I Siciliani - marzo 2013

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marzo/aprile 2013

I Siciliani giovani A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

Mentre i politici vecchi e nuovi si accapigliano, in Sicilia camminano i movimenti

Utopia? E chi lo sa

Ci vuole un altro Pertini. E forse c’è

Questo

sarebbe un governo!

Cavalli ANTICORPI ALLA MAFIA Caruso e Romeo CINQUE CHILOMETRI DI PACE Sammito LA RESISTENZA ROSA Capezzuto COSENTINO NON DIMENTICA Baldo LA FALANGE E LA TRATTATIVA Lentini HOLDING ‘NDRANGHETA Giacalone IL PREFETTO ANTIMAFIA Cafeo I LUCCHETTI DI MESSINA Pisciotta PERIFERIE Iacopino TEATRO VALLE Ferrara AL NOSTRO POSTO De Gennaro IL CAOS JACK DANIEL Orsatti CHI DIVORA I MOVIMENTI Vitale PEPPINO E IL ‘77 “MAMMA” Abbagnato A PALERMO SI SPARA Gutkowski IL BOSONE DI HIGGS Vita L’EURO IL DOLLARO E IL BITCOIN

Dalla Chiesa/ L’Italia che non si squaglia

Caselli/ Quelle parole false

ebook gratis Antonio Roccuzzo Giuseppe Fava e il ministero dei ragazzi


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facciamo rete http://www.marsala.it/

I Sicilianigiovani – pag. 2


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Le due Italie

C'è un'Italia-cicala che non riesce a risolvere neanche i problemi più elementari (chiudere Berlusconi e Monti, dare una prima risposta alle grida drammatiche della Nazione) e si contorce e s'accapiglia, in preda alle ideologie più disparate, pur di non dire il banale “uniamoci e mettiamoci al lavoro”. E c'è un'Italia-formichina che umilmente lavora, va nelle piazze, ride, fatica ogni santo giorno per vivere un po' meno peggio, per vivere un poco di più.. L'Italia-cicala... non facciamo nomi: è l'Italia “politica”, vecchia e nuova. L'Italia-formichina? Eccola qua. In queste povere pagine, costruite con sacrificio e con passione, c'è l'Italia dei senzapotere, dei poveri, di quelli che fanno tutto e non sono calcolati da nesuno. Leggete con intelligenza, con attenzione. Non limitatevi agli articoli - pensate anche agli autori. Ci sono i vecchi compagni, quelli che han combattuto con Peppino Impastato e Pippo Fava. Ci sono i ragazzi che lottano, con trent'anni di meno ma identico animo e cuore, esattamente per le stesse cose. Bersani, Grillo, Napolitano, Monti... Vaffanculo! Ma sì, per una volta diciamo la malaparola anche noi. Saranno grandi politici, avranno il paese in pugno, ma noi abbiamo i ragazzi del Clandestino. Dispersi sulla faccia del mondo, studenti precarissimi a Torino, ragazze pacifiste a Niscemi, camerieri a Roma – li trovi tuttavia dappertutto, sorridenti, non domi. Questi sono i nostri “politici”, questo il nostro “partito”. Nel chiacchericcio dei notabili, nel brusìo egocentrico di vecchi e nuovi rancori, il loro passo leggero si sente appena. Ma è l'unico che percorre l'avvenire. Nei quartieri a Catania, all'università di Milano, nei vicoli militarmente occupati dal Sistema a Napoli, loro e non altri portano la vecchia idea libertaria del cuore e della ragione. Gobetti morì solitario (o Peppino, o Giuseppe, o uno dei tanti viandanti di questa strada), ma alla fine la libertà arrivò. Con quella generazione che la sua vittoriosa sconfitta aveva saputo illuminare. I Siciliani

DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119 I Sicilianigiovani – pag. 3


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I Sicilianigiovani MARZO-APRILE 2013

numero tredici Questo numero

Le due Italie I Siciliani Parole false contro la giustizia di Gian Carlo Caselli L'Italia che non si squaglia di Nando dalla Chiesa

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Polis

Ci vuole un altro Pertini. E forse c'è Attenti al Sistema di Riccardo Orioles Anticorpi contro la mafia di Giulio Cavalli Fava e il ministero dei ragazzi di Antonio Roccuzzo 5 km di pace di Giovanni Caruso/ foto di Alessandro Romeo Niscemi/ Resistenza rosa di Daniela Sammito Tunisi/ “Futura umanità” di Anna Bucca Messina/ Lucchetti anti-primavera di Tonino Cafeo Al Teatro Valle va in scena l'avvenire di Bruna Iacopino Donne antimafia di Norma Ferrara

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Mafie

RIEPILOGANDO Oltre al solito mensile (questo che state leggendo, e che spariamo di portare in edicola prima o poi), adesso facciamo anche una specie di foglio, una coserella senza pretese, che un vecchio tipografo ci stampa e i ragazzi distribuiscono in giro per le città. Come sempre nella storia dei Siciliani, le lodi e la solidarietà sono tante ma gli aiuti concreti pochi. E, come sempre, noi andiamo avanti lo stesso. Questo è un altro piccolo passo avanti. In tempi di cicale, servono ancor di più le formichine.

Le stragi, la trattativa e la Falange di Lorenzo Baldo Transcrime di S.Manisera, C.Racioppi e V.Raffa Ombra nera sull'Abruzzo di Alessio Di Florio Emilia terra di mafia di Salvo Ognibene Periferie di Domenico Pisciotta Antimafia al Nord di Rosaria Malcangi e Andrea Zolea Cosentino non dimentica di Arnaldo Capezzuto

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Inchieste

Napoli/ Curarsi dentro il Vesuvio di Pier Paolo Milanese Catania/ Università: il nuovo e l'indagato di Salvo Catalano Partinico/ Che cosa ci aspetta di Pino Maniaci NoTerna: comitati in ordine sparso di Carmelo Catania Sole, vento e mafia di Carmelo Catania Holding 'ndrangheta: l'affare sanità di Rocco Lentini

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SOMMARIO DISEGNI DI MAURO BIANI Satira

Mamma! a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani

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SocietĂ

Memoria di Gabriella Galizia Trapani e il prefetto antimafia di Rino Giacalone Catania: Il saccheggio dell'Antico Corso di Experia Un giornalista col vizio della notizia di Norma Ferrara Matilde il call center e la delocalizzazione di Vincenzo Rosa

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Il Clandestino

La bellezza di fare un giornale di Enrica Frasca Caccia Il compleanno del Clandestino

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Storia

La strage di Palermo di Elio Camilleri

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Storie

Protocollo di democrazia Jack Daniel

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Politica

Il distruttore di movimenti di Pietro Orsatti Dove il caos non paga di Riccardo De Gennaro "A Palermo si riprende a sparare" di Giovanni Abbagnato

66 69 70

Pianeta

L'euro, il dollaro e il bitcoin di Fabio Vita

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Scienze

Il bosone di Higgs di Diego Gutkowski

74

Percorsi

Peppino e il '77 di Salvo Vitale

78

Luoghi

Le mimose di Bucarest di Miriana Squillaci Lavora e diventerai come noi (forse) di Attilio Occhipinti E ti senti per sempre un po' cambiato di Beniamino Piscopo Nord e Sud di Tito Gandini

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Il filo

Le guerre dei siciliani di Giuseppe Fava

Un ebook in omaggio con questo numero

Dario Vicari La mafia e la plebe

La psicoterapia e la violenza rimossa della politica in Sicilia

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mobi epub pdf

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Neolingua

Parole false contro la giustizia di Gian Carlo Caselli

Nella crisi e sofferenza profonde che caratterizzano l’attuale stagione politica italiana una parte importante hanno le “parole”, la perdita del loro significato comune, il loro uso distorto o deviato. Quando si tratta di legalità e di giustizia, le parole più frequenti – ormai - sono quelle malate o false. Sintomo di un malessere grave Sono parole malate (elencarle comporta un esercizio di… masochismo) quelle usate per denigrare i magistrati definendoli faziosi, matti, cancro da estirpare, associati per delinquere, disturbati mentali, antropologicamente diversi dal resto della razza umana, figure orribili e inique, peggiori del fascismo, maledetti dal Vangelo... Parole malate che sono sintomo di un grave malessere della politica, in quanto favoriscono - sfiduciando pregiudizialmente un’istituzione fondamentale dello stato - la desertificazione delle coscienze. Parole, quindi, che se possono andar bene a qualcuno per un comizio o per vincere una partita politico-giudiziaria, sono comunque causa di gravi perdite per tutti, a destra come a sinistra, perchè

contribuiscono a deteriorare il senso morale del nostro Paese. E così una società non regge. Poi ci sono le parole false: accanimento, persecuzione giudiziaria, politicizzazione dei magistrati, teoremi, uso della giustizia per fini politici, complotti, partito dei giudici, golpe, giacobinismo, giustizialismo, toghe rosse... Fino alle recentissime accuse di processi fatti solo per mettere qualcuno alla gogna massmediatica senza preoccuparsi più di tanto degli esiti.

*** Parole false, perché basate sul nulla (se si facessero finalmente parlare gli atti e i documenti: tacerebbero le bufale propagandistiche), ma ripetute con tanta ossessiva frequenza, impiegando le stesse tecniche pubblicitarie dei detersivi, che alla fine uno finisce per crederci o per subirle con rassegnata passività, accettando di usarle nel linguaggio corrente. Perché questo impiego massiccio, scientificamente organizzato, di parole false? Innanzitutto per squalificare chiunque osi dissentire dal “pensiero unico”, marchiandolo d’infamia ed espellendolo dal

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campo di gioco. Poi per impedire qualunque confronto serio sui problemi della giustizia, riducendo tutto ad una spirale soffocante di luoghi comuni, slogan e falsità. Infine perchè parlare del falsamente presupposto colore delle toghe (rosso o azzurro) aiuta a non parlare dei problemi veri. Che sono poi questi: chi è accusato di corruzione, ha corrotto o no ? chi è accusato di aver avuto rapporti con la mafia, è stato o no colluso? Insomma, hanno corrotto o no? Ma le parole false servono soprattutto per delegittimare e scoraggiare i magistrati che abbiano la “sfortuna” di doversi occupare di certe materie. Si sa bene che a forza di calunniare, qualcosa alla fine resta sempre. E diventa sempre più sfumata la linea di confine fra aggressione ed intimidazione. Mentre si consolida il teorema (che le parole false hanno introdotto) secondo cui giustizia giusta – quando si tratta di imputati che contano – è quella che assolve; mentre quella che osa indagare o addirittura ( a volte capita...) condannare è giustizia ingiusta, giustizia iniqua, da bollare con campagne mediatiche feroci.


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Società civile

L'Italia che non si squaglia di Nando dalla Chiesa

Firenze, con Libera, il primo giorno di primavera. Dovevate esserci per capire le ragioni vere della forza delle mafie. “Mio padre era maresciallo dei carabinieri. Venne ucciso in piazza mentre il suo superiore prendeva il caffè con il boss e per non restare coinvolto nella sparatoria tirò giù la serranda del bar. Quando l’Arma, dopo un’indagine interna, punì il superiore con un trasferimento, il consiglio comunale gli manifestò invece ufficialmente la sua gratitudine”. “Cercavo protezione per mia figlia contro quei delinquenti. Chiesi al maresciallo di potergli parlare. Mi diede appuntamento di notte in una piazzola della superstrada ma non venne. Poi mi fece sapere di stare attenta, era meglio lasciar perdere, quei tipi erano pericolosi”. “Dopo le intimidazioni e gli attentati con cui cercavano di fermare la mia azione di sindaco, chiesi al prefetto più attenzione per quel che stava accadendo. Lui mi disse che davanti al mio portone non sarebbe stato acceso nemmeno un cerino. Un cerino no, ma la bomba che uccise mio padre sì”. Massimiliano e Maria Rosaria persero il padre Domenico Noviello, imprenditore con la schiena diritta, grazie a un oculista di Pavia che dichiarò la cecità del killer di camorra facendolo uscire dal carcere. Tracimano di queste

viltà i racconti che si inseguono il venerdì pomeriggio. La zona grigia, la vigliaccheria, la corruzione, la paura. La vera montagna che fa la differenza nella lotta contro la mafia. Una comunità sempre più grande Sono una comunità sempre più grande, i familiari. Perché i poteri criminali uccidono tutti gli anni. Perché c’è sempre chi decide di venire per la prima volta, come Cristina, la figlia di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nell’83, appunto trent’anni fa. Perché c’è sempre qualcuno che prova a portare qui la sua domanda di giustizia dopo essersi viste sbattere in faccia tutte le porte del mondo. Centinaia di storie, un’infinità di umiliazioni come medaglie, che si fanno pezzo insanguinato ma dignitoso e indomito della più vasta storia d’Italia. Una società che non si piega Nomi e cognomi che intessuti insieme danno l’idea di uno Stato in cui credere, di una società che non si piega al denaro e alla convenienza. Recitati insieme, tra le strade e i monumenti del più grande Rinascimento della cultura occidentale. Le bandiere lilla, gialle e arancioni galleggiano sul fiume immenso di giovani. Si è raccolta un’umanità speciale: Bettina Caponnetto, la vedova novantenne del grande giudice

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fiorentino, che sul palco sembra una regina, Cesare Prandelli che applaude con umiltà l’elenco delle vittime, figli che fissano muti negli occhi i padri o le madri al suono del “loro” nome, gli amministratori coraggiosi riuniti in “Avviso Pubblico”, quella irripetibile combinazione di lutto e di gioia che scoppia puntuale a questo appuntamento. Ecco in che cosa credere Ecco in che cosa credere, questa è materia che non si squaglia. Non percentuali di voto che vanno e vengono, non cariatidi in cerca di potere o rivoluzionari che guardano il proprio ombelico. Ma l’Italia che non si è voltata dall’altra parte. Sono i suoi valori, riassunti da centinaia di nomi, a dire ciò in cui si può credere, come hanno deciso di fare ieri le centocinquantamila persone arrivate da ogni parte d’Italia, ragazzi partiti in pullman alle quattro di notte, venuti a Firenze non per vedere la città, ma per esserci. Convinti che le bandiere della giustizia, della Costituzione e della lotta alla mafia siano quelle che vale la pena di tener sollevate. Sono loro che senza volerlo ripetono ai ciechi e agli orbi quel che Neruda rispose in poesia quando gli chiesero perché non parlasse delle nevi e dei vulcani del suo paese natale: “venite a vedere il sangue per le strade/ venite a vedere il sangue per le strade/ venite a vedere il sangue per le strade”.


Politica

Ci vuole un altro Pertini. E forse c'è Cinquant'anni fa di questi tempi avevamo il governo più fascista che ci sia stato fra Mussolini e Berlusconi, un centrodestra Dc-Msi che per prima cosa provvide a “revisionare” - come si dice ora – la storia italiana facendo occupare Genova dagli ex repubblichini di Salò. Genova insorse e anche nel resto d'Italia ci furono manifestazioni contro il governo. Nel sud si mescolarono con quelle per l'acqua e per l'occupazione. La polizia, in perfetto stile sovietico (ma i comunisti qui erano gli sparati) , sparò sulla folla in diverse città: a Reggio Emilia uccise cinque operai, a Licata (Agrigento) restarono per terra venticinque manifestanti (un morto), a Palermo furono uccisi un anziano sindacalista, un precario diciottenne e una donna che stava alla finestra. A Catania massacrarono un ragazzo a manganellate (Salvatore Novembre, 19 anni) e lo lasciarono a morire in piazza Stesicoro, dove ora la gente passeggia senza sapere. Nei giorni successivi il governo crollò, travolto dalle proteste (allora la gente si ribellava). Ma al sud e specialmente in Sicilia la vita rimase quelle di prima, cioè disoccupazione e miseria e mafia per i contadini: mancava ancora un sacco di tempo per il Sessantotto.

***

Da allora molte cose sono cambiate e alcune sono rimaste le stesse. La polizia, dopo Falcone e gli altri, non sparerebbe più sulla folla. Ci sono più telefonini, ma meno allegria. Lavoro continua a non essercene, e ora non solo al sud. Invece c'è sempre la mafia, che ha ancora più amici nei partiti di governo. E proprio a questo proposito, c'è una differenza importantissima: adesso,della mafia, nessuno fra i politici si accorge più. Allora i partiti di sinistra (i “socialcomu nisti” che poi si scissero, uno al governo l'altro all'opposizione: ma sempre restando di sinistra fino a tutti gli anni'70), se una cosa sapevano, è che con la mafia non si discute e che la mafia sempre si combatte.

Persero più di cento compagni (un'altra cosa che ora non vi raccontano) combattendo i mafiosi, fra il '43 e gli anni Sessanta. Avevano mille difetti, ma non di fare compromessi coi mafiosi. E ora? Adesso lo vedete: condannano un politico fondamentale (un fondatore di Forza Italia, un braccio destro di Berlusconi) per mafia, e una settimana dopo tutti se lo sono già dimenticato. Non è che non protestino, non facciano begli articoli, non siano – per alcuni giorni – virtuosamente indignati: ma tutto si ferma lì. Poi arriva la “politica” dei politici, e tutto ritorna normale. Per ora, nella sinistra “normale”, fervono le trattative e le avances (allearsi con Fini? con Micciché in Sicilia? con Calderoli e Bossi?), con strategie complessissime, degne di Sun Tzu o Napoleone. Peccato che falliscano sempre. E quanto agli assetti interni: chi sarà il candidato finale, alle elezioni? Bersani, Vendola? Di Pietro? Oppure - tocchiamo ferro – un D'Alema o un Veltroni? O l'abilissimo Letta? E chi appoggiato da chi, che schieramenti interni, che alleati? Manovre complicatissime, degne di Giulio Cesare o Machiavelli. E anche queste regolarmente finiscono col pugno di mosche in mano. Finirà che dalla crisi verrà fuori un governo Tremonti (che in effetti c'è già) o un Tremonti-Fini, o un Fini-Calderoli-allargato (tutto è possibile) o... E tutto, in nome dell'emergenza, con l'appoggio pià o meno esplicito della sinistra. Da un canto è divertentissimo vedere gli schieramenti che si compongono, le congiure reciproche, i tradimenti dei ras (non a caso fra poco è venticinque luglio...); dall'altro, noi popolo di ogni giorno in tutto ciò non ci guadagniamo proprio niente. Rischiamo un governo Berlusconi senza di lui, che duri altri vent'anni e che sia sempre e altrettanto padronale. Un otto settembre che duri vent'anni.

*** || www.ucuntu.org || 05 luglio 2010 ||

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Quanto a noi, che di “politica” non ne mastichiamo, abbiamo poche idee e tutte fuori moda. Primo, coi mafiosi non si tratta, neanche per un istante. Secondo, se governo di emergenza ha da esserci, che sia di emergenza vera, e cioè in primissimo luogo antimafioso. Abbiamo un candidato, persino (a sua insaputa, ovviamente...), ed è un giudice antimafioso. Volete un governo unitario, che gestisca il dopo-Berlusconi e prepari (diciamo, nel giro di un anno) le elezioni? Benissimo. Eccolo qua. Caselli. A Berlusconi (e a Dell'Utri) non va bene, ovviamente. Ma a tutti glialtri? E' democratico. E' settentrionale. E' anche siciliano, in un certo senso. Non è di destra. Non è di sinistra. E' più istituzionale della carta bollata. Non si è mai immischiato di politica (a volte la politica se l'è presa con lui) e hs sempre fatto seriamente ed efficacemente quel che l'Italia gli chiedeva, combattere i terroristi o stangare i mafiosi. E' giovane e pimpante, soprattutto, almeno quanto Pertini. E infatti rischierebbe d'essere proprio un altro Pertini. Chi ha paura di un altro Pertini? Chi ce lo farebbe, un pensierino? Riccardo Orioles

ISTITUZIONI LETTERA DI UN MAGISTRATO Catania, 29 giugno 2010 Al Sig. giudice Dott. Mariano Sciacca Sez.commerciale del Tribunale di Catania

Permettimi auspicare da cittadino come farei da magistrato se fossi ancora in servizio che nell’imminente rinnovo del CSM elettori e coscienza pubblica possano conoscere il tuo pensiero di candidato circa la situazione giudiziaria della nostra Catania: se tu la ritenga normale nonostante le vicende riferibili all’area mafiosa di S. G. La Punta o invece bisognevole per tali fatti e per altri di accertamenti ministeriali e di misure dell’organo di autogoverno. Giambattista Scidà


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Politica

Attenti al Sistema Si accapigliano per il governo. Ma i governi in realtà sono due di Riccardo Orioles

ni italiani di poveri se ne sono aggiunti mediamente 615 nuovi. Non parliamo dei lavoratori immigrati perché questi, per unanime decisione di tutti i partiti vecchi e nuovi., nelle discussioni politiche non devono nemmeno essere nominate. Chi comanda davvero

Mentre ferveva il dibattito sul finanziamento ai partiti, a marzo il megamanager Fiat Marchionne s'è aumentato la paga del 47,7 per cento, portandola a 7,387 milioni di euri, più azioni per un valore di 7,2 milioni. Praticamente nessuno ne ha parlato. A febbraio, i magistrati di Torino hanno verificato l'esistenza di un immenso patrimonio clandestino "in capo al defunto Giovanni Agnelli, le cui dimensioni e la cui dislocazione territoriale non sono mai stati compiutamente definiti". Fra Liechtenstein (Celestina Co. Limited), Jersey (Triaria Investments), Isola di Man (Delphburn Limited), Zurigo (Morgan Stanley) e altri "paradisi" si parla di valuta e beni per circa 1,166 miliardi di euri. Praticamente neanche di questo s'è parlato. Infine, pochi giorni fa, a Vito Nicastro, un prestanome del boss Messina Denaro, è stato confiscato un tesoro di 1,3 miliardi di euro. Di questo - trattandosi di mafiosi almeno per qualche giorno s'è parlato. Meglio tardi che mai, visto che l'inchiesta su Nicastro di Giorgio Ruta su i Siciliani giovani era uscita nel dicembre 2011. Nessuno di questi tre casi ha avuto la benché minima eco nel dibattito "politico" in corso. Quanto costa il buffet del Senato? Chi paga il tempo libero dei galoppini? Chi farà il questore alla Camera, un rivoluzionario grillino o un inamidato del piddì? Tutti problemi giustissimi, per carità. Ma l'Italia sta andando in malora guarda le cifre sopra - per altre cose. "Andare in malora" vuol dire che oggi, stando a Confcommercio, ai quattro milio-

I governi in Italia in realtà sono almeno due. Uno si vede, e non conta niente. Gli altri, che non si vedono, hanno l'Italia in mano. Legali (Marchionne, Agnelli) o illegali (Cosa Nostra) che siano, hanno in comune il fatto di fare solo i loro interessi, e di non dare conto a nessuno. Di essi probabilmente Cosa Nostra è il più feroce, ma questo è un dettaglio etico: ai fini pratici, cioè dell'impatto sulla nostra (di noi poveracci) umile vita quotidiana sono più o meno la stessa cosa. La vita quotidiana dei politici - vecchi e nuovi - è però un bel po' diversa dalla nostra. Per cui si possono permettere il lusso di giocare a Risiko fra di loro - Lìder contro Lìder, armate gialle contro armate rosse – mentre noi li stiamo a guardare a naso all'aria, chiedendoci fantozzianamente quando si decideranno a darci un governo (lo potrebbero fare anche subito, se fossero meno superbi) che ci liberi il groppone da quella gente. Balanzon, Pantalon, Capitan Spaventa Non so se è Commedia dell'arte o se è l'Opera dei Pupi. C'è Balanzon-Bersani e Grillo-Capitan Spaventa. Non manca (Napolitano) Pantalone, né Gano 'u traituri, che sarebbe il buon Renzi. “Distruggeremo il sistema! Noi soli! Abbasso tutto!”. “Sciòrbole! Ma il grande Ippocrate l'era minga d'acordo!”. “Ghe pensemo noi veci, portèe pasiensia...”. “Io, io, io!”. Allegria, la musica continua, si va avanti.

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Ma davvero “hamo scherzato”? Finora, i risultati sono questi: Berlusconi che stava affogando è tornato a galla, salvato dieci anni fa da D'Alema e ora da Grillo. Monti, cacciato a fischi e pernacchie, è tuttora al governo. Si doveva rinnovare la politica, e difatti eccoli là Violante e Quagliarello (e ai bordi del campo si scaldano Tutankamon e Amato). S'è votato a gran maggioranza per la svolta, e siamo più impantanati di un camion di calcestruzzi quando piove a Messina. “Hamo scherzato”, si direbbe a Roma. Qua nella capitale... Qua nella capitale (che ormai è Catania, per come stanno messe le cose) debbono fare il sindaco. O Bianco (centrosinistra), cioè privatizzazione dell'acqua e legnate agli studenti (a Napoli, dieci anni fa, anticipò il G8); o una signora Adorno, portavoce grillina, mai vista qua nei quartieri, mai parlato di mafia. Mai esistito Scidà, mai visto Giuseppe Fava. La mafia, sì. Dei tre partiti, uno (Dell' Utri,) non è lontano da essa. Uno (Pd) ha avuto, ma molti molti anni fa, Pio La Torre. Il terzo (M5) è inaffidabile (“Qua mafia non ce n'è più, ormai è tutta al nord!”) e non capisce nemmeno la differenza fra un (mediocre) giudice antimafia e un (pimpante ed efficientissimo) non nemico dei mafiosi. Berlusconi il golpista Si può nominare Pertini? O – visto che che la P2 ora è ufficiale, e che Berlusconi il golpista è una forza politica come le altre – Pertini oramai è vietato? E' vietato, sì, multa a chi sgarra. Niente parlare di Pertini o Berlinguer, amici miei, sennò poi la gente magari fa paragoni, e questo ai politici di ora non fa piacere. Ma voi pensateci a Pertini, pensateci lo stesso.


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Movimenti

Anticorpi contro la mafia al Nord Facciamo rete, organizziamoci, superiamo i confini della testimonianza. Indichiamo referenti con potere legislativo, testimoni attivi nella magistratura, interpreti responsabili nell' imprenditoria. Mettiamo l'interesse pubblico prima di quello privato di Giulio Cavalli C’è una frase di Pino Maniaci che mi colpisce profondamente. Pino è così: vola con leggerezza dai giudizi più sprezzanti fino alle considerazioni più intime che meritano di essere al più presto collettive. Diceva, durante un suo incontro con i ragazzi su Milano, “dovete stare attenti, perché in Sicilia abbiamo il virus ma anche gli anticorpi, qui il virus è arrivato, ma non avete ancora gli anticorpi”. I corpi estranei alla Costituzione Gli anticorpi, appunto: ho passato serate a spaccarmici la testa, sugli anticorpi, su queste proteine umanoidi che dovrebbero neutralizzare i corpi estranei alla legge e alla Costituzione riconoscendone ogni determinante antigenico. E’ possibile? mi chiedevo. Come impiantarceli qui dove la malattia è in incubazione continua mentre la devastazione è in corso d’opera? Forse (è una mia umile considerazione personale) facendo rete (sì, ce lo siamo detti mille volte e tutte le sante mille volte abbiamo applaudito) ma diversamente da come lo stiamo facendo.

E’ un’autocritica certo (mica un rimestamento di macerie), ma è un fatto visibile e evidente che l’antimafia sociale, culturale e dell’associazionismo viaggi ad una velocità (colpevolmente) troppo diversa e troppo slegata da quello che accade là dentro dove i cambiamenti cambiano per davvero le cose: centinaia di insegnanti spendono energie e tempo per organizzare incontri di alfabetizzazione sulle mafie ma la scuola intanto resta inerte (quella dell’Aprea, della Gelmini, di Comunione e Liberazione e di Formigoni, per intendersi, quella terribile idea di scuola tutta minuscola come servizio obbligatorio per adempiere stancamente ai doveri della Costituzione), decine di amministratori si incontrano per scambiarsi esperienze e buone pratiche su riciclaggio e gioco d’azzardo ma la Regione (e il Parlamento) si ridestano al massimo un secondo solo per congratularsi in carta bollata, invitiamo testimoni di giustizia a raccontarsi mentre abbiamo un programma di protezione testimoni che viene smantellato quotidianamente, applaudiamo nelle serate gli uomini della Catturandi mentre ci raccontano l’ultimo arresto dell’ultimo latitante e intanto le forze dell’ordine scivolano nel volontariato per

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terminare le indagini. Queste e molte altre discrepanze (usiamo un eufemismo, va') testimoniano le maglie troppo larghe di una rete che non riesce a contenere. Indicare referenti certi Stringersi, forse. Servirebbe stringersi per rendere più palesi (e leganti) le responsabilità di tutti i nodi. Avere il coraggio, stretti, di indicare referenti certi con potere legislativo, testimoni attivi nella magistratura, interpreti responsabili nell’imprenditoria, in un’attività di “lobby” nell’accezione positiva: tre o più persone che si occupano dell’interesse pubblico danneggiando (anche, se serve) l’interesse privato. Una sorta di 416 quater che non sia un delitto ma un dovere di anticorpi. Costa, lo so, non è facile: richiede un’esposizione a tutto campo che superi i confini della testimonianza. Eppure l‘antimafia non può restare sospesa, non è credibile nei mezzi toni di una scala con un estremo buio; richiede luce, vita, scelta e politica. Da che parte stare: essere partigiani e non tollerare indifferenze.


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Movimenti

La memoria di Fava e il ministero dei ragazzi Da qui al 5 gennaio 2014 (anniversario del delitto Fava), tutte le scuole italiane potranno studiare le cose dette e scritte da Pippo Fava, faranno lezioni con esperti, scriveranno articoli, gireranno video, scatteranno foto... di Antonio Roccuzzo In una stanza di un palazzone romano di viale Trastevere è successo un piccolo “miracolo” civile. La parola – mi rendo conto da ateo convinto - va fin troppo di moda, dopo l’irruzione in scena di papa Francesco, ma qui non c’è nulla di cattolico, state tranquilli. Anche se di miracoli così ce ne sono tanti tra le pieghe nascoste d’Italia e molti altri ne dovrebbero accadere. È accaduto, e io ne sono stato testimone, che il ministero dell’istruzione ha firmato un’intesa con la Fondazione Giuseppe Fava. Elena Fava, la figlia del giornalista ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio 1984 e mio maestro di giornalismo, e la professoressa Giovanna Boda, responsabile del dipartimento dello studente del Miur, hanno messo la firma sotto sette fogli di carta. “Da oggi ci siamo alleati”, ha detto una sorridente “burocrate” che non ha nulla di burocratico nei toni e nelle parole. Il miracolo è questo: 30 anni (quasi) dopo l’assassinio di Fava un pezzettino dello Stato si è accorto di questo luogo della civiltà italiana, la Fondazione Fava, e le ha porto la mano, facendo proprio questo “esempio civile”. Per fare iniziative e cultura insieme, mettendo tutte le

scuole italiane nella condizione di ricordare (senza retorica) un cronista ucciso dal potere politico-mafioso siciliano e italiano. Non era mai successo finora, non c’era stato nessun brandello di Stato (tribunali a parte) che, dal 1984 a oggi, avesse dato questo segno concreto di voler tutelare questa memoria e di darle lo spazio di esprimersi uscendo dai suoi confini. Tutte le scuole italiane In cosa consisterà questa “santa” e civile alleanza? Accadrà che da qui al 5 gennaio 2014 (anniversario del delitto Fava), tutte le scuole italiane potranno studiare le cose dette e scritte da Pippo Fava, faranno lezioni con esperti, scriveranno articoli, gireranno video, scatteranno foto. Fava ha scritto: “A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?”. Lo faceva dire a un suo personaggio nella commedia “la Violenza”. E questo fu lo spirito del giornale, lottare per la verità, che animò la redazione dei ragazzi de “I Siciliani”, la rivista che Fava fondò nel 1982 dando l’occasione di imparare un mestiere liberamente (e come si potrebbe farlo senza?) a una decina di ragazzi italiani.

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Per me e per gli altri compagni di quella bella e dura avventura giovanile fu l’attimo fuggente, l’occasione di provare a scrivere ed esprimersi liberi. Un privilegio per un cronista italiano, una grande scuola di vita e una splendida bottega dove apprendere un mestiere. Ecco, lo spirito di questa alleanza tra Fondazione Fava e Miur è proprio questo: dare ai ragazzi italiani l’occasione di studiare (fuori dai testi) la figura di un giornalista libero, un grande educatore civile, un appassionato cronista. “Apri la finestra sulla tua città e racconta dove vedi traccia di mafie”. Sarà questo – più o meno – il titolo del bando intitolato a Fava e l’Ansa.it accoglierà i lavori delle scuole che aderiranno al bando del Miur. Poi, a gennaio, Catania diventerà capitale delle scuole italiane. Come Palermo per il 23 maggio. Perché i miracoli civili hanno i loro esempi e i loro nomi da proporre per far camminare le idee. Ragazzi di tutte le scuole d’Italia, datevi da fare a scrivere. Fava avrebbe creduto in voi. Come – 30 anni fa – credette in me, in Claudio, in Michele, in Elena, Rosario, Riccardo, Sebastiano, Lillo, Fabio e in tutti quelli che sono venuti dopo.


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cinque chilometri di pace Niscemi 30 marzo

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30 marzo a Niscemi

Il giorno della pace di Giovanni Caruso

Il verde dei campi che si unisce all'azzurro cielo. Le tante voci colorate dei dialetti di tutta Italia. Il colore dei suoni e del vocio gioioso, di chi vuole pace e diritti... Insomma, colori di ogni tipo che contrastano, con il freddo acciaio delle antenne della istallazione americana. Oggi a Niscemi, è festa! "Si! caro signore, lei racconta oggi, con parole poetiche, ma oggi è come il 25 aprile, il giorno delle resistenze! O il primo maggio, la festa del lavoro contro i vecchi e nuovi sfruttamenti. Oggi noi donne madri, contro il Muos, siamo qui a resistere per difendere Niscemi, i nostri figli e tutte le mamme del mondo che vedono morire i loro figli e figlie a causa di guerre assurde che servono ad arricchire i mercanti di armi e l'occidente". Ma cosa accadrà, con il nuovo governo del presidente? "I comitati NoMuos hanno raggiunto un primo importante successo, il governatore Crocetta ha revocato le autorizzazioni concesse dal suo predecessore ed ex alleato Lombardo. E’ una mossa dettata dalla necessità di mantenere in piedi la sua giunta o da sincera convinzione? La storia ce lo dirà, adesso possiamo solo aspettare la risposta del governo americano, sempre in guerra con il "terzo mondo" più povero. Quale sarà la loro reazione? Chi avrà ragione? Noi che resistiamo per i nostri diritti, o la grigia e vecchia politica dei potenti, che potrebbe far sbiadire i mille colori sparsi in questi cinque chilometri di pace?"

foto di Alessandro Romeo

ALTRI GIORNI DI LOTTA 5 APRILE LA CAROVANA ANTIMAFIA Il programma a Catania: alle 9.30 davanti alle Zagare incontro coi lavoratori delle aziende confiscate Aligroup e Riela, a cura della Cgil; a mezzogiorno a piazza Verga (lato Excelsior) ricordo di Pierantonio Sandri, mentre contemporaneamente nel Tribunale di fronte si svolge la seduta del processo di Appello); alle 16 al call-center "Almaviva" di Misterbianco, convegno sul Lavoro a cura dell'Arci e del Presidio; alle 19 festa & cena a Librino al campo S.Teodoro.

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di giro�

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Mamme NoMuos

Niscemi: Resistenza rosa di Daniela Sammito

Le mamme lo chiamano MUOStro e sono decise a sconfiggerlo a tutti i costi, con tutta l'irresistibile potenza dell'istinto con cui ogni donna difenderebbe il proprio piccolo in pericolo. Dopo i fatti della notte tra il 10 e l'11 gennaio - quando i ragazzi che presidiano giorno e notte la Sughereta, intervenuti a bloccare l'accesso alla base di una gigantesca gru, furono respinti a manganellate dalle forze dell'ordine, un gruppo di mamme di Niscemi decise di costituirsi in comitato. Con la nascita del Comitato delle Mamme NoMuos, la battaglia contro l'eco-mostro di Niscemi e le azioni di resistenza contro la militarizzazione della Sicilia ha assunto una vitalità irresistibile. Davide Floridia, attivista NoMuos di Modica, ha trascorso un mese al presidio e descrive così il primo incontro con le Mamme: “E' stato bellissimo quando sono arrivate le mamme, qualche giorno dopo il passaggio delle gru. Per noi è stato un giorno di primavera. Hanno portato l'armonia, l'ascolto. Il loro gruppo è cresciuto tanto e noi siamo stati spesso con loro alle assemblee in piazza”. Una primavera “rivoluzionaria” Ma di primavera qua si può parlare anche in un altro senso, quello che rende il termine sinonimo di rinnovamento, anzi di rivoluzione. Perché la carica rivoluzionaria nelle parole delle mamme NoMuos è innegabile: “Ogni giorno lottiamo per garantire ai nostri figli ciò di cui hanno bisogno. E adesso lotteremo per tutelare la loro salute e il loro futuro. Questa battaglia è la nostra principale forma di libertà, il nostro modo di sentirci veramente libere”. Così Marisa Di Corrado - niscemese, madre di tre ragazzi - racconta la sua decisione di aderire al comitato.

E aggiunge: “Educherò i miei figli a difendere i loro diritti. Questa è l'eredità che lascerò loro”. “Le donne devono imparare a reagire conclude - Non devono più subire. Davanti a ciò che non funziona, bisogna cominciare a denunciare, a parlare, a fare qualcosa per cambiare la situazione”. Qui e dappertutto. Le mamme provengono da percorsi di vita differenti - insegnanti, impiegate, operaie e casalinghe - ma sono accomunate dalla volontà di lottare per la difendere la salute dei propri figli dal pericolo attuale delle antenne del sistema militare di telecomunicazioni NRTF-8 e da quello potenziale, ma imminente, della stazione terrestre del Muos. Percorsi di vita differenti Come per tutti i Comitati nati nel corso degli ultimi quattro anni in tutta la Sicilia, e anche oltre lo Stretto, per le mamme NoMuos l'obiettivo è di ottenere la definitiva e irrevocabile sospensione dei lavori di costruzione delle parabole satellitari Muos e lo smantellamento delle quarantasei antenne NRTF-8, che dal 1991 provocano a Niscemi livelli molto elevati di inquinamento elettromagnetico, determinando un preoccupante aumento delle patologie tumorali nella popolazione. Per il loro impegno in difesa del territorio, della pace e dei diritti le mamme NoMuos hanno ricevuto, a Roma, il Premio speciale “Donne, Pace e Ambiente Wangari Maathai”. Era il 6 febbraio. Lo stesso giorno in cui, al presidio permanente di contrada Ulmo, sono state spintonate dalla polizia mentre cercavano di bloccare l'ingresso alla base di un furgone carico di militari e operai che avrebbero dovuto lavorare al Muos. In base ad un precedente accordo tra la polizia e i Comitati, i manifestanti avrebbero dovuto far passare soltanto i militari per il cambio dei turni. Ma quel giorno nel furgone c'erano anche operai camuffati da militari. Alcuni di loro erano niscemesi e sono stati riconosciuti dai manifestanti. Così le mamme si sono opposte al loro passaggio, mettendosi davanti all'automezzo.

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I poliziotti sono intervenuti “strattonando, spingendo, colpendo, trascinando a terra e strappando la giacca di una di loro”. Non si è trattato di un intervento armato come quello dell'11 gennaio, ma sicuramente è stata un'azione violenta contro queste donne, mamme che facevano resistenza passiva. Marisa Di Corrado ha riportato una contusione alla caviglia (tre tre giorni di ricovero), e il suo racconto di quella giornata non lascia margini di dubbio: “Gli agenti ci hanno messo le mani addosso. Sono stata acchiappata per il giubbotto e strattonata. Il giubbotto si è strappato e io sono caduta a terra”. Addolorata e sorpresa la reazione delle mamme: “Ci domandiamo in che mondo viviamo quando si usa violenza contro donne e mamme che pacificamente presidiano per tutelare il diritto alla salute. Persone che hanno già problematiche familiari pesanti. Chi presidia, possibilmente, è gente che ha vissuto sulla propria pelle e quella dei propri cari problematiche di salute gravi. Ma lo Stato chi dovrebbe tutelare?”. Vale più la strategia o la salute? Legittima domanda. Che ne apre altre, di carattere più generale. Merita maggior tutela il diritto alla salute dei cittadini o l'interesse strategico degli USA ad esercitare un incontrastato controllo nel Mediterraneo? A cosa si riduce la democrazia quando l'esercizio dei propri fondamentali diritti incontra limiti calati dall'alto e imposti con la violenza? Quanto vale un atto formale della Regione Siciliana – la revoca delle autorizzazioni del MUOS notificata alla Marina statunitense – rispetto alla volontà condivisa del governo nazionale e degli Stati Uniti di fare della nostra isola un avamposto per i conflitti del terzo millennio?


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Il Forum di Tunisi

“Futura umanità” Volontari e migranti, studiosi e donne ribelli, precari e gente sfruttata del terzo mondo. E alla fine, da qui è partita la Carovana Antimafie internazionale...

La parola Karama: dignità Un forum nel segno della parola Karama, dignità, che potevi leggere scritta in 20 lingue diverse sulle borse che i partecipanti, portandole a tracolla, sfoggiavano attraverso i viali del campus. Vari gli spazi allestiti: il villaggio migrazioni, l’area dell’alternativa mediterranea, le tende delle donne e le tende delle diverse rappresentanze territoriali: saharawi, irakeni, palestinesi, egiziani, il forum sociale libico, i siriani nelle loro varie componenti, bandiere e convinzioni. Per citarne alcuni. Più di mille le attività seminariali proposte che hanno trovato sintesi nelle assemblee di convergenza del pomeriggio del 29 e della mattina del 30.

di Anna Bucca

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Seminari, workshop, assemblee, mini e grandi cortei, organizzazioni cene, riunioni di delegazione, incontri, birre notturne: tante sono state le occasioni per ritrovarsi, incontrarsi e conoscere altra gente durante la settimana trascorsa tra il campus universitario di Al Manar 1 dove si è svolto il forum e l’avenue Bourguiba, luogo di riferimento per i militanti “notturni” e per l’avvio della manifestazioni di apertura e di chiusura dell’edizione 2013 del FSM. Un forum in cui si è respirata un’aria diversa, che dieci anni fa nessuno avrebbe immaginato potesse svolgersi nel Maghreb, in Tunisia, e che appena due mesi fa, dopo l’assassinio di Chokri Belaid, in molti temevano che non si riuscisse più a organizzare.

Ma il coraggio, l’impegno e la determinazione sono stati più grandi della paura e il progetto è stato portato avanti, pur lavorando in condizioni di difficoltà e con meno fondi del solito e del necessario. Un nuovo universalismo Il primo risultato che porta a casa è stato di confermare che è possibile costruire alternative al capitalismo e alla globalizzazione economica neoliberista, basate su principi di cooperazione; che è possibile pensare insieme un nuovo universalismo e comunità locali fondate sui valori di diversità, giustizia sociale, uguaglianza tra tutti e tutte. In questa edizione hanno avuto centralità alcune temi rimasti un po’ al margine negli anni precedenti. Due su tutti: il movimento dei migranti e la Palestina, protagonista della manifestazione di chiusura il 30 marzo, la giornata della terra, giornata che sta particolarmente a cuore a una Nazione che lotta da 65 anni per riavere uno Stato, e non un insieme di bantustan.

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Uno dei momenti più emozionanti si è avuto nel corteo finale, all’interno del quale ha anche simbolicamente preso avvio la Carovana Internazionale Antimafie. Ad un certo punto ci siamo ritrovati a cantare in tante lingue la stessa canzone: da un lato arrivavano le parole in arabo, dall’altro in italiano e in spagnolo, con le voci che si intrecciavano e mescolavano. Mi sembra che questa immagine restituisca il senso di questi giorni a Tunisi e quello che potrà essere il percorso futuro: fare ritrovare insieme tante persone di diverse esperienze e provenienze in un progetto collettivo. Buon cammino! p.s.: per la cronaca, le note che risuonavano erano quelle dell’Internazionale.


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Messina

Lucchetti anti-primavera Al parco Aldo Moro tutto era pronto per cominciare la primavera con un regalo alla città, un magnifico spazio verde per la cultura. Ma... di Tonino Cafeo

Messina. La domenica delle palme era già tutto pronto per una magnifica festa di primavera al parco Aldo Moro. Su invito del Teatro Pinelli Itinerante, che dopo essere stato sfrattato dai locali del Teatro In Fiera organizza “Zone Temporaneamente Liberate” in giro per la città dello stretto, decine di ragazze e ragazzi erano pronti con zappe e rastrelli, fin dalle prime ore del mattino, a rendere vivo e accogliente uno spazio verde nel cuore di Messina, ma sono rimasti dietro ai cancelli chiusi. E non c’entrano per nulla i capricci del tempo marzolino. “Era tutto pronto per una giornata davvero particolare - racconta Michele Dopo i lavori di pulizia del giardino e una meritata pausa di relax, ci sarebbe stato un seminario tenuto dall’architetto

Celona sul Piano Borzì e la storia urbanistica messinese e infine un’assemblea aperta alla città per iniziare ad immaginare un uso collettivo di uno spazio per troppo tempo negato alla pubblica fruizione”. Ma già alle nove del mattino davanti al cancello del parco c’era un’auto dei Carabinieri a cui si sono aggiunte subito dopo due volanti della Polizia. “Gli agenti - spiega Michele - ci hanno detto che l’INGV (Istituto nazionale di Geofisica e vulcanologia),proprietario dell’area, avrebbe sporto nei giorni scorsi una denuncia contro ignoti per l’apertura abusiva della cancellata.” Vuoto, chiuso, abbandonato Il Parco Aldo Moro si trova in viale Regina Margherita, sulla Circonvallazione. E’ uno spazio di circa 13mila metri quadri situato su una collinetta panoramica attigua all’Istituto Sant’Ignazio. Al suo interno si trova un edificio che ha ospitato per decenni gli strumenti dell’Osservatorio Geofisico e Sismologico di Messina. Il contratto tra il Comune, antico proprietario del terreno, e l’INGV è stato stipulato nel lontano 1949 e sanciva la “cessione a titolo gratuito” del fondo, prevedendo però la restituzione all’ente locale dello stesso e degli immobili eventualmente costruiti nel suo perimetro in caso di cessazione dell’utilizzo da parte del beneficiario della donazione.

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L’Osservatorio ha ospitato apparati scientifici attivi fino al 2008 anche se, come hanno confermato i dirigenti della sede regionale dell’INGV, è rimasto privo di personale da quando, nei primi anni ’90, l’ultimo custode è andato in pensione. Dopo il 2008 ha sostanzialmente cessato di funzionare. Un polmone verde Si sarebbero così potute creare le condizioni affinché si verificasse la clausola prevista dal contratto del ’49 e il Comune di Messina avrebbe avuto a disposizione un importante polmone verde in una zona sempre più densamente popolata. Niente di tutto questo si è però verificato. Secondo quanto sostengono i dirigenti regionali dell’INGV la continuità operativa prevista come condizione per assicurare la proprietà del complesso all’ente di ricerca non sarebbe mai venuta meno. “Dal 2008 ad oggi abbiamo attuato un piano di lavori di ristrutturazione e potenziamento dell’Osservatorio, che è stato portato a buon fine nel febbraio di quest’anno con il collaudo amministrativo delle nuove strutture - precisano da Palermo - mentre delicati strumenti come il rilevatore geodetico gps non hanno mai cessato di raccogliere dati e di inviarli ai centri di elaborazione”. Stando a queste notizie, dunque, chi sperava di dotare Messina di nuovi spazi di verde attrezzato avrebbe dovuto mettersi il cuore in pace.


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“Il parco è un bene comune che appartiene alla città”

Manifestazione No Ponte a Messina. Foto di Sebastiano Gulisano

Per la verità, un’altra strada per assicurare la fruizione pubblica almeno di parte del giardino esiste e le amministrazioni comunali che si sono succedute a Messina hanno pure provato a praticarla. Nel 2006 il sindaco Francantonio Genovese aveva rinnovato la concessione all’INGV del complesso. Nel frattempo la possibilità che gli spazi verdi fossero curati e aperti al pubblico era stata rivendicata da associazioni giovanili come Energie Messinesi e sostenuta da diversi consiglieri di quartiere e comunali. “Niente parco, perché...” Tre anni dopo, nel marzo del 2009 , toccò all’assessore all’Arredo urbano della Giunta Buzzanca Elvira Amata confrontarsi con l’Istituto Nazionale di Geofisica. Nel corso di un incontro fra l’esponente del centrodestra e i funzionari dell’INGV emerse che il sito non sarebbe stato interamente utilizzabile come parco pubblico per ragioni legate alla delicatezza delle apparecchiature presenti. In quell’occasione fu resa nota l’intenzione dell’Istituto di rilanciare la propria attività a Messina con il potenziamento delle strutture dell’osservatorio e la contestuale disponibilità del medesimo a stipulare col Comune un protocollo d’intesa per il recupero dell’area rimanente,

nella quale ricadono la casa del custode e alcuni ruderi d’epoca spagnola. Gli accordi di collaborazione fra INGV e Università di Messina, siglati all’inizio del 2011, confermano l’impegno in direzione dell’ampliamento delle attività di ricerca sismologica e vulcanologica nel nostro territorio, senza fare però alcun riferimento ad eventuali diverse funzioni del Parco Aldo Moro, citato solo in quanto sede messinese dell’Istituto. Si deve arrivare al gennaio dello scorso anno per riavere notizie del protocollo d’intesa fra Palazzo Zanca e l’INGV. A quel periodo risale infatti il via libera del Consiglio comunale all’accordo di collaborazione pensato nel 2009. Un atto i cui effetti sono rimasti sospesi in aria per altri dodici mesi, fino a quando, cioè, i ragazzi del Pinelli non hanno riaperto la questione liberando il parco Aldo Moro e rinfrescando la memoria persino sulla sua esistenza a tutti, compresi i dirigenti dell’Ente pubblico di ricerca, che si sono affrettati a spedire in riva allo stretto un funzionario incaricato di “portare a compimento tutti gli adempimenti necessari ad una rapida ripresa delle attività scientifiche dell’Osservatorio Geofisico”. Il dottor D’Anna, questo il nome del funzionario, ha preso contatto con Palazzo Zanca per riprendere e concludere

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l’iter del protocollo di intesa ma non ha voluto sottrarsi comunque ad un confronto pubblico con il Teatro Pinelli Itinerante impegnandosi a far conoscere al consiglio di amministrazione dell’INGV le obiezioni e le controproposte dei temporanei occupanti della struttura. “Usiamolo in comune” “Siamo convinti che sia possibile portare avanti il progetto del centro di ricerca dell'INGV e contemporaneamente prendersi cura in comune del parco e di parte delle strutture - sostiene Giulia - Il parco è un bene comune di cui la città è stata privata per troppo tempo. Pensiamo che, in un momento in cui i tagli alla ricerca stanno avendo ripercussioni su tutta la collettività, possiamo pensare a nuove possibilità di finanziamento, dal basso, e di autogestione anche degli enti e delle strutture pubbliche, consapevoli del bisogno immediato di risposte concrete alle domande dei ricercatori, dei precari e di tutta la collettività. Stiamo lavorando a una nostra proposta di uso in comune del parco”. L’impegno a più breve scadenza è quello di arrivare subito dopo Pasqua ad un tavolo pubblico per la riscrittura dell’atto in termini che rendano chiara e inequivocabile la volontà di aprire alla cittadinanza - compatibilmente con le esigenze del lavoro di ricerca - il parco Aldo Moro.


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Beni comuni

Al Teatro Valle va in scena l'avvenire “Occupiamo per occuparci di ciò che è nostro. È nostro come cittadini, come lavoratori dello spettacolo, della cultura e dell’ arte...”. E' stato un modello per tanti, questa storia. Perché?

E il teatro Valle fu davvero per molti mesi, i primi mesi per lo meno, la notizia di prima pagina, o magari di seconda , su molti quotidiani, italiani e internazionali. Il perchè è presto detto: quella che all'inizio era sembrata la semplice bravata di un gruppo di teatranti aveva assunto pian piano i connotati di una lotta politica giocata non più sulla piazza ma dalla platea di un teatro del '700, uno dei più antichi di Roma, e argomentata punto per punto non solo sul piano della protesta ma anche e soprattutto su quello della proposta. “Riprendiamoci la cultura”

di Bruna Iacopino “Lo spettacolo dell’anno è stato l’occupazione del Valle. Una maratona teatrale che va avanti da un mese, con duecento artisti sul palco, decine di migliaia di spettatori, recensioni sulle pagine e i siti del mondo, dal New York Times a Libération. Un sogno di mezza estate che ha trasformato il più antico teatro di Roma nella casa della cultura italiana, dove sono passati davvero tutti, in un laboratorio del futuro e finalmente in una notizia da prima pagina”. Era il 16 luglio 2011 e Curzio Maltese, editorialista de la Repubblica, raccontava così il primo mese di occupazione del Teatro Valle, uno dei teatri storici della Capitale, sito al centro della città, a un tiro di schioppo dal Senato.

E la proposta in questione suonava come una sfida: “Come l'acqua e l'aria ora riprendiamoci anche la cultura”. All'indomani del referendum che aveva portato alle urne milioni di italiani attorno al concetto antico eppure nuovo dei beni comuni, a partire da un bene fondamentale come l'acqua, a qualcuno era sembrato quasi naturale decidere che di fronte al rischio dello snaturamento di uno dei teatri più antichi d'Italia la soluzione più logica non potesse essere altro che la riappropriazione dal basso attraverso la pratica dell'occupazione e della successiva autogestione, ampia e partecipata, trasversale. “Com'è triste la prudenza” Ed ecco che, al motto di “Com'è triste la prudenza”, liberamente tratto da Rafael Spregelburd, motto che campeggia ancora in alto su uno striscione, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo (attori, at-

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trici, tecnici, sceneggiatori, registi, danzatori...) tentano un'impresa mai provata prima: riappropriarsi di un teatro fermo da quasi un anno e farlo rivivere attraverso il libero contributo di tutti, lavoratori e spettatori per la prima volta sullo stesso piano a confrontarsi e ripensare una diversa idea di cultura. “Occupiamo per occuparci di ciò che è nostro. È nostro come cittadini, come lavoratori dello spettacolo, della cultura e dell’arte. Con questo spirito il 14 giugno, lavoratrici e lavoratori dello spettacolo autorganizzati hanno occupato il teatro Valle”. Così scrivevano, il 22 giugno del 2011, gli occupanti del Valle per far capire al mondo, che li osservava dall'esterno, quello che erano e soprattutto quello che volevano raggiungere. Un nuovo modo di agire Un modo nuovo di pensare e di agire che risultò subito vincente. Se volevi partecipare ad una delle tante assemblee che si tenevano nei primi mesi, quando ancora era tutto da definire, potevi star certo che avresti avuto difficoltà a trovare un posto per sederti. Gli spettacoli poi, tutti proposti a livello gratuito da parte degli artisti e sovvenzionati attraverso libera sottoscrizione dagli spettatori, erano un'incognita ancora maggiore. File interminabili per poi scoprire da un volto stanco ma sorridente che “ci dispiace ma c'è davvero troppa gente, non riusciamo a far entrare tutti...”.


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“Alla fine, questa imprudenza paga”

“Ogni testa un voto”

E intanto il nucleo dei primi occupanti ingrossava le fila, strada facendo qualcun altro si appassionava (e continua ad appassionarsi) alla causa, l'abbracciava, sentiva che era la direzione giusta da percorrere, una direzione che aveva anche un altro obiettivo: quello di spianare la strada e creare degli emuli nel resto d'Italia, con occupazioni analoghe che avrebbero finalmente spinto le istituzioni a prendere atto di un fronte unito in difesa e a sostegno del bene più prezioso ma, per sua natura, “immateriale”.

Il contagio dilaga Scommessa vinta anche questa: nel giro di poco il morbo si diffonde e ad essere occupati, o per dirla come lo direbbero loro, ad essere “liberati” sono altri

spazi: dal Teatro cinema Palazzo a Roma, al Marinoni e Sale Docks a Venezia, al Macao a Milano, il Teatro Rossi aperto a Pisa, la Balena a Napoli, il Pinelli a Messina, il Coppola a Catania e il Garibaldi a Palermo. Il contagio dilaga e il dibattito si accende. Al Valle ci passano tutti: chi a portare solidarietà, chi per semplice curiosità, chi a incoraggiare, chi a fare la passerella, ma ci passano... e tanta simpatia difende e ha difeso in tutti questi mesi da qualsiasi azione di forza da parte del nuovo gestore, cioè il Comune di Roma. Dopo gli spettacoli improvvisati dell'inizio il cartellone si struttura, a dimostrazione del fatto che anche in mancanza di un direttore artistico si può ottenere una buona programmazione. Teatro, certo, classico e contemporaneo con una maggiore attenzione a quest'ultimo, ma anche laboratori, nella prospettiva di rendere il Valle, appunto, un laboratorio permanente di drammaturgia contemporanea; dibattiti e incontri, assemblee pubbliche, giocate il più delle volte, sul tema dei beni comuni, cinema e performance, lo spazio per i ragazzi delle scuole e le visite guidate, il tutto costruito attorno a specifiche linee progettuali e che per il 2013 sono già definite in “corpi, scritture, città”.

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“Nella progettualità artistica dell’occupazione – si legge sul blog sempre aggiornato che si affianca all'intensa presenza sui social network - stiamo sperimentando un modello concreto di autogoverno: le decisioni vengono prese in forma assembleare, la programmazione è cogestita con artisti e compagnie da tutta Italia. Il principio che ci ispira è quello del lavoro d’ensemble.” Principio analogo a quello che adesso spinge il Valle occupato verso una nuova impresa, anche questa, mai tentata: la costituzione di una fondazione aperta all'interno della quale qualsiasi socio, indipendentemente dalla sua quota di adesione, abbia identico peso ( “in assemblea ogni testa un voto”). Con Mattei e Rodotà Una forma giuridica nuova e studiata a tavolino con l'aiuto e il supporto, forniti dal primo istante, di personalità del calibro di Ugo Mattei e Stefano Rodotà e che rispecchia quello statuto elaborato in forma aperta e partecipativa secondo il principio ispiratore dei commons. La sfida ora è ancora oltre: riuscire a raccogliere i fondi necessari contando sul libero contributo di tutti. Al momento la quota raggiunta è di 150.000 euro: ce ne vorranno molti di più. Ma i nostri non demordono: alla fine l'imprudenza paga sempre.


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Altre Italie

Al nostro posto. Storie di donne che resistono Maria Carmela, Martina, Lucrezia, Ludovica, Cinzia, Valentina. E molte altre così di Norma Ferrara www.liberainformazione.org

Monasterace è un piccolo Comune sulla costa ionica, l’ultimo a rientrare geograficamente nella provincia di Reggio Calabria. In questo angolo di Italia nasce e cresce una storia simbolo della resistenza alle mafie nel nostro Paese. E a portarla avanti è una donna, Maria Carmela Lanzetta, per due mandati sindaco del suo paese, amministratrice che vive il suo impegno, anche oltre la politica: “Bisogna scegliere con chi avere a che fare, nelle amicizie e nella vita privata, sul lavoro e nelle proprie, relazioni e frequentazioni sociali”. “La scelta – spiega Martina Panzarasa nel libro Al nostro posto. Donne che resistono alle mafie, scritto a quattro mani con Ludovica Ioppolo – secondo Maria Carmela è ciò che ti permette di essere libera, di svincolarti dalla ‘ndrangheta. Dai legami che ti costringono in gabbia e ti privano della possibilità di decidere di te stesso.

Bisogna scegliere per essere liberi”. Maria Carmela ha visto bruciare la sua farmacia, ma - racconta nel libro - “il giorno dopo l’importante per me era garantire i farmaci ai cittadini”. Con un occhio al merito, alla preparazione e l’altro ai diritti della persona, alla giustizia sociale, Maria Carmela è una delle tante donne che in Calabria e nel resto del Paese guidano amministrazioni locali, guardate a vista dalle cosche. La loro colpa principale è quella di voler far funzionare la macchina amministrativa con trasparenza, efficienza, qualità e diritti uguali per tutti. Aspirazioni davvero strane in territori a sovranità limitata, dove a governare non è solo lo Stato. Donne del sud, donne del nord Accade al sud, ma anche al Nord. A Desio, in Lombardia, nel cuore della produttiva Brianza, Lucrezia Ricchiuti, donna “pratica e solare” ed oggi vicesindaco dopo dieci anni di opposizione nel consiglio comunale, ragioniera di formazione con “il culto delle regole”, studia i bilanci comunali, “guarda, vede, ascolta” quello che accade in Comune. Lo fa con curiosità e passione: vuol capire come funziona la macchina amministrativa che decide dei destini dei suoi concittadini, della loro qualità della vita, dei servizi alle persone. Lucrezia chiede che le regole vengano rispettate, che ci sia un uso consapevole del territorio in una provincia, quella di Monza e Brianza, che è la più cementificata d’Italia. La Direzione distrettuale antimafia, con le operazioni messe a segno negli ultimi anni, conferma quello che inizialmente per Lucrezia era solo un

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sospetto: un sodalizio illegale metteva in comunicazione l’ufficio tecnico del Comune con personaggi poco raccomandabili. E dietro d'era il business dei boss. Mafie, quelle descritte nel libro “Al nostro posto”, che arrivano al Nord e provano a riprodurre lo stesso “pacchetto criminale” già sperimentato al Sud: soldi, violenza, condizionamento, omertà. Tutte storie che Rosaria Capacchione, giornalista de “ll Mattino” , intervistata da Ludovica Ioppolo, ha visto con i suoi occhi e descritto nelle sue cronache, raccontando la violenza della camorra e l’ascesa criminale del clan dei Casalesi. Del suo lavoro, che l’ha portata a viso aperto contro i boss, racconta senza troppi fronzoli: “Io sto da una parte e loro da un’altra, quindi non abbiamo nessun tipo di confronto”. Ed è solo con il tempo – scrive la Ioppolo – che giornalismo e antimafia, per questa “giornalista – giornalista”, diventano un tutt’uno. Sino a farne oggi una memoria storica della storia dell’organizzazione criminale campana e una firma di eccellenza nel panorama giornalistico italiano. “Io da una parte, loro dall'altra” È stato cosi anche per Cinzia Franchini, presidente nazionale della Cna Fita, una delle associazioni di rappresentanza degli autotrasportatori, che in EmiliaRomagna, uno dei territori di “approdo” criminale dei clan della camorra e della ‘ndrangheta, porta avanti due battaglie convergenti: quella contro i pregiudizi (“una donna a capo di un9associazioni di camionisti?”) e quella contro le cosche, infastidite dalla sua scelta di trasparenza e etica nella gestione di un settore a forte


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“I miracoli possibili che l'antimafia sociale a volte riesce a tradurre in realtà”

rischio di infiltrazioni criminali, come dimostrano numerose operazioni delle forze dell’ordine. Una battaglia ancora oggi in corso e che ha portato avanti grazie ad altre donne - come Enza Rando, avvocatessa dell’ufficio legale di Libera - e a una vasta rete di associazioni impegnate contro le mafie. Una rete di associazioni Essere a capo di una associazione di categoria o a capo di una azienda è già una sfida in un Paese come il nostro in cui, ai posti di comando, ci sono ancora quasi esclusivamente uomini. È cosi per Valentina Fiore, “cervello in fuga” dalla Sicilia, preparata e determinata, appassionata di economia al servizio della collettività, che da Bologna, alcuni anni fa, sceglie di tornare in Sicilia. L’avventura le permette di tornare al Sud è quella della Placido Rizzotto, la prima cooperativa nata in Italia grazie alla legge sul riutilizzo sociale dei terreni dei boss. Dopo aver curato lo sviluppo e l’amministrazione della cooperativa Valentina è oggi direttrice di “Libera Terra Mediterraneo”, il consorzio imprenditoriale che riunisce alcune delle cooperative sociali nate sui terreni del clan. Le coop sociali nate contro i clan In una terra indebolita nelle sue risorse anche da una emigrazione forzata, Valentina è uno di quei miracoli possibili che i percorsi di antimafia sociale hanno fatto diventare realtà nel nostro Paese: con i suoi ricci neri e i suoi occhi intensi è una donna libera di stare “al proprio posto” a

fare quello in cui crede e per cui ha studiato. E proprio in Sicilia c’è una parte della vita di Maddalena Rostagno, intervistata nel libro da Martina Panzarasa. Di quella terra Maddalena è uno dei fiori più belli, sebbene sia nata altrove. La sua storia, diversa dalle altre raccontate nel libro, parla di memoria, impegno e di un padre, Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia in Sicilia mentre si occupava della “difficoltà a vivere” per molti giovani tossicodipendenti, e come giornalista, dagli schermi della tv Rtc, denunciava gli intrecci fra malaffare locale e Cosa nostra. Depistaggi, lentezze, approssimazioni nelle indagini hanno lasciato questo delitto ancora senza giustizia e verità. Ancora senza giustizia e verità In questi anni è in corso a Trapani il processo che vede imputati due mafiosi del mandamento trapanese. Nella stessa aula, a seguire il processo, Maddalena Rostagno e la madre, Chicca Roveri, compagna di vita di Mauro, esempio di donna che ha resistito al dolore, alle mafie, alle ingiustizie e oggi dedica il suo tempo agli altri, come Maddalena con il Gruppo Abele a Torino. Anche quella di Maddalena è una storia che racconta di una “scelta”: quella di restare libera e dalla parte degli ultimi. Le storie di Rosaria Capacchione, Valentina Fiore, Cinzia Franchini, Maria Carmela Lanzetta, Lucrezia Ricchiuti, Maddalena Rostagno sono, nei titoli dei giornali, quelle de “il sindaco antimafia”, “la giornalista contro i boss”, “le donne coraggio”. Non lo sono, invece, nel libro di Ludovica Ioppolo e Martina Panzara-

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sa, ed è una scelta di linguaggio che ne rivela una di analisi e metodo che ha pochi precedenti. Nelle oltre cento pagine che raccontano dell’impegno antimafia di queste donne c’è uno spaccato di genere e di impegno antimafioso che sfugge alle classificazioni e agli stereotipi. Rifiutano immagini cucite addosso Come scrive nella prefazione al libro il sociologo Nando dalla Chiesa, "tutte queste donne rifiutano l’immagine di donne antimafia. Fanno il loro dovere, ci mancherebbe, sindaco o vicesindaco, giornalista o autotrasportatrice, manager delle cooperative o creativa per il Gruppo Abele. Mica si tirano indietro. Non ci fosse la mafia starebbero bene, cento volte meglio. E alla mafia non vogliono legare la loro identità, perché nessuno ama specchiarsi in chi gli fa ribrezzo. Cose sante”. Accanto all’impegno di queste donne, la memoria di molte altre che sono state uccise perchè affermavano il loro diritto ad una vita libera come mogli, madri, figlie, sorelle – le loro storie nel dossier “Sdisonorate” - c’è quello, non meno importante, dell’assunzione di responsabilità da parte di tutte le altre, quelle che non vivono in territori ad alta densità mafiosa, che non sono familiari di vittime di mafia ma che, come Ludovica Ioppolo e Martina Panzarasa, scelgono in questi anni di impegnare la propria vita, la loro professionalità, per tenere insieme il filo della memoria e quello dell’impegno, consapevoli che, anche attraverso la testimonianza, si possa rivendicare il diritto di stare “al nostro posto”. Quello che si sceglie liberamente.


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Mafia e poteri

Le stragi, le trattative e la Falange Armata I terroristi della Falange rientravano nella strategia mafiosa? Oppure la mafia rientrò nella strategia della Falange? Oppure, falangisti e mafiosi rientravano nella strategia di qualcun altro? di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com

“Dall’esame delle fonti indicate si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Armata e compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa”. Nel decreto di rinvio a giudizio del gup Piergiorgio Morosini nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia, la presenza della Falange Armata si fa sempre più tangibile. “Nel perseguimento di questo progetto Cosa Nostra sarebbe alleata con consorterie di ‘diversa estrazione’, non solo di matrice mafiosa (in particolare sul versante catanese, calabrese e messinese). E nelle intese per dare forma a tale progetto sarebbero coinvolti ‘uomini cerniera’ tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria, quali ad esempio Ciancimino Vito”.

Il riferimento è alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino sul coinvolgimento del padre nelle vicende di Gladio, Ustica e del caso Moro. La riunione di Enna Nel documento, Morosini si sofferma sulla riunione tenutasi ad Enna nel dicembre del 1991, nella quale Totò Riina, prevedendo un esito per lui sfavorevole del primo maxi-processo in Cassazione, traccia le “linee guida” di un piano di “destabilizzazione” della vita del Paese per “obiettivi eversivo-separatisti”. Per il gup le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Leonardo Messina, Filippo Malvagna e Giuseppe Pulvirenti avallano la tesi che in un contesto sociale “esasperato dal terrore degli attentati e possibilmente domato da successivi eventi golpistici”, sarebbe stato possibile per Cosa Nostra “ricavare nuove chances di ‘trattativa’ miranti ad ottenere vantaggi anche sul piano della repressione penale per gli associati”. Lo stesso Malvagna, ricordando quanto dettogli dal Pulvirenti, riferisce della riunione di Enna del ‘91, alla presenza di Riina e Santapaola, degli “obiettivi concordati” e delle “decisioni assunte” anche “con riferimento alle modalità di realizzazione degli attentati (rivendicazione degli attentati doveva essere con la sigla della ‘Falange Armata’ nell’ambito di un più ampio disegno di destabilizzazione)”. Secondo Morosini, questo progetto “andrebbe di pari passo con un secondo ‘piano’ di Cosa Nostra, più legato alle esigenze contingenti di fronteggiare la dura repressione da parte dello Stato iniziata già nel 1991”. E questo programma mafioso “sarebbe finalizzato a indurre esponenti di vertice delle istituzioni italiane a ‘trattare’ con l’organizzazione in vista di una soluzione ‘a breve scadenza’ dei problemi legati alla giustizia penale e al trattamento penitenziario”. Un obiettivo “verosimilmente facilitato dal ‘capitale di contatti’ che, nel frattempo, matura-

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no per via dell’attività finalizzata alla realizzazione del progetto più ambizioso e di lunga scadenza di tipo eversivo”. Morosini sottolinea che tra le fonti di prova del procedimento sulla trattativa Stato-mafia, con riferimento all’obiettivo più contingente per Cosa Nostra, e cioè la realizzazione di gravissimi atti intimidatori finalizzati a indurre lo Stato a “trattare” sulla repressione penale, vi sono almeno tre soggetti “che offrono un contributo conoscitivo sulla base del ruolo, a loro dire svolto all’epoca dei fatti, di ‘anello di congiunzione’ tra Cosa Nostra ed esponenti delle istituzioni, in particolare ufficiali del ROS dei carabinieri”. Ciancimino. Bellini e Cattafi “Pur trattandosi di soggetti con ‘carriere criminali’ diverse e di differente estrazione delinquenziale, sociale e territoriale – specifica il gup –, si tratta di tre personaggi di ‘caratura criminale trasversale’, ossia di uomini a contatto non solo con l’organizzazione mafiosa ma anche con sodalizi collegati ai servizi di sicurezza, a logge massoniche e alla eversione di destra: Ciancimino Vito, Bellini Paolo, Cattafi Rosario Pio”. Nel decreto di rinvio a giudizio Morosini ribadisce che sulla base delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del materiale documentale da lui proposto in più tranches agli inquirenti, riconducibile a manoscritti e dattiloscritti del padre, è da Vito Ciancimino che principalmente scaturiscono le informazioni sui contatti con gli ufficiali del ROS dei carabinieri dal giugno al dicembre del 1992. Per focalizzare meglio i contatti ultradecennali di Vito Ciancimino con la ‘Ndrangheta, i “segmenti deviati” dei servizi di sicurezza e della massoneria, il gup rilegge le dichiarazioni di Cannella Tullio sul vertice di Lamezia Terme del 1991 per la costituzione delle Leghe meridionali e quelle di Massimo Ciancimino sui contatti del padre con la organizzazione segreta “Gladio”.


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“In una prospettiva di destabilizzazione della vita politica italiana”

Di seguito è il ruolo di Paolo Bellini a finire sotto la lente di ingrandimento di Morosini per la sua “intermediazione per una ‘trattativa’ condotta nel 1992 da alcuni esponenti di Cosa Nostra e i carabinieri per il recupero di opere d’arte in cambio di benefici penitenziari per alcuni capi mafia, proviene da ambienti della destra eversiva (Avanguardia Nazionale)”. L'assassinio di Alceste Campanile Il profilo criminale di Bellini viene così ricordato nel documento partendo dal 1975, anno in cui lo stesso riveste il ruolo di esecutore materiale dell’omicidio dell’attivista di Lotta Continua Alceste Campanile. Viene ugualmente evidenziato come Bellini sia stato latitante per anni in Brasile grazie a coperture degli ambienti dell’estrema destra, per poi rientrare in Italia nel 1981 con il nome di Roberto Da Silva. Altrettanta attenzione viene riservata agli omicidi commessi per conto della ‘Ndrangheta da lui stesso confessati. Ultima, e non certo per importanza, è la figura di Rosario Pio Cattafi, che ha riferito dei contatti del 1993 con il vice capo del DAP Francesco Di Maggio e con i R.O.S. “in vista della apertura del dialogo con Cosa Nostra sul 41 bis”. Morosini evidenzia come Cattafi sia un capo mafia di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), con alle spalle una militanza in Ordine Nuovo, già coinvolto in indagini dell’autorità giudiziaria milanese per reati di estorsione e porto di armi da guerra, unitamente al capo mafia catanese Nitto Santapaola e all’esponente di vertice della ‘Ndrangheta Cosimo Ruga. Da Lima alle stragi Nel documento il gup si sofferma sulla “nuova linea strategica” di Cosa Nostra “alla ricerca di nuovi referenti negli ambienti politico istituzionali, inaugurata con l’omicidio Lima”.

“Proprio con riguardo alle minacce dedotte nella contestazione (dal 1992 al 1994) e sui caratteri che le legherebbero tutte ad un unico disegno criminoso di ricatto allo Stato, a partire dall’omicidio Lima – specifica ancora Morosini – vanno evidenziate le indicazioni ricavabili a pagina n.58 dell’informativa della DIA del 4 marzo 1994 a firma del Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie dott. Pippo Micalizio”. Nell’informativa si registrava infatti che la Falange Armata aveva rivendicato l’omicidio Salvo Lima, le stragi di Capaci e di via D’Amelio, gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di San Giovanni in Laterano e via del Velabro a Roma e di via Palestro a Milano. L'omicidio Guazzelli Secondo il gup a questi attentati deve essere aggiunta la rivendicazione da parte della Falange Armata di un altro omicidio che, secondo l’accusa rientra nel progetto di minacce, ossia quello del maresciallo Guazzelli. Per Morosini “vanno evidenziate la fonti che attribuiscono sempre alla Falange Armata le minacce direttamente rivolte a ‘personaggi chiave’ delle istituzioni, all’epoca dei fatti coinvolti a vario titolo nella repressione degli illeciti mafiosi, di cui si occupa il presente procedimento”. Le minacce a “personaggi chiave” Si tratta delle sentenze del Tribunale di Roma del 17 marzo 1999 e della Corte di Appello di Roma del 20 novembre 2011 (divenute irrevocabili il 15 luglio 2002), emesse nel processo a carico di Carmelo Scalone, accusato di partecipazione all’associazione denominata Falange Armata, violenza e minaccia aggravata a pubblico ufficiale e attentato a organi costituzionali dello Stato. Secondo le sentenze, i soggetti minac-

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ciati sono: l’onorevole Vincenzo Scotti, ministro degli Interni, il 16 giugno 1992; l’on. Nicola Mancino, ministro degli Interni, il 19 novembre 1992, i giorni 1 e 21 aprile 1993 e il 19 giugno 1993; il dott. Vincenzo Parisi, capo della Polizia, il 19 novembre 1992, il 1 aprile 1993 e il 19 giugno 1993; il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il giorno 1 aprile 1993 e i giorni 19 e 21 settembre 1993; il dott. Adalberto Capriotti, all’epoca direttore del DAP, il 16 settembre 1993; il dott. Francesco Di Maggio, all’epoca vicedirettore del DAP, il 16 settembre 1993; il Presidente del Senato Giovanni Spadolini, il 21 aprile 1993. “Va ricordato, sempre richiamando le suddette sentenze relative all’imputato Scarano – sottolinea il gup –, che la Falange Armata, il 14 giugno 1993, ebbe modo di manifestare la sua soddisfazione per la nomina del dott. Adalberto Capriotti come direttore del DAP, al posto del dott. Nicolò Amato, considerando la sostituzione di quest’ultimo come una vittoria della stessa Falange Armata. Scarpinato, Lo Forte, Ingroia Le medesime sentenze dell’autorità giudiziaria capitolina ricordano che le rivendicazioni da parte della ‘Falange Armata’ sono state spesso utilizzate in Italia per assecondare piani eversivi orditi da sodalizi di vario genere, in una prospettiva di ‘destabilizzazione’ della vita politico-istituzionale italiana”. Quella stessa “prospettiva di destabilizzazione” della vita politicoistituzionale del nostro Paese di cui si erano già occupati Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte, Nico Gozzo ed Antonio Ingroia nell’inchiesta palermitana denominata “Sistemi criminali”. Un’indagine che all’epoca si poteva definire decisamente “pionieristica”, e che oggi finalmente vede la sua naturale evoluzione nel processo allo Stato-mafia.


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Mafia/ Gli investimenti

Il Rapporto Transcrime Pubblichiamo un estratto del rapporto presentato al Ministero dell’Interno da Transcrime, centro universitario di ricerca sulle mafie

di Sara Manisera, Carmela Racioppi e Vincenzo Raffa www.stampoantimafioso.it

Transcrime è il Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dell’Università degli Studi di Trento, il cui direttore è Ernesto Ugo Savona, professore di criminologia dell’università di Largo Gemelli. Lo studio, attraverso la realizzazione di una mappa della presenza mafiosa su tutto il territorio nazionale per Camorra, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Criminalità pugliese, ha confermato in maniera scientifica il sempre maggior controllo criminale nelle aree di non tradizionale insediamento, demistificando allo stesso tempo l’immaginario collettivo della mafia come società per azioni.

Misurando l’indice di presenza mafiosa (IPM), ottenuto dalla combinazione dei dati riguardanti omicidi e tentati omicidi di stampo mafioso (2004-2011), persone denunciate per associazione mafiosa (2004-2011), comuni e pubbliche amministrazioni sciolte per infiltrazione mafiosa (2000-2012), beni confiscati alla criminalità organizzata (2000-2011) e gruppi attivi riportati nelle relazioni DIA e DNA (2000-2011), si è potuto constatare che solo in poche aree la presenza di criminalità organizzata assume valori pari a zero. Allarme in Lazio e Lombardia I valori più alti sono ottenuti dalle regioni e dalle province a tradizionale presenza mafiosa: rispettivamente prima la Campania, seguita da Calabria, Sicilia e Puglia, e prima Napoli, seguita dalle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Palermo. Ciononostante, a livello regionale “Lazio, Liguria, Piemonte, Basilicata e Lombardia fanno registrare una rilevante presenza di organizzazioni mafiose”. Non a caso, tra le province del centro e del nord che occupano le posizioni più alte si trovano Roma, Imperia, Genova, Torino, Latina, Milano e Novara (rispettivamente 13ª, 16ª, 17ª, 20ª, 25ª, 26ª e 29ª). Le sei regioni a rischio Un dato che testimonia visibilmente la pervasività delle organizzazioni mafiose è quello dei beni confiscati, la maggior parte dei quali è localizzata in sei regioni italiane: Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia e Sicilia. I valori più alti sono rappresentati dalle regioni Sicilia (4654), Calabria (1558) e Campania (1502), che rappresentano l’82% del totale degli immobili confiscati. Se si aggiungono Lazio e Lombardia si raggiunge il 95%.

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Solo la provincia di Milano è la quinta per numero di beni confiscati (910 pari al 5,3% del totale), seguita da altre importanti città lombarde (Varese, Como, Monza e Brianza, Bergamo e Pavia). Colpisce inoltre che le confische siano ordinate da autorità giudiziarie aventi sede in altre province. E in questo caso la prima posizione è occupata da Milano (colpita 19 volte da confische ordinate da Autorità Giudiziarie con sede in altre province), mentre l’ottava posizione è occupata da Varese. Per quanto riguarda i beni confiscati alla ‘ndrangheta da Autorità giudiziarie calabresi, le prime province sono Milano, Roma, Arezzo e Como. Il controllo del territorio Le analisi condotte, inoltre, hanno cercato di quantificare in maniera rigorosa l’ammontare del denaro che i consorzi mafiosi ricavano dalle attività illegali, analizzando –attraverso i beni immobili confiscati– la destinazione finale dell’investimento. Ciò che emerge è la naturale vocazione delle associazioni di stampo mafioso per il controllo del territorio e per l’acquisizione del consenso sociale, requisiti prioritari rispetto al profitto economico. Infatti “le concentrazioni di immobili nelle aree più redditizie sembrano suggerire delle scelte legate più al prestigio delle abitazioni e al benessere dei singoli membri delle organizzazioni che a logiche di massimizzazione degli investimenti ”. Un insediamento programmato Dalla percentuale di immobili confiscati risulta che nel Nord Italia vi è una più alta concentrazione di beni ad uso personale rispetto a quella di immobili considerati come investimento; questo testimonia la suprema pretesa delle organizzazioni di insediarsi nel territorio.


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“La 'ndrangheta in Piemonte guadagna quanto in Calabria”

Scheda LOMBARDIA E MILANO NELLO STUDIO TRANSCRIME La Lombardia è nel novero delle regioni che “fanno registrare una rilevante presenza di organizzazioni mafiose”; Tra le province del centro e del nord, Milano è la 26esima per presenza mafiosa; Novara la 29esima; La Lombardia è tra le regioni in cui si localizza il maggior numero di beni confiscati; La provincia di Milano è la quinta per numero di beni confiscati (910 pari al 5,3% del totale) seguita da altre importanti città lombarde (Varese, Como, Monza e Brianza, Bergamo e Pavia); Nel Nord Italia vi è una più alta concentrazione di beni ad uso personale rispetto a quella di immobili considerati come investimento; questo testimonia la pretesa suprema delle organizzazioni di insediarsi nel territorio; Nell’area urbana milanese la percentuale di appartamenti confiscati oggetto di investimento costituisce il 33.4%; Nella città di Milano e nella provincia di Brescia, ad esempio, sono presenti Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra simultaneamente; La regione che genera i maggiori ricavi illegali (3,7mld €) è la Lombardia.

Se nell’area urbana milanese la percentuale di appartamenti confiscati oggetto di investimento costituisce il 33.4%, a Reggio Calabria raggiunge ben l’80%. Ancora una volta, si evidenzia la tendenza delle mafie ad investire nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa dove maggiore è il controllo del territorio e quindi la sicurezza dell’investimento. Il rapporto, tuttavia, sottolinea la forte propensione delle organizzazioni mafiose ad occupare zone di insediamento non originarie; mentre la Camorra, oltre alla Campania, ha una presenza, quasi esclusiva, in Abruzzo (80,6%) e Molise (93.4%), la ‘Ndrangheta assume una po-

sizione prevalente (oltre che in Calabria), in Trentino Alto Adige (100%), in Piemonte (95.2%), in Liguria (70,3%), in Emilia Romagna (66.9%) e Valle d’Aosta (100%). Cosa Nostra invece opera in Sicilia e in Friuli-Venezia Giulia (73,9%). Questo non significa che non vi siano aree in cui agiscano contemporaneamente più organizzazioni di stampo mafioso; nelle città di Roma, Milano, Firenze e nelle provincie di Brescia, Viterbo e l’Aquila ad esempio, sono presenti Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra simultaneamente. Attività illegali classsiche La presenza di organizzazioni criminali di tipo mafioso in territori non tradizionali conduce inevitabilmente ad un trasferimento anche delle loro attività illegali più classiche, tra cui sfruttamento sessuale, traffico illecito di armi da fuoco, droghe, contraffazione, gioco d’azzardo, traffico illecito di rifiuti, traffico illecito di tabacco, usura ed estorsioni, che rappresentano le voci principali dei bilanci delle consorterie mafiose. Se le droghe, seguite da estorsioni, sfruttamento sessuale e contraffazione generano i maggiori ricavi, le estorsioni forniscono invece la quota maggiore di introiti che finisce direttamente alle organizzazioni mafiose. Interessante notare che la regione che genera i maggiori ricavi illegali (3,7mld €) è la Lombardia, seguita dalla Campania, dal Lazio e dalla Sicilia. L'economia legale E nell’economia legale, che settori prediligono le mafie? Camorra, ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e criminalità pugliese sono caratterizzate da una diversificazione del loro portafoglio di investimenti; i settori di investimento privilegiati sono quelli a bassa tecnologia, come il commercio

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all’ingrosso, al dettaglio, le costruzioni e la ristorazione, i settori poco regolamentati o la cui normativa è in costante evoluzione e i settori dove il rischio d’impresa è moderato. La forma societaria preferita è la S r.l. per la facilità di costituzione e per le responsabilità patrimoniali limitate; infatti “le organizzazioni mafiose prediligono modalità che consentono un controllo più diretto ed intra moenia delle aziende. In questo senso accanto alle srl si riconosce anche un discreto utilizzo di società di persone e di imprese individuali, sopratutto nei casi legati alla ‘ndrangheta, che storicamente e culturalmente pare prediligere modalità di gestione e controllo più familistiche e dirette”. A livello nazionale, Camorra e ‘Ndrangheta sono le organizzazioni criminali che conseguono i maggiori ricavi; analizzando i proventi di quest’ultima si può notare, inoltre, che Calabria e Piemonte forniscono una quota quasi equivalente dei ricavi. Il livello internazionale A livello internazionale, nonostante la carenza di studi, le analisi delle relazioni della DNA e della DIA individuano Spagna, Germania e Olanda come i principali stati importatori europei delle organizzazioni mafiose italiane. Si registra, tuttavia, la loro presenza anche in Canada, Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Svizzera, Romania, Turchia e Albania, presenza imputabile a diversi fattori, quali il ruolo strategico nei mercati illegali, la presenza di latitanti e i flussi migratori dello scorso secolo. Per quanto il rapporto di Transcrime abbia rilevato la presenza di tutte le forme di criminalità organizzata in territori non autoctoni, la ‘ndrangheta si conferma come l’organizzazione con molteplici braccia internazionali ed un’unica, potente, casa madre italiana.


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Abruzzo

Ombra nera sul futuro Dal 2007 l'Abruzzo si oppone ai progetti delle multinazionali petrolifere che vorrebbero farne terra di conquista. Nel 2010 tra i progetti bloccati figurava Ombrina Mare 2 di Alessio Di Florio

In questi anni abbiamo visto dei veri e propri capolavori di marketing linguistico: la demolizione dei diritti dei lavoratori per esempio ora si chiama "ammodernamento del mercato del lavoro", il regalo dell'acqua al business privato invece "obbligo europeo". Uno dei settori dove questa tendenza è più in auge è quello energetico: da diversi anni i nostri Governi stanno cercando di riportare le lancette indietro di decenni per puntare su fonti di approvvigionamento vecchie e pericolose. Ci hanno provato col nucleare, ma il referendum del Giugno 2011 li ha sonoramente bocciati. E' rimasto l'altro grande pilastro: le fonti fossili. La "moderna" strategia energetica nazionale (così orwellianamente l'hanno chiamata) vogliono basarla su carbone e petrolio. Il Governo Monti in questi mesi ha dato spinte forse decisive in tal senso.

Tra le regioni a rischio petrolizzazione c'è l'Abruzzo, che da alcuni anni resiste e combatte contro i progetti di varie multinazionali. Nel 2010 l'opposizione locale, insieme ad un decreto dell'allora Ministro dell'Ambiente Prestigiacomo dopo il noto incidente del Golfo del Messico, aveva respinto uno dei maggiori progetti petroliferi: Ombrina Mare 2, un'enorme impianto a pochi chilometri dalla costa e che prevede anche una fitta rete di tubi che la collegano alla terraferma. 200 tonnellate di fumi al giorno Secondo le stime della stessa MOG (la società proponente), è previsto che Ombrina Mare 2 ogni giorno immetta in atmosfera circa 200 tonnellate di fumi da combustione dai motori, dal termodistruttore e dalla torcia atmosferica; nei pochi mesi di perforazione e prove di produzione dovrebbe produrre 14mila tonnellate di rifiuti tra fanghi perforanti ed altro. Nei mesi scorsi, nel suo furore di “ammodernamento”, il Governo Monti ha cancellato quanto previsto nel decreto Prestigiacomo e (con il voto positivo in Parlamento, nessuno escluso, neanche tra i parlamentari abruzzesi, dei tre grandi partiti che lo sostenevano) e ha fatto ripartire il progetto di Ombrina Mare 2. La minaccia sulle coste abruzzesi In pochi mesi si è completato il nuovo iter e la minaccia è incombente sulle coste abruzzesi. La mobilitazione, che in questi anni sta difendendo la "Regione Verde d'Europa"

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e che già nel 2010 fu efficace, si è rimessa in moto. Sarà una lotta lunghissima, senza tregua, che sta già coinvolgendo tutta la popolazione, le associazioni, i comitati. Chi è stato in prima fila contro i progetti petroliferi (a partire da associazioni come WWF, Legambiente, Confcommercio, Nuovo Senso Civico, fino al centro sociale Zona22, all'Abruzzo Social Forum, ad alcuni comuni per arrivare a partiti come Rifondazione Comunista, PCL, Verdi, Mov.5 Stelle) si sta mobilitando in massa. Il 13 Aprile un'enorme massa di cittadini, migliaia e migliaia, attraversano Pescara in una manifestazione dalla risonanza nazionale. Il Parco della Costa Teatina Ma Ombrina è oggi soltanto il maggiore di tutta una serie di progetti che coinvolgono, in mare o a terra, quasi tutto il territorio regionale. La mobilitazione quindi non si limita a fermare nuovamente Ombrina ma punta alla fine dell'avventura petrolifera e alla scelta di un futuro più pulito e rispettoso del territorio. A partire dall'istituzione del Parco Nazionale della Costa Teatina, di cui abbiamo già avuto modo di accennare nei numeri scorsi de I Siciliani, che continua ad essere bloccata dagli interessi e dagli appetiti speculativi ed egoistici di poche lobbies. Come in Val Susa, a Vicenza, in Sicilia, in Liguria, sarà dura. Ma non si mollerà mai. Anche questa, nell'epoca della Crisi (diventata ormai da evento un vero e proprio sistema di potere economicofinanziario), è una Resistenza.


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Emilia-Romagna

Una terra per le mafie Non ancora al livello di Liguria o Lombardia, ma i numeri sono già preoccupanti e la politica dovrebbe inter venire di Salvo Ognibene

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"O la smette o gli sparo in bocca". Lo dice Guido Torello (imprenditore) a Nicola Femia (boss della 'ndrangheta), arrestati entrambi in un’operazione di qualche settimana fa che ha portato a 29 ordinanze di custodia cautelare e che ha smantellato l'organizzazione, che con base a Ravenna, gestiva in tutta Italia e all'estero, i settori del gioco on line e delle videoslot manomesse. Chi avrebbe dovuto smetterla è Giovanni Tizian, giornalista della Gazzetta di Modena, sotto scorta da un anno per le sue denunce. Tutto ciò avviene nella civile Emilia-Romagna, quella che, Pippo Fava, più di trent’anni fa, definiva la più grande lavanderia d’Italia, oggi è ben altra cosa.

La colonizzazione mafiosa Il Pg di Bologna Emilio Ledonne, ha lanciato l’allarme sulla colonizzazione della regione da parte delle mafie e con almeno 11 organizzazioni presenti sul territorio (tra cui 7 straniere) è difficile contraddirlo. Pisanu rincara: “Sappiamo che la criminalità organizzata ha già acquistato delle case di cura”. Nel nord Italia la mafia si presenta con il volto rassicurante di manager e colletti bianchi e certamente la ‘ndrangheta è l’attore economico più attivo. Il fatturato delle organizzazioni mafiose in Emilia Romagna è pari a 20 miliardi di euro, quasi il 10 % rispetto a quello di tutta Italia. I beni confiscati fino ad oggi sono 110, di cui buona parte a Bologna e in provincia, e almeno l’8,6 % tra commercianti e imprenditori è coinvolta in attività di prestiti a strozzo. Nove attentati in sei mesi Nell’ultimo rapporto della DIA si legge che ci sono stati nove attentati negli ultimi sei mesi del 2011 (160 intutta Italia), più che in Sicilia (7) e quasi alla pari della Calabria (10).

Giornalismo d'inchiesta Premio “Gruppo dello Zuccherificio”

Il 30% delle imprese di autotrasporti (2.599 su 9.083) non risultano proprietarie di nessun veicolo, mentre circa 900 imprese risultano "non titolate a poter svolgere questa attività". Il settore del trasporto merci risulta spartito soprattutto tra ‘ndranghetisti e casalesi, mentre il movimento terra è invece interamente nelle mani delle ’ndrine. Lavoratori in nero e irregolari Una regione, l’Emilia-Romagna, prima in Italia per i lavoratori “in nero” e seconda sul fronte dei lavoratori irregolari: sono rispettivamente 7.849 e 16.586. (leggi qui il resto del dossier) E la ricostruzione? I contributi ministeriali stanziati sono 8,4 miliardi, le istituzioni hanno adottato il protocollo di intesa per dire no al massimo ribasso negli appalti ma le mafie sono già arrivate. Certo. Ancora nessun Comune sciolto (nonostante il caso di Serramazzoni che ha rischiato) per “infiltrazioni mafiose” ma questo non fa della civile EmiliaRomagna un territorio felice. Una terra non di mafie ma per le mafie. Un territorio, freddo, che oggi si è riscaldato. Non siamo “ancora” ai livelli di Liguria e Lombardia ma i numeri sono preoccupanti, sempre che la “politica” abbia voglia di ascoltare.

Possono concorrere al premio giornalisti, singoli o associazioni con articoli ed inchieste pubblicate su quotidiani, periodici e agenzie di stampa, nonché con servizi pubblicati da testate giornalistiche online dal 01.01.2012 Il “Gruppo Dello Zuccherificio”, in collaborazione con LiberaInformazione, al 15.04.2013. Altreconomia e Articolo 21, indice la IIa edizione del Premio per il Il montepremi di 3000 € verrà diviso tra i primi due classificati di ogni Giornalismo d’Inchiesta “Gruppo dello Zuccherificio”dedicato alle inchieste sezione, che saranno premiati al 5° Meeting dell’Informazione Libera a realizzate nel 2012, inedite o diffuse tramite carta stampata, internet e Ravenna (maggio-giugno 2013). nuovi media. La giuria è composta da Loris Mazzetti, Giorgio Santelli, Carla Baroncelli, Il Premio, realizzato grazie al contributo di Comune di Ravenna e ANPI Norma Ferrara, Gaetano Alessi, Pietro Raitano. Ravenna, prevede le seguenti categorie: Info: www.gruppodellozuccherificio.org - Premio Giovani: per inchieste realizzate da giovani di età inferiore ai 30 mail: premiogruppodellozuccherificio@gmail.com anni, su tutto il territorio nazionale. tel.: 3295356864/ 3409149014 - Premio Nazionale: per inchieste riguardanti l’intero territorio nazionale realizzate da autori oltre il trentesimo anno d'età.

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Periferie

“Ho bisogno di soldi per l'uovo di Pasqua” “E quindi ora mi metto a spacciare”. Lo dice un ragazzino del quartiere, nel crocchio dei suoi amici... di Domenico Pisciotta

Lui, mani dietro la schiena e testa bassa, risponde che è un’idea che gli è venuta così, nessuno gli ha detto niente. Ha bisogno di soldi, dice che vuole fare un regalo alla sua ragazza, vuole regalarle un uovo di Pasqua. Racconta che ha cercato di trovarsi un lavoretto, ma, dove lo prendevano non lo pagavano mai, o gli davano molto meno di quanto gli promettevano.

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Un regalo alla sua ragazza

“Ho bisogno di soldi: devo comprare un uovo di Pasqua”. E comincia a spacciare. Sguardo basso, gli occhi fissano i piedi che si muovono avanti e indietro nervosamente. Lo sguardo si alza, per un istante, solo quando pronunciano il suo nome. Poi, torna subito giù; il suo sguardo non sembra capire lo sgomento di chi gli sta intorno.

Dice che ha scaricato i camion per due mesi, casse di acqua per 20 euro la settimana, mattina e pomeriggio, domenica inclusa. I soldi a casa sono pochi; suo padre lavora tutto il giorno portando bombole a domicilio e sua madre cerca di arrotondare con lavori di pulizia, quando ci sono. Un ragazzo che lo stava ad ascoltare gli racconta che, una volta, ha ricevuto un’offerta di 400 euro per fare il palo per

Un cerchio di persone si è formato intorno a lui. Sono ragazzi più grandi di lui e sono preoccupati. L’hanno sentito parlare con i suoi coetanei. Gli hanno sentito dire: “Se devi spacciare, 'a spacciari bonu” (devi spacciare bene). Il suo nome non ha importanza: l’età, invece, sì. È un ragazzo che ha, da poco, compiuto sedici anni e che vive nel quartiere di San Cristoforo, a Catania. Chi ti ha proposto di spacciare? Quanto ti hanno promesso? Sai cosa rischi se ti beccano? gli chiedono i ragazzi che si sono fermati attorno.

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ragazzi che dovevano spacciare; lui aveva rifiutato e, a coloro che gli avevano offerto quel “lavoro”, aveva detto che preferiva spaccarsi le mani nei campi per 30 euro al giorno. “Ma qui il lavoro onesto dov'è?” Un altro ragazzo cerca di fargli capire che, se lo beccano, per lui sarà dura. Non potrà rivedere la sua ragazza. Avrà bisogno di un avvocato ma soldi non ne avrà, e rischierà di rimanere dentro per tanto tempo. Gli racconta che l’esperienza del carcere è massacrante, che vedere il mondo da dietro le sbarre ti uccide lentamente. Qualcuno gli chiede nuovamente chi sia stato a proporgli di spacciare, ma ottiene sempre la stessa risposta. Forse è vero che nessuno gli ha proposto di spacciare; forse quel ragazzo ha visto soltanto un’opportunità facile per fare un po’ di soldi.


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“Quei bambini li vedrai fra poco passare la cocaina ai clienti perbene, o li ritroverai in una piccola foto sulla pagina della cronaca giudiziaria” Scheda IL MIO QUARTIERE/ I LUOGHI DI SPACCIO

Scheda IL MIO QUARTIERE/ LA CRONOLOGIA

San Cristoforo è definita dall’Autorità Giudiziaria e dai giornali il "supermarket degli stupefacenti". La mafia gestisce un business che genera, ogni anno, milioni di euro e fornisce “lavoro” a centinaia di persone, la maggior parte impiegati come pusher e vedette. In tale attività sono coinvolti anche minori; a Catania nel 2012, si sono registrati 146 arresti di minorenni. Questo dato pone Catania al 5° posto nella classifica nazionale, dopo città come Roma e Napoli. Molto probabilmente si tratta dell’azienda con le maggiori entrate del territorio cittadino. Gli arresti e i sequestri per spaccio di sostanze stupefacenti sono decine ogni mese. È stato quantificato che, a San Cristoforo, la mafia ottiene più di trentamila euro al giorno di guadagni con lo spaccio. Le piazze di spaccio sono numerose. Tra le altre: - L’area di S. Maria delle Salette; la zona è stata luogo dell’operazione Revenge 2 condotta dai Carabinieri contro la famiglia Bonaccorsi, detti “Carateddi”, che ha portato all'arresto di 24 persone, su ordine del gip Giuliana Sammartino. - La zona del Tondicello e di Via della Concordia; la zona è stata luogo dell'operazione Mulini, che ha messo in evidenza come su Catania si riversa un quantitativo immenso di cocaina, acquistata da persone di ogni estrazione sociale. - La zona di via Mulini a Vento.

- 17 febbraio 2013, San Cristoforo, Catania. Quattro spacciatori in manette sorpresi a cedere la droga ai clienti in via Trovatelli, a San Cristoforo. Sequestrati 60 grammi di marijuana e 350 euro, ritenuti l’incasso dello spaccio. - 6 marzo 2013, San Cristoforo, Catania. I Carabinieri hanno arrestato due uomini per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. In via Della Lava i due individui cedevano degli involucri ad occasionali acquirenti. Bloccati e perquisiti, sono stati trovati in possesso di 51 dosi di marijuana, per un peso totale di 110 grammi, e 38 dosi di cocaina, per un peso complessivo di 12 grammi. - 15 marzo 2013, San Cristoforo, Catania. Tre spacciatori acquistavano la droga a San Cristoforo per smerciarla ad Enna. I tre sono stati bloccati in via Santa Chiara e sono stati trovati in possesso di 100 grammi di marijuana. La perquisizione in casa del venditore ha permesso di sequestrare 1,5 chili di marijuana.16 marzo 2013, San Cristoforo, Catania. I carabinieri arrestano una donna di 56 anni per detenzione e spaccio di cocaina e marijuana. Nell’abitazione sono stati sequestrati 53 involucri di carta stagnola contenenti 23 grammi di cocaina e 2.800 euro in banconote, ottenuti grazie all'attività di spaccio.

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Tanti suoi coetanei, anche più piccoli di lui, spacciano. Su motorini più grandi di loro sfrecciano, impennano e si divincolano tra le macchine in fila per via delle Calcare o via della Concordia. Li vedi schizzare fuori a suon di clacson su Via Plebiscito quando arriva la polizia per una retata. “Arriva la polizia!” Accanto a quei ragazzi vedi bambini più piccoli, spaventati quando un elicottero della Polizia sorvola le loro teste; quei bambini li vedrai, poco tempo dopo, passare “stecche” di fumo o palline di cocaina a studenti e professionisti, o li riconoscerai in una piccola foto sulla pagina della cronaca giudiziaria. Per spacciare non serve alcun titolo di studio: tutti possono mettersi a un angolo e fare il palo, o trasportare piccole dosi. È un mestiere che garantisce soldi facili, ma altrettanto facilmente ti può privare del sorriso. “Ma questa che vita è?” Qualcuno cerca di ripetergli fino alla nausea che quella non è vita. Quel ragazzo che ormai da qualche tempo non frequenta più la scuola se ne va, promettendo di non spacciare più, ma la strada è sua compagna di viaggio per troppe ore al giorno e non c’è un pallone o dei coetanei, amici veri, che lo possano dissuadere da scelte pericolose per il suo futuro.


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Antimafia al Nord

Un libro ripulisce il circolo Arci Dove i mafiosi avevano brindato in onore del loro capo, adesso gli antimafiosi si riuniscono per riaffermare i valori della legalità di Rosaria Malcangi e Andrea Zolea www.stampoantimafioso.it Paderno Dugnano. Molto di più della presentazione di un libro. Ha il sapore di una messa laica l’incontro organizzato il 17 febbraio al circolo Arci Falcone e Borsellino. Il libro al centro del dibattito è Buccinasco, La ’ndrangheta al nord di Nando dalla Chiesa Martina Panzarasa. C'era anche Piero Grasso, ex procuratore nazionale dell’Antimafia. Il circolo in questione è quello in cui nell’ottobre 2009 si svolse un summit di ‘ndranghetisti. A diciannove chilometri da Milano, sotto la foto dei due magistrati assassinati, una trentina pranzarono e brindarono a Pasquale Zappia, diventato referente nel nord Italia delle cosche calabresi. I carabinieri filmarono tutto e nel luglio 2010 l’operazione Crimine-Infinito, coordinata dalle Direzioni distrettuali antimafia (Dda) di Reggio Calabria e Milano, portò in carcere quasi trecento persone. Tra di loro assassini, trafficanti di droga, persone ritenute colpevoli di riciclaggio, estorsione, usura e altro.

A distanza di tre anni e mezzo da quell’insulto si avvertiva però ancora la necessità di una bonifica morale di quel luogo di cultura, intitolato ai più famosi martiri della mafia ma profanato da essa. Una bonifica morale Bisognava «archiviare» la cena dell’inferno e rendere omaggio a chi ha pagato con la vita la lotta alla mafia riaffermando l’impegno civile che parte dalla conoscenza della mafia, della ’ndrangheta e di altre organizzazioni criminali. Il professor dalla Chiesa lo ripete a ogni occasione: «La battaglia contro la ’ndrangheta inizia imparando a pronunciare e scrivere correttamente il nome. ‘Ndrangheta. Non andrangheta». Perché ciò che non si riesce nemmeno a nominare ha gioco facile a sparire dalla vista e dalle coscienze. Mentre fuori un sole freddo prometteva l’arrivo della primavera, nel circolo Arci si respirava la speranza - smentita dal democratico esito delle urne - che la Lombardia potesse finalmente cambiare passo. Ad altre latitudini di democrazia e cittadinanza, gli scandali emersi negli ultimi mesi in Regione sarebbero bastati a seppellire per sempre i destini politici dei responsabili. In Italia no. Ndrangheta nell'interland milanese E allora acquista ancora più spessore l’imperativo di diffondere la conoscenza del fenomeno mafioso. Obiettivo a cui il libro - segnalato di recente anche dal Ministero della Pubblica Istruzione alle varie scuole italiane - dà un prezioso contributo. Esso ricostruisce tutta la parabola della ’ndrangheta nei centri dell’hinterland milanese, il cui epicentro è Buccinasco, non a caso denominata la Platì del nord. Negli anni ’70 la ‘ndrangheta inizia a far soldi con i sequestri di persona, poi nel decennio successivo passa al traffico della droga. Le cosche così accumulano in fretta

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ingenti quantità di denaro ma – come ricorda Martina Panzarasa – l’obiettivo non sono tanto i soldi, quanto il potere e il controllo del territorio. Controllo che può iniziare banalmente con l’acquisto di piccoli terreni, poi di una casa, un bar, una palazzina fino ad arrivare a comprare o costituire una società immobiliare. Non è mancato un «fuori programma». Maurizio Luraghi, ex imprenditore edile, imputato per associazione di tipo mafioso nel processo Cerberus, attualmente sospeso, è intervenuto dalla platea. Dopo il fallimento della sua azienda, l’imprenditore, a dispetto dell’ampia circonferenza vita, si è riciclato come maestro di ballo. L'Expo e il movimento terra Citato nel libro di Dalla Chiesa e Panzarasa e in altri affini, l’uomo parla come un fiume in piena ogni volta che può. Rimprovera allo Stato la lentezza con cui viene gestito il fondo di solidarietà, lo strumento che garantisce alle vittime di reati mafiosi, purchè dotate di precisi requisiti, il risarcimento dei danni subiti. La figlia di Luraghi, imprenditrice nel settore edilizio, attende oltre un milione di euro dopo un incendio e il successivo fallimento della sua azienda. La tensione scatenata dalle sue parole, soprattutto per i riferimenti ai pericoli di gestione mafiosa connessi ai lavori dell’Expo 2015, e in particolare al movimento terra, si è sciolta in una foto in qualche modo liberatoria scattata agli organizzatori e ai loro ospiti sotto l’immagine di Falcone e Borsellino sorridenti. Ma forse la fotografia vera, quella che si è depositata nel profondo della coscienza dei presenti, è un’altra. È il professor Dalla Chiesa, dopo aver ascoltato Luraghi con interesse, conserva i documenti che l’uomo gli passa, poi si avvicina al banchetto dei libri, acquista una copia, ci scrive dentro una dedica e la regala alla figlia di Luraghi. Ed e proprio da qui che si ricomincia: da un libro.


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Poteri

Cosentino non dimentica E' la fine di un'epoca. La caduta di un intoccabile... di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it Si è costituito nel carcere di Secondigliano di Napoli, un penitenziario duro dove sono reclusi padrini mafiosi e boss camorristi, Nicola Cosentino, deputato uscente del Pdl, ex sottosegretario all'Economia con delega al Cipe nell'ultimo governo Berlusconi e potente coordinatore regionale campano. Non appena è terminata l'immunità parlamentare – il 15 marzo – l'ex onorevole è finito in una cella nel padiglione T1, quello riservato ai detenuti di alta sicurezza. L'uomo politico che ha contribuito a far vincere il Pdl a livello nazionale, eleggendo nel 2008 in Campania ben 38 deputati e 14 senatori, rastrellando oltre un milione e seicento mila voti, pari al 12 per cento del consenso totale dell'armata costruita da Silvio Berlusconi è ristretto nella casa circondariale partenopea. Nicola Cosentino, conosciuto anche con il nomignolo di Nick 'o mericano è imputato in due diversi processi con accuse che vanno dal reimpiego di capitali illeciti, alla corruzione aggravati dalla finalità mafiosa e al concorso in associazione mafiosa. Nicola Cosentino non è un prigioniero politico, non è vittima di una persecuzione orchestrata dalle toghe rosse, non è il nuovo Enzo Tortora. I profili penali contestati all'ex sottosegretario – in questi anni – sono molto gravi anzi gravissimi. Nel corso delle indagini e dei due processi che si stanno celebrando presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere emergono sempre di più legami inquietanti e chiari contorni in cui camorra, politica, classe dirigente e imprenditoria sono fili dello stesso intreccio.

Non c'è dubbio che l'arresto di Cosentino sancisce la fine di un'epoca. E Nick 'o mericano è stato solo il primo della lista. L’ex senatore Pdl Sergio De Gregorio, la gola profonda che ha inguaiato Silvio Berlusconi sulla compravendita dei parlamentari, è serenamente finito ai domiciliari, stesso destino per Vincenzo Nespoli, senatore uscente e sindaco decaduto di Afragola. Non è finita. Qualche problema, per la verità più d'uno, si addensa anche sul capo di Amedeo Laboccetta, deputato Pdl, trombato alle ultime consultazioni e in rapporti d’affari con l’imprenditore latitante Francesco Corallo, re delle slot machine. C’è poi l’incognita grossa come una cosa del riconfermato deputato Pdl Luigi Cesaro, noto come Giggino ‘a purpetta, sempre in bilico per un’inchiesta su politica e camorra ormai in dirittura d’arrivo. Non è casuale infatti se per la prima volta il boss pentito del clan dei Casalesi Luigi Guida ’o ndrink, per anni ai vertici della cosca casertana, ha deciso di parlare del potente politico di Sant’Antimo e della sua famiglia. L'ex padrino vuota il sacco L’ex padrino nel corso dell’udienza del 6 marzo al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha vuotato il sacco raccontando ai giudici degli interessi dei Cesaro nel comune di Lusciano e in particolare svelando accordi segreti su gare d’appalti : quella per il Pip (piano insediamento produttivi) e una riguardante un centro di riabilitazione. Esce fuori un patto d’acciaio tra politica, imprenditoria e camorra. La “cosa pubblica” diventa “cosa loro”. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che Luigi Cesaro, ex presidente della Provincia di Napoli, viene tirato in ballo in storie che per usare un eufemismo chiamiamo “opache”. Il deputato Giggino ‘a purpetta era rimasto già coinvolto a metà degli anni Ottanta in un’inchiesta sul clan capeggiato da Raffaele Cutolo e assolto con sentenza definitiva dopo una condanna in primo grado per favoreggiamento a 5 anni di carcere.

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Non molto tempo fa durante un’intercettazione effettuata nel corso di un colloquio in carcere, il padrino Cutolo riferiva a una nipote – in cerca di un favore – di farsi aiutare da Cesaro, ora uno importante, che anni addietro gli avrebbe anche fatto “da autista”. Il nuovo Parlamento insomma a breve potrebbe occuparsi del deputato Cesaro: risalirebbe a circa un anno fa la richiesta d’arresto dell’onorevole, da parte della Procura all’Ufficio gip di Napoli. L’inchiesta prende le mosse dalle dichiarazioni del 2008 di Gaetano Vassallo, stakeholder dei rifiuti per conto dei Casalesi, che accusa Cesaro di relazioni con elementi di spicco del clan. “Non pagherò per tutti” Ecco, la caduta di Nicola Cosentino, il tramonto del suo sistema di potere ha fatto maturare, evidentemente, delle scelte e accelerato un cambio di scenario significativo. Oltre a “’o ndrink” altri potrebbero sentirsi liberi d’illuminare con i loro racconti le zone d’ombra che spesso al Sud accompagnano il successo di alcuni impresentabili e le loro formazioni politiche. Ci sono spazi. S’intravedono praterie di verità. E’ caduto il Cosentinismo – si sa – quando la barca affonda c’è il “si salvi chi può”. Il comandante – però – è rimasto al timone di quel potere e sta dimostrando ancora una volta di essere un leader. L’atteggiamento del detenuto Cosentino è rigoroso. Finita l’immunità, si è consegnato alla casa circondariale senza fiatare. Nell’interrogatorio di garanzia in carcere ha ribadito al gip di essere innocente e di respingere tutte le accuse. E’ in cella e non si lamenta. Ha deciso e promesso alla famiglia che da detenuto non vuole presenziare ai suoi processi e farsi vedere dietro le sbarre di una gabbia. Il suo messaggio sembra inequivocabile per chi dalla parte sua sa capire: “Io sono un vero uomo. Non mi nascondo. Mi prendo gli oneri. Difendo una storia. Non pagherò per tutti”.


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Napoli

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L'Ospedale del Mare sostituirà i presidi sanitari dell'Ascalesi, del Loreto mare, del San Gennaro e degli Incurabili. C'è un particolare non da poco: con la nuova riperimetrazione della Protezione Civile, la struttura è in piena Zona Rossa, quella da evacuare in caso di eruzione del Vesuvio di Pier Paolo Milanese I Sicilianigiovani – pag. 34


www.isiciliani.it Lo scandalo si chiama “Ospedale del Mare”, un mostro di cemento più o meno antisismico con travi d'acciaio e grossolane pomposità architettoniche di dubbia utilità. Una mega struttura che adesso con la riperimetrazione della Zona Rossa quella cioè che dovrebbe essere evacuata prima dell'inizio di una eventuale eruzione del Vesuvio, si trova al centro di una emergenza. La decisione è stata adottata dalla Protezione civile nazionale che vagliando rapporti tecnici e studi sul rischio eruzione del Vesuvio ha deciso di estendere i confini dell'area di massimo rischio anche a parte della zona orientale di Napoli, e, in particolare a Ponticelli dove appunto sorge il cantiere della grande struttura ospedaliera. Chi ha progettato a suo tempo l'insediamento dell'ospedale non lo sapeva che si edificava a ridosso di una potenziale Zona Rossa? Perché è stato consentito un progetto del genere? Perché la Regione all'epoca guidata da Antonio Bassolino ha avallato questa soluzione? Quali interessi c'erano in gioco? C'entra qualcosa la moglie (famiglia di costruttori) di un potente ex assessore, ora eurodeputato e uomo da sempre di Bassolino? La collocazione dell'Ospedale del Mare nella vecchia zona gialla, tecnicamente “a pericolosità differita”, non metteva - certoal riparo la struttura e i suoi futuri ospiti dalla furia distruttiva del vulcano. In realtà, dopo il superamento di tanti intoppi creati dalla formula del project financing scelto per la realizzazione della struttura, proprio ora che secondo l'ultima versione ufficiale, i lavori dovrebbero concludersi definitivamente nel 2015, riesce difficile immaginare un clamoroso dietro front. L'Ospedale a Ponticelli sarà, insomma, completato. Ma proprio per questo occorre pretendere garanzie per la sicurezza del personale e dei circa 500 degenti. La struttura, infatti, ingloberà i presidi ospedalieri dell'Ascalesi, del Loreto mare, del San Gennaro e degli Incurabili che a breve chiuderanno. Motivo: abbattere la spesa sanitaria. Quindi in caso di emergenza bisognerà evacuare degenti e personale. Bene. Si farà in tempo? E dove li trasferiranno?

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Catania/ Università

Il nuovo e l'indagato Pignataro nuovo rettore. Recca trombato alle politiche e indagato dalla Procura per la mail elettorale inviata a professori e studenti dell'ateneo catanese di Salvo Catalano www.ctzen.it

Sette giorni per cambiare l'università di Catania. Il tempo che c’è voluto per assistere a un avvicendamento al vertice di uno dei maggiori atenei del Sud, e non solo a seguito delle elezioni accademiche del 28 febbraio per il nuovo rettore. Vicende politiche e giudiziarie sembrano aver fatto il resto. Tutto comincia poco prima di marzo, con l'aspettativa richiesta dall'ormai ex Magnifico Antonino Recca - già coordinatore regionale Udc - per correre alle elezioni nazionali per un posto al Senato. Non avendo ottenuto la poltrona

a palazzo Madama, Recca avrebbe dovuto mantenere quella di rettore etneo fino alla scadenza del suo mandato, il 31 ottobre. Ma tutto cambia la mattina del 6 marzo quando, con una email alla comunità accademica, annuncia le proprie dimissioni. A distanza di poche ore, si diffonde la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dello stesso Recca da parte della procura di Catania per il cosiddetto caso Mailgate: l'invio di un messaggio di posta elettronica elettorale a favore della candidata Udc Maria Elena Grassi durante le scorse consultazioni regionali. A tutti i docenti e gli studenti... Un messaggio inviato a tutti i docenti e agli studenti catanesi di Unict attraverso i server di posta dell'Università di Catania, dove lavora il marito della donna, Nino Di Maria, membro dello staff del rettore. Sette giorni dopo la notizia e le dimissioni di Recca, si insedia il nuovo rettore eletto: Giacomo Pignataro, docente di Economia. «Non esistono più, a mio parere, le condizioni di serenità per il completamento del mio secondo

Scheda DA ECONOMIA AL RETTORATO Quasi cinquantenne, sposato, con un figlio, è docente di Scienze delle finanze al dipartimento di Economia dell'università di Catania. In questi anni è stato membro del Consiglio d’amministrazione dell’ente e, tra il 2009 e il 2010, presidente della Scuola superiore etnea. Dopo la laurea proprio all'università di Catania, consegue un master e un dottorato a York, nel Regno Unito. Torna in Italia e rinuncia a un posto di lavoro in banca per un contratto da ricercatore a Unict. È l'inizio degli anni '90. Nel 2000 diventa professore associato e due anni dopo è ordinario. Tra i suoi settori di ricerca c'è soprattutto l’economia sanitaria con un approfondimento sull’organizzazione ospedaliera.

mandato di rettore. Pertanto, rassegno le dimissioni irrevocabili dalla carica con decorrenza 11 marzo 2013». Le critiche alla sua decisione di restare fino a ottobre e soprattutto l'annuncio di alcuni “urgenti interventi” non erano di certo mancate. Come quelle di studenti, docenti e ricercatori del Coordinamento unico d'ateneo che, con una nota, hanno accusato il rettore di voler restare in carica per «una puerile idea di rivalsa e onnipotenza». «Se qualcuno ha come unica ambizione – affermano - quella di trasformare questi mesi di transizione in una semina di mine antiuomo per la prossima amministrazione, diciamolo subito: è ridicolo». Ma forse, oltre alle ostilità interne, a pesare sulla decisione di Recca di abbandonare anzi tempo potrebbero essere state le tre accuse formulate nei suoi confronti dalla procura etnea che indaga sullo scandalo delle email elettorali partite dai server dell’ università: rivelazione e uso di segreti d’ufficio, violazione della privacy e intralcio alla giustizia, con promesse in cambio di false dichiarazioni ai magistrati.

Negli ultimi tempi è stato tra i più critici oppositori dell'ex rettore Antonino Recca, il primo turno di votazioni accademiche si è chiuso per lui con un ottimo risultato, seppure senza quorum: più del doppio dei voti ottenuti da Giuseppe Vecchio, candidato appoggiato dal Magnifico allora in carica. In attesa del secondo turno, considerate le preferenze andate al collega, è lo stesso contendente Vecchio a ritirare la propria candidatura. Eletto il 28 febbraio, Pignataro resterà in carica per sei anni. Tra i punti i fondamentali del suo programma ci sono «la discussione e il coinvolgimento diretto» di tutti i membri dell'università, la scelta di «regole chiare esplicite, certe e uniformi, senza nessuno spazio a forme di autoritarismo» e la revisione del tanto contestato statuto d'ateneo in un’ottica più pluralista.

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“Il poco prestigio della laurea catanese”

Un carico pesante per quella che Recca aveva definito «una ragazzata, che ha dato il via a una smisurata enfasi mediatica caratterizzata da un’ostilità cavalcata da alcune parti politiche». «I dati sensibili degli studenti non risultano essere stati mai violati e sono rigorosamente protetti presso i server dell’Università. –aggiungeva il direttore generale Lucio Maggio – Al fine di non produrre inopportune interferenze, l’Università si asterrà da ulteriori indagini interne, restando in fiduciosa attesa degli esiti delle investigazioni svolte dagli organi competenti». Indagini sulla mail elettorale inviata da Daniele Di Maria, figlio della candidata Grassi e del dipendente Unict Nino Di Maria, che sono arrivate puntuali. Oltre ai tre, infatti, ad essere iscritti nel registro degli indagati sono adesso

Scheda QUANDO RECCA LAUREO' CALTAGIRONE Una petizione online per chiedere la sospensione in via cautelativa della laurea ad honorem conferita nel 2009 dall’Università di Catania a Francesco Bellavista Caltagirone, finito in carcere per truffa ai danni dello Stato. Ad avviarla un gruppo di docenti dell’Ateneo catanese. La decisione di insignire dell’onorificenza l’imprenditore romano è stata tra le più contestate del mandato dell’ex rettore Antonino Recca «Per riparare, almeno in parte, alla brutta figura non ci resta, come docenti e studenti, che chiedere che la laurea così improvvidamente conferita venga rapidamente sospesa in regime di autotutela, in attesa che si verifichino le eventuali responsabilità penali del sig. Francesco Gaetano Caltagirone». Così alcuni docenti dell’Università di Catania, in particolare il gruppo che

due tecnici della divisione informatica dell’ateneo – che avrebbero materialmente aiutato i Di Maria a inviare il messaggio – e lo stesso rettore. Che, secondo l’ipotesi dei magistrati, avrebbe potuto dare origine all’intero caso. Sarebbe Recca la persona che, «abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbono rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza». Nel caso specifico, concorrendo all’invio di mail di propaganda elettorale a studenti e docenti iscritti alla mailing list interna dell’università attraverso un indirizzo che solo in rettorato potevano conoscere. A questo si aggiunge la violazione della privacy per aver trattato, fuori dalle funzioni istituzionali, i dati personali di studenti e docenti. Aggravante, secondo i compone il Cuda (Coordinamento unico d’Ateneo), hanno avviato una petizione online per chiedere la sospensione della laurea honoris causa che l’Ateneo catanese ha conferito nel 2009 al noto imprenditore arrestato lo scorso 19 marzo con l’accusa di frode nelle pubbliche forniture, appropriazione indebita e trasferimento fraudolento di denaro a terzi, a seguito di un’indagine della Procura di Civitavecchia sulla realizzazione del porto turistico di Fiumicino. Secondo i suoi detrattori, Francesco Bellavista Caltagirone non rientrerebbe tra le persone che, come richiede il testo unico approvato con decreto regio 1592/1933 per l’assegnazione delle lauree ad honorem, «per opere compiute o pubblicazioni fatte, siano venute in meritata fama di singolare perizia nelle discipline della Facoltà per cui è concessa». Il titolo, come ironizzano i docenti che hanno avviato la petizione, non sembra avere portato bene all’imprenditore. Desirée Miranda

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magistrati, è l’«aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio». Come quella del rettore dell’università di Catania, appunto. Mentire all'autorità giudiziaria Al Magnifico dimissionario, infine, viene contestato di aver tentato di indurre il suo collaboratore e marito della candidata Nino Di Maria a mentire all’autorità giudiziaria. Promettendo una facile via d’uscita: scaricare la colpa sul figlio Daniele. Su questa terza accusa sembra non abbia giocato a favore di Recca la decisione, poche settimane dopo il caso, di promuovere Di Maria da membro dello staff del rettore a direttore del Cinap, il centro che si occupa dell’accessibilità delle strutture e dei servizi agli studenti diversamente abili. L'intera questione passa però sottotraccia davanti alle dimissioni dello stesso Magnifico e alla sua poltrona lasciata vuota. Il suo successore Giacomo Pignataro, già eletto, dovrà aspettare il via libera dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo per potersi insediare. Passaggio burocratico che avviene la sera del 12 marzo, sei giorni dopo. L'indomani Pignataro si presenta come nuovo rettore dell'università di Catania. Promette di non aumentare le tasse, si augura di poter rendere il tanto contestato statuto voluto dal suo predecessore «più equo e rappresentativo» e annuncia uno dei suoi primi atti da Magnifico: una riunione con tutti i rappresentanti degli studenti «per discutere dei problemi dell’Ateneo e cercare di risolverli insieme. Perché la laurea a Catania non abbia solo valore legale, ma significhi anche prestigio».


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Sicilia

Mafia a Partinico Cosa ci aspetta È l´inizio dell´ultima guerra di mafia a Partinico, con due schieramenti che affilano le armi... di Pino Maniaci

Come direbbe Provenzano amava la sommersione, ed oggi è a caccia di lavoro, costretto alle condizioni vincolate della libertà vigilata. Tuttavia, rimane sempre un Fardazza, quindi un ipotetico punto di riferimento per i rampolli locali di Cosa nostra. Ama muoversi e riunirsi campagne campagne e vestire di marca, atteggiandosi come un dandy locale. Su decisione di Provenzano

telejato.globalist.it

Recentemente abbiamo approfondito la storia dei mafiosi di Borgetto che oggi sono liberi di scorrazzare per le vie del Paese, dopo aver scontato la pena nelle patrie galere. Ed a Partinico cosa succede? Chiaramente noi non possiamo farci mancare nulla, ed ecco che ritroviamo in giro nomi ben conosciuti negli ambienti di Cosa nostra che da poco sono in circolazione. Parliamo di Michele Vitale, fratello di Leonardo e Vito Fardazza, e dell'anziano Nino Nania, fratello dell'ergastolano Fifiddu, ancora rinchiuso nelle patrie galere. Parliamo di due storici esponenti della malavita organizzata che, in passato, si facevano la guerra. Difatti, ricordiamo che la corrente Nania-Giambrone era antagonista ai mafiosi Vitale-Salto. Oggi sono fuori, cosa potrebbe accadere? Si dice che Michele Vitale sia nella via della conversione, e sia pronto a prendere le distanze dalla sua storia. In effetti, per l'esponente della famiglia Fardazza non sussiste alcuna accusa di omicidio.

Ma ricordiamo un po' di storia... A giugno del 2005 fu Bernardo Provenzano a decidere che anche Partinico doveva seguire quella regola della "sommersione", che negli ultimi anni di governo di Cosa nostra era stata l´arma vincente del boss corleonese. E nominò come reggente quel Maurizio Lo Iacono che solo quattro mesi dopo era già morto. Ucciso dagli uomini dello schieramento che si era improvvisamente ritrovato sotto le insegne di Antonino Nania, un vecchio boss con i contatti giusti oltreoceano, e di suo figlio Francesco, che proprio negli Stati Uniti trascorreva la sua latitanza, pur continuando a curare gli affari di famiglia. Persino Bernardo Provenzano, come si sarebbe appreso poi da un "pizzino" con una richiesta di informazioni avanzata a Lo Piccolo, rimase interdetto per quell'omicidio. È l´inizio dell´ultima guerra di mafia a Partinico, con due schieramenti che affilano le armi e che non fanno più mistero dei loro sponsor ad alto livello: i rampanti, i giovani scalpitanti che riconoscono solo l´autorità di "'u zu Ninu", Antonino

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Nania, che insieme con Antonino Giambrone accetta di fare da sponda alle velleità di allargamento oltre i confini dei palermitani di Salvatore Lo Piccolo alla ricerca di nuovi appalti e di nuovi affari, come la cava American Rock di Montelepre, proprietà di Francesco D´Amico, da sempre vicino a Raccuglia e poi costretto a scendere a patti con gli appetiti di Lo Piccolo. Dall´altra parte il potere costituito, rappresentato da due capimafia in quel momento detenuti, Nicolò Salto e Salvatore Corrao, longa manus del superlatitante Domenico Raccuglia, gli eredi naturali dei Vitale. Il 2006 è l´anno in cui Nania riesce a imporre la sua leadership: nomina capo di Partinico Gaetano Lunetta (poi arrestato) e Borgetto Antonino Giambrone. La cosca può contare sulla complicità di alcuni imprenditori come i fratelli Riina, e su uomini di peso come Giuseppe Lo Baido e Antonino Frisella. “Dobbiamo risistemare l'officina” Nomine che scatenano l´ira dello schieramento avversario che, tra le altre cose, contesta ai Nania di non provvedere al sostentamento delle famiglie dei detenuti, così come invece prevedono le "leggi" di Cosa nostra. Nei colloqui in carcere con il nipote, il boss-meccanico Salvatore Corrao usa il linguaggio criptico del suo mestiere per annunciare che «dobbiamo risistemare quest'officina». Dopo avere scontato la pena di 10 anni di reclusione torna nella sua casa Michele Vitale, uno dei tre fratelli per anni a capo della cosca mafiosa di Partinico.


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“La nostra emittente sarà sempre vigile e attenta”

Michele, che dei tre è stato sempre considerato il più "tranquillo", ha scontato la pena comminata dal tribunale di Palermo unificata con quella del 9 luglio 1999, per il delitto di cui all'art. 416 bis C.P. per avere, in concorso con numerose altre persone fatto parte dell'associazione mafiosa denominata "Cosa Nostra", avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere reati contro la vita, l'incolumità individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che seguono, nonché per acquisire il controllo di attività economiche e appalti pubblici e, comunque, per realizzare profitti o vantaggi ingiusti. Con l'aggravante del quarto comma trattandosi di associazione armata. “Controllo di attività economiche” Il calcolo di cui si è tenuto conto per la pena è il seguente: pena base anni 5 di reclusione, aumentata di anni due per le contestate aggravanti ed in esito all'unificazione si aumenta di altri 3 anni e si perviene alla pena sopra indicata di anni 10. A questa pena si deve aggiungere la misura di sicurezza della assegnazione ad una casa di lavoro per la durata di anni 2. Tra l'altro è stato condannato per avere, dallo stato di detenzione in cui si trovava, messo a disposizione delle attività illecite della famiglia mafiosa i propri figli illegittimi. In tutto questo non possiamo fare a meno di ricordare che i componen-

ti della sua famiglia, e parliamo dei fratelli e delle sorelle, sono tutti protagonisti della vita delittuosa di Partinico degli ultimi decenni. A cominciare dal più grande, Leonardo, capo carismatico della famiglia mafiosa, che ha ormai collezionato qualche ergastolo per associazione mafiosa e per avere commesso diversi delitti. Per proseguire con Vito, che teneva i rapporti con il capo dei capi e con i boss corleonesi: il più violento da quello che racconta Giusy Vitale, autrice -insieme a Camilla Costanzo- del libro Ero cosa loro (Milano, Mondadori, 2009). Staccarsi da Riina e Provenzano Dai più anziani - Riina e Provenzano Vito si voleva staccare, insieme a Giovanni Brusca, a Mimmo Raccuglia e a Matteo Messina Denaro, per potere agire in piena autonomia senza dovere a tutti i costi chiedere loro l'autorizzazione. Anche la mite Nina è stata condannata per associazione mafiosa. Recentemente la Corte d'Appello le ha aumentato la pena a 10 anni di reclusione in base a diverse intercettazioni che ne hanno aggravato la posizione. In ultimo Giusy Vitale, la prima donna boss di Partinico che aveva preso il posto dei fratelli nella gestione del mandamento e che, dopo essere venuta a conoscenza di diversi fatti e complicità, ne ha riferito poi ai magistrati della dda. Oggi Michele troverà sicuramente una situazione molto cambiata rispetto a 10 anni fa; non troverà più niente del suo regno di Valguarnera, dove al posto delle

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stalle ci sono distese incolte intestate a uomini che hanno segnato la lotta alla mafia. E difficilmente troverà terreni dove pascolare gli animali come se fossero a casa loro. La mafia non fa più parte della storia E tante altre cose sono cambiate. Adesso ci sono le associazioni antiracket e persino qualche suo concittadino commerciante, come d'altronde lui sa bene, si è stancato di sottostare alle continue richieste di estorsione. Ma quello che troverà sicuramente stravolta è la mentalità dei suoi concittadini e della maggior parte di politici (vecchi e nuovi) ormai consapevoli del fatto che la mafia a Partinico non fa più parte della storia attuale. La nostra emittente sarà sempre vigile ed attenta nell'analizzare i movimenti dei rampolli locali. L'attenta e competente attività delle forze dell'ordine ha permesso, negli ultimi anni, di bloccare con efficienza l'attività criminale della mafia. Cosa Nostra in difficoltà Pertanto, oggi, Cosa nostra si ritrova in estrema difficoltà e con pochi punti di riferimento. Speriamo di non sbagliare nel dire che, attualmente, respiriamo la quiete prima della tempesta di una futura guerra di mafia, e che soltanto l'azione della autorità competenti e la coscienza dei cittadini onesti potranno debellarla del tutto.


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Sicilia/Ambiente

No Terna: comitati in ordine sparso Protestano per difendere il diritto alla salute e alla vita. I cittadini della Valle del Mela si oppongono fermamente alla costruzione dell’elettrodotto Sorgente Rizziconi che la società Terna sta realizzando sulla costa tirrenica messinese ma... di Carmelo Catania

Va avanti da mesi il braccio di ferro sull’elettrodotto Terna in corso di realizzazione tra la Sicilia e la Calabria. Un’opera contestata dai comitati locali nell'area della piana di Milazzo, soprattutto tra Serro, San Filippo del Mela, San Pier Niceto e Pace del Mela, secondo i quali l'infrastruttura sarebbe pericolosa per la popolazione perché troppo vicina ai centri abitati, in una zona già dichiarata a rischio ambientale per la presenza nell'area di una centrale elettrica e di una raffineria.

Protestano i cittadini, protestano i sindaci ma, diversamente da altre realtà di protesta, come il No Ponte o il No Muos, manca il fronte comune e ogni comitato si trincera dietro la sigla “Nimby”, “Not in my backyard”, concetto così riassumibile: l’opera in questione può anche essere giusta e utile, purché non sia costruita nel mio territorio. L’appoggio dei grillini Comitati di cittadini e sindaci hanno portato la loro protesta fin davanti al Palazzo dei Normanni esponendo cartelli e striscioni contro Terna e hanno trovato il loro megafono nel Movimento 5 Stelle che, dopo quella sul MUOS, fa approvare il 6 marzo scorso – a larga maggioranza trasversale – all’Assemblea regionale siciliana una nuova mozione con cui si impegna il governatore Crocetta a chiedere a Terna «a porre in essere tutte le iniziative necessarie affinché il progetto esecutivo venga modificato nelle parti in cui il tracciato dell'elettrodotto attraversa tutta l'area definita dalla Regione siciliana ad elevato rischio di crisi ambientale e la Zona di protezione speciale, in modo da prevedere, per la sua realizzazione, il passaggio in galleria». «Teniamo a precisare – spiegano dal Movimento - che non siamo contrari a prescindere al progetto Terna, anche perché ci rendiamo conto dell’esigenza

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dei servizi da fornire alla popolazione. Vogliamo, però, che in primo piano vengano messe le questioni della salute e dell’ambiente. E per questo che abbiamo voluto una riformulazione del progetto». Comitati divisi, Regione in stallo Ma a tutt’oggi, nonostante una generica dichiarazione sulla mancanza della verifica di compatibilità nessuna iniziativa risulta avviata da parte del Governo regionale e – secondo il Coordinamento Ambientale Tutela del Tirreno – Terna «continua nell’irragionevole intento di sopraffazione della volontà popolare. L’illustrazione della mozione, a cura della Deputata Zafarana, ha evidenziato i notevoli punti critici del progetto che il nostro coordinamento ha sempre indicato nelle numerose istanze portate avanti in questi anni.» Critici contro Crocetta anche il comitato Pacesi per la vita, l’associazione TU.DIR.DAI e l’associazione T.A.T.che – in occasione di un sit-in per commemorare i morti di Passo Vela (il tristemente noto “quartiere delle parrucche” del comune di Pace del Mela) – in un comunicato, si rivolgono al presidente della Regione siciliana, per illustrargli ancora una volta quello che sta accadendo in questa terra «dimenticata da Dio».


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“L'inquinante presenza degli elettrodotti”

Le associazioni fanno riferimento al fatto che Pace del Mela non sia mai stata nominata da Crocetta nell’elenco delle località maggiormente colpite dalla presenza degli elettrodotti, circostanza verificatasi – secondo i comitati pacesi – anche durante la seduta del 6 marzo scorso, quando il governatore ha menzionato solo una parte dei territori compromessi dalla presenza dei tralicci dell’alta tensione. «La Valle del Mela – scrivono – non è confinata al solo paesino di cui Lei parla sempre e mostra il tracciato [San Pier Niceto, ndr], località che è si colpita dagli elettrodotti, ma non presenta le gravi criticità che invece insistono a Pace del Mela e che, ad oggi, non è stata oggetto della sua attenzione. Molto probabilmente non è informato della grave situazione sanitaria e della mortalità che esiste a Pace del Mela». L’associazione Passo Badia di San Pier Niceto ribadisce invece la propria fiducia nel Governo regionale per l’attività che sta svolgendo contro le criticità provocate dal tracciato dell’elettrodotto Terna. «Il Presidente Crocetta – scrive l’avvocato Rosy Giorgianni, presidente dell’associazione – è stato accusato di non essere Sindaco di tutti i siciliani e di fare favoritismi ai cittadini di San Pier Niceto. Il Comitato Passo Badia, ha fornito agli organi regionali una documentazione tangibile, attestante la criticità e l’assurdità del tracciato nell’area di Passo Badia, ovvero San Pier Niceto».

Cosa che – secondo la Giorgianni – il comitato Cittadini Pacesi per la Vita, non avrebbe mai fatto, evidenziando il fatto che il nuovo elettrodotto Terna nulla avrebbe a che vedere con il rione di Passo Vela. Nella sua replica inoltre il presidente dell’associazione Passo Badia fa riferimento anche alla brusca virata dell’elettrodotto prevista nel nuovo progetto, che, anziché proseguire lungo una traiettoria lineare come faceva in origine, ora va a finire sopra le abitazioni dei cittadini. «In quell’area – scrive la Giorgianni – il tracciato inizia a fare una molteplicità di deviazioni che avvicinano l’elettrodotto alle case, per poi ricongiungersi a Torregrotta sulla vecchia linea dell’elettrodotto in dismissione. Recentemente, il Dott. Motawi, dirigente Terna, ci informò che tale deviazione sarebbe stata richiesta e concordata con la precedente amministrazione comunale». Per Rosy Giorgianni però «l’unico nemico è, e rimane Terna. Le guerre tra poveri, ovvero tra le associazioni non servono a null’altro che a rafforzare questo gigante che oggi, a causa di queste tensioni tra di noi, non si trova più di fronte una barricata, ma piccoli muretti facilmente scavalcabili.» I sostenitori dell’opera C’è anche chi sostiene che l’elettrodotto sia strategico per la Sicilia: per il quotidiano economico Il Sole 24 Ore, con-

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sentirebbe un abbattimento dei costi energetici «la sua mancata realizzazione ha fin qui portato – secondo alcune stime – un aggravio di spesa da 3,5 miliardi», mentre per Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, «È necessario trovare al più presto un punto d’incontro per sgombrare il campo dalle remore e dagli ostacoli che ancora si frappongono alla realizzazione dell’elettrodotto, un’opera indispensabile, peraltro, anche per lo sviluppo dell’energia da fonti rinnovabili, che rappresentano perla nostra Regione una grande opportunità. Sono certo che tutti gli attori coinvolti – ha concluso il presidente di Confindustria – riusciranno ad individuare soluzioni idonee che consentano la realizzazione di questa opera infrastrutturale strategica salvaguardando al contempo la salute dei cittadini e dell’ambiente». E intanto Terna va avanti I lavori all’elettrodotto intanto non si fermano, anzi, sono stati quasi completati i basamenti dei tralicci di Pace del Mela, e se su alcune modifiche Terna ha fatto sapere di essere disponibile – ma solo dopo il completamento dell'opera e la sua messa in esercizio – su altre, come l'interramento, ribadisce – nonostante le richieste dell’assessore regionale al territorio e ambiente Mariella Lo Bello – un secco no perché non sarebbero fattibili sul piano tecnico.


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Ecomafie

Sole, vento e mafia La mafia è sempre più un’impresa flessibile, capace di adattarsi alla crisi economica tanto da cogliere le potenzialità della green economy approfittando delle maglie normative di Carmelo Catania Le prospettive di ripresa dell’economia globale in buona parte si stanno concentrando su nuove forme d’investimento e nell’Italia in recessione una di quelle più promettenti in grado di creare nuovi posti di lavoro è rappresentata dalla green economy. Infatti gli obiettivi fissati in ambito comunitario assegnano all’Italia il compito di coprire entro il 2020 il 17% dei consumi con energia prodotta da fonti rinnovabili. E se a ciò si aggiunge che – per effetto del “protocollo di Kyoto” – le multinazionali del settore energetico, sono obbligate a produrre una quota di energia pulita e quindi intervenire sul mercato delle rinnovabili per approvvigionarsene ecco che per numerosi investitori il settore comincia ad essere considerato di grande interesse e con ottimo potenziale.

Elevati incentivi... Il settore delle rinnovabili ha fatto registrare nel 2012 un aumento della produzione di energia fotovoltaica, che si è attestata a 15,4 terawattora e di quella eolica, che ha raggiunto i 9 terawattora, concentrandosi quasi esclusivamente nelle regioni meridionali come dimostra la localizzazione geografica degli investimenti (la maggior parte dei parchi eolici è presente in regioni quali Puglia, Campania, Calabria e Sicilia che insieme dovrebbero rappresentare oltre il 50% del totale nazionale). Lo sviluppo dell’eolico e del fotovoltaico procede grazie anche al sistema degli incentivi costituiti dai costituiti dai certificati verdi e dalla tariffa onnicomprensiva. I primi sono dei veri e propri titoli, scambiati alla borsa elettrica, che in media valgono 80 euro a megavattora a cui si sommano i proventi che il produttore incassa per lʼenergia venduta al sistema e immessa in rete, al prezzo medio di 70 euro megawattora. … e semplificazione normativa Il settore è divenuto dunque particolarmente appetibile ed ha attirato ingenti capitali oltre che per effetto degli incentivi elargiti anche come conseguenza della semplificazione normativa dei procedimenti amministrativi autorizzativi che, sia pure mirando a snellire procedure burocratiche, spesso farraginose, non ha consentito di attivare idonei meccanismi di controllo, fondata com’era sulla “autorizzazione unica”.

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In un contesto così lucroso e “semplificato” la maf ia ha preso per mano il nuovo business. In questo preciso momento storico-economico cosa nostra è l’unica realtà che può disporre di grande liquidità da riciclare in attività legali e in pieno sviluppo, come le rinnovabili. Piatto ricco per tutti Eolico e fotovoltaico sono così diventati i due nuovi “rami d’impresa” utilizzati dalle organizzazioni criminali anche per imporre la scelta delle imprese locali cui affidare lavori in subappalto come hanno dimostrato numerose operazioni antimafia condotte in Sicilia negli ultimi cinque anni, a partire dallʼindagine Eolo del 2005 per arrivare allʼinchiesta Zefiro dello scorso febbraio che hanno coinvolto imprenditori, colletti bianchi e istituzioni compiacenti impegnante nella realizzazione di parchi eolici. Ulteriori indagini giudiziarie non sono mancate in altre regioni del Sud. In Puglia è da ricordare l’arresto di alcuni boss legati alla Sacra Corona Unita coinvolti nel controllo degli investimenti nel parco eolico di Torre Santa Susanna. La ‘ndrangheta calabrese si è infiltrata nel business dei parchi eolici nelle province di Catanzaro e Crotone. Il sistema criminale riesce ad adattarsi anche a territori dalle caratteristiche differenti. Come in Sardegna dove lo sviluppo del settore eolico è diventato preda della criminalità pur in assenza di comportamenti intimidatori preferendo, al contrario, ricorrere alla corruzione. Da ricordare la famosa inchiesta ribattezzata dai media “Eolico e P3” che ha portato


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“Un impero economico da oltre un miliardo”

all’arresto dell’imprenditore sardo Flavio Carboni rivelando l’esistenza di un vero e proprio gruppo d’affari per la realizzazione di impianti eolici accusato di corruzione di funzionari pubblici, associazione a delinquere e riciclaggio. E se fino al 2008, le mire delle ecomafie erano indirizzate all’energia del vento, da tre anni a questa parte è quella fotovoltaica ad attirarle: non solo per gli incentivi, ma anche compravendite di terreni, riciclaggio di denaro sporco, manodopera illegale da utilizzare nei campi. È il caso della Tecnova di Brindisi che ha utilizzato nella costruzione di parchi fotovoltaici nelle provincie di Lecce e Brindisi operai per la maggior parte stranieri sottoposti a condizioni di lavoro massacranti: dalle 12 alle 24 ore di lavoro al giorno per due euro l’ora.. Il ruolo del Facilitatore” In tutte le indagini svolte finora emerge anche un’altra importante figura cardine, che esiste solamente in Italia, chiamata “sviluppatore” o “facilitatore” che manovra i meccanismi del sistema sconfinando spesso nell’illegalità. Specializzato nell’ottenere le autorizzazioni e le concessioni richieste, questo attore si propone in seguito di rivendere a caro prezzo il progetto alle imprese o ai fondi d’investimento. Emblematico esempio del complesso sistema di relazioni tra mondo degli affari, mafia e politica è lo “sviluppatore di progetto” Vito Nicastri, considerato il re dell’eolico siciliano. Nicastri corrisponde perfettamente all’identikit del “facilitatore”, fonda e

amministra una miriade di società a responsabilità limitata che con appena 10 mila euro di capitale possono richiedere autorizzazioni e concessioni, accedere a finanziamenti per milioni di euro, accaparrarsi i terreni per poi cedere la società o l’attività alle grandi imprese che venderanno l’elettricità al gestore del servizio elettrico nazionale. Oltre i confini della legalità L’imprenditore alcamese è finito al centro di numerose inchieste a fianco di esponenti mafiosi ed è ritenuto dagli investigatori il collegamento tra la criminalità organizzata e il potere politico locale, il suo impero economico – oltre un miliardo e mezzo di euro – è stato sequestrato nel 2010 dalla Direzione Investigativa Antimafia. Dalle indagini risulterebbero rapporti con apparati criminali operanti nel messinese, nel catanese ed anche con la ‘ndrangheta. Con l’impiego di decine professionisti del settore al suo servizio e di varie società di sede ad Alcamo, Milano, Lussemburgo e Olanda, Nicastri si adoperava per ottenere le autorizzazioni e le concessioni dei terreni dove sarebbero sorti i parchi eolici. Una volta ottenute le autorizzazioni necessarie al parco eolico di Mazara del Vallo, Nicastri ha venduto il progetto alla società Wind Project della famiglia veronese Bogoni, proprietaria di altri sei parchi eolici (quattro solo nella provincia di Palermo). I rapporti tra Nicastri e la mafia fanno pensare che sia sempre quest’ultima a decidere a quali società verranno venduti

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i pacchetti pronti e soprattutto che percorso dovrà seguire il denaro frutto di queste operazioni. Il progetto SCORE Gli investitori stranieri, interessati allo sviluppo delle energie pulite in Sicilia, hanno spesso intrecciato rapporti con le cosche, ignari, ecco perché il Governo regionale ha bloccato i progetti inerenti il settore, al fine di valutare norme e sviluppare strumenti atti a contrastare l’interferenza della mafia. Sarebbe comunque errato pensare che la green economy è tutta da buttare. Un contributo alla promozione di strumenti concreti, linee guida e proposte positive rivolte alle imprese, banche, pubblica amministrazione è rappresentato dal progetto “Score” (Stop Crimes On Renewables and Enviroment), finanziato dalla Commissione europea. Il progetto coinvolge sia la Fondazione (come capofila) che Banca Etica, da tempo impegnate nel settore ambientale e delle rinnovabili coadiuvati da un pool di partner ed esperti qualificati. I documenti elaborati nell’ambito del progetto sono stati presentati a dicembre e si configurano come uno strumento per le aziende che intendono scommettere su sole, vento e legno senza intaccare però eticità, legalità e ambiente: il coinvolgimento (più o meno diretto) delle ecomafie può infatti generare distorsione del mercato, concorrenza sleale e perdita di ricchezza ambientale in territori di elevato pregio paesaggistico.


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Calabria

Holding 'ndrangheta l'affare sanità Il “sistema Crea” da Reggio alla Brianza. Mezzo milione un posto letto. Sullo sfondo le inquietanti motivazioni dell’omicidio Fortugno di Rocco Lentini "Ma che te ne fotte a te, cretino, dello stipendio di consigliere? Diecimila euro al mese... e che cazzo sono? Quando io a quello storto di B... gli ho detto vieni a farmi il direttore generale che gli volevo dire? Gli volevo dire che di miliardi ne abbiamo 3 mila, 4 mila, 7 mila… con me, Pino, Bruno, Sandro sono diventati tutti miliardari... il più fesso di loro è miliardario”, spiegava l’ex consigliere e assessore della Regione Calabria Mimmo Crea al suo braccio destro Antonio Iacopino, già direttore generale dell’Asl di Palmi e di altre aziende sanitarie calabresi. "Dai Antonio... come budget 7 mila miliardi di vecchie lire, la sanità ha 3 miliardi 360 milioni di euro ogni anno.. cioè uno fa una cosa uno fa un'altra, va nelle Asl e gestisce le Asl, tu hai bisogno almeno di quattro o cinque che siano con te, cinque o sei braccia in questo settore... sempre sugli indirizzi che do io. Mi segui Antò? Oppure parlo arabo io?” È l’enunciazione intercettata del “sistema Crea” contenuta nell’inchiesta Onorata sanità, che ha svelato come "una serie di organizzazioni criminali radicate sulla fascia ionica reggina (...) abbiano coalizzato le loro forze dando luogo, attraverso soggetti a essi legati da stretto rapporto fiduciario, a un'unitaria struttura di sostegno alla candidatura di Domenico Crea", considerato il più adatto "a garantire al meglio gli interessi delle cosche…", inchiesta che ha portato, infine, a pesanti condanne per il politico calabrese.

L’inchiesta svelava che Mimmo Crea era a capo di una vera e propria cosca politico-mafiosa annidata nelle istituzioni regionali, con tentacoli ramificati su tutto il territorio reggino. Capo di un'associazione a delinquere disposta a tutto, ivi compreso il ricorso all'omicidio politico, per aumentare i suoi loschi guadagni in campo sanitario. L'ipotesi più agghiacciante avanzata dagli inquirenti, non confermata da riscontri oggettivi, è che Crea sia stato tra i mandanti dell'assassinio di Francesco Fortugno. Anche perché, alle elezioni regionali della primavera del 2005, era risultato il primo dei non eletti nelle liste della Margherita nella provincia reggina ed era stato scavalcato proprio da Fortugno, poi nominato vice presidente del consiglio regionale calabrese. Un'elezione che ha disarcionato Crea e compromesso il piano della ‘ndrangheta. Crea avrebbe cancellato, secondo l’ipotesi investigativa, l’elezione di Fortugno ordinando l'assassinio al fine di prenderne il suo posto nel Consiglio regionale. L’ipotesi secondo i giudici reggini era supportata anche dal fatto che Alessandro e Giuseppe Marcianò, arrestati e condannati in primo grado all’ergastolo come presunti mandanti ed esecutori materiali del delitto erano tra i principali supporter di Crea. Uno scenario inquietante, un verminaio con il debito della sanità in Calabria che sarebbe circa 870 milioni di euro: sarebbe, perché la quantificazione non è stata mai fatta e forse non è possibile farla. Troppe sviste, omissioni, coperture, intrallazzi. Un “sistema” che assorbe l'80% del bilancio regionale: tremila dipendenti in esubero, un'emigrazione sanitaria che fattura 238 milioni di euro annui e ospedali del nord che fanno ponti d'oro ai calabresi. Cavallo di ritorno: la quota procapite destinata per la sanità del sud prende la via del nord. Un business sicuro. Le mete più gettonate -che si dividono il quaranta per cento- in Lombardia sono l'Irccs San Raffaele, l'Humanitas e l'Istituto nazionale dei tumori; nel Lazio il Policlinico Gemelli e l'Umberto I. Un altro venti per cento se lo spartiscono in parti uguali Emilia Romagna e Toscana. Eppure

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in Calabria le strutture ospedaliere -pubbliche e private- sono 73, e dispongono di 8.874 posti letto. Una disponibilità numericamente sufficiente per i bisogni della regione, ma appena qualificata per gestire, non senza pericoli, l’ordinario, fatte salve le eccezioni, ma ci piacerebbe definirle normalità, della cardiologia di Catanzaro ed ematologia di Reggio Calabria, che rappresentano l’eccellenza della sanità calabrese. Una rete ospedaliera, per utilizzare un eufemismo, dove si muore con una drammatica ripetitività e sulla quale ci siamo soffermati in diverse occasioni per casi eclatanti di malasanità. Tra i piccoli pericolosi ospedali, non adeguatamente attrezzati, ma soprattutto a causa di una esasperata politica di comparaggio e di nepotismo nella nomina dei primari, nelle assunzioni e nelle carriere e per le innumerevoli ingerenze criminali negli appalti e nei servizi, undici strutture sono a rischio sicurezza. Sono quelli con meno posti letto e ubicati in un’area a forte incidenza criminale come Palmi (18), Oppido Mamertina (18) e Taurianova (18). L'80 per cento del bilancio regionale Flavio Scutellà aveva dodici anni e stava giocando con i coetanei quando è caduto dall’altalena. Ha battuto con la testa. Il 118 giunse in ritardo, poi cominciò a girare per tutti i sei ospedali della Piana. Rosarno, il settimo, non ha mai aperto. Nessuno interviene sull’ematoma, che intanto si allarga. Nove ore dopo il ragazzino, simbolo dell’inefficienza sanitaria della Piana, giunge a Reggio Calabria, ma il suo destino è segnato. Muore dopo quel vergognoso viaggio e quattro giorni di agonia. È qui, nella Piana, che i costi della sanità, gravati quasi esclusivamente dal personale, sono altissimi. Il primato spetta a Taurianova, con il 90% di incidenza della spesa per i dipendenti sul costo totale del presidio: centoquarantanove dipendenti sanitari (8,27 persone per posto letto, ma la media aumenta se si raffronta il dato con i degenti effettivi). Nel 2008, ultimo dato noto, ha speso 9 milioni 950 mila euro.


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“L'ospedale di Oppido emblema della sanità calabrese” Di cui solo il 10% per gestire i 18 posti letto dell’ospedale e i servizi. Qui si è visto di tutto. A metà degli anni Settanta il dott. Francesco Macrì, padrone politico della città, meglio conosciuto come “Ciccio mazzetta”, che ha poi finito in carcere i suoi giorni, cedette per un canone annuo di tre milioni e cinquecentomila lire le terre della “Fondazione Principe Serra” -cento ettari di uliveto che valgono, al prezzo corrente, oltre un miliardo di euro- a Giuseppe Barone, pregiudicato poi ucciso in un agguato mafioso. Aveva aperto un vero e proprio ufficio di collocamento, “Ciccio mazzetta”. Per il lavoro si passava da lui e dai suoi fidatissimi procacciatori. Era specialista in piante organiche gonfiate, in falsi attestati professionali, in concorsi truffa. Bastava pagare. Lo aveva ampiamente dimostrato assumendo la sorella Ada come primario a pediatria, la sorella Olga (già sindaco di una giunta sciolta per mafia) come ufficiale sanitario, la sorella Antonella come medico a psichiatria, il cognato Totò a medicina, il nipote Orlando in dialisi. Parentopoli, sanitopoli, nepotismo, clientelismo, affarismo. No, non c’è un termine per definire quello che è stata ed è ancora la sanità calabrese figlia di “Ciccio mazzetta”. I dirigenti delle Asl calabresi, oggi Asp, hanno osato di tutto e di più. Hanno assunto figli, mogli, cognate, cugini, fratelli. Ma in Calabria è la norma. Egidio Masella, al tempo in cui era assessore regionale al Lavoro per Rifondazione comunista, ha assunto come responsabile amministrativo la moglie Lucia. Pino Guerriero, ex presidente socialista della Commissione regionale antimafia ha assunto come autista il nipote. E il capogruppo dell’Udc Gianni Nucera, consigliere regionale che si muove agevolmente, ancora oggi, dal centrodestra al centrosinistra e viceversa, tentò il capolavoro: l’assunzione a spese della regione prima della moglie Felicia, poi del figlio Carmelo, e infine dell’altro figlio Francesco, ma fu bloccato al novantesimo minuto. Quando si dice il trasversalismo! A questo stato di cose - come rilevò qualche anno fa Gian Antonio Stella sul Corriere

della Sera - qualcuno si è opposto. Che cazzo, basta con i parenti. Michele Fazzolari, precario all'Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, ma con un passato da segretario provinciale della Cisl, chiamato ad occuparsi della stabilizzazione dei precari ha istruito e firmato una delibera per stabilizzare, con un contratto a tempo indeterminato e la qualifica di dirigente, se stesso. Franco Petramala, direttore generale dell’epoca, ha firmato l’atto in scioltezza. Nessuna obiezione, nessun tentennamento. Cronaca di una domenica di fine agosto duemilaeundici. Eleonora Tripodi aveva trentatré anni ed era al suo terzo parto. La sua bambina non l’ha mai vista, è stata stroncata da una emorragia. Morta durante il viaggio in ambulanza dall’ospedale di Vibo Valentia a quello di Lamezia Terme in un trasferimento deciso per “mancanza di posti liberi nel reparto di rianimazione” dell'ospedale di Vibo. Stroncata da un'emorragia Indagati per omicidio colposo, i medici che hanno avuto in cura la donna dicono, con il ginecologo Domenico Princi, di “avere fatto di tutto per salvarla”. Un’altra inchiesta, l’ennesima nell’ospedale killer. Parliamo di una Asl con quasi duemila dipendenti tra i quali 386 medici e 680 in sei strutture ospedaliere - l’altra, la settima, Pizzo Calabro, iniziata circa sessant’anni fa, non ha mai aperto - per un totale di 200 posti letto e 191 ricoveri medi. Duemila dipendenti per duecento posti letto: dieci persone per ammalato! A Vibo Valentia l’ "ospedale killer" non è un ospedaletto. Le ispezioni dei Nas ordinate dopo la morte di Federica Monteleone, il caso più eclatante di malasanità, hanno denunciato 800 violazioni delle norme che dovrebbero garantire la sicurezza e la salute dei cittadini. Federica è morta folgorata dalla corrente elettrica in sala operatoria, poi l’amministrazione dell’Ospedale di Vibo è stata sciolta per infiltrazioni mafiose, ma l’ex presidente della Commissione Sanità del Consiglio regionale, Nazzareno Salerno ha sostenuto

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che la nomina dei commissari non ha determinato l’auspicata discontinuità nella gestione. È l’ospedale di Oppido Mamertina, però, l’emblema della sanità calabrese: oltre mezzo milione di euro per posto letto, supera anche Palmi, centro direzionale e culturale della Piana, dove un posto letto costa “appena” quattrocentomila euro. Nonostante gli esuberi tra i 1.758 dipendenti, la pulizia dei nosocomi -oltre 3.000 euro al giorno- è stata affidata ad una società esterna e gli oltre trecento ex ausiliari, toltagli scopa e mocio dalle mani, sono transitati a mansioni d’ufficio. A società esterne sono stati appaltati, nel tempo, anche la stesura del bilancio, la compilazione delle buste paga, la lavanderia, (667 mila euro l’anno), la mensa (due milioni di euro e 27 cuochi adibiti ad altre mansioni), ed è meglio tacere sugli sprechi di apparecchiature sanitarie e medicali, in lauto comodato d’uso, dei quali si è occupata anche, raramente per la verità, la magistratura. Il “sistema” decreti ingiuntivi. I “fornitori” emettono fattura cui segue il decreto ingiuntivo e il pignoramento delle somme. Sembrerebbe tutto regolare. In effetti i “fornitori” -parliamo di quelli reali ché ci sono anche i presunti- emettono la fattura che, puntualmente, non viene liquidata entro i termini di legge. Ne consegue il decreto ingiuntivo con aggravio di interessi e spese legali. Neanche con il decreto ingiuntivo si riesce ad ottenere le somme per cui segue la procedura di pignoramento, con ulteriore aggravio di spese. Lo studio legale, ce ne sono alcuni specializzati a Reggio Calabria e in provincia, presenta a sua volta la fattura per le spese legali e, di fronte alla puntuale mancata liquidazione, ricorre al decreto ingiuntivo e al pignoramento rivolgendosi ad altro legale -meglio se dello stesso studio- il quale a sua volta presenta il conto. Una catena di S. Antonio. Un artifizio che consente di raddoppiare, tra interessi, spese legali e quant’altro, le somme delle forniture. Quando ci sono. Le forniture, intendiamo: i soldi ci sono sempre. A volte sono stati pignorati, non si sa con quale logica, anche quelli per gli stipendi del personale.


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“Un dominio trasversale su un budget di tre miliardi”” A fianco: L'ospedale di Taurianova

“Il problema del deficit della sanità calabrese sta nell'incertezza del suo ammontare e nell'inattendibilità dei dati forniti. Ma non si possono dimenticare i danni erariali per i contenziosi e le successive transazioni per forniture di beni mai resi” ha affermato Leoluca Orlando, presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori sanitari e le cause dei disavanzi sanitari regionali. Commissario ad acta - nominato dal governo Berlusconi- è ancora il presidente della Regione Calabria Peppe Scopelliti, seppure affiancato dalla Guardia di Finanza. Tocca a lui -controllato e controllorefare luce nello sfascio della sanità in Calabria: in questi giorni ha girato la Calabria in lungo e in largo promettendo finanziamenti, migliorie, ristrutturazioni e potenziamento per tutte le strutture sanitarie regionali in cambio di voti per il Pdl. I tempi di attesa per una TAC o una risonanza magnetica però variano da 250 a 40 giorni, e così i cittadini, infuriati, aggrediscono a Cosenza il governatore-commissario Peppe Scopelliti in visita all’Ospedale dell’Annunziata. Insulti, urla, spinte, lanci di pietre, vetri infranti. Momenti di concitazione e confusione, domate a stento dal cordone di sicurezza. Qualche giorno prima l’ospedale era stato al centro della cronaca per una interrogazione parlamentare di Maria Antonietta Farina Coscioni sulla morte sospetta di due donne, Rosita Presta e Caterina Loria -37 e 27 anni-, decedute una per emorragia al settimo mese di gravidanza ed una in seguito al parto cesareo. La criminalità ha un peso notevole nella gestione della sanità in Calabria. Il budget è di 3 miliardi di euro: si può immaginare quindi qual è il business per lobby affaristiche e 'ndrangheta. L’On. Angela Napoli, già componente della commissione antimafia, ex finiana defenestrata, ipotizzò in una interrogazione parlamentare che la sanità calabrese è una holding della ‘ndrangheta. A sostegno citava il dato dello scioglimento di tre aziende sanitarie calabresi per infiltrazioni mafiose e la condanna con rito abbreviato, a 2 anni e 6 mesi, di Pietro Morabito, ex direttore generale dell’Azienda Sanitaria di Reggio Calabria

e manager dell’Asp di Catanzaro nel processo “Onorata Sanità”. È d’uso, in questa regione, che i pregiudicati per reati vari nella sanità, meglio se per concussione, anziché rimossi dall’incarico siano premiati con nuovi più importanti incarichi. È emblematico il caso dell’ex provveditore dell’Asp di Palmi -un ragioniere dirigente apicale senza laurea- che, ripetutamente condannato per truffa e concussione nelle forniture, veniva puntualmente reintegrato nel posto di lavoro e confermato alla direzione del provveditorato mentre un altro dirigente dello stesso settore -due lauree, master, esperienza ventennale - è mandato a marcire all’economato di un ospedale. Ci si sbrana per una nomina Qui ci si sbrana per una nomina di dirigente o di amministratore nella sanità, ma alla fine la spuntano parenti, compari e “amici degli amici”. Udc, Pd, Pdl, destra, sinistra, centrodestra, centrosinistra. Partiti, famiglie mafiose, liberi professionisti, fornitori, procacciatori d’affari. Tutti all'assalto della diligenza. È sulla sanità che si legge l’attivismo politico calabrese, il trasversalismo, il cambio di casacca, il “familismo amorale”. Quelli che non trovano spazio di qua vanno di là e quelli che erano di là vengono di qua. A dirigere il traffico però c’è la ‘ndrangheta, i capibastone che hanno utilizzato la politica per fare diventare primari i figli e i nipoti e che ora decidono gli assessori alla sanità, i commissari straordinari, i dirigenti e perfino i portantini mentre si muore per una appendicite, un ascesso, una polmonite. Il dominio è polverizzato, trasversale. A Cosenza comandano i fratelli Gentile, Antonio, deputato e già sottosegretario, e Giuseppe detto “Pino”, consigliere regionale, tutti e due del Pdl, una famiglia dedicata alla sanità; ma non sono soli, c'è pure Ennio Morrone, ex parlamentare dell'Udeur. A Catanzaro, Agazio Loiero dell’Mpa. A Reggio Calabria, Peppe Scopelliti. A Crotone Enzo Sculco, ex consigliere regionale della Margherita che ha dovuto lasciare il seggio nel precedente

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Consiglio regionale per una condanna a sette anni per corruzione. “L'azienda di Vibo è l'azienda di Tassone, hai capito?”, spiegava Santo Garofalo, direttore generale dell'Asl 8 a un imprenditore. Con stupefacente normalità illustrava le “regole” in quella provincia: “Non ti dimenticare, Vibo è di Tassone e non di Ranieli né di quegli altri né di Stillitani. Le tre aziende: una di Galati, una di Tassone e l'altra è di Trematerra”. Mario Tassone è parlamentare uscente dell'Udc, come Pino Galati e Gino Trematerra. Michele Ranieli è un ex deputato. Francesco Stillitani era all'epoca assessore regionale. Anche loro dell'Udc. Telefonate di appena due anni fa. È l'Udc che era ed è padrona dell'Asl di Vibo Valentia dove la prima pietra del nuovo ospedale l'ha portata un costruttore della 'ndrangheta. A Palmi e Locri i partiti contano quanto il due di spade se la bricola è a coppe. Zero, nulla. Conta solo la 'ndrangheta: Piromalli, Molè, Pesce, Bellocco, Morabito, Cordì, Cataldo. Hanno occupato gli ospedali con figli, generi e nipoti. Tutti medici di rispetto. Pasquale Morabito era lo psicologo di Bovalino dal 1992 al 2002. Quando l'hanno arrestato per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, continuarono a pagargli lo stipendio in carcere. “La Asl se n'è accorta e non ha nemmeno avviato azioni di recupero”, scrive nella sua relazione Paola Basilone, il prefetto mandato a Locri dal Ministero degli Interni dopo l'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale Francesco Fortugno. Il direttore generale dell'assessorato alla sanità era, a quel tempo, Peppino Biamonte, più volte direttore generale delle Asl calabresi, lo stesso che falsificava le carte per far avere cinquecentomila euro alla clinica Villa Anya di Domenico Crea. “Agli ordini”, rispondeva quando Crea telefonava per chiedere conto della sua pratica su Villa Anya. Un criminale intreccio affaristico-politico-mafioso per il controllo totale della sanità in Calabria. È l'agghiacciante scenario descritto nelle oltre mille pagine dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Reggio Calabria Roberto Lucisano.


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Scheda “TUTTI ASPETTAVANO IL DOTTOR CREA”

L'inchiesta “Onorata Società"

L'inchiesta Onorata Sanità portò dietro le sbarre Domenico Crea detto “Mimmo”, consigliere regionale, ex assessore regionale, ex esponente dell’Udc, del centrodestra e del centro-sinistra e della “Dc per le autonomie”; suo figlio Antonio, direttore sanitario della clinica di Melito Porto Salvo “Villa Anya” sottoposta a sequestro;

Scheda NELLA PIANA DI GIOIA TAURO Sette ospedali, più Villa Elisa -una clinica privata profumatamente convenzionata dove si muore per un parto- sono l’ossatura, ma è meglio dire lo scheletro, della sanità nella Piana di Gioia Tauro. Rosarno. Ospedale di Rosarno. Iniziato nel 1965 e costato decine di miliardi, non ha mai funzionato nonostante fosse pronto. Dotato di eliporto e di sale operatorie attrezzate, arredi e cucine, tecnologie radiologiche e di diagnostica d’avanguardia è svuotato degli arredi, dei macchinari, delle attrezzature, degli infissi, dei servizi igienici. Destinazione attuale? Ricovero per le pecore. Nessuno vede. Nessuno interviene. Nessuno paga. Il 3 agosto 2010, è stata presentata dai deputati Farina Coscioni, Beltrandi, Bernardini, Mecacci, Maurizio Turco e Zamparutti un’interrogazione al Ministro della salute sulla vicenda dell’ospedale di Rosarno, ubicato su Pian delle Vigne, una importante area archeologica dell’antica città greca di Medma. Leggiamo: “Nonostante sia stato inaugurato nel 1997 (dopo 24 anni di lavori), l'ospedale di Rosarno, in Calabria, non è stato attivato ed stato lasciato in balia dei vandali, che hanno portato via ogni infrastruttura possibile, e degli animali che vi pascolano liberamente”. Il primo finanziamento per la sua costruzione risale a 43 anni fa: 346 milioni di lire della Cassa per il Mezzogiorno per intercessione del ministro dei lavori pubblici Giacomo Mancini. I lavori sono durati ben 24 anni, “nei successivi 19 la struttura ospedaliera è stata ridotta a quello che non è improprio definire un letamaio, dal momento che dove si dovevano curare i malati, pascolano e trovano rifugio cavalli e pecore; risulta razziata ed asportati abusivamente persino gli ascensori, le ringhiere delle scale e le vasche incassate nella muratura”, si legge nell’interrogazione. Doveva diventare il gioiello della sanità calabrese, l’ospedale di Rosarno. Ma i lunghissimi corridoi e le camere sventrate sono coperte da “merda di pecora”: montagne di letame, una bella metafora della politica regionale.

Alessandro Marcianò e il figlio Giuseppe, condannati all’ergastolo (per Alessandro la sentenza d’appello fu riformata) quali mandanti ed esecutori del delitto Fortugno; Giuseppe Pansera, genero di Peppe Morabito, detto “tiradritto”; gli ex direttori delle Asl Peppino Biamonte e Pietro Morabito; Francesco Cassano, già direttore del Distretto sanitario e dirigente medico del “Tiberio Evoli” di Melito Porto Salvo, insieme ad un nutrito gruppo di alti dirigenti medici della stessa struttura ospedaliera; Santo Emilio Caridi, già direttore sanitario dell'Asl 11 di Reggio; Domenico Latella, direttore amministrativo dell'Asl 11 di Reggio, già direttore generale dell'Asl 9 di Locri. Nella sanità calabrese rubano in tanti, altri tengono il sacco. Non solo “addetti ai lavori”. Monsignor Antonio Luberto si è arricchito sulla pelle dei quasi quattrocento poveracci della casa di cura “Papa Giovanni”, costretti a vivere con la scabbia e nel sudiciume. I soldi non li portava nella clinica affidatagli dalla Curia. Comprava quadri d’autore, arredi per il suo appartamento, mobili di lusso, automobili (dodici) e rimpinguava i suoi conti correnti. Da missionario a milionario della sanità. Farmaci prescritti a defunti Quasi sempre le truffe sono “invisibili” (oltre ottantamila pazienti fantasma, emigrati o morti da decenni sono ancora iscritti negli elenchi dell'assistenza sanitaria regionale) e i farmaci vengono “regolarmente” prescritti a defunti e assistiti ignari per malattie inesistenti e terapie non necessarie. L’ultimo episodio alla fine di luglio a Crotone, dove la procura e i Nas scoprono un giro di prescrizioni (di fascia A, le più costose) fasulle, arrestano un farmacista, Luigi Lucente, e mettono sotto inchiesta 42 medici. Oltre ventimila ricette, alcune delle quali intestate ad almeno trenta persone decedute da tempo, sarebbero state confezionate con fustelle fasulle e presentate all’Asp per ottenere i rimborsi previsti dal servizio sanitario nazionale per le farmacie. Il “sistema” - oltre un milione di euro truffati all’Asp di Crotone - sarebbe

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Per aprire la clinica, nel 2001, Crea utilizzò un miliardo e 100 milioni delle vecchie lire, depositati improvvisamente su un conto corrente intestato ai genitori e poi girati sul conto dello stesso Crea. “Sono soldi -spiegò Crea- che mio padre aveva conservato nel materasso”. Giustificazioni che i Pm hanno definito “semplicemente grottesche”. C'è davvero da rabbrividire nel leggere le deposizioni di alcuni testimoni dell'inchiesta e le intercettazioni telefoniche sul turpe trattamento riservato ai poveri anziani malati ricoverati a Villa Anya, la clinica-lager fondata da Domenico Crea. Intestata a sua moglie Angela, direttore sanitario il figlio Antonio, amministratore delegato la figlia Annunziata e direttrice amministrativa la nuora Laura. A Villa Anya c’era di tutto: cartelle contraffate, timbri fasulli, data e ora dei decessi falsificate, trasporto illegale di cadaveri, almeno 11 episodi di omissione di soccorso, almeno cinque casi in cui il paziente è morto perché lasciato solo e senza le necessarie cure mediche. Tra i tanti orrori scoperti dalla Dda di Reggio, agghiacciante quello che riguarda un’anziana signora. La paziente sta male. Due dipendenti della clinica chiamano Crea per avvisarlo, ma lui si rende irreperibile. Risponde la moglie Laura che, scocciata, ricorda all'infermiera qual è la prassi da seguire in questi casi. Sarcastica la risposta dell'infermiera: “Va bene, intanto la facciamo fuori noi, ciao”. Segue risata. Le condizioni della paziente peggiorano, nessuno chiama il 118, tutti aspettano l'arrivo del dottor Crea, che giungerà in clinica quando la paziente è ormai morta. Senza battere ciglio Crea dispone il trasporto del cadavere al pronto soccorso spacciando la morta per “malata”, nasconde la cartella clinica e il giorno dopo falsifica la data e l'ora del decesso.

stato messo su da Lucente con la complicità dei medici di famiglia. Nella Piana di Gioia Tauro non va meglio con i servizi territoriali: 23 ex uffici sanitari, oggi uffici periferici Sisp, il doppio di quanti ne servono. I presidi di Anoia, Cittanova, Feroleto della Chiesa, Melicuccà, Rizziconi, Serrata e Terranova sono stati chiusi, ma stanno riaprendo alla spicciolata. Nella guardia medica di Cosoleto, un paese di novecento abitanti, lavorano a rotazione “solo” quattro medici per coprire il fabbisogno degli utenti e a due passi c’è anche l’ufficio di Varapodio, poco più di duemila abitanti, e l’ospedale di Oppido Mamertina. Il Sisp centrale, nella sede di Palmi è diretto dall’ex capitano medico Domenico Mittica - nipote di Ciccio, morto nel Lager nazista di Fullen -, coadiuvato dalla sua ex compagna e da una puericultrice adibita a mansioni amministrative.


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“E chi li dovrebbe ontrollare?” A fianco: Alessandro Marcianò. In basso: Giuseppe Scopelliti

Si capisce, lavoratori infaticabili: certificati medici e infermità che li impossibilitano al loro lavoro per lunghi periodi e compiacenti dichiarazioni per ottenere il cambio di mansioni. Fatiscenti strutture Come gli infermieri della chirurgia di Gioia Tauro e di Melito Porto Salvo, dove le lunghe malattie non guardano in faccia a nessuno. Il 35% dei dipendenti è affetto da inidoneità fisiche: mal di schiena, allergie al sangue, depressioni li costringono a lavori d’ufficio invece che a turni di notte o in sala operatoria. Si spende ancora in appalti per queste fatiscenti strutture. A Taurianova e Cittanova sono stati ultimati da poco i lavori di adeguamento dei locali delle sale mortuarie. A Taurianova le sale mortuarie sono state destinate, con provvedimento del direttore generale del’Asp 5 di Reggio Calabria d.ssa Rosanna Squillacioti, ad uffici del Servizio veterinario; a Cittanova sono state ultimate, ma l’ospedale era chiuso da tempo. E chi dovrebbe controllare? Centinaia di ettari di agrumeti e uliveti, fabbricati, quadri, argenterie ed ogni sorta di bene donato

Scheda 'NDRANGHETA-SANITA' DA SUD A NORD La ‘ndrangheta non conosce confini, e il verminaio del rapporto ‘ndrangheta-sanità si espande da sud a nord. Intercettato nei contatti con Carlo Antonio Chiriaco -direttore dell'Asl di Pavia, potente collettore tra pubblica amministrazione, sanità e ‘ndrangheta-, il boss Pasquale Libri è volato giù dalla tromba delle scale dall'ottavo piano dell'ospedale S.Paolo di Milano. “Qua trattiamo tutto, da noi dipendono tutti gli ospedali e i cantieri, diamo noi i soldi, abbiamo una squadra che funziona a meraviglia”. Il gruppo di Chiriaco, scrive la Dia, “ha un controllo quasi completo” del Cda dell’ospedale San Matteo di Pavia caratterizzandosi come “un centro di potere a disposizione della ‘ndrangheta”. Carlo Antonio Chiriaco -vice direttore sanitario e direttore di presidio presso il Policlinico "S. Matteo" di Pavia, Presidente delle Istituzioni Assistenziali Riunite, direttore sanitario della ASP che riunisce le strutture sanitarie "Pertusati", "Santa Margherita", "Gerolamo Emiliani" e della Fondazione Maggi", direttore sanitario del "Poliambulatorio Medico Odontoiatrico-Centro Dentistico Lombardo" di Mozzo (BG), titolare del "Centro Dentale La Prevenzione", di Zibido San Giacomo (PV), titolare di studio dentistico in Alessandria - nei primi anni Novanta gestisce, con Pino Neri e Salvatore Pizzata, la discoteca Vertigo collezionando denunce e condanne per estorsione, usura, esercizio abusivo della professione sanitaria; fre-

da famiglie patrizie agli ex Enti ospedalieri sono finiti nelle mani della ‘ndrangheta con la complicità ed il silenzio colpevole di funzionari, dirigenti, amministratori e politici. Basterebbero, da soli, per risanare il bilancio dell’Asp di Reggio Calabria. Ma nessuno se ne occupa, neanche l’inventario si è riusciti a fare, e poi “ad occuparsi di queste cose si rischia”, ripetono gli addetti all’ufficio patrimonio. Nel pubblico impiego, in generale, il sindacato conta molto poco. Qui niente. Il silenzio del sindacato Non esiste sindacato né sindacalismo, esiste il “sindacalista” una sorta di sbrigafaccende che mira, ed ottiene, solo risultati ad personam: un trasferimento, una revoca di un ordine di servizio, un incarico di comodo, un cambio di mansioni per sé e per gli iscritti che devono rinnovare l’investitura nell’incarico. Con il sindacato, di qualsiasi sigla, non si può discutere di politiche sanitarie, di funzionalità dei servizi, di accorpamenti, di nomine illegittime, di mancanza di farmaci, di strutture pericolose, di prevenzione e quant’altro. Qui i sindacalisti barattano qualcosa.

quenta esponenti della ‘ndrangheta; è indagato per corruzione elettorale e intestazione fittizia di beni per eludere esecuzioni erariali. “Chiriaco si è assicurato, per la sua coalizione, l’assegnazione dell’incarico di presidente del San Matteo ad Alessandro Moneta”, ex assessore regionale, già sindaco di Milano tre e amico di Silvio Berlusconi. Chiriaco e i suoi compari a Pavia -la sola Asl gestisce un budget annuo che sfiora il miliardo di euro- erano in grado di condizionare l'esito delle amministrative per fare eleggere chi era utile agli interessi della 'ndrangheta. Lo facevano sia attraverso uomini del PD che del PDL e della Lega Nord, ma anche con liste "civiche”. La ’ndrangheta è trasversale, non si attacca all’ideologia, destra o sinistra è lo stesso. Il fine conta, non i mezzi, e Chiriaco con il suo entourage programmava il riutilizzo dell’area dell'idroscalo e del gasometro per creare la cittadella "Europa", da destinare ad eventi sportivi, mondani, parcheggio, pista ciclabile ed altre strutture. Milano, sanità e 'ndrangheta. Inchiesta “Infinito”. Pietrogino Pezzano al telefono parlava in libertà: prometteva appalti pubblici in cambio di banali favori ai suoi interlocutori, uomini della ‘ndrangheta. I brogliacci delle intercettazioni sono chiarissimi, e nonostante questo Pietrogino Pezzano, classe ’47, di Palizzi in provincia di Reggio Calabria, viene nominato direttore generale dell’Asl di Milano, la più grande d’Italia. Nomina voluta dall’ex governatore Roberto Formigoni e dall’assessore alla Sanità, il leghista Luciano Bresciani, dopo che la sua posizione - era stato iscritto nel registro degli indagati per il delitto di cui all’articolo 416-bis - fu stralciata e archiviata dal Gip il 3 dicembre 2010.

I Sicilianigiovani – pag. 48


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I Siciliani 49 Sicilia igiovani – pag. p


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erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

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ISBN 9788897194002

ISBN 9788897194026

ISBN 9788897194019

ISBN 9788897194033

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a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.


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S C A F F A L E

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Memoria

Un piccolo paese dal grande cuore Canicattini Bagni, settemila abitanti in provincia di Siracusa. E' il giorno della Memoria. E qui la gente ricorda... di Gabriella Galizia E’ il primo giorno di primavera,col suo vento che spazza via le nuvole e fa posto ad una giorno di sole e festeggia il rinnovo di una militanza civile. E’ la XVIII giornata della Memoria e dell’Impegno organizzata ogni anno da Libera in memoria delle vittime di mafia. Siamo a Canicattini Bagni, provincia di Siracusa e 7.500 abitanti appena. Un paese come tanti, con la piazza,il comune e la chiesa. Ma oggi abbraccia virtualmente tutte le città che celebrano il 21 marzo, da Palermo a Torino. Fin qui, cuore della provincia “babba”, dove quasi nulla si pensa accada. Qui in 1500 si sono dati appuntamento per ribadire il “NO”alle mafie e la vicinanza alle vittime di mafia e ai loro familiari. ”L’illegalità condiziona lo sviluppo, l’economia l’equilibrio sociale e le libertà individuali. Non è più tempo di stare alla finestra ad assistere da spettatori alla lotta tra Stato e antistato; i cittadini devono saper scegliere da che parte stare”.

Sono le prime parole della giornata pronunziate dal Colonnello dei Carabinieri, Perdichizzi, mentre simbolicamente si pianta un albero di memoria e di speranza. E' un richiamo a chi, senza prender parte, si affaccia alla finestra incuriosito dagli slogan e dal corteo. Si scandiscono uno per uno i nomi di chi non c’è più. Partono applausi quando si pronunciano i più noti ma la maggior parte sono nomi sconosciuti. Non è soltanto una lista: ogni nome è una storia. Ogni nome è una storia “Ripercorrere la storia di queste vite ci aiuta a capire cosa è stata e cos’è la mafia ma, ancor di più, cosa è stata e deve essere l’antimafia” dice Giusy Aprile, coordinatrice provinciale di Libera. Per chi è un attivista, oggi è il compleanno di un impegno per costruire una terra libera da ingiustizie e prepotenze, la spinta decisa ad una mentalità nuova e azioni che sollecitino le attenzioni delle istituzioni. La memoria che diventa il fondamento di un impegno. Qui a Canicattini? Messe da parte le animazioni per i più piccoli ci si concentra sul contrasto al gioco d’azzardo, nuovo affare della criminalità e piaga della società del bisogno. Si parte proprio da proposte concrete per i sindaci, coscienti che è tempo di porre freno ad un gioco che diventa patologia. Siamo nel Sud più a Sud d’Italia, e fino a vent'anni fa era impensabile una manifestazione del genere. Ma ormai da tempo qui nel siracusano il 21 marzo è un’istituzione. Il coordinamento siracusano di Li-

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bera ha voluto organizzare qui la sua giornata dell’impegno per dare ancora più vigore al neonato presidio locale e rafforzare la rete di associazioni e singoli che animano questo territorio e che per la giornata hanno messo in campo le loro migliori potenzialità. A Canicattini, il presidio di Libera si è stretto intorno alla memoria di Salvatore Raiti,carabiniere ucciso in un agguato mafioso nel 1982. Giovanna Raiti, sorella di Salvatore,è una delle animatrici del gruppo. Al presidio, intitolato al fratello, ha donato i diritti d’autore della sua pubblicazione. “Oggi è avvenuto – dice - il miracolo dell’ascolto e del risveglio. Un miracolo voluto ostinatamente da un un piccolo paese, dimostrando alle più grandi istituzioni che anche i “piccoli” possono fare la voce grossa”. “Il miracolo dell'ascolto e del risveglio” A quanti si sono stretti attorno al suo dolore dice: “Siete una soffio d’aria tiepida che scalda il cuore, una pacca sulle spalle che conforta e lenisce. Tutte cose che attendevo dalle istituzioni da trent’anni. Non mi pareva di pretendere tanto eppure fino ad oggi mi mancavano”. Come un raggio di sole che lenisce il freddo dell’inverno, giornate come il 21 marzo servono proprio a rinnovare questa vicinanza. Il bilancio non è fatto solo di cifre. Basta guardare gli occhi di chi ha partecipato, di chi si è stretto in lunghi abbracci di gioia, per capire. Benvenuta primavera!


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Trapani

Il prefetto antimafia nostro concittadino A ventott'anni dalla strage mafiosa di Pizzolungo, è ancora malvisto il conferimento della cittadinanza onoraria a Fulvio Sodano, il prefetto che combatté la mafia trapanese di Rino Giacalone Raccontiamo queste ultime settimane trapanesi cominciando dal 21 febbraio. Quel giorno eravamo nell’aula del Consiglio comunale di Trapani, trovammo tanto pubblico, tanti presenti indossano una maglietta bianca con caratteri stampati dove, in grande evidenza, si legge: “Fulvio Sodano cittadino onorario”. Fulvio Sodano è stato prefetto di Trapani dal 2001 al 2003. Nel dicembre 2005 quando la Squadra Mobile di Trapani a conclusione di una indagine decapitò con una serie di arresti la cupola mafiosa di Trapani, capeggiata dall’imprenditore Ciccio Pace, “padrino” per volontà del boss (latitante ancora) Matteo Messina Denaro, si scoprì che Cosa nostra voleva inquinare il lavoro del prefetto Sodano a difesa delle imprese confiscate alla mafia, che la mafia voleva riprendersi o voleva far fallire.

L’operazione della Squadra Mobile nel 2005 svelò l’esistenza di una serie di intrecci: ne emerse che i mafiosi erano stati ascoltati auspicare la cacciata da Trapani di quel prefetto. Da Trapani Sodano andò via veramente nel luglio del 2003, improvvisamente trasferito ad Agrigento dal governo Berlusconi. La sua vicenda è racchiusa tra i faldoni del processo in corso a Palermo contro il senatore Tonino D’Alì (requisitoria 3 maggio) che era sottosegretario all’Interno quando Sodano fu trasferito da Trapani ad Agrigento e che era pure sottosegretario quando Sodano combatté a Trapani la battaglia per difendere i beni confiscati alla mafia. In una occasione, come ha dichiarato Sodano ai magistrati che andarono a sentirlo, il sen. D’Alì lo avrebbe affrontato dicendogli che così facendo, prendendo cioè le difese dei beni confiscati, si mostrava come un “favoreggiatore”, termine usato per chi aiuta i delinquenti. Quando nel novembre del 2005 la cupola finì in carcere e si seppe di quello che la mafia voleva fare del prefetto Sodano, in Consiglio comunale fu approvato a maggioranza un documento con il quale si chiedeva all’amministrazione guidata dal sindaco targato “Forza Italia”, Mimmo Fazio, di conferire la cittadinanza onoraria al prefetto Sodano. Però Fazio, guarda caso amico di D’Alì, disse di no, e lo disse anche scrivendo al prefetto Sodano che “l’antimafia è peggio della mafia”. Da qualche mese in città si è costituito un comitato, capeggiato da una battagliera Rosaria Bonello, che invece è tornato

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a insistere perché il prefetto Fulvio Sodano diventi cittadino onorario di Trapani. Sono stati i rappresentanti di questa associazione assieme ad altri cittadini a riempire il 21 febbraio lo spazio destinato al pubblico per seguire i lavori del Consiglio comunale. Gli stessi tempo prima hanno incontrato il sindaco che è succeduto a Fazio, il generale dei Carabinieri Vito Damiano, eletto ancora in quota Pdl, che rispose che senza un regolamento era per lui impossibile conferire cittadinanze onorarie. “Ci vuole il regolamento” L’atto di indirizzo proposto da Vincenzo Abbruscato, consigliere Pd (ora Megafono, movimento ispirato dal presidente della Regione, Rosario Crocetta), per la stesura del regolamento, è stato così votato e approvato sotto lo sguardo dell’attento pubblico. A molti è sfuggito che è la seconda volta che il Consiglio comunale ha votato lo stesso atto di indirizzo: era accaduto già nell’ottobre 2012, quando ancora era sindaco il forzistapidiellino Fazio. All’amministrazione comunale sono stati concessi 30 giorni di tempo per redigere il regolamento e portarlo in Consiglio per l’approvazione: pare sia stato già scritto e trasmesso, ma non ancora inserito all’ordine del giorno. La cittadinanza onoraria al prefetto Sodano deve attendere ancora. Come scriveva Sciascia, se si vuole difendere la democrazia e la libertà nel nostro Paese è in Sicilia che ogni giorno bisogna combattere la battaglia.


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E intanto il sindaco parla di “malandrini” e non di mafiosi A fianco: il prefetto Fulvio Sodano, strenuo oppositore di mafia e malaffare.

E la vicenda della mancata concessione della cittadinanza onoraria a Fulvio Sodano è esempio di quanto sia vera questa affermazione. Eppure ci raccontano in tanti che le mafie oramai hanno fatto armi e bagagli e si sono trasferite al nord; poi ci sono coloro i quali sono pure convinti e soddisfatti credendo che le novità politiche elettorali abbiano già messo alle corde Cosa nostra, ma la realtà è ben altra. Abbassare la guardia è cosa pericolosa. E questo in Sicilia sta avvenendo. Questa è la terra che ancora dopo 20 anni continua a nascondere quel gran delinquente mafioso e assassino che porta il nome di Matteo Messina Denaro. Una latitanza che non viene interrotta perché la mafia trapanese - ancor prima che Matteo Messina Denaro - ha vissuto con incredibili coperture da parte della politica, della massoneria, di forze imprenditoriali, da parte di banche e banchieri, di colletti bianchi. Qui resiste la mafia sommersa, quella che ha riposto ma non sotterrato le lupare e le bombe e che ha saputo fare indossare ai suoi uomini grisaglie per portare in giro 24 ore colme di denaro per corrompere. Il 2 aprile segnea il 28° anniversario della strage mafiosa di Pizzolungo. Cosa resta di quell’attentato del 1985? Il boato causato dall’esplosione di quell’autobomba destinata ad uccidere un magistrato in servizio alla Procura di Trapani, il pubblico ministero dott. Carlo Palermo, non si è ancora esaurito nei suoi effetti devastanti. Il tritolo mafioso ha ucciso tre giovani vite: Barbara Rizzo Asta ed i suoi figlioletti gemelli Salvatore e Giuseppe di 6

anni, e ne ha minato altre: quelle del magistrato e dei suoi agenti di scorta Ma ha anche comunicato un forte segnale di intimidazione all’intera società civile trapanese, che preferisce farsi scorrere addosso le notizie di condanne e sequestri, di casseforti mafiose violate e confiscate dallo Stato. E così Trapani continua ad eleggere indagati, rinviati a giudizio e parlamentari sotto processo come il senatore D’Alì, mantiene in carica sindaci condannati come quello di Valderice, Camillo Iovino, mentre in Consiglio provinciale sono stati seduti fino ad una recente sospensione prefettizia un consigliere, Pietro Pellerito, che faceva favori ai mafiosi, e un sindacalista, Santo Sacco, che portava in giro i pizzini di Messina Denaro. E Trapani continua a eleggere indagati Due Comuni sono stati sciolti per mafia: Salemi, dove il sindaco Vittorio Sgarbi è andato via prima che arrivasse lo scioglimento, e Campobello di Mazara, dove il sindaco Ciro Caravà di mattina inaugurava i beni confiscati alla mafia e di pomeriggio si scusava con i boss; a Pantelleria è finito in manette un sindaco che già c’era finito e che era stato rieletto a furor di popolo, Alberto Di Marzo; a Castelvetrano il sindaco, Felice Errante, ha mandato a dire in giro che Matteo Messina Denaro non è il principale dei problemi, salvo poi prendersela con i giornalisti che hanno “chiosato” su queste parole; a Trapani il sindaco, generale dei carabinieri, ex ufficiale del Sismi, Vito Damiano, preferisce parlare di ma-

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landrini e non di mafiosi; un ex senatore, Nino Papania di Alcamo, aveva a suo servizio un ortolano che faceva anche da autista ai capi mafia. Tutto questo per fare solo una rapida rassegna, ma si potrebbe approfondire. Una provincia di impresentabili. Cerchiamo la via del riscatto nel nome del 2 aprile 1985. A Trapani c’è una via, nei pressi del porto, dedicata, leggete bene, “ai grandi eventi”. Fu il riconoscimento che il sindaco dell’epoca, Girolamo Fazio, oggi deputato regionale Pdl ma in crisi col partito, diede alla Coppa America in salsa trapanese, e su cui la mafia si fiondò a mettere le mani predatrici. Un grande evento che, se si celebra, celebra quindi mafie e mafiosità. Dedichiamo questa via al 2 aprile 1985 come testimonianza perenne per chi è stato colpito ed ucciso, Barbara Rizzo Asta, Salvatore e Giuseppe Asta, per chi ha comunque pagato con la vita anche se più tardi, come Raffaele Di Mercurio; per chi è rimasto ferito ma è stato costretto a non lavorare più, come gli altri agenti della scorta La Porta e Ruggirello; per un magistrato, Carlo Palermo, che fu come morto per lo Stato, costretto a lasciare la magistratura. Infine per tutti coloro i quali vogliono continuare a combattere credendo alle parole di Peppino Impastato, che ci diceva che la “mafia è una montagna di merda”, di Mauro Rostagno, che ci ha insegnato a cercare di costruire una società nella quale valga la pena trovare un posto, e di Giovanni Falcone, che ci ha insegnato a credere che “la mafia un giorno è destinata a morire”.


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Catania

Il saccheggio dell’Antico Corso Fra sindaci “nuovi” e vecchi affari di Collettivo Experia Leggiamo con stupore e rabbia le dichiarazioni rilasciate dal candidato sindaco Enzo Bianco sulla “riqualificazione” del quartiere Antico Corso. Stupore perché ancora una volta provano a rifilarci la favoletta della riqualificazione del quartiere legata all’università; stavolta hanno addirittura rispolverato il progetto che prevede la dismissione dell’ospedale Vittorio Emanuele per far posto a un enorme campus universitario completo di, citiamo dall’intervista, «aule studio, biblioteca, mensa, punti di aggregazione come palestra e bar ristorante. Il tutto da realizzare in project financing con la collaborazione dei privati». (Ricordatevi di questa espressione inglese, apparentemente innocua: nasconde invece la svendita di beni pubblici per favorire la speculazione dei soliti sciacalli). L’ingegnere Alfio Monastra, già membro di una commissione di studio sul quartiere negli anni ’80, si spinge più in là e parla di chiusura anche per l’ospedale Santo Bambino: una struttura dotata di pronto soccorso ostetrico che serve tutta l’area della I municipalità e un reparto di ginecologia fondamentale in un’area in cui il numero di gravidanze tra le minorenni è ancora drammaticamente alto. Non solo, Monastra lo definisce, testuali parole, “un tumore all’interno del quartiere”, un edificio da abbattere e sostituire con case terrane, che rispetterebbero “la tipologia urbanistica tradizionale del quartiere”. Dentro queste case però bisogna metterci gli studenti, naturalmente, in modo da “migliorare la qualità delle frequentazioni” del quartiere. In pratica, grazie all’ingegnere Monastra, scopriamo che: l’armonia architettonica del quartiere è più importante dei servizi di un presidio ospedaliero specializzato che da decenni si prende cura di mamme e bambini di una vasta area della

città. Secondo questa teoria, bisognerebbe dunque abbattere il liceo Spedalieri, l’ospedale Santa Marta, nonché la struttura in ferro di via Biblioteca, che svetta brutta e abbandonata e sulla cui utilità e scopo ancora la gente si interroga. Anche gli abitanti storici di quel quartiere sono antiestetici, perché brutti, sporchi, cattivi e, come se non bastasse, anche abbastanza poveri. Quindi che se ne vadano lontano, a Librino e a San Giorgio, dove l’ingegnere Monastra non li possa vedere e lascino il posto a studenti di buona famiglia, professori universitari e professionisti di bell’aspetto. Il vero “tumore” del quartiere Antico Corso è semmai l’Università di Catania: dopo anni di permanenza, è rimasta un corpo estraneo, ha decretato l’espulsione di migliaia di abitanti storici, ha fatto impennare il prezzo degli affitti e del costo della vita in modo esponenziale, ha congestionato l’area, riversando sulle viuzze un flusso automobilistico insopportabile per una zona che non è neanche servita dai mezzi pubblici e non gode di ampi parcheggi, senza offrire alcuna contropartita in cambio. Speculatori, affaristi e politici Ebbene, anche noi abbiamo un sogno da coronare: debellare il cancro degli speculatori, degli affaristi e dei politici loro complici in questa città. Perché il candidato sindaco Bianco e l’entusiasta Monastra non parlano chiaro? Perché non dicono senza troppi giri di parole che vogliono espellere gli abitanti storici per permettere ai soliti noti, i potenti Virlinzi, Ciancio, Lo Bello, Vecchio ecc., di arricchirsi ancora un po’ con il metodo del project financing, tuffandosi per primi sull’affare dei servizi universitari privatizzati? Se ancora vi stavate chiedendo perché il CPO Experia sia stato sgomberato con tanta decisione e una spesa di 70.000 euro di soldi pubblici; se ancora non riuscivate a spiegarvi perché in un quartiere con una dispersione scolastica altissima si tenti da anni di smantellare l’unica scuola presente, la Manzoni: bene, avete avuto le vostre

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risposte. Centri di aggregazione, scuole e servizi sociali sono solo un ostacolo per il grande progetto dell’UniDisneyland catanese, e devono essere spazzati via in fretta e furia. Sarà un peccato per i distinti signori intervistati scoprire che noi abbiamo altri progetti per l’Antico Corso e che gli impediremo insieme alle forze sane e oneste di questa città, di realizzare un altro scempio come quello dell’Experia (come mai non vanno a vedere come è brutto e sporco e pieno di siringhe adesso il loro progetto di legalità?) e di mettere in atto i loro marci piani, come del resto facciamo da decenni insieme agli abitanti dell’Antico Corso. Un quartiere che ha invece bisogno di strutture sportive gratuite, di spazi all’aperto per grandi e piccoli, di una battaglia durissima contro la dispersione scolastica, invertendo la tendenza che vede la chiusura imminente della scuola media Manzoni, della creazione di asili e scuole a tempo pieno; un quartiere il cui patrimonio artistico e culturale deve essere rivalutato con la costituzione di un parco archeologico, affidato a cooperative di disoccupati che si occupino della fruizione e della vigilanza degli stessi. L’Antico Corso deve essere arricchito da spazi di vera aggregazione sociale e culturale e il degrado provocato con la chiusura del CPO immediatamente sanato con la sua riapertura ai cittadini. Le passerelle elettorali ci fanno schifo e non abbiamo intenzione di delegare i nostri progetti al politico di turno mai visto prima, che li appoggia per qualche settimana per poi scordarsene quando ha ottenuto la fiducia e il voto della gente, così come ha deciso di fare il comitato Antico Corso, creato anni fa dagli abitanti del quartiere e dai militanti del Centro Popolare Experia e oggi convertitosi nel megafono locale dell’onorevole Berretta. Infine, invitiamo coloro i quali, nell’imminenza delle elezioni del nuovo sindaco, pensano in buona fede di destinare il proprio voto a personaggi come quelli citati in questo intervento, a riflettere su quanto essi e i loro piani per la città siano “di sinistra” o, piuttosto, molto “sinistri”.


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Libertà di stampa

Leonardo Orlando un giornalista col vizio della notizia “Barcellona P.G. Incendiata l'automobile di un cronista...” di Norma Ferrara www.liberainformazione.org Si trova ogni giorno davanti ai fatti e da quindici anni li racconta. Leonardo Orlando è un giornalista, ha 51 anni e scrive da Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina, per il quotidiano “La Gazzetta del Sud”. Non è abituato a fare passi indietro: che si tratti dell’arresto dell’ultimo latitante della cosca locale, Filippo Barresi o delle indagini per il furto di benzina, dentro il vicino stabilimento della Raffineria Mediterranea. Così, all’origine dell’incendio doloso che due giorni fa ha distrutto la sua automobile potrebbero esserci diversi moventi. Non guarda subito alla mafia Orlando, sebbene delle cosche barcellonesi si sia occupato per anni. Ma non la esclude. I clan, fiaccati dalle indagini della magistratura della Dda di Messina e dalle collaborazioni di alcuni boss regolano i conti alla luce del sole, a due passi da piazze e dentro i bar della città. E da mesi a Barcellona Pozzo di Gotto si teme una nuova guerra di mafia. «Di fronte all’incendio la prima sensazione che ho avuto – racconta Orlando a “Ossigeno per l’informazione” e “Libera Informazione”– è quella di essere impotente rispetto a ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi.

Le fiamme che si alzavano dalla vettura ci impedivano di uscire dal portone di casa, temevamo anche per un’anziana che vive proprio al primo piano. A svegliarci sono stati i vicini che hanno suonato al campanello e poi si sono dovuti allontanare a causa dell’incendio». Alcune tracce di benzina, rubata da un’altra automobile, sono state trovate sul posto: per i magistrati e i vigili del fuoco si tratta di un attentato, un segnale intimidatorio in piena regola. Un atto premeditato e organizzato contro il giornalista che negli ultimi mesi ha raccontato di arresti eccellenti, delle prime collaborazioni di ex appartenenti al clan ma anche di malaffare e illegalità. Un “cono d'ombra” d'informazione Nonostante ciò, Orlando è sorpreso dal gesto di intimidazione ricevuto la scorsa notte. «La provincia – si legge nella relazione annuale della procura nazionale antimafia è stata per molti anni avvolta in un “cono d’ombra” informativo che ha rafforzato le cosche» e isolato chi provava a contrastare il sistema. «Ho percepito alcuni segnali di tensione nei miei confronti – racconta Orlando – quando il giorno dell’arresto del latitante più importante della cosca locale, Filippo Barresi – davanti al commissariato per tutto il giorno c’eravamo soltanto io e i suo famigliari. Chiaramente quando hanno capito che ero “il giornalista” hanno provato ad osteggiarmi, quasi con l’intento di allontanarmi». Il fatto di essere soli di fronte ai fatti, in momenti così delicati, espone ancora di più, spiega Orlando. La “Gazzetta del Sud” giornale molto criticato per alcune posizioni “conservatrici” è una testata radicata nei paesi della provincia messine-

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se. «Molto spesso diamo le notizie prima degli altri - spiega - Come quando abbiamo denunciato, a seguito di una indagine della magistratura, il furto di benzina da parte di dieci dipendenti della Raffineria Mediterranea. Siamo stati attaccati per questo, anche dai sindacati, eppure c’è una inchiesta, si tratta di fatti di cronaca giudiziaria e abbiamo il dovere di raccontarli». Ma vedere il proprio nome sul giornale locale più letto nella provincia non fa piacere. E spesso si reagisce anche attraverso commenti anonimi su portali on line. «Avevo denunciato alcuni mesi fa un imprenditore, oggi testimone di giustizia, che mi accusava di diffamazione a causa di articoli di cronaca pubblicati un sito». L’accusa mossa ad Orlando era quella di stare dalla parte di un gruppo criminale in luogo di altri. Le latitanze dorate Può accadere anche questo, quando fai il giornalista locale perché come ha scritto il collega Nuccio Anselmo nel suo “Vivere e scrivere in terra di mafia”: «Mentre gli inviati stanno al massimo un paio di giorni, parlano con questo e quello, e poi se ne vanno, il cronista attento e scrupoloso di un giornale radicato nel territorio come il nostro affronta ogni giorno i mafiosi da vicino, se li vede intorno, li “annusa”alle spalle, non se ne può liberare». A Barcellona Pozzo di Gotto, lo ricordiamo, vent’anni fa la mafia uccideva il cronista de “La Sicilia” Beppe Alfano, che in solitudine raccontava l’ascesa dei barcellonesi e le latitanze dorate dei boss della mafia nella provincia babba.


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Call center/ Il caso Misterbianco

Matilde, Almaviva e la delocalizzazione Anche in provincia di Catania è arrivata la nuova economia. Significa lavorare senza diritti – in un call center, in questo caso – e poi all'improvviso vedersi “delocalizzati” perché i proprietari vogliono risparmiare ancora. A volte – come qui a Misterbianco – i lavoratori rispondono con la lotta di Vincenzo Rosa

Somma che non mi permette di realizzare i miei progetti, comprare una macchina, pensare ad una casa...” Questo lavoro per lei, come per moltissimi altri, è l'unica opportunità per rimanere ancora a Catania, il solo modo per allontanare l'idea di emigrare. “Sono stata assunta con un contratto di somministrazione a tre mesi, rinnovato due volte. Poi nel 2011 sono stata stabilizzata a tempo indeterminato grazie ad alcune sovvenzioni regionali. Credevo che quell'assunzione mi avrebbe garantito un minimo di serenità in più. Alcuni di noi ci hanno sperato veramente, hanno acquistato case, acceso mutui. Ricordo ancora le parole del nostro direttore, quando dopo la firma del contratto ci disse che adesso ci saremmo potuti sposare tutti quanti. Io però in fondo non mi sentivo pienamente garantita. Il contratto sarà pure stato a tempo indeterminato ma sapevo che era proprio il lavoro a essere instabile.” Il “lavoro” dei tempi neri

Matilde ha ventisei anni, studia Economia e le mancano poche materie alla laurea. “Ho trovato per caso l'offerta di lavoro in un call center, ormai si trovano da tutte le parti. Avevo bisogno di un'entrata che mi garantisse un minimo di autonomia economica dai miei genitori nell'attesa di completare gli studi. Lavoro 6 ore al giorno, con gli straordinari pagati la metà come prevede l'ultimo contratto nazionale, guadagnando massimo 500 euro al mese.

I call center forse sono il “lavoro” che rappresenta meglio gli sconvolgimenti sociali e produttivi del Paese. Un lavoro stressante, scandito da ritmi frenetici, il più delle volte mal retribuito e con pochissime prospettive di carriera (il regista Paolo Virzì lo descrive in Tutta la vita davanti). In un’economia reale strozzata dalla recessione economica, dove le imprese falliscono e di lavoro ce n'è poco, i call centers spesso sono gli unici posti di lavoro disponibili. Anche in provincia di Catania il feno-

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meno si rivela una delle più consistenti opportunità lavorative. A Misterbianco, in particolare, ci sono decine di società piccole e grandi che operano nel settore: come Almaviva, multinazionale con sedi sparse in Italia, Brasile, Cina e Tunisia. Nello stabilimento etneo lavorano circa 3000 dipendenti, 1.300 dei quali a tempo indeterminato. Da Treu a Biagi a Fornero Dagli anni novanta in poi, l'espansione dei call center è andata di pari passo con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, dalla riforma Treu alla legge Biagi, fino alle ultime misure adottate del ministro Fornero. Sempre allo scopo di “elasticizzare” il mercato del lavoro ma con l'effetto, viceversa, di determinare la moltiplicazione dei contratti “atipici”, diversi fra loro ma accomunati tutti dall'instabilità temporale e da tutele ridotte e a volte del tutto inesistenti, a causa di una legislazione mancante e frastagliata. Chi lavora in questo settore viene assunto nella stragrande maggioranza dei casi con contratti a termine di pochi mesi, a volte anche uno solo, nella speranza poi di un successivo rinnovo e magari di una stabilizzazione. Ma gli oneri legati all'assunzione senza termine sono alti, e le imprese preferiscono non rinnovare i contratti, dotandosi di organici strutturalmente composti da lavoratori precari. Trattandosi di mansioni che richiedono più che altro doti di spigliatezza e comunicatività, le aziende hanno gioco facile nel ricambiare periodicamente il


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Un “libero mercato sempre più feroce”

personale, perchè in un mese (durata del tirocinio, non retribuito) è possibile “addestrarne” altro per ricambiare quello in uscita che altrimenti - secondo legge dovrebbe essere stabilizzato. Così le imprese possono attingere a un mercato del lavoro in condizioni drammatiche, in una corsa al ribasso sempre più forte a causa della disoccupazione altissima. I costi del personale calano, ma i profitti restano gli stessi. Ma anche il ramo delle telecomunicazioni ora sta entrando in crisi: i costi debbono essere ridotti ancor di più. E questo si fa alla maniera globale, cioè delocalizzando nei paesi in cui costi del lavoro sono inferiori. “Via 650 dipendenti” “A inizio marzo – dice ancora Matilde abbiamo ricevuto una lettera dal presidente di Almaviva spa nella quale ci veniva comunicato che Vodafone stava mettendo in atto un piano di delocalizzazione dei suoi servizi verso i paesi dell'est Europa, che avrebbe causato un esubero di circa 650 dipendenti su Misterbianco. Per molti è stato un dramma, alcuni non sapevano davvero cosa fare.

Immagina che a un mio collega sta per nascere un figlio. E' stato bello vedere però tutti uniti, immediatamente è scattata una macchina della solidarietà che ha coinvolto anche quelli in cui posto di lavoro non era in pericolo”. In poche ore su tutti i social network e sui media locali scoppia il caso. La perdita di quei posti di lavoro è un dramma sociale di enormi proporzioni, che si aggiunge alle altre emorragie di lavoro della provincia. I dipendenti si mobilitano sin da subito, anche quelli che non verrebbero coinvolti dalla riduzione di personale. Si organizzano sit-in, nasce un gruppo su facebook per organizzare insieme le iniziative. I lavoratori rispondono uniti. Dopo qualche giorno a Roma si riunisce un tavolo tra sindacati, Almaviva e Vodafone, e alla fine si arriva a un compromesso: gli esuberi saranno divisi tra Misterbianco e Napoli (altra sede della società); in più, “ammortizzatori sociali” come contratti di solidarietà e cassaintegrazione a rotazione. “Il problema sembra essere momentaneamente risolto, perlomeno così ci dicono i nostri rappresentanti sindacali - spiega Matilde - ma con questa notizia ci

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sentiamo ancora più precari di prima, per certi versi pensiamo che l'agonia sia stata solo posticipata. Io sono sicura solo del fatto che se perdo questo posto dovrò andarmene da Catania. Sappiamo che non è finita e sabato 6 aprile abbiamo convocato un sit-in per protestare contro la delocalizzazione e contro il fatto che manca un'adeguata copertura legislativa; inizieremo anche una raccolta firme”. “Flessibilità” a ogni costo La storia di Matilde è quella di una qualunque persona giovane nel mercato occupazionale italiano del post-Duemila. Il paradosso di una generazione: obbligati a percorsi lavorativi incerti perchè il mercato non riesce ad offrire di meglio, con la flessibilità ad ogni costo come ideologia ufficiale; e in pericolo di veder svanire le già precarie aspettative a causa della delocalizzazione. Un lavoratore in Albania, Romania, Bulgaria, d'altronde, costa dieci volte meno di uno italiano. Una rincorsa al ribasso sempre più forte che genera una nuova lotta tra poveri tra i lavoratori dei paesi che compongono i diversi Sud di questa Europa. La precarietà è un aspetto fondante dei rapporti produttivi attuali. E' la loro vera novità rispetto a prima, e influisce pesantemente sul rapporto ineguale fra capitale e lavoro. E quando tali assetti sembrano diventati “normali”, entrando profondamente nelle trame dei rapporti produttivi dei singoli territori, la delocalizzazione arriva come una mannaia a ricordare la totale assenza di regole di un “libero mercato” sempre più feroce.


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Storie dal Clandestino

La bellezza di fare un giornale Da sud a nord. E da sud a sud. Tante storie di vita dentro un'unica storia: quella del Clandestino, giornale che cresce e si fa laboratorio di idee di Enrica Frasca Caccia www.ilclandestino.info

Dall’esigenza di raccontare il suo territorio, alla passione per questo mestiere, il passo è stato breve. Dopo la laurea a Siena con una tesi sui Siciliani di Pippo Fava, Giorgio è tornato a lavorare come cameriere in pizzeria, per vivere nuovamente Modica e poterla raccontare sulle pagine di quella testata che nel frattempo ‘i ragazzi del garage’ avevano registrato. Giorgio oggi fa la scuola di giornalismo. Gli piace, è contento, ma ripete sempre con orgoglio che Il Clandestino, oltre che palestra di vita, è stato la sua prima vera scuola, perché gli ha insegnato a raccontare consumando le scarpe in strada. Crescere assieme

Torino, primavera. Giorgio ritira la posta, apre una busta e si emoziona. Tra le mani ha il numero di marzo del Clandestino, quello nuovo, tutto a colori, quello che è stato pensato e sognato nelle notti estive di festival, tra una pizza e una birra, dopo giornate di stanchezza e nervosismo, sorrisi e pacche sulle spalle, sempre di corsa per le viuzze del centro. Giorgio è emigrato al nord per fare la scuola di giornalismo. E pensare che lui neanche voleva farlo il giornalista. Non era il mestiere che gli balenava in testa all’età in cui i ragazzini pensano a cosa vogliono fare da grandi. Però era in quel garage di Modica alta, la sera in cui Il Clandestino nacque.

Anche Ciccio, suo fratello, era in quel garage. Aveva quindici anni. Lui e Il Clandestino sono cresciuti assieme, stretti in un legame lungo sette anni. Il giornale fa parte della sua quotidianità. Anche a Roma, dove studia fotografia da due anni. Racconta che spesso si addormenta e si sveglia con Il Clandestino in mente, che vive molte delle sue giornate pensando all’inchiesta del mese e a come far crescere questo 'bimbo’. Da sud a sud Il Clandestino porta con sé storie di migrazioni al nord. Ma la storia di Andrea è diversa perché lui ha puntato verso sud. Calabrese d’origine e siciliano conquistato, Andrea espone le sue foto su Rosarno al terzo festival del giornalismo e sale a

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bordo. Andrea corre ad ogni sbarco sulle nostre coste, Andrea consuma le scarpe per raccontare con le immagini; sogna, crea, realizza la nuova veste grafica del giornale. Fa festa e ci delizia coi suoi brindisi in rima, in perfetto stile calabro. È appena iniziato il suo terzo ‘cammino di fotografia’, che fa scoprire a tanti adulti e ragazzi la bellezza di vedere l’immagine come racconto. Festival e nuova linfa Daniela ha la valigia pronta per andar via da questo lembo di Sicilia in cui non intravede alcuna possibilità di realizzazione. Ma la disfa quando partecipa a un workshop di ‘giornalismo residente’ durante il terzo festival. Per lei Il Clandestino è una rivoluzione. Scopre, con sua grande sorpresa, di avere una forte passione per il giornalismo, oltre che delle capacità. Salpa anche lei, insieme a Francesco, Rossana, Angela, Chiara, Antonio, Salvo, Giovanni…e alle loro storie. Non soltanto Daniela si è avvicinata al giornale grazie al festival. Tanti sono stati negli anni i ragazzi che hanno partecipato per dare una mano, divenendo poi parte integrante della redazione; tanti i lettori che sono diventati collaboratori; tanti e belli gli scambi con la rete che hanno dato nuova linfa al giornale. È in quelle quattro giornate di fine estate che Il Clandestino ricarica le batterie e trova la forza per mandare avanti il progetto, perché si rende conto che a crederci sono in tanti. E non solo a Modica.


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Ogni anno, a settembre, riposte in cantina le ultime scartoffie di festival, si torna a incontrare la gente, da sempre prima fonte di ispirazione per inchieste e articoli, si torna a raccontare Modica, con la stessa freschezza e curiosità. Si parla di centri commerciali, trivellazioni, cimitero, opere incompiute, cultura; si intervista il gelataio o il falegname; si prepara l’inserto satirico, ‘a miniminagghia’, le rubriche… A volte con qualche peccato di ingenuità e inesperienza a fare da pungolo per migliorare. È ancora artigianale, Il Clandestino. Sicuramente lo è in maniera diversa rispetto a quando non aveva 'il suo permesso di soggiorno', ma lo è. Perché porta con sé, da sette anni, quel gusto di ‘fare’ il giornale, la bellezza di pensarlo, costruirlo, pagina per pagina, con la testa

e con le mani, mese dopo mese, anno dopo anno. Giornale e laboratorio È un giornale, Il Clandestino. Ma è anche laboratorio di idee, di socialità, di scambio, di giornalismo sul campo. È un’esperienza che profuma di bottega dove si impara un mestiere, anche con fatica, ma sempre con il piacere di farlo. È politica. E c’è vita in tutto questo. Perché l’emozione di andare in tipografia, fuori provincia, a prendere ‘la creatura’ è sempre la stessa. Come lo è l’emozione che si prova quando una macchina piena di giornali parte per distribuirli alle edicole e per portare Il Clandestino a casa di ogni abbonato, persino in campagna.

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La mansarda del circolo 'Di Vittorio' Il Clandestino è il punto d’incontro di persone che amano ‘fare’ un giornale e una sera a settimana tornano a Modica alta, nel cuore antico della città, per riunirsi nella mansarda del glorioso circolo ricreativo Di Vittorio. In un angolo una vecchia chitarra senza corde con l’adesivo dei Litfiba, un vecchio giradischi e un 33 giri di Guccini, cassette della frutta a mo’ di libreria, un salottino riciclato, la scacchiera, i resi delle edicole, una candela consumata e mozziconi di sigaretta; un secchio sotto il tetto, nel punto da cui piove dentro. I vecchietti al piano di sotto hanno finito la briscola giornaliera. In mansarda un cerchio - a volte largo, altre più raccolto - e pizza a tarda sera. Il tema principale del prossimo numero? Su cos’altro potremmo scrivere? Le date del prossimo festival? Ecco perché Giorgio apre la busta e si emoziona. Perché sa che a Modica, in quella mansarda, dopo tanti anni la luce è ancora accesa.


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Il compleanno del Clandestino

Sogno numero tre

Da giornalino scolastico a mensile “con permesso di soggiorno”. Ha festeggiato i suoi quattro anni con una bella novità. Vi raccontiamo il Clandestino sognato

“Ciascuno cresce solo se sognato” scriveva Danilo Dolci. “Facciamo un giornale, come lo chiamiamo?” – questa fu la prima volta che Il Clandestino venne sognato. Quasi sette anni fa, in un garage di

Modica alta, dove alcuni amici, per lo più minorenni, si riunivano spesso. Un brindisi alla nascita del giornale e via con articoli e impaginazione improvvisata. Poi la festa nel salone di una chiesa in occasione della prima uscita, quattro pagine in bianco e nero stampate a casa e fotocopiate, da distribuire nelle scuole. All’inizio Il Clandestino ha parlato soprattutto di acqua, sostenendo le ragioni del movimento contro la privatizzazione. Ma non solo. Da subito ha raccontato Modica, con la sua bellezza e le sue ombre, ne ha toccato i poteri forti e le mille contraddizioni. Il permesso di soggiorno È stato sognato ancora, Il Clandestino. Dai suoi fondatori, ma anche dalle tante persone che si sono avvicinate nel tempo per dare il loro contributo. Così nel 2009 il grande salto, con la registrazione della testata. Il Clandestino prendeva “il permesso di soggiorno” e approdava in tipografia e in edicola. Cambiava il formato, migliorava la grafica e ogni pagina a colori era una conquista.

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L'idea del festival È sempre del 2009 l’idea di un Festival del Giornalismo a Modica, per festeggiare l’informazione libera di inchiesta e di approfondimento, il giornalismo spesso ‘con le pezze al culo’, ma sempre con la schiena dritta, per vivere la rete. Un evento di respiro nazionale che ha archiviato la sua quarta edizione. Compleanno con novità Dal 15 marzo i nostri lettori sfogliano il sogno numero tre. Abbiamo festeggiato i quattro anni di 'permesso di soggiorno' con il lancio del nuovo formato. “Ci siamo ridotti bene e abbiamo preso colore” – ha amato dire qualcuno di noi. Il Clandestino si allontana definitivamente dall’adolescenza per affacciarsi alla maturità. E non ha paura di farlo. Perché l’anima del Clandestino è fatta di persone ed è sempre la stessa. Cambiamo. Ma non cambiamo Le parole ‘bimbe’ del primo editoriale che spiegava cosa fosse Il Clandestino oggi hanno lo stesso valore. Non ci siamo arricchiti, né imborghesiti. Quella del Clandestino è ancora una volta una storia di volontariato, una storia di ragazzi che mese per mese, dalla sera del 30 settembre 2006, scendono in strada con la voglia di raccontare e approfondire. E lo fanno ancora. Con la stessa passione e la stessa freschezza di prima.


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“Non ci siamo arricchiti, nè imborghesiti. La nostra è ancora una volta una storia di volontari, di ragazzi che scendono in strada con la voglia di approfondire e di raccontare”

Scheda UN NUOVO FORMATO E TANTI COLORI

Scheda I CLANDESTINI, O DELLA LIBERTA'

Dal numero di marzo Il Clandestino lascia il vecchio formato editoriale da quotidiano per avvicinarsi a quello di una vera e propria rivista mensile. Cambia veste, cambia stile. Formato più piccolo e maneggevole e grafica rivisitata, meglio si adattano a veicolare la maniera di raccontare che da sempre caratterizza Il Clandestino. La ‘rivoluzione’ del colore dà nuova linfa ai contributi fotografici che accompagnano le parole. Ma non solo, perché permette anche una suddivisione tematica dei contenuti. A livello comunicativo è sicuramente un Clandestino che cresce. Free road – strada libera – è il nome del nuovo font utilizzato. È un bell’augurio. E ce lo prendiamo tutto.

Tu pensa a una comarca di liceali, nella parte più a sud della Sicilia, che un bel giorno si mette insieme per far campagna per l'acqua libera nella loro zona. La campagna riesce benissimo (la provincia di Ragusa è stata la prima a de-privatizzare l'acqua) ma i ragazzi non sono ancora soddisfatti. Vanno avanti, e fondano adddirittura un giornale. Così "Il Clandestino" prende piede, si afferma, diventa la voce riconosciuta di Modica, la loro città. Poi incontrano altri ragazzi come loro, altri giornali: e formano tutti insieme una rete, i "Siciliani giovani": il nome è di un vecchio giornale della storia d'talia, "I Siciliani " di Giuseppe Fava. La storia, in quattro e quattr'otto, è tutta qua. Enrica, Giorgio, Andrea, Ciccio e tutti gli altri sono ancora al lavoro, un giorno dopo l'altro, senza mai fermarsi. Ogni anno fanno un loro "festival del giornalismo", giù a Modica, che ridendo e scherzando è diventato un appuntamento importante di questo nostro mestiere. Hanno trovato una strada che è giornalismo ma è anche politica, società civile. Ed èun modello per tutti: lavorare, lottare, fare le cose seriamente e sul serio, e tutti insieme. Non sono ricchi per niente, se si parla di soldi. Sono piuttosto precari, anzi, come quasi tutti i ragazzi della loro età. Ma sono anche ricchissimi: di libertà.

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Quella del Clandestino è anche la storia di sponsor, lettori e abbonati. È grazie a loro se ogni mese si va in stampa, con in testa e nel cuore l’idea che una città è viva quando viene raccontata. Continueremo a fare la stessa cosa, ma tenendo per mano un Clandestino cresciuto. Cresciuto, sì, perché è stato – ed è ancora – tanto tanto sognato. E.F.C.


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Storia

La strage di Palermo 19 ottobre 1944: i soldati sparano sulla folla in via Maqueda. Fu il primo di una serie di massacri - “ufficiali” e no – che segnano tutta la nostra storia di Elio Camilleri La strage di Palermo fu il primo episodio stragista della storia della Sicilia riconsegnata all’Italia. Circa tremila dimostranti, tra cui anche gli impiegati del Comune in sciopero, stavano protestando contro il carovita davanti la Prefettura. Improvvisamente i soldati della divisione Sabaudia cominciarono a sparare sulla folla che si disperse, lasciando sulla via morti e feriti. La responsabilità dei fatti di Palermo non fu accertata del tutto, né unanimemente condivisa. Le colpe furono, per così dire, distribuite: un po’ ai soldati, un po’ agli organi di PS, un po’ ai vigili urbani, un po’ all’educazione antidemocratica delle truppe. “I palermitani di allora la definirono la “strage del pane” perché la folla manifestava contro il caro-vita, chiedendo pane e lavoro, è stata per oltre mezzo secolo dimenticata da tutti. Anzi, sistematicamente ed incredibilmente rimossa dalla memoria collettiva. Di quella triste e luttuosa giornata non ci sono fotografie, disegni, testi, accenni nei libri di storia italiani e, pertanto, nemmeno in quelli di storia siciliana.

E’ stata portata così a compimento un’operazione di rimozione dalla memoria storica, avviata con tiepide e pilotate indagini effettuate da funzionari accomodanti e conclusasi con un processo-farsa in cui tutti gli esecutori materiali restarono impuniti ed i mandanti non furono minimamente individuati”. Per comprendere la tragica successione dei fatti bisogna tenere conto degli ordini del generale Taddeo Orlando, già dal 31 agosto. L’esercito doveva essere impiegato per servizio di ordine pubblico con l’obbligo di reprimere senza esitazione con le armi “qualunque perturbamento del’ordine pubblico”. “Aprire il fuoco senza preavviso” Contro la popolazione si doveva “procedere in formazione di combattimento”. L’ordine era di "aprire il fuoco, anche a distanza, con mortai e artiglieria, senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche". Destinataria degli ordini fu la Divisione Sabaudia, trasferita in Sicilia dalla Sardegna. Composta in prevalenza da ragazzi sardi, in maggioranza pastori analfabeti e distribuita sul territorio siciliano, fu mal sopportata dalla popolazione che soffriva già per mancanza di cibo, di lavoro, di servizi, di tutto. Quella mattina del 19 ottobre in via Maqueda c’erano gli impiegati del comune che manifestavano per l’aumento dello stipendio, insieme a migliaia di palermitani che chiedevano “pane e pasta per tutti”. Una delegazione chiese di essere ricevuta dal Prefetto D’Antone e dall’Alto Com-

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missario Aldisio, ma né l’uno, né l’altro si trovavano quel giorno a Palermo. Il Vice Prefetto, Giuseppe Pampillonia, ritenne di fare intervenire la “Sabaudia”, e fu strage. “Mitragliatori e bombe a mano” Dalle caserme di Corso Calatafimi due camion con una cinquantina di ragazzi sardi raggiunsero via Maqueda, al comando del giovanissimo sottotenente Calogero Lo Sardo che applicò alla lettera l’ordine del generale Orlando. In meno di un minuto, a colpi di fucili mitragliatori e bombe a mano, ventiquattro disperati furono massacrati e decine di altri disperati furono feriti. Nel processo di Taranto il tenentino e 21 soldati furono riconosciuti colpevoli di eccesso colposo di legittima difesa, amministiati e liberati. In sostanza si stabilì che loro, con bombe a mano e fucili mitragliatori, furono costretti a difendersi. Il 19 ottobre del 1944 è una di quelle date della storia della Sicilia da non dimenticare: quel giorno si consumò la strage di Palermo, la prima nella Sicilia riconsegnata all’Italia proprio per mano della divisione Sabaudia. E intanto, i Decreti Gullo... Il Governo Italiano, esattamente nello stesso giorno, nelle stesse ore della strage, promulgò i “Decreti Gullo”, che provocarono l’avvio di un irreversibile processo di dissoluzione del latifondo, di progressiva diminuzione del numero dei latifondisti e, di conseguenza, di un annientamento del ruolo degli stessi come classe dominante. Ma questa è un’altra storia...


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Storie

Protocollo di democrazia

I like erano arrivati al 65%, un buon numero ma non ancora sufficiente: per quel tipo di risoluzioni erano necessari i due terzi di pareri favorevoli di Jack Daniel dajackdaniel.blogspot.it/

. La discussione, piuttosto calma nel forum principale s’infervorava nei sub forum che ancora non avevano espresso la loro preferenza. Era lì che bisognava intervenire, e mancava solo un’ora. Eva contattò Adam, un suo conoscente attivo in quel meetup dell’Alaska che ancora doveva esprimere il suo like. L’ultimo protocollo di Democrazia, il 3.12, infatti, aveva adottato uno schema di votazione che ricordava quello dei vecchi caucus delle presidenziali americane: ogni meetup locale esprimeva un solo voto, e questo era determinato dalle votazioni dei suoi iscritti. Non era il sistema ottimale, anzi, ma aveva il pregio di rivitalizzare le località che, in caso di un’unica votazione generale, avrebbero perso la loro identità. Si era arrivati al 3.12 dopo le cattive esperienze delle versioni 2.XX che, prevedendo il principio tot capita tot sententiae, di fatto scatenavano un referendum globale sulla rete con forum impossibili da gestire . Le versioni 3.0 e seguenti, riprendendo il meccanismo dei caucus avevano dato un grande sviluppo ai gruppi locali e avevano permesso una maggiore partecipazione. Eva continuava a preferire, però, i sistemi 2.XX: con i 3.XX una po-

sizione minoritaria nel meetup locale finiva per non contare nulla a livello globale. E, inoltre, il sistema di votazione era diventato pachidermico, a tutto svantaggio della velocità di risoluzione. Per ogni votazione, infatti bisognava prevedere l’apertura simultanea di un forum globale e di miriadi di forum locali, ciascuno dei quali si prendeva il suo tempo per discutere ed esprimere il suo voto. Lungaggini, a volte infinite. “E' lo scopo della mia vita” «Adam, come vanno le cose lì in Alaska?» «Ce la faremo». «Mi raccomando». «Inutile che tu me lo dica: l’abolizione di questa legge è lo scopo della mia vita» «E’ importante. Mancano ancora pochi like per i due terzi» «Lo so, ce la faremo, sarà una nuova era per l’Umanità» Si aprì una finestrella in basso a destra sullo schermo: Tasmania, Bengala e Senegal avevano posto il like. Immediatamente dopo seguì il dislike del Galles, ma fu sovrastato da altri like provenienti da ogni parte del mondo. 67%, e il numero dei subforum che non avevano espres-

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so il voto si assottigliava. «Adam, se Alaska pone il like siamo alla maggioranza matematica, indipendentemente da quello che votano gli altri» «Vedo. Ormai ci siamo» Infatti, contemporaneamente apparve, nella solita finestrella, l’avviso del like dell’Alaska e poco dopo i forum si oscurarono e comparve la schermata di fine votazioni. Votazione conclusa –si annunciava. Raggiunta la maggioranza dei due terzi. E poi, in grandi caratteri stampatello, LA PROPOSTA E’ STATA ACCOLTA. LA LEGGE DI GRAVITAZIONE E’ ABOLITA. Ad Eva, distante migliaia di chilometri , parve quasi di sentire l’urlo di gioia di Adam. Il quale, infatti, appena conosciuto l’esito del voto volle finalmente coronare il sogno della sua vita e corse verso la finestra, l’aprì e, con foga, scavalcò il davanzale. I suoi informi resti biologici, spalmati sull’asfalto, dieci piani più in basso, furono poi ritirati dalle squadre di raccolta biologica e conferiti al compost comunale. Da quel concime, poi, sarebbero nati molti alberi, per un pianeta più green.


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Polemiche

Il divoratore di movimenti Grillismo come rimozione dei conflitti sociali? di Pietro Orsatti www.orsattipietro.wordpress.com

Prima fu il verbo. In gran parte frutto delle felici penne di Michele Serra e Stefano Benni. Poi venne il tempo del fiume in piena contro la finanza e le banche che straripava dai palchi di teatri e palasport. Così sopravvisse e prosperò l'uomo che dal tempio del Festival di Sanremo si lasciò sfuggire quella battuta sui socialisti ladri (alla vigilia di Tangentopoli) e si vide da un giorno all'altro cacciato dalle tivvù nazionali per lesa maestà. Forse la cacciata arrivò con il concorso sempre di Serra e Benni, che all'epoca erano gli autori di Giuseppe Piero Grillo, detto Beppe. Mi sono sempre domandato se la battuta sul Psi fosse sua. Forse era così telefonata che la improvvisò. Oppure era frutto dei suoi autori, fra migliori dell'epoca. Di certo fece scalpore e scatenò l'ira di Craxi e del CAF (Craxi/Andreotti/Forlani) tutto e il calcione arrivò nel giro di poche ore. Il periodo di esclusione dalla Tv fu, per Grillo, fruttuoso. Il comico, sempre più sganciato dai vincoli e dai condizionamenti delle televisioni pubbliche e private, si costruì in breve tempo un nuovo linguaggio e un nuovo obiettivo su cui concentrare la propria attenzione: l'intreccio del potere finanziario e bancario nel momento in cui il pensiero neo liberista più estremo diventava egemone con la caduta del Muro di Berlino. Era l'inizio della globalizzazione e dell'egemonia mondiale del potere finanziario che si sottrasse a qualsiasi controllo da parte della politica, svincolandosi anche dall'economia reale basata sulla produzione. Era il trionfo della speculazione fine a se stessa. E Grillo si ritagliò per un decennio il ruolo del censore delle abiezioni più evi-

denti in Italia. La vicenda Telecom, i petrolieri, le banche, le privatizzazioni come quella di Enel, e ancora Parmalat. E in scena era un uragano. "Come era meglio il mondo antico" sembrava urlare distruggendo computer sul palco o mettendo in atto blitz (Tg al seguito) nel corso di assemblee di azionisti. La cacciata dalla Tv era stata quindi la sua fortuna e il suo sdoganamento definitivo da semplice comico a uno dei riferimenti di un determinato ambito culturale. E infatti Grillo era ormai ospite fisso di vari salotti prestigiosi che facevano riferimento a Antonio Ricci (ormai lanciato ad essere la star produttiva di Fininvest e uno degli uomini più potenti della televisione italiana), Serra e Benni. Serra, Benni, Gaber, Fo, Celentano... E poi Giorgio Gaber (che aveva curato regie di suoi spettacoli), la famiglia Fo (Dario, Jacopo e Franca Rame). E ancora Adriano Celentano, don Gallo e quello che potremmo chiamare il laboratorio della Rete Lilliput di Quarrata, area del dissenso cristiano sociale e dell'associazionismo e del volontariato, embrione del movimento contro la globalizzazione che faceva riferimento ed era in collegamento con i movimenti sociali del Sud del Mondo. Grillo non era più il comico scoperto da Costanzo e coccolato da Baudo. Era parte del salotto buono della cultura "di sinistra" che andava da Fo a Gaber fino alle aree movimentiste del cristianesimo sociale. Ma quel salotto gli andava stretto. Non voleva essere uno dei riferimenti, voleva essere il riferimento. Punto. Torniamo a Quarrata per capire bene di cosa stiamo parlando. La marcia della pace di Quarrata vicino a Pistoia. Ogni anno sul palco sfilavano i big di quell'area non violenta del movimento spazzata via dalla macelleria messicana a Genova 2001. E molte altre voci che a quel movimento guardavano con simpatia. Don Ciotti, Alex Zanotelli, Gherardo Colombo, Giancarlo Caselli, teologhi della liberazione e attivisti dei movimenti sociali

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come Leonardo Boff e Frei Betto. E anche lui, Beppe Grillo, come ospite fisso. Il movimento spazzato via a Genova È probabilmente qui, a Quarrata, che Grillo intuisce le potenzialità di questa enorme parte del movimento spazzato via a Genova nel 2001. Un movimento frustrato dai partiti e da organizzazioni come il sindacato che lo avevano scaricato alla vigilia di quella tragedia che fu il G8 consentendo poi la repressione indiscriminata. È in quelle occasioni che Grillo viene in contatto e poi viene sdoganato da una serie di teste pensanti di quel dissenso. È qui dove Grillo smette di essere semplicemente un uomo di spettacolo rompicoglioni e inizia a essere un abbozzo di leader carismatico di un embrione di forza politica. Il blog e poi i meetup e ancora i gruppi degli "amici di Beppe Grillo" arriveranno poco dopo. E forse quegli ulteriori salti in avanti arrivarono non tanto per la sua frequentazione dei luoghi di elaborazione del movimento, quanto per le sue battaglie su finanza e banche e aziende. In particolare contro Telecom. Perché l'incontro chiave che trasformerà Grillo in quel fenomeno politico che conosciamo oggi è con un uomo che è stato al centro dello scontro Telecom/Olivetti di quel periodo: Gianroberto Casaleggio, il co-fondatore dei Cinque Stelle. Una storia “aziendale” di rilievo Scrivevo sul numero 5 del 2010 di Micromega: “Il teorico e inventore del gruppo è […] Gianroberto Casaleggio. «È stato dirigente», si legge sul suo curriculum, «di aziende ad alto indirizzo tecnologico», e la sua principale attività, oltre a curare personalmente l’oggetto mediatico Grillo […] è quella della pubblicistica. E anche Casaleggio ha una storia «aziendale» di rilievo, parallela anche se meno convenzionale a quella di Sassoon (ex socio oggi dimessosi dalla società, Nda).


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“Unico proprietario del logo, del nome, dello statuto...” Inizia infatti a farsi notare non in un laboratorio di qualche campus, ma nell’Olivetti di Roberto Colaninno, e qualche anno dopo diventa amministratore delegato di Webegg, come abbiamo già detto suo trampolino di lancio, in seguito come guru nostrano della rivoluzione della Rete. La Webegg ha origine da una jointventure tra Olivetti e Finsiel (della Telecom), ma nel 2002 l’azienda di Ivrea cede il suo 50 per cento alla Telecom. Intanto Casaleggio ha dato vita a un’altra società, la Netikos, dove siede per alcuni mesi nel consiglio di amministrazione accanto a un figlio di Colaninno (Michele). Ma è un’avventura di breve durata, o forse solo il momento di transito per creare con i vecchi amici della Webegg qualcosa di totalmente nuovo. E infatti nel 2004 Gianroberto chiude baracca e burattini e va a fondare con altri dirigenti Webegg la Casaleggio Associati”. Che Casaleggio avesse, e abbia, qualche sassolino da tirare fuori dalle scarpe nei confronti della Telecom può essere stato uno dei motivi che hanno spinto l’attentissimo Gianroberto a osservare le azioni di Grillo e poi a pensare di avvicinarlo. Dal blog ai Cinque stelle Grillo e Casaleggio si incontrano, scoppia una reciproca fascinazione e nel 2005 vede la luce il blog www.beppegrillo.it. E subito dopo la rete di gruppi degli “amici di Beppe Grillo” e dei MeetUp. E’ l’inizio di un processo che condurrà alla nascita dei Cinque Stelle. Ma torniamo ai movimenti dove Grillo e Casaleggio vanno a pescare a piene mani. Dopo Genova 2001 il movimento di movimenti si ritrovò in parte criminalizzato e in parte schiacciato e senza più riferimenti, se non le proprie lotte specifiche tematiche e territoriali. Non più un movimento di movimenti ma tante istanze disgregate e solo faticosamente in relazione l’una con l’altra. Ogni tavolo di elaborazione comune scompare, se non in occasione dei movimenti per l’acqua che però si andranno a scontrare, come anche nella vicenda del movimento viola, con il carro

armato Di Pietro che ha maciullato in parte anche quei coordinamenti cavalcandoli prima e poi cercando di inglobarli. E con Grillo che proprio da lì si sostituisce, in termini di immagine, ai movimenti come loro sintesi. Lentamente ma inesorabilmente davanti all’immenso palasport che è il suo blog, lui diventa quei movimenti. Non è la realtà, ma è la proiezione che lui fa della realtà. I movimenti diventano, nel suo racconto, l’emanazione del disagio che lui incarna. Tutto. Radicalmente. “Mettono il cappello” su tutto Dichiara Wu Ming in un’intervista al Manifesto: “La nascita del grillismo è una conseguenza della crisi dei movimenti altermondialisti di inizio decennio. Man mano che quel fiume si prosciugava, il grillismo iniziava a scorrere nel vecchio letto. Nei primi anni, i liquidi erano ancora «misti», e questo ha impedito di vedere cosa si agitava nel miscuglio, oltre ad attenuare certe puzze. In seguito, la crescita tumultuosa del M5S è divenuta a sua volta una causa – o almeno una concausa importante – dell’assenza di movimenti radicali in Italia, per via della sistematica «cattura» delle istanze delle lotte territoriali, soprattutto di quelle più «fotogeniche».Non c’è lotta «civica» su cui il M5S non abbia messo il cappello, descrivendosi come suo unico protagonista. “Oltre la destra, oltre la sinistra” Temi, rivendicazioni e parole d’ordine sono stati cooptati e rideclinati in un discorso confusionista e classicamente «néné», cioè che si presenta come oltre la destra e oltre la sinistra. È un discorso che accumula sempre più contraddizioni, perché mette insieme ultraliberismo e difesa dei beni comuni, retorica della democrazia diretta e grillocentrico «principio del capo», appoggio ai No Tav che fanno disobbedienza civile e legalitarismo spicciolo che confonde l’etica col non avere condanne giudiziarie”.

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Rincara la dose lo scrittore Sandrone Dazieri sul suo Blog: “Sono convinto che vi siano esponenti 5 Stelle che partecipano alle lotte No Tav, per lo meno lo spero (anche se, una volta presa una condanna per manifestazione non autorizzata o blocco stradale immagino non possono più candidarsi, viste le regole che equiparano qualsiasi condanna). Quello che volevo mettere in luce, però, è il fatto che se il Movimento no Tav esiste è perché è stato costruito e creato dal basso, in modo orizzontale, non deciso da qualcuno in piedi su un palco. E’ la differenza tra una lotta di popolo e un movimento truppe”. Ma come giustificare quel dato impressionante del 25% ottenuto a livello nazionale alla prima corsa elettorale? E come comprendere quel livello di impermeabilità dimostrato dagli attivisti e dagli eletti che non si sono posti il minimo dubbio davanti alle 11 società in Costarica fondate dall’autista e dalla cognata di Grillo? Lui il presidente e suo nipote il vice Nessuna domanda neanche davanti alla comparsa di uno statuto (che fa carta straccia del tanto sbandierato non statuto) registrato a pochi mesi dal voto in cui emerge che Beppe Grillo è il presidente del Movimento Cinque Stelle (non era solo il “megafono?), suo nipote il vice presidente e il suo commercialista il segretario? E nessuna domanda viene alla luce nell’apprendere che sempre Grillo è il proprietario del logo, del nome, del sito/blog ed è l’unico che ha la titolarità a autorizzare la presentazione di liste e l’unico che può sindacare sull’attività di attivisti e eletti? E cosa dire di quell’assemblea dell’associazione Movimento Cinque Stelle che si dovrebbe tenere a aprile 2013? L’unica risposta possibile è la fidelizzazione acritica ottenuta grazie a un processo di marketing estremamente accurato messo in atto da Casaleggio associati e dallo staff che gestisce ogni informazione (e processo di formazione) verso il bacino


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“I movimenti, masticati e digeriti dalla nuova balena a cinque stelle, faticano a ritrovare una propria identità autonoma...”

di attivisti e il controllo sistematico esercitato sempre dalla stessa struttura su ogni informazione o voce discordante. Scrive Giovanni Boccia Artieri, docente presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, sul suo blog: “Nel continuo tentativo di comprendere un fenomeno elettorale come questo e la sua natura comunicativa osserverei infine le preferenze dei giovani Italiani: tra i 18 e i 24 anni il 47,2% dei votanti si è espresso in favore del movimento 5 Stelle (dati Tecné). Ecco, per esempio, questa fascia d’età nella Rete/ambiente abita, e costituisce la fascia che è più attiva online: tempo medio per persona di 1 ora e 40 minuti al giorno e 186 pagine viste (dati Audiweb). Credo poi che questi dati non tengano effettivamente conto del fatto che il mobile ha consentito di portarsi i social network con sé in modi sempre più continuativi e pervasivi”. Una rete proprietaria E ancora: “Ma a questa visione corrisponde anche la concezione di Rete che ha il mondo Cinque Stelle, che non è il web ma la rete proprietaria e fidelizzata descritta da Serena Danna sul Corriere della Sera:”Il progetto di Grillo e Casaleggio ricorda quello dei colossi del web Google e Facebook, che lavorano per creare una dimensione esclusiva di navigazione online dove tutta l’attività dell’utente si svolge dentro il perimetro del mondo di valori, idee, contenuti e servizi costruito su misura per lui. […] La strategia 5 Stelle su Internet, lungi dall’essere centrifuga, trasparente, conflittuale e diffusa -come la Rete stessa è-, finisce con l’essere centripeta e partigiana: con un centro che diffonde i messaggi senza rispondere a critiche e commenti”. Ed è esattamente il modello che promuove, in ambito di strategia di marketing, Gianroberto Casaleggio nelle sue pubblicazioni e sul sito aziendale della Casaleggio Associati. Non da ieri. Da anni. «Online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti, queste persone sono gli influencer», scrive in un

articolo Gianroberto Casaleggio, «quando si accede alla Rete per avere un’informazione, si accede a un’informazione che di solito è integrata dall’influencer o è creata direttamente dall’influencer. L’influencer è un asset aziendale, senza l’influencer non si può vendere, c’è una statistica molto interessante per le cosiddette mamme online, il 96 per cento di tutte le mamme online che effettuano un acquisto negli Stati Uniti è influenzato dalle opinioni di altre mamme online che sono le mamme online influencer». Le colpe della classe politica E ancora si legge sul sito web della Microsoft in un post del 2010: «Uno studio della società statunitense Rubicon Consulting ha tracciato il profilo degli influencer, la loro diffusione e le modalità di comunicazione e di propagazione dei loro messaggi. Le comunità online, gli spazi dove agiscono gli influencer, non sono tutte uguali, ognuna ha peculiarità proprie». Non si capisce se questo brano l’abbia scritto Gianroberto Casaleggio stesso o se a questo testo del gigante statunitense si sia rifatto. L’articolo della Microsoft prosegue: «Le comunità online originate dalle connessioni, come Facebook, sono le più frequentate (25 per cento degli utenti) e le più importanti per i giovani sotto i 20 anni, seguono, con circa il 20 per cento, quelle con attività in comune e condivisione di interessi. La maggior parte degli utenti delle comunità ha un’età tra i 20 e i 40 anni. In questo contesto operano gli influencer». Allora è solo un’abile campagna di marketing virale che ha portato un elettore su quattro a votare per Grillo? No di certo. Le ragioni sono da ricercare nel crollo morale e politico dell’intera classe politica che ha operato ed è maturata nei vent’anni dominati e condizionati dalla discesa in campo di Berlusconi. Un crollo che si è costruito in anni di affari, corruzione, patti scellerati. E immobilismo. E da qui l’assenza di un’offerta politica credibile che affrontasse la crisi economica, sociale e culturale che stiamo subendo.

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Di certo ha giocato la frammentazione e disgregazione dei movimenti dopo Genova 2001. Di certo ha dato una mano l’informazione ufficiale e la categoria dei giornalisti incapaci di capire cosa stava mutando sia in termini di linguaggi che di media, e che si sono aggrappati alla mera sopravvivenza ponendosi proni davanti a chi erogava il finanziamento pubblico. Ma l’operazione di marketing ha pesato molto più di quanto si pensi. Come pesò nel ‘94 nella nascita di Forza Italia. Si è passati dal “partito di plastica” (Forza Italia) al “partito che non c’è” (M5S). Se Forza Italia nasce grazie al lavoro imprenditoriale e organizzativo di quella costola della Fininvest (Publitalia) diretta da Marcello Dell’Utri, il M5S nasce invece dal lavoro organizzativo e dal Marketing virale della Casaleggio. La natura stessa dei due progetti dovrebbe spingerci a riflettere. Le promesse della libertà assoluta berlusconiana (d’impresa, dai laccioli burocratici, dalle tasse, dalla magistratura, da uno Stato pesante e dall’orrido pericolo comunista) rappresentano la facciata della prima ora del cavaliere. Alla faccia dei movimenti Mentre Grillo promette la fine delle caste (e minore burocrazia, e libertà d’impresa e Stato più leggero nei confronti del mercato, per curiosa analogia con il suo predecessore), la promessa di una democrazia diretta (uno vale uno) che si sostituisca alla democrazia rappresentativa dopo una sorta di apocalisse che incenerisca, partendo dai partiti, l’intero sistema costituzionale. E i movimenti masticati e digeriti dalla nuova balena a Cinque Stelle? Faticano a ritrovare una propria identità autonoma o sono stati letteralmente schiacciati dalla macchina elettorale di Grillo. Che li ha resi, loro malgrado, parte di un spot elettorale, su youtube ovviamente, della nuova casta di cittadini-parlamentari-assessori-sindaci e consiglieri. E del loro proprietario. Alla faccia dei movimenti dal basso.


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Politica

Dove il caos non paga Il “guru” Grillo vorrebbe che i grillini fossero una setta: lui comanda, detta i tempi, dice chi può parlare e chi no, dove lo può fare, cosa deve dire e a chi. Gli adepti ubbidiscono...

È accaduto in occasione dell’elezione del presidente del Senato, quando un pugno di senatori grillini, in particolare delle regioni del Sud, ha deciso di disubbidire al diktat di Grillo e votare il candidato di Pd-Sel, Libero Grasso. Un voto, questo, che non soltanto premiava un magistrato antimafia, ma penalizzava il suo avversario Renato Schifani, il cui passato, in ordine alle cose di mafia, non pare tra i più limpidi. Un mandato da rispettare

di Riccardo De Gennaro

Grillo è convinto che anche un minimo tasso di democrazia interna sarebbe lo snaturamento e dunque la distruzione del Movimento 5 Stelle. Chi sa riconoscere che l’M5S ha avuto dei meriti, ad esempio nel portare alla politica molti giovani che non le si erano mai avvicinati e nel costringere gli altri partiti a non includere nelle liste elettorali alcuni “impresentabili”, ha dunque accolto con soddisfazione la notizia che la setta non è monolitica e che non tutti gli adepti si suiciderebbero se il loro capo lo chiedesse.

Questi grillini, una decina al massimo, si sono resi conto che anche loro hanno un mandato elettorale da rispettare: “Come lo spiego ai miei elettori che in occasione del voto per il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, non ho scelto tra Grasso e Schifani?”, si sono detti. Uno di loro non ha avuto dubbi: non solo voto secondo coscienza, ma lo dichiaro apertamente e me ne assumo le responsabilità. Il suo nome è Giuseppe Vacciano, napoletano, che si è autodenunciato in quanto “colpevole di alto tradimento dei principi dell’M5S”, come da anatema del leader, con un video pubblico. Dopo Vacciano, forse perché sollecitati a farlo dal capogruppo Crimi, anche gli altri “reprobi” hanno “confessato”.

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Il “caso” costituirà un precedente per una “democratizzazione” del Movimento 5 stelle? Impossibile dirlo ora. Si può, tuttavia, prevedere che se la strada non sarà questa, l’iniziativa dei grillini e il loro avvento in Parlamento risulterà inutile e che con il passare dei giorni la protesta si dimostrerà sempre più sterile. Non solo: buona parte dell’elettorato, come ha dimostrato lo scontro sulla formazione del nuovo governo, non trovando comprensibile l’integralismo ostruzionistico potrebbe – se l’obiettivo di Grillo è quello di nuove elezioni per aumentare il suo bottino di consenso – non confermare il suo appoggio. Si sente circondato L’impressione è che Grillo soffra di una sindrome paranoide. Dice “siete circondati”, ma è lui che si sente circondato, vede “trappole” ovunque, parla di inciucio continuo Pd-Pdl, laddove Bersani, nella scelta dei candidati alla presidenza delle Camere, ha dimostrato che talvolta questa tentazione non ce l’ha. Probabilmente Grillo deve rivedere la linea: una cosa è la piazza, un’altra il parlamento, dove il caos non paga, nemmeno per i “rivoluzionari” come lui.


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Città

“A Palermo si riprende a sparare” Così titola da qualche tempo la stampa lasciando intendere non solo il dato oggettivo dei morti ammazzati platealmente in certe strade e con certi rituali simbolici, ma anche una presunta imprevedibilità degli eventi... di Giovanni Abbagnato

E’ il solito delirio che gratifica chi vuol fare intendere di comprendere le mutazioni, mentre gli altri si attardano in analisi che sanno di antico. Un “nuovismo” fuorviante che è ben lontano dall’attenzione alla complessità e all’adattabilità dei fenomeni, soprattutto se di natura sistemica, come nel caso della mafia. Questa deriva nell’interpretazione del fenomeno mafioso non è una sorpresa, ma è, prevalentemente, frutto di un pamphlettistica, che oscilla impunemente dal risaputo dèjà vu al sensazionalismo di maniera, e di un giornalismo che vive di agenzie ed opinioni nelle confortevoli redazioni. Può sembrare una considerazione ripetitiva, ma è vero che i giornalisti, anche i giovani invischiati tra le spire peggiori del precariato nelle grandi testate, non consumano più le suole delle scarpe camminando tra gli angoli presidiati da Cosa nostra e annusando l’aria nei quartieri, del centro come della periferia. La mafia presidia ancora

E come non rifugiarsi in una presunta imprevedibilità dell’evento se si è sostenuto da tempo che ormai la mafia “militare” dei quartieri di Palermo era allo sbando? Come non mostrare un’ingiustificata sorpresa se si è sostenuto che la dimensione socio-politica della mafia, semmai c’è stata, è passata totalmente altrove, a un presunto nuovo livello dallo schema, diversissimo da quello del tutto anacronistico che conoscevamo.

In questo modo può sfuggire la realtà di un sistema socio-criminale in una città magmatica come Palermo, che può fare scomparire tutto per poi farlo riapparire imprevedibilmente. In una dimensione temporale e concettuale diversissima si ripete il tragico errore interpretativo degli anni ’70, in cui presuntuosi giovani rivoluzionari snobbavano la potenza criminale innervante della mafia dei quartieri e dei paesi, che, a loro avviso, sarebbe stata insignificante rispetto all’impe-

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rialismo e allo strapotere del capitalismo vorace. Chi avvertiva il terribile pericolo sociale rappresentato da cosche dalle origini e i connotati arcaici, ma capaci di costruire un formidabile sistema criminale adeguato a sfide economiche di grandi dimensioni, veniva guardato pateticamente come uno che non sapeva “leggere la fase” preoccupandosi di poco più che rubagalline, mentre erano sempre altri i problemi. Resistere sul territorio Spesso negli ambienti più rivoluzionari non si fa qualcosa - per esempio attrezzare una resistenza antimafiosa sul territorio - perché c’è sempre qualcosa di più importante da fare. Mutatis mutandis, oggi si rileva un’antimafia che ha necessità di piantare le proprie bandierine per legittimare i propri successi, senza leggere i dati oggettivi che, senza voler nulla togliere al valore innegabile delle azioni svolte, debbono essere sempre tenuti ben presenti. Questo perché i dati danno conto della realtà e qualche volta di un pericoloso adagiarsi sugli allori, anche da parte delle più meritevoli associazioni, fatto di deliri di onnipotenza ed esagerata emotività imposta in ogni situazione. Tali eccessi di emotività e medianicità inevitabilmente mostra, anche involontariamente, chi dovrebbe avere ben chiaro che, essendo la lotta alla mafia qualcosa di molto serio, ognuno dovrebbe stare nelle proprie competenze e capacità, fosse solo quelle di testimoni di un percorso di liberazione personale e collettivo.


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C'è sempre qualcosa di “ben più importante” da fare...

Senza questo rigore nell’impegno antimafioso possono nascere le “ubriacature” che, soprattutto in una città di forte tradizione mafiosa, procurano quel calo di tensione, spesso evocato senza adeguata convinzione e consequenzialità. Omicidi sottovalutati Così, per esempio, a Palermo si sono sottovalutati alcuni omicidi del 2011 di forte significato, oltre che simbolico, strategico. Quello del picciotto del tradizionale enclave mafioso di Borgo Vecchio, Davide Romano trovato nudo e legato dentro un portabagagli al confine tra i due importanti mandamenti di Porta Nuova e Pagliarelli. Successivamente, l’esecuzione plateale di Giuseppe Calascibetta, capo dell’altro importante mandamento di Santa Maria di Gesu, con l’accento sulla “e”, come pronunziano i vecchi palermitani. Più recentemente, il più classico dei rituali di omicidio di mafia riservato all’esponente della cosca di Brancaccio Francesco Nangano, assolto dopo una condanna all’ergastolo e, addirittura, risarcito lautamente dallo Stato per “ingiusta detenzione”. Quando le cose si muovono a suon di omicidi eclatanti in diversi quartieri, decisivi per il peso criminale del mandamento, significa che il territorio della quinta città d’Italia, capoluogo della Sicilia, è nella sostanza più che controllato dalle cosche, con buona pace degli analisti dell’era post-mafiosa. Ma nel caso in cui qualcuno avesse già mandato in soffitta lo schema di una mafia autonoma, ma in relazione funzionale

con una collusa e contigua borghesia mafiosa, basta scorrere la recente cronaca nera di Palermo. La DIA ha sequestrato quote e beni aziendali per oltre 30 milioni di Euro di società riconducibili a noti boss palermitani che qualcuno considerava ormai poco più che folkloristici, come Antonino Spadaro, Maurizio Gioè e Girolamo Buccafusca. In particolare, cosa facevano le società con sede a Palermo, riconducibili ai citati boss, come la New Port, la Portitalia, la Containers Palermo, la Csp servizi portuali e la cooperativa Cipg Tutrone? Semplicemente - e come da tradizione - controllavano capillarmente le attività dei porti di Palermo e Termini Imerese. Già dovrebbe indurre ad una seria riflessione autocritica dell’antimafia pensante, la notizia del controllo di Cosa nostra – quella già nota e non quella ancora da delineare - di due punti fondamentali dell’economia palermitana e siciliana. Il controllo capillare dei porti Poi, se si volesse fare qualche ragionamento più “sofisticato”, si potrebbe provare a immaginare, per esempio, cosa significa per l’intera economia meridionale il solo controllo accertato di due dei più importanti porti siciliani, in termini di sviluppo di relazioni politiche, affaristiche e mafiose. In questo senso, assume qualche significato il tormentato iter progettuale nel quale si sono arenati perfino comitati di affari del periodo delle amministrazioni comunali del decennio di Cammarata, riguardante la sistemazione dell’intera costa palermitana, compresa

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l’area portuale, da riqualificare sul piano turistico-ambientale, trasferendo il commerciale interamente a Termini Imerese. Chissà se qualcuno sarà ancora capace di sostenere che c’è ben altro di più importante in ballo mentre i boss del folklore dimostrano di avere le mani sui porti e continuano a decidere, perfino dal carcere, le condizioni alle quali si entra in due fondamentali punti di snodo dell’economia siciliana. Chissà se qualcuno si chiede cosa significa sul piano dell’agibilità criminale il controllo pressoché assoluto dei moli di Palermo e Termini Imerese, anche nella prospettiva dei grandi appalti attesi tra le banchine. Solo una punta d'iceberg Se poi pensiamo all’evidenza, ammessa anche dagli inquirenti più impegnati, di un’indagine che ha scoperto solo la punta di un iceberg degli snodi dei trasporti commerciali al Sud, possiamo farci un’idea su quanto è importante che tutti i soggetti dell’antimafia impegnata in tutti settori, compresi quelli dell’analisi e dell’informazione, alzino la guardia con fattivo realismo. Probabilmente è necessario distinguere tra l’attenzione ai cambiamenti ed eventuali, fuorvianti, voli pindarici, dato che gli eventi, come le ammazzatine per le strade e le tante evidenze di controllo mafioso del territorio, accadono anche quando a noi può sembrare non ci siano più le condizioni perché accadano. Se si potesse, sarebbe molto importante tenere, insieme alla mente vigile, anche gli occhi aperti e piedi a terra.


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La moneta elettronica

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (in tempo reale)

Pianeta

L'euro, il dollaro e il bitcoin E intanto la crisi avanza: Cipro, oramai si capisce, non è poi così lontana. “Torniamo alla lira!” urla qualcuno. “No, senza euro va tutto a fondo!”. Il dollaro dal canto suo, non sta troppo bene. Eppure, c'è una moneta che va crescendo. Ma nessuno ne parla...

Se questo bene fosse non più il "vecchio" oro o argento ma una merce moderna, la potenza di calcolo per esempio? Se una moneta del genere non nascesse per decisione di qualche multinazionale o governo, ma direttamente – come per Wikipedia e per Linux – dall'incontro di tante volontà e competenze, senza obiettivi diversi, nella rete? Un sistema economico in cui i soggetti principali non siano le grandi banche e i governi ma un gran numero di cittadini connessi in rete, liberamente. Utopia? Certo. Ma anche Linux, una volta, era un'utopia: oggi fa funzionare la maggior parte di internet. Libero, senza grandi poteri, open source e basato sul web: il mondo del futuro tutto sommato potrebbe anche essere così. Un sistema economico di rete

di Fabio Vita bitcoin-italia.blogspot.com

Sopravviverà l'euro fino al 2015? Probabilmente sì, anche se metà dei paesi che lo adottano non ne sono del tutto convinti. Sopravviverà il dollaro fino al 2015? Probabilmente sì, nonostante la catastrofe del debito pubblico e privato. Sopravviveranno le grandi banche fino al 2015? Sicuramente sì, visto che drenano soldi sia dall'area del dollaro che da quella dell'euro, e non si vedono controtendenze. E infine: sopravviveremo noi, semplici cittadini, in questo scontro titanico fra monete e banche? Cosa potremo comprare coi nostri (pochi) dollari o euro, nel 2015? C'è una via d'uscita? E se la moneta fosse indipendente dalle banche? Se fosse, o tornasse a essere, semplicemente una quantità di un qualche bene, riconosciuto dai cittadini?

Gavin Andresen spiegava, in un video di due anni fa il ruolo dei cypherpunks (termine ufficializzato dal libro omonimo di Julian Assange del 2012): attivisti che utilizzano le loro conoscenze crittografiche per contribuire a un cambiamento politico e sociale. Chi sono? Oltre allo stesso Assange di Wikileaks, John Gilmore de l’Electronic Frontier Foundation (Eff) e Bram Cohen creatore di Bittorrent e, sempre con maggiore evidenza, Satoshi Nakamoto (nome dietro il quale si cela un gruppo di crittografi di altissimo livello), creatore di Bitcoin. Poco più di tre anni fa, un utente del forum Bitcoin, che abitava in Florida, chiedeva dove compare una pizza pagandola in Bitcoin. Pagò per due pizze maxi il conto di quarantuno dollari: 10 mila Bitcoin. Il valore di quelle monete oggi supera il mezzo milione di dollari. Qualche giorno fa un canadese ha messo in vendita la propria casa in cambio di Bitcoin. Bitcoin diventa sempre più diffuso e accettato, quando non apertamente richiesto. I dipendenti di Archive.org hanno chiesto di essere pagati in Bitcoin. La principale

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piattaforma di blog Wordpress e il forum social network Reddit lo utilizzano con successo da mesi. Un Bitcoin oggi (marzo 2013) vale 77 dollari, (59 euro, 51 sterline). Più di un'oncia d'argento, più di un'azione Facebook. La capitalizzazione di mercato di Bitcoin, il valore cioè di tutti gli undici milioni di monete, pari a 800 milioni di dollari, supera il totale del valore della moneta circolante di diversi piccoli Stati. Quanto vale un Bitcoin? Una delle caratteristica di Bitcoin tra le meno comprese tra le persone che sono nuove a Bitcoin, e forse la più difficile da mettere in testa è che Bitcoin non ha un'organizzazione o un'autorità centrale. Persino il gruppo Occupy (Occupy Corporatism) si è imbattuto in questa difficoltà, dicendo cose del tipo: “Bitcoin ha ottenuto lo status di provider di servizi a pagamento (payment service provider)” e “Bitcoin ora ha un numero identificativo di banca internazionale (International Bank ID)". Anche se la comunità Bitcoin include organizzazioni che si chiamano “Bitcoin Foundation” e Bitcoin Central, nessuna di queste sono qualcosa di simile alle autorità centrali per Bitcoin, non avendo nessun potere nelle caratteristiche del suo funzionamento. Bitcoin Central è solo uno dei cambiavalute Bitcoin tra molti altri – e neanche il più grande. La fondazione Bitcoin è semplicemente un' organizzazione composta da membri altamente rispettati nella comunità Bitcoin e dagli sviluppatori di un particolarmente popolare software client Bitcoin. Chiunque può potenzialmente creare il proprio servizio cambiavalute e fondazione. Piuttosto che pensare a Bitcoin come prodotto rilasciato da una tradizionale multinazionale, è più appropriato pensarlo come una merce digitale che si autosostiene, simile all'oro. Ha una sana industria satellitare che fornisce prodotti e servizi basati su di esso, e ha il proprio


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“Una moneta alternativa e sicura che si va diffondendo sempre più” credito Mastercard compatibile anche con Bitcoin, che di lì a poco verrà utilizzato anche dalla più diffusa piattaforma di blog Wordpress, e Bitcoin viene definito “una delle più ingegnose monete virtuali”.

business e organizzazioni di difesa, ma non esiste una centrale Gold Corporation. I database che mostrano a che indirizzo Bitcoin corrisponde un certo saldo sono tutti salvati collettivamente nella rete usando un network peer-to-peer simile alle reti utilizzate da servizi di filesharing, come BitTorrent.

Poi l'accettazione della realtà

Il Bitcoin e la stampa italiana La stampa mainstream italiana (quotidiani e settimanali, anche economici) ha finora trattato Bitcoin in maniera superficiale e a volte apertamente disinformata. Su questo argomento finora fanno informazione –il che è solo apparentemente paradossale– i blog di utenti più o meno e specializzati, il forum BitcoinTalk, il Bitcoin Magazine o anche le poche righe in cui Jeff Garzik, sviluppatore Linux e Bitcoin, rispondendo sul portale Gawker chiarisce ciò che paginate d’inchiostro mal tradotto avevano reso confuso. Bitcoin è anonimo nel senso che non vengono chiesti dati d’identità, nome e cognome ma le transazioni, contrariamente alle banche con il loro segreto bancario, sono pubbliche e consultabili. Per essere più precisi, l’intero storico delle transazioni viene scaricato da ogni singolo utente Bitcoin prima di poter utilizzare il programma. Con mezzi sofisticati e competenze adeguate ogni buon hacker – compresi quelli dell'Fbi – può risalire a transazioni e utenti. Le contromisure possibili sono quelle comuni al tutto internet (non solo a Bitcoin), come la rete Tor. Prima stupore e grossolanità Si possono distinguere tre fasi nel rapporto Bitcoin-stampa italiana. Se la prima è basata su stupore e grossolanità (“Se Bin Laden avesse avuto a disposizione un computer in grado di creare Bitcoin, avrebbe potuto comprare qualunque arma”), la seconda riesce ad andare oltre.

I pericoli e i timori evocati nella prima fase sono affascinanti: banche che crollano, Osama Bin Laden, Cia, hacker, Wikileaks. Nella seconda fase la falsificazione assume connotati pratici ma tirati dentro a forza. La Stampa: “L'Internet segreto delle mafie dove si paga con soldi virtuali”. La Repubblica: “Sesso, droga e armi la faccia cattiva del web” “Sesso droga e armi”... Ma non è solo in Italia che Bitcoin viene osteggiato in maniera grossolana e a un certo punto – alla prima fluttuazione di valore verso il basso – dato per morto. La stampa italiana si è spesso accodata con traduzioni dei peggiori articoli. (Independent, Wired). In positivo è Forbes il più attento, con lo specialista di monete elettroniche Jon Matonis; e anche l’Economist o il Guardian (questo con tanto di guide pratiche all’uso) hanno fatto informazione accurata. Il passaggio dalla seconda alla terza fase, nell'approccio della stampa italiana su Bitcoin, è tra ottobre e dicembre 2012. L’articolo de Il sole 24 ore “Baratto2.0 alternativa anti-crisi” appartiene ancora alla seconda fase, ma è arrivata una carta di

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La terza fase psicologica è l’accettazione degli eventi. Un nuovo articolo de Il sole 24 ore del dicembre scorso, “Il Bitcoin ha aperto il conto” fa finalmente autocritica: “Le implicazioni stanno affascinando gli economisti: c'è chi critica e chi invece magnifica le sorti progressive di questa moneta differente dalle altre, che finora solo pochi la prendevano sul serio, nonostante alcune aziende avessero deciso di offrire servizi di cambio con dollari ed euro (oggi attorno ai 13,6 dollari e 10,4 euro). «Eppure – dice l'economista della Bocconi Carlo Alberto Carnevale Maffé – è evidente che il monopolio della moneta per diritto sovrano come lo conosciamo dagli ultimi secoli è messo in discussione e che i mezzi di scambio informativo a disposizione delle persone sono sufficienti a chiudere le transazioni anche in presenza di scarsa liquidità. Questa è una progressiva crepa nel grande muro della moneta così come la conosciamo»”. È con l’articolo di Carola Frediani per l’Espresso, “Addio Euro pago in Bitcoin”, che riusciamo a leggere un buon pezzo divulgativo; viene anche contattato il moderatore della sezione italiana del forum semiufficiale BitcoinTalk, HostFat. Fabio Vita Senza banche Bitcoin, la moneta di Internet


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Scienze

Il bosone di Higgs e variazioni sulla teoria della massa Il concetto di massa, vecchio di duemila anni, da Newton a Einstein è sempre stato centrale nella nostra visione del mondo fisico. Adesso... di Diego Gutkowski

Fino al 5 marzo contavo di proseguire nel numero de I Siciliani Giovani che era in lavorazione il discorso sulle ricerche sui neutrini, iniziato nel numero 7 (luglio – agosto 2012) e continuato nel numero 10 (novembre dicembre 2012), ma un fatto di attualità mi ha indotto a cambiare il mio programma. Il 6 marzo scorso un comunicato dell’ANSA (cerca su Google “Il bosone di Higgs è quello previsto dalla teoria”) annunziava che al CERN era stato dichiarato ufficialmente che la particella rivelata nel luglio 2012, che appariva per diversi aspetti simile al bosone di Higgs, era proprio il (o forse un) bosone di Higgs. A partire da quel giorno diversi quotidiani riportavano questa notizia, alla quale tuttavia non mi pare che in Italia sia stato dato il rilievo che meritava, forse perché offuscata dalle vicende del conclave e da quelle economiche, politiche e giudiziarie che riguardavano l’Italia.

Parecchi fisici attendevano con trepidazione la rivelazione del bosone di Higgs, perché questa particella, ipotizzata nel 1964 da Peter Higgs (nato nel 1929) è un importante “ingrediente” di un modello molto usato nella fisica delle particelle elementari, il modello standard. Inoltre il bosone di Higgs avrebbe un ruolo molto importante per ragioni di cui in parte è scritto in seguito. Il modello standard La rivelazione di una particella avente tutte le caratteristiche che il modello standard prevede per il bosone di Higgs rende questo modello un candidato sempre più plausibile per la descrizione di gran parte della fisica delle particelle. Ovviamente il risultato del CERN non è una conferma del modello standard, infatti non si può escludere che in futuro si possano osservare fenomeni incompatibili con questo modello, né che si possano formulare altre teorie che rendano conto dei fatti sino ad oggi osservati; ma ciò è ovvio, perché tutte le teorie scientifiche non sono una descrizione della realtà, ma solo di un insieme di fatti conosciuti. Già prima dell’annuncio dato al CERN il 6 marzo il modello standard dava con buona approssimazione i valori misurati di diverse osservabili fisiche relativi a numerose particelle sia, per quanto oggi se ne sa, elementari, che composte. Per i concetti di particella elementare e particella composta rimando alla introduzione alla voce “Particelle elementari” scritta da Nicola Cabibbo (19352010) per la Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, reperibile anche sul web. Il modello standard comprende in un unico schema due teorie ciascuna delle quali si riferisce ad una famiglia di particelle e, con l’eccezione della gravità, ne descrive tutte le interazioni. Queste due teorie sono quella elettrodebole, che riguarda sia l’interazione elettro-

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magnetica che l’interazione debole, e la cromodina- mica quantistica che riguarda le interazioni forti. Oggi si ritiene che tutte le interazioni tra gli oggetti dell’universo fisico siano una conseguenza delle interazioni elettromagnetica, debole, forte e gravitazionale dette perciò interazioni fondamentali. Invero questo è più un atto di fede, largamente condiviso tra gli addetti ai lavori, che un risultato scientifico. Per le ragioni della unificazione dell’interazione elettromagnetica con l’interazione debole in un’unica interazione detta “elettrodebole” si può vedere su Wikipedia la voce “Interazione elettrodebole”. Le particelle subatomiche Le particelle subatomiche osservate si possono classificare secondo diversi criteri. Secondo uno di questi criteri le particelle subatomiche possono essere: a) leptoni , soggetti solo all’interazione elettrodebole, b) adroni, soggetti sia all’interazione forte che a quella elettrodebole, c) certi bosoni (fotone e gluoni) che mediano le interazioni fondamentali . Alla famiglia degli adroni appartengono i barioni e i mesoni. I barioni sono composti da tre quark , i mesoni da un quark e da un anti-quark. Quark, antiquark, leptoni, fotone e gluoni sono considerate particelle elementari. La prima particella subatomica che fu osservata da un essere umano fu l’elettrone, scoperto da Joseph John Thomson (1856-1940) nel 1897. Nel 1905 Albert Einstein (1879-1955) suppose che luce fosse emessa e assorbita per fotoni e sviluppando questa ipotesi, facendo anche uso di risultati ottenuti in precedenza da Max Planck (1858-1947), riuscì a spiegare diversi fenomeni che erano stati osservati.


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“Quantitas materiae est mensura ejusdem orta ex illius Densitate & Magnitudine conjunctim” Nel 1922 Arthur Compton (1892-1962) studiando la diffusione di un fascio collimato di raggi X da un bersaglio di grafite riuscì a interpretare i risultati osservati come un urto tra fotoni del fascio e elettroni del bersaglio. Nella trattazione di Compton elettroni e fotoni si comportavano come particelle. Quando ero studente all’università (a partire dall’anno accademico 1954-55), le particelle subatomiche di cui mi avevano parlato erano il fotone, l’elettrone e la sua antiparticella (leptoni), il protone e il neutrone (barioni) e venivano dati solo pochi cenni sul neutrino (leptone). Più di duecento altre particelle subatomiche di cui credo oggi si parli agli studenti di Fisica non erano allora note. Ma il rilievo che merita la scoperta del bosone di Higgs è maggiore di quello che merita la scoperta di una qualsiasi delle altre particelle rivelate in tempi recenti, per diverse ragioni, tra cui quella che il bosone di Higgs attribuisce una massa a tutte le particelle che ne sono dotate. La definizione di Newton Il concetto di massa è stato formulato e usato almeno da duemila anni (si veda di Max Jammer (1915-2010) Storia del Concetto di Massa nella Fisica Classica e Moderna, Feltrinelli 1980 ), ma qui, per seguire l’evoluzione di questo concetto, parto da tempi molto più vicini a noi. Isaac Newton (1642-1727) nella sua famosa opera “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” scrisse: Definitiones - Def. I. Quantitas Materiæ est mensura ejusdem orta ex illius Densitate & Magnitudine conjunctim. Aer, densitate duplicata, in spatio etiam duplicato, fit quadruplus; in triplicato sextuplus. Idem intellige de Nive et Pulveribus per compressionem vel liquefactionem condensatis. Et par est ratio corporum omnium, quæ per causas quascunque diversimode condensantur. Medii interea, si quod fuerit, interstitia partium libere

pervadentis, hic nullam rationem habeo. Hanc autem Quantitatem sub nomine Corporis vel Massæ in sequentibus passim intelligo. Innotescit ea per corporis cujusque Pondus. Nam Ponderi proportionalem reperi per experimenta Pendulorum accuratissime instituta, uti posthac docebitur. [da books.google.com/books/…/Philosophiae _Naturalis_Principia_...; ivi l’opera è preceduta da tre prefazioni di Newton, l’ultima delle quali reca la data 1726; in altre edizioni si trovano versioni un po’ diverse. Numerose ed estese note di Newton, che non riporto, chiariscono diversi punti del brano]

Traduco il brano in Italiano nel modo seguente: DEFINIZIONI - Def.I La quantità di materia è la misura della stessa che sorge dalla sua densità e dalla sua mole congiuntamente. L’aria, raddoppiata la densità, in uno spazio anch’esso raddoppiato, diventa quattro volte tanto; in uno spazio triplicato sei volte tanto. La stessa cosa intendi riguardo alla neve e alle polveri condensate mediante liquefazione o compressione. E identica è la proporzione di tutti i corpi che per qualunque causa vengono condensati in modo diverso. Frattanto io non mi occupo qui del mezzo, se pur ci sia stato, che pervade liberamente gli interstizi tra le parti dei corpi. Indico d’ora in poi questa quantità col nome di massa o corpo. Essa diviene nota mediante il peso di ciascun corpo. Infatti la trovai proporzionale al peso per mezzo di esperimenti sui pendoli compiuti con molta accuratezza, come sarà insegnato più avanti. L'osservazione di Quigg Chris Quigg (nato nel 1944) nel suo articolo Spontaneous Symmetry Breaking as a Basis of Particle Mass, arXiv.org/abs/0704.2232v2 rileva che la nozione di massa come attributo intrinseco della materia, compendiato da F = m a e la legge della gravitazione universale, sono il fondamento della fisica classica.

I Sicilianigiovani – pag. 75

La massa, per Newton, è allo stesso tempo una misura dell’inerzia e la sorgente dell’attrazione gravitazionale. Ne segue immediatamente che la massa è conservata: la massa di un oggetto è la somma delle masse delle sue parti, in accordo con l’esperienza di ogni giorno. Questa proprietà è anche affermata esplicitamente da Newton in una delle note al brano che ho riportato prima, con le parole: Materiae quantitas est aggregatum seu summa omnium materiae particularum quibus compositus est corpus. L'idea di Abraham e Lorentz L’estensione della legge di conservazione della massa alle reazioni chimiche, fatta da Michail Vasil'evič Lomonosov (1711-1765) e da Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794), diede impulso attraverso il lavoro di John Dalton (17661844) e di altri, allo sviluppo della chimica come scienza quantitativa; ma, nella visione classica, la massa non sorge, semplicemente è. La massa così intesa fu considerata parte essenziale della natura delle cose per più di due secoli finché Max Abraham (1875-1922) nel 1903 (Prinzipien der Dynamik des Elektrons , Annalen der Physik 10, 105-179) e Hendrik Antoon Lorentz (1853-1928) nel 1904 (Electromagnetic phenomena in a system moving with any velocity smaller than that of light, Proceedings of the Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences, si può trovare anche nelle pagine web all’indirizzo en.wikisource.org/wiki/Electromagnetic_p henomena) pensarono di interpretare la massa dell’elettrone come auto-energia elettromagnetica. Il concetto di massa si aprì a nuove prospettive con una pubblicazione di Einstein ( Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt abhängig?, Annalen der Physik, 18, 639, 1905). Questo titolo, tradotto in Italiano, è la domanda: “E‘ l‘inerzia di un corpo dipendente dal suo contenuto di energia?“


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“La massa di un corpo è la misura del suo contenuto in energia”

La risposta data da Einstein si può compendiare nell’eguaglianza e = mc2 Nella precedente eguaglianza e rappresenta l’energia totale di un corpo, m la massa del del corpo e c la velocità della luce nel vuoto. L’eguaglianza, secondo la teoria di Einstein, vale per un qualsiasi sistema materiale. E‘ importante osservare che se è vera la teoria di Einstein, allora la massa non è una grandezza additiva, cioè in generale non è vero quel che ritenevano precedenti illustri studiosi quali Newton, Lomonosov, Lavoisier, Dalton e altri quando affermavano esplicitamente o assumevano implicitamente che la massa di un oggetto è la somma delle masse delle sue parti. Nella maggior parte dei fenomeni studiati in chimica l’additività della massa, pur non valendo esattamente, è soddisfatta con buona approssimazione e in molte condizioni sperimentali non si è in grado di misurare la differenza tra la massa di un sistema e la somma delle masse delle sue parti, ma per altri tipi di fenomeni le cose non vanno affatto così. L'addittività della massa Se vale l’eguaglianza (1), allora la massa di un corpo è una misura del suo contenuto di energia, se l’energia cambia di L la massa cambia nello stesso senso di L/. Questo permette di usare per la massa l’unità eV/che in fisica delle particelle risulta più comoda dell’unità Kg del Sistema Internazionale. Esaminiamo la violazione dell’additività della massa che ne consegue in alcuni casi. L’energia di legame dell’elettrone 1 s dell’atomo di idrogeno è di 13,6 eV, che è appena 1,45 × moltiplicato per l’energia dell’atomo di idrogeno ricavata dalla sua massa e dall’eguaglianza (1). Per una particella α, stato legato di un sistema formato da due protoni e due neutroni, il rapporto tra (la differenza tra la somma delle masse dei due protoni e due neutroni che costituiscono la particella) e la massa

della particella stessa, è di ¾ %. Le cose vanno in modo completamente diverso per un nucleone. Secondo la cromodinamica quantistica il contributo principale alla massa di un nucleone non è la somma delle masse dei quark che lo costituiscono ma l’energia necessaria a confinare i quark in un volume molto piccolo. Le masse e dei quark up e down sono solo pochi MeV/ ciascuna, contro i circa 939 Mev/ della massa di un nucleone, ottenuti facendo la media tra la massa del protone e quella del neutrone. Adroni come il protone e il neutrone rappresentano quindi una materia di tipo completamente diverso da quello della materia “ordinaria“. La teoria di Higgs Secondo la teoria sviluppata da Higgs per le interazioni elettrodeboli, e successivamente estesa alle interazioni forti, il campo del bosone di Higgs conferisce una massa alle particelle che ne sono dotate tramite una rottura spontanea di simmetria. Dò alcuni esempi di rottura spontanea di simmetria in situazioni che non riguardano le interazioni fondamentali. Il primo esempio riguarda il protagonista di un paradosso: l’asino di Buridano. Il paradosso è attribuito al logico Buridano (?1295-1361). Un asino è posto nel punto medio di un segmento. Ciascun estremo del segmento tocca un mucchio di fieno e i due mucchi di fieno toccati dagli estremi del segmento appaiono uguali tra loro. Il paradosso sta nel fatto che l’asino muore di fame, perché non ci sono ragioni sufficienti perché vada verso un mucchio di fieno piuttosto che verso l’altro. Ma può darsi che l’asino, in barba a tutti i Buridani di questo mondo, si diriga verso uno dei due mucchi, scelto non sappiamo come. Se l’asino si comporta in questo secondo modo, che mi pare più saggio, allora c’è stata rottura spontanea di simmetria.

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Secondo esempio: se un palloncino sferico che contiene un gas a pressione molto elevata scoppia, allora c’è stata rottura spontanea di simmetria, non essendoci ragioni sufficienti perché la lacerazione si produca in una parte, piuttosto che in un’altra. Un oggetto presenta una simmetria se c’è un insieme G di trasformazioni dell‘oggetto che ne lascia invariato qualche aspetto. Per esempio un triangolo equilatero presenta una simmetria perché se lo ruotiamo di un angolo n × 120° attorno alla retta perpendicolare al piano che contiene il triangolo e passante per il baricentro del triangolo, prendendo n = 0, 1, -1, 2, -2, …, allora il triangolo ruotato per chi lo guarda e non vede i nomi dei vertici presenta lo stesso aspetto che aveva prima della rotazione. Abbiamo fatto la convenzione che per n > 0 la rotazione appare all’osservatore in verso orario e per n < 0 in verso antiorario. Un insieme G come quello menzionato nel precedente capoverso si chiama gruppo. I gruppi sono stati molto studiati: se ne parla in centinaia di libri e in migliaia di articoli. La teoria dei gruppi Per l’applicazione della teoria dei gruppi alla fisica subnucleare si può consultare di Floarea Stancu Group Theory in Subnuclear Physics, Oxford University Press, ISBN 978-0-19-851742-9, disponibile anche sul web nei Google books. Per vedere in che cosa consiste il meccanismo di rottura spontanea di simmetria di Higgs e come esso dà origine alla massa, oltre all’articolo prima citato di Chris Quigg, si può consultare il libro di Silvio Bergia (nato nel 1935) Relatività e fisica delle particelle elementari, Carocci Editore, ISBN 978-88-430-4770-3. Sono comunque reperibili molte altre fonti.


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Sabato 6 aprile 2013

Associazione GAPA - Giovani Assolutamente Per Agire

… a Rivarolo (TO) Liceo “Aldo Moro” ASSEMBLEA D’ISTITUTO

“Mafia e informazione oggi. Al Nord e al Sud” ore 8,10-11,10/ Aula Magna (biblioteca del Liceo) RELATORI: Giovanni Caruso, ex fotoreporter, ha collaborato prima al "Giornale del Sud", e poi a "I Siciliani", dove ha lavorato con il giornalista e scrittore Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia nel 1984. Fondatore e animatore dell’Associazione “GAPA” che opera nel quartiere ad alta densità mafiosa di S. Cristoforo a Catania. Coordinatore de “I Siciliani Giovani” (www.isiciliani.it , dir.resp. Riccardo Orioles). Piercarlo Gattolin, corrispondente del settimanale Il Risveglio, porterà nei contenuti dell’Assemblea uno sguardo più specifico sul contesto del canavese, con particolare attenzione al fenomeno della ‘ndrangheta. I TEMI CHE VERRANNO AFFRONTATI: 1 Le caratteristiche del fenomeno della mafia e della ‘ndrangheta al Nord e al Sud con particolare riferimento al contesto siciliano (Catania) e piemontese (Torino e canavese). 2 Cosa possiamo fare noi Prospettive di azione e cambiamento: cosa può fare ciascuno di noi e cosa possiamo fare insieme. P. Gattolin parlerà della “zona grigia”: la mafia non si combatte (solo) con le manette ma con le scelte che ciascuno può fare o non fare nella sua vita personale e professionale. Verrà chiesto ai ragazzi partecipanti all’assemblea di scrivere su un bigliettino ciò che pensano di fare dopo il liceo; sarà stilata, in tempo reale, una statistica dei profili che emergono (tot infermieri, tot avvocati, tot artigiani ecc...). I relatori potranno riferirsi a questi profili per indicarli come potenziali attori antimafia (indicando anche sulla base della loro esperienza quali di queste professioni siano più a rischio di infiltrazione mafiosa...). G. Caruso parlerà dell’esperienza del GAPA nel quartiere S. Cristoforo, quale esempio concreto di “antimafia sociale” e di impegno nei quartieri e con i più giovani. E' un modello di possibilità di AGIRE e di agire INSIEME... contro impotenza e individualismo. 3 Il ruolo dell’informazione e del giornalismo In questa parte sarà rimarcata l’importanza dell’informazione e del giornalismo nonché il ruolo dei giornalisti nel creare una cultura di verità e giustizia. Il riferimento per noi è la concezione di giornalismo espressa da Giuseppe Fava: ● “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente all'erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. (Giornale deL Sud, “Lo spirito di un giornale”, 11 ottobre 1981) Alcune delle domande che gli studenti sottoporranno ai relatori:: ● Qual è l’ambiente in cui si è trovato a lavorare? ● Ha mai avuto paura? ● E’ mai stato contattato da “qualcuno” contrario al suo operato? ● Ha fatto il possibile perché a vincere fosse la verità? ● Si è mai trovato a compiere qualcosa di “illegale” in nome della verità? ● E’ soddisfatto del suo lavoro? Ha qualche rimpianto? ● Qual è il valore della verità? Le si può dare un prezzo? ● Le è servito quanto le hanno insegnato a scuola? ● Come si attingono le informazioni? ● C’è differenza fra il giornalismo dei suoi tempi e d’oggi? ● I giovani hanno un futuro? Anche in Italia? Al termine dell’assemblea verrà lanciato ● il progetto di un laboratorio di giornalismo da attivare e costruire insieme ai ragazzi.

…a Favria (TO) Incontro aperto con GIOVANNI CARUSO

“Mafia, Informazione e cittadinanza attiva“ Centro Polivalente, via Barberis,10 - ore 20,45 Dopo aver ospitato nel luglio 2012 lo spettacolo teatrale "Io + te = Amore" Favria accoglie nuovamente l’esperienza di “antimafia sociale” del GAPA, associazione che opera nel quartiere ad alta densità mafiosa di S. Cristoforo a Catania, attraverso un lavoro diretto con i minori (doposcuola, animazione, campi estivi) ed un’attività politica per la rivendicazione dei tanti diritti negati a causa dell’infiltrazione mafiosa nel territorio e nelle istituzioni. Fra i temi affrontati anche la nuova avventura della rivista I Siciliani Giovani.

I Sicilianigiovani – pag. 77


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Memoria

Peppino e il movimento del '77 L'anno in cui esplose l'Italia. Fra ribellioni e integrazione di Salvo Vitale

Il movimento del ’77 rappresenta l’ultima onda, quasi il riflusso del ’68. Alcune idee legate alla lotta contro il sistema, al bisogno di sentirsene fuori, al combatterlo con le manifestazioni di piazza, l’organizzazione militante del dissenso, i tentativi non sempre riusciti di uscire dalla camicia di forza della politicizzazione per cercare un rapporto, una sponda con il mondo studentesco, visto che quello operaio diventava sempre più lontano, cominciarono a sciogliersi definitivamente,a fare i conti con se stessi, coi propri

fallimenti, con l’impossibilità d' infrangere il muro della borghesia dominante, le regole millenarie di articolazione del potere, i parametri delle culture ufficiali, dell’intoccabilità del privilegio, della persistenza atavica di bisogni spirituali, sessuali, affettivi, materiali, dove diventava preminente la ricerca della propria identità sommersa dalle sedimentazioni di messaggi familiari, scolastici, sociali. Gran parte dei “settantasettini” rientrarono nel proprio guscio, (il personale) altri, molto pochi, tra cui il gruppo di Peppino, continuarono la militanza politica iniziata nove anni prima, altri ancora, pochissimi, scelsero di liberare il loro disagio attraverso la lotta armata. I sintomi di questa “crisi di certezze”, legati a una revisione politica di alcuni temi del movimento del ’77, furono al centro del travaglio interiore attraversato in quei mesi da Peppino e ne trovano la migliore espressione in una sua lettera, poi utilizzata dai carabinieri come prova per avallare la tesi del suicidio. La critica era rivolta a tutto un modo di concepire la politica solo come politica della propria persona, e quindi come privilegiamento e centralità della soddisfazione dei propri bisogni isolati dal contesto del rapporto sociale e della lotta di classe.

I Sicilianigiovani – pag. 78

Isole di malcontento Se tutto questo aveva originariamente comportato la demolizione di alcune forme culturali tipiche dell’autoritarismo borghese, per altro aspetto ne segnava un modo di recupero, proprio per la disintegrazione delle coscienze e il disimpegno della militanza, insiti nel rifiuto della struttura organizzata. Si può dire che si riaffacciavano dalla finestra gli aspetti di quella cultura mafiosa gettati via dalla porta, ma quasi connaturati a un certo modo di essere, più orientato verso l’indifferenza qualunquistica che verso la lotta, più verso la scelta di solitudine, legata all’antica sensazione che niente sarebbe cambiato, che verso la strada di un rapporto d’intervento che trae forza dalla socializzazione. Ognuno era un’isola di malcontento e non riusciva a trovare il modo di comunicare con gente nuova e cercare di rompere il cerchio. Senza dubbio si pagava, ed anche dopo si è pagato, la scelta di essere andati troppo avanti, di avere eretto il rifiuto a sistema di esigenza, la volontà di ritagliare il proprio pezzo di vita senza interferenze e senza voler cadere nella “palude” dell’integrazione e del compromesso con il sistema.


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L’eterogeneità del gruppo, edili, femministe, diplomati, ragazzi, laureati, studenti, lavoratori giornalieri, quasi tutti disoccupati, trovava un punto d’identificazione solo in questa sensazione di “diversità”, in rapporto ad un esterno sordo, che si rifiutava di ascoltare e che chiedeva sottomissione per offrirti un lavoro e la garanzia di sopravvivenza: conseguente quindi, in molti casi, lo scollamento e il ripiegamento nel microcosmo di se stessi. Nelle tematiche del movimento del ’77 Peppino si era subito buttato con l’entusiasmo che lo rigenerava nel momento in cui scopriva strade nuove e nuove esperienze di lotta contro il sistema: «riprendiamoci la vita», cioè ristabilire un rapporto diretto con la propria soggettività, era qualcosa di cui avvertiva urgentemente il bisogno. La sbronza del “personale” era tuttavia troppo fuori dai suoi schemi di militante e di soggetto politico con una solida preparazione marxista: presto ne aveva intravisto i limiti, con l’intuizione politica che lo contraddistingueva, e ne aveva drammaticamente vissuto le conseguenze, constatando lo sfascio generale del “movimento”. *** La mattina del 9 maggio carabinieri e agenti della Digos fecero irruzione nella casa della zia di Peppino, presso la stazione Cinisi-Terrasini, dove solitamente Peppino dimorava e pernottava. Portarono via sacchi di materiale, libri, appunti e altra roba. Di tutto questo non venne redatto, per quel che ne sappiamo, un dettagliato verbale né fu possibile prenderne visione, tanta era in quel mattino la confusione e il senso di smarrimento. Tra le cose sequestrate venne trovata la famosa “lettera” che sarebbe il presunto testamento, con il quale Peppino dichiarava di volere abbandonare «la politica e la vita». Chi dirigeva le indagini credette di toccare il cielo con un dito e si buttò su quella lettera, che avrebbe dovuto essere l’elemento probante del suicidio. *** Cercando accuratamente tra le poche cose scritte rimaste e sfuggite al sequestro, sono state trovate le note autobiografiche e una seconda copia autografa della lettera. Trascriviamo i due testi, ricopiando, del primo, quello che riporta il “Giornale di Sicilia”, cui il documento è stato fornito da coloro, inquirenti o magistrati, che ne erano venuti in possesso dopo la perquisizione.

La lettera

Lo sfascio del “movimento” di giro”

«Oggi ho provato un senso profondo di schifo alle 18,30 circa. Sono nove mesi, quanti ne servono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità di “abbandonare” la politica e la vita. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, alla vigilia delle prime manifestazioni studentesche cittadine». Nelle sue righe poi Impastato esprime il desiderio di ritornare a vivere e a sorridere come nel 1968 e fino a tutto il 1976. «Le persone peggiori – continua – che ho conosciuto sono proprio i “personalisti” e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi, visto che non creano un cazzo): a loro preferisco criminali incalliti, ladri, prostitute, stupratori, assassini e la “canaglia” in genere. Ho buttato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restano in corpo di riprendere quota: non ci sono riuscito, anche se confortato dall’affetto e dalla fiducia di compagni, “alcuni” compagni, vecchi e nuovi. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo politico e come rivoluzionario (la frase è sottolineata). Non voglio funerali di alcun genere, dal punto di morte all’obitorio (la sola seconda parte della frase è sottolineata). Gradirei tanto di essere cremato e che le mie ceneri venissero gettate in una pubblica latrina della città, dove piscia più gente. Addio. Giuseppe».

I Sicilianigiovani – pag. 79

La seconda lettera

Ed ecco il testo della seconda lettera: «Sono nove mesi ormai, quanti ne occorrono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità di “abbandonare” la politica. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, vigilia della prima manifestazione studentesca cittadina. Ricordo molto bene che trascrissi, quel giorno, su una parete del circolo una strofa tratta da una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagne e compagni, di operai e studenti e di “tante facce sorridenti”. Volevo esprimere, con quel gesto, il desiderio di tornare a sorridere e a vivere intensamente come mi succedeva nel ’68 e fino a tutto il ’76. Ma si trattava soltanto di una pietosa aspirazione e ne avevo piena coscienza. Due mesi e mezzo di menate sul “personale” e di allucinanti enunciazioni sul “riprendiamoci la vita” mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli “spazi di morte”, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede, pregiudicando irrimediabilmente ogni mia possibilità di recupero. La gente peggiore l’ho conosciuta proprio tra i “personalisti” (cultori del personale) e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi): un concentrato di individualismo da porcile e di “raffinata” ipocrisia filistea: a loro preferisco criminali incalliti, ladri stupratori, assassini e la “canaglia” in genere. Debbo purtroppo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato dalla fiducia e dall’affetto di alcuni compagni (vecchi e nuovi): non ce l’ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sinceramente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno, di starmene un po’ solo, riposarmi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è ormai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario».


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I mesi del dolore Del resto, se è detto: «Ho cominciato il 13 febbraio», e se sono accorsi «nove mesi ormai, quanti ne servono per una normale gestazione», la data della lettera è localizzabile nella prima quindicina del novembre ’77. E dal novembre del ’77 al maggio ’78 intercorrono sette mesi. Oltre l'angoscia Nel secondo testo è detto: «Medito sull’opportunità di abbandonare la politica»; si noti, «la politica», non «la vita»; manca inoltre l’ultima parte relativa ai funerali e alle «ceneri». Inoltre la grafia della prima lettera è affrettata e nervosa, in confronto a quella della seconda, che è in caratteri quasi in stampatello e presenta pochissime cancellature: il che dimostra che i due testi sono stati scritti in una breve scadenza di tempo, ma che il secondo rappresenta un momento di superamento del precedente stato di angoscia e di correzione e revisione di alcune frasi del primo. La volontà di morte, dalla quale ognuno di noi è passato prima o poi, in qualche giorno della sua vita, è superata, e il senso di sfiducia nei riguardi dell’attività politica, che peraltro, nei residui sette mesi non si è concretizzato, è derivato dalla diversa proiezione dell’ombra del Rostagno macondiano, rispetto al militante di Lotta Continua, che tanto aveva colpito Peppino. La militanza attiva

Per chi vi presta un po’ d’attenzione, i due testi presentano sostanziali differenze: il primo è stato scritto in un momento emozionale difficile e di sfiducia: simili momenti di crisi depressiva erano tipiche del carattere di Peppino, che poi riusciva a venirne fuori, maggiormente ricaricato, nell’impegno e nella lotta politica, come era successo nelle ultime settimane, allorché la campagna elettorale lo aveva visto impegnatissimo, al punto da ricorrere alle fleboclisi, per risolvere certi fastidi epatici, e da rifiutare assolutamente di bere alcun tipo di alcolici. Da escludere quindi totalmente che, nei giorni precedenti alla sua morte Peppino fosse abbattuto e depresso.

I Sicilianigiovani – pag. 80

Certamente l’originaria esperienza nei gruppi marxisti-leninisti aveva lasciato forti radici nella formazione di Peppino, il quale riusciva a concepire l’impegno politico essenzialmente come militanza attiva e, per contro, non riscontrava tale modo di azione in nessuno dei nuovi compagni, da quando il “gruppo storico” si era disperso, soprattutto per motivi di lavoro. La nuova ideologia dei “bisogni”, connessa all’esigenza di non perdere il valore dello stimolo alla “creatività”, avevano creato una serie di problemi e contraddizioni, la cui soluzione, del resto, si presenta ancora problematica per molti compagni della sinistra rivoluzionaria. Salvo Vitale, “Peppino Impastato, una vita contro la mafia”, Rubbettino 2002


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In rete, e per le strade Diffondilo anche nella tua cittĂ !

Il foglio dei Sicilianigiovani I Sicilianigiovani – pag. 81


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Donne

Le mimose di Bucarest Anna è la mamma di Rares, un bambino “troppo piccolo” per la sua età... di Miriana Squillaci www.associazionegapa.org Questa è la storia di uno degli eroi di cui vi ho raccontato: non conosco il suo nome, la sua età, e la descrizione fisica non è importante. L’ho conosciuta, per caso, durante una delle mie sessioni di animazione clinica nel reparto di ortopedia dell’ospedale Marie Curie di Bucarest, e non ho mai dimenticato il suo sorriso, la sua curiosità, l’energia che ci ha regalato. Lei è la mamma di Rares, un bambino di 9 anni “troppo piccolo” per la sua età ma con una fantasia e un entusiasmo molto più grande del suo corpo, e forse anche del nostro. Parlando con le altre donne Non capita spesso di poter interagire con le madri dei bambini, un po’ per le barriere linguistiche, un po’ perché dopo aver passato così tanto tempo in ospedale, totalmente assorte nella cura dei propri figli (di solito i bambini con cui facciamo animazione hanno un lungo periodo di ospedalizzazione), alcune di loro approfittano delle nostre attività con i bambini per fare una piccola pausa e parlare con le altre donne. Ma questa volta è stato diverso.

I Sicilianigiovani – pag. 82


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“Una dei milioni di donne che ogni giorno donano un pezzetto di se stesse”

Fra un wow e un mama mea Anna (la chiameremo così) è stata con noi durante tutta la sessione, continuamente richiamata all’attenzione da Rares, ansioso di mostrale il pupazzetto di carta, gli origami, la corona e lo scettro magico che abbiamo costruito insieme. Tra un attività e l’altra, tra un wow e un mama mea, nonostante il nostro rumeno un po’ stentato e molto divertente Anna ci ha fatto molte domande su di noi, sul nostro lavoro, sui nostri paesi (insieme a me c’era un’altra volontaria dall’Estonia), con un volto che trasudava curiosità ed interesse, riuscendo con lo stesso interesse e pazienza a raccontarci un po’ della sua storia. Rares, già affetto da una forma di rachitismo, ha dovuto combattere con

un’epatite che lo ha costretto ad un trapianto di fegato; trapianto possibile grazie alla forza di questa grande donna che, mostrandoci la sua ferita, ci ha spiegato di avergliene donato un pezzo. Avrebbero preferito fare questa operazione in Spagna ma il viaggio, così come l’assistenza medica, sarebbe stato troppo costoso, così l’unica soluzione è stata sperare in una buona riuscita dell’operazione in Romania. Adesso si trovano nella loro piccola e buia stanza d’ospedale, senza bisogno di accendere nessuna luce perché bastava la loro speranza, il loro coraggio, la loro energia, ad illuminarla. Una luce che ci ha travolte ed ha iniziato a far nascere in me la volontà di osservare e valorizzare di più di questi piccoli grandi eroi che ogni giorno migliorano le nostre vite con piccoli gesti e grandi doni.

I Sicilianigiovani – pag. 83

La bellezza di essere donne Anna è solo una delle milioni di donne che oggi giorno donano un pezzetto di se stesse. Ho conosciuto madri forti come rocce capaci di trasformarsi in speranza; incontrato insegnanti pronte a regalare le loro energie per educare e formare, non soltanto istruire; ho visto direttrici di musei quasi piangere di fronte all’abbandono e alla distruzione dell’arte e della cultura... E poi ho pensato a voi cari amici che state leggendo, ed ho sentito il desiderio di condividere la necessità di far conoscere e apprezzare queste storie, questi eroi, questa semplicità perché attraverso queste possiate riconoscere l’importanza e la bellezza di essere donne.


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Integrazioni/ Bologna

Lavora e diventerai come noi (forse) Abdou è un meridionale come tanti altri. Con una laurea in tasca... di Attilio Occhipinti www.generazionezero.org Siamo in primavera. Qui a Torino il sole inizia a fare il simpatico, dopo essersi nascosto tra le nuvole per tutto l’inverno, dispettoso nei confronti di chi l'ha chiamato invano. Si sente proprio nell’aria che il tempo è cambiato, lo si può leggere sui volti delle persone che passeggiano in centro; molti di loro, con gioia, hanno riposto la sciarpa e i guanti dentro l’armadio. Camminare per le strade di Torino è molto piacevole perché è tutta pianeggiante, la fatica si sente poco. Tantissime persone, studenti e lavoratori, vanno in bici. Scorrazzano pedalando veloci sui marciapiedi, quasi sbeffeggiando chi cammina a piedi.

Circa un paio di settimane prima delle ultime elezioni andai al mercato di Porta Palazzo con la mia collega. E’ uno dei più grandi mercati d’Europa. C’è davvero di tutto, i prezzi sono vantaggiosi e la roba è molto buona, basta avere occhio. Le grida, la confusione modello Bombay, gli odori, il cibo, le bancarelle, tutto ricorda la Fiera di Catania. Se mi concentro posso ritornarci col pensiero, immaginando per un attimo che in fondo al mercato ci sia via Etnea e non Corso Regina Margherita. Dopo aver attraversato il mercato, accettai l’invito della mia collega e salii a casa sua per un caffè. Lei abita in un monolocale, un posto piccolo, ma molto carino, insieme al suo ragazzo. Preso il caffè, andammo a fumare una sigaretta sul pianerottolo davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento, per non riempire il monolocale di fumo. E fu allora che conobbi Abdou. “Un mio amico dell'università” Stava salendo le scale con in mano una busta del panificio: «Ciao, come stai?» fece lui, la mia amica rispose «Bene bene, tu? Ti presento un mio amico dell’università». Abdou è in Italia da circa sei anni,

I Sicilianigiovani – pag. 84

ha famiglia e da poco ha perso il lavoro. Sua figlia aspetta spesso che la mia amica rincasi, così possono giocare insieme a pallone. Il volto di Abdou è segnato dalla stanchezza, gli occhi sembrano quasi adagiati sulle due grandi occhiaie. Sicuramente dev’essere stata una giornata molto dura. Si appoggia contro il muro e tira un sospiro di sollievo. Forse ha dei dolori alla schiena. A pochi giorni dalle elezioni Eravamo a pochi giorni dalle elezioni e Abdou sembrava avere le idee molto chiare:«Deve tornare Berlusconi! Lui è meglio per Italia. Lui ha occhio aperto e occhio chiuso perché lui molto furbo. Ci vuole governo stabile in Paese: cinque, sette, dieci anni Berlusconi». Abdou ha superato la quarantina; nel suo paese, il Marocco, si era laureato in giurisprudenza e qui a Torino, dopo aver fatto il manovale, si ritrova senza lavoro e con una famiglia da campare. «Berlusconi ricco perché imprenditore e allora non ruba soldi di Italia come quello di una volta… come si chiama?! Eh… ecco, Prodi!». Insomma è illogico per Abdou che Berlusconi, essendo ricco, possa trarre profitto dalla politica. Prima di lasciarci, ci dice con convinzione: «Studiate, ma fate studio che serve per mercato… per lavoro, altrimenti difficile è vivere». Camminando lungo la Dora verso casa mia, pensai alle parole di Abdou. Un immigrato che ora non aveva più un lavoro, con una laurea in giurisprudenza che non vale nulla qui da noi e che con rabbia aveva parlato a me e alla mia amica di mercato del lavoro. Pensai alla sua laurea e alla sua attuale condizione nel nostro Paese. Pensai a quante ore avrà passato sui libri. Passarono i giorni e ci furono le elezioni, con i risultati che ormai noi tutti sappiamo recitare a memoria. Chiesi alla mia amica come stesse Abdou e la risposta fu secca e precisa: «L’hanno sfrattato. Aveva le lacrime agli occhi, poverino».


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Integrazioni/ Bologna

E ti senti per sempre un po' cambiato Facile diventare bolognesi, qua dove “non si perde neanche un bambino”

di Beniamino Piscopo www.diecieventicinque.it

La Storia della musica italiana è anche la storia di una città, insomma. Bologna e l’Emilia, sono il crogiolo che spartanamente ha forgiato le schiere di artisti che, in ogni tempo, hanno lottato per mantenere alta la qualità delle canzoni nostrane. Del resto, pensandoci bene, quale se non la città italiana del comunismo-madi-buon-senso, della cultura e della controcultura, organizzata ma che ogni tanto vuole atteggiarsi ad anarchica, poteva essere un’incubatrice più perfetta? La domenica in piazza grande

Lucio Dalla e Francesco Guccini erano gli antenati, i Mani musicali del periodo classico i cui vinili ispiravano gli strimpellatori di note, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. Vasco invece è arrivato dopo, monopolizzando gli anni ottanta, quelli del chic e dell’eccessivo, quelli contaminati dal disimpegno e dal barbarismo crauto, pater tanto dell’avanguardismo quanto dell’elettro dance tamarra. Negli anni novanta c’è stata l’ondata del tortellini pop. Il periodo post classico ha visto l’affermarsi di cinni in vespa, di boy band debitrici di costumi e sonorità sassoni, e di hit che dagli Appennini sono celermente scese a valle, risuonando nei walkman e nelle audiocassette di tutto il suolo Italico. Parallelamente a tutti questi periodi si sviluppava la scena underground che, badate, in tutte le sue molteplici forme non ha mai avuto un percorso separato ma invece, scevra da pregiudizi, si è spesso concessa a situazioni di amichevole promiscuità con la scena pop, intesa come popolare, e viceversa.

Lucio sarebbe stato Dalla senza le sue passeggiate domenicali in piazza Grande, mentre cresceva stimolato dalla città in cui “non si perde neanche un bambino”? Oggi, attraversando i giardini di piazza Cavour, può capitare di ascoltare un paio di tizi con voce vagamente rotta, dire “ Lì abitava Lucio Dalla” indicando il lungo piano di un palazzo borghese. È passato più di un anno dalla sua morte, e i bolognesi quel signore tappetto, busone, ricoperto da una consistente peluria che tradiva le sue origini terrone e dotato della voce più bella che abbia cantato la lingua italiana, lo ricordano ancora con l’affetto che solo agli eroi mitologici veniva elargito. E di lui infatti la città ne parla come di un eroe o di un dio pagano. Il grande jazzista, il grande autore, il grande cantante, il grande scopritore di talenti…Per Bologna tutte queste qualità, e la musica leggera in generale, sono cose troppo importanti per non farti elevare, soprattutto dopo la morte, allo status di semidio. Qualcuno considererebbe tale caratteristica come un segno di una società diversamente laicizzata, io credo che la radice

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vada piuttosto ricercata nell’amore che Bologna nutre per la bellezza, in tutte le sue arti, in tutte le sue forme. Ed esserne fonte, tanto basta per farti ricevere dalla città rispetto e gratitudine. È questo che rende speciale. Quell'aria di lbertà Perché Bologna non ti colpisce a prima vista. A un turista di passaggio apparirebbe l’ennesima graziosa città del centro nord, gotico-romanico- rinascimentale che, come le altre della zona, ha toccato il suo splendore nell’età comunale. Bella, ma non come Firenze; caratteristica, ma non più di Siena o Perugia. Bologna però conquista gradualmente, il tempo necessario a cogliere quell’aria di libertà, tolleranza e sperimentazione e soprattutto di abituarsi alla meravigliosa idea che stia sempre per succedere qualcosa. Perché Bologna è una città in divenire, qui tutto si crea e tutto si distrugge: mode, tendenze, ideologie. Gente che viene, gente che se ne va Cose che passano, come molte delle persone che vi vivono. È una città in divenire, perché parte della sua gente lo è. Ogni anno, col finire dell’estate e l’inizio dell’anno accademico, si ripete da mille anni circa a questa parte il rituale della semina di nuove idee, nuove passioni, nuove personalità. È questo il suo segreto, svelato il suo miracolo. E per gente che arriva e che renderà Bologna un po’ diversa, c’è gente che parte, per sempre un po’ bolognese e un po’ cambiata, rispetto a quando era arrivata.


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NORD

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mondo giù a cura di Tito Gandini

Votare

IN TEMPO DI CRISI

Paesi in crisi che hanno eletto un nuovo parlamento negli ultimi due anni: Irlanda, Portogallo, Grecia, Spagna, Cipro, Italia. In nessuno di questi sei Paesi è stato confermato il Governo uscente. In 5 Paesi e mezzo su sei hanno vinto partiti conservatori (in pratica la sinistra vince solo con Bersani alla Camera). Il primo punto di preoccupazione dei cittadini di questi Paesi è la disoccupazione: si va dal 51% per gli italiani al 78% degli spagnoli. Il debito pubblico (12% in Irlanda; 21% in Irlanda) non è visto come un problema dai Paesi in crisi, ma paradossalmente per quelli non in crisi: il dato più alto è quello della Germania. L’affluenza alle urne dei Paesi in crisi è oscillata tra il 58% e oltre il 70%.

Lavori in rete? E YAHOO TI LICENZIA

Melissa Mayer, nuova capa di Yahoo (proveniente da) Google ha soppresso la possibilità per i dipendenti di lavorare da casa. Al suo arrivo ha scoperto che molti dipendenti, con la scusa di lavorare da casa, in realtà si occupavano di progetti alternativi, arrivando anche a creare proprie start up. Etica individuale o colpa del management? Probabilmente entrambe le cose: da un lato per lavorare da casa serve una forte motivazione personale, dall’altro diminuisce così la capacità di indicare obiettivi misurabili e indipendenti dalla presenza fisica in ufficio. In ogni caso, questa è una brutta notizia per tutti.

Droni

PERICOLOSI

John O. Brennan è stato confermato con voto bipartisan a capo della Cia. I repubblicani hanno legato il loro sostegno a Brennan alla pubblicazione degli atti relativi agli omicidi miranti a cittadini americani, eseguiti dai droni, in territorio straniero. Quattro le vittime ufficiali, tre delle quali sono tuttavia dovute ad errori.

Chavez CRONOLOGIA

Febbraio 1992. Hugo Chávez tenta un colpo di stato contro l’allora presidente venezuelano Carlos Andres Perez. Chávez viene arrestato e passerà due anni in prigione, dove preparerà minuziosamente il suo ingresso in politica. Dicembre 1998. Vince le presidenziali e diventa a 44 anni il più giovane presidente del Venezuela. Luglio 2000. Dopo l’entrata in vigore della costituzione bolivariana, gli viene confermato l’incarico con maggioranza assoluta. Aprile 2002. Subisce un tentativo di golpe che lo sospende per due giorni dal potere. Febbraio 2003. Resiste ad uno sciopero generale di 63 giorni senza dimettersi. Agosto 2004. Una commissione di osservatori internazionali conferma la regolarità del referendum con il quale viene confermato alla guida del Paese. Dicembre 2005. Mentre l’opposizione boicotta le elezioni, Chávez occupa tutti i 167 seggi del parlamento. Aprile 2006. Cuba, la Bolivia e il Venezuela firmano un patto volto a impedire la realizzazione di un’area di libero scambio tra stati latinoamericani e Usa. Dicembre 2006. Chávez viene rieletto per 6 anni alla guida del Paese. Maggio 2007. Statalizza i giacimenti petroliferi dell'Orinoco (stimati come i più grandi del mondo). Maggio 2008. Statalizza la maggiore azienda acciaifera del Paese. Novembre 2009. Alleanza strategica del Venezuela con l’Iran. Dicembre 2009. Cuba e il Venezuela concordano progetti comuni per un montante di 2,1 miliardi di Euro. Aprile 2010. Cooperazione militare con la Russia. Putin finanzia 17 elicotteri militari. Ottobre 2012. Chávez vince le elezioni con il 55% dei suffragi. Marzo 2013. Muore a 58 anni.

I Sicilianigiovani – pag. 86

In fuga DALLA SIRIA

L’Onu annuncia che ci sono un milione di rifugiati che sono fuggiti dalla Siria: 78.000 al giorno. Milioni sarebbero coloro che sono stati obbligati a lasciare la propria casa, pur non essendo ancora usciti dal Paese. Medici senza frontiere continua, come tutte le ONG occidentali, a non essere autorizzata dal regime di Assad ad operare nei territori più critici della Siria. In due anni di guerra sono morte secondo l’Onu 70.000 persone. Paradosso: 21 osservatori dell’ONU sono stati rapiti dagli oppositori al regime di Assad sulle alture del Golan.

Microsoft

MULTATA IN EUROPA

La commissione europea ha multato per 561 milioni di Euro la Microsoft, per non aver consentito agli utilizzatori la scelta del browser. Microsoft sostiene essersi trattato di un errore tecnico di cui intende assumersi la responsabilità.

Business

MODELLO GEORGIANO

La banca mondiale, pubblica la classifica dei Paesi in cui è più facile fare business: per la cronaca, l’Italia è settantatreesima. Interessante è il caso della Georgia, che è passata dalla posizione 137 nel 2005 alla posizione 9 oggi. Come hanno fatto? Hanno istituito una commissione che ha analizzato tutti i parametri di controllo che la classifica andava a spulciare per determinare l’ordine e ha legiferato con l’unico obiettivo di risalire la classifica. Stanziati 13 milioni di dollari per un progetto chiamato Georgia Business Climate Reform. Va be', successone, congratulazioni dal Financial Times, CNN e BBC. Peccato però che nel frattempo sempre la Georgia, avendo soppresso varie cose fra cui i controlli antisofisticazione sugli alimenti, abbia fatto crescere il livello di botulismo presente, portandola a un poco glorioso primo posto mondiale: le industrie alimentari sono tante, molte a conduzione famigliare, i black out frequenti, pochi i controlli.


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“Troppe botte, MI DIMETTO”

Il presidente del consiglio bulgaro Boiko Borisow si è dimesso in seguito alle manifestazioni contro gli alti costi dell’elettricità: “Non voglio essere parte di un governo la cui polizia picchia i manifestanti”. In una recente manifestazione la polizia ne aveva feriti venticinque.

“Ah, se fossimo RIMASTI IN IRAQ...”

Prima di lasciare il proprio posto a capo del Pentagono, Leon Panetta ha voluto sottolineare come l’uscita repentina dall’Iraq, voluta da Obama, abbia sostanzialmente annullato l’inflsuenza USA sul governo iracheno. Il rapporto evidenzia anche alcuni errori della politica americana, con un eccesso non coordinato di programmi grandiosi su cui non si è chiesta l’opinione degli iracheni, andando sostanzialmente ad operare nel vuoto di poteri che la guerra stessa aveva creato, senza riuscire a riportare il Paese alla normalità.

Governo tecnico RESPINTO IN TUNISIA

Il presidente del consiglio tunisino Hamadi Jebali si è dimesso dopo aver proposto un Governo tecnico ed esserselo visto respingere. Dopo l’omicidio di Chokir Belaid, che la vox populi attribuisce all'establishment tunisino, si sono susseguite le manifestazioni antigovernative. Dopo la primavera araba in Tunisia è ancora aperta la questione della definizione della nuova costituzione, mentre la vecchia nomenclatura politica stenta a farsi da parte. C’è voluto un mese per definire il nuovo gabinetto, e un mese per scoprire che in fondo va bene così: Ali Larayed, l’ex ministro dell’interno, sarà il nuovo presidente del consiglio e guiderà la stessa coalizione tripartita del Governo precedente.

Guerra di Corea

“RIFACCIAMOLA!”

Terzo test nucleare nordcoreano. Nuove sanzioni da parte dell’Onu. La Corea del Nord ha dichiarato nulli tutti gli accordi di non aggressione firmati con la Corea del Sud. Il 10 marzo gli Usa e la Corea del Sud hanno annunciato delle esercitazioni militari congiunte.

Cyber warrior ARRUOLATI NEGLI USA

Gli Stati Uniti hanno istituito una medagia in onore dei osiddetti “cyberguerrieri”, un riconoscimento per chi militarmente combatte in difesa della patria via Web.

“Via i corrotti!”

Waterloo:

Plaren Goranov, 36 anni, si è dato fuoco davanti al municipio di Varna, durante una manifestazione contro la corruzione. I politici gli hanno dedicato una giornata di lutto nazionale. La Bulgaria è il Paese più povero della comunità europea.

Jacques Delors ex presidente della commissione Europea, ha suggerito al Regno Unito di lasciare l’Europa.

E SI DA' FUOCO

“Scappa, orso! ARRIVA IL CANADESE”

LA FRANCIA NON PERDONA

Fratelli D'EUROPA

Daniel Cohn-Bendit ritiene che in Europa ci sia un asse schiacciasassi CameronMerkel, che ha monopolizzato l’accordo (2,1 miliardi di Euro alla Francia).

I Paesi membri della convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate ha rifiutato di vietare il commercio internazionale dell’orso bianco. Per ferocia si è distinto il Canada, che sostiene che le popolazioni locali abbiano sviluppato un modello equilibrato di caccia.

Stragi

Il fantasma

Imagine

DI SARKOZY

Il tasso di disoccupazione in Francia è salito al 10%. Nicolas Sarkozy ha dichiarato che potrebbe essere “obbligato” a rientrare in politica dallo stato disastroso della politica francese.

Cento tibetani TESTIMONI COL FUOCO

Il 13 febbraio si è dato fuoco il centesimo tibetano a Kathmandu. La Cina continua con la linea dura, malgrado il cambiamento della guida politica avvenuto a novembre.

I Sicilianigiovani – pag. 87

DIMENTICATE

Quattro poliziotti serbi di Bosnia sono stati condannati a 22 anni di reclusione per aver ammazzato 150 civili durante la guerra, il 21 agosto 1992.

A MILIONI IN PIAZZA PER LA PACE

Sono passati 10 anni dalla manifestazione pacifista mondiale contro la guerra in Iraq: 30 milioni di persone in 60 Paesi.

Ancora fuori BULGARI E ROMENI

La Romania e la Bulgaria continuano a non essere parte dell’area Schengen. Sospesa la decisione dei ministri europei.

Lontane

GUERRE D'AFRICA

Il Brigadiere Wilfred Pingaud37 anni è la quarta vittima dell’esercito francese in Mali.


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IL FILO

Le guerre dei siciliani di Giuseppe Fava

Il Direttore ne conobbe una da ragazzo, i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Si battè disperatamente per evitarne un'altra, quella dei missili di Comiso. In entrambi i casi la Sicilia era un bersaglio, con tutta la sua gente Io ero un ragazzo e rimasi ferito sotto un bombardamento aereo che distrusse il mio paese. Ebbi una gamba e un braccio spezzati, e un occhio quasi lacerato da una scheggia. Mi tennero una settimana in un ospedale da campo, mi ricucirono le ferite e tolsero le schegge senza anestesia. Ci davano un pomodoro al giorno per sopravvivere, dopo una settimana finirono anche i pomodori. Allora scappai; avevo ancora le stesse bende insanguina____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

te e putrefatte del primo giorno, avevo perduto dieci chili, con quella gamba spezzata percorsi venti chilometri per tornare al mio paese, volevo soprattutto disperatamente sapere se mia madre era ancora viva. Quando arrivai alla periferia del mio paese distrutto, c'erano i soldati inglesi che rastrellavano i vecchi contadini e i ragazzi delle campagne. Presero anche me e mi dettero una vanga. “Seppellisci quei morti!” dissero. Lungo la strada, accanto al cimitero, c'erano quattrocento miei compaesani morti nel bombardamento di sette giorni prima, una montagna di corpi spezzati, divelti, gonfi, dilaniati, putrefatti, e in mezzo a loro c'erano esseri umani che per anni io avevo salutato per strada, ragazzi con cui avevo giocato, certo anche miei compagni di scuola, nessuno tuttavia riconoscibile poiché nessuno aveva sembianza umana.

Con le baionette innestate i soldati inglesi ci spinsero verso quella cosa orrenda. “Seppelliteli!”. Con i bulldozer avevano scavato un'immensa fossa in un campo. Io ero un ragazzo, con la gamba e il braccio spezzati, una crosta di sangue su mezza faccia e almeno cinque o sei schegge ancora dentro che l'ufficiale medico non aveva avuto tempo di estrarmi, pesavo altri dieci chili di meno e soprattutto ero convinto che sarei morto per la fame. Ero cioè in uno di quei momenti eccezionali della vita (può capitare una volta, talvolta non capita mai) in cui ci si sente disposti a un gesto di eroismo. Perciò finalmente dissi: “Perché io?”. E l'ufficiale inglese, con la benda bianca sul naso e il berretto rosso disse dolcemente su per giù: “because you fall the war and those are your dead people!”. Pressappoco: perché tu hai perduto la guerra e questo è il tuo popolo sconfitto! Un popolo sconfitto Solo molto più tardi nella vita capii che per tremila anni innumerevoli eserciti si erano dati battaglia per conquistare la Sicilia e che comunque i siciliani erano stati sempre sconfitti e avevano dovuto alla fine sempre seppellire i loro morti. Questo concetto mi si para perfettamente dinnanzi, autentica verità storica, al cospetto della cosiddetta sindromeComiso, cioè della installazione della base di missili nucleari in Sicilia. I Siciliani, marzo 1983

I Siciliani giovani – pag. 88


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Lorenzo Baldo, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Tito Gandini, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Massimiliano Nicosia, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Michela Mancini, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Pietro Orsatti, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Antonio Roccuzzo, Alessandro Romeo, Vincenzo Rosa, Luca Rossomando, Giorgio Ruta, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea

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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.

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Una piccola


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Cronache

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Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / Dir.responsabile Riccardo Orioles/ Associazione culturale I Siciliani giovani, via Cordai 47, Catania / 30 agosto 2012

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Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

I Siciliani giovani

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I Siciliani giovani 1982 -2012 "A che serve essere vivi, se non c'è il coraggio di lottare?"

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