I Siciliani - marzo 2012

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n.3 marzo 2012

I Siciliani giovani www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

Mediterraneo

Facciamo la pace?

RAGAZZI CONTRO I MISSILI COMISO SECOLO XX

4 aprile 1982: nasce il movimento contro i missili in Sicilia: Pio La Torre è il suo leader, Giuseppe Fava il suo scrittore. Cos’hanno ancora da dirci trent’anni dopo, fra gli imperi del nuovo secolo e i giovani ridotti a carne da precariato o da cannone?

La strage delle donne/ Mariti e boss Catania/ Morire in strada a 14 anni

Interviste/ Salvatore Borsellino/ Barcellona/ L’autunno dei patriarchii Il golpe del ‘92 Il generale e la vedova Emigranti/ Un inferno “legale” Scienze/ La centrale Archimede Fantaeconomia/ Arriva il googledollaro? Palermo/ Chi vota chi Satira/“Mamma!” Jack Daniel CASELLI/ IL CONCORSO ESTERNO DALLA CHIESA/ CHI C’E’ IN CASSAZIONE CAVALLI/ L’OPPORTUNITA’


facciamo rete http://www.marsala.it/

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Una notte italiana

Il diciassette marzo ero a Genova a manifestare. Una notte insonne alle spalle e tanti km sotto i piedi. Terminato il corteo ho preso un treno, il primo: Genova- La Spezia. Da lì sarei arrivata a Parma e da Parma a Bologna. Piccolo tour per risparmiare qualche soldo. Salita sul treno a La Spezia sono scivolata in un caldo torpore. Ero sul punto di addormentarmi quando è spuntato il controllore: alla prossima fermata saremmo dovuti scendere tutti. Il caldo torpore si è trasformato in un principio d’infarto: «Come scusi?». Quella notte c’era uno sciopero che interessava solo la Regione Toscana. Quella fermata, alla stazione di Pontremoli era l’unica in Toscana. «Scusi ma io devo arrivare a Parma e da lì ho una coincidenza per Bologna». «Signorina la vedo dura, la perderà di sicuro». «Senta signor controllore come faccio a rimanere da sola tutta la notte alla stazione di Parma? Ha idea di quanto può essere pericoloso?». Lui mi ha guardato ed ha abbassato la testa: «Una guerra fra poveracci, quelli hanno tutte le ragioni per scioperare e lei tutte le ragione per essere incazzata». Una perla di saggezza che abbiamo ascoltato io, i binari di Pontremoli e due ragazze che come me dovevano arrivare a Parma. Poco dopo si avvicinano: «Dai, stai tranquilla, noi studiamo a Parma, abbiamo casa lì, ti ospitiamo. Da sola non rimani. Troviamo insieme una soluzione». Come cambiano le parole quando a pronunciarle è un estraneo. Forse, mi sono talmente abituata a vivere in un mondo arrabbiato che basta poco per sconvolgermi, per commuovermi. Un paio d’ore dopo siamo riuscite tutte e tre ad arrivare a Parma. Scesa dal treno mi squilla il cellulare. Un miracolo: da Bologna stavano partendo in macchina per venirmi a raccogliere. No, il miracolo era un altro: erano quelle due ragazze. Semplicemente due persone buone. Volevo lasciar loro un ricordo di quella notte. Nello zaino avevo la bandiera di Libera. Uniti contro le mafie. Gliel’ho data. Se la sono attaccata in camera. I Siciliani giovani (di Michela Mancini)

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I Sicilianigiovani MARZO 2012

numero tre

Questo numero

Una notte italiana Il “concorso esterno” di Gian Carlo Caselli Il senso dell’opportunità di Giulio Cavalli Chi c’è in Cassazione di Nando dalla Chiesa Chi c’è in Cassazione di Max Vacirca

3 6 7 8 10

Donne contro

Padre-padrone, marito padrone di Michela Mancini “Mia moglie? Mia proprietà di Norma Ferrara La guerra di casa mia di Marcella Giammusso

12 14 16

Periferie

Morire in strada a 14 anni di Leandro Perrotta

18

Accadde domani di Francesco Feola

20

Inchieste

Tradizioni siciliane La Sicilia per tradizione è governata da mafiosi o da amici di mafiosi, regolarmente eletti dal popolo siciliano. Il presidente attuale non poteva sottrarsi a tale tradizione. Come sarà il prossimo presidente? Probabilmente analogo, perché: - i mafiosi e i loro amici sono uniti e perfettamente organizzati, hanno un Sistema; - gli antimafiosi sono divisi e squacquarati. Una volta avevano un partito che bene o male li teneva insieme, ora che il partito se lo dovrebbero fare loro non ci riescono perché sono tutti primedonne. Ogni quattro anni si accapigliano per decidere chi è più primadonna delle altre, col popolo a gridare felice (per una breve giornata) “viva” o “abbasso”. Il problema della Sicilia è la mafia, non ce ne sono altri. Lavoro, felicità, economia dipendono tutti da qui. Ma si preferisce far finta di essere a Stoccolma, chiacchierare di cose alte e “politiche” come se fossimo tutti gente civile. In queste condizioni le primarie a Palermo - per esempio sono una cosa futile (e facilmente infiltrabile, del resto). Una volta i candidati si discutevano nelle sezioni, di là nelle federazioni provinciali, poi nei congressi di partito che si tenevano regolarmente con precisi diritti e doveri. I partecipanti erano dei militanti attivi e non dei signori che passano una volta ogni quattro anni. Questo ai tempi della repubblica, un secolo fa. A Palermo, la destra non è mai stata divisa e perdente come adesso. Se dovesse vincere, la colpa non sarebbe dei mascalzoni ma di Crocetta, Alfano, Lumia, Borsellino, Ferrandelli, Orlando, Fava e degli altri (egocentrici) amici nostri.

Intervista a Salvatore Borsellino di Lorenzo Baldo Le indagini sull’agenda rossa di Lorenzo Baldo L’anno del golpe di Pietro Orsatti Barcellona/ L’autunno dei patriarchi di Antonio Mazzeo Il generale e la vedova di Salvo Vitale Un amore di Mauro Rostagno di Rino Giacalone Faide politiche in terra di mafia di Rino Giacalone

*

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DISEGNI DI MAURO BIANI

SOMMARIO Società

L’infanzia negata di Irene Di Nora La fine delle tute blu di Marina Brancato Il signore del vento di F. Appari e G. Di Girolamo Caos al centro commerciale di Francesco Ragusa

38 42 44 45

Emigranti

Emigranti in Sicilia di Giulio Pitroso e Attilio Occhipinti. Un inferno “legale” di Giorgio Ruta

46 48

Satira

“Mamma!”, a cura di Mauro Biani e Kanjano Modesta proposta di Jack Daniel

49 58

Inserto fotografico

L’insula nello Zen di Grazia Bucca

59

Ambiente

Super radar mostruosi di Enrica Frasca

65

Musica

Solea, o della solitudine di Antonello Oliva

66

Storia

Quando la giustizia chiudeva gli occhi di Elio Camilleri

67

Scienze

La centrale “Archimede” di Diego Gutkowski

68

Fantaeconomia

Stanno pensando ai “Google bucks” di Fabio Vita

71

Politica

Ricordando (a sproposito) Pasolini di Riccardo De Gennaro 74 Dai quartieri “di destra” al centrosinistra di Anna Bucca 75 Chi ha distrutto Palermo di Giovanni Abbagnato 76 Veneto

L’ombra di don Totò di Gabriele Licciardi

78

Lombardia

Vietato parlare di Roberto Nicolini e Martina Mazzeo

79

Graphic journalism

Don Peppe Diana di Da Sud Speciale Comiso

4 aprile/ Tutti a Comiso trent'anni dopo Perché torniamo a Comiso di Anna Bucca Vi mando una foto che è dentro di me di Antonella Giunta I ragazzi degli Anni Ottanta di Antonio Mazzeo Ti lascio in eredità i missili di Comiso di Giuseppe Fava

80 83 84 85 86 88 90

L'immagine

Fra i 100mila a Genova di Michela Mancini

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Giustizia

Il “concorso esterno” di Gian Carlo Caselli

Chiunque mastichi qualcosa di mafie

Dell’Utri) ha gagliardamente afferma-

clicamente riproposti. A partire dalle

sa che per realizzare i loro affari esse

to che alla figura del concorso esterno

ormai storiche esternazioni dell’allora

hanno bisogno di commercialisti, im-

ormai... non crede più nessuno.

premier Berlusconi. Al riguardo un

mobiliaristi, operatori finanziari, am-

Possibile che Iacoviello non cono-

ministratori e politici, notai e giuristi.

sca l’opinione che sul punto formula-

vista al periodico inglese Spectator e

Si tratta della cosiddetta “zona grigia”,

rono Falcone e Borsellino?

alla Gazzetta di Rimini dell’11.9.03

la vera forza della mafia, fatta di collusioni, complicità e coperture. Rinunziare ad indagare anche in questa direzione significa abdicare alla possibilità stessa di vincere la mafia . Ora, l’unico strumento idoneo a contrastare sul piano investigativo-giudiziario la “zona grigia” è il “concorso esterno”, che si ha quando taluno concorre – appunto - ad attività del sodalizio criminale senza farne parte come affiliato. Uno strumento da valorizzare, se la lotta alla mafia non si vuole svilire a mera dichiarazione di intenti, senza effetti sul piano concreto delle prassi operative. Convergenza di interessi Invece, altro che valorizzazione! Il dott. Iacoviello (non uno qualunque: il magistrato della Procura generale pres-

vero precursore, perché già nell’inter-

(dopo essersi divertito a definire i Le pagine di Falcone Eppure, basta recuperare la pagina 429 dell’ordinanza/sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxi-ter per trovarvi scritto che : “manifestazioni di connivenza e di collusione... possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo

magistrati “pazzi” e “antropologicamente diversi dal resto della razza umana”) ebbe a sostenere che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. Uno strumento decisivo

concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa

Questo concetto è stato poi ripetuto

‘convergenza di interessi’ col potere

per anni da una schiera di epigoni del

mafioso… che costituisce una delle

“leader” e ha finito per diventare un

cause maggiormente rilevanti della

ritornello della canzone sui teoremi

crescita di Cosa Nostra e della sua na-

giudiziari. Chi si colloca in questa

tura di contropotere, nonché, correla-

scia, magari inconsapevolmente, alme-

tivamente, delle difficoltà incontrate

no rifletta se di fatto non stia concor-

nel reprimerne le manifestazioni

rendo (esternamente...) al rischio di

criminali”.

sottrarre all’antimafia uno strumento

A fronte di queste parole, i logori ri-

decisivo. Che poi sarebbe come preten-

so la Corte di Cassazione che avrebbe

tornelli contro il “concorso esterno”

dere di fermare un carro armato con

dovuto sostenere le ragioni dell’accusa

valgono quel che valgono, ancorchè ci-

una cerbottana.

nel processo a carico del senatore

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Società civile

Il senso dell'opportunità di Giulio Cavalli Abbiamo perso l’esercizio del senso

Quando qualcuno alza la voce e tira

dell'opportunità. L’abbiamo lasciata in

fuori questa vecchia storia dell’oppor-

rebbe la politica: tanti boss, qualche

qualche vecchio cassetto o forse

tunità invece viene zittito come si zitti-

morto ammazzato per rendere truce la

l’abbiamo sempre lì appoggiata sulla

scono i molestatori.

scenografia e al massimo qualche as-

solita mensola ma ci siamo dimenticati

L’opportunità - ci dicono - è sancita

come si usa, abbiamo perso le istruzio-

dalla magistratura, niente tribunali del

ni. Gli ultimi arresti e le cicliche maxi

popolo - inorridiscono, sono sensibili -

operazioni hanno soffiato sull’indigna-

e niente teoremi! E così il senso di op-

zione e su un molle senso di allarme

portunità e del limite del tollerabile di-

generale sulle mafie ma in qualche

venta il chiodo fisso di pochi rimesta-

caso sembrano avere dato inizio ad

tori torbidi e esce dal dibattito pubbli-

un’erezione passeggera.

co. Senza nemmeno essere arrivato al

In Lombardia c’è in agenda un’ini-

tavolino del thé.

ziativa antimafia al giorno: è una bella abitudine di questi tempi, roba da fregarsi le mani rispetto ai prefetti che ne negano l’esistenza o ai sindaci che bal-

“E niente teoremi!” Oggi la Lombardia è ferita dalla

dell’antimafia lombarda come la vor-

sessore di un paesino piccolo piccolo. Non un centimetro in più. Un alieno fra i civili Diceva Paolo Borsellino che la mafia ha bisogno della politica e bisogna riconoscerne le zone d’ombra ma si è dimenticato di fare l’appello di chi si fosse reso disponibile a farlo. Poi non è importante che il riciclaggio giù al nord, la corruzione e la privatizzazione incessante delle regole

‘ndrangheta, ossessionata dall’avere i

siano il giaciglio perfetto per l’onnivo-

boss sullo stesso pianerottolo ma anal-

ra ‘ndrangheta che ridisegna le econo-

fabeta: analfabeta nei modi, nei tempi,

mie e i territori, sembra che non sia

nelle meccaniche delle collusioni e nel

importante che le ultime indagini ci di-

Un tema per le disquisizioni

coraggio. Celebra l’avvocato Ambro-

cano che la merda sotto terra per qual-

soli ammazzato dal sicario di Sindona

che centesimo al chilo sia sotto le auto-

bettano imbarazzati parlando flebilmente di presunte, possibili, circostanziate possibilità di infiltrazioni future.

Eppure le mafie quassù sono una

ma non invita il figlio Ambrosoli alla

strade che porteranno a Expo, non im-

cosa a sé: un mostro un po’ peloso che

commemorazione del padre: si è per-

porta che Lea Garofalo sia stata uccisa

ha bisogno di essere raccontato perché

messo di raccontare che l’opportunità

in pieno giorno in centro a Milano o

faccia meno paura. E mentre ci si con-

di una Regione con più indagati che

che brucino i beni confiscati: la mafia

vince di compierne l’analisi si finisce

idee ed è stato inopportuno. Lui.

qui è un alieno atterrato tra i civili.

per sublimarlo, così la pulsione aggres-

Bisogna parlarne ma non superare il

siva sparisce e la criminalità organiz-

confine, contenersi in una buona edu-

zata diventa un buon tema per le di-

cazione che si limiti per i più coraggio-

squisizioni padanamente saccenti da-

si a riportare le notizie giudiziarie. Bi-

vanti al thé.

sogna imparare in fretta il bon ton

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Ma i civili sono innocenti. Altrimenti che civili padani sarebbero?


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Giustizia/ Chi c'è in Cassazione - 1

L'uomo che annullò la condanna di Dell'Utri. Una storia di Nando dalla Chiesa

Sant’Iddio, la memoria. Che cosa è non averla…Ma davvero vi pare così strano che una corte presieduta in Cassazione dal giudice Aldo Grassi abbia annullato la sentenza d’appello su Marcello Dell’Utri e abbia sconfessato il concorso esterno in associazione mafiosa? E allora sentite questa storia. C’era la Sicilia degli anni ottanta. E c’era la mafia, naturalmente. Forte, fortissima a Palermo, che era da sempre casa sua. Meno potente ma ormai in crescita a Catania, dove aveva rapporti strettissimi con i maggiori imprenditori locali, chiamati “Cavalieri del lavoro”, anche se la parola d’ordine era che la mafia non vi esistesse. A Palermo, una magistratura nuova A Palermo però stava affiorando una magistratura nuova. Non solo non complice, ma addirittura intenzionata a imporre ai clan il rispetto delle leggi. Per questo i giudici vi venivano uccisi, anche ai livelli più alti. Il capo ufficio istruzione Cesare Terranova (1979), il procuratore capo Gaetano Costa (1980) e di nuovo il capo ufficio istruzione Rocco Chinnici (1983). E dietro di loro cresceva il prestigio e l’influenza di altri magistrati più giovani, due dei quali si chiamavano Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Quest’ultimo

soprattutto mostrava, oltre a grandi capacità investigative, una spiccata propensione a parlare di dottrina, a proporre cambiamenti nei codici, nella giurisprudenza e nell’ordinamento giudiziario per rendere la lotta alla mafia cosa efficace. Si faceva spiegare Cosa nostra da grandi boss, giungeva perfino a colpire i piani più alti del livello economico-finanziario dell’isola, come i cugini Nino e Ignazio Salvo. Ma a Catania tutto questo non c'era A Catania invece tutto questo non c’era. A Palermo il prefetto veniva ucciso, a Catania il prefetto presenziava sorridente all’inaugurazione del salone automobilistico del boss Nitto Santapaola. A Catania funzionava un blocco di potere granitico alimentato dai soldi dei Cavalieri. Economia, burocrazie, partiti, intellettuali, giornali. E giustizia. Una giustizia solerte a insabbiare, a proteggere. Un giornalista, si chiamava Pippo Fava, denunciò con vigore questo blocco di potere. Venne ucciso all’inizio del 1984. Ma lo scandalo cresceva, era davvero impossibile non vedere che mondo si fosse costruito intorno ai soldi dei Cavalieri e ai loro rapporti con la mafia cittadina. Li aveva chiamati in causa il prefetto dalla Chiesa. E sulle loro fatturazioni false, specie

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quelle del Cavaliere Rendo, si indagava ovunque: a Palermo, a Siracusa, anche ad Agrigento, dove c’era un giudice ragazzino, si chiamava Rosario Livatino (anche lui sarebbe stato ucciso anni dopo), che faceva da solo quel che tutto il palazzo di giustizia di Catania (“oberato”, naturalmente) non faceva. Poi si insospettirono anche la Guardia di Finanza e la questura catanesi, e i Cavalieri pensarono di rimediare premendo sui Palazzi romani per fare traferire il questore. Fatto sta che per capire che cosa stesse succedendo in quel Palazzo di giustizia arrivarono gli ispettori ministeriali. Che con 3.252 pagine di allegati dissero e scrissero quello che il povero Fava aveva gridato con quanto fiato aveva in gola. Sulla giustizia catanese c’era un macigno che bloccava tutto. Le denunce del professor D'Urso E questo macigno aveva dei nomi. Il primo era quello del procuratore capo Giulio Cesare Di Natale. Il secondo era quello di un suo sostituto, si chiamava Aldo Grassi, che il professor D’Urso, integerrimo architetto che denunciava le omissioni dei giudici sugli scempi urbanistici dei Cavalieri, aveva soprannominato “Beddi capeddi” (“Bei capelli”).


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“Sconfessato il concorso esterno in associazione mafiosa”

Marcello Dell'Utri Gli ispettori mossero al dottor Grassi una quantità sterminata di addebiti. Di ritardi nella trattazione del processo per l’omicidio del procuratore Costa. Di avere accumulato lentezze intollerabili e a loro avviso sospette nei procedimenti a carico dei Cavalieri. Di lui scrissero: “evidenzia una linea direttiva preordinata ad accantonare le denunzie contro i grandi costruttori per fatturazioni per operazioni inesistenti”. E, a proposito di un procedimento a carico della famiglia del Cavaliere Rendo: “consegue la sicura censurabilità dell’anzidetta stasi processuale a carico del Dott.Grassi”. Lo rimproverarono anche di non avere avvisato di trovarsi in conflitto di interessi nel trattare procedimenti nei confronti del Cavalieri Carmelo Costanzo, essendo inquilino di una casa di proprietà di una società del costruttore. Accuse di collusioni e ambiguità Al termine del loro rapporto gli ispettori scrissero: “Nella specie, quindi, non sussistono soltanto comportamenti, riconducibili a magistrati, tali da offuscarne la credibilità, sufficienti ai fini della sussistenza della incompatibilità ambientale, ma sono emerse accuse (collegate a fatti in parte fondati) di collusioni o comunque di rapporti ambigui, di insabbiamenti, di inerzie, di negligenze o di com-

piacenze nei confronti di quel nuovo, e non meno pericoloso, tipo di delinquenza che è la criminalità economica”. E ancora: “Deve con certezza ritenersi che lo svolgimento delle funzioni requirenti da parte dei d.ri Di Natale e Grassi sia stato offuscato da sospetti, critiche, accuse che infirmano in modo grave la loro credibilità e che sono state tra l’altro in gran parte confermate da quanto è stato accertato nella presente inchiesta”. E Grassi chiese il trasferimento Grassi venne anche accusato di avere chiesto contributi alla famiglia del Cavaliere Rendo per finanziare un convegno di Magistratura Indipendente. Gli ispettori conclusero di “potere stabilire con assoluta certezza” per Di Natale e Grassi la sussistenza “delle condizioni di incompatibilità ambientali”. Grassi chiese a quel punto il trasferimento a Messina. Il ministro provvide per Di Natale con azione disciplinare. Intanto a Palermo Falcone accumulava il materiale per il maxiprocesso. Che lo avrebbe portato a convincersi che occorreva colpire il concorso esterno in associazione mafiosa: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono -eventualmente- realizzare condotte di fiancheggiamento del potere

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mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili -a titolo concorsuale- nel delitto di associazione mafiosa. Questa “convergenza di interessi” Ed è proprio questa “convergenza di interessi’ col potere mafioso[…] che costituisce una della cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, della difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali” (dalla sentenza-ordinanza conclusiva del maxiprocesso ter, luglio 1987). Poteva mai condividere queste parole il dottor Grassi giunto in Cassazione a giudicare Marcello Dell’Utri? P.S. Quanto ai procuratori generali in Cassazione, non sempre fanno testo. Ce ne fu uno, Tito Parlatore, che negli anni sessanta, al processo contro gli imputati dell’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale difesi dal futuro presidente della Repubblica ed ex capo del governo Giovanni Leone (e assolti per insufficienza di prove), tuonò che la mafia non era materia per tribunali ma materia “per conferenze”. Erano già stati uccisi quaranta sindacalisti, e c’erano state le stragi di Portella delle Ginestre e di Ciaculli… IlFatto Quotidiano/ www.nandodallachiesa.it


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Giustizia/ Chi c'è in Cassazione - 2

A volte ritornano E non bisogna dimenticare di Max Vacirca

Uscito nel 1985 dalla finestra di un frettoloso trasferimento dalla procura di Catania a quella di Messina, Aldo Grassi (questo il nome), rientra nella cronaca 27 anni dopo, ma dalla porta principale del Palazzo di piazza Cavour, Roma, dove ha sede la Corte di Cassazione. Passati quasi tre decenni e mutato lo scenario nazionale (non c’è più il Muro di Berlino, né la prima Repubblica, né la Lira e neanche Falcone e Borsellino, ma ci sono telefonini e i-Pad e Berlusconi è stato tre volte premier), Grassi ora siede sulla poltrona di presidente di sezione penale della Suprema Corte. Quella corte che ha sancito la cancellazione con rinvio in appello del processo di secondo grado al senatore Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno a la Cosa nostra siciliana. Un frettoloso trasferimento Il principio della presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato è talmente sacro che non si discute (magari cercando di non dimenticare che il vero garantismo giudiziario è fatto anche di “leggi uguali per tutti”) ed è democraticamente pericoloso pensare che nei tribunali “il sospetto” sia “l’anticamera della verità”, ma fuori dalle aule dei tribunali bisognerà pur parlare delle sentenze e di chi le fa.

E allora, Aldo Grassi? Chi era costui e perché andò frettolosamente via da Catania? Aldo Grassi? Chi era costui? Il suo nome apparve per la prima volta sulle cronache sul finire del 1982, esattamente negli atti del Consiglio superiore della magistratura. A palazzo dei Marescialli, sede del Csm, in quei mesi il “caso Catania” teneva banco e per la prima volta affiorava anche sui giornali nazionali: il generale Dalla Chiesa, appena ucciso a Palermo, aveva detto che la mafia aveva messo radici anche nella Sicilia orientale. Rocco Chinnici, Pio La Torre, il procuratore Costa, il presidente della Regione Piersanti Mattarella e tanti altri uomini (giudici, poliziotti) ai vertici dello Stato in Sicilia erano stati uccisi. La rivista “I Siciliani” stava per uscire in edicola. Il “caso Procura d Catania” fu il primo, gravissimo (e forse insuperato) caso di presunta corruzione a palazzo di giustizia che la storia giudiziaria italiana ricordi. Il sistema “massomafioso” Il nome di Grassi era, più precisamente, scritto negli atti della relazione firmata dagli ispettori ministeriali (guardasigilli era Mino Martinazzoli) inviati nella città siciliana anche su sollecitazione

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dell’allora capo dello Stato Sandro Pertini, a sua volta sollecitato da una lettera del professor Giuseppe D’Urso, urbanista catanese autore di una storica denuncia sulla presenza di un sistema “massomafioso”a Catania. A Catania, in quegli anni, la denuncia di D’Urso non la poteva leggere nessuno perché il quotidiano “La Sicilia” – unico organo di stampa in città - non ne dava notizia e allora “I Siciliani” colmarono anche quella vistosa lacuna informativa. I cronisti di Giuseppe Fava A palazzo dei Marescialli, i cronisti ventenni del giornale di Giuseppe Fava arrivarono armati degli unici strumenti dell’epoca: taccuino e curiosità di sapere e di andare alle fonti. Nella loro corposa relazione, gli ispettori del ministro avevano scritto il romanzo della corruzione a palazzo. Gli atti erano pubblici e alcuni consiglieri (il laico Alfredo Galasso e il togato Raffaele Bertone) confermarono a “I Siciliani” la gravità delle notizie contenute nella relazione ministeriale. Da alcuni mesi, la guardia di finanza aveva inviato in Procura una denuncia su un giro miliardario (in lire) di evasioni fiscali, gestito da un faccendiere di Agrigento, tal Giuseppe Cremona, alcuni anni dopo ucciso misteriosamente in un agguato mafioso.


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“La lettera a Pertini del professor Giuseppe D'Urso”

Aldo Grassi nel 1983 (da “I Siciliani” dell'epoca).

In basso: Il professor Giuseppe D'Urso, che con le sue denunce scatenò il primo “caso Catania”.

Il rapporto della Guardia di Finanza accusava, tra gli altri, i quattro cavalieri del lavoro Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro (tra i più potenti e ricchi costruttori dell’epoca in Italia, i primi due tra i primi dieci nelle classifiche nazionali per fatturato) di essere parte dell’affollato sistema di evasione fiscale (ampiamente documentato nei controlli della Finanza): ma la cartella contenente quel rapporto era chiusa da circa un anno in un cassetto della Procura, con su scritto “atti relativi a….”, ma senza atti investigativi e senza indagati (allora si diceva “inquisiti”). La denuncia restava nel cassetto... Perché quella denuncia non andava avanti? Perché – questo il “sospetto” del professor D’Urso - i vertici dell’ufficio della pubblica accusa di quell’epoca a Catania non erano estranei al sistema di

potere a Catania. Su cosa si fondava l’accusa? Su cose anche banali, per esempio il cartoncino di presentazione di un convegno di una corrente della magistratura associata, “Magistratura Indipendente”, alla quale aderivano il procuratore reggente Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore di punta Aldo Grassi. Quel convegno era sponsorizzato da Rendo, Graci e Costanzo. Domanda: può un pm, chiamato a indagare su un imprenditore, andare a chiedere al suo potenziale indagato soldi per sponsorizzare un convegno della propria corrente sindacale? La risposta a chi legge, detto che chiedere una sponsorizzazione non è un reato, ma detto anche che la Costituzione e alcune ovvie leggi morali non scritte dicono che i giudici devono essere e apparire indipendenti e super partes. Colpi di penna per aiutare Rendo... Ma nel 1982 nella relazione ministeriale degli ispettori di Martinazzoli e che poi diventò un pezzo in apertura del primo numero de “I Siciliani” (titolo in stile anni 80: “L’ermellino, la volpe e la lupara”) e nelle relazioni successive di Csm e mnistero, era scritto anche altro. Roba dura e da film giallo: gli ispettori avevano trovato le prove di una “corre-

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zione a penna” a margine dei certificati dei carichi penali pendenti intestati a Rendo e Costanzo. Qualcuno aveva retrodatato a mano l’iscrizione dei due nomi eccellenti come inquisiti in alcuni processi. E ciò per permettere alle loro imprese di partecipare a gare d’appalto: la legge La Torre vietava che imprenditori con “precedenti penali” potessero prendere parte a gare. Bene. Questo scrivevano gli ispettori e proponevano alla prima commissione di aprire un procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale a carico di Di Natale e Grassi. E per entrambi segnalarono al ministro anche l’esigenza di aprire un processo disciplinare. L'esigenza di un processo disciplinare Più tardi, nel corso del 1983 e 1984, questa vicenda andrà avanti e alla fine, di fronte alla prospettiva di essere trasferiti o sanzionati disciplinarmente dal Csm, i due alti magistrati sceglieranno di evitare le sanzioni: Di Natale chiedendo di andare anticipatamente in pensione; Grassi chiedendo il trasferimento alla Procura di Messina. All’inizio degli anni 90, ecco Grassi in Cassazione a Roma, dove lo ritroviamo ora presidente della sezione penale che cassa la sentenza d’appello a Dell’Utri.


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Donne contro

Padre-padrone, marito padrone (e mafioso) Poi, la rivolta Carmela Iuculano è una donna siciliana, ha trentanove anni e vive sotto protezione. Per i primi trent’anni della sua vita ha rinnegato se stessa in nome degli uomini e del loro potere di Michela Mancini

È fuggita da un padre che la soffocava, sposando un uomo forte e spavaldo. La violenza si è alternata al silenzio. Un gioco spietato in cui ogni passo compiuto era quello sbagliato. In una notte di maggio del 2004 ha deciso di riprendersi quello che le spettava.

Carmela cresce a Cerda, una cittadina vicina a Palermo. La sua è una famiglia per bene, hanno un’impresa. Fin da piccola Carmela deve incarnare la parte della brava ragazza. Non le è concesso uscire con le amiche, non può andare alle feste di paese. Sebastiano, suo padre, è geloso, possessivo, non le permette di mettere bocca nelle questioni di famiglia: è la figlia femmina, deve stare zitta e obbedire. A sedici anni le propongono di partecipare ad una selezione per Miss Italia, quando un giorno un ragazzo di nome Pino la avvicina per strada: «Se accetti di fare il concorso non diventerai la mia ragazza». Carmela alza lo sguardo fiero: «E tu chi sei per decidere che io sono la tua ragazza?». Pino le risponde secco: «Lo decido io e basta». È lui l’uomo giusto: così sicuro di sé terrà testa a quel padre padrone che la tiene chiusa in casa. «Me ne sono andata facendo finta che andavo dalla mia nonna … da lì hanno sospettato qualcosa e mi cercavano, e mentre mio padre mi cercava è stato fermato dall’altro zio di mio marito, Rizzo Angelo, con una lupara, un fucile, e in mezzo alla strada lo fermò dicendogli che lui si doveva stare fermo, che ormai io appartenevo a suo nipote e che non doveva cercarmi più». Carmela è delusa dal comportamento del padre, non credeva si sarebbe arreso così facilmente. Forse, pensa, non sono così importante per lui come credevo. Scappa. Una fuga di cui ignora la meta. Il giovane Rizzo ha potere e questo è sufficiente. Carmela non sa a che destino sta andando incontro. La famiglia di Pino è affiliata a Cosa

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Nostra. Suo zio è Rosolino Rizzo, capomafia di Cerda, condannato all’ergastolo per duplice omicidio. I Rizzo erano legati al braccio destro di Provenzano, Nino Giuffrè, ora collaboratore di giustizia. Carmela a diciassette anni rimane incinta, è costretta a trascorrere l’intera gravidanza a letto. Intanto Pino trova lavoro, in casa non si vede e, quando c’è, è come se non esistesse. Quando nasce Daniela la situazione peggiora: la neonata dorme di giorno e piange di notte. Pino perde la pazienza e si sfoga con Carmela, la picchia, poi comincia a tradirla. Inaccettabile per Cosa Nostra. Un fucile e una pistola Interverranno i parenti di Pino, lui si giustifica con zio Rosalino: «Carmela non mi soddisfa sessualmente». Lo zio non sente ragioni, Pino deve stare con la moglie altrimenti l’onore della famiglia è perduto. Carmela si confida con la madre: «Mi fa guardare i film pornografici e mi chiede di fare quelle cose. Ma che devo fare?». La risposta è sempre la stessa, un dogma: «Se tuo marito te le chiede, le devi fare». Alla fine del 1993 Carmela è di nuovo incinta. La madre si trasferisce a casa sua per aiutarla. Sarà lei a svelare il mistero della famiglia Rizzo. «Una mattina mentre faceva i mestieri giù al pianterreno, mamma si accorse che sotto al mobile bar c’erano delle cose a terra, sposta ’stu mobile e vide che c’erano un fucile e una pistola... Io poi chiesi a mio marito, che negò tutto. Una sera però mio marito tardava a salire e così, piano piano, sono scesa per vedere che


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“Mi vergogno di essere considerata la figlia di un mafioso”

stava facendo, magari stava mandando qualche messaggio col telefonino, sempre per cose diciamo a livello extraconiugale, e invece trovai che era in bagno e toglieva una busta da dentro la cassetta dell’acqua, e gli chiesi "ma che c’è lì dentro?", e lui mi disse "niente, sono munizioni". E io: "Allora perché mi hai negato quello che aveva detto mia mamma?", e lui si è messo a ridere, come al solito; quando non aveva risposte da darmi, rideva, e buonanotte». Qualche mese dopo nascerà Serena: un’altra femmina, un’altra delusione. Carmela non è buona a far niente, neanche i figli. Dopo un breve periodo in carcere, Pino torna a casa, più violento di prima. La galera non è stata altro che la definitiva investitura mafiosa. Mamma di due bimbe, moglie per forza, Carmela non mangia più, vomita, soffre d’anoressia. Una sera ingoia delle pasticche, una, due, tre... Perde il conto e si addormenta. Quando si risveglia in ospedale, il marito le da’ il colpo finale: «Dallo psicologo non ci vai. Se ti permetti, ti faccio togliere le bambine e ti mando in manicomio. Io ti ho sposato solo per avere vantaggi economici dalla tua famiglia. Io amo un’altra donna, abbiamo anche pensato di trasferirci al Nord». A impedire la fuga a Pino non è il matrimonio, è Cosa Nostra. Lo zio Rosolino interviene di nuovo, il nipote sarà costretto a chiedere scusa alla moglie. Carmela vede uno spiraglio di luce: vuole approfittare della debolezza di Pino per prendere le redini del gioco. I rapporti sembrano migliorare, al punto da divenire la complice numero uno del marito.

Pino vuole diventare capo-mandamento di Cerda, chiede a Carmela di aiutarlo nella scalata al potere. Lei comincia a coprirlo, ormai sa di essere la moglie di un boss. Recita la parte come fosse la prosecuzione del copione che leggeva da bambina. Dalla mani del padre è passata alle mani del marito. Spesso, durante le riunioni del clan, Carmela porta le bambine dai nonni per lasciare la casa indisturbata; altre volte rimane, per controllare i movimenti all’esterno dell’abitazione. Dopo l’arresto dello zio Rosalino, Pino spera di prendere il suo posto, ma qualcosa non va per il verso giusto. Poco dopo viene arrestato. È dicembre 2002. Carmela andrà a trovarlo in carcere per fargli conoscere il piccolo Andrea, appena nato. In carcere come un pascià Pino sembra contento, ma è concentrato solo su sé stesso. Le dichiarazioni di Giuffrè lo hanno esaltato. Il pentito ha rivelato alla Procura che Pino Rizzo è un uomo pericoloso, indicandolo come suo stretto collaboratore. Ma Pino non è preoccupato, in carcere sta come un pascià, grazie all’aiuto della moglie continua a dirigere i suoi traffici senza difficoltà. Proprio durante i colloqui in carcere, Carmela conosce un altro uomo. Cominciano a frequentarsi: lui è galante, la riempie di complimenti, la porta al ristorante. Carmela sogna di fuggire. Un sogno che dura un momento: il suo amante è un uomo della camorra, sarà lui stesso a confidarglielo. Lei stenta a crederci.

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Un labirinto senza uscita, una maledizione. Carmela prega, cerca un senso per continuare a campare. È il 4 maggio del 2002, la Polizia bussa di nuovo alla sua porta. Questa volta sono venuti a prendere lei. L’arrivo in carcere è traumatico, sente i bisbigli delle detenute al suo passaggio: «Eccola la boss dei Boss». Carmela ha solo paura, di essere la moglie di un mafioso non gliene frega niente. Pochi giorni dopo le saranno concessi i domiciliari. Tornata a casa troverà solo i figli ad aspettarla. Daniela, la più grande – di dodici anni – le vuole parlare: «Mamma io non ti ho mai detto niente, ma mi vergogno tanto di essere considerata la figlia di un mafioso. Perché non dici la verità alla Polizia?». Carmela è sbalordita. Non sa cosa dire. «Lo sai che significa? Dovrò accusare papà di cose molto brutte, persino di aver ucciso. Saremo costretti a partire da soli, non rivedremo più i nonni, gli amici, la nostra bella casa». Daniela: «Mamma, saremo tutti insieme». È l’alba. Le bambine e il piccolo Andrea dormono, Carmela scrive alla procura di Palermo. Pochi giorni dopo delle macchine scure e una fila di agenti arrivano davanti la casa della famiglia Rizzo, per portarli via. Carmela guarda dal finestrino la vita che sta abbandonando. «Mi manca la mia terra, il mare, il sole, ma mi piace questa nuova Carmela: mi sento pulita, libera, sono una persona normale come tutti, non sono più impigliata in quella ragnatela che è la mafia, che ti stringe fino a non farti più respirare». Questa volta è stata lei a scegliere.


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Donne contro

“Mia moglie? Mia proprietà”. Morire di mafia, e di marito Mentre continua il silenzio dei mass media sul processo in corso a Milano per l’uccisione della testimone di giustizia, Lea Garofalo, i giovani di Libera, nel capoluogo milanese come in Calabria, hanno scelto di “adottare” la storia della giovane donna e della figlia, Denise di Norma Ferrara Liberainformazione

Di mafie e di violenza le donne continuano a morire, dal Sud al Nord e il loro grido di denuncia e allarme rimane inascoltato Dalla Calabria a Milano «Agli inizi io ho mantenuto i rapporti, anche perché quando gli ho detto … che avevo intenzione di lasciarlo e di andarmene via … mi è saltato addosso, sono intervenute le guardie, un macello insomma …». L’uomo da lasciare è Carlo Cosco, raccontato da Lea Garofalo, la testimone di giustizia, originaria di Petilia Policastro in Calabria e morta a Milano, dopo un sequestro, un “brutale interrogatorio” e un omicidio, il 24 novembre del 2009. Rapporti di proprietà Quella di Lea, che abbiamo raccontato nel primo numero de I Siciliani Giovani, è una storia di donne e di ‘ndrangheta: ma è anche la storia di una moglie e di un marito, di rapporti di “proprietà” e controllo ossessivo

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generati dalla necessità di tenere insieme affari, potere, famiglia. Principali accusati di questo omicidio l’ex convivente della donna, Carlo Cosco, ed il fratello, Giuseppe. Intorno a loro una rete di fiancheggiatori, sui quali pendono più di un sospetto e alcune prove: Vito e Rosario Cosco, Massimo Sabatino e Carmine Venturino. Gli “equilibri” del quartiere I Cosco a Milano, secondo gli inquirenti, trafficano droga e “gestiscono” buona parte degli equilibri del quartiere che ospita il condominio di via Montello 6. Nei loro confronti pendono le accuse di sequestro e omicidio premeditato nell’interesse della“famiglia” agli occhi della quale Lea era e restava una donna pericolosa per le dichiarazioni rese ai magistrati (dagli affari di droga a Milano, all’omicidio di Antonio Comberiati, uomo di mafia, ucciso il 17 maggio 1995 ma “dichiarazioni mai confluite in un processo”) e anche per quella sua voglia di andare via,


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“Quei pochi centimetri di libertà”

lontana da tutti, lontana dai Cosco e dalla ‘ndrangheta, conosciuta sin da piccola. Per l’omicidio di Lea Garofalo queste settimane saranno decisive: le udienze porteranno dritte alla sentenza per un omicidio che non sarà di mafia, eppure nell’ordinanza di custodia cautelare per gli imputati i magistrati scrivono esplicitamente che si tratta di un omicidio premeditato con aggravanti “l’abuso di relazioni domestiche” e finalità di “agevolare l’attività di stampo mafioso”.

raggio di queste donne si è affiancato quello dei giovani che a Milano hanno fatto nascere un presidio della rete di associazioni di Libera dedicato a Lea. Erano a Genova il 17 marzo, per portare questa storia nella Giornata della memoria e dell’impegno indett da Libera.

I giovani per Lea e Denise La storia di Lea continua ad interessare poco il grande mondo dell’informazione che solo in qualche ritaglio di cronaca se n’è occupato. Mentre è stata “adottata” sul web: le udienze vengono raccontate su Narcomafie e Libera Informazione dalla cronista Marika Demaria e dalla testata on line degli studenti di “Stampo antimafioso”. In tribunale al fianco di Denise hanno lottato le avvocatesse di parte civile Enza Rando e Ilaria Ramoni. Al co-

no” su quel territorio, i novecento nomi delle vittime delle mafie. Nelle stesse ore i ragazzi di Crotone hanno parlato a Denise, loro coetanea, loro conterranea, attraverso una lettera aperta. Alla ragazza, da poco, la Regione Lombardia ha deciso di garantire il sostegno dovuto: proseguimento degli studi a carico dello Stato. Quello stesso Stato che non ha saputo proteggerla e che non riesce a far suo il grido d’allarme e di denuncia delle donne vittime di violenze e di mafie: trentasette donne sono state uccise dall’inizio dell’anno in Italia per mano di uomini. La strage silenziosa

Rientrati a Milano, il 21 marzo, con una folla di cittadini sono andati tutti insieme sotto via Montello 6 per leggere, proprio in faccia ai presunti assassini di Lea che ancora “comanda-

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A Sud, ma molto spesso anche nel profondo Nord, esse si trovano impegnate in una lotta di liberazione da due poteri che spesso coincidono: quello dei molti compagni che le ritengono “cosa loro” e quello della ‘ndrangheta che le minaccia, le costringe a scappare, le uccide, quando cercano per sé e per le proprie figlie pochi centimetri di libertà.


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Donne contro

La guerra di casa mia Violenza domestica e cultura mafiosa Si ubriaca, torna a casa e la picchia. E' una storia comune, in alcuni quartieri. Ma non c'era il progresso, non erano arrivati i diritti? Da qualche tempo in qua, per molte donne, la storia è tornata indietro. Aumentano le violenze, aumentano gli omicidi. E non solo mafiosi di Marcella Giammusso I Cordai

Mai come in questo periodo la vita delle donne è difficile e pesante, mai come in questi ultimi anni siamo venuti a conoscenza di così numerosi atti di violenza fisica e psicologica verso le donne. Violenze e omicidi spesso compiuti da uomini molto vicini alle vittime che avvengono nella maggior parte fra le mura domestiche, quelle stesse mura che dovrebbero in qualche modo proteggere ognuno di noi

Catania, quartiere di San Cristoforo la storia di Mariella, nome convenzionale dato a caso, è un emblema della situazione in cui vivono tante donne, non solo a Catania ma in tanti quartieri delle città del Sud. Dopo un’esperienza matrimoniale fallita e con due figli da crescere e mantenere, Mariella ha l’occasione di incontrare ed innamorarsi di un altro uomo. Convivenze necessitate Per una donna sola, senza istruzione e senza lavoro è difficile affrontare i problemi della vita, confrontarsi giorno per giorno con le difficoltà di ogni genere per racimolare pochi euro che le permettano di pagare l’affitto di quelle due camere a pianterreno che a stento possono chiamarsi casa, saldare le bollette dell’acqua e della luce, vestire i propri figli, ma soprattutto fare la spesa. Inoltre l'abbandono da parte delle istituzioni verso le donne che non hanno alcun sostegno sociale o un lavoro che le renda indipendenti fa sì che si sia costrette ad “innamorarsi” per opportunismo piuttosto che per amore. Quel “peccato originale” commesso da chi amministra per conto dello stato influisce anche su scelte di vita che si presume siano solo sentimentali. Per cui Mariella decide di andare a convivere con quest’uomo che ama. Condividere la vita con lui significherebbe risolvere alcuni problemi economici e sopratutto avere un uomo accanto la farà sentire più sicura e protetta. Con il passare del tempo però quest’ uomo si dimostra molto diverso da quello che Mariella ha conosciuto. Lui lavora saltuariamente, ma la cosa grave è che

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dei pochi soldi che guadagna a casa ne porta una minima parte mentre il resto lo spende nelle putie dove tracanna così tanto vino da ubriacarsi. Quando torna a casa è un susseguirsi di litigi fra lui e Mariella con la quale scarica tutta la sua violenza. Spacca i tavoli a colpi di pugni, rompe le sedie lanciandole contro i muri, incutendo paura e terrore. Spesso al culmine della lite arriva a picchiare la sua compagna, non curandosi nemmeno della presenza dei bambini. Quando poi la sbornia finisce, egli le chiede perdono promettendole che non succederà più. Invece puntualmente l’uomo continua ad ubriacarsi e quando torna a casa sfoga la sua sbornia con violenze e maltrattamenti. Perché si sceglie di tacere Su Mariella sono evidenti i lividi ed i segni dei maltrattamenti a cui è stata sottoposta, ma la donna non ha il coraggio di denunciarlo. Dovrebbe subire l’interrogatorio della Polizia, e poi dovrebbe sopportare il confronto con i parenti e mostrare la vergogna di un altro fallimento; e poi come farebbe a mantenere i propri figli senza un lavoro? Così Mariella sceglie di non denunciare e tenersi il suo uomo, continuando a vivere, se così si può dire, nella paura e nella violenza, sottomettendosi alle angherie ed ai soprusi del suo compagno. Forse un giorno avrà la forza di ribellarsi e fuggire da questa situazione di oppressione e maltrattamenti, ma affinché questo possa succedere Mariella deve trovare la sicurezza dentro se stessa e soprattutto deve trovare la sua tranquillità economica, che potrà avere solo con un suo lavoro.


www.isiciliani.it Foto di Ivana Parisi

Altri quartieri, altri contesti, altre città, altri ceti sociali: la situazione non cambia. Anzi la violenza dell’uomo sulla donna raggiunge il massimo della sua manifestazione, si arriva all’omicidio. Omicidi mafiosi e non Stefania Noce, 24 anni, studentessa universitaria, impegnata socialmente nelle lotte contro le ingiustizie sociali, uccisa assieme al nonno da diverse coltellate inflittegli dal suo ex fidanzato. Francesca Alleruzzo, 45 anni, maestra elementare, vittima della furia omicida dell’ex marito, il quale non ha esitato ad uccidere anche la figlia della donna, il fidanzato ed il nuovo compagno della donna, pur di completare il suo piano omicida. Gabriella Falzoni, 51 anni, strangolata con un foulard dal marito al culmine di un litigio causato dalla gelosia dell’ uomo. Sono donne vittime di una violenza maschile che si fa chiamare amore. Sono alcuni esempi di ferocie avvenute ultimamente, ma l’elenco è molto più ampio. Donne uccise dall’ancor più infame sistema mafioso, che tiene in pugno le volontà delle donne e le considera proprietà delle cosche. Lea Garofano, 35 anni, era una collaboratrice di giustizia sottoposta a protezione. Aveva deciso di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. Torturata e poi uccisa con un colpo di pistola, il suo corpo poi venne sciolto nell’acido. Maria Concetta Cacciola, 31 anni, testimone di giustizia, fatta morire dalla

sua famiglia perché aveva scelto la libertà. Si suicida ingerendo acido muriatico. *** L’omicidio è il massimo della violenza che si possa infliggere ad un essere umano. Ma le donne molto più spesso vengono sottoposte ad angherie, brutalità e soprusi fisici e psicologici che non vengono né denunciati né esternati, neanche alle persone più vicine. Per una donna è umiliante dovere prima ammettere che il suo uomo le abbia fatto del male e poi è ancora più difficile essere sottoposta ad interrogatori e domande che la portano ad essere lei stessa imputata ed a doversi giustificare del cattivo comportamento del proprio uomo. Quante volte ci è successo di vedere una nostra amica o una nostra parente con dei lividi in viso o nel corpo che lasciano presumere una violenza ricevuta. Eppure alla domanda “ma cosa ti è successo?” con imbarazzo e difficoltà questa risponde “niente, sono caduta!” oppure “ non ho visto un palo e ci sono andata a sbattere contro!”. E quando si parla della realizzazione degli obiettivi della propria vita, quante donne hanno dichiarato “Mi sarebbe piaciuto lavorare ma mio marito non vuole!”. Ma che diritto hanno gli uomini di decidere sulle aspirazioni delle proprie compagne? Amare una persona non vuol dire essere padroni della sua vita ma donarsi reciprocamente. Non tutti gli uomini naturalmente usano violenza alle donne, ma quelli che la usano lo fanno per mantenere o rafforzare il loro potere nei riguardi delle donne e di chiunque sia più debole.

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Eppure le donne hanno sempre dimostrato e continuano a dimostrare una forza d’animo non comune. Sono le donne a mettersi avanti quando in famiglia c’è un genitore da accudire o un familiare che sta male, sono le donne che si sbracciano le maniche e fanno qualsiasi tipo di lavoro quando il marito o il compagno è disoccupato o non bastano i soldi per arrivare alla fine del mese. Sono le donne ad attivarsi con lavori onesti quando il marito è in carcere per pagare gli avvocati e mantenere i figli. Sono principalmente le donne che si preoccupano dell’educazione dei figli, cercando di creare un futuro migliore per essi. Una società che calpesta Il problema della violenza sulle donne è principalmente un problema degli uomini e bisogna risolverlo con loro. Spesso gli uomini sono schiacciati dalla nostra società dove i valori che contano sono quelli dell’apparire e quelli dell’avere. Una società che spesso calpesta la dignità di ogni uomo e ogni donna ed un mondo del lavoro che opprime gli animi e non dà alcuna gratificazione. E ancora, la politica e le istituzioni non creano le condizioni per uno stato sociale che abbia cura dei suoi cittadini e delle sue cittadine. In questa situazione gli uomini esprimono il loro disagio in famiglia, riversando il loro malessere sulle persone più deboli: le loro donne ed i loro bambini.


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Catania/ Bambini di Librino

Morire in strada a 14 anni. Una “normalità” assassina Peppe Cunsolo, 14 anni, è stato trovato in mezzo alla strada il 28 gennaio, solo. Si indaga sulla sua morte, tra omertà e passioni negate: era uno dei Briganti, squadra di rugby a cui il Comune ha negato il campo San Teodoro di Leandro Perrotta Ctzen.it

Le sofferenze della giovane madre, e del padre detenuto nel carcere dell’Ucciardone a Palermo che non ha potuto partecipare ai funerali del figlio, sono intuibili. Ma troppo poco s'è detto di cosa ha ucciso Peppe: forse non è stato un incidente stradale. Le uniche certezze sono una misteriosa targa automobilistica e un rapporto del 118: «Il piccolo Peppe Cunsolo è stato trovato solo, in mezzo alla carreggiata e senza la presenza di veicoli attorno». Peppe è stato raccolto dal viale Castagnola, la strada più trafficata di Librino, intorno alle 15.40 del 28 gennaio, è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Garibaldi, dove è arrivato alle 16.16 in condizioni gravissime. Il fascicolo della Procura

Quattordici anni li avrebbe compiuti un mese dopo la sua morte, avvolta nel mistero. Il piccolo Peppe Cunsolo era uno dei Briganti, la squadra di rugby di Librino, e il giorno di San Valentino, quando è morto dopo due settimane di coma, i suoi genitori hanno deciso di donare gli organi. La decisione dei genitori – si è letto sul quotidiano locale - è stata «nobile, non tutti l'avrebbero fatto».

Sul caso la procura etnea ha aperto un fascicolo. Il sostituto procuratore Salvatore Faro ha disposto l’autopsia, eseguita lunedì 20 febbraio, «perché – ha spiegato – non è sicuro che si sia trattato di un incidente». L’esame esterno era già stato effettuato, ma non sono emersi elementi utili. «E’ passato troppo tempo dal fatto, aspettiamo i risultati dell'autopsia», ha affermato il procuratore capo Giovanni Salvi. Che ha aggiunto: «Purtroppo fin dal primo momento si è pensato ad un incidente e quindi non sono state fatte ulteriori analisi e indagini». «L’ultima volta che l’ho visto è venuto al campo, chiedendo di giocare con i suoi modi irruenti “fozza, cc’ha fari?”, e ab-

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biamo litigato. Anche per come ci siamo lasciati qualche mese fa, oggi sto male». Piero Mancuso, fondatore dei Briganti Rugby, non nasconde la sua rabbia per la morte di Peppe. È stato uno dei ragazzi della squadra fino al 2009, quando i Briganti non hanno più potuto allenarsi al campo San Teodoro, consegnato dal Comune alla società del Catania per un progetto di scuola calcio mai avviato. Piero racconta di come il rugby lo stesse cambiando. «Ho molta rabbia. Nel 2007 Peppe era veramente tostissimo, ci tirava anche le pietre. Pian piano siamo riusciti a farlo diventare parte del gruppo, tanto da portarlo a Treviso per un torneo nazionale under 11 nel 2008», continua Piero. La situazione, per Peppe, è cambiata con l'arrivo del Catania, che oggi, su quello stesso campo negato, annuncia di voler costruire un nuovo stadio. «Abbiamo perso lui e tanti altri ragazzini – conclude Piero – Da quando ha smesso di giocare, ha iniziato un lungo peregrinare nelle comunità per disposizione del tribunale dei minori». «Al suo funerale c'erano anche le figlie del mafioso Arena, quelle arrestate da poco: in quell'ambiente, se la verità si deve nascondere, stai sicuro che rimarrà tale». Le parole di Giuliana, operatrice di un oratorio a poca distanza dal famigerato palazzo di cemento di viale Moncada, non lasciano molte speranze. Anche lei conosceva Peppe, che in quel luogo di spaccio gestito dalla famiglia Arena era stato visto tante volte, con il fratello maggiore ora in carcere.


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«Nessuna traccia di veicoli, nessun segno di frenate, nessuna traccia di sangue»

«Nessuna traccia di veicoli, nessun segno di frenate, niente sangue», dicono intanto dalla sezione infortunistica della polizia municipale, che sta indagando per conto della Procura. I vigili sono giunti sul luogo circa due ore dopo l’incidente, alle 18, ritrovando solo una targa di automobile. «Ma non basta questo elemento per condannare, poteva essere lì per un altro motivo: non è stato possibile ricostruire il luogo del possibile impatto per la totale mancanza di tracce sull’asfalto» ci dice l'ispettore Lucia Mangion. Secondo i vigili urbani per ricomporre la vicenda sono necessarie le testimonianze dirette. «Nessuno è venuto a dirci come sono andati i fatti, a raccontarci qualcosa in più – spiega l’ispettore Mangion – Adesso aspettiamo ulteriori disposizioni, acquisiremo i filmati delle videocamere dei dintorni, e si tenterà di risalire a chi ha effettuato la chiamata al 118». Nel traffico, nessuno ha visto Lungo il viale, tra decine di macchine in doppia fila e famiglie cariche di sacchetti della spesa, nessuno sembra aver visto. Ma sottovoce, di ricostruzioni se ne sentono diverse e tra loro contraddittorie. «Io sono arrivato alle 16.10, c’era molta gente e l’ambulanza era già andata via» riferisce uno degli impiegati della vicina tabaccheria, mentre alcuni ragazzi, coetanei di Peppe, sostengono un’altra tesi: «Per gioco altri ragazzi lo spingeva-

no col motorino e lui è caduto». Non sono i soli a parlare di un ciclomotore, anche se secondo gli inquirenti del mezzo non c’è traccia. «Peppe era trainato da una macchina, lui era su un motorino ed è caduto con un rumore fortissimo», dice sicuro il proprietario di una bancarella di frutta, quasi di fronte al luogo dell’incidente, che ritratta dopo pochi minuti «certo non si sa com’è successo, forse era a piedi». Il chiosco di fronte «Nessun rumore, ho visto l’ambulanza e sono corso con una bottiglia d’acqua per dare soccorso» riferisce invece il garzone del chiosco, la cui visuale è ostruita da un’inferriata, ma che sente benissimo un clacson suonare nella carreggiata opposta, a più di cento metri. All’arrivo al pronto soccorso i medici della rianimazione erano già pronti, allertati dal 118. La diagnosi? «Politrauma, è questo quello che si scrive quando un caso è molto grave. I dettagli, dalle eventuali contusioni alle fratture, sono nella cartella clinica del reparto», dicono al posto di polizia dell'ospedale cittadino. Il reparto di rianimazione è diretto dal professore Sergio Pintaudi, che ha curato con la sua equipe anche l’espianto degli organi. Quel che i medici hanno scritto sulla cartella clinica e l’esito dell’autopsia potrebbero essere gli unici elementi per trovare la verità su un presunto incidente avvolto nel mistero.

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SCHEDA “MA NOI CI STIAMO PENSANDO, A LIBRINO” «Un tempismo disgustosamente perfetto». Maria T., lettrice di Ctzen commenta così l'annuncio di Antonino Pulvirenti, presidente del Catania Calcio, della costruzione del nuovo stadio in viale San Teodoro. Al momento dell'annuncio, Peppe era morto da due giorni. Oggi in quell'area sorge un campo di calcio in erba sintetica, che il Comune ha affidato alla società calcistica, sottraendolo di fatto ai Briganti Rugby, e ai ragazzi come Peppe Cunsolo. L’idea di Pulvirenti è un project financing con Comune e Provincia, per un impianto da almeno 30 mila posti. All’interno anche un centro direzionale nel quale inserire uffici comunali e qualche scuola. Le previsioni sono di due anni di lavoro e un costo che oscilla tra 80 e cento milioni di euro. Il sindaco Raffaele Stancanelli, però, modera gli entusiasmi. «Quella che mi è stata presentata è solo un’idea – afferma il primo cittadino – e non c’è ancora niente di definito». Del resto l'area, già nel piano regolatore Piccinato, era destinata alla costruzione di un impianto sportivo: campo da rugby, pista d'atletica e campo per calcio a 7, due grandi palestre. Di quella struttura oggi restano solo i ruderi. “Vedete, vogliamo fare il centro direzionale. E poi c'è lo sport. Forza Catania!”.


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accadrà ieri

Impazienti OPERAI (EGIZIANI) Domenica 4 marzo otto tecnici italiani vengono sequestrati in Egitto dagli operai della fabbrica per cui lavorano. Il gruppo, che lavora per la Ain Sokhna Cleopatra Ceramics di Suez, è stato rinchiuso nella sala conferenze dell’azienda, mentre all’esterno gli operai manifestano per avere salari migliori. Saranno liberati cinque giorni dopo.

......

Pochi giorni dopo arriva la risposta di Marchionne: "Andiamo dove si fanno affari, siamo nomadi", e quella di Mario Monti: "La Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e le localizzazioni più convenienti". Intanto il 16 tutti gli stabilimenti italiani della Fiat restano chiusi a causa della concomitanza di cassa integrazione e sciopero delle bisarche.

Sotto una bomba O SOTTO UN RAZZO Il 9 Israele bombarda la Striscia di Gaza, uccidendo 14 palestinesi, tra cui il leader dei Comitati di Resistenza Popolare, Zuhir al Qaisi, e il suo collaboratore, Mahmoud Hanani. I Comitati sono considerati responsabili del rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, liberato nell'ottobre del 2011 dopo cinque anni di prigionia. Nei giorni successivi altri 11 palestinesi saranno uccisi e almeno 74 feriti. Sul fronte israeliano si contano invece 23 feriti, a causa del lancio di razzi Kassam e Grad sul territorio di Israele.

“La Fiat va DOVE LE CONVIENE” Sempre il 9 un grande corteo della Fiom attraversa le strade di Roma con lo slogan "Democrazia al lavoro". Dal palco di piazza San Giovanni, il segretario generale Maurizio Landini chiede al governo di convocare Marchionne e di vincolarlo a fare investimenti in Italia".

Il fuoco

REWIND

a cura di Francesco Feola

la famiglia della vittima dà il suo consenso al matrimonio.

Terroristi O SERVIZI DEVIATI? Sabato 17 nella capitale siriana Damasco esplodono tre autobombe, uccidendo 17 persone e ferendone più di cento. Il 18 un'altra autobomba esplode ad Aleppo, nel quartiere centrale di al-Suleimaniya, a maggioranza cristiana, causando tre morti e diciotto feriti. Sono gli ultimi attacchi di una lunga serie, che il governo attribuisce all’infiltrazione di al-Qaeda nella rivolta che infiamma il paese. L'opposizione accusa invece il regime di complicità negli attentati.

DELLA LIBERTA' Il 10 ad Aba, cittadina della provincia cinese del Sichuan, un monaco tibetano diciottenne di nome Gepey si dà fuoco in concomitanza del 53° anniversario della rivolta del Tibet. È il 27° monaco che dal 2009 a oggi si immola in segno di protesta contro l’occupazione cinese.

Le Franca Viola DEL MAROCCO Lo stesso giorno la sedicenne marocchina Amina Al Filali si suicida ingerendo veleno per topi. Il tribunale della sua città, Larache, nei pressi di Tangeri, l’aveva obbligata a sposare il suo stupratore. Giovedì 15 in tutto il Marocco si svolgono numerose iniziative per chiedere la riforma dell’articolo 475 del codice penale, che prevede che la violenza sessuale non sia più perseguibile penalmente se

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Giappone VIA DAL NUCLEARE Il 18 il quotidiano giapponese Tokio Shimbun pubblica un sondaggio secondo cui l'80% della popolazione sarebbe contraria all'uso del nucleare come fonte di energia e il 16% favorevole. Dopo l'incidente nucleare di Fukushima solo 2 dei 54 reattori nucleari presenti nel paese sono in servizio. Gli altri sono fermi per verifiche o in attesa di nuove norme di sicurezza.


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FORWARD

. . . . accadde domani ti, Andrea Segre, 2012, 60 min.) . A partire dal marzo 2011, con lo scoppio della guerra, molti migranti e profughi africani hanno iniziato a scappare dalla Libia. http://www.casainternazionaledelledonne.org/index.php/it/home

http://www.italia.attac.org/spip/

Mediterraneo

Sempre il primo aprile, alle 18.30, presso il presidio permanente del movimento No dal Molin di Vicenza ci sarà un incontro con Valentina Cancelli del movimento No Tav per conoscere gli ultimi sviluppi della situazione in Val di Susa. http://www.nodalmolin.it/spip.php?article1504

E LIBERTA' DI STAMPA

Vite migranti RACCONTATE A ROMA Dal 22 marzo al 3 maggio (ore 18.30) a Roma presso la Casa internazionale delle donne si tiene la rassegna di documentari “Migranti”. Questo è il programma: 22 marzo: I nostri anni migliori (Matteo Calore, Stefano Collizzolli, 2011, 45 min.). Tra fine febbraio ed inizio marzo del 2011, seimila giovani tunisini approdano a Lampedusa. 29 marzo: Benvenuti in Italia (Aluk Amiri, Hamed Dera,Hevi Dilara,Zakaria Mohamed Ali,Dagmawi Ymer, 2012). Cinque storie di rifugiati e migranti 12 aprile: Magari le cose cambiano (Andrea Segre, 2009, 63 min.). Dal cuore di una borgata romana, Sara e Neda ci conducono in una sorta di inchiesta sulle dinamiche di interesse e di potere che segnano le vite quotidiane di migliaia di cittadini come loro: quartieri costruiti senza servizi, senza collegamenti viari, senza luoghi di socialità. 19 aprile: Canzone per Amine (Alberto Bougleux, 2009, 53 min.). Ogni mercoledì, in piazza Addis Abeba ad Algeri, le madri e i parenti dei cittadini algerini scomparsi in carcere negli ultimi 15 anni si riuniscono in protesta. 3 maggio: Mare chiuso (Stefano Liber-

Il 30 marzo scade il termine per partecipare al premio per la libertà di stampa intitolato al giornalista e scrittore libanese Samir Kassir 2012, assassinato nel 2005. Due le categorie: miglior articolo di opinione; migliore reportage investigativo. Il premio è di 10.000 euro. http://www.babelmed.net/Paesi/Mediterraneo/Agenda/premio_per.php? c=7300&m=946&l=it

I NoTav A VICENZA

Dal carcere DI VENEZIA Il 7 e l’8 aprile a Venezia si terranno due giorni di presentazione del progetto teatrale “Passi Sospesi” che dal 2010 coinvolge le donne della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Il progetto, attivo dal 2006 è curato da Balamòs Teatro. http://www.balamosteatro.org

Tobin tax SE NE PARLA A FIRENZE Il 31 marzo e il primo aprile a Firenze si terrà l’assemblea nazionale di Attac Italia, il movimento che si batte per la costruzione di un’alternativa al neoliberismo. Tra le proposte formulate nel corso degli anni c’è l’introduzione della Tobin tax, una tassa sulle transazioni finanziarie il cui intento è porre un freno alla speculazione sui mercati valutari.

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Partigiani DI TUTTA EUROPA Dal 20 al 22 aprile a Correggio avrà luogo l’European resistance assembly, tre giorni di festa e incontri. Tra le iniziative in programma, l’incontro tra partigiani provenienti da tutta Europa e gli studenti che hanno preso parte al Viaggio della Memoria, che li ha portati a visitare i campi di Auschwitz e Birkenau. http://www.anpi.it/eventi/era-europeanresistance-assembly__2012420/


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Inter viste/ Salvatore Borsellino

“Nell'agenda rossa la trattativa che ha ucciso Paolo” Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nel '92, da anni si batte per denunciare la scomparsa dell' agenda contenente gli appunti riser vati del magistrato di Lorenzo Baldo Antimafia Duemila

Cosa rappresenta per te la scomparsa dell’Agenda Rossa di tuo fratello? Rappresenta la scomparsa degli ultimi 57 giorni di indagini di Paolo. Che sono un punto cruciale della strage di via d’Amelio. Quello che Paolo aveva annotato in quell’agenda racchiude l’infame trattativa tra pezzi dello Stato e l’antistato e sono fermamente convinto che questa maledetta trattativa abbia determinato l’assassinio di mio fratello. Ritengo inoltre che il silenzio che per vent’anni è stato tenuto su questo patto tra Stato e mafia si basi sui ricatti legati a quell’agenda rossa. Oggi finalmente sappiamo di questa trattativa grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia come Gaspare Spatuzza e di un personaggio (seppur controverso) che sta collaborando con la giustizia, come Mas-

simo Ciancimino. Quell’agenda rappresenta a tutti gli effetti lo snodo della storia di questa disgraziata Seconda Repubblica. Al di là del proscioglimento di Arcangioli per quali motivi secondo te questo ufficiale dei carabinieri ha chiamato in causa magistrati che non c’erano in via d’Amelio o altri come Ayala che, seppur presenti in quel momento, negano con forza la loro versione dei fatti? A mio parere questo furto è stato progettato nei minimi dettagli affinchè di quell’agenda non si sapesse mai più nulla. L’agenda è stata sottratta e poi rimessa sul sedile posteriore della macchina di Paolo in maniera tale che potesse passare inosservata e potessero passare degli anni prima che partissero le indagini su quella sparizione. Personaggi come Ayala, o come lo stesso Arcangioli, si sono potuti trincerare dietro la giustificazione dell’affievolirsi dei ricordi, o dietro il non ricordo. Stessa giustificazione utilizzata da tante altre persone coinvolte nella trattativa, o nella stessa sparizione dell’agenda rossa. Il fatto di chiamare in causa personaggi plurimi è tipico dei depistaggi, così da rendere lo scenario talmente confuso da potere impedire di arrivare alla verità. Purtroppo c’è da dire che si è cercato di arrivare alla verità solo dopo che erano passati tanti anni dalla sparizione dell’agenda. E questo rende tutto molto più difficile. Non dimentichiamoci che sul mistero dell’agenda rossa è stata messa una pietra tombale con una sentenza di proscioglimento giunta fino in Cassazione. Tutto questo senza che l’opinione pubblica reagisse come

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avrebbe sicuramente fatto se questi eventi giudiziari fossero avvenuti immediatamente dopo la morte di Paolo quando l’attenzione della società civile era ancora viva. Se non ci fossimo stati noi ed alcuni giornalisti a cercare di scoprire cosa era successo veramente attorno a questa sparizione sarebbe caduto l’oblio. Spesso negli incontri pubblici che ho mi capita di dovere spiegare cosa sia l’agenda rossa e che cosa rappresenti. Perché purtroppo non c’è da parte dell’opinione pubblica una conoscenza dei fatti. “La trattativa c'è stata” Nel decreto del G.I.P. di Caltanissetta, relativo agli ultimi arresti legati alle indagini di via d’Amelio, viene definitivamente sancito che la trattativa Stato Mafia c’è stata, che tuo fratello ne sarebbe venuto a conoscenza e che questo avrebbe accelerato la sua morte. Che cosa comporta questo nella tua ricerca della verità e cosa cambia dal primo momento nel quale hai iniziato questa ricerca? Spesso in passato sono stato addirittura accusato di essere disturbato mentalmente per aver sostenuto che mio fratello fosse stato ucciso a causa della trattativa. Oggi finalmente questo dato viene riconosciuto a livello giudiziario. Il dispositivo del G.I.P. di Caltanissetta, così come la sentenza Tagliava, sono per me molto importanti. Non tanto per una sorta di rivalsa, ma perché ritengo che facciano avvicinare il cammino della verità a quello della giustizia. Spero che tanti personaggi anche delle istituzioni, che finora hanno mantenuto un silenzio probabilmente per una rete di ricatti incrociati, escano allo scoperto.


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“Ai magistrati non sia impedito di cercare la verità” Qui non siamo di fronte ad una sola trattativa, ma a due trattative. La prima riguarda la vecchia sinistra democristiana i cui componenti volevano salvarsi la vita e quindi avevano bisogno di intavolare determinati patti con la mafia, la seconda invece coinvolge il partito emergente che avrebbe preso il potere negli anni successivi (Forza Italia, ndr). A fronte delle nuove indagini spero con tutte le forze che si possa fare luce su certi silenzi. D’altra parte un personaggio come Nicola Mancino (che sinora ha pervicacemente negato certe circostanze sulla conoscenza della trattativa) è arrivato a cambiare strategia difensiva così come ha lasciato intendere nell’ultima intervista quando ha sottolineato di essere stato “usato” per questa trattativa e poi messo da parte. I responsabili morali della strage A questo punto spero proprio che si faccia luce sui suoi silenzi e sulle sue nuove dichiarazioni. Personalmente ripongo una grande fiducia nei magistrati di Palermo e Caltanissetta che stanno conducendo queste indagini. Prima di raggiungere mio fratello ho ancora la speranza di poter conoscere la verità a livello giudiziario. Per il resto io la verità la conosco già, magari non conosco tutti i nomi, ma almeno so chi sono i responsabili morali di quella strage. Nonostante l’evidenza delle contraddizioni emerse dalle dichiarazioni di alcuni uomini delle istituzioni - che di fatto sono “responsabili morali” di quella strage - fino a che punto pensi che riusciranno a coprire il proprio coinvolgimento in queste stragi di Stato?

Se a questi magistrati verrà permesso di lavorare si potrà arrivare alla verità. E’ evidente che certi personaggi non si sarebbero mai presentati davanti l’autorità giudiziaria se non fossero stati chiamati direttamente dai magistrati. D’altra parte gli attacchi che vengono perpetrati verso quei magistrati sono sempre più violenti, finalizzati a delegittimare il loro lavoro. Si tratta di un attacco bipartisan, come bipartisan è il silenzio che è stato mantenuto sulla trattativa. D’altronde anche i recenti attacchi alla figura giuridica del concorso esterno, voluta da Paolo Borsellino e Giovanni Falcone e impiegata per il maxi processo, sono un chiaro sintomo del fatto che qualcuno vuole già preventivamente evitare che certi tipi di accusa possano essere contestate. Cosa temi maggiormente per quanto riguarda l’incolumità dai magistrati che stanno lavorando per dipanare le ombre che sovrastano la trattativa? Temo fortemente che non potrebbero più bastare i metodi adoperati contro i magistrati dopo la strage di Capaci e la strage di via d’Amelio e cioè i provvedimenti disciplinari, le avocazione dei processi ed altro; penso piuttosto che, come è sempre successo quando ci si avvicina troppo alla verità, la “partita” si fa molto pericolosa. Temo addirittura anche per l’incolumità fisica di questi magistrati. Il periodo delle stragi potrebbe ritornare. In questo momento che ruolo gioca l’opinione pubblica, e soprattutto quanto può contare una richiesta più incisiva di giustizia e verità da parte della società civile? L’opinione pubblica ha un ruolo chiave. Quando Paolo fu deferito al Consi-

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glio Superiore della Magistratura fu la spinta dell’opinione pubblica a fare pressione sul CSM che aveva provato a mettere Paolo all’angolo. Mio fratello in quel periodo disse addirittura che aveva avuto timore di perdere il suo lavoro.Anche adesso credo che l’attenzione della società civile sia fondamentale per impedire che la storia del nostro Paese si ripeta. Per questo noi come “Movimento delle Agende Rosse” ci siamo riuniti in una scorta civica (che chiaramente non può difendere fisicamente questi magistrati) che possa fare sentire la nostra vicinanza a questi magistrati onesti che spesso lavorato in completa solitudine. Facendo sapere che “vigiliamo” cerchiamo in qualche maniera di impedire che certi eventi si possano ripetere. Se invece saremo minoritari (come purtroppo siamo) sarà meno incisiva la nostra vicinanza, ma non per questo diminuiremo il nostro impegno. “Il tempo della lotta” Recentemente hai scritto che questo è “il tempo della lotta”. Sì, questo è il momento della lotta perché l’azione di questo sistema di potere di mantenere nascosta la verità sui responsabili materiali e morali di questa strage è sempre più virulenta. A questo punto è indispensabile che anche la reazione dell’opinione pubblica sia più forte. Se fino a oggi stavamo aspettando che questi magistrati potessero accompagnarci nella storia della verità, adesso dobbiamo lottare perché a questi magistrati non venga impedito di proseguire sulla strada della verità. E’ questo lo scopo di questa lotta.


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Via D'Amelio

Spiragli di luce nelle indagini sull'agenda di Borsellino Vent'anni dopo la strage, forse i giudici sono a un passo dalla verità di Lorenzo Baldo Antimafia Duemila

Tra i filoni investigativi su cui sta lavorando in questi mesi la procura di Caltanissetta con la Dia nissena c’è quello che ruota attorno alla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Gli inquirenti hanno realizzato un filmato che racchiude le immagini girate dalla Rai, dalle tv private, dalla polizia scientifica e dai vigili del fuoco successive allo scoppio dell’autobomba in via D’Amelio. Il video è stato fatto visionare a collaboratori di giustizia, testimoni e investigatori con l’obiettivo di dare un nome a tutte le persone presenti in quei momenti sul luogo della strage. L’inchiesta, a carico di ignoti, segue la sentenza definitiva di proscioglimento dell’ex capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli del 17 febbraio 2009. Rileggendo gli atti quel mistero è tutt’altro che chiarito. «Esaminai la scena – dichiarava Arcangioli il 5 maggio del 2005 – e avendo rinvenuto i resti del dottor Borsellino mi fermai immediatamente in attesa dell'arrivo di coloro che avrebbero dovuto attivare le indagini. […] Sul posto arrivò il dottor Teresi e anche il dottor Di Pisa, magistrato di turno. Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Tere-

si, ma più probabilmente il primo dei due e sicuramente non il dottor Di Pisa mi informarono del fatto che doveva esistere un’agenda tenuta dal dottor Borsellino e mi chiesero di controllare se per caso all'interno della vettura vi fosse una tale agenda, eventualmente all'interno di una borsa». «Se non ricordo male – specificava l’ex capitano dei carabinieri – aprii lo sportello posteriore sinistro e posata sul pianale, dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone, in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottor Ayala e il dottor Teresi. Uno dei due predetti magistrati aprì la borsa e constatammo che non vi era all'interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. […] Per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei magistrati». Successivamente Vittorio Teresi e Alberto Di Pisa hanno dimostrato la falsità delle affermazioni del capitano Arcangioli. Dal canto suo Giuseppe Ayala ha sempre negato di aver mai dato un ordine simile ad Arcangioli. Il 19 luglio ’92 Ayala è il primo ad arrivare in via D’Amelio, dopo aver riconosciuto per terra il troncone di Paolo Borsellino si accosta alla macchina del giudice, al suo interno vede la sua borsa. Un agente della sua scorta, l'appuntato dei carabinieri Rosario Farinella, si fa aiutare da un vigile del fuoco per aprire la portiera posteriore sinistra della Croma del giudice. L'appuntato Farinella prende la valigia di Borsellino e la porge all'ex Pm. «Io personalmente ho prelevato la borsa dall'auto – dichiara Farinella agli investigatori – e avevo voluto consegnarla al dr. Ayala. Questi però mi disse che non poteva prendere la borsa in quanto non più magistrato, per cui io gli chiesi che

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cosa dovevo farne. Lui mi rispose di tenerla qualche attimo in modo da individuare qualcuno delle Forze dell'Ordine a cui affidarla. Unitamente a lui ed al mio collega ci siamo allontanati dall'auto dirigendoci verso il cratere provocato dall'esplosione, mentre io reggevo sempre la borsa». «Dopo pochissimi minuti – ricorda l'appuntato dei carabinieri – non più di 57, lo stesso Ayala chiamò un uomo in abiti civili che si trovava poco distante e che mi indicò come ufficiale o funzionario di polizia, dicendomi di consegnargli la borsa. Allo stesso, il dr. Ayala spiegava che si trattava della borsa del dr. Borsellino e che l'avevamo prelevata dalla sua macchina […]; l'uomo che ha preso la borsa non l'ha aperta, almeno in nostra presenza; ricordo che appena prese la borsa, lo stesso si è allontanato dirigendosi verso l'uscita di Via d'Amelio, ma non ho visto dove è andato a metterla». La prima versione di Ayala Sei anni dopo, in un verbale dell'8 aprile 1998, Ayala fornisce la sua prima versione dei fatti. «Tornai indietro verso la blindata della procura – racconta ai magistrati – anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto». «Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore – afferma Ayala – dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiatura e tuttavia integra, l'ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo... Davanti a me la


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“La borsa era nella macchina, dopo l'esplosioine” borsa non fu mai aperta... non so poi a chi di fatto sia stata consegnata...». Il 12 settembre 2005 l’ex pm cambia versione. «Notai – racconta Ayala – che lo sportello posteriore sinistro dell'autovettura (di Paolo Borsellino, ndr) era aperto. Scorsi sul sedile posteriore una borsa di pelle bruciacchiata. Istintivamente la presi, ma mi resi subito conto che non avevo alcun titolo per fare ciò per cui ricordo di averla affidata immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri che era a pochi passi. Nell'affidargli la borsa gli spiegai che probabilmente era la borsa appartenente al dottore Borsellino». […] “Un ufficiale in divisa” «Per quanto ricordo la persona a cui consegnai la borsa era un ufficiale dei carabinieri ed era in divisa, perché diversamente non avrei potuto identificarlo come tale. Non riesco a ricordare se si trattasse della formale divisa oppure di una casacca come quelle che vengono adoperate in tali circostanze e comunque […] non conoscevo l'ufficiale in questione». I magistrati gli mostrano allora la foto del capitano Arcangioli, ma Ayala non lo riconosce. «Non ricordo di aver mai conosciuto, né all'epoca né successivamente il capitano Arcangioli. Non posso escludere ma neanche affermare con certezza che detto ufficiale sia la persona alla quale io affidai la borsa». L'8 febbraio 2006, Arcangioli rivede le sue affermazioni sotto una nuova veste. E' la sua seconda deposizione. «Non ho ricordo certo dell'affermazione relativa al fatto che il dottor Ayala e il dottor Teresi mi ebbero ad informare dell'esistenza di un'agenda tenuta dal dottor Borsellino. Ripensando a quei momenti posso però ritenere di affermare che non era presente il dottor Teresi in quanto ricordando,

sebbene soltanto tramite alcuni flash, di cui ho ancora memoria mi sembra di averlo avvicinato all'ingresso di via d'Amelio». […] «Non ricordo con certezza se io o il dottor Ayala aprimmo la borsa per guardarvi all'interno, mentre ricordo che all'interno vi era un crest dell'Arma dei carabinieri e non ricordo se vi fosse qualche altro oggetto. Mi sembra ricordando bene, che vi fossero dei fogli di carta. Così come non posso confermare di aver io stesso o uno dei miei collaboratori deposto la borsa nella macchina di servizio di uno dei due magistrati, mentre ritengo di aver detto di rimetterla o di averla rimessa io stesso nell'auto di servizio del dottor Borsellino». Gli investigatori gli chiedono nuovamente conto della sua dichiarazione del 2005 relativa alla mancata relazione di servizio sul ritrovamento della borsa del giudice. «Sul momento non ritenni di redigere alcuna annotazione – ribadisce laconicamente Arcangioli – perché non attribuivo alcun valore alla borsa non avendovi rinvenuto niente per la prosecuzione delle indagini e quindi ritenevo di non avere svolto alcuna attività di iniziativa che richiedesse la redazione di tale atto». Mercoledì 8 febbraio 2006 Giuseppe Ayala viene sentito nuovamente dall'autorità giudiziaria. Nel suo nuovo resoconto non è più lui a prelevare la borsa, ma un agente rigorosamente in borghese. «Ebbi modo di vedere una persona in abiti borghesi che non sono in grado di descrivere neanche nell'abbigliamento ma che comunque è certo che non fosse in divisa la quale prelevava dall'autovettura attraverso lo sportello posteriore sinistro una borsa. Io mi trovavo a pochissima distanza dallo sportello e la persona in divisa si volse verso di me e mi consegnò la borsa». […] «In mia presenza la borsa non fu aperta

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né vi fu alcuna attività diretta a verificarne il contenuto; tutto l'insieme durò lo spazio di una trentina di secondi, forse un minuto. Non conoscevo, e tuttora non ho mai avuto modo di conoscere né l'ufficiale in divisa né la persona in borghese di cui ho detto. Non lo ho riconosciuto neanche nella fotografia che mi viene mostrata». A quel punto viene disposto il confronto tra Giuseppe Ayala e Giovanni Arcangioli. Che però viene definito dagli stessi magistrati «infruttoso» in quanto non riesce a fare luce sulle rispettive contraddizioni visto che, così come riporta il verbale, «i testi insistono nelle rispettive versioni». La seconda versione In un'intervista del 23 luglio 2009 Giuseppe Ayala ritorna inspiegabilmente alla sua seconda versione. «La borsa nera di Borsellino l'ho trovata io – dichiara l'ex parlamentare – dopo l'esplosione, sulla macchina. Che ci fosse, nessuno lo può sapere meglio di me, perché l'ho presa io. Non l'ho aperta io perché ero già deputato e non avevo nessun titolo per farlo. […] Quando l'ho trovata l'ho consegnata ad un ufficiale dei carabinieri. E' verosimile che l'agenda fosse dentro la borsa e che sia stata fatta sparire». Il 30 luglio del 2010 un sito Internet pubblica un'altra intervista a Giuseppe Ayala che racchiude un nuovo dettaglio. «Ho preso la valigetta (del dott. Borsellino, ndr), ma l'ho consegnata subito ad un ufficiale dei carabinieri che compare in un video mentre si allontana». Nell'ultimissima versione di Ayala quindi, il carabiniere al quale consegna la borsa sarebbe l'ufficiale ripreso nei filmati acquisiti dall'autorità giudiziaria. Ma il video che riprende un uomo delle forze dell'ordine con la valigetta di Paolo Borsellino in mano riguarda un solo carabiniere: Giovanni Arcangioli.


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Il Novantadue

L'anno del golpe senza golpisti Ci sono degli anni che iniziano strani, sbiechi, storti. Quello era un anno così di Pietro Orsatti Si capi subito già dal 2 di gennaio scorrendo le agenzie di stampa e i titoli dei giornali. Un putiferio che si era scatenato. Con una frattura nella famiglia socialista europea, fra Bettino Craxi e Francois Mitterand, a causa del ruolo giocato da un certo imprenditore italiano, tal Silvio Berlusconi, implicato nella intricatissima vicenda dell'emittente televisiva privata francese La Cinq. Soldi che apparivano e scomparivano, autorizzazioni che c'erano e non c'erano, diritti che venivano pagati oppure no, fallimenti annunciati e poi rimandati e annunciati ancora. Vi ricorda qualcosa? Con un "bordello" iniziò il 1992, e si era solo all'inizio, si stava al riscaldamento, ai preliminari. Da lì a poco dei magistrati milanesi arrestando il mariolo Mario Chiesa avrebbero scoperchiato il verminaio di Tangentopoli mandando a nanna, apparentemente, la prima Repubblica. Pace all'anima sua. Non era bastata a far crollare il sistema ereditato dalla Guerra Fredda All'Italiana né Gladio né gli armadi di Forte Braschi e neppure le picconate del presidente Francesco Cossiga (con o senza la K secondo vocazione e memoria). Doveva arrivare Mario Chiesa a tirare giù con qualche

milione nelle mutande la mirabile architettura della partitocrazia e della corruzione clientelare. Almeno così sembrò. E per anni ci abbiamo anche creduto. Anno strano, il Novantadue. Un golpe soft camuffato da rivoluzione senza rivoluzionari. Una roba così è stata quella che ci siamo vissuti inconsapevoli e illusi sbirciando le tettone di Drive In tv in alternativa alle acrobazie grammaticali del nuovo eroe popolare (e poi populista) Antonio Di Pietro. Ormai pezzo di storia, da ricordare quasi con nostalgia. Inconsapevoli e illusi Tornando a gennaio, mentre i giornali italiani - poco e male - e francesi - tanto e bene - cercavano di capirci qualcosa dell'intreccio di debiti veri o presunti, pacchetti azionari, pressioni politiche e italiane lubrificazioni varie con protagonista il futuro unto dal signore, io, 28 anni e capelli che c'erano ancora sulla testa, stavo cambiando mestiere. O meglio, dopo alcuni anni trascorsi a fare il collaboratore parlamentare e aver militato nel movimento ecopacifista e antinucleare (che mica era un lavoro ma un divertimento) tentavo di imparare arte e mestiere. Di fare il salto e mettermi a fare il cronista e basta, che già tentavo di fare nel tempo libero con alterne e risibili fortune. Ero schifato e annoiato da quell'esperienza politica che era iniziata nella maniera più esaltante e si era rivelata, con il tempo, routine intollerabile. Ero stanco dei soldi facili, dei compromessi obbligatori e del politicamente alternativo. "Finisco la legislatura", mi ero detto. Travolto dal sacro fuoco. Minchiate. Poi rimasi qualche mese in più collaborando saltuariamente con il gruppo fino a giugno. Non un tempo pieno. Ma entrando e uscendo, un passaggio di consegne

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che assomigliò inesorabilmente a un accanimento terapeutico. Scappando ogni tanto all'estero, e in particolare in Croazia e Bosnia dove c'erano montagne di storie da raccontare, ma io all'epoca non ero in grado neanche di allacciarmi le scarpe figuriamoci se lo ero per raccogliere notizie, capirle e poi scriverle. Ma ero testardo e arrogante. Pieno di me fino all'ossessione, non è difficile intuire quanto poco fossi lucido e realista nelle decisioni che prendevo all'epoca. Mica si è fessi da giovani per caso. Comunque, bene o male, avevo fatto una scelta. O meglio la mia arroganza e la mia noia mi avevano giustamente inserito nella lista dei funzionari "trombabili", tanto valevo tirarsi fuori con stile. Ed ero nel bel mezzo del guado quando venne giù il paese. Con un piedi fuori e uno dentro il grande teatro del palazzo impazzito che si immolava davanti la più incredibile e inedita inchiesta giudiziaria mai tentata in Italia. E del potere che uccideva se stesso. Con il piombo. Con il sangue. Con il tritolo e il sintex. Andreotti, lo sguardo assente... La mattina che ammazzarono Salvo Lima ero alla Camera. Mi ricordo le facce dei colleghi che lavoravano ai gruppi parlamentari della DC. Mica fu una cosa piccola. Quello era un terremoto. La mattina successiva vidi Giulio Andreotti camminare rigido attraversando piazza Monte Citorio, solo due uomini di scorta, il loden blu scuro, lo sguardo assente. Pensai che il grande uccello predatore aveva perso qualche penna dalle ali. In realtà aveva perso tutto, ma nessuno poteva saperlo allora. Meno che mai un presuntuoso come me. Non l'ho più incrociato, il divino. Lui era già destinato al lento crepuscolo di un processo che lo ha


“Un colossale ricatto...”

assolto condannandolo alla comparsata nostalgica da Bruno Vespa. Il sangue di Lima non si era ancora rappreso e Andreotti era già uscito di scena. "Il potere logora chi non lo ha". L'omicidio di Lima era l'annuncio della fine di un rapporto fra i poteri reali del paese. E determinò il cambiamento, segnandolo, forse ancor più delle manette ai polsi di Mario Chiesa un mese prima. L'omicidio Lima spezzò il potere di mediazione equilibratrice della corrente andreottiana della Balena Bianca. Senza il collante del divino e dei suoi improbabili pretoriani (Lima, Sbardella, Cirino Pomicino, Evangelisti) la DC non aveva più coesione. Anche se poi quella coesione era frutto di un colossale ricatto o di un ancor più grande bluff messo in atto dal sette volte presidente del consiglio. Altro che Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. Quella era una valanga che sbriciolava il potere democristiano tutto. E la DC, che piaccia o no, aveva tenuto in piedi poteri, politica, economia e paese. Per quarant'anni. Una valanga sul potere E io che facevo? Ovviamente cazzeggiavo. Volevo fare il "cronista", il narratore, senza avere la minima idea di cosa narrare. E invece di roba da raccontare quanta ce n'era proprio li, dove stavo lavorando sempre più annoiato e disinteressato. Si stava svolgendo il più grande spettacolo della storia repubblicana. A maggio ormai ero alla fase finale degli scatoloni di 4 anni da portarsi a casa. La mattina della strage di Capaci ero alla Camera. Questioni amministrative, dei soldi da prendere, un paio di borse di carte da portarsi a casa. Mi fermai più a lungo. C'era un'atmosfera strana. Cupa. Si votava per il nuovo presidente della Repubblica dopo le dimissioni del picconatore Cossiga. E a cercare, illuso, il colle c'era lui, il divino Giulio. Le possibilità che fosse proprio Andreotti a conquistare la poltrona del Quirinale erano davvero alte quella mattina. Solo quella mattina. Segui per un paio d'ore il dibattito sulla televisione interna, che allora mica c'erano le dirette web e i rituali del palazzo erano roba da iniziati. Ero esteref-

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ti tutti. Hanno ammazzato Falcone. Lo hanno ammazzato, capisci? Siamo in guerra". Eravamo in guerra. Quindici giorni dopo ero a Isola delle Femmine, perché sarebbe più corretto dire Isola delle Femmine invece che Capaci per indicare il luogo dell'attentato. Nei miei viaggi balcanici di qualche mese prima di segni della guerra ne avevo visti. Fin troppi, e negli anni successivi li pagai tutti quei segni. E quell'autostrada sventrata era una scena di guerra. Il tempo di via D'Amelio

atto. Andai a pranzo con un paio di amici da Giolitti. Poi risali ai gruppi, qualche chiacchiera, un caffè e uscii. Mentre stavo per avviarmi verso Ripetta incrociai un carabiniere che conoscevo da quando avevo iniziato a lavorare lì. "C'è stato un attentato a Palermo". "Quando?". "Pochi minuti fa". "Contro chi?". "Pare Falcone. Ma dicono che ci sono feriti e nessun morto". "Meno male". “C'è stato un attentato a Palermo” Cominciavo ad avere fretta. Dovevo andare a prendere una persona in stazione e volevo passare a casa di mia madre per posare le borse. Presi un taxi. Dalla radio appresi che il luogo dell'attentato era a Capaci lungo l'autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, e che "il giudice e sua moglie" erano feriti. "Feriti, non morti", pensai. Neanche un'ora dopo incontrai per strada una mia amica. In lacrime. Piangeva appoggiata contro un muro con la schiena, le braccia a stringersi una felpa come se avesse freddo. Un freddo terribile. Appena mi riconobbe mi corse incontro e mi abbracciò. Piangendo e urlando. "Sono mor-

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Avevano tirato giù un'intera autostrada per ammazzare un uomo. Che altro era? Scrissi un pezzo, la sera. Che tenni in un cassetto. Iniziava così. "C'è un uomo, un contadino, che lavora a pochi metri dall'epicentro dell'esplosione. Calmo. Come se niente fosse. Rimuove un ulivo strappato via dall'esplosione. Un cappello di paglia in testa, le braccia bruciate dal sole. Ci sono bigliettini carta, fiori appassiti, fogli di quaderno strappati via dal vento. Perduti. Lacrime e pensieri lasciate da centinaia di persone comuni, gente di popolo. Calpesto uno di questi frammenti di carta. Lo raccolgo. C'è scritto qualcosa ma non capisco che. Non ho occhi per leggere, oggi". A luglio fu il tempo di via D'Amelio, di un paese che combatteva contro se stesso. E io cominciai a mettere la mia vita sul piatto della bilancia. Di una bilancia truccata. Nota: Che nel 1992 in Italia si realizzò un golpe è qualcosa di più di una suggestione. Ne sono convinto da anni. La cosa curiosa, però, che di solito quando va in scena un colpo di Stato di solito chi vince si prende visibilmente il potere. In quel golpe del '92 invece chi ha vinto è rimasto nascosto, e soprattutto ci è rimasto per vent'anni comodamente. http://orsattipietro.wordpress.com


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Capitali di mafia/ Barcellona

Il lungo autunno dei patriarchi Una cittadina di provincia destinata a segnare la storia recente del Paese: a Barcellona (Messina) ambienti massonici e paramassonici hanno creato un sistema di potere apparentemente inossidabile. Finora... di Antonio Mazzeo Trent’anni fa. Il muro di Berlino. La spada di Damocle dei missili nucleari da piazzare ad Est e ad Ovest. Le grandi manifestazioni di massa contro la logica dei Blocchi contrapposti. E il Mediterraneo che assumeva sempre più il ruolo di nuova frontiera tra Nord e Sud. Nella grande base di Sigonella, avamposto di guerra e di morte, fervono i preparativi per ospitare i primi Cruise destinati alla costruenda installazione di Comiso. Una base a stelle a strisce, de iure e de facto, con una sempre più difficile convivenza con il 41° Stormo dell’Aeronautica militare italiana. Al comando c’è il colonnello Franz Sidoti. L’estate del 1982 volge al termine e il soldato dell’aria viene raggiunto da una chiamata telefonica da Barcellona Pozzo di Gotto, la città dove è nato.

È Antonio Franco Cassata, vecchio amico d’infanzia, giudice istruttore a Patti e instancabile animatore del circolo culturale “Corda Fratres” del Longano. “Franzittu, il 17 ottobre ricorre il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, e noi della Corda vogliamo radunare un mondo, a Barcellona”. Il magistrato invoca la sinergia dell’arma azzurra per aggiungere fremito e modernità alla cerimonia che sta organizzando con il patrocinio della Regione Siciliana. “Ti chiedo, Franzittu, di far convergere, all’ora esatta della posa della corona ai caduti, tutta la potenza del cielo”. “Tutto doveva avvenire in quell’ombelico della volontà di Franco”, ricorda Sidoti. “Fu così concordato il passaggio su Barcellona di una pattuglia di Starfighter F.104F”. E il 17 ottobre, puntuali come un treno svizzero, le bare volanti dell’Aeronautica sorvolarono la città del Longano. Urla di giubilo e lo sventolio di migliaia di bandiere tricolori. Cassata è commosso. L’omaggio ha consacrato l’onnipotenza del circolo e dei suoi soci. Giudici, avvocati, insigni giuristi, poeti, scrittori, artisti, giornalisti, diplomatici, militari, liberi professionisti, parlamentari, sindaci e amministratori locali. Un vicepresidente del senato. Una saggia condivisione bipartisan, neo e post fascisti, cattolicocentristi-democristiani, socialisti e comunisti. L’élite di una cittadina destinata a segnare la storia recente del Paese. Fédération Internazionale des Etudiants Corda Fratres Consulat de Barcellona (Sicilia) il nome dell’officina che ha forgiato i rampolli della borghesia liberale locale. L’ultima sopravvissuta delle Cor-

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de goliardiche che animavano gli atenei italiani del dopoguerra, filiale di quella rifondata nel 1944 nell’Università degli Studi di Messina all’ombra del rettoreministro-massone Gaetano Martino. Al tempo, tra gli studenti cordafratrini spiccavano le figure del figlio d’arte Antonio Martino, futuro ministro agli esteri e alla difesa dei governi Berlusconi (e una domanda in sonno di affiliazione alla loggia P2 di Licio Gelli); Enrico Vinci, poi segretario generale della Comunità europea; Francesco Paolo Fulci, prima ambasciatore a Washington e successivamente direttore del Cesis (il Comitato esecutivo a capo dei servizi segreti); Nicolò Amato, direttore generale degli istituti di pena. Nel Longano, il fior fiore dell’intellighenzia: il letterato Nello Cassata (padre del giudice), lo scienziato Nino Pino Balotta, i magistrati Carlo Franchina e Gino Recupero, il poeta Bartolo Cattafi, il prefetto Ettore Materia. Giudici e avvocati Quando a fine anni ’60 i principi tardoottocenteschi della Corda verranno messi all’angolo dai movimenti studenteschi, sarà proprio Antonio Franco Cassata a mantenere in vita il circolo di Barcellona, elevandola ad associazione culturale in grado d’interloquire su ogni tema della politica e della vita sociale nazionale. Con soci e dirigenti in buona parte giudici ed avvocati, l’attenzione al mondo della Giustizia e dell’ordine pubblico è stata una costante. Cassata è riuscito ad avere ai convegni i magistrati Aldo Grassi, Franco Providenti e Francesco Di Maggio. E ad annoverare tra i “soci onorari” i


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“Il libro che si cercò di non fare arrivare in libreria” magistrati Melchiorre Briguglio e Carmelo Geraci. Più due generali dei Carabinieri, Sergio Siracusa (già direttore del SISMI, il servizio segreto militare, ed ex comandante dell’Arma) e Giuseppe Siracusano (tessera n. 1607 della P2), indicato dalla relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori sulla superloggia atlantica come “un fedelissimo di Gelli da antica data”. Massoneria e Corda Frates Non pochi i frammassoni dell’associazione barcellonese. Su 36 fratelli risultati iscritti nel 1994 alla loggia Fratelli Bandiera del Grande Oriente d’Italia, ben 14 sono risultati soci Corda Fratres; altri due, avvocati, nella loggia La Ragione di Messina. Compresenze che hanno spinto alcuni a definire il circolo come paramassonico, scatenando le ire dei presenti. “La storia della Corda Fratres di Barcellona testimonia, sotto molteplici aspetti, l’assoluta incompatibilità della stessa con qualsiasi forma di esoterismo di tipo massonico”, scrive il giudice Cassata. Eppure il volume pubblicato in occasione del sessantesimo compleanno del circolo riporta, testuale, che “l’originaria incontaminazione della Federazione fu destinata a vacillare nel ‘900, allorché la Corda Fratres, così come la maggioranza dei Club service di allora, subirono l’infiltrazione della Massoneria (il Grande Oriente d’Italia)”. “Il programma - si spiega - basato su solidarietà, carità e pace, luce ed amore, era, del resto, tutto speculare a quello della Massoneria universale, così come affini erano alcuni obiettivi specifici, a

partire della lotta contro l’oscurantismo clericale”. Salvo concludere che “la contaminazione massonica, però, si limitò a un periodo ben delimitato della vita della Corda”. Per lo storico della massoneria italiana, Aldo Mola, l’interesse del Grande Oriente per i cordafratini fu “inevitabile”: una “reciproca attrazione” dovuta al fatto che l’associazione, “sostenitrice di una fratellanza universale, non poteva non giungere a utilizzare il cifrario liberomuratorio”. Un’attrazione fatale come quella per gli ordini cavallereschi. Si racconta di un Cassata presidente, nel 2004, di una commissione esaminatrice del premio “contro la violenza negli stadi”, promosso dall’Ordine dei Cavalieri Templari. Tra i commissari, pure il professore Santino Lombardo, allora presidente Corda Fratres. Il caso Parmaliana Antonio Franco Cassata è il Procuratore generale di Messina. Inamovibile. Nonostante Il Fatto Quotidiano abbia scritto il 21 settembre 2011 che è sotto indagine a Reggio Calabria per concorso esterno in associazione mafiosa insieme ad altri magistrati rimasti ancora senza nome. Sempre a Reggio, il cordafratrino è sotto processo per “diffamazione aggravata in concorso con ignoti”, commessa con la diffusione di un dossier anonimo contro il docente universitario Adolfo Parmaliana, morto suicida l’1 ottobre 2008 dopo aver inutilmente lottato, in solitudine, contro l’illegalità nella vita politicoamministrativa del Comune di Terme Vigliatore. Anni prima, Parmaliana aveva inutilmente denunciato Cassata al Consi-

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glio superiore della magistratura. “Non si è mai visto in Italia un processo a un alto magistrato per un dossier ai danni di una persona defunta, per di più con lo scopo di tentare di ostacolare la pubblicazione di un libro”, afferma Fabio Repici, legale della famiglia Parmaliana. L'egemonia su Messina “Il volume che si tentò di non far giungere nelle librerie, Io che da morto vi parlo, di Alfio Caruso, è la storia di Adolfo, delle sue battaglie spesso solitarie, delle sue sconfitte, della sua morte e delle nefandezze compiute ai suoi danni”. Processo davvero singolare quello contro Cassata. Alla prima udienza, il magistrato Giandomenico Foti, capo dell’ufficio del Giudice di pace, ha dichiarato di astenersi in considerazione dei suoi “rapporti di amicizia e di frequentazione personale e familiare” con l’imputato. Altro colpo di scena alla seconda udienza: essendo prossimo a compiere 75 anni d’età, il nuovo giudice, Antonino Scordo, ha reso noto che non potrà portare a termine il processo. Tutto rinviato dunque al 29 marzo, quando le parti, forse, potranno conoscere l’identità del giudicante. “Con la nomina di Cassata – aveva scritto Alfio Caruso - diventa tangibile l’egemonia di Barcellona su Messina attraverso il sindaco Buzzanca, il procuratore generale e il politico più influente Domenico Nania. Tutti e tre provengono da Barcellona e dalla Corda Fratres, di cui hanno fatto parte anche Pino Gullotti, il capo riconosciuto della famiglia mafiosa, e l’enigmatico Saro Cattafi…”.


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“Costruttori, faccendieri e trafficanti d'armi”

Un boss mafioso fra i notabili della buona società Dotti, borghesi, massoni e qualche presenza imbarazzante tra i cordafratrini di Barcellona PG. A iniziare da Giuseppe Gullotti, l’avvocaticchiu, una condanna passata in giudicato per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Del circolo culturale, nel 1989, il boss fu anche per breve tempo membro del direttivo. Fu ufficialmente allontanato solo nell’autunno del 1993, dopo la visita nella città del Longano della Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’on. Luciano Violante. La relazione finale stigmatizzò il suo ruolo-guida all’interno della cosca locale. Nonostante in Corda Fratres nessuno avesse mai avuto dubbi sull’onorabilità di Gullotti, egli era incorso in passato in più di uno scivolone giudiziario. Il 27 dicembre 1982, era stato denunciato insie-

me ad alcuni pregiudicati barcellonesi per gioco d’azzardo all’interno del circolo “Famiglia Sicula”. Nel 1989, a Viterbo, Gullotti era stato sottoposto a indagine per truffa (poi prosciolto) a seguito dell’acquisto di una Volvo rivenduta al conterraneo Roberto Minolfi, cognato dell’imprenditore agrumario Giovanni Sindoni. Quel Sindoni fedele sottoscrittore d’inserzioni pubblicitarie sul periodico cartaceo della Corda, ritenuto dagli inquirenti “soggetto legato all’organizzazione mafiosa barcellonese”, in contatto con i catanesi del clan Santapaola. L’efficienza criminale di Giuseppe Gullotti era nota invece tra i pezzi da novanta di Cosa nostra siciliana. “Venne ordinato uomo d’onore nel 1991, per intercessione del vecchio boss di San Mauro Castelverde, Giuseppe Farinella”, ha raccontato Giovanni Brusca. “Il telecomando per l'attentato” “Sempre il Gullotti si sarebbe dovuto occupare di reperire l’esplosivo necessario per l’attentato che venne progettato tra il ’92 e il ’93 contro il leader del Partito socialista Claudio Martelli, attraverso l’interessamento e la mediazione del clan di Nitto Santapaola”.Deponendo al processo Mare Nostrum, lo stesso Brusca ha dichiarato che il telecomando da lui

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adoperato per la realizzazione della strage di Capaci, gli era stato materialmente consegnato poco prima proprio da Gullotti. L’assegnazione al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca, sarebbe stata patrocinata da Pietro Rampulla, l’ex ordinovista artificiere del tragico attentato del 23 maggio 1992 contro il giudice Falcone. “Persona vicina a Cosa Nostra “Anch’io avevo rapporti con Gullotti”, ha raccontato nel giugno 1999 il controverso collaboratore Luigi Sparacio, già a capo dei gruppi criminali peloritani. “Mi era stato presentato da Michelangelo Alfano come persona vicina a Cosa nostra, e in tale ambito fornii al predetto unodue telecomandi da utilizzare per attentati e che erano stati per me realizzati su commissione, da un dipendente dell’Arsenale militare di Messina…”. Sparacio ha aggiunto che tra le persone “vicine” al Gullotti c’era il costruttore Vincenzo Pergolizzi, il faccendiere Filippo Battaglia ed “una persona di Barcellona che era vicino al Battaglia con il quale trafficava in armi, tale Cattafi Rosario che era amico di Natale Sartori ed Antonino Currò”. Originari di Messina, Sartori e Currò erano stati arrestati nel marzo ’99 a Milano con l’accusa di associazione mafiosa.


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“Sequestrati i terreni per il megacentro commerciale” Titolari di società di pulizie, vantavano legami di altissimo livello: il manager Fininvest Marcello Dell’Utri e il factotum di Silvio Berlusconi, Vittorio Mangano, mafioso palermitano della “famiglia” di Porta Nuova. Un collaboratore, Vincenzo La Piana, ha raccontato di aver partecipato, a Milano, ad un pranzo con Dell’Utri, Currò e Sartori in cui venne richiesto al senatore un interessamento per il trasferimento carcerario del Mangano, al tempo ristretto a Pianosa. Professione avvocato Nome ancora più indigesto dell’albo soci della Corda Frates, quello di Rosario Pio Cattafi, professione avvocato, indicato da alcuni pentiti come il capo dei capi della mafia barcellonese. Più di un anno fa il Tribunale di Messina gli ha sequestrato beni del valore di sette milioni di euro, compresi i terreni agricoli di contrada Siena intestati alla “DiBeca Sas”, che il miope consiglio comunale del Longano ha vincolato a megaparco commerciale. Un’operazione che è oggetto d’indagine della Procura e di un’ispezione della Prefettura. Alcune operazioni sospette Nei primi anni ’90, il Gico della Guardia di Finanza di Firenze attenzionò alcune operazioni sospette del Cattafi. Nella nota informativa del 3 aprile 1996, un paio di passaggi sono dedicati ai rapporti fra Rosario Cattafi, il giudice Cassata e l’immancabile associazione cordafratrina. “Cattafi frequentava circoli e club sia a Milano che a Barcellona, potendo così incrementare il numero delle conoscenze

utili”, scrivono gli uomini del Gico. “A Barcellona risultava interessato all’attività della Corda Fratres, il cui rappresentante, Antonio Franco Cassata, risulta rappresentante anche della Ouverture–Associazione Italia-Benelux e del Comitato Organizzativo Premio Letterario Nazionale Bartolo Cattafi”. Più avanti, “riprendendo l’esposizione dei rapporti tra il Cattafi e personaggi delle Istituzioni al fine di poter fornire elementi atti alla individuazione degli informatori del sodalizio”, il Gico ritorna sul magistrato. “Residente a Barcellona nella stessa via del Cattafi”, il dottor Cassata è “responsabile di alcuni circoli e associazioni costituite con dichiarato intento di perseguire scopi culturali”. Infine si segnala che nelle agende del Cattafi comparivano il numero telefonico dell’abitazione privata del magistrato, quello degli uffici giudiziari di Messina dove operava e quello dell’“associazione di cui risulta rappresentante legale…”. Un interrogatorio riservato Lo scorso 1 marzo, Rosario Cattafi si è dovuto presentare davanti a due ufficiali del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei Carabinieri per un interrogatorio di oltre tre ore nell’ambito di un’inchiesta della DDA di Messina che lo vedrebbe indagato per associazione mafiosa. “Non si tratterebbe del primo e lungo faccia a faccia tra Cattafi e i carabinieri del Ros”, rivela la Gazzetta del Sud. “In questi mesi ci sarebbero stati altri interrogatori effettuati in gran segreto sempre alla Compagnia carabinieri di

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Barcellona, per un’inchiesta che praticamente corre parallela al nucleo forte di indagini che il procuratore capo di Messina Guido Lo Forte e i suoi sostituti stanno gestendo sulla geografia mafiosa barcellonese, all’indomani dei clamorosi pentimenti del boss dei Mazzarroti Carmelo Bisognano e del reggente Santo Gullo”. Un altro mistero La modalità investigativa ha però lasciato perplesso più di un osservatore. “Ancora una volta la Procura di Messina riserva i modi più gentili ai vertici della mafia barcellonese”, scrive l’eurodeputata di IdV Sonia Alfano. “In tutti gli altri distretti giudiziari d’Italia gli indagati per mafia vengono arrestati e solo dopo interrogati. Per Cattafi, invece, l’ufficio diretto da Lo Forte ha utilizzato l’inedita procedura, come a voler riconoscere a Cattafi una sorta di riguardo istituzionale. Mi chiedo quale sia la ragione, salvo dover pensare che Cattafi si sia pentito e stia vuotando il sacco, e che quindi a breve ci saranno gli arresti di due magistrati, di esponenti dei servizi segreti e di altri rappresentanti istituzionali”. “Si rimane sconcertati – ha concluso Sonia Alfano – ad apprendere che la Procura ha delegato l’interrogatorio del pericolosissimo boss, legato a doppio filo a Benedetto Santapaola e ai servizi segreti, a quello stesso Ros che subito dopo l’assassinio di mio padre protesse la latitanza di Santapaola nel barcellonese”. Un’altra brutta storia per questa terra d’intrighi e di misteri.


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Memoria/ Da Impastato a Borsellino

Il generale e la vedova “Subranni è “punciutu” “Ha il morbo di Alzhaimer”: botta e risposta tra Agnese Borsellino e il Generale Subranni. Nasce un gruppo di solidarietà su Facebook. L’operato del generale sull’omicidio di Peppino Impastato di Salvo Vitale

Interrogato dai giudici di Caltanissetta, il generale Subranni, richiamando una frase di Agnese Borsellino, detta e verbalizzata nel 2010, ma chissà perché venuta fuori solo adesso, ha detto che la vedova del magistrato ucciso forse non ricorda bene a causa del morbo dell’Alzhaimer che l’avrebbe colpito. Agnese aveva, in quel verbale richiamato qualcosa di terribile che Paolo gli aveva confessato il giorno prima di essere ucciso, ovvero che era stato “tradito” da uno dei suoi migliori collaboratori.

Pare di capire che costui era Subranni, il quale, secondo quel che Paolo Borsellino avrebbe riferito alla moglie, “era punciutu”. La “puncitina” è l’atto di affiliazione alla mafia : si punge un dito con un ago, si fa scorrere una goccia di sangue su un santino, si brucia il santino tra le mani e, nel frattempo si pronuncia il giuramento. Subranni “punciutu” è un’accusa al momento, per quel che ne sappiamo, indimostrata. Tutto questo non può tuttavia consentire all’illustre generale di offendere chi riferisce una testimonianza. L’atto ha fatto subito nascere su Facebook un gruppo di solidarietà ad Agnese Borsellino, che nel giro di qualche giorno ha raggiunto numeri impressionanti e continui messaggi di vicinanza alla vedova del magistrato ucciso. Venne da Palermo a Cinisi... Tra questi anche quello dell’Associazione Peppino Impastato, composta dai compagni di Peppino, che ricordano ancora bene l’operato di Subranni: il 9 maggio 1978 era comandante del Reparto operativo del gruppo Carabinieri di Palermo e venne da Palermo, in cerca di gloria, dando ai carabinieri di Cinisi indicazioni ben precise: la rotaia divelta e i resti del corpo di Peppino Impastato erano la conseguenza di un tentativo di attentato terroristico fallito. In Sicilia non c’erano mai stati terroristi: l’unico terrorismo possibile era quello mafioso, che aveva il perfetto controllo del territorio e dei traffici d’armi che passavano per la zona. Ma Subranni ci provò, così come due anni prima ci aveva provato il tenente,

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poi colonnello, Russo per l’uccisione di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina: in quella occasione vennero fatte perquisizioni, anche nella casa di Peppino Impastato, alla ricerca di possibili terroristi in possesso di armi. E anche allora, dopo la morte di Peppino, vennero fatte perquisizioni, senza successo, nelle case dei suoi compagni, alla ricerca di un complice dell’attentatore, essendo del tutto improbabile che Peppino potesse essere saltato in aria da solo, senza che nessuno sistemasse il detonatore e innescasse la miccia che, dall’auto di Peppino avrebbe dovuto portare la scintilla al luogo dell’esplosivo. In questa sorta di frenesia i carabinieri vennero anche a perquisire la radio, naturalmente senza mandato di perquisizione e aprendo con una chiave che asserirono essere quella dell’Impastato, come se in quella chiave ci fosse scritto il nome: dalla perquisizione venne portato via un rotolo di cavo telefonico che un compagno aveva lasciato lì e che serviva per attaccare i fili dell’altoparlante alla batteria, quando si facevano i comizi. Volevano far credere che quello era il filo mancante. Ma il filo non era abbastanza lungo. Perquisendo la casa di Peppino, l’allora carabiniere ausiliario in forza alla caserma di Partinico, Carmelo Canale, poi al seguito di Paolo Borsellino e successivamente indagato per mafia, (cognato del maresciallo dei carabinieri della caserma di Terrasini, Antonio Lombardo, protagonista di uno strano suicidio), trovò una lettera scritta nervosamente, che iniziava: “sono ormai nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un normale parto, che medito sulla necessità di abbandonare la politica e la vita…è cominciata a febbraio….”.


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“I carabinieri di Cinisi non disturbavano i mafiosi”

Quella lettera era datata, era stata scritta a novembre 1977, ma i carabinieri e il magistrato non esitarono ad usarla come prova del suicidio di Peppino. Nel giro di qualche giorno, vista la difficoltà di sostenere l’ipotesi dell’attentato, si passò infatti a quella del suicidio. Di quella lettera, di cui nessuno sapeva niente, vennero fatti pubblicare alcuni passaggi sul Giornale di Sicilia, con la nota che tali frasi “erano state ricostruite con l’aiuto dei compagni di Impastato”. Sul giornale “Cronaca Vera” comparve un articolo dal titolo “E’ saltato in aria da solo, corredato dalla foto scattata a Peppino al momento del servizio militare, e quindi negli archivi dell’esercito e con un’altra foto scattata dai carabinieri subito dopo il ritrovamento dei resti. Interrogato da Chinnici Quando, considerato che dai carabinieri non potevamo avere giustizia, ci mettemmo a cercare tracce, assieme ai brandelli del corpo di Peppino, lasciati all’aria e in pasto agli uccelli, e trovammo le macchie di sangue in un casolare che era lì, ma che nessuno aveva notato, l’indomani trovammo, sempre sul Giornale di Sicilia, l’affermazione che “per i carabinieri trattasi di sangue mestruale”. Malgrado i manifesti, malgrado la grande folla al funerale, malgrado le manifestazioni in tutta Italia, malgrado l’elezione, in memoria, di Peppino Impastato al consiglio comunale di Cinisi, in cui era candidato, ancora il tenente Subranni, in un suo verbale del 30 maggio, cioè 20 giorni dopo, sosteneva ancora la tesi dell’attentato terroristico e quando, interrogato da Rocco Chinnici fu costret-

to ad ammettere di avere sbagliato, si giustificò dicendo di avere avuto informazioni sbagliate dai carabinieri di Cinisi. Significativa anche una improvvisa presenza del capitano D’Aleo, della caserma di Monreale, poi anche lui vittima di mafia, che di colpo scomparve dall’indagine: forse che non condivideva i metodi di Subranni. Ma, a concludere questa allucinante vicenda, va anche considerato il ruolo del magistrato che condusse le indagini, il giudice Domenico Signorino, che sarà anche PM al maxiprocesso e che morirà suicida nel novembre 1992, si disse per debiti di gioco: il pentito Gaspare Mutolo (quello che Paolo Borsellino interrogherà a Roma il 17 luglio 1992 e che avrebbe dovuto reinterrogare se la mattina del 19 il procuratore Pietro Giammanco non lo avesse sollevato da questo interrogatorio, affidandolo al giudice Aliquò), in una delle sue dichiarazioni descrive perfettamente la casa del giudice Signorino e l’ubicazione delle varie stanze. Le indagini sull’omicidio di Peppino hanno assunto la giusta direzione perché, su sollecitazione del Procuratore capo Gaetano Costa, Signorino si convinse di avere sbagliato tutto e, nove mesi dopo formalizzò l’istruttoria come “omicidio ad opera d’ignoti”: il caso venne preso in mano da Rocco Chinnici e, dopo la sua morte, da Antonino Caponnetto, che arrivò, in quel momento alla conclusione che Peppino era stato ucciso dalla mafia di Cinisi, ma che non c’erano sufficienti prove per incriminare qualcuno. Durante il processo vennero fuori interessanti dichiarazioni di pentiti, come Francesco di Carlo :“La stazione dei carabinieri di Cinisi non li disturbava ai

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mafiosi, facevano finta di niente perché ci avevano fatto parlare il colonnello Russo. Al colonnello Russo ci avevano fatto parlare i Salvo e Tanino Badalamenti e si comportavano bene”, o quella di Francesco Onorato “era risaputo che il Badalamenti avesse nelle mani i carabinieri del territorio di sua pertinenza”. Tutto questo ci dà il termometro della situazione. Una irresistibile carriera Pertanto, l’affermazione che Subranni fosse “punciutu” stupisce, perché sappiamo di esponenti delle forze dell’ordine collusi o implicati in accuse di concorso in associazione mafiosa, ma non di “punciuti”, cioè di affiliati, sarebbe la prima volta, tuttavia la cosa si inserisce perfettamente in quel quadro di torbide vicende sui rapporti tra le forze dell’ordine, i politici, i magistrati e i mafiosi, che caratterizza la fine degli anni 70 e che dura sino ad oggi. Subranni continuerà la sua irresistibile carriera sino a diventare generale dei ROS, cioè uno degli uomini più potenti d’Italia. Mori, Obinu, Canale, Contrada, Russo e molti altri restano nomi sui quali si addensano ombre inquiete. A dirci che nulla è cambiato, troviamo che il figlio di Subranni, Ennio, è attualmente membro del ROC, il Reclutamento operativo centrale dei nostri servizi segreti, mentre la figlia Danila è stata la principale portavoce di Angelino Alfano, all’epoca in cui era ministro della Giustizia e il padre era accusato di favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano. Ogni cosa a suo posto.


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Memoria

Un amore di Mauro Rostagno Proviamo a raccontare di Mauro Rostagno da un altro punto di vista. Arriveremo alla mafia e alla violenza, contro cui si scagliava Rostagno alla fine, dopo essere stato al fianco degli ultimi dentro la Cattedrale di Palermo molti anni prima... di Rino Giacalone

Stavolta raccontiamo di Rostagno cominciando da una sua storia d’amore. No, attenzione, non gli “amori” segreti, tanto segreti proprio perché non esistevano, o se c’erano non erano cosa da provocare morte tanto spietata, non sono nemmeno gli “amori” che secondo ragionamenti perversi, nelle menti di investigatori poco attenti, o disattenti a comando, investigatori come quei carabinieri che hanno dimenticato per decenni nei loro archivi documenti importanti di denunzie fatte da Rostagno sulle malefatte che si compivano ogni giorno in provincia di Trapani...

Raccontiamo di un amore vero, quello che Mauro Rostagno aveva per questa terra, per la Sicilia, per la città di Trapani. “Io sono più trapanese di voi perché io ho scelto di venire ad abitare qui”. Scriviamo di Rostagno, cominciando da questa sua affermazione, che come altre lastricano il percorso dei ricordi incancellabili, svelando il suo innamoramento per i siciliani grazie al quale ha vissuto con intensità gli anni del giornalismo a Rtc, coincisi purtroppo con gli ultimi anni della sua vita, in tv, a Rtc, si era portato appresso tutto il bagaglio delle sue esperienze. Dal Sessantotto in poi Perché il lavoro fatto da Rostagno tra il 1986 e il 1988 nella televisione privata trapanese non è altro che la summa di esperienze che lo avevano portato a vivere gli anni della contestazione del ’68 a Trento, la sua laurea in Sociologia, la vita dentro Lotta Continua, l’esperienza del Macondo di Milano, ed ancora con gli arancioni in India prima e a Trapani dopo, e infine il bianco della comunità di recupero per tossicodipendenti Saman. Per raccontare delle cose più straordinarie, per come le ha vissute da lui, che lo hanno visto protagonista. Lungo queste strade tanti i personaggi da lui incontrati, presi e portati appresso per un periodo, lasciati e poi ripresi, o abbandonati del tutto. Ma forse questo possono riferirlo con maggiore dovizia di particolari e con profonda conoscenza solo i suoi familiari e chi lo ha davvero conosciuto, in profondità, da vero amico. Alcuni ci rammentano - ecco l’amore per gli altri di Rostagno - che lui in effetti

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non ha mai abbandonato nessuno, e chi voleva poteva continuare a bussare alla sua porta. E chissà che quella maledetta sera del 26 settembre 1988 non gli sembrò che qualcuno era venuto a bussare alla sua porta su quella stradina di Lenzi, forse per questo rallentò la marcia della sua Duna mentre i killer cominciavano a fare fuoco. La mafia dei notabili E allora proviamo a raccontare Rostagno e la sua storia d’amore con questa città. Con la Trapani che in quegli anni, gli anni 80, ma già da prima ovviamente, dinanzi ai morti ammazzati negava l’esistenza della mafia ed oggi, nel 2012, continua a mostrare incredulità se in galera finiscono i cosidetti “colletti bianchi”, gli imprenditori, i professionisti ed i politici. A Trapani si sostiene che la mafia è stata sconfitta e quindi non esiste, come non esisteva negli anni ’80… e ancora prima ovviamente. E se la mafia è sconfitta, si sostiene, ma non a ragione, che è ingiusto e inutile arrestare un notabile, perché un burocrate da queste parti è un notabile, e un politico è un uomo da ossequiare, soprattutto se poi questo politico viene dalle stanze della più nobile borghesia: quella che subiva in silenzio il ricatto dei campieri mafiosi ma si accordava con loro trovandone convenienza precisa. Una tela che resiste ancora oggi e che fa parte del telaio delle indagini antimafia che riguardano, per esempio, l’ex sottosegretario all’Interno, oggi presidente della Commissione Ambiente del Senato, Tonino D’Alì.


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Nei terreni dei D’Alì, a Castelvetrano, contrada Zangara, a fare da campieri c’erano i Messina Denaro, così come erano altri mafiosi nel resto della provincia ad occuparsi di altri terreni e di altri latifondisti, come succedeva quando a comandare era Totò Minore, il vecchio austero capo mafia trapanese che dal dopoguerra agli anni ’80 comandò la mafia trapanese, ubbidito e riverito; Minore fece anche il presidente del Trapani calcio, divideva il comando con un altro ossequiato mammasantissima, Nanai Crimi, uno di quelli che si occupava di edilizia fin nel lontano Lazio con il famigerato e famoso Frank “tre dita” Coppola. I legami con i Cavalieri La storia d’amore di Rostagno per Trapani è simile a quelle storie di amore di ogni giorno dove spesso le parole vere sono quelle non dette e si nascondono dietro quelle che vengono pronunciate e che possono pure sembrare banali. Provate a rileggere gli editoriali di Mauro Rostagno: ci sono quelli che, letti alla luce degli accertamenti e delle verità più scomode emerse anche ora, svelano le intuizioni che il giornalista aveva avuto. Per esempio quando parlò di uno sconosciuto imprenditore pacecoto, Ciccio Pace, ne parlò indicando, con sorpresa, la sua improvvisa ascesa in quegli anni ’80, ne scoprì i legami con i cavalieri del lavoro di Catania, Rendo, Graci e Costanzo, venuti a Trapani a costruire aeroporto e case popolari, lo indicò in combutta con i Minore (unico errore che fa, lui come alcuni investigatori perché all’epoca Minore era stato già ucciso dalla mafia corleonese e al suo posto era arrivato

già il “coccodrillo” Vincenzo Virga, quello che non lasciava spazi ad alcuni ed arraffava tutto quello che c’era da prendersi in termini di appalti, lavori, soldi), ne ricordò ancora il coinvolgimento, sempre di don Ciccio Pace, in uno scandalo di una cassa rurale. Pace, che nel frattempo frequentava impunemente le stanze della politica, nel 2001 proprio grazie alle alleanze con la mafia catanese, e per la vicinanza a quella mazarese di Mariano Agate (anche lui bersaglio pubblico degli editoriali di Rostagno), fu scelto da Matteo Messina Denaro quale nuovo capo della mafia trapanese, messo a capo di una “cupola” fatta solo da imprenditori, sgominata quattro anni dopo dalla Squadra Mobile di Trapani con l’operazione “mafia e appalti”. Matteo Messina Denaro Questo era il giornalismo fatto da Rostagno, c’era dentro l’amore per la terra nella quale aveva scelto di venire ad invecchiare, a vedere crescere le figlie, e coccolare i nipoti che sarebbero potuti arrivare, e la denuncia, proprio per preservare quel suo amore, di chi sporcava di sangue il territorio, di chi ne speculava le bellezze e le opportunità. Nelle storie d’amore c’è una inversione di tendenza, non sono le parole che volano e gli scritti che restano, ma l’esatto contrario gli scritti volano e le parole restano, e per Rostagno è stato così: oggi spesso si ricordano le sue parole, le sue affermazioni, brevi ma efficaci, nelle parole lasciate da Mauro Rostagno c’è la sintesi di quello che è rimasto stampato sui fogli dei suoi editoriali.

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E così come un amore che in questa maniera diventa più intenso, allo stesso modo maggiormente intenso divenne la sua maniera di fare giornalismo a Rtc. Un continuo salire di tono, intensità, emozioni, rabbia, voglia di riscattare la terra dai suoi mali. Fino a quando non trovò i killer sulla sua strada quella sera del 26 settembre 1988. Lui che aveva alzato sempre più il tiro denunciando la munnizza che abbondava per strada, il disagio dei meno fortunati, il pericolo della droga, gli intrecci dentro le stanze della massoneria segreta, le ruberie di Palazzo D’Alì, sede del Municipio di Trapani, le tangenti che venivano distribuite nella vicina Marsala, la Paceco nascosta dentro le stanze dove si riunivano i mafiosi, le anomalie di un delitto irrisolto come quello del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, compiuto nell’agosto del1980, il coinvolgimento in quel delitto di due capi mafia siciliani per eccellenza, Mariano Agate e Nitto Santapaola, “salvati” in un primo tempo dall’ignavia di un capitano dei carabinieri, o ancora la barbarie del delitto di un giovanissimo ragazzo di bottega, ammazzato senza perché una mattina di estate in una stradina di Paceco. Santapaola e Agate Ci hanno detto: “voleva far cambiare costume alla società”, vero verissimo, ma la società, questa società che lui tanto amava non è stata unisona nel cambiare costume, anzi chi ci ha detto di questo disegno di Mauro, incredibilmente davanti ai giudici che stanno processando i mafiosi assassini, non ha saputo dire chi,


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dove e quando borghesi ipocriti e venduti consigliavano agli editori di Rtc di fare tacere presto Rostagno. La mafia non era a cento passi da lui, come era stato per Peppino Impastato, ma a poco meno di cinque passi, tanti quanti erano quelli che dividevano il suo ufficio da quello dell’editore di Rtc all’interno della sede di Nubia. Proprietario della tv era Puccio Bulgarella, uno di quelli che quasi giornalmente sedeva al tavolo con Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. La mafia a cinque passi Cosa Nostra non poteva permettersi tutto questo. Non poteva sopportare un giornalista che la sfidava ogni giorno anche quando denunciava la spazzatura lasciata per strada perché sui rifiuti Cosa nostra aveva già messo le sue mani. Non fu un delitto di impeto, di gelosia, fatto da sprovveduti, ad uccidere fu quella mafia che entra in scena usando le auto rubate mesi prima e tenute nei garage della criminalità pronte per essere usate, è quella mafia che spara prendendo armi e munizioni dai suoi arsenali, che usa quei fucili sovraccaricati di pallettoni, che riesce a fare andare in corto circuito un intero impianto di illuminazione come accadde quella sera a Lenzi.

Il patriarca della mafia belicina Ciccio Messina Denaro, ha raccontato il pentito Sinacori, durante un summit espresse ogni peggiore rancore per “chiddu ca varva chi parla in televisione” e ne ordinò l’uccisione. Un incarico arrivato a Trapani a Vincenzo Virga, passato al gruppo di fuoco comandato dal campione di tiro a volo Vito Mazzara. I due sono imputati oggi in corte di Assise a Trapani. Incastrati dai pentiti e da una super perizia balistica. Mazzara si procurava da sè cartucce e polvere da sparo, era lui a fare il confezionamento, cartucce similari a quelle rinvenute a Lenzi sono state trovate sulle scene dei delitti per i quali Mazzara è stato condannato all’ergastolo. La firma sul delitto di Cosa Nostra secondo la Polizia, nei giorni immediatamente vicini al delitto un maggiore dei carabinieri, oggi generale in pensione, Nazareno Montanti, sostenne invece che l’abitudine a sovraccaricare le cartucce era dei cacciatori. Ma Rostagno non è morto per un incidente di caccia. Né per colpa di balordi. Le indagini di Germanà Nel 1988 l’allora capo della Squadra Mobile Rino Germanà imboccò decisamente la pista mafiosa nelle indagini, ma fu fermato. I carabinieri convinsero la

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magistratura a seguire altre piste, le gelosie, gli sprechi dentro Saman, un piccolo spaccio di droga in comunità. Dimenticarono quei verbali in cui Rostagno era andato a raccontare di alcune sue scoperte sulle connessioni tra mafia e massoneria, la presenza nel trapanese, non rara, del capo della P2 Licio Gelli, adesso confermata dal pentito Siino che ha detto ai giudici che qui, a Trapani, Gelli era venuto a preparare un golpe. Licio Gelli a Trapani Per i carabinieri, per i carabinieri di allora, il delitto era roba di poco conto e non c’era quindi bisogno di andare a rileggere gli editoriali di Rostagno dove invece a chiare lettere c’erano scritti i mandanti e gli esecutori del suo omicidio, non era necessario calarsi nella realtà di una città dove si diceva che la mafia non esisteva e che Rostagno era un pazzo da isolare, e però Mauro di questa città si era innamorato. E ancora oggi a noi che restiamo continua a dirci di questo suo innamoramento. Basta sapere non solo leggere ma ascoltare cosa ci dice il vento che leggero soffia sulla collina di Ragosia a Valderice, e che con il suono prodotto da una sola mano, sfiora la figura di Mauro Rostagno sul muretto di pietra che circonda il luogo dove riposa. Da innamorato.


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Trapani

Faide politiche in terra di mafia Trapani, campagna elettorale per le amministrative del 2012, appuntamento alle urne a maggio. La città che dice di volere cambiare si presenta indicando come area maggioritaria gli impresentabili di Rino Giacalone

. E’ tornato a mettere il naso fuori dalla sua fattoria, dove ha collocato in bella vista l’insegna luminosa del suo partito, Nuova Sicilia (che gli ha fatto raggranellare i soldi del rimborso elettorale), l’ex vice presidente della Regione ed ex assessore regionale al Territorio, Bartolo Pellegrino bis prescritto per corruzione. Ha cercato di ricandidarsi a sindaco di Trapani l’ex primo cittadino Nino Laudicina. sotto processo per corruzione.

Laudicina che ha rotto con gli alleati di un tempo - quelli che organizzarono una fiaccolata il giorno del suo arresto - a cominciare dal senatore del Pdl Tonino D’Alì, ha preferito l’abbraccio con Gianfranco Miccichè e con Grande Sud e sarà così capolista per il Consiglio comunale. Candidato a sindaco del Grande Sud è il presidente del consorzio per l’area di sviluppo industriale, l’ex deputato regionale di Forza Italia, Giuseppe Maurici. L'inciucio Pd-Maurici Maurici è avversario intanto più del senatore D’Alì che del Pdl, si dice nemico di D’Alì e su questo inciucia con il Pd che non a caso si ritrova senza candidato. Ma il Pd non è in ambasce. Direte, e la faida dove sta? Sta nel fatto che il Pd il candidato con tanto di tessera di partito in tasca lo ha a disposizione, si è già presentato, è la prof. Sabrina Rocca che con una parte di attivisti e sostenitori hanno rotto col Pd quando si andava palesando che la grande alleanza con Mpa, Udc e Fli portava acqua al mulino dell’on. Maurici. In campo ci sono anche altri volti, presentabili, come l’avv. Giuseppe Caradonna, e il maestro Marrone D’Alberti, Idv il primo, verdi il secondo, ma in una città dove l’onestà non premia loro, Rocca, D’Alberti e Caradonna, sono gli outsider. Punta a contarsi per alzare il prezzo a fronte di eventuale ballottaggio l’ing. Stefano Nola che corre per il Pid. La faida vera e propria è però quella dentro l’area di centrodestra, Pdl e Grande Sud. Gianfranco Miccichè con Maurici. D’Alì col generale dei carabinieri Vito Damia-

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no. Damiano e Maurici, il cuore della faida è tutta qui. Fare eleggere Maurici per cacciare via il senatore D’Alì, un mal potere che va via e uno non meno ingombrante che vi subentrerebbe. D’Alì è oggi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, Maurici è saltato fuori in diverse indagini a proposito di mafia e impresa, D’Alì si dice vittima di un complotto, Maurici afferma che è dispiaciuto che la stampa scriva certe cose di lui. Maurici nel frattempo governa il territorio anche senza essere sindaco, è legato all’ing. Salvatore Alestra, amministratore dell’Ato rifiuti e anche lui con qualche amicizia ingombrante sul groppone. In piena campagna elettorale esauriti i posti a disposizione presso l’Ato vengono svolti colloqui finalizzati a future assunzioni. C'è chi paga le bollette agli elettori... Poi nella rete del potere Grande SudMiccichè-Maurici c’è l’Asp, con il manager Fabrizio De Nicola, e la Serit, col direttore Salvatore Ciaravino. A Trapani è cosa nota che bisogna passare, per avere da questi buoni uffici, dalle maglie dell’on. Maurici. A Trapani c’è da dire che i metodi per la cattura del consenso sarebbero anche nuovi: ci sarebbe chi raccoglie casa per casa, nei rioni popolari, le bollette da pagarsi, ritornandole pagate… Trapani cambia, dalla borsa della spesa al saldo delle bollette di luce, telefono, gas e di affitto delle case popolari. Buon voto, nonostante le faide.


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Società

L'infanzia negata: Minorenni nel circuito mafioso «La mafia teme la scuola più della giustizia – diceva Caponnetto - L'istruzione taglia l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa». Ma cosa si fa davvero per realizzare queste parole? di Irene Di Nora Addiopizzo Catania

Daniele ha nove anni, l’orecchino in diamante, i capelli all’insù, grossi occhiali da sole, la giacchetta in jeans. Abita a Catania, a San Cristoforo. Se chiedi a Daniele, San Cristoforo è tutto il suo mondo. Lì c’è nato, lì ci sono i suoi amici, quelli dei quali può fidarsi, quelli con i quali, ogni giorno, impara a conoscere la vita. È un ragazzino acuto, intelligente, ama definirsi “bimbo tosto”, sempre forte e vincente. Ti mostra la foto della sua fidanzatina dal cellulare all’ultima moda, poi, quasi malinconico, dice: «mi lassò»

e in uno scatto fiero d’orgoglio aggiunge: «ma uora mi n'attrovo una chiù bedda», “ma ora ne trovo una più bella”. Nel parlargli noti subito che è diverso dai suoi coetanei, nel suo perfetto dialetto riesce a disarmarti con considerazioni taglienti che vanno aldilà delle tue convinzioni morali, dell’educazione che hai ricevuto, dell’idea che hai di quel che dovrebbe essere poco più che un bambino. Perché Daniele è già quasi un adulto, e se gli spieghi chi era Falcone, lui, con il padre in carcere e una giovane mamma rimasta incinta quando aveva poco più della sua età, ti risponde: «Ah. Noi stiamo dall’altra parte». Ma perché - ti domandi – esistono “parti”? E un bambino così piccolo come fa ad aver deciso da che parte stare? Chi ha deciso per lui? Secondo i dati Istat in Italia i minori sono circa 11 milioni ma dalle stime ufficiali ne rimangono fuori circa 5 mila non regolarmente scritti all’anagrafe perché figli di clandestini od oggetto di tratte illecite. Il rapporto di Save the Children La maggior parte di questi ragazzi, secondo il rapporto finale sulla tratta dei minori di Save the Children, quando non sono oggetto di adozioni illecite e vendita d’organi, finiscono per essere indotti all’illegalità attraverso prostituzione, accattonaggio, furto e spaccio. Simili reati coinvolgono anche i loro coetanei italiani che vengono utilizzati

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dai locali affari mafiosi principalmente per vendita di sostanze stupefacenti e furti, reati seguiti da rapina ed estorsione. Lontani dalle beate illusioni infantili, scrigno dei sogni che fa desiderare tutti gli altri bimbi di diventare, da grande, una ballerina o un astronauta, questi ragazzini imparano troppo presto a conoscere tristi realtà che a così giovane età dovrebbero essere semisconosciute. Così accade spesso che la durezza della vita e gli adulti decidano che Daniele non ha “solo” nove anni, ma ha “già” nove anni e non può permettersi di fare “u picciriddu”, il bambino. Uno dei paesi più a rischio Uno dei motivi per cui la mafia riesce ad avere un così alto riscontro fra i giovanissimi risiede nell’alto tasso di povertà di alcune zone del nostro paese. Le analisi dell’Eurostat dimostrano che l’Italia è uno degli Stati europei a più alto rischio di povertà minorile. Davanti solo a Romania (33%) e Bulgaria (26%), in Italia un minore su quattro vive in condizioni economiche precarie. «Il problema della povertà non è sempre legato alla criminalità, ci sono delinquenti ricchi e poveri onesti» dice Roberta D’Agati, educatrice di minori in condizioni di disagio, «tuttavia è indubbio che gli alloggi meno costosi si trovino in zone disagiate creando, così, dei veri e propri ghetti dove diventa facile divenir strumento degli interessi mafiosi».


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“Gli tolgono il diritto di essere bambini”

«Il modo più efficace per dare un futuro a questi bambini è dotarli di un’istruzione adeguata, ma «le loro possibilità di continuare gli studi oltre le scuole d’infanzia sono davvero minime» aggiunge D’Agati, «spesso questi minori hanno ottime capacità di apprendimento e se potessero proseguire gli studi si troverebbero sicuramente bene ». È chiaro, allora, che la scolarizzazione diventa fondamentale perché spesso i ragazzi nelle medesime condizioni sociali di Daniele solo nella scuola trovano un luogo che parli loro un linguaggio umano diverso da quello che sono soliti ascoltare. I tagli all'istruzione Ma l’Italia, con tagli sempre più incisivi al mondo dell’istruzione, sembra essere sorda agli insegnamenti di Caponnetto che ammoniva: «la mafia teme la scuola più della giustizia. L'istruzione taglia l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa». Una scuola, quella dell’obbligo, dove manca una mirata e costante educazione

alla legalità. Le associazioni, come quella di Addiopizzo, che si occupano di sopperire a queste mancanze con continui progetti, nonostante l’impegno e la tenacia, non possono colmare fino in fondo così forti carenze educative. Nelle zone a rischio la dispersione scolastica è dovuta anche ad un’alta percentuale di ragazzine che va incontro a precoci gravidanze. Non è infatti un caso se il 74% delle madri minorenni consegue solo la licenza media inferiore e se la percentuale delle piccole madri si mantiene parecchio bassa in tutta Italia innalzandosi notevolmente nelle regioni socialmente più a rischio di Sicilia, Puglia e Campania. Di ragazzini come Daniele ce ne sono tanti nelle zone difficili di ogni città e sono spesso considerati un fastidio, perché i “bimbi tosti”, quelli che vivono nei quartieri dove nessuno osa entrare, quelli con l’orecchino, i capelli col gel, la scaltrezza e gli occhi disillusi di un adulto, sono i ragazzi che nessun genitore vorrebbe in classe col proprio, beneducato, figliolo di buona famiglia. I ragazzini come Daniele non vengono

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accompagnati il pomeriggio da mamma e papà a lezione di pianoforte, perché quelli come lui crescono per strada e il loro centro sportivo è un pallone scassato fra calcinacci di cemento. “Sono solo piccoli delinquenti” I ragazzini come Daniele ad occhi borghesi sono solo piccoli delinquenti che sicuramente prima o poi finiranno per commettere qualche reato, quindi è meglio starne lontani. Eppure, in Daniele, quando non puoi ignorarlo perché lo incontri per le vie “buone” del centro, quasi come se avesse invaso uno spazio che non gli appartiene, c’è qualcosa di fastidioso che non riesce proprio a fartelo passare indifferente. Quella molesta punta di disturbo è il suo bellissimo sorriso. Quel sorriso ti urla prepotentemente che, in realtà, oltre i tuoi sguardi schivi e la sua vita non facile, Daniele è davvero solo un bambino. E tutti, una volta nella vita, hanno diritto d’esserlo.


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Operai

La Fiat chiude in Irpinia La fine delle tute blu Un deserto verde che negli ultimi mesi ha incontrato i paradossi della globalizzazione: valle Ufita, Irpinia di Marina Brancato Napoli Monitor

Dal 2001 l'Irisbus diventa invece controllata al cento per cento da Iveco, e quindi dal Gruppo Fiat Industrial. Il 7 luglio scorso Fiat ha annunciato la chiusura dello stabilimento di valle Ufita in Campania, dopo che la produzione di autobus è passata da settecentodiciassette veicoli nel 2006 a centoquarantacinque nel 2011. Fine corsa per l’ultima azienda in Italia a produrre autobus per trasporto pubblico turistico. Domino si chiamava il fiore all’occhiello made in Irpinia. L’Irisbus, con la Fma di Pratola Serra e un altro paio di stabilimenti, assicurava lavoro all’ottanta per cento della popolazione locale. «Nessuno ci aveva avvisati, lo abbiamo letto sul giornale che rischiavamo il licenziamento, che era la fine» racconta Silvia, cinquantun'anni, tenace protagonista e simbolo dell’ondablu. “L'abbiamo saputo dal giornale”

Con centoventi giorni di lotta gli operai Irisbus hanno scosso, dopo circa trent'anni, una coscienza locale indolente e congelata dall’assenza di una politica economica responsabile. Negli ultimi mesi hanno protestato davanti alla fabbrica giorno e notte, bloccato l'autostrada, organizzato cortei; ma il risultato rimane la cassa integrazione per più di seicento dipendenti. L'Irisbus è un'azienda europea che produce autobus e filobus. La sua sede principale è a Lione, in Francia poiché fino al 2000 l'azienda era di proprietà italo-francese, controllata in modo paritetico da Fiat-Iveco e Renault Véhicules Industriels.

Apre il cappotto, mostrando la t-shirt da lavoro blu con la scritta Irisbus Iveco: «Io la porto sempre questa maglia. In ogni momento può servire a far capire cosa ci è successo... Perché è veramente un paradosso: uno stabilimento fa una ristrutturazione da otto milioni di euro nell’ultimo anno ti dà l’illusione che poi dovresti lavorare. Nel suo piano industriale Marchionne non ha mai accennato all’Irisbus. Nulla faceva presagire che il 7 luglio si voleva chiudere per poi cedere l’attività a De Risio, un imprenditore molisano rivelatosi un imbroglione che non paga gli stipendi... ». Settecento persone in fabbrica che con l’indotto arrivano a duemila, perché in-

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torno allo stabilimento si è modellata la vita della popolazione. Ed è così che l’estate scorsa l’Irpinia conosce la prima vertenza globalizzata, un brusco cambio di stagione che si abbatte su una coscienza operaia che in questa provincia non ha precedenti. E che resisteva ancora quando, anche con i sigilli con i sigilli alle fabbriche, gli operai si legavano ai cancelli, nonostante intorno ci fosse «un vuoto, una assenza che non è solo politica ma della società; al capoluogo interessa poco di quello che accade nella zona industriale», dice Silvia. Duemila senza lavoro «Siamo stati trattati come un bacino di voti per la destra e la sinistra. Senza capire che il nostro lavoro è parte della cultura di un territorio. I nostri valori sono gli stessi che abbiamo trasmesso ai nostri figli. Da domani invece? Senza contare che la maggior parte di noi ha tra i quaranta e i cinquant’anni, chi ci darà più un posto?», si domanda Giuseppe. «Dal 1 gennaio 2012 gli operai sono in cassa integrazione straordinaria, «ma per avere il secondo anno di cassa integrazione l’azienda deve necessariamente ridurre i lavoratori di centonovantasette unità. Ventitre persone sono state trasferite tra Torino e Bolzano. Ma sono dirigenti e impiegati. Nessun operaio è stato ricollocato. Le proposte di trasferimento sono poche e quelle che vengono offerte non sono economicamente vantaggiose. Tanto vale restare qui», spiega Dario, cinquantacinque anni.


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“Avremmo voluto decidere anche noi”

Voci di chi ha creduto in una possibile e trasformazione culturale oltre che economica: «La cassa integrazione è un limbo, affoga il mio senso di emancipazione» dice Italia, addetta al montaggio. Il problema secondo Silvia è anche «l’individualismo ha preso corpo nella classe operaia e si manifesta nella differenza tra lavoratori stabili e non. Perché gli ostacoli e il divario nascono prima dall’interno e poi dall’esterno». Donne che sentono l’assenza delle istituzioni e del sostegno politico, ma soprattutto la mancanza di una solidarietà tra le stesse compagne. Nostalgia per quell’anello forte così ben raccontato da Nuto Revelli. «Noi donne siamo solo il dieci per cento dei lavoratori, io nel mio stabilimento sono l’unica a

non esser stata assunta come categoria protetta. Nessuna donna ha mai avuto potere decisionale, nessuna è mai stata responsabile sindacale o capo squadra…». Ma nonostante sia vero che «in fabbrica ti spremono, è un lavoro duro che ti usura», rivendicano anche il valore di quella fatica quotidiana: «il governo politico dovrebbe essere fatto di operai, o meglio di operaie: gente che sa come si lavora». Una crisi anche d'identità Le tute blu, in Irpinia e altrove, sono inghiottite da una crisi che è anche d’identità, e nessuno si occupa veramente di loro: né il sindacato né i

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politici. «Avremmo voluto sederci anche noi che al tavolo delle trattative. I sindacati sono diventati troppo partitici, io faccio parte della Fiom ma non risparmio le critiche: anche Landini ha preferito fare demagogia piuttosto che confrontarsi con noi, come nel caso di Termini Imerese; Camusso ha fatto un comunicato stampa. Questo fa capire molte cose» spiega Italia. Quando alla rabbia subentra la rassegnazione, dopo il collasso economico si rischia lo stagno. Scenari che si auto-fabbricano tra l’inerzia di chi governa con superficialità il nostro territorio, l'indifferenza di chi non solo non parla con queste persone, ma nemmeno prova a dargli una alternativa. Che forse verrà dalla Cina.


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Eolico

Si sgonfia il “signore del vento” di Sicilia Turano, Nicastri e soci: il politico, l'imprenditore, e una serie di strani affari di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it

E l’ente che amministra non smette nemmeno in periodi di magra di darsi alle spesse folli. Sull’ultima consulenza esterna contestatagli ha il tono compassionevole: “perché non siete contenti di me?” Turano Mimmo è figlio di Turano Vito, ex sindaco di Alcamo. Padre e figlio hanno un buon rapporto, parlano di politica, di sanità. Vengono intercettati mentre discutono di come vengono nominati i primari negli ospedali della provincia. “Non basta essere scienziato, devi essere amico di Giammarinaro”, l’ex deputato regionale Dc più volte indagato per mafia. Ma i Turano non denunciano mai i loro sospetti. Vecchie indagini antmafia

Da elettricista a sviluppatore di parchi eolici. Aveva creato un vero e proprio impero in poco tempo, Vito Nicastri: 1,5 miliardi di euro tra terreni, quote societarie, aziende, immobili, conti correnti e altro. Poi l’operazione “Eolo” e la DIA che sequestra tutto nel 2010. Per gli inquirenti Nicastri sarebbe stato al centro del triangolo mafiapolitica-imprenditoria per la realizzazione di impianti eolici a Mazara del Vallo. Nicastri è di Alcamo, proprio come il Presidente della Provincia di Trapani, Mimmo Turano. Ma la città d’origine non è l’unico elemento in comune. E a Turano la DIA dedica parecchio spazio nella sua informativa. Turano è uno che sa il fatto suo. Presiede la giunta provinciale dal 2008, eletto con l’Udc.

Il suocero, Michele De Simone, e Vito Turano spuntano anche in un’indagine antimafia. De Simone viene sospettato di essere l’anello di congiunzione tra l’ambiente politico-economico e quello mafioso di Alcamo e Castellammare del Golfo della famiglia dei Melodia. Sono tanti i parenti di Turano che vengono ricordati nell'informativa della DIA. Lo zio, Pasquale, per esempio, è stato arrestato nel '75 per corruzione. Un altro zio, Giuseppe Indovina, funzionario all’anagrafe del Comune di Alcamo, firmava false carte d'identità, a volte anche inverosimili. Una volta ne rilasciò una ad un imprenditore con la foto di Matteo Messina Denaro. “Nicastri? Lo conosco, come conosco molta gente a Trapani”, così Turano giustifica i decennali rapporti col “signore del vento” . Prima di buttarsi nell’agone

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politico i due erano stretti da rapporti economici. Siamo nei primi anni ’90 quando Mimmo Turano amministra una società edile in cui figura anche la prima moglie di Nicastri. Poi Turano diventa sindaco effettivo di un’altra azienda che si è costituita a seguito della liquidazione della "La Sout Fork", il cui presidente dell'assemblea era Giovanni Ditta, commercialista trapanese, indicato vicino a Matteo Messina Denaro e al boss trapanese Vincenzo Virga. Turano, Nicastri e altri sono anche compagni di viaggio. Nel 2007, quando il politico alcamese è deputato regionale, prendono un aereo privato e volano in Tunisia. Non sono soli. C’è Filippo Inzerillo (nel cda della Megaservice, società della Provincia di Trapani), Franco Bogoni (imprenditore nell’eolico nell'operazione Eolo, è lui che paga il viaggio, 25 mila euro), Davide Fiore (socio con Nicastri in diverse società, poi assessore provinciale proprio nella giunta Turano, si dimette dopo il rinvio a giudizio per reati fiscali). L'uomo di fiducia Poi c’è Gioacchino Lo Presti, il jolly, uomo di fiducia di Turano. Presiede la Megaservice ed è nel cda dell’Airgest, l’ente che gestisce l’aeroporto di Trapani e di cui la Provincia è azionista di maggioranza. Nei primi anni ‘80 Giovanni Falcone indaga su di lui per associazione a delinquere. Suo fratello Ignazio, parente dei Salvo di Salemi, era un giovane professionista morto di "lupara bianca". Non si è mai saputo cosa ci andarono a fare.


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Modica

Giungla contratti, caos al centro commerciale “Centinaia di posti di lavoro!”. Nuovo centro commerciale, grandi speranze. Ma poi arriva la realtà... di Francesco Ragusa Il Clandestino

“La Fortezza”, il primo centro commerciale di Modica, era visto come una concreta speranza grazie alla promessa di centinaia di nuovi posti di lavoro che, in un periodo come quello attuale, avrebbero portato una ventata di futuro nelle case di giovani e meno giovani del comprensorio. Peccato che tutto, nel giro di appena qualche settimana dall'inaugurazione in pompa magna, sia praticamente svanito. Dopo l'avvio delle indagini relative alla compravendita dei terreni su cui sorge la struttura, sul complesso commerciale si è abbattuta la scure di una “contrattopoli”. Un misto di precariato, sfruttamento e illegalità che sfocia in contratti inverosimili e condizioni alquanto dure per i lavoratori delle decine di negozi presenti all'interno de “La Fortezza”.

Tempo di straordinari per il personale dell'ispettorato del lavoro di Ragusa che, a tre mesi circa dall'apertura del centro, si è ritrovato ad avere a che fare con un faldone di vertenze ad esso relative, otto quelle portate avanti dalla sola Cgil. Una commessa ventenne racconta: “Ho cominciato a lavorare a La Fortezza in un negozio di abbigliamento, nutrendo grandi aspettative. Un posto di lavoro, in questi tempi di crisi, è una vera fortuna. Ed io ero contenta. Ma la mia è stata un'illusione che è svanita presto: sono entrata come commessa al centro commerciale per tre gioni, e poi sono stata subito sostituita. Neanche il tempo di riuscire a dimostrare quanto valgo, e quanto posso fare bene. E' schifoso”. Come lei molte altre ragazze, “assunte” giusto per due o tre giorni e poi sostituite senza il pagamento di alcuna retribuzione. Specchietto per le allodole Anche Golden Point ha aperto un nuovo punto vendita all'interno de “La Fortezza”. La catena di negozi, specializzata in intimo, ha proposto un vero e proprio specchietto per le allodole: un compenso di mille euro al mese. Peccato che non si tratti di un qualsiasi stipendio, l'inganno – legale - si chiama “associazione in partecipazione”. L'associante garantisce all'associato, in molti casi una giovane commessa, la partecipazione agli utili dell'impresa dietro un apporto lavorativo dell'associato stesso. Golden Point versa ogni mese al lavoratore mille euro a tito-

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lo di acconto, a questa somma sono da sottrarre i contributi previdenziali (versati separatamente). Ma non finisce qui: l'associato ha il dovere di partecipare alle perdite. Il negozio va male? Il fatturato è minore del previsto? La semplice commessa, in sede di conguaglio, rischia di dover versare del denaro dalle proprie tasche per “ripianare” i conti del punto vendita. Molte le criticità anche per quanto riguarda le ore lavorative, il giorno libero, ferie, permessi, malattie, gravidanza e licenziamento. Già, perchè si rischia di pagare una salata penale qualora si decida di lasciare il lavoro. E proprio sull'associazione in partecipazione si è pronunciata, il 21 Febbraio, la corte di Cassazione che ha condannato una società che si avvaleva del contratto in questione al pagamento dei contributi Inps non versati ai propri dipendenti in quanto la prestazione lavorativa da loro svolta era assolutamente standard e non consona al tipo di forma contrattuale. Il caos de “La Fortezza” non finisce qui: diffusissima anche la pratica delle dimissioni firmate in anticipo (causa, tra l'altro, anche della perdita del diritto all'indennità di disoccupazione). E alla luce di tutto ciò appare quasi inconsistente la presenza di contratti part time non rispettati che, secondo i dettami dei datori dei lavoro, costringono il lavoratore ad un monte ore tipico di un tempo pieno. Piero Pisana, segretario della Camera del Lavoro di Modica, è lapidario: “Tra questi lavoratori c'è paura. Rivolgersi a noi non è un rischio”.


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Pianeta

Emigranti in Sicilia Cronaca da un paesino Dorme ancora, Scordia. Dorme come sa dormire una città di provincia, chiusa nella campagna, semplice e contadina... di Attilio Occhipinti e Giulio Pitroso GenerazioneZero

Il buio è fresco. Tutt’intorno gli aranci, i giardini, che manderanno i loro frutti lontano, esattamente come i figli di questi stessi campi sono stati mandati via di casa dalla disoccupazione e dal bisogno, perché offrissero agli stranieri le loro braccia. L’ora è quella in cui il mattino si mesce alla notte. Che cosa sia, non è chiaro. Perché c’è mattino e mattino. Quello di serie A, con Veltroni in tv, il sole delle nove e mezzo, cappuccino & cornetto; quello di serie B, cartella precipitosa, cravatta e caffè. Quello di serie C, quando gli uomini e le donne si alzano, spesso prima del sole e dei suoi problemi. E dentro quest’ultimo esiste un altro mattino, un mattino degli ultimi, un’aurora che sgattaiola tra i panara e i sacchi improvvisati, tra le stradine e i campi. Appartiene a sagome scure, che attraversano una stradina vicino a uno stabile abbandonato, mentre i primi raggi convivono con il giallognolo dei lampioni. I cittadini di Scordia quello stabile lo chiamano ex Copeca, dal nome dell’azienda che l’utilizzava. E loro, i niuri, per lo più maghrebini, specie tunisini, erano molti più

d’un centinaio quando l’hanno occupato. Il cielo dice che pioverà, cioè che oggi non si lavora. Sarà per questo che le sagome scure sono venute giù dalla stradina più tardi del solito. Arrivano fino al chiosco, dove prendono un caffè e fumano; vanno e vengono, anche se di fronte al chiosco dovrebbe esserci un punto di raccolta, un luogo dove incontrare caporali, padroni o intermediari. Ma oggi gli unici punti attivi sono quei due che si trovano vicino all’ingresso del paese, il primo vicino alla fermata del bus, vicino a un altro chiosco, il secondo di fronte a un bar. Zaini sgualciti e buste di plastica Hanno degli zaini sgualciti dai colori vivaci; attaccate alle mani, delle buste di plastica miserevoli. In molti hanno un cappello, per via del sole siciliano, che può essere crudele a metà del giorno. I ragazzi che sono fermi sotto la fermata del bus, nel primo punto di raccolta, sembrano degli studenti ripetenti, dei pendolari. Una macchina si ferma a ridosso del gruppo; l’autista scende e va a ristorarsi; un maghrebino apre la portiera e sale. Un altro maghrebino, meglio acconciato di quello di prima, gli s’avvicina e, aperto lo sportello, gli parla per un bel pezzo, finché l’autista ritorna. Poi il chiacchierone va verso gli altri, dice loro qualcosa, mentre restano esposti come carne sul ciglio della strada. E, in pochi minuti, l’auto è scomparsa, i migranti si sono dispersi. Magia. Il secondo punto, più popoloso, vede una manciata di maghrebini appollaiati sui gradini di fronte al bar, altri accanto all’ingresso. Un padrone discute di soldi con questi ultimi; tra di loro un ragazzino, avrà 15 anni. I vecchi parlano tra loro, in cerchio, proprio davanti alla porta del caffè. Poi arriva un furgoncino. L’ansia dell’attesa si scioglie, i migranti si muovono insieme verso l’autista, che, nel frattempo, è sceso. Parlano in arabo, migranti e autista, che è forse un

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intermediario. Qualcuno sale sul furgoncino. “Voli cincu euro” fa un signore, accennando al fatto che succedeva qualcosa di simile quando lui era emigrante. Vuole cinque euro, l’autista, un uomo un po’ attempato. Va a prendere forse il caffè e ritorna. Poche altre parole. Qualcosa, un segnale, da parte di uno della chiurma e tutti scompaiono, il furgoncino scivola lungo la strada e resta solo un ragazzo seduto su un gradino. Forse l’autista ha dato un altro punto d’incontro. Forse non c’è da lavorare, perché sta per piovere. E il cielo comincia a piangere. L’ex Copeca è formata da due diversi edifici. Il primo è più vicino all’ingresso. Sotto una specie di balcone si riparano cinque maghrebini con la matita agli occhi, che sembrano pezzi di carbone incastonati nell’albume d’un uovo. Nazzir parla un italiano misto al siciliano, con tutte le varianti del caso; lo si capisce molto facilmente. I cinque ci accolgono con una stretta di mano. Dal sud della Turchia Lui, Nazzir, viene dal sud della Tunisia, da Sfax. Ha il permesso di soggiorno, è in regola e lavora di solito per un’azienda che sta fallendo, per cui acconsente a farsi riprendere. “Nun mi scantu i nenti” dice. Non ha paura di nulla. Una stanza senza il muro che da verso l’esterno è la cucina: qualche cassa piena di cenere e bottiglie, polvere a terra, così tanta che quasi non si vede il pavimento. Su stanno le camere da letto. “Qui dormono quattro persone” fa, mentre indica un materasso un po’ largo. Accanto c’è il bagno. C’è acqua corrente? “Né acqua, né corenti”. l piano terra ci sono degli altri bagni, ma sono inutilizzabili. E l’altro edificio? Nazzir ha come una sorta di pudore. Deve prima chiedere se possiamo andare là. L’altro gruppo non è, per così dire, sua giurisdizione.


www.isiciliani.it Gli emigranti dormono qui. SCHEDE LA CRONOLOGIA Dicembre: prime occupazioni ex Copeca da parte dei migranti 10 Febbraio: Conferenza dei Servizi, la popolazione si oppone alla costruzione del centro commerciale Scordia Megastore 24 Febbraio: Rifondazione Comunista e Italia dei Valori entrano in contatto con i migranti Fine febbraio: le associazioni cattoliche contribuiscono con alimenti al sostentamento dei migranti; IdV, Prc, insieme ad alcuni cittadini contribuiscono a un fondo per sostenere le spese per lo spostamento di alcuni migranti che vogliono lasciare Scordia I COSTI DELLA VITA DA MIGRANTE 3/6 euro: passaggio dal punto di raccolta al punto di lavoro 80 centesimi: pagamento che il migrante riceve per ogni cassetta di frutta che raccoglie 30 centesimi: cifra ricavata dal caporale per ogni lavoratore che porta al campo di lavoro 70 centesimi: costo di un caffè a Scordia 9 euro circa: soglia usuale di guadagno minino per giorno 40 euro circa: soglia usuale di guadagno massimo per giorno IL GLOSSARIO Caporalato: fenomeno dello sfruttamento di forza-lavoro a basso costo attraverso l’impiego di referenti tra i proprietari terrieri e i lavoratori, incentrata sulla figura del caporale Caporale: metafora militare di largo uso per definire un migrante o, meno frequentemente, un italiano che organizza una chiurma nell’arruolamento, nella formazione e la controlla sul lavoro Intermediario: collocabile tra il caporale e la chiurma, fa da referente per il gruppo, ma vive con i braccianti condividendone le stesse condizioni Chiurma: “ciurma”, gruppo di lavoro con un nucleo stabile; in senso estensivo, significa gruppo di lavoratori di campagna Panaru: contenitore, “cesto” in lingua siciliana; in senso estensivo, secchio di largo uso nella raccolta degli agrumi

La grande piattaforma di cemento che sostiene il capannone, il secondo edificio, ha un salone vuoto e spettrale, dove è impossibile abitare. Alcuni degli altri migranti vivono, invece, in una sala vicina, dove le tende di plastica, quelle che dovevano delimitare forse una zona per i soli addetti ai lavori, sono ora inutile ornamento. Ci tengono a mostrarci le loro pentole, sporche e maledette, quasi fossero il metro di misura dei loro inappagati desideri. “Altri posti non ce n'è” Alla fine dell’edificio abitano la maggior parte dei migranti: sui muri quadri elettrici con i fili scoperti. In quel momento stanno ritornando altre persone dai campi, per via della pioggia. Quelli che sono rimasti dentro portano fuori i materassi bagnati, mentre c’accorgiamo che il maltempo s’è un po’ calmato. Uno un po’ più vecchio parla con Nazzir e s’avvicina per parlarci. Forse è il capo di questo gruppo. Nessuno li aiuta, dice. Non hanno trovato altri posti dove andare, né a chi chiedere un alloggio. Sono “come topi, no cani, perché cani non abita qua”. Perché non vanno altrove? “Non ci danno soldi”. E non c’è lavoro, almeno non come prima. Nel frattempo è arrivato un gruppo di militanti a portare dei panini. I più integralisti non li mangiano, perché non sanno come è stata lavorata la carne. “Ottanta centesimi a cassa” Nazzir ha 42 anni. E fa questa vita. Ci racconta la sua storia, mentre muove gli occhi sotto le sopraciglia cespugliose. Per affittare una casa ci vogliono i soldi, dice, ma non vengono pagati. “Siamo sfruttati, lavoriamo alla cassa, a 80 centesimi, a malapena le persone arrivano a 20 cascie, a 16 euro”. Il passag-

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gio per il lavoro è 5 euro, ma può anche essere di meno. Certo, i giardini possono dare molte arance, ma non è facile. “Alziamo alle cincu di matina, andiamo al bar, prendiamo un caffè come tutti e aspettiamo il mezzo per andare a trabajare”. La sua voce resta a mezz’aria nel freddo di fine inverno. Poi Nazzir ci accompagna all’uscita. Si teme uno sgombro, uno sgombro imminente. Nazzir è preoccupato, ma non abbiamo il tempo di approfondire. Va con gli altri del suo gruppo e ci salutiamo. Il Prc, l’IdV, la Cgil e le associazioni cattoliche, specie il Tra Noi, hanno cercato di far fronte a quello che sembra un vuoto istituzionale. “Il sindaco continua ad ignorare qualsiasi tipo di richiesta” dice il comunista Carlo Barchitta. Lui stesso si è recato con i migranti davanti a una chiesa del paese, di domenica sera, per mettere il problema sotto gli occhi della cittadinanza. Dai cattolici sono arrivate le buste della spesa. “Alle cinque ci alziamo...” Alfio Distefano, dell’IdV, racconta, interrogato sui numeri della presenza: “Abbiamo constatato tra i 150 e 200 migranti”. “Bisogna scindere il fatto umano da quello politico” continua, giustificando la posizione dei due partiti. Forse è piuttosto strano che dei partiti, delle associazioni e un sindacato debbano fare quello che non fanno le istituzioni. In un tessuto molto particolare, che meriterebbe maggiore attenzione, dove lo sfruttamento fiorisce. Infatti, come dice Rocco Anzaldi, Cgil, “una prevalenza di questi ragazzi immigrati ha il permesso di soggiorno, ma spesso gli sfruttatori non versano le giornate all’INPS”. Sono dei meccanismi perversi. E la cittadinanza? Per lo più è turbata dai niuri. Ma è un paese d’emigranti e, a quanto dicono alcuni militanti, si possono far ragionare.


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Prigionieri razziali

Un inferno “legale” a pochi passi da noi

di Giorgio Ruta Il Clandestino

“Qui siamo trattati peggio dei porci. Non ce la facciamo più”. È la denuncia di un giovane migrante recluso nel Centro di identificazione ed espulsione di Milo, nelle campagne trapanesi. Da giorni 240 migranti, la maggior parte di origine maghrebina, stanno mettendo in atto uno sciopero della sete, della fame e dei farmaci per difendere la propria dignità. “Qui noi siamo soltanto delle bestie. Siamo 12 persone in celle che ne potrebbero ospitare soltanto 6. C'è chi dorme a terra”. E nei pavimenti sporchi ci si mangia pure, da quanta racconta il giovane recluso. La situazione che ci descrive è allarmante: “Qui dentro ci sono epilettici, diabetici, persone con problemi mentali. Come fanno a tenerle ancora qui? Siamo delle persone”. Denunce pesanti sono rivolte anche nei confronti delle Forze dell'ordine: “Ci hanno picchiato più volte con i manganelli quando qualcuno ha tentato di fuggire. Qualcuno è finito pure in ospedale con ossa fratturate”. Il Cie di Milo non è nuovo ad episodi del genere. È stato inaugurato la scorsa estate ed attualmente gestito dal consorzio Connecting People, in attesa del passaggio di consegne al consorzio Oasi di Siracusa.

Questo blocco di cemento, delimitato da reti di recinzioni gialle, sembra essere un punto nero in cui finisce la dignità umana. Tantissimi sono stati gli episodi di autolesionismo e di tentativi di suicidio. Ogni minuto un'eternità Denti stretti, ma ogni minuto che passa è un'eternità. Ti logori ogni giorno. C'è chi ha tentato di ingoiarsi una lametta, c'è chi si è tagliato le vene o c'è chi si è messo un cappio al collo per poi essere salvato dai compagni di sventura. L'ultimo caso, il 21 marzo: un ragazzo per protesta si è cucito le labbra. “Gesti del genere sono la normalità la dentro” dichiara un avvocato appena uscito da un colloquio all'interno della struttura. “Il clima è teso. La polizia sta applicando una politica di rimpatrio forzato a tappe veloci. Se arriva il diniego alla richiesta di protezione entro 15 giorni si viene imbarcati su un aereo e rispediti a casa”. Qualche giorno fa è stata tentata una fuga di massa. Per qualcuno è riuscita ma per altri è tornato l'inferno. E ancora più duro di prima. Seconde testimonianze, raccolte da Redattore Sociale, “Sessantotto sono scappati. Dopo la fuga, quelli che sono stati ripresi sono stati seduti per terra per due o tre ore di notte, urlavano e grida-

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vano”. La storia che ci racconta il ragazzo, recluso da mesi al Cie di Milo, è una storia di sangue e paura, di dignità e angoscia. “Ci sono persone che da nove mesi stanno qua dentro senza aver fatto niente. Non sappiamo neanche che futuro ci aspetta. Non sappiamo cosa succederà, dove andremo. Sappiamo solo che non vogliamo vivere in queste condizioni”. È una condizione di vita disumana, infernale, quella che esce dal racconto del giovane migrante. Nessuna regola, nessun rispetto della dignità umana. “Non abbiamo niente. Non abbiamo il condizionatore, le televisioni sono guaste, abbiamo una bottiglia di shampoo ogni due mesi, non c'è igiene”. Non hanno fatto niente di male Un racconto del genere non si sentirebbe neanche in un carcere. E invece a vivere nell'inferno di Milo, stretti come polli in batteria, sporchi e senza libertà sono persone che non hanno fatto niente di male. Hanno soltanto – loro malgrado – attraversato i confini d'Italia e avuto qualche problema amministrativo con il permesso di soggiorno. “Aiutateci. Siamo solo persone. Non dimenticate queste cose” urla prima che la Polizia si prepari ad una perquisizione.


per


Grandi appuntamenti di gianpiero caldarella

I

delusi per “Roma

2020” dovranno farsene una ragione. Le Olimpiadi

non si improvvisano e se è vero che in otto anni potrebbe succedere di tutto è altrettanto vero che, trattandosi di Italia, il rischio più grosso è che non succeda nulla. Tutti i grands commis dello

Stato

sarebbero fermi ai loro posti ad ammirare il panorama: “Guarda, guar-

C, non è bellissimo così? Perché sprecare Potremmo organizzarci un sacco di inizierei con un de profundis tecno-tangent

da quel tunnel della metro

tutto per quei volgari pendolari? feste a tema, che ne so, io

con tanto di tiro del giavellotto con bersaglio o dici che è meglio il lancio del peso con rimbalzo?”

Insomma Roma 2020 è un appuntamento felicemente mancato. Nessuno dovrebbe sentirsi tradito dal proprio Paese. L’Italia rimane comunque l’Italia. Chiudi una porta e si apre un portone. Infatti, tanto per cominciare potremmo pregustarci quello che sarà “ITALIA 2016”. Mai sentito parlare di questo grande appuntamento? Beh, in fondo non avete tutti i torti. Si tratta di storia, mica di sport e quindi niente luci della ribalta, niente appalti, nessuna ripassatina, per dirla alla Bertolaso. Eppure una ripassatina alla storia non farebbe male. Ma quale storia? Prendiamo ad esempio la morte di Salvatore Giuliano, che rappresenta uno dei primi capitoli della nascita della Repubblica. Ancora oggi non è stata detta l’ultima parola e proprio in questi giorni il professor Michele Antonino Crociata, di Castellamare del Golfo, all’interno dell’opera “Sicilia nella storia” ha regalato ai lettori un’inedita ricostruzione di questa grande vittoria dello Stato. In sintesi, Giuliano sarebbe stato ucciso nei pressi di Monreale e non a Castelvetrano da un banpag. 50

dito, Nunzio Badalamenti, che era stato tirato fuori dalla galera dai servizi segreti e che da carceriere, per “eccesso di zelo” si trasformò in boia. Naturalmente ognuno di noi conosce almeno tre o quattro versioni diverse sulla morte di Giuliano o sulla sua non morte ed esilio all’estero.

In pratica, dopo più di 60 anni, per lo Stato non siamo ancora pronti a sapere la verità. Sessantesei anni, Cristo! Bene, grazie ad ITALIA 2016, anno in cui sarà tolto il segreto di Stato su questa faccenda, non brancoleremo più nel buio. Sapremo la verità, 66 anni dopo la presunta morte di Giuliano, avvenuta nel 1950. In pratica, dopo più di 60 anni, per lo Stato non siamo ancora pronti a sapere la verità. Sessantesei anni, Cristo! Fa quasi tenerezza ascoltare quelli che sostengono la tesi che in otto anni saremmo riusciti

a mettere su delle Olimpiadi meravigliose. I più smaliziati, invece, si domanderanno come mai tanto tempo per vuotare i cassetti delle scrivanie e come si calcola il tempo di una secretazione di un atto di Stato. Io un’ipotesi ce l’avrei ed è quella che il tempo del segreto è stimabile con un meccanismo simile a quello che regola la vita contributiva e la pensione. Sessantasei anni era più o meno la durata della vita media nel 1950. Così facendo non ci sarebbe stato il rischio di essere smentiti dai protagonisti e/o testimoni diretti, la seconda generazione si sarebbe quasi del tutto consumata o rincoglionita e la terza avrebbe forse raccolto i frutti avvelenati della storia. Niente male, no? Vien voglia di pensare che, al confronto, gli immigrati di seconda generazione siano dei fortunati, che abbiano molte più chances di essere riconosciuti in tempi umani (e non andreottiani, per intenderci). Del resto, cosa cambierebbe se la storia della strage di Portella della Ginestra fosse diversa da come ce l’hanno sempre raccontata? Niente, staremmo sempre qui a pagare per le commemorazioni di stato e per la sicurezza negli stadi, a farci raccontare il presente da autorevoli tromboni e graziose ballerine con aspirazioni da onorevoli. Quindi, se Portella della Ginestra docet, non è difficile accorgersi che nell’arco di pochi giorni di questo freddo febbraio del 2012 sui giornali ci sono altri fatti che raccontano di quanto poco sappiamo della storia di questo Paese. Ad esempio, la liberazione di Giuseppe Gulotta, dopo 21 anni di ingiusta detenzione, ha riaperto le


indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, avvenuto il 9 maggio 1978. La sua morte sarebbe adesso da collegare al duplice omicidio di due carabinieri, Apuzzo e Falcetta, assassinati nel 1976 dentro la caserma di Alcamo Marina. Un caso di cui lo stesso Impastato si occupò e che si ipotizza fosse legato alla scoperta di un traffico di armi nel trapanese per conto della Gladio tanto cara a Cossiga. Più o meno la stesso traffico che fu fatale a Rostagno dieci anni dopo. Aspetta, aspetta, quindi non è stata la mafia ad ordinare l’omicidio di Impastato? Beh, è presto per saperlo, nel 1978 l’età media degli italiani era di circa 74 anni e quindi, ammesso che ci siano degli archivi da aprire anche in questo caso , se ne parlerà nel 2052. Ancora 40 anni di pazienza e ci siamo. Un altro caso di “cronaca della storia” è quella che riguarda le stragi del ‘92. L’ex ministro della Giustizia Martelli ha in questi giorni ricordato all’ex ministro dell’Interno Mancino di essersi a suo tempo lamentato del comportamento del Ros (ndr: Reparto Operativo dei Carabineri) in merito alla trattativa Stato-Mafia: “Mi sembrò singolare che il Ros volesse fare affidamento su Ciancimino”. Molti di voi penseranno: “e allora?” Dopo due decenni di vittorie dichiarate sulla mafia e depistaggi sussurrati, di Scarantini e di Riini, di Mancini e Martellini, cosa cambia questa affermazione? Poco più di niente, come in un grande cartellone teatrale quando cambia il nome di una comparsa. É solo un altro tassello che si aggiunge per la ricostruzione della grande storia della Repubblica Italiana.

Un altro tassello che dovrebbe accompagnare i libri di storia che circolano nelle scuole, perlomeno le pubbliche.Alla fine dovrebbero scrivere “Stampato nel febbraio 2012. Chiuso in redazione, o meglio, uscito dagli archivi segreti di Stato nel 1948”. Praticamente una primizia. Una nuova disciplina olimpionica. Il salto della storia.Alla cieca.

P.s.: per chi volesse sapere quando vedremo la luce sulle stragi del ‘92, sappia che vent’anni fa l’età media era vicina ai 78 anni. Ne riparliamo nel 2090. Se pensate di non esserci, lasciate un appunto ai vostri nipoti. Anche un pizzino può andar bene.

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il vecchio mediterraneo e la piccola lampedusa di kanjano & ferro

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lampedusa, smettila di sporcarti le mani e vieni a mangiare

e’ ora di cena


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Satira

Modesta proposta per risanare l'economia

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Chi dice che non si può risolvere il problema dei pensionati, e contemporaneamente quello della finanza pubblica? Si può, si può. Con un'idea tanto semplice nella sua genialità da pensare che prima o poi il governo la prenderà in seria considerazione di Jack Daniel Signor Presidente, in attesa che venga portata a termine l’annunciata spendig review, mi preme sottoporre alla Sua attenzione alcune brevi considerazioni che, mi auguro, possano suggerire una definitiva soluzione al problema delle finanze statali. Come noto, infatti, il debito pubblico, attestatosi a circa 1.935 miliardi di Euro (all. 1), rappresenta il maggior ostacolo alla crescita del Paese e, tra le sue cause principali, non si può non considerare la spesa pensionistica che (all. 2) ammonta a poco meno di 200 miliardi di Euro all’anno interessando circa 16 milioni di pensionati. Si tratta, purtroppo, di un onere destinato a durare nel tempo, essendo calcolabile una vita media di poco meno di vent’anni per i percettori di pensioni di vecchiaia e ben più lunga per quelli delle pensioni di anzianità. 200 miliardi di euro E’, inoltre, in continuo aumento il numero dei disoccupati, ormai più di due milioni (all. 3), uno spreco di risorse che potrebbero essere altrimenti impiegate in attività produttive. Non si può, infine, non fare riferimento alla nostra grave dipendenza dall’estero per ciò che riguarda l’approvvigionamento energetico, soprat-

tutto in questi mesi che vedono il prezzo del petrolio superare stabilmente i 100 dollari al barile. A tal proposito, il trattamento dei Rifiuti Solidi Urbani (RSU), in un mondo che si avvia a sperimentare un costo dell’energia ben più elevato di quello conosciuto dalle precedenti generazioni, rivestirà cruciale importanza. Segnalo alla Sua attenzione come da 555.000 tonnellate di RSU sia possibile ricavare energia equivalente a 75.000 tonnellate di petrolio (all. 4). Per quanto riguarda inoltre la situazione del mercato delle carni, vorrei rammentare come il numero di capi di grosse dimensioni abbattuti in Italia si attesti tra i 20 e i 25 milioni all’anno circa, comprendendo bovini, bufalini, suini, ovini e caprini, essendo trascurabile il numero di equini e struzzi. (all. 5). Considerando i dati relativi ad alcune realtà locali (all. 6 , pag.8), si può stimare che un addetto possa, in media, lavorare circa 1.000 capi (tra suini e bovini) all’anno. In conclusione, signor Presidente, considerando un numero di pensionati da smaltire pari a circa 16 milioni e applicando con generosità, per venir incontro alle pressanti richieste di lavoro, i coefficienti sopra ricordati per i mattatoi , si possono creare almeno 20 o 25 mila nuovi posti di lavoro. Il metodo di abbatti-

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mento dei pensionati dovrà essere di volta in volta concordato con le Autorità Locali, onde prevenire reazioni di tipo nimby, ma dovrà essere comunque volto ad alleviare ogni tipo di inutile disagio. 200 miliardi di euro Data la mole di lavoro, è plausibile che l’intero processo possa richiedere circa un anno per il suo completamento, e, ipotizzando un peso pro capite medio dei pensionati pari a circa 70 Kg e procedendo al loro trattamento come RSU, si arriverebbe ad una produzione di energia elettrica pari a circa 150.000 Tonnellate Equivalenti Petrolio, con risparmio di fonti energetiche altamente inquinanti (oltre 800.000 tonnellate di minori emissioni di CO2). Circostanza, questa, che non potrà che suscitare il plauso delle associazioni ambientaliste. A smaltimento compiuto, lo Stato potrà liberare risorse per poco meno di 200 miliardi di Euro all’anno, una cifra considerevole che potrà garantire un nuovo rilancio dello sviluppo economico e delle opere pubbliche, a partire dall’auspicato TAV Casalpusterlengo Avezzano. Certo della Sua benevola attenzione, mi è gradita l’occasione per porgerLe i miei più distinti saluti.


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Reportage

L'Insula nello

ZEN

Zona espansione nord 2 della periferia di Palermo. Da qui non si vede la città e si diventa invisibili. Quartiere di edilizia popolare, progettato dall’architetto Gregotti, è formato da “insulae”: isolati fatiscenti, palazzoni tutti identici, come le strade che li collegano. Criminalità e dispersione scolastica, nell’isolamento e nel degrado si alimenta la mafia di Grazia Bucca I Sicilianigiovani – pag. 59


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Un solo centro di aggregazione è presente nel quartiere. Per i giovani poche opportunità, ma tanta disoccupazione. Il quartiere Zen 2 è nell'immaginario collettivo il simbolo della violenza, della disperazione e del degrado.

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Doveva essere un quartiere con ser vizi, zone verdi, biblioteche. Un quartiere vivibile, nuovo modello di edilizia popolare. Poi i ritardi burocratici, la scarsa attenzione dei politici, infrastrutture primarie non realizzate e l'occupazione abusiva delle case non ancora collaudate, senza acqua nĂŠ luce, hanno contribuito a far sprofondare il quartiere nell'attuale situazione

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Ambiente

Super radar mostruosi fra la città e i campi Comitati No MUOS anche in provincia di Ragusa. Ecco perché di Enrica Frasca Caccia Il Clandestino

Tre trasmettitori dal diametro di venti metri e due torri radio di centocinquanta metri d’altezza. Un’installazione colossale che il Ministero della Difesa statunitense sta impiantando all’interno della Riserva Naturale “Sughereta” di Niscemi, in piena area SIC (Sito di Interesse Comunitario). E' una delle quattro stazioni di terra che, insieme a quattro satelliti, costituiscono il MUOS (Mobile User Objective System), un sistema di comunicazioni satellitari per forze militari navali, aeree e terrestri. Secondo i tecnici di Lombardo il sistema emetterà quantità di onde elettromagnetiche di inferiori a quelle emesse dal sistema di telecomunicazioni della US Navy attualmente attivo a Niscemi. Per i professori Zucchetti e Coraddu del Politecnico di Torino la realizzazione del MUOS incrementerà invece le emissioni di onde nell’area. Questo è solo uno dei tanti aspetti controversi e inquietanti della questione MUOS, che le inchieste di Antonio Mazzeo hanno recentemente portato alla luce. Il mostro è stato calato “dall’alto”. Nessun coinvolgimento dei cittadini. Ma chi non ci sta si organizza. Anche in provincia di Ragusa si è costituito un Comitato No Muos a Vittoria e un altro è appena nato anche a Modica. Ne parliamo con Peppe Cannella, uno dei promotori.

Comitato di Base “No MUOS” a Modica: qual è l’idea di fondo che ha spinto a promuovere l’iniziativa? Il Comitato nasce per coinvolgere in maniera diretta singoli cittadini .Occorre abbattere il muro di silenzio che si è creato attorno alla vicenda, puntare sulla divulgazione delle informazioni; aderire alle iniziative di lotta in programma a Niscemi e organizzarne di nuove anche in altri territori. Si riuscirà ad ottenere qualcosa solo se l’argomento sarà affrontato in più territori, fino a divenire di interesse regionale. Quali sono gli aspetti del MUOS che vi preoccupano maggiormente? L’area dove il MUOS sta sorgendo è soggetta a una forte militarizzazione, per cui le notizie che trapelano dalle relazioni tecniche americane sono molto parziali e carenti di dati importanti. Non si accenna ad esempio agli incidenti “di puntamento” che potrebbero verificarsi se, per cause imprevedibili, il fascio di onde venisse emesso verso il basso. Fino a ottanta c hilometri Dalla relazione dei professori Zucchetti e Coraddu emerge chiaramente che un incidente del genere provocherebbe danni evidenti sull’abitato di Niscemi, che si concentra in un raggio di sei chilometri dalle parabole. Ma non solo. I danni da esposizione prolungata ai campi elettromagnetici potrebbero verificarsi anche a distanze superiori agli ottanta chilometri, con un forte interessamento di moltissimi comuni limitrofi. Lo studio della Marina Usa non affronta minimamente i possibili effetti a lungo termine sulle popolazioni esposte ai campi elettromagnetici. Dalla relazione del Politecnico risulta provato che il fascio emesso dalle parabole è altamente dannoso per i volatili e

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per gli insetti impollinatori come le api. Gli effetti dell’irraggiamento da MUOS anche a grandi distanze dall’impianto saranno devastanti e avranno ripercussioni sull’intera catena alimentare dell’area. MUOS e aeroporto di Comiso. Che rapporto? Inizialmente era previsto che il MUOS sorgesse presso la base militare di Sigonella. Da una relazione tecnica americana emerge che lo spostamento a Niscemi è avvenuto poiché le emissioni delle parabole avrebbero potuto interferire negativamente con gli strumenti di bordo degli aerei, mettendo in serio pericolo il traffico dello scalo. Se il MUOS entrasse in funzione si perderebbe ogni speranza sulla tanto attesa apertura dell’aeroporto di Comiso, a soli 18 chilometri dall’installazione. Cos'ha visto nell’area dove il MUOS sta sorgendo? Che impressioni? Abbiamo percorso circa quattro chilometri all’interno della riserva naturale prima di giungere all’area militare delimitata. L’impatto ambientale è già molto forte. Una collina sventrata, terrazzamenti, alberi sradicati, casermette in costruzione e tre giganteschi basamenti di cemento. Le torri sono già “impellicciate” con l’opportuna verniciatura che dovrebbe mimetizzarle. È realistica l’idea di riuscire a fermare la realizzazione del MUOS? In fondo, si tratta di combattere contro il colosso americano. Certo. Il coinvolgimento di quanta più gente possibile è fondamentale. Creare un movimento forte, che faccia delle azioni significative di lotta e di disobbedienza: è l’unico modo per riuscire a fermare i lavori e impedire un simile scempio.


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Musica

Solea, o della solitudine Un romanzo jazz i

“Cominciavo a essere leggermente ubriaco... E Miles Davis aveva attaccato Solea. Un pezzo che adoravo. Lo ascoltavo continuamente, la notte, da quando Lole mi aveva lasciato. La solea, mi aveva spiegato lei una sera, è la colonna vertebrale del canto flamenco” di Antonello Oliva

E il flamenco qualcuno dice che è la stessa cosa del blues, quel canto arcaico ed eterno dell’uomo che ha avuto tante forme e un solo significato, la solitudine. Proprio buffo il destino, schiavi e schiavisti, negri e spagnoli, blues e flamenco, uniti dalla stessa solitudine.

Solea, per chi volesse andarselo a sentire, si trova in un disco di Miles Davis del 1960, Sketches od Spain, quello famoso per l’Adagio tratto dal Concierto De Aranjuez di Joaquìn Rodrigo, ma per il resto quasi interamente scritto e arrangiato da Gil Evans. Solea è il brano numero 5, quello che chiude, e dura 12 minuti e 15 secondi. Da brivido, se solo si è disposti, si sentono tante cose. Solea è anche il titolo del romanzo che chiude la trilogia marsigliese, quella iniziata con Casino Totale e Chourmo, di Jean-Claude Izzo, ed è da lì che vieneCominciavo a essere leggermente ubriaco… Un brivido diverso, più difficile da sopportare, o forse semplicemente la stessa cosa, come il flamenco con il blues. La solitudine di Fabio Montale, ex poliziotto, reo di una “sensibilità a fior di pelle”, e per questo assassinato da un killer della mafia inviato dai padroni. Con un mandato sottoscritto da tutti, cassieri, semplici uscieri, marescialli, autisti e notai, consapevoli o meno. La grandezza di Davis spesso è difficile da cogliere, perché lui non era né un grande trombettista né un grande compositore, la maggior parte delle cose che ha suonato e che lo hanno reso celebre non erano scritte da lui. La sua pelle era nera, ma anche nel suo caso evidentemente doveva trattarsi di un problema di sensibilità. La faccia luminosa della luna. Il brano inizia con un solo di tromba emozionante, denso, caldo. E come sul

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Titanic, quando tutto è perso e resta solo il fondo, Paul Chambers al contrabbasso, Jimmy Cobb ed Elvin Jones ai tamburi, creano allora una marcetta leggera, che accompagna fino alla fine la tromba nel suo solitario viaggio verso il largo e il profondo.“La barca correva verso il largo. Ora andava tutto bene.Il Whisky mi colava sul mento, sul collo. Non sentivo più niente. Né nel corpo, né nella mente. Avevo chiuso con il dolore. Tutti i dolori. E le mie paure. La paura”. “Ogni possibile finzione” Solea, di Jean-Claude Izzo, è un romanzo, la storia è inventata, ma non ha a che fare con la realtà perché “l’orrore della realtà supera di gran lunga ogni possibile finzione.” Parole sue, affidate a una nota in apertura del libro. Il libro è uscito nel 1998 in Francia (Gallimard) e poi nel 2000 in Italia (Edizioni e/o). Non molto tempo fa, e la realtà a cui si ispira è quella riportata dalla lettura quotidiana dei giornali, da notizie non molto diverse da quelle che si possono leggere oggi, ma ampiamente anche a documenti ufficiali, soprattutto quello pubblicato dal Dipartimento d’informazione pubblica dell’O.N.U., Nazioni Unite. Vertice mondiale per lo sviluppo sociale. La globalizzazione del crimine. Il bello della democrazia. Solea è un brano magistrale, uno dei più belli mai suonati da Miles Davis, la “colonna vertebrale del canto flamenco”, soledad, solitudine, la stessa.


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Storia

Quando la giustizia chiudeva gli occhi sui boss mafiosi E qualcuno vorrebbe tornare a prima di Falcone e Borsellino... di Elio Camilleri Esiste un aspetto formale della giustizia raccolto in codici, in leggi e regolamenti e un suo aspetto sostanziale che è, in genere, imposto a tutti, ma che, spesso, non è adeguatamente acquisito e vissuto dai ceti dominanti. Con la conseguenza di una sostanziale impunità per i potenti e i prepotenti che, inoltre, hanno gestito in modo funzionale ai loro interessi l’esercizio stesso della giustizia su questa terra di Sicilia cui, naturalmente, mi riferisco. Poco più di cento anni fa, nel 1874, era arrivato a Palermo il prefetto Malusardi e in poco tempo di briganti e farabutti, di ladri e stupratori in giro non se ne vedevano più, poi il buon Malusardi ritenne di mettere a posto truffatori, ruffiani, corrotti e collusi, ma la cosa non gli riuscì proprio perché il marchese Tommaso Spinola, amministratore dei beni di casa Savoia, glielo impedì e fu prontamente trasferito ad altro incarico da qualche altra parte. Anche durante il fascismo al prefetto Cesare Mori fu consentito di arrestare migliaia di campieri e sovrastanti certo mafiosi, ma anche lui fu rimosso quando tentò di colpire quella zona grigia, mafiosa e collusa col potere che, comunque, lo ringraziò per avere bonificato la Sicilia dalla manovalanza delinquenziale. Una giustizia forte con i deboli, ma debole con i forti, assolutamente inesistente nei numerosi casi in cui lo Stato ha subìto e permesso il diktat della mafia, abilissi-

ma nel costruire e mantenere al suo servizio pezzi sempre più delicati e consistenti delle istituzioni statali. E così gli esecutori materiali e il mandante, l’on. Raffaele Palizzolo, dell’assassinio di Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, che aveva tentato d’impedire la conquista mafiosa dei soldi del Banco, riuscirono, con l’assenso di Giolitti a capovolgere in Cassazione il verdetto di condanna espresso in primo grado. Bernardino Verro, primo sindaco socialista di Corleone, già animatore dei Fasci dei lavoratori e delle “affittanze collettive”, aveva lasciato due memoriali che spiegano bene come la mafia, nelle persone dei gabelloti danneggiati dalle “affittanze collettive”, sarebbe stata la responsabile di quanto poteva succedergli, che tale Angelo Palazzo, accusato per una truffa ai danni dei contadini, aveva pure solidi motivi per volerlo eliminare. Il pubblico Ministerro Wancolle preferì accettare altre testimonianze, sì da trasformarsi in difensore degli accusati che furono mandati tutti assolti. Contadini e operai Ai ragazzi che avevano combattuto nelle trincee della guerra mondiale lo Stato aveva promesso le terre del latifondo e migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche: Nicola Alongi organizzò i contadini e Giovanni Orcel gli operai dei cantieri navali di Palermo, realizzando per la prima volta, qui da noi, in Sicilia, quell’alleanza che Lenin arrivò solo ad auspicare. Furono ammazzati tutti e due, Alongi il 29 febbraio e Orcel il 15 ottobre del 1920. Unico mandante e impunito il boss di Prizzi, don Silvestro “Sisì” Gristina. E poi, dopo la seconda guerra mondiale, nella delicatissima fase della fondazione della Repubblica, in un contesto interna-

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zionale spaccato in due, si frantumò da subito, in Sicilia, il sogno di una terra liberata dalla fame e dalla sofferenza. Ancora una volta la mafia impedì la concessione delle terre ai contadini e l’attuazione dei relativi Decreti Gullo. Decine di contadini, sindacalisti, attivisti furono uccisi: come Nicolò Azoti a Baucina (dicembre 1946), Accursio Miraglia a Sciacca (gennaio 1947), Placido Rizzotto a Corleone (marzo 1948), Calogero Cangelosi a Camporeale (aprile 1948), Turi Carnevale a Sciara (maggio 1955). E ancora una volta mandanti ed assassini andarono tutti assolti per ”insufficienza di prove” e il fatto più grave, la strage di Portella della ginestra, è ancora avvolto nel mistero. Ci furono boss mafiosi come Vanni Sacco, mandante degli omicidi Cangelosi e Almerico, come Peppino Panzeca mandante dell’omicidio Carnevale che non passarono in carcere neanche una notte. Negli anni successivi le cose non cambiarono: la mafia diventava sempre più padrona, ma si continuava a dire dai comizi e dai pulpiti che non esisteva: si dovette lottare per quindici anni (dal 1947 al 1962) per ottenere l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità organizzata. Ma ecco tornare, allora, quella giustizia di cui si accennava all’inizio, la giustizia funzionale ai potenti e ai prepotenti, forte con i deboli e debole con i forti. Essa s’incarnò in Corrado Carnevale che ritenne di cancellare decine di condanne e centinaia di anni di galera riferendosi, appunto, agli aspetti formali che risultarono decisivi e determinanti per invalidare anni d’indagini, di duro lavoro ed il sacrificio di tanti servitori di questo Stato. Oggi l’ammazzasentenze ha preso le sembianze dei giudici di Cassazione nel processo Dell’Utri.


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Scienze

Il solare termodinamico e la centrale “Archimede” La centrale solare di Priolo: un supplemento di informazione di Diego Gutkowski

Ho cominciato un mio precedente articolo intitolato “L’eredità scientifica e tecnologica di Archimede” (I Siciliani giovani, gennaio 2012, p.90) riportando un comunicato stampa dell’ENEL del 14 luglio 2010 con il quale si annunciava la inaugurazione avvenuta quel giorno della centrale termodinamica “Archimede” di Priolo. Il comunicato conteneva informazioni abbastanza precise sulle caratteristiche della centrale, nulla tuttavia era detto sull’attività prevista dopo l’inaugurazione. Poiché quando stavo redigendo quell’articolo erano trascorsi circa 17 mesi dalla inaugurazione della centrale, e volevo dare anche informazioni più recenti, ho inviato all’ufficio stampa ENEL una e-mail in cui dicevo ciò che stavo facendo e chiedevo notizie più aggiornate. Fino al giorno della pubblicazione del mio articolo, avvenuta il 24 gennaio 2012 non ho avuto risposta. Il 29 febbraio 2012 ho ricevuto da parte dell’ENEL una risposta e la principale ragione del presente supplemento di informazione è quella di far conoscere questa risposta. Nel frattempo ho svolto sull’argomento altre indagini e ho raccolto altre informazioni, a quanto mi risulta non reperibili nei media a larga diffusione, e ho ritenuto opportuno inserire nel presente supplemento le più significative di queste informazioni.

La risposta che ho ricevuto dall’ENEL è contenuta nella e-mail che riporto. Gentile Diego Gutkowski, in qualità di referente per i rapporti con i media di Sicilia e Calabria mi è stata girata questa sua richiesta di informazioni sull’impianto solare termodinamico “Archimede” che ENEL ha realizzato a Priolo Gargallo (SR). Per rispondere alle sue domande ritengo importante ricordare che “Archimede” è, ad oggi, l’unico impianto solare termodinamico a sali fusi con tutte le caratteristiche e la complessità di un impianto industriale. Viene quindi utilizzato principalmente per testare componentistica innovativa da utilizzare successivamente per impianti industriali di taglia maggiore e per sviluppare know-how sull’esercizio e sul sistema di automazione e controllo. Viste anche le pessime condizioni ambientali di questi ultimi mesi in Sicilia, l’impianto di Priolo è attualmente in esercizio parziale, per test funzionali. Al momento, infatti, si stanno sperimentando soluzioni innovative che sono state proposte dai principali costruttori presenti sul mercato. In particolare, su una stringa di specchi, si stanno apportando modifiche che consentiranno di utilizzare per testare miscele diverse di Sali, che rimangono fluide a temperature molto più basse e potrebbero consentire un maggiore accumulo di energia termica e, quindi, di aumentare l’efficienza globale dell’impianto. Più che sulla produzione dell’energia elettrica, l’attività dei tecnici e ricercatori Enel è quindi focalizzata soprattutto nello sviluppare know-how per ridurre i costi ed aumentare affidabilità delle varie parti dell’impianto. Non è quindi tanto sulla sua attuale capacità produttiva (5 MW) che ci si concentra ma sulle enormi potenzialità che questa tecnologia innovativa può avere, se applicata, su larga scala, in aree del mondo ricche di spazio e di sole. L’orgoglio di avere in Sicilia questo impianto pilota, più che in chiave di immediata resa produttiva (5 MW), deve essere pertanto legato al fatto che quest’impianto farà da modello per una futura espansione del solare termoelettrico di ultima generazione. Resto a sua disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti. Distinti saluti, Luigi Di Fiore

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Passo ora ad alcune notizie riguardanti il solare termodinamico in Sicilia . La prima centrale solare realizzata in Sicilia fu la “Eurelios” di Adrano (http://www.galileonet.it/blog_posts/4da5 c7c872b/ab2c120000db), messa in esercizio il 14 aprile 1981. Decine di specchi riflettevano la radiazione solare su una caldaia piena d’acqua posta sulla sommità di una torre. Il vapore ad alta pressione e temperatura che si otteneva azionava una turbina che a sua volta azionava un generatore elettrico che poteva fornire la potenza di un 1 MW. La centrale fu realizzata nell’ambito di un programma di ricerca e sviluppo della Commissione Europea, finanziato dalla Comunità Europea e dai governi di Francia, Germania e Italia. Costruita con la partecipazione di diverse industrie europee, Eurelios ebbe nell’ENEL il principale artefice. Terminate le sperimentazioni nel 1985, Eurelios rimase inattiva. E’ stata smantellata tra la fine del 2010 e marzo 2011. Secondo il Dottor Domenico Coiante, ex ricercatore ENEA, la centrale fu chiusa dopo circa 50 ore di funzionamento per la eccessiva frequenza dei guasti e non si è mai [l’affermazione è del 6 Ottobre 2005] conosciuto il dato di efficienza (http:www.aspoitalia.it/archivio-articoli/39-sistemi-solaritermoelettrici-alcune-considerazionitecniche-per-lapplicazione-in-italia). Da comunicazioni private di tecnici e ricercatori che hanno lavorato in varie fasi per la centrale “Archimede” ho appreso che il progetto di questa centrale, basato su un’idea del Prof. Rubbia, ebbe inizio ai primi del 2001 e fu portato avanti con la determinante collaborazione dell’ENEA . Fino al 2007 fu sviluppata la tecnologia di base, si passò quindi alla realizzazione della centrale. Il 14 luglio 2010, come comunicato dall’ENEL, ebbe luogo l’inaugurazione. Dall’agosto 2010, in piena fase di collaudo dell’impianto, l’ENEA è stata esclusa e l’ENEL ha assunto in prima persona ogni attività di sviluppo prova e follow-on impiantistico.


www.isiciliani.it Secondo le opinioni che ho raccolto, la tecnologia Archimede è attualmente di maggior interesse per l’esportazione (Spagna, USA, Nord Africa) che per il mercato italiano, ove il fotovoltaico è ritenuto più adatto. Questo punto di vista mi sembra si possa ben conciliare con quanto scritto dal Signor Di Fiore. Anche se gli sviluppi delle ricerche compiute con la centrale Archimede dovessero trovare applicazione più all’estero che in Sicilia, ritengo che vi sarebbe un beneficio per tutta l’umanità e per gli esseri viventi più simili all’uomo, perché la riduzione dell’emissione di CO2 dovunque avvenisse produrrebbe una riduzione dell’effetto serra in tutto il pianeta. Le innovazioni della centrale Archimede rispetto alla Eurelios che mi sembrano più importanti sono due: l’uso, invece dell’acqua, di una miscela di sali che fonde a una temperatura compresa tra 250 °C e 350 °C e che quando è allo stato liquido costituisce il fluido che trasporta il calore che genera vapore che aziona la turbina destinata a sua volta ad azionare il generatore elettrico; la seconda innovazione è l’accoppiamento della centrale solare con una centrale termoelettrica che produce il calore per prevalente combustione di idrocarburi. La prima novità permette un maggiore accumulo dell’energia proveniente dal sole, la seconda offre una alternativa all’uso di costosi sistemi per immagazzinare l’energia da fornire all’utenza quando manca o è piccolo il contributo energetico della radiazione solare. Di conseguenza per attuare una soluzione come quella del progetto Archimede è necessario che la centrale solare si trovi in prossimità di una centrale termoelettrica a combustione, la cui potenza deve essere opportunamente dimensionata in rapporto alla potenza della centrale solare. Perciò una centrale solare del tipo di Archimede, per una data quantità di energia prodotta, consente di ridurre, ma non di eliminare totalmente, la quantità di CO2 prodotta per combustione. Per inserire in un quadro più ampio le informazioni che ho dato si può consultare la voce di Wikipedia “Impianto solare Termodinamico”, aggiornata a non oltre il 2010. Ci si trova una esposizione dei principi su cui si basa la tecnologia, una descrizione di alcuni tipi di impianti, considerazioni su vantaggi e svantaggi, la storia degli sviluppi in Italia e cenni sugli sviluppi nel mondo. Vi si apprende, tra l’altro, che nel 2005 il Prof. Rubbia aveva lasciato la presidenza dell’ENEA in un periodo di contrasti con quanti non erano disposti a finanziare il solare termodinamico e che al momento della inaugurazione la

centrale “Archimede” era costata 60 milioni di euro. Manca l’esposizione di argomenti successivi al 2010, tra questi sarebbe interessante la valutazione delle conseguenze dovute al referendum sul nucleare del 12-13 giugno 2011. Per gli argomenti relativi al solare termodinamico in Italia negli ultimi due anni mi è stato molto più difficile trovare buone pubblicazioni o altre buone fonti accessibili al pubblico. I servizi televisivi che ho trovato sono composti da pezzi di informazione presumibilmente veri, qualcuno anche ben fatto, ma assemblati in modo tale che lo spettatore è indotto a formarsi idee sbagliate. Per es. digitando in Google progetto Archimede wmv (senza virgolette) spunta tra gli item proposti “Progetto Archimede.wmv - You Tube … 28 feb 2011…Rai Tre – Report 29/03/09…”. Nel filmato trasmesso da Report il 29/03/09, caricato su YouTube il 28 febbraio 2011, c’è tra l’altro un’intervista al Prof. Rubbia, che dal 2005 non si occupava più del progetto, ma lo spettatore che non lo sapesse è indotto a pensare che quando il servizio è andato in onda il Prof. Rubbia stesse collaborando. Non solo nei servizi tv, ma anche sulla carta stampata, riguardo alil periodo successivo alla inaugurazione della centrale Archimede ho trovato solo comunicazioni vaghe e imprecise che non sono riuscito a comporre in un quadro coerente con le informazioni attinte da altre fonti. Per il periodo che precede l’inaugurazione della centrale Archimede ho trovato invece qualcosa di più. Dall’Ottobre del 2005 al Novembre del 2007 si è sviluppato sul progetto Archimede un dibattito tra il già citato Dottor Domenico Coiante e l’Ingegner Massimo Falchetta, primo ricercatore ENEA , fatto di botte e risposte

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che sono state pubblicate dalla Associazione Aspo Italia (http:www.aspoitalia.it/archivio-articoli/39-sistemi-solaritermoelettrici-alcune-considerazionitecniche-per-lapplicazione-in-italia, già citato e http:www.aspoitalia.it/archivioarticoli/140-il-progetto-archimede-grandeinvenzione-o-patacca). Il dibattito è iniziato con un intervento del Dottor Coiante che faceva seguito ad una trasmissione televisiva di Report. Il Dottor Coiante ha scritto che le previsioni ottimistiche di Report non avevano alcun fondamento e ha mosso molte critiche al progetto Archimede. All’intervento del Dottor Coiante ha replicato l’Ing. Falchetta che ha difeso il progetto. Almeno uno dei punti dibattuti, quello relativo alla efficienza, non dovrebbe più essere controverso, perché l’efficienza è stata misurata sperimentalmente: la percentuale di energia solare incidente trasformata in energia elettrica è del 15,1%, come si può leggere nella presentazione fatta a Ravenna alla REM conference il I Marzo 2012 dal Dottor Daniele Consoli ENEL Ingegneria e Innovazione SpA – Research T.A.: http://www.remenergy.it/public/ml_attach/4 ENEL Daniele Consoli.pdf. Questa presentazione, a quanto mi risulta, è l’unica pubblicazione che espone in modo chiaro gli obiettivi passati, lo svolgersi delle attività, gli obiettivi futuri e i risultati del progetto Archimede ottenuti sin quasi ad oggi. Tra le caratteristiche della centrale comunicate nella presentazione ci sono anche la potenza nominale: 4,9 MWe , l’energia elettrica netta prodotta: 9 GWHe /anno, il risparmio primario di energia: 2071 (tonnellate equivalenti di petrolio)/anno, l’emissione di CO2 evitata: 3250 t/anno.


www.isiciliani.it Secondo il relatore i principali risultati ottenuti sono stati i seguenti: - tutti i componenti specifici hanno iniziato a operare; - tutte le procedure per riempire, riscaldare e raffreddare l’impianto sono state completate con successo; - è stato ottenuto lo svuotamento completo del circuito senza perdite di sali; - i sali fusi sono stati riscaldati dalla radiazione solare sino a 540 °C; - è stata ottenuta la generazione di vapore a 100 bar e 500 °C; - è stata realizzata l’integrazione del vapore ottenuto dal riscaldamento solare in una turbina a vapore a ciclo convenzionale; - sono stati prodotti dall’impianto solare 5 MWe di potenza elettrica.

Un elenco delle centrali solari esistenti nel mondo si può trovare all’indirizzo http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_solar_thermal_power_stations . Vi sono elencate 36 centrali di 6 Paesi, tra cui predominano gli Stati Uniti d’America, seguiti dalla Spagna. La centrale di maggior potenza è la Solar Energy Generating Systems da 354 MW in California (USA), la centrale di maggior potenza in Spagna è la Andasol solar Power Station da 150 MW. Quasi tutte impiegano i parabolic trough (non so se esiste un modo univoco e consolidato di tradurre in Italiano questa espressione, si tratta di un tipo di collettore di energia solare termica) usati anche nella centrale Archimede, la quale per altre componenti fa anche uso di soluzioni

L'INTERVISTA/ ENZO PARISI LEGAMBIENTE: LE ENERGIE PIU' ADATTE ALL'ISOLA DI EOLO E DEL SOLE

originali. Sono elencate inoltre una ventina di centrali in costruzione in vari Paesi del mondo, le più numerose sono in Spagna, quelle di maggior potenza negli Stati Uniti d’America. Fa parte integrante della presente relazione l’intervista al Signor Enzo Parisi, componente della segreteria regionale e responsabile del Dipartimento Industria Rifiuti Energia (DIRE) di Legambiente Sicilia. Solo per opportunità di impaginazione e per evidenziare il contributo dell’intervistato l’intervista è stata collocata come allegato. Ringrazio collettivamente tutti coloro che con grande disponibilità e cortesia mi hanno dato le informazioni che ho esposto.

Enzo Parisi è il responsabile del Dipartimento Industria Rifiuti Energia (Dire) di Legambiente Sicilia

Quali prospettive vede per le centrali solari termodinamiche sia In relazione alla centrale “Archimede”, come giudica il in Sicilia che altrove? rapporto che c’è stato tra l’ENEL da una parte e [il Comune di Priolo/ la Provincia di Siracusa/ la Regione Sicilia/ la Repubblica Mi sembrano eccellenti, sia perché la Sicilia e tutta l’area del Italiana/ l’Unione Europea] dall’altra? Mediterraneo sono al centro della cosiddetta“sun belt”, ossia la Non è semplice da schematizzare. Mi sembra che mentre da parte zona del globo terreste più intensamente irradiata dal sole, sia delle Amministrazioni e delle popolazioni locali le aspettative perché la tecnologia è palesemente matura ed il costo per Kwh fossero e sono alte, dall’altra l’ENEL appare combattuta tra la degli impianti è divenuto competitivo rispetto alle centrali alimentate da fonti fossili o a quelle nucleari ma, soprattutto, perché il voglia di rivendicare con orgoglio questa bella applicazione tecnologica e la tentazione di esibirla solo dietro una vetrina, senza ricorso alle fonti rinnovabili come il termodinamico è ormai la alcuna volontà di riprodurla in grande stile in tutte le sue centrali strada obbligata per contrastare efficacemente i cambiamenti clitermoelettriche. È un’esitazione dannosa che ha trovato sponda in matici e per uscire dalla dipendenza dal petrolio, dal carbone e quei Ministeri e rappresentanti di governo che in questi anni si dall’atomo che tanti guasti hanno causato sono trastullati con i progetti per il ritorno all’atomo sporco e – Per la ricerca sull’energia solare fatta in (Italia/Sicilia) con fortunatamente per tutti – ora risultano nuovamente sconfitti contributi a carico della collettività, darebbe oggi priorità al dall’esito dell’ultimo referendum sul nucleare. Quanto al governo fotovoltaico, al termodinamico o svilupperebbe in modo regionale mi pare siano stati sprecati decenni, tante inutili parole e paritario i due indirizzi? dichiarazioni d’intenti per ritrovarsi ancora oggi senza un Piano La ricerca è sempre da sostenere ed entrambi i sistemi sono da Energetico ed Ambientale degno di questo nome. promuovere ma penso che alla ricerca sul solare fotovoltaico, che è Come giudica l’inserimento della centrale “Archimede” nel e probabilmente nell’immediato futuro ancor più sarà il miglior suo contesto sociale, fisico e geografico? sistema a grande diffusione per la produzione energetica a livello Lo giudico positivamente perché è un segnale di cambiamento domestico e alle reti intelligenti (smart grids) per ottimizzare lo rispetto alla realtà industriale presente fatta di tradizionali centrali scambio di energia e ridurre le perdite sia da destinare la quota termoelettriche con il loro effetto collaterale di disagio ambientale maggiore dei contributi della collettività, anche perché– data la e sanitario. Forse la sua collocazione non è tra quelle ideali, stretta necessaria dimensione industriale del solare termodinamico – a com’è tra la riserva faunistica e gli altri impianti industriali, ma questo sistema può e deve contribuire il mondo dell’impresa. questa posizione era obbligata. Per la realizzazione in (Italia/Sicilia) con contributi a carico della collettività di impianti che convertono in energia elettrica Che peso darebbe alle fonti di energia solare fotovoltaica e termodinamica prese insieme rispetto ad altre fonti energetiche l’energia della radiazione solare, darebbe oggi priorità al fotovoltaico, al termodinamico o svilupperebbe in modo parita- rinnovabili? In Sicilia penso debbano fare la parte del (sol)leone per la felice rio i due indirizzi? Entrambi vanno adeguatamente sostenuti ma l’urgenza maggiore è posizione geografica della regione, ma credo che in quella che è quella di mettere un impianto fotovoltaico sul tetto di ogni casa per anche l’isola di Eolo, insieme all’eolico - soprattutto se collocato off-shore a lunga distanza dalla costa - queste fonti possano far diventare produttore il singolo cittadino, responsabilizzarlo sull’uso dell’energia ed affrancarlo dai condizionamenti dei grandi contribuire in misura determinante a creare lavoro nuovo e pulito, a riqualificare il modo di produrre energia e di distribuirlo, a ridurre produttori e distributori. la dipendenza dalle fonti fossili senza scatenare nuove guerre.

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Fantaeconomia?

Stanno pensando ai ”Google bucks”

La moneta elettronica

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (aggiornamenti in tempo reale)

Cioè “googledollari”. Ne ha parlato il megamanager di Ceo, smentendosi subito. Ma... di Fabio Vita

Nella principale fiera tecnologica europea, il Mobile World Congress, che si è svolta in Spagna, dal tre al sei marzo scorso, durante la conferenza stampa a chiusura dell'evento, Eric Schimdt, ex amministratore delegato di Google negli anni d'oro della compagnia dal 2001 al 2011 e ora presidente, ha fatto delle dichiarazioni sorprendenti. Schmidt ha infatti dichiarato ufficialmente che Google l'anno scorso ha preso in considerazione l'idea di creare una propria moneta elettronica sul modello del Bitcoin. Ed ha espressamente citato il peer-to-peer (P2P) di cui Bitcoin finora è l’unico esempio concreto. Ma perché non vediamo già in giro i dollari elettronici di Google (o magari di Amazon, Apple o di qualche altra megacorporation del digitale)? "Abbiamo sospeso il progetto - ha risposto Schmidt - perché per ora secondo molte leggi valutarie, in diverse parti del mondo, il sistema sarebbe illegale". Il Wall Street Journal aggiunge che gli

avvocati di Google probabilmente si riferiscono anche agli stessi Stati Uniti: molti servizi infatti debuttano o rimangono confinati in Nordamerica (Pandora Radio, Google Music, Netflix). Google peraltro ha già sviluppato sistemi di pagamento via smartphone, con la tecnologia NFC presente nel Galaxy Nexus S, e un sistema rivale di Paypal, Google Wallet. Google ha anche un "bug bounty": chiede ad hacker e sviluppatori di segnalare buchi di sicurezza nei suoi servizi. Il programma paga coloro che hanno contribuito a segnalare problemi significativi, finora sono stati spesi oltre settecentomila dollari in premi. Google Wallet e Bitcoin La questione della sicurezza per le transazioni finanziarie è un problema che non si può trascurare, e Google Wallet qui ha avuto i suoi problemi. Bitcoin – che funziona, è gratuito e non ha costi di intermediazione – nonostante i buchi dei singoli siti che hanno a che vedere coi Bitcoin (la seconda borsa di Bitcoin per volume, Tradehill, è stata chiusa dai

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fondatori dopo aver subito un furto di più di centomila dollari) l’infrastruttura e la rete si sono mostrate in questi anni inattaccabili. E per il pubblico tv... Qualche tempo fa The Good Wife - una serie tv del genere giudiziario - in un episodio dedicato al Bitcoin (Bitcoin for Dummies) ha diffuso ulteriormente la conoscenza della moneta elettronica fra il grande pubblico, tra il didascalico e il divertito, e qualche ammiccamento d’attualità alle presunte connessioni coi contestatori di Occupy Wall Street.

Link: L’intervento di Schmidt: http://www.youtube.com/watch? feature=player_embedded&v=4DKLSO8wYzk I “buchi” di Google Wallet http://www.itworld.com/mobilewireless/248596/even-after-rewrites-googlewallet-retains-gaping-security-holes-mainlydue-an Bitcoin for Dummies ( The Good Wife 3x13) http://www.programmaludovico.com/2012/01/ good-wife-3x13-bitcoin-for-dummiesmeet.html


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“La Tana”

Un blog olandese sulle mafie Dal 2007 nel suo blog “La Tana” la giornalista Cecile Landman racconta da Amsterdam storie di mafia ai suoi connazionali. Un interesse nato negli anni Novanta, insieme all’amore per l’Italia e, in particolare, per Catania di Agata Pasqualino Ctzen

«Ho aperto il blog nel 2007 perché amici in Olanda me lo chiedevano, e serviva e serve ancora per raccontare le storie sull’Italia che, per un motivo o un altro, non vendo ai media». Così la giornalista freelance Cecile Landman spiega com’è nata La Tana in cui racconta da Amsterdam la mafia italiana agli olandesi. Storie solo apparentemente lontane dal suo Paese, contrariamente a quanto normalmente si crede.

Negli anni Novanta Cecile è stata corrispondente in Italia per il quotidiano nazionale olandese Trouw, ma della nostra terra si è innamorata molti anni prima, quando l’ha conosciuta «a causa di passati amori romani». Era la metà degli anni Ottanta. «L’ultima bomba della strategia della tensione a Bologna era ancora fresca nella memoria di tutti – racconta – Ovunque si incontravano blocchi stradali di carabinieri e polizia e in quel periodo ho iniziato ad imparare nomi e abbreviazioni: Craxi, Andreotti, Forlani, P2, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, Opus Dei». Per strada e grazie alla televisione ha imparato anche la nostra lingua. «Mi ricordo un programma con una presentatrice finta bionda – dice, cercando senza successo di ricordare il nome di Raffaella Carrà – e Roberto Benigni come ospite che accusava loud and clear Silvio Berlusconi di essersi arricchito con la vendita di libretti porno-hard». “La tana”, l'italiana Rimane talmente affascinata dall’Italia che due amiche argentine cominciano a chiamarla la tana, l’italiana. «Molti anni dopo – rivela – ho scoperto che tana libera tutti è anche il nome del gioco del nascondino. Mi piaceva per diversi motivi, così ho deciso di usarlo per i mio blog». Ha iniziato nel 2004 con streamtime.org, nato come progetto di radio via

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web dall’Iraq, dove era appena cominciata l’ennesima guerra, e presto trasformato in un network di blogger per raccontarne le atrocità. «Con loro ho chattato tantissimi giorni e notti, mentre entravano e uscivano dalle connessioni Web a causa di blackout elettrici, di pallottole, bombe che esplodevano e altri orrori». Anche streamtime.org non era sempre online per via degli attacchi digitali contro il sito. E cosi, parallelamente, ha aperto Xer-files. «In primis per l’incazzatura suscitata dai sabotaggi – dice – e ovviamente per poter essere sempre online». In Sicilia nel '92 In Sicilia arriva per la prima volta nel 1992. Ricorda il viaggio con i suoi amici del gruppo One Love di Roma che facevano un concerto a Catania, il bagno ad Acitrezza e quando al ritorno dal mare, nel bar dove volevano comprare un gelato, è scoppiato il panico. «Alla radio – spiega – trasmettevano la notizia della bomba a Palermo e della morte di Paolo Borsellino». Un ricordo ancora fresco nella memoria, nonostante i tanti anni passati. Ma è stata un’altra vicenda a rafforzare il suo interesse per le storie della nostra terra. Quella di Agata Azzolina con cui nel ‘97 è stata messa in contatto dai giornalisti della redazione dei Siciliani, ai quali è ancora legata da rapporti di amicizia.


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Il marito e il figlio di Agata erano stati ammazzati nell’autunno del 1996 nel loro negozio, sotto la loro casa a Niscemi. «Solo sei mesi dopo da Niscemi passava la carovana antimafia, ma i loro nomi non venivano letti tra quelli delle vittime di mafia e lei godeva solo di poca protezione – ricorda Cecile – Mi raccontava che era andata alla polizia per denunciare la rottura delle finestre del negozio, sempre sotto casa sua. La storia di Agata Azzolina La risposta era stata: “Ma signora, stanotte ha fatto molto freddo. Chissà si saranno rotte per il gelo”. Ovviamente poteva significare solo una cosa. La polizia stava dall’altra parte. Io che vengo dall’Olanda di certo so che le finestre non si rompono col freddo». Ricorda la telefonata fatta subito dopo al giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni per chiedergli di intervistare Agata e far uscire la notizia anche in Italia e dell’altra telefonata il giorno dopo per dirgli che era troppo tardi perché la donna si era impiccata. «A quel punto Attilio mi ha mandato alla redazione di Repubblica a Roma, e il giorno dopo la storia di Agata era in prima pagina. Un delirio», racconta. La invitò, insieme alla figlia della vittima, anche Michele Santoro che allora lavorava a Mediaset. «Il titolo scelto dalla redazione di Moby Dick era: I morti del Sud e la sto-

ria di Agata veniva affiancata a quella di un uomo che si era dato fuoco per mancanza di lavoro – dice Cecile – Non ero mica felice e credo di aver avuto una faccia parecchio incazzata durante tutta la trasmissione». Una rabbia che riemerge anche se lo racconta ridendo. Questa vicenda le ha «fatto capire tantissimo della morsa delle mafie sulla popolazione italiana - dice - e che è difficilissimo formare una vera resistenza contro questi poteri». Per farlo bisogna anche raccontarli ed è proprio in questo modo che lei dà il suo contributo. “Una resistenza contro questi poteri” Ma come mai parla di mafia agli olandesi? Non è per loro una realtà lontana come spesso pensiamo noi italiani? «Dalle indagini della magistratura italiana sappiamo che l’Olanda è un punto di riferimento per le organizzazioni criminali – spiega – I killer di Duisburg della ‘ndrangheta sono stati arrestati ad Amsterdam. E succede quasi regolarmente che mafiosi italiani vengano arrestati in Olanda». Le sue inchieste hanno spesso al centro questi legami tra i due Paesi, come quella sull’olandese Theodor Cranendonk, oscuro personaggio connesso ai rifiuti sulle navi a perdere nelle acque calabresi, come la Jolly Rosso. «Durante l’inchiesta – dice – ho scoperto che nel 1990 aveva venduto 30 bazooka alla ‘ndrangheta. Condannato nel 1998 a Milano, era scappato nel

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1999. L’ho ritrovato io. Abitava in uno dei piani alti di una torre nel centro di Rotterdam. Adesso è di nuovo a piede libero e lo Stato olandese non sembra preoccuparsene». Con un’altra recente inchiesta Cecile ha contribuito all’arresto di Francesco Santolla, killer della Sacra Corona Unita. «Nonostante la condanna in appello all’ergastolo in Puglia – dichiara la giornalista – l’Olanda gli ha dato il sussidio di disoccupazione, ignorando la richiesta di estradizione e il mandato internazionale di arresto. Insomma – conclude – è difficile capire quali siano gli interessi dello Stato olandese». Catania, il caos, l'Etna A Cecile piace raccontare, parlare e lo fa sempre con ironia. Dice che tornerà certamente a visitare Catania. «È una città che amo. Il caos, l’Etna. Ci sono stata spesso e ho molti buonissimi amici catanesi», afferma. E ci sono luoghi ancora vivi nella sua memoria, come il negozietto che vende presepi tutto l’anno, anche di notte e la vecchia redazione dei Siciliani. «La prima volta che ci sono andata – riaffiorano i ricordi – venivo da un campeggio vicino a Pachino. Faceva un caldo mostruoso. Dentro la redazione fu subito un gran caos di voci e scherzi. Ma dopo un po’ di tempo ho capito come trattarli». E ride. http://lacile.wordpress.com/2012/01/24/derietvorken/


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Valle Giulia e oggi

Ricordando (a sproposito) Pasolini “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri...”. Per i media di destra, Pasolini è tutto qui. Ma cosa disse in realtà? E da che parte starebbe oggi? di Riccardo De Gennaro È francamente stucchevole l’uso che numerosi giornalisti e uomini politici continuano spudoratamente a fare della poesia di Pasolini intitolata “Il Pci ai giovani”, quei versi cioé che, nell’ambito di un’analisi della lotta di classe, parlano di uno scontro tra poliziotti e studenti universitari nel ‘68. Stucchevole e ipocrita. Pasolini, secondo costoro, “è” quella poesia lì, mentre – in tutti gli altri casi – non è che un omosessuale, anzi un “frocio”, un comunista o, al limite, uno che “andava cercandosi dei guai”, come disse Andreotti al giornalista tedesco Peter Schneider in un’intervista del 1985, ricorrendo a un’espressione che il senatore a vita utilizzò anche per commentare l’assassinio del giudice Giorgio Ambrosoli per ordine del bancarottiere piduista e mafioso Michele Sindona. Ora, nel commentare gli scontri della Val di Susa, o le manifestazioni dove sono presenti i “black bloc”, di quella poesia i molto numerosi e ipocriti editorialisti e parlamentari di centrodestra (ma ora anche qualcuno del centrosinistra) assumono esclusivamente i due o tre versi che dicono: “Quando ieri a Valle

Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri”. E si guardano bene dal riportare un verso che compare poco più avanti: “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”, un verso – quest’ultimo – che sarebbe peraltro molto più idoneo in un commento su giovani pacifisti No Tav e agenti in tenuta antisommossa. Ma i vari Belpietro, Feltri e compagnia scrivente e sentenziante lo ignorano e riciclano il loro pistolotto socio-moralistico (Giuliana Ferrara non può perché a Valle Giulia stava coi manifestanti e faceva a botte, o per meglio dire, fuggiva alle cariche di polizia) ogni qualvolta si renda necessario intervenire a favore delle manganellate e dei gas lacrimogeni sparati contro “la feccia rossa”, come titolava “il Giornale” in occasione dell’incidente del giovane Abbà, precipitato dal traliccio in Val di Susa perché braccato, anche lassù, da un carabiniere. L’infinita ipocrisia di questi commentatori non si rivela soltanto nella censura del testo restante della poesia, nella mancanza di una valutazione dell’odio-amore

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che Pasolini nutrì nei confronti del movimento sessantottino, nel trascurare che nei giorni successivi lo stesso Pasolini spiegò in una tavola rotonda a L’Espresso che “il vero bersaglio della mia collera non sono i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno”, nel dimenticare che i manifestanti anti Tav possono essere definiti in molti modi ma certo non “figli di papà”, come scrisse Pasolini degli studenti in quella poesia. L’infinita ipocrisia di tutti questi signori, perennemente al servizio - per vocazione e convenienza - del più forte, emerge palese soprattutto se si valutano i casi in cui costoro adottano il loro semplicistico schema di giudizio: noi stiamo con i poliziotti che guadagnano poco. Perché non hanno tirato per la giacca Pasolini al termine del G8 di Genova? Non sono forse agenti delle forze dell’ordine anche i “torturatori” della Diaz e della caserma di Bolzaneto? Tra i “no global” massacrati di botte, assai più che tra i No Tav, non poteva esserci anche qualche “figlio di papà”?


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Palermo

Dai quartieri “di destra” i voti per il centrosinistra Alle primarie è successo un fatto strano: hanno partecipato di più proprio i quartieri che di solito non votano per il centrosinistra. Come mai? di Anna Bucca

Le primarie per scegliere il candidato sindaco di Palermo per la coalizione di centro sinistra di quest’anno saranno ricordate per varie ragioni: i veleni che le hanno contraddistinte, il riconteggio dei voti, le richieste di intervento alla Digos, le accuse di voto di scambio, l’apertura di un fascicolo in Procura, alcuni autobus con votanti visti attorno ai seggi, l’esplosione delle complesse dinamiche interne al Pd, la grande partecipazione dei cittadini. Vorrei riflettere su quest’ultimo elemento perché ho la sensazione che in queste primarie la partecipazione vera e democratica, intesa come possibilità di incidere sull’esistente per trasformarlo in direzione di una maggiore giustizia e equità sociale, lascia il tempo che trova. Chi ha vissuto la stagione delle primarie del 2005 fatica a ritrovare in queste lo stesso spirito e lo stesso clima di quella stagione. A Palermo sono andate a votare poco più di 29.500 persone. Un numero ele-

vato, che fa registrare un aumento del 50% rispetto ai votanti delle primarie del 2007, che furono poco meno di 19.500. Ma mettendo a confronto i dati del 2007 e del 2012 in alcuni seggi, viene fuori un incremento di partecipazione non omogeneo. Chi ha votato e chi no Al Politeama e alla Stazione, zona centro, la partecipazione è rimasta sostanzialmente stabile; all’Arenella è aumentata del 50%; in altri quartieri di periferia, considerate zone cosidette a rischio e più “sensibili” a determinate sollecitazioni, come Tommaso Natale, San Lorenzo, Villagrazia, Montegrappa, via Messina Marine, Via Brunelleschi è praticamente raddoppiata; al seggio di Piazza Mondello è più che triplicata. Sembrerebbe che gli elettori palermitani di centro sinistra abbiano partecipato in massa per palesare la propria preoccupazione per l’accordo di Vasto

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tra i partiti del centro sinistra e per sottolineare l’indifferibilità di un’alleanza più ampia, allargata al centro, che qui in Sicilia si declina Movimento per l’Autonomia e Unione di Centro: il cosiddetto laboratorio politico che vede nel senatore Lumia uno dei più convinti sostenitori. Senonchè la partecipazione aumenta proprio in quelle zone in cui il centro sinistra ormai da diversi anni registra consensi elettorali piuttosto bassi. L’aumento dei votanti a Palermo è in controtendenza rispetto alle dinamiche nazionali, visto che per esempio a Milano e Genova la partecipazione alla primarie è diminuita sensibilmente: a Milano nel 2010 hanno votato ca. 67.500 cittadini contro gli 82.000 del 2006, a Genova qualche settimana fa hanno votato ca. 25.000 cittadini contro i 38.000 del 2007. Aumento chiosato dall’affermazione all’indomani del voto dell’on. Cascio, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana: “Nelle primarie almeno 10mila elettori non erano del centrosinistra”.


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Politica

Chi ha distrutto Palermo e chi (forse) la ricostruirà La città sta affrontando la stagione più difficile dagli anni della Primavera. Le varie amministrazioni di destra hanno lasciato macerie dappertutto. Quel po' di cultura democratica che era sorta negli anni '90 s'è dissolta fra clientelismi, inciuci e qualunquismo. E ora? di Giovanni Abbagnato Le dimissioni del sindaco Cammarata hanno sicuramente rappresentato l’uscita da una sorta di incubo sociale e amministrativo che pur non fugando le tante apprensioni legate al probabile dissesto finanziario del Comune, maldestramente occultato dalle irresponsabili amministrazioni avvicendatesi nell’ultimo decennio, poteva dare una spinta di entusiasmo per voltare definitivamente una pagina infausta per la città. Purtroppo, la strada risulta ancora molto in salita, soprattutto per la conduzione disastrosa delle primarie di centrosinistra che, non senza molti spazi di ambiguità, comunque si proponeva come alternativa al centrodestra, intanto interessato da diverse e complesse lotte intestine. Le contrapposizioni e i veleni che girano adesso nel centro-sinistra chissà quando lasceranno spazio alla politica trovando una sintesi presentabile per il popolo del centro-sinistra e per tutti quei cittadini che, perfino al di là delle loro convinzioni ed appartenenze, volevano dare un forte segnale di discontinuità rispetto a forze politiche comunque responsabili dell’esperienza distruttiva delle giunte Cammarata. Eppure, il bivio “naturale” che s’imponeva nella città di Palermo, rappresentava un’occasione storica per attivare una politica finalmente in grado di proporre

una nuova visione della città il cui enorme ritardo sociale, culturale ed infrastrutturale non è più possibile implementare, com’è stato fatto in tanti – troppi – anni. Una distruttiva fase in cui il sindaco Cammarata imponeva, perfino ai suoi potenziali sostenitori, soprattutto per scopi legati al suo destino politico, la sua imbarazzante presenza, cavalcando le “faide” politiche della sua area politica di riferimento. Adesso, cosa succederà nessuno lo può prevedere con certezza a partire dal probabile rientro in gioco di un centro-destra, e satelliti vari, che davano per perduta al loro controllo la città. Centro-destra in difficoltà Il fatto è che quel bivio “naturale”, costituito da grandi scelte urbanistiche, infrastrutturali e cultuali oggi s’impone ancor di più, presentando alcuni presupposti che la maggiore stabilità ed efficacia di una nuova amministrazione potrebbero mandare avanti in una logica di servizio per la città e non certo di possibili comitati di affari pronti a sfruttare le situazioni a partire dai loro interessi. Purtroppo è nella tradizione di Palermo dovere fare i conti, con disegni progettuali originati da esigenze reali, ma purtroppo non sempre condotti in modo “limpido” e spesso nemmeno lungimirante, per inadeguatezza progettuale e per tendenza a piegare interessi pubblici a disegni privati.

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Fuori da ogni metafora è del tutto evidente che il rapporto fronte-mare città, che, come a Barcellona e a Marsiglia, potrebbe rivoluzionare un contesto importante come Palermo – risulta mortificato da più di un lustro da scelte perfino incredibili considerando la confermazione di un territorio cittadino che ha la straordinaria potenzialità di adagiarsi sul mare anche con il suo centro. Palermo è una città di mare senza mare che dal cosiddetto waterfront, piuttosto che attrarre bellezza e funzionalità, ha ricevuto brutture di ogni tipo e chiusure insensate di spazi con problemi di ogni genere, dalla mobilità, alla ricettività di tipo turistico, agli insediamenti produttivi e tanto altro. Finora al “fronte a mare” è stato negato il ruolo di opportunità d’integrazione e aggregazione urbanistica ed economica per l’intera città. Del pari, vanno considerate con grande attenzione grandi aree come la Ex Fiera del Mediterraneo, i mercati ortofrutticolo ed ittico, la piazza Einstein e l’enorme spazio di archeologia industriale costituita dai Capannoni della Zisa, già Cantieri Culturali. Tale spazio, citato in ultimo - che è insieme un potenziale giacimento e incubatore di cultura e pratiche sociali - prima dell’avvento distruttivo di Cammarata ha conosciuto una fase di notevole prestigio nazionale ed internazionale e oggi è oggetto di un’interessantissima azione di


www.isiciliani.it BAMBINIAPPESI Foto di Fabio D'Urso

resistenza e proposta portata avanti da un Comitato di cittadini e associazioni contro strane manovre messe in campo dalla Giunta Cammarata poco prima delle sue dimissioni con l’emissione in extremis di un bando molto discutibile, sia sul piano politico che della legittimità. Il disgoverno di Cammarata Tutti questi spazi urbani, insieme a progetti di nuova realizzazione come il nuovo stadio, un acquario e altre strutture, costituiscono l’obiettivo di un Masterplan sullo sviluppo della città presentato dalla Confindustria di Palermo con la “benedizione” del livello regionale dell’organizzazione degli industriali. Sono questi – sia il “fronte a mare”che le aree contenute nel Masterplan di Confindustria - progetti sicuramente importanti e ineludibili che possono costituire la spina dorsale di un’idea – forza per il rilancio socio – economico della città, dopo l’irresponsabile oscurantismo del disgoverno di Cammarata. Forse, però, bisognerebbe che i presupposti economici e culturali e gli interessi ad essi collegati siano messi sotto esame da un’amministrazione che non si può che auspicare illuminata per una città ormai al collasso sotto tutti i profili. Il controllo di legalità Questo non solo per il doveroso controllo di legalità che non spetta solo alle Istituzioni repressive, ma anche perché progetti che possono cambiare il volto di una città, non possono non stare all’interno di un preciso disegno politico che, con tutta la considerazione per i soggetti economici, ha il primato per guardare al complesso del tessuto socio-economico cittadino e agli interessi che in esso devono trovare una virtuosa conciliazione. Ma di questa esigenza di portare a sistema di efficacia ma anche di giustizia sociale ogni grande progetto per la città, deve farsi carico soprattutto la gente della cosiddetta società impegnata, da allargare a tutti i ceti sociali in un’ottica di salvaguardia dei beni comuni. Controllare democraticamente certe manovre nella migliore delle ipotesi so-

cialmente discutibili, come si sta facendo sulla vicenda dei Cantieri della Zisa, è un impegno da portare avanti, con ancora maggiore complessità, su quel “fronte del mare”, croce e delizia di Palermo. Intanto, partiamo dal fatto che il territorio costiero, con tutte le sue implicazioni, è stato gestito, per una parte importante, da un’Autorità Portuale rappresentata da tal Ingegnere Bevilacqua, molto presente nella vicenda del completamento dell’autostrada Palermo - Messina e troppo vicino alla fase politica e agli ambienti che, comunque facendo riferimento a Cammarata, hanno gestito settori importanti della città.

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La Palermo democratica - quella della società civile, come quella della politica, nonostante il periodo buio che sta vivendo - non può avere preclusioni rispetto al confronto delle idee su progetti d’innovazione. Ma la lingua italiana è molto ricca di contenuti e agli stessi termini come innovazione, sviluppo e progresso sociale possono corrispondere significati diversi, talvolta perfino inconciliabili. Sul piano, non solo linguistico, è essenziale che tutti si abbia chiara memoria che a Palermo, spesso si è fatta confusione tra i termini sviluppo e saccheggio.


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Mafia al nord/ Padova

L'ombra di don Totò Giuseppe Salvatore Riina, si proprio lui, il figlio del temibile Totò, arriverà in Veneto, a Padova, dove sarà ospite di una onlus, e dove continuerà i suoi studi presso la Facoltà di Economia di Gabriele Licciardi Centro Studi Luccini, Padova

La notizia ha suscitato polemiche, presto trasformatesi nella riproposizione di stereotipi che più che danneggiare, in una estenuante riattualizzazione plurisecolare, hanno favorito la diffusione di una immagine delle consorterie mafiose impregnate di tradizionalismo meridionale, il solito prodotto degradato, proveniente da un mondo sottosviluppato, il mezzogiorno. Ma se il governo cittadino, di centro sinistra, non ha potuto far altro che accettare la decisione del tribunale siciliano, promettendo un monitoraggio costante della situazione, l’opposizione ha riproposto la consueta campagna di stampa, rimettendo sul tavolo della polemica tutti i cavalli di battaglia che sin dagli anni ottanta hanno masso al centro le critiche contro la legge del confino coatto al Nord per i criminali.

Ma il problema sta proprio qui, ovvero credere che la mafia al Nord è arrivata grazie ai mafiosi al confino, o almeno solo tramite questo provvedimento legislativo, rinnegando così qualsiasi responsabilità delle classi dirigenti locali, politiche e imprenditoriali, che, sempre secondo questa impostazione, sono rimaste vittime contaminate dal mordo criminale, che dal sud, grazie ad una legge sciagurata, è arrivato al Nord, infestando un florido sistema economico, e mettendo in serio pericolo le virtù civiche delle genti locali. Ma nei primi giorni di marzo sui principali quotidiani locali veneti è stato possibile leggere due racconti che correvano paralleli, quindi simili, ma che sembravano non incontrarsi mai. Da un lato la vicenda di Riina jr. con tutto lo strascico di polemiche al seguito, dall’altro il racconto di udienze processuali, resoconti d’indagine, indizi su nuove inchieste in corso, con al centro l’ibridazione fra crimine organizzato e imprenditoria locale. Il problema vero Sarebbe stato facile chiedersi se il problema era realmente l’arrivo di Riina jr. a Padova, oppure il livello d’infiltrazione nell’economia nordestina degli interessi camorristi o mafiosi. Ma porsi la domanda avrebbe implicato dare una risposta, e nella risposta difficilmente si sarebbe potuto evitare di tenere in considerazione le oggettive ammissioni, in primis, degli organi istituzionali, i quali negli ultimi tempi sul radicamento del fenomeno mafioso in terra pa-

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dana hanno espresso parole ferme e ineccepibili. Ma un certo modo di intendere l’antimafia al Nord, molto più diffuso di quanto si pensi, e trasversale politicamente, ha nel corso tempo costruito un arguto stratagemma retorico che recita più o meno così; la mafia al nord non esiste, se esiste è colpa del governo di Roma che ha imposto il soggiorno obbligato. “La mafia sono gli altri” In questo modo si sono ottenuti due risultati; il primo è quello di mantenere la criminalità organizzata nel recinto “dell’altro da me”, una cosa lontana, altra rispetto alle sane consuetudini delle popolazioni del nord, ma il risultato più importante è quello di disconoscere sia un parziale fallimento nella gestione delle politiche decentrate, che in fondo la criminalità organizzata non è riuscita a contrastarla almeno come si sarebbe voluto, sia riconoscere che un concorrente, sicuramente sleale, inficia da vicino una certa idea di organizzazione sociale. La rappresentazione del Nord del paese organizzata da fasce importanti di ceto dirigente, basata su conservatorismo sociale e morale, cozza contro una realtà dove la dimensione economicistica ha assunto sempre più un ruolo predominante, e se la discriminante è solo un parametro quantitativo, conta sempre meno il come si è raggiunti il benessere, ma raggiungerlo. In questo Riina jr. non ha alcun ruolo, tranne che distrarre l’opinione pubblica da compiti di riflessione collettiva ben più importanti.


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Regione Lombardia

Vietato parlare dei nostri affari. Censurato il figlio di Ambrosoli Il 21 marzo la Regione Lombardia ha commemorato le vittime di mafia proiettando “Un eroe borghese”, il film su Giorgio Ambrosoli. Ma il figlio Umberto, reo di aver commentato gli ultimi scandali che hanno travolto il Pirellone, alla cerimonia non è stato invitato di Renato Nicolini e Martina Mazzeo www.stampoantimafioso.it

Parlarne è male. Esprimere la propria opinione può essere causa di spiacevoli conseguenze. Dove? In qualche paese non democratico, nella Siria di Assad? No: nella Regione Lombardia . Qui, dove ancora una volta si verificano scandali tra uomini d’affari ed esponenti delle istituzioni, non sembra consentito pretendere che gli amministratori della cosa pubblica adempiano con rigore alle loro funzioni.

“Repubblica” il figlio di Giorgio Ambrosoli, Umberto, aveva invocato un intervento da parte del Governatore lombardo, Roberto Formigoni. «Quattro su cinque, appunto, nominati, per restare solo all’ufficio di presidenza... C’è una sfacciataggine condivisa, in queste vicende. Si ha la sensazione che sia venuto meno il controllo reciproco, quello per cui non compio atti illeciti non solo perché è reato, ma anche perché chi mi sta accanto potrebbe scoprirmi. Da cittadino non sono il solo a provare disagio per questa situazione, fermo restando che certamente in Regione ci sono anche tante persone per bene. Mi chiedo cosa si aspetti per prendere provvedimenti radicali», si legge nell’intervista. “Azzerare la giunta” E forse ha osato troppo l’avvocato Umberto Ambrosoli quando ha chiesto un passo indietro a tutti coloro che sono stati toccati dalle indagini di questi giorni, sperando anche che Formigoni ritenesse opportuno azzerare la giunta regionale perché «in questa fase una titubanza potrebbe essere interpretata come assenza di autorità. In una azienda privata, in situazioni analoghe, se la proprietà non cambiasse un cda

Alla luce delle ultime indagini che hanno coinvolto diversi membri del Consiglio Regionale e dell’Ufficio di Presidenza della Regione, in un’intervista su

corrotto, rischierebbe di passare per collusa». Questa intervista evidentemente ha disturbato gli umori al Pirellone. Il verdetto: l’esclusione di Umberto Ambrosoli dalla cerimonia per la giornata regionale dell'impegno e in ricordo delle vittime di mafia durante la quale è stato proiettato il film “Un eroe borghese”, proprio per celebrare l’onestà di suo padre. Escludere il figlio di Ambrosoli dalla cerimonia in ricordo del padre è quanto mai indegno. Si vogliono forse ridimensionare le vicende – giudiziarie ed etiche insieme – di questi mesi? O, semplicemente, non si accettano critiche? Non sarà per caso che un’ipotetica “cricca” intenda chiudersi a riccio, come a proteggere i suoi membri da chiunque osi indagarli? Sarebbe stato un segnale di apertura la presenza di Umberto Ambrosoli alla cerimonia di commemorazione; la sua assenza, invece, disegna un vuoto ancora più netto e getta ancora più dubbio su una politica regionale la cui lista di rappresentanti indagati si estende in modo impressionante. Il tutto con Expo alle porte e le organizzazioni mafiose che bussano con prepotenza crescente, non solo a Milano ma in tutta la Lombardia Se non si parte dalle più piccole azioni tanto simboliche quanto significative, se al contrario si tentano di oscurare opinioni contrarie, come si farà a smascherare le alleanze tra mafia politica e imprenditoria? Come farà la politica a rendersi davvero responsabile?

Giorgio Ambrosoli

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L'ereditĂ di Don Peppe Diana

Coraggioso e ostinato, un prete di quelli rari

Tratto dalla grafic novel Don Peppe Diana (Per amore del mio popolo)

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“Poteva essere il venticinque aprile, poteva essere il primo maggio, ma quel giorno a Comiso era il quattro aprile 1982 e si diceva no ai missili Cruise. Non si era minacciosi ma si derideva il potere, la morte guerrafondaia, l’imperialismo del potere economico che calpestava la terra di Sicilia. Oggi raccontiamo con parole e immagini quel quattro aprile 1982. Trent’anni di molte guerre, di magistrati, giornalisti e donne uccisi dalle mafie…” (Giovanni Caruso)

Primavera a Comiso 1982-2012 IERI, DOMANI

Pio La Torre, Giuseppe Fava, i campi di Sicilia, i missili, la morte, gli imperatori. E una generazione che non si arrese

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Pio La Torre a un'assemblea a Comiso. In alto: verso il campo della pace. FOTO DI GIOVANNI CARUSO

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4 aprile

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Tutti a Comiso trent'anni dopo info: http://comiso4aprile.blogspot.com adesioni: comiso4aprile@gmail.com fb: 4 aprile 2012. A Comiso, 30 anni dopo

Per Pio La Torre e per un Mediterraneo di pace

Il 4 aprile di trenta anni fa oltre centomila siciliani, e tanti, tantissimi giunti da ogni parte d’Europa, sfilarono per le campagne di Comiso, dentro la città per dire no alla costruzione di una base militare che avrebbe dovuto accogliere 112 missili Cruise a testata nucleare.

Erano parte di un movimento europeo che per un decennio, in un continente diviso dal muro di Berlino e minacciato dalla guerra atomica, lottò per liberare il mondo dal dominio delle superpotenze di allora, Usa e Urss, convinto della necessità di un’Europa “senza missili dall’Atlantico agli Urali”, in cui solo la pace e la distensione - e non il riarmo avrebbero facilitato i processi di democratizzazione all'Est. I missili a Comiso indicavano che il nuovo fronte del conflitto si stava spostando nel Mediterraneo: il nuovo nemico del nord era ormai il sud, come la storia degli anni dopo ha poi dimostrato.

Alla testa e al fianco di quel corteo colorato, alla guida di quel movimento straordinario fatto di donne e uomini di culture ed esperienze diverse, di tante ragazze e ragazzi che si affacciavano per la prima volta alla politica stava un uomo che più di ogni altro aveva intuito come la lotta e l’impegno per la pace, contro la militarizzazione della Sicilia si intrecciava a filo doppio con l'impegno antimafia, per la democrazia, per la legalità. Poche settimane dopo quella straordinaria giornata, il 30 di aprile del 1982, Pio La Torre veniva assassinato a Palermo assieme a Rosario Di Salvo. Ucciso dalla mafia, che da tempo lo aveva individuato come nemico principale per l’attacco da lui sferrato ai patrimoni economici dei mafiosi, e che ora voleva mano libera nelle speculazioni edilizie promesse dal grande insediamento che si stava progettando attorno alla base. Il declino dell'Europa Pio La Torre e quello straordinario movimento contrapponevano all’idea di Sicilia come portaerei e avamposto armato nel Mediterraneo, quella di piattaforma di pace e dialogo, di terra capace di valorizzare le proprie risorse locali, agricole e culturali innanzitutto. Oggi la base nucleare di Comiso non c’è più. E neppure il Muro di Berlino. Il mondo è cambiato. Ma le parole d’ordine di quella giornata, le rivendicazioni di quel movimento, le ansie e le preoccupazioni che Pio La Torre esprimeva mantengono inalterata la loro validità. Nel pianeta c'è il più alto tasso di ineguaglianza mai raggiunto. Aumenta lo sfruttamento degli esseri umani, della na-

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tura e dei beni comuni. Nella crisi globale di sistema, l'Europa declina e cede al mercato i diritti, la democrazia, la sua unità e i suoi popoli. Il Mediterraneo in questi anni è stato molto lontano dal diventare il mare di pace sognato e rivendicato da chi si mobilitava in quei giorni. Mediterraneo mare di pace? Sempre più spesso i riflessi delle sue acque si sono colorati delle tinte drammatiche delle guerre che hanno devastato gran parte delle sue coste, a tutte le sue latitudini: da quelle adriatiche (attraverso le quali esattamente 20 anni fa la guerra arrivava a Sarajevo) alle coste del medio oriente o a quelle della Libia fino a pochi giorni fa. O la guerra non dichiarata che si è estesa dal Mar Egeo fino allo stretto di Gibilterra contro chi fugge dal proprio paese alla ricerca di una speranza, di un futuro diverso verso un’Europa ogni giorno più rapace ed egoista. Sul Mediterraneo sognato, pensato, voluto come mare di pace si è levato il lezzo insopportabile delle stragi, delle bombe, degli egoismi dei paesi ricchi della sponda europea capace anche di cancellare il ricordo della primavera araba. Oggi più che mai, avvertiamo la necessità di tornare, a Comiso, dopo trenta anni, nel nome di Pio La Torre, per: - riaffermare un impegno e una volontà di pace; - superare le ipocrisie di chi da una parte dice di voler sostenere l’ansia di libertà dei popoli arabi e che poi in realtà utilizza le bombe anche contro civili inermi per assicurarsi il controllo delle fonti di approvvigionamento energetico;


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“Contro le mafie, per la democrazia e la libertà”

FOTO DI GIOVANNI CARUSO

- denunciare la continua militarizzazione del nostro territorio (da Trapani a Lampedusa, da Sigonella a Niscemi, attraverso i Global Hawk e il MUOS), lo sfruttamento e la distruzione del mare, delle coste, del territorio; - sconfiggere chi pensa al Mediterraneo solamente come un unico immenso mercato dentro il quale solo le merci hanno diritto a muoversi e chi ha voluto blindare le nostre frontiere, trasformando porzioni della nostra isola in lager dove tenere reclusi, privi di ogni diritto, migliaia di persone; - sostenere in maniera attiva e vera le società civili democratiche mediterranee; - promuovere una comunità mediterranea dei diritti, per uscire insieme dalla crisi economica e sociale; - rilanciare l’impegno contro le mafie, per la democrazia e la libertà. ACLI, AICS, ANPI, Antimafia Duemila, ARCI, Articolo Tre, Arciragazzi, Arci Servizio Civile Sicilia, Associazione Culturale Punto Rosso, Associazione Informagiovani Palermo, Auser, Banca Popolare Etica, Centro Open Mind GLBT, Centro Pio La Torre, Centro siciliano di documentazione G. Impastato, Centro Studi Dossetti, Cepes, Chiesa Evangelica Valdese-Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, CGIL, CISL, Ciss Coop. “Lavoro e non solo”, Cresm, Da Sud, Erripa “A. Grandi”, Fabbrica NichiComiso, FIOM, Forum Ambientalista, Gapa-San Cristoforo Catania, Giovani Comunisti/e, Iniziativa Femminista Europea, I Siciliani giovani, Laici Comboniani Palermo, Legambiente, Libera, Libera Università Popolare, Lunaria, Pax Christi, Rete Studenti Medi, Sefea, SPI, Terra del Fuoco, Terrelibere.org, Tilt, UDI Catania, UIL, Un’altra storia, Un ponte per

1982-2012

Perchè torniamo a Comiso Le lotte vissute a Comiso trent’anni fa sono ancora presenti nella memoria di molti e la tensione morale di quei giorni è ancora viva in larghi pezzi di movimento e società democratica. Questa è una delle prime cose che vengono in mente man mano che giungono nuove adesioni all’appello a tornare a Comiso, a distanza di 30 anni da quel 4 aprile del 1982 in cui centomila persone ne popolarono le vie per opporsi all’installazione dei Cruise. Più di quaranta organizzazioni hanno sottoscritto il testo in cui – oltre a ricordare la straordinaria figura di Pio La Torre, trent'anni anni dopo l’attentato in cui venne assassinato insieme a Rosario Di Salvo - si manifesta la necessità di ritornare a Comiso per tanti motivi che vale la pena ricordare. Torniamo a Comiso per riaffermare un impegno e una volontà di pace; per contrastare le ipocrisie di chi vuole a ogni costo assicurarsi il controllo delle fonti energetiche; per denunciare la militarizzazione del territorio; per smascherare chi vuole il Mediterraneo come un immenso mercato in cui solo le merci si muovono liberamente mentre migliaia di persone restano recluse in strutture (i Centri di identificazione e espulsione) in cui vengono private anche della dignità; per sostenere e promuovere una comunità mediterranea dei diritti, per uscire insieme dalla crisi economica e sociale; per rilanciare l’impegno contro le mafie, per la democrazia e la libertà.

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Tante saranno le attività che Comiso accoglierà il 4 aprile: l’animazione con bambini e ragazzi in piazza Fonte Diana; l’assemblea con gli studenti al Teatro Comunale; il dibattito al Centro Servizi Culturali, aperto dai saluti di Jinjuo Morishita, monaco buddista stabilitosi a Comiso dai primi anni '80, e di Franco La Torre, figlio di Pio, e coordinato da Antonio Mazzeo, coerente figura del movimento pacifista siciliano; l’inaugurazione della mostra allestita dalla Banca Popolare Etica: l’evento serale in piazza Fonte Diana, dove si alterneranno brevi interventi e immagini, per concludere in piazza col concerto animato da gruppi ragusani, dai Ciaudà e dai Qbeta. Tra le questioni ancora aperte ce n’è una su cui vogliamo tornare anche nella giornata del 4: il nome dell’aeroporto. Il 30 aprile del 2007, l’aeroporto di Comiso (già al generale Magliocco, morto nell’invasione fascista dell’Etiopia del ’36 e decorato al valor militare) viene dedicato a Pio La Torre, nel venticinquesimo del suo assassinio per mano mafiosa. L’anno dopo la nuova giunta, di destra, cancella il nome di Pio La Torre e rimette il generale. Noi abbiamo già manifestato Pochi anni fa, e torneremo anche questo 4 aprile, per chiedere che il nome dell’aeroporto torni ad essere quello di Pio La Torre, e che nel suo nome si rinnovi il sogno di libertà, giustizia sociale e democrazia nel Mediterraneo. Anna Bucca


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Vi mando una foto che è dentro di me “Ero nei miei vent'anni, affascinata...” di Antonella Giunta

Vi mando una foto che è dentro di me: il sole, migliaia di giovani, anziani, donne e bambini siciliani per le campagne di Comiso coperte di fiori gialli, le bandiere rosse che sventolavano mi rimandavano ad altre più antiche foto di occupazione di terre da parte dei contadini siciliani. In questa ci sono anche tante bandiere arcobaleno: è Comiso in lotta contro le mafie e contro l’installazione dei missili Cruise. Ero nei miei venti anni affascinata da Pio La Torre, lo avevo sentito in una assemblea a Santa Marina a Milazzo, parlare il linguaggio della vecchia guardia del PCI di allora, pieno di idealità, di valori di giustizia sociale e di invito alla lotta per liberare la Sicilia dalla mafia e dai politici collusi.

Pio La Torre parlava lo stesso linguaggio misto di essenzialità e idealità del compagno Ciccino Sciotto di Milazzo, che diventava irrequieto in quelle riunioni della FGCI quando i giovani studenti si “perdevano” fra teorie e editoriali dell’Unità e parlava lo stesso linguaggio di Carmen Manna della Camera del lavoro che quando alla vecchia stazione di Milazzo il corteo degli operai della Raffineria si univa al nostro corteo di studenti, piangeva felice e a me veniva la pelle d’oca allora come adesso. In quell’Aprile 82 comincia tutto per me a Comiso e nell’Agosto si tiene il primo campeggio internazionale contro i Cruise organizzato dal Movimento per la pace italiano, dal Coordinamento Siciliano dei Comitati per la Pace e dal CUDIP di Cagnes. Arrivare con un sacco a pelo Era bello per me arrivare a Comiso con un sacco a pelo e senza conoscere nessuno. Poi dopo un giorno, conoscere tutti: antimilitaristi, non violenti, attivisti dei comitati per il disarmo unilaterale, obiettori di coscienza, operai, cittadini dei comitati per la pace d’Italia. Arrivavano da tutti gli angoli della Sicilia, della Sardegna, dell’Italia. Il 7 agosto dell’82, davanti ai cancelli della base militare abbiamo alzato un muro di scatole di cartone e un gruppo di noi l’ha gridato “Quest’anno di cartone, un altro anno di persone” e nelle nostre assemblee era sempre più chiaro che i

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comitati siciliani per la pace, gli antimilitaristi e i non violenti avrebbero impresso al movimento per la pace italiano una accelerazione. La lotta contro l’installazione dei Cruise non andava fatta solo a Roma in e davanti al parlamento, ma anche a Comiso con la gente di Comiso, bisognava tenere i riflettori internazionali sempre puntati su questa terra e bloccare i lavori dentro la base. I metodi di lotta non violenta E’ stato così che per molti di noi Comiso è diventata la quotidianità e la casa in via del Morso, la nostra casa, il nostro ufficio del Campo Internazionale per la Pace connesso con le organizzazioni pacifiste d’Europa. Al nostro presidio permanente e davanti ai cancelli della base con blocchi non violenti, improvvisi al mattino presto per non fare proseguire i lavori, arrivavano tanti pacifisti dall’Italia, ma anche dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Germania, dall’Olanda. Dall’Inghilterra ci raggiungevano le donne agguerrite, amazzoni non violente, che lottavano a Greenham Common, Berkshire, contro l’installazione dei Cruise. Ci raccontavano le loro esperienze, i loro metodi di lotta non violenta. Per alcuni giovani di Comiso e per alcune donne siamo diventati un riferimento ma non tutti poi venivano, come avremmo voluto, davanti ai cancelli a bloccare i lavori.


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C’era spesso una solidarietà silenziosa. Accadeva per esempio che mentre realizzavamo le azioni dirette non-violente davanti ai cancelli, cittadini comisani arrivassero portandoci arance, acqua mentre altri venivano a trovarci all’Ufficio per la Pace: non eravamo più estranei,

stavamo fra loro. A dicembre, a Natale, la marcia internazionale per la pace e contro i Cruise: una fiaccolata di 1000 chilometri per i paesini siciliani, a Marzo il grande raduno di donne, nasce “La Ragnatela”. Lanciamo la campagna di acquisto di

un metro quadro di terra per accerchiare la base, sorge “La Verde Vigna”, compriamo i terreni dove organizziamo l’International Meeting Against Cruise (IMAC) insieme al Movimento per la Pace Italiano, il coordinamento dei comitati siciliani e il CUDIP.

*** Il 7 Agosto dell’83, il muro davanti ai cancelli della base, l’avevamo detto, era di persone: i nostri slogan contro la guerra, i nostri canti… la carica della polizia… in una pagina ancora tutta da scrivere. Ciao mio Jochen, ciao Cagnes, ciao Tom, in questo giorno dall’alto siete anche voi a Comiso.

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I ragazzi degli Anni Ottanta “Renato A. e Renato C., Angelo, Alfredo, Turi, la piccola Giovannella, Alfredo, Angelo, Patrizia, Pippo, Enrico. E Alfonso da Catania e Teresa da Enna, e Tore e Morishita e Antonella. E Franz, Giuseppe e Giacomo e tu, Jochen...” di Antonio Mazzeo

Mi ero proprio rotto. Due giorni a fare su e giù, Comiso-aeroporto, aeroporto-Comiso. Una Fiat 127 blu tutta ammaccata, scarrozzando inviati Rai e corrispondenti annoiati, persino tre grigi inviati della Pravda e di chissà quale altro quotidiano dell’URSS. Tutti gli altri, davanti ai cancelli, a cantare, giocare, ballare, condividere l’utopia che avremmo fermato i lavori, i missili. Così, la sera in assemblea, dissi che l’8, ultimo giorno di blocco, non avrei più fatto l’addetto stampa e che mi sarei unito ai siciliani in sit-in all’ingresso principale.

Avvenne tutto in un attimo: il comandante dei CC col frustino, i suoi insulti, poi le sirene, i bengala, i lacrimogeni e gli assalti davanti e di dietro. Botte da orbi, il dolore pungente sulle spalle, il sangue, la fuga in un’immensa nube di polvere tra i vigneti. Insieme a Tullio che mi aveva raccontato, felice, che sarebbe presto andato in Nicaragua da cooperante. E quel maledetto elicottero che c’inseguiva, dappertutto, l’agente bastardo che rideva e fingeva di spararci addosso. Quella notte fu l'inferno Riuscimmo a tornare all’IMAC. I primi soccorsi, un punto di sutura, a pulirci il fango, anestetizzando le lacerazioni dell’anima. Quella notte fu l’inferno. Ardevo di dolore e rabbia. Poi il crollo in un oceano d’incubi. Le immagini della carica in moviola, i volti di quei criminali che ci avevano rubato l’innocenza, la gioia, la speranza. E i manganelli. Ancora quel frustino. I bastoni di legno. Orrore a orrore. Infine, grazie al mixer di antidolorifici e vino, un insperato torpore, un senso di pace fatto di ricordi, flash back con loro, sorelle e fratelli di un anno di convivenza e lotte nel Campo internazionale della pace di Comiso. La festa della luna piena con Marianne, narratore clown di un villaggio trasformato in industria di morte ma che come in tutte le fiabe, alla fine, prima

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del vissero tutti felici e contenti, il missile a multipla testata nucleare esplodeva in bon-bon e caramelle. Le pazienti lezioni di giornalismo di Marina, due anni negli States come stagista. “Hai talento, ma ti perdi in inutili fronzoli. Vai subito al sodo, sii anglosassone!”. I bastoni e i manganelli Antonio, disoccupato, che aveva respinto a muso duro l’unica offerta di lavoro che gli avevano fatto. Quella di fare da muratore all’interno della base. L’incontenibile gioia di Iano di Avola, obiettore di coscienza in servizio civile, quando lo informammo che sarebbe andato a parlare di noi, una settimana, tra i metalmeccanici di Milano e di Varese. Le processioni a piedi scalzi di Turi, dietro il Vescovo che benedì nel nome di Cristo la prima pietra della chiesa all’interno del complesso atomico. Ed Enrico, sardo cocciuto e ribelle, sempre più capace di noi a tessere, abilmente, legami politici impossibili. Una carezza ai cani lupo La forza di Tore per continuare a vedere le cose belle della vita, leggere, scrivere, studiare, anche quando gli occhi ti hanno vigliaccamente tradito. L’incomparabile dolcezza di Antonella che aveva ammansito con una carezza i cani lupo che ci avevano scagliato contro i tutori dell’ordine di Sigonella.


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E le ballate a Sacco e Vanzetti e Pio La Torre, Give peace a change e Al Magliocco al Magliocco, tutti a fare il coro, stonati, di Fortunato cantastorie di Barcellona Pozzo di Gotto. La santità del reverendo Morishita, irraggiungibile nella sua imperturbabile pace interiore e proprio per questo intimamente nostro. Nostro davvero e di tutta Comiso. Il reverendo Morishita L’attesa, una settimana sì e una no, del furgone dei nonviolenti messinesi, Renato A e Renato C, la piccola Giovannella, Alfredo, Angelo, Patrizia, Pippo. E Alfonso da Catania e Teresa da Enna, l’amore che ha generato Irene, la pace. E quell’uomo spuntato chissà come e da dove, barba incolta e bastone. “Sono un giornalista di un mensile che verrà, parlatemi di voi pacifisti che voglio scrivere un pezzo”.

Fui diffidente, quasi maleducato. Vedevo spie dappertutto e un giornalista di un giornale mai nato era sicuramente uno sbirro. Invece era Riccardo e quell’inchiesta sui giovani di Comiso uscì sul primo numero dei I Siciliani. Missili e mafia, mafia e missili. Erano stati il pallino di Pio, lo sarebbero stati per il direttore-scrittore Fava, anche lui martire sacrificato all’altare dei Principi della morte. Gli facevi paura. Ma ci sei Con Giuseppe se ne sono andati via prima Giacomo, l’ex sindaco che sfidò il Partito, il suo Partito, che lo aveva lasciato solo contro gli Americani. Poi Franz dei comitati popolari veneti, che in una settimana aveva trasformato un terreno incolto in un camping autosufficiente per i mille compagni di tutta Europa, i protagonisti di quella splendida

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estate dell’83. E l’anno scorso te, Jochen. Ti ricordi quando c’incapriolsammo, caddi e mi spezzai il polso e ti dovetti abbracciare perché piangevi come un bambino, splendido nei tuoi lunghi capelli biondi e il volto d’angelo? Non ti ho più visto da quel maledetto giorno che ti arrestarono come un bandito. Gli facevi paura. Invincibile. Ma so che ci sei. E ci sarai. “Picchiarono e picchiarono, con quei bastoni di cuoio, sopra teste, schiene nude, braccia dei ragazzi, chiusi, serrati fra due schiere…” Vincenzo Consolo, Comiso, l’Unità, 7 settembre 1985.


IL FILO

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“Ti lascio in eredità i missili di Comiso” di Giuseppe Fava I Siciliani, gennaio 1983

“La guerra nucleare è come un assassinio mafioso: non si dichiara ma si esegue, cioè si scatena senza preavviso e nel momento più imprevedibile...”

Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un’altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell’arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l’impressione, spesso la certezza di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille. Le rampe per i missili

Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso cioè sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso d’essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo sulla faccia della terra.

L’ultimo monumento civile che gli altri stanno erigendo nella colonia Sicilia, sotto lo sguardo inerte degli indigeni, sono le rampe per i missili atomici. Discutiamone per un istante poiché si tratta della nostra vita e soprattutto di quella dei nostri figli. La guerra nucleare è come un assassinio mafioso: non si dichiara ma si esegue, cioè si scatena senza preavviso e nel momento più imprevedibile. Accade che una delle due parti, nella disperazione di essere condannata alla sconfitta, o nella illusione di poter ful-

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mineamente annientare il nemico e vantare alla fine una popolazione superstite, decida l’aggressione atomica. La quale naturalmente deve essere totale e contemporanea, cercando anzitutto di colpire e distruggere il maggior numero di strutture belliche avversarie. Anche questo è un perfetto principio mafioso: mai dare uno schiaffo al rivale, né sparargli alle gambe, ma mirare direttamente al centro degli occhi in modo da non correre alcun rischio di reazione. Una folgorante distruzione A sua volta la nazione aggredita ha una sola possibilità di sopravvivenza: incurante cioè delle sue città annientate e dei suoi milioni di morti, reagire quanto più fulmineamente e spaventosamente possibile, cercando di colpire subito gli obiettivi essenziali dell’avversario, anzitutto naturalmente le strutture di offesa nucleare. Anche questo rientra nella perfetta logica della lotta: tu mi spari al centro degli occhi, prima di morire debbo disperatamente tentare di spararti al cuore. L’ipotesi di guerra nucleare è questa soltanto: una reciproca, folgorante distruzione delle rispettive strutture atomiche e delle grandi città, dopo di che gli eserciti tradizionali, in tute di amianto e piombo, cominceranno lentamente ad avanzare, eliminando pietosamente gli agonizzanti e imprigionando i superstiti.


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Tutti sanno questo. Da quarant’anni migliaia di scienziati, generali e politici lavorano a perfezionare questo progetto di distruzione contemporanea e totale sicché è assolutamente certo che in Russia e America hanno raggiunto in tal senso la perfezione: oramai sono in condizione nei giro di due minuti di colpire gli obiettivi essenziali del nemico ed essere annientati. Il tutto completamente computerizzato: all’essere umano non resta nemmeno il compito di premere il fatidico pulsante. Per gli esseri viventi i cervelli elettronici hanno calcolato esattamente il tempo di farsi la croce. In un giorno imprecisato di agosto Ciò premesso, per capire esattamente la situazione siciliana, valutare cioè il significato dell’impianto di missili nucleari in Sicilia, sarebbe opportuno immaginare (ma non ci vuole molta fantasia) la cronaca di quanto accaduto in

un giorno imprecisato dello scorso agosto, poco prima del mezzogiorno a Mosca, in uno dei misteriosi sotterranei del Cremlino (a prova di offesa atomica naturalmente, poiché i capi politici ed i massimi strateghi, siano essi duri capitalisti reganiani, oppure cupi marxleninisti, hanno provveduto per tempo e perfettamente alla loro incolumità e scamperebbero certamente all’apocalisse atomica, salvo poi essere impiccati dai vincitori o, alla meglio, essere divorati da qualche affamata banda di superstiti). Ebbene in quel mattino di quell’imprecisato giorno d’estate, al Cremlino si è riunito un vertice strategico al quale hanno partecipato ministri della guerra, marescialli e scienziati. Dall’Italia era arrivata notizia che erano stati concessi i primi appalti per la costruzione della base di missili nucleari a Comiso. La notizia precisava che gran parte

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degli appalti erano stati concessi a cavalieri del lavoro, siciliani e settentrionali, e questo particolare aveva fatto una grande impressione perché anche al Cremlino è giunta voce della straordinaria bravura e rapidità dei cavalieri nell’esecuzione delle opere pubbliche. Su una parete del grande salone sotterraneo moscovita si stendeva la mappa dei due emisferi sulla quale Comiso era indicata come un puntolino rosso e luminoso in mezzo all’azzurro del Mediterraneo. Comiso, un puntolino rosso La riunione è stata lunga e approfondita. Politici e militari sovietici hanno esaminato tutti gli aspetti della situazione, al fine di indicare esattamente quali obiettivi in terra russa i missili siciliani potrebbero eventualmente colpire e, viceversa, da quali basi sovietiche


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l’impianto di Comiso poteva essere raggiunto e distrutto nel più breve tempo possibile. Pare che dieci missili a testata atomica bastino. Da Messina a Capo Passero Si tratta di stabilire perfettamente traiettorie e rotte, roba che i sofisticatissimi congegni elettronici di punteria possono decifrare in pochissimo tempo. Comunque alla fine è stato deciso di affidare ad una équipe scientifi - co militare il compito di mettere perfettamente a punto entro due anni (cioè prima della costruzione della base sia completata) una struttura offensiva che da basi di terra o dal fondo del mare, per mezzo di sommergibili atomici, o forse anche dallo spazio dagli imminenti satelliti nucleari, possa concentrare su Comiso (guerra offensiva o reattiva non importa) un uragano nucleare in meno di novanta secondi.

Nei calcoli è prevista una approssimazione del dieci per cento, il che significa che, per avere la certezza di distruggere la base di Comiso nel raggio di dieci chilometri, viene prevista una distruzione dell’area circostante, per il raggio di cento chilometri. Vale a dire da Messina a Capo Passero. Circa trecento fra città e paesi e tre milioni di abitanti. L’équipe sovietica si è messa subito al lavoro. Scienziati e militari designati accoppiano la disciplina cieca del buon marxista alla paziente fantasia della gente russa. Tre milioni di siciliani In questo momento dunque in un laboratorio misterioso del territorio russo, c’è un team di tecnici e strateghi che sta lavorando esclusivamente a questo progetto: un sistema di offesa nucleare che, in meno di cento secondi, possa infallibilmente uccidere tre mi-

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lioni di siciliani in mezzo ai quali ci onoriamo di essere io che scrivo e voi che leggete, i nostri genitori, fratelli, figli, amici, ed anche le case dove nascemmo, le strade dove camminiamo, i nostri libri pazientemente raccolti, le fotografie di tre generazioni, il diploma di laurea, il libretto di risparmio, e tutte quelle altre infinite, minuscole, preziose cose che compongono la nostra vita. La morte sopra la testa Da quel giorno di estate, mezza Sicilia, quelli che siamo vivi e quelli che nasceranno, sarà costretta a vivere con questa ipotesi di morte atomica sopra la testa, un’apocalisse che forse non si verificherà mai e tuttavia niente esclude che possa accadere (anche per errore) da un momento all’altro in meno di cento secondi. Si sono appropriati di una parte di noi ed anche di una parte dell’amore per i nostri figli.


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“Un giorno accadrà che i nostri figli o i nipoti...”

Un giorno accadrà che i nostri figli o i nipoti che ancora debbono nascere ci guarderanno negli occhi con un sorriso sprezzante, e ci chiederanno: voi dove eravate quando fu deciso di costruire la base (di missili a Comiso e condannarci quindi a vivere una vita provvisoria. Vivere una vita provvisoria ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Come vi siete permessi di appropriarvi anche del nostro destino umano prima ancora che fossimo concepiti. Un essere umano afflitto da un’atroce inguaribile deformità, il quale apprende che il padre pur sapendo che sarebbe nato malato, deforme ed infelice, volle tuttavia egualmente farlo nascere, ha il diritto di sputare in faccia al padre. E mentre questa cosa terribile accade, la nostra massima reazione è stata una lamentosa protesta dell’assemblea regionale, i politici siciliani si sono intabarrati nel loro impaurito silenzio, i sindacati nazionali disposti a battersi furentemente per le “una tantum” sono rimasti in stato di ebetudine, migliaia di buoni ragusani hanno espresso soprattutto la loro preoccupazione

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sull’equo prezzo degli espropri per gli impianti militari, altri stanno febbrilmente organizzando qualche buona iniziativa commerciale, alberghi, villaggi turistici, balere, ristoranti tipici (da quelle parti si fa la migliore salsiccia del mondo). Mentre la cosa terribile accade Inutile indignarsi se da cento anni lo Stato italiano ci tratta da colonia. Per incapacità politica e per strafottenza popolare, troppo spesso meritiamo di esserlo. E invece sarebbe tempo che imparassimo ad essere finalmente padroni del nostro destino storico, specie quando esso coincide con una grande causa civile e umana.


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Michela Mancini, Gian Carlo Caselli, Giulio Cavalli, Nando dalla Chiesa, Max Vacirca, Michela Mancini, Norma Ferrara, Marcella Giammusso, Leandro Perrotta, Francesco Feola, Lorenzo Baldo, Pietro Orsatti, Antonio Mazzeo, Salvo Vitale, Rino Giacalone, Rino Giacalone, Irene Di Nora, Marina Brancato, Francesco Appari, Giacomo Di Girolamo, Francesco Ragusa, Giulio Pitroso, Attilio Occhipinti, Giorgio Ruta, Mauro Biani, Kanjano, Jack Daniel, Grazia Bucca, Fabio Vita, Antonello Oliva, Elio Camilleri, Diego Gutkowski, Enrica Frasca, Agata Pasqualino, Riccardo De Gennaro, Anna Bucca, Giovanni Abbagnato, Fabio D’Urso, Gabriele Licciardi, Roberto Nicolini, Antonella Giunta

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Giornata della memoria

Tra i 100.000 a Genova

A Genova il 17 marzo c’era anche chi della lotta alla mafia non ne sapeva molto. Un ragazzo di 25 anni che camminava sorridendo, lo sguardo vivo, a tratti disorientato: si perdeva a leggere gli striscioni, ma subito una bambina di 4 anni con una bandiera in mano rubava la sua attenzione. Camminava e sorrideva fra i centomila volti che formavano il corteo. A tratti guardava il mare, poi di nuovo, quella strada nuova, piena di passi così diversi da quelli fatti fino ad allora. Quando è arrivato davanti il palco, quei 900 nomi l’hanno zittito. Quasi non fosse all’altezza di tanto eroismo. Quando gli hanno detto, “allora sei dei nostri?” ha sorriso timidamente, abbassando la testa. L’ha rialzata pian piano, e già aveva meno paura. Michela Mancini

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Nel 1984 gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. E ora?

Un tempo, gli imprenditori siciliani non facevano pubblicità sui giornali antimafiosi. Perciò i giornali come I Siciliani alla fine dovevano chiudere. Nessun giornale può sopravvivere senza pubblicità, per quanto fedeli siamo i suoi lettori. Noi facciamo la nostra parte. Voi, fate la vostra. I Sicilianigiovani – pag. 96


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