I Siciliani giovani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”
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ottobre 2014 n.22
Bal
ILVE D’ITALIA/ MILAZZO
di Olga Nassis e Riccardo Orioles
“Non è successo niente” Una cittadina siciliana come tante rischia un terrificante incidente petrolchimico. “Ci ha salvato la Madonna” fa il vecchio parroco che da anni si batte contro l'inquinamento della locale mega-raffineria. E i politici, le istituzioni? Tutto a posto, tutto tace .
Storie dal nostro mestiere
Che fa Ester Castano, la cronista che scovò la ‘ndrangheta in alta Lombardia? Lavora In un fast-food, per non restare disoccupata. E Rino Giacalone, il reporter trapanese più temuto da Messina Denaro? In tribunale per aver scritto che un mafioso “era una montagna di merda”
Di Filippo/Romeo
L’IMMAGINE DEI MOVIMENTI
MIRONE
MAFIA E BUONA SOCIETA’
Roccuzzo “INDICIBILI INTRECCI” Capezzuto EMINENZE Rapporto Cross Palladini, C.Catania, Mazzeo SANTA MONNEZZA/ BUSINESS RIFIUTI Vitale MAMMALITURCHI Baldo MANNINO Piscopo RIONE TRAIANO Beccaria CHI CI STA ALUVIONANDO Vita BITCOIN Jack Daniel STORIE Nicosia CATANIA/ MORTE DI UN OPERAIO DISOCCUPATO De Gennaro Abbagnato Cimino Spartà Grimaldi Farina Zolea Amendola
Catania caccia Mozart
Chiude, grazie al Comune, l’Orchestra Infantile Falcone e Borsellino
Alfia Milazzo LE RAGIONI DEI BAMBINI G.Caruso DEMOCRAZIA NEGATA
Caselli LA GIUSTIZIA DI FRANCESCO Dalla Chiesa LA NOTTE E L’ALBA
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I Sicilianigiovani – pag. 2
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Il regno delle Due Italie
Raramente questo Paese è stato così diviso com'è ora. Non c'entra la geografia e manco la politica, che a questo punto è rimasta molto indietro. La spaccatura è secca e bruta, alla Bava Beccaris, fra una plebe e una Corte. Disoccupazione al 12,5 per cento, ma “in netto rialzo Piazza Affari”. Persi, fra i 25 e i 34enni, due milioni di posti di lavoro: ma non scemano affatto i consumi di lusso. Siamo, teoricamente, al terzo governo “risolutivo” ma la governanza reale, in realtà, è da tempo passata in altre mani. Le manganellate di Roma sono, in questo contesto, il punto di svolta. Non che sia successo nulla di straordinario: negli anni Cinquanta la polizia di Scelba picchiava abbastanza spesso gli operai. E' che eravamo convinti di essere nel 2014, fra tweet, telefonini, economie planetarie e lìder sofisticati e volitivi. Invece siamo proprio negli anni Cinquanta, con gli operai e i padroni, nonché i disoccupati e gli emigranti (che ormai sono di nuovo di più, dopo un secolo, degli immigrati). Gli operai, i padroni, i ricchi, i poveracci, il manganello: vedete che linguaggio arcaico, proprio vetero-coso? La colpa però non è mia, è delle cose. Nel medioevo sociale che stiamo attraversando non potete ormai pretendere altre parole. L'Europa, l'euro, i peppegrilli, i leopoldi son roba da fantascienza, da postDuemila. Nel nostro mondo reale - che con stampa e tv non c'entra un fico: e anche questo fa molto anni '50 - siamo ancora alle prese coi borboni. E come ci vorrebbe un Garibaldi! Le Due Sicilie si son molto allargate (senza peraltro riuscire a diventare Europa): Milano è la Catania del nord e Reggio Emilia è sulla Sila; Torino è finita a Detroit e a Firenze su' Altezza il Granduca, uomo di mondo, ammonisce i cortigiani che “ci vole l'orologgio, oggimai, 'un gli è più tempo di clessidre! S'è mica meno moderni deì giacobbini!”. (Applausi, manganellate sul pubblico e sipario) I Siciliani (r.o.)
I Sicilianigiovani – pag. 3
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I Sicilianigiovani ottobre 2014 numero ventidue RIEPILOGANDO Due storie dimenticate, apparse per un istante. A Milazzo, per una notte, la gente scappa di casa (“Scoppia la Raffineria! Di nuovo come nel '93!”) temendo di fare la fine di Fukushima. A Catania, da un giorno all'altro, decine di bambini dei quartieri poveri (San Cristoforo specialmente) si vedono togliere gli strumenti con cui avevano imparato a suonare Mozart e Vivaldi perché il Comune per loro posto non ne ha, e senza un posto per le prove nessuna orchestra può andare avanti. Entrambi i problemi sono stati ufficialmente “risolti”: a Milazzo non parlandone più (“Nessun motivo di allarme!”) e a Catania togliendo bambini e orchesra dall'agenda. Nei giornali non se ne parla, nelle tv nemmeno, e quindi non esistono. Tutto a posto. I pochi che cercano di non rassegnarsi (parrocchie, comitati di donne, associazioni senza soldi: poveracci, insomma) vengono rapidamente sommersi dal rumore di fondo e dai silenzi ufficiali. Noi, per quel che si può, siamo qui per loro, picchiamo sul tamburo di latta sperando che da qualche parte qualcuno stia a sentire. Ecco, se qualche volta ti chiedi come mai è ancora qui 'sto giornale, il motivo è questo: perché, se ci leviamo di mezzo noi e quei pochi altri, a difendere questa gente non resta più nessuno. Vorremmo dirlo con orgoglio e con immarcescibile fede nella Vittoria della Causa, lo diciamo con cinismo scettico, da veterani: rinforzi non ne arrivano, e ritirarsi non si può. Tiriamo avanti.
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Questo numero Il regno delle Due Italie I Siciliani Papa Francesco e la giustizia di Gian Carlo Caselli “Ogni notte ha un'alba” di Nando dalla Chiesa Paese Catania, Italy/ Democrazia che cos'è/ di Giovanni Caruso Le ragioni dei bambini/ di Alfia Milazzo Illve d'Italia/ Milazzo “Niente, non è successo niente” di Olga Nassis e Riccardo Orioles Libertà di stampa? Mestiere/ di Riccardo Orioles 16 Europa La guerra che s’avvicina 18 Misteri d'Italia “Iindicibili intrecci” Anni Settanta di Antonio Roccuzzo 20 Gli intoccabili di Luciano Mirone 22 Caccia: diritto alla verità di Marika Demaria 25
Persone I dimenticati/ Parmaliana di Pierpaolo Farina 26 “Mica hai visto la sinistra?” di Antonio Cimino 27 Il Premio Morrione 28 Sistema I nipoti e il cardinale di Arnaldo Capezzuto 29 Mafia e politica I Ros e il processo Mannino di Lorenzo Baldo 30 Ambasciate di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari 31 Il silenzio degli innocenti di Lorenzo Baldo 32 Emilia/ Dossier mafia 33
I Sicilianigiovani – pag. 4
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SOMMARIO
DISEGNI DI MAURO BIANI
Napoli Rione Traiano: radici e storie di Umberto Piscopo Poteri Lo strozzino mafioso di Monica Amendola Chi ci sta alluvionando di Antonella Beccaria Cittadini Via dalla Nato: una realistica utopia di Antonio Mazzeo Calabria. Il coraggio della verità di Giacomo Riccio Ambiente Borgo Montello: le mani sulla discarica di Andrea Palladino L’ultimo chiuda la discarica di Carmelo Catania 46 Il miracolo di Santa Munnizza di Antonio Mazzeo 48 Immagine Testimonianze/ Tano D’Amico di A.Romeo e S.Di Filippo 50 Immagini dal basso a cura di Giovanni Caruso 57 Pianeta “Oggetti intelligenti” made in Bitcoin di Fabio Vita 65 Storia Beppa la Cannoniera di Elio Camilleri 66 Storie “Ciao, sono Kathy” di Jack Daniel 67 Storia “Ve lo do io il lavoro” di Riccardo De Gennaro 68 Palermo Biblioteca Officina di Giovanni Abbagnato 69 Italiani Mammaliturchi: propaganda e realtà di Salvo Vitale 70
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Mafie Rapporto Cross di Samuele Motta e Carmela Racioppi Ndrangheta in Liguria di Luca Traversa Black Monkey di Valeria Grimaldi Il Patriarca di Andrea Zolea Dentro l'Italia Marsala: pasticcio al tribunale di Appari e Di Girolamo La madre di tutte le cementificazioni di Giolì Vindigni Gli imprenditori, i politici e gli affari degli Ercolano Società Morte di un operaio di Francesco Nicosia “Scuola pubblica, nostra scuola” di Domenico Stimolo Contromafie/ di Sara Spartà Il filo Il boss, i “veri uomini” e Sciascia di Giuseppe Fava
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Thomas Taioli & F.Z. LA MAFIA PAGA LE TASSE I Sicilianigiovani – pag. 5
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Papa Francesco e la giustizia
“Fratello colpevole, non sei un nemico” di Gian Carlo Caselli Papa Francesco, ricevendo una delegazione di avvocati cattolici di ogni parte del mondo, è intervenuto su vari importanti profili della giustizia penale. I media hanno dato un rilievo grandissimo (in alcuni casi esclusivo) al tema dell’ergastolo, definito dal Pontefice come una “pena di morte mascherata”. Ma ci sono state altre sue riflessioni che meritano altrettanta attenzione. In particolare le veementi parole contro la piaga della corruzione e contro il malfunzionamento del sistema giudiziario, che colpisce solo i pesci piccoli e lascia liberi i grossi. E poi il biasimo per la carcerazione preventiva, considerata non in sé quanto piuttosto con riferimento agli abusi che se ne possono fare; unitamente alla condanna senza riserve delle pessime condizioni di vita in carcere, a partire dal sovraffollamento. Anche in carcere, i diritti Anche in carcere l’illegalità si combatte coi dìritti. Un carcere che invece non rispetta la dignità delle persona e neppure gli spazi vitali, un carcere degradante è una palestra di delinquenza e di affiliazione ai gruppi criminali.
Con conseguenze nefaste non solo per il singolo detenuto, ma anche per la società stessa, che vede messa ancor più a rischio la sua serenità e sicurezza. Per l’ovvia ragione che ogni detenuto recuperato, invece di tornare a delinquere, cessa di essere un pericolo per la collettività. La pratica infame delle torture Il Papa si è anche scagliato contro la pratica infame delle torture e contro l’esistenza in varie parti del mondo di campi di concentramento o prigioni “speciali” (il pensiero di tutti è andato a Guantanamo). Durissima la condanna delle “esecuzioni extragiudiziali” che purtroppo affollano le cronache di questi tempi sempre più cupi. Non meno dura l’esecrazione contro le nefandezze - praticate da alcuni stati e tollerate se non favorite da altri - delle “extraordinary rendition”, cioè delle azioni di cattura/deportazione/detenzione di elementi “ostili” in quanto sospettati di terrorismo, eseguite in forme illegali e clandestine. In sostanza, il Papa ha sviluppato un discorso molto ampio e di alto livello. Un indirizzo preciso per tutti gli uomini di buona volontà che operano nel settore delle giustizia penale.
I Sicilianigiovani – pag.6
L’obiettivo è di dare alla giustizia la forza di vincere il male col bene. Che non significa affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare, per quanto difficile sia, ad inventare forme di risposta al male che siano capaci di contenerlo, ricostruendo il tessuto sociale diviso da inimicizie profonde. La chiave è l’attenzione verso la persona, anche quando ha sbagliato. Concetti che tendono ad una giustizia dal volto umano, capace di accertare le eventuali responsabilità nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e di evitare che la pena scivoli nelle spirali tortuose della persecuzione vendicativa, finendo per essere (come si è visto) inefficace se non controproducente. Una giustizia dal volto umano Ecco allora, nell’insegnamento del Papa, qual è il senso di una giustizia giusta: evitare che il presunto colpevole sia sottoposto a pratiche e trattamenti lesivi della sua dignità; ed evitare che ci si accanisca su chi sia dichiarato colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare.
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Giovane antimafia al nord
“Ogni notte ha un'alba” di Nando dalla Chiesa E perché, invece di fare l’ennesima (e sacrosanta) denuncia, non dare ai “Siciliani giovani” una bella notizia che in fondo li riguarda? Eccola: al Piccolo Teatro di Milano dal 3 al 21 dicembre è già tutto esaurito. C’è la fila d’attesa, si è dovuta allungare la programmazione di un giorno e si sono dovute prevedere doppie rappresentazioni in più giornate. Tema dello spettacolo? La mafia al nord. Titolo: “Ma io dico no”. Sottotitolo. “Ogni notte ha un’alba”. Ideatori della sceneggiatura: gli studenti e i neolaureati di Scienze Politiche dell’Università Statale, già allievi del corso di Sociologia della criminalità organizzata. Sceneggiatori: gli studenti Tutto nasce una sera di marzo del 2013. Vengono presentate alla città le migliori tesi dell’anno precedente sulla materia. C’è anche il rettore, ci sono diversi assessori. Il rettore viene colpito dalla qualità dei lavori e dall’entusiasmo dei ragazzi. Il giorno dopo ne parla con il direttore artistico del Piccolo, Sergio Escobar. Gli suggerisce di dedicare una serata a loro.
Uno spettacolo collettivo Escobar immagina subito uno spettacolo vero e proprio. L’università, che compie l’anno successivo novant’anni, decide di finanziarlo proprio per l’occasione. Escobar coinvolge un suo bravo regista, Marco Rampoldi. Che ci sta subito e si butta nell’avventura. I giovani nel frattempo fanno la loro prima esperienza di università itinerante con il sottoscritto. In una ventina all’Asinara. Guide turistiche alle ex carceri speciali di giorno e seminari notturni (e mare, e mirto, e musica...). Mettono la loro esperienza, le loro sensazioni ed emozioni negli incontri con il regista. Hanno in testa le albe vissute (da qui il sottotitolo). Ci mettono poi le loro speranze, e le loro conoscenze, le loro ricerche. Tutto viene seguito per un anno. Prima incontri di gruppo, poi singole scritture, invio delle tesi di laurea. Rampoldi ci lavora con Paola Ornati, una sua giovane assistente che si appassiona e studia la materia più di una laureanda. Alle fine viene fuori il testo. Gli attori (professionisti) stanno già provando lo spettacolo. Che sarà, dopo quello di Ronconi, il secondo evento in cartellone della stagione del Piccolo, ovvero di uno dei due teatri europei italiani.
I Sicilianigiovani – pag.7
La voce si diffonde e prima ancora della conferenza stampa di presentazione è già tutto esaurito. Abbonati, scuole, studenti universitari, associazioni. E’ la prima volta che succede: che uno spettacolo così, non di quelli di beneficenza, abbia per autori degli studenti. Che uno spettacolo sulla mafia stia in cartellone per diciotto giorni. In un teatro così prestigioso. A Milano. Se l’ho raccontato nei singoli passaggi è per far capire che nella nostra società ci sono le catene virtuose oltre quelle massoniche o corruttive o criminali. Corso, tesi, testo teatrale.. Un corso universitario, degli studenti entusiasti, un rettore, un direttore artistico, un regista. E le tesi di laurea, destinate in genere a finire in archivi dimenticati, diventano testo teatrale, divulgano la realtà e i motivi di una lotta in una regione che ancora spesso si ostina a non vedere, a non voler sapere. E si ritroverà raccontati i fatti rimossi, con la forza insuperabile che le parole acquistano in teatro. Lasciatemelo dire: che bello...
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Catania, Italy
Democrazia che cos'è Chiude, per inadempienza del Comune, l'Orchestra infantile Falcone e Borsellino. Composta da ragazzini dei quartieri più poveri, portava con la sua musica l'immagine più bella e nobile della città. Nessuna reazione dei politici. Reazione fiacca e debole della “società civile” di Giovanni Caruso www.associazionegapa.org
Ragioniere Farsaperla, ma chi è sta confusioni?". "Cunfusioni? chistu è budderllu! Stannu prutistannu contro u sinnacu Biancu, volunu democrazia". “È chi veni a significare sta parola?". "E na parola impurtanti, veni a diri, c'a u sinnacu prima di fari li cosi a par rari c' a genti da so città". “Ma talia a chisti, acchiananu.macari supra u'liotru!”. Poi il silenzio cade sulla protesta e lascia il posto alla musica di Mozart e di Vivaldi. "E ora pirchì si stesunu muti?". “No viri c'a stannu sunannu i piccirriddi di San Cristofuru?”. Quello che abbiamo raccontato non è un teatrino ma qualcosa che è accaduto a Catania e accadrà ancora. Ma perchè una piccola orchestra sinfonica fatta da soli bambini e bambine dovrebbe scendere in piazza per farci ascoltare Mozart e Vivaldi? Questa orchestra esiste davvero e si chiama "Orchestra sinfonica infantile Falcone-Borsellino". Opera nei quartieri dell’antico centro e delle periferie di Catania: con grande difficoltà dovute al fatto che non ci sono spazi sociali pubblici dove l'orchestra possa provare. Parliamo del quartiere di San Cristoforo, in particolare. Qui, fino a qualche tempo fa, l'orchestra aveva un luogo fisico e stabile dove provare, la parrocchia San Cristoforo alle Sciare. Ma poi gliel’hanno chiuso perché pericolante.
I Sicilianigiovani – pag. 8
Il Comune ha promesso, come no... Allora l'orchestra ha chiesto al Comune un luogo per la propria attività. L’ha chiesto a parole e in musica, facendo concerti pubblici (all’aperto...) per chiedere al sindaco Bianco di darsi da fare. Il Comune ha promesso, come no. Ha proposto soluzioni “realistiche” (dal punto di vista di chi con questi bambini non ha nulla a che fare), tipo portare l’orchestra fuori dal quartiere i piccoli musicisti stanno di casa. Forse, nei momenti liberi, sta promettendo ancora. Ma i bambnini non votano. Nè sono imprenditori, nè danno appalti. Le belle parole, per loro, sono quindi più che sufficienti. Questo è solo un esempio dei problemi che affliggono le organizzazioni sociali in Sicilia. Quelle che operano nei quartieri poveri, per dare un’alternativa sociale agli uomini alle donne e ai bambini “invisibili”, quelli che istituzioni e mercati non vedono nemmeno. Abbandonati tre volte: alla cattiva gestione pubblica, alla malapolitica e alle cosche mafiose che opprimono i quartieri e la città. Nel bel Palazzo municipale di Catania, fra le altre cose, c’è l’ufficio dell’Assessorato alla Cultura: anzi, non alla cultura solamente ma addirittura alla Bellezza Condivisa. E chi c'è, Sgarbi? No: una persona civile, cresciuta da “compagno” e che sa il latino, che inaugura mostre e convegni, e che minimamente non sospetta cos’è la società reale che vive non negli eleganti dibattiti e nei salotti ma nella vita vera.
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Il “centrodestra” di prima e il “centrosinistra” di ora, a Catania, non differiscono molto da questo punto di vista. Chi governa la città lo fa "all'italiana", e lo fa bene! Annunci in stile renziano, consulenti “per curare il territorio” (lo curano tanto bene che gli alberi cascano giù sui passanti), manifestazioni costose e inutili (l’ultima, con i ministri della Nato), e poi affari. Affari con i poteri forti ed i nuovi "cavalieri dell'apocalisse": si specula, si cementifica, si coprono città e dintorni. Il nuovo piano urbanistico, il PUA, massacrerà la Plaja e l'oasi del Simeto. Le piazze verranno sventrate per far posto a centri commerciali e parcheggi. Il porto... riaffidato al dott.Indaco, autorità portuale, che tanto "bene" ha fatto a se stesso e non certo al nostro povero porto.Contando su un consiglio comunale opportunista e "drogato" si approva - con l'aiuto della cosiddetta opposizione – un regolamento sulla assegnazione dei beni confiscati alle mafie che fa piazza pulita di società civile e antimafia sociale. Insomma, non si può dire che chi possiede la città non faccia “bene” il suo “lavoro”. Ma noi?
Si, proprio noi, quelli della - diciamo così - "società civile". Noialtri, stiamo facendo opposizione e resistenza? O siamo sempre lì a spaccarci su tutto, a dire “io sono più bravo”, a fare comitati che regolarmente si sfaldano per le liti interne? Per non parlare della sinistra politica catanese, o delle associazioni sempre in cerca di "corsie preferenziali" per “dialogare” col sindaco alla faccia di tutti gli altri. "Cu avi sali cunza a minestra", dice l’antica saggezza popolare.
I Sicilianigiovani – pag. 9
Ma lo vogliamo capire, cara società civile, che si vince solo con l'unità di tutti quanti? Siamo diversi, lo so, ciascuno ha un suo stile diverso: ma questa, alal fine dei conti, non è la nostra vera ricchezza? Il potere è forte e schiaccia, ma si muove lentamente. Noi siamo fragili e deboli ma a volte riusciamo a muoverci alla svelta. Possiamo persino vincere, se riusciamo a stare uniti e compatti. Si vince solo uniti tutti quanti Non possiamo riunirci solo quando picchiano un ragazzo a Librino, senza dare continuità alle lotte per una giustizia sociale nei quartieri. Non possiamo incontrarci solo nell'intervento urgente, per poi dimenticare tutto e rivederci solo alla prossima emergenza. Oggi l’emergenza riguarda l'orchestra dei bambini di San Cristoforo, che rischia di sciogliersi per una scellerata ingiustizia che questo Comune non ha nessuna voglia di risolvere (così come accadde per l'Andrea Doria, l’unica scuola del quartiere, chiusa dopo tante promesse).
Scheda UNA SCUOLA DI VITA
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La “Scuola di vita e Orchestra sinfonica infantile Falcone Borsellino”, creata dalla Fondazione La città invisibile, è composta dagli allievi di tre centri di formazione, dislocati a Catania (Librino e san Cristoforo), Adrano (CT) e Siracusa. A S.Cristoforo la scuola era ospitata dalla parrocchia Alle Sciare, con tante iniziative promosse dai bambini stessi: una libreria gratuita, Buon Libro, dedicata a G.Fava, che ha distribuito in un anno oltre 1000 libri gratis a tutti i bambini del quartiere. Il teatro civile: a partire dalla riflessione sull'antimafia, i bambini hanno scritto e interpretato testi per sensibilizzare gli altri bambini. E naturalmente l’Orchestra, realizzata col contributo volontario di maestri del Venezuela formatori del sistema Abreu. Le lezioni sono gratuite e pressoché quotidiane. Gli strumenti musicali e didattici sono in comodato d’uso gratuito. I bambini hanno da 2 a 19 anni. L’orchestra ha realizzato ben 54 concerti,
Testimonianze LE RAGIONI DEI BAMBINI
L'Orchestra Falcone Borsellino ha conquistato il cuore e l’intelligenza dei bambini di San Cristoforo. Le loro famigliehanno aderito a un codice di regole basato sulla collaborazione reciproca e la legalità. Ma tutto questo non avrebbe senso se la scuola si spostasse dal quartiere, anche solo di un chilometro. La vita e le necessità di questi bambini sono profondamente legate al quartiere: dagli spostamenti, sempre a piedi e senza adulti, alla difficoltà di trasportare gli strumenti. Ma ciò che più conta è il ruolo rivoluzionario che essi svolgono nel quartiere, dando visibilità e insegnamento silente ai propri coabitanti, coetanei e non, di un riscatto possibile ed alto, di un impegno nella legalità attraverso la cultura, di un’etica delle pari opportunità, di una composta ma convinta lotta al degrado e alla devianza. Per questo La città invisibile, che non dispone di risorse economiche per affittare una sede, ha chiesto aiuto alle istituzioni con la richiesta dei locali del Centro Midulla.
per Falcone e Borsellino a Palermo, per P.Fava a Catania, e per dalla Chiesa, Puglisi e altri figure storiche dell'antimafia. Hanno suonato per la pace in Palestina, coi bambini di Gaza e di Israele, alla presenza di un imam, un rabbino e un prete. Hanno suonato a Palazzo di Giustizia a Catania; e alla presenza dei presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso. Sono stati intervistati dal TG2 e da Sulla via di Damasco. Hanno suonato al Gapa, alla presenza del Procuratore Salvi, questo 5 gennaio e hanno avuto l'onore della copertina de I Siciliani giovani. Ora non hanno più una sede nel quartiere. Hanno chiesto invano aiuto alle istituzioni, in particolare al Comune, per ottenere il “Centro Midulla” di via Zuccarello (abbandonato da anni), per la cui assegnazione verrà emesso un bando. Ma i problemi dell'Orchestra sono tutt'altri che risolti. Le lezioni, finché non ci sarà una sede, sono state sospese e per chi suona uno strumento l'esercizio costante è tutto; anche nel caso migliore, bisognerà ricominciare tutto da capo. La burocrazia qui non è amica della musica, e a quanto pare nemmeno dei bambini di quartiere. Il comune di Catania dovrebbe capire che soddisfacendo questa richiesta non farebbe un favore alla Fondazione (che a S.Cristoforo sostiene la battaglia pacifica e civile dei propri piccoli allievi) ma darebbe semplicemente risposta a un diritto negato. Il diritto di un quartiere fragile e abbandonato dallo Stato di ricevere attenzione e ascolto. Il diritto dei minori di S.Cristoforo, dove si registra il più alto tasso di dispersione scolastica e analfabetismo di Catania (prima, a sua volta, in questa tragica classifica in Italia) a godere di pari opportunità di crescita culturale e morale. Senza doversi spostare in altri luoghi, “perbene” e quindi più attrezzati, lasciandosi dietro con indifferenza l’imbarbarimento delle strade e degli spazi pubblici in cui vivono. Le istituzioni dovrebbero capire che il loro accanimento nella decisione di non spostarsi in posti distanti è già una vittoria: la vittoria di chi è disposto a perdere la cosa più importante che ha, in questo caso la musica, pur di non dismettere una collettiva responsabilità verso il proprio quartiere, cioè verso gli altri bambini e le altre famiglie del posto. Perché, come dicono questi bambini: o si è felici tutti o non lo sarà nessuno. Alfia Milazzo
Un appello UNA “CASA” PER L'ORCHESTRA E GLI ALTRI
Essa è uno strumento fondamentale di Scuola e di vita, per prevenire il disagio e la devianza dei minori in uno dei quartieri più a rischio di Catania, come scritto nella petizione promossa a A Catania molti beni immobiliari di proprietà pubblica o confi- livello nazionale con oltre 30mila adesioni. scati alla mafia, da tempo potenzialmente disponibili per un uso L’orchestra, costituita da numerosi bambini del quartiere, precivile e sociale, sono inutilizzati e condannati al degrado. A Ca- sidio di educazione, musica e legalità, ha eseguito numerosi tania le tante associazioni operanti, in totale volontarietà, per concerti in importanti eventi antimafia a Catania e Palermo. sopperire alle deficienze pubbliche, svolgono un importante I bambini hanno l’ oggettiva esigenza di avere una “casa” ruolo di educazione alla legalità, di solidarietà ai deboli e acconell’area centrale del quartiere. glienza ai migranti. Lo fanno con dedizione quotidiana nei quarLe richieste e i confronti finora effettuati con l’amministratieri segnati da emarginazione, disoccupazione, e povertà, fra de- zione comunale per avere in uso i locali del Centro Culturale vianza minorile e abbandono scolastico: i più a rischio davanti Midulla di via Zuccarelli o di parte degli enormi spazi dell’ex alle sollecitazioni criminali. Sopravvivono fra grandi difficoltà. Manifattura Tabacchi (piazza S. Cristoforo) non hanno portato a Il loro ruolo sociale dev'essere formalmente riconosciuto. risultati positivi. Ma l’orchestra deve continuare a vivere! La Il Comune di Catania ha l’obbligo civile di supportarne le soluzione deve essere immediata! attività, affidando loro una “casa” attingendo ai molti beni Per questo si svolgerà un SIT-IN il giorno della riunione immobiliari comunali disusati o confiscati ai mafiosi. del Consiglio comunale (finora, il 4 novembre), alle ore 18 In questo contesto, suscita indignazione l’incredibile vicenda in piazza Università, “sotto” il Palazzo comunale. dell’ Orchestra sinfonica infantile Falcone-Borsellino. L’emergenza riguarda gli spazi sociali pubblici, nè utilizzati nè tanto meno assegnati alle organizzazioni sociali senza sede. Che sono tante, dall'orchestra “Falcone-Borsellino” alla libreria "Mangiacarte": (ma l’elenco è ben più lungo).
Questi beni, a Catania, sono circa 250. Quelli assegnati non arrivano a una decina: assegnati, il più delle volte, ad associazioni "amiche" degli amministratori, rigorosamente senza bando, magari ad affitto di un euro, simbolicamente...
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Continuiamo così o ci battiamo tutti insieme per farci assegnare gli spazi sociali e i beni confiscati alle mafie? Ne abbiamo il diritto e il dovere. Chiediamo più potere condiviso e una partecipazione democratica aella gestione pubblica della città.
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“Niente, ILVE D'ITALIA/ MILAZZO
non è successo niente”
Avete mai sentito parlare di Milazzo? No? Meno male. Perché esattamente un mese fa, il 27 settembre 2014, questa “ridente cittadina sul Tirreno” per alcune ore ha rischiato di finire sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo per un terrificante incidente petrolchimico, alla fine rientrato. “Ci ha salvato la Madonna” dice don Peppe Trifirò, il vecchio parroco che da anni si batte contro l'inquinamento della locale mega-raffineria. Forse. Ma se anche le autorità preposte le dessero una mano (controllo dei livelli chimici, serbatoi non a ridosso delle case, piani d'evacuazione adeguati e tutto il resto) forse non sarebbe male
di Olga Nassis e Riccardo Orioles
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“La strategia dell'industria non la conosciamo, ma la loro tattica è di fare confusione: altrimenti rischierebbero di compattare il fronte dei cittadini e dei lavoratori”
“NOI, LE DONNE DEI LENZUOLI” di Olga Nassis Milazzo – Sono passate solo quarantott'ore da quella notte in cui sembrava di essere a Fukushima, una notte che nessuno di noi è sicuro di superare. L’odore è insopportabile, il serbatoio continua a bruciare. Ma sono solo residui, dicono. “Tutto sotto controllo” dice la Raffineria, che prosegue la produzione. Le scuole sono aperte, cessato allarme, come se nulla fosse accaduto. Ma quel silenzio nel paese è una novità, così come sono nuovi gli sguardi della gente, smarriti, inquieti. Di buon mattino accompagno i bambini a scuola, li lascio a malincuore. “E se succedesse ancora ed io non sono con loro...”. Incontro un’altra mamma, Matilde. “Siamo vive per miracolo” fa. Le informazioni su quanto era accaduto e su quanto poteva ancora accadere arrivano rade, confuse e discordanti. “Come facciamo a sapere?”. Un lenzuolo! Mettiamo un lenzuolo ai balconi”. Ci ha spinto il bisogno di protesta, di un segnale tangibile per tutti. Qualcosa come dire: basta! Basta al silenzio, alla rassegnazione. Non potevamo più accettare di rivivere il terrore di quella notte. Anche soltanto respirare ci faceva paura. Respirare chissà che veleni di un mostro che di morti e malati ne ha già fatti tanti. Il lenzuolo è innocente è purezza. Forse almeno lui può dare una risposta. Così, seduta stante, abbiamo mandato un sms a tutti quelli che conoscevamo. Forse, insieme, la voce sarebbe diventata più potente.
Scrivi: “Io non ci sto” “Metti un lenzuolo bianco al balcone per protestare. Scrivi IO NON CI STO. Cammina con la mascherina. Non mollare. Fai passa parola!”. Nel giro di poche ore sui balconi della Valle del Mela e di Milazzo si vedono i primi lenzuoli bianchi. Certo, non tutti hanno il coraggio di farlo. La paura di esporsi... Certo, “la Raffineria dà lavoro”. “Non ci pensate all’indotto? Quel nostro po’ di ricchezza...”. Questo, per cinquant’anni, ci hanno insegnato. “Richiamate i vostri uomini… ora arriva il lavoro” gridava Enrico Mattei. Ma la ricchezza, alla fine, ci ha solo sfiorati. E i costi sono stati infiniti. Lavoro per alcuni, malattie per tanti, ma disagio e conflitto per tutti. “Noi non abbiamo paura” dice ora Barbara “Noi siamo gli altri, noi siamo quelli che mettiamo il lenzuolo al balcone della nostra casa, noi abbiamo un nome, un cognome e un indirizzo civico che si riconosce dal lenzuolo”. Per noi è stato uno tsunami Quello che per gli economisti è un “flusso”, per noi è stato uno tsunami. Il loro flusso si serve della marginalità e del sottosviluppo, e si nutre della totale opacità: della politica, dei controlli, della sicurezza, delle conseguenze sulla salute e sul futuro dei luoghi in cui viviamo. Tutto dentro un Sistema. Un sistema di occultamento programmatico, di mimetizzazione degli obiettivi: chi deve fare i controlli non ha gli strumenti, chi deve garantire la salute si affida ai saperi aziendali, chi deve pianificare il futuro delega tutte le scelte alle multinazionali.
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Un sistema autoritario, che si nasconde dietro tecnicismi, “saperi” chimici, epidemiologici... parole che servono solo a lasciare le cose nell’ambiguità. Un sistema di rassicurazioni date all’arena degli schiavi tenuti volutamente nella divisione e nel disordine. “Raffineria per tutti - morale della favola - e poi ognuno per sè”. La crisi del petrolio non è un’utopia lontana, c'è già ora. Perché non dare allora una visione d’insieme alla gente che c’è coinvolta? Perché non dire finalmente le cose come stanno? Perché lasciare l’ultima parola all’industria? Siamo sicuri che le risposte stiano tutte a casa sua? Dove c'era l'Acquaviola Prima che arrivasse la raffineria, in quella costa piena di ruscelli e gelsomini l'Acquaviola, la chiamavano - le donne andavano a lavare la lana e i lenzuoli bianchi. Si lavavano, si stendevano, si piegavano, si mettevano nei cassoni di vimini e lì venivano conservati in attesa del matrimonio. E’ stata un’emozione per tutte noi stendere quei lenzuoli bianchi. Il fatto di non essere sole in questo gesto, di farlo tutte insieme, ci ha fatto capire molte cose. Condividere le percezioni aiuta a decodificare la realtà. “La paura può essere vinta, se ci si unisce in una rete sana” dice Paola. Chiediamo un ripensamento serio, radicale, che non lasci scontento nessun essere umano. Sappiamo che è possibile. Chiediamo di conoscere le cose come stanno. Le attività economiche le misuri con gli indicatori economici, ma a misurare quelle umane sono gli stessi corpi che percepiscono l’odore, il rumore, il paesaggio e anche il dolore. Ecco, questi indicatori ci dicono che i limiti di tolleranza li abbiamo superati.
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PER NON DIMENTICARE PER NON RIMANERE IN SILENZIO PER CAPIRE - PER PROTEGGERCI - PER VIVERE BENE E’ passato un mese dall’incendio del serbatoio 513 della Raffineria Mediterranea. Abbiamo ancora tutti il ricordo di quella notte terribile. PER NON DIMENTICARE alle ore 18:00 del 27 ottobre 2014 ci sarà una fiaccolata che partirà da Archi e raggiungerà la Raffineria
PARTECIPA ANCHE TU! PER NON RIMANERE IN SILENZIO abbiamo bisogno anche di te, della tua famiglia, dei tuoi amici, per chiedere a gran voce che sia fatto tutto il possibile per vivere in buona salute. Non dobbiamo abbassare la guardia: è in ballo la nostra salute e il nostro territorio è in grave pericolo. ABBIAMO BISOGNO DI SAPERE COME STANNO VERAMENTE LE COSE! Per capire quanto sia realmente pericoloso vivere in queste condizioni si è costituito un comitato intercomunale composto dai sindaci dei paesi, dalle associazioni ambientaliste e dai comitati spontanei che sono sorti a seguito dell’incidente. Il comitato intercomunale ha stilato un documento che chiede prima di tutto la costituzione di un piano di emergenza efficace (non dimenticare che la nostra zona è ad alto rischio sismico e idrogeologico), l’istituzione di un registro dei tumori, l’analisi tossicologica sulla popolazione, un centro grandi ustioni per il nostro territorio, il controllo della messa in sicurezza degli impianti, e subito la dismissione immediata dei serbatoi di petrolio posti vicino all’autostrada, alla ferrovia, alla strada COMBATTIAMO affinché tutto questo venga realizzato al più presto!!! PER VIVERE BENE vogliamo anche che sia garantita l’occupazione per i lavoratori Raffineria: ma in condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza.
Il Comitato dei lenzuoli “27 settembre” Ai lavoratori della RAM Raffineria di Milazzo. p.c. alla Direzione Aziendale RAM Raffineria di Milazzo, S.C.p.A. Carissime e Carissimi, già dopo le prime ore dell'emergenza si è assistito a tante prese di posizione, spesso incontrollate e immotivate, che poi sono proseguite con proclami e richiami alla mobilitazione dei cittadini. Tulto ciò - lo si capisce - non ha contnbuito certo a distendere il clima teso che si è inevitabilmente diffuso presso l'opinione pubblica. [...] Riteniamo che la presenza dei lavoratori sia auspicabile sabato pomeriggio alle 15.30 davanti all'ingresso del cavalcavia in occasione della marcia dei Cittadini del comprensorio che muoverà da contrada Archi (San Fihppo del Mela) e che dovrebbe giungere fino alla Raffineria. Una partecipazione numerosa, silenziosa. e responsabile pensiamo sia la migliore risposta per far sentire l'appartenenza all'azienda e al comprensorio che la ospita: la sola presenza di per sé sarà già un segnale forte. Ci saranno migliori e più proficue occasioni per esternare il pensiero e le ragioni dei lavoratori. F.to FILCTEM (G.Garsella), FEMCA (G.Sindoni), UILTEC (P.di Pasquale)
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“Vieni in piazza anche tu per chiedere la verità!” “No, fate sentire la vostra appartenenza all'Azienda!” Un volantino delle “Donne dei lenzuoli” Una circolare della Rsu Raffineria che invita i lavoratori a “far sentire la propria appartenenza all'azienda”; Una “black list” di negozi considerati “anti-raffineria e quindi da boicottare.
“Rimuovete subito quei terrificanti serbatoi a pochi metri dalle nostre case!”
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Promemoria
COME VORREMMO SALVARCI LA PELLE
Le associazioni e i comitati ambientali di Milazzo e Valle del Mela, e parecchi amministratori locali, hanno elaborato un Memorandum per il diritto alla vita, alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Eccone i punti essenziali: ● Coordinamento di tutti i Comuni della zona per prendere sempre insieme - e col concorso di associazioni e comitati – ogni decisione a carattere ambientale; ● Definire subito il Piano di Emergenza Comprensoriale; ● Immediata rimozione dei pericolosissimi serbatoi adiacenti alle case; ● Coinvolgere i Comuni nelle procedure di autorizzazione industriale; ● Comunicare con pubblicità e chiarezza i risultati dei controlli sanitari e ambientali; ● Creare una rete di monitoraggio vera e completa; stanziare con priorità i mezzi per l'adeguato funzionamento di Arpa; ● Screening tossicologico su vasta scala;
● Progetto per lo sviluppo alternativo della, col contributo di università, ordini professionali e associazioni ambientaliste; ● Dissalatore per evitare le acqua di falda; ● Piano di Risanamento della zona, con serie attività di bonifica e riqualificazione; ● Finanziamento del Registro Tumori; ● Potenziamento delle strutture sanitarie per patologie croniche ed emergenze; ● Accertamenti periodici sulla percezione di rischio ambientale; ● Introduzione del concetto di Valutazione di Impatto Sanitario. Invitiamo tutti i Comuni della zona ad appoggiare questi obiettivi e a non consentire alla Raffineria e alle altre industrie a rischio di realizzare nuovi impianti, e di richiedere periodiche ispezioni straordinarie (Ispra/ Arpa /Ctr); e a elaborare con le associazioni, i comitati e la cittadinanza la pianificazione degli interventi da realizzare a carico delle industrie presenti. Richiamiamo inoltre tutte le forze politiche e sindacali al dovere di sostenere con serietà, disinteresse e determinazione la lotta delle popolazioni per il diritto alla salute e alla vita, senza tentare di scatenar guerre fra poveri in nome di un diritto al lavoro che può essere sostenuto realmente e senza false promesse solo dai movimenti democratici, non certo dalle multinazionali basate sulla sola logica del profitto. Hanno firmato il Memorandum: padre Giuseppe Trifirò, Associazione Abc Sikelia, Associazione Consumatori Siciliani; Italia Nostra di Milazzo; Associazione Il Maestrale; Associazione Adasc, Comitato Luciese Salute e Ambiente; Coordinamento Ambientale Milazzo-Valle del Mela , Comitato Lenzuoli “27 settembre”, Comitato Respiriamo Monforte; Comitato Tutela Ambiente- Archi; Isde; Tsc, Ucid. Non ha firmato, pur restando impegnata sui temi ambientali, l'Associazione Zero Waste. Hanno contribuito con un documento di richieste e denunce i ragazzi del Liceo d'Arte “Guttuso”, dirimpettai della Raffineria e particolarmente esposti ai suoi miasmi.
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Un prete scomodo nel regno dei veleni A sinistra, Padre Giuseppe Trifirò, parroco di Pace del Mela (prov. Messina, ab.4755, m.215 s.l.m..). A destra S.E. Rev.ma Mons. Calogero La Piana, arcivescovo metropolita Messina, Lipari e Santa Lucia del Mela e Archimandrita di Messina
“IL PROBLEMA DI MILAZZO? LA PUBBLICITA'!â€? di Riccardo Orioles “Quello che ci vorrebbe è una bella campagna pubblicitaria nazionale, per far conoscere a tutti le bellezze della nostra bella cittĂ ! La gente deve smetterla, appena si dice Milazzo, di pensare alla raffneria! Il cielo, il sole, il mare, questo bisogna dire per il turismo!â€?. GiĂ . Il fatto è che da una certa ora in poi Milazzo è praticamente isolata dal resto del mondo e d'estate, di notte, c'è pieno di turisti che bivaccano alla stazione di Messina, in attesa dei primi treni del mattino. Neanche ripartire da Milazzo via treno è tanto facile, con la stazione a casa del diavolo, un paio d'impiegati superstiti che s'arrabbattano alla meno pegio, il bar della stazione sbarrato e sostituito da un paninaro e un clima da film giapponese dopo il passaggio di Godzilla. Ci sono vari pezzi di spiaggia ancora liberi (a pochi metri da uno hanno appena costruito un magnifico palazzone da cinque piani) e il mare, se non sei un perito chimico con le tue provette appresso, ti sembra buono. Sul lungomare, una robusta statua di Luigi Rizzo (l'eroe cittadino, con Garibaldi) minaccia col pugno alzato la Raffineria: è l'unico milazzese che osa farlo. “E' successo qualcosa?â€? dicono, riluttanti, tutti gli altri. Il risveglio del mostro Dicevamo Godzilla: e anche qui, stando attento, senti l'aria del mostro. Lo sanno tutti, in realtĂ , non c'è bambino o vecchio milazzese che non sappia benissimo che cosa stia dormendo lĂ sotto. Ma è meglio non sfruculiarlo. Casomai si risveglia... Il mostro s'è risvegliato varie volte in passato, la peggiore è stata il 4 giugno del '93, all'ora della pausa-pranzo aziendale.
Il pranzo arrivò con quindici minuti di ritardo, quel giorno, alla mensa della Raffineria, cosĂŹ invece dei soliti 200 operai alle 13.20 ne uscirono solo sette. L'esplosione del Topping 5 li disintegrò in un baleno: qualche scheggia d'acciaio fu ritrovate a cento metri. Perciò ora, quando la notte fra il 27 e il 28 settembre le fiamme hanno raggiunto il cielo, i milazzesi non hanno perso un istan te a catapultarsi dal letto e fiondarsi mezzo vestiti per la strada. Per andare dove? Il piano d'emergenza della raffineria, chi ha la fortuna di conoscerlo, prevede che in caso di guai bisogna chiudere ermeticamente le finestre e non fare mosse sbagliate. E poi? Te ne scappi? Scappi dove? Quali vie? Quali istruzioni? Non ce n'è. CosĂŹ, mentre i coraggiosissimi pompieri e operai lottavano per salvare il paese da una mezza Fukushima, i milazzesi che non erano imbottigliati negli ingorghi pregavano tutti i santi che conoscevano e bestemmiavano tutte le autoritĂ esistenti. A San Filippo, a poche decine di metri dai serbatoi (gli puoi tirare un sasso dalla finestra di casa, se ti va: ma non ti consiglio di farlo) bestemmie e preghiere erano piĂš tremanti e piĂš forti. ,O SHWUROLR O DPLDQWR “La Madonna ci ha salvato, la nostra Madonna della Catena!â€? disse poi padre Peppe, il buon parroco che da anni lotta contro l'inquinamento diquesto e degli altri mostri. La Sacelit, con l'amianto, ne ha fatti fuori centoventi, fra operai e mogli e figli: l'ultimo, Giuseppe Gitto, è morto pochi giorni fa; e ancora (denunciano Maio e Ginatempo di Zero Waste) qua non hanno ancora fatto il Piano Protezione Amianto!
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Sono un sacco le cose che non hanno fatto: per l'amianto, per la raffineria, per la centrale a carbone, per tutto. Ma perchĂŠ? La migliore risposta l'ha data un candidato sindaco locale, piĂš lucido - involontariamente - dello stesso Carlo Marx. “La raffineria è un'azienda, ha detto nel comizio, e lo scopo delle aziende è fare profitti. Dire alle aziende di riconvertire è idiota! Le aziende restano finchĂŠ fanno un euro di profitto, poi chiudono e se ne vannoâ€?. Ecco perchĂŠ l'idea diffusa qui è di non disturbare Godzilla. Se si arrabbia, chiude e se ne va... In realtĂ , tutti i Godzilli d'Europa - ramo raffinerie – hanno chiuso o stanno chiudendo a uno a uno. Non è piĂš un affare, raffinare petrolio da questo lato del ciclo: meglio farlo laggiĂš. Perciò un bel giorno anche qui, nella terra bruciata, non resteranno che gli escrementi di Godzilla: “Io so' io, dirĂ Godzilla andandosene, e voi non siete un c***. Perciò, affari vostri!â€?. Ma non sarebbe meglio cominciare a organizzarsi subito, i lavoratori di Godzilla, e cominciare finchĂŠ s'è in tempo a legarlo, ad accordarsi coi contadini, a imbavagliargli il fiato? Eh, facile a dirsi. Poi, chi lo sa, forse è anche peccato. Al povero prete di qua, quello che ce l'ha con l'inquinamento, sta arrivando - dicono qualche “benedizioneâ€? non tanto benevola dalla Curia... Don Camillo aveva un vescovo di buon senso, ai tempi suoi, e poteva contare su Peppone. Ma ora...
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Libri I redattori di Giuseppe Fava Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia”, di Antonio Roccuzzo, e Prima che la notte, di Claudio Fava e Miki Gambino, raccontano gli anni dei Siciliani di Giuseppe Fava come vennero vissuti dai ragazzi che con lui condivisero la più bella storia del giornalismo italiano. Una storia che non è finita.
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Libertà di stampa?
Storie dal nostro mestiere E' ancora possibile fare stampa d'opposizione in Italia? Due storie esemplari di Ossigeno per l'informazione www.notiziario.ossigeno.info
1/ ESTER CASTANO Se i bravi giornalisti lavorano al ristorante. Coraggio, valore, professionalità, premi giornalistici ma per guadagnare qualcosa soltanto lavori da camerieri. Ha fatto bene il presidente dell’OdG, Enzo Iacopino, a rendere noto con amarezza e sdegno che Ester Castano non riesce a trovare un lavoro retribuito se non come cameriera in un ristorante. È una vicenda triste che fa riflettere. Perché, per chi ancora non lo sapesse, Ester è la giovane cronista che due anni fa ebbe notorietà nazionale e che ha ricevuto numerosi prestigiosi premi giornalistici per il coraggio e la tenacia con cui ha documentato le infiltrazioni mafiose nel Comune di Sedriano, alle porte di Milano, due anni prima che l’amministrazione comunale, nel 2013, fosse sciolta per decreto del governo. Ha scritto Enzo Iacopino, con amaro sarcasmo, su Facebook: “Ester Castano: hamburger e patatine. Le danno premi a ripetizione: Pippo Fava, Mario Francese, Premiolino, Biagio Agnes per l’impegno civile. Ma nel suo futuro, nel suo presente ci sono hamburger e patatine. Potrà farlo rivolgendosi ai clienti in italiano, inglese, francese e, con minore fluidità, tedesco e ebraico. Già, per guadagnare 650 euro netti al mese (caviale e champagne, come si intuisce!) Ester servirà in un rinomato fast food.
La reputazione lesa del capomafia
2/ RINO GIACALONE “Mafioso pezzo di m.” A giudizio per diffamazione Ma uno di quei direttoroni che la premiano, uno dei bigs politici che la lodano, una di quelle primedonne della tv che usano il suo lavoro senza mai citarla, un angolino per consentirle di continuare a fare il mestiere che ama e che adora non riescono davvero a trovarlo? Proviamo a chiederlo tutti. Non neghiamoci la speranza”. Purtroppo lo stesso trattamento è riservato a numerosi altri giornalisti che hanno mostrato valore professionale e coraggio. Ossigeno ne ha incontrati tanti. Ricorderemo per tutti Arnaldo Capezzuto, che a Napoli meriterebbe di lavorare in un grande giornale e invece deve arrangiarsi con vari lavoretti. Ricorderò i colleghi dei “Siciliani giovani”che a Catania hanno preso il fuoco con le mani, hanno dimostrato indiscutibili qualità giornalistiche ma per sbarcare il lunario devono servire la pizza ai tavoli. Altro che premi giornalistici... Dunque la domanda di Iacopino è pertinente, e andrebbe riproposta ogni volta che si celebra un premio giornalistico. Ogni volta i componenti delle giurie, i direttori dei giornali che consegnano i riconoscimenti, gli sponsor che li finanziano credo che dovrebbero rispondere anche a quest’altra domanda: essere giornalisti bravi e coraggiosi serve a trovare lavoro o è un impiccio?
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La vedova ha querelato il giornalista per aver leso la reputazione del capomafia deceduto. Lettera di solidarietà di quaranta familiari di vittime mafiose Ill Tribunale di Trapani giudicherà il giornalista Rino Giacalone accusato del reato di diffamazione a mezzo stampa per avere offeso la reputazione del boss mafioso Mariano Agate. Lo ha deciso il pubblico ministero Franco Belvisi, disponendo la citazione diretta del giornalista.
Il processo nasce dalla querela di Rosa Pace, vedova di Mariano Agate in relazione ad un articolo pubblicato il 3 aprile 2014 dal blog Malitalia in cui Giacalone, pochi giorni dopo il decesso, ha ricostruito l’efferata carriera criminale del capomafia e ha concluso paragonandolo a “un bel pezzo di m…”. Una invettiva che, con tutta evidenza, va al di là del significato letterale ed è fatta per trasgredire il rispetto plateale che i mafiosi ottengono con la prepotenza e la violenza. Lo scorso marzo quaranta familiari di vittime della mafia avevano espresso solidarietà a Giacalone e avevano diffuso una lettera aperta con la quale hanno chiesto alla vedova del capomafia di Mazara del Vallo di ritirare la querela e di dissociarsi dalle imprese criminali del marito. Inoltre hanno chiesto alla magistratura di respingere la “pretesa di difendere una buona reputazione inesistente, un tentativo di abusare della giustizia per indirizzare messaggi intimidatori a Rino Giacalone e a tutti i giornalisti”.
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Promemoria
La guerra che s'avvicina Palestina-Israele. Medio Oriente. Ucraina. Anni Trenta * Le foto di queste pagine – che sono foto di guerra - non riguardano qualche lontano Paese del Terzo mondo: sono scattate a un paio d'ore di aereo dall'Italia, in Palestina-Israele, dove ogni giorno che Dio - o Allah o Jahvè - manda in terra può essere benissimo l'ultimo per ciascuno. Tecnicamente, è un'occupazione militare, imposta con la minaccia delle armi sulla popolazione civile, e spesso col loro uso effettivo. La guerra potrebbe essere quella del 1967, o del '56, o del '48 o anche, secondo alcuni politici locali, quella tra Filistei e Giosuè del 1200 avanti Cristo. Comunque non è mai terminata; noi, a Palermo e a Milano, ottimisticamente c'illudiamo che resti un affare loro e non venga a travolgerci fin qui. In effetti, la guerra è già arrivata - siamo un confine di guerra - sia nei preparativi che negli esempi. Il ragazzino arrestato, nella foto qui accanto, da una ragazza con elmetto e mitra è poi così lontano? E quel giovane magro, portato via brutalmente (non credo che alcun magistrato abbia emesso condanne, in questo caso) dai centurioni, è poi così lontano da piazza Tolemaide o dalla Diaz? E' ovvio che fra poche ore, in qualche stanza sicura, sarà torturato. Non di nascosto come a Genova (ma bisogna vedere cosa sarà Genova fra dieci anni) ma patriotticamente e apertamente, per il bene dello Stato.
Sulla pelle di altri semiti Il giovane col bambino in braccio, è vittima di rapinatori assassini, o di gente in divisa regolare? Chi tiene le donne schiave dentro le gabbie? Dei selvaggi fanatici, o delle autorità “civili”? Abbiamo rimosso moltissimo, sulla pelle degli ebrei degli anni '30, fingendo che Auschwitz fosse colpa esclusiva dei tedeschi: ma, salvo Bulgaria e Danimarca, tutti gli stati della Fortezza Europa furono ferocemente antisemiti. Adesso ricominciamo a rimuovere, sulla pelle di altri semiti, fingendo che arresti bombardamenti e gabbie siano faccenda esclusiva del governo “israeliano”, d'estrema destra, di Netanyahu.
I Sicilianigiovani – pag. 18
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“L'apprendista stregone corre qua e là, ma i demoni sono ormai fuori controllo. Nel Medio Oriente petrolifero, assegnato da noi civili ai più sanguinari tiranni, la situazione ci è decisamente sfuggita di mano” Croci frecciate e nazisti Struzzo sotto la sabbia, mentre i passi feroci s'avvicinano, l'Europa s'illude. Nel cuore degli Anni Trenta, in Ungheria e Ucraina, marciano apertamente croci frecciate e nazisti. Nel Medio Oriente petrolifero - assegnato da noi “civili” ai più sanguinari tiranni, dai re sauditi in poi - la situazione ci è decisamente sfuggita di mano: ieri con Bin Laden allevato in funzione antirussa, oggi con altri fanatici (vedi le dichiarazioni della Clinton) di analoga provenienza. L'apprendista stregone corre qua e là, ma i demoni sono tutti ormai fuori controllo. Hanno armi modernissime e uccidono chiunque sia umano. Nessuno ha più il coraggio di affrontarli, salvo i curdi: partigiani e partigiane, garibaldini, male armati e decisi. Muoiono per difenderci tutti. Il loro capo, Ochalan, è in carcere (“terrorista”) da molti anni, e fummo noi italiani a negargli l'asilo e a consegnarlo. Hitler ride, e noi dormiamo
Foto di Younes Arar (pagina a fianco in basso ) e Shali Alanzen (le altre), dalla Palestina. ,
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Fra i califfi, i “banderisti” ucraini e Netanyahu, l'inverno dell'Europa s'avvicina. Donne, ebrei, palestinesi - secondo i luoghi - sono le vittime prime, ma nessuno che sia civile alla fine verrà risparmiato. I coltelli, le bombe, le cannonate sui condominii, gli appelli all'Islam o all'antierrorismo o alla pura razza tracimano dai telegiornali, ma sono cose virtuali, senza nulla a che fare - noi pensiamo - con la realtà vera. Hitler, dal fondo del suo inferno, ferocemente sghignazza. E noi europei dormiamo.
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Misteri d'Italia/ L'omicidio Russo
Gli “indicibili intrecci” di quegli anni '70 Viene da molto lontano, il concetto di “trattativa”. In nome della pace sociale, pezzi di apparato dello Stato hanno sempre contrattato con i boss. E chi provava a interrompere questo baratto... di Antonio Roccuzzo Fuor di processo, questa storia della “trattativa Stato-mafia” ricorda altre epoche, ma anche una serie di deja vu. E poi conferma che la cronaca (e la storia) del dopoguerra in Italia ha una sua coerente evoluzione. Mostruosa, ma coerente e niente affatto dietrologica; perché disseminata di concreti e “indicibili intrecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia.
Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa Stato-mafia legata alle stragi del 1992. Ma ci sono episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della medesima continuità di “scambi” indicibili tra apparati e capimafia. In nome della pace sociale e dello status quo, pezzi degli apparati dello Stato hanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. Alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei decenni e forse non sono mai usciti da questa indicibile scena. Il contesto Prendiamo il contesto dell’omicidio del colonnello Giuseppe Russo alto ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20 agosto 1977. Russo fu un investigatore dell’Arma al centro di fatti e intrecci mai chiariti, sempre depistati in modo che non approdassero mai a una verità giudiziaria definitiva. Russo era uno tosto. Indagava ad esempio sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose degli anni 70 a Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti interni all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i loro rivali palermitani piazzavano autobombe (Giuliette Alfa Romeo per l’esattezza).
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Dalla Chiesa interruppe lo “scambio” Russo era stato collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dalla Chiesa avevano iniziato a interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagini: questa la sintesi del patto. Finché durava, non c’erano delitti, si arrestavano ladri e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni tra politica, imprese e mafia. Per decenni, la scena era stata questa: vescovi che negavano l’esistenza della mafia, procuratori della repubblica e giudici di corte d’assise che alla fine assolvevano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno cercava), forze dell’ordine che usavano il metodo dell’infiltrazione o del “patto” di non belligeranza per controllare il “fenomeno”. Gli unici che facevano casino senza patti erano i capipopolo che occupavano la terra e si battevano per i diritti dei contadini e per questo molti di loro venivano uccisi (vedi la strage di Portella e poi i delitti dei sindacalisti Salvatore Carnevale e Placido Rizzotto).
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Venticinque anni di storia In Sicilia questa è stata la storia dei venticinque anni che seguirono alla seconda guerra mondiale. Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel patto di non aggressione, rischiava di restare solo. Russo lo fece, non si accontentò solo di fare qualche arresto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in testa anche di fare luce sugli affari economici dei corleonesi. Voleva capire le nuove relazioni e il nuovo, mostruoso patto tra i corleonesi e la classe politica e le imprese che crescevano in quel contesto. Chi era Russo? Uno “sbirro” tipico dei suoi tempi: di destra, autoritario, sospettoso. Determinato. Chi lo ha conosciuto, ricorda che, nei mesi che precedettero la sua morte, diceva di voler andare in pensione perché “stanco” e perché voleva “mettersi in affari”; aveva creato con un suo collaboratore (il carabiniere Giuseppe Scibilia) una società e voleva partecipare alla gara per gli appalti della diga Garcia, l’opera pubblica “madre” di molti insanguinati intrecci politico-mafiosi. Ci fu chi ipotizzò che lo facesse per “infiltrarsi” nella mafia che si era già trasformata da agricola in urbana e diventava politica e imprenditrice. E certo, la pratica degli “infiltrati”, delle inchieste segrete e degli “informatori” ha fatto parte del bagaglio investigativo tradizionale dell’Arma.
Nella storia del colonnello Russo ci fu un lato oscuro, legato all’inchiesta sulla strage di Alcamo Marina (27 gennaio 1976), due carabinieri uccisi misteriosamente e un’indagine depistata con un testimone costretto ad accusare quattro balordi, poi assolti. Il colonnello Russo fu ucciso proprio in quel momento e in quel contesto, nel quale il patto e le “trattative” non potevano limitarsi più alla gestione di Corleone e dintorni, perché la mafia si era fatta imprenditrice. Il primo delitto di alta mafia L’assassinio del colonnello Russo fu per questo forse il primo delitto di alta mafia. E tuttavia, grazie alle lacunose e frettolosissime indagini dei suoi colleghi sui fatti di Ficuzza, per quel delitto furono imputati e condannati un gruppo di pastori e un balordo ai confini dei sistema mafioso. Le motivazioni messe alla base del delitto Russo? Risibili, piccole storie locali. A condurre fuori strada le indagini sull’omicidio Russo fu il successore del colonnello al vertice del reparto operativo, Antonio Subranni : proprio l’alto ufficiale che – negli anni scorsi – è stato sospettato di aver avuto un ruolo nella trattativa condotta da Vito Ciancimino nell’estate delle stragi del 1992.
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“Cercava una verità sul patto?”
Il depistaggio sul delitto Impastato Si tratta dello stesso Subranni che, da investigatore, ha negato il movente mafioso per Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978 (stesso giorno del ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro). Impastato denunciava il potere e le relazioni politiche del boss Tano Badalamenti e, quando fu trovato dilaniato da una bomba, fu fatto passare, con l’avallo degli investigatori, per un terrorista. Ecco, questi erano contesto, patti e misteri dell’epoca in cui Russo faceva l’investigatore sulla mafia degli anni 60 e 70. Epoche di “indicibili intrecci”, patti, depistaggi e trattative occulte. Vent'anni dopo il delitto Russo, nel 1997, gli imputati condannati nel primo processo sono poi stati prosciolti e l’intera cupola di Cosa nostra (Riina, Provenzano, Bagarella e così via) è stata indagata, processata e condannata. Il nuovo processo ha accertato i depistaggi degli apparati di intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché? Forse perché il colonnello Russo aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti scellerati tra Stato e mafia? Oppure perché – anche usando forse “strumenti arditi” – cercava una verità sul “patto” che si andava stringendo tra mafia militare, politica e imprese a Palermo?
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Poteri
Gli intoccabili Mafia e buona società Le logge, i politici, i boss e il giudice accusato da Parmaliana. Una storia siciliana di Luciano Mirone www.linformazione.eu Barcellona (Messina). Da circa mezzo secolo Antonio Franco Cassata è considerato un potente magistrato amico dei mafiosi che prima di tre anni fa non era mai stato sfiorato da un provvedimento giudiziario. Un intoccabile. Nel 2011 la Procura di Reggio Calabria lo ha messo sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa, ma a tutt’oggi la notizia è coperta da una coltre di silenzio, cioè non sappiamo se il fascicolo contro di lui è ancora aperto o se è stato chiuso, ed eventualmente perché. Quel che è sicuro è che l’inchiesta è scattata: se è stata chiusa ce ne rallegriamo, se è ancora in corso auguriamo all’ interessato di dimostrare la sua innocenza. Intanto lo scorso anno Cassata ha riportato una condanna in primo grado per diffamazione (800 Euro di multa, più il risarcimento alla famiglia) per essere stato ritenuto l’autore di un dossier anonimo pieno di veleni contro Adolfo Parmaliana, il professore universitario che denunciava il verminaio di Barcellona Pozzo di Gotto e di Terme Vigliatore, suicidatosi per le vessazioni subite soprattutto “dal potere giudiziario barcellonese e messinese che vorrebbero mettermi alla gogna”, come lo stesso Parmaliana lasciò scritto.
La pensione anticipata Malgrado questo, l’ex Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina gode della rispettabilità che dalle nostre parti viene riservata solo ai potenti, sia nel capoluogo peloritano, dove ha svolto per tanti anni la sua carriera, sia a Barcellona Pozzo di Gotto (pochi chilometri da Messina), dove risiede da sempre e da sempre esercita la sua influenza. In realtà Cassata un potente lo è ancor oggi, malgrado la pensione anticipata alla quale – secondo le malelingue – sarebbe ricorso per evitare lo scandalo di un’inchiesta per mafia nell’esercizio delle sue funzioni, con un possibile coinvolgimento di un Consiglio superiore della magistratura che – malgrado le interrogazioni parlamentari e le denunce giornalistiche – nel 2008 lo ha promosso addirittura alla carica più alta della Procura messinese. Il libro scomodo di Parmaliana Ma perché Cassata è così potente? Da dove deriva questa potenza? Qual è il suo ruolo in una città come Barcellona Pozzo di Gotto, dove l’alleanza tra mafia, massoneria e servizi segreti deviati è fortissimo? Per capire il potere di cui dispone questo ex magistrato, basta recarsi alla “Corda fratres” – il circolo più in della città, esclusivo e “paramassonico” (secondo una definizione della Guardia di Finanza) che ha sistemato una caterva di rampolli dell’alta società barcellonese – di cui Cassata è da sempre animatore e leader, e parlare di lui con i numerosi soci.
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O magari aspettare l’uscita del prossimo libro di Melo Freni – giornalista barcellonese dalla sfolgorante carriera in Rai, il quale, alla vigilia dell’uscita del volume di Alfio Caruso sulla morte di Adolfo Parmaliana, chiese all’autore di bloccare addirittura la pubblicazione – per vedere “il giudice Cassata” al tavolo dei relatori assieme all’avvocato Franco Bertolone, suo intimo amico e noto legale dei boss più pericolosi di Barcellona. Il viaggio con Bertolone e Chiofalo Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia da quando (1974) il magistrato fece uno strano viaggio in Mercedes dalla Sicilia a Milano assieme allo stesso Bertolone e al giovanissimo boss Pino Chiofalo, che tempo dopo (all’inizio degli anni Novanta) avrebbe scatenato una cruenta guerra di mafia contro il clan Gullotti, mentre nel ’99, ormai pentitosi, sarebbe stato contattato – secondo la Procura di Palermo – da Marcello Dell’Utri per convincerlo a screditare i tre collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Giuseppe Guglielmini e Francesco Onorato, che accusavano il fondatore di Forza Italia di essere vicino a Cosa nostra. Certo, all’epoca di quel singolare viaggio a Milano, Chiofalo muoveva i primi passi nell’ambito di Cosa nostra, ma è singolare che un magistrato preposto al perseguimento dei mafiosi, faccia un tragitto così lungo con un mafioso e col suo avvocato. Che un episodio del genere non sia frutto della superficialità del personaggio sarà dimostrato ampiamente negli anni successivi.
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“Santapaola, avvisato, lascia il covo. Ma poi torna tranquillamente a Barcellona...” Il paradigma Barcellona Ma per capire meglio la figura di Antonio Franco Cassata, bisogna delineare il contesto di Barcellona Pozzo di Gotto. Che non è un posto come tanti. C’è il traffico di droga sì, ci sono gli omicidi (quarantacinque fra il ‘90 e il ‘92) e le estorsioni, e c’è la mega discarica di Mazzarà Sant’Andrea, sulla quale stanno lucrando in tanti, ma ciò non basta a spiegare il paradigma Barcellona a livello nazionale. Barcellona è il luogo dove è stato costruito il telecomando della strage di Capaci, recapitato da Gullotti a Giovanni Brusca in quel di San Giuseppe Jato per far saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. E’ la città dove hanno trascorso parte della loro latitanza due boss come Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano, protetti per decenni da quello Stato attualmente sotto accusa a Palermo nel processo Trattativa. È la città che, assieme a Catania, Palermo e Corleone, è stata l’avamposto avanzato dell’eversione stragista fra la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda. Ed è proprio sul “contesto” che Antonio Franco Cassata – ottimo conoscitore di uomini e cose di quel territorio – potrebbe chiarire molte cose. Cosa?
ucciso perché “reo” di avere scoperto il nascondiglio segreto di Barcellona dove Santapaola si nascondeva all’inizio degli anni Novanta (circostanza confermata dalla recente testimonianza del pentito Carmelo D’Amico). Perché Gullotti è rimasto iscritto alla “Corda fratres” fino all’anno dell’omicidio Alfano (1993)? Cassata dice che fino a quel momento il boss era un insospettabile incensurato che veniva pure preso in giro all’interno del sodalizio.Ma è vero che negli uffici giudiziari circolava da tempo un’informativa in cui si diceva che “l’avvocaticchio” (come veniva soprannominato) era diventato il referente di Santapaola a Barcellona? Perché tempo dopo – mentre Gullotti è latitante – Cassata sente l’esigenza di mettersi a confabulare in piazza con la moglie del boss (figlia del vecchio capomafia Ciccio Rugolo e sorella del nuovo reggente Salvatore Rugolo), che è seguita dai Carabinieri, i quali stilano un rapporto sull’episodio? Perché Cassata al Csm dichiara di essersi fermato per accarezzare il bambino nella carrozzella, quando i Carabinieri, in quel rapporto, scrivono che non c’è alcun bambino né tantomeno una carrozzella? Perché Cassata fa pressione per evitare che quel rapporto vada avanti? Ci sta che il Procuratore generale della Corte d’Appello si apparti con la moglie del boss, figlia del boss e sorella del boss? I contratti ai mafiosi
Il boss Gullotti Primo. Giuseppe Gullotti è il boss indiscusso che secondo la sentenza della Cassazione è il mandante di tanti delitti, compreso quello del giornalista Beppe Alfano,
Secondo. Da una interrogazione del senatore Pd Beppe Lumia risulta come il figlio dell’ex procuratore generale, l’avvocato Nello Cassata, negli anni in cui è stato presidente dell’Ipab (Istituto di pubblica assistenza e beneficienza) di Terme Vi-
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gliatore-Barcellona (1999-2001) abbia prorogato dei contratti di locazione a importanti mafiosi e a persone che con Santapaola e Gullotti ci hanno avuto a che fare. Per esempio Aurelio Salvo, “al tempo pregiudicato – scrive Lumia nell’interrogazione – per favoreggiamento aggravato nei confronti di Giuseppe Gullotti e di Nitto Santapaola”. La “latitanza” di Santapaola Costui infatti è il proprietario sia dell’appartamento dove ha trovato rifugio Gullotti quando si è dato alla macchia per l’omicidio Alfano, sia della villa di Terme Vigliatore dove ha trascorso un pezzo della sua latitanza proprio Santapaola A un certo punto il Ros dei Carabinieri – grazie alle intercettazioni ambientali – scopre che don Nitto trascorre la sua latitanza nel piccolo centro tirrenico, e individua la villa di Aurelio Salvo come luogo “sensibile” per la cattura di uno dei boss più pericolosi del mondo. Basta organizzare un blitz per prendere Santapaola. Niente di tutto questo. Mentre il capomafia se ne sta tranquillamente a casa, il capitano “Ultimo” – forse depistato da qualcuno – inizia un rocambolesco inseguimento con un fuoristrada a bordo del quale non c’è Santapaola. Il boss catanese viene messo sull’avviso e lascia il covo. Ma invece di fuggire lontano, torna tranquillamente a Barcellona (c’era stato poco prima) dove trascorrerà un altro pezzo della sua latitanza senza essere disturbato. L’ex procuratore Cassata sapeva dei rapporti fra Aurelio Salvo, Gullotti e Santapaola? Sapeva dei rapporti fra suo figlio e Aurelio Salvo?
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“Il caso Attilio Manca, le trame di Cattafi... Eppure a Barcellona il Palazzo era cieco, sordo e muto” Lui afferma che Nello ha ereditato questa situazione dalla precedente gestione Ipab. Ma cosa ha fatto Nello Cassata per porre fine a questi rapporti? Ha mai preso le distanze da determinati personaggi? E lui, Antonio Franco Cassata, che posizione ha assunto nei confronti del figlio? Non avrebbe dovuto chiedere l’immediato trasferimento per incompatibilità ambientale? Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Nei due anni di gestione dell’Ipab, Cassata junior ha continuato ad affittare gli immobili dell’Istituto al fior fiore della criminalità barcellonese e ad imprenditori incensurati molto vicini a Cosa nostra. L’elenco è lungo. Un nome fra tutti: Domenico Tramontana, boss di primissimo piano (secondo i Carabinieri), crivellato di colpi sulla sua auto sulla quale i Carabinieri hanno trovato una cinquantina di volantini elettorali dell’ex sindaco di Terme Vigliatore, Bartolo Cipriano, personaggio transitato con disinvoltura dal centrodestra al centrosinistra, “molto vicino – secondo Biagio Parmaliana, fratello di Adolfo – allo stesso Nello Cassata, diventato consulente legale del Comune di Terme Vigliatore”. Una truffa da 35 milioni Terzo. Risulta al dott. Antonio Franco Cassata che, mentre occupava la poltrona più prestigiosa della Procura generale, il figlio sia stato uno degli organizzatori di una maxi truffa alle assicurazioni (ingenti i capitali ricavati: solo nel 2009, 35 milioni di Euro, al punto da spingere le compagnie a “scappare” da Barcellona) in cui, oltre ad essere coinvolti diversi professionisti (soprattutto medici e avvocati), c’è implicata la criminalità organizzata?
Niente ricorso contro i boss
Cattafi e la “Corda frates”
Quarto. È vero che l’ex procuratore generale – come dice l’avvocato Fabio Repici – non ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza d’Appello del processo “Mare nostrum droga”, in cui tutti gli imputati barcellonesi, dopo pesanti condanne in primo grado, sono stati assolti in secondo? È vero che non lo ha fatto – per citare sempre Repici – “per una gretta interpretazione giuridica delle fonti di prova”?
Sesto. A proposito di amicizie. È vero che il magistrato è intimo anche del boss Rosario Pio Cattafi (oggi al 416 bis per associazione mafiosa), definito “socialmente pericoloso” dal prefetto di Messina, al punto che è stato costretto all’obbligo di dimora per cinque anni a Barcellona? Vicino ai servizi segreti deviati, ex ordinovista assieme al boss di Mistretta Pietro Rampulla (artificiere della strage di Capaci), residente a Milano per molti anni, l’avvocato Rosario Pio Cattafi è ritenuto il riciclatore del denaro sporco del clan Santapaola e – secondo recenti inchieste – uno dei mandanti dell’assassinio del giudice torinese Bruno Caccia, che negli anni Settanta indagava sui proventi sporchi provenienti dal casinò di St. Vincent.
Fra gli assolti c'era Ugo Manca Quinto. Fra gli imputati assolti al processo “Mare nostrum droga” figura tale Ugo Manca, personaggio molto vicino alla mafia di Barcellona e condannato in primo grado a quasi dieci anni per traffico di droga. Ugo Manca è stato coinvolto (la sua posizione è stata archiviata lo scorso anno) nella morte del cugino Attilio Manca, urologo allora in servizio all’ospedale di Viterbo. Secondo diversi indizi – fra cui le recenti dichiarazioni del pentito di camorra Giuseppe Setola – Attilio Manca sarebbe stato ucciso perché avrebbe scoperto la vera identità del boss latitante Bernardo Provenzano (allora nascosto sotto il falso nome di Gaspare Troia), mentre lo avrebbe curato dal tumore alla prostata da cui era affetto. È vero che esiste una intima amicizia fra l’ex procuratore e Ugo Manca? Fino a che punto?
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Il boss restò nella “Corda frates” Tornato a Barcellona dopo il coinvolgimento nell’affaire dell’autoparco milanese di via Salomone (in cui era implicato il Psi di Bettino Craxi), Cattafi fu ritenuto – assieme a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri – uno dei mandanti esterni della strage di Capaci. La sua posizione, assieme a quella dell’ex presidente del Consiglio e del fondatore di Forza Italia, venne successivamente archiviata. È vero che malgrado un curriculum di queste dimensioni, il boss ha continuato a far parte della “Corda fratres”, senza che il dott. Cassata abbia sentito il dovere di chiederne l’espulsione?
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Giustizia
Omicidio Caccia Il diritto alla verità
I figli del Procuratore capo di Torino Bruno Caccia tornano a chiedere la riapertura delle indagini relative all'omicidio del padre (unico caso di magistrato ucciso al nord Italia dalla 'ndrangheta), avvenuto a Torino il 26 giugno 1983 in via Sommacampagna, a pochi metri dall'abitazione della famiglia Caccia. La richiesta avanzata lo scorso anno era stata rigettata dal Tribunale di Milano, «ma noi intendiamo proseguire per la ricerca della verità», dichiara Paola Caccia, figlia del magistrato torinese. Depositata lo scorso 24 luglio dall'avvocato Fabio Repici, l'attuale richiesta «è più corposa rispetto alla precedente; non vi sono nuovi elementi ma un'indicazione a leggere gli atti in maniera diversa», ha precisato Paola Caccia, che si mostra soddisfatta «dell'attenzione al nostro caso dimostrata sia dalla Commissione Parlamentare Antimafia sia dalla commissione comunale antimafia di Milano». «Si tratta di un atto doveroso – spiega David Gentili, presidente della commissione meneghina – considerati la storia di Bruno Caccia e gli aspetti che riguardano anche la città di Milano come i riferimenti a via Mascagna. Come commissione non possiamo svolgere alcun tipo di indagine, ma speriamo che emergano fatti importanti e che il Tribunale accolga la richiesta dei famigliari del magistrato piemontese. Sicuramente a loro daremo tutto il nostro sostegno ed aiuto». In quest'ottica, la sala comunale Alessi ha ospitato il 3 ottobre l'incontro “Bruno Caccia, il diritto alla verità”, proprio
L' “informativa Tsunami” Settimo. È vero che l’ex procuratore Cassata, all’inizio del Duemila, cercò di bloccare un rapporto esplosivo dei Carabinieri (“l’Informativa Tsunami”) che si soffermava, tra l’altro, sull’amicizia fra l’ex Pm di Barcellona Olindo Canali (trasferito dal Csm al Tribunale di Milano per “incompatibilità ambientale”) e Salvatore Rugolo, all’epoca ritenuto il nuovo reggente della cosca barcellonese? Nel rapporto si parla di almeno due talpe “molto vicine a Canali” che dalla Procura barcellonese avrebbe passato le informazioni al boss. In quelle duecento pagine si parla anche di un intervento del
per spiegare alla popolazione perché è fondamentale chiedere la riapertura delle indagini. «A Milano e a Torino - ha dichiarato l'avvocato Fabio Repici - ci sono alcuni magistrati che sanno la verità». Secondo il legale, il procuratore Caccia sarebbe stato ucciso perché stava indagando sul casinò di Saint Vincent e sul riciclaggio di denaro proveniente dai sequestri di persona. Una pista che si intreccia con la figura di Giovanni Selis, il pretore che il 13 dicembre 1982 scampò miracolosamente ad un attentato: la sua Fiat 500 esplose sotto la propria abitazione. Ad affiancare l'avvocato Repici, in qualità di consulente, è l'ex magistrato Mario Vaudano: «La situazione è delicata, occorre che ci sia la volontà da più parti di riaprire le indagini, abbandonando l'atteggiamento del “non è il caso”. Bisogna continuare il lavoro che è stato svolto, non certo per esibizionismo da parte della famiglia ma solo ed esclusivamente per il desiderio di conoscere la verità sull'omicidio Caccia». Dalle carte emerge che la figura centrale della vicenda è Rosario Pio Cataffi, considerato anello di congiunzione tra Cosa nostra e i servizi segreti. «Rispetto alla versione dello scorso anno – dichiara Vaudano – la richiesta depositata a luglio è più analitica e nominativa: allora si chiedeva di audire determinate persone, adesso si parla di responsabilità ben precise».
Procuratore Cassata presso il sostituto procuratore Andrea De Feis, titolare dell’indagine su Terme Vigliatore, per bloccare il rapporto dell’Arma. “Il grande protettore di Canali” Ottavo. È vero – come dicono Sonia Alfano e l’avvocato Fabio Repici – che “Antonio Franco Cassata è stato il grande protettore di Olindo Canali”? Se è vero, sarebbe interessante sapere se l’ex procuratore generale ha saputo – magari dallo stesso collega – che il giornalista Beppe Alfano – poco prima di essere ucciso – si sarebbe recato da Canali per confidargli il segreto della latitanza di Santapaola.
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Marika De Maria www.narcomafie.it
Il magistrato monzese gli avrebbe risposto: “Non me ne posso occupare” e alla fine, secondo Sonia Alfano, gli avrebbe detto: “Scrivi tutto quello che sai, chiudi la lettera in una busta gialla e spedisci il plico alla Dia di Catania. Avviserò un super poliziotto di prenderlo personalmente”. “Scrivi tutto quello che sai” “Mio padre – prosegue l’ex europarlamentare, che dice di essere stata presente al colloquio – eseguì alle lettera le istruzioni di Canali, e poco tempo dopo Beppe Alfano fu ucciso”.
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I dimenticati/ Adolfo Parmaliana
Io che da morto vi parlo Sei anni fa il suicidio del professore le cui denunce portarono allo scioglimento per mafia del comune di Terme Vigliatore, in provincia di Messina. Ecco la sua storia di Pierpaolo Farina www.wikimafia.it.it Ci sono storie di grande coraggio che troppo spesso vengono dimenticate o a cui non viene dato adeguato spazio. Una è quella di Adolfo Parmaliana. Professore di chimica industriale all’ Università di Messina, molto stimato anche all’estero, ai suoi studenti ripeteva sempre: “Cambia le cose prima che le cose ti cambino”. Si è tolto la vita il 2 ottobre di sei anni fa, gettandosi da un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo, prima che le cose cambiassero lui.
Nel suo studio, raccontano, campeggiava una gigantografia di Enrico Berlinguer: era il suo modo per ricordare in ogni istante ai suoi interlocutori quell’universo di valori e ideali a cui era legato. In prima fila contro Cosa Nostra Aveva lottato prima per il PCI, poi per il PDS, infine per i DS, sempre in prima fila contro Cosa Nostra e il malaffare, producendo denunce precise e circostanziate contro il sistema di potere mafioso e corrotto che governava il suo paese, Terme Vigliatore, seimila anime in provincia di Messina. Fu proprio grazie alle sue denunce che nel dicembre 2005 fu disposto dall’allora ministro degli Interni Pisanu lo scioglimento del suo comune per infiltrazione mafiosa. La reazione di quel sistema di potere non si fece attendere. Il vicesindaco del paese lo trascinò in tribunale per diffamazione, a seguito della sua affissione di volantini di soddisfazione per l’avvenuto scioglimento in giro per la città. L’isolamento morale Le voci in sua difesa furono poche: i compagni di partito lo lasciarono solo. Tanto che quando nacque il PD abbandonò la militanza, stanco di essere ignorato, deriso, umiliato da quei compagni di partito per i quali la Questione Morale era sì il centro del problema italiano, ma se si fa politica con la morale non si vincono le elezioni.
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Del resto, le sue lettere a Fassino e Veltroni, in cui denunciava l’andazzo generale nel “partito nuovo”, non ricevettero mai alcuna risposta: erano evidentemente troppo impegnati. Il suicidio maturò subito dopo il suo rinvio a giudizio per calunnia, per la questione dei volantini. Era troppo anche per lui. L’ultima lettera Lasciò una lettera, il suo ultimo atto d’accusa, intitolata “Io che da morto vi parlo” (da cui prende il titolo il bel libro di Alfio Caruso) in cui disse chiaramente che “la magistratura barcellonese-messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi; mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario…”. Non lo permise e si tolse la vita. L’isolamento morale Sei anni dopo quel gesto estremo è amaro constatare nei suoi confronti esista ancora una damnatio memoriae, che vede colpevole anche il movimento antimafia. A breve su WikiMafia ci sarà la sua voce. Perché la sua storia non va dimenticata. O avranno vinto quelli che quando Parmaliana era in vita hanno fatto di tutto per far sì che in vita non ci restasse.
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Bologna
“Mica hai visto la sinistra?” Cresce il Partito Unico della Nazione. A Bologna intanto - un tempo “capitale” della sinistra efficiente, democratica e civile - qualche cosa è già cambiata di Antonio Cimino Bologna, scriveva un tempo il "New York Times", è una delle città meglio governate d'Europa. Efficiente, democratica, relativamente incorrotta. Per cinquant'anni è stata governata da comunisti e socialisti, mentre nel centro storico di Napoli o Genova speculatori edili abbattevano intere file di edifici che meritavano di essere conservati. Il centro storico di Bologna è rimasto in larga misura intatto. I mezzi di trasporto pubblico nelle ore di punta erano gratis. Negli ultimi anni molte cose sono cambiate nella città che fu la più rossa d'Italia. Con il sindaco Flavio Delbono prima, il presidente della regione Emilia Romagna Vasco Errani, entrambi del PD costretti alla dimissioni perchè condannati dalla magistratura. Il primo per peculato, il secondo per favoreggiamento.
La Festa senza l'Unità A nche quest'anno, all'interno del Parco Nord, si è celebrata la festa nazionale dell'Unità con grandi sfilate di politici indagati (condannati e non) e anche - i tempi cambiano... - politici del calibro di Pierferdinando Casini, grande amico dell'ex presidente della Regione Sicilia Cuffaro, da qualche anno in galera per scontare una condanna per cose di mafia. Intanto, il progetto del partito unico nazionale fa proseliti. C'è da dire che la base del PD, a Bologna come nel resto d'Italia, stravede per l'attuale capo del governo, anche lui ospite acclamato durante la festa al Parco Nord. Dove, fra una battuta e l'alra, è rimosso il fatto che il giornale "L'Unità", fondato da Antonio Gramsci e da cui prende il nome la festa, non esiste più. Non una parola neanche per i giornalisti rimasti senza lavoro. Probabilmente, il nuovo presidente della regione Emilia-Romagna (si andrà alle elezioni a novembre di quest'anno) sarà Stefano Bonaccini, segretario regionale del PD: in nome della “continuità” e con la bendizione di Renzi e di vari ministri.
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Lo schieramento dovrebbe comprendere, si dice, anche Sel, visto che i seguaci di Vendola - fino a questo momento - hanno detto sì all'alleanza col PD e no a quella con la lista Tsipras. Il futuro presidente della Regione ha vissuto momenti turbolenti, quest'estate, dopo aver appreso di essere indagato dalla procura di Bologna per presunte spese illecite in Regione. Il 24 settembre tuttavia i magistrati della Procura hanno chiesto per lui l'archiviazione, stabilendo l'insussistenza del reato di peculato non sussiste. Con buona pace di quanti, dal PD al SEL, si erano affrettati a proclamare che “il candidato presidente non può deciderlo la procura”. I senzacasa nel cortile del Comune Intanto, nel cortile di Palazzo D'Accursio (la sede del comune) si son viste le tende del del sindacato Inquilini AsiaUSB, e di diverse famiglie di sfrattati senza casa: “Presidieremo il cortile finché non verranno riallacciate luce ed acqua in alcuni edifici occupati”. Qualcuno della "vecchia guardia", come l'ex segretario regionale dell'allora partito comunista dell'Emilia Romagna Mauro Zani (mai entrato nel PD) dicono, con molta amarezza, che il PD è senza classe dirigente e che dunque può accadere di tutto. Colpa di chi? Secondo Zani, Renzi ha portato a compimento un disegno che era iniziato con Valter Veltroni e si conclude adesso col patto del Nazzareno.
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PREMIO GIORNALISTICO ROBERTO MORRIONE AGLI STATI GENERALI DELL'ANTIMAFIA IL LANCIO DEL BANDO DELLA QUARTA EDIZIONE Entro l'8 dicembre l'invio delle proposte di video-inchiesta degli under 31
Non poteva esserci occasione migliore degli Stati Generali dell’antimafia “ControMafie” in programma a Roma dal 23 al 26 ottobre per lanciare il nuovo bando del Premio Roberto Morrione rivolto a tutti i giovani giornalisti, free lance, studenti e volontari dell’informazione con la passione per l’inchiesta televisiva. Il Premio Roberto Morrione, arrivato alla sua quarta edizione, è una sezione del Premio Giornalistico tv Ilaria Alpi ed è edicato alla memoria e all’impegno civile e professionale di Roberto Morrione, giornalista Rai, fondatore della rete allnews Rainews24 e di Libera Informazione, osservatorio sull’informazione per la legalità e contro le mafie. E’ un’iniziativa unica nel suo genere perché non seleziona inchieste già realizzate, ma premia le più valide proposte progettuali di video-inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale e gli fornisce un contributo finanziario per la loro realizzazione. Il Premio ha l’obiettivo di promuovere, sostenere e incentivare il giornalismo investigativo di giovani giornalisti o aspiranti tali, che non devono aver superato i 31 anni di età l’8 Dicembre 2014. Tra tutti quelli inviati, nel rispetto delle modalità indicate nel sito www.premiorobertomorrione.it, verranno scelti 3 progetti e a ciascuno verrà assegnato un contributo in denaro di 3.000 euro da impiegare nello sviluppo e produzione di un’inchiesta della durata massima di 20 minuti.
A ControMafie sabato 25 ottobre la Portavoce Premio Roberto Morrione Mara Filippi Morrione ha illustrato la filosofia e la finalità del Premio e lanciato il bando della quarta edizione all’incontro “La cultura e il sapere, dalla finzione al reale nella battaglia per la legalità”.
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Scorrendo i 204 soggetti d’inchiesta presentati da 319 partecipanti negli anni passati, troviamo inchieste sul tema delle mafie e delle organizzazioni criminali, sull’attività di organizzazioni segrete o clandestine con progetti eversivi o terroristici, sulle violazioni dei diritti umani e sulle attività di corruzione e di intimidazione, sui traffici illegali di rifiuti tossici, armi, esseri umani, droghe. Il 19 per cento delle inchieste hanno come focus l’ambiente, il 21 per cento l’immigrazione, il 9 per cento le mafie. La provenienza geografica dei partecipanti mostra una grande sete di giornalismo d’inchiesta venire dal Sud della penisola: la maggioranza delle proposte arriva da autori del meridione. Oltre alle risorse finanziarie, il premio fornisce agli autori anche delle forme di tutoraggio per la fase di realizzazione delle video-inchieste, supportandoli nella supervisione e nella consulenza giornalistica e tecnica di professionisti delle testate giornalistiche televisive nazionali. L’avvocato Giulio Vasaturo, invece, garantisce la consulenza legale.
Il termine per la consegna dei progetti di questa quarta edizione del Premio Morrione è fissato per lunedì 8 dicembre 2014. I tre progetti selezioniati verranno comunicati entro il 20 gennaio 2015. La proiezione e premiazione finale dei lavori realizzati avverrà a Riccione all’interno del Premio Ilaria Alpi. Il premio finale consiste in un ulteriore riconoscimento in denaro di 3.000 euro per il primo classificato e di 1.500 euro per ciascuna delle altre due inchieste. Il primo classificato andrà in onda su Rainews24. Come nelle passate edizioni, le inchieste verranno poi promosse in iniziative e festival italiani e stranieri. Il premio ha ricevuto il Patrocinio della Presidenza della Camera dei Deputati ed è promosso dalla Direzione Generale della Rai, dall’Assemblea Legislativa dell’Emilia Romagna, Regione Lazio, Rainews24, Raiworld, Eutelsat, Dallah Albaraka, FNSI, Usigrai, Misteriditalia.it e realizzato in collaborazione con Articolo 21, Scuola di giornalismo Lelio Basso, Tavola della Pace, Liberainformazione.org, Premio Città di Sasso Marconi, UCSI, Gruppo dello Zuccherificio, Internazionale e Rai Radio 3.
Info/ Download bando: www.premiorobertomorrione.it Contatti stampa: alessandratarquini@gmail.com Alessandra Tarquini 3479117177
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Napoli
I nipoti e il cardinale Il cardinale Sepe, il sistema di potere e i nipoti assunti in Eco4 di Arnaldo Capezzuto ladomenicasettimanale.it Appelli accorati, Giubileo contro la disoccupazione e per il lavoro. E ancora: strigliata alle istituzioni, parole pesanti indirizzate contro la malapolitica, j’accuse e scomuniche contro i camorristi, denunce a viso aperto contro l’economia malavitosa. Non c’è niente da dire, il cardinale di Napoli Crescenzio Sepe è guida lucida, autorevole e sicura. Non solo un pastore spirituale ma soprattutto un’autorità morale in una città in continuo disfacimento. E meno male. Certo però quando si apprende che due nipoti dell’Arcivescovo vennero assunti al chiacchierato consorzio dei rifiuti Eco4, si resta alquanto disorientati. Verità scomode che emergono dal processo “Eco4” in corso al Tribunale di Santa Maria Capuavetere – dove è imputato per concorso esterno in associazione camorristica l’ex sottosegretario Nicola Cosentino. Il politico di Casal di Principe si attivò e segnalò ai vertici del consorzio i due parenti di Sepe. A ribadire le nuove-vecchie verità è stato Giuseppe Valente, ex presidente del disciolto consorzio dei rifiuti Ce4 già condannato con conferma in appello a 5 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione camorrista, turbativa d’asta, truffa, corruzione e abuso d’ufficio. Ora Valente parla ai giudici nel suo nuovo ruolo di collaboratore di giustizia e snocciola nomi e cognomi di politici di primo piano, amministratori, boss. L’ex manager è un fiume in piena. Sia nei verbali d’interrogatorio, sia davanti al giudice sta svelando i meccanismi, gli accordi segreti, le strategie che hanno negli anni creato un sistema di potere fondato sulla monnezza.
Un grumo di poteri Un grumo di poteri, una struttura che ruotava attorno a politici del calibro di Nicola Cosentino e amici a cui seguiva una sterminata pattuglia di sindaci, presidenti, assessori e consiglieri. Nel pentolone c’era perfino il sub commissario per l’emergenza rifiuti Giulio Facchi. Insomma, tutti dentro, per non scontentare nessuno. La storia è sempre maledettamente la stessa: spartizione affaristica per consolidare il potere per il potere e contribuire a far sprofondare Napoli e la Campania nella ventennale finta emergenza rifiuti. Se un tempo c’era il doroteismo targato Antonio Gava ora in tempi moderni c’è il cosentinismo di Nik ‘o mericano. Gare d’appalto sartoriali, bandi studiati per escludere ditte emanazione di clan nemici, accordi trasversali, costruzione di meccanismi clientelari, reticoli invisibili di potere distribuito tra i diversi partiti delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra ma anche tra le varie correnti interne di una stessa formazione politica. Un guazzabuglio da far rizzare i capelli in testa ai calvi. Fotogrammi di un racconto dell’orrore. La gestione della cosa pubblica in questo disgraziato paese è da sempre privatistica: “Cosa loro”. A queste alchimie non potevano mancare le strizzatine d’occhio di altri potenti, quelli che indossanotalari, anelli e crocifissi. Non si campa d’aria, i nipoti devono pur mangiare. E Valente spiega: “Seppi da Sergio Orsi (titolare col fratello Michele, poi ucciso dai Casalesi, di Eco4) che erano stati assunti presso Eco4 due nipoti, un uomo e una donna, del cardinale Sepe, non so dire attraverso chi”. “Per il trasferimento di uno dei due – prosegue - richiesto per una sua esigenza personale (lavorare in una struttura pubblica), dall’Eco4 al Caserta4, mi prodigai in tal senso, assumendolo a Caserta4”. A questo punto - mettendo eventi e fatti in fila - non è proprio casuale se nella sua precedente vita, il cardinale Sepe, a capo di Propaganda Fide (che gestisce gli immobili vaticani e si occupa di evangelizzazione) si prodiga per far avere uno sconto
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sostanzioso all’ex sottosegretario per l’acquisto di un immobile. Cosentino compra attraverso l’alto prelato un appartamento di lusso nel quartiere Prati di sette vani e mezzo del valore di oltre 630 mila euro ma pagato per poco più della metà. Un gesto di benevolenza verso l’ex coordinatore regionale di Forza Italia per sdebitarsi di un favore ricevuto. Illuminante è un’intervista di due anni fa a Giuseppe Corbo, ex amministratore del consorzio dei rifiuti ma più che altro prete mancato. E’ stato compagno di Sepe nel Seminario Romano ed è da sempre suo fedelissimo. Ecco rileggendo quell’intervista e alla luce delle affermazioni in tribunale di Valente è lampante di come Papa Francesco sia un illuso, un gesuita-Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Il nuovo inquilino della Santa Sede lo ha detto appena si è insediato : “Mi chiamo Francesco perché lui ha incarnato la povertà. Io voglio una Chiesa povera per i poveri”. La domanda è spontanea: i vari Sepe che ci azzeccano con Papa Francesco? O meglio: la Chiesa di Napoli che peccato ha commesso per avere in Curia un porporato così discusso al centro di intrighi e inchieste con a seguito la sua scandalosa corte dei miracoli? Misteri della fede. Non è la prima volta per la verità che il nome dell’Arcivescovo finisce in qualche verbale oppure inchiesta giudiziaria. C’è spazio – infatti- anche per un altro nipote di sua Eminenza, assunto in una società controllata dall’Anas quando ministro delle Infrastrutture era Pietro Lunardi. Lo stesso che compra a prezzo di favore un palazzo di pregio di proprietà della Santa Sede in via Prefetti a Roma e contemporaneamente autorizza un finanziamento di 2,5 milioni di euro per la ristrutturazione fantasma dell’edificio in piazza di Spagna sede di Propaganda Fide. Inchiesta che vide e vede tra gli indagati il cardinale Sepe, Lunardi e i protagonisti della cricca dei grandi eventi. E come dice l’Arcivescovo: “A Maronna c’accompagna”. www.ilfattoquotidiano.it
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Palazzi
Processo Mannino: il ruolo del Ros La verità sul rapporto “Mafia e appalti” di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com Palermo. La verità sul rapporto del Ros fa finalmente luce, secondo il pm Roberto Tartaglia, sulla gestione “letteralmente agghiacciante” di una “sporca operazione” del Ros anni ’90 Nella sua minuziosa requisitoria il pm spiega come questa arma difensiva si sia convertita in un effettivo elemento di “prova ulteriore” relativo alla “stabilità” ed alla “illiceità” del rapporto tra il Ros e Mannino. “Oggi - dice Tartaglia - sappiamo che Subranni e il Ros non hanno denunciato Mannino all’Autorità giudiziaria, ma che anzi, imbattutisi nella posizione di Mannino nel corso della loro indagine, con delle intercettazioni telefoniche, hanno commesso gravissimi reati di falso e favoreggiamento e lo hanno coperto dalle indagini della Procura di Palermo per 19 mesi e cioè fino a quando, dopo le fughe di notizie sull’informativa autentica finita sui giornali, non ne hanno potuto fare a meno e l’hanno depositata in versione ‘piena’ per evitare di essere arrestati!”. Ma come si è arrivati a ricostruire una tra le vicende più spinose della Procura di Palermo? Tartaglia ha ripescato una “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti” redatta il giugno ’98 dall’allora Procuratore di Palermo Giancarlo Caselli (una copia ne era stata consegnata personalmente alla Commissione Antimafia il 3 febbraio 1999): qui vengono indicate tutte le “clamorose ed agghiaccianti anomalie” che hanno contrassegnato la questione dell’informativa mafia-appalti.
L'anomala prima versione Si inizia dall’anomalia della prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di Mannino o di altri politici. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero; la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno dello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione. Non ci sono politici tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione. Una fuga di notizie misteriosa Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino: una fuga di notizie misteriosa, in quanto riguardava atti investigativi che in quel momento la Procura di Palermo non aveva. Chi aveva fatto uscire quei brogliacci? Il 5 settembre ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni “costretto da una non prevista campagna di stampa che rischiava di far scoppiare lo scandalo” si decide a depositare una seconda informativa mafiaappalti che contiene espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi. “Ma questa seconda informativa, finalmente completa - dice Tartaglia - contiene acquisizioni investigative su Mannino e sui politici addirittura di un anno antecedenti alla data della prima informativa”.
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Questa seconda relazione, presentata 19 mesi dopo la prima, riporta acquisizioni investigative su Mannino che già c’erano ed erano state elaborate molto prima della informativa di febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafiaappalti. La relazione all'Antimafia di Caselli Per approfondire ogni passaggio Tartaglia rilegge ampi stralci della relazione conegnata da di Caselli all’Antimafia. “Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Palermo negli anni 19911992 – dice Caselli - furono condizionate da talune anomalie, ed in particolare si svolsero senza disporre delle integrali ed effettive risultanze investigative che pure il Ros aveva già acquisito fin dalla prima metà dell’anno 1990”. Alcuni nomi di politici (Lima, Nicolosi e Mannino) venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo – spiega Tartasglia - solamente il 5 settembre 1992, quando con una informativa a firma del capitano del Ros Giuseppe De Donno “venivano per la prima volta riferiti l'esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991, recanti la citazione di personalità politiche nazionali”. Il pm si chiede chi potesse avere “la possibilità e l'autorità” di eliminare dall'informativa le fonti di prova riguardanti i politici Lima, Nicolosi, Mannino, prima che venisse consegnata alla Procura di Palermo. Le omissioni effettuate nell’interesse di Mannino e Nicolosi sono state quindi “frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino, che avevano contattato i Carabinieri?”, si domanda ancora il pm. “Chi, nel Ros, poteva avere la forza di epurare quella informativa e di proteggere Mannino? Chi, se non il suo Comandante Subranni?”.
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'Nrangheta
Ambasciator non porta pena? Latitanza Matacena: tra gli indagati l'ambasciatore italiano negli Emirati Arabi di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari www.antimafiaduemila.com Mentre a Palermo i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia vengono insultati e abbandonati dalle istituzioni a Reggio Calabria ci sono pm che imperterriti, stanno svolgendo importantissime inchieste non solo sui mafiosi ndranghetisti ma anche su quei colletti bianchi perfettamente inseriti nel contesto del sistema criminale. Sembra a una svolta l'indagine coordinata dal procuratore Federico Cafiero de Raho e condotta dai pubblici ministeri Giuseppe Lombardo (in foto) e Francesco Curcio, sulla latitanza dell'armatore Amedeo Matacena, ex parlamentare di Forza Italia, condannato in via definitiva dalla Cassazione (deve scontare tre anni di carcere, ndr) per i suoi rapporti con la cosca Rosmini. Con l'accusa di favoreggiamento personale aggravato dall'articolo sette (aggravante mafiosa, ndr) è finito al registro degli indagati l'ambasciatore italiano negli Emirati Arabi Uniti, Giorgio Starace. Gli investigatori sarebbero arrivati a lui seguendo un' informativa trasmessa alla Dda dal colonnello della guardia di finanza Paolo Costantini, fino al marzo scorso in servizio presso i servizi segreti per conto dei quali ha diretto proprio il centro operativo di Dubai.
Interrogato dai pm il 6 giugno scorso il colonnello Costantini ha accusato Starace di aver fatto pressioni nei confronti delle autorità di Abu Dhabi e, nello stesso tempo, aver aiutato Matacena non comunicando a Roma alcune informazioni utili all'autorità giudiziaria italiana. L’8 marzo scorso furono arrestati l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, la moglie di Matacena, Chiara Rizzo, le segretarie degli stessi Matacena e Scajola, i collaboratori dell’imprenditore reggino i quali si sarebbero adoperati nell'organizzare il trasferimento del latitante in un paese più sicuro, il Libano (lo stesso Paese in cui avrebbe voluto trascorrere la propria latitanza l'ex parlamentare di Forza Italia condannato per mafia, Marcello Dell'Utri, ndr). I giudici lasciati all'oscuro Il fatto è che l'ambasciata italiana avrebbe omesso di informare i pm calabresi, al momento della trasmissione della rogatoria per ottenere l'estradizione di Matacena, che negli Emirati non sarebbe stata autorizzata l’estradizione per il reato di concorso o di associazione mafiosa ma che invece doveva essere richiesta per l'ipotesi di concorso nel riciclaggio internazionale (era ricercato anche per questo reato, ndr). Una mancata segnalazione che comportò un negativo esame della richiesta di estradizione, con il risultato che Matacena resta libero. Secondo l'accusa “L’ambasciatore Starace ha esercitato pressioni insistenti per i modi e per i tempi, che servivano a garantire a Matacena le migliori condizioni possibili di permanenza nel Paese”.
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'Ndrangheta e sistema bancario Il nome dell'ambasciatore compariva anche in altre inchieste in Liguria sui rapporti della ’Ndrangheta con il sistema bancario ligure. In quelle indagini venivano segnalati i rapporti tra lo stesso Starace ed il faccendiere Andrea Nucera coinvolto nelle inchieste genovesi. Un ristorante che sarebbe base dello stesso Amedeo Matacena. Proprio sulle difficoltà che hanno impedito l'estradizione di Matacena è stato audito recentemente il sostituto procuratore Lombardo alla commissione parlamentare Antimafia. Quest'ultimo, oltre a riferire a grandi linee l'indagine avrebbe registrato la “sensazione” dell'ufficio di Procura che a complicare i vari passaggi vi siano stati i problemi tra il ministero degli Affari esteri e l'ambasciata a Dubai. Osservando le inchieste condotte a Reggio Calabria emerge più che mai l'importanza del contrasto che si sta conducendo. Da una parte quello nei confronti della 'Ndrangheta, la criminalità in questo momento più forte al mondo sul piano economico, totalmente padrona del traffico internazionale di stupefacenti (in grado di foraggiare l'economia mafiosa per oltre cento miliardi di euro all'anno in nero su un totale di duecento miliardi provenienti anche dalle estorsioni e dagli appalti, ndr), e presente in ogni lato del Globo (dall'Italia all'Australia, passando per il Canada, il Sud America, la Russia e più Stati dell'Europa, ndr). Dall'altra le inchieste sui colletti bianchi, come quella sulle coperture per la latitanza di Matacena, che dimostra come questi, da semplici uomini corrotti, si elevino fino a diventare parte di un Sistema Criminale.
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Trattativa
Il silenzio degli innocenti Atmosfera pesante a Palazzo. A Palermo, a Roma... di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com
Palermo. “The day after”. Il giorno dopo l’ordinanza che vieta la partecipazione degli imputati all’udienza del processo sulla trattativa che si svolgerà il 28 ottobre al Quirinale, al Palazzo di giustizia si respira un’atmosfera che ricorda il film dell'83 di Nicholas Meyer. Paragone azzardato? Probabilmente. Ma sicuramente sono reali le macerie lasciate dall’uragano che continua ad abbattersi sulla Procura di Palermo fin dall’inizio delle indagini su quello che è diventato il processo sul patto scellerato tra mafia e Stato. Non basterebbero mille pagine per contenere gli insulti, spesso anche violenti, riversati sui pm che investigano sulla trattativa: Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi (Antonio Ingroia in primis). Per comprendere il tenore di questi attacchi basta rileggere la principale qualifica gettata addosso a quei magistrati che hanno osato mettere alla sbarra un sistema di potere criminale.
Li hanno definiti “eversori” “Eversori della Costituzione”, sono stati definiti da un coacervo di politicanti, giornalisti e pseudo intellettuali. Le macerie che restano oggi sono quelle della delegittimazione, dell’isolamento e dello sfiancamento psicologico. Dopo mesi e mesi di lettere minatorie contro specifici magistrati, di incursioni nelle loro case e di violazioni dei loro uffici (ultimo caso quello del Procuratore Generale Roberto Scarpinato), il “palazzo dei veleni” ripropone l’antico cliché già sperimentato ai tempi di Falcone, Borsellino e ancora prima: invidie, gelosie, maldicenze, sospetti e pugnalate alle spalle. Lo spirito del “coccodrillo”, che prima azzanna la sua preda e poi piange, è in agguato dentro e fuori questo edificio, pronto a compenetrare chi si siederà nelle prime file al prossimo funerale di Stato. Dalla Procura non intendono commentare l’ordinanza del Presidente della Corte di Assise, Alfredo Montalto. Ma quello che traspare è comunque un profondo senso dello Stato che impone loro di andare avanti nella ricerca della verità sul biennio stragista ‘92/’93. In un altro Paese questi magistrati sarebbero stati sostenuti dalle istituzioni, dalla politica e dalla stampa. In Italia sono costretti a difendersi dal fuoco incrociato. E soprattutto dal fuoco amico.
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Ecco allora che il titolo di un altro film, questa volta interpretato nel 1991 da Jodie Foster e Anthony Hopkins, ci aiuta a ritrovare la sintesi di una guerra a senso unico che si sta consumando davanti ad un Paese anestetizzato. Ed è proprio “il silenzio degli innocenti” quello che ferisce maggiormente. Che va oltre la violenza delle parole gridate o scritte contro il pool. Il silenzio di ex magistrati prestati alla politica, degli intellettuali, del Csm e dell’Anm di fronte allo stravolgimento della realtà. Ma davvero fa tanta paura? Ma davvero questo processo fa così tanta paura da indurre al silenzio chi avrebbe tutta la legittimità per entrare nel merito e ristabilire la verità dei fatti? Lo chiediamo innanzitutto al Presidente del Senato, Piero Grasso, al Presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, al Presidente della Commissione presso palazzo Chigi che si occupa di norme e procedure contro la criminalità organizzata, Nicola Gratteri, al senatore Pd Felice Casson e a tutti coloro che inspiegabilmente tacciono. “Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti”, disse tanti anni fa il premio Nobel per la pace, Martin Luther King, prima di essere ammazzato. A futura memoria.
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Strumenti
Emilia/ Dossier mafia Cronaca 2012-2014 12 beni confiscati in via definitiva e 448 sequestrati per un valore di 21 milioni tra l'agosto 2013 e il luglio 2014. Con questi dati estratti dalle numerose recenti indagini l’Emilia-Romagna si piazza al primo posto tra le regioni a nord del Lazio come numero di provvedimenti. Un boom che dimostra la realtà preoccupante delle infiltrazioni nel tessuto economico della Regione ma che parte sicuramente da lontano. Ed è proprio allo scopo di analizzare alcuni aspetti di questa infiltrazione, in alcune province è ormai un vero e proprio radicamento, che nasce il dossier “EmiliaRomagna, Cose Nostre”, realizzato da Gruppo Dello Zuccherificio, Gruppo Antimafia Pio La Torre e Gaetano Alessi. Non si tratta di un'opera letteraria, né di un esauriente testo universitario che tratta il tema delle mafie con carattere scientifico, ma di una vera e propria “cassetta degli attrezzi” che vuole fornire, a chi accosta il tema della criminalità organizzata in Emilia-Romagna, uno spunto di riflessione in più sulla realtà economica e sociale che lo circonda. Le società coinvolte Nel dossier si possono trovare cenni alle origini delle infiltrazione, alle società coinvolte nella gestione di appalti pubblici a non, alla gestione del traffico di droga e del gioco d’azzardo. Questi due settori, sempre in costante aumento, portano con loro enormi problemi sociali che vanno oltre l’aspetto criminale come l'aumento
vertiginoso dei morti per eroina bianca e la costante crescita delle ludopatie: nel 2013 l’Emilia-Romagna è stata la quarta regione in Italia con 3.627 milioni di euro spesi annualmente, 3.773.000 giocatori, di cui 61.567 problematici. Una parte corposa viene dedicata alle questioni più recenti riguardanti quella che tra Romagna e San Marino potremmo ben definire la “stagione dei sequestri”. Sequestri, a cui seguono confische, per cedere poi il passo alla delicata fase dell'amministrazione giudiziaria.
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Tutte vicende riguardanti in gran parte attività alberghiere, night-club e altri importanti esercizi turistico-commerciali della Riviera finiti sotto l'attenta lente degli investigatori proprio sulla commistione avvenuta in questa zona tra capitali mafiosi, economia grigia (oaddirittura “nera”) e attività apparentemente lecite. Tutto il dossier è scaricabile gratuitamente su: www.gruppodellozuccherificio.org , www.gruppoantimafiapiolatorre.it , www.gaetanoalessi.blogspot.it
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Napoli
Rione Traiano radici e storie “Stava come un pazzo, col fuoco negli occhi. Ma a poco a poco...”. Origini della violenza in una città del Duemila di Umberto Piscopo www.napolimonitor.it
Il modo in cui la grande stampa ha raccontato il contesto sociale dell’omicidio di Davide Bifolco, riducendo tutta la questione a un problema di ordine pubblico; i commenti dei tanti maestri di pensiero locali e nazionali, oscillanti tra la colpevolizzazione degli abitanti dei ghetti urbani e gli spauracchi, sempre agitati a sproposito, di infiltrazioni camorriste o di solidarietà eversive con centri sociali e altri portatori di conflitto; l’impotenza del sindaco, l’ostentata indifferenza delle altre istituzioni laiche e religiose, in generale il coro stridente e rumoroso che si leva dai benpensanti in queste tragiche occasioni, ci hanno indotto a mettere in cantiere una serie di reportage sulla condizione giovanile nei tanti ‘rione traiano’ della città. Un modesto contributo per arginare la marea delle ipocrisie e delle falsità, sapendo bene che per sottrarre la gioventù dei nostri quartieri alle sirene ambigue della malavita e all’abbandono dei governanti, l’unico modo passa per una azione coordinata e perseverante nei territori, al fine di portare in superficie la dignità, i punti di vista, le esigenze e anche le contraddizioni di quelli che ci abitano.
Una collina di tufo L’acqua della pioggia che scende dalla collina ha scavato nel corso del tempo dei valloni nel tufo, profondi fino a trenta metri, dove cresce spontaneamente un bosco di castagni. Il professor Marcello Canino ha scelto questa zona accidentata ai piedi della collina dei Camaldoli, per il progetto affidatogli a metà degli anni Cinquanta dal comitato di coordinamento per l’edilizia popolare (CEP). “Era un caso quasi unico, perché è ben noto quante difficoltà si incontrino a creare zone verdi nei nuovi quartieri popolari. In questo caso le zone verdi vi erano già naturalmente e bastava preservarle innestandole nella composizione urbanistica”. La pianta del quartiere si sviluppa seguendo la complessa morfologia del territorio, affidando l’attraversamento dei valloni alberati a una serie di ponti, che avrebbero collegato sette pianori, ognuno dei quali destinato ad accogliere un nucleo minore del quartiere. Nel tessuto urbano sono integrati servizi e trasporti, dai cinema alle palestre, strutture per l’assistenza medica e sociale, biblioteche. Il progetto entra a far parte del piano regolatore il 19 settembre 1957. L’anno seguente, il plastico di questa nuova zona di Napoli viene esposto alla Mostra d’Oltremare. Mentre Canino e altri architetti e urbanisti guardano con fiducia al futuro, si dà il via al programma finanziario: per altri, è qui che comincia la parte interessante. In una traversa del viale Traiano, via Lattanzio, c’è una scuola abbandonata. È distrutta, rimane in piedi solo lo scheletro, ingombro di detriti e mobili sfondati. Entrando nel parco si vede un solo muro ancora integro, dietro il quale c’è la palestra di boxe di Guido De Novellis. L’ex campione italiano di pugilato, tredici anni fa ha avuto in concessione questo spazio abbandonato e col tempo l’ha trasformato.
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Ora è un unico ampio spazio, dalle pareti molto alte, tappezzate di bandiere nella parte superiore e di fotografie in quella inferiore. Le immagini ritraggono il nonno ciclista su una splendida forcella, ai tempi delle sue gare agonistiche; c’è De Novellis, quando gareggiava a livello nazionale. Me ne mostra un’altra in bianco e nero di suo figlio, piccolo e coi guantoni enormi, all’angolo del ring. E poi lo stesso soggetto, però grande, grosso e a colori, che alza le braccia dopo una vittoria. Quando questa palestra venne inaugurata le occasioni per fare sport, amatoriale o agonistico che fosse, erano scarse. Dietro la scuol aabbandonata Il Polifunzionale non era che una montagna di cemento e miliardi rubati alla collettività, cosa che continua a essere ancora oggi, malgrado tre campi da basket e pallavolo in funzione. De Novellis, braccia incrociate e parlata veloce, mi spiega che continua a esserci una folla di persone che nei giorni dispari si allena attorno al suo ring. Nei giorni pari, invece, la palestra è dedicata all’allenamento di chi non può permetterselo. È un martedì il giorno in cui lo vado a trovare. Sul linoleum si massacrano di esercizi dei ragazzi intorno ai diciotto anni, sono tutti venuti lì a chiedere di poter frequentare la palestra gratuitamente. Il maestro mi dice che se un ragazzo ha una famiglia che non lo segue o che non può permettersi di farlo, se questo continua a non trovare lavoro, gli si dovrebbe almeno dare la possibilità di tenersi in forma fisicamente, di essere educato dalla disciplina dello sport. Mi indica un ragazzino che fa addominali: «Quello quando entrava stava come un pazzo, col fuoco negli occhi. Pian piano l’ho fatto sfogare, ha imparato a mantenere la concentrazione, ora è più tranquillo, più maturo, il padre è contentissimo».
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Gli chiedo come fa a essere sicuro che sia nullatenente chi si presenta per allenarsi gratis. Lui mi risponde che questa iniziativa è fatta per aiutare non solo fisicamente, ma anche psicologicamente: se qualcuno ha i soldi e fa finta di essere povero per risparmiare quaranta euro, vuol dire che anche lui ha bisogno di aiuto. Il rione è un circuito chiuso Nel frattempo i motorini passano rumorosi sullo stradone che collega il rione al resto della città. Vengono allo scoperto e poi subito scompaiono nelle strade che si addentrano nel centro abitato, dove ho sempre la sensazione di trovarmi a casa di qualcuno che non mi ha invitato. Il rione è un circuito chiuso, dove le famiglie e le generazioni si sovrappongono, creando in alcune zone un intreccio inestricabile di conoscenze. La chiusura accorcia gli orizzonti e i margini di scelta. La disoccupazione non può essere un alibi per chi entra a far parte in modo attivo dei meccanismi del Sistema ma, ad ascoltare chi racconta la sua esperienza, chi non si costruisce da sé una via di uscita, rischia di infilare una corsia che ti fa correre restando sul posto. Perché va bene mettersi in proprio, essere bravi a fare qualcosa, «…ma mai esagerare. Devi sempre restare con le Converse ai piedi e la macchina scassata. Se cominci a salire già non va bene». Saper fare qualcosa è più che lavorare, avere una passione è qualcosa di più forte ancora. C’è chi è partito dall’ossessione per il disegno, ha investito la sua prima vera paga in un kit per tatuatore e da autodidatta ha imparato un mestiere, si è assicurato una clientela, trovando un terreno
solido su cui poter contare per arrivare a fine giornata e non dover chiedere niente a nessuno, sottraendosi con grande sforzo da una forza magnetica che nel rione lo voleva attirare verso il basso. Diversa è la storia della persona che incontro a Fuorigrotta, nella carrozzeria dove lavora. Si chiama Lello. Mi fa sedere davanti a una scrivania ricavata dalla parte anteriore di una Peugeot e comincia a parlare del luogo dove ha vissuto, quella via Tertulliano dove sembra che all’inizio della strada ci sia una porta invisibile, e tutto cambia nello spazio di pochi metri: tutti passano, rapidamente e senza sosta, ma in realtà nessuno entra e nessuno esce. Nelle scale del condominio c’è un battitacco di marmo che si sposta e nasconde la merce del piccolo spacciatore del posto. Lello ha la passione per l’arte, nella sua cantinola costruisce un laboratorio dove dipinge. All’epoca spazi del genere venivano presi di mira da chi non aveva un posto per vivere, soprattutto dopo il terremoto dell’Ottanta. La conseguenza è che Lello e la sua famiglia devono lottare per conservare quella piccola stanza sotterranea dove vengono create le tele che adesso, mentre parliamo, escono da dietro gli scaffali, tra strumenti di lavoro e pezzi di carrozzeria, ricoperte di polvere e macchiate da schizzi di vernice. I personaggi dei dipinti di Lello si deformano, hanno bocche enormi a furia di lanciare urla sguaiate, gli occhi spalancati e i corpi in allarme. Poi sculture in ferro, nella stanza dove si conservano in ordine le latte di colore per la verniciatura delle auto: figure lacerate e primitive, dai colori vivi ma resi invisibili dalla polvere. Un ragazzino per fare il palo prende tre-
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centocinquanta euro a settimana rischiando ogni giorno la galera. Più o meno per la stessa somma, se imparasse il mestiere, Lello lo assumerebbe in carrozzeria. Imparare però non è che la parte tecnica di una questione più grande, che consiste nel sapere di avere una alternativa. “Troppe cose da raccontare” Su una delle grandi strade di attraversamento del quartiere, al piano terra di uno dei palazzi che la costeggiano, ci sono le sedi dei partiti, uno al fianco dell’altro: partito comunista, partito democratico, nuovo centro destra e un grande bar in stile neobarocco, con un’insegna che arriva quasi al primo piano del palazzo e neon che di notte illuminano l’asfalto. Nello stesso palazzo abita Antonio. Quando entro e gli faccio i complimenti per la casa lui tentenna nel rispondermi: ci sono troppe cose da raccontare, se vengono fuori tutte assieme non si riesce a dirle, bisogna sedersi e parlare con calma. Antonio nel 1980 studiava architettura. La donna che ora è sua moglie, invece, lingue all’Orientale. Avevano due figli piccoli, uno tra le braccia di lui, l’altro tra quelle di lei, quando il 23 novembre 1980 la loro casa a Montesanto cominciò a ondeggiare e pensarono di morire. Si salvarono invece, ma persero tutto. Il terremoto aveva danneggiato, oltre alla loro casa, i luoghi dove avevano investito per anni le loro energie, creando con un lavoro di anni una scuola a tempo pieno. Antonio, che non disponeva dei dodici milioni a fondo perduto che in quell’occasione pretendevano per dare una casa in affitto, era destinato ai container.
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Un edificio a Soccavo Per evitare tutto questo, individuò un edificio di proprietà del comune, a Soccavo, e occupò un appartamento. Non era però una occupazione come le altre: il palazzo non era stato completato, non c’erano le mura, si dormiva coi giubbotti, con materiali di recupero a fare da pareti esterne. Antonio mi indica il corridoio in fondo, dove adesso si trova una delle stanze: al posto di quella porta si vedeva il palazzo di fronte. Questa occupazione non ha una organizzazione dietro, c’è solo una voce che gira, e dice che uno studente di sinistra fa occupare appartamenti agli sfollati: lo fermano per la strada e gli chiedono se è lui quello che dà le case gratis. Il palazzo si riempie, col tempo i lavori di costruzione vengono terminati e negli anni la famiglia che per prima occupò l’immobile continua a ristrutturare l’appartamento, rendendolo il posto accogliente che è adesso. Ma Antonio non si ferma, al piano terra c’è uno spazio inutilizzato che occupa tutto il piano terra dell’edificio, più un livello interrato delle stesse dimensioni. Un progetto di centro culturale Con un grande lavoro l’ex studente di architettura elabora un progetto per riqualificare quel luogo, per creare un centro culturale. Appena accenna all’argomento tira fuori una pianta in scala che spiega su tutta la scrivania: al primo piano una biblioteca, con una sala riunioni, un’area ricreativa e un ampio spazio dedicato al coordinamento tra le associazioni culturali della città. Il piano inferiore è dedicato alle attività per i bambini, al cinema, alla musica, al teatro. Il progetto viene approvato dal comune. C’è qualcosa però che succede tra l’approvazione di un progetto e la sua realizzazione.
C’è una istituzione che firma, ma poi ce n’è un’altra che deve controfirmare. Uno spazio resta vuoto, inutilizzato, i fondi si perdono nel nulla e i lavori non vengono completati. Le proposte vengono ascoltate, approvate, addirittura incoraggiate ma poi niente si muove. Fino a quando, all’improvviso, tutto si sblocca, ma non nel modo che pensavi. Al posto del centro culturale vengono assegnati i locali alle sedi di partito che in realtà sono centri per la vendita di servizi di patronato. Il solito meccanismo clientelare Il solito meccanismo clientelare che non ascolta ragioni, non guarda ai progetti, alle proposte, forza il meccanismo ungendolo col denaro, fino a deformarlo, alterandone il funzionamento: a quel punto non c’è neanche più bisogno di forzare, le cose vanno avanti in modo ufficioso e regolare. Chi con me ha parlato della sua esperienza, quando ha dovuto difendersi dalla malavita organizzata, ha trovato nello stato un secondo nemico, alleato al primo grazie alla forza della corruzione e della mediocrità. E non si tratta di mele marce. Spazi verdi? No, discariche Fin dai primissimi giorni della costruzione del rione Traiano, nelle vallate che il professor Canino voleva diventassero lo spazio verde del rione, i camion scaricavano di notte i detriti che provenivano dagli altri cantieri privati, scarti di una speculazione edilizia che guadagnava terreno sulla città, distruggendo e ricostruendo senza freni.
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I castagni sommersi dai rifiuti In breve tempo i boschi di castagni furono sommersi dai detriti e dai rifiuti. Prima ancora che i ponti per l’attraversamento dei valloni fossero completati, non c’era più nulla da attraversare. Le autorità impedirono a stento lo scempio; a cose fatte, invece di intervenire sui responsabili, si decise di accettare la cosa e di costruire le strade su quelle opere di riempimento coatto. Il viale Traiano sorge su un cumulo di rifiuti dell’edilizia e dell’industria. Il progetto per la costruzione del quartiere, ormai snaturato, fu comunque portato avanti, e alcuni suoi risultati si distinguono ancora oggi da un punto di vista architettonico e funzionale. Ma il terremoto creò l’emergenza, che a suo volta diede il pretesto per nuovi rimaneggiamenti, venne data priorità alle abitazioni, rimandando a data da destinarsi la costruzione delle infrastrutture e dei servizi. Confinate qui le classi povere Nel nuovo quartiere vennero confinate le classi povere in emergenza abitativa. Oggi, persone che non hanno mai visto una periferia, intellettuali mediocri giudicano da lontano, seduti su una poltrona in televisione, e decidono a tavolino, secondo i propri interessi, qual è il motivo per cui un ragazzo viene sparato da un poliziotto, o perché centinaia di vite sono rovinate o spezzate sul finire di vicoli ciechi. Si continua a versare detriti sul rione, sommergendo quel che resta di buono, facendo il gioco di chi ha tutto l’interesse perché il quartiere resti isolato, le idee non circolino, le possibilità non arrivino a chi vorrebbe che le cose in quel posto non andassero così. Le porte del rione Traiano non si sono chiuse da sole.
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Società
Lo strozzino mafioso Libera: «Mafia, usura, povertà: un trinomio inscindibile» di Monica Amendola www.popoffquotidiano.it Per effetto della crisi e delle misure restrittive delle banche, le piccole imprese hanno sempre più difficoltà ad accedere al credito, e si rivolgono a usurai. Ma negli ultimi anni questi sono soprattutto clan mafiosi. Che s'impadroniscono così dei beni delle vittime. «Negli ultimi anni, per effetto della crisi, i criteri di accesso al credito bancario si sono ristretti, e sono diventati difficoltosi soprattutto per le piccole imprese. Per cui, quando queste hanno bisogno di soldi, ricorrono ad altri criteri per ottenerli, finendo, così, nelle mani di usurai. Di recente è cambiata la figura dello strozzino: l’attività usuraria è ormai sempre più svolta dai clan mafiosi, che utilizzano il denaro proveniente dalle piccole imprese, soldi puliti, per investirli in borsa, per esempio, e guadagnare ulteriormente». Don Marcello Cozzi, vicepresidente di “Libera”, descrive così il recente fenomeno dell’usura, riguardante, negli ultimi anni, duecentomila commercianti. I primi effetti della crisi sono stati una perdita di redditività delle imprese e una diminuzione del potere d’acquisto di salari e stipendi. Gli Stati dell’Unione europea hanno reagito alla recessione con misure sempre più restrittive dell’economia, come il fiscal compact e il patto di stabilità, tagliando i fondi dedicati al welfare e prendendo come unico indicatore di crescita economica il Pil, più che il benessere delle popolazioni. Risultato: tre milioni e duecentotrentamila famiglie a rischio povertà solo in Italia. Il dodici percento della popolazione, in tutto dieci milioni e mezzo di persone.
245mila commercianti rovinati Questo panorama è evidente soprattutto dalla situazione delle piccole imprese italiane: stando agli ultimi dati di Confesercenti, solo nel biennio 2010-2012 hanno chiuso i battenti duecentoquarantacinquemila attività commerciali, soprattutto commercianti al dettaglio, artigiani, alimentaristi, fruttivendoli, mobilieri, negozi di abbigliamento e ristoratori; a Roma si calcola una media di due fallimenti al giorno per le imprese di ristorazione. Ne è indice il rapporto della Banca d’Italia, che stima a centottantamila euro i debiti delle attività in crisi; o quello dell’Istat, che calcola difficoltà sempre crescente per oltre il trenta percento delle imprese. Altrettante, in effetti, sono le attività che negli ultimi anni hanno dovuto chiedere un prestito; ma non alle banche, bensì a persone singole o associazioni. Così facendo, il commerciante di turno inizialmente spera di risolvere la sua situazione, ma il tasso di interesse raddoppia, si moltiplica. E per l’impresa pagare diventa sempre più difficile. La Guardia di finanza riceve ogni anno quasi diciottomila segnalazioni di tassi di interesse elevatissimi. Così la mafia lava i soldi sporchi Qui sta il tratto tutto italiano. La vecchia figura dello strozzino è passata di moda, per lasciare spazio ai clan mafiosi: cinquantaquattro, calcolati da Libera antimafie, che non a caso, per descrivere il fenomeno dell’usura, utilizza l’espressione «il Bot delle mafie». «La caratteristica di questo nuovo tipo di usura è l’enorme abilità dei clan di inserirsi nelle difficoltà economiche delle imprese e di supplire al vuoto che le banche lasciano: in questo modo possono entrare anche in territori prima vergini al loro operato e utilizzarli come “lavanderia”. Perché le mafie utilizzano i loro soldi, ottenuti disonestamente, per infiltrarsi nell’economia pulita e poterli poi riciclare per altri scopi. Il tratto distintivo dell’usura di cosca è che
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l’obiettivo finale dell’azione usuraria è non quello di ottenere i soldi, bensì i beni della vittima. Non a caso il tesoro degli usurai è composto principalmente di proprietà immobiliari, società di capitale, ville e automobili di lusso. Per questo il lavoratore dipendente non è appetibile, e vengono colpite le imprese», si legge nel dossier sull’usura stilato proprio dall’associazione. Un meccanismo che sta alla base delle infiltrazioni camorristiche in Veneto e in Toscana; o della ‘Ndrangheta in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. La campagna “Miseria ladra” «Le varie Dda, durante le loro operazioni contro i clan mafiosi, hanno sequestrato oltre duecentocinquanta milioni di euro liquidi, letteralmente nascosti dovunque, pronti ad essere investiti in borsa», ha concluso don Cozzi. Per questo, a un giorno dalla giornata mondiale della lotta alla povertà (17 ottobre 2014), Libera lancia un allarme per bocca di Giuseppe De Marzo, coordinatore nazionale della campagna “Miseria ladra”: «In un Paese come il nostro, con il quarantaquattro percento di disoccupazione, cui è dovuto il diciassette percento di dispersione scolastica e quasi un milione e mezzo di minorenni in situazione di povertà, favorisce le mafie. Per lottare contro di loro occorre solo l’uguaglianza sociale, sancita nei primi dodici articoli della Costituzione. Le associazioni a delinquere riescono a coprire i vuoti di potere lasciati dallo Stato. Le banche hanno ricevuto quattordici milioni di euro, ma, non avendo l’obbligo di utilizzarli nell’economia reale, li investono nella finanza, che è per loro più redditizia». Per questo “Libera”, nel presidio del 17 ottobre 2014, ha dato vita a un presidio davanti a palazzo Montecitorio, a Roma, per chiedere una maggiore spesa nel welfare e misure che aumentino il benessere reale delle persone. «Una democrazia che non investe nei bisogni dei cittadini - dice don Ciotti - è una democrazia malata».
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Belpaese
Chi ci sta alluvionando È una storia che viene da lontano, quella delle alluvioni. Sono più remunerativi, sia per le economie legali che per quelle illegali, gli interventi legati alle emergenze di turno e alla ricostruzione di Antonella Beccaria Emergenze che fin troppo spesso si sono legate a disastri edilizi, figli dei “sacchi” speculativi della storia recente, e che sono state generate da danni idrogeologici che discendono direttamente da quei disastri. Era il 30 gennaio 1973 quando il senatore Gerardo Chiaromonte affermò: «Non esiste in Italia materia più studiata e approfondita di quella che riguarda la difesa del suolo. Esistono biblioteche intere piene di libri, di inchieste, di relazioni: cosa dobbiamo ancora conoscere?». I fatti di Genova, dell'alessandrino o di Parma dell'autunno 2014 erano ancora molti lontani e oggi in pochi ricordano che, dagli albori della prima Repubblica alle cronache dell’estate scorsa, il passato della nazione è stato percorso da catastrofi - 170 alluvioni, la maggior parte nell'ultimo trimestre di ogni anni - di cui a livello di dibattito pubblico si parlò, ma non con l’enfasi che sciagure del genere avrebbero meritato.
Dal Volturno al Po Inondazioni come quelle avvenute tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta in Campania (2 ottobre 1949, con l’esondazione dei fiumi Volturno e Calore, evento definito «una specie di Pompei delle acque») e in Calabria (22 ottobre 1951, 100 vittime, con tragica replica due anni più tardi lungo la costa ionica) furono di fatto archiviate tra la disattenzione generale. Più clamore suscitò l’alluvione del Polesine, nel novembre 1951, a cavallo tra le province di Rovigo – quella più colpita dall’espansione improvvisa delle acque del Po insieme al Ferrarese, Mantova e, in parte, al basso Veneziano – e di Venezia. Gli alluvionati del Polesine Con un bilancio di 84 morti, una quarantina di dispersi e 180mila senzatetto, l’evento fu il peggiore del Novecento, diventando anche oggetto di un documentario americano, Storm over Italy, il cui obiettivo era «far conoscere agli Stati Uniti e al mondo intero la tragedia della Val Padana». Sia da Washington sia dai Paesi del blocco sovietico giunsero convogli e aiuti. Per quanto riguarda le cause del disastro, le precipitazioni che da ovest si erano spostate a est avevano effettivamente ingrossato i corsi d’acqua che si gettavano nel Po, ma risultò che non erano stati completati i lavori per l’innalzamento degli argini a causa della mancanza di fondi: mancanza che il Genio civile di Rovigo attribuiva al ministero dei Lavori pubblici e al Magistrato delle acque. Le opere pubbliche - soprattutto i cavalcavia ferroviari, stradali e autostradali -
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erano inoltre risultate troppo fitte lungo il percorso del fiume, che aveva così trovato sul suo corso molteplici barriere che impedivano il deflusso del materiale che le acque trascinavano con sé. La mancata sistemazione dei fiumi Di responsabilità legate alla mancata sistemazione di fiumi si tornò a parlare nei due anni successivi, in occasione di nuovi disastri, ma le denunce rimasero inascoltate. Nel 1954 fu devastata la costiera amalfitana, che subì danni per 50 miliardi di lire dell’epoca, e cinque anni più tardi fu la volta della provincia di Ancona e del Metaponto. E poi giunse il 4 novembre 1966 con l’alluvione di Firenze, che in realtà si estese a tutto il corso dell’Arno. Mentre anche altre zone, come il Nordest e di nuovo il delta del Po, finivano sott’acqua, in certe località toscane il livello del fiume Arno si innalzò al punto che in alcuni centri abitati si registrarono quasi 6 metri d’acqua. Trentacinque le vittime ufficiali, nonostante si sia pensato a lungo che fossero di più, 17 delle quali registrate a Firenze, le restanti nei comuni limitrofi. “Tutto inevitabile?” ci si chiedeva Davanti al disastro - impresso nelle immagini dei Tg e sulle prime pagine che ritraevano la Biblioteca nazionale centrale e la basilica di Santa Croce invase dal fango - tornava una domanda fin troppo spesso formulata: tutto inevitabile? Così s'intitolava un editoriale dal parlamentare Franco Busetto sull'Unità del 5 novembre 1966. segue a pag.40
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“Emergenze fin troppo spesso legate a disastri edilizi figli dei sacchi speculativi della storia recente, generate da danni idrogeologici che discendono direttamente da quei disastri Da sinistra a desra e dall'alto in basso: Polesine 1951, Firenze 1966, Soverato 2000, Giampilieri 2010, Genova 2013, Genova 2014
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“Le catastrofi idrogeologiche si prestano molto bene (al contrario della manutenzione ordinaria) a successivi investimenti di capitale ad alta redditività. Questo senza considerare i fenomeni di corruzione e di arricchimento illegale cui spesso dà luogo il cosiddetto ciclo del cemento” “Fragilità idrogeologica del Paese” Ancora una volta, l’intensità delle precipitazioni era stata notevole, ma per il deputato comunista ciò non bastava a spiegare la portata delle conseguenze: «Non solo le difese non [erano] state [approntate], nel tempo e per tempo, ma non si [era] provveduto a colpire le cause [...] sulla base della fragilità e del disordine che [...] caratterizzano le condizioni idrogeologiche del nostro Paese. [Peraltro] il piano Pieraccini [il disegno di legge sul programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969, relegava] questo grande problema nazionale della sistemazione del suolo e della sistemazione dei fiumi, con poche righe, nel capitolo intitolato Altre opere pubbliche, con previsioni di investimento in cinque anni [...] al di sotto delle spese eseguite, e male, negli anni precedenti. [Inoltre si contestava] il fatto scandaloso per cui [...] per la regolamentazione dei corsi d’acqua previsti dalla legge numero 11 del 1962, non vi [era] nessun nuovo stanziamento a questo scopo nel bilancio dello Stato per il 1967». Piemonte, Liguria, Valtellina... Nemmeno dopo questo disastro dagli imponenti effetti mediatici si intervenne con convinzione per contenere i dissesti idrogeologici. Lo testimoniano i fatti degli anni successivi: per citare solo i più gravi e fermarsi alla seconda metà del xx secolo, vanno ricordati i 72 morti nel novembre 1968 in Piemonte, i 44 a Genova nel 1970 e i 53 della Valtellina nel 1987. E ancora, di nuovo in Piemonte, i 70 morti dell’autunno 1994, i 13 della Versilia nel
giugno 1996, i 6 di Crotone nell’ottobre 1996 e i 159 di Sarno e Quindici tra il 5 e il 6 maggio 1998. Nel nuovo millennio, il meteorologo Mario Giuliacci inserisce nell’articolo del 20 novembre 2013 “Storia delle alluvioni in Italia. Perché sono aumentate?”: «Alluvione a Soverato del 9 settembre 2000 (12 vittime), alluvione in Piemonte del 13-16 ottobre (23 vittime, 40.000 sfollati). Il 23 settembre 2003 alluvione di Carrara (2 morti). Il 29 maggio 2008 in Piemonte, [poi] le alluvioni di Cancia (18 luglio 2009), Messina (1 ottobre 2009) e Atrani (9 settembre 2009), alluvione in Versilia (ottobre 2011), Liguria (settembre 2012) e [...] l’alluvione in Sardegna (19 novembre 2013, 16 vittime)». Le inchieste della magistratura Al bollettino vanno aggiunti inoltre episodi recentissimi, come quello della provincia di Modena, che ha riguardato 8 comuni e 1800 aziende (gennaio 2014), e l’alluvione di Refrontolo (Treviso), avvenuta il 3 agosto 2014, 4 le vittime. Le inchieste della magistratura hanno accertato per molti di questi episodi la sottrazione di fondi pubblici destinati ai lavori di consolidamento ambientale e di mantenimento dei corsi d’acqua. Nel 1970 venne istituita la Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e la difesa del suolo, conosciuta anche come commissione De Marchi. Nel 1984 fu creato il Gruppo nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche (Gndci) su iniziativa del ministro per la Ricerca scientifica e negli anni seguenti arrivarono norme che si aggiungevano a quelle esistenti, leggi quadro che davano definizioni e linee guida d’intervento.
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xxxxxxx Nonostante tutto questo, non si riuscì giungere nemmeno a un contenimento degli effetti del dissesto idrogeologico diffuso nel Paese. Il fattore umano moltiplicava e amplificava le conseguenze degli eventi naturali, come spiega Antonio Vallario nel libro Il dissesto idrogeologico in Campania (Cuen, Napoli 2001). Dal 1945 al 1999, per fenomeni sismici, eruzioni vulcaniche, sprofondamenti, alluvioni e frane si sono lamentate circa 10mila vittime, 14 vittime-mese, e sono stati attivati flussi finanziari non inferiori a circa 200mila miliardi [di lire], 10 miliardi-giorno, investimenti per rimuovere pericoli e riparare danni ripristinando lo stato dei luoghi. Eppure nessun effetto è stato ottenuto dando vita uno scandalo diluito nel corso del tempo, senza fine, eterno. Uno scandalo che, come ha scritto il geologo Marco Delle Rose, “conferma che il sistema, per mantenere condizioni elevate di redditività del capitale investito, ha bisogno di continue distruzioni di capitale su larga scala”. Le “catastrofi idrogeologiche” ben si prestano a questo scopo, al contrario della “manutenzione ordinaria” del dissesto». Il “ciclo del cemento” Ma non c’è solo questo. Il “sistema”, in questo ambito, si è nutrito spesso di fenomeni di corruzione, di arricchimento illegale, e ciò è stato possibile perché negli anni è stato foraggiato dal cosiddetto “ciclo del cemento”, espressione sotto la quale rientra un’ampia gamma di manifestazioni, dall’abusivismo edilizio al consumo del territorio con inevitabili riflessi sui bacini idrici.
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Pace e guerra
Via dalla Nato? Una realistica utopia Un convegno dei pacifisti italiani di Antonio Mazzeo Ridar vita a un movimento contro tutte le guerre a partire da una campagna di mobilitazione contro l’Alleanza Atlantica e le basi militari Usa e Nato in territorio italiano. Se n’è discusso a Roma al convegno “E’ Nato per la guerra. Come uscire dal Patto Atlantico”, promosso dalla Rete No War con la partecipazione di Peacelink, Comitato No MUOS, Statunitensi per la pace e la giustizia, Alternativa, Ass. Amicizia Italia-Iraq, Rete dei Comunisti, Pdci, Ass. Ialana, Ross@, Cobas. I lavori sono stati introdotti dal giornalista de Il manifesto, Manlio Dinucci, dal giurista Claudio Gianciacomo e dal peace resercher Antonio Mazzeo; il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda, l’illegittimità costituzionale di questa alleanza e il complesso sistema delle basi militari in Italia, i temi trattati. “Nel 1999 a Washington, i governi dei paesi membri dell’Alleanza hanno firmato un accordo che ha modificato radicalmente il concetto strategico della Nato”, ha ricordato Dinucci. “Esso autorizza l’intervento militare per motivi diversi dalla difesa del territorio di uno Stato membro, come previsto dal trattato del 1949, e cioè per motivi di sicurezza globale, economica, energetica, migratoria, ecc., che sono quelli tipici della guerra preventiva. Inoltre si autorizzano missioni militari in Stati esterni ai territori dei Paesi membri della Nato, secondo la proiezione di potenza, accrescendo la caratteristica aggressiva dell’Alleanza militare”.
Armi di distruzione di massa Così la Nato ha contribuito al riarmo generale e alla diffusione e modernizzazione delle armi atomiche e di distruzione di massa, rendendosi responsabile di stragi di civili e crimini di guerra e contro l'umanità in Jugoslavia, Afghanistan, Libia e altrove. Per il costituzionalista Giangiacomo, con il Nuovo Concetto Strategico del 1999, mai discusso in Parlamento e dunque mai ratificato come trattato, “scompare la ragione d’essere dell’Alleanza per quanto attiene ai compiti di tutela della difesa dei confini e dei suoi membri” e di conseguenza non “si può in alcun modo ritenerlo conforme all’art. 11 della Costituzione né alla normativa che regola la ratifica dei trattati." “Sappiamo che l'uscita dell'Italia dalla Nato può sembrare un’utopia, ma come tutte le utopie è una stella polare che può guidare le nostre aspirazioni ed iniziative”, afferma Nella Ginatempo della Rete No War di Roma. “Secondo lo stesso Trattato del 1949 è possibile per gli Stati membri ritirare l'adesione passati i primi vent'anni dalla firma del Trattato, non c'è un ostacolo legale ad una eventuale scelta dell'Italia di revocare l'adesione. Naturalmente l'ostacolo è tutto politico ed è legato alla sudditanza dell'Italia e della UE agli USA, alla posizione dell'Italia in senso geopolitico, alla storia ed ai poteri forti che disegnano il nostro futuro”. Un appello per la neutralità attiva Un appello a favore della neutralità attiva dei paesi europei è giunto da Belfast, via skype, dalla Premio Nobel per la pace (1976) Mairead Corrigan-Maguire. Nei prossimi mesi saranno avviate iniziative di denuncia dell'illegittimità del Nuovo Concetto Strategico della Nato e contro la presenza e l’uso di basi militari in Italia per operazioni di guerra all’estero.
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“Nel Paese si moltiplicano i soggetti che a livello locale si oppongono ai processi di riarmo e militarizzazione del territorio”, ha ricordato Antonio Mazzeo. “Dai No Dal Molin in lotta contro l’insediamento a Vicenza del nuovo centro operativo strategico della 173^ brigata aviotrasportata dell’Esercito Usa, trasferita dalla Germania e del Comando delle forze terrestri statunitensi per il continente africano; ai No MUOS in Sicilia contro l’installazione del terminale terrestre del nuovo sistema di telecomunicazioni della marina USA; alle popolazioni che in Sardegna protestano contro le servitù militari e i devastanti poligoni militari esistenti. Molto può essere fatto ancora se si rafforzano le reti con le lotte del sindacalismo di base, degli studenti, dei movimenti anti-austerità”. Una legge contro gli accordi militari La concessione delle infrastrutture militari è regolato oggi in Italia da una maglia di accordi militari secretati. Per questo l’assemblea No Nato chiede di lottare per la loro desecretazione, per la chiusura delle basi militari Usa e Nato e per la loro riconversione a usi civili. Nel 2008, alcune associazioni pacifiste (tra cui Semprecontrolaguerra e Disarmiamoli) presentarono una legge di iniziativa popolare sottoscritta da oltre 70.000 cittadini ma mai discussa in Parlamento che prevedeva tra l’altro, proprio la desecretazione degli accordi militari, l’esplicito divieto alla partecipazione italiana in missioni di guerra all’estero e all’installazione e al transito di armi di distruzione di massa. “Impegneremo la nostra campagna antiNATO con il rilancio di questa legge, visti i rischi di guerra in corso e per l'uso sempre più massiccio delle basi italiane per operazioni belliche in Africa e Medio Oriente”, concludono i partecipanti al convegno.
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Ambiente/ Borgo Montello
Le mani sulla discarica Latina. Terra, rifiuti e mafie: le tre stagioni della storia di una tranquilla cittadina che, per quanti nomi abbia cambiato, non è ancora riuscita a trovar pace di Andrea Palladino www.liberainformazione.org
La monnezza delle strade si vede raramente. L’emergenza è finalmente lontana, ad appena cinquanta chilometri, direzione Sud. Lì c’è un fiume, una pianura, decine di serre, trattori, contadini con la loro lingua antica. E una collina, strana, verde pallido. E’ Borgo Montello, Latina, la discarica che da mesi accoglie una parte dei rifiuti romani che Marino non vuol vedere dalle sue parti. Inghiotte tutto, come ha sempre fatto. Negli anni ’80 prendeva quei fusti neri delle industrie criminali; poi “il triturato misto”, melme confuse di chimica e fanghi. Oggi la Forsu, ovvero gli scarti umidi delle città, selezionati dai mostri d’acciaio chiamati TMB. Roba che puzza come prima, che emette gas, percolati. Che - come in tutte le discariche del Lazio - violenta la terra. Da queste parti negli anni ’30 l’hanno strappata alla palude. Venti ettari a famiglia, dove spaccarsi la schiena per generazioni. E’ un susseguirsi di argille scure e sabbie, da mescolare e accudire. Guardando le mappe catastali della provincia a sud di Roma si riconosce quella suddivisione dell’era che qui chiamano della “Fondazione”.
Era l'epoca di Littoria... Era l’epoca di Littoria, quando la corruzione il fascismo la teneva nascosta, chiusa nei dossier da usare per ricattare tutti. Nell’ufficio del catasto quella terra oggi coperta da 40 metri di monnezza per un’estensione di 40 ettari (provate a fare i calcoli per avere il senso della violenza insita nella storia delle scorie italiane) occupa il foglio 21. E poi i lotti, tanti, decine di numeri, divisi tra otto invasi, che marcano il tempo dagli anni ’70 in poi, segnaposto della memoria per chi qui è nato e cresciuto. Per i monnezzari quei numeri sono tutto. Sono potere, affermazione imprenditoriale, spesso una scommessa sugli affari del futuro. Non c’è riforma agraria che regga alla potenza di una discarica. Latina è particolare. Qualcuno dice una sorta di camera di compensazione complessa e delicata. C’è l’anima nera, nerissima, fatta di gente che offriva vergini ai camerati assassini in fuga. C’è il potere democristiano inossidabile, cresciuto sotto le ali di Andreotti e dello squalo Sbardella. Ci sono i poteri criminali che si incontrano, si scambiano favori e affari. C’è un fiume di droga, come in tutte le province italiane. Ma c’è qualcosa di diverso tra i canali della bonifica, un senso impercettibile e sfuggente di potere ancora più complesso. Ed è forse per questo che anche per la monnezza, da queste parti, le cose si fanno complicate. Partiamo da un anno chiave, il 1994. Uno strano imprenditore napoletano – tale Giovanni De Pierro – compra in blocco una vecchia discarica in parte abbandonata. Terra inservibile, intrisa di percolato. La compra da un fallimento di una società, la Ecomont, che qualche tempo prima era stata costituita da un variegato gruppo: un imprenditore siciliano, qualche studente e un paio di giovani casalinghe.
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Quell’investimento sarà l’inizio di una complessa vicenda amministrativa e giudiziaria. Poco dopo il rogito l’amministrazione fallimentare della Ecomont chiede – e in parte ottiene – la revoca dell’atto, aprendo un contenzioso che dura fino ad oggi. Verificando chi possiede le terre della discarica di Latina in conservatoria si scopre un vero e proprio ginepraio, dove è molto difficile avere una situazione certa. Una “normale” storia di riciclaggio? Dopo vent’anni, nel gennaio del 2014, il Gico della Guardia di Finanza sequestra il patrimonio di De Pierro. Centinaia di società, holding estere, conti correnti. E una parte di quelle terre di Borgo Montello, ancora oggi contese. Una normale storia di riciclaggio all’italiana? Forse. O forse qualcosa di più. Quelle terre imbarazzano, in tanti evitano di parlare dell’affare strampalato del 1994, di quell’acquisto finito nei fascicoli della Finanza. Nel 2007 e poi nel 2009, quando la società Ecomabiente ottiene l’autorizzazione per ampliare la discarica, la Regione Lazio ignora completamente la complicata questione della proprietà di quelle terre. Nei documenti ufficiali scrive che quell’area appartiene al gestore. Insomma una bugia. Poi nel 2014, quando quell’autorizzazione viene rinnovata, il gestore Ecoambiente assicura che nessun sequestro è mai avvenuto. Eppure l’atto della magistratura è stato regolarmente trascritto nella conservatoria e l’area sequestrata rientra nella zona gestita dalla società (corrisponde con la parte degli uffici, l’ingresso dei camion e la pesa, come si può dedurre dalle mappe catastali confrontate con le foto aeree). La vicenda del passaggio delle terre di Borgo Montello continua a rimanere in buona parte un piccolo mistero di questa provincia del sud del Lazio.
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“La staffetta ai vertici della Regione Lazio”
si era costituita la società Ecomont, amministrata da Riccardo Maruca (imprenditore coinvolto recentemente in un’inchiesta della procura di Agrigento per false fatturazioni). Il passaggio societario
Un pasticciaccio brutto, la punta di iceberg di una vicenda oscura. Da quel 1994 – anno dell’arrivo da queste parti dell’investitore napoletano – si può partire in un viaggio della memoria, a ritroso. Una porta del tempo, tra veleni, omicidi eccellenti e giochi di potere. L'assassinio di don Boschin C’è un omicidio che pesa sulla storia di Latina come un macigno. Un caso irrisolto, la morte del parroco di Borgo Montello avvenuta il 30 marzo del 1995. Si chiamava don Cesare Boschin, un veneto arrivato in provincia di Latina – in località Le Ferriere – nel 1950, con l’incarico di ricostruire la chiesa di Santa Maria Goretti. Gli viene affidata la parrocchia di Borgo Montello, dove dagli anni ’30 si erano insediati i contadini provenienti dal Veneto. Qui morirà quarantacinque anni dopo, soffocato e malmenato nella sua canonica. Il caso si è chiuso con un’archiviazione, disposta dal Gip di Latina, su richiesta della Procura che non riuscì – nelle brevi indagini – ad arrivare a individuare responsabili e moventi. Imprenditori e politici dietro la gestione dei rifiuti. Con la sua morte si chiude un primo ciclo, e se ne apre un altro, che dura fino ai nostri giorni nella gestione dei rifiuti nella locale discarica. Quell’omicidio rappresenta un punto di svolta, simbolico, anche se fino ad oggi ufficialmente non si conosce il movente. La discarica di Borgo Montello era
nata nel 1971 con la gestione di due imprenditori italiani arrivati dalla Tunisia, Andrea Proietto e Umberto Chini (Vedi: La società ProChi, delle famiglie Proietto e Chini, primi gestori di Borgo Montello). Facevano parte di un gruppo ampio di ex coloni emigrati in nord Africa, costretti poi ad abbandonare quei paesi. I loro primi passi – ricordava l’ex senatore socialista Maurizio Calvi – furono accompagnati e sponsorizzati dal Psi. Fino al 1988 sostanzialmente la gestione dei rifiuti della provincia di Latina era in mano a questo gruppo locale. Gli anni '80 e'90 Cronistoria della discarica fra gli anni ’80 e ’90. Il cambiamento radicale avviene con l’arrivo di un imprenditore da fuori regione, Biagio Giuseppe Maruca, originario di Bompietro (Palermo). Il 30 ottobre 1989, davanti al notaio Angelo Federici di Roma, otto persone costituiscono la Ecotecna, Trattamento rifiuti. Sono Domenico D’Alessio, operaio, Franco Marini, operaio, Ciro Salerni, impiegato, Rosa Manganelli, operaia, Bruna Minestrelli, casalinga, Federico Primiani, studente, Livio Trincia, operaio e, infine, Biagio Maruca. Un mese dopo la Ecotecna acquista una prima parte dei terreni della zona di Borgo Montello, preparandosi a gestire la discarica. I due imprenditori Chini e Proietto a loro volta vendono tutto a Maruca, incassando una lauta liquidazione. Un anno prima, il 10 maggio del 1988,
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Questo passaggio societario è il punto di svolta, che – da lì a poco – aprirà la strada ai colossi industriali nazionali, seguendo uno schema comune a molte discariche italiane. L’ex senatore Maurizio Calvi (che per due legislature – dal 1989 al 1994 – ha fatto parte della commissione antimafia) ha raccontato come dietro Biagio Maruca vi fosse la cordata politica andreottiana, rappresentata in quel momento da Vittorio Sbardella. E’ un dato molto importante per capire cosa accade a Borgo Montello a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. E’ l’epoca d’oro della Dc e del Psi, partiti affidati a due tesorieri che diverranno famosi grazie a Tangentopoli, Giorgio Moschetti, detto “er biondo”, uomo di fiducia di Sbardella, e Paris Dell’Unto, detto “il roscio”, cassiere fedelissimo della corrente craxiana. Ai vertici della Regione Lazio c’è una staffetta tra Bruno Landi – socialista, divenuto poi amministratore della Ecoambiente, arrestato lo scorso 9 gennaio per l’inchiesta romana su Cerroni – e Rodolfo Gigli, democristiano passato poi nelle fila di Forza Italia. Anche a Latina, dopo il 1987, c’è un cambio di potere. La giunta Corona – appoggiata dal Psi – viene sostituita da Delio Redi, andreottiano di ferro, come ricorda Maurizio Calvi. 1994, un anno chiave. All’inizio degli anni ’90 arriva a Borgo Montello il gruppo Pisante, holding lombarda specializzata nei servizi ambientali. Il gruppo a Roma in quel periodo ha qualche guaio giudiziario, a causa di un’inchiesta su un appalto per la gestione dei depuratori di Acea.
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Il gruppo di Biagio Maruca La richiesta presentata nel 1993 al Senato per poter procedere contro l’ex tesoriere della Dc (leggi: Domanda di autorizzazione a procedere contro Giorgio Moschetti - Fonte: Senato) ipotizzava il versamento di una serie di tangenti ai due tesorieri Dc e Psi romani per la realizzazione di diversi appalti. Le imprese coinvolte erano ben conosciute nel campo dei servizi ambientali. Oltre al gruppo Acqua dei fratelli Pisante, nelle carte della magistratura appariva anche Romano Tronci (imprenditore del settore dei rifiuti che operava anche nella discarica di Pitelli) per la De Bartolomeis, colosso specializzato in impianti di trattamento dei rifiuti. E’ questo il contesto politico che in quegli anni vede in azione il gruppo di Biagio Maruca (mai coinvolto in indagini penali), l’imprenditore che traghetta la seconda discarica del Lazio dalle mani di Proietto e Chini a quelle dei grandi gruppi. Oggi i due impianti, dopo una serie di passaggi societari, sono controllati dalla Green Holding della famiglia Grossi (che controlla Indeco) e dal gruppo riconducibile a Manlio Cerroni (che pissiede il 49% di Ecoambiente). Quella fase si conclude (sembra) nel 1994, quando lo sconosciuto Giovanni De Pierro acquista in blocco la parte di discarica abbandonata da Biagio Maruca.
La figura di questo imprenditore è un vero giallo. La Guardia di Finanza nei mesi scorsi, con due diverse operazioni, ha sequestrato un patrimonio riconducibile alla sua famiglia di 350 milioni di euro. Una cifra enorme, nascosta in una rete di centinaia di società. Il suo gruppo era specializzato nella manutenzione e nei servizi ambientali per le grandi industrie. E questo è l’unico filo che lo lega al territorio della provincia di Latina, dove operano moltissime fabbriche chimiche e farmaceutiche. Secondo un’inchiesta della procura di Potenza del 2003 (leggi l’ordinanza del GIP che si dichiarava non competente sul sito dei creditori Federconsorzi) De Pierro avrebbe fatto parte di una vera e propria “holding del malaffare”. In quell’indagine la Procura aveva contestato all’imprenditore il ruolo di copromotore di una associazione per delinquere “impegnata nel settore degli appalti”. Un luogo poco fortunato... La storia della discarica di Borgo Montello deve essere in buona parte ancora scritta. E’ un luogo poco fortunato per le società che decidono di investire da queste parti. Il gruppo Cerroni, rappresentato a Latina da Bruno Landi, è oggi sotto processo a Roma.
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“Un pasticciaccio brutto che in fondo interessa a pochi”
Francesco Colucci, socio di Cerroni nell’affare discariche, è stato recentemente arrestato ed è al centro di un’inchiesta della Procura di Milano. Anche l’altro gruppo imprenditoriale, riconducibile alla Green Holding di Milano, non ha avuto buona sorte. Il patron Giuseppe Grossi – scomparso da poco – ha subito una condanna a Milano per la bonifica di Santa Giulia, insieme alla manager del suo gruppo Cesarina Ferruzzi, ben nota nella discarica di Borgo Montello. La questione della proprietà delle terre è ancora aperta, mentre la Procura di Latina ha chiesto il rinvio a giudizio di tre consiglieri di amministrazione di Ecoambiente per avvelenamento colposo delle acque, reato particolarmente grave. Per la Regione tutto va bene Intanto per la Regione Lazio va tutto bene. Senza colpo ferire lo scorso luglio la giunta Zingaretti ha approvato il rinnovo delle autorizzazioni integrate ambientali, dando il via libera alla realizzazione di due nuovi impianti di trattamento di rifiuti. Quel “pasticciaccio brutto” nascosto sotto le colline artificiali di monnezza di Borgo Montello in fondo interessa a pochi. Pubblicato su Libera Informazione 25-27 agosto 2014
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Calabria
Il coraggio di dire la verità Gaetano Saffioti s'è preso una soddisfazione. Rischiosa, questo sì: ma lui è un calabrese vero e non ha paura di Giacomo Riccio Il 16 settembre è apparsa in tv una notizia che un dirigente d’azienda di un qualsiasi TG definirebbe “minore”, relegandola al settimo-ottavo posto nell’ordine delle notizie, quasi a chiusura del programma.
Il 16 settembre 2014 Gaetano Saffioti ha cambiato la storia di Rosarno. È bastata una telefonata del prefetto, la risposta di Gaetano è stata immediata, veemente: “ Lo faccio gratis”. Ma non è tutto. Gaetano Saffioti ha il dente avvelenato, lui gli ‘ndranghetisti non li ha mai mandati giù. E un giorno si ribellò
Il 16 settembre Gaetano Saffioti, calabrese, titolare di un’impresa di costruzioni e demolizioni ha avuto il coraggio di fare ciò che tutti i suoi colleghi della zona avevano categoricamente rifiutato di fare: presentarsi all’asta per la demolizione di Villa Pesce, una villa abusiva nel cuore della piana di Gioia Tauro. La villa apparteneva al clan dei Pesce, un cognome che da quelle parti fa tremare i polsi e abbassare gli occhi, nonostante gran parte dei componenti di quella famiglia sia da tempo in carcere. Nel 2003 l’allora sindaco di Rosarno, Peppino Lavorato, decise di fare la guerra al clan ed istruì le pratiche per la demolizione ricevendo minacce a suon di colpi di AK47. Nel 2011 un altro sindaco coraggioso, Elisabetta Tripodi, finì sotto scorta per aver dato esecuzione di sgombero alla madre del boss, residente nella casa abusiva. Nel 2011 la prima asta. Un deserto. E così anche la seconda, la terza, la quarta..una fiera della paura, un inno alla codardia. Per ben tre anni, dal 2011 al 2014.
Erano gli anni ’80: l’attività di Gaetano andava a gonfie vele, in Calabria si costruiva praticamente ogni giorno e la Saffioti Srl fatturava una trentina di miliardi di lire all’anno. Ma più lui guadagnava più doveva pagare alle ‘ndrine. Gli facevano pagare tutto, il pedaggio per trasportare la merce, il pizzo sugli appalti, il calcestruzzo da comprare solo dove dicevano loro e al prezzo che dicevano loro. Gaetano un giorno si ribellò. Prese a registrare ogni incontro, ogni pagamento, ogni minaccia, e portò tutto in questura. Grazie agli sforzi di Gaetano, nel 2002 l’antimafia ha dato il via all’operazione Tallone d’Achille, mettendo in carcere 48 “uomini d’onore” delle famiglie Bellocco, Gallico e Piromalli. Vivono sotto scorta Ora Gaetano e la sua famiglia vivono sotto scorta, reietti, evitati dagli amici occasionali e dai vicini; il figlio di Gaetano non troverà mai una fidanzata calabrese.
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“E' u’figghiu di Saffioti”, diranno. La sua famiglia non può andare fuori a mangiarsi una pizza perché le pizzerie e i ristoranti non vogliono avere rogne. E così via. Quasi tutti gli operai di Gaetano l’hanno abbandonato, chi per viltà, chi per paura, e il fatturato è crollato drasticamente a 500 mila euro l’anno. Gaetano non ha mollato, ha rifiutato i soldi dello stato perché lui non è un pentito e non vuole essere trattato come tale. I In Calabria non costruisce più e alle aste arriva sempre secondo, ma in compenso lavora all’estero, a Parigi, in Germania, a Dubai. Eppure stavolta sorride Gaetano è un uomo tutto d’un pezzo, un uomo vero, come pochi a questo mondo. Ha masticato fango e calce, mandando giù bocconi amarissimi e condannando sé stesso e la propria famiglia ad una vita d’inferno. Nulla potrà ripagarlo degli anni persi, delle offese e delle ingiurie, dei morsi alle nocche e dei pugni contro il muro; quelle sono ferite che non si rimarginano. Ma possiamo immaginarcelo sorridente, Gaetano Saffioti, almeno una volta, a bordo della sua ruspa, intento a ridurre in macerie la casa di uno di loro, l’ex quartier generale dei Pesce. Non è una rivincita o una soddisfazione, Gaetano lo sa bene. Eppure stavolta sorride. Sì, Gaetano sorride.
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Ambiente/ Mazzarrà Sant'Andrea
L'ultimo chiuda la discarica La Regione siciliana si avvia a chiudere la discarica di Mazzarrà Sant’Andrea (Me), ma la società proprietaria Tirrenoambiente prende tempo di Carmelo Catania Un’inchiesta effettuata dal pool di tecnici istituito dall’ex assessore Nicolò Marino nel gennaio scorso, diverse conferenze dei servizi, un’indagine della magistratura palermitana che ha scoperchiato un giro di mazzette negli uffici regionali. Tanto è bastato per far decidere al Dipartimento regionale dell’acqua e dei rifiuti di non rinnovare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) rilasciata alla Tirrenoambiente s.p.a. per l’attività della discarica di contrada Zuppà e dell’annesso impianto di biostabilizzazione, a Mazzarrà Sant’Andrea nel messinese. Non poteva essere realizzata Le controdeduzioni presentate dai vertici della società strumentale del comune tirrenico (il cui amministratore delegato, Giuseppe Antonioli, è stato rinviato a
giudizio perché coinvolto nell’operazione “Terra mia”) «non sono tali da superare le criticità evidenziate dalla commissione». L’opera realizzata non è conforme alla normativa di riferimento (decreto legislativo 36/2003) sia dal punto di vista strutturale (modalità di impermeabilizzazione del primo fondo e delle successive sopraelevazioni) che da quello gestionale (assenza del piezometro di monte necessario per l’applicazione corretta del Piano di sicurezza e controllo e mancata esecuzione delle verifiche sulla stabilità del corpo rifiuti). In sostanza – per il Dipartimento – è stato approvato un progetto che non aveva i requisiti per essere realizzato ed è stata realizzata un’opera ovviamente difforme al progetto approvato». Alla luce di questi fatti per i funzionari della Regione non sussistono «i requisiti soggettivi ed oggettivi» per il rilascio del rinnovo dell’autorizzazione integrata ambientale e quindi «la discarica deve essere oggetto di uno specifico provvedimento di chiusura». I rilievi della commissione Nella loro relazione i tecnici avevano evidenziato, sotto diversi profili, l’insussistenza delle condizioni necessarie per il rinnovo dei decreti 391 (impianto di biostabilizzazione) e 393 (ampliamento discarica) del maggio 2009. Criticità non da poco, che hanno fatto decidere al Di-
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partimento per l’avvio del procedimento per il diniego del rinnovo delle autorizzazioni integrate ambientali. L’elenco è denso: si va dalla mancata conformità dal punto di vista urbanistico, all’assenza «agli atti del preventivo giudizio di compatibilità ambientale positivo ex DPR 13 Aprile 1996 (Valutazione di impatto ambientale)». E poi la violazioni di alcune normative – anche comunitarie – per il pretrattamento dei rifiuti e la biostabilizzazione della frazione organica e la mancanza di delimitazione dell’area di pertinenza dell’impianto. Una collina di 145 metri È stato rilevato inoltre il superamento delle quote di abbancamento (circa 145 metri) rispetto a quanto indicato nel progetto approvato (118 metri) e anche «la morfologia realizzata è diversa da quella autorizzata». Il controllo effettuato il 27 agosto dai carabinieri del Noe ha evidenziato la presenza di fenomeni di instabilità dell’invaso. La stessa Tirrenoambiente ha dovuto constatare che «l’eccessivo cumulo di rifiuti in altezza, ha determinato delle evidenti condizioni di instabilità… È evidente, infatti, la presenza nei rifiuti di una frattura che taglia diagonalmente l’abbancamento. Detta frattura, la cui profondità è impossibile determinare, unitamente allo “spanciamento” del corpo di rifiuti lungo il fronte sud-est ed allo scivolamento del nord-est».
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“Nel rispetto della normativa ambientale...
Scheda GESTIONE RIFIUTI: UN ANNO DI PROROGHE Ancora ferme al palo le Società di regolamentazione rifiuti, i nuovi organismi deputati ad occuparsi del ciclo dei rifiuti siciliani, non essendo state ancora ultimate da parte degli enti locali competenti le procedure previste dalla legge, né risultano ancora individuati i nuovi soggetti affidatari del servizio di gestione integrata dei rifiuti. Così è scattata l’urgenza di garantire la continuità del servizio pubblico di raccolta, attraverso un intervento sostitutivo sia alla gestione transitoria che relativamente alla urgente definizione delle procedure necessarie per il passaggio di consegne per l’affidamento del servizio. È stata quindi rinnovata l’ordinanza presidenziale del 27 settembre 2013, che prorogava agli Ato le competenze in materia di gestione integrata del ciclo dei rifiuti: l’atto era stato reiterato diverse volte durante l’anno, fino al 26 settembre scorso, quando gli effetti del documento firmato da Rosario Crocetta sono stati prorogati fino al 15 gennaio 2015. Tuttavia i commissari straordinari che al momento reggono gli ambiti in liquidazione dovranno vigilare affinché gli enti ordinariamente competenti predispongano tutti gli atti necessari per assicurare con la massima urgenza il passaggio delle competenze alle Società per la regolamentazione dei rifiuti o ai Comuni in forma singola o associata.
Tirrenoambiente chiede più tempo Per il sito di Mazzarrà era stata disposta già durante la conferenza dei servizi del 2 settembre, la presentazione (entro il 22 settembre) di un progetto definitivo di chiusura che «garantisca la stabilità e la tutela ambientale della discarica», ma Tirrenoambiente ha chiesto ulteriori tre mesi per effettuare le necessarie verifiche di stabilità, evidenziando inoltre la necessità della costruzione di un nuovo argine per la messa in sicurezza del lato sud e proponendo una soluzione alternativa per l’abbancamento dei rifiuti (lateralmente al fine di mitigare la spinta della massa a vantaggio della stabilità del corpo rifiuti), salvo essere costretta a interrompere i conferimenti. La discarica va chiusa Viste le bocciature anche da parte dell’assessorato regionale Territorio e ambiente, dell’Arpa e degli altri enti interessati, il dipartimento acque e rifiuti ha quindi disposto anche la revoca dell’autorizzazione per l’impianto di selezione e biostabilizzazione e ordinato a Tirrenoambiente di presentare un progetto di chiusura e messa in sicurezza del sito (che dovrà essere presentato «nel minor tempo possibile e comunque non oltre tre mesi dal 29 settembre) volto a garantire che esso possa essere chiuso «nel rispetto della normativa ambientale
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e di sicurezza vigente», ha inoltre ribadito il divieto di abbancare rifiuti in aree diverse da quelle autorizzate con i decreti del 2009, oggi revocati, e che «per la eventuale necessità di interessare per opere di sostegno aree non ricomprese all’interno di tale perimetro, ciò non potrà essere realizzato mediante l’utilizzo di rifiuti ma di terra». Si attende adesso il provvedimento finale che verrà emesso dal dirigente generale del Dipartimento. La Regione proroga Sembra quindi che i giorni per la ultradecennale discarica di contrada Zuppà stiano per finire anche se all'orizzonte si profila il probabile ricorso contro il diniego del rinnovo delle autorizzazioni integrate ambientali, preannunciato dallo stesso presidente di Tirrenoambiente Crisafulli durante la conferenza dei servizi decisoria, mentre la Regione – con la proroga fino al 15 gennaio 2015 dell'ordinanza n. 8/rif del 27/09/2013 prevista dall’articolo 191 del decreto legislativo 152 del 2006 in scadenza il 30 settembre (vedi scheda) – concede altri tre mesi e mezzo di vita all'agonizzante impianto di Mazzarrà.
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Ambiente/ Business rifiuti
Il miracolo di Santa Munnizza La moltiplicazione della spazzatura (e dei costi di raccolta) di Antonio Mazzeo A Falcone, piccolo comune della provincia di Messina, in meno di quattro anni i rifiuti prodotti sono più che raddoppiati nonostante il numero dei cittadini residenti non sia variato. Se ne sono accorti i consiglieri comunali di opposizione Franco Paratore, Santo Mancuso, Carmelo Paratore e Monica Barbara La Macchia che in un’interpellanza al sindaco denunciano che secondo i dati pubblicati nei relativi piani finanziari, la quantità totale di rifiuti generata a Falcone è passata da 832.400 Kg (anno 2010) a 2.061.000 kg (2013), con un costo totale a carico dei cittadini che dai 206.186 euro è volato a 387.491 euro. “In questi anni la popolazione residente non è aumentata e nulla di nuovo è successo che possa dimostrare un aumento così importante di produzione di rifiuti solidi urbani di oltre il 100%, causando conseguentemente un aumento terrificante dei costi di quasi 180.000 euro, con ovvie ripercussioni sulle bollette de cittadini contribuenti”, scrivono i consiglieri. “Ci chiediamo se da parte dell’Amministrazione Comunale è stata mai intrapresa un’azione di verifica e controllo per così eclatanti aumenti dei rifiuti solidi urbani e se è nelle sue intenzioni intraprendere ogni iniziativa utile allo scopo di correggere eventuali errori, con conseguente diminuzione dei costi a carico dei contribuenti”. Nel 2010, l’ingegnere Salvatore Re, per conto dell’ATO (Ambito Territoriale Ottimale) ME2 fece pervenire al Comune di Falcone il piano finanziario riguardante i rifiuti solidi urbani, quantificando in 171.637 euro i costi per il servizio di raccolta e in 36.549 euro per il loro smaltimento. L’importo totale (208.186 euro), diviso per i 3.000 abitanti di Falcone dava una spesa pro-capite di 94,15 euro.
100mila euro di costi non quantificati In vista della determinazione della tariffa RSU Antonio Fugazzotto, responsabile dell’area tecnica manutentiva e protezione civile del Comune, segnalava al consiglio comunale che andava prevista altresì la spesa dei servizi di spazzamento, manuale e meccanico, i cui costi ammontavano, secondo l’ATO, a 107.420 euro con un’ ulteriore incidenza di 35,11 euro a testa. “Alla luce di quanto è emerso dall’analisi espunto alla nota ATO ME2 - rileva il funzionario - l’incidenza della voce spazzamento strade e complementari, eccettuata la pulizia del mercato domenicale (8.683 euro) non trova riscontro nell’effettiva esecuzione dei servizi enucleati”. Quasi centomila euro di costi non giustificati. Inoltre, la ricchezza generata dalla raccolta differenziata di rifiuti organici, carta, plastica, lattine e vetro si tramuta in una spesa di 48.000 euro circa (nella nota di bilancio 2010, l’ATO ME2 quantificava un costo per Falcone di 24.109 euro per l’organico; 7.186 per la carta; 7.585 per plastica e lattine; 8.900 per il vetro). La tabella delle spese comunali per la gestione del business rifiuti nel 2013 eleva la voce “costi vari” a 342.491 euro, altri 45.000per le “agevolazioni previste dal regolamento”. In tutto 387.491 euro, di cui l’89,4% a carico delle utenze domestiche (346.274 euro per 1.842.094 Kg di rifiuti solidi urbani) e il restante 10,6% per le utenze non domestiche (41.216 euro per 218.906 kg di rifiuti). Per la raccolta e lo smaltimento dei 2.061.000 kg (presumibilmente) prodotti, ogni cittadino falconese dovrà versare un obolo di quasi 130 euro. Il sindaco Santi Cirella ha fatto sapere di aver “girato” l’interpellanza agli uffici preposti. Con ordinanza, ha intanto disposto la proroga del servizio di raccolta rifiuti fino al 15 gennaio 2015 alla “Caruter” di Brolo, “con una riduzione del 10% per un prezzo unitario di 540 euro al giorno”. “I rifiuti vengono pesati solo alla discarica”, spiega Cirella. “Secondo i dati in mio possesso, con l’ATO, nel 2012 si pagava 565.887 euro, oggi con la Tari del 2014, si paga circa 340.000 euro”: quasi 48.000 euro in meno di quanto riportato nel bilancio di previsione.
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“L’indifferenza con cui è stata accolta l’interpellanza da parte del primo cittadino è molto grave”, commenta il consigliere Franco Paratore. “Mi sarei aspettato un intervento tranquillizzante, col quale il sindaco Cirella si sarebbe impegnato a far luce sull’argomento. Invece, con una brevissima dichiarazione ai giornali, si giustificano solo dei costi attraverso cifre sconosciute ai consiglieri comunali, che probabilmente includono altri servizi accessori alla raccolta e allo smaltimento e che comunque non sono certificati da alcun documento. A Falcone si continua a raccogliere e smaltire i rifiuti a colpi di ordinanze indirizzate sempre alla stessa ditta, senza che ad alcuno nasca almeno il sospetto di probabili errori che intanto costeranno centinaia di migliaia di euro ai cittadini”. “Si affida sempre alla stessa ditta” Su Falcone pesano pure due contenziosi avviati dalle aziende a cui erano affidati sino a qualche mese fa la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti. Il primo giudizio innanzi al Tribunale di Perugia è stato promosso il 12 settembre 2013 dalla Gesenu Spa che è contestualmente titolare del 10% di Tirreno Ambiente, la società a capitale misto e Cda dimissionario che gestisce la megadiscarica di Mazzarrà Sant’Andrea, a pochi chilometri di distanza da Falcone. La discarica è una vera e propria bomba ecologica ed è al centro di numerose inchieste giudiziarie anche per accertare possibili infiltrazioni criminali e mafiose nei lavori di realizzazione. Un secondo contenzioso è stato avviato il 25 ottobre 2013 innanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto dalla Dusty Spa di Catania, società a cui nell’ottobre 2011 l’ATO ME2 ha affidato il servizio di raccolta dei rifiuti in 38 comuni della provincia di Messina. Per resistere in giudizio, con due diverse determinazioni a firma del responsabile area amministrativa e socioculturale Andrea Catalfamo, il Comune ha impegnato la somma complessiva di 12.562 euro a favore dell’avvocato Mario Foti, studio professionale a Terme Vigliatore, odierno sindaco di Furnari, comune limitrofo a Falcone e alla megadiscarica di Mazzarrà Sant’Andrea.
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Mauro Biani
chi semina
racconta sussidiario di resistenza sociale Contributi di Antonella Marrone, Carlo Gubitosa, Cecilia Strada, Cinzia Bibolotti, Ellekappa, Franco A. Calotti, Gianpiero Caldarella, Makkox, MaoValpiana, Massimo Bucchi, Nicola Cirillo, Pino Scaccia, Riccardo Orioles, Stefano Disegni, Vincino Gallo Formato 17x24, 240 pagine, colori ISBN 9788897194057 15 euro
I
l meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, autore di satira sociale a tutto tondo che unisce la vocazione artistica all’impegno professionale come educatore in un centro specializzato per la disabilità e la non disabilità mentale. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti quando serve, per toccare temi universali come la
nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie. L’AUTORE Mauro Biani (Roma, 6 marzo 1967) ha pubblicato vignette in rete per anni per poi fare il salto verso il professionismo su quotidiani e settimanali nazionali, riviste del terzo settore e organi di informazione indipendente. Ha fondato la I Sicilianigiovani– – pag. 49 5
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rivista di giornalismo a fumetti “Mamma!” che ha chiamato a raccolta un gruppo nutrito di giornalisti, vignettisti e fumettari in cerca di nuovi spazi espressivi. Collabora con il gruppo internazionale “Cartooning For Peace” sotto l’alto patrocinio dell’Onu. Nel 2009 ha pubblicato il volume “Come una specie di sorriso”, una antologia di illustrazioni ispirate alle canzoni di Fabrizio De Andrè.
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Testimonianze
L'immagine del movimento Conversazione con Tano D'Amico A guardarlo potrebbe sembrare un calzolaio, oppure un filosofo greco. Il mestiere e il pensiero. E infatti, è un fotografo di Alessandro Romeo e Stefania Di Filippo
Tano è un signore magro dai cappelli bianchi lunghi, occhialoni tondi portati bassi sul naso, e un sorriso allegro e saggio. Potrebbe essere un calzolaio così come uno studioso della scuola di Atene, e probabilmente è vicino ad entrambe queste figure: fa il fotografo. E’ stato il relatore di un seminario di fotografia sociale organizzato dai Siciliani giovani. Per un giorno ci ha rapiti coi suoi racconti e le sue foto, dai movimenti degli anni ‘70 fino ad arrivare alla Genova del G8, ha vissuto e documentato una parte importante della nostra storia, ha raccontato le vite delle persone comuni, dei deboli cui dar voce, con un'attenzione speciale alle donne. Soprattutto Tano è un poeta, che scrive in maniera semplice, ma chiara e forte, il suo essere partecipe alle emozioni che osserva, e lo fa usando una macchina fotografica. Prima di lasciarci, aspettando il treno per Roma, abbiamo parlato ancora, davanti una granita al limone, che a lui piace tanto, e trova solo in Sicilia, la sua terra di nascita.
Non lasciare indifferente nessuno Parliamo della fotografia sociale e di militanza.
Le definizioni non interessano. Le immagini si dividono in due, le belle immagini e le brutte immagini, perché indifferentemente dal senso letterale, un’immagine si può fare amare e ricordare, oppure può essere completamente superflua. Una buona immagine non deve lasciare indifferente nessuno, e non lascia indifferente nessuno. Si possono anche odiare, dicendo però che sono delle belle immagini. Chi non è capace di indignarsi, chi si conforma alle consuetudini, è cieco nei confronti del mondo?
Questo è un periodo in cui si vedono delle brutte immagini, immagini acritiche, gran parte della bellezza nelle immagini secondo me, sta nella critica. Un’immagine che si accontenta del mondo com’è, è superflua, è inutile. Se uno ha un’idea diversa del mondo, ha delle istanze diverse da quelle che sono vincenti nel mondo, nell’immagine si deve vedere, e si vede. Si racconta come la lotta per la casa ha significato l’inizio della tua carriera fotografica, e oggi sei tornato a fotografarla.
Io mi interesso a delle storie che mi coinvolgano. La lotta per la casa è coinvolgente perché di fatto chi lotta per la casa vuole un mondo diverso, almeno una città diversa, non si accontenta delle strutture gerarchiche che esistono, perché tocca con la sua vita, con la salute dei propri figli, che sono ingiuste, che sono fatte per macinare gli uomini, molto più che per farli vivere. Quindi la lotta per la casa è avvincente perché oggi è il primo gradino di una rivolta contro lo stato di cose esistente.
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E anche ieri, ieri nel senso di quarantacinque anni fa, lo era ed ha vinto. Ha vinto nei cuori delle persone, ha spostato una specie di centro di gravità nella coscienza di un popolo. Se la lotta non riesce a spostare quel centro di gravità culturale, è superflua, perché, anche se per caso vincesse, lascerebbe esattamente tutto com’è. Se, al contrario, riesce a spostarlo, per primo nelle coscienze delle persone che la conducono, quella lotta allora vincerà, perché anche se sarà sconfitta, le persone saranno cambiate, le persone saranno più coscienti. Io penso di aver avuto una vita fortunata, che mi ha fatto toccare con mano che persone, ambienti, e situazioni possono cambiare e non dipende dalla forza fisica, né dalla potenza del denaro, ma dipende dalla coscienza. Non è vero che vince sempre il più forte Se non hai quel tipo di coscienza non puoi raccontare quelle storie, perché non le vivi sulla tua pelle, quindi non sei capace di riconoscerle.
Io ho avuto una fortuna più grande, nel senso che le persone con cui sono venuto in contatto in quella lotta, volevano delle immagini diverse. Allora questo incontro ha fatto in modo che la lotta per la casa fosse raccontata in un modo che dura tuttora. Questa cosa qui mi piace molto, che non è vero che nell’immagine, quindi nella memoria, vinca il più forte, non è vero che vince il più ricco. Mi chiedo ogni tanto che fine hanno fatto le immagini che ruggivano sul Corriere della Sera, su Epoca, sulle grandi riviste e sui grandi giornali… sono state completamente dimenticate, non c’è nessuno che le riproponga.
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Perché? Perché ne hanno vergogna, perché sono immagini vergognose, in cui si vedono gli umili, gli ultimi, per usare queste categorie, rappresentati come brutti, sporchi e cattivi. L’immagine cambiò, perché forse per la prima volta i movimenti cercarono e produssero le loro immagini. Il rapporto tra movimenti e immagini è molto delicato, perché il movimento vive se ha le sue immagini, muore se non le ha. Le primavere arabe sono finite anche perché non avevano prodotto un modo diverso di rappresentarsi e di rappresentare il mondo. Il movimento per la pace da noi è morto perché non ha avuto delle immagini capaci di perpetuarlo. Come il movimento di Genova, che si è impiccato con le sue stesse immagini, perché con un atto di barbarie, di brutalità, ha voluto dimenticare che l’immagine non è la rappresentazione passiva di quello che accade, e non è niente se non è capace di
mostrare il contesto, le istante, le motivazioni di quelli che cercano quelle immagini. Se le immagini non contengono le motivazioni, si limitano a rappresentare la realtà, gli avvenimenti, così come accadono, senza chiedersi nemmeno perché, sono delle immagini che non fanno altro che criminalizzare quelli che vogliono infrangere le regole che vigono in quel periodo, che vogliono infrangere uno stato di cose soffocante. Criminalizzano chi vuole fare irrompere nelle vite e nelle storie di ognuno di noi degli ideali nuovi. L'immagine che si chiede perché Differentemente dagli anni 70, oggi i movimenti si auto rappresentano ma si rappresentano male. Perché farsi delle brutte foto?
Nelle aule di tribunale questo appare. I movimenti hanno perso la loro cultura.
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I movimenti hanno prodotto [negli anni 70, ndr] dei grandi avvocati, che capivano i movimenti, che hanno fatto delle splendide difese, che andavano al di la del singolo episodio, che erano capaci di far comparire le motivazioni più ampie, il contesto più ampio. L'immagine che racconta tutto Così anche le immagini. Molte mie immagini sono servite a difesa in tribunale proprio perché facevano balenare la qualità umana delle persone. Erano capaci di fare vedere che la signora Camilla che si opponeva alla forza pubblica, che rigettava i candelotti che la forza pubblica gettava su di lei e le sue amiche, aveva dormito per settimane con i suoi bambini in macchina. Nell’immagine si vedeva, si vedeva dai volti delle persone, si vedeva dalle linee dei corpi, che la signora Camilla non era abituata a quel genere di lotta, eppure la affrontava per amore dei propri figli.
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“Nelle immagini del fotografo già compaiono delle domande”
Bisogna dire che i movimenti di oggi sono incapaci di difendersi in tribunale, per esempio solo nella difesa in cassazione dei movimenti di Genova, gli avvocati sono arrivati a concepire che i loro assistiti venivano condannati per brutte immagini, molto più che per quello che potevano avere o non avere fatto. Cito a braccio qualche brano dell’ultima arringa, del difensore, che aveva studiato, ma troppo tardi, e disse “voi condannate delle persone per delle immagini di cui voi scrivete la didascalia, voi condannate delle persone per singoli istanti legati assieme dalla vostra didascalia, dalle vostre parole”. Ecco, si era reso conto troppo tardi, l’avvocato, che a lui mancavano delle immagini capaci di avere la nostra didascalia, che non può essere scritta con le parole, ma si deve vedere nelle immagini. I movimenti e gli avvocati non avevano studiato, non avevano studiato la storia, perché certe immagini, i vinti come noi, i miserabili come noi, se le sono sempre cercate, e se le sono sempre fatte. I movimenti stanno morendo perché non hanno questa istanza culturale, una istanza di diversità, una istanza che non si accontenta della cultura che già esiste, che è di altri, ed è una legge della storia che un gruppo umano o si fa la propria cultura, quindi le proprie immagini, o viene inglobato e calpestato da altri gruppi umani più provveduti.
Stare insieme senza gerarchie
A questo punto mi chiedo un fotografo quanto deve capirne di politica, e quanto
Infatti Genova ha segnato l’inizio della fine dei movimenti.
Quello che è capitato a Genova è che le forze armate di un popolo si sono scagliate su quello stesso popolo, e per un giorno solo è capitato quello che fu nella Spagna di Franco, grazie al cielo per un giorno solo, due, tre… Perché si sono scagliati? Guardiamo un po’ chi ha guadagnato e chi ha perso a Genova. A Genova abbiamo perso noi, perché un movimento che si era sviluppato ed era cresciuto enormemente [da Seattle in poi, ndr] avrebbe potuto cancellare alcuni modi di organizzazione, avrebbe potuto cancellare partiti, sindacati, perché avevamo un modo di stare insieme che - come qualcuno ha scritto - dalle monache ai punkabbestia, faceva a meno di organizzazioni gerarchiche basate sull’obbedienza. Allora questo movimento enorme, se avesse preso piede, avrebbe davvero cambiato il paese, oserei dire il mondo. Allora è successo che questo popolo, con la violenza di qualche giorno, col sangue, con la morte, è stato riportato nell’alveo. Chi ha guadagnato? I partiti e i sindacati. Se noi guardiamo alla storia dopo, vediamo delle ricompense, vediamo dei guadagni tangibili, presidenze delle camere. E che senza Genova non ci sarebbero state. E il dibattito su violenza e non violenza fu grottesco, come chiedere a una donna che ha ricevuto violenza e oltraggio, di dissociarsi dall’oltraggio. I violentati a Genova siamo stati noi, e ci è stato chiesto di dissociarci, di condannare la violenza: grottesco. Ma chi ce lo ha chiesto? Persone che hanno avuto delle ricompense tangibili.
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la fotografia può cambiare la politica.
Io penso che un fotografo debba cercare di capire, forse non capirà, ma nelle sue immagini già appariranno delle domande. Sperando che chi guarderà quelle immagini cercherà anche lui di capire, con la sua testa. E questo è importante per un fotografo e per chi guarda le immagini: il tentativo continuo di guardare con i propri occhi, pensare con la propria testa, e di sentire col proprio cuore. L'uomo come dev'essere: simile a Dio Prima gli operai erano rappresentati come brutti e cattivi, tu invece hai rappresentato la bellezza che c’è in tutta l’umanità.
C’è una casa editrice del nostro Paese che in una pubblicazione, ha mostrato come al cambiare della storia cambiassero le immagini. C’era il capitolo della prima guerra mondiale e gli uomini del periodo, per esempio gli operai, venivano visti come un’appendice dei cannoni, dei proiettili dei cannoni che costruivano. E c’era poi un altro capitolo, come cambiò l’immagine coi movimenti. Allora sembra incredibile che noi non ci rendiamo nemmeno conto del ruolo che abbiamo avuto nella storia, che è stato anche quello di far cambiare l’immagine dell’uomo, il modo di vedere la persona. La persona con i movimenti ha acquistato valore al di la del suo ruolo, la persona è stata molto più importante del ruolo che era stata chiamata a coprire. Per usare le parole delle antiche scritture, finalmente proprio col nostro lavoro, sui giornali è apparsa una immagine dell’uomo così come deve essere, simile a Dio.
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Eppure oggi c’è una spettacolarizzazione del dolore. La fotografia si sta sbagliando?
Nella storia esistono delle splendide immagini di dolore, basta pensare alle pietà del rinascimento, del medioevo, quelle delle nostre chiese, dei nostri musei, come si fa a dire che spettacolarizzavano il dolore? Quelle immagini volevano vincere il dolore, volevano vincere la morte. Io sono per questo tipo di immagine. L'amicizia con “I Siciliani” Parlaci della tua amicizia con I Siciliani.
I Siciliani sono anch’io, è una complicità di nascita. La mia amicizia con I Siciliani credo durerà per sempre, perché siamo legati da un intreccio di vite. Siamo uniti da episodi tragici, vissuti, abbiamo pianto insieme e abbiamo cercato anche di vivere insieme.
E abbiamo visto quanto sia difficile portare avanti la ricerca di indipendenza, di una cultura diversa, che potesse opporsi non solo alla mafia dei quartieri, ma soprattutto alla mafia che nel nostro paese ha vinto, quella che non chiede più alle persone solo il proprio lavoro, ma chiede loro una adesione completa. Qualcuno un po’ più anziano di noi ha portato avanti questo tentativo, e l’ha pagato molto molto caro. Siamo legati anche dall’affetto che tutti noi abbiamo portato a quel tipo di persona.
L'immagine forte delle donne Spesso rappresenti le donne, e lo fai con un’immagine molto positiva, forte, padrone del loro destino e desiderose di cambiare il mondo.
Mi sono trovato una volta in un piccolo paese che aveva una sola bottega che vendeva di tutto, dalle aspirine alle batterie, e la sera era l’unico ritrovo.
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E anche io andai in questa piccolissima bottega. Ricordo gli uomini, vennero a parlare con me che non ero del paese, furono gentili, e la prima domanda che mi fecero fu: ‘come sta il ginocchio di Gullit?’ Gullit era un giocatore di quegli anni. Non mi chiesero del mio paese, della mia famiglia, nulla. Le donne, invece, mi chiesero se qualcuno quella sera in qualche altro paese mi stava aspettando, come stava la mia famiglia, se avevo dei figli, se avevo una moglie. Ecco, erano delle domande in cui si paragonavano le vite, mentre in quelle degli uomini questo non c’era. Se guardiamo alla storia delle immagini, anche agli episodi difficili, brutti, della nostra storia, vediamo che gli uomini sono i primi a perdere la propria cultura, i primi a smarrirsi, e come invece le donne e i bambini si accorgono per primi che la cultura va mantenuta.
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“Un maestro è chi ti dà il coraggio della tua diversità”
Noi uomini stiamo perdendo il contatto con la storia e con gli scopi della vita. Mi capitò, sempre per lavoro, di andare in un paese dell’Africa in cui si erano rotti i legami familiari. Gli uomini giravano insieme in bande, quando servivano delle donne le rapivano, quando aspettavano dei figli le abbandonavano, e loro dormivano tra uomini con le loro armi. Le famiglie si erano rotte, i vecchi morivano. E’ una cosa che non avevo mai visto. Anche i popoli più crudeli e le bande più feroci, hanno sempre badato ai propri vecchi e ai propri bambini. E anche gli uomini più tremendi hanno sempre badato alle madri dei loro bambini, alle loro mogli, hanno sempre avuto degli affetti, dei legami. Invece, ad esempio, nella Somalia di una ventina di anni fa tutto questo si era perduto. Ho rivisto quegli stessi segni di mostruosità collettiva in Bosnia.
Le vittime e i carnefici Ricollegandosi a quello che hai detto, che una volta gli uomini difendevano le proprie donne, oggi un telegiornale su due ci racconta la storia di una donna assassinata. Eppure le fotografie spesso lo raccontano proprio con immagini di donne che hanno subito una violenza.
Anche qui bisogna avere come stella polare le belle immagini e le brutte immagini. Andiamo ad indagare il passato, nelle chiese, nei nostri musei, vediamo che questo tema è sempre stato affrontato, e come veniva chiamata l’attenzione e la partecipazione verso la donna che subiva oltraggio. Ma non soltanto nelle chiese, se noi vediamo cos’è rimasto di antichi popoli, vediamo che gli uomini che lavoravano con le immagini si sentivano molto più figli delle donne che subivano oltraggio, magari in guerra, che di chi le aveva oltraggiate. Anche quando Cesare si compiaceva della virilità dei suoi uomini che stupravano le donne di Alesia, una città della Gallia, gli uomini che celebravano le gesta dell’esercito, quindi chi lavorava il marmo, chi lavorava la pietra, le rappresentavano in modo da chiamare l’attenzione e l’amore degli spettatori sulle vittime più che sui carnefici.
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La fotografia può seguire il sensazionalismo, senza indagare il prima e il dopo. Qual è l’importanza della lentezza nella fotografia?
Come ho detto penso che un’immagine debba contenere in sé il prima e il dopo. Anche se il dopo è solo sperato o atteso, anche se il fotografo sbaglierà deve indagare, aspettare, sperare, auspicare che il futuro sia diverso dal male che vede nel presente. “Bisogna studiare tutta la vita” Il fotografo può fare a meno dello strumento che una buona cultura può dargli? Una volta si faceva bottega, si andava dai maestri…
La cultura non basta mai, lo studio non basta mai, e bisogna che si studi per tutta la vita. Io ho passato i 70 anni, e se cerco un senso alla mia vita, al perché ho vissuto in un certo modo, debbo dire per educarmi, e questa educazione continua tutt’ora. Certe risposte non si possono trovare nelle università, Io i miei maestri me li sono cercati, ognuno deve cercare i propri, altri che hanno intrapreso quel percorso prima di lui. Dovere del maestro è capire le esigenze dei propri allievi, capirne le diversità, e spronarli ad esplicitare quella critica. Un maestro è chi ti dà il coraggio della tua diversità.
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n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.
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La mia terra la difendo
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l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.
erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.
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ISBN 9788897194002
ISBN 9788897194026
ISBN 9788897194019
ISBN 9788897194033
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a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.
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Fotografa
TANO D'AMICO Immagini dal basso Tano D’Amico, il fotografo giornalista che più ha raccontato la storia dei movimenti dagli anni ’60 in poi e le storie sociali che caratterizzano la storia della “società reale” italiana. Tano, con questi scatti inediti, ci narra le lotte per “il diritto alla casa” nella città di Roma, un lavoro che ha svolto dall’ottobre 2013 fno ad oggi. Il popolo delle borgate romane che vive lungo le strade consolari si organizza per protestare contro le istituzioni illegali e per ottenere il sacrosanto diritto di avere una casa. Questo popolo si è contaminato con altre razze, con altre religioni e nei tanti colori dell’arcobaleno. Organizza presidi, pranzi collettivi, assemblee dove si mescolano le tante lingue. Le fotografe che vengono fuori ci regalano delle “immagini dal basso” che raccontano la disobbedienza civile, l’opposizione alla “forza armata dello Stato” per il diritto alla casa, per il diritto alla dignità. Così vediamo le tende che “occupano” il centro di Roma, le mani che fermano i blindati, la resistenza ai reparti antisommossa della polizia. Lo stile di Tano è questo: raccontare, così com’è accaduto in passato, ciò che accade fra la gente che pratica una politica dal basso.
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Tano D'Amico: immagini dal basso di giro�
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Tano D'Amico: immagini dal basso di giro”
Tano D’Amico ci ha fatto una grande regalo, il 27 settembre ha chiuso, con un seminario organizzato dalle redazioni de I Siciliani giovani e de I Cordai al GAPA, il corso di fotografa giornalistica sociale, trasmettendoci l’idea di una fotografa etica, una fotografa “politica” e soprattutto insegnandoci come non si possono realizzare immagini senza studiare i fenomeni sociali. Vogliamo raccontare con dei frammenti d’immagini anche quel giorno, attraverso le foto di Mara Trovato. Grazie Tano
Giovanni Caruso
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Tano D'Amico: immagini dal basso di giro�
Tano D'Amico al seminario per il corso di fotografia giornalistica sociale, foto Mara Trovato
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Pianeta
La moneta senza banche
Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale
Gli "oggetti intelligenti" made in Bitcoin
ARTHUR CLARKE
Ibm userà la tecnologia della blockchain Bitcoin per il suo futuristico "Internet of Things" di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com "Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia" (Clarke, 1958)
Combinando la tecnologia della blockchain Bitcoin con BitTorrent e un protocollo di messaggistica chiamato Telehash si ottiene un'infrastruttura distribuita che alcuni ricercatori Ibm pensano sia ideale per il loro progetto "Internet of things". Il sistema proposto da Ibm si chiama Adept e utilizzerà tre diverse tecnologie per risolvere sia questioni tecniche che economiche per "l'internet delle cose". Verrà rilasciato con licenza open-source. In un lungo podcast su Gigaom, Paul Brody - vice presidente di Ibm e a capo del dipartimento per "mobile e Internet of Things" nel nord america - dice che "il progetto blockchain a cui Ibm sta lavorando con Samsung porta le due compagnie a guardare in profondità su come questa tecnologia può funzionare nel mondo reale". Nell'intervista di pochi giorni fa a CoinDesk rivela che l'obiettivo è di avere un prototipo hardware funzionante già l'anno prossimo.
Riconoscere tutti i dispositivi "Il mio smartwatch - spiega Brody- ha un "contratto di transazione" con la mia porta per sbloccarla. La transazione viene rilanciata nella blockchain così che tutti i dispositivi, che io possiedo, nella mia blockchain, mi riconoscono e permettono al mio orologio di aprire ogni porta". Quindi Ibm, una delle cinque principali aziende tecnologiche al mondo, e Samsung, la più grande compagnia tecnologica, stanno lavorando a un prodotto in tempo per il prossimo Consumer Electronic Show di gennaio. Brody aggiunge che è possibile che centinaia di miliardi di dispositivi possano un giorno essere collegati in una singola blockchain o una rete di blockchain, comunicanti fra loro mediante operazioni automatizzate. Lui immagina una ecosistema di entrambi i generi, sia centralizzati che decentralizzati (secondo le esigenze di sicurezza), in ultima analisi spingendo un sistema automatizzato intelligente ad alti livelli mai visti prima. Il cloud non ha più senso
Ma di che tratta quest'internet delle cose? E perchè la blockchain è più efficace delle altre soluzioni? Il primo motivo è di natura economica. Per Ibm, un "internet delle cose" come pletora di dispositivi che parlano attraverso il cloud non ha molto senso. Ci sono troppi costi fissi operando su piattaforma cloud, specialmente per dispositivi che durano un decennio o più nelle case delle persone. Costruire un sistema su cloud per supportare la LINK https://gigaom.com/2014/09/09/check-out-ibms-proposal-for-an-internet-oflavastoviglie, things-architecture-using-bitcoins-block-chain-tech/ quando è evidente http://fortune.com/2014/09/10/term-sheet-wed-sept-10/ http://two-bit-idiot.tumblr.com/post/97258629244/adept-ibm-samsung-bitcoin che non ci siano molti dispositivi http://www.coindesk.com/ibm-executive-block-chain-internet-of-things/ che hanno bisogno https://gigaom.com/2014/08/25/we-will-drown-insensors-before-we-ever-build-a-true-internet-of-things/ di comunicare con la lavastoviglie. http://www.smarttennissensor.sony.net/NA/ https://www.ibm.com/developerworks/mobile/iot/
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Paul Brody è scettico sul modello "vendere i dati delle persone" come sistema per sostere i ricavi di questi servizi per diversi anni, così sta cercando di costruire una piattaforma che mantiene l'intelligenza a livello del dispositivo (eforse un hub su questa premessa) e che possa operare senza la costante attenzione e sopravvivenza del servizio da parte del produttore. Modelli non invasivi Il secondo motivo per utilizzare la tecnologia della blockchain Bitcoin, secondo Ibm, consiste in alcune idee su come "questa architettura potrebbe cambiare i modelli di business per l'internet delle cose". Brody è convinto che la vendita di dati non raggiungerà mai livelli significativi, soprattutto perchè i sensori saranno così a buon mercato. Se una società decide di volere i dati, non è terribilmente difficile mettere un sensore nel mercato e costruire un programma in modo che i consumatori vorranno usarlo per condividere i loro dati. (Tra gli esempi, un sensore da inserire nel manico di una racchetta da tennis che Sony sta sviluppando, al costo previsto di 200 dollari; oppure i servizi di salute e fitness di Google e Apple: Android Fit or HealthKit) Ma con questa architettura e l'uso della blockchain, è possibile creare nuovi di modelli di business per condividere in ogni situazione non solo dati. I dispositivi potrebbero arrivare a condividere potenza computazionale, o larghezza di banda, o ancora energia elettrica tramite le istruzioni impartite via blockchain.
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Storia
Peppa la cannoniera Prima antiborbonica, poi antiproletaria... di Elio Camilleri
Molti conoscono Giuseppa Bolognara, detta Peppa la cannoniera, per il coraggio dimostrato nelle giornate della liberazione di Catania dalle truppe borboniche, pochi, forse, sanno cosa accadde appena pochi giorni dopo dalle parti di Biancavilla ed Adrano e tutto ciò che le capitò di fare e di vivere nei mesi e negli anni della sua vita. Con i patrioti Non era bella, le fattezze erano piuttosto mascoline e aveva il viso butterato dal vaiolo; era così Giuseppa Bolognara, nata a Barcellona Pozzo di Gotto, ma catanese di adozione per avere legato la sua esistenza alla storia della città etnea. Garibaldi era arrivato in Sicilia da una ventina di giorni e la Sicilia era un unico, totale fermento: gli insorti volevano a cacciare i borbonici da Catania e non contava niente se ancora erano pochi e male organizzati perché era l’aria che si respirava che moltiplicava le forze e preparava la vittoria. Era questa l’aria che respirò Peppa quando a piazza Ogninella, il 31 maggio 1860, sparò una cannonata sulle truppe del generale Clary e quando riuscì ad impadronirsi di un cannone che i borbonici in fuga avevano lasciato sulla via.
Peppa lanciò sul cannone una fune, proprio come fanno i cow boy per catturare “al lazo” i cavalli, lo tirò a sé restando al riparo dal fuoco nemico, lo sistemò e lo puntò contro i soldati. Li attirò con uno strattagemma: sparse sul cannone della polvere e simulò un colpo fallito, a quel punto i nemici si lanciarono per riconquistare il “pezzo”, ma questa volta Peppa diede il giusto fuoco alle polveri causando gravi perdite. Contro i contadini Da Catania a Biancavilla ci sono pochi chilometri, eppure bastano per collocare Peppa in una nuova dimensione. In questa sede bisogna spiegare ciò che lei stessa in quei giorni non riuscì a cogliere e cioè che la presenza garibaldina in Sicilia poteva essere e non fu un’autentica lotta di liberazione; certo lo fu “politicamente” perché i Borbone furono cacciati, ma non lo fu né socialmente, né economicamente. Così i contadini rimasero senza le terre demaniali, mentre borghesi e aristocratici riuscirono addirittura a portare i garibaldini sulle loro posizioni e mantenere, quindi, i loro privilegi di classe dirigente. Peppa non capì nulla e si trovò, a Biancavilla, ad inseguire, catturare e portare davanti al plotone d’esecuzione quei patrioti che erano stati con lei a Catania appena pochi giorni prima a cacciare i borbonici dalla città. Furono catturati e fucilati, il 18 giugno, l’artigiano Furnari, detto Legno Torto e altri otto patrioti tra cui una donna, Vincenza Vicceri che si era particolarmente distinta nella lotta di classe contro i proprietari terrieri.
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Nella guardia nazionale La contraddizione si consumò in modo completo e definitivo quando Peppa entrò nella Guardia nazionale, quando si prestò alla dirigenza aristocratico-borghese contro poveri e morti di fame: a Catania, dalle parti del collegio Cutelli, riuscì a scovare sotto un tavolo in una bottega di sartoria un malavitoso, accusato sommariamente di omicidio. Lo immobilizzò e lo fece legare e lo consegnò al plotone di esecuzione per la fucilazione. Si guadagnò, così, la riconoscenza della guardia nazionale e del Governo che la ricompensò con un mensile di 19 ducati, poi trasformato in una “una tantum” di 216 ducati e fu anche decorata con la medaglia d’argento al valor militare. Come si sa la storia non è soltanto conoscenza dei fatti, ma anche memoria , giudizio e comparazione delle situazioni, dei problemi ed anche delle storie personali. E allora, solo per una riflessione, va detto che altre patriote e ribelli non ricevettero alcuna ricompensa. Peppa, comunque, non ebbe neppure la sorte di una vecchiaia serena: fino al 1876 restò a Catania, la si vedeva per le osterie vestita da uomo a bere e a fumare, poi tornò a Messina e cadde nella rete degli usurai a causa dei frequenti prestiti per sostenere le sempre più pesanti spese mediche. Fu ospite, accolta gratuitamente per spirito di carità, dalla proprietaria dell’albergo Dogali in via Bocca Barile, 2 e quando si aggravò la portarono in ospedale dove sarebbe morta il 20 settembre 1900.
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Storie
“Ciao, sono Kathy” “L'assistente virtuale di EasyJob, il nuovo modo di lavorare” di Jack Daniel
dajackdaniel.blogspot.it/
“Ciao, sono Kathy, la tua assistente virtuale che ti illustrerà il funzionamento di EasyJob, la nuova procedura informatica che permetterà di svolgere il tuo lavoro in minor tempo e con minor fatica. Pronto per cominciare? (clicca sì per continuare) Come sai, il tuo lavoro sino ad oggi consisteva nel raccogliere dati, elaborarli, sintetizzarli in una relazione apposita. Lavoro piuttosto noioso, non è vero? (clicca sì per continuare) Non sarebbe meglio occupare il tuo tempo in attività più creative? Leggere libri, guardare film, ascoltare musica, curare il proprio corpo e il proprio benessere praticando sport e attività fisica? (clicca sì per continuare) Non pensi che anche la tua famiglia e i tuoi cari potrebbero trarre enorme giovamento se tu ti occupassi di attività più creative e gratificanti? Non pensi che la tua realizzazione migliorerebbe la qualità della vita di coloro che ti circondano? (clicca sì per continuare) Molto bene. Ho una splendida notizia per te. Da ora in poi non sarai più costretto a riempire tabelle, a scaricare dati e a dedicare ore e ore a lavori noiosi e ripetitivi. Sei contento? (clicca MOLTO! per continuare)
Clicca, clicca! Da oggi, infatti, grazie a EasyJob, tutti questi lavori saranno svolti in automatico dai Sistemi. Le tabelle che impiegavi ore a riempire sono state linkate nelle settimane scorse alle banche dati sorgente. PointData selezionerà i dati rilevanti, escludendo gli errori e le eccezioni, e con essi popolerà le tabelle. Successivamente IntelligentAnalyzer provvederà a individuare i cluster più significativi e SmartPresentation li utilizzerà per redigere il rapporto finale. Non è meraviglioso? (clicca sì per continuare) (sei pregato di cliccare sì per continuare) (la nuova pagina verrà caricata tra 30 secondi) L’Azienda ha deciso, per rispetto della tua Figura Professionale, di passare in produzione EasyJob solo fra due settimane, a partire dal primo del prossimo mese, per darti la possibilità di maturare un’ulteriore mensilità piena. E’ stato un gesto di grande considerazione, non trovi? (la nuova pagina verrà caricata tra 30 secondi)
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In base alle recenti riforme in campo lavorativo, avrai diritto a molti mesi di retribuzione garantita, oltre al Trattamento di Fine Rapporto sin qui maturato, che potrai utilizzare per acquistare molti libri e per visitare moltissimi musei. Non è eccitante? (la nuova pagina verrà caricata tra 30 secondi La procedura ByeBye Inoltre, nei prossimi 19 anni e sette mesi che, secondo le attuali normative, ti mancano per conseguire l’età pensionabile, avrai modo di raccogliere le più stimolanti sfide che ti verranno dal mondo lavorativo. Potrai cambiare settore di attività, lavoro o interessi senza essere costretto alla routine del posto fisso e assicurato. Ti regaliamo, altrove, una vita stimolante e ricca di sorprese. Non è necessario ringraziarci: dare il massimo ai nostri collaboratori è una mission aziendale recentemente ribadita dal Ceo. (Tra 90 secondi sarai reindirizzato alla procedura ByeBye che ti darà preziose informazioni su come gestire al meglio gli adempimenti burocratici indispensabili per la definizione di Fine Rapporto. Ciao, spero di esserti stata utile.)
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Politica/ Il Jobs Act
“Ve lo do io il lavoro” Renzi “rottama” e i lavoratori scendono in piazza. Non hanno vogli a di essere rottamati pure loro. “La crisi la deve pagare chi ci ha guadagnato”. Giusto. Ma dal dire al fare... di Riccardo De Gennaro www.ilreportage.eu Il cosiddetto “Jobs Act” si propone in primo luogo di “generare nuova occupazione, in particolare giovanile”. Il testo, tuttavia, oltre a essere assai vago, deve ancora passare al vaglio della Camera e successivamente si dovranno attendere i decreti attuativi previsti per la prima metà del prossimo anno. Allo stato delle cose il provvedimento non solo non appare efficace, ma consiste in uno scambio che potrebbe rivelarsi fortemente ineguale. Da un lato, più libertà di licenziare, mantenendo il reintegro previsto dall’articolo diciotto soltanto nel caso di espulsioni discriminatorie;
dall’altro uno “sfoltimento” delle tipologie contrattuali, che dal pacchetto Treu alla riforma Fornero, passando per la legge Biagi, sono aumentate a dismisura, come ha riconosciuto anche il ministro del Lavoro Poletti, il quale ha sottolineato che oggi si assume con contratto a tempo indeterminato soltanto nel 17 per cento dei casi. L’idea del governo Renzi è di semplificare la foresta contrattuale, eliminando – pare – i contratti a progetto e introducendo il “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio” con “l’obiettivo di farne la normale modalità”. Quanto ai contratti a termine, verrebbe stabilito un tetto di 36 mesi complessivi, con un massimo di otto proroghe e una quota non superiore al 20 per cento dell’organico. Totale facoltà di licenziare Il problema è che il contratto a tempo indeterminato di cui sopra risulta minato in partenza: dalla pressoché totale facoltà di licenziare in qualunque momento (il massimo della flessibilità) e dalla compresenza di altre forme contrattuali (il contratto unico è stato escluso), che seppur ridotte di numero continueranno ad essere – nonostante la promessa di sgravi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato – le più appetite dal datore di lavoro, come accaduto finora. Non solo: gli stessi datori di lavoro, avranno due armi in più: 1) la possibilità di spostare il dipendente da una mansione a un’altra,quindi di demansionarlo;
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2) il ricorso alle nuove tecnologie per la sorveglianza e il telelavoro. Il lavoratore non avrà quindi maggiori tutele, ma meno tutele. Il lavoratore avrà meno tutele Il governo punta anche a favorire le imprese che stipuleranno contratti di solidarietà attraverso la riduzione dei contributi, ma i contratti di solidarietà si fanno con i lavoratori che già ci sono, non certo con l’assunzione di nuovi. Come sarà possibile, dunque, raggiungere l’obiettivo di generare nuova occupazione? Nel frattempo, il provvedimento sul mercato del lavoro va avanti pressoché in bianco e a colpi di fiducia poiché, dice ancora Poletti, “abbiamo un urgente bisogno di concludere il percorso”? Il primo sciopero contro Renzi Le opinioni contrarie non sono gradite al “mandante” (leggasi Merkel ed Fmi, che hanno prontamente espresso il loro appoggio alla riforma). Neppure quelle interne della minoranza del Pd, che ad ogni modo abbaia molto ma non morde mai. La sola opposizione è quella della Cgil, che – dopo la manifestazione del 25 ottobre a Roma – ha preannunciato uno sciopero generale. Il primo contro Renzi. E molto probabilmente non l’ultimo.
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Palermo/ Arriva “booq”
Biblioteca Officina occupata di quartiere Una pratica di disobbedienza civile per combattere l'abbandono del patrimonio pubblico e la disgregazione sociale di Giovanni Abbagnato Nel centro storico di Palermo, a due passi dalla storica Piazza Marina, al vicolo della neve, un gruppo di persone, di diversa età e provenienza, ha deciso di occupare uno dei tanti locali di proprietà pubblica della zona, da tempo consegnati al degrado. Questa iniziativa disobbediente nasce per rispondere all'esigenza, sempre più avvertita, di elaborazione culturale e di aggregazione sociale autonoma in una città sempre più abbandonata all'incuria, alla desolazione e alla speculazione. Per rendere agibile il locale occupato tanta gente si è impegnata in un'opera di autorecupero, completamente autofinanziata, che ha consentito di aprire una biblioteca di quartiere di oltre 7000 volumi, raccolti in anni di impegno in strada, e dell'avvio di una officina del riuso per ripensare il rapporto con gli oggetti, riparandoli e conservandoli per condividerli.
Uno spazio di coesione sociale Particolarmente lucida la presentazione di booq da parte di coloro che lo hanno voluto: “Booq non vuole offrire un servizio alla città: vuole essere spazio di condivisione a partire dal quale costruire una città diversa. booq vuole essere uno spazio di resistenza: vuole contribuire a creare connessioni tra persone, libri, e idee, restituendo a questa città un luogo altrimenti inutilizzato. Vuole essere un luogo per i libri, uno spazio di socialità, una sala di lettura, uno spazio di coesione sociale, un luogo di studio individuale e collettivo, uno spazio in cui scambiare e far rivivere oggetti, idee, desideri”. Ma booq è anche l'ultimo prodotto di una storia antica nella città di Palermo che ha sollevato nel tempo, con le sensibilità socio-politiche delle varie fasi attraversate dai movimenti cittadini, tutte le storie della marginalità culturale e sociale. Casa, lavoro, educazione I bisogni fondamentali della gente come casa, lavoro, educazione, integrazione sociale restano insuperate emergenze sociali la cui rivendicazione può anche attenuarsi sotto la fatica dei tempi, ma per poi riaffiorare periodicamente come un fiume carsico mai del tutto domo e che non si rassegna a non scorrere per essere del tutto stagnante.
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Booq, nell'idea dei suoi promotori, è una risposta alla rassegnazione di chi pensa che nulla può lasciare traccia in una città che definiscono “a misura di nessuno”. Per parlare di tempi più recenti, booq segue l'esperienza dei movimenti che ha operato vertenze ed elaborazione su nuove forme di uso di beni collettivi e che ha supplito all'assenza di politiche di accoglienza e di lotta all'emarginazione. Booq ha anche nella sua eredità più recente la lotta per la riapertura dei Cantieri culturali della Zisa e, più in generale, della resistenza alla desertificazione socioculturale imposta nel decennio dell'ex Sindaco Cammarata. Ma booq vuole anche essere un luogo libero da qualsiasi condizionamento che vigila e denunzia anche l’inadeguatezza dell'attuale Governo della città che pensa di potere vivere della rendita, al momento immeritata, delle tante speranze riposte da larghe fasce di cittadini su una nuova stagione di primavera politica ed amministrativa. Booq vuole essere tutto questo e, forse, anche di più perché, probabilmente, Palermo è una città mai del tutto pervasa e paralizzata dalla rassegnazione.
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Italiani
Mammaliturchi
Immigrati: propaganda e realtà Lo sbarco infinito, gli scafisti, i pregiudizi, il lavoro che non c’è, gli incassi per chi li accoglie e manodopera a 15 euro al giorno di Salvo Vitale Vengono dal mare stipati su barconi che a stento stanno a galla. Pagano da mille a 3000 euro pur di trovare un posto sulle carrette del mare, procurate da scafisti senza scrupoli. Il racket del traffico di esseri umani non ha bisogno di essere siciliano, per essere definito mafioso. Secondo il solito balletto delle cifre cui ci hanno abituato in Italia, c’è chi dice che quest’anno ne siano arrivati 80.000, chi 120.000, chi spara cifre più grosse, chi gioca brutto sulla loro pelle, presagendo invasioni, la fine della nostra identità di europei e occidentali, che diventeremmo schiavi dei nuovi barbari, fregiati, per di più, dalle bandiere dell’Islam, da quelle di Budda, da quelle di Confucio. Anche sui morti a mare nell’immensa tomba del Mediterraneo, le cifre sono incerte e ci si orienta sui 4.000. C’è chi paventa furti, diffusioni di malattie infettive, tipo Ebola, Aids, Tbc e altri misteriosi virus, chi rifiuta di far frequentare la scuola al proprio figlio, se è seduto accanto a un negretto, portatore, secondo la fervida immaginazione di leghisti nordici e razzisti
nostrani, di pidocchi, pulci, cimici, piattole, acari, zecche e quant’altro di quel che, sino agli anni 80 circolava nelle nostre case, fino a quando non è stato debellato col micidiale DDT e altri insetticidi, oltre che con un diverso rapporto con l’igiene. Si dice che il 40 per cento di essi siano siriani, o comunque, provenienti da zone di guerra: in tal caso, per condizione umanitaria, l’ospitalità è d’obbligo. E l’altro 60%? Si dice che si avventurino in mare perché sanno di poter contare sull’aiuto della marina italiana, mentre le navi di altra nazionalità li lascerebbero affondare senza alcuna pietà. La violenza della propaganda razzista Il governo italiano, per alleggerire la violenza della propaganda razzista, tenta di schermirsi dicendo che la colpa è dell’Europa che non interviene e non si vuole fare carico del problema, ma che egli continua a intervenire tramite l’operazione Mare Nostrum, che tuttavia non è stata rifinanziata per l’anno prossimo. Gli altri governi europei rispondono di avere raggiunto il punto di saturazione di extracomunitari, che, con cifre alla mano, supererebbe, almeno di dieci volte quello dei presenti in Italia e ribattono affermando che all’Italia sono già state date ingenti risorse per far fronte al problema. Di fatto gran parte di coloro che arrivano dal mare sono stipati in centri d’accoglienza, molto simili ai lager nazisti, praticamente delle prigioni in cui soggiornano sino a quando non sono distribuiti su strutture di ricezione presenti in tutto il territorio nazionale, ma particolarmente nel sud Italia, in attesa, prima della loro identificazione, poi del rilascio del permesso di soggiorno. Il soggiorno in queste strutture è pagato, a chi accoglie i profughi, 40 euro al giorno, 80 euro per i minori, versati in parte dalla Prefettura, in parte dai comuni ospitanti, mentre agli “internati” viene dato un “obolo” di 2 euro e venti centesimi.
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Chi prende i soldi “per gli immigrati” Spesso le comunità d’accoglienza sono rifornite di vestiario, scarpe e altri generi di sopravvivenza. I tempi per il rilascio del sospirato permesso sono lunghi perché, da quel che si sa, le prefetture riescono ad evadere quattro-cinque casi al giorno: è inevitabile chiedere quanti sono e che cosa fanno questi impiegati nel resto della giornata. Non c’è dubbio comunque che la consistente paga invogli chi dispone di locali idonei o resi tali, a metterli a disposizione. Poco tempo fa ha suscitato indignazione, sdegno e scalpore la proposta di offrire 900 euro al mese ad ogni famiglia disponibile ad ospitare un profugo. Ma, superato lo stupore del primo minuto, c’è da considerare che, rispetto ai 1200 euro al mese che riceve il gestore della comunità per ogni ricoverato, si risparmierebbero 300 euro e i profughi godrebbero di condizioni di gran lunga più favorevoli, rispetto a quelle in cui sono tenuti e stipati. Da tutto ciò nascono malumori, mugugni, ribellioni, indignazioni, intolleranze e altre gravi conseguenze. La prima lamentela nasce dal malinteso che i 40 euro al giorno siano dati ai clandestini e non ai titolari delle strutture d’accoglienza. Quindi si tratta di denaro che resta nelle tasche di alcuni Italiani: i soliti arrabbiati dicono che è sottratto dalle tasche di altri italiani, cioè di quelli che pagano le tasse, ma in realtà buona parte proviene da fondi europei. E’ pensabile, anzi è certo, che qualsiasi disoccupato “italiano” che non ha una lira in tasca e cerca disperatamente un lavoro per sopravvivere, accetterebbe, non tanto di essere mantenuto, ma anche di lavorare per quella cifra. Non parliamo di coloro che, per cercare lavoro, vanno all’estero, anche se non su un barcone. Ma un italiano non viene da zone di guerra.
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“Se non state attenti i mass media vi faranno odiare le persone oppresse e amare quelle che opprimono” “Sono loro i colpevoli!” Addirittura si potrebbe ipotizzare che, se i 40 euro giornalieri, più 2,20 centesimi, fossero dati ai clandestini vaganti, questi potrebbero addirittura accantonarne una parte, perché, a conti fatti, nella nazione che li ospita, si può vivere anche con molto di meno. E avendo come sfamarsi e sopravvivere, alcuni momenti di delinquenza comune, verrebbero meno. Ma la riflessione è solo ipotizzabile, non realistica, dal momento che c’è in Italia, in tutta la stampa e nell’opinione comune che essa riesce a mobilitare, l’impostazione, non solo la tendenza, a ritenere responsabili di tutti gli atti di delinquenza, o della maggior parte di essi, gli extracomunitari, i nomadi-zingari e, comunque tutti quelli che hanno un’etnia diversa. E’ successo troppe volte che, quando i responsabili di delitti sono italiani, la notizia passa tra le secondarie, quando sono stranieri i titoli sono amplificati: è l’antico pregiudizio secondo cui gli stranieri sono sempre più colpevoli degli indigeni, sia perché gli indigeni si ritengono sempre migliori degli stranieri, sia perché, commettendo un delitto, si dimostrano ingrati rispetto al paese che li accoglie. “Ci tolgono lavoro!” E poi c’è l’ultima feroce e ipocrita accusa: gli stranieri tolgono lavoro ai locali, i quali sono costretti ad andare via. Il problema è serio: esistono stranieri che, come facevano gli Italiani emigrati in America ai primi del Novecento, fanno tutta una serie di lavori che ormai gli Italiani non fanno più: lavori umili, manuali, che richiedono sacrificio, accettazione passiva di regole spesso disumane, riduzione in una condizione di schiavitù degna d’altri tempi: badanti 24 ore, cameriere, serve, manovalanza varia per lavori agricoli e industriali molto pesanti, paga irrisoria rispetto alle quotazioni di lavoro della piazza, lavoro nero e nessuna norma di sicurezza.
Ma è anche vero che l’offerta di mano d’opera a costi irrisori rompe la piazza e il bracciante abituato a guadagnare cinquanta euro al giorno (più altri trenta euro di contributi, quando c’è la “messa in regola”, ) non può competere con chi si accontenta di trenta-quaranta euro. Il mercato sotterraneo Va calcolato anche che esiste un circuito che riprende quasi interamente questo denaro attraverso la quota trattenuta dal “caporale” che offre e organizza il lavoro, gli spostamenti, il cibo, il posto in cui dormire e, persino il vestiario. L’abbondanza di stranieri parcheggiati in strutture d’accoglienza, (a Partinico e dintorni se ne contano circa trecento), ha creato un ulteriore abbassamento dei costi del lavoro, al punto che si è creato una sorta di mercato sotterraneo di manodopera addirittura a 15 euro per una giornata di lavoro, purchè si assicuri il pasto. Addirittura, coloro che usufruiscono di questa manodopera a buon mercato sono diffidati, da chi si incarica di segnalarli, dall’aumentare la tariffa, per non rompere la piazza. Non sembra che siano diffuse dappertutto condizioni di caporalato forzato o racket del mercato del lavoro. Per quanto consta molti immigrati non si dispiacciono di questa condizione di sfruttamento: pare che accettino volentieri l’offerta di qualsiasi lavoro, pur di non restare immobili e inutili anche a se stessi. Ce n’è abbastanza per creare una sorta di muro con questa gente che vende tutto, fugge ed è disposta a rischiare la vita propria e della propria famiglia nell’illusione di un avvenire migliore. Ottenuto il permesso di soggiorno e spesso anche senza di questo, spariscono e vanno a cercare di sopravvivere nel resto d’Europa. Un discorso a parte meritano i cinesi, che arrivano senza problemi, con le tasche gonfie di soldi, aprono negozi, dispongono di rifornimenti di merce, ottengono le licenze, addirittura offrono lavoro, assumendo commesse.
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Troppo presto ancora per dire se, sotto a tutto questo, non ci sia un racket mafioso di controllo delle attività. L’Italia è arrivata molto tardi a fare i conti con la multietnicità, diversamente da altre nazioni europee, che una volta avevano imperi coloniali, e che hanno da tempo imparato a convivere con questa gente, ormai cittadina a pieno titolo della nazione che li ospita. Guerre fra poveri: chi le alimenta Tra gli Italiani c’è invece chi si augura che tutti i barconi carichi possano naufragare, chi chiede che gli sbarcati possano essere rimandati nei paesi d’origine, chi vorrebbe che questa gente imparasse ad usare le armi per difendere la propria casa e le proprie idee, cioè si rendesse protagonista del proprio futuro senza sperare di potere contentarsi delle briciole degli altri. Insomma, siamo in presenza di guerre tra i poveri, di indegne speculazioni politiche che tentano di scaricare su gente debole e indifesa le colpe e le responsabilità di anni di malgoverno e gli effetti della corruzione. “Se non state attenti i mass media vi faranno odiare le persone oppresse e amare quelle che opprimono”, disse Malcom X. Siamo ancora il settimo paese più ricco del mondo e, rispetto ai luoghi da dove proviene questa gente, le nostre condizioni di vivibilità sono di gran lunga migliori, ma va preso atto che ormai , anche da noi, c’è ben poco da spolpare, “non c’è più trippa per gatti”.
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Mafia nelle aree settentrionali
Rapporto Cross Chi, come e dove Un supporto scientifico per lo studio della criminalità organizzata di Samuele Motta e Carmela Racioppi www.stampoantimafioso.it Dal 29 settembre sul sito dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata dell’Università di Milano è disponibile il “Primo rapporto trimestrale sulle aree settentrionali”, un’importante relazione commissionata dalla Presidenza della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso. L’Osservatorio, composto da alcuni ricercatori guidati dal professor Nando dalla Chiesa, è stato istituito nel 2013 con l’obiettivo di raccogliere in un unico centro scientifico le competenze e le energie formatesi nell’ambito delle molte esperienze didattiche e di ricerca condotte presso l’ateneo milanese. Il rapporto costituisce il frutto di un lavoro di ricerca e analisi in cui il gruppo si è avvalso di una pluralità qualificata di fonti di informazione: dai documenti ufficiali, come quelli giudiziari o prodotti da strutture investigative, alle intense e differenti esperienze di impegno e di studio in materia, al ricco patrimonio di conoscenze accumulato attraverso seminari e tesi di laurea sul fenomeno mafioso nelle comunità settentrionali, alla ricca rete di relazioni costruita con amministrazioni comunali, strutture investigative, università, realtà associative. Proprio data la varietà di fonti, il gruppo di ricerca ha utilizzato e mediato fra una molteplicità di prospettive e metodologie affermatasi nel confronto scientifico, istituzionale e civile.
“Un alfabeto per la lettura del Nord” Il gruppo di ricerca si è confrontato con difficoltà importanti. Problemi di ordine metodologico innanzitutto: ad esempio un basso numero di beni confiscati può esprimere, anziché una modesta presenza di organizzazioni mafiose, anche una carenza di iniziative di contrasto delle stesse. In secondo luogo un’ incertezza derivante dalle sentenze della magistratura con riferimento alla contestabilità del reato di cui al 416 bis, nelle aree settentrionali: questa incertezza deriva dall’acerba formazione all’analisi e alla comprensione del fenomeno, oltre che del pregiudizio, che segna nel loro complesso le classi dirigenti settentrionali, secondo cui le organizzazioni mafiose al nord non avrebbero insediamenti veri e propri e comunque non commetterebbero al nord gli stessi reati commessi nelle regioni di origine. Nonostante queste difficoltà, la relazione riesce ad offrire “una specie di alfabeto per la lettura della realtà settentrionale”. Il suo obiettivo dichiarato è “proporre una mappa articolata dell’aggressività del fenomeno mafioso nelle regioni e provincie del nord”, fornendo una chiave di lettura complessiva delle dinamiche in corso e suggerendo, al contempo, le probabili linee evolutive della presenza mafiosa sul territorio settentrionale. La tesi di fondo, che rappresenta il maggiore riferimento teorico del rapporto, è quella che presenta il ruolo decisivo giocato dai piccoli comuni nell’evoluzione della vicenda mafiosa al nord. “Mentre gran parte dell’opinione pubblica è incline a pensare che il trasferimento dei clan al nord sia guidato dalle opportunità di impiego dei capitali di provenienza illecita nella Borsa e nella finanza (…), in realtà la diffusione del fenomeno mafioso avviene soprattutto attraverso il fittissimo reticolo dei comuni di dimensioni minori, che vanno considerati
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nel loro insieme come il vero patrimonio attuale dei gruppi e degli interessi mafiosi”. È proprio in questi piccoli comuni infatti che si costruisce quella capacità di controllo del territorio, di condizionamento delle pubbliche amministrazioni locali, di conseguimento di posizioni di monopolio nei settori basilari dell’economia, a partire dal movimento terra, che sono così importanti per i clan. Qui è possibile costruire, grazie ai movimenti migratori, estese e solide reti di lealtà fondate sul vincolo di corregionalità, o meglio di compaesanità, molto spesso rafforzate da legami di parentela di vario grado e natura. Inoltre l’inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell’ordine in alcuni di questi comuni garantisce ai gruppi criminali armati una facilità di esercizio de facto di una sorta di “giurisdizione parallela”; senza contare che qualsiasi azione dei clan che sia legata alle vicende dei comuni minori è per lo più ignorato dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Fondamentale è poi la possibilità, nei centri minori, di facile accesso alle amministrazioni locali; infatti grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze si può controllare un intero comune specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza è poco diffuso tra gli elettori (come al nord). Dopo aver esposto in apertura le principali mappe generali della presenza mafiosa, la relazione prosegue con analisi delle singole regioni seguendo l’ordine decrescente “dell’indice di presenza mafiosa”, così come viene definito dal gruppo di ricerca: Lombardia, Piemonte- Val d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna e Triveneto. E dopo una descrizione e una valutazione d’insieme, ogni regione viene anche ulteriormente scomposta per provincie, spingendo l’analisi ancora più in profondità.
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Infatti è sempre incisiva e decisiva in una lotta la maggior conoscenza possibile dell’avversario che si intende combattere. In questo ambito si deve notare, in particolare, come il luogo della massima concentrazione conosciuta di “locali” di ‘ndrangheta coincida con l’area complessiva delle province di Milano e MonzaBrianza, ossia con un’area che presenta una densità demografica di dieci volte maggiore alla media nazionale. Questo perché l’elevata densità demografica si associa di norma a fitti processi migratori, ma consente anche una maggiore possibilità di mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime, che travalichino i confini dei singoli comuni. Inoltre un’alta concentrazione di abitanti si associa anche ad una elevata percentuale di cementificazione del territorio; un processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Il caso Imperia Particolarmente interessante appare anche il caso della provincia di Imperia in cui l’indice di presenza mafiosa raggiunge il livello più alto di tutta la Liguria. In quest’ area, infatti, sono presenti importanti famiglie ‘ndranghetiste ben inserite nel tessuto sociale. Ed inoltre tutti gli indicatori rilevati dal gruppo di ricerca dipingono un quadro alquanto allarmante sfatando così l’immagine di una Liguria come isola felice.
La formula del successo sembra essere quindi “piccoli comuni-alta densità demografica”. Però l’analisi del gruppo di ricerca dell’Osservatorio coglie un’altra possibilità: ossia la presenza in aree con caratteristiche opposte: cioè a densità demografica più bassa della media nazionale. Questo perché “i comuni che si situano in aree scarsamente popolate sono più facilmente controllabili, si trovano nella situazione di isolamento prediletta dai clan anche nella madrepatria, si sottraggono ai movimenti di opinione che possono comunque formarsi in quelli che finiscono per essere oggi grandi agglomerati metropolitani. Consentono cioè avanzate più invisibili e impunite e in essi si produce più velocemente una condizione di assuefazione e di omertà ambientale. Dinamiche di questo tipo si segnalano ad esempio nelle provincie di Pavia, di Bergamo e di Brescia. Il rapporto fornisce alcune ragioni di riflessione sul piano strategico e altrettanti stimoli sul piano operativo. In primis che il fenomeno mafioso appare nel nord in crescita costante, sia pure muovendo da punti di partenza e da gradi di radicamento piuttosto diversificati e che tale dinamica espansiva appare favorita da processi di sottovalutazione e di rimozione che coinvolgono di norma la maggior parte dei protagonisti della vita pubblica. Solo da pochissimi anni, e solo in alcuni casi specifici, si sta infatti registrando una risposta degli enti locali sul piano della elaborazione di nuove regole e di progetti formativi mirati.
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“Centri e periferie delle mafie”
Questo deriva dal fatto che “sottovalutazione e rimozione si intrecciano con un allarmante deficit di conoscenze”; anche, talvolta, con riferimento alle forze dell’ordine. Un altro problema è la visione e organizzazione d’insieme del controllo del territorio: i paesi, anziché essere “periferia”, dimostrano spesso di essere il cuore della questione mafiosa. Un terzo tema individuato è quello di una notevole flessibilità, al nord ma non solo, del modus operandi dei gruppi criminali; questi possono avvantaggiarsi “dell’alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d’azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell’economia privata; e oltre a ciò presentano un’alta spregiudicatezza nella scelta della propria rappresentanza politica, senza predilezioni a priori per l’uno o l’altro schieramento”. Contando anche su un intenso ricambio generazionale, che però non perde di vista i valori criminali fondamentali. Il dinamismo mafioso impone insomma un più alto dinamismo istituzionale. Consensi tuttavia limitati Un’ultima annotazione può invece essere un po’ rassicurante: “le organizzazioni mafiose, pur influenti sulla vita pubblica e capaci di interferire con il momento elettorale, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi “pacchetti” di consensi” e presentano “una difficoltà visibile a conseguire successi laddove si propongano di agire su teatri più ampi, dalle elezioni regionali a quelle europee, come anche a investire su una larga cerchia di candidati”. www.stampoantimafioso.it/2014/10/03/rapporto-trimestrale-cross/#sthash.NphbvswV.dpuf
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Liguria
E' arrivata la 'ndrangheta Imperia: al processo “La Svolta” le cosche nel ponente ligure di Luca Traverso www.stampoantimafioso.it Il processo “La Svolta”, a Imperia, ha accertato la presenza delle cosche calabresi nel ponente ligure. L’indagine condotta dalla D.D.A. di Genova, ed in particolare dal pm Giovanni Arena, ha ricostruito il contesto mafioso che ha portato allo scioglimento dei comuni di Bordighera e Ventimiglia, documentando una serie di episodi delittuosi (minacce, estorsioni, traffico di droga, detenzione di armi) e la fitta rete di rapporti collusivi che legano esponenti dei clan alla politica locale. La Svolta costituisce l’ultimo atto di un’offensiva giudiziaria che era iniziata intorno al 2000, con il primo filone “Maglio” archiviato per infondatezza della notizia di reato. Poi nel, luglio 2010, su ordine dei giudici calabresi sono stati arrestati a Genova il verduraio Domenico Gangemi e l’imprenditore edile Domenico Belcastro, tratti a giudizio nel noto processo “Crimine”. La magistratura ha così stretto il cerchio intorno agli uomini che circondavano Gangemi, il cui negozio “Il regno della frutta”, in Piazza Giusti, quartiere S. Fruttuoso, era un crocevia di politici e compaesani. Era iniziato il processo Maglio 3, che ha visto imputati in rito abbreviato dieci soggetti (più altri due in ordinario). La procura distrettuale ha individuato la presenza di almeno 4 locali (Sarzana, Lavagna, Genova, Ventimiglia), cui si affianca una camera di compensazione (situata sempre nella cittadina del ponente), che estende la propria giurisdizione al Basso Piemonte. Grazie all’ampio utilizzo di intercettazioni telefoniche sono stati accertati riunioni e riti di affiliazione. In particolare, si è ricostruito il summit avvenuto a Lavagna, all’Hotel Ambra, di Paolo Nucera, di Condofuri (RC).
“Una bella ndranghetella...” Era il 16 marzo 2010: in macchina, sulla via del ritorno, un’ambientale capta la conversazione tra Mimmo Gangemi e Arcangelo Condidorio: «Una bella ‘ndranghetella te la sei fatta, dài… ’na scialata con il tuo compare».L’indagine si è soffermata compiutamente sui rapporti tra presunti ‘ndranghetisti e politica locale: si sono accesi i riflettori in particolare sulle Regionali del 2010, che hanno visto un sicuro inquinamento del voto. Aldo Praticò (che non viene eletto) e Alessio Saso (consigliere regionale tuttora in carica) vengono indagati per corruzione elettorale aggravata. Le intercettazioni dimostrano l’accordo sul voto. Sono pure documentati vari incontri, spesso nel “frutta e verdura” di Gangemi. Si è affermato che il vulnus dell’indagine risiedesse nella mancata contestazione di singoli reati-fine (presenti invece nell’inchiesta sorella “La Svolta”). I precedenti penali degli imputati testimoniavano una lunga militanza criminale e uno di loro, Onofrio Garcea, mentre Maglio 3 era in corso, è stato condannato a 9 anni per usura aggravata proprio dal metodo mafioso. Ma per il GUP Silvia Carpanini il reato non c’era, mancando l' intimidazione, l'assoggettamento e l'omertà, che costituiscono i requisiti imprescindibili dell’associazione mafiosa. Dal contesto «si evince non certo l’estraneità degli imputati, o quanto meno della maggior parte di essi, alla ‘ndrangheta, giacché è indiscutibile che di ‘ndrangheta in molti casi si parli»; tuttavia il giudice perviene alla «impossibilità di affermare, con il necessario grado di certezza che si impone nella fase di giudizio di merito, che questo “essere” ‘ndranghetisti si concretizzi anche nel “fare” gli ‘ndranghetisti e, prima ancora, da un punto di vista logico, oltre che giuridico, che la ‘ndrangheta che oggi è in Liguria e di cui gli attuali imputati sarebbero i massimi esponenti abbia assunto i connotati che le sono propri nella terra di origine e realizzi, quindi, un’associazione criminale riconducibile all’art. 416 bis c.p.».‘ndrangheta in Liguria, primo rapporto di CROSS.
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La ‘ndrangheta c’è dunque, ma non fa la ‘ndrangheta. Eppure viene dimostrato anche lo stretto collegamento dei gruppi attivi in Liguria con “Mamma” Calabria. Viene intercettato un incontro all’agrumeto di Rosarno (14 agosto 2009) tra il boss ligure Gangemi (condannato intanto a 19 anni e 6 mesi in ordinario) e don Micu Oppedisano (condannato a 10 anni in abbreviato). Mimmo afferma: «Siamo tutti una cosa, pare che la Liguria è ‘ndranghetista. Quel che c’era qui, lo abbiamo portato lì». I due parlano diffusamente dei vari gradi (Santista, Vangelo, Quartino, Trequartino, Padrino); di giuramento, di «stella sulla spalla destra», di bacio in fronte, simboli e riti palesemente afferenti all’universo ‘ndranghetista. Ma nulla sembra scalfire le convinzioni dell’organo giudicante; lapidaria è la conclusione: «Essere ‘ndranghetista, soprattutto al di fuori della Calabria dove realmente la ‘ndrangheta permea ogni aspetto della vita sociale ed economica, non vuol dire necessariamente, in assenza di concrete dimostrazioni in fatto, fare l’ndranghetista, contribuendo al perseguimento delle finalità criminali del sodalizio, il che presuppone, come si è detto, la concreta verifica del reale inserimento organico, dell’operatività del singolo sodale e della sua messa a disposizione per il perseguimento dei fini e con le modalità propri dell’associazione mafiosa e, quindi, nella piena consapevolezza di detti fini e modalità che devono entrare nella sfera della sua rappresentazione volitiva». I dieci imputati vengono dunque assolti perché il fatto non sussiste, ai sensi dell’art. 530, capoverso, c.p.p., che si utilizza quando la prova «manca, è insufficiente o contraddittoria».La Procura Generale, nel presentare l’atto di impugnazione, ha contestato duramente la decisione di primo grado, in virtù della quale sarebbe lecito «costituire, promuovere o appartenere a locali di ‘ndrangheta […] consente[ndo] a questa associazione […] di estendere la propria presenza nel Nord Italia, così potenziando le proprie strutture e capacità operative». http://www.cross.unimi.it/primo-rapporto-trimestralearee-settentrionali/
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Bologna
Black Monkey La cosca emiliana Riparte a Bologna uno dei processi più importanti sull'intreccio tra criminalità organizzata e gioco d'azzardo: alla sbarra il boss Nicola Femia di Valeria Grimaldi www.diecieventicinque.it
Continua a Bologna il processo denominato Black Monkey, che vede imputato il presunto boss Nicola Femia (detto Rocco) accusato di aver costruito e gestito una rete di slot machine e siti on-line di gioco d'azzardo illegale, con base in Emilia-Romagna e ramificazione in altre 11 regioni italiane, e un paio di Paesi esteri (in particolare, Inghilterra e Romania). Nella decima udienza s'è ripreso quanto era stato interrotto prima della pausa estiva: l'esame da parte della pubblica accusa di numerosi soggetti che possono riportare informazioni utili per delineare il quadro dell'intera vicenda. In particolare sono stati ascoltati come testi alcuni appartenenti alle forze dell'ordine, nello specifico della Guardia di Finanza, che tra il 2010 e il 2011 partieciparono ad operazioni di ispezione e controllo a Bologna e provincia, nei confronti di alcuni locali che presentavano numerose postazioni di gioco d'azzardo on-line e slot machine: uno a Maranello (provincia di Modena), uno a Pieve di Cento (provincia di Ferrara), e uno a Bologna.
“Associazioni sportive” Tutti e tre i locali sottoposti ai controlli (quasi sempre gestiti da cittadini di nazionalità cinese), si dichiaravano come associazioni sportive dilettantistiche o circoli ricreativi: nessuno, però, presentava i nulla osta che autorizzano l'utilizzo sia delle slot machine, sia dei siti di gioco d'azzardo, e che vengono emessi dall'AAMS (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli). Il quadro che emerge dalle dichiarazioni rese appare quasi sempre lo stesso, salvo qualche piccola diversità nelle modalità di gestione: gli agenti arrivati sul posto si trovavano di fronte una sala, accanto al bar, dove erano dislocati numerosi personal computer per l'accesso ai siti di gioco. Tutti questi computer erano collegati fra loro, e allo stesso tempo, ad un altro computer dietro il bancone, ad uso esclusivo del gestore dell'esercizio. Questo computer isolato fungeva da server principale per il funzionamento degli altri computer e per permettere ai clienti di poter giocare d'azzardo on-line: infatti su richiesta del cliente, a seconda dei casi, il gestore forniva un foglio con user name e password già pronti (per essere digitati sul computer); oppure su delle smart card già inserite nei computer, sempre a richiesta del cliente, veniva caricata la somma di denaro per poter giocare e scommettere. Accanto al "server principale", o in un file contenuto nello stesso, veniva ritrovato un registro contabile che segnava gli username e le password già utilizzate (nella stessa giornata o in periodi precedenti) con le voci dei relativi incassi economici. Mancando l'autorizzazione dell'AAMS relativa a quello specifico sito (in quasi tutti i casi viene riscontrato il sito di gioco d'azzardo "dollaro-pk"), i computer utilizzati per le scommesse non avevano
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accesso libero alla rete: era sempre necessario richiedere al gestore, o al cassiere, username e password, oppure la ricarica della smart card già presente nell'apparecchio. Normalmente le piattaforme di giochi d'azzardo on-line legalizzate dall'Agenzia, sono accessibili da qualsiasi postazione (con la previsione di un meccanismo per verificare la maggiore età del giocatore): è questo il modo in cui è possibile ritracciare i movimenti di denaro delle macchinette e dei siti da parte dei monopoli di stato. Cosa che non poteva avvenire nel momento in cui mancavano le autorizzazioni statali: provando a digitare lo stesso indirizzo web da un altro computer "libero", non si sarebbe potuto accedervi. Per aggirare il blocco (se mancano le autorizzazioni i siti vengono oscurati/bloccati già a partire dall'accesso) basta, come riporta uno dei testimoni, modificare l'estensione del sito: da .it a .com. E il gioco è fatto. Il gioco d'azzardo on-line Altra apparecchiatura presente nei locali era il c.d. "totem": il totem, normalmente, permette, tramite l'inserimento di una smart card personale, di acquistare varie tipologie di gadget su siti di shopping online; nel caso specifico, invece, le apparecchiature venivano utilizzate per la raccolta di scommesse (tramite giochi come bacarà, black jack, roulette e così via). Per questa finalità, veniva inserita direttamente dal cassiere del locale una scheda prepagata: in questo modo la schermata del totem passava dal sito di compere al sito di gioco d'azzardo on-line; e una volta sottratta, tornava automaticamente al sito d'origine di shopping.
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'Ndrangheta/ “Il Patriarca”
Un famosissimo sconosciuto 'Ntoni Gambazza per trent'anni fu uno dei capi, e forse il capo, della 'ndrangheta calabrese. Eppure pochi conoscono il suo nome di Andrea Zolea www.wikimafia.it
La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa egemone in Italia: perché allora le Procure e le forze dell’ordine in Calabria sono sotto organico? Le conclusioni vanno in un’unica direzione: non c’è e non c’è stata la volontà politica di contrastare la ‘ndrangheta. In questo contesto di isolamento, molti dei boss della mafia calabrese che dovrebbero essere “popolari” come Riina, Provenzano o Cutolo sono sconosciuti. Nel settembre 2014 è uscito Il Patriarca, il primo libro che tratta la biografia di un boss della ‘ndrangheta.
L'inchiesta di Andrea Galli, tra le altre rivelazioni, identifica la consacrazione di Antonio Pelle alla carica di Capo-Crimine proprio nel '95, contestualmente all'omicidio ancora irrisolto di Giuseppe Nirta, reputato fino allora il primo rappresentante della mafia calabrese. ''E' indubbio che Pelle si prestò alla 'ndrangheta - scrive in quarta di copertina Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto della Dda di Reggio - ma è ugualmente vero che se ne servì. Antonio Pelle diventò Capo-Crimine, un ruolo che potremmo paragonare a una sorta di Presidente della Repubblica delle cosche ''.
“Il Patriarca” di Andrea Galli L'intervista a Galli Perché “sconosciuto”? Ormai è nota la potenza economica, espansiva e decisionale della mafia calabrese. Eventi come la strage di Duisburg del 2007 o le eclatanti operazioni avvenute nel Nord-Italia nel biennio 2010-2011 hanno consentito di scoprire la ‘ndrangheta. Perché, nonostante ciò, non si è mai affrontato il tema ‘ndrangheta e Calabria a dovere? Ancora oggi, con difficoltà si riesce a comprendere quanto sia importante per le strategie organizzative il territorio d’origine della ‘ndrangheta. All’interno della sola provincia di Reggio Calabria ci sono stati sindaci accusati di aver dato fuoco agli uffici comunali che governavano, faide in cui dei bambini sono stati uccisi e successivamente sfregiati, lunghe stagioni in cui si sequestravano persone di ogni età, due guerre di mafia che hanno causato circa 1.000 morti ed infine, recentemente sono stati scoperti notevoli quantitativi di rifiuti tossici che hanno causato in alcune aree un’impennata di patologie tumorali. Di molte delle vittime, in Calabria, non c'è memoria: perché?
Andrea Galli in “Il Patriarca’’ (Bur edizioni) racconta la storia di Antonio Pelle detto Gambazza, reputato l’ex Capo-Crimine della 'ndrangheta (la carica più alta dell'organizzazione). Pelle, originario di San Luca è morto nel 2009 77 anni. Secondo le analisi degli investigatori, ha stretto alleanze con potenti capi mafia, è stato uno dei protagonisti della faida di San Luca ed ha trafficato grandi carichi per l’esportazione di droga. Chi è realmente Antonio Pelle? Colui che ha retto i fili della mafia calabrese, oppure un onesto figlio di pastori originari di San Luca? I suoi familiari e il suo avvocato avallano la seconda ipotesi. Comunque, Antonio Pelle è stato difeso dall’ufficio legale di Giovanni Leone e il 24 luglio 1981 ha ottenuto la grazia: a firmare il decreto è stato l'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
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- Come si è sviluppata l’ipotesi di fare un libro su Antonio Pelle “Gambazza”? “Il mio primo libro, “Cacciatori di mafiosi”, è uscito nel 2012. Ho iniziato a elaborarlo nel 2010. Tratta quasi esclusivamente delle funzioni delle forze dell’ordine nell’arresto dei latitanti. Già per il mio primo libro ho frequentato la Calabria e la zona della Locride, avvicinandomi al tema della ‘ndrangheta. Volevo conoscere di più dei personaggi chiave dell’organizzazione. Subito dopo la strage di Duisburg, inerente alla duratura faida di San Luca, mi rimase impresso un articolo sull’Espresso di Fabrizio Gatti, che metteva in risalto la figura di Antonio Pelle. Chiedendo in giro, ho sempre avuto risposte non soddisfacenti. Mi incuriosì molto il fatto che non si sapeva molto di lui. La ricerca è durata due anni, gran parte del materiale l’ho raccolto in Calabria. L’inchiesta sul periodo iniziale della sua vita, dagli anni ’30 fino agli anni ’50 l’ho fatta interamente sul territorio di San Luca.”
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- Ha incontrato ostacoli nella realizzazione dell’inchiesta? “L’inchiesta l’ho fatta a intermittenza perché raccogliere materiale non è stato facile. Ho girato tutti i paesi della provincia di Reggio Calabria, ho cercato materiale negli Archivi di Stato e nelle Procure di Reggio Calabria e Locri e sono stato in moltissime caserme dei Carabinieri, vuoi i traslochi o le alluvioni degli anni ’50 e ’70, casualmente o volontariamente si sono perse molte pratiche. Lui è stato detenuto presso il carcere dell’isola di Pianosa: perfino lì non ho trovato materiale sulla sua condotta nel periodo detentivo. La ricerca sul territorio è stata tortuosa, nonostante ciò, vorrei cercare di abbattere lo stereotipo secondo il quale se vai a San Luca ti sparano, con i sanluchesi ci puoi parlare tranquillamente, si chiudono quando parli di ‘ndrangheta o di vicende giudiziarie di una determinata famiglia o personaggio. Il paese in cui è più difficile operare anche per gli investigatori è senz’altro Platì, quando entri in quel territorio, è come se entrassi in un fortino, non hai la libertà d’azione, senti di essere osservato.” - Antonio Pelle è morto nel novembre del 2009, secondo quanto riportato all’interno dell’Operazione Crimine del 2010 lui era l’ex Capo-Crimine della mafia calabrese, la carica più alta dell’organizzazione. Qual è stato il percorso criminale del Patriarca? “Antonio Pelle nacque il 1° marzo 1932 a San Luca, suo padre era un pastore, non era affiliato.
“Gambazza” non è mai andato a scuola perché a San Luca non ce n’erano. Lo spartiacque della carriera criminale di Antonio Pelle fu l’omicidio di Sebastiano Pizzata nel 1961, per conto dell’onorata società. Andò in caserma ad ammettere il delitto, i carabinieri e i magistrati non gli credettero perché mancavano riscontri. Ho parlato con il Procuratore Aggiunto della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri e condivido quanto mi ha detto ‘’ E’ indubbio che Pelle si prestò alla ‘ndrangheta ma è ugualmente vero che se ne servì. Quello fu il primo passo di un’incredibile scalata che lo portò a diventare Capo-Crimine. Antonio Pelle ebbe cinque figli, e costruìdelle sinergie attraverso i loro matrimoni. Operava a stretto contatto con il compaesano Sebastiano Romeo ‘U Staccu e Giuseppe Morabito ‘U tiradrittu di Africo. Dai diversi fronti con cui sono entrato in contatto, hanno evidenziato il grande carisma. Gli investigatori con i quali ho parlato, che hanno avuto a che fare con Pelle, sostengono che raramente hanno visto una forma di rispetto così alta come quella mostrata dalla famiglia nei suoi confronti. Stavano in silenzio perché doveva parlare lui. Sempre secondo le mie testimonianze, Antonio Pelle diventò Capo-Crimine dopo l’omicidio di Giuseppe Nirta, avvenuto il 19 marzo 1995. Un omicidio ancora avvolto nel mistero. I familiari negano ogni tipo di coinvolgimento nella ‘ndrangheta, e non esiste una sentenza che dica che Antonio Pelle sia stato Capo-Crimine. L’unica condanna definitiva l’ha avuta per traffico di sostante stupefacenti.”
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“Lo difendeva Lo studio di Leone”
- Nel 1981 Antonio Pelle ottenne la grazia... “La grazia venne firmata il 24 luglio 1981 dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma probabilmente la pratica della grazia venne istruita da uno dei predecessori di Pertini, si trattò semplicemente di un foglio da firmare. Questo fatto, sempre secondo l’accusa, sembrò l’emblema della capacità della ‘ndrangheta di arrivare ad un grandissimo risultato quale la grazia, che è un lavoro nel corso del tempo, fatto da più persone nei posti giusti. Dopo il lungo percorso ti trovi il grande risultato, è singolare che una figura come quella di Antonio Pelle, che è figlio di un pastore, che non è mai andato a scuola e non ha mai avuto un lavoro, che all’inizio della sua attività criminale aveva risorse economiche limitate, finisca per farsi difendere dallo studio legale di Giovanni Leone. Si avvicina a Leone perché questi aveva già difeso don Mico Tripodo. La domanda sorge spontanea: da dove li ha presi i soldi per farsi difendere dallo studio di Leone? Come fai ad avvicinare uno come Leone se parti da queste origini?” Una storia frammentata Dall’inchiesta di Andrea Galli chiaramente emerge come sia frammentata la storia di Antonio Pelle e della ‘ndrangheta in Calabria. Sono troppi i pezzi mancanti. Per provare a pareggiare la partita informativa sulla 'ndrangheta sconosciuta servirebbero molti più giornalisti e ricercatori specializzati sul tema. In quarta di copertina del libro c'è una frase di Eduardo De Filippo ‘’i fantasmi non esistono…Li creiamo noi’’.
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Marsala
“Dove sta il Tribunale?” “Al Pasticcio” Stanze poco illuminate, pilastri fuori posto, aule per le udienze mal realizzate, errori nel progetto. Il nuovo, faraonico, Tribunale di Marsala è pronto, ma non è adatto per le udienze. Nessuno vuole dare l'ok al trasferimento. La struttura è costata 13 milioni di euro di Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo www.marsala.it
E pensare che era venuto pure il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, a inaugurare il cantiere. In realtà i lavori erano già cominciati, ma lui ha comunque voluto posare la prima pietra. Una cerimonia solenne, per il nuovo palazzo di Giustizia di Marsala. E un rinfresco costato 20 mila euro, era il 25 luglio 2008. Oggi, invece, c’è aria di pasticcio all’italiana al nuovo palazzo di giustizia di Marsala. Sei anni di lavori, 13 milioni di euro. Avvocati, cancellieri, giudici, e tutto un circondario che aspetta di trasferirsi.
Nuovo di zecca, ma già inadeguato Ma il tribunale, nuovo di zecca, non è pienamente adeguato ad ospitare un tribunale. E questo il paradosso della nuova e imponente struttura di via del Fante. Scarsa illuminazione, molte stanze senza finestre, aule inadatte per tenere le udienze, con pilastri al centro ad ostacolare il “controllo” necessario e la visuale di pubblico e addetti ai lavori. Da anni tutti chiedevano una nuova struttura, perchè il tribunale di piazza Borsellino (originariamente una scuola) è vecchio e troppo piccolo per ospitare udienze, archivi, cancellerie, e la Procura della Repubblica. Troppo piccolo e anche qualche problema di sicurezza, per una struttura in cui si svolgono delicati processi come quelli ai fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro e alla mafia del Belice. Dove vengono condotte predisposte delicate inchieste dalla Procura. Addirittura, il giorno del suo insediamento, il presidente del Tribunale, Gioacchino Natoli, rimase bloccato in ascensore. Quasi un presagio. L'iter comincia nel 2007 C’è bisogno di un nuovo tribunale, più grande, all’avanguardia per un circondario come quello di Marsala che copre tutta la zona del Belice, mezza provincia, fino ad arrivare a Castelvetrano. Nel 2007 comincia l’iter, si individua l’area dove far nascere il nuovo palazzo di giustizia. Un area di 14 mila metri quadrati tra via del Fante e corso Gramsci, poco distante dall’attuale palazzo di giustizia. Ora il tribunale è quasi pronto. Mancano alcune rifiniture. E in un paio di mesi ci si potrebbe trasferire tutti là.
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Sia la Procura della Repubblica che il Tribunale. Ma c’è qualcosa che non va. Perchè mentre la parte della struttura destinata alla procura risponde alle esigenze dell’ufficio, è pronta e ci si potrebbe trasferire subito, dove dovrebbe insediarsi il tribunale invece, con le aule per le udienze penali e civili, la cancelleria e tutto il resto, ci sono tutta una serie di pecche progettuali. Errori grossolani al progetto Errori grossolani al progetto che non sono stati corretti in tempo utile. Come le aule di udienza che sono poco illuminate e al centro hanno dei pilastri. Il problema sorge soprattutto per le udienze dei processi penali. I pilastri al centro di aula sono contro qualsiasi criterio su come sono fatte le aule di tribunale, luoghi in cui, di norma i giudici dal pretorio devono avere contezza di ogni movimento in aula. Per non parlare di stanze destinate ai giudici - in cui non ci sono finestre. Tutti questi pasticci non sono piaciuti al presidente del Tribunale, Gioacchino Natoli, che non se la sente di trasferire tutti gli uffici e le attività al nuovo palazzo di Giustizia. Prima di lui, l’ex presidente del Tribunale, Mario D’Angelo, vedendo i pasticci combinati, non aveva dato il nulla osta al progetto. Le aule in sostanza non sono funzionali all’utilizzo previsto. Adesso si sta pensando a un trasferimento parziale che riguarderebbe la Procura, gli archivi, l’ufficio del Gip, e qualche cancelleria. “Un trasferimento totale genererebbe grossi problemi, anche in termini di sicurezza” ci dicono i pochi che hanno visto da dentro la nuova struttura.
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“Per fare le modifiche bisognerebbe spendere milioni” Il resto? Rimarrebbe al vecchio edificio, in attesa che vengano sistemate le cose. Gli addetti ai lavori sostengono che si potrebbe risolvere tutto con qualche decina di migliaia di euro, autorizzati dal Ministero della Giustizia, destinando l’aula ad altri scopi e attrezzare un’altra parte per i processi penali collegiali. “Troppo tardi per intervenire” C’è da dire anche che quando Natoli si accorse che nel progetto c’era qualcosa che non andava, gli era stato detto che era troppo tardi e troppo costoso apportare delle modifiche. Il risultato è un tribunale gigante, una struttura importante, ma a mezzo servizio, quasi pronto, non adatto ad essere usato come tribunale, per tenere le udienze, frutto di pasticci e mancati controlli di chi doveva controllare. E un pacco di soldi spesi. Oltre 13 milioni e 500 mila euro finanziati, di cui 10,7 milioni messi dal Ministero della Giustizia e 2,8 milioni dal Comune di Marsala.
Un progetto messo nero su bianco dall'Ufficio Territorio ed Ambiente del Comune e realizzato da un'A.T.I. composta Iride , e dall'Itaca, Airtemp Division e Co.ri.mar.. La direzione dei lavori, nel 2008, è stata affidata a una R.T.I. formata da Politecnica Ingegneria ed Architettura Soc. Coop. a.r.l.(c.g.), con Well Tech s.r.l. e con Houses & Lands Engineering s.r.l., con sede legale a Modena per circa 375 mila euro. Tra i compiti della direzione dei lavori, si legge nel capitolato d’appalto, c’è “curare che i lavori siano eseguiti a regola d’arte ed in conformità al progetto esecutivo ed al contratto”. Già, a regola d'arte. Di casi come questi, con lavori costati milioni di euro e che poi risultano pasticciati, la Corte dei conti ne ha trattati parecchi negli ultimi anni. Il controllo dei giudici contabili è sempre molto intenso sulle opere pubbliche. Controlli che poi potrebbero sfociare in danni erariali enormi. E poi chi paga? Quello di Marsala è un caso unico. In cui c’è un tribunale pronto, nuovo di zecca ma che non può essere utilizzato. Mentre in tutta Italia, i palazzi di Giustizia sono in condizioni pessime.
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Con ritardi sull’innovazione, la sicurezza, e problemi strutturali. C’è il caso di Trapani ad esempio, dove ad aprile è crollata una parte del soffitto del Tribunale. Effetto domino: anche una scuola... Ha, poi, un effetto domino l’inghippo del nuovo tribunale. Perchè non sono soltanto gli addetti ai lavori ad aspettare l’apertura del nuovo palazzo di Giustizia di Marsala. Ci sono anche dei ragazzi, sono gli studenti dell’Istituto tecnico commerciale che da quarantanni si trova in una struttura non a norma, per la quale l’ex Provincia paga 300 mila euro di affitto l’anno. Aule piccole, corridoi stretti, e amianto qua e là. Adesso gli studenti hanno fatto una proposta, al commissario straordinario della Provincia Antonio Ingroia: “Ci trasferiamo al vecchio Tribunale, visto che era stato pensato come scuola, quando questo si trasferirà nella nuova struttura”. Poveri ragazzi, aspettano da quarant'anni una scuola nuova, trovano la soluzione, ma è tutto bloccato da un pasticcio tipicamente siciliano.
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Catania/ Arriva il PUA
La madre di tutte le cementificazioni Progetto “utile allo sviluppo” o gigantesca speculazione edilizia? di Giolì Vindigni Il PUA (Piano Urbanistico Attuativo) Catania Sud è il proseguimento del Patto Territoriale Catania Sud promosso dal Comune nel 1996, dall'amministrazione Bianco, i cui primi interventi hanno interessato la zona del centro storico e il litorale della Playa. Con il Patto territoriale sono state realizzate nella zona della Playa: tre strutture ricettive e un Palazzo del Ghiaccio. La delibera fu predisposta e approvata nel 2002, vicesindaco Raffaele Lombardo, dopo la riperimetrazione dell’Oasi del Simeto, decretata dall’allora assessore al Territorio e Ambiente Bartolo Pellegrino, prima delle sue vicissitudini giudiziarie e pubblicata nella Gurs del 24/05/2002. Il P.U.A. comprende una vasta area di circa 5,300 Ha, che dal porto si estende nella zona sud della città attraverso tutto il litorale della Plaia e raggiunge i confini dell’area di sviluppo industriale.
Il Progetto che si è aggiudicato la realizzazione del PUA, l’unico presentato, è stato quello della società “Stella Polare”: esso è stato approvato (con una cementificazione superiore a quella prevista nel 2009) ad aprile, in piena campagna elettorale, come ultimo atto del consiglio comunale uscente. Prevede un’area espositiva, un acquario, un centro congressuale da 11.860 mq, un centro commerciale, un centro fitness, un polo-intrattenimento con pista go-kart, laser games e bowling, punti di ristoro, un cine multisala da oltre 2000 posti, e una vasta area riservata a strutture ricettive. E poi ancora strade, parcheggi multipiano e altre gettate di cemento. Sempre sui terreni di Ciancio... Le maggiori forze politiche, i costruttori, gli speculatori, i sindacati, il quotidiano locale di proprietà dell’editore Mario Ciancio - proprietario di gran parte dei terreni in cui insiste il Pua - spingono per la realizzazione del Piano sostenendo che porterà lavoro e sviluppo. Ma dopo 15 anni si può dire con certezza che le opere realizzate nella zona Sud nell’ambito del Patto Territoriale non hanno inciso assolutamente sullo sviluppo economico di Catania.
Una denuncia di Claudio Fava GLI IMPRENDITORI, I POLITICI E GLI AFFARI DEGLI ERCOLANO Secondo la prefettura di Catania, la “Sud Trasporti” di Angelo Ercolano, cugino e nipote dei boss una delle più sanguinarie cosche catanesi, avrebbe i requisiti per far parte della “white list” per gli appalti, pur essendo stata colpita - pochi mesi fa - da un sequestro preventivo della Procura per un giro di false fatturazioni da cinque milioni. “L’episodio – ha denunciato il vicepresidente della Commissione antimafia Claudio Fava, di recente minacciato di morte proprio dalla cosca Ercolano - ricorda nella sua gravità la recente decisione, per fortuna revocata, di togliere dal regime del 41 bis il cugino di Angelo, il capomafia Aldo Ercolano, nonostante la DIA continui a ritenerlo il reggente della cosca mafiosa dei Santapaola. Sembra che una parte delle istituzioni imprenditoriali e politiche di Catania continui a manifestare una intollerabile e incomprensibile subalternità nei confronti della famiglia Ercolano che ha segnato nel sangue, è bene non dimenticarlo, la storia di Cosa Nostra in quella città”.
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Strutture scarsamente utilizzate Le strutture ricettive sono scarsamente utilizzate, sorgono in una zona che non è servita adeguatamente dai trasporti pubblici e non hanno accesso diretto al mare: usufruiscono della spiaggia solo tramite convenzioni con gli stabilimenti balneari. La sentenza n° 139/14 del 18.08.2014 che condanna in primo grado Raffaele Lombardo per concorso esterno in associazione mafiosa, evidenzia, tra l’altro, che la realizzazione del Pua è parte di un “modus operandi ampiamente collaudato” che prevede “l’acquisto di aree a destinazione agricola di rilevante estensione, della successiva presentazione di progetti per la realizzazione di parchi commerciali e di zone residenziali e della contestuale approvazione delle necessarie varianti urbanistiche, con il conseguente, esponenziale incremento del valore di mercato dei terreni acquistati”. Il “modello operativo” sotto accusa Il Giudice continua ponendo l’accento “sulla reiterazione di tale modello operativo in ben quattro occasioni”, “a tali progettazioni deve altresì aggiungersi quella per la realizzazione” di varie “strutture polifunzionali nella zona della Plaja ad opera della società Stella Polare...”. Progettazione infine da realizzarsi, ancora una volta, sui terreni del Ciancio che originariamente avevano un’altra destinazione urbanistica.” Anche per ciò il Giudice dispone la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Catania con riferimento a Ciancio Sanfilippo Mario per le determinazioni di competenza. Il Pua insomma - come da tempo era chiaro - non è un progetto utile allo sviluppo e agli interessi collettivi, ma una speculazione finanziaria ed edilizia a vantaggio di privati.
SOCIETA'
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Morte di un operaio Salvatore La Fata lavorava dall'età di quindici anni. Quando ha perso il lavoro non si è rassegnato: ha messo su una bancarella e ha cercato di guadagnarsi da vivere onestamente con quella. Arrivano i vigili e gli sequestrano tutto. Lui non resiste a questa ennesima sconfitta: la sua protesta finale è darsi fuoco. Muore dopo undici giorni d'agonia testo e foto di Francesco Nicosia I Sicilianigiovani – pag. 81
“Lavorava fin da ragazzo con le gru e le motopale”
“Ce l'aveva nel sangue… Salvatore sapeva fare bene il suo lavoro. Fin dall’età di quindici anni aveva avuto a che fare con la terra e si è messo subito a lavorare al movimento terra, con le gru e le motopale”. Inizia così il racconto di Vincenzo La Fata e di Tony Poli, rispettivamente fratello e cognato di Salvatore La Fata, l’uomo morto il 30 settembre, dopo undici giorni di agonia a causa delle terribili ustioni in tutto il corpo.
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“Senza regolare licenza” Salvatore La Fata si è dato fuoco il 19 settembre in Piazza Risorgimento a Catania, in seguito al sequestro da parte dei vigili urbani della sua bancarella di frutta e verdura, che vendeva senza regolare licenza. Vincenzo e Tony raccontano del passato di Salvatore come operaio edile. “Nel suo lavoro era molto richiesto e, in passato,
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spesso riceveva offerte che lo portavano a cambiare azienda e datore di lavoro”. Nonostante la crisi e la perdita del lavoro si è dato da fare per potere trovare “qualcosa” di dignitoso, anche svolgendo mansioni che non gli erano familiari. “È riuscito anche a fare il muratore e l’idraulico, ma nulla che gli potesse dare una garanzia economica ed una soddisfazione personale in ambito professionale” racconta il fratello Vincenzo.
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Ce l’aveva nel sangue. Lui era un operaio edile, uno che era abituato al lavoro duro, che non si era mai tirato indietro, non si era mai fatto scoraggiare dalle difficoltà della vita. Neanche quando alla fine decise di aprire la sua attività di venditore ambulante, nonostante tutto non aveva ancora rinunciato ai suoi progetti. Fino al giorno prima aveva detto al figlio: “Appena arriva la cassa edile ti compro dei vestiti” e alla moglie “Presto
imbiancheremo la stanza dei ragazzi”. Aveva esortato il cognato Tony a cercare un garage per depositare la merce. Una morsa che toglie il respiro Nonostante fosse abituato a combattere nelle difficoltà era consapevole di vivere nell’ansia legata ad una precarietà oramai diffusa in tutto il Paese, ma che al Sud stringe in una morsa che toglie il respiro a
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“Presto imbiancheremo la camera dei ragazzi”
chi non vuole scendere a patti con illegalità e lavoro nero. La cosa che fa arrabbiare Vincenzo e Tony è la mancanza di coerenza da parte delle istituzioni nel combattere l’illegalità. “Dov’era lo Stato quando si scoprì che l’imprenditore che licenziò Salvatore, non aveva versato i contributi per la cassa edile. È rimasto impunito. Attualmente c’è una causa in corso e chissà quanti anni si dovranno aspettare per avere giustizia”.
“Perché non cercare invece chi nell' illegalità ci sguazza e si arricchisce?”
“E ora come faccio?” La foto di Salvatore su quel tavolino del bar sembra farci compagnia. “Non riesco ad immaginare cosa gli sia passato per la testa in quei momenti” dice Tony . “Avrà pensato - ed ora come faccio a pagare il verbale ? Come farò ad andare avanti ?”. “Ma dov’è adesso la giustizia? - aggiunge - Salvatore era in preda alla disperazione per ciò che gli stava accaden-
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do in quel momento, aveva urlato a gran voce che si sarebbe dato fuoco ed il vigile che stava procedendo al sequestro gli disse: ”Si, ma spostati più in là”. Non so cosa gli sia passato per la testa in quel momento. In preda alla disperazione è stato istigato al suicidio, si è dato fuoco davanti a tutta una piazza piena di gente e di curiosi. È davvero impressionante quanto sia stato insensibile il vigile nei confronti di Salvatore, fa venire i brividi per la totale
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assenza di umanità che questo individuo ha dimostrato di avere”. “Ma perché proprio lui?” “Perché Salvatore? - dice Vincenzo ora - Perché proprio lui? Perché non andavano a cercare e punire chi veramente nell’illegalità ci sguazza e ci si arricchisce senza scrupoli?”
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“Autorità sorde e cieche di fronte a una città disperata”
“Fatevi avanti e raccontate” I poteri forti dell’illegalità la faranno sempre franca, fino a quando le Istituzioni concentreranno le loro attenzioni verso quell’illegalità spicciola, fatta di gente che cerca solo di sopravvivere. Si combatte l’abusivismo di strada, il povero operaio edile, oramai disoccupato, divenuto venditore ambulante. Non c’è spazio per quei pochi e conosciuti personaggi che invece hanno trasformato la nostra città in una terra orientata al forte e diffuso concetto di stato sociale inesistente. La famiglia La Fata adesso cerca solo di andare avanti. Vuole la verità, su come siano andati realmente i fatti. Vorrebbe che i cittadini, che sanno ed hanno visto, si facciano avanti e raccontino tutto. Vorrebbe che nessun altro Salvatore La Fata muoia per colpa di istituzioni sorde e cieche di fronte ad una città che urla ed infiamma la propria disperazione
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Catania/ Insegnanti e studenti
“Scuola pubblica, nostra scuola” Ottobre: ripartono le lotte in difesa della scuola di Domenico Stimolo Anche a Catania il 10 ottobre c'è stato lo sciopero generale delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola, insegnanti e delle strutture tecniche, contro la “ristrutturazione” - denominata fantasmagoricamente “buona scuola” - progettata dal governo Renzi. Per l'iniziativa, organizzata dai Cobas, Cub e altre organizzazioni sindacali di base, supportata da diversi movimenti studenteschi, si sono svolti oltre ottanta cortei nelle città italiane, con la presenza di circa 100.000 partecipanti. Un dato è certo. Nel corso del tempo la scuola pubblica italiana è stata fortemente immiserita e ridimensionata. La situazione viene bene evidenziata dai dati contenuti nell’ultimo Rapporto dell’OCSE “ Uno sguardo sull’Istruzione 2014”. Sulla spesa pubblica nelle strutture scolastiche nel periodo 2000 -2011, a fronte di un incremento medio del 38% nei paesi Ocse, in Italia si è registrato un calo del 3%, con un decremento del 5% sugli investimenti. In particolare le conseguenze sono ben visibili nelle aree del Mezzogiorno: strutture fatiscenti, classi sempre più numerose, mancanza di adeguate risorse economiche, ecc. L’abbandono scolastico è l’aspetto più drammatico. Il livello d’istruzione dei giovani del sud Italia regredisce in maniera sempre più grande dalle condizioni medie in essere nel centro-nord e in Europa. Dalle ultime indagini emerge che la quantità dei ragazzi inferiori ai 16 anni che lasciano la scuola è altissimo in Sicilia e in Sardegna, pari al 24,8%. Gli abbandoni in Campania e Puglia sono rispettivamente del 21,8 e del 19.7%. La media nazionale è del 17,6, quella europea del 13%.
FOTO DI FABIO D'URSO
Sta calando il tasso d'istruzione A questo si aggiunge la qualità della preparazione/apprendimento degli studenti. Il valore medio nazionale di discosta significativamente al negativo dallo stato europeo. Nel contesto nazionale, come emerge dagli indici redatti dall’Ocse, i parametri in esame si abbassano in maniera drastica nelle regioni del sud. Molti giovani, specie nelle aree popolari ed emarginate delle grandi aree urbane, vengono lasciati nelle mani delle bande della criminalità organizzata. Siamo tornati indietro in maniera dirompente. Il tasso d’istruzione, nella quantità e nella qualità, è il parametro prioritario che misura lo sviluppo civile e democratico di ogni collettività organizzata in Stato. Il Piano Renzi mette avanti il “carro senza i buoi”. La dichiarata assunzione di 150.000 precari, da realizzare entro il 2015, risulta priva dei necessari stanziamenti economici. Una cifra rilevante, stimata tra i 3-4 miliardi, che non è stata inserita nella Finanziaria. L’unico aspetto certo è l’ulteriore blocco del rinnovo contrattuale (di tutto il comparto pubblico) e la cancellazione degli scatti di anzianità. Stando ai progetti delle 136 pagine del piano il tutto viene “equilibrato” con l’espulsione di diverse decine di migliaia di precari che non sono iscritti nella GAE (Graduatoria ad esaurimento). Inoltre, si vorrebbe esaltare la formazione di scuole-aziende. Il preside avrebbe il ruolo di unico ed esclusivo decisore: assumendo e licenziando, decidendo sulle carriere e sugli stipendi con la “miracolosa” bacchetta-guida di un indeterminabile “merito”, innescando una dannosa concorrenzialità tra i docenti e tra il personale tecnico, supportate da valutazioni in stile quiz; gli scatti di “merito” sostituirebbero gli scatti di anzianità; l’obbligo, inoltre, di 200 ore per gli studenti delle scuole tecniche e professionali di svolgere “apprendistato- stage” (gratuitamente) nei luoghi di lavoro. Svilendo ed umiliando, infine, la missione pubblica della scuola, richiedendo contributi ai privati (aziende ed altro) e ai genitori degli studenti.
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L’impronta ideologica prevalente, in linea con il tentativo di manipolazione di alcuni importanti articoli della Legge dello Statuto dei Lavoratori, a partire dall’art. 18 sui licenziamenti senza giusta causa, è caratterizzata da un violento attacco alla stessa esistenza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Il corteo a Catania A Catania, il corteo lungo, fitto ed energico, in difesa della scuola pubblica e della Costituzione che assegna un ruolo fondamentale all’istruzione, aperto dallo striscione dei Cobas “ NO alla scuola-azienda”, ha visto la presenza di circa 1500 partecipanti. Da piazza Roma, luogo del concentramento, per alcune ore ha attraversato il centro cittadino. Diverse centinaia gli insegnati e i precari. Moltissimi gli studenti, ragazzi e ragazze, combattivi e “variopinti”, delle principali scuole cittadine, coinvolti dall’Unione degli studenti e dal gruppo Kaos. Durante la manifestazione è stato largamente diffuso il testo dell’Appello in memoria di Salvatore La Fata, che ha avuto numerose adesioni, di singoli cittadini, associazioni, strutture sociali e politiche. Un significativo gruppo di persone, uomini e donne, ha partecipato al corteo dietro allo striscione che con lo slogan “Sciopero generale. Verità e Giustizia per Salvatore” che ricordava alla città l’estremo sacrificio del lavoratore edile disoccupato immolatosi il 19 settembre in piazza Risorgimento. Alla fine della manifestazione, in piazza Università, nell’assemblea all’interno del Rettorato, è intervenuto un fratello di Salvatore - presenti alcuni familiari evidenziando l’ immane tragedia con parole forti e commoventi. Una tragedia civile e sociale che è di ciascuno di noi.
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Movimenti
Vivere #contromafie Quattro giorni insieme coi ragazzi di Libera a organizzare e discutere l'antimafia dei fatti: cronache da un'altra Italia di Sara Spartà www.liberainformazione.org Raccontare Contromafie a parole è un’operazione difficile. Raccontarla soprattutto a chi non c’era o a chi non c’è mai stato. Eppure è un'operazione necessaria, che potrà essere fatta solo nel corso di questi anni a venire attraverso il lavoro concreto, perché quello che viene chiamato in causa non è più o non è solo il “fare antimafia” ma è anche e soprattutto l’azione e la reazione del cittadino nei confronti di tutto ciò che lo circonda, della società. I quattro giorni di Roma, che Libera ha ormai incoronato come gli Stati Generali dell’Antimafia, arrivano dopo ben cinque anni alla loro terza edizione. Confronto/ incontro Contromafie è un luogo di incontro e di confronto tra persone che da anni sono impegnate in progetti di informazione e formazione culturale, di supporto e di assistenza ai familiari vittime di mafie. È un luogo di proposta e di azione in cui ognuno porta la propria esperienza e la mette al servizio dell’altro, da rappresentanti delle istituzioni del Sud America ai sindaci delle periferie d’Italia. È un luogo di riflessione in cui si guarda al futuro ma partendo dagli errori del passato, sentendo come responsabilità morale e personale tutto ciò che non ha funzionato fino a oggi nel Paese, perché la cattiva politica non possa essere neanche in minima parte imputabile a una cattiva cittadinanza.
Contromafie è un luogo di libertà, come ha sottolineato Don Luigi Ciotti, in cui ognuno porta la ricchezza del proprio credo religioso, delle proprie idee e scelte, con il dovere dell’umiltà. Iniziato il 23 ottobre con quasi 300 giovani che a Corviale a Roma hanno portato assieme ai loro sacchi a pelo, i sorrisi, la forza e l’arcobaleno di Libera. Ragazzi e ragazze che da soli o in piccoli gruppi hanno creato delle alternative nei loro territori, nelle Parrocchie e nelle Università, che conoscono le realtà dei beni confiscati alle mafie per il loro lavoro durante i campi estivi che continuano a coltivare attraverso lo studio e la ricerca. “Una giovane Libera” Si apre con le loro domande, le loro osservazioni lucide e le loro richieste. “Per trovare la gioia di far nascere le cose e non subirle” attraverso una partecipazione organizzata, intelligente, viva. “Non vogliamo una Libera dei giovani ma una giovane Libera” chiede Turi Benintende di Libera Sicilia, che sappia essere discente oggi per poter essere alla guida domani. E poi una miriade di ore spese nell’ Auditorium di via della Conciliazione, ore di attenzione profonda e silenziosa partecipazione, dalla mattina al pomeriggio di venerdì ad ascoltare le esperienze di vita, le denunce e la sofferenza di chi ha visto mancare i propri cari affrontando l’omertà delle persone, la solitudine e l’ingiustizia “con la consapevolezza che la giustizia la devi chiedere”, perché non viene da sé, come racconta Daniela Marcone. Ore spese a raccontare di giornalismo quello temuto più della magistratura, perché toglie potere alle cosche mafiose svegliando le coscienze e creando varchi di consapevolezza. Il potere della parola, di quella scritta sopra un tweet per il quale oggi si muore, in Sudamerica, a vent'anni. Come i quarantatrè ragazzi spariti in Messico perché manifestavano per la libertà.
Lettera dal Sudamerica Don Luigi Ciotti legge una lettera che arriva da quei posti, parla di un ragazzo che è stato torturato e al quale hanno strappato via la pelle e gli occhi, era indirizzata a quell’Auditorium che seguivano grazie ad internet dall’altra parte del mondo. Per dire basta, alle mafie e alla violenza in ogni luogo. E poi ancora la testimonianza di vite migranti e di una Giusy Nicolini che sfora il tempo per gli interventi e incarta la scaletta, ma non importa a nessuno, e ha ragione quando dice che “agitare le paure, anche quella è fare politica sporca”. Buone prassi, trasparenza e contrasto alla corruzione, punti essenziali della nuova Carta di Avviso Pubblico, frutto di questa tre giorni, che unisce gli enti locali che vogliono impegnarsi al di là delle prescrizioni di legge e colmare il distacco con i cittadini. Queste tematiche raccolte in sei vaste aree sono state oggetto dei lavori di sabato, che ha visto tutti secondo il proprio lavoro e i propri interessi approfondire tantissimi argomenti confluiti nel Manifesto di Contromafie 2014. I dieci punti essenziali che verranno portati in Parlamento e condivisi dalla presidente della Camera Laura Boldrini sono: il reddito di cittadinanza, il riutilizzo dei beni confiscati per la creazione di un nuovo Welfare e il potenziamento del ruolo dell’Agenzia Nazionale per i beni sequestrati e confiscati, la formazione continua del cittadino, la difesa del ruolo dell’informazione, la repressione dei legai tra mafia e politica, investire su mezzi innovativi di contrasto alle mafie, introdurre i reati ambientali ed infine istituire il 21 Marzo come giornata Nazionale della memoria e dell’impegno. Questi gli impegni di cui ognuno è chiamato ad essere “testimone, con lo stesso coraggio, la stessa coerenza, la stessa corresponsabilità di chi da testimone di giustizia denuncia mafiosi estorsori e corrotti, di chi insegna quant'è preziosa la libertà”.
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IL FILO
Il boss, il capitano, i “veri uomini” e Sciascia di Giuseppe Fava
Ci sono diversi modi di scrivere sulla mafia, quag giù in Sicilia. Combatterla apertamente, o farne un sottile gioco intellettuale... […] Sciascia è convinto che la mafia sia un sottile gioco di cervello. La condizione umana non è influente: la povertà, l'ignoranza, il dolore non entrano nel gioco. Il mafioso è tale per composizione storica di elementi: psicologia, tradizioni, contrapposizioni d'interesse. In tutti i libri di Sciascia la violenza degli uomini è mossa soltanto dal fatto di essere già all'inizio personaggi definiti. ____________________________________
La Fondazione Fava
La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare Il sito permette la consultazione gra tuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografi co e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________
In nessuno di tali personaggi, dietro la violenza, ci sono mai la sofferenza sociale dell'uomo, il dolore dell'individuo, la sua disperazione di potere altrimenti modificare il destino, e cioè gli antichi ed immutati dolori del Sud: miseria, solitudine, ignoranza. I personaggi entrano in scena e sono già disegnati, con tutti i loro abiti indosso, ognuno deve recitare la sua parte già scritta, senza mai spiegare il perché, essi sono il buono, il cattivo, l'uccisore, il testimone, la vittima, senza mai dare spiegazione, com'è accaduto: per quale dolore, ribellione o inganno quel tale sia nel ruolo di assassino e l'altro in quello della vittima. Può accadere che ci sia thrilling, poiché Sciascia ha anche questa geniale perfidia letteraria di utilizzare il mistero, per cui tu non capisci ancora chi sia il giusto o l'ingiusto, l'assassino o la vittima, ma al momento in cui il thrilling si risolve, tu ti rendi conto che quel giusto era giusto fin dall'inizio, e così anche l'ingiusto, l'assassino e la vittima, sei tu mediocre a non averlo capito prima. E' come se Sciascia entrasse nel teatro in cui si recita l'essere siciliani a spettacolo già cominciato e volesse interpretare i protagonisti solo per quello che dicono. Il resto, il passato, il già detto e già avvenuto non influisce. E' ombra. L'intuizione diventa più difficile. Il gioco intellettuale più affascinante.
Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”
Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebra zioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.
“Talvolta la ragione chiude gli occhi...” […] Sciascia non è simpatico. Talvolta è affascinante, ma chiunque lo sente diverso, in una sua astrazione intellettuale, dove gli altri uomini non possono penetrare, ma restare in attesa di capire. Sciascia non è mai d'accordo con alcuno. E' vero, cita verità enunciate da altri, battute, frasi, ma costoro sono morti. Uno dei tratti ammirabili di Sciascia è infatti la straordinaria forza mentale, l'infallibile rigore logico, con il quale anzitutto egli riesce sempre, quasi sempre, a dominare se stesso, riconducendo ogni atto, parola, pensiero, soluzione a quel perfetto personaggio morale che egli ha studiato e costruito di se stesso. Senza mai, quasi mai, una fragilità, un cedimento, per quelle forze antiche e misteriose della sua natura siciliana, per quelle violenze viste, pagate e fatalmente adottate negli anni dell'infanzia e adolescenza. La ragione, cioè la forza mentale di Sciascia è tale, ed anche tale la sua sicurezza nella sua stessa intelligenza, che egli conduce il gioco fino al limite intellettuale, basta una incrinatura e la ragione diventa delirio. Questo è genio. Talvolta (ma è un lampo, per un attimo, davvero appena un lampo) la ragione chiude gli occhi sfinita, e vien fuori don Mariano Arena de "Il giorno della civetta", abietto persecutore della povera gente e mandante di dieci assassinii, il quale spiega all'ebete capitano Bellodi la classificazione degli esseri viventi: uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quacquaracquà. E il capitano Bellodi pensa: don Mariano Arena è un uomo! (Da “Alien Sciascia”, I Siciiani, maggio 1983)
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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura
Con: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Gaetano Alessi, Lorenzo Baldo, Antonella Beccaria, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Giorgio Bongiovanni, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio D'Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Alessio Di Florio, Tito Gandini, Rosa Maria Di Natale, Francesco Feola, Norma Ferrara, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Valeria Grimaldi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Massimiliano Nicosia, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Mattia Maestri, Michela Mancini, Sara Manisera, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Loris Mazzetti, Francesco Moiraghi, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Riccardo Orioles, Maurizio Parisi, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Antonio Roccuzzo, Alessandro Romeo, Vincenzo Rosa, Roberto Rossi, Luca Rossomando, Francesco Ruta, Giorgio Ruta, Daniela Sammito, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Adriana Varriale, Fabio Vita, Salvo Vitale, Chiara Zappalà, Andrea Zolea Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Revisione testi: Sabina Longhitano ignazia@mail.com Web editing: Salvo Ognibene salvatoreognibene@hotmail.it Ebook editing: Carmelo Catania carmelo.catania@gmail.com Coordinamento: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles riccardo@isiciliani.it Progetto grafico di Luca Salici
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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.
Lo spirito di un giornale "Un giornalismo fatto di veritĂ impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalitĂ , accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo". Giuseppe Fava
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Chi sostiene i Siciliani
Ai lettori
1984
Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani
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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani
Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.
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