, politica e imprenditoria in Sicilia, dell’ex sindaco di Palagonia Fausto Fagone, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.

La primavera di Palagonia Prima delle ultime elezioni, quelle del 2012, il comune era stato commissariato in seguito alle dimissioni del sindaco Calanducci indagato per abuso d’ufficio e turbativa d’asta. Una situazione pesante, insomma. E quando l’aria si appesantisce, quando ti accorgi che respiri fumo, quello che occorre è un soffio di vento, come quando stai sotto il sole cocente e preghi per una misera ventata fresca. Ed ecco che arriva la primavera di Palagonia. È, appunto, il 2012. Valerio Marletta, consigliere provinciale trentaduenne di Rifondazione Comunista, candidato a sindaco di Palagonia, viene eletto primo cittadino con un consenso che supera il 70%. Un risultato straordinario, che rispecchia la voglia di cambiare totalmente rotta del popolo palagonese. Subito il primo attentato Nel dicembre del 2012 viene bruciata la macchina del presidente del consiglio comunale, Salvo Grasso. Una intimidazione alle porte del nuovo anno, che lascia l’amaro in bocca. Il 2013 non sembra iniziare meglio. Prima un pignoramento di quasi due milioni e mezzo di euro per un debito contratto dal comune di Palagonia, risalante ad alcuni lavori svolti anni prima e, nel mese di febbraio, il saccheggio ai danni di Palazzo Gulizia, di proprietà del comune, con danni per 20.000 euro. Il bene comune è messo alle strette.

Amministrare è dura e gli ostacoli a volte te li ritrovi a due passi da te, magari proprio nel tuo ufficio. Poco tempo fa un proiettile carico è stato ritrovato presso l’ufficio di Marletta, precisamente sul balcone. Sempre al centro di lotte e rivendicazioni, la presenza politica di Marletta è divenuta un punto di riferimento. Così è stato, ad esempio, nel febbraio del 2012 quando a Scordia tramontò, ancor prima di nascere, la discutibile idea di discutibile di costruire un centro commerciale (il paese calatino conta circa ventimila anime). In un’altra occasione Marletta, non ancora sindaco di Palagonia, ci delucidò riguardo a quella matassa oscura di rifiuti e mafia che legava Scicli, Modica (in provincia di Ragusa) e la stessa Palagonia. “Il proiettile non ci fa paura” Tornando al proiettile, i Carabinieri stanno indagando sull’accaduto, mentre Marletta, al momento, non può fare altro che commentare così, come si legge dal comunicato stampa del Comune: “Siamo di fronte ad una vera e propria intimidazione, ma resto sereno e non voglio fare ipotesi sull’accaduto. Mi auguro solo che non si ritorni al recente passato, fatto di intimidazioni e attentati subiti da alcuni amministratori. L’accaduto non va sminuito, siamo di fronte a pratiche vili e ignobili che abbiamo sempre combattuto”.

Barcellona PG

L'antimafia parte civile al processo sul parco commerciale Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto (ME) ha accolto la richiesta di costituzione di parte civile dell’Associazione Antimafie “Rita Atria” nel processo sul parco commerciale, istruito a seguito dell’inchiesta scaturita da un nostro esposto che provocò nel 2012 anche l’accesso al comune di Barcellona della Commissione Prefettizia per la verifica di eventuali infiltrazioni mafiose.

Ringraziamo l'avvocato Carmelo Picciotto per la disponibilità e l'impegno e ci permettiamo di ricordare che questo nasce in seguito all'esposto delle Associazioni "Rita Atria" (e del grande lavoro di Santina Mondello in quel periodo esponente del direttivo nazionale) e “Città Aperta”. L'esposto fu concepito dopo in seguito agli articoli del giornalista Antonio Mazzeo. Associazione antimafie “Rita Atria”

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Catania

Le mani dei politici sui beni confiscati Finalmente il Comune si decide a emanare un regolamento per la gestione dei beni confiscati alla mafia. Le associazioni della società civile lo richiedevano a gran voce da molto tempo, e Libera aveva addirittura presentato una bozza. Alla fine il regolamento è stato emanato. Ma la figurachiave della gestione è... un delegato dello stesso sindaco

di Giovanni Caruso www.associazionegapa.org

La legge La Torre-Rognoni, che introduceva il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni alle mafie, fu una grande vittoria in quanto colpiva il cuore del potere economico mafioso. L’attuazione di questa legge è stata però sempre resa difficile per l’eccesso di burocrazia e la mancanza di chiari regolamenti. Ne è un esempio l’Agenzia nazionale per i beni confiscati alle mafie, invenzione del ministro Maroni, un organismo recentemente definito dal procuratore aggiunto di Regio Calabria Nicola Gratteri, un "carrozzone vuoto" lento ed inefficiente. Insomma, il percorso per ottenere ed avere assegnato un bene confiscato è difficile e rischia di vanificare la via indicata da Pio La Torre.

Documenti LE ASSOCIAZIONI CATANESI AL SINDACO All’attenzione del sig. Sindaco di Catania Enzo Bianco In data 29 novembre 2013 presso la sede GAPA di via Cordai si è tenuto un Seminario rivolto a tutte le Associazione e gli Enti operanti in ambito sociale sul tema “Procedure di affidamento dei beni confiscati alle mafie”. Le associazioni presenti con questo documento chiedono al Sindaco Enzo Bianco di tener fede alla promessa data in campagna elettorale di regolamentare e rendere trasparente la procedura di assegnazione dei beni confiscati in via definitiva, e pubblicare i beni immobili sia già assegnati, sia non ancora assegnati, ma già nella disponibilità del Comune di Catania. Chiediamo pertanto che il Comune si impegni ad applicare le leggi vigenti in materia e si chiede altresì di definire i criteri di assegnazione del bene attraverso Bandi pubblici che permettano a tutti gli Enti, cooperative, associazioni, di concorrere al

Il Comune di Catania era stato finora fra quelli che non aveva ritenuto prioritario dotarsi di un regolamento per definire le modalità di utilizzo e assegnazione dei beni confiscati ad esso conferiti. Questa lacuna è stata colmata nel consiglio comunale del17 giugno, quando è stato approvato - insieme dal centrosinistra e dalla destra - un regolamento specifico. Su quarantaquattro consiglieri, bisogna sottolineare, ne erano presenti solo ventisei: eppure si trattava di un provvedimento importante, che ridava credibilità alla città e poteva liberare risorse utili per la vita sociale ed economica della comunità. Un lungo percorso Il percorso è stato lungo poiché era da anni che le associazioni cittadine chiedevano chiarezza sui beni conferiti al Comune; diverse assemblee generali, fra novembre e gennaio, avevano avanzato precise richieste in questo senso.

processo di assegnazione del bene, secondo criteri di chiarezza e trasparenza, coerentemente con il principio di “restituzione del bene alla comunità”. Riteniamo che l’assegnazione debba seguire un processo di valutazione con criteri stabiliti in fase preventiva, al fine di non facilitare, o dissuadere alcun Ente. Pertanto chiediamo l’applicazione del regolamento già presentato al Comune di Catania dal coordinamento provinciale di Libera Catania. Questo è il primo passo di un percorso che, come promesso dallo stesso Bianco, contrasti il fenomeno dell’illegalità come processo culturale. GAPA (Giovani Assolutamente Per Agire, Centro di aggregazione popolare), Associazione culturale I Siciliani giovani, Fondazione Fava, I Cordai, giornale di S. Cristoforo, Openmind GLBT, Centro Koros, Neon teatro, Generazione zero, La città felice, Arci Catania, Manitese Sicilia, Associazione Penelope, Fondazione La città invisibile, UDI Catania.

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“Ma alla fine chi deciderà, i carrozzoni politici o le associazioni di volontariato?”

Tutta la “corte” catanese... Autorità, assessori, giornalisti, consiglieri comunali, sindacato, cooperative, insomma tutta la "corte" catanese al completo era là schierata, pronta a elogiare il "grande risultato", che secondo noi non è altro che un atto dovuto ai cittadini che lottano contro la mafia. Entusiastico quindi l'intervento del sindaco Bianco, e anche - come si usa fra politici - abbastanza autocelebrativo. Nessuna domanda scomoda da parte dei presenti (e anche questo qui fa parte dell'usanza), finché non è intervenuto il rappresentante dei "Siciliani giovani" e dei "Cordai" (il mensile di san Cristoforo) che, dopo avere ascoltato con attenzione quanto era stato detto fino a quel momento, si è permesso di fare alcune domande. Domande semplici senza risposta

Alla fine del 2013 il coordinamento crovinciale di Libera ha presentato all'Amministrazione comunale una formale bozza di regolamento, che è alla base di quello approvato ma con modifiche non indifferenti. Il regolamento prevede - ad esempio - una commissione col compito di valutare le richieste di assegnazione; essa è composta da un dirigente del patrimonio, un dirigente dei servizi sociali e un “professionista esterno, esperto in gestione dei beni confiscati, nominato dal sindaco”. Nella proposta di Libera, però, il "professionista esterno"non era designato dal sindaco ma dal Procuratore della Repubblica.

Molti ritengono infatti che una simile funzione di trasparenza e controllo sia più credibile se sottratta al potere politico. E' stato bocciato un emendamento che prevedeva l’assegnazione solo per due anni, tempo irrisorio per interventi con un minimo di continuità. Le associazioni che avranno in gestione i beni potranno invece contare su un periodo, rinnovabile in base ai progetti, fra i sei e i dieci anni. Il sindaco presenta il regolamento Il 20 giugno nella Sala Giunta di Palazzo degli Elefanti si è tenuta la conferenza stampa per presentare il regolamento che darà la possibilità alle organizzazioni noprofit, alle cooperative sociali e alle organizzazioni del volontariato, di richiedere i beni confiscati alla mafia catanese.

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- Come si farà a finanziare tutti quei beni confiscati che hanno bisogno di una ristrutturazione, visto che molti di questi sono degradati o vandalizzati? - Quali saranno i rapporti con l'Agenzia nazionale dei beni confiscati"? E come farà il comune a farsi assegnare tali beni in tempi ragionevoli? - Sarà possibile che una rete di associazioni possa chiedere i beni confiscati o lo potrà fare solo ogni singola associazione? - La Commissione potrà ascoltare le associazioni no-profit come una consulta? Domande semplici e dirette che non piacciono al sindaco, che risponde piccato: "Oggi quasi parla del regolamento e non si fanno richieste!". Malumori in sala, e a questo punto il sindaco si degna di rispondere alla prima domanda: "Il ministero delle infrastrutture ha stanziato diciotto milioni di euro per ristrutturare i beni confiscati che si trovano in condizioni di degrado e abbandono".


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Una Casa dell'informazione intitolata a Giuseppe Fava. E una Casa delle Associazioni dedicata a Titta Scidà Dopodiché si diffonde in autoelogi per la sua giunta ("arginata l'illegalità durante la festa di S. Agata", "regolamenteremo la cittadinanza per gli emigranti"...), ma guardandosi bene dal rispondere alle precise domande che gli erano state poste sul tema in discussione. Alla fine, per troncare il discorso, si alza e se ne va. Dei beni confiscati, a quanto par di capire, si parlerà un'altra volta, quando il buonumore del sindaco lo permetterà. La pratica e le belle parole Caro sindaco Bianco - verrebbe voglia di dirgli - le ricordiamo che lei è amministra la città, e quindi ha il dovere di confrontarsi, in modo democratico, con gli uomini e le donne di Catania e ha il dovere di rispondere alle domande, specie se pertinenti, dei giornalisti. Capiamo che lei è abituato con altra stampa, ma ci perdoni! Abbiamo un grande maestro che ci insegna che per fare questo mestiere bisogna camminare, camminare ed ascoltare, raccontare storie che siano storie di verità, perchè quando si racconta la verità attraverso un giornale c'è la possibilità che la cattiva politica, la corruzione, l'ingiustizia sociale e le mafie alla fine siano sconfitte. Lei sa benissimo chi è stato a dire questo, e sa che per averlo detto è stato ucciso dalla mafia, dalla politica che negava l'esistenza della mafia e dai comitati d'affari. Lei il cinque gennaio ha deposto una corona di fiori ai piedi di quella lapide che ricorda quell'uomo. Si ricorda? Si ricorda le belle parole che ha pronunciato? Erano parole di circostanza ? O le sentiva veramente? Allora, se è sincero, e noi lo vogliamo credere, faccia in modo di applicare il regolamento appena approvato per farci "restituire dalla mafia"i beni che appartengono alla comunità civile.

Due beni confiscati alla mafia

“Noi, la società civile” Noi, la società civile catanese, abbiamo già iniziato un percorso che viene dal basso e che abbiamo reso pubblico proprio il 5 gennaio del 2014 Quel giorno eravamo nel cuore del quartiere di San Cristoforo, al "centro gapa, tutti e tutte lì per ricordare i trentanni dall'uccisione, per mano mafiosa, di Giuseppe Fava. Lo abbiamo fatto con semplicità attraverso la musica della "orchestra sinfonica infantile Falcone Borsellino", con il potere delle parole, consapevoli che queste due cose messe insieme possono fare breccia sul "muro mafioso" e da quella breccia fare entrare luce, aria e il diritto ad una felicità collettiva contro una insopportabile oppressione mafiosa. Siamo lì, ed in prima fila ci ascolta il procuratore Salvi a cui raccontiamo come abbiamo iniziato un percorso politico insieme ad altre organizzazioni sociali che vanno da Generazione Zero alla Fondazione Fava, da Mani Tese all'UDI, dall'Open Mind al GAPA, per promuovere un comitato che aiuti le associazioni nel percorso di richiesta di beni confiscati alla mafia catanese. Questo comitato a novembre ha organizzato un seminario sulle procedure di assegnazione e ha promosso un documento politico per chiedere che venisse approvato in tempi brevi il regolamento redatto dal coordinamento provinciale di Libera Catania.

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Come prima tappa, il comitato richiede due beni confiscati alla mafia. Uno da destinare a “Casa dell'informazione” che ospiterà quelle piccole redazioni di base senza sede che fanno un giornalismo libero e di verità pronte a contrastare il monopolio dell'informazione esercitato nella nostra città dal quotidiano "La Sicilia". La redazione catanese dei "Siciliani giovani", che ha lanciato l'idea, propone di intitolare questa Casa a Giuseppe Fava. Ma non basta. Chiediamo anche una casa che sia disponibile per tutte le associazioni che lavorano nei quartieri popolari, un luogo che sia fucina di idee, dove si incontrino le diversità che generano unità, dove la consapevolezza del pericolo mafioso costruisca antimafia sociale. Una "Casa delle Associazioni", insomma. E una Casa così pensata a chi si può dedicare se non a Giovanbatista Scidà? Si, a questo uomo che con lealtà servì lo Stato, denunciò l'ingiustizia sociale madre della violenza mafiosa, denunciò la condizione in cui versano i minori, costretti molte volte a delinquere in quei quartieri dove lo stato è assente e delega una "mafia sociale" a sostituirlo. Catania glielo deve! Dal quel cinque gennaio sono passati sei mesi e il comitato delle associazioni, ha continuato il suo cammino, organizzando conferenze stampa, presentando istanze al sindaco, chiedendogli di essere civilmente ascoltati. Finora, nessuna risposta. Se abbiamo avuto qualche informazione lo dobbiamo solo a Libera Catania e in modo informale alla gentilezza dell'assessore Saro D'Agata. Evidentemente il sindaco Bianco vede la democrazia partecipata e la trasparenza a senso unico. E discute solo con quella parte della società civile che, secondo lui, è più compiacente.


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Società civile

Un anno con Renato Dal giugno 2013 Renato Accorinti è sindaco di Messina, una delle più disastrate città d'Italia. Non grida, non fa proclami, non è affatto un leader. Ma non si può dire che sia un sindaco come gli altri... di Tonino Cafeo “Adesso andiamo tutti quanti dal Sindaco... ma chi è il Sindaco”? Scherzava Renato Accorinti un anno fa, issato sul monumento ai caduti a Piazza Municipio, l’ennesimo palco d’occasione di una lunga vita da attivista scalzo, di fronte a una folla dalle proporzioni mai viste prima in quel luogo, se non in occasione della Vara o della vittoria ai Mondiali di calcio. In effetti sembrava impossibile fino ad allora un cambiamento così radicale e netto, persino nelle liturgie spicciole della quotidianità, per un’istituzione che , salvo rarissime eccezioni, era stata specchio fedele di una città tenuta prigioniera dalla contemplazione passiva del proprio saccheggio, compensata da un culto quasi maniacale della gloria passata come dagli incubi futuribili di isole artificiali nello stretto, grattacieli e dal Ponte di cemento e acciaio che –in quest’Apocalisse- rappresentava l’alfa e l’omega di qualunque ragionamento e progetto. Sembrava impossibile e invece è stato fatto. Da subito. E non tanto perché nell’ufficio che ha ospitato una sequela di politici di lungo corso e di commissari governativi oggi siede l’uomo in jeans e maglietta a cui tutti danno del tu e che ha messo Gandhi e il Dalai Lama al posto di

Papa Wojtyla (Francesco invece è rimasto perché “ è uno di noi” , sorride il sindaco) , ma perché dal 24 giugno dell’anno scorso il Palazzo, quello che negli ultimi anni si era rinserrato come una fortezza dietro le inferriate chiuse ad ogni accenno di contestazione, quello dei tornelli e dei pass, è diventato, dalle nostre parti, sinonimo di cambiamento. Certo, dopo un anno, è legittimo per non dire doveroso, chiedersi in quale misura questo cambiamento si stia realizzando. Ognuno stila il bilancio come vuole , partendo dalla propria sensibilità e dai propri interessi. C’è l’isola pedonale e ci sono ancora le discariche abusive, c’è la Casa Di Vincenzo per i senza fissa dimora e ci sono ancora troppi sfratti esecutivi bloccati solo dalla generosità degli attivisti sociali, c’è la sofferenza dei servizi sociali ma ci sono anche le isole ecologiche finalmente usate dai cittadini che fanno la differenziata tre volte tanto rispetto allo scorso anno. C’è il rischio dissesto non ancora scongiurato ma c’è il consuntivo 2013 in attivo di sei milioni e mezzo di euro. Ci sono ancora i Tir in città ma abbiamo un sindaco che non ha nessuna paura ad aprire lo scontro con chi pensa di mettere i propri interessi d’impresa al di sopra della salute collettiva. I media locali sono pieni di richiami al programma elettorale, di classifiche degli assessori ,di pagelle con promossi e bocciati. E’ un gioco che può continuare tranquillamente sotto l’ombrellone fino allo sfinimento. Ciò che invece bisogna sottolineare oggi è la vera novità che sta alla base di ogni “gioco” o riflessione seria possibile su aspettative, promesse e realtà. Le stanze di Palazzo Zanca, che per i più erano mute o nella migliore delle ipotesi il luogo dove ognuno poteva tutelare il proprio particulare in cambio di un silenzio complice o rassegnato rispetto alla sistematica violenza all’interesse colletti-

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vo, sono diventate luoghi abitabili dagli umani ed hanno contagiato le strade e le piazze reali e virtuali venendone a loro volta contagiate. E' nato, in qualche modo un circolo per una volta virtuoso (altro che cerchi magici) fra dentro e fuori. Dai consigli comunali letteralmente pedinati da attivisti e cittadini, al lavoro quotidiano e spesso silenzioso dell’infaticabile esperta alla mediazione socialeche ormai vive praticamente a palazzo Zanca quanto e più di sindaco e assessori - e cerca di trovare una soluzione non clientelare ai problemi dei mille disperati che quotidianamente si affacciano nei suoi saloni. E ancora un commissario straordinario di Messinambiente che risponde alle mail dei cittadini e fa i turni di notte per controllare il lavoro svolto dai suoi operatori. O i resistenti ai mille saccheggi del territorio e gli occupanti di teatri di tutta Italia che discutono di democrazia da praticare e di beni comuni e sono ricevuti dal sindaco al posto degli indagati per appropriazione indebita dei soldi di tutti. “Da condominio diventiamo comunità” Messina, vista da lì, sembra una città che assedia se stessa. Ma i rumori di guerra, le urla , il sudore accompagnano la nascita di un senso di appartenenza che non è più quello di prima – nostalgico e passivo - ma non è ancora quello nuovo, tutto da costruire. “Da condominio dobbiamo diventare comunità”. Non si stanca di ripetere Renato Accorinti. E’ una promessa impegnativa, più difficile dei traghetti comunali, perché non basta una vita intera a realizzarla, altro che cinque anni e qualche milione di euro. Difficile dire, però, che non si stia sforzando di tenervi fede.


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Colombia

Il cielo sopra Bogotà Viaggio alla scoperta della società civile colombiana di Norma Ferrara www.liberainformazione.org La Calle 36 si trova in uno dei quartieri centrali di Bogotà: negozi, ristoranti, alcune banche, un parco. Intorno, case di tipo europeo, comitati elettorali, guardie private e polizia. Accompagnati dalle immagini della vita quotidiana del quartiere Teusaquillo, “Giramondi”, gruppo di viaggio della memoria e dell’impegno promosso da Libera, abbiamo trascorso insieme a undici volontari del progetto “Atrevete!mundo” dieci giorni intensi alla scoperta del Paese. Della società civile organizzata che lo anima, della sua storia, delle sue profonde ferite e dei conflitti che lo attraversano, quelli armati e quelli sociali. Uno sguardo al cielo sopra Bogotà e la magia di questa città è subito chiara. Le nuvole si spostano in orizzontale, ritornano, ripartono, fanno giri concentrici e poi si infittiscono sino a cambiare colore: mandano giù la pioggia e ricominciano. E’ un rito che gli animatori dell’associazione CasaB, spazio culturale del quartiere Belèn, spiegano così: “Se non ti piace il tempo a Bogotà, aspetta 15 minuti”. C’è il destino di un Paese dentro questo motto, nato per abituarsi al tempo che può cambiare sino a quattro/cinque volte in un solo giorno e che vale per tutto: la politica, le lotte civili, il conflitto sociale. Quando i volontari mettono piede a Bogotà è il 26 maggio, ufficialmente è inverno ma solo sulla carta. A conti fatti, non ci sono stagioni e per il gruppo ogni giorno sarà una sorpresa. Lasciato l’aeroporto Eldorado le automobili gialle dei tassisti diventano una costante del traffico.

L'arrivo di “Giramondi” Solo poche ore prima dell’arrivo di “Giramondi e Atrevete!mundo” i colombiani avevano votato per eleggere il Presidente. L’astensionismo in Colombia è alto e a decidere chi andrà alla guida del Paese sono soltanto il 35-40% circa degli aventi diritto. Alla segunda vuelta, il ballottaggio che si è temuto il 15 giugno, si sono misurati il presidente uscente Juan Manuel Santos (che ha vinto) e Ivan Zuluaga, delfino dell’ex presidente Alvaro Uribe. Un confronto tutto a destra, fra un candidato dell’elite borghese cittadina e uno del latifondo delle zone rurali, in un Paese che ha un alto tasso di militarizzazione e altrettanto intenso conflitto sociale. Per capire come uno scontro fra due candidati della stessa area politica, possa cambiare i destini di una intera nazione, dovranno passare alcune ore, una prima cena colombiana, l’alba del giorno dopo e l’arrivo al Cinep, il centro di ricerca ed educazione Popolare/Programma per la Pace. Qui è Luis Gulliermo Guerrilla a spiegare quale partita si stia giocando sopra le teste dei cittadini. Dopo alcune ore di dialogo la situazione storico-politica è più chiara e anche il delicato momento che la nazione sta attraversando. All’Avana sono in corso, infatti, tentativi di dialogo fra la guerriglia delle Farc e lo Stato colombiano: gli accordi di pace sono appesi al filo. L’ex presidente Santos, infatti, è intenzionato a proseguire i dialoghi, il candidato di Uribe invece ha già affermato che nessun accordo sarà portato avanti se le Farc non deporranno prima le armi. Punto inaccettabile per la guerriglia. “Sono curioso di sapere come si vivono in Europa questi storici tentativi di pace – dopo il ricercatore indipendente Ricardo Vargas parlando di guerriglia, governo e narcotraffico. “Non si vivono” – risponderanno un po’ imbarazzati gli animatori di “Giramondi”. Sette ore di fuso orario, un'agenda che riduce al minimo le notizie di esteri, una visione segmentata delle dinamiche sudamericane taglia fuori la Colombia dalle pagine dei quotidiani italiani.

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Eppure, se c’è una cosa chiara dopo i primi incontri con le Ong è che le politiche nazionali e internazionali, gli accordi di libero mercato, il business delle multinazionali, la violazione dei diritti umani sono tutti fattori saldati fra loro. E collegano direttamente Europa e America Latina, col cosiddetto “effetto farfalla”. Le vittime del conflitto e il tema della “riparazione”. Gabriele, Vito, Flavia e Vittorio di “Giramondi” hanno gli occhi sbarrati di fronte a quello che sentono raccontare e per prima cosa mettono in discussione ció che di Colombia sapevano prima di partire. “Qui i conflitti sono più di uno” commenta Vito, siciliano a Roma. Come spiegano anche il ricercatore Folco Zaffalon e Tonio Dell’Olio, responsabile di Libera internazionale che li guidano in questo viaggio. “La propaganda del governo di Uribe ha portato all’estero l’immagine di un Paese in guerra contro i narcoterroristi delle Farc e la questione si è così polarizzata: da un lato lo Stato dall’altro la guerriglia. E invece, in mezzo, c’è stata una massiccia e continua violazione dei diritti umani, tuttora in corso”. Crimini di lesa umanità Guerriglie e paramilitari, dunque, ma anche i numerosi “crimini di lesa umanità” commessi dall’esercito, come scritto nero su bianco in varie sentenze della Commissione interamericana per i diritti umani che ha condannato lo Stato colombiano a risarcire le vitttime del conflitto. A confermarlo anche Maria Silva del Pilar del Collettivo di avvocati in difesa dei diritti umani, Cajar, che si occupa di sostenere e seguire i familiari delle vittime del conflitto. Dalla loro parte per il lungo e faticoso percorso di “riparazione” due Leggi, la Ley para las Victimas y Restitucion de Tierras del 2011 e la precedente Ley de Justicia y Paz approvate a conflitto in corso e che sulla carta dovrebbero provvedere a risarcire, sotto diversi aspetti, le vittime. Nei fatti – come sottolineano i ricercatori del Centro Internacional para la justicia Transicional, risultano inapplicate e spesso umilianti per le stesse vittime.


www.isiciliani.it La circolare di Santos

I campesinos vittime del narcotraffico

Al Cajar, il gruppo “Giramondi” incontra per la prima volta le storie dei giovani cittadini uccisi dall’esercito e travestiti, dopo la morte, con abiti da guerriglieri (a seguito di una circolare interna del 2006 a firma di Juan Manuel Santos, ministro della difesa del governo Uribe che cosi “incentivava” la lotta alla guerriglia). Alcuni giorni dopo, queste storie saranno il cuore dell’incontro con le madri di Soacha. Il viaggio nel quartiere-dormitorio alle porte di Bogotà segna un prima e un dopo nell’esperienza colombiana. Loro, “le rose di Soacha” hanno perso tutto: figli uccisi dall’esercito e fatti passare come guerriglieri, mariti che non hanno retto il peso di questa battaglia di verità e sono andati via e persino la solidarietà di una comunità che molto spesso le isola. Nonostante ciò, ai ragazzi di “Giramondi” aprono la loro casa e condividono pagine dolorosissime della loro vita. Flavia Famà, familiare di vittima delle mafie, raccoglie questo “testimone” rappresentato simbolicamente dall’abito bianco che le madri indossano durante le manifestazioni pubbliche. Lo porterà in Italia il prossimo 21 marzo, giornata della Memoria e dell’Impegno. Se é vero che nella terra più arida nascono i fiori più belli, questo detto vale ancor più a Soacha, dove fra case improvvisate, una rete fognaria assente, abitazioni a cielo aperto e strade sterrate, opera una rete di associazioni, coordinata dalla Fondazione Escuela de Paz che porta avanti progetti sociali per ragazzi delle 4 comuna del distretto. Una giornata di animazione con i gruppi “Atrevete!mundo e Giramondi” diventa l’occasione per conoscere da vicino questi percorsi, i sogni dei ragazzi, il conflitto quotidiano in cui vivono e i progetti di cambiamento. Pochi giorni dopo l’incontro con il Movice, Movimiento de Víctimas de Crímenes de Estado, restituirà la dimensione numerica, storica e sociale determinata dai conflitti interni al Paese: 8 milioni di ettari di terre sottratte ai contadini, più di 5 milioni di desplazados (persone scappate dalla propria terra a causa di minacce o dell’uccisione di familiari), 220000 persone assassinate in cinquant’anni di conflitto. “Quello che si vuol far credere – spiega Luis Alfonso Castillo Garzón – é che la maggior parte dei crimini sia stata commessa dalla guerriglia. L’archivio costruito in questi anni di ricerca e documentazione invece dimostra, numeri alla mano, che la maggior parte dei delitti é stata commessa dallo Stato e dalle forze paramilitari create con il beneplacito dello stesso Stato”.

In questo sistema di produzione i campesinos sono vittime della rete del narcotraffico: un vero e proprio sistema di violenza e sopraffazione che si intreccia all’azione della guerriglia, il paramilitarismo e la corruzione dello Stato. In Colombia i desplazados sono coloro che sono costretti con la forza a lasciare la loro terra e sono oltre 5 milioni. Subiscono intimidazioni, minacce e spesso pagano con la vita. Le cause più frequenti del desplazamiento sono la permanenza su terreni strategicamente importanti a livello strutturale per il governo o adatti all’agricoltura estensiva per le multinazionali; o ragioni “politiche” dovute al conflitto armato. Due di loro hanno raccontato direttamente a “Giramondi” la loro storia. L’ingente servizio di scorta e il filo elettrico che circonda la sede della Commissionsono segnali chiari del rischio che corrono sia gli operatori dell’associazione che i “rifugiati” che qui, come sui territori dove la Commissione opera direttamente, trovano conforto, formazione, informazione e sostegno, legale, psicologico e culturale. Così come ci sono stati continui conflitti armati per la terra, per il narcotraffico e per la violenza di Stato è altrettanto vero che ci sono stati, negli anni, numerosi tentativi di sperimentare la pace. L’incontro con due preti gesuiti porta il gruppo a conoscere esperienze singolari: il lavoro di mediatore di pace svolto da padre Francisco de la Roux e l’esperimento di resistenza non violenta della Comunità di San Jose de Apartado, monitorata per anni da padre Javier Giraldo. Laboratori che hanno provato a preparare la pace all’interno di un conflitto armato ancora in corso. Il movimento di resistenza per la pace non trova cittadinanza solo nelle campagne. Anche nella capitale sta nascendo un percorso di resistenza culturale. E' una rete che ha un punto di riferimento forte nell’associazione Hijos y Hijas por la memoria y contra la Impunidad en Colombia, figli di vittime del conflitto. “Giramondi” ha la fortuna di incontrarli in un contesto molto accogliente, una casa in cima al quartiere La Macarena. Un quadro di Frida Khalo alle pareti dell’abitazione, alcuni strumenti musicali, un blackout improvviso che costringe gli invitati a cenare a lume di candela: sembra una tranquilla serata fra amici, quella fra Josè Antequera, portavoce dell’associazione e i ragazzi di “Giramondi”.

Il narcotraffico, la guerra per la terra e i tentativi di pace. Un Convitato di Pietra, per tutto il viaggio, siede al fianco delle Ong e dei testimoni che di volta in volta il gruppo incontrerà. Si chiama narcotraffico e mentre qui è visto solo come “la banca” che rifornisce di denaro liquido la guerriglia, i paramilitari (ex appartenenti all’esercito) e parti dello Stato, per i più attenti osservatori del Paese latino-americano la produzione e il commercio internazionale di droga è una bomba pronta a scoppiare sotto il tavolo del processo di pace all’Avana, nonché il principale ostacolo ad una vera cessazione dei conflitti. “Un effetto collaterale” Tonio Dell’Olio, in particolare, sollecita i vari interlocutori su questo tema ma in pochi, come il ricercatore Riccardo Vargas e il giornalista Simone Bruno, rispondono con analisi mirate. Per altri il narcotraffico sembra solo un effetto collaterale del conflitto in corso. Non è così per la Commissione Giustizia e Pace che in un solo incontro riesce a portare “Giramondi” dentro il cuore del problema politico-economico del Paese: la lotta per la terra e la violenza di uno Stato in accordi con le multinazionali interessate a fare profitto. Vicende documentate in maniera scrupolosa e attenta dai responsabili territoriali della Commissione che in molti distretti denuncia queste “pratiche” e cerca di illuminare i casi di violenza, in particolare, da parte dei paramilitari che per conto delle multinazionali minacciano i campesinos che non intendono cedere la loro terra. Su questi terreni agricoli i contadini coltivano il necessario per sopravvivere e spesso la foglia di coca, che in Colombia rimane la piantagione piu redditizia. La mancanza di vie di comunicazione per la distribuzione e il commercio di altri beni alimentari li ha costretti, infatti, ad una scelta priva di alternative reali.

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www.isiciliani.it José, Fernanda, Silvy, Leonore: la rete Figlio di un politico dell’ Unión Patriótica (UP) ucciso dall’opposizione di destra José li riceve insieme alle “compagne” della rete, Fernanda, Silvy, Leonore. La conversazione a più voci assomiglia all’anteprima di una notizia che solo fra qualche mese potrà essere verificata. “Il movimento giovanile - raccontano si è saldato durante questo ultimo anno con quello campesino e indigeno e, nonostante la costante repressione del presidente Santos, abbiamo trovato un piccolo spazio iniziale di rivendicazione sociale, impensabile sotto il governo Uribe”. “Questo ci dà speranza – dice Josè – perché sentiamo che si è aperto un varco e i tempi oggi sono maturi. Noi abbiamo scelto di puntare sulla rinascita culturale della città, sul coinvolgimento delle persone a partire dall’arte e dalla musica, fortemente saldate ad una rivendicazione di spazi di condivisione e politica”. Per un Paese che ha avuto un intero partito politico, l’Unión Patriótica, annientato con le armi il prerequisito è proprio la conquista di uno spazio di democrazia, che non venga spento nel sangue, come continua ad accadere ancora oggi. Nella tensione visibile sul volto di Folco, ricercatore che ha vissuto in Colombia occupandosi di diritti umani, si coglie entusiasmo ma al tempo stesso la preoccupazione per i destini dei suoi coetanei che qui, in una delle prossime manifestazioni, potrebbero rischiare la vita nel tentativo di chiedere un futuro cui hanno diritto. Di politica si parla a lungo anche con i due protagonisti dell’opposizione di sinistra in Parlamento, con il Polo democratico, il deputato Oliverio Alirio Uribe e Iván Cepeda Castro, senatore e figlio di un leader dell’Union Patriótica. “Il Parlamento eletto a marzo – dice Uribe - è interamente spostato a destra, 76 membri su 269 sono sotto processo per legami con il Paramilitarismo”. Il passaggio di Uribe e Cepeda dalle associazioni alla politica parlamentare ha il sapore di un atto rivoluzionario. “Oltre il 50 per cento del mio lavoro racconta Cepeda è è dedicato alla difesa e all’affermazione dei diritti delle vittime, ad indirizzare la politica su una riforma agraria di restituzione delle terre e di sviluppo delle vie di comunicazione e trasporto all’interno dei distretti per riconvertire l’economia e sottrarla alla rete del narcotraffico”. Uribe e Cepeda hanno fatto pressione dentro la coalizione di sinistra per sostenere gli accordi di Pace, attraverso un voto contro Zuluaga. scegliendo dunque la rie-

lezione di Santos. Se questo appoggio dovesse rivelarsi vincente c’è la possibilità di portare avanti i dialoghi di bace. Se avessero esito positivo, per la prima volta la Colombia si troverà a gestire una situazione di post-conflitto confrontandosi con l’altro dramma, quello sociale, che per anni è stato nascosto con le armi. “Ripartire dal Barrio” Mentre “Giramondi” è in ascolto della società civile organizzata “Atrevete!mundo” conosce questa realtà direttamente, attraverso una esperienza di formazione e volontariato nel quartiere Belén di Bogotà, a Casa B, in un centro culturale situato in una delle aree più difficili della capitale. L’associazione, fondata nel 2012 a Berlino da sei ragazzi e da Daario Sendoya, sociologo colombiano vissuto a lungo in Italia, sta cambiando a piccoli passi il quartiere, offrendo un nuovo punto di vista sul barrío e un nuovo modo di stare insieme per i ragazzi di Belèn. Fra le tante istantanee dei giorni trascorsi a Casa B, le cene a base di ricette internazionali, la proiezione dei “Cento Passi”, le attivitá di animazione e formazione, i lavori per “migliorare” gli spazi interni alla casa e il programma della Cine-Huerta nata a fianco dell’associazione. Valentina, Chiara, Michele, Marilisa, Giulia, Sara, Ludovica, Giuseppe, Letizia, Giulia, Anna hanno raccontato ogni giorno nei loro diari di bordo la “magia di Casa B”. I murales poco fuori l’associazione avvolgono il quartiere e la città di colori e parole. Le lunghe passeggiate su e giù per la capitale portano i giovani di “Atrevete! mundo” a conoscere una città immersa nella cultura, nell’arte e nella musica. Bogotà è saperi nuovi ma anche sapori che arrivano da lontano. I tanti locali dalle luci calde e soffuse custodiscono bevande di origine indigena, i piatti della tradizione campesina e un mix di cucina sudamericana. E sono il luogo privilegiato della famosa Cumbia: una danza che con i piedi disegna ellissi sempre aperte mentre le mani sono ferme sui fianchi. La tensione sociale si avverte, chiaramente, in alcuni quartieri e anche nel via-vai del Transimillenio, la metropolitana su gomma che attraversa la città. Negli ultimi giorni di permanenza a Bogotà i ragazzi di “Atrevete!mundo” incontrano in piazza Bolivar un signore con un cappello verde e un cartello al collo. Si chiama Raùl Carvajal Perez ed è il padre di un sottufficiale dell’esercito ucciso nell’ottobre del 2006 a nord di Santander per essersi rifiutato di assassinare cittadini.

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La storia del sergente Carvajal I ragazzi lo invitano all’appuntamento che si terrà il giorno dopo, al Centro della Memoria, Pace e Riconciliazione, luogo del convegno internazionale sui diritti delle vittime organizzato da Libera e Movice. Qui racconta la sua storia davanti ad una platea in lacrime. Il conflitto, le sue vittime, il dolore e le ferite di un intero paese non sono un affare del passato ma un dramma ancora pienamente in corso. Poche ore prima del convegno, a L’Avana, i dialoghi di Pace si sono indirizzati proprio sul terzo punto degli accordi: il riconoscimento delle vittime e la non impunità dei colpevoli. “Si attende il riconoscimento delle vittime da parte delle Farc, certo, ma si esige anche il riconoscimento di quelle dello Stato – spiega Iván Cepeda. Un atto che chiede anche il militante del Movice, Cesar, che dopo un lungo esilio durato 25 anni in Italia é rientrato due anni fa in Colombia, “per continuare la lotta, perché voglio lasciare a mio figlio una Colombia diversa, democratica” - racconta. Cesar, minacciato e perseguitato per la sua attività politica, come Josè, Fernanda, Silvy e Leonore è nato durante il conflitto e non ha mai visto una Colombia senza guerra. “Sostenere chi lotta per la pace” Due esperienze, un solo obiettivo. Il 4 giugno il gruppo “Atrevete!mundo e Giramondi” lascia Bogotà. Il viaggio attraverso due complementari esperienze di volontariato ha avuto l’obiettivo di far conoscere questo Paese a partire dalle persone che qui vivono, lottando contro la violazione dei diritti umani. Prima di partire il senatore Iván Cepeda, a poche ore dal voto, ribadisce ai due gruppi la necessità di un impegno della comunità internazionale per migliorare la politica colombiana e tutelare i difensori dei diritti umani. Questo, fra i tanti, sará l’impegno da portare in Italia: raccontare la Colombia e i colombiani, provare a far sentire l’appoggio della societa civile italiana e sensibilizzare le Ong internazionali e i Governi sulla grave e continua violazione dei diritti in questo Paese. Il pensiero va a Cesar, Josè, Silvy e tutti gli attivisti incontrati nel viaggio, le cui sorti sono appese ad un filo. Sopra le loro teste, c’è il cielo di Bogotà, con il suo rito dettato dalle nuvole che riflettono l’inquietudine di un intero popolo che dopo oltre quarant’anni di conflitto chiede soltanto di conoscere una Colombia in pace.


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Palermo

Santa Rosalia, dalla corruzione liberaci tu... Piccola storia di “normalità” elettorale di Giulia Crisci www.liberainformazione.org Questo è il racconto di una vicenda accaduta realmente e realmente denunciata alle autorità. Questo però è pure il racconto di tante vicende accadute realmente e realmente taciute. Qui la storia ha protagonisti veri chiamati con nomi fittizi, è ambientata in Sicilia per comodità ma è spaventosamente perfetta anche altrove, basta modificare un po’ il dialetto tra le virgolette. C’è il dito e c’è pure la luna. È questo il motivo per cui la racconto così. Ore 23.00 del 25 maggio 2014. Chiudono i seggi e squilla il telefono: è una delle mie più care amiche, Rosalia, brillante neolaureata che vive in Sicilia, che cento euro per una giornata di lavoro come scrutatore al seggio elettorale sembrano una fortuna. Rosalia arriva al seggio e subito nota un signore che ne presidia il cortile e con un atteggiamento spavaldo conduce comizi spiccioli dell’ultimo minuto in un italiano stentato. La scrutatrice chiede al presidente e al segretario chi fosse quel tizio e loro, che al seggio ci stanno ormai ogni anno da dieci anni, rispondono distratte: “È uno che è sempre qua, ormai lo conosciamo, questo qualche anno fa si è pure candidato e ora è presidente della circoscrizione, lassa perdiri va”. Il signore accompagna un elettore all’interno del seggio e comincia a rimproverarlo fermamente: “Ti rissi che devi scrivere i nomi che ci sono sul pizzino che ti ho dato!”.

Rosalia indignata chiede di sospendere qualsiasi attività propagandistica e di allontanarsi immediatamente dal seggio. Sembra essere l’unica scandalizzata. La segreteria del seggio si limita a ribadire con molta più tranquillità l’invito ad allontanarsi dall’aula. Il signore però non si arrende, perché se la vocazione politica chiama un devoto risponde, e lui non demorde. Rimane fuori dalla scuola e chiama i rinforzi: cinque amici più giovani, ancora meno rassicuranti. Il “militante” si premura di fornire tutti i dettagli fisionomici della scrutatrice “esaurita”; così quando lei si avvicina loro possono smettere di fare proseliti. A questi signori è riservato un trattamento più che amichevole dagli altri presenti, che pure ben sanno chi hanno davanti. Ecco che arriva un’anziana donna che va incontro al signorotto, stanca e provata dalla corsa fatta per arrivare in tempo al voto: “Sono stata ad un funerale, per questo ho fatto tardi, comunque tu nenti m’ha dari?“. Lui, che aveva notato la presenza della scrutatrice rompiscatole, esita, si sposta e tossisce nel tentativo di dare alla fedele sostenitrice un segnale d’emergenza. Gli va male perché la fedelissima è mezza sorda, non lo sente e insiste. Si avvicina un giovane amico nel tentativo di salvare il salvabile: “Signora sta cercando un posacenere? Venga con me”. Si spostano e la signora – che non stava neanche fumando – riceve un pizzino (bigliettino). Questa scena è sotto gli occhi di tutti, che vedono ma non guardano. Rosalia è l’unica a intervenire: “Questa storia deve finire! Signora mi dia subito quello che ha in mano”. L’anziana in un gesto rapido fa del pizzino una pallina e la lancia per terra. Rosalia testarda lo raccoglie, lo apre e vede il simbolo di un partito segnato, e scritto in rosso il nome del candidato caldamente consigliato.

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“Non abbiamo visto niente” Tra le minacce, la scrutatrice chiama le forze dell’ordine, che a quel punto, costrette a svegliarsi dal torpore e intervenire, registrano la denuncia. Nessuno dei colleghi di seggio si aggrega alla testimonianza. I commenti però si sprecano: “Rosalia hai esagerato, potevi evitare”; “È inutile perché tanto non cambia niente”; “Brava Rosalia ti stimo, qua tutti vedono e nessuno parla, tu sei stata coraggiosa”. I commenti che apostrofano il gesto come scorretto, inutile o addirittura come eroico, convergono nel considerarlo ad ogni modo fuori dalla norma. Fino a fine servizio gli amici degli amici la guardano dall’esterno in cagnesco: lei non lo sa se la stanno aspettando. È un po’ angosciata. Il coraggio mica è mancanza di paura, questo ce lo hanno insegnato, ma piuttosto la capacità di non farsi condizionare dalla paura. Di prudenza si muore, e di silenzio pure Abbiate pazienza se la vicenda vi appare banale; e se è così, perdete la pazienza davanti alla normalità deviata a cui ci hanno abituati. Non siate pazienti, non verso chi vi ha di nuovo raccontato la stessa storia, ma contro chi ancora permette che si ripeta. Per denunciare i responsabili non basta dare un nome al signore che distribuiva pizzini e alla signora che li prendeva, non è utile descrivere il simbolo del partito: tutto ciò è stato già riferito alla polizia, il cui compito è accertare se di reato si tratta. Bisognerebbe nominare ad uno ad uno quanti abbassano la testa in segno di consenso, quanti, pur vivendo da cittadini onesti, avallano una situazione generale disonesta. Gli stessi che retoricamente ti posano una mano sulla spalla se dici di no, ma loro al massimo dicono ni. Di prudenza si muore, e di silenzio pure.


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Colombia

La guerra senza fine A Bogotà nuove forme di resistenza trasformano i quartieri più poveri in spazi di partecipazione alternativa di Sara Manisera wwwstampoantimafioso.it Cocaina. E’ forse questo a cui si pensa quando si parla di Colombia. Un paese in cui è in corso una terribile guerra civile nonostante le cronache giornalistiche quotidiane non ne diano notizia. Più di tre milioni di vittime in un conflitto che dura da circa 60 anni e che vede coinvolte le Fuerzas Armadas Rivolucionarias de Colombia – le Farc – , le Autodefensas, – i paramilitari -, i narcos, il debole Stato colombiano, e tutti gli interessi politici ed economici che ruotano attorno al narcotraffico, alle multinazionali e agli uomini di partito. Un numero immane di innocenti, desaparecidos, desplazados e falsos positivos. Scomparsi, sfollati e falsi positivi. I primi sono persone letteralmente “fatte scomparire” da gruppi paramilitari (o da quelli emergenti) ed agenti statali per mettere a tacere l’opposizione e per indurre alla paura e al terrore; metodi immutabili e costanti nella storia di questo paese che continuano ad essere tollerati dalle corrotte istituzioni colombiane. Un esempio su tutti è stato il più grande genocidio politico che la storia ricordi; quello dell’Union Patriottica, il partito della sinistra colombiana che è stato vittima di uno sterminio sistematico con l’eliminazione di candidati e militanti tra 1980 e il 1990; più di 3500 quadri e dirigenti ammazzati o fatti sparire da agenti statali e dalle forze paramilitari, eredità della politica anticomunista americana basata sulla lotta a tutti gli oppositori per la sicurezza dello Stato.

Desparecidos e desplazados Casi di desaparecidos continuano tuttavia ad essere registrati. Secondo la Commissione di Monitoraggio per la Politica Pubblica sugli Sfollamenti forzati “i casi di sparizione forzate aumentano ogni anno. Negli ultimi dieci anni, hanno raggiunto l’esorbitante cifra di 100.000 persone”. Nell’indifferenza della comunità internazionale migliaia di militanti di associazioni di diritti umani, sindacalisti, oppositori politici al regime colombiano, avvocati difensori dei prigionieri politici, intellettuali e studenti sono stati risucchiati nel buco nero delle sparizioni forzate. L’altro tragico fenomeno è quello dei desplazados; comunità contadine, indigene, afro – discendenti e gitane sfollate forzatamente a causa del conflitto armato interno, il cui campo di battaglia sono le terre e le coltivazioni di coca sotto il controllo della violente bande criminali. Secondo i dati del UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e della Commissione di Monitoraggio per la Politica Pubblica sugli Sfollamenti forzati, la Colombia è il primo paese al mondo per numero di sfollati interni. Il comune che ospita il maggior numero di rifugiati della Colombia è Soacha, uno dei più poveri, situato nel dipartimento di Cundinamanca; per raggiungerlo vi è un piccolo autobus che si arrampica sull’unica strada che conduce in cima a quasi 2900 metri. La carreggiata non è asfaltata, le casette sono in mattoni e legno coperte da lamiere in ferro. Le fogne non ci sono e l’acqua è raccolta in cisterne sui tetti delle case. In queste baracche fatiscenti vivono quasi 1 milione di persone, una delle municipalità più popolate del paese a causa delle migliaia di persone desplazados, oltre 50mila, che dalla regioni limitrofe dal 1999 al 2006 si sono riversate in questo sterminato quartiere dormitorio. In questo territorio fragile e sensibile operano diverse associazioni come Piedes escalzos e la Fondazione Tiempo de Juego, che cercano di insegnare ai ragazzi ad avere sogni e passioni e a impiegare il tempo libero attraverso attività ludiche –

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danza, teatro, musica, graffiti – per allontanarli dalle pandillas (le bande), dai gruppi armati e dai paramilitari. I più piccoli del gruppo break dance sono quattro frugoli dagli occhi vivaci e scaltri. Mi avvicino alla fine della loro esibizione per congratularmi. Attratti dall’ospite straniero, si aprono alla conversazione con domande curiose e confidenze rivelatrici: «I sogni si possono realizzare e anche se siamo cresciuti in un quartiere povero, dobbiamo lottare; solo lottando possiamo raggiungere ciò che desideriamo». E che cosa desiderate? «Diventare i ballerini di break dance più famosi del mondo». I “Falsos Positivos” Nascere in certi posti non lascia molte vie d’uscita. Eppure a Soacha qualcosa sta cambiando. Lo dicono i sorrisi cordiali e le mani accoglienti che abbracciano i forestieri; lo dicono le madri e le nonne piene di luce e dignità. Donne ammirevoli che con grande coraggio si sono unite in un movimento di protesta chiamato Las madres de Soacha, il quale ha scoperchiato il vaso di Pandora dei Falsos Positivos. Questi ultimi sono giovani civili ferocemente ammazzati e travestiti da finti guerrilleros dai militari dell’esercito colombiano con l’obiettivo di presentare risultati nell’ambito del conflitto armato ancora in corso. In base al numero dei guerrilleros uccisi vi era infatti un compenso in denaro che dopo lo scandalo dei Falsos Positivos non viene più dato sul numero di guerrilleros ammazzati ma sul numero di prigionieri. Ma ad essere assassinati sono stati anche i semplici militari che si rifiutavano di eseguire gli ordini dei generali e degli alti ranghi dell’esercito. La storia che incontro fa rabbrividire. Raùl Carvajal Perez è un uomo anziano, con gli occhi pieni di dolore e una dignità commovente. Suo figlio, sottufficiale dell’esercito, è stato ucciso nell’ottobre del 2006 a nord di Santander per essersi rifiutato di assassinare persone innocenti all’interno di una politica di Stato volta a prosciugare il consenso delle Farc.


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“Gli interessi economici neoliberisti”

La testa spaccata e riempita di carta Gliel'hanno riconsegnato con la testa spaccata a metà, svuotata e riempita di giornali per impedire che le analisi balistiche potessero dimostrare il tipo di arma utilizzata e le prove del delitto. Da allora ha venduto la sua casa e mettendosi contro tutta la famiglia, intimorita da una possibile ritorsione da parte delle forze para-statali, ha iniziato a girare per la Colombia con un furgone in cui vive da quasi otto anni. «Ho iniziato a girare con questo furgone perché deve essere fatta giustizia. Fino ad oggi né il governo, né la corte militare hanno fatto indagini perché queste morti – i falsi positivi – sono una politica di Stato. Io prima della legge e del risarcimento voglio che siano fatte indagini, non solo su mio figlio ma su tutti gli innocenti, perché devono uscire i nomi dei responsabili» Raul parla della legge 1448 del 2011, introdotta dall’attuale governo di Juan Manuel Santos, più conosciuta come “Ley de Vìctimas y restitución de Tierras” che riconosce l’esistenza delle vittime del conflitto armato colombiano e sancisce il diritto alla giustizia e al risarcimento con la garanzia di non reiterazione. Un risultato importante, dato che i precedenti governi (guidati da Alvaro Uribe dal 2002 al 2010), hanno sempre negato le vittime e sono stati coinvolti nello scandalo dei “falsi positivi”. La “Ley de Victimas” Molti esperti di diritti umani credono però che questa legge sia priva di efficacia (sono state presentate solo 54.063 richieste di restituzione di terra, mentre l’85% delle famiglie vittime dello sfratto forzoso non hanno avanzato la richiesta di risarcimento) e puramente a fini elettorali dato che il Ministro della Difesa, durante il governo di Álvaro Uribe Vélez, era proprio Juan Manuel Santos, attuale presidente e candidato per il partito della U nelle elezioni presidenziali di quest’anno.

Il 15 giugno c'è stato il ballottaggio tra Juan Manuel Santos (centrodestra) e il delfino di Uribe, Oscar Ivan Zuluaga (del partito di estrema destra, Centro Démocratico), che al primo turno avevano ricevuto rispettivamente il 25,5 % e il 29,2% dei voti. Ha vinto Santos. La sfida era giocata tutta sulla necessità di porre fine alla guerra e sul processo di pace con le Farc. Il governo di Santos ha riattivato i negoziati – in corso all’Avana e sotto la sorveglianza di Norvegia e Cubacon i delegati delle Farc, tra cui spicca il nome di Luciano Marin, alias Ivan Marquez, leader ideologico e politico del gruppo armato rivoluzionario. Attualmente le parti stanno discutendo sul quarto e sul quinto punto, la cessazione del fuoco e il risarcimento delle vittime del conflitto, dopo aver già trattato i punti relativi alla riforma agraria, la conversione della guerriglia in gruppo politico e il traffico di droga. Rimangono aperte due questioni; quella sul disarmo delle Forze Armate Rivoluzionarie e lo smembramento del paramilitarismo, imprescindibile non tanto per la fine del conflitto armato quanto per un autentico processo di pace. La questione droga rimane tuttavia un capitolo spinoso. La guerra al narcotraffico arroccata su una posizione militarista, legata alla cosiddetta operazione “Seguridad Ciudadana” e connessa agli interessi economici neoliberali, promossi dagli Stati Uniti e dalle grandi multinazionali, rischia di far naufragare il processo di pace. Troppi i vantaggi dei gruppi oligarchici e dei paramilitari, molti dei quali riabilitati e in funzione all’interno delle istituzioni colombiane che utilizzano il narcotraffico come metodo di accumulazione mafiosa del capitale, e lo Stato, come strumento per il ricorso alla violenza generalizzata. La via d’uscita da questo modello di accumulazione illecita del capitale, che contraddistingue tutti i crimini della globalizzazione, dal traffico di armi a quello di esseri umani, dalla contraffazione ai reati ambientali, risiede nella strutturazione di reti di cittadini che possano permeare la società e proporre nuovi modelli, differenti dal sistema attuale.

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Il progetto “Casa B” e “Marca Barrio” E’ quello che sta avvenendo nel barrìo di Belén, un quartiere storico di Bogotà separato da un frontiera immaginaria, a soli due isolati, dal turistico rione della Candelaria, protagonista della storia coloniale Santafereña. Qui un gruppo di persone – tra cui Daario Sendoya, Jose Camilo Rodriguez e Stefanie Battisti – incontratesi a Berlino nel 2008, hanno deciso di creare una casa culturale che potesse generare una serie di processi di rete e di aggregazione, partendo dalle dinamiche e dalle necessità della comunità locale. Così è nata Casa B, spazio di mediazione e creazione che dal 2012 apre le porte a vicini (e non) offrendo ai bambini e alla comunità corsi di lingua straniera, laboratori di stencil, graffiti, sceneggiatura, fotografia, musica e la Cine-huerta, un orto comunitario biologico con cinema. Insieme a questo progetto si è sviluppato quello di “Marca Barrio”; l’idea è sviluppare un marchio che possa aiutare a migliore le condizioni e la qualità di vita degli abitanti. «Come?» - chiediamo a Diego Parra, uno degli ideatori del progetto. «Facendo (ri) innamorare i cittadini del proprio quartiere, iniziando con un logo e rinforzando il vincolo comunitario, affinché questo quartiere possa trasformarsi in una vetrina di processi positivi e in un museo vivo, dove il capitale che conta sia quello degli artigiani, delle associazioni locali e delle donne».


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Mediterraneo

Zaki Scafista per caso “Non vedo la mia famiglia da più di tre anni. Praticamente li ho lasciati che non sapevano niente del mio arrivo in Italia. Non potevano saperlo, nemmeno io lo sapevo” di Giuseppe Cugnata www.generazionezero.org Queste sono le parole di Zaky, un ragazzo di diciannove anni emigrato accidentalmente dall'Egitto nel 2010 e ritrovatosi in Italia come “scafista” di un barcone di migranti. Attualmente vive a Chiaramonte Gulfi, un borgo di poche migliaia di abitanti della provincia di Ragusa: una postazione di confine, abbarbicata sulle morbide cime dei Monti Iblei, nell’entroterra siciliano sudorientale. La famiglia di Zaky vive a Kafr el-Sheikh, a poche decine di chilometri da Alessandria d’Egitto, nella regione del Delta del Nilo. Il padre di Zaky lavora come cuoco a Sharm el-Sheikh: “L’ultima volta che ho visto mio padre è stato soltanto per cinque giorni, quindi praticamente non sto con lui da più di quattro anni.” Ci siamo incontrati con lui nei giardini comunali, a pochi passi dal centro del Paese. Angela, educatrice nell’area dei minori presso la cooperativa “Nostra Signora di Gulfi”, è stata il nostro aggancio . C’è il sole e fa caldo, si sono aperte le porte alla calura estiva.

"Un pescatore" Zaky è seduto su una panchina all'ombra, colto dalla fiacca del primo pomeriggio, ma appena mi vede si alza di scatto e viene a salutarmi. Ci accomodiamo sotto sotto un cedro, accendiamo il microfono e iniziamo l'intervista. “In Egitto lavoravo come pescatore. Ogni giorno, partivo dalla mia città su un peschereccio per andare a lavorare. Quella volta eravamo in 14 o in 16 oltre al capitano. Prendemmo il largo e lavorammo per un giorno intero. La notte successiva la barca si fermò. Accanto alla nostra barca se ne fermò un’altra dalla quale iniziarono a scendere decine di persone. Nessuno di noi capiva cosa stesse succedendo, nessuno eccetto il capitano: quando una barca esce dal porto, è il capitano che regge tutto e ordina cosa fare, e quella volta il capitano ci ordinò di caricare quelle persone e di non fare domande. In totale salirono sulla barca 161 uomini. Se avessimo saputo, nessuno di noi sarebbe partito.” In una panchina poco lontano un giovane migrante canta, probabilmente sta pensando al suo Paese. “Restammo in mare per dieci giorni” “Restammo in mare per dieci giorni, compresi i due giorni di lavoro” - di solito il viaggio dalle coste egiziane a quelle italiane ne dura solo sei - “oltrepassammo il confine e entrammo in acque italiane, ma ne uscimmo subito dopo. Chiesi perché. Mi fu risposto che se avessimo iniziato a scaricare le persone dalla barca a quell’ora - erano già le tre di notte - sarebbe uscito il sole e ci avrebbero visto.” Scaricare il carico di migranti che si trova a bordo di un barcone è un’operazione lunga - in genere richiede parecchie ore – e, cosa ben più importante, necessita del buio.

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In certi casi può anche capitare che i migranti arrivino su una barca più grande per poi essere smistati dentro barche più piccole, che possono prendere rotte diverse. “L’indomani riaccendemmo il motore – continua Zaky - diretti nuovamente verso l’Italia, ma il copione si ripeté: entrammo in acque italiane e riuscimmo subito. Chiesi un’altra volta perché. Mi risposero che era arrivata una notizia dall’Italia: la Guardia Costiera era in mare e ci stava cercando. Mi affacciai verso il mare e notai una luce rossa: era una nave della Guardia Costiera. Andai a chiamare il capitano. “Appena il capitano vide la luce...” Appena il capitano si accorse della luce rossa, ordinò a tutti di andare sotto coperta e di spegnere i fanali della barca. Non appena i fanali furono spenti, al buio, notammo che si erano aggiunte altre tre luci rosse: eravamo inseguiti da quattro navi della Guardia Costiera. Le navi militari ci inseguirono per tre ore, mentre un elicottero sorvolava la nostra barca. Per fermarci, due navi si misero davanti, presero un cavo e cercarono di inserirlo tra le pale dell’elica. Ma il capitano fu più furbo: aspettò che il cavo fosse arrivato all’elica e spense il motore. Poi, superato il cavo, riaccese il motore e ripartì. Non riuscirono a fermarci. Alla fine, una nave della Guardia Costiera tentò il tutto per tutto: si mise dietro alla nostra barca e con la prua ci 'salì' letteralmente addosso. Intanto dall’elicottero vennero fatti scendere cinque poliziotti. I poliziotti ci perquisirono e trovarono le nostre tessere da pescatore (delle patenti valide in Egitto senza le quali non si può prendere il largo, n.d.r). Accusati di essere scafisti venimmo arrestati e portati a Catania.


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“Degli altri non so cosa ne fecero”

Noi minorenni rimanemmo per una notte con la polizia. Degli altri non so cosa ne fecero.” Zaky si accende una sigaretta: “Ci portarono al quarto piano del tribunale minorile di Catania. Rimanemmo lì per tre notti. Poi il giudice acconsentì il nostro trasferimento in una comunità e dopo nove mesi ci concesse la messa alla prova”. La “messa alla prova” è un principio giuridico introdotto da pochi anni, attraverso il quale il tribunale può decidere, dopo un colloquio con l’imputato, se condannare il ragazzo o sospendere il processo, affidando il minore ad una comunità. “Venni affidato ad una comunità di Scoglitti (una località marittima della Provincia di Ragusa, affacciata sul Canale di Sicilia, n.d.r). Conobbi altri ragazzi mentre frequentavo la scuola serale a Vittoria (cittadina della provincia di Ragusa, con alle spalle una lunga cultura all'accoglienza, n.d.r). In quattro mesi imparai a parlare l’italiano. Durante il periodo di messa alla prova lavoravo nelle serre di peperoni a Scoglitti, pagato 25 euro per otto ore di lavoro al giorno. Dopo essere rimasto per un anno e mezzo a Scoglitti sono stato trasferito a Chiaramonte Gulfi. Finito il periodo di messa alla prova, mi è stato offerto un lavoro come operatore all’interno della cooperativa Nostra Signora di Gulfi, lavoro che faccio tuttora.”

“La Guardia Costiera si avvicinò” La Guardia Costiera si avvicinò. Ci arrestarono. Io e altri due minorenni venimmo mandati in una comunità, gli altri in carcere. Dopo un mese ci liberarono. Rimanemmo in Libia per qualche tempo, aspettando che l’ambasciata egiziana ci desse i documenti, poi tornammo in Egitto. Una seconda volta, poi, all’età di quattordici anni, tornammo nelle acque libiche a pescare. Venimmo subito bloccati da un contingente della Guardia Costiera, per combinazione lo stesso che ci aveva arrestati la volta precedente. Ci arrestarono e ci portarono sulla vedetta: i grandi vennero tutti picchiati. Il poliziotto che si sarebbe dovuto occupare di me, per pietà mi lasciò stare. Ci portarono in Tribunale. “Ci condannarono a nove mesi” “Una volta, a undici anni...” Zaky ha avuto la fortuna di riuscire a trovare un impiego in Italia, ma non sempre il fato è stata dalla sua parte: “Una volta, quando avevo undici anni, stavamo pescando nel mar libico: in Egitto il pesce si trova solo nell’acqua alta e i pescherecci egiziani hanno corde e reti troppo corte, quindi devono accontentarsi di pescare nel mar libico, dove i pesci nuotano anche nell'acqua bassa. Dopo cinque giorni di lavoro la barca era quasi piena. Facevamo l’ultima notte e andavamo via, ma uscì la Guardia Costiera. Ci spararono contro, la nostra barca prese a fuoco. Spegnemmo il fuoco e, visto che la nostra barca era più piccola, cercammo di seminarli. A un certo punto ci fermammo.

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Il giudice decise di metterci tutti in carcere, sia maggiorenni che minorenni. Questa volta fu un po’ più duro perché ci condannarono a nove mesi. Ogni anno, però, in Libia, durante il mese di Ramadan, il governo emette una specie di indulto chiamato 'pace': vengono scelte diverse persone tra tutte le carceri libiche e vengono fatte uscire, anche se non hanno scontato definitivamente la pena. Con due mesi di anticipo uscimmo dal carcere. Stavolta, però, furono le stesse autorità libiche a parlare con l’ambasciata egiziana per farci avere i documenti. Ci diedero 150 dinari libici ciascuno (l’equivalente di 80 euro) e un biglietto di sola andata per l’Egitto. Dopo qualche mese mi ritrovo senza saperlo su una barca diretta in Italia. Da qui in poi la storia la conosci già”.


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Mediterraneo

Il rimorchio non porta al largo Rimorchiatori, petroliere, su e giù fra porti e rade. Ventiquattr'ore nella vita di un gruppo di lavoratori del mare di Francesco Maliet www.napolimonitor.it Il capitano posiziona delicatamente il suo rimorchio da cinquemila cavalli alle spalle della Kriti Jade, petroliera battente bandiera greca venuta a depositare il suo carico nel porto di Fos-sur-Mer (dipartimento Bouches-du-Rhône). Di solito, Pierre guida la sua barca seduto, con una mano sola, sulla postazione di comando con le gambe accavallate. Ora è in piedi, per controllare al meglio la manovra, sorveglia il nostromo che si dà da fare sul ponte di poppa, impegnandosi per appicicarsi quanto più vicino possibile alla nave greca, mostro galleggiante di trentamila tonnellate. Di fianco a lui, sulla passerella, Jean-Pierre si occupa dei macchinari, joystick alla mano. Sylvain, il nostromo, si affaccenda con un casco targato “BZH” (la sigla della Bretagna, n.d.t.) calcato in testa. È impossibile trasferire direttamente un cavo d’acciaio di cinquantadue millimetri di diametro da una imbarcazione all’altra. Il nostromo comincia quindi a far dondolare un capo più sottile, che permetterà di far passare il cavo che trainerà la petroliera fino al porto. «Quando si tirano barche grosse, se sei in alto mare, si usa una catena» specifica Sylvain.

Quattro uomini sul ponte Sul ponte della Kriti Jade, quattro persone si occupano delle manovre. Sulla passerella, Jean Pierre brontola: «Guardali bene, uno solo tra loro conosce il mestiere. Gli altri… quelli sono sempre più incompetenti, ci sono sempre più incidenti». Pierre ci tiene a precisare: «Si sbattono per avere uno stipendio, niente di più. E poi è normale, dal momento che non hanno avuto nessuna formazione o quasi. Non è colpa loro». Una volta che la petrolierà è stata correttamente attraccata, il rimorchio fa ritorno al porto. Mentre Jean-Pierre si rimette ai fornelli. «Ho girato le melanzane», ci confida Yves, il capo meccanico, beffardo. «E per quale motivo hai girato le mie melanzane?!». Ci accomodiamo in cabina per proseguire la conversazione. Dal primo gennaio 2001, la legislazione comunitaria permette a ogni membro dell’Unione Europea di assumere una importante percentuale di marittimi stranieri e agli armatori di pagarli secondo le tariffe in vigore nel loro paese di provenienza. «Si rivolgono a dei mercanti d’uomini – è il termine che usano nell’ambiente – per formare i loro equipaggi», spiega il capitano. «In Francia, si assumono romeni, perché molti di loro parlano francese. Guadagnano poco più di trecento euro al mese. Ma i salari più bassi sono quelli dei cinesi e degli africani, ottanta euro mensili. I ragazzi non sono motivati, restano a bordo per sei mesi o un anno, intascano il loro gruzzolo e la maggior parte di loro non rimette più piede su una nave». Secondo lui, un buon numero degli incidenti marittimi – Erika, Bow Eagle, Jolly Rubino, Ievoli Sun – sono collegati a queste pratiche di dumping sociale. Le statistiche dei Lloyd confermano: l’80% degli incidenti marittimi sono dovuti a errori umani.

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In confronto, Pierre, Yves, Jean-Pierre e Sylvain sembrano a casa loro. Il rimorchio è la Rolls-Royce della navigazione, dove, spesso, i marinai vengono a terminare la loro carriera. Certo, lavorano ventiquattro ore di fila, ma un giorno su tre per due mesi, poi prendono tre o quattro settimane di riposo. Imbarcati sotto bandiera francese nonostante l’armatore spagnolo, pagano le tasse in Francia, dove pensione e copertura sociale sono assicurate. Pensione che prenderanno da qui a due anni, a cinquantacinque anni. Altro fatto interessante: questi quattro se la intendono tra loro come vecchie faine, cosa abbastanza rara su una barca. Quando ha presentato i suoi complici di bordo agli inviati di CQFD, Pierre non ha esitato un momento a prenderli in giro: «Questi tre, contano assieme non so quanti figli, e sei divorzi!». “Qualcuno arrotondava così...” Tuttavia, gli resta un rimorso: quello di non poter più navigare tanto spesso al largo. Sono un po’ come dei pesci d’alto mare che sguazzano in un acquario da salotto. Sylvain conferma: «Per fare avanti e indietro tra la rada e il porto ci vuole una settimana». E non c’è bisogno di stuzzicarli molto perché si mettano a raccontare delle loro navigazioni di lungo corso. Qualche anno fa, Pierre lavorava su una vinacciera, una nave cisterna dedicata al trasporto del vino: «Facevamo il carico in Italia, Creta, Grecia o Algeria, non meno di tre milioni di litri per volta. A bordo, c’era la battaglia del giallo (il pastis, liquore all’anice) contro il rosso! Non eravamo pagati troppo bene, allora qualcuno arrotondava vendendo fuori mano dei “campioni” del carico. Pare che, se aggiungi un po’ d’acqua di mare al vino, non si veda nelle analisi. Bisogna dirla tutta: i marinai hanno sempre un po’ trafficato con quello che gli capitava sotto mano».


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“Con le nuove leggi, nei porti più concorrenza e meno diritti”

Sylvain, il bretone del gruppo, è uno di quei marinai innamorati del mare. Infaticabile, afferma di non aver mai avuto «la sensazione di andare a lavorare», tanto ama il suo mestiere. Eppure «il diporto, non riesco a capirlo. La barca serve a lavorare. In Bretagna, ci salgo sempre con l’impermeabile, e sposto casse e reti». Quando, qualche mese fa, Pierre ha annunciato un bel giorno che bisognava andare a prendere una barca a Malta, Sylvain era al settimo cielo: «Una settimana di navigazione davanti a noi! Sono andato immediatamente a comprare due pacchetti di sigarette per il viaggio». Che delusione quando è venuto a sapere che non era prevista nessuna partenza per La Valette! Il capitano si era inventato questa missione per fare un dispetto agli interinali imposti a bordo dal padrone, che ricalcitrano quando si tratta di navigare. Pierre tempera un po’ la situazione descritta dal suo nostromo, affermando che non è un caso se sono su un rimorchiatore: il lavoro è meno duro che altrove. “Quindici, sedici ore al giorno” «Quando si prende il mare, si sgobba dalle quindici alle sedici ore al giorno. C’è il brutto tempo da gestire, come anche le relazioni coi membri dell’equipaggio, che possono essere molto difficili. A volte ci sono dei veri bastardi che non ci pensano due volte a giocarti dei brutti tiri. Quando ero allievo ufficiale ho visto da vicino il Bateau Ivre (il Battello Ebbro, da una poesia di Rimbaud): tutti a bordo erano completamente ubriachi, capitano compreso. La barca percorreva la sua rotta nonostante l’equipaggio non fosse capace di reagire e io mi ero chiuso in cabina per non farmi insultare da chi da ubriaco diventava molesto. Beh, è strano, ma mi è successo davvero».

“Sbattuti come in una lavatrice” Ma in questo lunedì 31 marzo, l’equipaggio è piuttosto di buonumore. Il programma della giornata non è quello di tutti i giorni: devono rimorchiare, dal porto di Fos fino all’estremità della laguna di Berre, una chiatta carica di blocchi di cemento. É un transport test: l’imbarcazione, alla fine, si porterà dietro dei materiali per la costruzione del reattore a fusione nucleare di Itar, sul sito di Cadarache (diparimento di Bouches-du- Rhône). Tutto l’equipaggio è sul ponte. Jean Pierre ha un problema con una leva difettosa – il freno dei cavi non si blocca –, ma l’emergenza rientra rapidamente. Una volta che la chiatta è solidamente attaccata, attraversiamo la rada scortati da due vedette della guardia costiera – il convoglio “nucleare” lo richiede. «Vengono sbattuti come in una lavatrice, lì dentro. Qualcuno finirà sicuramente per sbrattare», si diverte Yves. I marosi bagnano i piedi dei due militari – equipaggiati di casco, giubbotto antiproiettile e mitra – che sono rimasti sul battello. «Non è ben bilanciata sta’ barca, punta un po’ di naso» scherza il capitano. Due ore più tardi, dopo aver imboccato il canale di Caronte e attraversato Martigues e tutta la laguna di Berre, portiamo il carico a destinazione. Tutto senza colpo ferire: «Oh! Hai visto che parcheggio?!». Sulla via del ritorno, il rimorchiatore si concede un quarto d’ora di pausa nel bel mezzo di Martigues, dove sbarca la piccola banda. «È la tradizione, quando si passa

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di qui». spiega Pierre, una volta al tavolo del bar della Marina. Tornati al molo, Pierre spiega nei dettagli i tiri mancini che sta preparando l’Europa, soprattutto la direttiva sull’accesso ai mercati dei servizi portuali. Proposta per la prima volta nel febbraio 2001, riguarda, tra le altre cose, il pilotaggio, il rimorchio, l’attracco, la manutenzione, lo stoccaggio e il collettame del carico. È favorevole a un aumento della concorrenza nell’insieme di questi servizi. “Addio salario minimo” L’idea? CQFD l’aveva già fatta presente nel marzo 2005: “Qualunque impresa straniera facente parte dell’Unione Europea (UE) potrà stazionare e carburare ovunque nell’UE secondo le leggi del proprio paese. Una bagnarola maltese delocalizzata nel porto di Havre, per esempio, non verserà nulla nel fondo delle pensioni o della copertura sociale, non elargirà un salario minimo garantito ai suoi lavoratori, non gli concederà il diritto alle ferie previsto dalle convenzioni”. Anche se questa direttiva è stata rispedita al mittente già due volte, è molto probabile che torni a galla. Questa riforma non dovrebbe toccare Pierre, che è a qualche passo dalla pensione. Ma, come già in passato, non mancherà di combatterla. Una volta sbarcato definitivamente dal suo rimorchiatore, avrà tutto il tempo necessario. (Con CQFD - Trad. di Umberto Piscopo)


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Napoli

Divieto di mare Da San Giovanni a Posillipo: spiagge proibite di Luca Rossomando www.napolimonitor.it Quando si dice che il mare non bagna Napoli bisognerebbe aggiungere che questo avviene per cause precise, scelte urbanistiche stratificate nel tempo, inerzie assortite, in certi casi abusi accertati con responsabili in carne e ossa. Il litorale di San Giovanni a Teduccio è l’emblema di questo tribolato rapporto. Tra i cittadini e il mare si frappongono ostacoli di ogni tipo – attività portuali e cantieri navali, strade ferrate, scarichi fognari, depuratori, centrali elettriche – eppure, con il primo caldo, si ritrovano tutti là, a saggiare il bagnasciuga con aria incerta, cercando il coraggio per immergersi nell’acqua non proprio cristallina. A San Giovanni ci sono due spiagge, la sabbia è nera, vulcanica. In mezzo, un vecchio depuratore delle acque, attivato dopo il colera del ’73, che serve ormai solo i quartieri dell’area orientale. È un impianto obsoleto, in dismissione da anni, ma ancora non sono attivi gli allacciamenti per deviarne le acque verso il depuratore di Napoli Est, situato a Ponticelli. In una qualsiasi mattina di giugno, la spiaggia di vico primo Marina, a sinistra del depuratore, la troverete animata e piena di gente, costellata di ombrelloni, con bambini che fanno il bagno, donne sedute sugli scogli con le gambe a mollo, uomini che chiacchierano e riparano le reti davanti ai box delle associazioni di pescatori. Poche centinaia di metri più in là, alla destra del depuratore, l’altra spiaggia, detta del Municipio, è quasi deserta: radi gli ombrelloni, nemmeno un bambino, solo uomini e donne che prendono il sole in un quadrilatero di spiaggia pulita, di cui evidentemente qualcuno si prende cura.

Nonostante la calura asfissiante nessuno si bagna. Eppure il mare è lo stesso, sporco da entrambe le parti, non balneabile. Sulle mappe la costa fino a Portici è trafitta da pallini rossi: divieto assoluto. La differenza, bisogna dedurne, sta nel fatto che su un lato della spiaggia del Municipio sfocia l’alveo Pollena, gettando a mare le acque nere di tutto l’entroterra, circa diecimila metri cubi d’acqua all’ora. Nei pressi della bocca della conduttura, il rumore è così forte da coprire le voci. L'altra spiaggia L’altra spiaggia, invece, dà le spalle al depuratore. Basta averlo fuori di vista, insomma, per trovare la voglia di bagnarsi. A vico Marina il comune ha costruito qualche anno fa una “passeggiata” sulla sommità del muro di cinta della ferrovia: una striscia di cemento parallela ai binari che permette di attraversare da un capo all’altro la spiaggia e godersi la vista sul golfo. Nel tempo sono spuntate le pedane di un bar e di un ristorante, qualche doccia qua e là, addirittura una pergola sotto la quale gli anziani giocano a carte. All’orizzonte, il profilo di una nave portacontainer che attende immobile il via libera per entrare a scaricare nel porto. Il litorale di San Giovanni è lungo tre chilometri e mezzo, ma un chilometro abbondante se lo prendono le attività portuali. Nonostante questo, è la parte di arenile più estesa della città. Fino a pochi anni fa c’era una terza spiaggetta, nei pressi della centrale elettrica di Vigliena, frequentata nonostante divieti e recinzioni. La gente restava a riva solo in certi giorni, quando le correnti portavano il tanfo e la melma degli scarichi a mare. In quell’area ha aperto il cantiere di Porto Fiorito, un approdo turistico da ottocento posti barca, con il recupero della ex fabbrica Corradini di proprietà comunale. I privati dovevano mettere una parte dei soldi in cambio del comodato d’uso delle aree. Una storia cominciata nel ’99, la posa della prima pietra solo nel 2011, con la solita foto di gruppo: politici e imprendi-

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tori che annunciano orgogliosi posti di lavoro e prosperità; poi le prime scadenze mancate, il cantiere fermo, le bonifiche di terreni e fondali mai cominciate, i lavoratori che salgono sui tetti per scongiurare i licenziamenti. Oggi le voci sempre più pessimiste sul futuro del progetto. Pare che ogni napoletano disponga di un quadrato di 33 centimetri per lato di spiaggia. Tra catrame, scarichi e cancelli per molti è impossibile anche solo arrivarci. Nel mese di giugno il comitato “Una spiaggia per tutti” ha indetto una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni in cui versano gli esigui arenili cittadini e spingere le istituzioni a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la fruizione. L’iniziativa si articola in quattro appuntamenti, uno per ogni sabato del mese. Il primo c’è stato il blitz con famiglie e bambini sull’arenile demaniale a lato di palazzo Donn’Annna, che da vent’anni l’imprenditore Romeo ha trasformato nel suo giardino privato. Poi a lido Mappatella è stata chiesta la riapertura di tutte le discese a mare privatizzate a Posillipo, forse le uniche in città ad affacciarsi su un’acqua realmente pulita, eppure del tutto inaccessibili ai comuni mortali. Il 21 è stata la volta del litorale di San Giovanni, proprio sulla spiaggia di vico Marina. Infine il 28 la campagna si concluderà in zona Bagnoli-Coroglio, dove l’acciaieria non c’è più da vent’anni fa ma il mare e le spiagge non sono meno inquinate e inaccessibili di allora.


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Bologna

Vivere nel “Guasto” Un reportage racconta una delle vie più discusse di Bologna. Ne parliamo con gli autori di Laura Pergolizzi www.diecieventicinque.it Prendete 3 bottiglie di Moretti, spaccatele in Piazza Verdi, aggiungeteci 2 bicchieri di pignoletto invecchiato pochi mesi, un pizzico (anche 2) di ganja, un gruppo bello nutrito di punkabestia e una decina di pisciate sui muri del Comunale e walà… C’è chi si è abituato a parlarne ogni giorno, quasi come ci si abitua a parlare del tempo con gli estranei. C’è chi invece sul degrado ci costruisce discorsi infiniti trovando un pretesto per attaccare gli studenti fannulloni, gli immigrati, chiunque stia attraversando la strada in quel momento. E poi c’è un’altra categoria, sempre più rara, di persone che invece di rassegnarsi alla condizione in cui riversa il centro universitario di Bologna cerca di capire. Tra questi abbiamo conosciuto Alessandro D’Oria e Davide Sberna, studenti del DAMS e fondatori di “Sequage”, un gruppo di lavoro che realizza produzioni audiovisive. In realtà, ancor prima di conoscere loro, abbiamo visto “GUASTO”, il trailer del reportage che si occupa della problematica del degrado in Via del Guasto firmato, appunto, “Sequage”.

Il vostro reportage si concentra sul degrado in una delle zone più popolate di Bologna. Quanto, secondo voi, questa problematica può incidere sulla vita quotidiana di uno studente? Alessandro: Il problema del degrado, entrando praticamente a far parte della vita quotidiana di ogni studente, risulta meno evidente. Girando il cortometraggio abbiamo avvertito un atteggiamento generale di indifferenza da parte della stragrande maggioranza degli studenti. Quasi tutti, più o meno velocemente, si abituano. Davide: Nella vita quotidiana dello studente il degrado risulta anche evitabile, dopotutto le zone“guaste” per così dire, si conoscono. Il problema sta proprio nel fatto che ci si ritrova a voler evitare certi luoghi a causa delle condizioni nelle quali si ritrovano. La versione integrale del video propone numerose interviste. Che impatto avete avuto sulla gente? Vi siete sentiti condivisi dalle altre persone oppure avete riscontrato indifferenza? Alessandro: Grottesco. La gente non riusciva a credere che stavamo realizzando un reportage sul Guasto. I giovani si sono mostrati più frettolosi e superficiali mentre gli adulti, specialmente i cittadini bolognesi, hanno manifestato parecchio interesse per la nostra iniziativa. Davide: la tendenza era fortunatamente più indirizzata a voler parlare con noi. In molti hanno voluto esprimere il proprio parere sull’argomento. Nonostante questo, però, non sono mancati i rifiuti. Lavorando sul campo avete sviluppato qualche idea su una possibile soluzione al problema?

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Alessandro: Di soluzioni pratiche ce ne sono molte. Il vero problema sta nel concetto distorto di libertà che sfocia nella mancanza di rispetto per l’ambiente e per l’essere umano. E’ insomma una questione di ‘mentalità’, come ci ha fatto notare un signore che abbiamo intervistato. Davide: Il problema sta proprio in quel “ ci penserà qualcun altro”, una questione d’assenza di senso civico che non ha una soluzione identificabile. Restando in tema di degrado…qual è la più grave scena a cui avete assistito da quando siete a Bologna ? Alessandro: di brutte scene se ne vedono tutti i giorni, ma forse quella che mi ha terrorizzato di più è stata quella di due pit bull sciolti e sprovvisti di museruole che, sotto gli occhi di tutti ed in pieno giorno, hanno aggredito un cane di piccola taglia. Davide: vivendo qui da qualche anno forse mi sono abituato a scene che risultano gravi non più nella loro singolarità quanto al fatto che si vedono tutti i giorni, quindi un episodio in particolare non mi viene in mente. Il Guasto è all’ordine del giorno. Per dirne una: il tappeto di bottiglie che è Piazza Verdi alla fine della serata… Pur essendo molto giovani avete già realizzato molto. Progetti per il futuro? Ci sono molte idee in cantiere, stiamo preparando un altro cortometraggio, un documentario sociale e quest’estate ci stiamo attrezzando per girare il nostro primo lungometraggio.

Info: https://www.facebook.com/Sequage? fref=ts Trailer: https://www.youtube.com/watch? v=FHXkGfP_yt4


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Somalia

Di nuovo sventola il Tricolor Il governo Renzi mette a disposizione dei nuovi signori della guerra somali parà, istruttori e veicoli militari di Antonio Mazzeo Mogadiscio. Nel corso di una cerimonia tenutasi nella capitale della Somalia, il comando del National Support Element (IT NSE), il team italiano attivo nel paese del Corno d’Africa lacerato dalla lunga guerra civile, ha donato al locale Ministero della difesa tre veicoli minivan per consentire una “migliore mobilità” dei militari impiegati a Gashandiga, Mogadiscio. “Gli aiuti alle istituzioni somale rappresentano parte dell’impegno profuso dall’Italia nell’ambito delle iniziative internazionali a salvaguardia della pace e della stabilità del paese”, si legge nel comunicato emesso dalle forze armate italiane. Il contingente nazionale opera nell’ambito dell’European Union Training Mission to contribute to the training of Somali National Security Forces (EUTM Somalia), la missione di formazione e addestramento delle forze armate somale che l’Unione europea ha istituito il 15 febbraio 2010 per concorrere alla “stabilizzazione del Corno d’Africa” e “rafforzare” il governo e le istituzioni somale.

Insieme con gli Usa Condotta in collegamento con il Comando militare statunitense per il continente africano (US AFRICOM) ed AMISOM, la missione dell’Unione africana che vede schierati in Somalia più di 17.000 uomini di Uganda, Kenya, Burundi, Sierra Leone e Nigeria, EUTM Somalia ha come obiettivo strategico il rafforzamento del dispositivo multinazionale chiamato a contrastare in Corno d’Africa le milizie armate al-shabaab ritenute vicine ad al-Qaeda. Schierata inizialmente a Kampala, capitale dell’Uganda, e presso il centro addestrativo di Bihanga (250 km a ovest di Kampala), EUTM Somalia avrebbe dovuto operare sino al 2013, ma nel gennaio 2013 il Consiglio Europeo ha deciso la sua estensione sino al 31 marzo 2015, ampliandone i compiti alla “consulenza politico-strategico alle autorità somale” e all’addestramento specializzato delle forze governative. “Consulenza politico-strategica” Nella seconda metà del 2013 la missione Ue ha trasferito il suo quartier generale e il Mentoring Advisory Training Element (MATE) presso l’aeroporto internazionale di Mogadiscio e dal gennaio 2014 tutte le sue attività sono condotte esclusivamente in territorio somalo. Attualmente l’addestramento delle unità viene effettuato presso il Jazeera Training Camp, a circa 5 Km a sud dallo scalo aereo. Sino ad oggi EUTM Somalia ha contribuito alla formazione di 3.600 tra ufficiali, specialisti e istruttori militari somali. La missione ha ottenuto un budget di 11,6 milioni di euro per il periodo compreso tra il febbraio 2013 e il marzo 2015 e vede schierati 125 militari di 13 paesi europei.

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Il team italiano è composto da 78 unità, in buona parte paracadutisti della Brigata “Folgore”, impiegate in vari ambiti, dall’addestramento delle forze armate somale alla sicurezza dei movimenti e del contingente, al supporto logistico e amministrativo. “I nostri specialisti forniscono alle reclute somale conoscenze e tecniche utili a contrastare la minaccia delle mine e degli ordigni esplosivi improvvisati (IED) unitamente a nozioni di primo soccorso tattico sul campo di battaglia, ecc.”, ha spiegato il National Support Element (IT NSE). Secondo il cronogramma operativo, nel 2014 il team italiano seguirà la formazione di 1.850 militari somali, per una spesa che solo nei primi sei mesi dell’anno è stata di 7 milioni e 62.000 euro. L'ex comandante della Folgore Dal 15 febbraio il comando della missione Ue in Somalia è stato affidato al generale Massimo Mingiardi, vice comandante della Scuola di fanteria di Cesano ed ex comandante della brigata “Folgore”. Il colonnello Mingiardi aveva già operato a Mogadiscio nel 1993 come comandante di compagnia durante l’Operazione “Ibis”, tragicamente segnata dall’incredibile numero di violazioni dei diritti umani commesso dal contingente italiano e dalla battaglia del check-point “Pasta” che il 2 luglio 1993 provocò la morte di tre uomini e il ferimento di 33 parà italiani. In vista del rafforzamento dei vincoli bilaterali tra l’Italia e la Somalia, il 17 settembre 2013 si è tenuto a Roma un vertice tra l’allora ministro Mario Mauro e Abdihakim Mohamed Haji Fiqi, responsabile del dicastero alla difesa del Governo federale somalo. Nel corso del meeting venne siglato un Memorandum di Cooperazione nel settore della difesa a sostegno delle nuove istituzioni politiche e militari somale.


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Campania

La nomina che salva Polis Tutti d'accordo, ma...

Finisce l’imbarazzo nel consiglio d’amministrazione di Polis, la fondazione che per conto della Regione Campania si occupa di beni confiscati, politiche di sicurezza e familiari delle vittime innocenti di camorra di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it Il generale dei carabinieri in pensione Maurizio Scoppa è stato nominato amministratore delegato del Tarì, il centro Orafo di Marcianise. L’ex vertice dei militari dell’Arma lascia insomma per un altro incarico l’ufficio di esperto trasversale per la legalità e sicurezza della Regione Campania per i Pon. Il generale per diritto sedeva anche come consigliere nel Cda della stessa Fondazione Polis presieduta dal medico Paolo Siani, fratello di Giancarlo, il giornalista de Il Mattino trucidato il 23 settembre 1985 dalla camorra. Da tempo all’interno del Consiglio d’amministrazione (le nuove nomine sono del settembre scorso) c’era un clima pesante, ne sono prova le pochissime riunioni operative effettuate ed i tanti rinvii degli ordini del giorno. Più volte i componenti del Cda sono stati tentati addirittura nel presentare dimissioni in blocco.

Tutti d’accordo nella Fondazione sull’incompatibilità del generale, ma segretamente, come spesso accade: da don Tonino Palmese nelle vesti di vice presidente, a Geppino Fiorenza come referente di Libera in Campania (nelle prossime riunioni sarà sostituito dal nuovo eletto Fabio Giuliani) dal presidente del Coordinamento dei familiari delle vittime Innocenti della Campania, Alfredo Avella. La nomina di Scoppa al Tarì risolve per così dire un problema se poi di problema si trattava. Era in corso da tempo una “dialettica” o meglio una “guerra silenziosa” a colpi di missive indirizzate direttamente al presidente della Regione Stefano Caldoro. Un carteggio che nei fatti ha avuto l’effetto di bloccare le funzioni e le attività dello stesso generale (poi davvero non si capisce cosa è e a cosa serva l’esperto trasversale?). Scoppa più volte pubblicamente ha mosso critiche a Palazzo Santa Lucia per non essere stato messo nelle condizioni di operare. Lui si sente una sorta di Raffaele Cantone formato regionale. Ma la domanda è: perché la presenza di Scoppa era tanto ingombrante e sofferta nel Cda di Polis? La risposta sta nella parentela acquisita dall’ex generale Scoppa. Questa è la storia. La figlia di Nuvoletta Alessio Scoppa, nipote del generale è figlio del radiologo Gianfranco (recentemente scomparso) del centro Aktis di Marano (destinatario di ricche convenzioni ospedaliere), ha preso in sposa Sabina Nuvoletta, figlia di Angelo Nuvoletta, il padrino da poco scomparso, colui che diede l’ordine di ammazzare il giornalista Giancarlo Siani per la sua attività di denuncia e per aver svelato in un articolo che il clan di Marano aveva usato la delazione ai carabinieri per sbarazzarsi senza

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guerre interne di un suo alleato scomodo, Valentino Gionta boss di Torre Annunziata. Chiariamo: il generale non c’entra nulla in questa vicenda: resta, e ci mancherebbe, un galantuomo e un servitore delle istituzioni. Ma le sensibilità sono sensibilità e la presenza di Scoppa ne urtava parecchie nel Cda di Polis. Adesso tutto è a posto C’è da segnalare che il presidente Caldoro aveva già dato una nuova riorganizzazione del comparto legalità e sicurezza cambiando lo statuto della stessa fondazione Polis. Infatti, sul burc n. 35 del 19 maggio del 2014 si dà esecuzione della delibera n. 90 del 28 marzo 2014 “Viene istituita l’Unità Operativa Dirigenziale istituita all’interno dell’Ufficio Speciale per il Federalismo, rappresenta il nucleo centrale di coordinamento ed organizzativo di tutte le attività amministrativo-contabili in materia di sicurezza poiché è deputata alla realizzazione dei programmi in attuazione della Legge Regionale 12/03, dei progetti e servizi di prevenzione dei reati di usura ed estorsione, degli interventi di riutilizzo dei beni confiscati, della implementazione dei sistemi digitali di sicurezza, della esecuzione degli accordi interistituzionali”. Con la nuova organizzazione dell’esperto trasversale non c’è più traccia nel Cda ma compare il rappresentante dell’Uod. A parte i tecnicismi burocratici c’è il fatto: il generale Scoppa – tra l’altro molto vicino al cardinale Crescenzio Sepe e membro dell’Arciconfraternita dei Pellegrini – non poteva essere sacrificato, tra l’altro è stato commissario all’Asl Napoli 1, ed ecco la nomina: sarà l’amministratore delegato al Tarì. E’ stato lo stesso consiglio di amministrazione del gruppo Orafo di Marcianise a cooptarlo. Adesso con serenità la Fondazione potrà continuare la propria missione.


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Inter viste/ Umberto Santino

Cosa nostra a Palermo oggi Il punto sull'evoluzione della più antica struttura di potere illegale nell'analisi del maggiore storico dell'antimafia di Francesco Moiraghi

Una Cosa nostra in perdurante affanno, impegnato in una frenetica rimodulazione degli assetti e delle catene di comando, con frequenti tentativi, ad opera di nuove leve, di rapide ascese all’interno dell’organizzazione”. Con queste parole, nella relazione della Direzione Investigativa Antimafia, si apre la sezione dedicata a Cosa nostra, organizzazione divenuta un’osservata speciale per la delicata fase di trasformazione che sta attraversando. Con una particolare attenzione sull’area palermitana, da sempre cuore pulsante di Cosa nostra, cerchiamo di capire quali sono le prospettive di sviluppo e modifica dell’organizzazione. Ne parliamo con Umberto Santino, presidente del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” Considerando le inchieste e i processi che hanno colpito Cosa nostra a Palermo negli ultimi anni, si può parlare veramente di una fase di arretramento o l’azione repressiva ha condotto ad una semplice mutazione?

Cosa nostra ha pagato i grandi delitti degli anni ’80 e le stragi degli anni ’90 che l’hanno portata in prima pagina ma hanno avuto effetti boomerang, con la legge antimafia, il maxiprocesso, le leggi premiali per i collaboratori di giustizia, il carcere duro, gli arresti e le condanne di capi e gregari. L’impunità che storicamente è stata una forma di legittimazione della violenza mafiosa, quando essa serviva a perpetuare un assetto di potere, si è interrotta dopo i delitti che hanno colpito personaggi delle istituzioni in un periodo storico in cui il crollo del socialismo reale, l’archiviazione del Partito comunista, la riduzione delle sinistre residuali a soggetti marginali non rendeva più necessario l’uso della violenza extrastatuale per governare e reprimere il conflitto sociale e impedire l’affermarsi di prospettive alternative. In questo contesto la mafia siciliana ha visto ridimensionarsi il suo ruolo di soggetto politico, mentre la repressione ne decimava le file. Si aggiunga che i processi di globalizzazione, fortemente criminogeni per due aspetti fondamentali: l’aggravarsi degli squilibri territoriali e dei divari sociali, che spingono gran parte della popolazione mondiale al ricorso all’economia illegale, e la finanziarizzazione dell’economia, che rende sempre più difficile distinguere tra capitale legale e illegale, hanno visto il proliferare di organizzazioni criminali di tipo mafioso, cioè che coniugano l’associazionismo criminale a un sistema di rapporti. In questo quadro la mafia siciliana ha perso il ruolo, se non egemonico comunque di primo piano, nel traffico di droghe, che rappresenta la prima fonte dell’accumulazione illegale. E attualmente assistiamo a processi che cercano di far fronte a questi problemi. Un altro problema è rappresentato dall’insediamento a Palermo di nuovi soggetti criminali.

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Come si configura il rapporto con le mafie storiche? Sono possibili tre ipotesi: convivenza, complicità, conflitto. Non ci sono tracce di conflitto. Risulta da recenti inchieste che c’è una collaborazione tra mafiosi locali e criminali nigeriani nel traffico di droghe e stiamo studiando qual è il ruolo della mafia nell’industria del sesso mercenario, in particolare lo sfruttamento schiavistico delle donne nigeriane. I mafiosi si limitano a lasciar fare o hanno un ruolo attivo? Si ricordi che già a fine Ottocento i cosiddetti “ricottari”, mafiosi o aspiranti tali, gestivano i bordelli nei quartieri popolari di Palermo e negli Stati Uniti una delle attività più lucrative dei mafiosi emigrati era lo sfruttamento della prostituzione. Il ruolo di “mediatori” dei mafiosi Bisogna considerare i cambiamenti nella coscienza della società civile: associazioni e semplici cittadini stanno fornendo un importante contributo per il contrasto della criminalità organizzata, ma non si può neanche dire che i mafiosi abbiano perso il loro ruolo di mediatori e rappresentati di un ordine alternativo, anzi... Nella coscienza dei cittadini qualcosa è mutato, per esempio per quanto riguarda l’antiracket, ma si tratta di mutamenti che coinvolgono ancora minoranze. La stessa cosa si può dire per l’uso sociale dei beni confiscati. L’azione nelle scuole può produrre i suoi frutti ma è troppo schiacciata su un’idea di legalità astratta e formale. Non si è creato finora qualcosa che somigli al movimento contadino che spingeva allo scontro con la mafia centinaia di migliaia di persone sulla base dei bisogni della vita quotidiana. Ma qui il problema si allarga, riguarda l’inesistenza di una sinistra. Prima la sinistra era legata agli interessi e alle lotte di operai e contadini.


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“Saracinesche chiuse: passa il funerale del boss...”

Oggi bisognerebbe raccogliere e rappresentare il disagio di disoccupati, precari ed emarginati, che potrebbero essere i soggetti di una prospettiva di mutamento. Purtroppo non lo fa nessuno, né a livello sindacale né a livello politico. Il ruolo di mediazione della mafia oggi è stato sostituito dall’assedio agli enti locali e dalla compartecipazione al potere sul territorio: si veda il numero crescente di consigli comunali sciolti per mafia, da qualche anno non solo al Sud; molti di essi riguardano ’ndrangheta e camorra, con un ruolo crescente della ’ndrangheta nella gestione dei comuni e nella compartecipazione alle grandi opere, come dimostrano i recenti arresti per l’Expo milanese. Il ruolo della ‘ndrangheta si deve non solo ai corposi trasferimenti in nuove aree, con la formazione di nuove ’ndrine, ma soprattutto alla grande accumulazione derivante dal traffico di droghe.

In un periodi di crisi, con le difficoltà di accesso al credito, la ’ndrangheta funge da dispensatrice di liquidità e se non si affronta il problema del proibizionismo le mafie continueranno ad essere soggetti finanziari di primo piano. La riorganizzazione territoriale L’azione repressiva ha costretto ad una riorganizzazione di tipo territoriale ed organizzativo delle varie famiglie. Si pensi ad esempio all’operazione “Nuovo mandamento”, che ha rivelato l’unione dei mandamenti di Partinico e San Giuseppe Jato nel maxi-mandamento di Camporeale. Come si possono leggere queste evoluzioni? Direi che essi rappresentano un dato fisiologico. Sono aggiustamenti che tengono conto di un certo assottigliamento delle presenze, delle difficoltà di reperire sostituti a capi in carcere o comunque non più in grado di comandare.

Proposte PER LA CREAZIONE DI IN MEMORIALE/ LABORATORIO DELLA LOTTA ALLA MAFIA Il Centro Impastato da anni propone di creare a Palermo un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia. Una struttura polivalente, da realizzare con un impegno unitario, che sia insieme: - percorso museale sulla mafia e sull’antimafia (l’abbiamo delineato nella cartella dal titolo “Mafia e antimafia ieri e oggi” e nel progetto di mostra “Fare memoria” che sposa i criteri della museologia moderna che privilegia l’interattività; - itinerario didattico (utilizzando i materiali prodotti dalle scuole con cui operiamo da molti anni e con cui operano altre associazioni e fondazioni); - biblioteca e archivio di documenti (verseremmo i materiali raccolti in 37 anni di attività); - cineteca e videoteca; - istituto di ricerca, in continuità con le nostre attività documentate in decine di pubblicazioni, e in collegamento con l'Università e altri istituti di ricerca a livello locale, nazionale e internazionale; - luogo d'incontro e progettazione.

E’ una riorganizzazione che dimostra tutto sommato una capacità di ridisegnare la geografia della struttura interna e della signoria territoriale. Gli arresti inoltre hanno portato, come è naturale, ad un’ascesa di nuovi personaggi, giovani ed ambiziosi, nel panorama mafioso. Che rapporto si instaura tra questi “parvenu” e gli storici capimafia, alcuni dei quali hanno anche finito di scontare le loro condanne? Il rapporto tra vecchi e giovani, tra personaggi storici e soggetti emergenti, può configurarsi in vari modi: come un avvicendamento pacifico o come un tentativo di scalata, con la destituzione dei vecchi gruppi di comando, che prevede il ricorso, per la mafia “normale”, alla violenza. Mi pare che alcuni recenti delitti dimostrino che i vecchi non hanno nessuna intenzione di cedere pacificamente le posizioni di potere.

In breve: uno spazio da vivere e non solo un museo da visitare. La proposta, presentata all’Amministrazione comunale e alla Regione (che nel 2010 ha costituito un comitato per la creazione di un Museo della memoria e della legalità, ben presto arenatosi), ha raccolto molteplici adesioni, da Francesco Renda, grande storico della Sicilia e delle lotte contadine dai Fasci siciliani al secondo dopoguerra, recentemente scomparso, alla Cgil, di fondazioni e associazioni, tra cui Addiopizzo, Libero Futuro, CRESM Belice/Epicentro, Salvare Palermo, Lega Ambiente (iniziative che si legano alla nostra “campagna della memoria” le stiamo conducendo con l’ANPI), e si è avvalsa della collaborazione e potrebbe contare sulla disponibilità di operatori culturali con una lunga esperienza sul terreno degli allestimenti di gallerie e di mostre. Abbiamo indicato varie possibili sedi, e nel corso di un recente incontro con l’Assessore alla Cultura del Comune di Palermo è stato indicato un palazzo nel centro storico, di proprietà comunale, come possibile sede del Memoriale. Umberto Santino

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“Le confraternite da sempre sono in mano alla mafia” La Processione dell’Immacolata di Cinisi, 1979. Giuseppe Finazzo è il secondo da sinistra (Archivio fotografico Centro Impastato, Palermo).

Giuseppe Calascibetta nel 2011, Francesco Nangano nel 2013, Giuseppe di Giacomo lo scorso marzo, con la raffica di morti che avrebbero potuto seguire, come rivelato dall’operazione “Iago”: Cosa nostra non ha rinunciato agli omicidi, ma la scelta delle vittime sembra più oculata e l’uccisione è usata con più prudenza rispetto ad un tempo. Che ruolo occupa il ricorso all’omicidio nelle nuove strategie di Cosa nostra? Gli ultimi omicidi mi sembrano delle “potature” con cui si eliminano soggetti che mirano a mettere in forse assetti di potere interno che i mandanti degli omicidi vogliono mantenere. L’omicidio per la mafia è il mezzo con cui viene condotta la lotta egemonica interna e l’applicazione della pena di morte per chi viola le sue norme o ostacola i suoi interessi. L’escalation della violenza nei primi anni ’80 e ’90 ha avuto gli effetti boomerang che ricordavo, per cui, sotto la gestione Provenzano, che è stato uomo di tutte le stagioni: killer con Luciano Liggio, stragista con Riina, “pacificatore” successivamente, si è evitato il ricorso alla violenza esterna in forma eclatante (ma sono continuate minacce e intimidazioni), che aveva esposto Cosa nostra all’ondata repressiva. I delitti più recenti dimostrano che la lotta egemonica prosegue con modalità violente. La violenza continua a essere il dato distintivo della mafia, in nome del non riconoscimento del monopolio statale della forza. Da questo punto di vista niente di nuovo. Siamo in piena continuità con la soggettività politica della mafia cos’ come l’ho definita in un saggio dei primi anni ’90, recentemente ripubblicato: la mafia ha un suo complesso di regole, un ancoraggio territoriale, un apparato per esercitare la coercizione, cioè per punire chi non osserva le sue regole.

Sembra che stiano cambiando anche i tipi di attività illecite: insieme al ritorno del traffico di droga si registra un calo delle estorsioni. Come si possono leggere questi dati? Il calo delle estorsioni, se i dati sono attendibili, si deve a due ragioni: un certo numero di commercianti e imprenditori ha imboccato la strada della mobilitazione antiracket e i mafiosi preferiscono non riprovarci.La crisi falcidia redditi e proventi e i mafiosi capiscono che taglieggiare soggetti impoveriti può ridurre fortemente il consenso. Che però il consenso ci sia ancora lo dimostra la prova di forza ai funerali di Di Giacomo, con i mafiosi in prima fila, gli applausi dei partecipanti in gran numero, i labari della confraternita, la messa in chiesa. Solo ora l’arcivescovo di Palermo si è deciso a intervenire. Ma non lo sa che le confraternite sono da sempre in mano alla mafia, che le feste dei santi patroni, a cominciare da santa Rosalia a Palermo, per la falsa guarigione dalla peste del 1624, e di sant’Agata a Catania, sono o sono state feste di mafia? In una fotografia della processione dell’Immacolata a Cinisi, del 1979, si vede il mafioso Finazzo tra le autorità, vicino all’arciprete. Da qualche tempo scene simili non si vedevano, sotto l’infierire della repressione. Ora sono ritornate. A proposito di Chiesa, voglio segnalare che le recenti occupazioni dei senza casa di Palermo hanno riguardato edifici e istituti religiosi, da tempo abbandonati. Gli occupanti hanno richiamato le parole di papa Francesco che invita ad aprire ai bisognosi case e conventi. Una suora ha subito presentato denuncia contro i violatori della proprietà privata, sacra per tutti ma in particolare per i religiosi, e in un incontro con rappresentanti di senza casa il cardinale, a proposito delle parole del papa, ha risposto con un sorrisino.

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Riguardo al traffico di droga mi pare ovvio che Cosa nostra miri a un rientro, ma il quadro adesso è molto più affollato di quello ai tempi di Badalamenti, che dal processo alla Pizza Connection risultava alla testa del traffico di eroina tra la Sicilia e gli Stati Uniti, e non so se riuscirà a riguadagnare posizioni nella gara a chi accumula di più. Un sistema economico accogliente... Alla luce di queste riflessioni, cosa si potrebbe immaginare nell’analisi delle prospettive di evoluzione di Cosa nostra nel breve-medio periodo? Cosa nostra è in crisi e dovrà barcamenarsi per venirne fuori, ma il modello mafioso del mio “paradigma della complessità”: crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso sociale, associazionismo criminale e sistema relazionale, mi pare in gran forma. Lo dicevo già prima: la globalizzazione fa il tifo per le mafie e per l’accumulazione illegale, che non conosce crisi e non deve fare i conti con i balletti dello spread. E il capitalismo nella sua fase finanziaria, con i suoi titoli tossici e con le innovazioni relative alla raccolta e circuitazione del capitale, a prescindere dalla sua provenienza, è un grembo accogliente.


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Periferie

I meandri della droga Quando il sistema ti vuole apatico, senza speranza o morto di Ivana Sciacca www.associazionegapa.org/ Tra qualche giorno sarà passato un anno esatto da quella che reputo la svolta della mia vita. Smettere di assumere stupefacenti è stato come venire al mondo una seconda volta”. Esordisce così Silvia: la confessione le pesa ma si affida al potere catartico della condivisione e perciò continua la sua testimonianza ripercorrendo gli anni bui della sua adolescenza. “Quando ho iniziato a sballarmi sembrava un passatempo da weekend. Non sospettavo che quel “gioco” sarebbe diventato presto la mia prigione. La prima volta che acquistai da un pusher ero poco più di una bambina, frequentavo ancora le medie. All’inizio mi sembrava un modo per ribellarmi a ciò che mi circondava, un esilio da un mondo sbagliato che non ti vuole e che perciò rinneghi a tua volta. Ai miei occhi di adolescente c’erano cose ben più gravi che drogarsi: le ristrettezze economiche, ciò che causavano, le incomprensioni costanti e l’impotenza di poter cambiare una virgola. Il mio disagio ci mise poco a condurmi verso amicizie sbagliate e amori distruttivi. Per molto tempo mi è sembrato che in quel campo chiamato “vita” io non sarei potuta mai fiorire. E il paradosso era che sbocciare sarebbe dovuto essere un mio diritto a quell’età.” Con rammarico dice che la sua probabilmente è stata davvero una “gioventù bruciata” ma poi aggiunge che è stata fortunata lo stesso visto che c’è ed è ancora viva. Alcuni suoi amici sono morti: non sono né sbocciati né fioriti, “mangiano solo terreno”.

“Un codice di gesti e sguardi” “All’inizio con i miei amici andavamo a Librino per comprare. Il codice di gesti, sguardi e movimenti è preciso, chiaro per qualunque acquirente. Una volta ci beccarono i poliziotti in borghese al palazzo di cemento: uno di loro mi disse che avrei dovuto vergognarmi. Ebbi un po’ di paura: lo sapevo che in un modo o nell’altro mettevo a repentaglio la mia facciata di brava ragazza. Avrebbero potuto schedarmi come tossica o trovarmi roba addosso e sbattermi in galera. Queste cose io le sapevo ma non mi persuadevano a smettere. Dopo quell’episodio cambiai zona dirigendomi al San Cristoforo. Alle 15 di ogni pomeriggio mi intrufolavo in quelle viuzze strette raggiungendo il cuore del degrado. I bambini-sentinelle Ci andavo anche da sola per non dare nell’occhio ma mi pesava: passare davanti ai bambini che facevano da sentinelle nel caso si avvicinasse qualche volante di “sbirri”; gli sguardi delle signore sedute davanti ai loro usci che sembravano serbarmi disprezzo. Lì la mia facciata di brava ragazza crollava: diventavo come chi me la vendeva, una complice del sistema mafioso. Mi pesava pure dover girare a zonzo finché andavano a prenderla o doverla nascondere addosso. Ad un certo punto mi chiesi perché. Perché mi sottoponevo a tutta quella miseria? Non mi costringeva nessuno quindi perché non ero in grado di essere libera? I pretesti che chiamavo in causa cominciavano a fare acqua da tutte le parti, mi rendevo conto che non era vero che attraverso lo sballo mi scivolasse tutto addosso e mi sentissi più serena. Era vero piuttosto che tutto ciò che scivolava mi stava seppellendo giorno dopo giorno e di certo era una serenità artificiale la mia. Quando cominciai a valutare l’ipotesi di smettere la sofferenza fu atroce.

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Cominciai a soffrire di insonnia e quando riuscivo ad addormentarmi avevo gli incubi. La mia coscienza si stava risvegliando. Fu una lotta tra me e me e mi resi presto conto che non avrei mai potuto vincere senza l’aiuto di qualcuno. Mi recai al Sert più vicino con la speranza che il tossicologo mi dicesse di smettere gradualmente. Invece dovetti smettere di colpo dopo più di 10 anni di assuefazione. Mi resi conto che non soffrivo perché stavo smettendo. Soffrivo perché avevo perso di vista me stessa per tutto quel tempo. Ritrovarmi è stata una gioia, un cammino che continua ancora oggi”. Spaccio, soldi e miseria Questa è la storia di Silvia. Di ragazzi come lei coinvolti in storie di droga ne è piena la città ma anche i cimiteri. Chiunque sa perfettamente quali siano i quartieri dove si può reperire fumo, cocaina, eroina. Sono quartieri dove puntualmente le forze dell’ordine fanno dei blitz ma dove non cambia mai nulla. Gli spacciatori sono giovani come Silvia: quando vengono arrestati, sono subito rimpiazzati da altri giovani. L’attività di spaccio, che produce tanti soldi quanta miseria, non si ferma mai: altrimenti non si potrebbero pagare gli avvocati. In questo modo si alimenta un sistema che non ti vuole lucido ma apatico, senza speranza o morto. Tutto ciò è risaputo da chi nei quartieri ci vive da vittima e da complice, da chi ci va come se andasse al supermercato, da chi non ci va mai perché timoroso della peste che dilaga, ma soprattutto dalle istituzioni che non muovono un dito perché scoperchiare sfacciatamente questo giro significherebbe un testa a testa cruento con la mafia e il coraggio di proporre valide alternative. Finché non ci saranno alternative a questo modo di vivere mafioso infatti questo cane rabbioso continuerà a mordersi la coda.


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Rostagno

Ciao Mauro Giustizia è fatta Ventisei anni dopo, la verità sull'assassinio di Mauro Rostagno di Lillo Venezia Giustizia è fatta, potremmo dire. In nome del popolo italiano, i due sicari, Virga e Mazzara, mafiosi del boss latitante Messina Denaro, sono stati condannati al'ergastolo per avere ucciso Mauro Rostagno. Vigliacchi. Una sentenza storica è stata definita, perchè è stata accertata in pieno la responsabilità, non solo personale dei due ma anche dell'associazione criminale della Mafia. In tanti hanno concorso a questo selvaggio omicidio, non solo, ma la corte ha anche stabilito di fare indagini supplementari sui depistaggi e le veline perpetrate inizialmente dai carabinieri, avallate anche dalla maggioranza dei media. Due giornalisti palermitani che scrivono sui fatti di mafia, in particolare, hanno di fatto sposato con convinzione le tesi depistanti. Cosa di cui dovrebbero vergognarsi, e l'Ordine dei giornalisti dovrebbe quantomeno sanzionarli per un comportamento etico e rofessionale non degno. Ma mio il primo pensiero va a Chicca e Maddalena, moglie e figlia di Mauro, le quali dopo 26 anni possono finalmente ritrovare la serenità. 26 anni dopo l'omicidio, dopo avere caparbiamente lottato e vissuto per far sì che venisse fatta piena giustizia e la figura di Mauro venisse ricordata nel modo giusto. Cioè di un militante e giornalista, che ha sempre dedicato la sua opera e la sua vita all’emancipazione e la felicità degli altri. Il mio pensiero va anche ai tanti compagni, di Lotta Continua e non, che hanno supportato negli ultimi anni, ma anche prima con l'associazione trapanese Ciao Mauro, le iniziative per ribadire l’assoluta responsabilità mafiosa nell'omicidio, deciso dai boss principalmente per l’intensa

attività giornalistica di inchieste che Mauro faceva sul territorio. Inchieste che stavano avendo dei risultati concreti sullo spaccio di droga, sul traffico di armi e sull’attività criminale della massoneria trapanese, lo Scontrino. Oltre all'attività sociale sui tossicodipendenti con la comunità Saman, un’attività di contrasto serio ed estremo al trafficanti della droga nella zona del trapanese, anche attraverso incontri sempre più frequenti con le madri dei ragazzi devastati dalla droga. Io ho avuto l'onore, al tempo di Lotta Continua, di conoscerlo ed apprezzarlo, come lo hanno apprezzato tanti compagni e compagne di LC siciliani, i senzatetto di Palermo con cui ha occupato la cattedrale, gli operai dei Cantieri navali, gli studenti in lotta, i proletari in divisa delle caserme palermitane e gli operai di Lotta Continua, convenuti a Siracusa ad un convegno regionale operaio. E se lo ricordano bene i compagni operai di Siracusa Leonardo, Antonio, Iano il biondo, Luciano e tantissimi altri. il clima creato da Mauro in Sicilia fra i compagni e le compagne di LC ha promosso una grandissima solidarietà e convivialità, anche nelle differenze di vedute e opinioni. Mauro ha lasciato un segno certamente, prima in LC e poi a Trapani, non solo perchè ha creato la comunità Saman, in territorio ericino, ma anche perchè la sua attività e la sua disponibilità verso le persone era grandissima, seconda solo a quella verso la sua famiglia. Mauro Rostagno, Peppino Impastato, Pippo Fava: tre antimafiosi, tre morti simili, uccisi barbaramente dalla mafia. Per tutti e tre, le inchieste all’inizio sono state depistate dai carabinieri e avallate dalla maggioranza dei media. Alla fine però, per la caparbietà delle famiglie, dei compagni e degli amici, che sempre hanno tenuto vivo il ricordo e gli omicidi, giustizia è stata fatta con le condanne pesanti inflitte ai loro assassini mafiosi. Ciao Mauro.

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Rostagno/ 2

La notte in cui qui la mafia ha perso

A Trapani, da questa notte, è cambiato veramente qualcosa di Rino Giacalone Non ci sono sentenze che pongono interrogativi, perché le sentenze accertano fatti. Quella per il delitto Rostagno non sfugge a questa regola. Chi usa, o pensa di usare questa sentenza per riproporre soliti noti interrogativi deve essere guardato come qualcuno che non vuole la verità e non vuole, come la mafia non voleva, la verità sul perchè Rostagno è stato ucciso. Per ragioni che possono essere solo poco nobili! E ciò è perfettamente coerente con la la strategia mafiosa attuata da sempre a Trapani, e non solo lì: ottenere per anni il totale disconoscimento dell’ esistenza di una mafia forte e potente nella propria provincia. A Cosa nostra questa cosa è riuscita benissimo, anche perchè spesso chi doveva stare dalla parte dello Stato ha preferito stare dall’altra parte. La Corte di Assise di Trapani ha inflitto due ergastoli a Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Ha trasmesso atti alla Dda contro dieci testi per presunte false testimonianze. Che sembrano, soprattutto alcune, finalizzate - per complicità, ignavia, disattenzioni- a portare il processo lontano dalle responsabilità di Cosa nostra.


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“Un uomo libero che ha vissuto la sua vita”

Le indagini spiegheranno meglio cosa è accaduto, ma l’alveo è quello delle complicità dirette o indirette con Cosa nostra. Chi pensava poi che la perizia balistica fosse debole si è sbagliato tanto che la Corte ha deciso di mandare anche questa alla Dda di Palermo, per riaprire il caso di un delitto trapanese dimenticato, quello di Gaetano Pizzardi, un picciotto che andava a rubare sfuggendo alle regole dell’onorata società. Per i giudici c’è anche lì la firma di Vito Mazzara, il killer che andava ad ammazzare assieme a Matteo Messina Denaro. Una Corte attenta, quella guidata dal giudice Pellino, che ha condotto una impeccabile istruttoria dibattimentale. Paradossalmente vien da dire che il trascorrere degli anni dal delitto senza un processo è stata cosa utile: ieri non esisteva quella perizia del Dna che oggi ha incastrato Mazzara. L'ispettore Ferlito Una sentenza che si è avuta dunque grazie ai giudici Pellino e Corso, ai giudici popolari, a quell’ispettore di polizia, Nanai Ferlito, che si accorse come in tanti anni mai era stata fatta una comparazione balistica, facendo trovare le sovrapposizioni tra il delitto di Mauro Rostagno e altri delitti per i quali Vito Mazzara ed anche Vincenzo Virga erano stati condannati, per la Squadra Mobile di ieri e di oggi, affidata a Linares e Leuci. Il lavoro dei pm Paci e Del Bene non si è interrotto. E continuerà con la fantastica sinergia che si è creata con le parti civili durante il processo. Avvocati mai silenziosi, Miceli, Lanfranca, Greco, Crescimanno, Esposito. Si continua sull’inchiesta-stralcio: mafia, e non solo mafia di coppole e lupare. Rostagno ucciso per volere dei mafiosi che lo vedevano come una camurria, e per volere dei mafiosi dai colletti bianchi. Questa sentenza scriverà nelle motivazioni una pagina di storia sulla mafia trapanese e sui suoi intrecci, che purtroppo non sono ancora dissolti ma resistono. Una mafia trapanese che non è mai stata una mafia di periferia.

Qui trovano fondamento le basi dell’interminabile trattativa con lo Stato, a cominciare dalla morte nel 1950 del bandito Giuliano; qui nel 1994 Matteo Messina Denaro diede ordine di votare Forza Italia, interrompendo il progetto di Bagarella che voleva fondare un partito della mafia, Sicilia Libera; qui la mafia si è arricchita, è diventata impresa, ha riempito casseforti, si è messa in mano tantissimi fondi pubblici, ha garantito se stessa e politici che già corruttibili lo erano di loro e che hanno scelto di diventare collusi. Rostagno non è stato ucciso perchè voleva fare del giornalismo investigativo, ma perchè voleva raccontare, voleva raccontarci ogni giorno tutto quello che apprendeva, e le sue parole raccontano ancora oggi, i suoi editoriali potrebbero essere rimandati in onda adesso, restano attuali. Oggi la mafia è sommersa, non spara più, ma uccide ugualmente: soffocando imprese e mercato libero, discreditando e mascariando. Non è segno di una mafia debole: non ha più bisogno di uccidere per togliere di mezzo gli avversari. La morte di Rostagno è e resterà un forte segnale nel mondo dell’informazione, dove tanti hanno il bavaglio senza nemmeno bisogno della cosidetta legge bavaglio. Ci sono giornalisti che il bavaglio se lo sono fatti mettere, altri che se lo sono messi da soli. Fanno finta di parlare ma non dicono nulla. Nulla di davvero pericoloso per le mafie. E’ ora di cambiare le cose in questa Sicilia, dove la rivoluzione annunciata non ha fatto davvero nulla di concreto per l’antimafia. Antimafia che invece, come quella coraggiosa di Libera, ogni giorno viene messa in discussione. Non sfugge e non può sfuggire che da quando Libera ha scelto di essere presente come parte civile in processi importanti, come quello per il delitto Rostagno, quello contro il senatore D’Alì o in quello in corso sulla cosidetta trattativa, sono spuntati degli incredibili detrattori. Finora la mafia era riuscita a non perdere, ma da adesso a perdere ha cominciato.

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Rostagno/ 3

“Un'inchiesta lunga una vita” Carla Rostagno, la sorella di Mauro, ha lottato per ventisei anni per affermare la verità di Norma Ferrara www.liberainformazione.org

E’ il 1988 e a Trapani c’è stato un incidente, un agguato. Una telefonata informa Carla Rostagno. Un aereo da Torino la porterà a Palermo, poi la corsa in macchina verso le saline, il funerale alcuni giorni dopo, i trapanesi che scendono in strada e una vita che se ne va in fretta e non sarà mai più quella di prima. E quella frase “Mauro non c’è più” che risuona nella testa, senza sosta. Cosi è cambiata la vita di Carla, sorella di Mauro Rostagno, dopo quel 26 settembre del 1988 quando un commando mafioso uccise suo fratello, sociologo-giornalista torinese, davanti alla comunità di recupero per tossicodipendenti da lui fondata a Trapani. E’ stata lunga la strada che i familiari di Mauro hanno dovuto percorrere ma lo scorso 15 maggio una sentenza giusta è arrivata. Dopo 26 anni la Corte d’Assise di Trapani ha condannato i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara all’ergastolo per l'assassinio di Mauro Rostagno. Intellettuale raffinato, Mauro è stato un uomo libero che ha vissuto tante vite.


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Dal movimento studentesco di Trento, a Lotta Continua, alla fondazione del “Macondo”, e infine, dopo il viaggio in India, “Saman” (la canzone che mette ordine al caos, ndr) una comunità di recupero “per persone con difficoltà a vivere” fondata a Trapani con Francesco Cardella e la compagna di una vita, Chicca Roveri. Due vite diverse e lontane quella di Carla e Mauro, ma un legame forte le univa. Tante telefonate in cui Mauro narrava di Trapani, dei trapanesi, della Comunità, dell’attività di Radio Tele Cine, un' emittente locale. Poi le ultime conversazioni ad agosto, la voce meno allegra, quasi cupa, poche parole che presto diventeranno le ultime fra Carla e Mauro. Carla è una donna tenace e di straordinaria dolcezza, ha lo stesso sguardo attento di Mauro, ed ha trascorso quasi un quarto di secolo a cercare la verità sulla morte del fratello. «Aspettavo questo momento da tantissimi anni e quando il presidente della Corte, Pellino,è entrato in aula l’ho soltanto visto parlare, non sentivo nulla, non so cosa mi sia successo – racconta Carla Rostagno. Ho capito che c’erano state le condanne perché mia figlia Mara, con le dita delle mani, mi ha indicato il numero del codice penale corrispondente alla condanna». E’ tutto custodito in questo gesto di amore e sostegno fra madre e figlia, la storia di Carla e della sua ricerca di verità e giustizia. Una emozione da non far più capire nulla, da annullare i suoni e le parole che Carla attendeva da una vita per una sentenza conquistata con fatica dai familiari di Mauro (dalla compagna di Mauro, Chicca Roveri, alla figlia Maddalena, a Monica, la figlia maggiore di Mauro). Un'inchiesta lunga una vita. Subito dopo il delitto, a fine anni ’80, Carla Rostagno lasciò il suo lavoro e si dedicò a questa inchiesta a tempo pieno nel tentativo di ricostruire gli ultimi mesi di vita del fratello, cercando prove, indizi, testimonianze, che potessero essere utili alle indagini. Non c’è cronista del caso Rosta-

gno che non l’abbia incontrata: rigorosa, carte alla mano, pronta a fare domande anziché dare risposte. Ha passato la vita a chiedere perché suo fratello è morto e la sentenza emessa dal tribunale di Trapani ha il merito, fra gli altri, di mettere un primo punto fermo su esecutori e mandanti mafiosi del delitto. E sul movente: l’attività giornalistica di Mauro Rostagno che da Rtc denunciava malaffare, corruzione e mafia, strani traffici che attraversavano la provincia. Carla l’ha sempre saputo che c’era questo dietro il delitto, anche se ha voluto cercare in tutte le direzioni ma, come fosse il cubo di Rubik, gli indizi, le prove, i testimoni non si trovavano mai allineati. Così lei, con pazienza, ricominciava da capo si opponeva alle richieste d' archiviazione e andava avanti. Poi quando la stanchezza stava per farle gettare la spugna, la Mobile di Trapani nel 2008 su impulso dell’ispettore Nanai Ferlito e del capo della polizia Giuseppe Linares, scelse di effettuare grazie ad una nuova tecnologia una perizia balistica su un frammento dell’arma che quella sera sparò contro Rostagno, uccidendolo. La prova del Dna che ha incastrato il killer Vito Mazzara, insieme a molte altre, ha portato la mafia trapanese sul banco degli imputati. “Con rigore e precisione” «Il processo - dice Carla - è stato condotto con rigore e precisione dal presidente Pellino ed è stato per me un momento davvero importante, per varie ragioni. Dopo tanti anni mi ha permesso di capire, di mettere in ordine vari pezzi di verità che avevo incontrato. Da tutto il processo la figura di Mauro viene fuori in tutta la sua limpidezza e bellezza, un intellettuale che a Trapani fece delle battaglie in continuità con quella che era stata la sua vita. Un processo che ha restituito dignità a Mauro e alle sue scelte». Scelte che gli sono costate la vita, a Trapani in quella Sicilia degli anni ’80 e che in molti hanno provato a mettere a tacere. Una parte del lavoro fatto da Carla, nei primi mesi dopo il delitto, custodito in quaderno fitto di appunti, ha permesso di conoscere alcuni passaggi importanti sugli ultimi mesi di vita di Mauro, sulle informazioni che aveva raccolto, sui rapporti fra politica, mafia e massoneria, il circolo Scontrino, la loggia massonica Iside 2. Carla non smette di pensarci, ancor oggi dopo la sentenza: “C’è una strana voglia d’oriente” diceva Mauro in una tra-

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smissione - ricorda - Bisognerebbe ritrovarla, perché non è nell’archivio di Rtc». Nell’estate del 2005 insieme al regista Alberto Castiglione, infatti, Carla andò a recuperare il materiale video di Rostagno, e con la figlia, Francesca, con cura seguì la digitalizzazione dei servizi giornalistici. Gli speciali, le interviste, gli editoriali e i servizi di Rostagno sono entrati a far parte del processo e considerati parte delle prove a sostegno del movente mafioso per una Cosa nostra infastidita e preoccupata dall’intensa attività del giornalista. «Mi porto dentro - commenta Carla – questo senso di colpa di non aver cercato prima quel materiale, di aver creduto per anni di non averne diritto. Forse avremmo potuto avere ancora più prove, ancora più informazioni. Non me lo perdono». Eppure, come ricorda nella sua arringa l’avvocato di parte civile, Fabio Lanfranca, non spettava ai familiari cercare le prove, gli indizi, il movente di questo delitto. Altri sono i responsabili di questi vuoti nell’inchiesta, indagini traballanti, molti strani silenzi, emersi anche durante il processo, tanto che nel dispositivo della sentenza la Corte scrive di aver inviato alla Dda di Palermo gli atti relativi a dieci testimoni. L’ipotesi di reato per loro è di aver reso falsa testimonianza. Un'inchiesta insabbiata. Su questo aspetto della sentenza che apre nuovi scenari su rallentamenti e insabbiamenti dell’inchiesta Carla dice: «Quest'atto della Corte la dice lunga sulla serietà con cui il presidente Pellino e i giurati hanno condotto questo processo e sono arrivati a questa sentenza. Non mi sorprende l’invio degli atti sulla deposizione, ad esempio, del carabiniere Beniamino Cannas. Prima di commentare però dobbiamo aspettare le motivazioni della sentenza e leggere il lavoro della Corte che sarà stato come nel processo, rigoroso e attento». Un’aula stracolma di cittadini ha atteso la sentenza giunta a tarda notte. Una città si è stretta accanto a Carla, Maddalena, Chicca Roveri. «E’ stato importante che i trapanesi ci fossero – dice Sarla - So che non tutti possono sentirsi coinvolti dalla storia di una persona che molti di loro non hanno conosciuto ma ho sempre sentito la vicinanza dei trapanesi e soprattutto il loro rispetto per la figura di Mauro. Io non sono pessimista per il futuro di questa città, Mauro ha seminato e per germogliare c’è solo voluto un po’ di tempo. Quell’aula piena restituisce a Mauro i frutti del suo impegno».


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Un pugno stretto forte Cambiare nome, mutare pelle, seguire il divenire delle cose ma senza farne mai spegnere la fiamma di Sara Spartà www.diecieventicinque.it “Questa è la prima cosa che scrivo tutta con le mie mani. Ho picchiato sui tasti fino a rompere la macchina, l’ho rotta e adesso sono soddisfatto”. (Mauro Rostagno) Picchiare forte il proprio corpo fino a farne uscire l’anima. Ribaltare e ridisegnare i sentieri della propria vita, sempre e in maniera incessante. Pianificare la rotta per poi perdersi nella sapiente esperienza del cammino. Cambiare nome, mutare pelle, spostare l’angolo visuale per cogliere l’essenza delle cose nel loro divenire, assecondarne il flusso senza far spegnere mai la fiamma. Intrappolare l’esistenza di Mauro Rostagno e racchiuderla dentro le maglie poco elastiche delle parole non rende giustizia a quella che è una storia di autenticità estrema, di passione violenta, di coinvolgente umanità. Infedele alle proprie idee ma coerente con se stesso fino alla morte, Mauro è una pagina strappata assieme a molte altre di questo grande libro che si chiama Italia. La sua storia è anche quella del nostro Paese perché lo abbraccia tutto quanto, si intreccia a destini e a vicende profonde che ne scuotono e ne sconvolgono gli assetti. Dai fumi della Fiat torinese degli anni’40 parte la sua ribellione che prende forma negli occhi scuri della figlia Monica, si sporca nell’olio grasso delle rotaie di Londra e profuma delle mele di Covent Garden. Intelligente, arguto, perspicace.

L’approdo all’Università di Sociologia di Trento suggella in maniera incontestabile la sua forte personalità: avanguardia, portavoce e interprete del malessere e della rabbia accumulata sotto la pelle di intere generazioni. Esplode Fuori dai denti, siamo nel’68 e la lotta contro la scuola è già lotta contro l’intero sistema, quindi la lotta di una parte contro il tutto che si esplica attraverso “la critica delle armi e non solo con l’arma tagliente della critica”. Il discorso che Mauro fa il giorno della laurea di fronte a docenti come Bobbio, Alberoni, Andreatta, ne è la testimonianza :“Di questa tesi non potete discutere, dello sciopero possono parlare solo gli operai, quelli che lo fanno, non voi che siete ciechi e che state seduti a tavolino. Per voi la cultura è una gigantesca mangiata e cagata, un gigantesco processo defecatorio di cui non resta nulla. Siete diventati dei funzionari. Cosa volete capire del mondo!”. È il periodo delle grandi assemblee, dei dibattiti accesi, appassionati, spronati dalla grande e seducente illusione di dover comunque “fare la storia” per cambiare veramente la vita. Portare l’allegria nella rivoluzione che si gioca ad alti livelli è sinonimo del corroborare lo slancio irrazionale delle azioni ad una cultura e formazione culturale indiscutibili. L'esperienza in Lotta Continua L’esperienza in Lotta Continua ha il colore rosso dei volantini distribuiti davanti le fabbriche di Milano e l’odore dell’inchiostro e dei pensieri consumati dalla tiratura smisurata dei giornali che invocano il cambiamento, un’etica diversa nel lavoro che non può ridurre l’uomo in schiavitù. La forza, l’animosità, la realtà cruda di queste rivendicazioni chieste a “pugni stretti”, senza mezzi termini, senza abbassare il capo, con dignità. Un percorso che ha il sapore del pesce fresco della Vucciria di Palermo, dell’umidità appiccicosa delle aule universitarie, del profumo dei capelli di Chicca e del sorriso di Maddalena ancora bimba. Mauro conosce anche la solitudine del naufrago, la paura di non comprendere l’ago della bussola che punta sempre in un’unica direzione: se stesso. Le braccia della sorella Carla saranno gli argini del fiume che passerà per Macondo, dove “l’arte dell’inutile” sboccerà nella radicale ridiscussione di sé, del proprio ruolo e della propria immagine. Si reinventa nell’India di Osho tra le regole degli arancioni e la ricerca di un equilibrio che lo

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porterà ad avere un nuovo nome, Sanatano, che racchiude in sé l’Eternità, e a sussurrare una nuova “canzone”: Saman. Il valore dell’intera vita di un uomo è racchiuso nelle sue scelte. Quando Mauro decide di andare a vivere in Sicilia lo fa con la consapevolezza dell’impegno e della responsabilità di diventare essenza stessa di questa terra. Nel recupero dei disagiati e nella lotta più che mai cruenta, beffarda, irridente allo strapotere mafioso egli riscopre il vitale impulso della ribellione. La sua attività di cronista per RTC è stata incessante e vera, sentita e partecipata come tutte le battaglie che ancora oggi nella nostra Italia devono essere combattute. Nella scuola e in tutti i centri del sapere e della ricerca, nel lavoro e nel diritto alla libera crescita spirituale e individuale di ogni uomo e nel diritto ad informare e ad essere informati che non possono essere giocattolo dei gruppi di potere, mafioso e no, che stuprano la nostra Costituzione. La storia di Mauro merita di essere raccontata perché lui non si è risparmiato, non si è piegato e non si è arreso mai in nessuna circostanza. Viene ucciso il 26 settembre 1988 sotto una scarica violenta di colpi di arma da fuoco. La terra delle zagare e dei limoni che lui ama tanto odora ancora del suo sangue che, acre e penetrante, viene su dalla polvere di un Sud in cui il solo diritto di respirare lo devi spesso barattare con la compromissione dell’anima e la castrazione di ogni sogno. Il più alto gesto di verità e di amore Mauro deve essere ricordato affinché la sua opera, così come tutto il dolore e la rabbia per la sua morte, non rimangano pietrificate tra le rocce aspre e poco generose di Erice, ma da lì salpino altrove per trovare giustizia. Lui ha scelto il modo in cui stare dentro a certi destini, ha distrutto equilibri che dovevano rimanere nascosti, inaccessibili. Ha battuto troppo forte i tasti della macchina da scrivere fino a romperla davvero e chi, come me, è nato in terre di mafia e di sangue, di lotte e di povertà, sa che questo è il più alto gesto e regalo di verità e di amore.


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Memoria

Mauro e Peppino Due storie parallele Ventisei anni per Mauro, ventidue per Peppino: alla fine la sentenza è arrivata. Un tempo inumano per chi aspetta giustizia di Salvo Vitale

costruzione della terza pista, e quelle degli edili. Ma insieme il rifiuto dei partiti politici allora sulla scena, la scelta extraparlamentare a sinistra del PCI, il sogno del comunismo come momento finale della liberazione e della realizzazione dell’uomo, la radicalità delle lotte, la denuncia delle cricche di potere allora dominanti, l’organizzazione delle masse, la scelta non violenta, ma con frequenti tentazioni verso la risposta armata alle continue prevaricazioni del potere. A Cinisi e a Palermo arrivava prima gli echi , poi i fermenti del grande momento di lotta che si diffondeva a macchia d’olio. In Sicilia

Due depistaggi delle indagini attraverso tortuosi sentieri e fervide immaginazioni, per nascondere due delitti di mafia. Per Peppino le assurde piste dell’attentato terroristico, magari con l’aiuto dei suoi compagni, tra i quali avrebbe potuto nascondersi anche un complice o l’assassino, oppure un suicidio eclatante, per Mauro “l’omicidio in famiglia”, maturato all’interno della comunità Saman, l’immaginata tresca tra Chicca Roveri e Francesco Cardella, che avrebbero deciso l’eliminazione di Mauro, qualche tossico scoperto, che si sarebbe vendicato, oppure l’accusa ai suoi compagni di Lotta Continua, che l’avrebbero eliminato perché era al corrente di chissà quali notizie sul caso dell’omicidio del commissario Calabresi. Il Sessantotto Peppino e Mauro si formano all’interno di quel coacervo di idee che cominciano a circolare, a partire dal ’66 negli ambienti politicamente più avanzati della cultura italiana, sino ad arrivare all’esplosione del ’68. Da una parte le lotte studentesche all’università di Trento, quelle degli operai della Fiat, dall’altra le lotte dei contadini di Punta Raisi contro il progetto di

Nel 1972 Mauro si trasferisce in Sicilia come responsabile regionale di Lotta Continua , il movimento che egli stesso aveva contribuito a creare, alla fine del ’69. Mauro è affascinato dall’isola: ”Mi piace la politica, i siciliani, le siciliane, il mare, lo scirocco… Mi piace l’odore di zagara e quello del gelsomino, i tramonti, le albe…”. A Palermo riesce ad avere un contratto con la facoltà di architettura, dove insegna sociologia, fa conoscere e studiare Reich, Sartre, Deleuze, Foucault, ma il preside lo solleva dall’incarico con una strana e assurda accusa: le sue lezioni sono troppo frequentate e arrecano disturbo all’ordine pubblico. E’ il periodo in cui matura il colpo di stato in Cile, si scopre il tentato golpe di Junio Valerio Borghese, al quale non era estranea l’adesione della mafia e, in particolare, del boss Badalamenti, si dibatte per il referendum sul divorzio, si pone all’attenzione il problema dei senzatetto e dei disoccupati, sino ad arrivare, il 16 settembre del ’75 all’occupazione della cattedrale di Palermo. L'incontro Ed è anche il periodo in cui Peppino aderisce a Lotta Continua, un movimento con forti connotati anarchici, che aveva resistito allo scioglimento dei vari gruppi

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marxisti-leninisti e di Potere Operaio, che non richiedeva ortodossie ideologiche, che era vicino ai problemi della gente e li affrontava , attraverso il suo giornale, con un linguaggio semplice e non ideologizzato. La matrice libertaria, ma anche le capacità dialettiche e teoriche di Rostagno, gli “attivi politici”, la scelta di una serie di campi d’azione, dai “proletari in divisa”, con conseguente volantinaggio davanti alle caserme, alle lotte cittadine per la casa, alla vigilanza antifascista, ai mercatini alternativi, al tema del lavoro nero degli edili, trovarono Peppino impegnato in primo piano, con l’entusiasmo che lo caratterizzava al momento dell’azione. Ma lasciamo il commento di questo periodo ai suoi pochi appunti autobiografici: «Mi trascinai in seguito, per qualche mese, in preda all’alcool, sino alla primavera del ’72 (assassinio di Feltrinelli e campagna per le elezioni politiche anticipate). Aderii, con l’entusiasmo che mi ha sempre caratterizzato, alla proposta politica del gruppo del “Manifesto”: sentivo il bisogno di garanzie istituzionali: mi beccai soltanto la cocente delusione della sconfitta elettorale. Furono mesi di confusione e disimpegno: mi trovavo di fatto fuori dalla politica. Autunno ’72. Inizia la sua attività il Circolo Ottobre a Palermo, vi aderisco e do il mio contributo. Mi avvicino a “Lotta Continua” e al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni spontaneistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematica che mi aveva particolarmente affascinato nelle tesi del “Manifesto”. Conosco Mauro Rostagno: è un episodio centrale nella mia vita degli ultimi anni. Aderisco a “Lotta Continua” nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di “scuola-quadri” dell’organizzazione, stringo sempre più i rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi dà garanzia e sicurezza: comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista.


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“Peppino prende le distanze rispetto alle dilaganti tematiche cosiddette creative...” Si riparte con l’iniziativa politica a Cinisi, si apre una sede e si dà luogo a quella meravigliosa, anche se molto parziale, esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo, la mia disperazione è tiepida. Parto militare: è quel periodo, peraltro molto breve, il termometro del mio stato emozionale: vivo 110 giorni in continuo stato di angoscia ed in preda alla più incredibile mania di persecuzione». La crisi Il contatto tra Peppino e Mauro dura sino al 1976, anno in cui Mauro è candidato alle elezioni politiche nella lista di Democrazia Proletaria, anche nei collegi siciliani con lo lo slogan “il godere deve essere operaio”: non è eletto per pochi voti. Nel congresso di Rimini, nel novembre del ’76 si trova davanti a una dura contestazione delle femministe, in particolare quelle siciliane e abbandona il gruppo che, qualche mese dopo si scioglie. Peppino vive drammaticamente questa crisi che, dalle tematiche della rivista “Re Nudo”, in cui Rostagno scrive, finisce con l’estendersi alle varie anime del movimento del ’77, dove scompaiono le ideologie e dilaga la tendenza a rinchiudersi nel personale, a vivere i propri spazi di vita lontani da momenti di aggregazione rivoluzionaria, ma, si dice, ad organizzare la rivoluzione dentro se stessi. Macondo Rostagno, nel 29 ottobre del ’77 apre il “Macondo””, un locale alternativo in un vecchio stabile di 1500 mq.: malgrado si operi con lo spaccio di abiti usati, il riciclo, la lotta contro il consumismo, i cibi biologici, la presentazione di libri l’esposizione di mostre, feste, carnevali, il locale viene chiuso, nel febbraio del 78 con l’infondata accusa di spaccio di droghe pesanti: il Macondo era stato, per Rostagno, come dirà egli stesso in un’intervista, il tentativo di “fare muro e argine contro lo sviluppo dell’eroina, che era bestiale”, ma anche “un’alternativa alla scelta della P38, cioè della lotta armata”.

Le tematiche “creative” Per contro Peppino prende le distanze rispetto alle dilaganti tematiche “creative” non riesce a condividere l’iniziativa del Macondo, si sente sempre più lontano da chi ha abbandonato il movente fondamentale della lotta di classe, per scegliere la deriva personalistica. Vive interiormente il contrasto tra il militante comunista e il giovane del suo tempo che avverte bisogni legati non solo alla politica, ma alla propria sessualità o al bisogno di divertirsi. Organizza a Cinisi un carnevale alternativo, con un concetto della festa come momento di coinvolgimento collettivo, riversa le sue energie a Radio Aut: la radio concepita come strumento di controinformazione e di formazione di coscienze critiche, come strumento di coordinamento delle situazioni di “movimento” presenti nella zona e di spinta dei momenti di antagonismo sociale. La lettera Di questo travaglio interiore è espressione la lettera, poi usata in modo mistificatorio da chi gestiva le indagini sulla morte di Peppino : va rilevato infatti che, se “è cominciata a febbraio”, com’è scritto, e se “sono nove mesi…” la lettera è stata scritta nel novembre del ’77, mentre Peppino è ucciso il 9 maggio 1978, cinque mesi dopo, ma chi gestiva le indagini sulla sua morte, non si è fatto alcuno scrupolo di usare questa lettera come elemento di prova della volontà di suicidio: «Sono nove mesi ormai, quanti ne occorrono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità di “abbandonare” la politica. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, vigilia della prima manifestazione studentesca cittadina.

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Ricordo molto bene che trascrissi, quel giorno, su una parete del circolo una strofa tratta da una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagne e compagni, di operai e studenti e di “tante facce sorridenti”. Volevo esprimere, con quel gesto, il desiderio di tornare a sorridere e a vivere intensamente come mi succedeva nel ’68 e fino a tutto il ’76. Ma si trattava soltanto di una pietosa aspirazione e ne avevo piena coscienza. Due mesi e mezzo di menate sul “personale” e di allucinanti enunciazioni sul “riprendiamoci la vita” mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli “spazi di morte”, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede, pregiudicando irrimediabilmente ogni mia possibilità di recupero. “La gente peggiore l'ho conosciuta...” La gente peggiore l’ho conosciuta proprio tra i “personalisti” (cultori del personale) e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi): un concentrato di individualismo da porcile e di “raffinata” ipocrisia filistea: a loro preferisco criminali incalliti, ladri stupratori, assassini e la “canaglia” in genere. Debbo purtroppo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato dalla fiducia e dall’affetto di alcuni compagni (vecchi e nuovi): non ce l’ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sinceramente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno, di starmene un po’ solo, riposarmi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è ormai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario».


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Saman Nel gennaio del ’78 Rostagno fa un breve viaggio di una ventina di giorni in Sicilia, ma non abbiamo notizie di eventuali contatti con Peppino. Non si hanno nemmeno notizie di commenti o di prese di posizioni di Rostagno riguardo all’omicidio di Peppino. Mauro è assorto dalle sue scelte “arancione”, conosce Francesco Cardella, si traferisce in India, diventa Sanatano, torna in Sicilia, nell’82, per dare vita, assieme a Cardella alla comunità Saman, a Lenzi, vicino Valderice che, dopo la scomunica del leader arancione Bhagwan diventa, nell’84 un centro di recupero per tossicodipendenti e alcolisti , con abiti non più arancione, ma bianchi e con terapie “psicosomatiche” con tecniche legate alle esperienze orientali. La comunità riesce a raccogliere 34 persone, ma il giro degli ospiti è di 709, in un territorio in cui la mafia ha diffuso l’eroina a tappeto ed ha ucciso il giudice Ciaccio Montalto, oltre che realizzato il fallito attentato al giudice Carlo Palermo, che ha causato la morte della famiglia Asta, due bambini e la loro madre. RTC Mauro, con un percorso che ricorda, per altri versi, quello di Peppino Impastato, rispolvera il suo vecchio mestiere di giornalista, e si mette a lavorare presso una televisione di Trapani , RTC: diventa capo redattore, inizia una serie di trasmissioni denunciando il boss di Mazara del Vallo Mariano Agate come principale responsabile di traffici di droga e di armi nella zona, si occupa di delitti eccellenti, come quello del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, di massoneria, che a Trapani è ben radicata, con la loggia Scontrino, con la loggia Iside due ed altre logge collegate, di legami tra mafia e politica, in altri termini entra dentro lo stesso perverso circuito di cui si era occupato Peppino, la cui conclusione è la morte, decisa da coloro che vedono in pericolo i propri interessi o la loro signoria territoriale. I boss comin-

ciano ad allertarsi, a preoccuparsi, primo fra tutti Messina Denaro padre di Matteo, Vincenzo Virga e il killer Vito Mazzara, sino al momento della decisione. Confronto Come Peppino Mauro non ha alcuna paura: “Agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie…quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile. Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo”. Peppino aveva bene intravisto uno dei mali della realtà siciliana, nel reticolo di connessioni, rapporti sociali sotterranei, connivenze, dove come diceva in una delle sue trasmissioni, “Onda Pazza,” “ci sono gli amici, gli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici degli amici…” Si tratta di una catena dove ognuno è funzionale all’altro, dove “na manu lava l’autra e tutti dui lavanu a facci”, il favore, lo scambio tiene collegato ogni anello della catena per renderlo utile nel momento opportuno. In un articolo pubblicato dal “Quotidiano dei lavoratori” nell’aprile del ’78 Peppino scriveva: “Il gruppo dirigente DC, che nello scacchiere politico locale, come su quello nazionale si pone come un’associazione di tipo mafioso, non solo e non tanto per la convergenza di mafie e di clientele parassitarie che è riuscito a suscitare e ad aggregare davanti a sé, quanto per il modo stesso, banditesco e truffaldino di concepire ed esercitare il potere nell’amministrazione della cosa pubblica” Come Peppino, Mauro legge perfettamente, filtrandolo attraverso le sue cono-

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scenze di sociologo, il male dell’appartenenza, non tanto a un nucleo familiare, come è nella ndrangheta, ma a una famiglia ben più grande che riesce a rendere sistema globale il legame di vicinanza che lega singoli soggetti facenti riferimento a un gruppo coeso, sia esso politico, che religioso, che di categoria: “Qui non conta più se uno è bravo o non è bravo, se è pulito o se ha le mani sporche, se è intelligente o è cretino, se sa fare il suo mestiere o è un ignorante della più bell’acqua, ma quello che conta è l’appartenenza: si iddu m’apparteni o non m’apparteni. Se fai parte della casta, della mia tribù, della mia corrente e allora la cosa vale, se invece non ne fai parte non sei nessuno. Fuori fa freddo, però io apro la finestra: pftu, sputo e richiudo, e fuori deve stare, perchè quello che conta è l’appartenenza. Il degrado dell’appartenenza è il clientelismo politico”. Danilo Come Danilo Dolci, Mauro Rostagno ha scelto di dedicare, di dare se stesso, la sua vita, le sue idee alla Sicilia, dove contava anche “di viverci per giocare con i suoi nipotini”. Entrambi sociologi, non hanno resistito al fascino dell’Oriente, Danilo a quello della non violenza gandhiana, Mauro a quello della serenità interiore attraverso lo scambio e la conquista collettiva della conoscenza, ma non hanno resistito neanche al fascino della Sicilia, all’approdo di Ulisse verso l’imprendibile bellezza, con tutti i suoi mille volti enigmatici, le insidie, le radici della storia, la luce, le ombre, il senso di compiutezza che arriva alla fine, quando si giunge alla conclusione che ciò che è stato così doveva essere, ma doveva essere così perché c’eri anche tu a farlo essere così. Raggi di luce che attraversano questa terra per diradare la notte dell’ignoranza, della povertà, dell’abbandono, della complicità, della violenza. Una volta Mauro disse: “Siciliani si nasce: io ho scelto di esserlo”.


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ITALIA

Ai tempi di Berlinguer “La politica? E io che c'entro?”. “Bisogna urlare, per farsi sentire”. “Io da grande mi compro il Suv”. “Io mi faccio i fatti miei”. “Tanto non cambia niente”. “Cos'è la mafia?”. “Diritti? Quali diritti?”. L'Italia 2014 non vuole avere illusioni e alla politica – in particolare – non ci crede più da un pezzo. In quelle piazze di Roma, giusto trent'anni fa, non salutammo solo Berlinguer ma la nostra Repubblica

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Memoria

Quella sera che l'Italia perse Berlinguer Trent'anni fa, a Padova, una “normale” campagna elettorale si trasformò improvvisamente in dramma di Pierpaolo Farina

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Padova, 7 giugno 1984. Faceva freddo quella sera, per essere giugno. Piazza della Frutta era spazzata via da forti folate di vento, mentre le nuvole facevano presagire pioggia. Ciononostante, migliaia di persone erano lì da ore sotto a un palco dove troneggiava un’immensa falce e martello, in attesa che un signore in giacca e cravatta prendesse la parola. Sarebbe stata l’ultima volta, ma nessuno poteva immaginarlo. Enrico Berlinguer iniziò a parlare alle 21:30, sarebbe sceso da quel palco quasi un’ora dopo. Era stanco, provato in volto, veniva da un tour massacrante per le elezioni Europee e in ogni piazza si batteva contro la deriva autoritaria e anti-democratica del governo di Bettino Craxi, il secondo rottamatore della storia d’Italia (il primo era stato Mussolini). Berlinguer quella sera parlò per 40 minuti, attaccando i partiti che avevano malgovernato e stavano malgovernando il Belpaese, evocando l’Italia “onesta, pulita e democratica, non quella della P2” che il suo partito voleva portare in Europa. All’improvviso la prima pausa, il primo sintomo del male che se lo sarebbe portato via. Le immagini di quegli ultimi minuti sono laceranti e danno, da sole, la cifra di che uomo realmente fosse Enrico Berlinguer. «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando». Si spense così, davanti alla sua gente, con un messaggio di speranza e fiducia.

Lui, così schivo e riservato, per un beffardo scherzo del destino finì con l’offrire all’Italia e al mondo intero la morte più terribilmente pubblica che ci potesse essere. Qualcuno ha scritto che è morto sul campo di battaglia, altri sul posto di lavoro: quel che è certo è che Enrico Berlinguer si spese fino all’ultimo minuto della sua vita per un ideale. Era, per usare le parole di Max Weber, “il politico con la vocazione, cioè il vero Politico, quello che serve una causa”. Il Partito Comunista Italiano, sotto di lui, toccò percentuali di consenso mai raggiunte da nessun altro partito comunista d’Occidente: con Berlinguer, un italiano su tre votava comunista ed era convinto che la politica fosse una cosa bella. Roberto Benigni scrisse una volta: “Non mi piace la politica, mi piace Berlinguer”, dando voce a un sentimento collettivo che culminò in quella manifestazione per la pace al Pincio nel giugno ’83 quando lo prese in braccio, “per ricambiare tutte quelle volte che mi sono sentito sollevato da lui”. Cittadino del mondo Berlinguer era sardo ma si sentiva italiano (come scrisse nell’immediato dopoguerra lui stesso a un compagno), era comunista ma difese con le unghie e con i denti la democrazia (e per questo i sovietici tentarono di farlo fuori nel 1973 a Sofia), credeva nell’Europa dei popoli e dei lavoratori ma si sentiva cittadino del mondo. Era nato a Sassari il 25 maggio 1922: oggi avrebbe avuto 92 anni. È morto invece a 62, nel pieno delle forze, stroncato da un ictus, dopo 90 ore di agonia. Protagonista di quel dramma, che sconvolse l’Italia intera, fu, suo malgrado, un signore d’altri tempi che avrebbe conquistato il cuore degli Italiani: era stato partigiano, di fede socialista, ed era anche in quel momento il Presidente della Repubblica. Il caso volle che Sandro Pertini si trovasse a Padova proprio lo stesso giorno di Berlinguer e non appena venne ricoverato, si fece subito dare una camera vicino

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alla sua in ospedale, vegliando sul leader comunista fino alla morte. Alle 12:45 dell’11 giugno 1984, in un italiano stentato che tradiva l’emozione per quella perdita che sconvolse le vite di milioni di italiani veniva dato l’annuncio che “L’onorevole Berlinguer è mancato di vivere.” “Lo porto via come un figlio” Quando lo riportò a Roma con l’aereo presidenziale, Pertini dichiarò alla stampa: «Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta». E per tutti fu come se fosse mancato un caro amico, un fratello, un padre, un pezzo di se stessi: da Padova all’aeroporto di Venezia, lungo tutto il tragitto del feretro, oltre 40 km, cittadini di ogni età e orientamento politico affollarono i bordi della strada per recargli l’ultimo saluto, fermi, immobili, completamente bagnati dalla pioggia che cadeva incessante, come se anche la natura si ribellasse alla tragedia. In effetti, come scrisse Roberto Benigni, «morire a 62 anni è come nascere a 24 mesi: uno non ci crede». A Roma, in quel caldo 13 giugno, vennero da tutta Italia e da tutto il mondo a rendergli omaggio: capi di stato e di governo, leader di maggioranza e opposizione, ma soprattutto gente qualunque. Alla fine furono in due milioni a partecipare ai più grandi funerali della storia d’Italia.

Scheda

SAPERNE DI PIU' La biografia più bella - Chiara Valentini, Enrico Berlinguer, Feltrinelli, Milano, 2014, 415 pp, 14 euro Gli scritti, i discorsi, le interviste - Enrico Berlinguer, Casa per Casa, Strada per Strada – la passione, il coraggio, le idee, Melampo, Milano, 2013, 400 pp, 17,50 euro Visto da Sinistra - Guido Liguori, Berlinguer Rivoluzionario, Carocci, Roma, 2014, 140 pp, 13 euro - Adriano Guerra, Solitudine di Berlinguer, Ediesse, Roma, 2009, 290 pp, 16 euro


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“Con Berlinguer, un italiano su tre votava comunista ed era convinto che la politica fosse una cosa bella�

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“Nessuno può impormi di stare alla finestra quando gli operai sono in piazza. E dicano pure che sono operaista...” A rendere omaggio alla salma del leader del partito contro cui si era scritta la storia della Prima Repubblica ci andò anche il nemico per eccellenza, quel Giorgio Almirante capo dei fascisti del MSI, a cui Enrico non rivolgeva nemmeno la parola, perché, come disse in una tribuna politica del ’72, «Io coi fascisti non parlo». Eppure Almirante andò lo stesso, senza scorta, mettendosi in fila come gli altri. Rispose ad un giornalista: «Sono venuto a rendere omaggio ad una persona onesta che credeva nei suoi ideali». Quando si sparse la voce, gli andò incontro Giancarlo Pajetta, che aveva passato i migliori anni della sua vita nelle carceri fasciste: nessuno fiatò o protestò per la sua presenza, un rispettoso silenzio accompagnò quell’evento straordinario per la storia politica italiana. Per un attimo l’Italia parve riconciliarsi con se stessa. “Io ho fatto una scelta di vita” Enrico Berlinguer aveva deciso di diventare comunista nel giugno ’43. Sul valore di quella scelta anni dopo avrebbe detto: “Io ho fatto una scelta di vita: stare dalla parte dei più deboli, degli sfruttati, dei diseredati, degli emarginati. E lo farò fino alla fine della mia vita.” Per loro si fece arrestare nel gennaio ’44 per aver guidato i moti del pane di Sassari, assieme ad altri 30 compagni: passò 100 giorni in galera, ma alla famiglia scrisse: “Non drammatizzate la mia situazione. C’è chi sta peggio di me.” Conobbe Togliatti a Salerno e da lì fu un crescendo: entrò nella direzione del partito nel ’48, l’anno successivo divenne segretario della Fgci, nel ‘56 direttore della scuola di partito (le mitiche Frattocchie), dal ‘57 segretario regionale della Sardegna, finché nel ’60 assunse l’incarico di responsabile dell’organizzazione. Nel ’66 lo fecero anche segretario regionale del Lazio e nel ’68 lo costrinsero a candidarsi alla Camera: raccolse 151.134 preferenze, contro le 80.080 di Longo a Milano, le 42.441 di Ingrao in Umbria, le 98.354 di Pajetta a Torino e le 131.469 di Amendola a Napoli.

Fu la prova per tutto il partito che si trattava della persona giusta a succedere a Luigi Longo, colpito da un ictus, da cui si era ripreso a fatica: il 15 febbraio 1969 Berlinguer sarebbe stato eletto vicesegretario del partito, finché il 17 marzo 1972, al XIII congresso, arrivò l’elezione a segretario. Non voleva fare il leader, Berlinguer: assunse il suo incarico come una missione, un dovere da assolvere per quella scelta di vita, non facile, che aveva intrapreso. Avrebbe potuto fare l’avvocato di successo in Sardegna, la sua era una famiglia benestante: invece, tutto quello che ereditò dal padre andò al partito, perché pensava fosse giusto così. Per il suo carattere chiuso e riservato qualcuno lo chiamò il sardo-muto, eppure quando apriva bocca non aveva rivali. La sua oratoria e il suo parlare chiaro e semplice riuscivano a scaldare le masse: curioso per uno che, stando al suo medico personale, era tagliato per il lavoro di bibliotecario. Aveva un sorriso splendido, che diceva più di mille parole, che raccontava meglio di tante biografie. Fumava le Turmac e, quando furono tolte dal mercato, si adattò a fatica alle Rothmans. Si scriveva sempre tutto da solo, a mano, e solo i discorsi destinati alla pubblicazione venivano poi battuti a macchina dalla sua segretaria, Anna Azzolini. Non esisteva allora il ghost writer e in ogni caso non ne avrebbe mai accettato uno. Il suo ufficio era sobrio come lui: scrivania, tre sedie, la foto di Gramsci alle spalle, null’altro. A volte lavorava a casa, sul tavolo rotondo del tinello, con le figlie che gli giocavano intorno. La sua macchina era un’A112, non certo di lusso: era quasi sempre da Mario Benedetti, il suo meccanico, in riparazione. La prima volta che andò a ritirarla decise di mettersi lui alla guida, ma l’auto non si mosse di un millimetro: si era dimenticato di mettere la prima. Odiava il privilegio: agli aeroporti rifiutava sempre le salette riservate alle autorità, facendosi interminabili file per uscire dal terminal. Una volta a Catania Gava lo mandò a chiamare per fargli notare che da lì si poteva salire per primi sull’aereo:

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«Dica a Gava» - rispose Berlinguer - «che lo saluterei volentieri, ma dovrebbe venire qui lui perché io, se mi muovo, perdo il posto nella fila». Allergico allo sperpero di denaro pubblico, prediligeva sempre il mezzo di trasporto più economico: una volta costrinse gli uomini della scorta a farsi Torino-Milano in macchina in mezzo ad una bufera di neve per prendere da lì un aereo che li portasse a Roma, alla direzione del partito, la mattina successiva, perché l’aero-taxi che gli volevano far prendere costava troppo. Riuscirono a convincerlo a prenderne uno per la sua ultima campagna elettorale, facendogli vedere, conti alla mano, che tra spostamenti in macchina e alberghi il partito con quella soluzione avrebbe risparmiato un bel po’ di quattrini. Benché deputato, il suo stipendio era equiparato a quello medio di un operaio: quello che avanzava andava al partito. Sempre a Torino sbottò contro i membri della Direzione che non ritenevano opportuna la sua partecipazione, sia pure dal marciapiede, ad una manifestazione di metalmeccanici, per non offendere la sensibilità di qualche sindacalista: «Sono un cittadino comunista con diritto di libera circolazione, e per di più sono il segretario del partito che conta nelle sue file una maggioranza di operai: nessuno può impormi di stare alla finestra quando gli operai sono in piazza. E dicano pure che sono operaista, tanto lo dicono lo stesso.» In vita sua non salutò mai a pugno chiuso: considerava quel gesto «un segno d’ostilità». E pensare che il giorno dei funerali, di pugni alzati ce n’erano quante erano le bandiere rosse. Non era affatto triste: come ha scritto sua figlia Bianca, era introverso, ma anche capace di essere molto estroso, soprattutto coi bambini. Epico il racconto della partitella a calcio di fronte al ministero degli Esteri con suo figlio Marco, gli uomini della scorta e altri ragazzi: quando si trovò a passare Aldo Moro, il presidente Dc fece fermare la macchina e guardò tra il divertito e lo stupito quel Berlinguer così fuori dall’etichetta da non sembrare nemmeno lui.


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“Insegnò ad andare in bicicletta” Coi figli cercava di passare tutto il tempo che poteva: insegnò loro ad andare in bicicletta, a nuotare, ad andare in barca a vela. Li aiutava nei compiti, soprattutto storia e filosofia. Mi racconta Bianca che quando gli disse che voleva fare la giornalista, suo padre rimase un attimo in silenzio e poi rispose: «Allora impara l’arabo. Se vuoi raccontare il mondo di domani, dovrai partire da lì». Giusto per parlare della sua lungimiranza, a proposito di politica internazionale. Il rapporto con i giornalisti non era affatto facile. Per loro, s'intende. Berlinguer non era solito infatti concedere battute per strada: non amava le semplificazioni, non faceva dichiarazioni estemporanee, che poi magari finiva per smentire qualche ora dopo, come si usa fare oggi. Si trincerava in un mutismo tale, al di fuori degli incontri ufficiali con la stampa, che una volta un esasperato corrispondente del New York Times gli chiese: «Ma ci può dire almeno quanti anni ha?». E lui: «Credo che rivolgendosi all’ufficio stampa del partito ella potrà avere una mia biografia comprensiva dei dati anagrafici che desidera». Un giornalista del calibro di Giampaolo Pansa, per dire, dovette aspettare mesi prima che gli venisse concessa quella famosa intervista in cui Berlinguer dichiarava di

sentirsi “più sicuro sotto il cappello della NATO”. La stampa e la satira, di contro, si vendicavano dipingendolo grigio e triste, inventandosi la leggenda del “marchese rosso” (in realtà i Berlinguer avevano semplicemente ottenuto il “privilegio” di fregiarsi del titolo di “Don”, in quanto al loro arrivo dalla Catalogna avevano piantato un ulivo). Eppure lo stile di Berlinguer, come verrà chiamato dopo, si diffuse enormemente dentro e fuori il partito, anzitutto perché manteneva nei rapporti personali così come nelle occasioni pubbliche, lo stesso comportamento che lo aveva contraddistinto prima della sua elezione. Non avrebbe mai detto: «lei non sa chi sono io.» Non lo disse neppure, e ne aveva tutte le ragioni, quando lo dipinsero come un molle borghese che stava in ciabatte alla finestra, mentre in strada gli operai manifestavano. La difesa arrivò da Paolo Spriano, lo storico ufficiale del Pci: «Ma avete un’idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente come Berlinguer?» Non ce l’avevano, se la sarebbero fatta dopo, quando oramai era troppo tardi per chiedere scusa. Luigi Pintor scrisse che fece di un ideale un modo d’essere,Vittorio Foa che era in violento contrasto con l’immagine consueta dell’uomo politico.

Scheda

HANNO DETTO

( L'UNITA', 13 GIUGNO 1984)

Riuscì a fare di un ideale un modo d’essere Caduto in battaglia è una brutta espressione retorica, eppure è così. Berlinguer aveva avvertito che la democrazia italiana sta correndo grandi rischi, che molti valori essenziali che abbiamo cercato di affermare nella società nazionale in questi decenni sono stati minacciati. È tragico, e sembra quasi un ammonimento per noi, che si sia spezzato sotto questa tensione. Fece molto di più di una scelta politica come può essere intesa oggi, si identificò con una causa ideale e ne fece un modo d’essere. Luigi Pintor Il suo fascino era la diversità Il suo fascino era la diversità: non quella tanto inseguita e mitizzata dal comunismo che rigenera il mondo, ma la più reale e radicata del vir probus, del signore vero, del non plebeo. Sì, mi piaceva vederlo nelle tribune politiche e nelle conferenze stampa protetto dalla volgarità come da uno scudo invisibile e impenetrabile; uno scudo di ritrosia e di gelo su cui le parole melense o indecenti, stupide, o perfide si frantumavano. Giorgio Bocca Per abbattere il suo progetto ci vollero oscure congiure Il suo progetto politico era sensato e realistico. Era il progetto di una coalizione democratica: per abbatterlo ci sono volute oscure congiure che si sono valse del terrorismo. E credo poi che Berlinguer sia stato un punto di riferimento anche internazionale per lo sviluppo di una tradizione politica, di una esperienza storica e soprattutto di una morale. Italo Calvino Manteneva le promesse Enrico Berlinguer parlava poco, ma è stato uno dei pochi politici che abbia mai conosciuto che manteneva le promesse. Una piccola cosa, ma che in politica è grande come una montagna. Enzo Biagi

“La modestia e la misura” In effetti, se ancora oggi è così amato e rimpianto da chi c’era ed è preso ad esempio da noi giovani che non c’eravamo penso proprio per queste sue qualità: Berlinguer finì per avere il dono della profezia pur senza essere un profeta, quello della modestia pur essendo un leader carismatico, quello della saggezza e della misura in un mondo che era impazzito e fuori misura. Nei primi anni Ottanta era riuscito a mettere a fuoco i grandi temi di una nuova politica di Sinistra, al di là della tradizione comunista, che abbracciava il pacifismo, l’ambientalismo e, soprattutto, quell’idealismo che i comunisti hanno sempre rifiutato per un materialismo storico che non poco ha contribuito alla loro disfatta: basti pensare alla proposta di investire sull’energia solare nel 1983, alla fede nel ruolo dell’Europa (da contrapporre “sia al decrepito comunismo reale sia al neoliberismo portatore di ricchezze per pochi e di ingiustizie per molti”), così come al progetto di un’economia mondiale con Olof Palme, alla valorizzazione della diplomazia dei popoli, ai movimenti per la pace, al ruolo dei giovani e delle donne in politica e nella società, da non usare come bandierine da sventolare in vista delle elezioni.

Se n’è andato un giusto Faccio mie le parole del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Non è giusto, non doveva essere colpito un giusto. Alberto Moravia Un programma basilare per il futuro democratico del Paese Un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente, solitario, di abitudini spontanee, più turbato che alettato dalla prospettiva del potere, e in perfetta buona fede di cui ci resta un programma sociale, politico, economico, etico e morale non scritto basilare per il futuro democratico e di progresso del nostro Paese. Indro Montanelli Il sogno di una cosa di fronte alla spietatezza del secolo Aveva imparato bene, da Gramsci, che la verità è sempre rivoluzionaria. E la storia ha talvolta bisogno di un uomo che possegga quell'autorità che deriva soprattutto dal fatto che gli si vuole bene, perché una verità possa essere pronunciata in maniera piena e insospettabile. Attraverso quello che oggi volgarmente viene definito come lo «strappo» e che è in sostanza il corretto restauro del «sogno di una cosa», di fronte alla spietatezza del secolo, la storia, in Berlinguer, ha così trovato il suo uomo. Edoardo Sanguineti Seppe dare voce alla rivolta morale di milioni di italiani Enrico Berlinguer è stato uomo di temi e scelte difficili. Questo spirito di rivolta morale non è nuovo nella tradizione politica italiana. La novità, e grande, stava pero nel fatto che, questa volta, non c'era solo la disperata e solitaria invocazione di singole personalità o di gruppi ristretti. Enrico Berlinguer stava facendo diventare quella forma di rivolta li patrimonio di milioni di cittadini: qui è l'origine della straordinaria e per molti inaspettata reazione popolare alla sua morte. Se aveva reso sempre più netti i toni e sempre più incisiva l'azione, era perché si rendeva conto del fatto che i tempi si erano fatti più stretti e che quella rivolta morale era davvero l'arma più temuta dagli avversari, per essi intollerabile. E, così facendo, non lavorava settariamente per sé o per il suo partito, ma per la repubblica. Stefano Rodotà

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La capacità di anticipazione Ma è quella sua capacità di anticipazione che oggi lascia stupiti: soprattutto con la Questione Morale, aveva intuito la degenerazione che stavano vivendo i partiti, la loro trasformazione in macchine di potere e di corruzione. E aveva capito che la mancanza di fiducia dei cittadini nelle istituzioni è il centro del problema italiano, perché ha portato e porta “alla formazione di poteri occulti ed eversivi, la mafia, la camorra, la P2”, che fanno affondare la democrazia in una palude, nell’attesa del nuovo uomo della Provvidenza. Berlinguer era l’austerità nello spirito e nel fisico, l’onestà delle mani pulite, il coraggio dello strappo da Mosca, la complessità del compromesso storico, la speranza di un mondo nuovo, la profondità dei pensieri lunghi e l’eredità di Antonio

Gramsci. Berlinguer era un poeta (Benigni), ma non era la Madonna (Scalfari). Berlinguer era, infine, la Sinistra quando questa parola aveva ancora un senso. Dunque, perché mai ci si dovrebbe stupire del fatto che Enrico Berlinguer nel 2014 ha raccolto attorno alla sua figura più di 400mila persone, di cui un terzo sotto i 30 anni, in un sito web gestito da ventenni, www.enricoberlinguer.it? Si dovrebbe essere stupiti di chi è stupito. “Se i giovani si organizzano...” Quando l’Italia, quella sera, perse Berlinguer, il PCI sarebbe diventato il primo partito d’Italia, con il 33,3% dei voti. Berlinguer aveva vinto, ma era morto; gli altri, a partire da Craxi, avevano perso, ma erano vivi. Per la seconda volta nella breve vita della Repubblica la storia d’Italia

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fu cambiata dalla morte di un uomo: prima Moro, nel 1978, poi Berlinguer, nel 1984. Non sapremo mai come sarebbe andata, se il destino e le forze oscure di cui parlò Italo Calvino non avessero remato contro: sappiamo però come è andata senza di loro. E non è stato un bello spettacolo. Eppure non tutto è perduto, per noi giovani nati dopo la caduta del Muro di Berlino e che abbiamo ereditato questo disastro. Perché Berlinguer, da morto, è molto più vivo di tutti quelli che hanno tentato di sotterrarlo invano negli ultimi 30 anni. E oggi, più di ieri, sta a noi riannodare i fili di quella sfida interrottasi così tragicamente su quel palco a Padova. Oggi, più di ieri, è vero che “se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia.” Ora tocca a noi. Nel nome di Enrico.


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Storia

Sicilia arretrata: di chi è la colpa? Condizioni di vita, diritti sociali e libertà civili di Elio Camilleri La povertà e l’arretratezza della Sicilia si possono valutare attraverso una attenta analisi di almeno tre caratteri della società, delle istituzioni e dell’economia della nostra isola: in primo luogo le condizioni di vita dei siciliani, poi una valutazione delle libertà civili e, infine, del godimento dei diritti sociali. Sappiamo bene che nulla avviene per caso e che tutto ciò che accade o che è accaduto nel passato ha delle cause, e conoscerle è il primo passo per costruire qualsiasi progetto di recupero del ritardo rispetto alle regioni settentrionali. Partendo da una prima risposta di tipo accusatorio, in verità facile, troppo facile, e, quindi, incompleta e scarsamente utile, riferiamo delle tesi neorazziste di Richard Lynn sui caratteri “diversi e deboli” di lombrosiana memoria riferiti ai siciliani; diversa e più concreta, ma ancora insufficiente risulta la tesi di Robert Putnam sul capitale sociale, e quindi sulla scarsa attitudine dei siciliani a cooperare, a riconoscersi in gruppi organizzati e operativi. Come si vede questa prima risposta può, al massimo, offrirci la colpa, nascondendo il dolo e allora dobbiamo essere più precisi e chiederci, per esempio, di quali siciliani stiamo parlando: sì, perché ci sono stati i siciliani che hanno comandato e i siciliani che hanno ubbidito. In ogni paese è così, ed in Sicilia vanno distinte le classi dirigenti dalle classi popolari.

Le prime andrebbero piuttosto definite “classi dominanti”, in quanto si sono sempre distinte per l’unico loro progetto di salvaguardare i propri interessi e difendere i privilegi derivanti dal potere, provocando emigrazione, sfruttamento, sottosviluppo, clientelismo e malaffare, impedendo così qualsiasi crescita, qualsiasi sviluppo. La risposta assolutoria di ogni colpa e di ogni dolo è anch’essa facile, ma purtroppo incerta ed insoddisfacente: essa si struttura sulla storiografia marxista, ma anche su certi aspetti di quella liberale (Nitti, Romeo), secondo la quale la Sicilia ed il Sud sarebbero stati colonizzati, sfruttati e ridotti in miseria dal Nord dall’Unità in poi; un secondo tema della tesi assolutoria sta nella lontananza del Sud dai mercati del nord ed europei, nella scarsità di energia idraulica e nell’immobilismo economico e sociale di cui si diceva.

***

Per intraprendere un percorso corretto e fruttuoso è necessario, allora, abbandonare la contrapposizione meridionali-settentrionali e denunciare il ruolo, all’interno della società meridionale, delle classi dominanti, che hanno: “deliberatamente ritardato lo sviluppo economico e civile del Sud Italia a vantaggio dei propri interessi. Detto altrimenti, chi ha soffocato il mezzogiorno sono state le sue stesse classi dirigenti -una minoranza privilegiata di meridionali-, che ne hanno orientato le risorse verso la rendita più che verso gli usi produttivi, mantenendo la gran parte della popolazione nell’ignoranza e in condizioni socio-economiche che favorivano i comportamenti opportunisti” . Questa tesi era già stata enunciata da Antonio Gramsci e da Gaetano Salvemini,

che avevano già individuato nei latifondisti i responsabili dell’immobilismo economico-sociale della Sicilia e del Sud e quindi, nel tempo, il ritardo e l’arretratezza rispetto alle regioni settentrionali. Vale la pena, infine, di accennare all’opportunità di utilizzare il modello interpretativo proposto da Daron Acemoglu e James Robinson sulla differenza tra istituzioni politiche ed economiche consolidatesi nelle regioni settentrionali e in Sicilia: nelle prime si sarebbe affermato un modello “inclusivo”, aperto e accogliente per tutti i cittadini che individualmente o in gruppo hanno trovato modo di partecipare alla gestione della cosa pubblica; in Sicilia si sarebbe invece afferma- to il modello “estrattivo”, secondo il quale le classi dirigenti-dominanti-delinquenti avrebbero associato quegli individui e gruppi funzionali alla soddisfazione di interessi e privilegi esclusivi della loro parte. Ancora una volta, come si vede, i Savoia non avrebbero nessuna responsabilità sulle condizioni “originarie” del ritardo e del sottosviluppo della Sicilia e del Sud: sono stati i rappresentanti politici delle classi dirigenti-dominanti-delinquenti del Sud e della Sicilia che hanno stipulato quel terribile patto con gli industriali del Nord per garantire lo status quo al Sud in cambio degli investimenti statali alle regioni settentrionali. Si formò, allora, un apparato burocratico centralizzato costituito da parenti, amici e amici degli amici di aristocratici e latifondisti, che garantì puntuali contributi ed investimenti agli imprenditori del nord che lanciarono verso il lavoro, lo sviluppo ed il benessere milioni di lombardi, piemontesi, liguri, toscani, lasciando ai siciliani la sola possibilità di lanciarsi a milioni in migrazioni verso l’America o di restare nella condizione di servo ubbidiente del gabelloto mafioso di turno. La storia della Sicilia è stata, drammaticamente, anche storia di rivolte, di donne e di uomini che si sono ribellati, ma di questo ho già scritto e ne scriverò ancora.

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Mauro Biani

chi semina

racconta sussidiario di resistenza sociale Contributi di Antonella Marrone, Carlo Gubitosa, Cecilia Strada, Cinzia Bibolotti, Ellekappa, Franco A. Calotti, Gianpiero Caldarella, Makkox, MaoValpiana, Massimo Bucchi, Nicola Cirillo, Pino Scaccia, Riccardo Orioles, Stefano Disegni, Vincino Gallo Formato 17x24, 240 pagine, colori ISBN 9788897194057 15 euro

I

l meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, autore di satira sociale a tutto tondo che unisce la vocazione artistica all’impegno professionale come educatore in un centro specializzato per la disabilità e la non disabilità mentale. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti quando serve, per toccare temi universali come la

nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie. L’AUTORE Mauro Biani (Roma, 6 marzo 1967) ha pubblicato vignette in rete per anni per poi fare il salto verso il professionismo su quotidiani e settimanali nazionali, riviste del terzo settore e organi di informazione indipendente. Ha fondato la I Sicilianigiovani– – pag. 50 5

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rivista di giornalismo a fumetti “Mamma!” che ha chiamato a raccolta un gruppo nutrito di giornalisti, vignettisti e fumettari in cerca di nuovi spazi espressivi. Collabora con il gruppo internazionale “Cartooning For Peace” sotto l’alto patrocinio dell’Onu. Nel 2009 ha pubblicato il volume “Come una specie di sorriso”, una antologia di illustrazioni ispirate alle canzoni di Fabrizio De Andrè.


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Storie

“Mi chiamano Dudù...”

dajackdaniel.blogspot.it/

Finale d'opera in un atto (breve) di Jack Daniel

«Ma io lo sapevo, sai? L’avevo capito, a differenza di tutti gli altri. Lo so che mi danno del vecchio rincoglionito – lo so, non negare – però lo avevo capito che elezioni sarebbero andate male, e già da qualche settimana, da quando il Milan non è riuscito ad entrare in Europa League. E infatti, siamo arrivati terzi, ed è una cosa che assolutamente non posso tollerare. Devo riprendere in mano la situazione, io, personalmente, tanto di tempo ne ho quanto voglio, Scapagnini disse che ero tecnicamente immortale. A proposito, è molto che non lo sento, uno di questi giorni lo devo chiamare. Ah, no, è morto l’anno scorso. Lui. L’anno prossimo però dobbiamo entrare in Champions, e poi vincere le elezioni. Chissà che fa ora Sacchi, con lui in panchina sono sicuro che ci riprenderemo. E poi Maldini e Costacurta, sono ancora dei ragazzi, in fondo, e con un po’ di allenamento ritornano come prima. Devo chiamare Scapagnini, forse lui ha qualche integratore da consigliare. Ah, no, Scapagnini no. Comunque

l’anno prossimo vincerò il campionato, e intanto mi preparo per le elezioni. Già ho in mente slogan geniali. Senti questo “un milione di posti di lavoro!”. Fantastico, vero? Con la disoccupazione che c’è farà presa, ne sono assolutamente certo. Dovrò contattare persone della TV, gente popolare, rassicurante. Sandra e Raimondo andranno benissimo, già me li vedo. E poi trasmettere a ripetizione i successi dei miei governi. Gli accordi con la Libia, il controllo delle coste e la fine degli sbarchi clandestini. A proposito, ieri ho letto che sono ricominciati. Così non va, Gheddafi aveva preso degli impegni. E’ il caso di telefonargli, devi ricordarmi di farlo domani. Che tipo, quel Gheddafi, lo sai che è stato lui a insegnarmi il bunga bunga? Una sagoma, ci siamo proprio divertiti quelle sere mentre discutevamo dei rifugiati di Lampedusa. “Non ti preoccupare, Silvio, mi diceva, a quelli ci penso io. Il deserto è grande e fa molto caldo. Se arrivano fin qua, non andranno da nessun’altra parte. Ma guarda quella

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come balla. Ti piace, eh? La vuoi? Te la presto”. Che tipo, lo devo richiamare. E poi ho in mente un altro slogan “meno tasse per tutti” Che ne dici? Semplice, geniale. Sono sicuro, sfonderemo. Ah, ricordami di chiamare anche Mike, oltre a Sandra e Raimondo. Vinceremo, è assolutamente certo, sia il campionato che le elezioni. E l’anno dopo., Champions League e presidenza della Repubblica. Ora si tratta solo di organizzare una presenza sul territorio e reclutare qualche candidato, giovani professionisti e belle ragazze: ne devo parlare con Marcello, l’altra volta fu proprio bravo. E poi devo andare a tutte le trasmissioni, solo io posso risollevare la questione, ripartirò anche stavolta. Tutto io devo fare, non c’è nessuno che mi dia retta. Dudù, solo tu mi capisci, vero? Di te mi fido, solo di te ormai. E vedrai, ce la faremo, insieme, io e te. Ma che strano, però. Dev’essersi rovesciato il thermos con la tisana. Ho i piedi e le pantofole tutti bagnati. No, non è la tisana, dall’odore sembra qualcos’altro. Sembra…. Dudù, sei stato tu?»


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no alla guerra, the Holy Bile no al nucleare

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n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.

I

mP

nicola.

r–esistenza precaria

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KaNJaNo & car o gubi osa

La mia terra la difendo

L

l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.

erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

www.mamma.am/nonuke

www.mamma.am/bile

www.mamma.am/nicola

www.mamma.am/giuseppe

ISBN 9788897194002

ISBN 9788897194026

ISBN 9788897194019

ISBN 9788897194033

I Siciliani 52 Sicili igiovani p giov ni – pag.

a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.


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Fotografa

CATANIA

I mille volti della Pescheria La nostra penna è la luce, che attraverso una fotocamera ci fa diventare “mercanti di storie”. Storie raccontate attraverso le immagini. Immagini che raccontano la vita sociale, la cronaca, attraverso una libera informazione, così come libere sono le nostre immagini, che per defnizione non possono avere censure. Le foto che vedrete sono il risultato di un lavoro collettivo, realizzato dagli aspiranti fotograf giornalisti che frequentano il primo corso di fotografa sociale e giornalistica organizzato dalla nostra redazione. Come primo inserto fotografco vi presentiamo le voci, i colori, i volti degli uomini e delle donne che “vivono” la “pescheria”, uno dei mercati dove l’incontro sociale e umano sono il centro di una città piena di storia e di tante altre storie. Giovanni Caruso I Sicilianigiovani Sicilianigiovani – pag. 53


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I mille volti della Pescheria di giro�

Le mani degli uomini della pescheria hanno parole.

Gianluigi Primaverile

Antonio, pescatore di anguille, mentre mostra la foto di suo zio e di suo padre da giovani. Carlo Majorana I Sicilianigiovani Sicilianigiovani – pag. 54


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Sabato mattina alla Pescheria di Catania. Un bambino, intento nella pulizia dei gamberetti, collabora nella gestione della bancarella del pesce a conduzione familiare. Francesco Nicosia

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Le bilance raccontano qualcosa di più del semplice peso... in fondo "Semu pisati a la stissa vilanza, tra tia e mia non c'è differenza!" Daniela Calcaterra

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I mille volti della Pescheria di giro�

Tra un bancone e l'altro, sguardi e sorrisi di uomini e ragazzi che apprendono dai piĂš grandi un antico mestiere, in un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato. Stefania Mazzara

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I mille volti della Pescheria di giro�

Due pescivendoli sono impegnati nella pulizia del pesce mentre un bambino osserva la scena. Una delle scene piĂš frequenti a cui capita di assistere alla pescheria di Catania. Dario Lo Presti

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“Taliassi chi bedda!”, una frase strillata in dialetto attira l’attenzione dei turisti, che lo ritraggono curiosi e divertiti. Alfredo Magnanti

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La Pescheria: una città intera è passata tra i suoi banconi, giorno dopo giorno, animando uno dei luoghi più suggestivi della nostra Catania. Daniela D'Arrigo

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Qui è come un grande teatro, protagonisti i venditori che con la combinazione di parole, gestualità, musica, vocalità e suoni coinvolgono lo spettatore. Teresa Zingale

I Sicilianigiovani Sicilianigiovani – pag. 61


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"A sta facennu a mia sta fotografa o a stu beddu carusu cca bici? " Gioiosi incontri alla pescheria di Catania. Flavia Iraci

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I mille volti della Pescheria di giro�

Molte donne si recano alla pescheria anche per stare insieme, scambiare due chiacchiere e scordarsi per qualche momento del tempo che scorre. Queste "Tre Marie" confabulano come delle bambine sugli acquisti appena ultimati... Ivana Sciacca

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dedicato a Camille Lepage di giro”

You will forget me (Vi dimenticherete di me)

Camille Lepage era una giovane fotogiornalista francese rimasta uccisa nella Repubblica Centroafricana dove, da più di un anno, va avanti una guerra civile molto violenta tra forze cristiane e mussulmane. I racconti fotografici della giovane Lepage si basano su storie di conflitti e popolazioni africane dimenticate, quelle lontane dai media, quelle di cui non si parla mai e con cui non ci si fanno soldi. Camille le andava a vivere, le faceva sue ed erano, senza alcun dubbio, così dirette, forti e chiare da essere comunque pubblicate nelle più importanti testate giornalistiche del mondo. "You will forget me" è il titolo di uno dei temi su cui Camille lavorava costantemente, e cioè la drammatica trasparenza del popolo Nuba nella regione del Kordofan a sud del Sudan, dove la fotografa viveva. "Vorrei che chi vede le foto provi vergogna nei confronti del suo governo per il fatto che sanno e non fanno niente" afferma Camille durante un'intervista su PetaPixel nel 2013. "Quello che è veramente frustrante è che i media non sono interessati. Nel mio intimo speravo di cambiare lo stato delle cose, ma ho subito realizzato che ci vuole tanto tempo, più di quello che pensavo. Sinceramente spero che una volta che le storie siano complete sarà più facile pubblicarle, farle conoscere. Se non attraverso i media, con i libri, ed anche con esibizioni" Will we forget her? Ci dimenticheremo di lei? Mara Trovato

Camille Lepage - January 28, 1988 – May 11, 2014 Pubblicazioni: New York Times, International Herald Tribune, Time, Le Monde, Vice Magazine, The Sunday Times, The Guardian, BBC, Wall Street Journal, Washington Post, X, Amnesty Press, LA Times, Al Jazeera, Libération, Le Parisien Magazine, Le Parisien, Le Nouvel Observateur, Jeune Afrique, La Croix, Internazionale, DVAfoto, Le Journal de la Photographie, Photographie.com ONG: Human Rights Watch, MSF, ICRC, Amnesty International, Mercy Corps, Handicap International, WFP, Internews, Crown Agents, Solidarité. Competizioni: 2014 POYI 71st - Ritratti, secondo posto 2013 - Finalista Borsa di studio del Talento, reportage con l'Association Nationale des Photographes Esibizioni: September 2013 : Tensions - Les Tisseurs d'Image, Bouchemaine, France

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Libri

PARLANO I REDATTORI DI GIUSEPPE FAVA Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia” di Antonio Roccuzzo e Prima che la notte di Claudio Fava e Miki Gambino raccontano gli anni dei Siciliani di Giuseppe Fava come vennero vissuti dai ragazzi che con lui condivisero la più bella atoria del giornalismo italiano. Una storia che non è finita.

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Economia sostenibile

Rifiuti Zero: qui, ora! Il recupero di materia dai materiali post-consumo è la migliore strategia per combattere la desertificazione industriale dell’Europa di Carmelo Catania L’Europa non dispone di grossi quantitativi di materie prime per la produzione industriale e deve importarle. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che sono fra i più grossi produttori di materie prime, sono oggi in grande e veloce sviluppo, è presumibile, dunque, che nel medio e lungo termine tenderanno a utilizzare le loro materie prime per il loro mercato interno, invece di cederle all’Europa. Ben conscia di questo l’UE ha chiesto ai paesi europei di elaborare una exit strategy da inceneritori e discariche, e di trarre dai rifiuti il massimo possibile di Materie prime seconde (MPS), per diminuire la nostra dipendenza dai paesi produttori, ma l’Italia non si sogna di farlo perché lede interessi consolidati di oligarchie economiche. La strategia Rifiuti Zero La Strategia Rifiuti Zero, elaborata dallo scienziato americano Paul Connet, cerca di emulare la sostenibilità dei cicli naturali, dove tutti i materiali eliminati diventano risorse per altri. I suoi capisaldi sono la riduzione dei rifiuti, il massimo recupero dei materiali e la responsabilità di imprese, cittadini e amministrazioni.

Per molti non è un’utopia, ed è attualmente applicata in alcune comunità di paesi come Argentina, Australia, Canada, California, India, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Filippine e anche in Italia dove, nel 2013, sono state raccolte 87.000 firme per la presentazione della Legge di Iniziativa Popolare (LIP) Rifiuti Zero, verso una vera società sostenibile, che oggi però giace in Parlamento dove, come sappiamo, l’attività parlamentare ha intrapreso altre strade. Il coordinamento nazionale per la LIP per richiamare l’attenzione dei cittadini e delle istituzioni e creare una pressione politica sui parlamentari affinché la discutano e la approvino senza stravolgimenti, ha recentemente deciso di lanciare la campagna “Rifiuti zero: qui, ora”, che è articolata in tre campagne tematiche (Compostiamoci bene, Sotto il muro dei 100 Kg, Stop al tal quale in discarica e CSS) e una, in collaborazione con altri movimenti, sulla socializzazione della Cassa Depositi e Prestiti. I contenuti di queste campagne hanno particolare rilevanza per la Sicilia e anche per Messina, relativamente alla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea e alla centrale elettrica Edipower di Milazzo. Compostiamoci bene Questa campagna vuole portare l’attenzione sul compostaggio nelle sue svariate forme. La motivazione non è solo pratica (riduzione del 30-35% del “tal quale”, o rifiuti indifferenziati), ma ambientale. Il compost quando usato come concime biologico consente di restituire alla terra “materia” che le viene sottratta dall’agricoltura e dalla attività umane. Pertanto è uno dei pochi strumenti per lottare contro la desertificazione progressiva dei territori, che avviene sia per il riscaldamento globale del pianeta e per l’uso dell’agricoltura intensiva dei terreni fertili.

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In alcune regioni d’Italia, fra cui la Sicilia, sono attivi meccanismi di incentivazione all’uso del compost in agricoltura. Tali incentivi sono compresi fra i 200 e i 700 euro ad ettaro, concimato con compost. nell’Isola la situazione è però paradossale: non essendoci impianti di compostaggio le aziende agricole se vogliono accedere a questi incentivi devono comprare il compost presso gli impianti che lo producono a costi magari superiori agli incentivi stessi. Sotto il muro dei 100 Attualmente per valutare la virtuosità dei comuni si guarda alla percentuale di raccolta differenziata raggiunta. In verità questo è un parametro deviante. Infatti ci sono comuni che hanno incrementato negli anni la percentuale di RD, ma hanno anche incrementato la produzione di “tal quale”. Ora, siccome mediamente noi produciamo più di 500 Kg/anno/persona di rifiuti. Con una media nazionale di RD intorno al 40%, mandiamo in discarica o a bruciare circa 300 Kg/anno/persona. Se con opportune politiche di riduzione, riuso e recupero si riuscisse a ridurre tale quantità a 100, avremmo un miglioramento della qualità della vita, Ci sono comuni che hanno portato questo parametro perfino sotto ai 50 Kg/anno/persona, e sono questi i veri comuni virtuosi, non quelli che arrivano al’80%. Stop al tal quale in discarica La direttiva europea discariche 1999/31, venne recepita in Italia col decreto 36/2003 (in ritardo). Tale direttiva prevede che non si possa sversare niente in discarica che non sia stato prima pretrattato allo scopo di evitare o quanto meno ridurre la produzione del percolato. A tale decreto è seguita una serie interminabile di deroghe, finché l’UE ha detto


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“2.600.000 tonnellate annue di rifiuti siciliani rendono alle discariche 260.000.000 di euro l’anno.”

basta e ha minacciato sanzioni economiche severissime. Lo scorso 6 agosto 2013 il ministro dell’Ambiente ha emanato una circolare che proibisce definitivamente lo sversamento del “tal quale” senza pretrattamento. Il pretrattamento è il trattamento meccanico biologico (TMB) e consiste in una triturazione del tal quale che viene successivamente avviato alla “vagliatura”, che separa la parte umida (o sottovaglio), che viene poi avviata alle linee di biostabilizzazione aerobica, dalla parte solida (sopravaglio o secco indifferenziato). A febbraio l’associazione Zero Waste Lazio ha inviato una diffida alla regione Lazio, alla provincia di Roma, ai sindaci dei comuni in cui erano presenti cinque discariche e alle società di gestione, chiedendo il rispetto della legge. In 15 giorni queste discariche sono state chiuse (data l’ovvietà della violazione di legge). L'emergenza rifiuti in Sicilia Il Commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Sicilia, nel successivo mese di ottobre, ha disposto che i gestori delle discariche, in possesso di Aia (Autorizzazione integrata ambientale) che autorizzava la realizzazione degli impianti di selezione e biostabilizzazione, presentassero un’apposita dichiarazione dell’avvenuta entrata in servizio dell’impiantistica prevista. Per tutta risposta Tirrenoambiente – proprietaria della discarica di Mazzarrà Sant’Andrea (Me) (nella foto) – ha però dichiarato di aver sospeso la realizzazione dell’impianto motivandola con «l’inadempimento degli enti pubblici conferitori al pagamento dei debiti».

Questa discarica, quindi, in questo momento non sarebbe in regola. Riportare la legalità Ma la valenza fondamentale di questa campagna sta nel riportare la legalità nel sistema di gestione dei rifiuti, legalità che in Sicilia è vilipesa, soprattutto perché i rifiuti possono essere sorgente di lucrosi affari. Se per scaricare una tonnellata di “tal quale” in discarica il contribuente paga 100 euro al gestore, le 2.600.000 tonnellate annue di rifiuti siciliani rendono alle discariche 260.000.000 di euro l’anno. È un buon motivo per ostacolare la strategia RZ? Con il sopravaglio si può produrre un combustibile a basso potere calorifico, oggi chiamato CSS (Combustibile solido secondario) dopo un decreto dell’allora ministro Clini, che ne individuava ben 12 tipi, a seconda della composizione, dei quali alcuni trasportabili e persino commerciabili. Il CSS esiste solo in Italia, e solo qui non ci sono restrizioni al suo uso. Il CSS fa molta gola ai cementifici, che potrebbero usarlo al posto del carbone, ovvero persino alle centrali elettriche, in quanto costerebbe molto meno che il normale combustibile da idrocarburi. La truffa del recupero energetico Spesso, purtroppo, viene propalata la truffa scientifica del recupero energetico. L’attuale tecnologia non è in grado di trasformare la massa in energia (avviene solo nel Sole e le stelle). È possibile solo realizzare combustioni, cioè trasformare il carbonio contenuto nella materia e l’ossigeno dell’aria in CO2, ottenendo il

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rilascio di un po’ di energia termica, successivamente trasformata in energia elettrica o altro. La combustione ha però effetti collaterali: le emissioni. Queste dipendono da ciò che si brucia, quindi possono sprigionarsi gas climalteranti o velenosi (diossine, furani, NOx, a volte forse PCB, ecc.), metalli pesanti, polveri sottili e ultrasottili e altro. Normalmente i veleni vengono dalle reazioni chimiche incontrollabili degli altri componenti oltre al carbonio (le diossine si producono bruciando insieme plastica e cellulosa). In buona sostanza bruciare il CSS significa dilapidare materia recuperabile e inquinare. A ciò si aggiunga che cementifici e centrali elettriche hanno limiti di emissioni ben più alti dei normali inceneritori, soggetti alle normative europee. La centrale Edipower di Milazzo La centrale elettrica Edipower di Milazzo (Me), sta per chiudere due delle sei linee ad olio combustibile e ha ventilato la possibilità di aprire una linea a CSS, ma non vuole acquistarlo, anzi vorrebbe un contributo per incenerirlo e gli incentivi quale energia assimilata a rinnovabile. Edipower è controllata dalla multinazionale dell’energia A2A, una società assolutamente gigantesca con bilanci superiori al PIL della Sicilia che è fra i soci privati di Tirrenoambiente con il 3%. Ora cosa se ne fa A2A del 3% di una società che potrebbe interamente rilevare con una frazione infinitesima del suo bilancio? È pensar male che la risposta sta nel CSS che l’impianto potrebbe produrre, insieme a tanto altro CSS proveniente da tutte le altre discariche siciliane?


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Ragusa

La guerra della monnezza Il ciclo dei rifiuti nella provincia di Ragusa è una grande matassa aggrovigliata... di Simone Lo Presti www.generazinezero.org “Ragusa non sa neanche cos'è la mafia. Non lo sa ora e non l'ha mai saputo, neanche in anni particolari. Ritengo che da noi non ci siano mai stati problemi di infiltrazioni mafiose nel settore dei rifiuti e, in generale, nella città di Ragusa”. A parlare è Nello Dipasquale, ex sindaco di Ragusa, ora deputato regionale della Lista Megafono di Crocetta. La sua udienza era stata richiesta il 28 ottobre del 2009 dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ed era terminata con una scena sul rimborso per le spese del viaggio, chiusa dal Vicepresidente della Commissione:“Lei non deve avere nessun rimborso. Non credo che lle finanze di Ragusa dipendano da un'audizione del sindaco presso la Commissione parlamentare d'inchiesta”. Qualche settimana prima (il 10 ottobre 2009) l’ex Prefetto di Ragusa, Francesca Cannizzo, relazionava alla stessa Commissione: “ho potuto verificare l’esistenza di situazioni di malaffare, laddove alcune ditte che hanno appalti per la raccolta e il conferimento dei rifiuti si sono rese responsabili di reati in danno delle pubbliche amministrazioni, a volte in concorso con pubblici amministratori”. Una questione ancora aperta. A destare polemiche è la Busso Sebastiano srl, che gestisce il servizio nel capoluogo e a Chiaramonte e Monterosso. Giusto Catania, all’epoca dei fatti al Parlamento Europeo, nel 2008 promosse un’interrogazione parlamentare, l’operazione della Polstrada “Trucks” che aveva coinvolto l’impresa ecologica Busso Sebastiano srl, che svolge servizio a Ragusa.

I capi d’imputazione erano “falso pubblico, falsa attestazione di revisione e utilizzo di atti falsi”. Giusto Catania chiedeva se, a fronte di una condanna definitiva, ci fossero stati i requisiti per escludere la ditta Busso dall’appalto. Ma la ditta ha continuato a gestire il ciclo dei rifiuti. La famiglia Busso è connessa a due diverse imprese ecologiche intestate ai figli di Sebastiano Busso. La Busso Sebastiano srl, titolare Vito Busso; e la Eco.Seib srl, di Giuseppe Busso, le cui vicende giudiziarie meritano un capitolo a parte. Le polemiche riguardano i metodi della Busso Sebastiano srl per la raccolta differenziata. Tre video hanno testimoniato la negligenza dei dipendenti della ditta che conferivano i rifiuti differenziati in un unico camioncino, annullando l’impegno dei cittadini che differenziavano i rifiuti. Il segretario Cgil Giovanni Lattuca ha parlato di “sciacallaggio mediatico”. Alla fine di aprile la Guardia di Finanza ha sequestrato una vasca di conferimento della discarica di Cava dei Modicani, dove arrivano i rifiuti raccolti da Busso. Si trova in una zona molto vicina a Cava Misericordia, dove scorrono le acque che forniscono il servizio idrico della città, già protagonista di una grave crisi idrica nei primi mesi del 2013; nè i nuovi dati, emersi dal convegno del Comitato Ibleo Ricerche Idrogeologiche (Cirs), sembrano indicare un miglioramento. Il sequestro era motivato dallo sversamento di percolato indirizzato verso Cava Misericordia. Sono arrivate denunce sia alla stampa che alle istituzioni: “Ripetutamente ho fatto presente al titolare signor Busso lo stato in cui versa il Centro Comunale di Raccolta: percolato che fuoriesce dai cassoni, rifiuti di umido che rimangono per diversi giorni all’aria provocando odori nauseanti, medicinali scaduti, ricettacolo di topi ormai immuni a tutto; vetro che viene smistato senza adottare alcun sistema di protezione e sicurezza operando manualmente, capannone pieno di carta e cartone, piazzale stracolmo di potatura, legno, materiale ferroso, materassi, divani, frigo etc. tutte queste cose sparse dappertutto, oltre alla mancata disinfestazione.

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Ho fatto presente al signor Busso che non era possibile continuare a gestire il CCR in queste situazioni; allora sono stato trasferito”. Queste le parole di Giovanni Laurino, sindacalista e responsabile dei CCR, in una lettera alla Commissione Trasparenza del Comune di Ragusa. La faccenda è finita in Tribunale. Giovanni Laurino, infatti, era stato licenziato dalla ditta Busso Sebastiano srl per ragioni disciplinari, in quanto dalle sue “gratuite denunce - sentenza 16 gennaio 2014 - di inesistenti irregolarità […] era scaturito un ingiustificato discredito dell’immagine pubblica dell’azienda, sia per l’oggettiva falsità dei fatti denunciati sia per i toni inutilmente polemici”. Nel corso del processo, tuttavia, alcuni testimoni tra cui i sindacalisti Alfio Interlinge e Giuseppe Guastella, confermarono le denunce del Laurino, aggiungendo che tra le mansioni degli operai, c’era anche la raccolta di eternit ed hanno fatto notare come ad ogni denuncia facesse seguito un provvedimento disciplinare, denotando la natura discriminatoria del rapporto tra Maurizio Busso, titolare dell’impresa, e i dipendenti. La ditta Busso si era difesa adducendo il fatto di non aver mai dato disposizioni simili (allegando una dichiarazione firmata da numerosi dipendenti). Il giudice, però, ha affermato che “non è credibile la spontanea elaborazione e sottoscrizione della dichiarazione da parte dei lavoratori , quando è verosimile che sia stata predisposta dall’azienda e che sia stata richiesta la loro firma”. La sentenza si chiude con l’obbligo di reintegra nel posto di lavoro a carico della ditta Busso, che dovrà pagare anche gli stipendi arretrati. Ma i soldi alla ditta non dovrebbero mancare. Quando nel 2008 l’impresa ecologica Busso Sebastiano vinse la gara d’appalto per la raccolta dei rifiuti, lo fece con “un ribasso d’asta - conferma Claudio Conti di Legambiente Ragusa ed ex Assessore all’Ambiente - che è più basso del profitto d’impresa”. Nel corso degli anni, poi, l’Amministrazione di Nello Dipasquale ha rimpolpato le casse della ditta: ad esempio nel 2011, quando (alle porte delle elezioni amministrative) l’ex Sindaco


www.isiciliani.it aveva avviato l’intensificazione della raccolta differenziata, ampliandola ai quartieri limitrofi del centro storico (dove fino ad allora si praticava la raccolta differenziata porta a porta). Al fine di garantire il servizio la Busso Sebastiano srl ingaggiò parttime 39 lavoratori, gli stessi che, a febbraio 2010, erano stati suggeriti da Giovanni Lattuca. Fu definita un’operazione a costo zero dallo stesso Nello Dipasquale, il quale con un’ordinanza del marzo 2011, stabiliva che bisognava “essere integrato (per il pagamento delle unità part-time di cui sopra) il canone mensile all’impresa ecologica Busso Sebastiano srl di €63.093,16”, destinando ad ottobre 2011 altri 40 mila euro circa alla stessa ditta. Integrazioni di spesa proseguite anche nel 2012 per un totale di circa 2 milioni e mezzo di euro. Si trattò di “una manovra elettorale – secondo Claudio Conti - cioè io devo far vedere che la città funziona e, quindi, faccio la differenziata”. Qualcuno ippotizzò anche uno scambio di voti, ma nessuno l’ha mai appurato (a differenza del caso Parentopoli riguardante l’ATO Ambiente iblea). Un sodalizio, quello con l’ex Sindaco Dipasquale, sancito anche dalla lettera che gli avvocati di Busso hanno inviato a Febbraio 2014, all’attuale amministrazione in risposta al lavoro di Claudio Conti, deciso ad applicare le penali, sancite dal capitolato, per il mancato raggiungimento delle percentuali di differenziata.

Capitolato: 2008-09: 25%; 2009-10: 35% Regione Sicilia: fino lug.2012: 35%; da 9 luglio 2012: 40% Busso Sebastiano srl: 2012: 19,87%; 2013: 19,67%

Queste penali sono state al centro di polemiche, soprattutto nel periodo dell’Amministrazione Dipasquale: da una parte Legambiente continuava a denunciare la mancata applicazione delle penali, dall’altra l'amministrazione affermava la totale inesattezza delle tesi ambientaliste. Lo stesso Busso, pur ammettendo le percentuali basse (“intorno al 17%”), si giustificava dicendo che “non c’è in Sicilia nessuna norma che preveda una percentuale da rispettare”. A marzo 2013 il dirigente del Settore Ambiente, che era invece a conoscenza della normativa regionale, ha aperto una procedura di applicazione della penale per mancato raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata pari a circa 1,8 milioni di euro. Ma questi soldi non erano più esigibili dal Comune perché scaduto il termine di notifica. L’applicazione delle penali (pari, stavolta, a circa € 250.000 per il periodo apriledicembre 2013) si è avuta solo dopo le elezioni amministrative del 2013, con l'assessore all’Ambiente Claudio Conti (ora “defenestrato” a causa, pare, di divergenze col Sindaco del Movimento 5 Stelle, Federico Piccitto). Una guerra (sommersa) dei rifiuti, insomma. Come in tutte le guerre, anche in questa si stringono delle alleanze, come quella che sembra esserci tra la Busso Sebastiano srl e la ditta IGM di Siracusa, gestita da Giulio Quercioli Dessena, Presidente Nazionale della FISE Assoambiente, amico intimo della famiglia Prestigiacomo e del Senatore D’Alì (accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, assolto per i fatti successivi al '94 e prescritto per quelli precedenti), i cui rapporti paiono risalire alle gare d’appalto del 2008 (per la raccolta dei rifiuti) e del 2009 (per la gestione della discarica di Cava dei Modicani). Nel 2008 l’appalto vinto dalla ditta Busso, con un ingente ribasso d’asta, fu impugnato al TAR dalla Dusty srl di Catania, arrivata seconda. La IGM, invece, accettò in silenzio il responso della gara. Allo stesso modo la Busso Sebastiano srl si comportò nei confronti della IGM, quando nel 2009, quest’ultima vinse la gara d’appalto per la gestione della discarica di Cava dei Modicani: non fu presentato nessun ricorso. Un'amicizia particolare, anche alla luce dei nuovi scenari emersi in seguito all’operazione di polizia “Reset”, durante la quale sono stati arrestate 24 persone.

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La IGM è stata coinvolta in quanto risultava essere contribuente del sistema col pagamento del pizzo al clan della “Civita”, affiliato ai Santapaola-Ercolano di Catania. A riguardo, l’on. Giuseppe Zappulla del PD, ha proposto un’interrogazione parlamentare, adducendo una “forte preoccupazione ed inquietudine degli ambienti più avvertiti della città, anche e soprattutto alla luce della nuova gara d'appalto che il comune di Siracusa dovrà attivare per la raccolta dei rifiuti urbani”. L’altra ditta di famiglia è la Eco.Seib. srl, il cui titolare, Giuseppe Busso, è coinvolto in varie vicende giudiziarie: le operazioni di polizia “Trash” e “Full Trash” (cui è legata la matassa Palagonia-ScicliModica, ora al vaglio della DDA), che hanno portato ad una condanna in primo grado a 3 anni e 4 mesi per abuso d’ufficio e frode in pubbliche forniture nel primo caso, e il caso di Lipari, dove l’accusa era di concussione in concorso e associazione a delinquere. Accuse e processi che però non inficiano la sua attività politica: dal 2012 è, infatti, Presidente del Consiglio Comunale del suo paese, Giarratana. Qui a ottobre 2013, è stata incendiata l’auto del Sindaco, Bartolo Giaquinta (ufficialmente per questioni legate ai migranti); incendi dolosi si registrano anche a Modica dove, nel 2010, sono stati dati alle fiamme i cassonetti della ditta Puccia, che aveva sostituito Giuseppe Busso nella gestione dei rifiuti del Comune ibleo. Fuochi e rifiuti Quello degli incendi pare un fenomeno largamente diffuso, soprattutto negli ultimi anni. A Pozzallo (dove contendono, nel settore ecologico, GeoAmbiente e Dusty srl) è bruciata l’auto del dirigente del Settore Ecologia del Comune; a Pachino sono bruciati (aprile 2014) due camion della ditta Busso ad Aprile 2014; a Vittoria sono bruciati sette cassonetti (qui, l'estate scorsa, la Sap ha sostituito l’Amiu); a Scicli, dove opera la stessa Eco.Seib srl, le bruciato tre cassonetti; e a Ispica, la cui gestione dei rifiuti è affidata ancora una volta alla Dusty srl. Segni di guerriglia, che stracciano sempre di più il velo di Maya (o il prosciutto sugli occhi...) dei tanti operatori, amministratori e cittadini che, come l’On. Dipasquale in quell’udienza citata all’inizio, amano immaginare Ragusa come una terra vergine su cui nessun conquistatore abbia mai messo piede, preservandola candida ed ignorante, quando invece è omertosa.


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Abruzzo/ Il caso Vasto

Fra speculazione edilizia e infiltrazioni criminali L'emblematica storia di una tranquilla cittadina della “Regione Verde d'Europa” di Alessio Di Florio Città costiera dell’Abruzzo poco distante dal confine con il Molise, Vasto è considerata da sempre un luogo di frontiera. Una frontiera tra la Regione che si vanta di essere la “Regione Verde d’Europa”, ma che negli ultimi anni ha tentato di realizzare fortissimi tagli (sia economici che geografici) ad alcune delle proprie aree protette, le ha spesso messe nel mirino per interessi di lobby particolari e vanta il record negativo di un Parco Nazionale (nel cui perimetro rientra Vasto) che da 13 anni attende di essere realizzato, e infiltrazioni criminali. Vasto non è una zona di guerra, come qualcuno disse anni fa con un paragone passato alla storia cittadina con considerazioni spesso non positive di cittadini e stampa locale, ma la guardia andrebbe tenuta la più alta possibile. E ci sono periodi in cui la cronaca ci consegna episodi di grave criminalità che ricordano più le guerre di camorra o di mafia che la tranquilla vita di provincia. Edilizia e spaccio di stupefacenti sono tra i settori in cui le organizzazioni criminali sono più presenti, soprattutto la camorra campana: anni fa furono sequestrati a Sandokan Schiavone terreni e immobili a Pizzoferrato, nell’Alto Vastese. Vasto è una città che, soprattutto negli ultimi 15 anni, ha subito una esponenziale crescita edilizia.

Una crescita quasi sempre senza grandi freni e che non ha risparmiato nessuna area della città. È una crescita di cui si stanno cominciando a vedere le conseguenze negative: zone della città diventate fragilissime (come le colline sopra Vasto Marina), una viabilità sempre più problematica, una rete idrica non più adeguata e che necessita sempre più di interventi di manutenzione. Su quest’ultimo punto gioca un ruolo decisivo la società di gestione del servizio idrico, accusata da cittadini, associazioni e movimenti di non effettuare gli investimenti dovuti su una rete idrica nella quale altissime sono le perdite. Il Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua Pubblica della Provincia di Chieti ha contestato per questo negli anni scorsi tale gestione, presentando anche un esposto in Procura e alla Corte dei Conti e un ricorso al TAR contro il Piano d’Ambito approvato nel 2009 che ha previsto aumenti delle tariffe fino al 2023, affermando che il Piano d’Ambito approvato nel 2003 prevedeva investimenti per 105.881.397 di euro mai effettuati, mentre errori di valutazione nelle previsioni del Piano avrebbero portato a 65.000.000 di euro in meno di ricavi. Il ciclo del cemento e le mafie Le mafie investono nel ciclo del cemento, tentando di farne la “lavatrice” dei propri fondi sporchi. Il caso vastese è citato addirittura in una pubblicazione a disposizione degli studenti dell’Università di Teramo. Lì dove prima c’erano solo terreni spuntano come funghi case, palazzi, appartamenti. In una città dove sono oltre 3000 gli appartamenti invenduti si continua a costruire. E le organizzazioni criminali si insinuano. Per il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri “questo è uno dei segnali più forti della presenza della 'ndrangheta”.

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Il riciclo del denaro sporco “Nella normalità infatti - dice Gratteri gli imprenditori costruiscono un primo lotto, vendono gli appartamenti già sulla carta e solo dopo aver recuperato i soldi iniziano i lavori di costruzione di altri edifici. Quando avviene il contrario, e si costruisce pur avendo un grande invenduto, lì c'è l'infiltrazione della criminalità organizzata che ricicla il denaro sporco”. Sono dichiarazioni rilasciate nel 2010 durante una visita in Abruzzo. Secondo un’inchiesta approfondita di un diffuso quotidiano regionale, le parole del procuratore Gratteri descrivevano perfettamente la situazione di Vasto. Vasto è stata la città dove nel 2007 fu sgominata la prima ‘ndrina totalmente abruzzese. Un’organizzazione legata ad un esule di camorra, Michele Pasqualone, che stava prendendo piede con la violenza, tramite intimidazioni, traffico di droga, estorsioni, attentati incendiari. L’inchiesta prese avvio dall’attentato ad un imprenditore locale, ma dopo gli arresti la situazione non si normalizzò. E l’anno successivo una nuova indagine, chiamata dagli inquirenti Histonium 2 (per sottolineare il legame con l’inchiesta – denominata Histonium – dell’anno precedente), documentò che la ‘ndrina non era stata totalmente sgominata e che dal carcere Pasqualone avrebbe continuato a guidarla. Una pratica, quelle degli attentati incendiari e delle auto bruciate, quest’ultima in realtà mai del tutto cessata negli anni successivi. Molto è legato al vandalismo e alla microcriminalità, ma resistono ancora presenze criminali di alto livello. E infatti nel gennaio 2012 l’operazione “Tramonto” della locale Procura ha sgominato tre organizzazioni facenti capo ad un esule di camorra, Lorenzo Cozzolino, residente nella vicina Gissi, grazie a indagini partite da alcuni incendi di auto.


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“Sistematico ricorso a violenza, attentati dinamitardi, conflitti a fuoco”

L'operazione “Tramonto” Nell’ambito dell’operazione “Tramonto” furono sequestrati ad alcuni degli arrestati beni per un valore ammontante a circa tre milioni di euro, tra cui tre immobili (due a Portici e uno a Roma) ed un terreno agricolo in provincia di Roma. E per la terza volta in pochi anni la Procura vastese ha disposto sequestri ai sensi del codice antimafia, dopo una pizzeria vicina al centro e una villa alla periferia nord di Vasto. Nell’agosto 2011 l’inchiesta “Il Pescatore” sgominò un’altra rete criminale dedita al traffico di uno stupefacente nuovo per il territorio, il cobret (un residuo dell’eroina), e interamente composta da giovanissimi (nessuno degli arrestati era sopra i 30 anni, e solo 24 ne aveva l’arrestato considerato il perno dell’attività di spaccio). Due mesi dopo, una nuova inchiesta coinvolse tutta la costa teatina, da Martinsicuro a Vasto. E sempre a Vasto viveva la coppia al vertice dell’organizzazione criminale. L'operazione “Adriatico” L’ultima grande inchiesta è soltanto di poco tempo fa. Ma stilare l’elenco di tutte le inchieste, le indagini, gli arresti e le condanne (che, in alcuni casi, ci sono state) richiederebbe troppo spazio. Una su tutte merita però di essere citata, non soltanto per la sua immensa portata ma anche perché da sola rappresenta perfettamente la situazione. Un’inchiesta nata proprio dalla stessa operazione Tramonto, dopo la quale secondo notizie di stampa Lorenzo Cozzolino è diventato collaboratore di giustizia, permettendo di ricostruire fittissime trame che avvolgevano la costa teatina. Il 6 febbraio di quest’anno, mentre il sole era ancora lontano dal riscaldare le strade cittadine, Vasto fu risvegliata da sirene spiegate e pale di elicottero volteggianti.

Si stava concludendo l’operazione Adriatico, probabilmente la più grande operazione antidroga e anticamorra finora avvenuta nella regione (o almeno in provincia di Chieti: solo L’Aquila del post terremoto dovrebbe aver visto numeri simili). Nelle ore successive, in una conferenza stampa alla quale partecipò il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, furono forniti i dettagli di un’operazione molto ampia che coinvolgeva varie zone del centro sud nelle province di Napoli, Salerno, Foggia, Latina e Ascoli Piceno. La rete criminale gestiva con modalità violente, intimidazioni, attentati, avendone preso con la violenza il pieno possesso, le piazze dello spaccio in tutta la costa teatina da Vasto fino a Francavilla. “Numerose intimidazioni e incendi” Nel periodo compreso tra il 2003 e il 2008, l’organizzazione (della quale sarebbero stati protagonisti secondo gli inquirenti anche personaggi riconducibili ai clan camorristici Vollaro e Di Lauro), “si rendeva responsabile, quale esecutore o mandante, di numerosi atti di intimidazione, tentati omicidi e incendi di autovetture e beni immobili; tali atti violenti sono stati anche rivolti ad alcuni appartenenti alle forze dell’ordine e loro familiari”. Integratasi nel territorio, sarebbe riuscita “anche a superare le resistenze di alcuni rom stanziali dediti autonomamente allo spaccio di droga detenendone prima del suo arrivo la gestione del mercato. Il gruppo, così strutturato, è riuscito a costringerli ad acquistare il narcotico dalla propria organizzazione e sottoporli alla propria egemonia”. Sparatorie in luoghi pubblici La Procura distrettuale antimafia ha documentato le modalità operative della rete criminale, che poteva contare sulla disponibilità di armi da fuoco, a volte utilizzate anche con “estrema disinvoltura” in

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luoghi pubblici, su diversi canali (sia nazionali che esteri) per l’approvvigionamento delle sostanze stupefacenti e i contatti con referenti calabresi e noti trafficanti di cocaina operanti in Olanda e Germania, e sulle modalità mafiose di affermazione sul territorio attraverso il sistematico ricorso alla violenza, ad attentati dinamitardi, a conflitti a fuoco, a pestaggi e ad altre gravi forme di intimidazione, perpetrate sia all’interno del sodalizio per consolidare le gerarchie interne, sia all’esterno per estendere la propria supremazia sul territorio. Un clan affiliato ai Casalesi Negli stessi giorni dell’operazione “Tramonto”, un’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) su un clan affiliato ai Casalesi ha lambito Vasto. Il collegio per l’applicazione delle misure di prevenzione del Tribunale campano ordinò il sequestro di appartamenti, auto, moto, rapporti bancari e sette società di capitali, per un totale di 35 milioni di euro. Un provvedimento del gip di Napoli, che fa riferimento ad indagini condotte dalla Dda su accusati di essere affiliati al clan Schiavone, portò a provvedimenti cautelari per 20 persone e a vari sequestri, compreso (secondo notizie fornite dalla stampa) un complesso edilizio di Vasto Marina. L'inchiesta “Mattone selvaggio” Tantissimi sono stati i sequestri di immobili negli ultimi anni. Nel solo 2011 furono 14, che si aggiunsero ad ulteriori 20 precedenti, “alcuni dei quali relativi a imponenti costruzioni o a lottizzazioni abusive” , come dichiara la Procura di Vasto nel Bilancio Sociale 2011. L’inchiesta “Mattone selvaggio”, il cui avvio è datato 2006, sei anni dopo, nell’Aprile 2012, ha portato ancora al sequestro di ulteriori 47 alloggi in una zona dove secondo gli inquirenti non era possibile costruire.


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Mafie

La 'ndrangheta? In ottima salute Uno sguardo alla cartella clinica della mafia calabrese, sempre più potente di Andrea Zolea www.wikimafia.it

La mafia calabrese da circa vent'anni si sta dimostrando l'organizzazione mafiosa più potente d'Italia. Ha una struttura unitaria e i 'locali' attivi in Calabria coordinano quelli presenti fuori dal territorio d'origine, siano essi in Lombardia, Germania, Australia o Canada. Oltre che di strutture, codici e regole, la 'ndrangheta è fatta anche di rapporti collusivi con il potere politico, di alleanze con potenti organizzazioni criminali e tanti, tantissimi soldi. Quali sono dunque le condizioni di salute della 'ndrangheta? A quali attività si è dedicata negli ultimi anni? In Calabria Il cuore dell'organizzazione e i suoi capi più influenti restano in Calabria. Ogni 'locale' di 'ndrangheta è egemone nel suo territorio e i boss si relazionano con i politici comunali attraverso rapporti di interscambio. Il controllo delle attività economiche municipali consente ai clan di garantire lavoro agli abitanti del territorio in cui le cosche esercitano il loro potere, permettendogli di mantenere, se non incrementare, il consenso e la legittimità sociale nei confronti dell’organizzazione. I continui scioglimenti comunali (26 dal 2011 ad oggi: 17 in provincia di Reggio Calabria, 6 nel vibonese, 2 nel cosentino e 1 nel crotonese) dimostrano come le ‘ndrine stiano letteralmente divorando la regione.

La terra dei fuochi non è solo in Campania: anche in Calabria si sono verificati casi di tumore dovuti allo smaltimento dei rifiuti tossici. I casi più inquietanti sono stati registrati nel crotonese e ad Africo (Reggio Calabria): in Via Matteotti, 35 persone su 170 hanno sviluppato una patologia tumorale . Corrado Alvaro, originario di San Luca, poeta, scrittore e giornalista, sulla sua Calabria scriveva '' La disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile''. E nella società calabrese questo è diventato più di un dubbio, purtroppo. “Core business”: cocaina L'attività più redditizia della mafia calabrese è il traffico internazionale di cocaina. Attraverso i rapporti con i cartelli colombiani e altri cartelli della droga sudamericani le cosche acquistano enormi quantitativi di cocaina. La 'ndrangheta è considerata da diversi anni la principale organizzazione nell'esportazione di cocaina in Europa. A dimostrazione di ciò, alcuni gruppi della Locride si sono avvalsi dell'alleanza con il broker Roberto Pannunzi, arrestato lo scorso luglio e definito dal magistrato della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri ''il più grande broker della cocaina al mondo'' . Diversi personaggi tutt’ora operano tra il Sud-America e l’Europa come broker del narcotraffico per conto di potenti ‘ndrine. Nel 2014, le Operazioni New Bridge e Buongustaio hanno confermato le ramificazioni internazionali dei clan calabresi. Nell'Operazione New Bridge (11 febbraio) sono emersi i rapporti tra il clan Ursino di Gioiosa Jonica e la famiglia Gambino di New York. L’importanza di questa indagine sta nell’aver fatto emergere come negli Stati Uniti la 'ndrangheta abbia soppiantato Cosa nostra siciliana sia nel traffico di cocaina che in quello di eroina. Il 20 marzo, poi, nell'Operazione Buongustaio sono stati coinvolti 9 polizie di Stati diversi: Italia, Brasile, Gran Bretagna, Spagna , Portogallo, Montenegro, Olanda, Belgio e Svizzera.

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Nel Nord-Italia Oltre all’arresto di 41 persone è emerso che per conto della 'ndrangheta hanno operato soggetti riconducibili ai clan CuaIetto-Pipicella di Natile di Careri. In 8 mesi nei porti brasiliani, belgi, spagnoli e italiani (Gioia Tauro in primis) sono stati sequestrati 1261 kg di cocaina purissima . Nelle inchieste svolte tra il 2010 e il 2012 è emerso come le strutture della 'ndrangheta attive in Lombardia, Liguria e Piemonte siano dipendenti dal 'Crimine' attivo in Calabria. La 'ndrangheta nel Nord-Italia gestisce gran parte del traffico di stupefacenti, del settore edile e delle costruzioni, pratica usura, intimidazioni e sempre più sta cercando di infiltrarsi nei settori dell'economia lecita. Sebbene la presenza sia diversa in termini quantitativi, oggi non c'è una regione al Nord immune all'infiltrazione della mafia calabrese. La 'new entry' che sempre più sembra soffrire la presenza dei clan è il Veneto. Se nel 1988 alcuni sindaci veneti minacciavano le dimissioni dagli incarichi istituzionali per la possibilità che i boss fossero spediti al confino sui loro territori, oggi la realtà è un'altra. Riguardo la presenza della ‘ndrangheta in Veneto, su una relazione realizzata dall'Osservatorio Ambiente e Legalità Venezia si parla di ''insediamento stabile e continuativo capace di attivare contatti e complicità del mondo politico e imprenditoriale‘”. All'interno della relazione della Dia del secondo semestre del 2012 si riporta '' le attività condotte dalla Dia[…] hanno consentito di segnalare nell'ovest veronese e nel vicentino la presenza di ditte, operanti in particolare nel settore dell'edilizia, riconducibili ad aggregati criminali di Cutro (Kr), Filadelfia (VV), Africo (Rc) e Delianuova (Rc)''. La trasmissione Report di Rai 3 ha recentemente trasmesso il filmato di una cena in cui erano presenti Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona, e Raffaele Vrenna di Crotone, definito dalla Dia come soggetto ''border line''.


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“Una macchina da voti” L'ex Assessore allo Sport del Comune di Verona (dimessosi lo scorso 1° aprile) Marco Giorlo ha ammesso che i calabresi sono ''una macchina da voti ''. Nel novembre 2013 si è inoltre dimesso il vice-sindaco Vito Giacino, arrestato nel febbraio del 2014 e coinvolto nell’indagine in cui sarebbero emersi dei rapporti con l'ex moglie di Antonio Papalia di Delianuova (Rc) ''legato alla cosca Vrenna di Crotone''. Dopo la trasmissione dell’inchiesta condotta da Milena Gabanelli, il consigliere comunale Alberto Giorgetti ha presentato una richiesta formale di accertamento per infiltrazione mafiosa al Prefetto di Verona . Il Comune, fiore all'occhiello dell'identità padana, potrebbe essere sciolto per mafia?

Tra il marzo 2013 e 2014, in seguito alle Operazioni Metropolis e Mariage la Guardia di Finanza ha sequestrato alle famiglie Morabito (Africo) e Aquino (Marina di Gioiosa Jonica) beni dal valore di 1 miliardo e 70 milioni di euro per la costruzione di complessi turistici in Calabria. Le due cosche si sono spartite le rispettive zone di influenza dell’area jonica della provincia di Reggio Calabria: da Siderno fino alla città di Reggio Calabria era zona di competenza dei Morabito, mentre da Siderno fino all'inizio della provincia di Catanzaro degli Aquino. Le cosche Morabito-Aquino rappresentano l'élite della mafia calabrese: quando è stato arresto il patriarca Giuseppe Morabito 'u tiradrittu nel 2004, l'allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centraro lo definì ''ben più importante di Provenzano'', e considerando il potere economico di cui dispone il clan Morabito la dichiarazione di Centraro sembra tutt'altro che fuori luogo.

Il patto coi messicani Gli Aquino sono stati i promotori del patto tra 'ndrangheta e Los Zetas, il cartello della droga più influente del Messico. Risultano inoltre ramificazioni soprattutto in Canada e negli Stati Uniti. Gli investimenti mastodontici nelle località turistiche in Calabria e gli imponenti sequestri di cocaina dimostrano l'enorme liquidità finanziaria dei clan calabresi. Sempre più spesso si verificano casi di insediamento stabili e rapporti collusivi con l'imprenditoria e la politica in zone esterne al territorio d'origine: le cosche calabresi sono presenti in tutti e 5 i continenti, trafficano tonnellate di droga, in Europa riciclano notevoli quantitativi di denaro senza essere puniti a causa della farraginosa legislazione antimafia fuori dai confini italiani. Nonostante ciò, il cuore del potere della 'ndrangheta resta in Calabria.

Un comunicato dei Comitati NoMuos

GOVERNO E SENATO APPROVANO IL MUOS

Il sistema di comunicazione satellitare, al suo primo passaggio in un’aula del parlamento, riceve il benestare dal governo e dalla maggioranza. Il Partito Democratico, infatti, ha presentato e fatto approvare una mozione in palese contrasto con le richieste portate in aula dai comitati No Muos attraverso la mozione presentata da SEL e M5S. La mozione approvata non solo non ferma i lavori del mostro, ma si limita a prevedere compensazioni pecuniarie in caso di “danni accertati alla popolazione” e monitoraggi. Prima ci ammazzano e poi ci risarciscono. Non sono state tenute in alcun conto le richieste dei comitati No Muos riguardanti la salute umana, attraverso l’applicazione del principio di precauzione, l’impatto ambientale e l’utilizzo del sistema satellitare per scopi bellici da parte degli Stati Uniti. Un asservimento totale alla politica bellica degli Usa, una visione miope di fronte a quanto sta accadendo nel mondo e che

relega la Sicilia e l’Italia all’eterna schiava del padrone americano. La mozione inoltre esclude i comitati No Muos da ogni luogo di dibattito, delegittimando chi da anni si batte contro l’installazione delle parabole e delegando a rappresentare la popolazione gli stessi enti locali che l’hanno svenduta e tradita. Durante la discussione non sono mancate le sorprese: dalla Lega Nord che ha proposto l’utilizzo del Muos in funzione antimigrante a Gioacchino Alfano (NCD) che ci hanno ricordato che le installazioni militari non sono sottoposte a concessione edilizia. Un permesso implicito di cementificare, distruggere, inquinare insomma, anche dentro una sughereta. Dallo squallore emerso durante la discussione in aula non ci resta che riaffermare pratiche che nulla hanno a che vedere con chi il Muos l’ha sempre e fortemente voluto e sostenuto. Coordinamento dei Comitati No Muos

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Milano

Il processo Zambetti Voto di scambio, estorsione, detenzione di armi, corruzione, sequestro di persona... di Ester Castano www.stampoantimafioso.it Milano, Palazzo di Giustizia. “Grillo parlante” si sposta in Corte d’Assise: il processo che vede coinvolti l’ex assessore della regione formigoniana Domenico Zambetti, politici lombardi e presunti affiliati di ‘ndrangheta, lascia l’Ottava sezione penale e prende casa al secondo piano del tribunale milanese di viale Freguglia. Voto di scambio, estorsione, detenzione di armi, corruzione e sequestro di persona: questi i reati ascritti agli imputati arrestati ad ottobre 2012 e chiamati oggi in aula per l’udienza preliminare. Presenti fra i banchi degli imputati Alfredo Celeste, ex sindaco Pdl di Sedriano, il primo comune lombardo sciolto per mafia lo scorso autunno, e Silvio Marco Scalambra, il medico chirurgo del pavese marito di una consigliera comunale dell’ex giunta di centro destra sedrianese accusato di corruzione con promessa. E’ la difesa Celeste a prendere per prima la parola: l’avvocato Giorgio Bonamassa dichiara l’incompatibilità dell’udienza svolta in Assise in quanto, secondo il legale, non vi sarebbe connessione fra tutti i capi d’imputazione.

Bonamassa sostiene che la Corte non avrebbe competenza sulla totalità dei crimini contestati dal pubblico ministero, e propone di trattare il sequestro di persona, per l’accusa attuato da Eugenio Costantino e affiliati del clan Di Grillo-Mancuso separatamente dagli altri reati. E’ il pm a rispondere all’eccezione di Bonamassa: “L’accusa rigetta l’eccezione di incompatibilità. Da una parte ci sono fatti di mafia ad sensum, cioè in senso stretto, come l’estorsione; dall’altra vi è l’ambito politico-economico che si traduce nei reati di corruzione: non è possibile leggere i due aspetti separatamente fra loro in quanto il fine di entrambi è di affermare e rafforzare il prestigio del medesimo gruppo criminale: l’ambito politico corrotto qui preso in esame va ad agevolare l’associazione denominata ‘ndrangheta. Il processo deve rimanere in Corte d’Assise”. Dello stesso avviso le parti civili: gli avvocati di Regione Lombardia, Comune di Milano, Comune di Sedriano e Aler si pronunciano in accordo col pubblico ministero. Il presidente della prima Corte d’Assise Guido Piffer delega invece la decisione alla Cassazione che, entro l’estate, determinerà se i reati saranno trattati nello stesso tribunale o se il sequestro di persona verrà gestito da un’altra corte. E’ possibile anche, spiegano i giudici, che la Cassazione opti per una via mediana di fatto annullando il conflitto. Tutto ruota attorno a quel sequestro di persona a scopo estorsivo messo in atto il 26 marzo 2011 da Eugenio Costantino assieme a presunti affiliati del clan Di Grillo-Mancuso: un venditore di preziosi

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si era recato al Compro Oro di proprietà di Costantino per vendere diamanti falsi, e una volta scoperta la truffa il presunto boss caricava il truffaldino su una vettura, gli dava quattro scappellotti e lo portava a Cuggiono, nel magentino, nella cosiddetta “casa bunker” del 37enne Sabatino Di Grillo, già condannato con rito abbreviato in primo grado a dieci anni di carcere. L’uomo veniva rilasciato qualche ora dopo in cambio di denaro. Il Comune parte civile Altro punto sollevato dalle difese è l’incompetenza a costituirsi parte civile del Comune di Milano. E qui i giudici rispondono prontamente: “La raccolta di voti ha riguardato gli elettori milanesi e la politica milanese: il Comune è legittimato già in quanto interesse diretto nelle consultazioni elettorali”. Ad ogni modo, nulla riguardo l’eccezione di conflitto sarà deciso prima di luglio, per cui la prossima udienza si terrà non prima di due mesi, motivo per cui il pubblico ministero chiede la sospensione dei termini di custodia per l’unico imputato sottoposto a custodia, Eugenio Costantino: il presunto affiliato di ‘ndrangheta è agli arresti domiciliari presso una clinica psichiatrica in seguito a problemi di salute che il Tribunale ha ritenuto incompatibili con la detenzione in carcere. Tutti gli altri imputati, incluso Domenico Zambetti, non hanno alcun vincolo alla propria libertà personale. Di certo, ad oggi, c’è il calendario delle udienze: il processo si svolgerà con frequenza bisettimanale da settembre a dicembre 2014.


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Trattativa

Scotti: ”Io non so niente” "Nessuno me ne ha riferito, se ne assumeranno responsabilità" di Miriam Cuccu www.antimafiaduemila.com A maggio era stato chiamato a deporre dinanzi alla Corte d'Assise di Palermo per essere esaminato dai pm del processo trattativa Stato-mafia. L'udienza del 13 giugno prevedeva invece per Vincenzo Scotti, nel '92 ministro dell'Interno fino al 28 giugno, giorno in cui con la formazione del governo Amato verrà misteriosamente sostituito da Nicola Mancino (imputato al processo per falsa testimonianza, ndr), il controesame degli avvocati difensori. Rispondendo alle domande del legale Milio, Scotti ha approfondito l'aspetto del 41bis, per cui “noi avevamo già tentato con altri decreti precedenti di intervenire sul rapporto tra capi mafiosi in carcere e quelli che sono all'esterno” e delle eventuali perplessità ad esso connesse. “Questo Paese nella lotta alla mafia” ha sempre avuto, ha ricordato Scotti “due grandi filoni che si sono spesso alternati: uno tendente a ridurre la mafia entro confini controllati, in uno scambio di istituzioni, dall'altra parte la tesi della necessità di fare un'azione 'di guerra' nei suoi confronti”. Pertanto, ha aggiunto “le opposizioni furono quelle che conosciamo” relative al decreto legge dell'8 giugno '92, che introduceva una serie di drastiche misure per la repressione mafiosa e che rischiò di non essere approvato, almeno fino alla strage di via D'Amelio: “Bisogna scindere quelle che erano opinioni tecniche, che avevano fondamento nella dottrina e nella giurisprudenza, e quelle che erano chiaramente pretestuose per impedire e rendere sempre più complicato il procedimento di conversione in legge del decreto”. Stragi e informative: “Un intreccio tra mafia e altro”

In merito ai rapporti con le forze dell'ordine Scotti ha precisato che i generali Mori e Subranni e il colonnello De Donno (tutti imputati al processo, ndr) “non avevano accesso diretto al ministro”. Ne conseguiva che, da parte loro, mai ricevette notizie di progetti di stragi da parte di Cosa nostra, o di minacce incombenti perchè solo “il Capo della Polizia, il Comandante dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, i capi dei Servizi e il direttore della Dia” avevano contatti diretti con l'allora ministro degli Interni. Oltre “al vice della Dia, Gianni De Gennaro”. “Non so quindi – ha detto l'ex ministro – se quelle notizie siano poi passate attraverso rapporti dei servizi o dei capi delle forze dell'ordine”. Sulle due lettere provenienti da Ciolini, noto depistatore legato alla destra eversiva e ai Servizi, che assicurava l'imminente pianificazione di atti terroristici, ha proseguito Scotti, “chiesi di fare un'inchiesta su come il Corriere della sera fosse venuto in possesso del testo e avesse fatto esplodere il dibattito politico in Parlamento, perchè eravamo in campagna elettorale e si stavano acquisendo, da parte del dipartimento della polizia, elementi più specifici”. In quel momento la diffusione dell'informativa contenente le indicazioni di Ciolini “aveva creato preoccupazione” in un momento in cui “la mafia aveva cambiato strategia” ricorrendo alle bombe che inizialmente scoppiarono a Capaci e in via D'Amelio, per poi passare l'anno dopo nel continente a Firenze, Roma e Milano. Le informative diffuse in seguito denotavano un'unica regia dietro il disegno terroristico che si andava evidenziando?, ha chiesto l'avvocato Romito, per la difesa De Donno: “No, era qualcosa di molto più complesso – ha invece replicato Scotti – un intreccio tra criminalità organizzata e altro”. È proprio questo 'altro' ad interessare i pubblici ministeri di Palermo che si occupano del processo e delle indagini sulla trattativa tra mafia e Stato, per individuare le responsabilità di chi consapevolmente intavolò un dialogo con i boss mafiosi.

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Scotti, di concerto con l'allora ministro della giustizia Martelli e, prima della strage di Capaci, con il giudice Falcone agli Affari penali, stava avviando una vera e propria azione repressiva nei confronti di Cosa nostra. Poi venne drasticamente interrotta, e al suo posto subentrò alla direzione del Ministero degli Interni Nicola Mancino: Scotti, rispondendo alle domande dell'avvocato Piromallo, ha riferito di non aver avuto nessuna notizia in anteprima “nemmeno dai giornali, che i giorni precedenti indicavano Mancino come ministro del lavori pubblici”, tanto che "appresi della mia sostituzione dalle dichiarazioni dell’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato". Alla domanda su quale fossero i rapporti con Mancino, Scotti ha risposto: “Non facevamo parte della stessa ‘congrega’ quindi non avevo con lui rapporti politici, avevo avuto qualche contatto nella mia funzione da ministro in riferimento all’esame di provvedimenti al Senato, ma solo in riunioni collegiali”. Dopo essere stato spostato agli esteri, Scotti ha dichiarato che: “Istituii un ufficio ad hoc per cooperare con il ministero della giustizia in tema di procedimenti e indagini internazionali” in quanto “avevo sperimentato al Ministero degli Interni quanto una rete diplomatica fosse necessaria” oltre alla convinzione che “la lotta alla mafia non fosse questione di uno o due ministri, ma una corresponsabilità del governo e una convergenza di azioni ed impegni nel suo insieme”. Nel settembre '92, dopo aver rassegnato a fine luglio le dimissioni dal ministero degli esteri, Scotti organizzò un incontro presso la sua abitazione con Mino Martinazzoli, nuovo segretario nazionale della Dc, il Capo della Polizia Parisi e il Capo dello Stato Maggiore dei Carabinieri Pisani per informare loro “di quelle che erano state le mie nozioni e che avevo già riferito in parlamento” in merito alla situazione in cui “si intrecciavano azione criminale stragista e debolezza politica” in quanto vi era anche “la necessità che il partito assumesse iniziative di sostegno a una lotta forte e fosse consapevole che questa era la priorità assoluta per il Paese”.


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Italia/ Uno bianca e Falange Armata

L'eccidio dell'armeria Primi anni Novanta: un nuovo terrorismo si affaccia sulla scena. Debutta con una strage. Altre seguiranno. Eppure, è riuscito a farsi dimenticare... di Giovanni Spinosa e Antonella Beccaria La mattina del 2 maggio 1991, nel centro di Bologna, mentre un uomo resta sull'uscio dell'armeria di via Volturno, un altro entra e chiede a Licia Ansaloni una pistola Beretta 98F. La scarrella. S'intrattiene a lungo. Una coppia di ragazzi che aveva marinato la scuola passa, chiede delle informazioni e va via. Poi arriva un frequentatore abituale dell'armeria, sente uno scambio di battute e si allontana a sua volta. Infine entra Pietro Capolungo, l'ex carabiniere in pensione che lavora nell'armeria. È a quel punto che il cliente che aveva chiesto di vedere la pistola estrae un caricatore portato con sé, lo inserisce nell'arma, spara e uccide la proprietaria e il suo commesso. Il bilancio di quel duplice delitto è di due Beretta 98F. E, mentre un blackout isola la zona, il cliente abituale giunto poco prima rientra da una porticina laterale e trova i due cadaveri. Agli investigatori fa una descrizione dell'uomo che scarrellava l'arma utile a tratteggiare un dettagliato identikit della persona. Un passante descrive la persona ferma sulla porta.

A confessare gli omicidi di Licia Ansaloni e Pietro Capolungo saranno i fratelli Roberto e Fabio Savi. Il primo, soprannominato “il corto”, era rimasto fuori e suo è il volto che emerge dall'identikit; invece il secondo, “il lungo”, era all'interno, ma il ritratto della polizia consegna una immagine totalmente diversa. Non solo. Il teste a cui viene fatta ascoltare la voce di Fabio Savi rimane perplesso: quello slang romagnolo lo sconcerta ulteriormente. Ma perché uccidere i due commercianti? Sul movente c'è il buio, ma a rivendicare quel fatto giungono tre telefonate di un misterioso gruppo, la Falange Armata, nelle quali si sostiene di aver voluto “evitare che smagliature di alcun genere possano avvenire nei meccanismi dell'organizzazione”. Dalla Uno bianca alle stragi di mafia All'eccidio di via Volturno seguono venti azioni di una furia omicida senza pari (tre morti, nove feriti e un bottino irrisorio). Azioni che collegano le armi rapinate il 2 maggio 1991 alla precedente storia criminale della banda, ma il 28 agosto di quell'anno ecco che si presenta la svolta contenuta sempre in un falangista: “Il commando che ha agito in Romagna è stato disattivato”. A quel punto, infatti, finisce la fase apertamente terroristica della banda. Dopo di allora, solo rapine in banca (delitto mai comparso prima) e i nuovi omicidi gratuiti (Massimiliano Valenti, Carlo Poli e Ubaldo Paci) avvengono comunque sotto lo schermo degli assalti agli istituti di credito. I falangisti, negli anni a seguire, continuano nella loro opera di terrorismo mediatico mantenendo le distanze dai nuovi delitti della Uno bianca. Tanto che il 25 settembre, in un comunicato all'Ansa di Napoli, precisano che il “disarmo” del

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commando era limitato alla attività che avvengono in Emilia Romagna. Non a caso, proprio in quel periodo, il terrorismo mediatico degli ignoti (tuttora) terroristi della Falange si salda con le progettualità eversive di Cosa nostra che, contemporaneamente, (ottobre 1991, settembre secondo le dichiarazioni di Leonardo Messina) inizia le riunioni di Enna. Qui, infatti, secondo vari pentiti soprattutto catanesi, la mafia siciliana decide di usare la sigla “Falange armata” per rivendicare le future azioni di guerra allo Stato. Una particolarità sta nel fatto che toni, gergo e inflessione usati prima e dopo l'autunno 1991 non cambiano. Per esempio è sempre tedesco l'accento che si sente nelle rivendicazioni dell'omicidio di Umberto Mormile (11 aprile 1990), della strage del Pilastro (4 gennaio 1991), dell'eccidio dell'armeria (2 maggio 1991) e della strage di Capaci (23 maggio 1992). Dunque non sembra esistere una Falange Armata della Uno bianca e una di Cosa nostra. Illuminante, a proposito di quanto detto finora, il comunicato fatto pervenire all'Adnkronos il 25 febbraio 1993 dopo l'omicidio Valenti: “La Falange Armata esclude ogni suo diretto collegamento nell'episodio di Zola Predosa nel bolognese, ammette nondimeno di aver riarmato alcuni suoi gruppi di fuoco operanti fino a due anni fa quasi esclusivamente in Emilia Romagna e di avere apprestato piani di utilizzo operativo e strategico di questi gruppi anche nelle regioni Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia, contro obiettivi da tempo prescelti”. Ecco quindi che si conferma la presa di distanza dalla Uno bianca, si evocano altri eventi (il fallito attentato in Puglia del 6 gennaio 1992 contro il treno degli emigranti rivendicato dalla solita voce con accento tedesco) e si “prevede” la stagione stragista del 1993 a Milano, Firenze e Roma.


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“Fiction improbabili e bugie macroscopiche hanno offuscato la vera dimensione di questa storia” I Savi trafficanti di armi Torniamo alla Uno bianca e alla fine del 1991. I Savi si recano in Ungheria per acquistare barba e baffi posticci da usare in future rapine in banca. Apparentemente è il prodromo della nuova fase. Perché andare fino in Ungheria per questo? Il vero motivo di quel viaggio in realtà è un altro: entrare in contatto con esponenti della criminalità ungherese e di altri Paesi dell'est iniziando un traffico d'armi – si parla di centinaia di Kalashnikov –, munizioni ed esplosivi. Quando Fabio Savi ha parlato di quelle trasferte, le ha attribuite a imprese galanti. Invece Alberto Savi, il terzo dei fratelli, parlando con i propri compagni di cella ha spiegato che il loro vero business non erano le rapine, ma il traffico di armi con elementi della criminalità catanese e campana. Indica i nomi, le attività e le modalità con cui Roberto si rapportava con costoro. Inoltre a casa dei due più anziani fratelli Savi, oltre alle armi usate per commettere gli omicidi, sono state trovate molte altre armi provenienti dai paesi dell’est, tra cui mitragliatori, pistole, fucili, caricatori, polvere da sparo, strumenti per ricaricare le munizioni detonatori, esplosivi, inneschi e sostanza chimiche. Per Alberto, questa santabarbara era solo il 10 per cento di quella a disposizione della banda. Ma i Savi quando diventano trafficanti d'armi? Non nel 1991, ma sin dall'inizio della loro storia criminale. Nel 1987 li troviamo impegnati nel furto di esplosivo da cava nei pressi di Novafeltria. Poi li conosciamo nell'insolito e modesto ruolo di raccoglitori di bossoli nei poligoni di tiro. Il 27 aprile 1990, Roberto Savi acquista nell'armeria di via Volturno 453 grammi di polvere da sparo sfusa. La circostanza in sé non sarebbe eclatante se non fosse per la determinazione con cui la nega anche di fronte all'evidenza dei registri degli acquisti. Insomma, ammette il duplice

omicidio dell'armeria, ma nega l'acquisto effettuato, una traccia pericolosa di cui Licia Ansaloni e Pietro Capolungo, potenziali “smagliature”, non hanno potuto parlare. I giochi di prestigio della Falange L'argomento dei traffici di armi dei Savi sembra secondario di fronte dell'orrore di ventiquattro morti. Ad esempio, viene persa la traccia di tale Guglielmo Ponari, un pregiudicato catanese, “persona qualificata dall'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso” (tribunale di Catania, 11 febbraio 1991) e “abile costruttore e modificatore di armi da fuoco [...] famoso per la [...] versione italiana della pennapistola” (Uoi, 24 ottobre 1995). È colui che Alberto Savi indica – e vi sono riscontri – come il referente di Roberto per la produzione di silenziatori e l'elaborazione dei calibri. Ecco dunque che viene evocata la provenienza catanese di rapinatori e capimafia che, con depistatori neofascisti coinvolti nella strage dell'Italicus del 4 agosto 1974, presunti massoni e certi latitanti, preparavano – secondo i primi processi – le iniziali rapine della Uno bianca. Viene evocato, anche, il contesto criminale in cui si inseriscono le rivendicazioni falangiste dopo la “disattivazione” del commando emiliano-romagnolo.

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D'altra parte, i collegamenti dei Savi con bande di rapinatori catanesi avrebbero dovuto essere pacifici sin dall'inizio vista la contiguità di Roberto con una rapina per cui erano stati condannati pregiudicati che da quell'area provenivano. Inoltre, in tale rapina era stato condannato in via definitiva anche tale Leonardo Dimitri di cui, in primo e secondo grado, era stata affermata la responsabilità per colpi riconducibili alla Uno bianca. Senonché la Falange Armata, dalla fine del '91, sembra preparare il terreno per le future confessioni di Fabio e Roberto Savi (definiti “terroristi idioti e incapaci” quando vengono arrestati) secondo i quali la Uno bianca sarebbe solo l'opera di un pugno di rapinatori in divisa. Mandanti di se stessi. Una campagna di delegittimazione Dimitri, rapinatori catanesi, depistatori fascisti e strani personaggi vengono assolti in un clima in cui sembravano esistere solo il corto e il lungo. Una campagna di delegittimazione ha affidato a questa immagine sette anni e mezzo di delitti firmati Uno bianca. Un'immagine che si è progressivamente sovrapposta alle precedenti di cui restava solo l'eco delle nefandezze È abbastanza nitida, quell'immagine, per spiegare origine e natura del folto gruppo di banditi che assaltava le Coop? Che dire, per esempio, del “biondo” che sparava ai lavavetri o dei quattro che miravano al cittadino tunisino o, ancora, dei due individui con i capelli impomatati seduti dietro nell'auto che prese a colpi d'arma da fuoco i carabinieri a Miramare di Rimini? Fiction improbabili e bugie macroscopiche hanno finito con l’offuscare la vera dimensione della Uno bianca e introdurre scetticismo per le rivendicazioni falangiste, ridotti a megalomani e millantatori. Come voleva la Falange Armata.


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Antimafia

Testimoni di giustizia Proposte di tutela Nadia Furnari in audizione presso la commissione antimafia di Associazione Antimafie Rita Atria www.ritaatria.it Il 13 giugno Nadia Furnari, del direttivo nazionale della nostra associazione, è stata ascoltata dal V comitato della commissione nazionale antimafia, sul tema dei Testimoni di Giustizia. Durante l'audizione sono stati affrontati alcuni punti da sempre oggetto di riflessione da parte dell'associazione antimafie "Rita Atria" come: Tutor, situazioni Situazioni Borderline, coinvolgimento consapevole nelle fasi della protezione, località segreta, lavoro e necessità di rivedere non solo la legge 45 del 2001 ma soprattutto regolamenti, strmenti e personale addetto alla protezione. Il primo dossier sui Testimoni di giustizia fu scritto proprio da Nadia Furnari nel 1997. Di seguito si riportano le proposte che l'associazione fece al sottosegretario De Stefano nel febbraio 2013 in seguito ad un incontro presso il Viminale. *** Documento inviato il 18 febbraio 2013 al Dott. De Stefano i qualità di Sottosegretario del Ministero degli Interni con delega ai Testimoni di Giustizia La legge 45/2001, benché molto più completa della norma precedente, non ha analizzato né risolto alcuni gravi problemi che hanno afflitto gran parte dei testimoni, senza peraltro trovare completa ed efficace applicazione nemmeno per le problematiche riconosciute nella sua stesura. L’Associazione precisa che non rappresenta i Testimoni di Giustizia, né è stata delegata a farlo ma, come da statuto, è impegnata in tutti i casi in cui i cittadini italiani mostrano di condividere gli ideali antimafia, anticorruzione e di contrasto al malaffare in genere.

Questi cittadini hanno sempre trovato condivisione e sostegno nell’Associazione tanto che alcuni vi hanno aderito, non essendo ciò discriminatorio nei confronti di chi non ha inteso farlo, e che potrà contare comunque in un pronto sostegno per ottenere il rispetto dei diritti e della propria dignità. L’Associazione non prospetta soluzioni premiali per i testimoni, per aver tenuto un comportamento che dovrebbe essere considerato un normale atto di dovere civico. Al contrario, non è moralmente accettabile far ricadere le gravi conseguenze di un simile atto esclusivamente su chi l’ha compiuto e sulla sua famiglia. Un atto di sostegno che andrebbe attuato immediatamente è un tutoraggio psicologico fin dall‘inizio della collaborazione con gli inquirenti. Infatti, è difficile trovare un testimone o un nucleo familiare di testimoni che non abbiano avuto bisogno di supporto psicologico che si rivela tanto più efficace quanto più è tempestivo: probabilmente andrebbe attuato prima ancora dell’avvio del programma speciale di protezione che solitamente viene preceduto da misure provvisorie di protezione. Raccogliendo l’invito a produrre un documento più articolato a sostegno di quanto sinteticamente illustrato nel corso dell’incontro del 4 febbraio scorso tra i rappresentanti dell’Associazione Antimafie “Rita Atria” ed il Sottosegretario al Ministero dell’Interno, Dott. Carlo De Stefano, si prospettano le necessarie integrazioni al testo della L.13 febbraio 2001 n.45 per un più efficace intervento a sostegno dei “testimoni di giustizia”. Art. 16-ter – integrazioni ai commi esistenti: Alla fine del comma 1 lettera a , si dovrebbe aggiungere: se, pur in presenza di attestazioni di non cessato pericolo nel territorio di provenienza, si dovesse procedere alla revoca delle misure speciali, su richiesta dell’interessato dovrà essere convocata una audizione da parte della Commissione Centrale per la verifica dei fatti, finalizzata al ripristino delle misure revocate e/o al risarcimento dei danni eventualmente subiti.

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Le associazioni antimafia All’audizione potrà essere presente un legale e/o un rappresentante di un’Associazione Antimafia /Antiracket, se richiesto dall’interessato. Nota: se il pericolo fosse immutato nel territorio di origine, non potrà essere valutata come misura di protezione sufficiente la condizione di vivere lontano dal luogo dove è più concreto il pericolo, legittimando così una situazione di perenne esilio con conseguenze morali e materiali non contrastabili. Alla fine del comma 1 lettera d , si dovrebbe aggiungere: al momento della ripresa in servizio, si procederà al recupero delle progressioni economiche e/o di carriera eventualmente perdute nel periodo di aspettativa retribuita. Al comma 2 si dovrebbe aggiungere: le misure saranno mantenute inoltre, fino alla completa guarigione da malattie o disfunzioni, fisiche o psichiatriche, determinate da fattori dipendenti dalle conseguenze della testimonianza, per causa o per concausa predominante, da accertare da apposito collegio medico. In alternativa alla guarigione, dovrà essere riconosciuto un equo risarcimento e/o un trattamento pensionistico privilegiato a carico dell’Istituto previdenziale di pertinenza, in analogia al trattamento garantito agli appartenenti alle Forze Armate e ai Corpi di Polizia. Art. 16-ter: al comma 1 lettera d , occorre specificare che "Il tenore di vita personale familiare esistente prima del programma" , deve intendersi comprovato e relativo a redditi di natura lecita. Nota : Questa precisazione è resa necessaria dall'esigenza di evitare ogni possibilità di confusione tra la figura del "Testimone di Giustizia" e quella del "Collaboratore di giustizia" che , spesso , è un soggetto borderline (testimoni provenienti da ambienti dai quali desidera dissociarsi ma il cui tenore di vita è stabilito da introiti criminali e quindi non può essere oggetto di stima.


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Un appello BASTA IMPUNITA' PER CHI DEPISTA

www.liberainformazione.org I depistaggi sono stati lo strumento utilizzato dai responsabili materiali e morali delle vicende stragiste e di terrorismo del nostro Paese per rallentare, se non bloccare, le inchieste e per impedire l’accertamento di fatti delittuosi gravissimi sulle stragi che da piazza Fontana al 1993 hanno insanguinato l’Italia. Un capitolo ancora non completamente scritto, fatto di omissioni, bugie, distruzioni di documenti, emersi giudiziariamente, compiuti da pubblici ufficiali inseriti negli apparati dello Stato. L’introduzione di un reato specifico che sanzioni penalmente il comportamento omissivo e occultante diviene improcrastinabile. L’attuale ordinamento si è limitato a prevedere, per casi simili, solo i reati di falsa testimonianza, calunnia, omissione o soppressione di atti d’ufficio, senza evidenziare le conseguenze che tali condotte hanno sul piano penale e della verità. Un’impunità non più tollerabile per le conseguenze che quelle condotte hanno causato, e potranno causare, a danno della società e della giustizia. Per questo chiediamo al presidente del Consiglio Matteo Renzi, e ai presidenti di Camera e Senato, Pietro Grasso e Laura Boldrini, di calendarizzare e votare la proposta di legge n. 559, presentata dall’on. Paolo Bolognesi – all’esame della Commissione Giustizia – che introduce, dopo l’art. 372 del codice penale, il reato di depistaggio per i pubblici ufficiali che occultano la verità all’autorità giudiziaria - totalmente o parzialmente - non solo per i fatti di terrorismo e strage, ma anche per vicende legate all’associazione mafiosa, traffico di droga, traffico illegale di armi e di materiale nucleare, chimico o biologico. Pena la sanzione della reclusione da sei a dieci anni. E’ un appello che intendiamo promuovere in tutte le sedi istituzionali, coinvolgendo anche la società civile, perché non possiamo accettare che il nostro Paese continui a regalare ai depistatori in divisa l’immunità penale e morale dalla verità e dalla giustizia. Primi firmatari: Giovanni Bachelet, Benedetta Tobagi, Manlio Milani, Giovanna Maggiani Chelli, Maddalena Rostagno, Sabina Rossa, Silvia Piera Calamandrei, Luigi Ciotti, Giuseppe De Lutiis, Sergio Flamigni, Ilaria Moroni, Cinzia Venturoli, Antonio Iosa, Giuseppe Amari, Anna Vinci, Filippo Vendemmiati, Donata Zanotti, Antonella Beccaria, Riccardo Lenzi, Mattia Fontanella, Isabella Filippi, Monica Benati, Susanna Pederzoli, Massimiliano Martines, Daria Bonfietti, Stefania Pellegrini, Lorenzo Frigerio, Elisabetta Roveri, Emilia Lotti, Claudio Torrisi, Sara Donini, Stefano Cuppi, Letizia Cortini, Romano Alidori, Umberto Santino.

In tal modo si può limitare il rischio che, quello del testimone, possa trasformarsi da, atto di civile abnegazione (quando è sincero) in “opportunità” di illecito arricchimento a danno dello Stato e della Giustizia (quando è frutto di calcolo). Un punto di riferimento e sostegno All’art. 16-ter dovrebbero essere aggiunti i seguenti commi: Comma 4 – Il Tutor Sin dall’inizio della collaborazione con il magistrato, il testimone di giustizia dovrà essere affiancato da un Tutor per garantire un punto di riferimento a sostegno. Il tutor dovrà interfacciarsi con le istituzioni al fine di garantire prevalentemente un sostegno psicologico e quindi intercettare/impedire/limitare l’insorgenza di problemi che possono condurre a malattie psichiatriche o a gesti eclatanti come il suicidio o il ritorno nella terra di origine. Il Testimone deve sentirsi parte delle scelte che vengono prese sulla sua vita. Oggi, il Testimone appare spesso considerato come una specie di “minus habens”, escluso dalla determinazione e definizione del proprio percorso e progetto di protezione, come se si trattasse di una specializzazione riservata agli “eletti”, e dunque senza aver assolutamente mediato in questo specifico campo quantomeno quella cultura del “consenso informato” che ormai in medicina e salute è un dato privo di spazi di mediazione. Il Tutor dovrà essere una vera e propria “Guida” capace di mediare e capace di aiutare il Testimone nella difficile impresa di equilibrio tra esigenze di sicurezza e qualità della vita. Comma 5 - Contribuzione Previdenziale I testimoni di giustizia beneficeranno di contribuzione previdenziale dall’inizio della collaborazione alla definitiva cessazione delle speciali misure di sicurezza. La contribuzione sarà di prima iscrizione per i testimoni sprovvisti di precedenti versamenti contributivi mentre, sarà effettuata, senza soluzione di continuità, per quanti già iscritti ad Istituto previdenziale. Comma 6 – reinserimento lavorativo Ai testimoni di giustizia si riconosce uno status paragonabile a quello posseduto dagli appartenenti alle “categorie protette”

per facilitare il reinserimento lavorativo, oltre a un titolo valutabile con punteggio aggiuntivo a quello dei titoli già posseduti, nella partecipazione a pubblici concorsi. Per quelli che non hanno perduto il lavoro, come i dipendenti pubblici, occorre far recuperare il tempo perduto ai fini della carriera e della progressione economica. Non appare equo pretendere per i testimoni un posto di lavoro pubblico per il solo motivo di essere testimoni. Tuttavia, non si deve escludere un riconoscimento per il loro civile gesto che li ha costretti lontano dalla propria terra e dalle loro attività. Potrebbero essere considerati categoria protetta con il diritto ad un punteggio spendibile nella partecipazione a concorsi pubblici selettivi. Nota finale : Poiché la Legge 45/2001 non esclude dai benefici chi aveva reso utile testimonianza prima della sua entrata in vigore ma, nemmeno lo include, occorre introdurre una disposizione finale che chiaramente includa tra i beneficiari anche coloro i quali avevano reso testimonianza prima della sua entrata in vigore: il servigio reso da tali cittadini è ancora più meritevole di apprezzamento perché attuato senza alcuna aspettativa di riconoscimenti né di speciali ed apposite misure di sicurezza. La figura del Testimone di giustizia Desideriamo sottolineare che non è affatto facile generalizzare e standardizzare la figura del Testimone di giustizia in quanto, ad oggi, i soggetti interessati al programma possono provenire sia da Testimonianza oculare disinteressata (molto pochi) che da famiglie mafiose dalle quali ci si dissocia (caso identificabile con le mogli, figli, etc…) soprattutto dopo essere colpiti direttamente. Altri casi che trovano difficile equiparazione sono gli imprenditori/commercianti che denunciano gli estortori e che spesso decidono di rimanere nella propria terra. Questo nostro documento vuole essere un piccolo contributo di integrazione alla legge esistente e desidera sollevare un ampio dibattito alla luce delle esperienze fin qui acquisite.

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Pianeta

La moneta senza banche

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale

Google, Ebay, Amazon... La corsa al bitcoin La moneta elettronica e i colossi di internet: cos'è cambiato, cos'altro sta cambiando di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com

Già un paio di anni fa, alcuni dei colossi di internet (Google, Amazon, Ebay) hanno mostrato interesse nei confronti della moneta elettronica Bitcoin. Vi abbiamo dato ampio spazio perchè, pur finendo in un nulla di fatto, questi approcci erano di altissimo livello; sia per le compagnie, grandi aziende multinazionali in grado di battere una propria moneta o iniziare a usare Bitcoin prima dei concorrenti e delle nuove startup; sia per i personaggi e le situazioni. Basti pensare al presidente di Google Eric Schmidt che rispondendo a un bottae-risposta in una conferenza degli sviluppatori diceva che la sua compagnia "ha pensato di accettare bitcoin o creare una moneta simile" già nel 2011 ma di non averlo fatto per problemi legali negli Stati Uniti. Google è poi entrato nel mondo dei pagamenti con Google Wallet (un rivale di Paypal). Poi abbiamo ritrovato il presidente di Google, Schmidt, a casa del rifugiato Assange, che gli fa conoscere questa cosa nuova che sarebbe il Bitcoin...

Jeff Bezos, fondatore e amministratore di Amazon, un anno fa lanciava negli Stati Uniti, Amazon Coin (da poco arrivata anche in Italia). Non si tratta di una cryptomoneta elettronica tipo Bitcoin, ma è qualcosa di più di una raccolta punti; gli sviluppatori di App Android vengono parzialmente pagati in Amazon Coin. Nel 2014, inziato con l'entusiamo di Overstock (un rivale di Amazon negli Stati Uniti nella vendita per corrispondenza) che accetta bitcoin in pagamento, e di Zynga (giochi su Facebook), il trauma del fallimento di Mt Gox è stato parzialmente assorbito; a partire dalla conferenza di Amsterdam del mese scorso una serie di buone notizie hanno cambiato il clima. John Donahoe, presidente di Ebay - una compagnia in un primo tempo ostile a Bitcoin, tanto da non permettere il commercio di cryptovalute in cambio di dollari sulla sua piattaforma - il 5 giugno, intervistato da Cnbc, dice "Stiamo per integrare le cryptomonete nel nostro portafoglio" e aggiunge che possiede bitcoin ma non li ha comprati come investimento ma per utilizzarli e capirne il funzionamento. È recente anche la notizia che Amazon ha registrato un brevetto che consente l'acquisto di servizi cloud in maniera anonima; Bitcoin e la moneta p2p vengono espressamente citati nel brevetto.

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Il disgelo di Apple Il disgelo raggiunge persino Apple, decisamente tra le corporation più ostili nel confronti di Bitcoin, tanto da non permettere applicazioni come portafogli Bitcoin sul suo sistema operativo per dispositivi mobili iOS. Ora nuove linee guida permetteranno l'ingresso delle App Bitcoin su Apple Store. Un interesse ormai notevole verso bitcoin si registra anche nel mondo dell'intrattenimento - in particolare fra musicisti e squadre sportive. Qualche esempio: i Sacramento King (Nba) ora accettano bitcoin all'interno dello stadio per biglietti e merchandising; Budweiser, nella serie di concerti che sponsorizza, regala 10 dollari in bitcoin a chi compra il biglietto; i musicisti come i Rapper 50 cent e gli Snoop Dogg vendono i loro ultimi album nella moneta elettronica, così come Mel B. La terza tv satellitare Dish network, la terza tv satellitare negli Stati Uniti (un'azienda da 14 miliardi di dollari di fatturato) ha appena annunciato che entro l'anno accetterà bitcoin in pagamento per i propri servizi. Se qualcuno non dovesse precederla, sarebbe la più grande azienda ad accettare bitcoin.


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Sicilia

Ogni mattina una politica diversa Con Renzi, contro Renzi, con un Renzi diverso... Le tribù siciliane verso l'estate di Giovanni Abbagnato Gli esperti sanno bene che in politica spesso i disegni strategici delineati non sono altro che il portato complesso di interessi – individuali e di clan - di ambizioni personali e, perfino, di accese rivalità – interne ed esterne ai gruppi organizzati - alle quali, spesso convulsamente, si prova a dare un’improbabile forma di coerenza con quanto affermato nel tempo e di razionalità applicata ai problemi della società. Sarà esercizio di pessimismo, ma pensare che la politica presenti oggi premesse diverse da quelle sopra illustrate, probabilmente è peccare di poco realismo, anche se questo significa, oggettivamente, perdere qualche speranza rispetto ad un’ideale di politica rivolta verso il cosiddetto bene comune. In Sicilia, specialmente in politica, tutte le occasioni sono buone per intorbidire le acque e creare forme diverse di confusione – quelle disegnate ad arte per interessi specifici e quelle che sono anche il risultato di un crogiuolo di mosse e contro mosse tra gruppi contrapposti - in cui le ambizioni e le rivalità politiche – qualche volta gli odi personali - dei singoli costituiscono il vero terreno politico in cui le mediazioni sulle scelte politico-amministrative prendono una forma, spesso fatalmente inadeguate all’origine.

E poi si sa, in Sicilia è quasi d’obbligo che si pongano le condizioni perché le “cose” vadano in un modo sempre un po’ diverso che da altre parti e difficilmente quello che è e come appare. Infatti, a proposito di confusione, è probabilmente una valutazione del tutto sbagliata pensare che le nebbie del quadro politico siciliano siano state diradate dal netto risultato elettorale alle Europee che anche in Sicilia, con qualche percentuale inferiore, ha visto prevalere con nettezza il Pd di Matteo Renzi e del suo plenipotenziario nell’Isola Davide Faraone. E’ certo che Faraone detterà a tutti le regole di quello che loro definiscono nuovo corso, anche in Sicilia, soprattutto forte del prestigio ottenuto per avere scelto l’onda di Renzi in tempi assolutamente non sospetti, con ancor maggior merito per il suo provenire da una storia politica completamente diversa da quella del suo leader rottamatore che pure ha abbracciato subito e senza se e senza ma. Senza esclusione di colpi E gli esponenti delle maggiori cordate pre-Renzi – non è più il caso di parlare di correnti o altro di simile - i Cracolici, i Crisafulli, i Speziale, i Lupo, senza dimenticare i tagliati fuori giudiziariamente come Genovese? Tutti quanti hanno più di qualche sasso da togliersi dalle loro scarpe, sempre più strette, eppure costretti ed abituati a tenere debito conto del nuovo padrone perché, come amano dire: “la politica ricomincia ogni mattina”. Ma cos’è ormai il tutto del Pd in Sicilia, se non una somma – spesso contrapposta senza esclusione di colpi – di comitati elettorali personalistici, in parte basate su vecchie appartenenze e in parte nate da nuove relazioni trasversali rispetto agli assi precedenti del Partito nazionale e siciliano?

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Smisurate ambizioni Certamente fa parte del tutto il governatore Crocetta che ha smisurata ambizione e provata spregiudicatezza politica per adeguarsi, al di là dei toni roboanti da presunto cane sciolto, ai nuovi equilibri che impongono il ridimensionamento profondo del suo disegno di creazione di una forza politica autonoma come il Megafono da usare strumentalmente per il posizionamento dentro il Pd, suo e di altri notabili siciliani come Lumia, alleati, ma sempre a tempo e condizioni. Però, di contro, è presumibile che Crocetta vorrà interpretare anche aggressivamente il suo ruolo centrale nel governo della Regione con alcuni annunci di provvedimenti che saranno più gridati che realizzati con razionalità, ma che, indubbiamente, metteranno in imbarazzo i suoi nemici interni – separati in casa nella maggioranza - che da tempo evidenziano tante contraddizioni – spesso non infondate – riguardanti l’azione del governo regionale, complessivamente inadeguata nella sostanza dei provvedimenti e nella gestione tecnica della compagine assessoriale. Insomma, Crocetta punterà a fare il Renzi in Sicilia e ci si può contare che proverà a farlo con ancor più impeto di altri, come quando faceva il comunista che era il più comunista degli altri, poi il democratico più realista degli altri, l’antimafioso più antimafioso degli altri e, perfino, il Berlusconi più Berlusconi degli altri quando riaffermerà che non gli fanno fare le mitiche riforme e che la colpa e degli alleati di governo che frenano le sue riforme, ecc.ecc.ecc. Un canovaccio questo in cui ognuno può aggiungere le sue battute, ma che – guarda caso – è attribuibile a Crocetta, come a Renzi e a Berlusconi. Basterebbe solo questo per farci capire che c’è qualcosa di strutturale che non va nella nostra politica.


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Corruzione come sistema

Italia Tangentopoli infinita “Le indagini ser vono a poco - dice Colombo Il problema è a monte” Autoriforma della politica? Inverosimile di Riccardo De Gennaro www.ilreportage.eu La corruzione è virale. Quanto tempo occorre a un cittadino onesto che entra in politica per oltrepassare i limiti della legalità e trasformarsi in un cittadino disonesto? Se si leggono le cronache non troppo. Ma è la politica che corrompe provocando al Paese, come dice la Corte dei Conti, un danno di 30 miliardi di euro all’anno, o sono gli italiani che si lasciano facilmente corrompere una volta che si trovano nelle condizioni di arricchirsi presto e molto? Il grande numero di inquisiti e condannati tra i politici di livello nazionale, regionale e locale dimostra che il vecchio proverbio “l’occasione fa l’uomo ladro” non è mai stato così fondato. Il caso dell’Expo di Milano con “cupola” annessa ha riportato gli italiani ai tempi di Tangentopoli per via delle pratiche adottate e di alcuni vecchi ma intramontabili personaggi, come Greganti, Frigerio, Grillo.

Il colpo di freno a Mani Pulite La verità è che da Tangentopoli non si è mai usciti. Il pool di Mani pulite, che aveva scoperto il marcio in tutti o quasi i settori industriali, frenò a un certo punto la sua azione poiché in caso contrario, siccome la corruzione era stata elevata a sistema, il Paese sarebbe andato distrutto, l’economia affossata. Gherardo Colombo ha dichiarato che le indagini della magistratura riescono a fare poco perché il problema è culturale e che, a suo parere, sarebbero necessari “grandissimi investimenti sul piano educativo”. Una soluzione, questa, assolutamente condivisibile, anche se è chiaro che l’atto di destinare con questo scopo somme elevate al sistema scolastico vorrebbe già dire, ammettendo la possibilità di trovare le risorse, un’autoriforma della politica, attualmente inverosimile. La prova più evidente è contenuta nell’ipotetica nuova legge elettorale che, come il cosiddetto Porcellum, prevede liste bloccate, togliendo di fatto agli elettori l’unica arma possibile di cambiamento democratico, ovvero la scelta dei candidati. Si procede per cooptazione: il simile chiama il simile. Il livello morale degli uomini politici non è aumentato, così come non è mutato il comportamento della classe industriale: versavano segretamente tangenti vent’anni fa, versano segretamente tangenti oggi, protestano contro la politica in pubblico, ma non denunciano mai le irregolarità, uniti – i perdenti e i vincenti le gare – nell’omertà.

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Nel frattempo, l’educazione dei giovani sollecitata da Colombo transita piuttosto per le curve degli stadi, che nell’arco di questi vent’anni sono rimaste un polo di aggregazione.

Un simbolo? Genni a'carogna... Con una differenza non da poco: che vent’anni fa le curve erano frequentate da tifosi animati soltanto dalla passione calcistica, mentre oggi sono quasi tutte in mano all’estrema destra, se non direttamente alla criminalità organizzata. Genny a’ carogna, che decide se la finale di Coppa Italia si può giocare o no è diventato un eroe e numerosi “opinionisti” hanno giudicato assolutamente legittima la “trattativa” che le autorità sportive e dello Stato, peraltro presenti in tribuna all’Olimpico ai massimi livelli, hanno condotto con questo personaggio prima dell’inizio del match. In Italia non si corrompe soltanto con il denaro.


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Giudici

Prima isolati, poi esclusi Momenti difficili per il pool antimafia di Palermo. Un episodio significativo di Mattia Maestri www.stampoantimafioso.it Il pool di Palermo impegnato nel processo sulla trattativa Stato-mafia è stato quasi totalmente azzerato da una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 5 marzo scorso. Tutte le nuove inchieste sulla mafia dovranno essere affidate esclusivamente a chi fa parte della DDA, la Direzione Distrettuale Antimafia, così recita la circolare che ha come unico risultato quello di distruggere il lavoro d’insieme, l’impegno di squadra. Dei quattro bravi magistrati che cercano di far luce sulla stagione delle stragi del 1992-1993 ne rimarrà soltanto uno che potrà continuare le indagini, il coordinatore del pool e procuratore aggiunto Vittorio Teresi. E gli altri? Francesco Del Bene potrà continuare il suo lavoro fino al primo giugno, quando anche il suo incarico decennale nella Dda scadrà definitivamente. Per Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo, invece, non ci sarà nulla da fare.

Tartaglia non è ancora entrato nella Direzione Distrettuale Antimafia, mentre Di Matteo non ne fa più parte da quattro anni. Nessun nuovo fascicolo antimafia, dunque, potrà essere gestito da chi non fa parte della direzione distrettuale, “salvo casi eccezionali”. E questi casi limite riguardano particolari settori quali i “delitti contro l’economia, la pubblica amministrazione, la salute e l’ambiente”. Oppure quando tutti i componenti della Dda avranno dei carichi di lavoro sufficientemente elevati che impediranno loro di svolgere ulteriori e differenti indagini. Ora (aprile, ndr) non sappiamo su quali indagini il procuratore di Palermo Francesco Messineo traghetterà Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo, i due magistrati esclusi dalle indagini. Non potranno nemmeno più continuare a svolgere una serie di accertamenti che li hanno visti protagonisti negli ultimi mesi: dopo aver recuperato negli uffici dei servizi segreti italiani una ricca documentazione, infatti, i due magistrati siciliani stavano anche cercando di chiarire il mistero di Falange Armata, la sigla che rivendicava attentati e omicidi passati e che era ricomparsa in una lettera spedita a Totò Riina, nella quale gli si intimava di chiudere la bocca. Niente di tutto ciò potranno più fare. Ma perché? Che senso ha smantellare un gruppo di lavoro affiatato che ha dedicato a questo processo impegno e dedizione? Il pool di Palermo degli anni novanta fu distrutto dal tritolo mafioso e ora il nuovo pool, che con le proprie indagini ritorna a quelle stragi, viene smembrato da

Un appello al Csm

Nominate Nino Di Matteo procuratore aggiunto a Palermo!

Ai primi di marzo di quest’anno il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha modificato l’art. 8 della circolare sulle Direzioni distrettuali antimafia nelle procure. La direttiva del Csm restringe ai soli magistrati della Dda la possibilità di effettuare indagini su Cosa Nostra. Questa circolare estromette di fatto i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene dalle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia. Successivamente alla notizia della divulgazione di quella circolare il procuratore di Palermo, Francesco Messineo aveva assicurato che avrebbe scritto al Csm attraverso la procedura del “quesito” per chiedere esplicitamente una via di uscita alla rigidità di quella direttiva.

una circolare legale del più alto organo della magistratura italiana. Proprio qualche giorno fa abbiamo assistito alla trattativa tra un prefetto (inviato dal questore) e un capo ultrà, figlio di un camorrista, per fare iniziare un evento sportivo. Uomini in divisa, rappresentanti dello Stato, che scelgono di venire a patti con la malavita. “Uccidete la speranza di molti” Ma proprio quando un gruppo di persone sta cercando di dare una verità storica e giudiziaria a quella cupa stagione, qualcosa interviene a rendere difficoltoso il processo. Sembra che tutte le battaglie e tutte le lotte svaniscano in un lampo con un decreto o una circolare. Sembra che tutte le grida dei cittadini onesti che chiedono a gran voce il rispetto delle regole vadano perse nel vuoto. Sembra che l’impegno a contrastare la criminalità organizzata sia destinato ad essere soltanto una bellissima utopia. È difficile restare ottimisti e credere in un futuro migliore quando, ogni qualvolta ci si trovi vicini alla verità, le Istituzioni (o chi per esse) hanno paura di mostrare il loro passato o non hanno il coraggio di intraprendere per sempre una lotta incondizionata contro la mafia. Mai mi chiederò nella vita se ne fosse valsa veramente la pena di combattere per questa causa, ma sappiate che così facendo uccidete la speranza di molti. Se ci tenete davvero a far sì che questa non sia l’ennesima aspettativa tradita, ripensateci. E dite che è stato solo un bruttissimo scherzo.

Infine, la richiesta del Procuratore è stata finalmente ufficializzata. In un punto della lettera si fa riferimento alla questione trattativa (pur senza nominarla) in merito alla coassegnazione di nuovi filoni investigativi tra magistrati Dda e magistrati non Dda. Di fatto viene sottolineata l’importanza di non disperdere il patrimonio conoscitivo dei magistrati che non fanno parte della Dda “in ossequio al principio di continuità nell’assegnazione delle indagini per un medesimo fatto”. L’istanza di Messineo al Csm rappresenta quindi l’ultimo tentativo di evitare che indagini delicatissime si arrestino ripartendo da zero nelle mani di nuovi magistrati che devono leggere centinaia di migliaia di pagine, con il conseguente rischio della prescrizione. La società civile si appella quindi al Csm affinché risponda positivamente alla richiesta del procuratore Messineo dando ugualmente un segnale forte: nomini Nino Di Matteo procuratore aggiunto di Palermo! Salvatore Borsellino e Giorgio Bongiovanni, Antimafia Duemila

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Chiesa

Pentecoste contro la mafia “Ve lo dico in ginocchio convertitevi” di Fabio D'Urso https://www.facebook.com/ Due o tre settimane fa ho scritto una preghiera a cui in modo precario, ho dato il nome di preghiera di “Pentecoste contro la mafia”. Da credente,la speranza era che dentro le comunità ecclesiali ci si fermasse a riflettere sui nodi mafiosi nel territorio dove il popolo di Dio vive la propria esperienza di chiesa. Un segnale di attenzione per Nino Di Matteo, perché un paese civile non dovrebbe lasciarlo solo. E nessuna comunità cristiana dovrebbe rimanere in silenzio. Solidarietà, parola, e preghiera. Tra lavoro, tra la casa che ha versato in un situazione di disordine, tra le adozioni dei nuovi canuzzi,sapevo che potevo scriverla entro un dato periodo di tempo. Poi non avrei più potuto perché i tempi della distribuzione al lavoro mi avrebbero stritolato. Fatta una prima, una seconda, una terza stesura l'avevo fatta leggere ai compagni. Tra silenzi e critiche, il giudizio era stato che avevo usato un linguaggio che non aiutava il senso di Liberazione di singoli, e comunità. Ma sopratutto non affrontavo il nodo rimasto tra la vita di Giovanni Paolo e il soffocamento della Teologia della Liberazione in America Latina. Allo stesso modo non trovavo parole per spiegare come la Chiesa nel nostro paese non avesse trovato nelle prassi delle comunità di base ( analisi- denuncia- annuncio del Vangelo )quello strumento per porre in atto le parole del papa ad Agrigento. Al confine del confronto, i dieci giorni di distribuzione in agenzia avevano omicidiato il tentativo. La quarta stesura non era stata fatta e una stesura sintetica editata da Salvo Ognibene era rimasta anche essa tra i file non pubblicati . Raffaella Maria Carrara ha editato questa versione. Forse può servire per pregare, per riflettere, per pensare ad azioni evangeliche. Così lascio fare al vento, e alla lettura di chi vuole. Quest che segue è il testo della preghiera, così come si è fermato nella elaborazione mia.

“Ve lo dico in ginocchio, convertitevi”. Dopo le parole di Papa Francesco sulla conversione dei mafiosi all’Evangelo, anche noi, popolo di Dio, siamo chiamati dalla parola di Dio alla conversione, come un movimento ordinario delle menti, delle coscienze, delle azioni individuali e collettive, private e pubbliche. Se la parola del Papa è riferita alla vita e alla banalità dei mafiosi, e alle violenze che la mafia produce, a noi, Chiesa, Popolo di Dio, viene domandato implicitamente di scegliere, di continuare a sperimentare di essere cristiani, e cristiani perchè osiamo essere liberi e fedeli in Cristo. Nell'ordinario prosieguo della nostra vita, possiamo scegliere però un modello o un altro, un comportamento piuttosto che un altro. Spesso le difficoltà, i condizionamenti che attanagliano la nostra vita, ci portano a scegliere la chiusura verso l'esterno, verso una partecipazione attiva ai cambiamenti, ma se, solo un attimo, pensiamo al futuro dei nostri figli, che altra scelta abbiamo se non quella di trovare gli strumenti per partecipare alla lotta alle mafie che soffocano i territori del nostro paese, le periferie urbane o rurali, le città, le regioni dove viviamo? La mafia viaggia attraverso il mercato, dentro e fuori il nostro sistema sociale, economico, politico. La mafia continuamente invade le nostre vite, entra dentro il confine tra vita pubblica e vita privata. A chi tocca, se non a noi, di percepire i condizionamenti delle mafie, oppure restarne invasi, e scegliere il silenzio, l'indifferenza , la complicità? Come cristiani osiamo allora preghiera e coraggio, missione e testimonianza del Vangelo. Noi, tutte e tutti ( nessuno escluso), donne e uomini che abitiamo questo paese, vogliano contribuire a un annuncio di giustizia e verità. Ma sappiamo che prima dell'annuncio viene la denuncia del male, che bisogna vivere questo tempo sporcandoci le maniche e osando una conversione dei mafiosi ma, prima di loro, osando una conversione di noi stessi.

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“Uomini e donne che vivono...” Siamo donne e uomini che vivono in differenti territori d'Italia. Non dimentichiamo, perché lo percepiamo ogni giorno, che il clima che si respira dentro il nostro paese, come aria inquinata, sembra mal tollerare che si vada avanti nella lotta sulle verità delle stragi, sulla causa delle morti di Falcone e Borsellino, ancora e specificatamente, per entrare nei nodo di questi giorni, che sul magistrato Nino Di Matteo pende una sentenza di condanna a morte da parte della mafia. E che infine il rischio meno grave sia il suo isolamento, lo sgretolamento della sua azione di magistrato. Non dimentichiamo di essere popolo di Dio, che esercita con la coscienza il suo potere sovrano su ogni territorio. Non dimentichiamo che per non essere succubi e complici della banalità del male, conviene partecipare evangelicamente alle azioni politiche collettive, proprie della società civile. Stare dalla parte di Nino di Matteo, oggi, non può essere solo la scelta di una parte della società civile. La sua vita riguarda tutti, perchè di tutto il paese egli si è preso carico, cercando di slegare il nostro Stato dall'asservimento al sistema imposto dai poteri mafiosi. Si tratta di una lotta. Si tratta di lottare per la conversione del paese alla legalità. Noi, oggi, vogliamo riflettere e pregare a partire dalla memoria di Giovanni Paolo II che ad Agrigento ha gridato contro la mafia. Oggi guardiamo con attenzione all'azione di Papa Francesco e al suo spingersi con le parole della coscienza ai mafiosi: “vi prego in ginocchio di convertirvi”. Chiediamo a noi stessi, e a tutti, di spingere l'opinione pubblica (e quindi esercitare un'azione) nel paese. Le nostre menti, la nostra coscienza, il nostro stare da adulti in relazione dentro e fuori le comunità ecclesiali, vuole un annuncio specifico del Vangelo contro ogni mafia, ogni abuso, ogni condizionamento e violenza alle nostre vite e al paese intero.


www.isiciliani.it “Tante generazioni di cristiani”

“Coraggio per essere solidali”

Nei decenni che si sono susseguiti dalla nascita della Costituzione, tante generazioni di cristiani hanno sentito tristezza e disagio, guardando come lo Stato sia stato spesso assente, quando e dove la gente chiedeva legalità e possibilità di vivibilità sociale. Tristezza e disagio per tanti anni costatando come la Chiesa, intesa specificatamente come Chiesa locale, si sia fermata quasi sempre a dichiarazioni formali contro criminalità e mafia. Nel corso di questi decenni, di contro a questa logica, tante differenti azioni pastorali, di vescovi, preti, comunità parrocchiali, sono rimaste di fatto interpretate nella loro funzione di valore, ma non adottate e elaborate nella confessione della stessa vita delle comunità. Tante sono le domande fatte da donne e uomini del popolo di Dio. Perché le Chiese locali non hanno quasi mai alzato la voce per gridare il Vangelo sui tetti? Perchè, e per quali dinamiche di esclusione, si è lasciati soli chi si è opposto, e gli si è fatta intorno terra bruciata, aprendo invece le porte delle parrocchie e i sacramenti alla banalità dei mafiosi? Perché come Chiesa, Popolo di Dio, abbiamo lasciato inascoltato il grido lacerante di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro i mafiosi? Perché nelle parrocchie, quando si racconta il Vangelo, non si fa ammenda per ogni paura che non ha concesso coraggio? Perché la pastorale delle chiese locali, non fa catechesi partendo da una comprensione profonda per quei martiri che sono stati don Pino e don Giuseppe Diana? Perché alla memoria della loro vita non fa seguito il coraggio contro la mafia? Perché con lo stesso fervore che abbiamo avuto dinnanzi al santo Giovanni Paolo, non andiamo avanti con sana inquietudine nella missione del Vangelo? Perché ? Se non è questo il tempo in cui la Chiesa nel nostro paese potrà annunciare con coraggio la Parola di Cristo, quando sarà mai? Se non è questo il tempo in cui le parole contro la banalità della mafia, la domanda di conversione per i mafiosi diventano legge e coscienza creativa per ognuno, quando mai lo sarà? Se non è questo il tempo di una catarsi ecclesiale, che spiega e fa proprio il magistero del Papa, i documenti della Cei, l'azione nelle parrocchie di preti, e dei religiosi, quale altro tempo lo sarà?

Coraggio per essere solidali e portatori di solidarietà ai percorsi democratici e di legalità dentro tutti i territori del nostro paese. Coraggio, bisogna trovare gli strumenti per spingere e diventare collettivamente opinione pubblica contro ogni liquefazione delle garanzie della Costituzione nel paese, e delle sue leggi. Coraggio Chiesa, fai sentire la tua compagnia alle Magistrature, e ai magistrati dove il conflitto tra legalità e banalità del male è pericolosamente lasciato a se stesso, nelle tante forme d'indifferenza. Coraggio Chiesa. E' il momento di scelte concrete del tuo popolo in cammino. Coraggio, nella scelte che condizionano il futuro sostenibile di tutti. Coraggio, contro ogni equilibrata distanza da quell’annuncio del Cristo Risorto, che passa necessariamente dalla presa in carico e dalla denuncia delle strutture sistemiche inique. Coraggio e coscienza, fino a tremare pensando che occuparsi dei fatti propri, disinteressarsi della vivibilità fuori dalla soglia della propria casa, restare in silenzio giorno dopo giorno d'innanzi ai mafiosi, è la stessa negazione di noi stessi, delle nostre coscienze, del futuro per i nostri figli. Ci vuole coraggio e coscienza e attaccamento alla terra per capire il nodo delle parole del cuore di papa Francesco “Vi prego in ginocchio”.

“Sognare, pregare, lottare insieme” Non possiamo allora sognare, pregare e lottare per un'elaborazione ordinaria e felice alla lotta alle mafie? Possiamo osare una catarsi umana, e cristiana, una rivoluzione molecolare interna alla chiesa, che parte da dentro le case, dalle famiglie, dalle comunità vive, dalla chiesa nel frammento delle sue azioni, e dei suoi segni della fede in Cristo? Possiamo chiedere alla nostra coscienza, alla nostra azione ordinaria, alle nostre specifiche azioni collettive, alla nostra voce, di rimettere in crisi poteri e equilibri per annunciare con coraggio la Parola di Cristo? Che bella utopia da costruire insieme, quanto lavoro da fare, quanta voglia di Evangelo vivo nella pelle e nel cuore di ogni cristiano! Coraggio Chiesa, Popolo di Dio annuncia il Vangelo! Coraggio Chiesa, nei luoghi della testimonianza e della missione delle comunità vive, con la preghiera e l'annuncio di Gesù di Nazareth, il Signore. Coraggio Chiesa, per quanto sia lacerante il confronto tra Vangelo e mafia! “Coraggio, popolo di Dio” Coraggio popolo di Dio in cammino, andiamo avanti pronti ad osare preghiera e missione, ortodossia creativa dell'annuncio evangelico, ma anche obbedienza disarmata dinnanzi alla parola di Dio o un modo giusto al nostro esistere, nelle azioni pastorali. Coraggio Chiesa! Fa’ sentire con forza la Parola di Dio. Coraggio Chiesa, non lasciamo soli gli uomini di buona volontà . Coraggio, Cristo ci dia coraggio.

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“Coraggio, Chiesa!” Coraggio Chiesa, dentro tutto il paese, non lasciar solo Nino Di Matteo. Sii compagna per ogni donna e uomo che osa gridare giustizia e pace. Coraggio Chiesa, che sei specifica nel territorio di ogni chiesa locale. Sii tu stessa la voce di Francesco contro la mafia. Coraggio Popolo di Dio, questa Pentecoste, ci dia la forza di essere, in ogni strada d' Italia, portatori di comportamenti liberi e felici in Cristo, frammenti di chiesa dal basso. Coraggio Chiesa, nell'essere madre e maestra ma anche sorella e compagna di chi sta già camminando un passo dopo l'altro. *** Vieni Spirito di Cristo, aiuta la tua Chiesa e tutti nel Popolo di Dio alla preghiera, alla vita, al coraggio, alla testimonianza della missione, a dire no ad ogni mafia nel nostro amatissimo paese.


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Giornalismo

“Aprite la finestra e raccontate” La Fondazione Fava e l'Ansa hanno indetto un premio per giovanissimi “giornalisti”. Centocinquanta risposte da tutta Italia di Antonio Roccuzzo Iniziamo da Bergamo, da uno studente del liceo Manzù che scrive ironico e amaro: “La mafia sale al nord e mangia polenta”. Cioè? “La mafia è dappertutto, è dietro i subappalti dell’autostrada A4”. I ragazzi, molti ragazzi delle scuole italiane, sulla mafia sanno quasi tutto quel che c’è da sapere, anche se "non hanno tutte le prove". Sanno perché sono cittadini e si guardano intorno.

“Raccontate la mafia” Fondazione Giuseppe Fava e Miur hanno indetto nelle scuole italiane un concorso nel nome di Giuseppe Fava col patrocinio dell'Ansa, a trent'anni dall'assassinio del giornalista ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio 1984. Bando uscito a marzo, scadenza a maggio. Tema: “Aprite la finestra sulla vostra città e raccontate dove vedete la mafia”. In un mese e mezzo ecco la risposta. Sta dentro due scatole piene di plichi: 150 tra foto, video e articoli spediti da classi di ogni angolo d'Italia e arrivati al piano terra del palazzone romano dove ha sede il ministero dell'istruzione. Da Bitonto, Senigallia, Verbania, Lidi Estensi, Udine, Milano, Torino, Bari, Crotone, Cuneo e Savigliano, Brescia e Bergamo, Siderno, Casarano, Palermo, Biancavilla, Polizzi Generosa, Barcellona Pozzo di Gotto e Catania, Benevento, Avellino, Napoli e Pompei, Prato e Firenze, Como, Bologna, Parma, Lanciano, Perugia, Spoleto e altri luoghi che ho certamente dimenticato.

I dieci anni del Premio Libero Grassi

Comunicare la libertà

Raggiunge il traguardo del decennio dalla sua istituzione, ad opera della Cooperativa sociale Solidaria, il Premio nazionale per la comunicazione su temi di rilevanza sociale rivolto al mondo della formazione e dell’istruzione, intitolato a Libero Grassi, l’imprenditore assassinato dalla mafia per il suo coraggio nel non piegarsi al racket e per la sua capacità d’innovazione delle forme di contrasto della mafia. Dieci anni passati in rassegna, grazie anche al percorso per immagini mostrato da un video all’interno di una manifestazione svoltasi alla presenza di Pina e Alice - vedova e figlia di Libero Grassi - nella sala cinematografica intitolata al Maestro De Seta e situata dentro l’importante complesso di archeologia industriale dei Cantieri Culturali della Zisa, recentemente tornato, tra tante difficoltà, un punto di riferimento della cultura palermitana. La Premiazione delle scuole vincitrici – da Milano a Reggio Emilia a Roma all’Aquila a Catania – è stata affidata alla conduzione del giovane ma già affermato giornalista Giacomo Di Girolamo davanti ad un pubblico costituito prevalentemente di scolari e studenti. Particolare curioso: nel 2006 proprio Di Girolamo, giovanissimo cronista di provincia, si assicurò con un testo di notevole valore etico e stilistico, il Premio Libero Grassi in una particolare sessione in cui si chiedeva ai giovani di scrivere una “lettera al caro estortore”, sul solco della lettera aperta che nel gennaio del 1991 Libero scrisse al suo estortore, modificando radicalmente e pubblicamente - l’approccio al problema del pizzo di un imprenditore, anche in quel caso drammaticamente isolato dai suoi colleghi.

Aprendo quelle buste, leggendo o vedendo i lavori di questi ragazzi italiani si sentono quelle voci che sanno. Voci indignate, ironiche, curiose che parlano agli adulti. Ascoltiamole. A Torino, raccontano due ragazzi del Tecnico Plana, la ‘ndragheta “abitava” anche in un bar con vista sul commissariato di polizia di Leinì, il Bar Italia. Poi, l’operazione Minotauro, e ora quel bar dentro il quale i boss manovravano affari e elezioni locali è stato confiscato, si chiama “Bar Italia Libera” ed è gestito dall’associazione di don Ciotti. “Si può fare, se si guarda in faccia il mostro”, scrivono dal Plana. “A Brescia bruciano santini e sgozzano capretti e sul Garda sequestrano villone. Qui la mafia è un’emergenza”, raccontano dal liceo De André. Mille chilometri più a sud, due studentesse nell’istituto artistico di Siderno, in Calabria, hanno scattato una foto e frammentato l’immagine in tre fasce (fronte, occhi e gote) con su scritto: “Guarda la legalità in faccia”.

I temi proposti ai ragazzi in questa decima edizione 2014 riguardavano per le scuole elementari e medie la Libertà e giustizia sociale, per quelle Superiori il Lavoro. Ai più piccoli veniva richiesto per la trattazione dei temi l’utilizzo di strumenti tradizionali come temi, poesie, immagini, per quelli più grandi la scrittura di sceneggiature per spot video. Significativa anche l’istituzione di due Premi Speciali: uno voluto dalla Provincia di Reggio Emilia per le scuole del suo territorio e l’altro istituito dalla Cooperativa Solidaria in segno di solidarietà con la Città dell’Aquila, ancora afflitta dalle gravi conseguenze socio-economiche lasciate dal recente terremoto e amplificati da una conduzione della ricostruzione, oltre che inadeguata e irresponsabile, spesso anche criminale. La manifestazione dei Cantieri Culturali è stata anche l’occasione per ricordare il viaggio – premio fatto nei giorni precedenti da alcune scuole nei luoghi dell’antimafia sociale, da Portella delle Ginestre, dove particolarmente toccante è risultato l’incontro con Mario Nicosia e Serafino Petta, due reduci della strage politico-mafioso del 1947, alle Cooperative sui terreni e aziende confiscati alla mafia - Noe di Partinico, Lavoroenonsolo di Corleone e Calcestruzzi Ericina di Trapani - ai luoghi dell’intervento sociale – non violento e partecipato dal basso – di Danilo Dolci, accompagnati dal figlio Amico. Dieci anni importanti, dicono gli organizzatori di Solidaria, soprattutto perché partendo dall’esempio di Libero Grassi e di tanti altri uomini e donne liberi, hanno consentito l’incontro di tanti giovani con l’intento principale di stimolare il loro senso critico e la loro consapevolezza dell’importanza del loro protagonismo e della loro responsabilità nella creazione delle migliori condizioni di umana e civile convivenza nelle loro società.

I Sicilianigiovani – pag. 86

Giovanni Abbagnato


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“L’omertà uccide. Io vedo, sento e parlo”

Al liceo Cassarà A Palermo, liceo Cassarà, due ragazze chiedono: “Ma questa Cosa è davvero nostra? No anche se la mafia è tra noi e dobbiamo operare con gesti quotidiani affinché non sia più cosa di nessuno”. Dal liceo Galileo di Perugia, osservano il centro storico che è “terra di spaccio notturno che deturpa la bellezza della nostra città”. Questi ragazzi sanno che coppola e lupara non sono più i simboli di queste storie. Al liceo Romagnosi di Parma, hanno le idee chiare su quel che accade loro intorno, sulla linea della palma salita sin lassù. Ragazzi e ragazze si alternano in video. Slogan: “Difendere la libertà”. Il più giovane e paffutello tra loro sta seduto in una cucina e beve latte. Guarda fisso la telecamera, racconta che nel parmense hanno sequestrato due caseifici ai casalesi e dice: “Non lo sapevamo, ma sulle nostre tavole abbiamo mangiato e bevuto prodotti mafiosi”. A Saluzzo, un ragazzo sfotte i suoi compaesani (“qui gli altri fanno finta di non vedere e non si occupano di mafie”). Poi intervista Manfredi Borsellino, dirigente della polizia di lassù, provincia di Cuneo, e gli fa dire: “Il giorno in cui tutti rispetteremo le leggi, non avremo più bisogno di eroi”. Alla fine il ragazzo di Saluzzo chiude il suo video mangiando un arancino: “Il mio arancino ora è libero…” e sorride. Abbiamo diritto a un “futuro senza mafia”, grida una ragazza dell’istituto Dottola di Bari. A Spoleto, uno studente del De Carolis, vede la mani della mafia sulla sua

città in un palazzone in cemento, nel cuore di uno dei centri storici più belli d’Italia. Le classi di Bitonto e Casarano fotografano le discariche lungo le strade ed evocano l’orrore della strage mafiosa a un incrocio della provinciale, a Palagiano. Regolamento di conti, padre, madre e bimbo di 3 anni uccisi. “Sveliamoci”, dicono nel loro video i ragazzi dell’istituto Morante di Napoli. E alludono alle brutte vele di Scampia. A Prato, sei ragazzi dai cognomi orientali ricordano le sette vittime del rogo del 2 dicembre 2013 nel laboratorio tessile e parlano di “mafia cinese che sfrutta il lavoro”. Nelle scuole di Milano A Milano (liceo Virgilio), Bologna (liceo Minghetti) e in un tecnico di Crotone scrivono e girano video sul gioco d’azzardo in mano alle mafie che così uccidono la tranquillità delle famiglie. “L’indifferenza ti rende complice”, grida un alunno del liceo De Titta di Chianciano (Chieti) e il suo video si intitola “Denaro insaguinato”. A Udine, uno studente del liceo Uccellis, arringa: “Qui dicono che in Friuli la mafia non c’è, ma fanno solo finta di non sentire il sinistro ronzio che genera soldi sporchi come il catrame”. Un solitario studente del liceo Perticaro di Senigallia parla mentre – in camera car - scorrono immagini di strade, ponti, lavori pubblici: “Non esistono isole felici”, dice e fa dire alla voce di Giancarlo Caselli che bisogna superare l’indifferenza ma “con l’aiuto di tutti, ce la faremo”.

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A Piacenza, a Catania, a Como... A Como una ragazza del liceo Gallio con un cognome “sudista” racconta del vivaio andato a fuoco per “mano della mafia” ma osserva che molti “hanno subito voltato lo sguardo altrove, come a Palermo”. Perché “cu è orbu, surdu e taci, campa cent’anni…”. A Piacenza, aprendo la sua finestra, una studentessa del liceo ha visto l’arresto di un imprenditore locale, socio di camorristi in appalti, operazione “Grande Drago” ai confini nord della Padania emiliana. E agli antipodi, tre ragazzi dell’Ipsia di Biancavilla (Catania) raccontano di un delitto senza testimoni e promettono: “L’omertà uccide. Io vedo, sento e parlo”. Ecco, queste voci non le contieni tutte in un solo articolo ma ti restano nelle orecchie. Se Giuseppe Fava, trent’anni fa, avesse fatto il cronista nell’Italia di queste voci, sarebbe stato meno solo e forse non lo avrebbero potuto neanche uccidere. Comunque ora sorriderebbe se ascoltasse queste parole usate nel suo nome da ragazzi italiani. Da Como a Palermo. Uno stage all'Ansa Tre di loro, il 3 giugno, hanno ricevuto un premio dal ministro dell’istruzione: un breve stage nella redazione Ansa.it. Una piccola occasione per aver lanciato uno sguardo libero sulla loro realtà. In fondo, il giornalismo (anche fatto dai ragazzi) cos’è se non questo?


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IL FILO

Un giorno a Comiso di Giuseppe Fava

La trattoria della signora Angelina è quella delle migliori salsicce, e del miglior vino, della Sicilia. C'è voluta una settimana di paziente inchiesta (“Sulle strade del buon mangiare”) per trovarla. Finalmente, eccola qui. Si trova in fondo in fondo alla Sicilia, in una cittadina chiamata Comiso ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Si sentirono grida per strada, un grande clamore che si avvicinava, la vedova Angelina corse a scostare la tendina del balcone e mi fece cenno di accorrere, il piacere di quella scaccia era così sovrano che solo la concomitanza di un grande terremoto avrebbe potuto sopraffarlo, ma la piccola signora continuava a fare con la manina gesti febbrili di richiamo: giù per strada passava una fiaccolata per la pace, un centinaio di giovani, quasi tutti stranieri, che innalzavano cartelli contro i missili e gridavano slogans levando ritmicamente il pugno in alto. In testa a tutti marciava uno che rassomigliava a Bjorn Borg. Tornammo a tavola e la vedova Angelina sembrava ancora impaurita. Disse: «Dottore, lei pensa che getteranno davvero la bomba atomica?» «Per niente signora, è una recita!» E la vedova Angelina fece un mormorio di terrore: «Il vino ... ma lei ha il bicchiere vuoto!» Mi riempì il bicchiere e, dolcemente, si riempì il bicchiere anche lei, lo fece con incredibile pudore, un sorriso, una levità di gesti che volevano spiegare: io non vorrei tutto questo vino, ma per buona educazione sono costretto a berlo. E con questo sorriso gentile, con quella manina bianca, il mignolo graziosamente levato in alto, cominciò a bere, pianino pianino trangugiò tutto il bicchiere, smise solo un

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istante per passarsi delicatamente la punta della lingua sui baffetti, forse avrebbe voluto smettere o dirmi qualcosa, ma quel vino proprio le piaceva, a mano a mano che beveva gli occhi le diventavano più lustri e piccini, posando il bicchiere vuoto sulla tavola fece un sospiro. Con la punta del dito indicò il ritratto dei marito: «Lui non voleva, buonanima, diceva che non sta bene per le signore! Solo un ditino ...». “Io penso che butteranno la bomba...” Cominciò a fissarmi: «Io penso che butteranno la bomba atomica e non ci sarà più salsiccia, e nemmeno le impanate, e nemmeno queste chiese, e la gente che ora sta seduta al bar, e nemmeno il vino di Comiso e Vittoria. Questi ragazzi che ora marciano con le fiaccole chissà dove saranno ...?» Cominciò a ridere. Era ubriaca. Si versò un altro mezzo bicchiere di vino, puntò il mignolo in alto e lo tracannò in un sorso. Il suo riso divenne sguaiato, ripulì il delicato baffo col dorso della mano, come una volta facevano i carrettieri nelle bettole. Rise: «Getteranno la bomba atomica, ma io sono vecchia e non ho nemmeno figli! Chi se ne fotte?». I Siciliani, ottobre 1983


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Gaetano Alessi, Lorenzo Baldo, Antonella Beccaria, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Giorgio Bongiovanni, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Alessio Di Florio, Tito Gandini, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Valeria Grimaldi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Massimi- liano Nicosia, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Mattia Maestri, Michela Mancini, Sara Manisera, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Loris Mazzetti, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Maurizio Parisi, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Antonio Roccuzzo, Alessandro Romeo, Vincenzo Rosa, Roberto Rossi, Luca Rossomando, Francesco Ruta, Giorgio Ruta, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Adriana Varriale, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Revisione testi: Sabina Longhitano ignazia@mail.com Web editing: Salvo Ognibene salvatoreognibene@hotmail.it Ebook editing: Carmelo Catania carmelo.catania@gmail.com Coordinamento: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles riccardo@isiciliani.it Progetto grafico di Luca Salici

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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.

Lo spirito di un giornale "Un giornalismo fatto di veritĂ impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalitĂ , accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo". Giuseppe Fava

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Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

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Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

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il coraggio di lottare?” “a che serve vivere , se non c’è

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1983-2013 Trent’anni di libertà

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“I Siciliani giovani” sono una rete di testate di base, da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Bologna a Napoli. Il racconto quotidiano di un paese giovane, fatto da giovani, vissuto. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.


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