I Siciliani - novembre 2012

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N.10 nov.-dic.2012

I Siciliani giovani www.isiciliani.it

A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?

C’è sempre più mafia nelle nostre vite.

Regali utili (al tuo Paese): portare in edicola i Siciliani

Combattiamola tutta, anche quella “perbene” con l’arma più potente, la verità.

le strade r e p e , e t e r In

Da’ una mano!

per Ognibene

Palermo: “Qua c’è troppa antimafia. Licenziamola!” Castano Il sindaco di Profondo Nord

GULISANO/ CIANCIO E GLI INTELLETTUALI DI CORTE CAPEZZUTO/ MARADONA E I CAMORRISTI ORIOLES/ IL NOSTRO SCIDÀ MAZZEO/ LI MANDA CAPONE SQUILLACI/ BAMBINI DI BUCAREST FINOCCHIARO/ DI MATTEO: “COMINCIÒ LO STATO” C.CATANIA/ BUSINESS MONNEZZA VITA/ ALTRO CHE TOBIN TAX GUTKOWSKI/ NEUTRINI SATIRA/“MAMMA!” JACK DANIEL DE GENNARO ORSATTI VITALE ABBAGNATO GRAPHIC JOURNALISM: ITALIA SOTT’ACQUA ebook omaggio DALLA CHIESA/ IL SILENZIO DEGLI INDUSTRIALI

Caselli: W i contestatori

(e abbasso chi li vuole usare per tornare indietro)


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facciamo rete http://www.marsala.it/

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“Sono un lettore”

“Cari compagni, sono un vecchio lettore della rivista di Pippo Fava, che voi volete opportunamente far vivere ancora. Ne conservo le ultime annate, gelosamente. L'ANPI di Frosinone non dispone di mezzi economici, ma cercheremo di inviarvi un contributo. La cassa integrazione non ci consente di fare quello che vorremmo, di esservi più vicini, ma ci sforzeremo di fare almeno il possibile, anche se poco. Intanto buon lavoro e complimenti. Giovanni Morsillo ANPI Frosinone”

***

Ok, il primo anno (o il trentunesimo, a secondo dei punti di vista) è andato così. Abbiamo fatto questo giornale in rete, l'abbiamo fatto benino, e soprattutto l'abbiamo fatto – non è una ripetizione – stando in rete. La rete non è soltanto l'internet, è anche un pensare diverso, di tante cose diverse che restano diverse e stanno benissimo insieme. Facile a dirsi, ma a farsi è un'altra cosa. Più difficile ancora da internet arrivare alla strada, farsi - restando rete - anche di carta. Questo dobbiamo fare ora. Dov'è la redazione - chiedono - dei Siciliani giovani? Non c'è, e se ci fosse dovrebbe essere un bel po' larga, per contenere tutti da Trapani a Milano. I Siciliani stanno a Bologna, stanno a Modica, stanno a Napoli, stanno a Roma e in ciascuno di questi posti hanno un nome diverso – i nomi che vedete nella pagina a fianco – e ciascuno di questi nomi ha una sua distinta individualità e una sua storia. La nuova geografia è fatta sempre più di arcipelaghi e sempre meno di continenti o isole autosufficienti.

***

DA' UNA MANO: I Siciliani giovani, Banca Etica, IT 28 B 05018 04600 000000148119

Che succede nel frattempo nel paese grosso, nel continente? I capi delle varie sinistre cercano sempre più stancamente motivi di autosufficienza, mentre i rispettivi seguaci (dalla tribù di Grillo ai volontari delle primarie) condividono in realtà – se sono sotto i trent'anni – se non le parole i desideri e bisogni, tutti parimente stufi del precariato. In Sicilia, fra molte chiacchiere, è tornato il governo Milazzo (un episodio minore del secolo scorso). Alla Fiat come all'Ilva, decisioni drammaticissime, riguardanti decine di migliaia di famiglie e la vita di città intere, vengono prese autocraticamente da due o tre manager. A Catania, il giudice nuovo ed “estraneo” è scrutato da dietro le persiane, come in un romanzo di Sciascia, da tutti i potentati paesani. Il nuovo presidente siciliano viene a rendere omaggio – sempre a Catania – all'onnipotente Ciancio. In Mediterraneo i militari bombardano e ammazzano bambini. Roba vecchia. In Italia internet batte tv come fattore politico. Novità. Disoccupato oltre un terzo dei giovani, in Sicilia. Roba vecchia. Disoccupato oltre un terzo dei giovani, in Italia. Novità. Raccontare le cose vecchie, raccontare le novità. Raccontarle come si può, dove si può. Qui e in pochi altri posti, che però via via aumentano e si vanno collegando. I Siciliani (R.O.)

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I Sicilianigiovani NOVEMBRE-DICEMBRE 2012

numero dieci

Questo numero

“Sono un lettore” I Siciliani La meglio gioventù di Gian Carlo Caselli Il silenzio degli imprenditori di Nando dalla Chiesa Intellettuali di corte di Sebastiano Gulisano I giudici e le bugie di Ciancio Sosteniamo i Siciliani giovani di Salvo Ognibene

3 6 7 8 8 9

Primo Piano

Sedriano di Ester Castano Il Premio Morrione Un albero per Lea di Marilena Teri Un anno coi nuovi giornalisti di Diecieventicinque Ricostruire l’antimafia di Valeria Grimaldi “C'è troppa antimafia, smantelliamola” di Salvo Ognibene

10 12 13 14 16 17

Poteri

Di Matteo/ “Cominciò lo Stato” di Pino Finocchiaro Depistaggi eccellenti di Rino Giacalone

18 20

Rewind-Forward di Francesco Feola

23

RIEPILOGANDO

Persone

Sedriano, tranquillo di paesino dell'alto milanese. Saponara, ridente località tirrenica in provincia di Messina. E la periferia di Catania, e quella di Bucarest. Non sappiamo che cos'hanno in comune tutti questi luoghi tranne che appartengono paritariamente al ventunesimo secolo – ma cerchiamo di raccontarli; in maniera diversa da come si fa di solito. Vogliamo continuare a farlo, non solo qui in rete ma anche su carta, come quando s'è iniziato. Per questo chiediamo la vostra solidarietà, perché siamo fuori da qualsiasi potere e abbiamo dunque bisogno - per il lavoro che facciamo - del vostro aiuto.

Maradona e i camorristi di Arnaldo Capezzuto Giornaliste-giornaliste di Norma Ferrara La ragazza di Telejato di Michela Mancini

24 26 28

Italie

La mafia in Umbria di Ilaria Raffaele Fra Catania e Ragusa di Simone Lo Presti Lo stipendificio di Modica di Daniela Sammito Mafia e politica nel messinese di Beatrice Pieri Il processo Gotha di Aaron Pettinari Messina/ Li manda Capone di Antonio Mazzeo Business monnezza di Carmelo Catania Colonia di mafia di Beatrice Pieri Trapani/ Identificare ed espellere di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo L’antimafia ragazzina di Libera Junior

*

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SOMMARIO DISEGNI DI MAURO BIANI Fumetto

Come nasce il maxiprocesso di Luca Salici e Luca Ferrara

46

Immagine

La città di Cono Fazio

48 Satira

Mamma! a cura di Gubitosa, Kanjano e Biani

49

Graphic journalism

L’Italia sott’acqua di Carmelo Catania, Lelio Bonaccorso, e Cristina Insinga

53

Fotoreportage

Sua Altezza la contessa di Andrea Scarfò

61

Pianeta

Altro che Tobin Tax di Fabio Vita

65

Scienze

Neutrini: Ottant’anni di ricerche di Diego Gutkowski

66

Musica

Notizie dalla penombra di Antonello Oliva 68 Storia

Sicilia: miseria e nobiltà di Elio Camilleri 69 Politica

Cambiamento? Boh di Pietro Orsatti 70 La primarie del Pdl di Riccardo De Gennaro 71

Società civile

Via del Fucilatore, Catania di Domenico Stimolo Insegnanti a scuola di antimafia di Giovanni Abbagnato Movimenti

Retrospettiva di Fabio D'Urso “Noi ci rappresentiamo da soli” di Alessandro Romeo

78 79

Periferie

Storie

“Qui ci giochiamo tutto” di Jack Daniel 72 L’acqua e gli stucchi di Serpotta di Paolo Brogi 74

76 77

I bambini di Bucarest di Miriana Squillaci

80

Memoria

Porcasi pittore antimafia di Salvo Vitale Il nostro Scidà di Riccardo Orioles

82 86

Il filo

I politici di trent’anni fa di Giuseppe Fava

Un ebook in omaggio con questo numero Società civile

Fabio Repici La peggio gioventù

Via del Fucilatore, Catania di Domenico Stimolo 76 Insegnanti a scuola di antimafia di Giovanni Abbagnato 77 Mafia,Movimenti estremisti neri, servizi segreti

Società civile Rapporto su Rosario Cattafi

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kindle ipad pdf

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Italia

La meglio gioventù di Gian Carlo Caselli

Gran parte della società italiana ap-

non come ad un domani esterno, ma

forme di guerriglia urbana. Un mondo

pare oggi impaurita, sconcertata, in-

come ad un qualcosa che è dentro di

che può contare sull’alleanza della

quieta. Incerta di fronte al futuro, che

noi e ci corre incontro. Un qualcosa

miope e vile sottovalutazione (quando

teme indirizzato verso derive pericolo-

che è preparato proprio dalle scelte

non compiaciuta indifferenza) di forze

se. Ed ecco che masse imponenti di

che facciamo oggi.

politiche e culturali che rifiutano

giovani sempre più frequentemente invadono le strade e le piazze delle

sistematicamente di condannare la No all'indifferenza e al riflusso

città italiane: per esprimere disagio, protestare contro la situazione disastrosa della scuola e del paese in generale, per comunicare forte preoccupazione e timore per il proprio futuro. Tutte ragioni legittime e sacrosante per manifestare, esercitando l’inalienabile diritto costituzionale di riunirsi per far valere pubblicamente e liberamente le proprie idee.

chiarezza che sono invece necessarie. Giovani quindi che non concedono spazi alla rassegnazione, all’indifferenza, al disimpegno e al riflusso - se non addirittura al trasformismo e all’opportunismo, mali che nel nostro paese sono purtroppo assai diffusi.

Soprattutto in un paese come il nostro che ha già vissuto la tragica esperienza di una violenza cominciata per le strade in coda a qualche corteo e poi via via cresciuta fino a pratiche terroristiche.

Giovani che manifestando sono anche capaci di critiche argomentate ed in-

E no alla barbarie e alla violenza

telligenti. Tanto più intelligenti quanto più impermeabili agli idoli della se-

Vivere il presente con radicalità

violenza con la determinazione e la

Se si vuole che il nastro non si riav-

duzione e capaci di allontanare da sé

volga intorno alla violenza, fino ad un

ciò che appare appunto suggestivo ma

nuovo, inesorabile imbarbarimento

di fatto distrae e può portare fuori

della vita civile e ad una progressiva

che vogliono vivere il presente con ra-

strada ( come vorrebbero certi oscuri

involuzione del sistema, occorre op-

dicalità. Dove radicalità significa re-

interessi).

porsi ai tentativi di bieca strumentaliz-

Sono la “meglio gioventù”. Ragazzi

spingere la tentazione di adagiarsi su

Rischiano di portare rovinosamente

zazione della “meglio gioventù” da

logiche meramente difensive. Non

fuori strada le suggestioni che erutta il

parte di chi vorrebbe piegarla a logi-

consolarsi pensando che tanto non ne

mondo parallelo e cupo in cui si na-

che devastanti per la democrazia. An-

vale la pena: perché i giochi sono or-

scondono personaggi ambigui che

cora una volta il silenzio su questi

mai irreversibilmente fatti e le cose –

teorizzano e alimentano la violenza,

temi è complice.

gira e rigira – vanno e finiscono sem-

sempre pronti a mescolarsi alle mani-

pre allo stesso modo.

festazioni pacifiche per trasformarle in

Sono giovani che pensano al futuro

altro, con progressiva escalation verso

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Società

Il silenzio degli imprenditori di Nando dalla Chiesa

Qui Milano, qui Lombardia. Con-

Morale, scontata: i clan, un passo

fessi. Nessuna mobilitazione in difesa

tinuano gli arresti di affiliati ai clan

dopo l’altro, si sono ciucciati l’impre-

del mercato, sacro totem quando si

calabresi. Continuano gli incendi e le

sa a furia di botte e di minacce, di sol-

fanno i dibattiti politici ma guscio

sparatorie contro negozi ed esercizi

di e di paura.

vuoto da abbandonare al suo destino

commerciali vari. Si scopre che le im-

quando avanzano i clan con le armi in

prese si fanno inghiottire dalla ‘ndran-

mano.

gheta perché, come allegri citrulli, manager e imprenditori cercano i boss per risolvere i propri problemi. “Andate a prenderci i soldi” Così è stato, ultimamente, anche per la “Blue Call”, grande società di call center. Avevano un credito di

E’ deprimente vedere come siano

Le grandi categorie economiche

muti e pavidi i grandi corpi intermedi Naturalmente si può molto ironiz-

della società civile. E ci si chiede ov-

zare su quel che sono oggi -solo in

viamente perché dovrebbe mai ribel-

parte, certo- i famosi imprenditori e

larsi il singolo commerciante di peri-

sulla loro vocazione a essere classe di-

feria o del paesino di ottocento anime

rigente di una città o addirittura di un

dell’hinterland, quando i capi, così

Paese. Ma c’è soprattutto una cosa che

meno esposti e così più carichi di responsabilità, così più ricchi di presti-

250.000 euro che non riuscivano a ri-

viene spontaneo sottolineare: ed è che

gio e di potere, scelgono da anni di ta-

scuotere e che cosa gli salta in testa a

di fronte a questa ondata di arresti, di

cere, ben acquattati nelle loro palazzi-

intimidazioni e di capitali sporchi che

strategiche? Di

entrano con le spicce nelle imprese

andarsi a cercare

“legali”, brillano per il loro silenzio le

qualche energu-

grandi categorie economiche della

meno in odor di

Lombardia, ovvero le associazioni di

lupara e berga-

commercianti e di industriali più po-

striali hanno dato la sveglia. Qui a Mi-

motto, possibil-

tenti d’Italia.

lano e in Lombardia ancora dormono.

mente di Rosar-

le resta a voi.

ne.

queste menti

Non si sente una parola, non ri-

no, e di proporgli

suona non si dice un grido di guerra

l’affare: andate a

ma nemmeno una pubblica presa di

prenderci i soldi

posizione, un caloroso invito a seguire

e una percentua-

le regole della legalità. Diciamo pure una fraterna esortazione a essere meno

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Dormono gli industriali In Sicilia cinque anni fa gli indu-

Dice che Milano non è Palermo. Ecco, appunto: magari.


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Poteri

Mario Ciancio, Catania e gli intellettuali di corte Un illustre cattedratico “di sinistra”, il professor Pietro Barcellona, attacca i giudici che indagano sull'eventuale contiguità mafiosa di Mario Ciancio, da sempre monopolista dell'editoria siciliana. La risposta di uno dei “Siciliani” di Sebastiano Gulisano Ho fatto il giornalista a Catania dal 1984, da dopo l’omicidio di Giuseppe Fava all’estate del 1996, quando, in seguito alla chiusura de I Siciliani nuovi, decisi di lasciare la città e l’isola. In quegli anni, non ricordo una sola presa di posizione del professore Pietro Barcellona contro i potenti della città. Né contro i potenti “perbene” né contro quelli che sparavano. Non ricordo nemmeno parole di sostegno e conforto a chi si opponeva, ai familiari dei morti ammazzati. Nessuna parola. Solo silenzi. Certo, non era il solo silente. A parlare, a scrivere, a denunciare, a documentare, a rischiare la pelle e i denari (che non avevamo, peraltro) eravamo in pochi.

I giudici e... LE BUGIE DI CIANCIO Con riferimento all’articolo a firma di Pietro Barcellona, pubblicato su “ La Sicilia “ del 28 novembre scorso, è doveroso precisare che alcun accertamento è stato mai disposto <per verificare la linea editoriale del giornale>. Ferma restando, poi, l’assoluta intangibilità e pienezza del diritto di critica, quanto all’asserzione di “pressapochismo giudiziario”, sarebbe più giusto affidare alla reale conoscenza degli atti i giudizi sulla serietà, sulla correttezza e sulla professionalità degli organi giudiziari. Catania, 29 novembre 2012 Il Procuratore delle Repubblica Il Presidente del Tribunale

I più, si facevano gli affari loro. O discettavano di problemi “alti” e non si sporcavano le mani con l’ordinario scempio della città e delle esistenze delle persone che la abitano. “Intellettuali”. Discettavano dei massimi sistemi, ’ste robette terra terra le lasciavano a noi comuni mortali. Tre anni e mezzo fa, dopo anni e anni di colpevoli distrazioni, le telecamere Rai tornarono a inquadrare Catania, e uno dei rari programmi di approfondimento giornalistico degno di tale nome, Report, dedicò alla città un’inchiesta meticolosa e ben documentata, in cui, per la prima volta su scala nazionale, si tracciava un profilo irriverente ma realistico di Mario Ciancio Sanfilippo, editore-direttore del quotidiano cittadino, La Sicilia, l’uomo più potente della città. Il “compagno” Barcellona Apriti cielo! In difesa della «città umiliata e offesa» si scatenò il “meglio” dell’intellighenzia cittadina, incluso il solerte “compagno” professore Barcellona, che tuonò contro le «bombe mediatiche» e «il fondamentalismo d’inchiesta», ché «scandali collusioni e misfatti ci sono dappertutto». Sembra di risentire le parole del mitico arcivescovo Luigi Bommarito il quale,

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ogni volta che qualche giornalista gli chiedeva della mafia a Catania, ribatteva piccato: «A Washington ci sono 400 omicidi l’anno, ma nessuno parla di mafia». Questo, sì, che è parlare chiaro. Martedì 27 novembre, in concomitanza con l’assoluzione in primo grado dei giornalisti di Report citati in giudizio civile da Ciancio, l’illustre professore ha vergato di suo pugno un “coraggioso” editoriale sulla prima pagina del quotidiano etneo per manifestare la sua «reazione indignata» verso il Gip Luigi Barone, che ha avuto l’ardire di chiedere un supplemento d’indagine alla Procura nell’inchiesta su presunti rapporti fra Ciancio e Cosa Nostra e sulla presunta benevolenza del quotidiano da lui diretto nei confronti dei boss etnei. “La Sicilia” e i boss Ma come si permette, il giudice Barone! Ma non lo sa che «proprio La Sicilia pubblicò molti anni fa un’intervista a Pio La Torre, poco prima che venisse assassinato, nella quale si denunciavano le collusioni fra i famosi cavalieri e i comitati d’affari che gestivano la mediazione tra politica e malaffare»?!


“Chi scriveva, chi taceva” Prendiamo per buono ciò che sarebbe successo oltre trent’anni fa. E i trent’anni successivi? I trent’anni successivi, se l’esimio professore non se ne adombra, glieli racconto io, in pillole, molto in pillole, soffermandomi soprattutto su alcune “perle” che hanno caratterizzato il giornale di Ciancio nel “raccontare” le indagini sull’omicidio di Giuseppe Fava, che lui – dopo essere stato adeguatamente istruito da un suo ex allievo al quale si rivolse, per avere lumi, in seguito all’improvvido invito ricevuto dalla Fondazione Fava a intervenire alle iniziative in occasione di un anniversario dell’omicidio – dovrebbe quantomeno vagamente conoscere. “Non vedo, non sento, non parlo” Quello che segue (vedi sul sito) è un collage di ritagli di articoli da me scritti e pubblicati qua e là, nel corso degli anni, mentre il “compagno” Barcellona si cimentava nell’ardimentoso ruolo delle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Ché, si sa, «la migliore parola è quella non detta». P. S.: Dimenticavo. Esimio Illustre “Compagno” Professore Pietro Barcellona, mi duole comunicarLe che non era la seconda volta che il Gip Barone respingeva la richiesta di archiviazione della Procura, disponendo inoltre un supplemento d’indagine, ma la prima, e che ciò (quand’anche fosse stata la seconda) rientra fra i poteri conferiti dalla legislazione vigente a qualsiasi Giudice delle indagini preliminari. Pensi, quant’è bizzarra la legge!

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Un volantino

Sosteniamo i Siciliani giovani

"A che serve essere vivi, se non c'è il coraggio di lottare?”

Vi ricordate l’anno scorso, quando Santoro vi chiese i soldi per il suo “servizio pubblico”? Dieci euro per sostenere il progetto. In centomila risposero, una grande dimostrazione di affetto e di sostegno sicuramente. Lo sapevate che ora Servizio Pubblico va in onda su La7? E i soldi che avevate dato per creare quel progetto autonomo? Vi sono stati restituiti? Noi adesso vi chiediamo di sostenerci, promettendo di non passare a La7. E’ passato un anno da quando dal Festival del Clandestino abbiamo annunciato ai microfoni di Telejato la rinascita de I Siciliani. Non abbiamo “rifatto” un giornale, abbiamo “fatto” I Siciliani giovani. Che poi, forse, lo eravamo già. I Siciliani sono un gruppo sparso per l'Italia, Diecieventicinque a Bologna, Stampo antimafioso a Milano, Telejato, Il Clandestino, Napoli Monitor, La Domenica, e potrei continuare. I Siciliani sono un patrimonio comune, sono ragazzi e ragazze sparsi un po' in tutta Italia, sono anche professionisti e giornalisti come Mazzeo, Capezzuto, Giacalone, Finocchiaro, Salvo Vitale, Pino Maniaci. I Siciliani siamo noi giovani, che almeno qui non rappresentiamo il futuro, siamo il presente e lo viviamo da protagonisti con a fianco degli ottimi maestri. Abbiamo provato a mettere insieme il vecchio e il nuovo, passato e futuro, vivendo insieme in questo presente. I Siciliani giovani da un hanno in qua hanno faticato e lavorato, e quello che abbiamo fatto l'avete visto, ci siamo anche beccati le denunce e le intimidazioni. Siamo nati perché Giambattista Scidà ci ha ridato l'idea, perchè Giancarlo Caselli e Nando Dalla Chiesa si sono imbarcati con noi, su questa barca che vuole attraversare e raccontare la Sicilia e l'Italia, insieme, facendo rete, perseverando in quella pubblica verità che ci ha insegnato il Direttore de “I Siciliani”, Pippo Fava. I Siciliani giovani però si fa anche con tutti voi. Stiamo cercando di uscire in edicola fra poco, esattamente dopo trent'anni dai "vecchi” Siciliani. Noi ci stiamo provando a fare tutto ciò ma abbiamo bisogno di voi. Tanti piccoli aiuti fanno un grande aiuto. Adesso vi chiediamo un contributo per sostenerci promettendovi che come sempre andremo avanti, navigando su questo mare in tempesta, rimanendo liberi, senza padroni alle spalle e di certo non daremo via la baracca come qualcuno, passando a La7. Salvo Ognibene, www.diecieventicinque.it

Per dare una mano:

IBAN

IT 28 B 05018 04600 000000148119

Oppure

Conto corrente postale 001008725614

Banca Etica/ “Associazione Culturale I Siciliani Giovani”

“Associazione Culturale I Siciliani Giovani, via Cordai 47, Catania”

L'articolo completo, con gli altri pezzi sull'argomento, sul blog di Gulisano: http://sebastianogulisano.wordpress.com/20 12/11/29/mario-ciancio-catania-e-gli-intellettuali-di-corte/ )

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Profondo nord

Sedriano Nord Italia, Lombardia, Milano: Sedriano. Poco più di diecimila abitanti di Ester Castano

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Un paese come tanti, qui nell'hinterland, in cui il verde dei campi agricoli e le vecchie cascine diroccate lasciano silenziosamente il posto a cemento, tangenziali e palazzi quadrati. Molti pendolari e qualche famiglia di immigrati nord africani o dell'Est che, a dodici chilometri dalla capitale morale del paese, hanno trovato scuole per i propri figli e qualche permesso per aprire piccole botteghe di alimentari. A Said l'ambulante, che tenta di vendere rose senza spine al mercato del sabato, non è semplice spiegare il significato dei cartelli che portano al collo e reggono in mano un folto gruppo di cittadini. “Perché sono lì, cosa fanno, chi sono?”. Said è curioso. E' dalle nove del mattino che sventolano bandiere colorate e distribuiscono volantini fotocopiati la sera prima, mossi dalla voglia di informare e dal disgusto verso chi ha tradito la loro fiducia di elettori mettendo il paese nelle mani di un faccendiere lombardo e di un affiliato alle cosche calabresi. "Via la 'ndrangheta dalla nostra città", "Sindaco Celeste dimettiti", "Siamo stufi dell’Amministrazione Comunale corrotta". Caro Said, spigarti cos'è successo da quella mattina d'inizio ottobre non è semplice. Non è semplice spiegare, a te che vieni da mari lontani, questa brutta pagina di storia tutta italiana e distruggere la tua utopia di mondo civilizzato, di occidente, di paese con un sistema di leggi corretto e avanzato che qui, come tanti, credevi di trovare.

Il sindaco arrestato A inizio ottobre il sindaco di Sedriano Alfredo Celeste, ex socialista e attuale vicecoordinatore provinciale del Pdl, è stato arrestato: carabinieri, manette, e probabilmente fra qualche mese inizierà il processo che vede coinvolti, oltre al primo cittadino, Silvio Marco Scalambra ed Eugenio Costantino, rispettivamente marito e padre di due consigliere comunali. Mi chiedi come mai il sindaco è stato arrestato, Said? Per corruzione: già, un'accusa pesante. Pensa che il sindaco è anche professore di religione in un istituto superiore statale. Secondo i magistrati Celeste è amico di Scalambra, marito della consigliera Pdl Silvia Stella Fagnani in carcere perchè collettore di voti per le cosche. Non solo: dalle intercettazioni emerge chiaramente l'assidua frequentazione del sindaco con Eugenio Costantino, padre della giovanissima consigliera Pdl Teresa, in cella con l'accusa di essere un boss della 'ndrangheta affiliato al clan Di GrilloMancuso. Negli ultimi giorni le forze dell'ordine hanno portato via dal Comune tutta la documentazione inerente al nuovo piano urbanistico, al centro commerciale e alle opere pubbliche realizzate nel corso di questi tre anni di centro destra. Pare infatti che Celeste, Scalambra e Costantino, oltre che mangiare assieme in feste di compleanno e pranzi di lavoro, si rimpilzassero la pancia con i soldi dei cittadini coinvolgendo nei propri affari volti noti del business del mattone locale e avvocatoni dalle parcelle salate. Veri e propri compagni di merende. Vedi queste terre, Said? Il progetto urbanistico denominato 'Piano d'Intervento Integrato Villa-Colombo', oggi in mano alla magistratura, prevede che la destinazione d'uso dei campi passi da agricola ad edificabile, con gli appalti gestiti da imprese edili di dubbia legalità. L'assessore all'urbanistica Linda Ghidoli, non indagata ma presente in pagine fondamentali dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, interloquiva inge-

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nuamente al telefono con Scalambra, informandolo sui dettagli del piano urbanistico, fissando appuntamenti e riunioni. Movimenti, nomi e cognomi che ai magistrati sono sembrati sospetti, dal momento che Scalambra è un medico chirurgo e non un immobiliarista. Il sindaco Celeste mirava al Parlamento, voleva diventare senatore. Per questo l'amicizia con Scalambra gli sembrò preziosa. "Io ho dei voti conseguenti a Costantino e ne posso procurare di altri", confida telefonicamente il medico al sindaco. Un piatto succulento che attrae Celeste e lo porta a saldare uno stretto rapporto con Eugenio Costantino, a dar fiducia a quell'uomo che molti hanno visto in compagnia del sindaco più e più volte, da presentazioni di liste a cene in amicizia. Il rapporto Celeste-Costantino Perchè uno come Eugenio è difficile dimenticarlo: capelli lunghi fino alle spalle, figura curata e uomo elegante. Niente coppola ma abito fresco di sartoria e un'agenda ricca di appuntamenti con i vertici della politica lombarda e gli esponenti delle cosche calabresi che lavano negli appalti, in gestione di locali e case popolari i soldi sporchi ricavati da droga, racket e usura. In paese Costantino lo si conosce come imprenditore di metalli preziosi: è suo il 'Compro Oro' che si trova sulla via principale del paese, di fronte al Municipio e a pochi passi da Piazza del Seminatore, la stessa piazza in cui da due mesi i cittadini indignati organizzano fiaccolate e presidi per chiedere le dimissioni del sindaco. Erano in trecento, mercoledì 14 novembre, ad assistere al Consiglio Comunale in cui i gruppi e partiti di opposizione - Centro Sinistra, Udc e Lega Nord - hanno chiesto invano di approvare la mozione di sfiducia all'attuale Amministrazione. Ma la Giunta Celeste, invece di prendere le distanze dal marciume che ha portato Sedriano sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e in diretta tv sui telegiornali regionali, continua imperterrita a difendere l'innocenza del proprio sindaco.


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Sedriano andrà avanti ad essere amministrata dagli stessi volti saliti agli onori delle cronache per aver permesso di associare il nome del paese a quello della 'ndrangheta: così è stato deciso in quella sera di metà novembre, e così sarà finchè i consiglieri di maggioranza non si dimetteranno o il prefetto interverrà in prima persona per sciogliere il Consiglio. "Siamo trasparenti, la mafia a Sedriano non esiste, sono tutte menzogne della stampa e delle opposizioni", fa sapere Celeste con una lettera scritta nel privato della sua dimora e letta pubblicamente dall'assessore al Commercio ed Expo 2015 Danilo Patanè. Ad accogliere l'ultimo delirio di onnipotenza del sindaco, sospeso dal prefetto e quindi impossibilitato a recarsi in consiglio comunale in quanto obbligato agli arresti domiciliari, fischi e pernacchie del folto pubblico presente. Delirio che ha permesso ai fedelissimi di accusare la stampa locale - un'accusa meschina e diffamatoria - d'aver commesso e istigato ignoti a compiere l'ultimo attentato di chiara matrice mafiosa. Nella sera di venerdì 16 novembre, a due giorni dal voto di sfiducia alla Giunta Celeste, lo studio del commercialista e consigliere Pdl Davide Delle Donne è stato incendiato. Poteva essere una strage Ad oggi le forze dell'ordine sono riuscite a ricostruire solo la modalità dell'accaduto: dopo aver rotto la finestra dello studio di via Leonardo Da Vinci, a pochi passi dal centro paese, due uomini avrebbero gettato all'interno un panno intriso di liquido infiammabile. Il resto è la semplice e tragica conseguenza: le fiamme hanno distrutto gran parte della documentazione cartacea del commercialista, fra cui anche il computer, prezioso strumento di catalogazione e memorizzazione di dati e dettagli importanti. Se le fiamme avessero preso il sopravvento sull'intera struttura, la tragedia sarebbe stata inevitabile: lo studio del consigliere, infatti, è ubicato all'interno di un plesso abitativo. Spaventati, tormentati, turbati: a chiunque si chieda un'impressione personale sull'accaduto si legge sgomento negli occhi. Ma non è la prima volta che a Sedriano si usa il fuoco per lanciare segnali, e il primo cittadino dovrebbe saperlo. Nel febbraio scorso quattro autovetture parcheggiate dietro al Comune in piazza del Seminatore sono state date alle fiamme. Probabilmente in quel caso le autorità competenti non riuscirono (o forse fecero

finta di non capire) a cogliere il significato del gesto, tanto che qualcuno puntò il dito su un fantomatico piromane passionale che con l'accendino in mano esternava il suo amore per una donna appiccando il fuoco a una Fiat Punto, due furgoni Renault e Mercedes, e un'altra macchina di cui fu ritrovato soltanto lo scheletro. Forse, visti i recenti fatti di cronaca, conviene rivisitare quegli accadimenti. Quando la 'ndrangheta colpisce, colpisce con precise motivazioni. E sono proprio le motivazioni che stanno dietro al terribile incendio dello studio del consigliere Pdl, a due giorni dal suo voto contrario alla mozione di sfiducia alla Giunta Celeste, che tanto preoccupano l'opinione pubblica. Nella criminalità organizzata di stampo mafioso non esistono mine vaganti: il sistema di affiliazione è ben definito e ogni decisione viene presa con fermezza e razionalità da tutti i componenti del clan. Una razionalità e una linearità tali che fanno apparire l'organizzazione ben più forte e potente degli organi messi a disposizione dello Stato per garantire la sicurezza dei cittadini. Nulla è lasciato al caso, soprattutto atti di estrema violenza che creano allarmismo fra la popolazione. Un pesce appena pescato, Said, sa che da li a poco dovrà morire. E impazzisce, si dimena convulsamente fino a perdere coscienza di sè. Un pesce con l'amo in bocca, trasportato sulla superficie della terra, fuori dall'acqua, ha la consapevolezza che nel giro di pochi pochissimi minuti le sue branchie cesseranno di immettere ossigeno nel corpo. E il decadimento dell'organismo sarà immediato. Forse non si renderà conto che la colpa di tutto ciò sta nell'attrazione capillare che l'ha portato ad abboccare all'esca, assaporando il verme, divenendo un tutt'uno con il cagnotto succulento ammaliatore. Forse. E' probabile anche che sentendosi destinato all'ultimo respiro darà la colpa alla temperatura dell'acqua, all'andamento delle onde, ai bambini che giocano in riva al mare. Ma ammettere la propria responsabilità, questo no. Poniamo l'esempio che quel pesce intimorito sia il sindaco di Sedriano e l'esca ammaliatrice i succulenti affari del Costantino legato alla 'ndrangheta e del faccendiere Scalambra. Mossi dall'esasperazione, sull'orlo del collasso politico, l'ossigeno manca. Comprensibile. Poniamo l'esempio di essere quel sindaco. Manca l'ossigeno nel momento in cui sei un primo cittadino e la magistratura ti coinvolge in un'indagine antimafia, vieni

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accusato di corruzione e finisci agli arresti domiciliari; manca l'ossigeno a sapere che la cittadinanza dopo aver letto sull'ordinanza di custodia cautelare il tuo nome associato a quello di altri malavitosi locali disgustata scende in piazza per chiedere le tue dimissioni; manca l'ossigeno nel vedere la tua storia pubblicata su ogni giornale e raccontata in televisione, mentre il Prefetto ti sospende dagli incarichi politici obbligandoti a cedere lo scettro di primo cittadino. Il senso di soffocamento è simile a quello del pesce morente, e il collasso politico diventa così uno spettro che tormenta notte e giorno, annebbia la mente e porta a fare gesti sconclusionati. Gesti sconclusionati come accusare di calunnia l'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, incolpando l'organo di rappresentanza ufficiale della stampa d'aver innalzato la temperatura mediatica su quell'acqua sporca in cui fra alghe e marciume la Giunta Celeste ha cercato di tener nascosti i propri malaffari. Tappare la bocca a chi racconta La querela è un mezzo legale e a disposizione di chiunque si senta offeso e voglia tutelare la propria immagine pubblica. Ma muovere una denuncia per diffamazione contro un'istituzione come l'Ordine è un fatto gravissimo. Significa voler nuovamente spostare l'attenzione dai gravi fatti di cronaca che hanno colpito il paese e il rappresentante dei cittadini. Significa tappare la bocca e voler portare in tribunale chi racconta i fatti con un occhio critico, imparziale e non asservito al potere. Significa utilizzare per l'ennesima volta il potere forte di chi è ai vertici di un'amministrazione comunale contro i cronisti. Il paese, Said, non è una gioiosa valle incantata. Le acque di Sedriano si stanno prosciugando, e il marcio della Giunta viene sempre più a galla. Ecco perchè quelle persone tutte colorate che vedi in mezzo alla piazza del mercato agitano cartelli e gridano al megafono slogan contro quest'Amministrazione Comunale: credono veramente di poter cambiare le cose. Inutile, per il sindaco Celeste e la sua cricca, dimenarsi sulla battigia.


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Giornalismo

Il Premio Morrione I grandi giornalisti si onorano creandone di nuovi Scadono il 15 dicembre i termini di presentazione dei progetti per la partecipazione al Premio Roberto Morrione, seconda edizione. Il Premio dedicato a Roberto Morrione è una sezione del Premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi e finanzia la realizzazione di progetti di video inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale rilevanti per la vita politica sociale o culturale dell’Italia, quali l’attività delle mafie e delle organizzazioni criminali, l’esistenza di traffici illegali, come traffici di rifiuti tossici, di armi, di esseri umani, di droghe, ecc., le attività di corruzione e di intimidazione, l’esistenza di attività di organizzazioni segrete o clandestine con progetti eversivi o terroristici, nonché le violazioni dei diritti umani. Per giovani fino ai 30 anni Il Premio è aperto ai giovani che non abbiano compiuto 31 anni di età al momento della scadenza stabilita per l’invio del progetto al Premio. I progetti devono essere inviati online secondo le modalità indicate nell'apposito form sul sito www.premiorobertomorrione.it

Il progetto dovrà contenere: scaletta di fattibilità, tema dell’inchiesta, fonti e i testimoni disposti a collaborare, luoghi e tempi in cui le successive riprese e interviste verranno realizzate. Tra i progetti inviati al Premio, ne verranno scelti tre ai quali verrà assegnato ciascuno un contributo in denaro di 3.000 euro (da erogarsi per un terzo al momento della selezione e il resto alla consegna del filmato pronto per la messa in onda). Tre video inchieste I progetti scelti, nella fase di realizzazione delle video inchieste che dovrà durare quattro mesi, si avvarranno della supervisione e consulenza di un tutoraggio sia per le competenze giornalistiche che per quelle tecniche oltreché di un supporto di consulenza legale. Le video inchieste realizzate dovranno avere una durata massima di 25 minuti. Qualora nel corso dei quattro mesi di attività produttiva si manifestino contrasti o conflitti o altri gravi incidenti che pregiudichino la realizzazione del lavoro, su segnalazione dei tutor ed a giudizio insindacabile della giuria, i finanziamenti potranno essere interrotti o revocati. Il Premio Roberto Morione è promosso da Piero Badaloni, Barbara Bastianelli, Giuliano Berretta, Francesco Cavalli, Giovanni Celsi, Vania De Luca, Giovanni De Mauro, Daniela De Robert, Norma Ferrara, Mara Filippi Morrione, Lorenzo Frigerio, Giuseppe Giulietti, Udo Gümpel, Albino Longhi, Massimo Manzoli, Elisa

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Marincola, Corradino Mineo, Gaia Morrione, Roberto Natale, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Ennio Remondino, Nino Rizzo Nervo, Paolo Ruffini, Marcella Sansoni, Barbara Scaramucci, Marino Sinibaldi, Maurizio Torrealta.

Scheda

PER PARTECIPARE Per la partecipazione deve essere compilato il form presente sul sito www.premiorobertomorrione.it, incluso l’invio web del curriculum personale e una showreel video di massimo 3 minuti (non necessariamente inerente al progetto d’inchiesta proposto).

LE SCADENZE La data entro la quale dovranno essere spediti alla segreteria del Premio i progetti è il 15 dicembre 2012, ed i risultati verranno resi noti entro il 31 gennaio 2013. La produzione delle video inchieste avverrà da febbraio a maggio 2013.

IL PREMIO FINALE La premiazione finale dei lavori prodotti avverrà all'interno del Premio Ilaria Alpi a Riccione. Il premio finale, ad insindacabile giudizio della giuria, consiste in un ulteriore premio in denaro di 3.000 euro per il primo classificato e di 1.000 euro ciascuno per gli altri due. Il primo classificato vedrà il suo prodotto messo in onda dalle reti Rai partner del Premio (Rainews24) secondo tempi e in fasce orarie da loro stabilite. Gli autori delle video inchieste prodotte si impegnano a sottoscrivere apposita liberatoria per la pubblicazione delle stesse sia per quanto riguarda la programmazione televisiva per il primo classificato, sia per una diffusione internet mediante i canali utilizzati dal Premio Roberto Morrione. Gli autori si impegnano altre sì a sottoscrivere apposita dichiarazione di manleva delle responsabilità rispetto al lavoro giornalistico svolto.


Milano

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Un albero per Lea Fare antimafia non è un merito, ma un dovere di tutti i cittadini e di tutte le istituzioni di Marilena Teri presidio “Lea Garofalo”, Milano “Pianteremo un albero per ricordare Lea Garofalo, lo pianteremo a Milano vicino all'arco della pace e lo faremo il 24 novembre, tre anni dopo la scomparsa di questa donna testimone di giustizia”. La città di Milano glielo deve un riconoscimento a Lea che ha rotto l'omertà, che si è ribellata alle logiche familiari sperando di trovare, al di fuori, un mondo di legalità che l'avrebbe protetta. Nonostante tutto, dopo sette lunghi anni di travagli, insicurezze, paure e nessun risultato per i suoi sforzi, aveva creduto di trovare in questa città un rifugio sicuro, un luogo diverso dalla Calabria, nel quale si sarebbe potuta confondere con la gente e nel quale sarebbe passata inosservata; invece Lea viene rapita vicino l'arco della pace il 24 novembre 2009, torturata, uccisa a san Fruttuoso vicino a Monza. L'acido nella storia della mafia ha un

Una settimana antimafia

RICORDARE PER LOTTARE

Il 24 novembre 2009 Lea Garofalo, testimone di giustizia, veniva rapita e uccisa. Si era ribellata alla ‘ndrangheta per offrire alla figlia Denise un avvenire fuori dal contesto criminale in cui lei era vissuta. Milano ricorda il suo sacrificio per il riscatto e la dignità di tutti noi lunedì 19, ore 20: Circolo Familiare di Unità Proletaria, v.le Monza: film “Biutiful Cauntri”. www.cineforumdelcircolo.org martedì 20, ore 14: Dip. di Fisica aula A: “Il sapere scientifico contro le mafie” con N. dalla Chiesa, D. Gentili, L. Tetti. Con gli Studenti antimafia di Città studi. studenti.antimafia@gmail.com ore 18: Istituto Giorgi: “Giorno della memoria: La Torre, dalla Chiesa, Falcone, Borsellino”, con N.dalla Chiesa e G.Teri. Orga-

preciso significato simbolico, l'acido cancella per sempre il corpo, annulla la persona e le leva dignità. Lea Garofalo doveva essere punita per riscattare l'onore dell'ex compagno Carlo Cosco, perchè nelle famiglie 'ndranghetiste la donna deve servire il marito, sottostare ai suoi ordini e custodire i suoi segreti. Qual è la più grande vigliaccheria se non sciogliere una donna nell'acido per non sfigurare di fronte ai capi del narcotraffico e degli appalti edilizi? Un abbraccio per Denise Noi conosciamo la verità storica e riconosciamo le caratteristiche tipicamente mafiose della vicenda, tuttavia è ancora molto difficile far passare giuridicamente l'aggravante per associazione mafiosa, il 416 bis, anche a Milano. E infatti nella sentenza di condanna per omicidio e occultamento di cadavere non è presente questa aggravante, anche se si è riconosciuto il diritto del Comune di sentirsi parte lesa dalla criminalità organizzata. Piantare un albero dedicato a Lea Garofalo non è quindi un fatto rituale, significa creare un luogo di memoria, legare per sempre il suo nome e la sua storia alla città di Milano. Restituendo a Lea giustizia e la dignità che merita si promette a tutte le donne, mogli, fidanzate, figlie di uomini di mafia che, qualora scegliessero di seguire la strada tracciata da Lea, non verrano lasciate sole. nizzano Libera e Consiglio di Zona 6. mercoledì 21, ore 9: IIS Curie Sraffa, v.Zoia 130. “Le mafie ieri e oggi”, con G.Impastato e F.Vitale. Organizza Associazione Saveria Antiochia Omicron. 14.30: ICS Allende, Senago. “Cento passi”. Ore 20.45: Biblioteca Civica Accursio: “Donne contro le mafie”. Con J.Garuti. www.centrostudisao.org giovedì 22, ore 9 - Liceo Cremona: “Le mafie ieri e oggi”. Ore 18,30: Aula magna del Virgilio,p.Ascoli 2: incontro sulla ‘ndrangheta con A. Nobili (proc.agg.Trib.Milano), video “Global mafia” con D. Parazzoli e A. Zolea di Stampo Antimafioso. Intervengono gli studenti del “Gruppo diritti, legalità e partecipazione del Virgilio”. Coordina G. Teri. Organizzano Coord. Scuole Milanesi per la Legalità e la Cittadinanza Attiva, Libera Formazione Scuole, Scuola Caponnetto.

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Un albero è simbolo di rinascita e di vita; un albero avvolge il terreno con le sue radici così come una politica di legalità dovrebbe espandersi per fermare il progressivo radicamento dell'ndrangheta al nord. Milano non deve insabbiare le ferite aperte, le deve mettere in evidenza, perchè solo così, partendo dalla disperazione e dalla rabbia di chi ha avuto il coraggio di abbandonare i privilegi e di ribellarsi, si ribadisce l'impegno per costruire una società e una cultura della solidarietà alternativa al modello culturale della mafia, dell'egoismo e dell'affarismo. La città di Milano glielo deve quest'albero a Lea, ma lo deve ancor più a Denise, la figlia ventenne che ha testimoniato al processo permettendo la condanna dei sei assassini. Denise ha diritto di avere un luogo dove ricordare s”ua mamma che non ha potuto avere né sepoltura né un degno funerale. Certo Denise per molto tempo non potrà recarsi a parlare con la madre davanti a quest'albero, perchè ancora oggi deve vivere nascosta e protetta, ma sicuramente si sentirà aiutata e abbracciata da questa città. Ore 20: Spazio Ligera, v. Padova 133: “In nome della legge”. www.lascheggia.org sabato 24, ore 9,30: Società Umanitaria, v.S.Barnaba: Convegno “Bene Comune. Da principio filosofico ad azione politica”. Organizza Movimento Milano Civica. www.movimentomilanocivica.it ore 14.30: Arco della Pace: “Un albero per Lea” verrà piantato nel Parco Sempione, davanti alla biblioteca, dal Presidio Lea Garofalo. A seguire premiazione concorso fotografico “L’indifferenza” promosso dai giovani di Libera. pres.giovanimi@libera.it fb: Le radici del domani. Un albero per Lea domenica 25, ore 20,30: Conservatorio G. Verdi: “La musica sfida la ‘ndrangheta. Ricostruire armonie distrutte per ridare corpo a Lea”. Ingresso gratuito. Organizzano Conservatorio G. Verdi, Coordinamento Scuole e Scuola Caponnetto.


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Movimenti

In rete, e per le strade Un anno coi nuovi giornalisti Un giornale di giovani, una rete di testate di base in tutta Italia, e quattro giorni per discuterne tutti insieme. Dove? A Bologna, dal 27 novembre di Redazione di DIECIeVENTICINQUE www.diecieventicinque.it

“DIECIeVENTICINQUE” nasce dalla necessità di fare un giornalismo diverso. Un giornalismo che sia una missione e un’eredità. Lo spirito che contraddistingue questo progetto è la volontà di costruire una palestra di idee che abbia come strumento principale l’informazione e come obiettivo ultimo l’informazione stessa. Il 31 marzo 1962 la parola mafia entra per la prima volta nelle case degli italiani attraverso la televisione. Per la prima volta i nomi di Riina, Liggio, Provenzano diventano nomi di cosa nostra, diventano un problema di tutti. Tutto questo grazie a Enzo Biagi.

Singolare che un giornalista bolognese si interessi così tanto di mafia in una terra, l'Emilia, che è così lontana dalla assolata Sicilia, dalla mafia siciliana. Invece Biagi, forse, aveva già capito quello che noi cinquant'anni dopo ci ritroviamo davanti ai nostri occhi. Enzo Biagi e Giuseppe Fava Noi di DIECIeVENTICINQUE abbiamo provato ad assorbire l'eredità lasciataci da Enzo Biagi. Come abbiamo provato a fare nostro l'insegnamento e la storia di Giuseppe Fava. Bologna come Palermo. Palermo come Bologna. Pezzi dello Stato che segnano la storia, negativamente, tra depistaggi, servizi segreti e piani oscuri. DIECIeVENTICINQUE sulle orme de “I Siciliani giovani”. Un popolo, un paese, da sud a nord che lotta insieme ricercando sempre la pubblica verità. Il Nord come il Sud. La mafia. Una. In tutta Italia. Siamo nati il 7 dicembre del 2011, pochi giorni prima dei nostri "Siciliani giovani", giorno dell’arresto di Michele Zagaria, ex primula rossa dei casalesi che comandava la rete degli affari relativi al cemento in Emilia-Romagna egemonizzando anche le varie 'ndrine locali presenti sul territorio. Nati in una data casuale e felice che segna in pieno il nostro cammino. RETE Antimafia e impegno civile a

Le iniziative L'ANTIMAFIA, LA SOCIETA', LA LIBERA INFORMAZIONE

dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Giacomo Di Girolamo, autore di “Cosa grigia”, redattore di "Siciliani giovani" Salvo Ognibene, redattore di "Siciliani giovani" Un pezzo di storia dell’editoria italiana - "DIECIeVENTICINQUE" d’inchiesta che prosegue in rete con altre 18 28 novembre ore 17,30 - Facoltà di Giurisprutestate di base, da Milano a Modica, da Napoli denza Via Zamboni 22 Sala Armi a Bologna, a Trapani, a Palermo per Antimafia al nord: facciamo rete raccontare un’Italia che vuole rinascere nel Giacomo Di Girolamo, giornalista segno della legalità. Gaetano Alessi, premio Fava Giovani 2011, 27 novembre ore 17 - Facoltà di Giurisprucoordinatore del Dossier Mafie in E.-R., denza ia Zamboni 22 Sala Armi Alessandro Gallo, ideatore del progetto “Vi I Siciliani giovani: un anno (più trenta) raccontiamo le mafie” di libertà Silvia Rigo, Rete NoName Prof.ssa Stefania Pellegrini, Docente di mafie Massimo Manzoli, Gruppo Zuccherificio e Antimafia, Sara Manisera, di Stampoantimafioso Riccardo Orioles, redattore dei "Siciliani" di Patrick Wild, Gruppo Antimafia Pio La Torre Giuseppe Fava e di "Siciliani giovani", Francesca Mastracci, Sui Generis Parma. Gerardo Bombonato,Presidente dell’Ordine

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Bologna. Qui giù al nord dove la mafia esiste e ancora non per tutti. Arriviamo da realtà diverse, regioni diverse, storie diverse, e focalizziamo i tanti aspetti che ci accomunano nel grande bacino che è Bologna. Bologna come centro culturale di dibattito socio-politico alimentato da studenti quali noi siamo. Vogliamo dare voce e diffondere notizie su uno snodo cruciale della nostra nazione che ancora oggi fatica nel rendersi conto che la mafia c'è, esiste anche qui. Una mafia di appalti e cemento, una mafia di soldi e non di lupare; silenzi e connivenze che rimbalzano sui muri delle imprese e non in casolari sperduti delle campagne corleonesi. Il nostro obiettivo è quello di informare o semplicemente offrire spunti di riflessione a chi ci legge, ma a sua volta chi ci legge può offrire suggerimenti collaborando con noi, o richiedendo di approfondire delle tematiche e analizzarle da un punto di vista diverso. Una realtà che possa giovare a tutti La nostra prima casa è ovviamente Bologna, la città che ci ha accolto nel nostro percorso universitario e di vita, e per questo vogliamo difenderla, aiutarla, creando una realtà che possa giovare a tutti: una realtà dove chiunque può inserirsi per dare il suo contributo. A seguire proiezione del documentario “Global Mafia” realizzato da Stampoantimafioso e Susp, regia di Dario Parazzoli. 29 novembre ore 17 - Facoltà di Giurisprudenza Via Zamboni 22 Sala Armi Stragi e mandanti. Sono veramente ignoti gli ispiratori dell’eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna? Claudio Nunziata e Libero Mancuso, magistrati che indagarono sulla strage di Bologna Roberto Scardova, giornalista 30 novembre ore 17,30 Leggere strutture Via Ferrarese 169/A “Bit coin, eBook e nuova editoria” Riccardo Orioles giornalista, Carlo Gubitosa giornalista freelance e direttore di Mamma! Alessandro Pecoraro, Caracò editore


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La nostra casa madre sono I Siciliani Giovani; un'altra casa è Telejato.

L’appoggio e il sostegno di professionisti come Riccardo Orioles e Pino Maniaci. Due uomini che nel loro piccolo hanno dato vita a un microcosmo incontaminato dai grandi interessi e dalla grande informazione (spesso più nociva che utile), con il solo scopo di fare vera informazione, di parlare con i lettori e i telespettatori senza mezzi termini, con la sola forza della verità che è l'arma più potente e dissacrante che possa esistere.

Radici “Un concetto etico del giornalismo” «Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo». Pippo Fava Lo spirito di un giornale, 11 ottobre 1981

Una lancetta sul 10, una sul 25 Una lancetta sul 10, una sul 25. La strage di Bologna del 2 Agosto 1980 è il punto d'inizio di un disegno che ci apprestiamo a compiere. Troppe lancette si sono fermate, troppe sono ancora ferme: un boato, un colpo di pistola, un esplosione. Luoghi, giorni, minuti che hanno segnato l'intera storia del nostro Paese. Le 17:58 di Capaci, le 16:58 di Via D'Amelio, Piazza Fontana, Portella della Ginestra, Piazza della Loggia. Siamo tutti ragazzi che non hanno vissuto quei momenti ma che sentono una responsabilità ed una memoria storica su quanto accaduto che non può e non deve essere dimenticata. E probabilmente siamo consapevoli che si tratta di una memoria volutamente e dolosamente, dimenticata: perché ricordare non può che far risalire a galla la verità e questa fa paura. La fobia per la verità L'Italia è un paese con la fobia per la verità e tenta in tutti i modi di ostacolarla perché è cruda, è violenta, è disumana. E in questo modo si ostacola anche chi, con quei pochi strumenti che ha a disposizione, tenta di imprimerla con l'inchiostro.

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Una giustizia che arranca ma riesce sempre ad avanzare, nella stanza della verità. "Si è costruita una verità non vera per una giustizia non giusta. E quando si è costretti ad aggiungere aggettivi alle parole verità e giustizia, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona". L'ingranaggio scricchiola, stride. Si sente che è arrugginito, e non si riesce a smuoverlo perché i pezzi non riescono a combaciare tra loro. Noi non abbiamo paura di rimettere in moto questo meccanismo. Siamo guidati dal trinomio indissolubile di verità, giustizia e libertà: se ne viene viene a mancare uno non si può parlare di democrazia. E l'Italia è una giovane democrazia, che noi di Dieci e Venticinque, vogliamo contribuire a maturare Militanti, non spettatori DIECIeVENTICINQUE è un simbolo, è un orologio interrotto con quelle ferme lancette che stiamo provando a rimettere in moto. Quell'orologio è l’immagine di una Storia, che ci fonde e che da nord a sud ci rende uguali, facendo rete. Fare rete, insieme, in questo cammino fatto di etica e verità così che quelle lancette possano ricominciare a girare. Vogliamo essere militanti, attori, non spettatori.


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Movimenti

Ricostruire l'antimafia Cinque punti per la dignità Il progetto promosso dal Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini di Valeria Grimaldi www.diecieventicinque.it Una proposta, cinque semplici punti, che potrebbe costituire un passo importante per abbattere la soffocante barriera della criminalità organizzata. Punto n. 1: Riforma dell’articolo 416ter per punire il reato e la pratica dello scambio del voto, non solo quando si riscontra una dazione di denaro in cambio del voto, bensì anche quando lo scambio avviene attraverso qualsiasi altro mezzo; Punto n. 2: mettere in atto le Convenzioni Internazionali in materia di lotta alla corruzione, se non approvate durante questa legislatura, ma soprattutto la confisca dei beni ai Corrotti, cos’ come disposto dalla Finanziaria 2007;

Punto n. 3: Miglioramenti effettivi nell’iter di confisca e riassegnazione dei beni confiscati alla Mafia, in modo da non dover attendere decine di anni prima di far ripartire un’impresa confiscata; Punto n. 4: Un’anagrafe dei beni confiscati che non si limiti a segnalare l’assegnazione dei beni o lo stato di questi, ma che dia conto del lavoro di chi ha in gestione questi beni pubblici. Punto n. 5: Sgravi fiscali per gli esercenti del settore della ristorazione che si impegnano a tenere una percentuale minima di prodotti (accuratamente certificati) provenienti dai terreni confiscati alle Mafie; con l’impegno di estendere i suddetti sgravi in futuro a tutti gli altri settori che si potranno avvalere, per lo svolgimento della propria attività economica, dei prodotti provenienti dai terreni e dalle imprese confiscate. Non un problema ma il problema La mafia non è UN problema dell'Italia, ma IL problema. Mafia culturale, come mentalità per cui ognuno guarda ai propri interessi senza allargare le prospettive al

bene comune; mafia politica, una classe dirigente totalmente soggiogata alle ruberie e ai tornaconti in barba al valore della trasparenza delle cariche pubbliche; ma soprattutto mafia economica, che si nutre della disoccupazione, delle imprese in difficoltà, della debolezza democratica, senza mai saziarsi. La criminalità organizzata fattura 140 miliardi di euro all'anno: è la prima azienda italiana! Se aggiungiamo le cifre dell'evasione fiscale (circa 50-60 miliardi) e della corruzione (circa 120 miliardi) capiamo bene come la ricchezza sommersa del nostro paese assomigli sempre più ad un pozzo senza fondo. Ci troviamo in un momento di grande domanda (e risposta) politica: ci sono state le elezioni in Sicilia, a fine mese si svolgeranno le primarie del centro sinistra, inizio dicembre quelle del centro destra, e in primavera tutti i cittadini italiani saranno chiamati al voto. Vi è capitato, almeno per caso, di leggere qualche proposta in merito alla questione fin qui descritta in seno ai grandi partiti e alle grandi personalità politiche? Nemmeno una riga. Una parola, o un accenno. Non facciamo come al solito il gesto di alzare le spalle come se non potessimo far nulla per, quantomeno, portare all'attenzione della nostra cavalleria politica il problema. Una proposta c'è, e parte dal basso. Quindi, che voi siate associazioni, singoli, gruppi di qualsiasi genere, per aderire al progetto basta inviare una mail a cinquepuntiantimafia@gmail.com. Noi Siciliani giovani siamo completamente partecipi di questa iniziativa, che crea democrazia dal basso, che crea rete di persone e gruppi, come noi. Perchè, come sottolineano i ragazzi del GAP, "la lotta alla criminalità organizzata non è solo possibile. È un dovere."

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Antimafia

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C'è troppa antimafia smantelliamo la “Catturandi” Palermo. I poliziotti denunciano: vogliono smantellare la punta di lancia della lotta contro i boss di Salvo Ognibene

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Squilla il telefono. Rispondiamo. “Smantellano la Catturandi, diamoci da fare. Ci sentiamo dopo”. Cerchiamo conferme su internet, facciamo qualche chiamata. Niente. Non esiste ancora un documento ufficiale in cui si possa leggere che il Dirigente della Mobile e il Questore di Palermo dispongono formalmente lo smantellamento della Squadra Catturandi. L’unica fonte finora è il comunicato della segreteria provinciale del SIAP. Poi ci sono gli articoli degli antimafiosi in rete, un accenno di Libero e un intervento di Rita Dalla Chiesa a Forum. Il resto, finora, tace. Un comunicato pesante quello del Siap. Parole dure. Ma non sembrano aver fatto scalpore.

“Ma è qui che bisogna risparmiare?” Motivazione ufficiale? Spending review. Risparmiare, tagliare, detto in italiano. Qualche mese fa erano in quaranta. Poi diciotto. Oggi sono appena dieci. Nessuno è stato cacciato, solo “destinato ad altri servizi”. Per le mafie, che riciclano e investono nei settori in crisi, la crisi economica è una pacchia. E a Roma cosa fanno? Tagliano i fondi all’antimafia. E in particolare alla Dia – la struttura voluta da Giovanni Falcone – e quindi alla Squadra Catturandi di Palermo, la punta della prima linea. Farebbero prima a chiuderla, a questo punto. La Catturandi di Palermo è l’ufficio pubblico con la più alta produttività del Paese. L’obiettivo? Arrestare i mafiosi. Provenzano, Lo Piccolo, Raccuglia, Matteo Messina Denaro. Sulla maggior parte di questi nomi c’è già una crocetta. In più, la missione civile – gli applausi che dopo ogni missione “vittoriosa” l’accolgono al ritorno in questura. Ma per la politica non è importante. E neppure per la stampa, a quanto pare. “Il sangue di troppi colleghi” “Abbiamo ancora vive le immagini festanti della parte sana della gioventù di Palermo adunatasi sotto la Squadra Mobile. Eravamo lì quando con cori da stadio i giovani, che credevano possibile e volevano una Palermo migliore, inneggiavano alla cattura dei Provenzano, dei Lo Piccolo, dei Raccuglia...Segno dei

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tempi che cambiavano, segno di un mondo in evoluzione di una Palermo ogni giorno più solare… E’ il segno che la mafia poteva essere sconfitta, che i suoi mostri sacri non erano intoccabili, che vincere era possibile, che IL SANGUE DEI TROPPI COLLEGHI CHE CI HANNO PRECEDUTO NON ERA STATO VERSATO INVANO. Sulle fredde scrivanie dei ragionieri delle ragioni dei conti e degli “straordinari” e delle “missioni” tutto ciò non é valso a nulla”. Questo dicono alla Catturandi. Fino questo momento, risposte non ne hanno avute. Dall'alto, nessuna risposta Qua c’è gente che ha dedicato la propria vita allo Stato, a un durissimo lavoro. Uomini e donne, persone coraggiose e sconosciute. Di loro conosciamo solo gli occhi. Occhi della Sicilia che lotta per cambiare. “Questa è una questione che riguarda i mezzi per la lotta alla mafia – dicono i poliziotti di base - Riguarda tutti i cittadini”. Dall’alto, nessuna risposta. Forse qua c’è troppa antimafia. Licenziamola.


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Inter viste/ Nino Di Matteo

“La trattativa ci fu e cominciò lo Stato” “Il contatto venne inizialmente cercato da esponenti delle Istituzioni” di Pino Finocchiaro

Nella memoria depositata il 5 novembre scorso – l’ultimo atto firmato dal procuratore aggiunto Antonio Ingoia prima di partire per il Guatemala – i pm spiegano che la “trattativa” non “è stata limitata a obiettivi tattici come la tregua per risparmiare gli uomini politici” o “l’allentamento del 41 bis” ma “un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere”. Una verità che emerge pian piano tra la neghittosità dei politici e la reticenza di chi si trincera dietro la ragion di Stato. Nino Di Matteo ne parla in esclusiva per i Siciliani giovani. “Non smetteremo mai di cercare”

Nino Di Matteo, sostituto procuratore della Dda di Palermo, è il componente più anziano tra quelli legati al pool che indaga sulla trattativa. Tocca a lui guidare l’accusa nel processo contro il generale Mori e nella richiesta di rinvio a giudizio per boss, carabinieri e politici coinvolti nella trattativa. Imputati e testimoni di quelle vicende ruotano attorno al sistema di poteri occulti che rendono potente, osservata e temuta la Mafia Grigia. Tra loro, un vero boss della cupola dei colletti bianchi come Rosario Cattafi, detentore dei più grigi tra i misteri d’Italia, legato da sempre agli ambienti più ombrosi dei Servizi e delle Trame Nera nel rapporto costante con i leader di Cosa Nostra. Alla sbarra ministri e generali accusati di aver stipulato un patto con Cosa Nostra.

- “L’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”. Scrivete nella memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio per minaccia a corpo dello Stato che vede imputati boss, uomini delle istituzioni ed esponenti della politica. Il riferimento è alla trattativa StatoMafia all’epoca delle stragi del ’92-’93. Perché, dopo vent’anni la verità fa ancora paura? "Tante volte mi sono chiesto, e continuo a farlo anche oggi, quali siano le reali motivazioni della manifesta ostilità nei confronti dell’ inchiesta sulla trattativa “Stato-Mafia”. E’ chiaro che la critica, quando proviene da chi conosce le carte ed articola in buona fede il suo ragionamento, è sempre legittima. Ritengo invece inaccettabili i ripetuti e violenti attacchi al nostro lavoro: quelli finalizzati a far credere che, la nostra, sia una inchie-

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sta “politica”, fondata su “ teoremi preconcetti”. L’ampiezza e la trasversalità dei settori del mondo politico e di quello dei “media” che spingono l’opinione pubblica in questa direzione, mi rende sempre più convinto che il nostro lavoro provoca il fastidio e le paure dei tanti che pensano che la ricerca della verità debba arrestarsi quando al suo orizzonte si profila uno scenario scabroso: quello dei rapporti della Mafia con la Politica e le Istituzioni". - Quella memoria è l’ultimo atto firmato dal procuratore aggiunto Antonio Ingoia prima di collocarsi fuori ruolo per assumere un incarico direttivo in Guatemala per conto delle Nazioni Unite. Quanto mancherà l’apporto di Ingoia alla procura di Palermo? A fatti e non a parole "Il trasferimento, spero solo temporaneo, del collega Ingroia rappresenta per me, per i colleghi del “pool”, per l’intera Procura di Palermo, una grave perdita. Non solo per il venir meno della “memoria storica” che Antonio assicurava ma, fatto ancor più importante, per il modo in cui Ingroia ha sempre impostato la sua attività di magistrato inquirente. La professionalità, il coraggio, l’indipendenza da ogni altro potere (ufficiale od occulto), la capacità di saper dimostrare (con i fatti e non solo a parole) che la legge è uguale per tutti. La capacità e la volontà di rapportarsi con l’opinione pubblica per cercare di coinvolgerla nella condivisione della fondamentale importanza della legalità e della ricerca della verità".


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L'“improvvisa accelerazione” dell'uccisione di Borsellino

- Si imputa alla magistratura un ruolo sostitutivo nell’affrontare temi politici. A Taranto la salubrità ambientale col rischio di deindustrializzazione. All’Aquila la responsabilità di informare correttamente nel momento in cui emerge l’imminenza del rischio sismico. La corruzione negli appalti e nelle esportazioni che toccano vertici istituzionali come il Viminale, la Protezione Civile, Finmeccanica. Fermiamoci a questi esempi. Può accadere tutto questo a totale insaputa di una classe dirigente? La magistratura lasciata sola "Nella storia più recente del nostro Paese emerge una costante che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi venti anni. La politica, le pubbliche amministrazioni, gli ordini professionali, le diverse autorità di vigilanza hanno di fatto delegato esclusivamente alla magistratura il controllo di legalità. Salvo poi lamentarsi degli effetti di tale delega, accusando la magistratura di aver invaso campi che non le sono propri. Sono convinto che la realtà sia ben diversa; non è stata la Magistratura a muovere indebitamente passi in avanti; sono state le altre Istituzioni - e quelle politiche in primo luogo - a fare non uno ma cento “passi indietro”, preferendo non assumersi le rispettive responsabilità, lasciando prosperare l’illegalità fino ad una sua diffusione così generalizzata da costituire una grave forma di alterazione dell’equilibrio democratico delle nostre istituzioni".

- Già nel 2001, a proposito delle stragi Falcone e Borsellino, lei scriveva, “E’ importante conoscere e far conoscere, quello che è emerso nei dibattimenti sulle stragi. Lo è ancor di più in un momento come quello attuale, nel quale sull’argomento è calato un silenzio assoluto”. Qualcuno è cresciuto, ha fatto carriera grazie alla stretta osservanza di quel silenzio? Qualcuno dispiega ancora il proprio potere all’ombra di quel silenzio? "Ci sono ancora, per fortuna, magistrati che non considerano chiuso il “capitolo Stragi”. Ciò, nonostante in molti ( al di là delle parole che pronunciano in occasione degli anniversari) in realtà pensano che continuare ad indagare sui moventi, ancora nascosti, e sui mandanti occulti di quei delitti, costituisca una perdita di tempo ed uno spreco di risorse pubbliche. Noi ci ostineremo a cercare di far luce su ciò che accadde in quegli anni; lo faremo traendo spunto, tra l’altro, da ciò che è emerso dalle sentenze, alcune anche definitive, delle Corti di Assise che hanno condannato gli esecutori mafiosi di quelle stragi. Politici impauriti dall'omicidio Lima E’, ad esempio, in quelle sentenze che è consacrata la certezza processuale che l’uccisione di Borsellino sia stata “improvvisamente accelerata”, rispetto alla originaria programmazione dei capi di Cosa Nostra. E’ in quelle sentenze che viene affermato che la “Trattativa” Stato-Mafia ci fu e che il contatto venne inizialmente

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cercato proprio da esponenti delle Istituzioni, evidentemente impauriti dalla prima esplicazione (con l’omicidio Lima) della strategia stragista di Cosa Nostra". - Le chiedevo prima di una sua postfazione ad un libro di un collega. Ci sono stati giudici come il compianto Gabriele Chelazzi, lei tra i primi con Luca Tescaroli, autore di quel libro, “Perché fu ucciso Giovanni Falcone”, Alfonso Sabella… mi fermo qui con le citazioni. Siete stati tra i primi a non accontentarvi della verità formale, processuale. Vi siete posti il tema della “accelerazione” della strage Borsellino coincisa con l’abbandono della strage che aveva per obiettivo il ministro Calogero Mannino. E’ lì che avete cominciato ad avvertire sotto assedio le vostre toghe? S'illude chi spera che ci fermiamo "Ho già spiegato perché la partenza di Antonio Ingroia costituisce una grave perdita per tutto l’Ufficio. Chi pensa, magari illudendosi, che le indagini ed i processi sulla Trattativa subiranno uno stop o un rallentamento, però si sbaglia. Fin dall’inizio, con Ingroia, ho seguito e condotto ogni passo dell’inchiesta. Nel tempo, con l’innesto nel “pool” di Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, si è formato un gruppo di magistrati determinato a fare fino in fondo il proprio dovere, nonostante la precisa consapevolezza che numerosi ed insidiosi saranno gli ostacoli che continueranno ad essere frapposti alla ricerca della verità".


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Negli armadi del Belpaese

Depistaggi eccellenti da Mattei a Impastato Ha radici molto antiche, in Sicilia, l'omertà sui rapporti fra Stato e mafia di Rino Giacalone

Estate del 1950, cortile De Maria in via Mannone a Castelvetrano. Nella città dei campieri mafiosi Messina Denaro si compie il primo dei delitti del dopoguerra frutto delle commistioni tra Stato e mafia. Il bandito Giuliano che era diventato il pericolo numero uno da abbattere, sia per lo Stato che per la mafia compiacente con i politici, viene trovato morto, volto a terra, nello sterrato di questo cortile di proprietà dell’avv. De Maria. Ha la canottiera intrisa di sangue, ma a terra nemmeno una goccia del suo sangue. Ucciso, fu detto, dagli agenti di un gruppo speciale che lo braccavano. Così raccontarono per i cronisti che giunti da tutta Italia presidiarono la zona. Ucciso dai suoi compari si scoprì invece molto presto. Aspano Pisciotta, il suo braccio, destro lo uccise per poi lui venire ucciso con un caffè all’arsenico mentre era in carcere all’Ucciardone di Palermo. Un delitto che fece guadagnare potere alla mafia, che così più accumulava segreti, più era protagonista di commistioni, più si infiltrava nel tessuto sociale dell’isola, più riusciva ad arrivare dentro le banche, le istituzioni, l’industria. Una decina di anni dopo altro mistero, altro giallo. La bomba piazzata nell’aereo di Enrico Mattei il presidente dell’Eni.

Il velivolo decollò dalla Sicilia con dentro l’ordigno. Una morte che più che alla mafia serviva ai grandi potentati economici che gestivano il petrolio e dei quali Mattei era diventato il nemico pubblico numero uno. Erano gli anni in cui le rotte tra la Sicilia e i paesi Arabi sono parecchio frequentate, scambi anche e soprattutto illeciti, armi, droga. Anche dall’Est europeo si guarda alla Trinacria, le rotte commerciali sono le stesse sulle quali viaggia lo stupefacente. Le scopriranno negli anni ’80 due magistrati, una lavorava a Trento, Carlo Palermo, un altro a Trapani, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Montalto fu ucciso il 25 gennaio del 1983, Palermo sfuggì ad un agguato di mafia, una bomba al tritolo piazzata dentro un’auto a Pizzolungo, il 2 aprile 1985, morirono Barbara Rizzo Asta ed i suoi due figli, i gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe. Palermo e Montalto senza parlarsi si erano imbattuti in due nomi, Karl Khlofer e Nanai Crimi, altoatesino, narcotrafficante il primo, capo della mafia trapanese il secondo. Il ministro degli esteri di Cosa Nostra La mafia è in contatto con ambienti esteri; Francesco, il “patriarca” della mafia belicina, campiere delle più famose famiglie nobiliari e latifondiste di Trapani, non a caso è soprannominato il “ministro degli Esteri” proprio per i suoi contatti con i paesi nord Africani e Arabi. L’Italia teme l’influenza dei paesi arabi ma deve essere cauta, la mafia è lo strumento giusto per controllare senza tanta diplomazia. L’estrema destra è poi quella che con il terrorismo mediorientale va in un certo senso a braccetto, e in Sicilia ci sono i campi paramilitari per fare venire ad esercitare i terroristi italiani e stranieri. La mafia fa da garante, in cambio di droga, esplosivi e armi. In tutto questo in Si-

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cilia però si continua a morire. Cadono uomini dello Stato, vengono dilaniati da autobombe i capi mafia, vengono uccisi i giornalisti, quelli che indagano anche sulle trame nere come Spampinato, De Mauro, o sulle grandi connessioni mafiose come Mario Francese, Pippo Fava, per fare alcuni nomi. Avvengono sequestri anomali, come quello del latifondista Campisi, dell’esattore Luigi Corleo di Salemi, sequestro che dopo il dolore farà la fortuna dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, anche loro di Salemi, potenti uomini della Dc. Gladio e la Sicilia mafiosa In Sicilia dagli anni ’50 in poi, dalla morte del bandito Salvatore Giuliano, si è combattuta, e si combatte, una continua guerra, tanto che non a caso Paolo Borsellino diceva che la supremazia dello Stato, la democrazia e la libertà democratica, la si difendono facendo ogni giorno la guerra alla mafia in Sicilia. Uno Stato che però dentro aveva i suoi nemici, politici, imprenditori, deputati e ministri, assieme a vescovi e cardinali, erano quelli che nei salotti ospitavano i mafiosi, tanto rispettati e riveriti. In Sicilia si racconta che le cellule di Gladio arrivarono negli anni ’80. La struttura militare che doveva difendere l’Italia da una possibile invasione dell’Est europeo, in Sicilia, in un punto lontanissimo dalle frontiere dell’Est, aveva invece le sue basi già dagli anni settanta. Addirittura in provincia di Trapani di basi Gladio ne aveva ben quattro, una addirittura nella roccaforte comunista di Santa Ninfa, quando a comandare la casera dei carabinieri del paese belicino c’era un maresciallo tutto d’un pezzo, Giuliano Guazzelli, ammazzato poi poco prima delle stragi del 1992 ad Agrigento. Un delitto che fece pubblicamente inorridire il giudice Paolo Borsellino.


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Ma non è mafioso IL SINDACO CHE PARLA COME MESSINA DENARO E' stata rinviata a gennaio l'udienza conclusiva del procedimento civile intrapreso contro Rino Giacalone dall'ex sindaco di Trapani, avv. Girolamo Fazio; richiesto un risarcimento danni di almeno € 50.000; l'udienza si terrà avanti al Giudice dottor Campisi al IV piano del Tribunale del capoluogo. La difesa di Giacalone è affidata all'avvocato Giuseppe Gandolfo di foro di Marsala, che ha presentato una memoria documentata di 150 pagine. La vicenda si riferisce a un pezzo su Articolo 21 dove a proposito della cittadinanza onoraria al prefetto Sodano negata dal sindaco Fazio si evidenzia che a proposito di antimafia il sindaco usava termini utilizzati dal boss Matteo Messina Denaro. Naturalmente, si precisava, ciò non voleva dire che Fazio fosse un mafioso. Il sindaco si è ritenuto moralmente danneggiato. A distanza di tanti anni, ancor oggi Sodano attende la cittadinanza onoraria. Sodano è il prefetto che buttò fuori dalla stanza gli imprenditori che per ordine della mafia erano andati ad invitarlo a vendere la calcestruzzi Ericina confiscata alla mafia. Nel 2003 improvvisamente venne trasferito da Trapani. La vicenda del trasferimento fa parte dellle indagini sul sen.D'Alì (padre politico putativo di Fazio) senatore Pdl ed ex sottosegretario all'interno. Eattualmente sotto processo adesso per concorso esterno in associazione mafiosa.

*

Come se avesse compreso che quella non era una vendetta per le indagini commesse. Ma forse qualcos’altro. Era il periodo in cui il dialogo sottobanco con le istituzioni la mafia aveva decido di interromperlo. E mandava segnali. Segnali di morte. Nel trapanese Gladio aveva una pista dove faceva atterrare aerei super leggeri, la stessa pista, dalle parti di Castelluzzo, in un punto in cui i radar non vedono niente, che secondo i pentiti della mafia siculo americana era quella utilizzata per fare arrivare la droga da raffinare. E come ha raccontato il pentito di Caltanissetta Francesco Marino Mannoia in provincia di Trapani non solo c’erano le raffinerie stabilmente impiegate, come quella alcamese di contrada Virgini di Alcamo, scoperta il 30 aprile 1985 dalla Polizia e allora risultò essere la raffineria più grande d’Europa, ma c’erano anche le raffinerie mobili. Alcamo Marina, 26 gennaio 1976. La cronaca ufficiale ci consegna la storia di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che durante quella notte

vengono barbaramente uccisi, dagli armadi scompaiono divise e armi. Verranno scoperti l’indomani, la mattina del 27 gennaio di 26 anni addietro, da una pattuglia di Polizia che scorta il segretario nazionale dell’Msi, Giorgio Almirante. In un mese i carabinieri del colonnello Russo risolvono il caso.

Spunta anche un altro pentito, Vincenzo Calcara, era in carcere quando ci entrò Vesco, ha raccontato che Vesco fu ucciso da mafiosi in carcere per ordine di mafiosi liberi. Calcara ha raccontato che all'epoca era detenuto a San Giuliano ed ebbe ordine dal campobellese (avvocato prestato alla mafia, esperto di narcotraffico) Antonio Messina di lasciare da solo Vesco.

Le finte Brigate Rosse “Opera di servizi deviatt e di mafia” Viene cancellata l’ipotesi terroristica, poche ore dopo la scoperta dei carabinieri ammazzati viene diffuso un documento di rivendicazione da parte delle Brigate Rosse, nel giro di qualche ora altro volantino, le “vere” Brigate Rosse dicono che con la morte dei due carabinieri, “per i quali non avrebbero comunque versato lacrime”, non c’entrano nulla. Ad Alcamo nel frattempo è arrivata una squadra di carabinieri antiterrorismo. Sono loro gli autori della svolta. A uccidere i due carabinieri è stata una banda di balordi. Dapprima vengono fermati Vincenzo Vesco, una sorta di anarchico alcamese, questi confessa e fa i nomi dei complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli, minorenni, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà. Vesco si uccide durante il processo di primo grado, impiccandosi in cella. Ci riesce sebbene sia monco di una mano. Gli altri davanti ai giudici gridano la loro innocenza, “ci hanno estorto le confessioni” dicono. Non vengono creduti e però l’iter processuale è difficile, se per giungere a sentenze definitive bisognerà vedere lo svolgimento di ben nove dibattimenti. L’ultimo dei quali si chiude con le condanne, nel frattempo è morto anche Mandalà, Ferrantelli e Santangelo sono fuggiti in Brasile da dove l’Italia prova a farli estradare ma non ci riesce, l’unico a finire in cella è Giuseppe Gulotta. La confessione del brigadiere Un giorno arriva la confessione sofferta di un ex brigadiere dell’arma, il napoletano Renato Olino. Saltano fuori i verbali di due pentiti, Leonardo Messina e Peppe Ferro, di colpo lo scenario cambia. Non furono balordi ad uccidere quei carabinieri e altri carabinieri hanno fatto di tutto perché sembrasse che fossero loro.

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«Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie» ha detto Calcara. E l’alcamese Peppe Ferro: «Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... erano solamente delle vittime...pensavamo che la strage era opera di servizi deviati e mafia». Ce n'è di carta bollata per fare riaprire il caso. E questo accade. La Procura di Trapani riapre il fascicolo sulla strage di Alcamo Marina e ne apre un altro per le torture subite da Gulotta e compagni. Olino fa i nomi e marescialli dei carabinieri finiscono sotto inchiesta per le torture e le confessioni estorte. Vengon interocettati e in poche ore salta fuori la verità. La riapertura delle indagini Dopo la notifica degli avvisi di garanzia, si sentono i loro familiari commentare l’accaduto, e la Procura di Trapani (indagini coordinate dal pm Andrea Tarondo) apprende così che quello che accade nella sperduta caserma di Sirignano, nelle campagne tra Alcamo e Camporeale, era addirittura a conoscenza dei familiari dei carabinieri che fecero quegli interrogatori, facendo bere litri e litri di acqua e sale a quegli sventurati, o stimolando gli organi sessuali con le scariche elettriche dei telefoni da campo, ottennero le confessioni per chiudere, in fretta, quelle indagini sulla morte di Apuzzo e Falcetta. Sentiti in Procura a Trapani i carabinieri finiti sotto inchiesta si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da rischiare oramai avevano ben poco, i reati a loro contestati nel momento in cui sono stati scritti nel registro degli indagati erano da tempo oramai in prescrizione. Il silenzio la migliore cosa dunque per Elio Di Bona, 81 anni, Giuseppe Scibilia, 70, Giovanni Provenzano 83, Fiorino Pignatella 63.


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“Contatti fra terroristi di destra e mafiosi”

Facevano tutti parte di una squadra comandata dal colonnello Giuseppe Russo, l'ufficiale che indagando sugli appalti gestiti dalla mafia nel palermitano fu ucciso a Ficuzza, nel corleonese, dai sicari di Cosa Nostra, il 20 agosto del 1977. La pista Gladio Messinscena. Sceneggiate. Depistaggi. Confessioni estorte. Il 13 febbraio 2012 la Corte di Assise di Reggio Calabria nel processo di revisione ha cancellato la condanna all’ergastolo per Giuseppe Gulotta. Restituendogli l’incensuratezza. Perché in quel febbraio del 1976 accadde tutto questo? Perché un mese prima i carabinieri Falcetta e Apuzzo furono barbaramente ammazzati? La Procura di Trapani una pista la sta battendo. C’entra Gladio. I due carabinieri uccisi quel giorno di gennaio del 1976 avevano bloccato sulla strada di Alcamo Marina un furgone che non dovevano fermare, a bordo ci sarebbero state delle armi, e una "pattuglia" di Gladio. Gladio si era installata nel trapanese in quegli anni '70, quando Stato e Mafia si incontravano nelle zone grigie del paese, dove si nascondevano anche uomini dei servizi deviati e della massoneria. Il rapporto Peri C'è un rapporto del dicembre 1976 dell'allora capo della Squadra Mobile di Trapani Giuseppe Peri mandato a diverse Procura d'Italia ma rimasto "non trattato". Il vice questore Peri aveva raccolto elementi di contatti tra la mafia e settori dell'eversione di destra a proposito della strage della casermetta, e dei sequestri degli imprenditori e possidenti Campisi e Corleo. La traccia porta anche a possibili campi di addestramento di neo fascisti alle pendici della montagna di Erice.

La pista è quella che negli anni a seguire vede possibili contatti tra esponenti del terrorismo di destra e uomini della mafia, di mezzo i servizi segreti del generale Vito Miceli, esponente missino e trapanese di nascita: è il quadro emerso nelle riaperte indagini della Procura di Trapani su quello che accadde in quel 26 gennaio del 1976 è quello di un traffico di armi «compiuto da settori istituzionali deviati» (il virgolettato appartiene ad una carta della Procura di Trapani). E rispuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per queste pagine fatte sparire, o inghiottite negli archivi del segreto di Stato. I tentativi di golpe In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese, il no alla richiesta arrivò da un salotto in una casa nel corso principale di Alcamo, quella da dove i Rimi, potenti mafiosi, si affacciavano dal balcone ed era uno sventolare di coppole alzate al cielo in segno di saluto. Mentre il rapporto Peri finisce calpestato, pochi anni dopo a Cinisi uccidono il giornalista Peppino Impastato e le connessioni mafia e Stato tornano a farsi vedere. Anche se scoperte solo di recente ufficialmente, tutti sapevano la verità a Cinisi.

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Mafia e politica nelle cronache di Impastato. Ma si dirà che morì suicida facendosi saltare in aria sulle rotaie della ferrovia, dopo essersi legato e avere battuto la testa nelle rocce intorno, racconterà Salvo Vitale dai microfoni di Radio Aut quando spegnerà per sempre quei ripetitori prendendo amaramente atto che “la mafia la si cerca, la si vuole”, allora come oggi. Il rapporto sulla morte di Impastato viene scritto in 24 ore, dal capitano Subranni e dal sottufficiale Canale, due nomi ricorrenti negli anni a seguire nei fascicoli dei misteri siciliani. Impastato fu ammazzato per ordine di Tano Badalamenti ma non solo. Came per altri giornalisti, la mafia non fu la sola a colpire. La mafia del futuro Le cronache odierne puntano ancora la loro attenzione in tema di lotta alla mafia ad aspetti che appartengono al passato che restano ancora insoluti, non chiariti, penalmente nemmeno giudicati. Intanto la mafia del futuro, cresciuta su queste connessioni, che ha suoi uomini nelle istituzioni, nel Parlamento, nell’impresa, nelle banche, è già presente nel nostro territorio e si è consolidata. Niente più coppole e lupare,ma grisaglie e valigette 24 ore. E i mafiosi, i sindaci che una volta negavano la mafia oggi davanti all’evidenza dell’esistenza di Cosa nostra, li chiamano “malandrini”. Bricconcelli che magari vanno mettendo cimici nelle auto di pm che indagano contro la “mafia bianca”, che vogliono fare trasferire prefetti e investigatori, e talvolta ci sono anche riusciti, che controllano casseforti e holding. Sullo sfondo di tutto questo Matteo Messina Denaro, “Diabolik” che sfugge alla cattura da 20 anni e bolla come Torquemada chi gli indaga contro e manda a dire che di lui ancora si sentirà parlare.


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accadrà ieri

REWIND

FORWARD accadde domani a cura di Francesco Feola

Don Rodrigo

“Occupiamo

Il 5 novembre il sindaco di Terno d’Isola, in provincia di Bergamo, si rifiuta di celebrare le nozze tra una cittadina italiana di origine russa e di un marocchino a cui era stato negato il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di droga. Il matrimonio sarà celebrato undici giorni più tardi davanti ad un’impiegata dell’ufficio anagrafe.

Il 17 con un’occupazione simbolica un centinaio di persone riaprono a Roma l’ex Istituto Angelo Mai. Occupato la prima volta nel 2004 da trenta famiglie, l’edificio era stato sgomberato dopo due anni per essere ristrutturato e far posto a una scuola. A sei anni di distanza, però, dei lavori non c’è alcuna traccia.

ORA E' LEGHISTA

PER RIAPRIRE”

Operata E LICENZIATA

Il Csm difende LA DONNA MAROCCHINA

Il 7 viene riassunta una donna marocchina, addetta alla registrazione delle udienze presso il tribunale di Torino, licenziata dopo essersi rifiutata di togliersi il velo in aula. Di fronte alla richiesta di un giudice, che le aveva chiesto di togliersi il velo, la donna aveva infatti preferito allontanarsi dall’aula. Interpellato successivamente dal presidente del tribunale, il Csm ha invece sancito il diritto delle donne di indossare il velo anche nelle aule dei tribunali.

Il 22 i mille dipendenti degli stabilimenti della Saeco di Gaggio Montano, in provincia di Bologna, scioperano per un’ora in segno di solidarietà con una collega, licenziata per aver superato il numero di giorni di malattia previsti dalla legge. La donna, in servizio da 24 anni presso la Saeco, si era dovuta infatti sottoporre ad un nuovo intervento a causa del rigetto dell’organo che le era stato trapiantato.

“Di chi è

IL MEDITERRANEO?” Dal 3 all’8 dicembre si terrà tra Napoli e Torino l’ottava edizione del FestivalStoria dal titolo: Mediterraneo. Mare nostrum? www.festivalstoria.it/festival/index.php?option=com_content&view=article&id=734:mediterraneo&catid=93&Itemid=125

“Where is

THE MASTER?”

Dal 10 al 16 al Teatro Valle occupato di Roma la compagnia Motus condurrà il terzo MucchioMistoWorkshop dal titolo Where is the master? www.teatrovalleoccupato.it/motus-where-isthe-master-mucchiomistoworkshop-dal-10al-16-dicebre-2012

In permesso PER RAPINA

Lo stesso giorno a Torino vengono arrestati due uomini accusati di aver rapinato tre banche e di aver tentato altri due colpi. Nei giorni delle rapine i due uomini, un operaio di 39 anni e un operatore sociale di 54, si erano assentati dal lavoro mettendosi in malattia o prendendo un permesso

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Cultura POPOLARE

Il 13 la Rete italiana di cultura popolare organizza la VI Giornata nazionale della cultura popolare. Sono previsti iniziative in tutta Italia. www.reteitalianaculturapopolare.org/it/-13-dicembre/583-13-dicembre-2012.html


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Inedito/ Maradona e il clan Giuliano

Quando Diego brindava coi camorristi La foto è saltata fuori dopo 26 anni dall' album segreto del clan. Nel calcio scommesse la cosca di Forcella aveva il suo business di Arnaldo Capezzuto www.ladomenicasettimanale.it

E' saltata fuori dopo 26 lunghi anni dall'oblio. Una foto che fa letteralmente accapponare la pelle. E' proprio un passato che non passa quello di Diego Armando Maradona, l'idolo del calcio mondiale, El pibe de oro, l'indimenticabile numero 10 del Napoli degli scudetti e delle coppe. L'asso argentino nell'immagine - è attorniato dal gotha del clan Giuliano. Questo scatto - fin ad ora ignoto - farebbe parte di un book di settanta foto, molte delle quali dedicate alle feste private, organizzate a Forcella, tra i padrini del clan e il fuoriclasse Diego Armando Maradona, sequestrate il 27 febbraio 1987, dalla Squadra mobile di Napoli, nel corso di un controllo nell’appartamento di Carmine Giuliano, 'o Lione all’epoca latitante. La cosca di Forcella fu il “socio di maggioranza” della Nf (nuova famiglia), un'alleanza che condusse una guerra spietata contro la Nco di Raffaele Cutolo disseminando le strade della città di morti ammazzati. I Giuliano a cavallo degli anni Ottanta e Novanta comandavano a Napoli come in provincia.

L'attività illegale più lucrosa della cosca era il calcio scommesse, il traffico di droga, il contrabbando senza dimenticare il lotto clandestino, la merce taroccata, il racket e l'usura. Il ricordo corre a quegli anni e di come il Napoli perse clamorosamente - contro tutti i pronostici - il suo secondo scudetto - dato già per vinto - e strappato “inspiegabilmente” dal modesto Milan di Arrigo Sacchi. Diego Armando Maradona era di casa al rione Forcella. Frequentava i Giuliano, era in rapporti con loro, riceveva favori, faceva favori. Una pagina giudiziaria che non è stata mai davvero approfondita fino in fondo. Li conosceva bene Impressiona la foto che pubblichiamo, altro che “cattive amicizie”. Partendo da destra dietro il Pibe de oro c'è Luigi Giuliano, cugino omonimo del boss Lovigino ma più noto per essere il padre di quel Salvatore, che il 27 marzo del 2004, uccise nel corso di un conflitto a fuoco la 14enne Annalisa Durante. Si vedono Carmine 'o Lione e Raffaele 'o Ziu Giuliano. Poi c'è un altro Luigi Giuliano detto Giggino 'a Zecchetella, figlio di Giuseppe (ammazzato in un agguato in vico Carbonari) e fratello di Pio Vittorio, padre di Lovigino e fratelli che costituirono l'architrave del clan. Infine c'è Enzo Guida, cognome altisonante e personaggio di spessore. Dalla foto - in modo postumo - si capisce che Diego conosceva bene i vertici del clan e li frequentava con disinvoltura e senza imbarazzo. La domanda è scontata: queste amicizie influirono, condizionarono sui risultati del Napoli di quegli anni? E Maradona cosa ricorda?

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LE “CATTIVE AMICIZIE” DI CANNAVARO, CAVEZZI, CARLOS, BALOTELLI... Un'attrazione fatale quella dei boss con i campioni del calcio. Del resto si farebbero cose da pazzi per farsi immortalare in una foto con il proprio beniamino. Non è sempre tutt'oro quello che luccica. Fa davvero una certa impressione venire a sapere che gente osannata come Ezequiel Iván Lavezzi, Marek Hamsik, Fabio Cannavaro, Roberto Carlos, Mario Balotelli e altri per curiosità, per superficialità, per casualità vengono a contatto con padrini, affiliati, latitanti, pregiudicati. Insomma ormai non ci si meraviglia più di nulla se escono fuori scatti compromettenti e storie che fanno davvero accapponare la pelle. Diego Armando Maradona ha fatto scuola. Dopo di lui, gli altri. Chi ha vissuto e visto da vicino le frequentazione de El Pibe de oro negli anni del suo interregno a Napoli adesso non si meraviglia più di nulla. Se il calciatore Hamsik è ritratto in un ristorante napoletano accanto al boss scissionista Domenico Pagano appare quasi come una fatto normale. Si sa poi a Napoli c'è la camorra e bisogna pur conviverci. E' la giustificazione che all'occorrenza si tira fuori dal cassetto delle scemenze per autoassolversi. Non fa notizia neppure se nel corso di una perquisizione in un covo di Scampia gli investigatori trovano un paio di foto fatte in Spagna dove sono ritratti il campione del mondo Fabio Cannavaro con un malavitoso e il calciatore Roberto Carlos con un personaggio di rango della camorra quando entrambi i campioni militavano nel Real Madrid.


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L'obiezione è immediata: anche i camorristi sono dei tifosi. Nulla da eccepire. Ma ciò che inquieta è l'attrazione fatale tra mondi solo apparentemente distanti.

Una prova è lo strano tour di Mario Balotelli nelle Vele di Scampìa con annesso incontro con i capi-piazza e sguardo alla mercanzia.

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Non colpisce neppure l'ex fuoriclasse del Napoli Lavezzi che durante un interrogatorio attinente il processo sul riciclaggio ammette di conoscere il latitante Antonio Lo Russo, figlio dell'ex boss e adesso collaboratore di giustizia Antonio O' capitone. Anzi si scopre che i due si frequentavano assiduamente. “Non sapevo che fosse un camorrista. Veniva da me perchè sapevo essere un tifoso ultrà del Napoli. Con Antonio Lo Russo giocavo spesso con la play station”. Verità parziali. A volte agganciare ultrà estremisti e personaggi contigui alla camorra, serve agli stessi calciatori per giocare con minore pressione. A volte poi possono tornare utile certe frequentazioni ad esempio quando bisogna andare a ridiscutere i contratti con la società.


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Libertà di stampa

Storie di “giornaliste-giornaliste” Sono donne e giornaliste, minacciate da mafiosi e corrotti. E molto spesso sono madri, figlie, sorelle di Norma Ferrara

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In un paese in cui la libertà di informazione è soffocata dall'uso strumentale delle querele ma anche dalle minacce dirette, fisiche, sono circa 1200 i giornalisti minacciati in Italia in sei anni. Spesso accade nelle periferie delle nostre città, spesso accade a donne. Sono il sedici per cento quelle che nell'ultimo anno hanno subito intimidazioni. Giornaliste come Ester Castano, giovanissima cronista della testata “Alto Milanese”. Scriveva delle frequentazioni pericolose del sindaco di Sedriano, periferia dell'hitherland milanese in cui una «colata di cemento ha sostituito il verde e cambiato il paesaggio».

«Nel 2011 decisi di approfondire la situazione in cui versava il territorio – racconta - scrissi dei collegamenti fra 'ndrangheta e l'amministrazione comunale questo mi costò non solo una querela ma anche molti colloqui nella caserma dei carabinieri, sino all'inattesa aggressione da parte di un assessore donna». Cercano di metterla in un angolo, di intimorirla, Ester. E' giovane ed è sola. Ma in quei mesi conosce Alberto Spampinato, il lavoro di “Ossigeno” le indagini della magistratura fanno il resto. Il sindaco finisce in manette e oggi la giovane cronista milanese può raccontare questa storia. Questa storia non è finita. Contro Ester in quel territorio c'è ancora una «campagna diffamatoria». «Questo accade per i miei articoli. E non è facile reagire. Ho molti punti a mio svantaggio - conclude. Sono donna, sono giovane e sono precaria». “Sfondarono la parete di una stanza” Dalle periferie di grandi città del Nord in cui ancora il fronte negazionista sull'esistenza delle mafie è forte, alle periferie del Paese, al Sud. Qui Marilù Mastrogiovanni giornalista nella provincia di Lecce ha fondato un giornale “Il Tacco d'Italia”. Dopo un percorso di studi al nord Marilù sceglie di tornare nella sua terra. «Quello che posso dire dall'esperienza di giornalismo che cerchiamo di

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praticare nel giornale è che quello che chiamano “grande giornalismo” c'è anche nei piccoli giornali, perché c'è un solo modo di fare questo mestiere: farlo bene». Marilù e i suoi colleghi non son rimasti a guardare quando sono arrivate le minacce hanno cercato la forza nei loro lettori. «Un giorno sfondarono la parete di una stanza per rubare computer, potevano forzare la serratura ma preferirono darci un segnale. Così abbiamo cominciato ad “educare” i lettori. Al fianco di ogni nostra inchiesta pubblicavamo le fonti. Facevamo capire loro che dietro quello che leggevano c'erano prove, documenti, ricerca, studio e fatica». Le minacce ai familiari Marilù, molto più di una direttrice, ha studiato il fenomeno, ha provato a pensare ad una via d'uscita. «Così abbiamo ricostruito il senso complessivo delle notizie, ricordando il valore sociale di questo lavoro - conclude». Anche per Marilù le minacce della mafia pugliese, imprenditrice e con molti colletti bianchi a disposizione, continuano. E spesso sono rivolte ai familiari. Marilù è una madre e aggiunge: «In tanti mi hanno detto di occuparmi dei miei figli ma io credo che un Paese in cui una giornalista debba scegliere fra questo lavoro e la famiglia non è un Paese a democrazia compiuta».


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“Il velo squarciato”

Sempre al Sud, non lontano dalla Puglia, in Campania ad Aversa Marilena Natale, giornalista della Gazzetta di Caserta ha affrontato viso a viso la madre e la moglie degli Schiavone, i camorristi di Casal di Principe. Un giorno, quando voci di paese dicevano “vuole farla fuori” ha preso il coraggio in mano, ha bussato alla sua porta e l'ha affrontata senza intermediari. «Che vuoi farmi, sono qui. Sei tu che devi vergognarti di come hai cresciuto i tuoi figli». “Sei tu che devi vergognarti” Parole forti, urlate con orgoglio, davanti alla moglie del boss del paese. Anche questo è fare la giornalista ad Aversa. Qui la distanza fra le regole del mestiere e quello che accade fuori dalla porta della tua piccola redazione si annulla. Qui sei donna, madre, figlia, sorella. E sei anche quella che scrive sul giornale del paese che il Comune di Casal di Principe affidava gli appalti per i servizi sociali senza una vera gara per darli alle aziende dei clan. «Da noi abbiamo assistito al suicidio dello Stato – racconta Marilena - e mentre questo accadeva la camorra da agricola e' diventata imprenditoriale. Mi pongo come tramite a tutte quelle persone che hanno paura, mi sono messa a disposizione dei miei concittadini per dargli voce. A Casal di Principe ci sono tante persone per bene che la mattina si sve-

gliano per andare a fare onestamente il proprio lavoro. Prima quando chiedevano di me dicevo “vengo dalla terra di Gomorra” oggi rispondo “vengo dalle terre di Don Diana”». “Vengo dalle terre di don Diana” Marilena spiega la quotidianità di una terra soffocata dalla camorra e quella del diritto violato ad una informazione libera ma racconta soprattutto di una terra che vuole rinascere. Chiede che venga raccontato anche questo. Che l'informazione nazionale si occupi anche dei giovani che lavorano le terre confiscate ai boss, donne e uomini che operano nel sociale e di chi ha sfrattato boss e ha dato vita ad attività concrete economiche che restituiscono speranza a questa terra. Chiede che l'Italia cominci a credere a questo cambiamento che loro vedono crescere in Campania. Non sono solo le mafie a soffocare informazione, sono i gruppi di potere, le lobby, la politica. Mafia e lobby di potere Spesso anche esprimere una opinione, documentata, può costare minacce e intimidazioni. E' accaduto a Luisa Betti, blogger de “Il Manifesto” quando ha espresso critiche sul problema dell'affido dei minori. Si era occupata della Pas, questa sindrome di alienazione parentale che però non è riconosciuta dal Ministero della Sanità.

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«Mi sono solo limitata a analizzare le proposte legislative che giacevano in Parlamento e ho notato – racconta la giornalista – che tutte facevano riferimento a questa sindrome, e a perizie tecniche che la diagnosticavano. Ho scritto solo questo, mettendo in evidenza queste contraddizioni. Ho aperto il mio blog ad altre opinioni contrarie ma il risultato è stato una campagna diffamatoria on line, gestita sulla mia immagine e i miei articoli». “Perché non le raccontano i tg?” «La cosa importante è non stare in silenzio – spiega Betti - va raccontato quello che accade. Le intimidazioni hanno l'effetto di una violenza psicologica, di un condizionamento molto profondo». Al loro fianco e a quello dei loro colleghi dal 2009 l'Osservatorio Ossigeno guidato da Alberto Spampinato ma anche una vasta rete di associazioni impegnate per i diritti umani e per quelli delle donne, in particolare. Al convegno “Il velo squarciato” che si è tenuto a Montecitorio, in cui queste giornaliste hanno raccontato le loro storie, in tante hanno ribadito la necessità di non lasciare soli i giornalisti minacciati, di far conoscere queste storie, di tenere accese le luci su queste denunce. «Perchè – denuncia Alberto Spampinato in chiusura - le storie per cui rischiano queste giornaliste non le hanno raccontate i tg di prima serata?»


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Donne

La ragazza di Telejato Mentre a Letizia consegnano il premio Antonio Caponnetto, Telejato arriva a Palermo... di Michela Mancini

Letizia Maniaci quando entra in macchina accende la radio. Lo fa sempre: “non ci so stare senza”. Aveva sedici anni quando ha cominciato a lavorare a Telejato accanto a suo padre Pino. Adesso ne ha ventisette, ogni giorno esce di casa e si mette la telecamera sulle spalle. Lo fa da undici anni tutti i giorni. Non si è mai stancata, non ha mai avuto dubbi su quello che stava facendo, nemmeno quando ha visto suo padre su un letto d’ospedale dopo le botte dei mafiosi.

“Non ci scoraggiano, anzi. Mi fanno capire che quello che stiamo facendo è giusto. Mica gliela possiamo dare vinta”. E poi sorride. Letizia sorride sempre. Mica è un’eroina. Non le piace essere mitizzata, perché le sue sono scelte “normali”. Lei è una ragazza normale: stende i panni, aiuta la mamma Patrizia a cucinare, ha le sue amiche, è innamorata di Francesco, corre da una parte all’altra con le zeppe ai piedi. Giulia, Eleonora e Francesca – le altre ragazze di Telejuniorla – la guardavano cercando di capire come cavolo fa a fare tutte quelle cose sulle zeppe. “Ma non ti fanno male i piedi?”. E lei ridendo risponde: “Ci fai l’abitudine..”. “Ma non ti fanno male i piedi?” È una persona mite, la sua lucidità arriva dove gli eccessi di Pino non arriverebbero. Non ha mai detto di non aver paura, ma la paura – lo va ripetendo sempre – è una cosa normale se decidi di denunciare la mafia. Non dà lezioni di coraggio, a Letizia non piace la ribalta dell’antimafia. Le piace il suo lavoro.

Le mani con cui tiene la telecamera sembrano quelle di un chirurgo quando opera, quando cammina sa dove sta andando, ma di militare Letizia non ha proprio niente se non la resistenza. Quando Francesco entra in redazione, le si illuminano gli occhi. Gli vuole bene e non lo nasconde. Vorrebbe vederlo di più, vorrebbe aver più tempo libero per... Tv antimafia “Per andare dal parrucchiere per esempio. Ma non fa niente. C’è la televisione, bisogna fare i servizi. Dài, sali in macchina che dobbiamo andare a Cinisi.. e accendi la radio”. Il sei dicembre andrà a Pistoia a ritirare il premio nazionale per la cultura della legalità in memoria del giudice Antonio Caponnetto. Di premi e riconoscimenti Letizia ne ha avuti tanti e ne è fiera. Ma se squillasse il telefono e dovesse scappare a Palermo per un’emergenza, un momento dopo dei premi se ne sarebbe già dimenticata. Tv “a conduzione familiare” Telejato è un’emittente antimafia e questo ormai è noto ai più, quando scrivono che la televisione è a “conduzione familiare” tanti non immaginano cosa vuol dire. Familiare vuol dire il tavolo di casa Maniaci a cena, vuol dire Pino seduto sul divano che controlla la posta sull’ipad e Patrizia che apparecchia mentre Simona si trucca e Gianni torna con le bottiglie d’acqua appena riempite alla fontana di Partinico.

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Scheda TELEJATO SI ALLARGA Tj copre Palermo e arriverà anche a Messina Dopo Trapani, Palermo provincia e parte di Messina su canale 273 sarà possibile vedere Telejato anche a Palermo città e in provincia di Agrigento. Più volte hanno provato a spegnerla - l’ultima due mesi fa, a pochi giorni dall’inaugurazione - ma Pino Maniaci è uomo di parola aveva promesso: “ntro la fine dell’anno accenderemo Telejato a Palermo e in buona parte dell’isola”. E dal 25 novembre Telejato trasmette su tutta Palermo fino a coprire parte della provincia di Messina. Telejato c’è! Canale 273! Salvo Ognibene

“A conduzione familiare” sono gli occhi di Letizia che osservano Pino instancabilmente da dodici anni, lo osservano per imparare, per vedere come si fa questo mestiere così disgraziato: il giornalista di strada. Quando hanno bruciato le antenne Quando hanno bruciato le antenne di Telejato, il 29 settembre Pino e Patrizia erano disperati, 50 mila euro di attrezzature bruciate, un sogno finito. Pino piangeva, Patrizia pure. Negli occhi di Letizia c’era il vuoto. Guidava la macchina senza dire niente. Quando siamo arrivati in redazione erano le sette di sera. Fino alle due passate Letizia non si è fermata un momento. Nemmeno una lacrima. E chissà se lo poteva immaginare che il segnale di Telejato due mesi dopo sarebbe arrivato nelle case di Palermo. E dopo Palermo, Messina e poi ancora Trapani e Agrigento. Chissà come sorride pensando che la sua televisione potrebbe presto trasmettere in tutta la regione. Dovrà correre ancora più veloce Letizia con la telecamera in mano. Ma tanto le zeppe non se le toglie.

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Mafia in Umbria

L'assedio alla piccola regione Non esiste forse in Italia una terra più pacifica dell'Umbria. Ma con gli appalti del dopo-terremoto, i soldi sporchi sono arrivati anche qui di Ilaria Raffaele

1 luglio 2011. I finanzieri arrivano nel borgo di Giove di Valtopina, in provincia di Perugia, e lo trovano completamente disabitato. Lo è da quattordici anni, da quando il terremoto del 26 settembre 1997 ha fatto riversare in strada i suoi 1.200 abitanti, impauriti da una scossa di magnitudo 5.6 della scala Richter. Nove ore dopo ne sarebbe arrivata un'altra di magnitudo superiore, e con lei l'inizio del dramma di oltre 20mila persone nell'area al confine tra l'Umbria e le Marche. Il 1 luglio le fiamme gialle si trovano a Giove con la disposizione di sequestro firmata dal giudice della procura di Perugia, Claudia Matteini.

Falso in atto pubblico, truffa allo Stato, frode in pubbliche forniture e violazione delle normative sull’edificazione in zona sismica: queste le accuse che la procura muove all’ingegner Carlo Guidetti, direttore del cantiere, e ad Adriano Moschini, legale rappresentante della ditta Novatecno S.r.l. che gestiva i lavori. I periti, nominati dal Tribunale di Perugia per verificare se fossero stati rispettati gli standard di sicurezza, si trovano davanti a un fatto eloquente: le mura delle 55 abitazioni del borgo si sbriciolano nelle mani. Questa è l’unica indagine giudiziaria aperta in quindici anni sulla ricostruzione dopo il terremoto del 1997. A parte il caso di Giove, il "modello umbro" è riconosciuto come di successo. I problemi, però, non mancano neanche qui. Per concludere il recupero post sisma sarebbero stati necessari 8.5 miliardi di euro, ma ne sono stati finanziati soltanto 5.3 (il 63%). Il terremoto del '97 La storia del terremoto del 1997, inoltre, non è solo un racconto di sfollati, fondi carenti, ferite fisiche e psichiche, ma si intreccia anche con quello delle prime infiltrazioni mafiose in regione. L’avvocato Marco Angelini è esperto di legislazione antimafia e ha collaborato con la Commissione istituita dalla Regione per studiare il fenomeno criminale in Umbria: «Si ritiene, attraverso alcuni elementi sintomatici, che nel 1997-98 la criminalità organizzata abbia prestato particolare attenzione all’Umbria, perché sono arrivati tanti soldi per la ricostruzio-

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ne e dove ci sono tante ricchezze arriva anche la mafia. Ci sono state indagini che hanno cercato di individuare se negli appalti di piccole realtà come i Comuni umbri ci fossero irregolarità, ma non hanno dato elementi univoci. C’è chiaramente la sensazione che questa presenza ci fosse attraverso delle ditte con prestanome, specie provenienti dal sud, che avevano dei contatti con la criminalità meridionale». Chi partecipava agli appalti I numeri forniti dall’Osservatorio sulla ricostruzione della Regione Umbria danno il quadro completo delle imprese che hanno partecipato agli appalti. I dati dimostrano che il 70% dei lavori furono affidati a imprese umbre. Per un altro 13% se li sono aggiudicati imprese del centro Italia. Il 10% del totale delle ditte, invece, venivano dalla Campania, in particolare da Napoli e Caserta. Il giornalista Claudio Lattanzi ne scrive in “La mafia in Umbria, cronaca di un assedio”: «Non voglio criminalizzare le imprese edili meridionali. Ma già il caso dell’arresto di Ettore Tedesco indica che il business del terremoto ha richiamato l’attenzione delle cosche di tutta Italia. E il volume dei lavori necessari per la ricostruzione era di gran lunga sovradimensionato rispetto alle capacità del tessuto imprenditoriale regionale». Ettore Tedesco è un imprenditore edile di Enna, arrestato nel 2000 a Foligno perché, secondo la procura siciliana, sarebbe stato la “testa di ponte” della mafia in Umbria.


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“Le tracce del denaro si perdono nei subappalti”

Sette anni dopo, un altro arresto “eccellente” getta ombre inquietanti sul biennio della ricostruzione 1997-98: Francesco Ferranti, anche lui imprenditore edile siciliano, indicato come mafioso di Brancaccio, finisce dietro le sbarre perché prestanome affiliato alla famiglia mafiosa di Carini. Anche lui parla degli investimenti nel mercato edile umbro, e i sospetti di infiltrazioni mafiose nell’isola felice del centro Italia si rivelano realtà. Eppure gli appalti per la ricostruzione non sono stati vagliati da procedimenti giudiziari. È il segnale che tutto si è svolto in maniera regolare? Il procuratore di Terni, Fausto Cardella, ha anni di antimafia alle spalle. Ora si trova a fronteggiare una serie di tentativi di infiltrazione nella sua provincia, culminati con sequestri da milioni di euro. Il procuratore di Terni «Credo che le indagini siano state fatte con la maggiore scrupolosità possibile. Se non è emerso qualcosa vuol dire che non c'era o che proprio non era possibile scovarlo». I modi per arrivare a scoprire eventuali infiltrazioni sono due: incidentalmente, in un’altra inchiesta, o attraverso una denuncia. Sulla quale alcuni magistrati, a mezza voce e con la promessa di non pubblicare i loro nomi, dicono di non contare affatto. Lamentano di non disporre dei mezzi legislativi per fare indagini a monte, di avere le armi spuntate. E chiedono alla politica di intervenire. Secondo l’avvocato Angelini, però, la legislazione umbra «è all’avanguardia, per esempio sulla necessità di rendere

tracciabile, attraverso il codice del progetto, tutti i passaggi di denaro in un appalto. Una volta arrivati i soldi all’appaltatore, infatti, questo diventa responsabile dell’uso che ne fa, ma nei vari subappalti se ne perdono le tracce. È un provvedimento approvato prima in Umbria e poi dal Parlamento. Ancora manca dei regolamenti attuativi, però è il primo di una serie di passi che la Commissione vuole intraprendere». Come estendere l’obbligo dell’informativa antimafia anche agli appalti di piccola entità. Un albo dei piccoli appalti «Nella realtà umbra i grandi appalti sfuggono al controllo regionale, perché vengono fatti dalle Ferrovie dello Stato o dall'Anas e coinvolgono diverse regioni e altre istituzioni. Gli appalti gestiti dai Comuni sono di entità molto inferiore, e di conseguenza anche i controlli previsti dalla legge sono più bassi: per lavori da 50-60mila euro viene richiesta solo la certificazione antimafia, che hanno quasi tutti». Per ottenerla, infatti, basta non avere procedimenti penali. L'informativa antimafia, invece, prescinde dai precedenti giudiziari accertati e viene redatta da polizia, servizi segreti e prefettura per segnalare alla stazione appaltante pubblica se una ditta ha dei contatti con la criminalità organizzata. «L'informativa richiede tempi più lunghi e richiederla a tutte le imprese potrebbe bloccare lo sviluppo – continua Angelini – La soluzione potrebbe essere un albo di tutte le imprese che possono partecipare all'affidamento dei piccoli

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appalti, aperto annualmente con un bando di gara, con un lavoro di verifica preventivo e in tempi più lunghi rispetto al singolo appalto». La commissione antimafia Sono tante le iniziative che potrebbero essere prese, ma ci sono anche tanti ostacoli. Il primo, forse il più insidioso, è il blocco dei lavori della Commissione denunciato a marzo dal suo presidente, Paolo Brutti: « Adesso la Commissione si trova in una fase di stallo - aveva spiegato - Con l’uscita dell’opposizione da tutte le commissioni si è bloccato anche il nostro lavoro. Ci tengo a sottolineare che stavamo per passare dalla fase di studio a quella operativa, di contrasto. Mancava solo la relazione finale e la sua presentazione al pubblico. Ora non si sa quando potremo riprendere il lavoro. Dovrà avvenire in tempi brevi, o sarà il segnale che ancora troppi sottovalutano la mafia in Umbria. Eppure i dati mostrano una realtà completamente diversa. Vorrei lanciare un appello ai miei colleghi politici: facciamo ripartire la commissione antimafia. Non è questo il momento di fermarci». Tutti d’accordo, ma a parole. Al punto che anche l’ottimismo dell’avvocato Angelini, nonostante la ripresa dei lavori della commissione antimafia, lascia uno spiraglio di amarezza: «Forse c'è una difficoltà a capire quanto sia urgente. A parlarne in un salotto credo che nessuno si tirerebbe indietro, ma l'idea di investire da subito nella legalità per premiarla non riesce a diventare una priorità politica».


Kanjano e Gubitosa

LA MIA TERRA LA DIFENDO UN RAGAZZO, UNA PROTESTA, UNA SCELTA DI VITA Introduzione di Don Luigi Ciotti Prefazione di Riccardo Orioles Con un ricordo di Andrea Camilleri Formato 15x21, 80 pagine, b/n ISBN 9788897194033 12 euro

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a rabbia e la speranza di un ragazzo innamorato della sua terra. Un viaggio nel cuore della Sicilia per riscoprire la storia di Giuseppe, il ventenne di Campobello di Licata che ha affrontato “il pregiudicato Sgarbi” con una telecamera, due amici e un pacco di volantini.Ventidue anni, pastore

per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, cittadino indignato per passione. Il volto di Giuseppe Gatì è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva il Pool Antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Carlo Gubitosa e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di I Sicilianigiovani – pag. 32

questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione sterile, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita che ha molto da insegnarci.


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Hashish

Fra Catania e Ragusa Anche le droghe leggere possono contribuire (e in molte zone lo fanno) all'economia mafiosa. Per esempio di Simone Lo Presti

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Ragusa. Piove quel giovedì sera. E’ circa l’una di notte e io me sto in macchina, in una stradina buia, con Marco (nome di fantasia), a dire parole il cui significato intrinseco si discosta da quello apparente. “Dunque, a che ti servono questi cd?” mi domanda. Per “cd” si intende un quantitativo indefinito di marjuana o hashish che il mio amico sarebbe stato così gentile da procurarmi. “Servono ad una mia amica” gli rispondo, consapevole del fatto che a lui non interessa nulla di chi è l’effettivo consumatore. Anche perché quello che gli interessa è solo avere in tasca il quantitativo di denaro sufficiente per la dose che procura.

Scheda LE TARIFFE All'ingrosso: 3euro al grammo (per quantitativi inferiori a \100) 2 euro al grammo (per quantitativi superiori a 100 grammi) Al dettaglio: 10 euro al grammo

Il costo delle droghe leggere è molto variabile, soprattutto se consideriamo la possibilità di comprarla “all’ingrosso” o “al dettaglio”. La differenza sta nell’interlocutore con cui il compratore avrà a che fare: per la vendita “all’ingrosso” bisogna andare da chi materialmente la produce, una sorta di mercatino biologico: “dal produttore al consumatore”, quasi sempre tra le serre della provincia di Ragusa (prettamente Santa Croce Camerina e Vittoria)*; per la vendita “al dettaglio” basta incaricare l’amico-consumatore assiduo di andarla a prendere per te. Questa differenza si ripercuote anche, e soprattutto, sul prezzo. Si comprende bene come sia più economico comprare direttamente dal produttore, ma ciò comporterebbe dei rischi che nemmeno Marco vorrebbe correre. Allora si ricorre ad un altro tipo di compravendita: a Ragusa, da anni ormai, si è cominciato a coltivare in casa le piantine di Marjuana, in modo da tagliare i costi dell’acquisto “all’ingrosso” e praticare uno sconto sull’acquisto “al dettaglio”. Infatti, in questo modo, il prezzo non oltrepassa i €7 al grammo. Un modo pratico, veloce, sicuro e conveniente. Marco lo preferisce, anche perché poi può rivenderla agli amici come se l’avesse comprata “al dettaglio”, guadagnando €3 al grammo. “Non è sicuro comprare all’ingrosso perché non sai mai chi puoi trovare tra le serre, anche se conosci già da tempo lo spacciatore. Certo, così guadagno solo €3, ma a me bastano”. A chi non dovesse bastare questo guadagno c’è un’ulteriore possibilità: Catania. In realtà non ci è dato sapere, per il momento, quale accordo ci sarebbe sull’asse Catania-Ragusa e, di conseguenza, se esiste una rete tra Vittoria a Gela: una zona grigia di cui conosciamo

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l’esistenza, ma non possiamo conoscere con certezza le ragioni. Già, perché sarebbe più logico supporre che Vittoria sia egemone su tutti gli Iblei: ce lo fanno pensare la storia criminale della cittadina e la disponibilità di serre e spazi di campagna coltivabili. Recenti anche alcuni arresti, tra i quali quelli di Antonio Paravizzini, appartenente all’ex cosca dei Dominante-Carbonaro, e dei suoi collaboratori; gli arresti di alcuni extracomunitari; i sequestri di piantagioni tra Acate e Vittoria(RG). Catania: zona grigia Per quanto riguarda la vendita “al dettaglio” catanese, bisogna sapere che la città è suddivisa in quartieri, i quali hanno il loro venditore particolare, riconosciuto tramite svariate peculiarità: il colore della moto, il furgone, ecc. In questo modo chi ha intenzione di comprare “erba o fumo” (ergo “marjuana o hashish”) andrà a colpo sicuro: un’intesa di sguardi, due parole dette di fretta, uno scambio veloce e l’affare è concluso. “Io preferisco comunque prenderla a Ragusa, i catanesi cercano sempre di fotterti, qui invece sono tutti amici miei”. Marco è un po’ stanco, gli faccio un’ultima domanda: “Considerando che il traffico della droga è controllato da organizzazioni malavitose, non ti senti parte di loro, finanziandole?”. “Stai scherzando! Io non sono un mafioso, lo faccio per mantenermi qualche sfizio!”. (N.B. Non sempre il venditore all’ingrosso è colui che la produce nelle serre, ma spesso il carico approda sulle spiagge tra Casuzze e Punta Secca: frazioni marittime famose “Il Commissario Montalbano” della tv.


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Modica/ Consorzio “per lo sviluppo”

Uno stipendificio per parenti e amici Un processo fotografa una presunta storia di clientelismo e truffe ai danni dello Stato. Coinvolti politici di prim'ordine, tra cui l'ex braccio destro di Lombardo a Ragusa, Minardo di Daniela Sammito www.ilclandestino.info

Un consorzio per lo sviluppo del territorio pare fosse un vero e proprio “stipendificio” per i parenti e gli amici di alcuni politici ragusani. O almeno questo emerge dalle testimonianze del Processo Copai che vede indagato pure l'ex senatore e deputato regionale Mpa, Riccardo Minardo.

Il processo è entrato nel vivo in questi giorni e, nel corso di una delle prime udienze, sono stati sentiti i testimoni dell'accusa. È il colonnello Dieghi, dirigente del nucleo di polizia tributario di Ragusa fino al 2008, a rivelare la situazione rispondendo alle domande del pm Francesco Puleio. Dalle sue risposte emerge una descrizione del Copai come di un ente dalla struttura evidentemente clientelare, che non aveva dipendenti, ma collaboratori a progetto. “Stipendi a parenti di politici” Di questi, la maggioranza era costituita da persone vicine a Rosaria Suizzo – altra imputata e presidente del Copai - e all’assessore provinciale al Territorio e all’Ambiente, Giancarlo Floridia. Le indagini della polizia tributaria sul Copai partirono proprio da controlli bancari sui conti dello stesso Floridia, dai quali erano emersi versamenti considerevoli e ingiustificati a suo favore da parte del Copai. Stando al racconto del colonnello Dieghi, tra i collaboratori del Copai c’era

L'ex luogotenente di Raffaele Lombardo nella provincia iblea fu arrestato nell'aprile dello scorso anno dopo un'inchiesta della Guardia di Finanza su presunte distrazioni di fondi pubblici attraverso il Consorzio per la Promozione dell'Area Iblea (Copai). Tra i reati contestati rientrano – a vario titolo - la truffa aggravata ai danni della Comunità Europea, dello Stato e di altri enti pubblici, e quelli di malversazione, estorsione e riciclaggio.

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anche il figlio dell’assessore Floridia. La testimonianza di Dieghi viene messa a dura prova dalle domande di uno degli avvocati difensori, Enzo Trantino. Nel corso delle stesse indagini, si scoprirono fatture emesse da una società slovena con sede a Capo d'Ischia per una cifra considerevole di materiale informatico, che il Copai sembrava aver acquistato. Dall’esame delle visure camerali è emerso, però, che la ditta slovena non si occupava di hardware e software, ma di prodotti di falegnameria. E Il marito della Suizzo, Mario Barone, aveva imprese nello stesso settore del commercio del legno. Pare che il trasporto in Sicilia del presunto materiale informatico in realtà non sia mai avvenuto, perché le lettere di vettura sono risultate false. C'è il figlio di un ex assessore? Le rivelazioni di Dieghi vengono in parte confermate da quelle del maresciallo della Finanza Giaquinta. Nel Copai – secondo il militare -, i soldi non venivano usati solo per la realizzazione dei progetti, ma era una specie di "stipendificio". Serviva a pagare stipendi di figli, nipoti e parenti di politici. Il processo diretto a far luce sulle vicende della gestione del Copai sembra promettere, sin dal suo inizio, significativi colpi di scena, e c'è da aspettarsi che delle dichiarazioni dei due militari si tornerà a parlare presto. Intanto, Riccardo Minardo, nelle elezioni regionali, non ha ottenuto il risultato elettorale sperato ed è rimasto fuori dall'Ars. Forse scontando l'ombra del caso Copai e del conseguente arresto.


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Mafia e politica/ Santo Napoli

Nessuno vede, nessuno sa... Santo Napoli, a differenza di Rosario Cattafi (cui è legato) non è "il boss dei boss" ma semplicemente un personaggio "di rispetto", del messinese. Conosciuto da tutti. Eppure nessuna autorità s'era mai accorta di lui... di Beatrice Pieri La sua amicizia con Rosario Pio Cattafi , l’avvocato barcellonese arrestato nello scorso Luglio nell’operazione antimafia “Gotha 3” e sottoposto al regime del carcere duro ex 41 bis, implicato nella trattativa Stato-Mafia, risale, come dice lui, a quando erano ragazzi. Ma anche i suoi contatti e gli incontri con il Cattafi sono proseguiti fino a qualche mese fa. È tutto scritto in verbali delle forze dell’ordine fin dal 2000 con audizioni di un ex consigliere comunale di Milazzo (Messina) e di un ex Sindaco; è scritto in relazioni della polizia di Stato di Milazzo che lo definisce “anello politico di con-

giunzione fra il mondo politico e la criminalità organizzata”; è scritto nei verbali delle dichiarazioni del pentito Bisognano che lo definisce “persona di fiducia di Di Salvo Salvatore, Rao Giovanni e Merlino Antonino”, tutti pregiudicati per mafia. “Autorevole referente del clan” E' documentato dai ROS dei CC come i due” amici d’infanzia” si incontrassero circospetti e più volte,presso i locali di un noto negozio di abbigliamento del centro di Milazzo, per poi uscirne senza aver acquistato nulla; e perfino la Commissione Parlamentare Antimafia si è occupata di lui nella relazione di minoranza del 2006, definendolo “autorevole referente del clan barcellonese nella città di Milazzo” e controllore di “rilevanti attività economiche anche attraverso il figlio”.

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Queste e tante altre relazioni giacciono dal 2000 in chissà quali cassetti negli uffici giudiziari della provincia di Messina. Ma di chi stiamo parlando? Di tale Santo Napoli, detto Santino, professione, infermiere presso l’ospedale di Milazzo(ME): ma allora perché l’associazione Antimafie “Rita Atria” si è occupata di lui nelle scorse settimane? Perché Santo Napoli non è persona comune ma è consigliere comunale di Milazzo da più di 12 anni ininterrottamente e, per sovrapprezzo, nella attuale legislatura riveste la carica di vice presidente del consiglio comunale. Nel consiglio comunale E dove ha preso i dati l’associazione? Su internet: decine di blog e siti li pubblicano da anni; sono, quindi, pubblici e nessuno se ne occupa. Per questo l’associazione Antimafia “Rita Atria” ha chiesto al Prefetto di Messina e al Capo della Procura della Repubblica di Barcellona, il primo insediatosi da qualche giorno e il secondo operante dal 2008, di accertare se ci siano stati “eventuali condizionamenti della criminalità organizzata sulle attività politiche del consigliere Santo Napoli e, nello specifico, di verificare se il Consiglio Comunale di Milazzo è stato, o è tutt’ora, oggetto di tali condizionamenti”. Un dovere per una associazione antimafie; un dovere per gli organi dello Stato verificare.


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Mafia/ Il processo Gotha

I colonnelli di Provenzano La Cassazione conferma i due secoli di carcere per gli imputati di Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com

Due secoli di condanne per 18 tra gregari e colonnelli del boss Bernardo Provenzano, arrestati nel giugno 2006. E' questo il risultato raggiunto con la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato per la seconda volta le pene inflitte in secondo grado dai giudici d'Appello di Palermo. L'ultimo "sigillo"è stato dato lo scorso 12 novembre mentre i Supremi giudici si erano già pronunciati con importanti condanne circa un anno fa (il 12 ottobre 2011). Allora vennero condannati definitivamente boss come Nino Cinà (imputato che ha scelto il processo in rito ordinario e condannato a 16 anni), o al giovane capomafia Gianni Nicchi (13 anni) ma nella sentenza vennero anche annullate diverse condanne per rideterminazione delle pene. Un fatto che ha obbligato i magistrati di secondo grado a riconteggiare le stesse per poi ripresentarsi ancora una volta in Cassazione.

Ora, la conferma del verdetto deciso sulla base dei principi fissati dalla sentenza di annullamento con rinvio. A giudizio vi erano boss del calibro di Nino Rotolo, Francesco Bonura, Giuseppe Savoca Andrea Adamo, uomini d'onore che hanno fatto la storia di Cosa Nostra nei primi anni del nuovo millennio e non solo. A 26 anni e 8 mesi e' stato condannato Antonino Rotolo, a 14 anni e 8 mesi Andrea Adamo, a 23 anni Francesco Bonura, a 10 anni e 10 mesi Gaetano Badagliacca, a 10 anni 20 giorni Pietro Badagliacca, a 13 anni e 6 mesi Vincenzo Di Maio, a 18 anni Pietro Di Napoli, a 15 anni e 10 mesi Tommaso Inzerillo, a 11 anni e 9 mesi Alessandro Mannino, a 11 anni e 1 mese Giovanni Marciano', a 11 anni e 10 mesi Nunzio Milano, a 11 anni e 10 mesi Settimo Mineo, a 11 anni e 10 mesi Francesco Picone, a 11 anni e 6 mesi Salvatore Pispicia, a 12 anni e 8 mesi Gaetano Sansone, a 8 anni e 5 mesi Giovanni Nicoletti, a 5 anni Giuseppe Savoca e a 9 anni Carmelo Cancemi. Le indagini del dopo-Provenzano Con l'operazione “Gotha” del 20 giugno 2006 vennero decapitati i vertici delle famiglie mafiose di Pagliarelli, Uditore e San Lorenzo. Decisive, per le indagini, le microspie piazzate dalla Squadra mobile di Palermo in un capanno di lamiera dello stabile in cui il boss Nino

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Rotolo viveva agli arresti domiciliari. E' da queste intercettazioni che si sono rivelate, nei primi anni del millennio, profonde spaccature in seno a Cosa Nostra. A fomentare la divisione erano boss d'alto rango come Antonino Rotolo, Antonino Cinà (medico e capomafia di San Lorenzo) e Francesco Bonura (imprenditore edile e sottocapo della famiglia di Uditore). I tre formarono un triunvirato volto ad osteggiare l'ascesa di Salvatore Lo Piccolo e suo figlio Sandro (Tommaso Natale). Non a caso in palio tra i due schieramenti vi era anche la successione nella leadership mafiosa dopo l'arresto dell'ultimo padrino, Bernardo Provenzano (26 aprile 2006). Titoletto In quel box di lamiera i boss discutevano di affari, pianificavano le strategie criminali e sviluppavano i progetti per eliminare (anche fisicamente) il rivale emergente. A Rotolo, che mirava al controllo di Palermo grazie all'alleanza con i Savoca di Brancaccio, non piaceva l'aumento di potere dei boss di Tommaso Natale, i quali si stavano allargando anche verso San Lorenzo, così aveva sviluppato una serie di “trame” per convincere quanti più possibile (Provenzano compreso), della necessità di sbarazzarsi dei Lo Piccolo. Il pretesto venne “servito” quando “Totuccio” decise di farsi promotore del ritorno in Sicilia degli Inzerillo.


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Il problema degli “scappati” Con la conclusione della seconda guerra di mafia, dopo aver ucciso l'allora capo di Cosa Nostra Stefano Bontade ed il suo braccio destro Totuccio Inzerillo, e tutti quelli a loro erano fedeli, i corleonesi si insiediarono definitivamente al vertice della mafia siciliana. Riina, in primis, e Provenzano imposero nuove regole, riordinarono le famiglie e scoinvolsero anche le alleanze politiche. Sopravvissero in pochi a quella mattanza. Per aver salva la vita o si saliva sul carro dei vincitori, come i Lo Piccolo, o si fuggiva negli Stati Uniti. In nome degli affari In nome degli affari la Commissione di Cosa Nostra siciliana e le famiglie americane arrivarono ad un compromesso: agli “scappati”, come i membri della famiglia Inzerillo, sarebbe stata risparmiata la vita, a patto che, a prescindere dall'età e dal sesso, non “rimettessero più piede” a Palermo ed in provincia. A sigillare il patto era quindi stato nominato come garante Rosario Naimo, uomo d'onore di Tommaso Natale, molto vicino al boss d'oltreoceano “Pippo” Gambino. Alcune vicissitudini giudiziarie, come l'espulsione dagli USA di Rosario Inzerillo (dicembre 2004), fratello di Salvatore, Santo e Pietro Inzerillo, tutti uccisi dai corleonesi, resero necessario qualche cam-

bio di regole. Gli scappati potevano così rientrare in Italia a patto che informassero Naimo di ogni spostamento nel bel Paese. Oltre a Rosario Inzerillo erano già rientrati in Sicilia Giuseppe Inzerillo, figlio di Santo, e Francesco “u tratturi”, figlio di Pietro, e si stavano creando i presupposti per far tornare Giovanni Inzerillo, figlio di Salvatore. Provenzano neutrale Sulla questione era inevitabile avere un parere dal boss supremo, Bernardo Provenzano. Numerosi i pizzini, pieni di interrogativi su come scogliere il “nodo”, pervenuti all'allora capomafia. La “sentenza” degli anni Ottanta era ancora valida? Il padrino dava il proprio benestare al progetto dei Lo Piccolo? Non vi è reale chiarezza sulla risposta del boss. Il capo di Cosa Nostra da una parte richiamava al rispetto degli impegni del passato, dall'altra, nel tentativo di non far degenerare la situazione, nascondeva di sapere qualcosa in merito. Addirittura si disse favorevole, rispondendo ad una missiva di Nicola Mandalà che spiegava i motivi contingenti del ritorno in Sicilia degli Inzerillo, rimpatriati in Italia dalle autorità statunitensi. Provenzano, fino all'ultimo, aveva provato a placare gli umori tra le due correnti, ma invano, Così disse a Rotolo: “Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c'è più nessuno...a decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo”.

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Il boss di Pagliarelli, grande tragediatore, non ne voleva sapere. Era riuscito a portare dalla sua parte anche Francesco Bonura e Gaetano Sansone, inizialmente intenzionati a conoscere il parere di Provenzano. Agire drasticamente era per lui prioritario. Temeva la vendetta dei giovani Inzerillo che, a suo dire, riunitisi in aereporto “si stavano facendo la conta” degli oppositori, “quattro gatti” da eliminare. Spartiacque nella storia mafiosa L'operazione “Gotha” non si è rivelata inchiesta chiave solo per capire la composizione dei mandamenti e le rivoluzioni interne della Cosa Nostra di quegli anni. Gotha ha raccontato della nuova evoluzione negli affari della mafia siciliana nel campo della droga e delle estorsioni. Ha messo in evidenza l'evoluzione dei rapporti con la politica, approfittando della presenza di “figure amiche” come Giovanni Mercadante, medico ed ex deputato regionale di Forza Italia condannato in primo grado a 10 anni e otto mesi per associazione mafiosa. Soprattutto ha messo a fuoco i rapporti tra le famiglie siciliane e quelle statunitensi, confermati successivamente con l'operazione “Old Bridge”. Rapporti, da una parte e l'altra dell'oceano, mai interrotti e che ancora oggi appaiono forti, nonostante gli arresti eccellenti degli ultimi anni che hanno scosso, ma non abbattuto, la mafia siciliana.


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Messina

Li manda Capone Il padre. La madre. Il fratello e la cognata. Un po’ di cugine e di cugini. Gli amici e gli amici degli amici... di Antonio Mazzeo E la moglie del sindaco e quella del collega consigliere, e i congiunti e gli sbrigafaccende del barbuto senatore. Tutti funzionari, tutor e docenti dell’ennesimo ente di formazione che dispensa diplomi di operatore del benessere, socio-assistenziale e ai servizi per l’infanzia, segretario, programmatore informatico, estetista, massaggiatore non medicale, responsabile servizi di ristorazione, tecnico energie rinnovabili, assistente alla comunicazione, eccetera, eccetera, eccetera. Una fabbrica di sogni e forse pure di consensi elettorali. A capo lui, Carmelo “Melino” Capone, un democristiano cresciuto all’ombra dell’on. Giuseppe D’Andrea (instancabile animatore sino alla prematura scomparsa delle cooperative bianche locali), poi componente del Cda dell’istituzione dei servizi sociali del Comune di Messina, infine folgorato dai postfascisti di Alleanza nazionale di Barcellona, quelli alla corte del senatore Domenico “Mimmo” Nania, il senatore, e Giuseppe Buzzanca, il colonnello. Comanda Capone. Lui, Melino Capone, è (cioè era) il commissario in Sicilia di Ancol, l’associazione delle comunità di lavoro, onlus senza scopo di lucro con sede a Roma. Ma è (cioè era) anche l’assessore alle politiche del lavoro e alla mobilità urbana di Messina, nel centrodestra del sindaco Buzzanca, dimessosi alla vigilia delle regionali con la speranza, infranta, di confermare il proprio seggio all’ARS.

E di lavoro ne ha sicuramente prodotto tanto, non all’assessorato ovvio, ma nel “suo” ente di formazione professionale. Per amici e parenti. Con il veto degli organi dirigenti nazionali di Ancol (che lo avevano sfiduciato da tempo) e in violazione delle leggi regionali, come ritiene la Procura della Repubblica di Messina che accusa Capone di “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”. Dal 2006 al 2011 il commissario non più commissario avrebbe ottenuto illegittimamente 13 milioni e 630.000 euro di finanziamenti, il 70% dei quali erogati dal Fondo Sociale Europeo, il 21% dallo Stato e il 9% dalla Regione Siciliana. Quasi quattordici milioni Da quanto accertato dagli inquirenti, Carmelo Capone ha formalmente ricoperto l’incarico di commissario Ancol solo sino al 2005; ciononostante negli anni a seguire ha continuato a presentare richieste di finanziamento dei suoi progetti formativi, puntualmente riconosciute dalla Regione. Contestualmente ha istituito nuove sedi Ancol dislocate sul territorio regionale, come ad esempio quelle di Barcellona Pozzo di Gotto, Priolo Gargallo (Sr), Catania, Palermo e Mirabella Imbaccari (Ct) dove venivano avviati, realizzati e rendicontati progetti di formazione “prima ancora di ottenere il decreto di accreditamento” dalla Regione. Sempre secondo il Pm Camillo Salvo, sostituto procuratore presso il Tribunale di Messina, Carmelo Capone ha indicato il Comune di Viagrande, in provincia di Catania, “quale sede di svolgimento di un progetto formativo dal 27 febbraio al 23 dicembre 2008, senza che tale sede fosse stata accreditata dalla Regione Siciliana, ottenendo un finanziamento pari a 298.941 euro”. L’Ancol di Roma per porre fine all’azione arbitraria dell’assessore peloritano inviò una lettera alla Presidenza della Regio-

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ne siciliana spiegando che l’incarico gli era stato revocato e che in Sicilia non esistevano più sedi della onlus. Solo che la lettera, secondo gli inquirenti, sarebbe stata archiviata frettolosamente da Patrizia Di Marzo, funzionario direttivo della segreteria dell’Avvocato generale della Regione siciliana e da Anna Saffiotti, responsabile dell’Area Affari Generali della Regione. Da qui l’accusa di truffa pure per le due funzionarie. Come se non bastasse, in tutte le nuove sedi istituite dal commissario non commissario, furono assunte decine di persone, in parte stretti conoscenti e familiari del Capone o vicine alla sua corrente politicoelettorale, “in violazione dello Statuto dell’associazione che prevedeva espressamente per l’espletamento delle attività, l’impiego di personale esclusivamente su base volontaria” e della circolare dell’Assessorato del Lavoro e della Formazione Professionale che impone che il costo del personale non docente (area servizi amministrativi e tecnico logistici) non superi il 50% della spesa da sostenere per il personale dell’area servizi formativi e direttivi. Transiti miracolosi Sempre secondo la Procura peloritana, i congiunti, gli amici e gli amici degli amici assunti, venivano miracolosamente fatti transitare dai livelli bassi a quelli dirigenziali dell’ente professionale, ottenendo invidiabili incrementi salariali. E questo accadeva mentre esplodeva la mobilitazione e la protesta di un altro centinaio di dipendenti di Ancol Sicilia per il mancato pagamento degli stipendi nonostante dalla Regione Sicilia fossero affluite le risorse per i corsi effettuati. Tra il 2010 e il 2011 in particolare, da Messina a Catania, da Palermo a Barcellona Pozzo di Gotto, personale amministrativo e formatori denunciavano la mancata corresponsione sino a 12 mensilità.


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L’1 marzo del 2011 i lavoratori dell’ente furono pure ricevuti in delegazione dall’allora assessore regionale alla formazione Mario Centorrino, dal capo di Gabinetto e da una nutrita rappresentanza di deputati siciliani. E chi c’era a guidare e rappresentare le ragioni tradite dei dipendenti Ancol? Sì, lui, Carmelo “Melino” Capone, il commissario non più commissario, che come riportano le cronache, denunciò davanti al gotha dell’Assemblea regionale che “nonostante i rendiconti presentati e approvati e nonostante il verbale che riconosce la congruità della spesa di fatto le somme non vengono erogate”. Il giorno successivo fu il Prefetto di Messina a ricevere l’assessore Capone con familiari, amici e dipendenti al seguito, promettendo “un suo immediato intervento nei confronti del Presidente della Regione”. E il 3 marzo tutti ancora a Palermo a protestare davanti la sede dell’assessorato di Mario Centorrino, insieme ai dirigenti e ai lavoratori di altri enti siciliani moltiplicatori di utopie occupazionali e, soprattutto, di voti per le competizioni elettorali locali e nazionali. Gli assunti eccellenti Nel corso dell’inchiesta sulla presunta truffa del Mi manda Capone, la sezione PG della Guardia di finanza ha stilato l’elenco degli assunti “eccellenti”, indicandone con pignoleria il grado di parentela con il commissario-assessore e i suoi capi corrente e finanche l’entità degli stipendi conseguiti. Premettendo che nessuno dei dipendenti Ancol risulta tra gli indagati, in pole position viene segnalato il nome di Giuseppe Capone, padre di Carmelo “Melino”, cooptato a segretario amministrativo della sede “informale” di Ancol di Viagrande, con la retribuzione mensile di 3.500 euro. Segue nell’ordine la signora Rosaria La Scala, moglie di Giuseppe e madre di Carmelo Capone, “formatrice” presso la sede

di Messina con un mensile record di 5.515 euro. C’è poi Natale Capone, figlio di Giuseppe e fratello di Carmelo, assunto il 15 luglio 2005 in qualità di “operatore amministrativo” (4° livello), dall’1 gennaio 2007 promosso a “direttore” di 8° livello con lo stipendio di 1.770 euro. C'è anche la cognata... C’è anche la cognata Loredana Pagano, moglie e collega del fratello Natale, assunta dall’ente professionale il 30 settembre 2004 con contratto full time di collaboratrice amministrativa organizzativa (4° livello) e promossa prima a direttore di 8° livello l’11 ottobre 2004 e, il 6 maggio 2008, a direttore generale (9° livello), con uno stipendio mensile di 2.006 euro. Due cugini, Giovanna Capone e Carmelo Impallomeni, risultano entrambi “responsabili amministrativi” della sede di Messina e scattati d’imperio ancora una volta il 6 maggio 2008 dal 2° al 5° livello (1.407 euro al mese pro capite). Un terzo cugino, Paolo Impallomeni, è stato assunto invece con l’incarico di “operatore amministrativo” a Messina (1.404 euro). Finita la lista dei congiunti-dipendenti Ancol di Capone si apre quella delle amiche e conoscenti, prima fra tutte Daniela D’Urso, moglie dell’(ex) sindaco di Messina e deputato regionale del Polo-An, Giuseppe Buzzanca. La D’Urso fu assunta lo stesso giorno di Natale Capone con identica qualifica, ma poi fu promossa il 5 luglio 2007 a “direttore di sede” (7° livello) e un salario mensile di 1.699 euro. Poi c’è la sorella dello stesso politico, Matilde Buzzanca, chiamata originariamente come “formatrice” e “docente di estetica” presso la sede Ancol di Barcellona Pozzo di Gotto, beneficiaria il 6 maggio 2008 di un salto di livello (dal 2° al 5°) che gli ha consentito una retribuzione mensile di 1.417 euro. Tra i “formatori” nella città del Longano c’è anche il milazzese Domenico France-

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sco Calabrò, cugino del sen. Domenico Nania (stipendio di 1.406 euro al mese). E sempre in Ancol Barcellona, per anni diretta dall’ex segretario locale del Fronte della Gioventù Giuseppe Pantè, compaiono tre “operatori amministrativi” di peso: Lidia Cusumano, sorella di Maria Rosario Cusumano (esponente di punta della corrente destrorsa del duo Nania-Buzzanca, già assessora e presidente del Consiglio comunale di Milazzo e odierna assessora all’agricoltura della Provincia di Messina), retribuita al netto con 1.211 euro al mese; Antonio Aliberti, già consigliere comunale di An a Barcellona, in cassa integrazione dall’agosto 2011 e reintegrato a dicembre dello stesso anno (1.555 euro al mese); Rocco Lizio, fratello di Pio Lizio, altro ex consigliere comunale barcellonese in quota Nania-An (1.219 euro). “Rialzati Messina con Buzzanca...” In qualità di “tutor” nella sede di Ancol Barcellona ci sono poi Maria Elena Anastasi, moglie del commercialista ed ex assessore comunale An al commercio, industria ed artigianato, Filippo Sottile (1.672 euro) ed Antonella Sgrò, moglie di Santino Saraò, ex assessore An allo sport del Comune di Milazzo (1.467 euro). “Ausiliario servizi generali”, sempre nella sezione del Longano, l’ex segretario personale del senatore Nania, Tindaro Valenti, anch’egli promosso nella storica giornata del 6 maggio 2008 dal 1° al 2° livello e 1.211 euro in busta paga. Dulcis in fundo, tra i “formatori” nella sede di Messina compare il nome di Lucia Lania, moglie del consigliere comunale e capogruppo di Rialzati Messina con Buzzanca sindaco, Salvatore Ticonosco, anch’egli in cordata Polo-Nania-An, già operatore della cooperativa Azione Sociale della “rossa” Lega Coop. Per la Lania, però, la retribuzione in casa Ancol sa più di misero rimborso spese, appena 382 euro al mese.


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Sicilia

Business monnezza La gestione dei rifiuti in Sicilia è appaltata a ditte private che puntano al profitto e non alla qualità, privilegiando la discarica come principale forma di smaltimento di Carmelo Catania

Il piano di smaltimento rifiuti siciliano voluto nel 2003, da Totò Cuffaro – allora presidente della Regione – prevedeva l’alienazione della gestione rifiuti dai consigli comunali per conferirla agli Ambiti territoriali ottimali (Ato): ventisette in tutta la Sicilia. Lo scopo era che la gestione fosse pianificata non più Comune per Comune ma da un’unica struttura centrale, che ne raggruppasse un numero ragionevole, ottimizzando le risorse, i beni ed i mezzi al fine di ottenere una gestione economica, efficiente e trasparente dei rifiuti senza un aggravio dei costi per i cittadini. Ma è andata diversamente. La disastrosa gestione dei ventisette Ato siciliani ha lasciato una pesante eredità: un miliardo di debiti, non sono stati raggiunti gli obiettivi minimi di raccolta differenziata previsti dal decreto Ronchi e poi dal Piano regionale, sono aumentati a dismisura i costi del servizio e le fatture a carico degli utenti.

La Sicilia oggi detiene il non invidiabile record per la spesa media annua, per la produzione di rifiuti e per lo smaltimento indifferenziato in discarica. Spesa record, differenziata minima Uno studio realizzato dall’Osservatorio prezzi & tariffe di Cittadinanzattiva ha rivelato infatti che per ogni famiglia siciliana la spesa media annua del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani è di 294 euro, +7,3 per cento rispetto al 2007, di ben 48 euro superiore alla media nazionale (246). Caltanissetta (+40%), Trapani (+34,6%) e Ragusa (+31,8%). Siracusa (407€), Catania (396€) e Agrigento (338€) figurano tra le dieci città italiane dove il servizio costa di più. Secondo invece quanto riportato nel Rapporto Ispra 2012, le discariche siciliane hanno smaltito nel 2010, 2.439.000 di tonnellate, ovvero il 93 per cento dei rifiuti urbani prodotti. Il cronico ritardo siciliano Sconfortanti anche i dati sulla raccolta differenziata: 245.531,71 tonnellate pari al 9,4%. Cifre che confermano l’ormai cronico ritardo maturato nel corso degli anni. Considerato che l'indicatore presuntivo del prezzo regionale medio dello smaltimento dei rifiuti urbani in discarica, riportato nell'ultimo piano rifiuti (luglio 2012), oscilla tra un minimo di 61,60 e un massimo 92,40 euro a tonnellata (a cui vanno però aggiunti IVA, tributi speciali, maggiorazioni per la mancata raccolta differenziata), se ne deduce che smaltire in discarica, oltre ad avere un costo rilevante in termini di inquinamento comporta quindi anche un elevato costo economico.

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'Trasi munnizza e nesci oro E allora, ci si chiede, perché si continua a perseguire questa strada, nonostante le continue bocciature dell'Unione europea che con la direttiva 2008/98/CE ci impone di gestire i rifiuti secondo una precisa gerarchizzazione delle opzioni che vede solo all’ultimo posto lo smaltimento in discarica e l’incenerimento? La risposta è semplice, dietro ci sono interessi economici di chi, spesso in monopolio, gestisce le discariche, il cui business per i prossimi dieci anni potrebbe superare il miliardo e mezzo di euro. Una torta che verrebbe spartita per un quarto dal pubblico e per i restanti tre quarti da gruppi privati o misti pubblico-privati che tra i loro azionisti contano società che effettuano in appalto dai comuni o dagli Ato il servizio di igiene urbana. Intrecci di società Qualche esempio? Basta dare una scorsa agli assetti societari delle ditte che gestiscono i rifiuti nell'Isola. Nel territorio di Motta Sant'Anastasia nel catanese, la Oikos srl, è proprietaria della discarica di contrada Tiritì dove vengono smaltiti i rifiuti provenienti da tutta la Sicilia orientale e che, a breve, potrebbe diventare la seconda discarica più grande della Sicilia dopo quella di Siculiana, anche quella privata. Secondo quanto riportato nel nuovo piano delle discariche, verrà ampliata fino a una capacità di 2.538.576 metri cubi (per una previsione d’introiti superiore ai 200 milioni di euro). La società di Salvatore Proto e figli, che può vantare un giro d’affari annuo di 28 milioni di euro, fa parte del consorzio Simco che è anche una delle aziende che si occupa della raccolta dei rifiuti in alcuni centri etnei per conto della Simeto Ambiente.


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Sul punto il presidente della provincia di Catania aveva segnalato nel 2010 alla commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, presieduta dal deputato Gaetano Pecorella, un’anomalia relativa proprio a questo aspetto: «in sostanza, nella provincia alcuni operatori che si occupano della raccolta dei rifiuti gestiscono anche la discarica ed è evidente che non vi è alcun interesse da parte di questi operatori ad incentivare la raccolta differenziata». L'onnipresente Cerroni Nel consorzio Simco è presente anche la Gesenu, che ha quote (10%) in Tirrenoambiente, la società a capitale misto proprietaria della discarica di contrada Zuppà nel Comune di Mazzarrà Sant'Andrea, l’unica operativa nel territorio messinese (terza siciliana in ordine di grandezza). La Gesenu fa poi capo al Gruppo Sorain Cecchini (55%) del signore di Malagrotta Manlio Cerroni, attualmente indagato dalla procura di Roma per associazione a delinquere, estorsione, truffa, traffico illecito di rifiuti.

I soci privati, tra cui si contano anche società come Ederambiente (21%) ed Ecodeco (3%) – società facente parte del colosso dei multiservizi A2A – a vario titolo forniscono a Tirrenoambiente il know how necessario per la gestione delle discariche. Quello fornito da Ederambiente e Gesenu consiste nella raccolta e nel trasporto dei rifiuti, servizio che hanno svolto, guarda caso, proprio nell'ambito territoriale di riferimento degli impianti di contrada Zuppà, negli anni dal 2005 al 2010, l'Ato Me 2. In pratica, chi raccoglieva la spazzatura è socio della discarica in cui veniva smaltita: un intreccio che lascia spazio a conflitti d’interessi, secondo la definizione usata anche dalla commissione Pecorella. Tra gli intrecci a rischio conflitto d’interessi che ruotano intorno al business delle discariche, c’è anche quello che ha riguardato Greenambiente, la società che gestisce l’impianto di Augusta (965.626 metri cubi di capacità per 40 milioni di possibili introiti). Greenambiente ha un capitale di 50 mila euro detenuto in maggioranza dalla Cogeme di Rovato (Brescia) e per il 20 per cento dalla Linea Group Holding di

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Cremona, società che riunisce cinque municipalizzate lombarde con la stessa Cogeme a detenere la quota più alta. Fino al 2009, nella corporate governance di Greenambiente rientrava anche la siciliana Ekotrans, società di Priolo specializzata nel trasporto di rifiuti. Un conflitto d’interessi che è stato corretto con l’ingresso della Linea Group al posto dell’Ekotrans. L'Altecoen e Messinambiente Tornando alla relazione della commissione Pecorella, è emblematico il caso dell’inchiesta della Dda sui rapporti tra Messinambiente, società mista che gestisce il servizio a Messina e in alcuni centri della fascia jonica, e l’ennese Altecoen, una società che è stata capace di aggiudicarsi gli appalti relativi alla gestione dei rifiuti solidi urbani in differenti ambiti territoriali (Messina, Enna e Caltanissetta), nota per le infiltrazioni mafiose accertate nel corso di indagini giudiziarie e che era riuscita anche ad inserirsi, attraverso la copertura di altre società, nel grosso affare dei termovalorizzatori che avrebbero dovuto essere realizzati in Sicilia.


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È la stessa Altecoen che avrebbe dovuto costruire una discarica nell’ennese (la Regione aveva dato il via libera alla costruzione di un impianto di smaltimento all’Altecoen) dove oggi c’è una sola discarica, quella di Cozzo Vuturo, gestita da Sicilia Ambiente spa che non solo aveva ottenuto illegittimamente l’affidamento in house del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti, ma aveva acquisito un ramo di azienda dell’Altecoen, ossia della stessa ditta che si occupava all’epoca dell’acquisizione della raccolta rifiuti nel territorio. Discarica chiusa per i morosi Basta farsi due conti. In media nel messinese si pagano circa 100 euro a tonnellata e ne vengono smaltite (la maggior parte a Mazzarrà) 306.965 l'anno. E se si considera che il mancato raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata in Sicilia viene sanzionato con una maggiorazione di 5,20 euro nel costo di conferimento in discarica, come si può avere interesse a incentivarla se, visti i guadagni, si vuole conferire il più possibile in discarica? E così in pochi anni sono state sotterrate tonnellate e tonnellate di rifiuti, il cui costo di conferimento ha finito per mandare a gambe all’aria i bilanci degli Ato siciliani. Debiti questi che finiscono oggi per gravare sulle già disastrate casse dei comuni, perché la legge regionale 19/2005 ha disposto «l'obbligo di intervenire finanziariamente, per la quota di

loro competenza nell'Ambito Territoriale Ottimale,al fine di assicurare l'integrale copertura delle spese della gestione integrata dei rifiuti sussidiariamente alla propria società d'Ambito». Rimane un settore che tira, quello delle discariche. Che fa gola, anche se gli operatori si sono dovuti scontrare in questi anni con i ritardi nei pagamenti da parte degli Ato rifiuti. Tirrenoambiente vanterebbe un credito che supera i 70 milioni di euro. Tra gli enti che devono pagare le maggiori somme figurano il Comune di Messina, 12 milioni di euro, l'Ato Messina 2, 25 milioni, l'Ato Messina 3, 8 milioni, l'Ato Messina 1, 3 milioni. Ritardi che hanno portato anche alla minaccia di chiusura degli impianti. Come da prassi ormai da tempo consolidata, Tirrenoambiente periodicamente sbarra i cancelli della discarica di contrada Zuppà «a quei soggetti conferitori [i comuni] non in regola con i pagamenti e a quelli che non intendano provvedere al pagamento, anche in forma dilazionata, dei debiti pregressi contratti dall’ATO ME 2 SpA in liquidazione, per i conferimenti eseguiti nell’interesse dei Comuni soci» e le strade si riempiono di rifiuti. Le denunce dei sindaci Per molti dei sindaci dell'ambito barcellonese, «Chi non cede a questa sorta di ricatto e non paga è costretto a non poter scaricare i rifiuti» e hanno deciso di denunciare tutte le irregolarità riscontrate

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nella gestione del settore da parte della società mista. Il primo cittadino di Furnari, ravvisando nel comportamento della Tirrenoambiente risvolti penali, quali il reato di concussione e di interruzione di pubblico servizio si è rivolto al Prefetto e alla Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto. Inoltre, poiché secondo il primo cittadino del centro tirrenico, Tirrenoambiente imporrebbe la firma di un contratto per il pagamento del pregresso in cui è prevista una clausola con la quale i comuni, dopo aver pagato, si impegnerebbero a rinunciare a tutte le azioni da far valere in funzione degli importi e delle tariffe, è stato chiesto agli enti preposti, per avere «certezza» del prezzo di conferimento dei rifiuti nella discarica, di «conoscere il decreto regionale che ne ha determinato l’importo successivamente all’ampliamento della discarica» risalente al maggio 2009. Cambiare rotta I costi economici, sociali e ambientali dimostrano, dati alla mano, come non sia assolutamente conveniente la strada del conferimento in discarica mentre monta la protesta sul territorio, prendendo la forma dei comitati no-discariche, ad Assoro e a Scicli come a Misterbianco. Un ostacolo in più, per chi fra i miasmi dei rifiuti, ha fiutato il nuovo business del futuro.


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Sicilia/ Mafia, politica e affari

Falcone colonia di mafia? Di Pietro interroga Il leader di Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, in un’interrogazione parlamentare chiede l’accesso prefettizio per verificare se al Comune di Falcone ci siano pericoli di infiltrazione mafiosa

All’indomani della pubblicazione – nel mese di agosto – della nostra inchiesta intitolata “Falcone colonia di mafia tra Tindari e Barcellona” – alla quale il sindaco del piccolo centro del messinese invece di rispondere sui fatti denunciati ha preferito querelare il nostro Antonio Mazzeo, suscitando indignazione in tutto il Paese – l’eurodeputato Rita Borsellino definiva preoccupante la situazione di Falcone in cui «il rischio di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata è altissimo, come emerge da recenti indagini della magistratura». Preoccupazioni, quelle della Borsellino, condivise anche da Antonio Di Pietro, che il 16 novembre – citando anche alcuni passi della nostra inchiesta e del libro “La

collina della munnizza” del nostro redattore Carmelo Catania – ha presentato un’interrogazione al presidente del Consiglio dei Ministri Mario Monti, al ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri e al ministro della Giustizia Paola Severino, per chiedere «un accesso prefettizio presso il Comune di Falcone ed i suoi organi amministrativi per verificare se – a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – ricorrono pericoli di infiltrazione di tipo mafioso» nelle attività amministrative. «Appare grave – scrive Di Pietro nell’interrogazione – l’intreccio di responsabilità tra amministratori locali, funzionari e personaggi in odor di mafia che, predisponendo in apparente sinergia atti amministrativi, hanno concorso ad azionare un meccanismo che ha stravolto la buona amministrazione del Comune di Falcone e, contestualmente, consentito di liberare fiumi di denaro attraverso la realizzazione di opere non soggette ad alcun sistema di gara d’appalto e finanziabili con la pratica della discrezionalità». La Procura indaghi Il presidente dell’IdV chiede inoltre al governo «se la competente Procura della Repubblica abbia avviato sul punto le opportune indagini» e «quali provvedimenti e iniziative intenda mettere in atto per verificare e prevenire fenomeni d’infiltrazione di tipo mafioso nei servizi e nell’attività amministrativa del Comune di

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Falcone». L’ex pm di “Mani pulite” fa riferimento anche alle dichiarazioni dei pentiti Carmelo Bisognano, ex capo della cosca dei “Mazzarroti” e del suo uomo di fiducia Santo Gullo, che hanno tirato in ballo diversi appalti acquisiti dal Comune di Falcone e allegati negli atti della Dda relativi all’operazione “Gotha 3”. Il sindaco di Falcone Santi Cirella, da parte sua, si dichiara sereno affermando che tutti gli atti amministrativi sono stati compiuti nel rispetto della legalità. I precedenti Nel 2008, a seguito delle rivelazioni dell’indagine del Ros “Vivaio” – in cui era emerso il condizionamento mafioso nelle elezioni amministrative del 2007 nel Comune di Furnari – il senatore Lumia presentò un’interrogazione all’allora ministro Maroni chiedendo l’invio di una commissione prefettizia. L’esito degli accertamenti effettuati dalla commissione disposta dall’allora prefetto di Messina Alecci portò poi allo scioglimento degli organi amministrativi del Comune di Furnari nel novembre 2009. Sempre nella zona tirrenica, nel dicembre 2005, era stato sciolto il Comune di Terme Vigliatore, mentre a Barcellona Pozzo di Gotto – con quattro dirigenti ed impiegati comunali sospesi per un mese dalle funzioni – analogo provvedimento è stato chiesto inutilmente per ben due volte.


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Trapani

Identificare ed espellere Indagine medica su un centro per il concentramento (forzato) degli immigrati di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo

Dall’altro lato anche gli agenti di sorveglianza lamentano la precarietà della struttura: «c’è un’atmosfera insostenibile e noi siamo in pochi». Hanno anche scioperato i lavoratori di Milo, che non percepivano lo stipendio da due mesi. I Cie in Italia sono 15, e l’associazione Medici per i diritti umani (Medu) ha effettuato un monitoraggio completo di tutte le strutture. I risultati, come era prevedibile, non sono stati confortanti.

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“Una situazione esplosiva”

A Trapani il Cie di contrada Milo è una polveriera pronta ad esplodere. La struttura è nuova, operativa dal 2011, aperta in tutta fretta per affrontare l’emergenza Lampedusa. Casermoni nuovi di zecca in cui vengono confinati i migranti che arrivano nelle coste della Sicilia occidentale. A Lampedusa, Pantelleria, Mazara. Ha sostituito l’infernale centro di Kinisia. Ma le condizioni non sono cambiate. E ormai sono all’ordine del giorno i tentativi di fuga dal centro, gli atti di autolesionismo da parte dei rinchiusi, le rivolte. Al momento al Cie di Milo sono rinchiusi circa 130 migranti che non hanno certezze sul loro futuro, chiusi in un limbo in cui le pratiche per l’asilo politico vanno a passo di lumaca. In cui i diritti personali vengono garantiti a singhiozzo. «Non viene rispettata la nostra religione servendoci pasti a base di maiale», racconta un migrante. Un altro ragazzo tunisino qualche settimana fa ha provato la fuga, non ce l’ha fatta e ha riportato la frattura ai talloni. «Non potevo camminare, non potevo fare niente ed a Milo non c’erano i servizi sanitari necessari per la mia cura», ha raccontato. Ed ha aspettato un mese prima di essere trasferito in un altro centro d’accoglienza più adeguato.

Alberto Barbieri e Maria Rita Pega, che hanno effettuato il monitoraggio, non usano mezzi termini dicendo che a Trapani la situazione è esplosiva. «Da quello che abbiamo visto i Cie si dimostrano delle strutture inefficaci nel contrasto all’immigrazione irregolare e si rivelano tutti inadeguati a garantire i diritti fondamentali e la dignità umana dei trattenuti. Il Cie di Milo non fa eccezione su questo». Qui infatti la situazione è paradossale: «Abbiamo potuto toccare con mano l’insostenibilità di queste strutture nonostante Milo stato radicalmente ristrutturato lo scorso anno. E possiamo dire inoltre che la maggiore tensione l’abbiamo riscontrata nel Cie di Milo quando il giorno precedente al nostro arrivo c’è stata una fuga di 12 trattenuti e durante la nostra visita, durata circa tre ore, ci sono stati oltre 10 tentativi di fuga». “Questa struttura genera violenza” Cosa porta un migrante rinchiuso a Milo a tentare la fuga, o addirittura atti di autolesionismo? «La struttura di Milo, come le altre, racconta Barbieri - genera e alimenta violenza, esclusione e alienazione in quelle persone che non hanno commesso un reato ma che si trovano in una condizione di irregolarità si trovano a trascor-

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rere lì un periodo che può arrivare addirittura a 18 mesi». Tra l’altro non ci sono attività ricreative o servizi di questo tipo per cercare di affievolire un po’ quella condizione di esclusione nelle persone trattenute. «Non ci sono attività ricreative. Quindi il disagio delle persone, che sono a tutti gli effetti private della libertà personale, è fortissimo. Tra l’altro siamo estremamente preoccupati perché il nuovo ente gestore si è aggiudicata la gestione della struttura con un ribasso a base d’asta che ha portato il budget giornaliero per trattenuta a 27 euro rispetto ai 38 precedenti. Quindi i servizi alla persona risultano ulteriormente sacrificati e quindi contribuiscono a peggiorare le condizioni di vita». Le cose che voi avete denunciato visitando il Cie di Milo purtroppo non sono nuove perché sono state fatte anche delle interrogazioni parlamentari. E’ molto difficile però alta l’attenzione su questi temi. “Occorre una legge nuova” «Noi lavoriamo per cercare di farlo e di ottenere dei cambiamenti. In questo senso prima di visitare i Cie siciliani il mese scorso abbiamo visitato il Cie di Lamezia Terme in cui abbiamo riscontrato delle criticità gravissime e delle condizioni di vivibilità particolarmente sconcertanti. In questo caso fortunatamente il Cie di Lamezia è stato chiuso. Ci auguriamo che con la nuova legislatura ci sia un ripensamento globale sul testo unico sull’immigrazione e anche sui modi di gestire la questione dell’immigrazione irregolare. Il disagio non è solo nei trattenuti a Milo ma anche nelle forze di sicurezza. Ci sono state delle denunce dagli stessi sindacati della polizia sulle condizioni di sicurezza della struttura. Ma il problema innanzitutto è garantire i diritti fondamentali ai migranti».


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Movimenti/ “Libera junior”

L'antimafia ragazzina A Palermo è nata una nuova associazione antimafia. Sono in tanti, il più grande ha diciotto anni... di Libera junior

Ho 16 anni, non importa che io sia maschio o femmina. Non importa dove studio, se al classico o all’istituto d’arte. Non importa se vesto alla moda o acquisto ai banconi del mercatino rionale. Non importa se ho la media dell’otto a scuola o se spesso e volentieri studiare certi argomenti mi sembra una perdita di tempo. Non importa se il sabato vado in discoteca o se preferisco stare alla play station a giocare con l’ultimo videogioco uscito. Ciò che importa, ciò che è veramente importante è che sono stato derubato. Sono stato derubato del mio futuro, della possibilità di vivere libero nella mia terra. Sono stato derubato della possibilità di dire ai miei coetanei del nord, o a quelli inglesi o tedeschi, a testa alta, “io sono Siciliano”.

Perché quando dico “Sicilia” scatta in mente l’immediata associazione di idee: Sicilia = Mafia. Questa cosa mi fa incazzare. Perché io non sono mafioso e con la mafia non ci voglio avere niente a che fare. Perché le colpe dei padri devono ricadere sempre sui figli? Che colpa ne ho io se Toto Riina e Provenzano sono nati in Sicilia? Che colpa ne ho io se i politici corrotti quando vogliono avere centinaia di voti facili è ai siciliani che si rivolgono. Che colpa ne ho io se qui per avere lavoro lo devi chiedere per favore? “Io non voglio chiedere favori” Io non voglio chiedere favori a nessuno, io voglio studiare, conoscere, viaggiare, andare lontano e poi tornare qui, a casa mia, perché è qui che voglio lottare, amare, perdere forse e poi ricominciare. Qui. In Sicilia. Perché se è vero che non ho colpe di condividere la appartenenza a questa terra con nomi eccellenti mafiosi, è pure vero che sono orgoglioso dei natali che questa terra ha dato a tanti uomini, donne, poliziotti, magistrati, medici, semplici cittadini che sono morti liberi perché non volevano vivere schiavi. Pensavo di essere solo. Pensavo di essere pazzo. Poi ho conosciuto altri “diversi”, come me. Ci siamo guardati e ci siamo riconosciuti. Io mi sono unito al gruppo di Libera junior, perché non mi piace restare con le mani in mano ad

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aspettare che tutto cambi, perché in una terra come la Sicilia il cambiamento purtroppo è l'ultima cosa che ci possiamo aspettare, penso che combattere la mafia sia anche combattere contro noi stessi, perché purtroppo la mentalità mafiosa è insediata nella nostra cultura. Insieme urliamo per le strade che noi la mafia non la vogliamo, insieme nelle nostre scuole cerchiamo di contagiare i nostri coetanei meno sensibili perché in fondo la mafia non la vedi. Insieme incontriamo i nostri amici del nord e gli spieghiamo che il mafioso con la lupara e la coppola è un’invenzione di Marlon Brando, che non vedranno sulle nostre strade morti per terra ammazzati ma la mafia noi la respiriamo quando ci chiedono il voto per l’amico, quando negli uffici pubblici lavorano solo i raccomandati, quando nelle sedi di votazione ci sono i galoppini pronti a ricordarti solo guardandoti per chi devi votare, quando qualche partito in Sicilia vince 61 a zero. “Ma noi non ci facciamo fregare” Noi studiamo, la nostra mente è aperta e attenta e sappiamo come la mafia sia camaleontica. Prima erano zotici, oggi imprenditori e politici con le camicie inamidate. Ma noi non ci facciamo fregare, perché noi siamo insieme, insieme siamo una forza. Noi siamo Liberi. Noi siamo Libera junior.


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25 anni fa

Come nasce il maxiprocesso Tratto dalla grafic novel Antonino Caponnetto Non è finito tutto di Luca Salici e Luca Ferrara

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Foto di Domenico Pisciotta

L'immagine

La città Catania, sec. XXI

Ore 13.30, mi trovavo a passeggiare per la città sotto un cielo cupo, quando si mise a piovigginare. Accelerando il passo verso casa con la coda dell'occhio vidi un camion con due operai che scaricavano della terra. Sullo sfondo mi colpirono le baracche costruite con cartone, lastre di lamiera e materiali di risulta. Tutto questo costituiva lo sfondo di una discarica in pieno abitato. Chiesi di poter fare qualche scatto, dissero di sì, anzi si meravigliarono di come gli abitanti delle baracche non dicessero nulla. Tutto questo accadeva a Catania in Corso Martiri della Libertà.Basterebbe questa vergogna a svegliare una città? Cono Fazio

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Un anno fa l'alluvione di Saponara Ma il dissesto idrogeologico ci minaccia tutti Diario da un Paese a rischio

L'Italia sott'acqua Bastano pochi giorni di pioggia per causare catastrofi, ma la natura c'entra fino ad un certo punto. È spesso l'uomo che non ha fatto il possibile per prevenire il disastro di Carmelo Catania disegni di Lelio Bonaccorso foto di Cristina Insinga lettering di Lelio Bonaccorso e Angelo Gabriele Gulli

Saponara, nel messinese, 22 novembre 2011. Colpita da quella che oggi gli “esperti” chiamano una “bomba d'acqua”, la collina sovrastante la frazione di Scarcelli si trasformò in un'immensa colata di fango che precipitando a valle travolse nella sua

folle corsa case, strade, vite umane: Luca Vinci, 10 anni, Luigi e Giuseppe Valla, 50 e 25 anni. Ennesime vittime dell'ennesimo disastro “annuciato” che, solo in provincia di Messina, negli ultimi tre anni ha falciato 40 persone, 37 solo a Giampilieri e Scaletta Zanclea. Infatti, era già successo, negli stessi luoghi, nel 2007 e nel 2009. Cifre che dovrebbero far riflettere.

poco resistenti all'erosione. Secondo un rapporto del ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio sulla pianificazione territoriale provinciale e rischio idrogeologico, il 7,1% della superficie nazionale risulta a potenziale rischio idrogeologico più alto (21.504 km quadrati, di cui 13.760 per frane e 7.744 per alluvioni).

La vera Unità d'Italia

Le cause che hanno portato al dissesto idrogeologico, provocando perdite di vite umane e ingenti danni ambientali – la cui valutazione in termini economici risulta sempre ardua e approssimativa – sono da attribuire all'eccezionalità dell'evento calamitoso? Le cause sono anche dovute alla fragilità del suolo e all'incuria da parte dei responsabili, che nel corso del tempo non hanno eseguito le necessarie opere di manutenzione del territorio – soprattutto nel messinese, dove le aree collinari e montane sono state abbandonate dalla popolazione rurale durante l'esodo agricolo.

E non c'è differenza tra Nord e Sud, perché il Paese – dal Veneto alla Liguria, dalla Maremma alla Sicilia – è unito dalla devastazione. Colpito da disastri che avvengono ormai quotidianamente e che si distinguono solo per dimensioni e distruttività sociale e richiamano puntualmente l'attenzione dei media sul problema del dissesto idrogeologico che, in sintesi, può essere definito come quell'insieme di fenomeni negativi legati all'azione erosiva dell'acqua e alla natura geologica del terreno. L'Italia è un paese vulnerabile dal punto di vista idrogeologico, poiché si tratta di un territorio prevalentemente montuoso, fatto di rocce poco compatte e

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Maltempo killer?


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Scheda Il 70% dei comuni è a rischio idrogeologico Da Nord a Sud non c’è un angolo del nostro paese che non sia a rischio idrogeologico. Nella classifica regionale, la Valle d'Aosta è prima per la presenza di aree a rischio potenziale in rapporto alla superficie totale con 660 km2 pari al 20,2% del territorio regionale. Seguono Campania (2.253,1 km2, 16,5% del territorio regionale), Emilia Romagna (3.217,2 km2, 14,5%), Molise (615,7 km2, 13,8%), Toscana (2.709 km2, 11,8%) e Piemonte (2.980,7 km2, 11,7%). Per le province, Lucca precede tutte le altre con il 31% di aree a rischio potenziale in rapporto alla superficie seguita da Parma (26,6%), Piacenza (25,9%), Caserta (24%) e Aosta (20%). Sul fronte frane, è sempre Lucca la provincia in testa per presenza di aree a più alto rischio potenziale, con il 23%, mentre Livorno, con il 19,3%, è la provincia che guida le altre per il capitolo alluvioni. Secondo un rapporto dell' Ance, l'Associazione costruttori, la popolazione esposta a rischio idrogeologica sarebbe pari a circa 5,8 milioni di italiani, più o meno il dieci per cento del totale. Per il presidente dell'ordine dei geologi di Sicilia, Emanuele Doria il 75% dei Comuni siciliani è a rischio idrogeologico. «La Sicilia è una terra giovane dal punto di vista geologico con gran parte del territorio a carattere montuoso o collinare e con litologie facilmente soggette a processi erosivi. Ciò comporta una naturale propensione al dissesto del territorio che si manifesta soprattutto in concomitanza di eventi piovosi di particolare intensità. L’allarme maggiore si registra principalmente nella zona del messinese a causa della conformazione del territorio e delle situazioni geologiche presenti, come terreni affioranti molto alterati dagli agenti atmosferici e molto attivi da un punto di vista tettonico. In parole povere, un paesaggio formato da forti pendenze e poche aree pianeggianti, si pensi alle zone incise dalle fiumare ad esempio».

“Occhiello di giro”

O incuria?

La tassa sulla disgrazia

Dopo i fatti di Giampilieri, Mario Tozzi scriveva: «È proprio un paese bizzarro l'Italia, pensate che d'autunno piove, qualche volta a lungo, i fiumi straripano e le tempeste mangiano le spiagge. E pensate che, se avete costruito nel letto di un fiume, ci sono buone probabilità che la vostra casa venga spazzata via per colpa delle alluvioni». È troppo semplicistico quindi parlare di “maltempo killer” o di “fiume killer”, va bene solo per titolare certi giornali. No, il “killer” è il disboscamento dei versanti collinari e montuosi, la speculazione, la cementificazione, l'eccessivo consumo di suolo, l'urbanizzazione diffusa e caotica, l'alterazione delle dinamiche naturali dei fiumi, la cementificazione degli alvei, in una parola la dissennata gestione del territorio fatta dagli enti locali. In Sicilia i fiumi sono stati spesso coperti d'asfalto e trasformati in vialoni. A Messina l'Annunziata “non è una strada effettiva, è alveo torrentizio”, ricorda Gaetano Sciacca ingegnere capo del genio civile della città dello Stretto. E tra le opere “compensative” per il Ponte il Comune ha richiesto proprio la copertura dei torrenti Annunziata e Pace. Corsi d'acqua spesso secchi ma che a volte scoppiano. Come nel 1998 quando causò quattro morti. Nell'autunno 2011 – lo stesso giorno della tragedia di Saponara – nella vicina Barcellona Pozzo di Gotto le coperture del torrente Longano saltarono, devastando la città e invadendo di fango le abitazioni. «Se siamo tutti d'accordo che le coperture dei torrenti sono tra le cause del dissesto del territorio, perché proseguire ancora su questa strada?», chiede Sciacca.

In Italia ci sono circa 6600 comuni ad elevato rischio idrogeologico ma si preferisce aspettare le emergenze rinunciando alle politiche di prevenzione, quando le cifre per la prevenzione sono irrisorie rispetto a quelle spese per fronteggiare le emergenze. L’Italia spende, infatti, secondo uno studio del consorzio universitario del Politecnico di Milano, oltre 2 miliardi di euro ogni anno per tamponare i danni causati da frane e alluvioni più un miliardo e mezzo per interventi minori.

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Le spese per i grandi eventi Il capo della Protezione Civile, Franco Gabrielli ha affermato che «Servirebbero 40 miliardi in 15 anni per mettere a posto il territorio nazionale dal punto di vista idrogeologico.» Sembrano cifre al di sopra delle possibilità di un paese in crisi, eppure il bilancio del Dipartimento della Protezione civile nell'era Bertolaso era di un miliardo l'anno. E quanto ha speso la Protezione Civile nell’era dei grandi eventi? Michele Bonaccorsi nel suo libro Potere assoluto (Alegre 2009) ne fa un lungo elenco: G8 La Maddalena 280-300 milioni di euro, Mondiali di nuoto 400 milioni, progetto “newtown” 710 milioni, l'America’s Cup di Trapani 62 milioni, Mondiali di ciclismo 2008 7 milioni, Ordinanze di emergenza (20012006) 1 miliardo 489 milioni, spese di ammortamento di mutui contratti con le Regioni per eventi calamitosi (era Bertolaso): 1,1 miliardi di euro annui, stanziamenti per l’Abruzzo sottratti ai Fondi FAS da 2 a 4 miliardi dal 2009 al 2032, sono stati finanziati (5 milioni) persino congressi eucaristici e pellegrinaggi a Loreto.


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Sud

SUA ALTEZZA LA CONTESSA

Modica, la famosa città della Contea, si divide in quartieri che orograficamente sono ben distinguibili. Il più noto – Modica Bassa – è quello nato ai lati dei torrenti che la percorrono e sui relativi costoni. Il primo insediamento nasce nella parte Alta che oggi giace in uno stato di abbandono e di emarginazione soprattutto per ciò che riguarda le attività economiche della città di Andrea Scarfò I Sicilianigiovani – pag. 61


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Modica Alta ha due dimensioni: quella umana e quella architettonica. Lo sguardo per percepire le chicche spesso si deve arrampicare sui muri fino a raggiungere improbabili e nascoste decorazioni barocche non segnalate se non del tutto dimenticate... come un gioiello di famiglia inutilmente e inconsciamente chiuso in un ignoto baule in soffitta. Non si potrĂ d'altronde evitare di incrociare presenza umana per i vicoli, ora mesta e sommessa di un anziano piegato dalle fatiche del lavoro della campagna o della bottega artigianale, ora colorata dagli schiamazzi dei bambini.

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Modica Alta muore nella misura in cui “sua bassezza” la cieca, Modica Sorda (& co.), cresce. Senza il contributo della mafia del mattone Modica Alta sarebbe ancora oggi il centro residenziale della città e con molta probabilità avrebbe mantenuto intatto il patrimonio storico-architettonico che i nuovi quartieri non potranno mai avere.

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Tuttavia qualcosa si muove, sono diversi i segnali che aprono uno spiraglio per questa splendida parte della città, sconosciuta ai turisti e alle loro guide: l'ex chiesa di San Nicolò ed Erasmo è ora sede dell'Accademia Teatrale Clarence, il basso costo degli affitti riporta qualcuno da queste parti, l'associazione Borgo Degli Artisti nasce per riqualificarla urbanisticamente... i primi volantini turistici iniziano a segnalare più di una meta a Modica Alta.

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La moneta elettronica

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin (in tempo reale)

Pianeta

Altro che Tobin Tax La più grande evasione fiscale della storia... di Fabio Vita bitcoin-italia.blogspot.com Le grandi multinazionali, le Corporation, non pagano tasse. È da sempre uno degli argomenti topici del linguista e attivista Noam Chomsky, come la stessa “Tobin tax”. Ma stavolta a parlare di tassare le multinazionali sono i governi e la stampa. Cominciò un anno fa il New York Times trattando in prevalenza di Apple, del suo fatturato superiore a quello storico di General Motors negli anni ‘50 e General Electric negli anni ‘80 ma con una frazione infinitesimale di personale americano I LINK DEL MESE www.dday.it/redazione/7702/Google-facebookApple-e-Amazon-elusione-fiscale.html www.dailymail.co.uk/news/article2231828/Immoral-tax-avoiders-AmazonStarbucks-Google-lashed-MPs-elaborateschemes.html www.kswo.com/story/20073842/googleamazon-and-starbucks-face-questions-on-tax gizmodo.com/5960053/france-amazon-owes250-million-in-tax www.techweekeurope.co.uk/news/amazon-taxgoogle-uk-mps-99029 www.guardian.co.uk/technology/2012/apr/04/am azon-british-operation-corporation-tax www.latimes.com/business/money/la-fi-mocalifornia-internet-shoppers-paying-sales-tax-

occupato e con 400mila dollari guadagnati per ogni singolo impiegato. Ora la situazione sta esplodendo a gli interessi di governi e multinazionali si incrociano (là dove questi ultimi non siano già palesemente vincitori: da noi il Vaticano riesce a non pagare neanche le tasse amministrative su edifici commerciali). In Francia come nel Regno Unito governi e giudici chiedono ad aziende con fatturato e utili miliardari, come Amazon, Google, Starbucks, di adeguare la loro posizione. *** In Italia, la Guardia di Finanza scriveva l'8 novembre al ministro dell’economia Grilli: “È emerso che grandi colossi come Google, Facebook, Amazon e Starbucks hanno versato negli ultimi quattro esercizi, nel Regno Unito, solo 36 milioni di imposte a fronte di un fatturato di oltre 3 miliardi e 800 milioni di euro. Sempre nel Regno Unito, nel 2011, Mc Donald’s, con un fatturato di 1 miliardo e 248 milioni di sterline, ha di fatto pagato imposte con un’aliquota del 3,4%. Con riferimento a Google, analoga situazione pare profilarsi anche in Francia. Apple, negli USA, su un utile estero di 36,7 miliardi di dollari ha versato imposte per soli 713 milioni, con un tax rate dell’1,9%.” Gli squilibri di finanza pubblica, insomma, non sono riconducibili solo a disfunzioni sul lato della spesa, come viene costantemente ripetuto, ma vi è anche un problema di insufficienza

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strutturale di gettito, derivante dall’incapacità degli Stati a far pagare adeguatamente le imposte a chi dovrebbe. Che qualcosa si muova anche da noi appare difficile, i dati del documento sono riferiti al Regno Unito e della situazione italiana viene citata solo Ryanair. Google e Amazon? Evasori Il Guardian ad aprile informava che, nonostante i 3,3 miliardi di sterline di fatturato nell’ultimo anno in Inghilterra, Amazon non paga tasse, avendo sede legale in Lussemburgo ma impiegando 500 persone nel paradiso fiscale centroeuropeo e 15 mila oltre Manica. Un dirigente Amazon dichiara ai giudici che la sua compagnia non ha dati di vendita Stato per Stato. Google dal canto suo dichiara che la sua base sono i 17 mila ingegneri californiani, ma non spiega perché i dipendenti europei siano tutti assunti dalla sede irlandese. La California, Stato neoliberista per eccellenza (ricordate le privatizzazioni dell'elettricità, e i conseguenti blackout, dei primi anni 2000? Una crisi da 40 miliardi di dollari) ora torna affannosamente indietro, con una tassa del 7,25% in vigore dal 15 settembre sui prodotti spediti via internet A settembre le autorità francesi, come riporta Reuters, hanno chiesto 250 milioni di euro ad Amazon solo per iniziare a trattare.

blogger da tutto il mondo fornendo bitcoin come opzione” “Bitcoin è una moneta digitale che permette pagamenti istantanei attraverso Wordpress.com accetta pagamenti in Bitcoin. La più grande piattafor- internet. Diversamente da carte di credito e Paypal, Bitcoin non ha un’autorità centrale e nessun modo di tener fuori alcuni paesi dalla rete. Commerma di blog aggiunge Bitcoin ai sistemi di pagamento e cianti con Bitcoin possono fare affari con chiunque” contestualmente accusa Paypal. Da tutti i paesi è possibile accedere e creare blog gratuiti su wordpress, ma Nella faq, la guida ufficiale con domande e risposte, alla domanda su quangli acquisti di servizi aggiuntivi del sito sono bloccati in 60 paesi tra cui Hai- to tempo passi prima che la transazione sia confermata e sia possibile avere l’upgrade, la risposta è: zero. Avrebbero potuto scegliere di aspettare ti, l’Etiopia e il Kenya, perché Paypal e alcuni gestori di carte di credito li cinque o dieci minuti per vedere la prima conferma, ma preferiscono bloccano per motivi politici, rischi di frode o altre motivazioni finanziarie l’immediatezza dell’operazione. Dal 15 novembre Wordpress accetta bitcoin “Oggi le cose cambiano: puoi comprare upgrade di Wordpress con bitcoin “Siamo orgogliosi di supportare en.blog.wordpress.com/2012/11/15/pay-another-way-bitcoin/

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Scienze

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Neutrini: ottant'anni di ricerche Tra speranze e delusioni alla ricerca di neutrini emessi dal Sole. Rassegna di ricerche fatte sino al 1980 (parte seconda) di Diego Gutkowski

Nella prima parte di questo servizio (I Siciliani giovani, n.7, luglio-agosto 2012, p. 68) ho trattato le ricerche che condussero alla prima rivelazione dell’antineutrino, annunciata erroneamente da Cowan e Reines nel 1956 come prima rivelazione del neutrino e ho ricordato che prima del 1956 era stata ipotizzata l’esistenza del neutrino ma non quella dell’antineutrino e questa è la ragione dell’errore di Cowan e Reines. Ho anche scritto che gli antineutrini rivelati da Cowan e Reines erano stati emessi da una sorgente terrestre, più precisamente da un reattore nucleare situato a Sawannah River (U.S.A.). In questa seconda parte mi occuperò di alcuni tentativi di rivelare i neutrini (o gli antineutrini) emessi dal sole in varie reazioni nucleari. La comunità scientifica è pervenuta gradualmente a condividere il convincimento dei pochi e ostinati ricercatori che conducevano queste ricerche che i neutrini rivelati nel corso di questi tentativi fossero stati emessi dal sole, perché per più di un decennio, a partire pressappoco dal 1970, alcune previsioni ottenute facendo uso dei modelli impiegati non andavano d’accordo con i risultati sperimentali. Eppure questi modelli si basavano non solo su teorie accettate ma anche su altri risultati sperimentali. L’esperienza ha mostrato che le reazioni nucleari, che l’umanità ha cominciato a conoscere grazie ai lavori di Rutherford a

partire dal secondo decennio del XX secolo, e che successivamente sono state studiate da diversi altri ricercatori, possono dar luogo ad emissione di energia in misura molto più grande di quella che ha luogo nei processi precedentemente conosciuti, come per es. le reazioni chimiche. Nelle reazioni chimiche la massa totale dei prodotti non differisce in modo apprezzabile dalla massa totale dei reagenti, ciò invece non succede in generale nelle reazioni nucleari. Si definisce come Q di una reazione nucleare la grandezza Q = (Massa iniziale – Massa finale) c2 dove C = 299.792.458 m/s è la velocità della luce nel vuoto, Massa iniziale è la massa totale dei reagenti e Massa finale è la massa totale dei prodotti. Vale la relazione (che segue subito da una legge formulata da Einstein nel 1905): Q = Energia cinetica finale - Energia cinetica iniziale Dove Energia cinetica finale è l’energia cinetica totale dei prodotti e Energia cinetica iniziale è l’energia cinetica totale dei reagenti. In opportuni processi un sistema materiale può cedere parte della sua energia cinetica all’ambiente. Se il sistema costituito dai prodotti di una reazione cede all’ambiente l’energia Q senza che avvengano altre trasformazioni, allora la sua energia cinetica ritorna al valore iniziale, cioè a quella che era l’energia cinetica totale dei reagenti. Per dare un’idea quantitativa del fatto che l’energia che può essere emessa in seguito ad una reazione nucleare è molto più grande di quella che può essere emessa in seguito ad una reazione chimica porto l’esempio di una fissata reazione chimica e di una fissata reazione nucleare. Esprimo i valori delle grandezze fisiche e dei numeri con un errore relativo minore dell’ 1%. Come esempio di reazione chimica considero la combustione di due moli di molecole di idrogeno gassoso con una mole di molecole di ossigeno gassoso, il prodotto è costituito da due moli di molecole di

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acqua allo stato gassoso. La reazione è esotermica. Stechiometricamente la reazione è rappresentata dalla formula: 2 H2 +O2 = 2 → 2H2O. La massa dei reagenti è costituita da 4 g di idrogeno e 32 g di ossigeno, la massa dei prodotti è costituita da 36 g di acqua. In condizioni standard, cioè a pressione costante di 1 atmosfera e temperatura costante di 298 K, la quantità di calore che il sistema cede all’ambiente è di 572 kJ. La reazione nucleare che porto come esempio è la seguente: D+T → He4 + n nella quale D (deuterio) e T (trizio) sono isotopi dell’idrogeno e n è il neutrone. Il Q della reazione è Q = 17,6 MeV. Da questi dati si ricava facilmente che se da una mole di atomi di deuterio che reagisce con una mole di atomi di trizio si ottiene una mole di atomi di più una mole di neutroni n, allora il sistema che reagisce può cedere all’ambiente 169 × kJ. Pertanto 5 g di reagenti costituiti da 2 g di deuterio più 3 g di trizio che reagiscono secondo la reazione nucleare dell’esempio possono cedere all’ambiente circa 2954545 volte l’energia che può essere ceduta all’ambiente da 36 g di reagenti che reagiscono secondo la reazione chimica del relativo esempio. I vari tentativi oggi noti, volti a spiegare l’emissione osservata di energia da parte del Sole, fatti a partire dagli antichi Egizi fino a circa cento anni fa, davano per la durata della “vita” trascorsa dal Sole in condizioni simili a quelle attuali valori estremamente più piccoli di quelli che si potevano stimare sulla base di altre considerazioni, per es. osservazioni geologiche e teorie sulla evoluzione delle specie (Frank Close, Neutrino, Raffaello Cortina Editore, ISBN 978-88-6030-452-0, capitolo 4) . I valori misurati dell’energia emessa in varie reazioni nucleari lasciavano sperare che la spiegazione di una durata dell’emissione di energia solare compatibile con diverse informazioni, quali per es. quelle riguardanti la geologia e la paleontologia, si potesse trovare in reazioni nucleari che avevano avuto e che avevano luogo nel Sole.


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Nel 1920 (cioè dieci anni prima che Pauli formulasse l’ipotesi del neutrino) Francis Aston, in seguito a esperienze da lui compiute, aveva osservato che la massa di un atomo di elio è di 1/120 più piccola della massa di quattro protoni (nuclei dell’atomo di idrogeno). Lo stesso anno Sir Arthur Eddington, appreso il risultato di Aston e sapendo anche della presenza di elio sul Sole, cercò di spiegare l’emissione energetica di questo astro ipotizzando una reazione nella quale quattro atomi di idrogeno venivano a formare un atomo di elio, ma in seguito si vide che l’ipotesi di Eddington non reggeva (il lettore interessato può vedere il perché al capitolo 4 del libro di Frank Close già citato). Un progresso significativo fu compiuto da Hans Bethe nel 1939 (Hans Bethe, Energy Production in Stars, Phys.Rev. 55, 434-456, 1939; un riassunto si trova su prola.aps.org/abstract/PR/v55/i5/p434_1 ) Bethe riuscì a trovare una successione ciclica di reazioni che differivano nettamente dalla proposta di Eddington, tuttavia lo stesso Bethe vide che il suo ciclo avrebbe potuto funzionare solo per stelle più grandi e più calde del Sole. Non riferisco di altri progressi che furono compiuti, in ogni caso se i calcoli mostravano che certe reazioni erano compatibili con i dati osservati, ciò non significava che quelle reazioni avvenissero realmente nel Sole. Dalle conoscenze che man mano si andavano accumulando sia per via teorica che sperimentale appariva che tra le reazioni nucleari solari ce n’erano varie che conducevano alla produzione di leptoni e di neutrini. Per alcune di queste reazioni erano state ottenute informazioni sulla distribuzione di energia dei neutrini prodotti, ma non si conoscevano tutte le possibili reazioni. Alcuni ricercatori si proposero di confrontare i risultati deducibili dalla conoscenze di cui disponevano con quelli ottenuti mediante nuove misurazioni che si proponevano la rivelazione di neutrini solari. Nella prima parte di questo servizio si sono viste alcune esperienze di rivelazione di neutrini. L’efficienza dei rivelatori di neutrini, sempre molto piccola, dipende, tra l’altro, dall’energia dei neutrini. Per potere ottenere dati statisticamente attendibili la piccolezza dell’efficienza richiede grandi volumi per i rivelatori e di conse-

guenza costi pecuniari elevati. Inoltre per ridurre la probabilità di rivelare anche eventi non dovuti a neutrini di origine solare ma non distinguibili da quelli prodotti da neutrini di origine solare si cerca di schermare i rivelatori mediante grandi spessori di materia e questo in certi casi si ottiene collocando i rivelatori a grandi profondità, per esempio in miniere o sul fondo del mare o in gallerie che attraversano montagne. Anche queste scelte portano all’aumento dei costi. In una esperienza compiuta attorno al 1966 negli Stati Uniti d’America, della quale scrivo un po’ più avanti, si giunse a un costo di 600.000 $; i costi delle esperienze in corso o progettate per il futuro, di cui mi propongo di scrivere successivamente, superano di gran lunga questo valore. Sia chiaro che i grandi spessori di materia non servono a schermare i neutrini spuri, perché i neutrini non si lasciano schermare, ma a schermare particelle che, interagendo con i rivelatori, dànno luogo a segnali non distinguibili da quelli prodotti dai neutrini. Le ricerche di Davis Un ricercatore che si è dedicato alla ricerca dei neutrini solari con grandissimo acume e impegno è stato Raymond Davis (Washington 14 Ottobre 1914 – New York 31 Maggio 2006), premio Nobel per la Fisica nel 2002 per i risultati ottenuti in questo campo. Una breve e affascinante autobiografia di Davis (in Inglese) si può trovare sul Web all’indirizzo http:///www.nobelprize.org/nobel_prizes/physics/laureates/2002/davis-autobio.html . Per le vicende che portarono Davis alla ricerca dei neutrini solari e per le ragioni che lo portarono alle scelte che fece nei primi anni di questa ricerca rimando alla sua autobiografia. Col senno del poi (ma Dio solo poteva avere il senno del prima) oggi si può dire che Davis partì col piede sbagliato almeno per due ragioni. Spero di spiegare questo in una parte che debbo ancora scrivere. Qui mi limito a riassumere che cosa fece Davis e quali risultati ottenne nell’arco di tempo trattato nella parte presente, cioè fino al 1980. Nel 1948 Davis prese servizio al Brookhaven National Laboratory. Si recò subito da Richard Dodson, direttore (chair-

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man) del suo dipartimento, per chiedere cosa doveva fare. Il direttore, con sorpresa e piacere di Davis ( “ To my surprise and delight “ scrive Davis nella autobiografia) gli consigliò di andare in biblioteca, consultare libri e riviste e scegliere lui stesso un progetto. Davis fece così, lesse sulla Reviews of Modern Physics un articolo di rassegna di H.R.Crane e decise di progettare un esperimento sulla fisica dei neutrini; lavorerà su questa tematica per più di cinquant’anni, quasi fino alla morte.” Thus began a long career of doing just what I wanted to do and getting paid for it ”; che colpo! Nel 1955 Davis aveva approntato il primo rivelatore. Esso si basava su una reazione nella quale un neutrino avente sufficiente energia che interagisce col cloro lo trasforma in argon (un gas raro), successivamente l’argon viene separato dal resto. Davis realizzò un apparecchio con cui si potevano separare piccolissime quantità di argon. Il cloro era introdotto utilizzando tetracloruro di carbonio. Il primo rivelatore era interrato ad una profondità di 6 m e conteneva 4000 litri di tetracloruro di carbonio. Dopo venticinque giorni si vide che il risultato era completamente negativo, i neutrini solari non erano stati rivelati. Attraverso una serie di esperimenti nella quale il volume del rivelatore, la profondità a cui era posto e il costo dell’esperimento andavano aumentando si arrivò alla fine dell’estate del 1966 ad approntare un esperimento nel quale si impiegavano 400.000 litri di tetracloruro di carbonio, posti in una vasca appositamente costruita in una miniera dismessa ad una profondità di 1370 m. Il costo per realizzare questo apparato era stato di 600.000 $. Anche questa volta il risultato fu negativo. Con successivi perfezionamenti si procedette con altri esperimenti. Quando nel 1978 i risultati erano ancora negativi Davis cominciò a pensare che il modello che tutti usavano per il Sole fosse sbagliato, mentre la maggior parte dei ricercatori che seguivano questa ricerca senza condurla in prima persona ritenevano che l’errore fosse dovuto al rivelatore di Davis . Vedremo nel seguito che entrambe le opinioni erano sbagliate e che i risultati negativi erano dovuti a fenomeni allora sconosciuti.


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Musica

Notizie dalla penombra Anna Maria Castelli non è una famosa come Iva Zanicchi o le sorelle Carlucci e forse tanti, tra i presi per strada, non rammenterebbero neppure il suo nome, ma di questi tempi forse è proprio la penombra… di Antonello Oliva

… la penombra, poco frequentata dal mercato, a consentire a gli artisti una più libera possibilità di espressione e un fare quindi non ricondotto a semplice e compiaciuto riflesso. Questo vuol dire tante cose, ma anche che i suoi dischi bisogna cercarli probabilmente più su internet che negli scaffali Feltrinelli. ma è una ricerca che vale la pena di fare perché si tratta sempre di cose di gran qualità. Dopo i lavori su Edith Piaf, Leo Ferré, Piero Ciampi, Chet Baker, e i cantautori della scuola genovese, in Se io ho perso… chi ha vinto? la Castelli si cimenta questa volta con Gaber, ma lo fa non reinterpretando brani del repertorio, bensì riprendendone il filone, a lei congeniale del teatro-canzone, per continuarne il discorso con brani originali. Quello che ne viene fuori sembra riportare al piacere di certi giorni migliori, chissà se mai realmente esistiti ma certo idealizzati, in cui il gusto dell’ironia e il

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lusso dell’intelligenza, figuravano tra i beni di consumo, come le vitamine, le gite in barca e l’impegno sociale. Per questo motivo il disco sembra fuori tempo, fuori da questo tempo, e stupisce quasi, per dissonanza col presente, il garbo delle parti musicali, affidate in buona parte all’estro compositivo di Mario Berlinguer, e negli arrangiamenti poi alle sole voci di piano e fisarmonica. Il lusso dell'intelligenza Dove lo stupore stenta invece a manifestarsi è però a volte nei testi, certamente scritti con eleganza e validità da Alessandro Hellmann e Abner Rossi, e ben lontani dai banali valori medi stagionali, ma intenti ancora più a una negazione già più volte negata, che a un visionario, ma necessario ormai, processo di ri-costruzione. Continuare a leccarsi le ferite può risultare forse confortante, ma vuol dire chiedere, tergiversare intrinsecamente in una condizione di sottomissione, mentre forse il ruolo degli intellettuali (dato che non si tratta di canzonette) in certi momenti dovrebbe essere “anche”, avendone chiarezza, quello più impegnativo e responsabile di indicare. L’appunto - una volta si sarebbe detto “critica da sinistra”- va inteso dunque non sulla forma espressa, spesso preziosa, ma sulla reale utilità del contenuto. A non stupire affatto, per chi la conosce già, è invece Anna Maria Castelli, che con questo ennesimo ottimo lavoro, si conferma ancora una volta interprete tra le più raffinate e sensibili del nostro panorama musicale e teatrale, e quasi ormai categoria a parte. Il suo sito, se lo si vuole cercare, è www.annamariacastelli.org.


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Storia

Regione Sicilia: miseria e nobiltà Si apre la sedicesima legislatura dell’ARS: vale la pena di presentare, se pure in modo molto sommario, taluni caratteri delle precedenti legislature.... di Elio Camilleri Rosario Crocetta è il 29° Presidente della Regione siciliana e, dopo Angelo Capodicasa del PDS, è il secondo Presidente in forza a un partito di sinistra. Dei ventotto Presidenti ben ventiquattro provenivano dalla Democrazia Cristiana e governarono ininterrottamente, salvo la breve parentesi di Silvio Milazzo tra il 1958 e ill 1960, dal 1947 in poi fino alle soglie del 2000. Tra questi ce ne furono alcuni che guidarono varie giunte: Giuseppe D’Angelo 6, Mario Fassino e Rosario Nicolosi 5, Giuseppe Alessi, Vincenzo Carollo 3, Francesco Restivo, Giuseppe La Loggia, Vincenzo Giummarra, Angelo Bonfiglio, Piersanti Mattarella e Giuseppe Campione 2. Da notare la folta schiera di nomi e, soprattutto, la cifra esponenziale relativa ai governi da loro presieduti a significare il tasso di precarietà e di provvisorietà delle singole giunte, costantemente messe in crisi dalle lotte interne ai partiti per la conquista di pezzi di potere sempre più ampi. Da ciò la contraddizione tra la continuità del potere democristiano e la pratica politica e amministrativa assai discontinua e incerta, che si può considerare una delle cause più gravi dell’arretratezza economi-

ca e del ritardato sviluppo della Sicilia. In questa lista pur parziale degli uomini della DC che si sono avvicendati alla presidenza della Regione c’è tutto e il contrario di tutto: è sufficiente ricordare, ad esempio, solo i nomi di Piersanti Mattarella come modello di correttezza e onestà , di buon governo in rotta di collisione con la mafia che, alla fine, lo fece fuori e quello di Rosario Nicolosi, protagonista di un vero e proprio sistema di potere basato sull’alleanza organica tra politica, affari e mafia. Non compaiono in questo elenco i nomi di Giuseppe Drago (CCD) e Giuseppe Provenzano (FI), alla guida di una giunta regionale ciascuno alla fine degli anni 90; entrambi sono stati giudicati e condannati per essersi appropriati, senza fare rendiconti, dei fondi riservati della Presidenza della Regione; per entrambi, la pena è stata condonata. La presidenza di Angelo Capodicasa, tra la fine degli anni 90 e il 2001, segnò certamente una rottura con il sistema di potere clientelare e mafioso e portò all’approvazione di varie e importanti riforme tra cui: “...riforma dello Statuto ed elezione diretta del presidente, scioglimento degli enti economici e privatizzazioni, riforma della pubblica amministrazione, sblocco delle opere pubbliche bloccate, risanamento finanziario e di bilancio e introduzione di nuove norme in materia finanziaria, chiusura del contenzioso finanziario con lo Stato, misure per il superamento del precariato, accelerazione della spesa dei fondi europei per evitare che si perdessero altri finanziamenti, avvio della programmazione economica e di Agenda 2000”(A. Capodicasa. Governare la Sicilia. Editori Riuniti, 2001,pag. 25). Poi arrivò Totò Cuffaro, amico degli amici e si ricrearono tutte le condizioni dell’affarismo, della clientela, di un uso spregiudicato delle risorse e dei finanziamenti statali. Stagnarono fino a scomparire quasi del tutto i progetti attuativi dei finanziamenti europei per il semplice fatto

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che era più facile spendere quelli statali che non esigevano controlli sulla spesa. Il numero dei dipendenti della Regione riprese a crescere, come pure aumentarono i privilegi e tutte quelle voci che si possono considerare interne alla voce “costi della politica”: indennità, aumenti di stipendio, collaborazioni, consulenze e le famigerate “partecipate”, patrocini più o meno degni, ecc. ecc. Totò Cuffaro, si sa bene, condannato con sentenza definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, è attualmente alloggiato presso le patrie galere. Il sostegno a Lombardo Il PD, non senza lacerazioni interne, decise di sostenere Raffaele Lombardo, fondatore del MpA, e ciò portò, bisogna riconoscerlo, all’isolamento del PdL e all’abbandono del progetto di costruzione degli inceneritori, già criticati da ecologisti e dalla sinistra per i formidabili interessi della mafia sulla realizzazione dell’opera. Non senza contraddizioni si procedette alla riforma sanitaria e alla gestione dei corsi di formazione, bloccando, nei limiti del possibile, sprechi e distorsioni varie in un contesto, comunque ancora gravemente inficiato da clientele, affarismo e mala, anzi pessima politica. Ne è prova giudiziaria il rinvio a giudizio di Raffaele Lombardo per voto di scambio e concorso esterno in associazione mafiosa. Resta oggettivo lo stato attuale della Regione siciliana devastato dall’esperienza cuffariana e lombardiana che ci lascia una Regione sull’orlo del fallimento, con una disoccupazione record, con infrastrutture tendenti alla fatiscenza, con investimenti e progetti praticamente nulli con il rischio di non potere neppure utilizzare i fondi europei. In conclusione tocca adesso a Rosario Crocetta sciogliere i nodi di questa matassa terribilmente ingarbugliata e ai siciliani un’obbligata e costante vigilanza.


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Politica

Cambiamento? Boh Al voto senza illusioni Elezioni di svolta, rivoluzione? Non si direbbe. Ecco perché di Pietro Orsatti Tutto quel che potremmo raccontare sulle primarie del centro sinistra, sugli impazzimenti del centro destra e sui tripli giochi del centro, ormai ha poco senso. Non c'è un progetto, non ci sono figure in grado di dare respiro a un'analisi e a una proposta concreta per uscire dal ventennio berlusconiano. Quelle prossime venture non saranno elezioni di svolta e neppure tiepide vibrazioni pre rivoluzionarie. Rappresenteranno un rito di passaggio che probabilmente andava affrontato un anno fa invece di delegare anche l'impossibile ai tecnici di Monti & Co. Ma è inutile piangere sul latte versato. I cambiamenti in Italia sono sempre stati o tardivi o (soprattutto) presunti. Non illudiamoci. E questa valutazione è confermata dallo spettacolo di partiti che non sembrano in grado di confezionare una legge elettorale appena decente arrivando, forse, ad abbozzare solo una proposta raffazzonata all'ultimo momento utile. Partiti che giocano sulle date delle elezioni regionali e nazionali per miserevoli interessi di bottega. Partiti che perfino nella legge sulla diffamazione cercano ogni possibile escamotage per tenere sotto botta e minaccia quel po' di stampa libera rimasta in questo paese.

Certo c'è Grillo che pretende (e in termini solo comunicativi lo è) di incarnare il cambiamento. Ma la politica intesa nel senso più nobile del termine è altro dalla comunicazione, come altro è il marketing editoriale dal giornalismo, tanto per fare un paragone. E non solo. Più il M5S prende voti e più la non-struttura padronale (palese e non) che lo governa diventa per Beppe e il suo staff difficile da gestire. Successi e Perché non puoi riempire consigli e giunte e parlamento di gente per bene ma senza esperienza, ragazzi pieno di voglia di fare, rabbia e speranze e pensare poi di tenere tutto il pacco sotto una sorta di controllo sovietico, che parli e decida solo il capo e il suo staff (attraverso purghe, censure, insulti, diffide etc) che la gente non cresca, maturi, si metta a imparare e a pensare autonomamente. E a esprimersi e comunicare senza delegare contenuti, modi e linguaggio solo al "portavoce". Strutturato e gestito così com'è il M5S è destinato a vita brevissima e verrà travolto dai suoi stessi successi e dalle proprie contraddizioni. Solo un passo reale di crescita politica e culturale collettiva consentirebbe di passare da fenomeno di un momento a forza politica reale. Perché, tanto per fare un esempio, le balle della Loretta Napoleoni sul default guidato in Islanda come i referendum sull'euro vanno bene per la propaganda immediata, ma poi ti si smontano davanti alla realtà. Così come lo staff orwelliano messo in piedi dal duo Casaleggio/Grillo che ha funzionato nel

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tenere sotto stretto controllo i MeetUp dovrebbe diventare un apparato di sorveglianza di dimensioni non più occultabili (come sta già avvenendo) quando le percentuali reali basate sui risultati elettorali si avvicineranno al fatidico 15% a livello nazionale. Non credo che Grillo e tantomeno Casaleggio abbiano intenzione di avviare un processo colletivo e realmente democratico di gestione di tutto il M5S: dal programma, alla comunicazione, dai temi prioritari alle questioni delle candidature e della rappresentanza fino all'organizzazione e ai soldi. Finora una forma di censura violenta ha colpito chiunque fra i militanti e eletti si sia azzardato a mettere bocca su queste questioni. E la stretta, con l'andare del tempo e l'accrescersi dei consensi, sembra farsi sempre più forte. Sarà in grado il M5S di trasformarsi da oggetto padronale a vero movimento politico? Volersi affidare a un capo Finora i segnali, preoccupanti soprattutto per chi nel movimento ha investito tempo e idee, sembrano negare questa possibilità. Si vedrà. Ma non sottovalutiamo il desiderio inconscio dell'italiano medio di volersi affidare a un capo cui delegare la propria cittadinanza. Senza andare indietro fino a Mussolini basta vedere quale sia stata la natura del potere di Berlusconi per confermare la pochezza del senso politico collettivo in Italia. Ma di presunti rinnovatori non c'è solo Grillo. C'è, infatti, Renzi l'americano, il rottamatore stizzoso con poco se non niente senso dell'umorismo.


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“Una vera coalizione di centro sinistra?”

In piazza a Roma “USARE LA FORZA”: CHI HA DATO L'ORDINE? Agenti che armati entrano in un ministero e si appostano aspettando di colpire ragazzini in fuga dall’alto con i lacrimogeni. Agenti, non un solo uomo impazzito. E altri che li hanno fatti entrare e comodamente posizionare. Cariche a freddo. Ripetute. E poi inseguimenti e pestaggi di ragazzi già fermati, a terra, inermi. E funzionari e dirigenti ben vestiti con aria serena che assistono a un loro sottoposto che prende a calci in faccia un ragazzino. Senza intervenire. Uso sproporzionato della forza? Abusi isolati? Comportamenti di alcuni singoli? Non scherziamo. A Roma il 14 novembre sono stati dati degli ordini, si è preparata a tavolino una strategia di gestione della piazza e si è eseguita. Qualcuno ha deciso, ha ordinato e la truppa poi ha eseguito. Punto. Poi le immagini e le testimonianze inequivocabili circolate sui giornali, in tv e nel web hanno scatenato l’usuale scarica barile. Prima negando l’evidenza con il ministro Cancellieri che ha passato una giornata intera a cercare di fare a gara a chi aveva più immagini da buttare sul tavolo di atti violenti verso i poliziotti o verso ii manifestanti come se fossero giustificabili da un’aggressione a Torino a un agente i comportamenti assurdi e violenti delle forze dell’ordine a Roma. Poi si è cercato (e si cerca ancora) di scaricare le responsabilità su qualche elemento isolato. Qualcuno ha dato l’ordine di usare in quel modo la forza. Il questore di Roma Fulvio Della Rocca? Il ministro Cancellieri? Il capo della Polizia? Pippo, Pluto e Clarabella? Non lo sappiamo e probabilmente non lo sapremo mai. Come purtroppo accade in questo paese dove c’è chi si prende la responsabilità di ordinare la macelleria e poi davanti alla giustizia da quella responsabilità riesce puntualmente a sottrarsi. E rimane una domanda a cui è ancora più difficile dare risposta. Se ci si è sentiti autorizzati a mettere in scena lo spettacolo muscolare del 14 davanti a telecamere e giornalisti e cittadini di tutta Italia cosa succede ogni settimana da anni in Val di Susa dove quella copertura mediatica non c’è mai? P.O.

Lui dietro ha pezzi grossi della finanza (chi è che ha innescato la crisi attraverso speculazioni?), spin doctor del calibro di Gori e una caterba di soldi che sta spendendo senza remore. Del suo programma si sa poco e nulla. Il rottamatore preferisce la polemica e l'insulto verso i suoi compagni di partito che andare oltre a slogan scontati. Una buona polemica: cosa di meglio per nascondere il vuoto dei contenuti? E se la polemica non basta si passa alla truculenza. In questo Renzi si associa a Grillo fornendo una traduzione moderna del berlusconismo comunicativo. Berlusconismo comunicativo Se vincesse le primarie, Renzi in un colpo solo riuscirebbe a liquidare la già non memorabile esperienza del Pd, cancellerebbe l'ipotesi di una vera coalizione di centro sinistra, innesterebbe una costola finanziaria neo liberista e speculativa nel corpo dei progressisti e farebbe un favore di dimensioni inimmaginabili a Alfano e soprattutto a Casini. Come ha ben detto Gramellini su La Stampa, Renzi ha sbagliato primarie. O meglio, le ha proprio azzeccate per poi andare in cassa a riscuotere le spoglie del Pd. Di nuovo si vede poco, di democristiano moltissimo. Neanche Nichi Vendola è il cambiamento. Quella del presidente della Puglia è una battaglia dura e dignitosa per riportare la sinistra italiana a giocare nella politica italiana. Da una parte schiacciato da una tradizione che spesso lo soffoca, dall'altra pronto a tracciare un abbozzo di via d'uscita.

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Ma i numeri sono impietosi, e anche davanti a una performance miracolosa Vendola ha poche chance di cambiare l'assetto sia nel centro sinistra che nel paese. Mi augurerei il contrario, ma ho il vizio di essere realista. Non è a questo giro che si innesca una trasformazione, ora bisogna tenere botta e posizione. E questo Vendola lo sa perfettamente e sta cercando di ritagliare uno spazio credibile e numericamente interessante a sinistra del Pd. Del suicidio casalingo di Idv c'è poco da dire. Di Pietro preferisce sacrificare la propria creatura che cedere il controllo assoluto del suo giocattolo alato. Donadi, il transfugo (questa spero me la perdoni) conta quanto il due a coppe quando regna bastoni e i due sindaci di peso, Orlando e De Magistris si sono già sfilati abilmente dalla traiettoria di frana. Fine dell'esperienza nonostante la sponda che sembra offrire Grillo. Vere novità e non parodie Ed è in questo quadro che andiamo al voto. Qualche esperimento di cambiamento forse si vedrà nel centro sinistra grazie al voto regionale in Lombardia e nel Lazio, ma anche in quella sede di rinnovamento ne vedremo ben poco. E proprio prendendo atto di questa situazione non rimane altro che attrezzarci a portare vere novità e non parodie grottesche di sfanculatori e rottamatori nella ricostruzione collettiva e popolare della politica. Non saltando questo giro, ma usando le elezioni del 2013 per seminare qualche novità.


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Politica

Le primarie del PdL Le primarie del Pdl sono la parodia delle primarie del Pd, che a loro volta nacquero come parodia delle primarie del Partito democratico Usa di Riccardo De Gennaro

Spiazzato dall’effetto promozionale di quelle del centrosinistra, il centrodestra ha deciso di organizzare in tutta fretta una gara analoga. Così, per occupare il tempo, per fingere che il partito non si sia completamente squagliato, per richiamare i giornalisti e strappare spazio al centrosinistra sui quotidiani. I candidati sono undici o dodici o tredici, le primarie sono state fissate per i giorni che precedono il Natale, ma di qui a quella data non si sa quale candidato sarà ancora in pista o avrà rinunciato. Il capo, Silvio Berlusconi, è contrario, ma lascia fare ai suoi come si fa coi bambini ed esclusivamente per ragioni di marketing.

Per un partito di plastica, primarie di plastica. Si è gettata nella mischia perfino la giovane Giorgia Meloni, che non nasconde di aspirare alla presidenza del consiglio, dopo aver naturalmente sconfitto al voto gente come Bersani, Renzi o Vendola. Ma i suoi amici ex An si sono accorti che forse tutti quei nomi sono controproducenti, c’è poca serietà. Mentre la Meloni si candida, la Mussolini si ritira, convinta che si tratti semplicemente di “una squallida resa dei conti interni, che porterà a un indebolimento politico del partito e della sua classe dirigente”. A parte il banchiere Gianpiero Samorì, il primo “moderato in rivoluzione” che si differenzia per i capitali a disposizione, gli altri non si distinguono l’uno dall’altro se non per il personaggio televisivo che rappresentano: Sgarbi, Santanché, Biancofiore... “Aprés moi le déluge...” Dall’alto, Berlusconi – che sembra ormai giunto alle conclusioni di Luigi XV, aprés moi le déluge – se la gode, anche perché è chiaro che Alfano sta facendo quello che lui gli ha detto di fare: una cosa tipo “organizzami quest’ultimo festino”. A godere di più, tuttavia, è l’uomo che a gennaio o a febbraio potrebbe fischiare la fine della ricreazione nell’uno e nell’altro schieramento, l’attuale presidente del consiglio Monti, la cui popola-

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rità – come continua a sottolineare egli stesso – è di gran lunga superiore a quella di cui possono beneficiare tutti i partiti della sua coalizione insieme. A lui Montezemolo (ex Confindustria) e Bonanni (Cisl), una coppia uscita finalmente allo scoperto, pensando di fargli del bene, hanno creato una sorta di carrozza – benedetta dal segretario di Stato del Vaticano, Tarcisio Bertone – sulla quale deve solo salire: il movimento è chiamato “Verso la Terza Repubblica”e vi hanno aderito, non si sa quanto festanti, anche i lavoratori delle Acli, un’associazione che negli anni Settanta era forse più a sinistra della Cgil. Arriva la Terza Montezemolo scalda il letto di Monti, in attesa che questi dica finalmente se intende continuare l’esperienza governativa oppure tornarsene in Bocconi. Sa bene che Monti non avrebbe alcun problema a sbarazzarsi di qualunque candidato del centrodestra, Berlusconi compreso, e andare alla sfida con quello che sarà il leader del centrosinistra, dove peraltro militano parecchi “montiani”. C’è semplicemente un paradosso che accomuna le primarie del Pdl e il lancio di “Verso la Terza Repubblica”: nessuno - tra gli uni - sa dire con certezza se le primarie si faranno veramente, nessuno tra gli altri - sa dire con certezza se Monti accetterà la corona che gli porgono.


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Storie

“Qui ci giochiamo tutto” I rossi o i blu? Rottamare o rassicurare? Australia o terzo continente? E alla fine di una combattutissima partita... di Jack Daniel «Stiamo qui mica a scherzare, eh? Qui ci giochiamo tutto». «Lo sappiamo, Pierluigi. E’ inutile che ce lo ricordi». «Regole chiare, correttezza. Non scanniamoci tra noi perché loro non aspettano altro. Tutto chiaro?». «Tutto chiaro» confermarono gli altri. «E allora possiamo iniziare, e vinca il migliore». «Cioè io» puntualizzarono tutti gli altri quattro. «E allora cominciamo. Io prendo i carrarmati rossi». «Quelli appartengono a me: sono un epifenomeno discutibile ma riconoscibile di un inveramento della storia della sinistra della quale, a differenza tua e del tuo partito, non ho mai fatto abiura. Ma con leggerezza, e gioia.». «Ve li lascio: sono un simbolo del passato che dobbiamo rottamare. Prendo i blu.». «Ci sono carrarmati rosa?» chiese l’unica donna del gruppo. Non, non c’erano e si accontentò dei viola. «E bianchi? Sono affezionato al bianco». Nemmeno. Gialli? Vada per i gialli. L’Armata Rossa fu giocata ai dadi, la vinse Pierluigi. Lo sconfitto ripiegò sulle Verdi, ma si consolò facilmente, diceva che era un colore a lui congeniale. Rimasero inutilizzate le armate

nere. Per fortuna. Ognuno aveva il proprio obiettivo che non comunicava apertamente a nessuno ma che cercava di raggiungere con manovre di sponda, posizionamenti strategici e alleanze variabili. Il Siam fu fatale all’unica donna. Arroccatasi lì, decisa a conquistare l’Oceania per farne una ridotta da utilizzare come tana sicura per riaffermare la sua alterità e assistere riparata agli scontri altrui, non riuscì a conquistare il cuore dell’Indonesia. Indebolita, impoverita negli altri territori, subì alla fine l’attacco concentrato di India e Cina che la costrinse al ritiro. In mezzo al guado L’austero nostalgico dei Gialli seguì la sua indole e si rifugiò al Nord. Ma lì rimase, intrappolato tra Groenlandia e Islanda, non sapendosi decidere tra America del Nord ed Europa. E come spesso accade, incerto se puntare sull’uno o l’altro Continente, rimase in mezzo al guado, disperdendo le sue forze ed esponendosi ad attacchi multipli. Con molto realismo si dichiarò sconfitto e lasciò il campo ai tre rimasti. Fu allora che la lotta si fece serrata. Verdi, Rosse e Blu. Strategie differenti: i Blu andavano all’attacco baldanzosi, sempre pronti a ripiegare strategicamente in caso di difficoltà. Le

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Verdi, arroccate in Sud America, con potenti teste di ponte in Africa e nel sud del mondo, sferravano attacchi repentini al cuore dei continenti settentrionali. E le rosse, con tattica solida e prudente, arroccate in Europa, tenevano il centro del tabellone. Difficile vincere rapidamente quando gli avversari sono ben arroccati e hanno solide teste di ponte. Le ore scorrevano lente, tra manovre diversive e attacchi su territori periferici e poco protetti al solo scopo di guadagnarsi una carta in attesa dell’occasione propizia. L’ora era tarda, le strade ormai svuotate e silenziose. Si passò dalle birre ai caffè quando la notte cedette all’alba e i primi biscotti salutarono il levarsi del sole. A metà mattinata un inatteso rovesciamento produsse l’imperiosa avanzata di un’armata che, territorio dopo territorio, riuscì a raggiungere l’obiettivo. Vittoria. «Una straordinaria vittoria» la salutò il vincitore. Esausti bevvero l’ultimo caffè mentre qualcuno, per sapere cosa era successo nel mondo durante la partita, accese il televisore. Si vedeva il Quirinale, e una voce fuori campo informava che “Il Senatore Monti ha ricevuto, dalle mani del Capo dello Stato il mandato a formare il suo secondo Governo».


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Sicilia

L'acqua e gli stucchi del Serpotta Una nuova politica c’è, ma non vive nel Palazzo. Bisogna andare a cercarla altrove… di Paolo Brogi Incontro Antonella Leto, la donna che ha guidato il movimento per l’acqua in Sicilia, il giorno in cui la Corte Costituzionale conferma che la privatizzazione delle acque è illegittima. Curioso paese, non bastavano evidentemente 27 milioni di sì, è occorso scomodare anche la Consulta. Ci sono comunque voluti parecchi mesi per ottenere una risposta chiara dopo la vittoria referendaria “vanificata” in molti posti, a partire dalla Sicilia, da maggioranze varie, perlopiù di centrodestra, che hanno cercato di demolire quel risultato continuando imperterrite per la strada della privatizzazione. Come è successo a Roma, con la giunta Alemanno arenatasi poi sulla vendita dell’Acea. Come è successo anche in Sicilia con la giunta dell’autonomista Lombardo caduta nell’estate del 2012, una maggioranza sostenuto dal Pd che si era immersa nel solco predisposto dal centro destra di Totò Cuffaro continuando a pretendere un’acqua privatizzata. Antonella Leto, 47 anni, alterna la sua vita tra le iniziative per far tornare pubblica l’acqua nell’isola e il lavoro di restauratrice, con particolare dedizione a quei fantastici stucchi arabescati che si chiamano “stucchi del Serpotta”, dal nome dell’immaginifico artista Giacomo Serpotta vissuto tra il ‘600 e il ‘700.

Il suo laboratorio è vicino a piazza Marina, piena delle sue magnolie ramificate, in uno storico edificio palermitano, palazzo Abatellis. E’ lì che Antonella – attorniata dagli arabeschi d3el Serpotta che deve restaurare - passa le sue giornate quando non è alla testa di qualche corteo. E sono forse i cortei sempre più grossi, fin sotto la sede dell’Assemblea regionale siciliana, che hanno fatto capire anche alla Palermo più rassegnata che la gente della Sicilia anche se stanca è tuttora capace di forti sussulti. Basta considerare un dato che Antonella esibisce come un fiore all’occhiello, i municipi siciliani che pian piano hanno fatto loro questo movimento. Da Petralia Sottana a Caltavuturo, da Termini Imerese a pian piano tutto il Belice e all’intera isola, in poco più di tre mesi i comuni in lotta per riavere acqua pubblica sono diventati 140.

questo bene prezioso si sono consumate tragedie, ha catalizzato un’attenzione molto forte e diffusa. Forse anche perché sull’acqua in trent’anni sono stati investiti 5,8 miliardi di euro che la privatizzazione vorrebbe utilizzare per oliare gli affari dei nuovi signori del prezioso liquido. Tutto nasce nel 2005 quando l’Eas, il carrozzone clientelare che non riscuoteva spesso neanche le bollette, viene sciolto dal governatore Totò Cuffaro. Un piccolo regno fatto di dighe, condotte, impianti e acqua ai comuni viene “svenduto” a una cordata guidata dall’Enel, maggioritaria, e dalla Veolia francese. Il primo effetto della nuova Sicilia Acque spa, con un quarto del capitale in mano alla Regione, si fa sentire subito con un aumento delle tariffe. In quattro anni, tra il 2005 e il 2009, l’isola viene suddivisa in nove Ato, ambiti territoriali idrici gestiti dalle conferenze dei sindaci e dei presidenti provinciali. Ed ecco allora scattare il succo della privatizzazione.

Il movimento per l'acqua

“54mila firme in Sicilia”

Centoquaranta su un totale di 390 municipi isolani, con alla testa il comune e la provincia di Messina e poi tutta una fioritura che attraversa la Sicilia. Un miracolo per il piccolo movimento per l’acqua, nato dal basso e quasi per caso, che è cresciuto impetuoso fino a raccogliere tutte queste amministrazioni in gran parte guidate dal centrodestra o da liste civiche tutte schierate contro il sopruso avviato prima da Cuffaro e portato avanti poi da Lombardo. In Sicilia dove per la richiesta del referendum questa donna insieme al suo movimento aveva raccolto novantamila firme i sì sono stati oltre un milione e mezzo. Erano sedici anni che nell’isola non si arrivava al quorum per un referendum. Ma l’acqua, specie in Sicilia dove per

Ogni Ato mette in gara il servizio idrico, tutte le gare registrano una forte ingerenza del presidente della Regione. Nei casi in cui qualcosa va storto scatta il commissariamento: a disporlo è l’Arra, oggi sciolta, all’epoca guidata da Felice Crosta conosciuto come uno degli ad più pagati d’Italia. E così l’acqua non è stata più una cosa pubblica. Ma intanto ecco spuntare un’opposizione. “Noi siamo nati nel 2006 – racconta Antonella Leto -, dalla società civile sono nate adesioni spontanee per la ripubblicizzazione dell’acqua, il primo intervento in concreto ci ha visto raccogliere le firme per questa richiesta. In tutta la Sicilia ne abbiamo raccolte 54mila. E così è nato il Forum siciliano dei movimenti per l’acqua, in pochi mesi sono sorti comitati civici in ogni parte dell’isola”.

Cortei sempre più grossi

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Nel marzo del 2007 ecco il movimento debuttare per le strade di Palermo. Sono diecimila i convenuti, una bella massa che ottiene sulla carta una sorta di moratoria dalla Regione. Uno stop alquanto fasullo che come paradosso vede subito dopo un’accelerazione nelle gare di aggiudicazione per la privatizzazione. Il fratello di Lombardo “In quel momento abbiamo registrato forse il peggio – racconta Antonella Leto Ci sono contratti che sono stati firmati in fretta e furia a mezzanotte… E poi sovrapposizioni di ogni tipo. Ad Agrigento la Girgenti Acque che mischiava pubblico e privato tra affidatari e affidanti: lì la gestione è stata vinta dall’Acoset di Catania, il cui amministratore delegato è Angelo Lombardo fratello dell’allora presidente regionale, sostituito poi da Giuffrida. E intanto i sindaci che si mobilitavano contro ricevevano minacce. E’ successo a Michele Botta, a Menfi nell’agrigentino, un sindaco di centro destra, che ha ricevuto buste con pallottole poco prima di essere sentito in audizione all’assemblea regionale. A Menfi hanno messo anche una bomba alla Camera del lavoro, impegnata nel movimento per l’acqua. A quel punto abbiamo raddoppiato i nostri sforzi e la nostra proposta di legge è stata dichiarata ammissibile dal presidente dell’assemblea regionale Cascio. Assegnata alla quarta commissione, quella su ambiente e territorio, ha innescato una serie di audizioni con i rappresentanti del movimento e soprattutto con i sindaci che intanto avevano fatta propria questa battaglia. Forze politiche? Zero. Dalla nostra un unico consigliere del Pd, Giovanni Panepinto, sindaco di Bivona, un altro paese dell’agrigentino. In commissione intanto i disegni di legge erano diventati cinque, è stata formata una

sottocommissione per sentire i gestori. Poi il 12 giugno del 2011 è finalmente arrivata la vittoria referendaria. Che la vittoria fosse a portata di mano l’abbiamo capito fin dall’inizio della campagna quando è venuta a Burgiu Anne Lestrat, il vicesindaco di Parigi. E’ stata una vera kermesse…Che si è ripetuta dappertutto nelle Cento piazze per l’acqua pubblica, la struttura con cui nei comuni dell’isola avevamo raccolto firme per la nostra proposta di legge”. “La nostra proposta di legge” E poi? “Dopo il referendum vinto abbiamo rivisto la nostra proposta di legge rendendola più vincolata alla disciplina europea. In commissione era stato alla fine definito un testo unico che era in sostanza il nostro. Non è mancato a quel punto un ultimo tentativo di sabotaggio. E’ scattato quando il testo è stato passato alla commissione bilancio. Lì è stata cassata la copertura finanziaria. Insomma questo è stato l’ultimo tentativo di azzopparci. Poi con le dimissioni di Lombardo, il 31 luglio 2012, è finita la legislatura e si è andati alle nuove elezioni. Cosa ci aspettiamo? Ci aspettiamo nel prossimo parlamento regionale di ripartire dalla nostra legge. Ci dovremo far sentire di nuovo, e poi non passa giorno che non si aggiungano nuovi temi collaterali e vicini. Due esempi. Il primo riguarda l’enorme concessione fatta per le trivellazioni nel Belice, in quel territorio dove la ferita del terremoto è ancora fresca, a una società dietro cui si nasconde l’Enel. Trivellazioni per gas e idrocarburi in quel territorio lì, ma vogliamop scherzare?” Antonella Leto sgrana gli occhi. I temi che solleva sembrano però fatti apposta per suscitare scandalo. “Da poco abbiamo appreso che Messina dovrebbe diventare

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il cimitero delle navi Nato a fine carriera, con tutto quello che contengono…Non ci mancava che questo per la povera Messina…E poi una delle ultime mosse di Lombardo, con la scusa del salvataggio idro-geologico, è stata quella di privatizzare le coste siciliane. Insomma i problemi da affrontare non ci mancano”. Fuori, Palermo ribolle nella calda estate del 2012. Santa Rosalia è appena celebrata il 14 luglio per la 388° volta (così recita un manifesto già un po’ scolorito su via Maqueda). Ma la Santuzza è la Santuzza. Dentro Palazzo Abatellis Antonella Leto torna ai suoi amati stucchi bianchissimi e immaginifici. Li ripara con cura. Le bombe degli americani nel ‘43, l’incuria e la trascuratezza dei contemporanei li hanno visti spesso fragili vittime del nostro tempo. La privatizzazione delle coste “Stuc ou marbre fictice” dice l’Encycolopédie in merito. Antonella li cura con la stessa attenzione che ha dedicato all’acqua. Serpotta è stato definito una meteora nel cielo della Sicilia. Le sue opere mirabili sono ancora lì, negli oratori di Santa Rita, del Rosario a San Domenico, della chiesa di San Marco, ma anche a Vicari, in provincia di Palermo, nella chiesa di San Francesco, e ancora ad Alcamo dove si possono ammirare molte sue opere sparse tra la Chiesa del SS. Crocifisso (detta Badia Nuova) e la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano (detta di Santa Chiara poiché annessa al monastero delle Clarisse). Materiali artistici molto vulnerabili. Un po’ come l’acqua della grande isola. Ma Antonella Leto non demorde. (da: Paolo Brogi, Uomini e donne del Sud, Imprimatur editore, 1912)


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Memoria

Via del Fucilatore, Catania Il sindaco cancella i partigiani e dà una strada a Almirante di Domenico Stimolo La Commissione Toponomastica del Comune di Catania si riunisce presso il Palazzo di Città, in piazza Duomo. E’ costituita dal sindaco Raffaele Stancanelli, dai consiglieri Saro D’Agata, Antonio Sciuto e Giovanni Marletta, dai professori Giuseppe Giarrizzo e Sarah Zappulla Muscarà e dall'on.Enzo Trantino. All’o.d.g. l'intitolazione di una via a Giorgio Almirante, proposta da Trantino per conto del “Centro Studi Energie”. Nel chiostro del palazzo c’è una grande lapide “All’imperitura memoria” coi nomi di trentacinque partigiani morti lottando contro i nazifascisti. Sono solo alcuni dei tanti patrioti catanesi che contribuirono con la vita alla nascita della nuova Italia. Due sono stati onorati con la medaglia d’oro, due d’argento, altri due col bronzo. Ci sono anche due donne, Graziella Giuffrida, 21 anni, e Beatrice Benincasa, 20 anni - torturate, seviziate e straziate prima dell’uccisione, Graziella a Genova nel marzo del 1945. Beatrice a Monza nel dicembre del 1944. Tutti, donando la vita, hanno contribuito a riscattare la Patria dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista che, con l'aiuto dei fascisti della Rsi, fece stragi di innocenti e alimentò le fornaci dei campi di sterminio. In quella drammatica fase storica Giorgio Almirante stava dalla parte degli occupanti e dei fucilatori, con un ruolo di primo piano. Fu Capo di Gabinetto del Ministro della Cultura Popolare, in prima fila nella repressione. Dal 1938 al 43, fu segretario di redazione de “La Difesa della razza”, la rivista ufficiale del razzismo italiano. “Esclusivamente e gelosamente fascisti - scrisse nel ’42 - noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo”.

Poi, in due fasi, per lunghi anni fu segretario dei “nuovi fascisti” dell’Msi; prima fino al 1950, poi dal 1969 al 1987. Glorificazione della dittatura, revisionismo storico, maniere “forti”, appoggio al golpe militare greco e a quelli cileno e argentino... *** Le freddi lapidi non hanno voce umana ma chi, in questi giorni, stazionando nel chiostro, vi posasse l’orecchio, sentirebbe uno strano ronzio, un alito sommesso, come un grido di dolore. Quasi nessuno di quei nomi, oggi a Catania, ha una strada che lo ricordi. “L'identità civile della città” La Commissione Toponomastica e l’Amministrazione comunale hanno l’obbligo di rispettare il postulato fondamentale previsto nel Regolamento di “rispettare l’identità culturale e civile, antica e moderna della città”. Questa si configura pienamente nei valori e nei principi fondativi della Repubblica, negli uomini e nelle donne che con pensiero e azione hanno direttamente contribuito alla realizzazione. Intitolare una strada a Giorgio Almirante serve solo a chi non ha rispetto delle memorie patrie democratiche, ai vecchi e nuovi fascisti. Il fascismo catanese Negli anni costoro qui non sono mai mancati. Non tanto per le “glorie” elettorali del Msi, quanto per le numerose e continue pratiche di violenza. Aggressioni, bastoni, catene, e bombe; con forte recrudescenza nel periodo “nero”, specie nel ‘72. Assalti ed attentati a decine: l’esplosione nei servizi dell’Università (aprile 1969), l’accoltellamento del giovane Mimmo Rapisarda (stesso mese), la bomba alla sezione del Pci Grimau ( novembre 1970), , quella alla federazione del Pci (giugno 72), quelle alle due sedi del Pci di Adrano (luglio), e poi alla libreria Feltrinelli e alla cooperativa Camst (settembre); l’accoltellamento del giovane Roberto Pecoraio (gennaio 1972), l’aggressione a Benito Cerra, candidato Pci (maggio 1972).

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“Ecco le prove – Titolava L’Ora 30 luglio 1972 - sui campi militari organizzati dai fascisti in Sicilia”. Per vari anni la città fu area di transito per uomini e mezzi vari dell’estremismo eversivo neofascista. Negli ultimi dodici anni, i rappresentanti delle amministrazioni della destra, i sindaci Scapagnini e Stancanelli non hanno mai preso iniziative per celebrare il 25 aprile, né mai hanno onorato la lapide dei martiri nel chiostro del Comune. Nel 2002 l’amministrazione comunale, pur con forti opposizioni titolò tre strade della città a esponenti del fascismo vecchio e nuovo: il gerarca Anfuso (ambasciatore della Rsi presso Hitler) e i missini Pecorino e Santagti. La moglie di Almirante dal sindaco Scapagnini (ormai ex, condannato al carcere per reato elettorale con l’interdizione dai pubblici uffici) fu ricevuta in Comune in forma quasi “istituzionale”. Nacque lì la promessa dell’intitolazione della strada? Il Comitato No alla strada Almirante Un dato è certo. In città la “memoria è viva”. E’ con questo spirito che è nato il “Comitato antifascista catanese NO alla strada Almirante” . A pochi giorni dalla sua determinazione aderiscono già oltre trentacinque strutture associative, sociali, sindacali e politiche. Non sarà facile per lorsignori oltraggiare i valori della memoria civile e democratica, radice dell’oggi e faro del domani, nella formazione dei valori fondamentali della cittadinanza e dell’insegnamento per le nuove generazioni. Si onori, tra i tanti catanesi che si opposero al fascismo, il prof. Carmelo Salanitro, condannato a diciott’anni per attività antifasciste poiché ”sobillava” i ragazzi della scuola contro la guerra scatenata dai nazifascisti, gasato nel Lager di Mauthausen il 24 aprile 1945. E non chi, in quelle tragiche giornate, come scandito dal manifesto pubblicato il 17 maggio 1944 a Grosseto, a firma di Giorgio Almirante (in nome del gerarca Mezzasoma) sanzionava la pena di morte per gli “sbandati” che non intendevano “collaborare” con i nazisti e il loro progetto sterminatore.


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Palermo

Insegnanti a scuola di antimafia sociale La scuola e gli insegnanti hanno strumenti adeguati per un programma di contrasto culturale della mafia che non sia occasionale ma rappresenti un punto irrinunciabile e trasversale rispetto a tutte le discipline? di Giovanni Abbagnato

Da questa domanda sono partiti il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Palermo e la Cooperativa sociale antiusura e antiracket Solidaria che si sono ritrovati, dai loro diversi punti di osservazione, nella condivisione di un originale progetto d’intervento formativo - da considerare pilota rivolto ad insegnati di Istituti Medi e Superiori di diverse parti d’Italia. Tale sinergia nasce dalla constatazione, ormai innegabile, della diffusione nazionale ed internazionale dei fenomeni di criminalità organizzata che ormai non consentono più diversificazioni, ma richiedono comuni azioni formative e confronti specifici, da Busto Arsizio ad Agrigento. Non a caso la denominazione del corso, che si è tenuto a Palermo il 22/23/24 novembre è: “Percorsi didattici di anti-

mafia sociale: Una proposta formativa multidisciplinare tra processi educativi e impegno sociale”. Un’evidente tentativo di saldare le due dimensioni di un serio contrasto alla mafia: quella dello studio fenomenologico, anche sul piano sociopsicologico, e quella dell’impegno sociale che diventa strumento attivo sul territorio di cambiamento. La cooperativa Solidaria Non è un caso che l’incontro progettuale abbia visto protagonisti l’Università di Palermo, con la prestigiosa Cattedra di “psichismo mafioso” all’interno del Dipartimento di Psicologia diretto dal Professore Girolamo Lo Verso e la Cooperativa sociale Solidaria diretta da Salvatore Cernigliaro, impegnata sul territorio nell’attività di assistenza e sostegno complessivo delle vittime di usura e racket e nella diffusione della cultura della legalità democratica, soprattutto fra le giovani generazioni. Fra Piana e Corleone Vasto, ma intenso e compresso in soli tre giorni il programma, come non possono non essere i programmi di corsi per insegnanti che hanno sempre difficoltà ad allontanarsi dalle loro attività ordinarie. Tuttavia, c’è stato spazio oltre che per diversi moduli di intervento in materia psicologica, anche per sessioni dedicate a “Scuola e Territorio”, “Scuola e Società”, “Scuola e Comunicazione”. Particolarmente significativa la sessione “Scuola e Società” tenutasi tra Piana degli Albanesi e Corleone per un confronto tra storici, operatori sociali ed educatori del territorio. Particolarmente suggestivo l’incontro con i reduci della

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strage politico – mafiosa di Portella delle Ginestre del 1947 e con la Cooperativa sociale Lavoroenonsolo di Corleone attiva su beni e terreni confiscati alla mafia. Prospettiva e memoria Un incontro e un confronto per i docenti in formazione condotto sul filo della memoria, ma anche della prospettiva. Infatti, i giovani cooperanti della Lavoroenonsolo ogni giorno stabiliscono concretamente una continuità con quel grande movimento contadino siciliano, ancora rappresentato dai reduci di Portella, che, attraverso le diverse forme di contrasto alla mafia e ai suoi riferimenti politici e affaristici, seppe dare speranze che, pur se piegate dalla violenza distruttrice del sistema politico-affaristico e mafioso, è capace di riemergere ogni qual volta il popolo di un territorio decide di alzare la propria testa e con essa la propria dignità. Tanti altri i contenuti e le suggestioni offerte dal corso che, in un progetto di formazione professionale, ha voluto coniugare temi didattici ad azione sul territorio, con la non nascosta ambizione di utilizzare l’incontro di insegnanti di diverse parti d’Italia – da Milano a Catania - per tessere un altro pezzo di rete. Da Milano a Catania Una rete tra mondi – quello della Scuola e dell’impegno sociale antimafioso, indubbiamente diversi, ma che, se si ha intelligenza per comprenderlo sono, inevitabilmente destinati, ad una sintesi formidabile per la promozione sociale nella libertà di tutto il nostro Paese.


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Block-notes

Retrospettiva

Quattro foto da qualche anno fa di Fabio D'Urso Foto per una manifestazione antirazzista. Un uomo di venticinque anni con suo figlio. Grazie, posso farla a tuo figlio. Carino il bambino combinato in quel modo sai, che poi ci mancava altro che lo coloravi di nero. Cappellino jeans, palloncino e adesivi che lo tapezzano qua e la. E le scritte " io sono razzista" che vanno orizzontali, dall'alto in basso, di sbieco e a destra e a sinistra. Ma che è un personaggio da comix, una maschera di carnevale, non ti bastava andare alla manifestazione con lui dentro il suo mega passeggino che sembra un astronave. E che da grande gli vuoi fare fare il super eroe ?. E va bene ti invidio proprio, è bellissimo tuo figlio. Uno, due, tre, fotografato. Seconda foto. Frisullo e altri dieci o quindici tipi di altre associazioni di base che sono impegnati per la promozione umana degli immigrati. Intelletuali vestiti con giacche anni sessanta, cappelli stravolti, musi lunghi, troppo magri, oppure troppo grassi, gonfi, goffi a vederli. Rimuginano sul nome della rete antirazzista e se il "matrimonio" tra le associazioni si deve o non si deve fare. Ci sono anche quaranta immigrati a

queste benedetta riunione che si tiene da tre ore fino a cinque minuti prima della manifestazione. Finisce che il volantino si fa senza il nome della nuova rete antirazzista; perchè per questo si devono riunire ancora sessanta circoli di Arci solidarietà. Cominciano i mormorii di protesta. La protesta serena è che non si gioca con il nome della rete antirazzista, cinque minuti prima della manifestazione perchè vorrebbero controllare la formazione di questa rete di associazioni. Il volantino si deve ancora fare, e si dovrebbe badare di più alla sostanza. Che è da cinque anni che gli extra comunitari non scendono in piazza. E click. La stanza dove si fa la riunione Terza foto. Un giovane ventenne di colore. Bello con la sua testa tra le mani, i tratti e il fisico alla Lewis, i gomiti a novanta gradi su uno dei sessanta tavolini da convegno. Resta seduto a guardarsi la scena: movimento spasmodico di persone che vanno fuori dalla stanza dell'Arci, dove si fa la riunione. Stanchi e già elettrici, con le ore di viaggio che si sono

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fatti, che gli fanno tante affossature agli occhi. C'è chi blatera sugli strumenti e i mezzi della democrazia nelle associazioni di base. Ragazzini con la kefia Quarta immagine. Strati di ragazzini con la Kefia, che si alternano agli strati della gente di colore. Una festa multimediale in cui i testi delle canzoni, dico quello per cui si scende in piazza, non coincidono perfettamente con le musiche, i ritmi e le armonie della gente di colore che che ha difficolta a mischiarsi con gli altri italiani, per. portare in piazza il proprio disagio senza che questa manifestazione si trasformi in festa folcloristica o in un festival multimediale all'italiana. Sento l'odore di una giornata ipocritamente antirazzista, con i bus e la metro gratis. Ed è il venticinque febbraio, e siamo a Roma che sta tra Sanremo e Caserta. Che a Sanremo ci sta il festival, e a Caserta ci stanno i ghetti. E siamo nel bel mezzo del carnevale. Mi dicono che la lira è scesa: meno nove virgola sei di deficit di bilancio.


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Studenti

“Noi ci rappresentiamo da soli”

“Contro la svendita del nostro futuro” di Alessandro Romeo Cartelli e striscioni non vanno neanche scritti, si usano quelli della preceente manifestazione, e di quella prima e prima ancora, perché in questo inverno molto caldo, e da un po' di tempo in qua, si scende spesso in piazza, e a farlo sono sempre più loro, i ragazzi. A Catania, per esempio, hanno manifestato in diecimila per la scuola pubblica, con un corteo che da piazza Roma ha sfilato per corso Italia e via Umberto fino a villa Bellini. Hanno protestato contro il governo Monti, chiedendo più stanziamenti per l’istruzione e pretendendo garanzie per un futuro ormai difficile anche solo da immaginare. Si protesta da Firenze - dove i ragazzi hanno bloccato simbolicamente la stazio-

ne di Santa Maria Novella - a Napoli con gli operai di Pomigliano che hanno sfilato con gli studenti, a Palermo insieme ai cassaintegrati della Gesip. A Roma hanno manifestato pure i fascisti di CasaPound, anche se in piazze diverse dagli altri cortei, perché ormai le prospettive per i giovani in Italia sono più nere di qualunque camicia. Non dimentichiamo però come proprio le idee più pericolose hanno trovato sostegno in periodi di grave crisi. Soprattutto i giovanissimi Studenti, Cobas, Flc-Cgil, Unione degli Universitari, lavoratori più o meno precari: sono tante le realtà messe insieme dalla protesta che oltre i tagli alla scuola contesta la proposta del ministro Profumo dell’incremento delle 24 ore lavorative per i professori. Sono soprattutto gli studenti delle superiori a costituire il corpo dei cortei, i giovanissimi, che di futuro ne avrebbero ancora tanto e potrebbero pensare a divertir-

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si e non a preoccuparsi di crisi del lavoro, salari insufficienti e austerità. Questi ragazzi però hanno già imparato ad aprire gli occhi, hanno amici che sono alla università e non li sentono parlare di prospettive dopo la laurea, hanno fratelli e sorelle disoccupati o precari, a volte gli stessi genitori con problemi di lavoro. E non ci stanno. Non vogliono vivere fin da ora la paura di una quotidiana incertezza. Così si scende in piazza, e mentre alla vigilia delle prossime elezioni politiche “i grandi” ragionano di possibili Monti Bis, tombola delle coalizioni di partito, opportunità di uscire dall’area euro, aspettando di vedere cosa farà l’imminente prossimo governo, i ragazzi si autorappresentano. Non si riconoscono nei partiti, né nei sindacati, e non intendono riporre la loro fiducia e loro sorti nelle mani di personaggi e organizzazioni cui attribuiscono la responsabilità dei problemi attuali. Sono quelli di “Noi La (vostra) Crisi Non La Paghiamo”. Forse è una caratteristica dei giovani di non credere ai grandi, o forse è l’inizio della nascita di nuovi movimenti.


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Periferie

La parola futuro e i bambini di Bucarest Vivere per le strade, dormire nelle fogne di Miriana Squillaci i Cordai

"Mi è sempre piaciuta la parola futuro, quando la sento mi ricordo di essere viva. Onestamente preferisco quando a pronunciarla sono i bambini, loro sì che sanno cosa vogliono: spazi comuni, piste ciclabili, tempo da dedicare alle persone e alle cose che amano. I giovani, non so perché, ne hanno paura, come se, citandola ad alta voce, tutti i bei colori e disegni che ci sono dentro scappassero via e fossero impossibili da stendere sulla tela della vita. Gli adulti quando la sentono si scoraggiano, come se il loro futuro fosse ormai passato e non avessero il diritto, o meglio il dovere, di ripeterla ai loro figli e nipoti ogni giorno, per fissarla per bene nella loro memoria. E poi ci sono loro, la categoria trasversale, capace di mutare ogni verità in menzogna: gli uomini di potere. Con loro lei si sporca, perde i suoi colori e diventa grigia. E' allora che la parola futuro si sente persa ed impaurita: com'è possibile che il suo viso sia diventato così triste e consumato dalla paura, dai bisogni, dal dolore? Lei e quello specchio non dovrebbero essere le priorità di ogni essere umano che sappia amare?"

Se questa è vita Qui a Bucarest sto leggendo la tesi di Donatella sui ragazzi di strada: me l'hanno data alla Fondazione Parada per cominciare a conoscere il loro lavoro, che fra pochi giorni sarà anche il mio. Un fenomeno al tempo stesso sconosciuto e vicino. É incredibile come in tutto il mondo (Brasile, Messico, Guatemala, Bolivia, Italia, Romania, Russia, Africa...) la povertà, l'abbandono, la violenza sui minori, abbiano la stessa enorme presenza e godano della stessa indifferenza. Leggo le storie dei bambini che lei ha conosciuto e con cui ha lavorato al centro diurno della Fondazione: un bambino di otto anni che vive con genitori e sette fratelli in una casa abusiva e che adesso è stato riscritto a scuola dopo averla abbandonata; un bambino di tredici anni con un fratello più piccolo e altri fratellastri più grandi che alterna periodi in strada e periodi a casa e che incentra tutta la sua vita su un personaggio dei fumetti; un tredicenne che ha frequentato solo cinque classi e non vuole più tornare a studiare, a cui bisogna ripetere sempre le cose, che non vuole rispettare le regole e che fa uso di droghe ma che in fondo ha solo bisogno di essere spronato; un ragazzo di diciott'anni fuggito da casa perché i genitori hanno divorziato e che adesso vive con tre fratelli in strada ed ama la giocoleria... Piccole storie. Sono tante ma non bastano a raccontare il dramma dei ragazzi di strada a Bucarest, spesso fuggiti da case in cui non ricevevano amore ma violenza ed abusi, o dagli orfanotrofi-

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lager costruiti da Ceausescu sotto il comunismo, quando la politica dell'incremento demografico mirava ad avere giovani braccia per il suo esercito. Ragazzi che oggi vivono nelle fogne e nelle metropolitane, attaccati ai tubi per riscaldarsi, e che sniffano colla per fuggire dai morsi della fame. Ragazzi costretti ad accattare o a rubare, costretti a creare gangs che spesso diventano una una prigione umana. Vittime di maltrattamenti, abusi, facili prede del turismo sessuale... Ragazzi normali che sognano per il loro futuro (quando non glielo ruba la droga o la malattia) niente più che una casa, una famiglia, un po' di calore. Calore che ora trovano solo in fondazioni come Parada, che ogni giorno - attraverso il Centro Diurno, la Caravana notturna e le mille attività - cerca di fare del suo meglio per reinserirli nella società. Come nelle periferie catanesi Chiudo gli occhi un momento e torno a casa, a Catania, a San Cristoforo, a Librino. Forse cambiano Paese e lingua - penso - ma a cambiare non sono le condizioni dei minori. Minori che vivono in case abusive prive delle condizioni di sicurezza minime, minori a cui viene negata la possibilità dell'istruzione perché il comune non paga l'affitto della scuola che perciò viene chiusa, e finiscono per la strada assoldati dalla mafia. Bambini privi di tutela che vivono in famiglie dove la violenza, soprattutto maschile, è pane quotidiano, ragazzi che a scuola insegnano ai compagni come saltare i cancelli e tagliare la droga...


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“A Catania come a Bucarest, l'unico aiuto viene da alcune associazioni”

Scheda LA FONDAZIONE PARADA Nel 1992 Miloud Oukili, clown franco-algerino, arriva a Bucarest. Colpito dalla realtà dei ragazzi di strada decide di non voltarsi dall'altra parte, ma diventare per loro " un fratello maggiore". Così attraverso la giocoleria e l'ascolto, guadagna la fiducia dei ragazzi che, grazie all'insegnamento dell'arte circense iniziano un nuovo cammino. Miloud decide di creare Parada nel 1996, dopo il primo spettacolo in strada, che rende i bambini estremamente felici. Lo scopo della fondazione è portare i bambini "fuori dalla strada" , lavorare per un loro reinserimento attraverso il "circo sociale", che con l'aiuto dello sport, la creatività, la disciplina, la fiducia, aiuta i ragazzi a riprendere in mano la loro vita. Le attività della fondazione sono moltissime, una delle più importanti è sicuramente la CARAVANA (unità mobile notturna), attraverso cui si cerca di monitorare il fenomeno, creare un primo incontro e fornire un primo aiuto (cibo, assistenza sociale e sanitaria) ai ragazzi e alle famiglie che vivono nelle strade di Bucarest. Se la Caravana funge da primo contatto, fondamentale è anche il lavoro del Centro Diurno, il cui scopo è stimolare i ragazzi verso l'uscita dalla strada, con un lavoro di gruppo ed individualizzato. Ogni giorno è frequentato da 25-30 ragazzi, bambini e famiglie, ed offre, oltre aa un aiuto primario (mensa, servizi igenici e sanitari), anche attività educative e ricreative. Alla base dell'associazione è stato, ed è ancora, il dipartimento artistico, che come si legge sul sito "lavora per ridurre gli stati di disagio fisico, psichico e sociale dovuti alle condizioni di vita, valorizzare le manifestazione di autenticità edestetica nella quotidianità dei ragazzi, familiarizzare con gli atti artistici, migliorare la percezione delle proprie attitudini, dare spazio al potenziale creativo dei beneficiari. " E proprio da questonascono le emozionanti tournèe, momento fondamentale per il rinserimento dei ragazzi e per tutti noi. Ma tanto altro su Parada lo scoprite nel film di Marco Pontecorvo "Pa-ra-da il film", oo su: www.parada.it - www.paradaromania.ro

Anche loro sono ragazzi normali, che desiderano solo un futuro in cui ci sia una casa, una famiglia, un po' di tempo e di spazio per stare insieme senza rischiare di finire in un buco o di essere investito da una macchina. Anche a Catania come a Bucarest, l'unico aiuto viene da alcune associazioni. Come il Gapa che da venticinque anni lavora senza sosta a San Cristoforo, cercando di dar voce e opportunità a persone a cui le istituzioni hanno preferito dare solo pasta, ricariche telefoniche e false promesse in cambio di voti. Allora mi sento arrabbiata e mi chiedo a cosa serva la Convenzione Internazionale dei Diritti dell'Infanzia, piena di bei principi che restano solo principi, di bei discorsi retorici da pronunciare davanti ad una telecamera o scivere in in commoventi articoli di giornale. Uno di quei giornali o di quelle tv che ogni momento ci raccontano che gli “stranieri” rubano, mentre tante multinazionali rubano l'infanzia dei bambini di tutto il mondo. E anche quando il problema viene sfiorato, viene fatto apparire molto lontano da noi, dalla nostra società "civilizzata": il bambino africano che vive in un villaggio isolato, il bambino indiano che lavora in fabbrica, il bambino cinese costretto

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ad allenarsi con esercizi al limite dell'umano. Ma noi, dove siamo noi? Dov'è la civile Europa che guarda questo lontano universo primitivo? Dov'è la civile Europa? Eppure, questo fenomeno è anche dentro l'Europa. La stessa Europa di cui fa parte Bucarest, e di cui fanno parte San Cristoforo e Librino. Che non è ancora riuscita a fare una politica capace di salvare i minori scappati dai conflitti e dal dolore, e spesso scaraventati invisibili nelle nostra civili strade - a prostituirsi o a raccogliere pomodori fino a quando un giorno li ritrovi ammazzati da chissà chi, chissà perché... In fondo a tutto questo silenzio si alza solo una voce, quella delle associazioni che lavorano per l'infanzia ogni giorno, in tutto il mondo; che tirano via quei famosi principi dalla carta e, come nella fiaba, anche le cose inanimate cominciano ad avere una propria vita. Associazioni come Parada in Romania e il Gapa a San Cristoforo di cui vi racconterò però la prossima volta. Perché, almeno fino ad allora, sentiate anche voi come suona la parola futuro per questi bambini


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Sicilia

Gaetano Porcasi pittore antimafia Murales su tela per raccontare una Sicilia epica e dolorosa di Salvo VItale

Ha fatto i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, ha lavorato in Sardegna, poi in Sicilia, adesso insegna presso il Liceo Scientifico di Partinico. Da una decina d’anni a questa parte ha scelto di dipingere la storia, soffermandosi in particolare su tutte le vittime di mafia. Ha cominciato con la strage di Portella della Ginestra, alla quale ha dedicato una decina di quadri, si è poi spostato sugli esponenti delle forze dell’ordine, sui magistrati, sui giornalisti, sui sindacalisti uccisi, sulle vittime della società civile, sulle esperienze antimafia, sul ruolo della chiesa. Il suo amore per la Sicilia lo ha portato a coglierne i molteplici aspetti, i volti, i luoghi, i mestieri, gli uomini, le donne, i bambini, gli intellettuali. Adesso sta lavorando sulle stragi in Italia e nel mondo, partendo dall’Unità d’Italia e della tragica mattanza operata dai Piemontesi nel Mezzogiorno, continuando con i Fasci Siciliani, con le stragi naziste, quelle neofasciste di Piazza Fontana, dell’Italicus, della stazione di Bologna, per arrivare alla strage di Duisburg. I suoi quadri passano in rassegna i 150 anni di storia dall’Unità cercando di recuperare angoli di memoria dimenticati e frammenti di storia dove la violenza subita dalle vittime, il loro sangue, la loro morte, diventano quasi una sorta di seme e di strumento per attivare una interiore palingenesi, un momento di riscatto in cui l’evento raffigurato suggerisce la volontà di andare avanti e di non fermarsi nella dimensione immediata del dolore.

L’arte è agire, fare, produrre. E ciò che l’artista produce può provocare un’emozione, generare un coinvolgimento interiore, ma può anche contenere un messaggio, indicare un valore, un principio, una via. In tal senso l’arte diventa etica, contenuto morale, stimolo pedagogico, momento educativo. I quadri di Gaetano Porcasi suggeriscono un percorso tragico, scandito dai numeri civici che indicano gli anni in cui è successo l’avvenimento raffigurato e tracciano una lunga via di dolore che attraversa la Sicilia: sotto traccia s’intravedere l’intenso e sotterraneo lavoro con cui gli uomini che si dedicano alla lotta contro la mafia giornalmente costruiscono una via alternativa dalla quale si snoda faticosamente il percorso della liberazione dal potere e dalla violenza mafiosa. Un drammatico racconto storico Si tratta di un racconto storico che si sofferma su momenti drammatici e su persone che hanno messo in gioco la propria vita per dare un contributo alla battaglia, sempre attuale in ogni parte d’Italia, contro il malaffare, contro la prepotenza , contro la violenza e contro le collusioni politico-mafiose, avendo come obiettivo la prospettiva di un cambiamento o di un rinnovamento radicale, con la certezza di avere fatto sino in fondo il proprio lavoro e il proprio dovere. Progettare il futuro guardando all’eredità del passato, conservare la memoria per costruire il presente, individuare valori di riferimento e trovare nella propria interiorità la forza per non subire e per saper lottare. Questo è il forte messaggio contenuto nelle tele di Porcasi. Non c’è la perfezione stilistica, il tocco del “maestro” che riesce a dare compiutezza formale ai particolari attraverso una completa padronanza della tecnica e del disegno. Non c’è la ricerca di significati nascosti all’interno della realtà, di dimensioni subliminari, di esplorazioni nei misteri dell’inconscio, di transfert interni all’immagine, come veicolo verso mete ignote della soggettività.

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Non c’è l’astrazione dalla realtà verso formalizzazioni geometriche che dissolvono il reale schematizzandolo in simboli di cui non sempre si intravede la pregnanza di un significato. Non c’è la deformazione del reale alla ricerca della demolizione dell’armonia della forma e dell’equilibrio della classicità, verso immagini perdute in una fissità quasi infantile. Non c’è il surrealismo, l’astrattismo, il simbolismo, la metafisica, non ci sono particolari eccessi, sforzi di creatività fantastica o scoperte di dimensioni magiche. Non c’è Dalì, Matisse, Klimt, Ligabue, Botero, De Chirico, Kandinski, Munk o qualche altro mostro dell’arte contemporanea. Stenteremmo a trovare una classificazione della pittura di Gaetano Porcasi in una scuola o in una corrente. Qualche richiamo con il realismo di Guttuso o con l’iperealismo dell’arte russa di regime, o ancora, alla pittura messicana contemporanea si ferma là, perché egli non pretende di trasfigurare l’immagine in dimensioni personali o servirsi di essa per comunicare specifici messaggi politici. Il verismo siciliano Secondo la lezione del verismo siciliano egli riproduce ciò che è già perfezione nella sua condizione naturale, fissa l’attimo nella sua irripetibilità, inondandolo di colori e di luce, si ferma sulla soglia che separa la cronaca dalla storia, ma che possiede, nel suo essere “fatto”, un preciso significato che trascende il fatto stesso e lo rende valore, principio etico, messaggio. Il pennello si muove disinvoltamente sulla tela e la disinvoltura non è, o non è solo, come talora succede, sinonimo di superficialità, ma è anche possesso delle conoscenze indispensabili della tecnica. Va anche detto che ci troviamo davanti a una pittura difficilmente commerciabile; un quadro che fa parte di un’epopea o che si lega ad altri per illustrare una compiutezza storica, non è un prodotto singolarmente acquistabile: in un mondo in cui tutto è monetizzato o trasformato in valore di scambio, ciò è eticamente un pregio, economicamente un difetto.


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“...avendo come obiettivo la prospettiva di uncambiamento o di un rinnovamento radicale, con la certezza di avere fatto sino in fondo il proprio lavoro e il proprio dovere� I Sicilianigiovani – pag. XX


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La “solarità mediterranea” caratteristica dominante di questa pittura E così le rughe dei contadini, le mani ossute, il viso scavato, diventano le rughe e le escrescenze degli ulivi, la ricchezza vegetativa e le vivacità della ginestra diventano la fecondità e la dolce bellezza delle donne siciliane, il pathos della morte nasconde il germe della rigenerazione, gli alberi sono legati alla terra così come gli uomini che da essa cercano nutrimento, le agavi e i girasoli sono protagonisti dello spazio nel loro contorto sviluppo che diventa metafora della Sicilia, nella sua dimensione di centro della storia e ombelico del mondo. Si potrebbe osservare che la “solarità mediterranea” sia la caratteristica dominante di questa pittura, certe volte arida, altre volte ricca di vegetazione e colori, che il pittore sia prigioniero della dimensione che lo circonda, che non riesca a trasferirsi oltre le immagini che gli si presentano quotidianamente. In realtà si tratta di un microcosmo sistematicamente studiato, dove lo spazio delle emozioni è imbrigliato da una razionalità lineare, che, dal suo angolo particolare, intriso di sicilianità, si proietta nella dimensione universale della storia e dell’arte.

***

Gaetano Porcasi ha dipinto più di 600 tele. Una trentina di esse si trovano a Corleone, in quella che fu la casa di Bernardo Provenzano e di suo fratello e che, ristrutturata dal Comune è diventata “Casa della Legalità: circa diecimila presenze l’anno ci danno l’idea del successo di questa iniziativa. Anche a Spello, nella ristrutturata Villa Fidelia, c’è una mostra permanente con una ventina di quadri. E’ in allestimento, ad Alcamo, un’altra iniziativa che prevede l’allestimento di un museo permanente delle stragi. E infine è in stampa un libro, curato dallo scrivente, che rappresenterà una sorta di catalogo di tutte le opere dell’artista e che sarà anche un prezioso strumento di lavoro per coloro che vorranno fare lezioni di antimafia.

. “La morte nasconde la rigenerazione, gli alberi sono legati alla terra come gli uomini che da essa cercano nutrimento, protagonisti di un contorto sviluppo che diventa metafora della Sicilia” I Sicilianigiovani – pag. XX


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Persone

Il nostro Scidà Aiutò i ragazzi poveri. Difese la Città. Sembra che stia dormendo, e che sorrida di Riccardo Orioles www.ucuntu.org

Ha un lieve sorriso ironico, da ragazzo intelligente. L'aria, dalla finestra, gli passa leggermente fra i capelli. Ne muove a volte alcuni, arruffati e bianchi. Ed egli dorme. Dorme, nel buio della notte, la sua città. Dorme lo scippatorello, sognando un'infanzia normale. E' in una delle statistiche più feroci d'Europa, quella della criminalità minorile catanese; ma i sogni sono liberi, ed egli sogna. Dorme il politico, sognando gli appalti dell'anno prossimo, Corso Martiri, miliardi. Dorme il padrone-editore, inquietamente. Dorme il suo giornalista, dorme (ma più innocente) la ragazza di vita. Dormono i magistrati collusi, digrignando i denti. Dorme il bottegaio minacciato, dormono i ragazzini di Addiopizzo che lo difendono da soli. Passa la rara guardia notturna, passano le ronde dei mafiosi. Questa è la sua città.

*** “Venni a Catania, giudice del Tribunale, da Palazzolo...”. La città di Catania, a quei tempi, aveva al suo centro una grande piazza. Su un lato il palazzo di giustizia, cieco, sull'altro i carabinieri muti. UN ANNO Questo pezzo è uscito su Ucuntu il 22 novembre 2011. Lo ripubblichiamo adesso, a un anno dalla scomparsa di Giambattista Scidà.

Su un altro il grand hotel dove, settimanalmente, s'incontravano i padroni della droga. Su un altro ancora le bische della Famiglia Santapaola-Ferrera. Al centro, un gran monumento ai cui piedi si prostituivano i ragazzi che non avevano il coraggio di fare, per la dose quotidiana, una rapina. Nella città si parlava, prudentemente. Ma non si scriveva. Si amministrava giustizia severa, contro i piccoli scippatori e ladruncoli che la miseria generava. Ma si chiudevano entrambi gli occhi di fronte ai ricchi mafiosi e ai loro imprenditori. “Rendo, Graci, Costanzo, Finocchiaro!”. Furono gli studenti della città, in quegli anni, quelli che fecero i nomi. Non certo i magistrati. Con una sola eccezione. “Mi concedano lor signori di esporre alcune considerazioni sullo stato della giustizia in questa città...”. Questo era lui, Giambattista Scidà, quello che ora dorme nella stanza accanto. Non gli potevano dire di no: non puoi levare la parola a un magistrato, all'inaugurazione giudiziaria, una volta all'anno. E lui era un magistrato. “In nome del Popolo Italiano” c'è scritto sulle carte dei giudici. Lui ci credeva. Così, garbatamente, prendeva la parola e cominciava a elencare cifre e dati. Le cifre dei ragazzini ammazzati, divorati vivi dalla “città matrigna”. I dati degli intrallazzi dei benestanti, magistrati compresi, comprese le mura e i tetti delle preture. Le cifre della città indifesa, abbandonata alla mafia e ai Cavalieri. E passavano gli anni. Io lo conobbi per caso, da povero cronista, facendo il mio mestiere come lui faceva il suo. Presiedeva il tribunale dei minori, cioè il posto dove andava a finire la produzione del sistema. Ti distruggo il quartiere, ti nego la scuola, ti butto sulla strada, non ti do' lavoro, ti lascio la delinquenza come unica prospettiva. E poi ti ammazzo, o ti faccio

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ammazzare dei mafiosi, o nel migliore dei casi ti trascino qui, nel tribunale e in galera. Giustizia e carceri minorili, prima di lui, erano gironi danteschi. Lì si veniva “giudicati” in serie come numeri; qui messi coi delinquenti grandi e spesso seviziati. Con lui, tutto cambiò. Il tribunale diventò luogo di giustizia, dove ogni singolo caso veniva studiato e trattato con estrema attenzione. Nessun ragazzo fu mai abbandonato dopo. Famiglie, casefamiglia, comunità, assistenza individuale: spessissimo a spese del giudice, sempre per sua cura. Il giudice dei minori a Catania – l'uomo che borghesemente avrebbe dovuto essere il principale nemico dei ragazzi di strada – veniva accolto come un padre nelle periferie e nei mercati. La giurisprudenza minorile di Catania divenne, e come tale fu vista, un modello per l'intera nazione.

*** Ma questa era solo una parte. Poi c'era quella “politica”; cioè di servizio alla polis, della Città. Per vent'anni Scidà fu fra i pochissimi che combatterono, non una volta ogni tanto ma ogni giorno, e non con mezze parole ma a pertamente, il sistema di potere catanese. Dai Cavalieri a Ciancio, dall'impresa e politica collusa alle infiltrazioni d'affari in tutti i palazzi: compreso quello di Giustizia. Lui, Fava e D'Urso furono gli eroi incorruttibili di questa guerra. Giuseppe Fava lo ammazzarono nell'84.


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Scidà e D'Urso ne ripresero, coi suoi ragazzi, la lotta. Giuseppe D'Urso morì, di malattia misteriosa, nel '96. Scidà - dispersi i ragazzi di Fava, chiusi per la seconda volta i Siciliani - rimase solo. Dunque, dovette fare per tre.ome le mura della città”, scrive Eraclito. Egli si piantò dinanzi a quelle mura con lancia e scudo come un guerriero antico. Nessuno gli fece paura, non pensò mai di arretrare. Facessero carriera gli altri, lo minacciassero pure. Non tradì la città nè i suoi ragazzi. Dall'una lo richiamava il dovere, dagli altri una sconfinata pietà.

*** Il giornale, una volta, era sul percorso del tribunale minorile, fra gli alberi del viale. Io uscivo prestissimo dalla stanza dove dormivo, per andare a prendere il primo caffè; e lui, alla stessa ora, andava da casa, a piedi, al tribunale. Mi si affiancava in silenzio, o io a lui, a mezza strada. Camminavamo muti, ognuno nei suoi pensieri, fino al piccolo chiosco del caffè. Da poco aveva perso una figlia, gli parevano futili le parole. Il barista, che ci conosceva, scaldava la macchinettà del caffè. Poi: “Buona giornata!”. “Buona giornata a lei!”. E ognuno al suo lavoro. A volte andavo a trovarlo, nella casa ormai vuota, fra pile disordinate di carte e di libri antichi. Era un cultore di storia; il

grande Le Goff, quando veniva in Italia, spesso passava da lui. Così, la conversazione spesso inavvertitamente si spostava da Catania al Siglo de oro, a Cervantes, al lugar de la Mancha. A volte, ma più di rado, capitava che pranzassimo assieme; di solito era quando andavo a trovarlo al tribunale. “Pranza con me?”. “Andiamo”. E qui c'era un intoppo. La macchina di servizio che lo attendeva fuori (col fedelissimo autista di cui non ricordo il nome) era un bene dello Stato; poteva imbarcare il suo servitore Scidà dal tribunale a casa, visto che a ciò era destinata, ma tale privilegio non poteva assolutamente estendersi agli amici personali e privati. Non potendo far salire me (che sarebbe stato abusare), né lasciarmi a piedi (che sarebbe stato scortese), finivamo per andarcene a piedi tutt'e due, con l'autista che, solo in auto, ci veniva dietro. Per fortuna il clima catanese è mite e quelle mattinate erano – almeno nel ricordo – luminose e ridenti.

*** Cos'altro? So che dovrei parlare del caso Catania – l'ultimo – della Procura, delle cose importanti insomma. Va bene. Catania non ha mai avuto un Palazzo di giustizia lontanamente paragonabile a quello palermitano. Giudici antimafia ce ne sono stati pochi, tre dei quali (Lima, Marino e Ardita) costretti, in un modo o l'altro, a farsi da parte. Liti fra diverse cordate, ultimamente Gennaro vs Tinebra, a parole opposte ma di fatto equivalenti. Polveroni ogni tanto. Impunità. E dunque proposta di Scidà: prendiamo

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un giudice terzo, uno di fuori. Campagna contro Scidà dei poteri forti, cui una Procura funzionante non fa affatto piacere. Spreco di polemiche (Ziniti, Rizzo, Condorelli, Sicilia, Sudpress, Repubblica) contro Scidà e in sostegno di uno dei due contendenti indigeni, per lo più Gennaro, a volte in buona fede a volte meno. Sullo sfondo, grandi attese nel settore appalti: avremo una Procura che li controlli oppure no? Scidà (e con lui Giustolisi, Finocchiaro, Travaglio e Orioles) spera di sì. Altri parlano d'altro, o alzano polverone. Alla fine, ovviamente, vince il buon senso: il Csm nomina un procuratore esterno, che s'insedia e comincia a esaminare le carte. Tutti applaudono, compresi coloro che l'avevano osteggiato fino all'ultimo, o per interessi politici (vedi sopra) o per semplice stupidità, e che a tal nobile scopo avevano fatto il possibile per linciare Scidà. Ma invece la giustizia ha trionfato e Scidà, oplita dei poveri, ha vinto.

*** E adesso è disteso qui, nella stanza vicina a quella in cui scrivo ed è piena notte. Nella sua casa, come sempre, non ci sono che persone buone: il fedelissimo Ferrera, la brava Abeba, Titta, Giuseppe, Luca... Una donna ha portato dei fiori gialli, un'altra delle spighe di grano. Ci sono due computer e una stampante, ma centinaia e centinaia di libri. Braudel, Lefebvre, Verga, Guicciardini, i Canti, Mallarmé, Cervantes... vecchi amici. C'è il suo giornale di otto anni fa, Controvento, quello che il distributore non volle mettere in edicola perché “sennò Ciancio ci leva il pane”. Ci sono carte e fascicoli dappertutto. Ci sono, chi addormentato in poltrona chi su un divano, amici che gli vogliono bene. Lui, nella stanza accanto, dorme sorridendo. Avremmo dovuto parlare dei Siciliani, fra pochi giorni. Era fra i promotori, proprio in questa casa ci siamo riuniti un mese fa. “Mannaggia – penso – dovremo fare i Siciliani senza di lui”Fra poco è l'alba. Lontano, la notte s'è fatto impercettibilmente meno scura. “Senza di lui? - pensiamo - Chissà se davvero siamo senza”.


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IL FILO

I politici di trent'anni fa di Giuseppe Fava

Dopo una clamorosa sconfitta elettorale, il capo del principale partito politico italiano si presenta in tv per parlare agli italiani. E' la prima volta dopo tanti anni che un uomo del potere si espone così. Grande è l'attesa...

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La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare. Il sito permette la consultazione gratuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografico e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebrazioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

...Gli italiani, però, volevano soprattutto vedere i democristiani. I quali, alla fine, delegarono ad apparire i personaggi di seconda categoria, quelli che, sempre Sciascia secondo la sua classifica, definirebbe i mezzi uomini, cioé ex segretari nazionali ed ex ministri: costoro avevano facce bianche, spiegazzate e trafelate come fogli di carta prima appollottolate da mani umide e poi malamente dispiegate. Facce strane: la bazza cadente che di solito psicologicamente indica la rassegnazione inerte dinnanzi ai pericoli mortali e due occhi, l’uno semichiuso, l’altro sgranato, con la pupilla roteante, cosiddetta facies gaudiosa o sindrome del mistero, come quella di San Benedetto un istante prima della lapidazione. Troppo presto per deidere... I democristiani dissero che era troppo presto per trarre un significato e che il partito stava ampiamente esaminando i risultati della consultazione elettorale in modo da interpretare la volontà popolare e che comunque i comunisti non rompessero le palle perché avevano perduto un punto. Dinnanzi agli occhi sfottenti dei cro-

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nisti non aggiunsero altro, ed anch’essi scomparvero. Ma gli italiani, accaniti e immobili, non si scostarono d’un palmo dai televisori, stava accadendo una cosa mai sentita a memoria d’uomo e non volevano perdersi il finale. Gli italiani duri e spietati. Finché apparve un piccolo uomo con una grande testa calva imperlata di sudore, Ciriaco De Mita, e nelle case degli italiani si fece un silenzio di tomba. Ciriaco aveva la bocca sottile raccolta a cucchiaino e le palpebre che gli sbattevano vorticosamente. Disse una cosa mirabolante: «Abbiamo a lungo riflettuto, ma non abbiamo capito perché gli italiani ci hanno castigato così! Siamo stupefatti!" E, dinnanzi a questa stupefazione, a loro volta gli italiani rimasero a bocca aperta e confusamente capirono che era quello il dato politico più straordinario. Perché mai gli italiani... Cioé dopo anni ed anni di malgoverni, scandali, corruzioni, prepotenze, lottizzazioni, alleanze e complicità mafiose, programmi frantumati, opere pubbliche incomplete, ribalderie e prevaricazioni in tutti i settori della società italiana, finanza, giustizia, servizi segreti, banche, editoria, i democristiani di vertice (e la buonafede traspariva davvero dagli occhietti smarriti di Ciriaco De Mita) ancora si chiedevano perché mai gli italiani li avessero infine così brutalmente penalizzati. (da “Mistero gaudioso dei democristiani”, I Siciliani, luglio 1983)


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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.

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Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

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Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base ­ da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo ­ che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

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