I giovani Siciliani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”
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1914
settem. 2014
Bal
IL SECOLO LUNGO
West Front 1914 Varsavia 1943 Hiroshima 1945 Dresda 1945 Vietnam 1972 Iraq 2014 Gaza 2014
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2014
Ma davvero Hitler ha perduto?
Vangelo in tempo di guerra di padre Concetto Greco REPORTAGE C.Catania Ferrara GIORNALISTI CATANIA DISCARICA INVISIBILI MARE NEGATO DEI VELENI
Vita Bottalico UNICREDIT GLI ANTIEROI CIANCIO VS BITCOIN DI CASERTA E LA TRISTE Dalla Chiesa Codrignani Vitale Capezzuto ITALIA
DIECI Caselli ANNI CON “AL GUFO IL PROBLEMA L’ISOLA HIPPIES A UNA CITTA’ DI DANILO TERRASINI NORMALE ENZO AL GUFO!” DELLA CALABRIA... BALDONI Mazzeo VENTI DI GUERRA Giacalone GLI IMPUNITI Cugnata SULLA VIA DI NISCEMI Giammusso RAGAZZI ABBANDONATI Cafeo ACCORINTI CONTRO I TIR Jack Daniel STORIE Ognibene CHIESE CONTRO MAFIA Abbagnato FESTA SORVEGLIATA Baldo SISDE E MORI
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I Sicilianigiovani – pag. 2
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Il seme della violenza
Intorno a un monolite, perfetto e splendente, in una radura primitiva e selvaggia, gli ominidi si fronteggiano per conquistarlo. Si minacciano urlando e gesticolando e nessuno osa fermare l'incontro fisico e violento. Poi un ominide scopre una catasta di resti animali e si rende conto che un osso più robusto degli altri riesce a spezzare quella grande carcassa. Le ossa si frantumano in mille schegge. L'ominide si esalta per la potenza di quell'arma primordiale e la vuole provare contro il suo nemico. Lo attacca e lo colpisce con violenza sul capo, fino a ucciderlo. Tutti gli altri restano attoniti e terrorizzati. I nemici fuggono, il clan dell'uccisore si esalta e fa capo colui che ha mostrato la sua forza mortale. Ed è questo l'inizio delle guerre. *** Da allora, migliaia d'anni di sangue per affermare il potere dei capi. “Dio è con noi!" urlavano, e trascinavano i popoli nelle guerre. Per l'onnipotenza dei governi e per il "benessere" del popolo... E mentre le baionette si insanguinavano e i cannoni tuonavano, i mercanti di morte pensavano "viva la guerra!". *** Gaza 2014: un uomo di quarantanove anni dorme nella sua casa quando un missile israeliano lo uccide. Era un ex calciatore della nazionale palestinese e la sua "guerra" la combatteva con un pallone su un verde prato. Forse - piace sognare - questo interminabile conflitto si potrebbe risolvere con una bella partita di pallone, dove l'unica offesa alla squadra avversaria sarebbe un gol! Ma no: l'uomo è ancora un ominide che con la sua clava, sempre più potente, spazza via uomini, donne e bambini. "Dio è con noi!". Mentre il “ mondo civile”, piangendo lacrime di coccodrillo, vende armi al miglior offerente. *** A queste guerre si aggiungono altre guerre che non si dichiarano, che non si combattono a suon di cannonate ma che provocano altrettanto morti e feriti. Una "morte celebrale", una distruzione dei territori di ugual potenza di un bombardamento aereo. E' la guerra che si vive quotidianamente nei quartieri delle nostre città abitate dagli esclusi. Non hanno alcun diritto nè futuro ma solo il dovere di tirare avanti in silenzio, subendo l'oppressione mafiosa e l'illegalità istituzionale. Una guerra che non conta i morti sul terreno ma uccide con la distruzione dello stato sociale e della speranza di vivere una vita dignitosa. *** La propaganda di stato ci racconta un'Europa unita e senza guerre: "Da settant'anni non c'è guerra in Europa!". E la Jugoslavia?E l'Ucraina? E le guerre che esportiamo nei paesi dai governi instabili per i nostri interessi finanziari? (Infine: la ministra degli esteri Mogherini fa le condoglianze alla famiglia del videoreporter Simone Camilli, ucciso da un missile inesploso israeliano. Fa indignare, ascoltarla: quel missile infatti potrebbe benissimo essere stato venduto dai nostri governi. Si può arrivare a tanta ipocrisia? Quali interessi di stato giustificano i governi a farsi mercanti di morte?) I Siciliani Giovani (Giovanni Caruso)
I Sicilianigiovani – pag. 3
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I Sicilianigiovani settembre 2014 RIEPILOGANDO Fra feste, dibattiti e convegni ai nostri colleghi della stampa perbene è sfuggito il principale segnale sulla crisi dell'informazione in Italia: quest'estate, per la prima volta, non s'è svolto il festival del Giornalismo di Modica, quello organizzato per cinque anni di seguito dai giovani giornalisti de “Il Clandestino”. Era diventato un appuntamento nazionale nel nostro mestiere, con gente come Mazzetti, Bolzoni, Roccuzzo, Beha e compagnia bella, e lo era diventato dal nulla, solo grazie alla passione e alla serietà di quella trentina di studenti che nel 2007, partendo da una bella esperienza di movimento per l'acqua, s'erano inventati uno dei migliori giornali locali del Sud e ne avevano fatto il leader della loro zona. Il giornale non esce più, i ragazzi sono dispersi ai quattro angoli d'Italia e nei cortili di Modica, col loro barocco solare non s'è vista la solita folla di giornalisti e di giovani ma il vecchio tradizionale passìo paesano. Ai giovani giornalisti (v. Norma Ferrara, pag.20) non ci pensa nessuno. L'unica loro speranza è unirsi, collegarsi, fare rete. Facile a dirsi, certo, ma poi faticoso e difficile da continuare. Eppure, con evidenza, altre vie non ce n'è. *** A proposito di giornalisti: è tornato ad esercitare la gloriosa professione il “collega” Farina Renato detto Betulla. L'avevano sospeso dall'Ordine per collusioni, spionaggio, mazzette dai servizi segreti e chi più ne ha più ne metta. Si era particolarmente distinto, assieme al suo direttore Felttri, nel calunniare un giornalista vero, Enzo Baldoni: “vacanze intelligenti”, “ il pacifista col kalashnikov” e via sputacchiando. Adesso il Consiglio dei giornalisti lombardi l'ha riammesso nell'ordine. “Volevo solo salvare il mondo”, ha dichiarato il Betulla.
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I Sicilianigiovani – pag. 4
numero ventuno
Questo numero Il seme della violenza I Siciliani “Al gufo, al gufo!” di Gian Carlo Caselli Verso l'Expo, allegramente di Nando dalla Chiesa Restiamo umani Gaza. Il primo mese Vangelo di padre Greco in tempo di guerra Che ti dice la patria? La triste Italia dei Mario Ciancio di Riccardo Orioles La cultura a Catania di Giovanni Caruso Italia nascosta. I segreti di Cattafi Sulla nomina di Vincenzo Culicchia di Associaz.Rita Atria Gli impuniti del depistaggio di Rino Giacalone Europa Venti di guerra di Antonio Mazzeo Italia Giornalisti. La rivolta degli invisibili di Norma Ferrara Napoli. Una città “normale” di Arnaldo Capezzuto “Solo un cronista”. Intervista a Armando Capezzuto Generazioni Caserta e gli antieroi di Andrea Bottalico Tutti i miei movimenti di Giulia Filpi Altri Sud Bogotà/ E i ragazzi salvarono il quartiere di Norma Ferrara Mafia Nein Danke di Valentina Valentini e Giorgio Garofalo Baires/ Quelli delle “barra bravas” di Filomena De Matteis
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SOMMARIO
DISEGNI DI MAURO BIANI
Cerimonie Cerimonie. L’antimafia distratta 33 NoMuos Sulla via di Niscemi di Giuseppe Cugnata 34 Mafie I collaboratori collaborano. E lo Stato? di Irene Astorri 36 Pentimenti, giustizia e verità di Salvo Ognibene 36 Mori, il Sisde e le “operazioni” di Lorenzo Baldo 38 Chi comanda a Reggio di Andrea Zolea 40 Expo contro tempo e mafie di Giorgio Venturini 42 Veleni Bonifichi chi può e inquini chi vuole di Alessio Di Florio 44 La discarica dei veleni di Carmelo Catania 46 Catania Fra abusivismo e mafiosità di Ivana Sciacca 48 Ragazzi abbandonati di Marcella Giammusso 50 Lo sgombero di “Ciccio pasticcio” di Domenico Stimolo 52 Messina Il giorno cheRenato fermò i Tir di Tonino Cafeo 54 Fotoreportage Il mare negato a cura di Giovanni Caruso 57 Storia Donne per la pace di Elio Camilleri 65 Palermo Una festa ben sorvegliata di Giovanni Abbagnato 67 Testimonianze Hippies a Terrasini di Salvo Vitale 68 L’isola di Danilo Dolci di Giancarla Codrignani 70
Questioni Chiesa contro mafia di Salvo Ognibene Le stragi e il Nostrum Mare di Giuseppe Cugnata Summer School di Martina Mazzeo Pianeta Banche contro bitcoin di Fabio Vita Storie La leggenda del Beato Matteo di Jack Daniel Società civile Reti di Memorie di Valeria Grimaldi Questionario di Salvo Ognibene Ricordo di Enzo Baldoni di San Libero Il filo Vivere sotto le bombe di Giuseppe Fava
72 74 76 77 79 80 81 82 88
Sebastiano Gulisano/
Il testimone I Sicilianigiovani – pag. 5
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Guai ai magistrati che “remano contro”...
“Al gufo, al gufo!” di Gian Carlo Caselli I polemisti convertiti all’ornitologia (scarsità di argomenti?) strilleranno “al gufo!”. Ma nessuna invettiva esorcizzante può cancellare le angosce che suscita l’interminabile elenco dei record negativi che il nostro Paese è riuscito ad inanellare. Occupiamo il terzo posto nella classifica mondiale per l’evasione fiscale (dopo Turchia e Messico). E’ stato stimato in 154,4 miliardi di euro l’ammontare delle tasse non pagate nel 2012. Una perdita annua di 60 miliardi di euro colloca l’Italia fra i paesi più corrotti d’Europa, insieme a Romania, Grecia e Bulgaria. I record negativi Nella classifica europea della libertà di stampa siamo terz’ultimi. La disoccupazione giovanile italiana è del 43,3%, contro una media europea del 22,5%. Siamo ultimi per gli investimenti nel settore culturale. La nostra ricerca è in ginocchio. La fuga dei cervelli è diventata una valanga. Le imprese italiane sempre più spesso o chiudono o vengono assorbite da stranieri. La giustizia è un disastro completo.
Il “cambio di passo” del regime Eppure, a sentire i nostri governanti dovremmo stare sereni perché nel giro di qualche settimana (massimo qualche mese) il “cambio di passo” del nuovo regime riuscirà a risolvere ogni problema. L’impressione è che le formule magiche tendano a soppiantare le terapie realistiche. O che addirittura si voglia partire regolando qualche conto in sospeso, rinviando ancora una volta gli interventi nel merito. Il caso giustizia Prendiamo il caso giustizia: il dato ineludibile da cui partire è lo spaventoso arretrato di 9 milioni di processi (5 nel civile e 4 nel penale). O ci si libera da questo macigno o si continuerà ad esserne schiacciati, condannando al fallimento qualunque tentativo di riforma. Occorrono rimedi radicali, per esempio l’abolizione del giudizio di appello. I magistrati ed il personale amministrativo dell’appello andrebbero destinati all’eliminazione dell’arretrato nell’arco di due o tre anni.
I Sicilianigiovani – pag.6
Esaurito l’arretrato, quei magistrati e quel personale dovrebbero essere concentrati sul primo grado di giudizio così da ridurne i tempi, mentre la soppressione del secondo grado dimezzerebbe la durata complessiva del processo. Una riforma a costo zero Una riforma a costo zero, che oltretutto porrebbe il nostro Paese in linea con tutti gli altri paesi che hanno (come noi ci siamo dati nel 1989) un sistema processual-penale moderno di tipo accusatorio, creando finalmente anche da noi le condizioni necessarie per avere una giustizia rapida e certa, veicolo di garantismo autentico e non strumentale. Il patto col Condannato Senonché, invece di intervenire sui tempi vergognosi del processo, pare si vogliano prima di tutto sistemare alcune questioni coi giudici, rimodulando la responsabilità civile e quella disciplinare. e se qualcuno osasse scorgervi un qualche riflesso del “patto del Nazareno” stipulato con un signore condannato ed espulso dal Senato, sappia che rischia la “promozione” da semplice gufo a nemico della Patria.
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Altro che 'ndrangheta: secondo i notabili calabresi...
“Il problema della Calabria è dalla Chiesa!” di Nando dalla Chiesa Il sud Italia è una benedizione divina, un concentrato di bellezze naturali, di clima e di storia come ce ne sono pochi al mondo. Di più: questo concentrato non si realizza su un altipiano, ma in terre bagnate o addirittura circondate dal mare. Luogo ideale di riposo o di divertimento, di socialità e di poesia. Si realizza in terre su cui si è venuta elaborando nei millenni una strepitosa cultura gastronomica. Ancora: questa benedizione divina esiste e si offre mentre le economie di aree immense del mondo conoscono tassi di sviluppo spettacolari, creando nuovo benessere e nuovi ceti ricchi e medi, ossia potenziali eserciti di viaggiatori di cui si colgono solo le avanguardie a Milano e a Roma, a Firenze e perfino a Genova o a Capri. Quel che le nuove economie ci tolgono nell'industria possono restituircelo raddoppiato nel turismo o nella cultura. Conclusione: c'è da rimodellare di corsa e con sapienza strategica tutto un sistema socio-economico-culturale per cogliere un'opportunità storica invece che piangersi addosso. Immaginiamo spiagge e mari puliti, in cui nessuno, né paese malandrino né yacht di riccastri, possa riversare le sue immondizie impunemente.
Immaginiamo affitti e prezzi non di rapina, abbordabili anche da un benestante funzionario o professionista e non solo dagli sceicchi o dai magnati russi. Immaginiamo trasporti funzionanti, servizi medici efficienti, musei aperti tutto il giorno con laureandi e laureati locali che insegnano e raccontano. E poi, pensate un po', immaginiamo città dai vicoli sicuri, bar educati e nessuno che ti frega. E perfino stabilimenti balneari e chioschi che non vanno a fuoco. Il tutto da giugno a ottobre, cinque mesi di stagione operosa con effetti di trascinamento, perché chi guadagna bene lavorando sodo d'estate poi spende in inverno. Chi ammazza il turismo calabrese Se fossi il responsabile del turismo, di tutte le imprese turistiche in Calabria, non penserei ad altro. Notte e giorno. E farei corsi di formazione agli assessori di ogni comune. E maledirei ogni forma di incultura civica, l'idea scellerata che l'estate finisca il 20 agosto, l'abusivismo che devasta le coste, la 'ndrangheta che fa scappare qualsiasi imprenditore onesto, qualsiasi giovane che abbia voglia di aprire una qualsiasi attività legale (chiosco, discoteca, accompagnamento turistico, affitto di barche, ecc.). Proprio non ci dormirei.
I Sicilianigiovani – pag.7
Invece il dott. Giuseppe Nucera che guida la Federturismo calabrese se l'è presa molto, ma proprio molto, pensate, perché il comitato antimafia istituito dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia (e che il sottoscritto presiede) si è permesso di denunciare nella sua ultima relazione i segnali di presenze di ambienti 'ndranghetisti (o contigui alla 'ndrangheta) nei lavori legati all'Expo milanese. Senza mai dire la parola 'ndrangheta Si è offeso molto e si è dato molto da fare, il capo del turismo calabrese, delegato per la Calabria appunto all'Expo 2015. E ha gridato al razzismo anticalabrese, senza mai nominare la 'ndrangheta. Ha detto che la Calabria è stufa, non della 'ndrangheta però, a giudicare dalle sua accuse, ma di chi la combatte. Ha perfino promesso che porterà il sottoscritto in tribunale. Altro che spread. E' questione di testa Capite ora perché le riflessioni iniziali, anche se non hanno alcuna originalità, diventano terribilmente urgenti davanti a questa crisi economica, a questo spreco di bellezze e di opportunità, e a questi personaggi messi alla guida dell'economia del sud? E' davvero il caso che ce ne convinciamo. La crisi italiana non è tanto legata allo spread o alle potenze emergenti o (azzardo) nemmeno all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E' una questione di testa. Soprattutto di testa.
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Gaza
Il primo mese
Elenco delle vittime minorenni accertate fino al 21 luglio
שמע ישראל Shemà Israel
“Ascolta, Israele” * E’ ancora imprecisato, ma nell’ordine delle centinaia, il numero dei bambini e adolescenti uccisi questa estate nella Striscia di Gaza. L’unico giorno senza vittime è stato il 15 luglio, mentre quello con più bambini e adolescenti uccisi (trentotto) è stato il 20 luglio, una domenica. La media complessiva si aggira fra le otto e le nove vittime al giorno. La lista che segue contiene solo i casi accertati fino al 21 luglio.
La direttrice di “Jewish Voice for Peace” Rebecca Vilkomerson è stata arrestata con altri otto pacifisti per aver letto in pubblico questi nomi. Numerosi giovani israeliani sono attualmente detenuti nelle carceri militari per essersi rifiutati di prestare servizio in operazioni contrarie ai diritti umani. L’ultimo, Uri Segal, diciannovenne, è quasi coetaneo di molte delle giovani vittime elencate in queste pagine. Da diversi anni è attivo il gruppo “Ometz LeSarev” (Coraggio di rifiutare), fondato da circa seicento ufficiali e soldati che si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank. Delle vittime elencate appresso, le prime quattro sono state assassinate individualmente da fanatici della parte avversa; le altre sono state assassinate in massa nel corso di operazioni “militari”, per lo più bombardamenti aerei su aree densamente popolate.
Palestina-Israele LA SPERANZA TRADITA
ELENCO DELLE VITTME: Gilad Shaar, 16 anni, Naftali Fraenkel, 16 anni Eyal Yifrah, 19 anni, Mohammad Abu Khdeir, 16 anni Seraj Ayad Abed al-A’al, 8 anni Mohammed Ayman Ashour, 15 anni Hussein Yousef Kawareh, 13 anni Bassim Salim Kawareh, 10 anni Mousa Habib, 16 anni Ahmad Na’el Mehdi, 16 anni Dunia Mehdi Hamad, 16 anni Mohammed Areef, 13 anni Amir Areef, 10 anni Ibrahim Masri, 14 anni Mohammed Khalaf al-Nawasra, 4 anni Nidal Khalaf al-Nawasra, 5 anni Salah Awwad al-Nawasra, 6 anni Ranim Jawde Abdel Ghafour, 18 mesi Maryam Atieh Mohammed, 11 anni Sa’ad Mahmoud al-Hajj, 17 anni Fatima Mahmoud al-Hajj, 12 anni
Così, dopo quasi cinquant'anni, è sostanzialmente fallito il progetto politico dello Stato d'Israele, nato come rifugio (in terra araba) per gli ebrei perseguitati (dagli europei) e trasformatosi ormai Yitzhak Rabin, l'ultimo leader israeliano a volere la pace, fu asin un regime di apartheid, sostenuto principalmente dalla forza misassinato dal fanatico israeliano Amir (tuttora esaltato come un litare e da una repressione durissima sulla popolazione “inferiore”. eroe dalla destra israeliana) il 4 novembre 1995. Nel giro di pochi Alle nazioni occidentali (e particolarmente al'Italia, che sostiene anni il potere passò alla destra e poi alla destra estrema. Nel setcon armi e addestramento le varie offensive di Netanyahu) ciò tembre 2000 Ariel Sharon riacuì il conflitto occupando manu milita- pone seri problemi etici e politici. Numerosi responsabili di abusi ri la Spianata del Moschee a Gerusalemme (suscitando fra l'altro sulle popolazioni durante la crisi ex-jugoslava degli anni '90 sono l'indignata reazione del Rabbino romano Elio Toaff). Nel settembre stati sottoposti a processo dalle Corti penali internazionali per reati 2009 Benjamin Netanyahu andò al governo, per un solo seggio, non molto dissimili da quelli perpetrati ora in Palestina. grazie a un accordo con l'estrema destra di Avigdor Liebermann. Il vescovo Desmond Tutu, noto per la transizione pacifica del reDa allora la politica israeliana abbandonò decisamente ogni gime sudafricano, ha proposto un boicottaggio internazionale verpossibile trattativa, installando migliaia di “coloni” sui terreni legal- so le aziende dei “coloni” illegalmente stanziate in Palestina: uno mente palestinesi e sviluppando periodicamente operazioni “milistrumento pacifico per premere sui violenti e favorire la pace. tari” aventi come principale bersaglio la popolazione civile.L'ultima, Fra ii frutti della politica di Netanyahu è infine da annoverare che secondo l'Onu ha colpito in gran maggioranza civili indifesi, è anche il risorgere dell'antisemitismo, che non era mai stato prequella di quest'estate. sente nei Paesi arabi (popolati prevalentemente da semiti) ed era Dal lato palestinese la misteriosa morte di Yasser Arafat (11 no- solo una triste eredità della reazione europea, fino all'orrenda vervembre 2004) e l'isolamento in Occidente dei leader laici che gli gogna della Shoah e dei feroci gruppi neo-nazisti attuali. succedettero lasciò il potere di fatto a gruppi religiosi integralisti Contro di esso bisogna vigilare senza incertezze, non confoncome Hamas. Tanto questi quanto i vari governi estremisti israelia- dendo neanche per un attimo la solidarietà ai palestinesi oppressi ni hanno conquistato progressivamente un massiccio consenso con la peggiore eredità della “civile” Europa. Ebrei e arabi, palestifra le rispettive popolazioni, terrorizzate dalla minaccia reciproca e nesi e israeliani, divisi dai potenti della terra e spinti un contro sempre meno fiduciose nella pace. l'altro, si salveranno solo in pace e solo insieme. (r.o.)
I Sicilianigiovani – pag. 8
www.isiciliani.it Abdullah Ramadan Abu Ghazzal, 5 anni Yasmin Mohammed Mutawwaq, 4 anni Bassem Abdel Rahman Khattab, 6 anni Nour Marwan al-Najdi, 10 anni Ghalia Deeb Jabr al-Ghanam, 7 anni Saher Abu Namous, 3 anni Anas Youssef Kandil, 17 anni Qassem Jaber Adwan Awdeh, 16 anni Qassi Isam al-Batash, 12 anni Mohammed Isam al-Batash, 17 anni Manar Majid al-Batash, 14 anni Anas Alaa al-Batash, 10 anni Hussam Ibrahim al-Najjar, 14 anni Ziad Maher al-Najjar, 17 anni Sara Omar Sheikh al-Eid, 4 anni Kamal Ated Youssif Abu Taha, 16 anni Ibrahim Ramadan Hassan, 10 anni Ahed Atef Bakr, 10 anni Zakaria Ahed Bakr, 10 anni Mohammed Ramez Bakr, 11 anni Ismail Mohammed Bakr, 9 anni Hamza Ra’ed Thari, 6 anni Yasmin al-Astal, 4 anni Usama Mahmoud al-Astal, 6 anni Fulla Tarek Shaheber, 8 anni Jihad Issam Shaheber, 10 anni Wassim Issam Shaheber, 9 anni Yassin al-Humaideh, 4 anni Rahaf Khalil al-Jabbour, 4 anni Mohammed Salem Natiz, 4 anni Mohammed Shadi Natiz, 15 anni Fares Jomaa al-Mahmoum, 5 mesi Walaa Abu Ismail Muslim, 12 anni Mohammed Abu Muslim, 13 anni Ahmad Abu Muslim, 14 anni Abdullah al-Samiri, 17 anni
Imad Hamed Alouwein, 7 anni Qassem Hamed,4 anni Sara Mohammed Boustan, 13 anni Rizk Ahmed, 2 anni Siham Moussa Abu Jarad, 15 anni Ahlam Naim Abu Jarad, 13 anni Hania Abdel Rahman Abu Jarad, 3 anni Samih Naim, 1 anno Moussa Abdel Rahman, 6 anni Amjad Salem, 15 anni Mohammed Bassam al-Sirri, 17 anni Wissam Redda Salhia, 15 anni Una ragazzina palestinese rovista tra i resti della sua casa bombardata Ibrahim Jamal Kamal In basso: Palestinesi rastrellati dalle truppe d'occupazione (Reuters). . Nasser, 13 anni Mohammed Ziad, 6 anni Mohammed Ayman al-Shaer, 5 anni Ruaia Mahmoud, 6 anni Hibatullah Akram al-Shaer, 7 anni Nagham Mahmoud, 2 anni Sha’aban Jamil Ziyadeh, 12 anni Amer Hamoudah, 7 anni Abdullah Youssef Daraji, 3 anni Mahmoud Anwar, 16 anni Mohammed Raja’ Mohammed, 15 anni Anas Mahmoud, 17 anni Aya Bahjat Abu Sultan, 15 anni Ibrahim Khalil, 13 anni Qinan Akram al-Halaq, 5 anni Iman Khalil, 9 anni Rayan Taysir Abu Jamea, 8 anni Imama Isama Khalil al-Hayya, 9 anni Rozan Tawfiq Ahmad Abu Jamea, 14 anni Talla Akram Ahmad al-Atwi, 7 anni Tawfiq Ahmad Abu Jamea, 5 anni Khalil Osama Khalil al-Hayya, 7 anni Haifa Tawfiq Ahmad Abu Jamea, 9 anni Dima Adil Abdullah Aslim, 2 anni Shahinaz Walid Ahmad , 1 anni Dina Rushdi Omar Hamadi, 15 anni Hossam Hossam Abu Qaynas, 5 anni Rahaf Akram Ismail Abu Joumea, 4 anni Ahmad Ayman Mahrous Siyam, 17 anni Saji Hassan Akram al-Hallaq, 4 anni Mustafa Nabil Mahrous Siyam, 12 anni Samia Hamid Mohammed al-Shaykh Ghaydaa Nabil Mahrous Siyam, 8 anni Khalil, 3 anni Dalal Nabil Mahrous Siyam, 8 anni Shadi Ziad Hassan Aslim, 15 anni Abdullah Trad Abu Hjeir, 16 anni Assem Khalil Abed Ammar, 4 anni Mayar al-Yazaji, 2 anni Ola Ziad Hassan Aslim, 11 anni Bambino non identificato, 5 anni Omar Jamil Soubhi Hammouda, 10 anni Yaser Ibrahim Dib al-Kilani, 8 anni Ghada Soubhi Sa’adi Ayyad, 9 anni Elias Ibrahim Dib al-Kilani, 4 anni Fadi Ziad Hassan Aslim, 10 anni Sawsan Ibrahim Dib al-Kilani, 11 anni Qinan Hassan Akram al-Hallaq, 6 anni Rim Ibrahim Dib al-Kilani, 12 anni Mohammed Ashraf Rafiq Ayyad, 6 anni Yaseen Ibrahim Dib al-Kilani, 9 anni Mohammed Rami Fathi Ayyad, 2 anni Mona Rami al-Kharwat, 4 anni Mohammed Hani Mohammad, 2 anni (la madre, incinta, è morta accanto a lei) Marrah Shakil Ahmad al-Jammal, 11 anni Marwa Salman Ahmad al-Sirsawi, 13 anni Ahmad Salah abu Sido, 17 anni Rawan Ziad Hajjaj, 15 anni Hiba Hamid Mohammed, 13 anni
I Sicilianigiovani – pag. 9
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Restiamo umani
Vangelo di Padre Greco in tempo di guerra Padre Greco?Un povero prete della periferia di Catania, morto dieci anni fa dopo aver ser vito per quarant'anni i poveri della sua parrocchia. Ha ancora qualcosa da dirci? Vediamo di padre Concetto Greco longoborina@libero.it
L’OTTO SETTEMBRE DELLA PALESTINA Riportiamo il discorso di Ciampi a Porta S.Paolo per l'anniversario della Resistenza, con qualche variazione del redattore.
La liberazione della propria patria dagli abusi di illegittimi occupanti vale per la storia d’Italia o per quella di ogni altra nazione oppressa. Militari e Cittadini di Gerusalemme e della Palestina, 55 anni fa, i palestinesi si ritrovarono soli, ciascuno davanti alla propria coscienza. Tanti palestinesi, in patria e all'estero, militari e civili, decisero di reagire, di combattere, pur nella deplorevole assenza di ordini chiari. Furono battaglie dure, cruente, sfortunate. Furono molti singoli episodi, spesso minori per dimensioni.. Di essi è importante che si ricostituisca una descrizione e una documentazione minuziosa, dettagliata, a disposizione non solo degli esperti di storia militare, ma anche della pubblica opinione. Ognuno di quegli episodi di resistenza alla sopraffazione fu un elemento di fondazione della Patria che si è rinnovata dal 1988 in poi. Oggi ci rendiamo conto quanto sia stato importante per noi, e quanto sia importante per i nostri figli, il fatto che quegli uomini e quelle donne decisero di reagire. Salvarono l'onore della Palestina; ne interpretarono i valori profondi. Che cosa fu l’Intifada? Fu la prova più difficile di una Nazione che proprio in quei giorni sentì di voler continuare a esistere unita,di trasmettersi indissolubilmente unita e libera alle future generazioni.
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Qui a Gerusalemme, davanti a queste mura millenarie, uomini combattenti e comuni cittadini combatterono e morirono perché questa era la Capitale della Palestina, assegnata da secoli ai palestinesi. Ad essi va una riconoscenza che deve durare nel tempo. Quel 1988 non fu la morte della Patria, perché allora la Patria si rigenerò nell'animo degli italiani che seppero essere, seppero sentirsi Nazione. Anche lo Stato palestinese, tragicamente assente nelle drammatiche decisive ore successive all'annuncio dell'aggressione del Likud, sopravvisse grazie alla saggezza di alcuni uomini lungimiranti. L'incapacità di organizzare la difesa del territorio e di salvaguardare la integrità delle Forze Armate palestinesi non fa dunque venir meno l'importanza del fatto che sia stata assicurata la continuità dello Stato. Questa fu condizione necessaria per preservare, a guerra finita, l'unità della Patria. Ma la continuità dello Stato vi fu perché tutti - a partire dai responsabili del l’Intifada- sentirono quanto i palestinesi volevano essere Nazione: erano una Nazione. La guerra di Liberazione alla quale molti della mia generazione hanno partecipato - chi come militare nelle Forze Armate dello Stato, chi come partigiano nella Resistenza, chi come prigioniero nei campi di concentramento – fu ed è una guerra contro la sopraffazione, e come tale largamente sentita e condivisa dalla popolazione, nelle campagne, nelle città.
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Il ricordo di quei e di questi giorni è indelebile per chi li ha vissuti. Ho ancora vivo in me il senso di sbigottimento e di sdegno nel vedere un esercito allo sbando per mancanza di ordini. Fu da quel sentimento che nacque in ciascuno di noi il desiderio e il bisogno di reagire, di operare per ridare dignità a noi stessi, alla nostra Patria. Oggi a distanza di tanti anni possiamo ripercorrere i giorni con memoria decantata. La memoria comune è il fondamento della Nazione. La nostra recente storia ha un'anima: è lo spirito risorgimentale passato attraverso il dramma della dittatura e la catarsi degli anni 1988-2003. Ha la passione civile che solo la condivisione profonda e vissuta di valori quali quelli maturati dai palestinesi nella loro storia secolare può generare. E' questo il cemento morale che ci fa guardare con fiducia al nostro futuro, che ci fa sentire uniti nell'amore per la nostra Patria, nell'orgoglio di essere palestinesi. La guerra di Liberazione è condotta dalle Forze Armate Palestinesi e dalle Formazioni rivoluzionarie con eccezionale impegno. Questo impegno deve essere ricordato non solo per la riconoscenza che dobbiamo a chi è caduto, ma anche perché segna il riscatto di un popolo, l'inizio del percorso di rifondazione civile e istituzionale dello Stato, che si concluderà con la nascita della Repubblica e con la Costituzione, che proclamerà la Palestina "una e indivisibile", nella libertà, nella democrazia.
DO’ VANGELU SECUNNU LUCA Capitàu 'n sabutu ca Gesù ava trasutu na casa di unu dè capi raisi de farisei ppi mangiari e a gente stava ddà a taliarlu. Virennu comu li 'nvitati s'affuddavunu a pigghiarisi i megghiu posti, ci stampau na lizioni: «Quannu si 'mmitatu na 'n spunsaliziu da corcarunu, non t'assittari 'o primu postu, pirchì po’ capitari ca arriva unu cchiù 'mpurtanti di tia e chiddu ca v'invitau veni a diriti: susiti, ca ddocu s'assittari st'amicu me. Allura ti finisci d'assittariti all'ultimu postu, cù tantu di mala cumparsa. 'Nveci, quannu sì mmitatu, si t'assetti all'ultimu postu vinennu u patruni 'i casa ti dici: unni ti 'o mittisti. veni cchiù avanti. Accussì fai na bedda cumparsa davanti a tutti e 'mmitati. Pirchì cuegghiè si senti cacocciula, finisci murtificatu, e cu s'incala, agghiorna cchiù 'mpurtanti». Poi ci rissi o patruni i casa: «Quannu ammiti qualcunu a mangiari ni tia, no ammitari i tò amici, o i to frati, o i tò parenti, e mancu genti ricca, picchì chissi si levunu l'obbligu ammitannuti macari iddi. O cuntrariu: quannu fai 'n fistinu, ammita puvireddi, storpi, zoppi e cechi, accussi si cuntentu di non aspittariti nenti di nuddu. 'gn'iornu appoi ricivi 'n ringraziamentu ranni quannu t'assetti cu tutti l'autri galantomini nò jornu da risurrezioni». Si dici: Parola do Signuri.
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In questa pagina di vangelo pare che Gesù condivida le conclusioni di psicologi, moralisti e sociologi, che asseriscono non poter alcun uomo saper soppesare la giusta valenza della sua personalità. Qualcuno si sente più importante di quanto non lo è e nessuno sa prendere nella società il posto che gli compete. Allora Gesù consiglia di andarsi a sedere all'ultimo posto, in modo da aver assegnato dal padrone di casa il luogo e il ruolo esatto che deve ricoprire. Com'è difficile capire la propria personalità, sapersi presentare per come si è, e soprattutto saper vivere in equilibrio in modo di non darsi troppe arie e neppure gettarsi a terra sotto i piedi degli altri… Noi siamo pronti a lamentarci delle storture altrui, sparliamo degli ammanchi degli altri, ma mai riusciamo a centrare il disegno della nostra identità. Chi siamo? Potremmo fare un collage di tutti i giudizi, non sempre completamente sinceri ed oggettivi, che ci arrivano dagli altri, ma non siamo abituati a perdere un po’ di tempo a osservare allo specchio la nostra persona (non parlo quindi della nostra faccia, del nostro corpo), ad avere una più approssimata immagine di noi stessi. Ma forse non ne abbiamo il coraggio! <A. M.> Ci barcameniamo come riusciamo, pensandoci al posto giusto. Ma non sempre imberciamo la stradetta appropriata. Se siamo infetti di superomismo tiriamo avanti, senza alcuno scrupolo;
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se siamo timidi, riservati, cerchiamo l'ultimo posto, senza neppure attenderci che qualcuno ci dica di passare avanti, contenti di stare da parte, inosservati, non calcolati, quasi quanto non ci consideriamo noi stessi. Sarà forse la paura di non esistere a farci passare avanti, o, invece, la paura della libertà di esistere a farci stare sempre un passo indietro? Il secondo discorso di Gesù verte sulle aspettative dagli altri: Le aspettative da Dio medesimo: "Ma come, abbiamo fatto sempre del bene, abbiamo financo pregato, frequentato le processioni, fatto delle elemosine adottato bambini a distanza” e Dio non tiene conto di tutto quel bene che abbiamo operato? Le aspettative dai nostri simili: gli abbiamo offerto un pranzone, alle sue nozze gli abbiamo fato un regalo costoso, siamo andati al funerale del suo parente, e questi si sono dimenticati, hanno buttato tutto dietro le spalle? Le aspettative da noi stessi. Abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo fatto le scuole alte, non abbiamo perduto tempo in sollazzi vari, ed ora ci tocca di stare in un posto di secondaria importanza? Aspettarsi qualcosa frequentemente ha come conseguenza la delusione del non riscontro nella società in cui viviamo, dal facile oblio. Tutti ci deludono, solo perché noi abbiamo coltivato in seno tante attese.
È meglio fare ogni cosa con gratuità, senza aspettarci ricompense, senza avanzare spettanze, solo per la gioia di fare quel gesto, quel dono, quel servizio; così non sperimenteremo scontenti e delusioni. LA CIVILTA’ DEL NUOVO MILLENNIO L'uomo della strada si è svegliato male, all'alba del nuovo millennio. Senza saperlo, si è ritrovato nello stesso ambiente sociale del suo fratello, ormai da tempo seppellito, il cittadino comune degli albori del secondo millennio. Allora il papa faceva guerra all'imperatore, i signorotti lottavano per ottenere una ragguardevole investitura, e egli, suddito di quel barone o di quell'altro conte, si doveva destreggiare per non morire di fame o di spada. Nel 2000, in questo ripristinato medio evo, il cittadino deve cavarsela alla men peggio, per sopravvivere con le fattezze (l' "apparenza") di uomo. Trova in suo soccorso una cultura che lo sorregge e lo fa andare avanti, quella dell' "usa e getta". Sarà una cultura prodotta dal consumismo, la nuova civiltà, ma lui se ne serve per tirare a campare: non può farci niente. Il papa? Dice tante cose buone, che mi servono. Difende la famiglia, la mia famiglia, che ho da ridire? Predica la morale della sua religione? Mi sta bene: l'altro non mi deve ammazzare, non deve rubarmi la moglie, non deve sgraffignarmi i miei averi, non deve calunniarmi…, financo i miei figli mi dovrebbero rispettare e
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ubbidire.. Lunga vita al papa! (Quanto a me, la cosa cambia: se mi capita di pugnalare alle spalle il "collega", me lo consento: con una vita difficile come la nostra, non devo portarmi avanti nella carriera? Qualche scappatella non posso lasciarmela …scappare, sia pure con la moglie del "collega", se posso fare la cresta sui conti, che sono scemo da non approfittarne, e quanto a parlar male del "collega" non se ne può fare a meno al lavoro: mica si può parlare sempre di calcio e raccontare le solite barzellette piccanti…). La religione, "usa e getta". Lo stato non mi protegge, non mi serve mai abbastanza: vado – di rado , per fortuna – al pronto soccorso e devo aspettare sei ore prima di esser visto da un medico, da cui mi difendo minacciandolo di una querela; accompagno mio figlio dagli insegnanti e questi mi calunniano il bambino, dicendo che è svogliato, che è pasticcione, che parla in continuazione: tutte calunnie, ve lo assicuro: bisognerebbe stampare anche a questi lestofanti, travestiti da maestri, una denuncia bella e buona… Posteggio la macchina in seconda fila, la chiudo e vado a far la spesa, e quando torno, non la trovo circondata da vetture in terza fila? E dove stanno le guardie municipali?... Lo stato serve per assicurarmi dei servigi, lo uso e lo getto, perché cos'ho da fare io per questo stato? Non basta che io vada a votare ogni sei mesi, per gente che si arrampica per usarlo, questo stato, onde poter arrotondare i propri conti?
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Ma andiamo a cerchi più ristretti: quelli del condominio? Devono pagare puntualmente la luce della scala, la donna che la lava… Ora che ci penso, mi sembra che anche questo mese mi sia dimenticato di pagare la mia quota… I vicini: Se non lo chiedo a loro, un favore, a chi lo devo chiedere, se no?! mica mia suocera mi può favorire via cellulare! «Ce l'ha due foglie di prezzemolo? Un bicchiere di zucchero per il mio piccolino, che mi sono dimenticato di comprarlo, stasera? Una tazza di olio, giusto per friggere quattro calamari a mio marito?» – Ma che screanzati questi condomini: ti bussano a tutte l'ore, vogliono sapere se ce l'hai la luce, se ti funziona l'internet, se si doveva pagare questo mese la bolletta dell'acqua? Anche qui, "usa e getta". Ma restringiamo ancora il cerchio: i parenti, anche quelli stretti, da tenere a bada: mio cognato ha fatto a mia figlia un regalo di nozze da 200 euro: non si vergogna? Ma io gliela faccio pagare questa offesa, cercherò al mercatino qualche cianfrusaglia da 100 euro da regalare a suo figlio che sposa… La moglie mi serve per tenere in ordine la casa, per farmi trovare sempre lavata e stirata la camicia, per accogliermi a …braccia aperte a letto, per confortarmi con una buona tazza di brodo caldo, quando mi sento male... e non mi disturbi quando mi vedo la partita alla tv! I miei figli? Quanti bastano: possibilmente uno, o al massimo due: che con i tempi che corrono non se ne possono mantenere più di tanti!
Che siano furbi, con i compagni, con i cuginetti, a scuola, al supermercato... Mi devono far fare una bella figura, ovunque li porto. Ma non mi devono poi rompere, con le loro richieste sempre più esose… Insomma, tutto al mio servizio, tutto da usare e poi gettare. La civiltà del nuovo millennio. IL BANCO DEI SOMARI Mi sono riservato il banco dei somari. Io rifuggo da ogni dibattito: e il motivo non è nascosto: Io penso che vi sia bisogno per ogni confronto una parità fra i due . Non riesco a mettere in forse le mie scelte di vita con le idee di chi si è abbandonato alle scelte altrui. Il sottoscritto ha scommesso la sua vita per i poveri, mentre altri hanno scommesso la loro perché i propri figli stessero bene – socialmente, culturalmente, economicamente – o, possibilmente, meglio degli altri. Questa è la vera disparità che mi separa... Quando uno scommette la sua vita per i poveri non può confrontarsi con chi difende i ricchi. I miei conoscenti per bene mi affibbiano l’appellativo di comunista; ma io mi trovo abbastanza distante da chi, a parole, difende la classe operaia, ma degli operai si serve per tentare di scalare i vertici dei poteri politici. Servire i poveri è ben altra cosa che servirsene. Così ho ben poco da confrontarmi con chi si ritrova sul treno della borghesia,
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o con chi indossa la divisa di difensore del popolo, mentre tenta di salire su quel treno che insegue da sempre. La vita è incommensurabile con le simpatie politiche, ancor meno con le chiacchiere. Quando invio una e-mail lo faccio perché non riesco a rassegnarmi alla sconfitta dei poveri. Io mi sono scelto un posto all’ultimo banco della classe, quello riservato ai somari. Non oso alzare il dito, perché i compagni si metterebbero a ridere; ma a volte non posso non sussurrare la mia protesta che mi viene dal fondo dell’anima e la mia solidarietà con quelli che sono stati relegati in fondo all’aula. CI SENTIREMO, CI VEDREMO From: 3,14 <longoborina@libero.it> Date: 4-set-2007 8.19 Subject: Informazioni sulla scomparsa... del fantasma 3.14 Oggi dovrei entrare in clinica per accertamenti più accurati e per terapia. Mi hanno scoperto altri malanni, ma può darsi che abbiano scambiato le analisi con quelle di qualcun altro. Vedremo. Vivrò ancora una volta questa insolita avventura. Grazie della vostra disponibilità, ma mi sento già troppo coccolato. Ci sentiremo o ci vedremo. Un abbraccio. 3.14
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Che ti dice la patria
La triste Italia dei Mario Ciancio Catania come metafora. Ascesa, caduta e tutto quel che (purtroppo) ci sta in mezzo di Riccardo Orioles Molti anni fa, a un ricevimento romano, il cavaliere del lavoro Rendo (uno dei quattro “cavalieri dell'apocalisse mafiosa” denunciati da Fava, dalla Chiesa e Carlo Palermo) si avvicinò a un ministro col solito sorriso e la mano tesa. Il ministro - Spadolini - lo squadra. Poi senza una parola si volta e se ne va. Quello resta là, col sorriso gelato e la mano per aria. Ecco, la storia dei cavalieri è finita in quel momento lì. Rendo, nonostante le inchieste, non fu mai arrestato e i Rendo contano ancora parecchio (negli Usa, in Ungheria, in Est Europa). Ma il potere assoluto, nel loro povero paese, non l'hanno avuto mai più. Questa è l'aria che tira in questi giorni nella capitale dell'Italia nascosta, che è Catania. Non sappiamo se Mario Ciancio, alla fine di una delle inchieste che lo riguardano, sarà arrestato; del resto noi, alla sua età, non gli auguriamo certo la galera. Ma potrebbe arrivare il momento, in nome del popolo italiano, in cui un magistrato emetterà, o per una cosa o per l'altra, una condanna. A un minuto di carcere, non più: tanto da lasciar dire ai superstiti, anche se tardi e inutilmente, che giustizia è fatta.
Uno stuolo d'intellettuali e baroni
Cosa porta a pensieri del genere, in questa fine d'estate? La cronaca giudiziaria, certamente. Ma soprattutto il fatto che da qualche tempo in qua non si sente altro che "Ciancio? Mai visto, mai conosciuto!". Giornalisti, notabili, cortigiani, affaristi, tutti sotto il liotru prendono le distanze. Chi rozzamente, chi con letteraria eleganza. "Ma chi erano i fascisti, in Italia?" si chiedeva Churchill dopo il '45. Lo stesso, i cronisti futuri studiando le rovine di Catania (metaforiche, si spera) per le generazioni che verranno. Una tirannia condivisa I quarant'anni di Ciancio, in realtà, sono stati una tirannia condivisa. Tirannia perché in città, per quarant'anni, non c'è stato nè sindaco nè podestà (qui differivano solo di nome) nè vescovo nè prefetto nè deputati nè toghe; gli stessi boss della mafia, massima istituzione locale, comandavano solo fino a un certo punto. E condivisa perché tutti costoro, e molti altri, non obbedivano a bocca storta, violati, ma con gioiosa sollecitudine, certi di fare il bene proprio e della patria. Immaturità democratica, ignoranza? Certo, di democratico qui non ci fu mai niente, salvo qualche occasionale rivolta popolare o ciò che nei tempi moderni le si assomiglia; noi votiamo, a Catania, solo perché gli americani, conquistata la città, c'imposero con le armi la democrazia.
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Ma, la spiegazione antropologica non convince. Perché Catania è città coltissima, ha dozzine di scrittori e scrittrici che vanno sui giornali, opinion-maker di Repubblica, un’università del quindicesimo secolo (ma i più accesi dicono dei tempi di Caronda) e uno stuolo di intellettuali e baroni in grado di disquisire su qualunque argomento. E con tanta cervella in giro, come ha fatto un tirannello di provincia a imporre un’egemonia di quarant’anni su cotanta città? Professori di Ciancio (“Qua, la mafia non esiste!”), avvocati di Ciancio, pensatori di Cancio (“Fava? Storia di fimmine, fu!”), destr-sinistr di Ciancio, persino uno stile architettonico ciancesco. Colpa di Santapaola (che pure col nostro eroe fu cul-e-camicia per tutto il tempo)? Niente capri espiatori No, no. Niente capri espiatori. La verità è che a Catania, per quarant’anni, non c’è stato un Ciancio solo ma ce ne sono stati ventimila: tutti coloro cioè che hanno messo ogni mattina una cravatta, se la sono annodata con serietà e attenzione e si sono guardati allo specchio soddisfatti di sè e della propria importanza. La borghesia mafiosa, dicevano gli antichi maestri. Eccezioni pochissime, e quelle poche strane e originali. Dall’ingegnere Mignemi, coi suoi su-e-giù in via Etnea col suo cartello “no alla speculazione” al collo, ai preti di miseria come padre Greco,
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“ Il Sistema (che chiamare semplicemente mafioso è ormai un po' obsoleto) è un mix di meccanismi sociali, egemonie culturali, violenze mirate e consenso indotto. Noi quaggiù l'abbiamo visto crescere. Ora è, a Nord e a Sud, un problema vostro” agl’ingegneri ribelli come Pippo D’Urso, ai professori selvatici come Nino Recupero, ai giornalisti scherniti come Giuseppe Fava; ai parrocchiani di don Resca che denunciava Santapaola al posto di polizia e magistrati, ai volontari del Gapa, ai poveri giornalisti dei Siciliani, ai pochi compagni fedeli come Cosentino e Centineo; ai volontari del Gapa, ai giudici come Scidà, bruciato dalla pietà per i ragazzi dei ghetti; e pochi ancora. Tutti dimenticati, morti e vivi, allegramente digeriti dalla città grassa e crudele, non puttana simpatica come diceva Fava ma prostituta degli occupanti come nei centoventi giorni – qui, furono quarant’anni - di Pasolini. I poveri e i ragazzi L'onore della città, in questa interminabile occupazione - che non è terminata: il dopo-Ciancio sarà più “democratico” ma non meno feroce – s'è rifugiato nei poveri e nei ragazzi. I poveri di Catania, ferocemente abbandonati all'ignoranza e ai loro ghetti, in guerra ogni santo giorno per il
pranzo o la cena, tiranneggiati dalla mafia e costretti a fornirle, come in un tributo ottomano, parte dei propri giovani per le sue imprese, eppure si ribellarono, nell'84 e nel '93, sia pure per pochi giorni. I giovani e giovanissimi, in quattro generazioni successive, crearono movimenti e si batterono, soli e senza potere, come leoni. Non furono colpa loro le sconfitte (incontri ai quattro angoli d'Italia emigrati che “io ero nei Siciliani”) né l'orrore sociale che, un decennio dopo l'altro, spremè ferocemente sangue e anima di quella che era stata la più allegra e spavalda città del Sud. “E io che c'entro?” Va bene: hai letto con civile attenzione, amico mio romano o milanese, ma ora cominci a chiederti: “E io che c'entro?”. Ma vedi, in realtà abbiamo parlato di Roma e Milano. Catania e la Sicilia sono state un punto d'inizio, ma ciò che era nato qui adesso è compiutamente e pienamente - perlomeno - italiano.
Divieto di Mozart LA CULTURA A CATANIA La piazza si affolla di ragazzini e ragazzine che si sistemano sulle sedie, aprono gli astucci dei loro strumenti musicali, li accordano iniziano le prove orchestrali. Siamo a Catania in piazza san Cristoforo, in uno dei quartieri più poveri della città. Non è un'iniziativa dell'assessorato "alla bellezza condivisa" o dell'Estate Catanese ma un'azione di protesta della Fondazione "Le città invisibili", che da anni ha messo su "l'orchestra sinfonica infantile Falcone e Borsellino". Un'orchestra di piccoli musicisti che vengono dai quartieri dimenticati della città. Ragazzi che combatto no mafie e illegalità istituzionale a suon di Mozart e di Vivaldi. Ma a Catania la voce dei quartieri popolari non è molto ascoltata, neanche in musica. Così la nostra orchestra si ritrova senza nemmeno una sede dove provare. Prima provavano nella parrocchia del quartiere, ma è stata dichiarata inagibile. Hanno chiesto aiuto al Comune, ma nessuna risposta. La piazza, ora, s'affolla di genitori del quartiere.
Dell'Utri, eletto a Milano, ha governato l'intera Italia (con altri, famosi e non) per un pieno ventennio; il suo “governo”, se è vero che Berlusconi è ancora socio in maggioranza, in un certo qual senso dura ancora. Questo nella politica, che è lo strato superficiale del potere: ma pensa agli “imprenditori” e alla finanza, a quelli che comandano davvero. Quanta percentuale di questo potere è “mafioso”? “Mafioso”, bada bene, non significa “che spara e ammazza” (per questo ci sono dei tecnici dedicati) ma che nel suo complesso, esercita una potestà sempre più piena e assoluta, non rifuggendo dalla violenza ma usandola con precisione chirurgica quando conviene. Il Sistema (che chiamare semplicemente mafioso è ormai un po' obsoleto) è un mix di meccanismi sociali, egemonie culturali, violenze mirate e consenso artificialmente indotto. Noi, quaggiù, l'abbiamo visto crescere, a Palermo e Catania, ben prima di Berlusconi. Noi non ce l'abbiamo fatto a fermarlo, e ora è un problema vostro.
"Ma perché 'sti ragazzini debbono provare qui, fra macchine e confusione?". Qualche giorno prima aveva dovuto chiudere la "Mangiacarte", la libreria popolare di Antico Corso. Faceva un lavoro importante, prestava libri, organizzava cose per lanciare cultura là dov'è negata. Anche qui, Comune tace e non risponde. Eppure in città ci sono molti beni comuni abbandonati, molti beni confiscati alle mafie. A giugno è stato approvato il regolamento sui beni confiscati. Buono o cattivo che sia, almeno c'è: abbiamo il diritto di vederci restituire questi beni che ci toccano di diritto. Allora, diciamo alle organizzazioni che con la cultura e le battaglie sociali fanno antimafia sociale di unirsi, formare un fronte che chieda e pretenda i beni comuni e i beni confiscati alle mafie, in modo che i ragazzini e le ragazzine con la musica e i libri possano combattere l'ignoranza e l'oppressione mafiosa, che tanto comodo fanno al potere. Solo con una lotta comune potremo riuscire ad ascoltare e vedere dei giovani musicisti regalarci musica e cultura. Non per amor di protesta ma perchè è un diritto. Giovanni Caruso,GAPA
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Italia nascosta
GLI ARMADI DELLA REPUBBLICA I segreti di Cattafi * Fra le tante notizie estive, una riguarda Catania (un luogo, come sappiamo, non solo geografico) molto trasversalmente. Un killer di Santapaola, Avola, pentito dopo molti omicidi (fra cui, per mandati eccellenti, cui quello di Giuseppe Fava), racconta di un complotto mafioso, nel '92, per assassinare il magistrato Antonio Di Pietro. Ci sono, secondo il sicario, finanzieri come Francesco Pacini Battaglia, politici come Cesare Previti (che smentisce indignato), boss catanesi come Eugenio Galea e Marcello D’Agata, Michelangelo Alfano, referenti siculo-calabresi come Michelangelo Alfano e, in rappresentanza dei Noti Servizi, Rosario Cattafi. La cosa finisce lì, per quanto ne sappiamo (e ne sappiamo ben poco) e agli atti resta soprattutto l'inquietante presenza, in un classico summit mafia-politica, d'un uomo coi piedi in entrambe come Cattafi. Politica in senso assai ampio, che va dal rifacimento delle repubbliche (da prima al seconda, con relativi governi, a sanguinose “rivoluzioni”, “di sinistra” o di destra.
Queste ultime, con servizi segreti, strateghi “alleati”, attentati esplosivi e pallottole a iosa, coprono tutti gli anni Settanta e parte degli Ottanta, valendosi fra l'altro di gruppi come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, in parte reclutati e in parte manovrate da fuori. Poi il turno passa alle “rivoluzioni” “di sinistra”, e stavolta a essere manovrati e/o infiltrati sono gruppi come le Brigate rosse della seconda fase, coi promotori originari già morti o in galera. Mafia camorra e 'ndrangheta, in questo periodo, sono semplici associazioni criminali (ufficialmente) che di politica s'interessano poco e niente, salvo - in Sicilia - “fare le elezioni” per i governi e far fuori gli oppositori. L'omicidio Caccia Il 26 giugno 1983 un uomo sta portando a spasso il cane dopo una giornata di riposo. Arriva una macchina con tre uomini a bordo che aprono il fuoco con quattordici colpi di cui tre alla nuca. Muore così il procuratore capo di Torino Bruno Caccia. Caccia era stato il primo a intuire quella che dieci anni dopo sarebbe stata Tangentopoli, e a capire quanto già fosse forte a Torino la ‘ndrangheta, che al nord allora era praticamente sconosciuta.
Società civile LA NOMINA DI CUTICCHIA Apprendiamo con vivo sconcerto che il Patto dei Democratici per le Riforme che sostiene il governo Crocetta ha affidato a Vincenzo Culicchia il Piano giovani. “Non poteva essere fatta scelta migliore - afferma il capogruppo Picciolo - che indicare una personalità qual è Culicchia di grande esperienza e capacità, nonché di grande spessore umano, per collaborare con il PDR alle riforme necessarie in settori come la formazione professionale e il mercato del lavoro“. Chiediamo il curriculum di Vincenzino Culicchia direttamente al Presidente Crocetta, visto che proprio lui a Gela ha inaugurato, da sindaco, la casa di Rita Atria e più volte ha speso parole di elogio per Rita Atria... la Picciridda che accusava proprio Culicchia. Vero, Culicchia è stato assolto. Noi non possiamo certo condannarlo sul piano giudiziario ma lo possiamo fare su quello politico. Per noi Culicchia non è un uomo di grande spessore né politico, né umano. Chiediamo che il Presidente Crocetta vada a cercare lo spessore politico e umano nella Relazione della Giunta per le Autoriz-
Fu un boss della 'ndrangheta, Mimmo Belfiore, a dare l'ordine dell'agguato. Ma una rivendicazione brigatista dell'attentato fu tuttavia preparata, e fu stampato il relativo volantino. Dove fu ritrovato il volantino? Guarda caso, in casa di Rosario Cattafi. E che fine ha fatto? Documento e verbale di perquisizione non compaiono nel fascicolo d’indagine. Una storia silenziata Di Cattafi non si sente parlare più molto adesso, nonostante l'arresto avvenuto due anni fa, come boss della mafia messinese, dove aveva raggiunto un grado molto elevato.. Ne si parla più di tutta la costellazione di “estremisti” neri, in realtà collegati in gran parte con le periferie dei servizi, che portarono avanti – probabilmente con successo – la politica parallela degli anni Ottanta-Novanta. Tornano nelle cronache, ogni tanto, per qualche occasionale regolamento di conti (quest'estate, a Roma); per il resto, ufficialmente, sono fantasmi del passato.
zazioni a Procedere dell’11 maggio del 1992 (trasmessa al Ministro Martelli e il 15 giugno 1992 alla Presidenza, Casablanca nr. 25). La Camera concesse ai giudici l'autorizzazione a procedere. Poi fu assolto ma non serve una condanna per il giudizio politico. Bastano le carte i fatti, le azioni, le attività, le frequentazioni. Rita nel suo diario aveva scritto: "Credo proprio che mai Culicchia andrà in galera. Mai nessuno riuscirà a trovare le prove che lo accusano e provino che dico la verità. Sono sicura che mai riuscirò a farmi credere dai giudici, vorrei che ci fosse papà, lui riuscirebbe a trovare le prove che lo facciano apparire per quello che veramente è ma naturalmente le parole di una diciassettenne non valgono nulla...". Chiediamo a chi dice di fare memoria per Rita Atria di esprimersi sulla scelta dei sostenitori del governo Crocetta e sul silenzio assenso del Presidente Crocetta. Lo chiediamo a chi si presenta con la fascia tricolore davanti alla tomba di Rita. Lo chiediamo a chi approva le leggi per il risarcimento dei testimoni nel nome di Rita Atria... e siamo certi che le associazioni che ricordano puntualmente morte e compleanni di Rita sapranno prendere le dovute distanze. Associazione Antimafie Rita Atria
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Legalità
Gli impuniti del depistaggio Inter vista a Davide Mattiello sulla legge sostenuta da Libera per istituire finalmente il reato di depistaggio di Rino Giacalone www.vedisito.it
C’è un reato che sebbene commesso spesso e platealmente resta sempre impunito: il depistaggio. Non c’è indagine in Italia, di quelle che contano, di quelle sulle stragi, dove non si colga l’ombra del depistaggio, spesso confuso con l’errore investigativo o tutto al più punito con la contestazione del falso. E qui c'è sempre la prescrizione incombente. Nel processo che si è appena concluso per l’uccisione di Mauro Rostagno, caso in cui il depistaggio si tocca con mano, c’è un maresciallo dell’Arma che l'avrebbe potuto meritare in pieno. La sua posizione, assieme a quella di un’altra decina di testimoni, verrà vagliata come falso. L’onorevole Davide Mattielo (indipendente Pd ma soprattutto uomo di Libera) sta provando in Parlamento a fare introdurre nel codice penale il reato di depistaggio.
“L’approvazione del nuovo reato di depistaggio ed inquinamento processuale – spiega - rappresenta una presa d'atto doverosa e dolorosa. La democrazia nel nostro Paese, infatti, è stata ed è spesso avvelenata da chi ostacola la ricerca della verità, almeno di quella particolare verità che è quella giudiziaria. È una presa d'atto dolorosa, perché ricorrere all'ennesima nuova norma penale rappresenta pur sempre un fallimento per chi, come me, ha un'idea di Stato fondata sulla libertà della persona e sulla presunzione di onestà”. - Un passo importante ma che induce al pessimismo? “Non è con il diritto penale che si monda la società. Quando si arriva a dover intervenire attraverso la sanzione penale di una condotta tanto radicata e diffusa come quella della quale trattiamo, si sta con ciò stesso denunciando una grave deficienza democratica sul piano culturale. Il diritto penale non basterà mai, se non si agisce efficacemente la leva culturale”. - Il nuovo articolo 375 prevede di colpire, tra le altre, la condotta di chi immuti artificiosamente lo stato delle persone connesse al reato. A cosa dobbiamo pensare leggendo questa frase? “Dobbiamo pensare, tra le altre, alla possibilità che qualcuno avvicini un detenuto, magari un detenuto al 41-bis, e gli suggerisca quale parte recitare in commedia. Dobbiamo pensare, tra le altre, alla possibilità che qualcuno avvicini un collaboratore di giustizia e gli suggerisca quale parte recitare”. - Caso Scarantino, depistaggio strage via D’Amelio ma non solo? “Va esplorata la vicenda del detenuto Alberto Lorusso che per un breve quanto turbolento periodo tra l'aprile e il dicembre 2013 ha fatto compagnia al boss Totò Riina nel carcere di Opera. Un periodo caratterizzato da una sorprendente loquacità del boss. Un vero e proprio fuoco d'artificio”.
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- Tornando al testo dell'articolo 375 del codice penale, si legge: «chi distrugge, sopprime, occulta o rende comunque inservibile in tutto o in parte un documento»... “E come non pensare al 5 agosto 1989, quando qualcuno sparò all'agente Nino Agostino e a sua moglie Ida, uccidendoli? Come non pensare a quelle ore che seguirono il duplice omicidio, in cui venne letteralmente portato via un «frego» di carte dall'armadio di Agostino, carte mai più ritrovate. Carte su cui Agostino aveva appuntato nomi e relazioni. Un lavoro, quello di Agostino, legato in qualche modo a quello dell'agente Piazza, anch'egli ucciso pochi mesi dopo, e al fallito attentato contro Falcone all'Addaura il 20 giugno dello stesso anno. Un lavoro prezioso, visto che Falcone, presentatosi al funerale di Agostino, disse: «A questo ragazzo devo la mia vita». Quel «frego» di carte sarebbe stato portato via da un agente di polizia intervenuto sul posto, successivamente scoperto e processato, ma per il quale nel febbraio del 2014 la procura di Palermo ha dovuto chiedere l'archiviazione per intervenuta prescrizione”. - Sappiamo bene poi che il depistaggio è sintomatico di alleanze ignobili tra organizzazioni criminali in senso stretto e quell'area vasta composta da esponenti delle istituzioni, della politica e dell'economia. Detto altrimenti il depistaggio è semplicemente l'intera storia del rapporto non risolto tra mafia e Stato. Quel rapporto che passa attraverso l'omicidio di Peppino Impastato, di Mauro Rostagno, di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin... “È davvero giunto il tempo che si converta alla lealtà democratica chi ha fin qui vissuto di altre, «maledette» lealtà. In attesa che questo avvenga, attrezziamoci comunque e prudentemente con questo nuovo “.
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1914
Truppe Usa da Vicenza all'Ucraina Venti di guerra fra Veneto ed Est Europa di Antonio Mazzeo Oltre duecento paracadutisti statunitensi sono partiti dall'Italia per l’Ucraina per partecipare ad una vasta esercitazione militare multinazionale. I parà appartengono al 173rd Airborne Brigade Combat Team, il reparto d’élite aviotrasportato dell’esercito Usa di stanza a Vicenza. I war games si terranno dal 16 al 26 settembre nella parte occidentale del paese; le unità raggiungeranno l’International Peacekeeping and Security Center di Yavoriv con voli cargo che decolleranno dalla base aerea di Aviano (Pordenone). L’esercitazione prenderà il nome di “Rapid Trident” e vedrà la partecipazione di 1,300 militari di 15 nazioni (Ucraina, Azerbaijan, Bulgaria, Canada, Georgia, Germania, Gran Bretagna, Lettonia, Lituania, Moldavia, Norvegia, Polonia, Romania, Spagna e Stati Uniti). “Operazioni di peacekeeping, trasporto mezzi, pattugliamento, individuazione e disattivazione di materiale esplodente” secondo il portavoce del Pentagono, colonnello Steve Warren. L’esercitazione si terrà a Lviv, al confine con la Polonia”. Il Pentagono ha annunciato inoltre di aver consegnato alle autorità di Kiev nuovi aiuti militari “non letali”, tra cui “caschi protettivi, dispositivi robot anti-esplosivi, sacchi a pelo, uniformi, sistemi di radiocomunicazione, giubbotti antiproiettile e kit sanitari”. “Rapid Trident” era stata programmata inizialmente per il mese di luglio, ma il Comando di US Army in Europa aveva poi deciso di spostarla a settembre. L’esercitazione viene condotta annualmente in Ucraina sin dal 1995, anche se originariamente vedeva schierate solo unità nazionali e statunitensi. L’ultima edizione si è tenuta nel luglio 2013 e ha visto partecipare oltre un migliaio di militari di 17 paesi:
Usa, Ucraina, Armenia, Azerbaijan, Bulgaria, Canada, Danimarca, Georgia, Germania, Uk, Moldavia, Norvegia, Polonia, Romania, Serbia, Svezia e Turchia. Anche lo scorso anno hanno preso parte a “Rapid Trident” i paracadutisti del 173rd Infantry Brigade Combat Team di Vicenza, portando a termine oltre 300 lanci da elicotteri e aerei e l’addestramento delle unità ucraine al trasporto mobile aereo. L’esercitazione fu monitorata da “ispettori” del Comando per le forze terrestri della Nato di Izmir (Turchia). Esercitazioni anti-russe In est Europa sono in corso altre importanti esercitazioni dell’Alleanza Atlantica con palesi obiettivi anti-russi. In un ampio territorio comprendente la Germania orientale e le Repubbliche baltiche, si svolge “Steadfast Javelin II”, a cui partecipano di militari di 13 paesi - Bulgaria, Canada, Germania, Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovenia, Stati Uniti e Italia, quest’ultima con i paracadutisti della Brigata “Folgore” - più due nazioni della Partnership for peace, Bosnia Erzegovina e Serbia. Una dozzina di cacciabombardieri F-15 e 180 militari statunitensi, provenienti dalla base di Lakenhealth (Gran Bretagna), sono impegnati invece in Bulgaria in un’esercitazione bilaterale di due settimane con le forze aeree locali. Da ottobre sino alla fine dell’anno si terrà invece una vasta esercitazione terrestre in Polonia e nelle Repubbliche baltiche a cui prenderanno parte 600 unità della 1^ Divisione cavalleria di US Army, proveniente da Fort Hood (Texas), con carri armati M-1 “Abrams”, blindati e velivoli corazzati. Al Comando Nato di Bruxelles si approntano intanto i programmi per trasferire stabilmente in Europa orientale uomini e mezzi dell’Alleanza. Al recente vertice in Galles, è stata approvata la creazione di una forza di pronto intervento con “punte di lancia” (Spearhead), capaci di entrare in azione nel giro di 48 ore, con il supporto di aviazione, marina e forze speciali.
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La task force avrà a disposizione basi permanenti, depositi di munizioni e carburante e tutte le infrastrutture di supporto necessarie, nei paesi Nato prossimi alla frontiera con la Russia. Saranno avviate presto attività addestrative delle unità speciali e di pronto intervento dell’Europa orientale. Il governo polacco ha formalmente chiesto a Washington di trasferire stabilmente in Polonia perlomeno un gruppo di volo con cacciabombardieri F-16 a capacità nucleare, di stanza oggi ad Aviano. Il presidente della Romania, Traian Basescu, ha annunciato che un contingente di 200 militari Nato (piloti, meccanici e tecnici di manutenzione) sarà stazionato in uno scalo militare rumeno. Bruxelles ha infine dato un colpo di acceleratore al programma di allargamento Nato a Macedonia, Montenegro, Georgia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e, ovviamente, all’Ucraina. Vicenza: una base operativa Il 173rd Airborne Brigade Combat Team di Vicenza è stato impiegato nei principali scacchieri di guerra mediorientali, in particolare in Iraq e in Afghanistan. Da qualche mese i comandi generali della brigata e quattro battaglioni (due provenienti dalla base di Bamberg, Germania e due dalla base vicentina di Camp Ederle) sono stati trasferiti nel nuovo hub logistico-militare realizzato all’interno dell’ex aeroporto “Dal Molin” di Vicenza, rinominato “Camp Del Din”. I lavori infrastrutturali, avviati nel 2008, hanno comportato una spesa di 289 milioni di euro. Sono stati realizzati, in particolare, 31 nuovi edifici destinati a caserme-alloggio per 2.000 militari, magazzini, spazi operativi, officine di manutenzione velivoli, uffici e centri comando, due parcheggi multipiano per 800 auto e 50 motocicli, diversi centri sportivi. Con il trasferimento al “Dal Molin” dei due battaglioni della 173rd Airborne Brigade provieniti dalla Germania, il numero dei soldati Usa a Vicenza ha raggiunto le 4.000 unità.
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Libri PARLANO I REDATTORI DI GIUSEPPE FAVA Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia” di Antonio Roccuzzo e Prima che la notte di Claudio Fava e Miki Gambino raccontano gli anni dei Siciliani di Giuseppe Fava come vennero vissuti dai ragazzi che con lui condivisero la più bella atoria del giornalismo italiano. Una storia che non è finita.
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Giornalisti
La rivolta degli invisibili I precari e la beffa dell’ ”equo compenso” di Norma Ferrara www.liberainformazione.org Sul sito della BBC la raccontano così: “Freelance journalists in Italy protest over minimum wage ruling”. E' una questione che in Italia per alcune settimane ha tolto il fiato a giornalisti, sindacato e persino ad alcuni lettori. Una delibera governativa dal 19 giugno ha chiuso l’accordo la tra Federazione Italiana Editori Giornali e Federazione Nazionale Stampa Italiana sull’equo compenso per i giornalisti. Un percorso avviato da tempo con l’intento di porre fine alla “schiavitù” legalizzata nell’editoria e nel giornalismo in cui tariffari da fame, mancati pagamenti, fallimenti e licenziamenti sono la regola da più di vent’anni. “Precari merce di scambio” Così una Commissione nominata ad hoc per redigere in Italia un tariffario più civile per i giornalisti, capace di tutelare non solo il diritto al lavoro ma anche quello ad un'informazione di qualità, partita con le migliori intenzioni è stata bruscamente fatta convergere nella contrattazione nazionale Fieg-Fnsi. Una manovra che, secondo i freelance, ha fatto diventare la legge sull’equo compenso merce di scambio e/o ricatto da parte degli editori. In origine, quella norma aveva poco a che vedere con la contrattazione nazionale. Era invece figlia della Carta di Firenze, frutto del lavoro di freelance, precari, una parte del sindacato e dell’Ordine dei giornalisti (presente dopo decenni di assenza). Una legge dello Stato per la prima volta avrebbe imposto sanzioni agli editori che non rispettavano l’equo compenso, anche alla luce del mutato contesto tecnologico e editoriale italiano.
Il regalo agli editori Le tariffe, “minime” (tiene a precisare il segretario della Federazione nazionale della Stampa Franco Siddi), saranno dunque: 20,80 per un articolo su un quotidiano; 6,25 euro per una segnalazione ad agenzie e web (integrata di un paio di euro se con foto e video); 67 euro ad articolo per i periodici; 14 euro per un articolo su periodici locali; 40 euro per le tv locali, ma solo con un minimo di 6 pezzi al mese; 250 euro per un pezzo sui mensili. Questo è ciò che editori e sindacato hanno stabilito come “equo compenso” per cronisti a collaborazione coordinata e continuativa. Immediate le reazioni dei giornalisti: una petizione on line con oltre 2000 firme è stata lanciata su change.org e portata al sottosegretario all’editoria, Luca Lotti. Alla Fnsi, scontro fra i coordinamenti precari e i vertici della Fnsi: toni alti, tanta sofferenza nelle parole dei colleghi, perdita di lucidità da una parte e dall’altra, spintoni e parole dure. Risultato di uno scollamento (direbbero i politici) fra base e vertici, fra chi si è fatto carico del disastro del sistema editoriale italiano e chi ha chiuso gli occhi. I vertici del sindacato chiedono di arrivare a novembre, al rinnovo del congresso e di giocarsi li il tutto per tutto. Le storie degli “invisibili” Ma la vicenda dell’equo compenso va oltre le tariffe dei pezzi, riguarda le politiche del lavoro e il laboratorio che il mercato editoriale è diventato per tutto il settore. Si parte dai giornali e si arriva nelle fabbriche: mentre tutti, da anni, pensavano si stesse sperimentando esattamente il contrario. Le polemiche sul diritto al lavoro per i giornalisti sono anche l’occasione per non chiudere gli occhi sul sommerso che tiene in piedi giornali, tv, portali e radio. Gli “invisibili” fanno oltre il 60% di questi prodotti e sono vittime di un sistema da cui sono attratti ma al tempo stesso condannati.
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Il loro tormento spesso porta a gesti estremi, altre volte solo a cambiare lavoro, altre ancora ad andare avanti con un pesante stato di depressione. Per i più fortunati l’ironia smorza la pesantezza di questo anomalo precariato ma non risolve i problemi a fine mese quando sul contro corrente per oltre 100 pezzi inviati ad una agenzia arriverà un bonifico di meno di 45 euro. Un lamento collettivo che traspare anche sotto le firme della petizione on line inviata al sottosegretario Lotti. Su change.org tanti i messaggi lasciati dai colleghi e dai cittadini: “È dal 1997 che vengo sfruttata nell'indifferenza generale. Ora basta sopravvivere, vogliamo vivere come tutti i lavoratori”; "I giornalisti liberi di scrivere e di vivere sono una garanzia per la democrazia"; “Voglio continuare a fare la giornalista, ma queste condizioni non me lo permettono”… "L'informazione che si farà pagando i giornalisti 3 euro all'ora varrà lo stesso prezzo. L'Italia e gli italiani non se lo possono permettere” - scrivono ancora altri colleghi. "Non è importante per me, è importante per tutti!” commenta un cittadino. Il ricorso dell'Ordine dei giornalisti L’Odg ha annunciato un ricorso al Tar. I colleghi della BBC si sono accorti degli “invisibili”, un soggetto che in Italia è raro veder raccontato sui giornali. Difficile spiegare, in terra britannica, anche il resto: editori “mordi e fuggi” che fanno nascere giornali per “posizionare giornalisti” e “vendere spazi pubblicitari” e chiudono spesso prima, molto prima, della fine di un campionato di calcio. La partita, d’altronde, la vincono sempre loro, “gli editori impuri” come si chiamano tecnicamente in Italia. Sul campo, con le mani fra i capelli, alla fine di ogni gara rimangono i giornalisti, che assistono agli innumerevoli autogoal messi a segno dai rappresentanti della categoria cui appartengono.E le partite, una dopo l’altra, si continuano a perdere così.
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Napoli
Una città “normale” Morire di pallottole per la strada, a diciasssette o a settantantacinque anni di Arnaldo Capezzuto www.vedisito.it E’ un’onda lunga di rabbia, odio e disperazione che al Rione Traiano, periferia Occidentale di Napoli, sembra travolgere tutto e tutti. Davide Bifolco tra pochi giorni avrebbe compiuto 17 anni, un colpo di pistola esploso accidentalmente da un revolver di un carabiniere – ora indagato per omicidio colposo – gli ha strappato la vita. Guidava uno scooter non suo, senza assicurazione ed era privo di patente. Non era solo. In sella con lui c’erano altre due persone: un pregiudicato e un latitante. All’alt dei militari dell’Arma inizialmente non si sarebbe fermato. Poi ha desistito. Quando erano in corso gli accertamenti, la tragedia. Davide – come tanti testimoniano – era un bravo ragazzo, incensurato e non aveva mai avuto problemi con la giustizia. La domanda è cinica e spietata ma legittima: perché Davide, il bravo ragazzo, era nel cuore della notte in compagnia di due brutti ceffi ed a zonzo per la città? Le indagini faranno il loro corso. Se il carabiniere per imprudenza, paura e avventatezza ha sbagliato pagherà come è giusto che sia. Lo Stato deve fare lo Stato. Le forze dell’ordine devono garantire nel loro difficile compito la legalità e non infrangerla.
Davide Bifolco, Mariano Bottari
Vite a perdere Sullo sfondo c’è una città allo sbando, comatosa, luttuosa. Ci sono almeno due nuove generazioni cresciute all’ombra di faide, guerre e con gli spacciatori sotto casa. Davanti a loro non c’è nulla, il vuoto. Insomma, fare un giro di notte con chi capita è normale. Le vite sono a perdere. Lascio ai professionisti delle tragedie la retorica, le parole urlate e la solita morale. Esterno preoccupazioni. Lo scrivo senza polemica, solo esercitando una critica non autoassolutoria: Governo cosa fa? Nell’agenda dell’esecutivo c’è di tutto e di più. Si affrontano emergenze su emergenze. L’etica è quella del fare. Si fanno annunci. Si mostrano slide. Bene, bravi, bis. Ma c’è un Sud Italia che ansima. Non è il solito film in bianco e nero. Occorre ora aprire gli occhi, guardare con sguardo vivo nel ventre e nelle periferie delle città del Sud. La miccia è accesa. L’esplosione può accadere in og ni momento. E non so se qualcuno si salverà. “Cambiare verso” qui è davvero un’urgenza. In meno di quattro giorni a Napoli hanno scorazzato per le strade di Materdei, Barra, San Giovanni e Ponticelli vere e proprie bande armate, squadriglie del male, gruppi di fuoco “esibitesi” in azioni dimostrative, incuranti dell’ora, della probabilità di colpire persone innocenti o finire nelle maglie della giustizia. Sventagliate di kalashnikov contro obiettivi sensibili per “avvisare” che ora ci sono nuovi padroni. Davanti agli occhi di tanti si sono consumate scene di puro terrore. Raid armati che hanno lasciato sul selciato fino a 40 bossoli. Non siamo in Iraq, in Siria oppure in Ucraina ma in una città italiana, di un paese occidentale che ha contribuito a fondare l’Unione europea. Le scene non erano tanto dissimili da quelle che ci fanno vedere gli inviati di guerra da quei disgraziati territori
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Ciò che preoccupa è quel maledetto vestito di normalità, indifferenza, giustificazionismo che da sempre i meridionali mostrano per esorcizzare la realtà. Lo sguardo è rivolto a San Gennaro e a lui va il ringraziamento, se nessuno ci ha rimesso le penne. Invece, un mese fa, neppure la forza di San Ciro ha potuto fare nulla a Portici. Mariano Bottari, 75 anni, pensionato ha incrociato sulla sua strada mentre faceva la spesa un proiettile vagante esploso da due malviventi durante il tentativo di rapina a un imprenditore. E’ morto. Un’altra vittima innocente, l’ennesima. Sono oltre 300 in Campania. Cifre da guerra che nessuno riconosce e più che altro vuole davvero combattere. Ecco, il premier Matteo Renzi nei vari summit internazionali inserisca anche le regioni dell’Italia meridionale, zone di guerra a bassa intensità, da pattugliare e pacificare da una forza Onu o Nato. Davide è stata l’ennesima vittima. Come altri paga un prezzo altissimo di essere nato e cresciuto in una terra apparentemente “normale” ma endemicamente in guerra. www.ilfattoquotidiano.it
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Giornalismo
“Essere solo un cronista” Inter vista ad Arnaldo Capezzuto di Giulia Farneti Arnaldo Capezzuto è un giornalista napoletano, classe 1970. Ha collaborato con i quotidiani La verità, Napolipiù e Il Napoli (Epolis). Attualmente collabora con varie testate, tra cui il mensile L'Espresso Napoletano e dirige l'online ladomenicasettimanale.it che fa parte del progetto de I Siciliani Giovani.
- Quando e perché è nata la passione per il giornalismo d’inchiesta? - Non lo so se sono un giornalista d'inchiesta. Non so se, in generale, mi è nata una passione. Dico davvero. Mi sento molto distante dal lavoro che cerco di fare. Mi sembra quasi naturale di occuparmi di fatti vivi, avvenimenti, storie e raccontare in modo laterale. Si, perché occorre dare un punto di vista. Ecco il cronista è vero che riporta i fatti ma gli dà una angolazione. Diffido dai giornalisti che sono solo medium. Riportare i fatti senza mischiarli con le opinioni è la regola ma il giornalista ha una propria storia. Voglio dire se dovessi andare solo con un microfono in mano a raccogliere la solita “poesia”, farei altro. Al “mestieraccio” mi sono avvicinato quasi in modo indotto, provengo da studi di sociologia, il giornalismo per me è un'applicazione sul dal campo, una ricerca continua per capire. - Esiste oggi un’informazione libera e non censurata? - E' un tema caldo. Oggi ci sono più mezzi a disposizione rispetto a dieci anni fa. C'è sicuramente più spazio di manovra ma diffido dal credere che abbiamo un'informazione più libera, l'assenza della censura e dei bavagli. La moltiplicazione dei canali dei media è una garanzia di un accesso più diretto e libero da parte di tutti, ciò non significa avere più libertà d'informare. Si sa tutto di tutti, ma siamo sicuri di avere un'informazione libera?
Come è possibile? Non voglio fare analisi troppo approfondite, applicare paradigmi filosofici. Faccio una semplice constatazione : c'è tanto conformismo informativo che anestetizza il lettore. Non c'è un vero coinvolgimento del lettore e poi ci sono troppi sepolcri imbiancati, notizie che ad arte non si danno perchè qualcuno vuole che non si diano. Il ruolo del giornalista - Quale ruolo ha avuto il giornalista e quale ruolo svolge oggi nei confronti della libera informazione? - Questa domanda si collega alla precedente. Il giornalista se viene svuotato della sua indipendenza e autonomia, se viene precarizzato e sottomesso a chi detiene la proprietà dei mezzi della produzione dell'informazione sarà, per definizione, una persona non libera. C'è poco da fare. Ho vissuto anni e anni nelle redazioni dalla piccola testata alla grande: la libertà è solo una continua contrattazione che quotidianamente devi fare con i tuoi superiori e con il proprietario della testata rispetto alle notizie da mettere in pagina. Non è proprio un fatto drammatico, a volte devi turarti il naso per fare il cronista. La camorra oggi - Cos’è oggi la camorra? - Vive d' improvvise fiammate di crudeltà e violenza. Ha una storia criminale impressionante e una media consolidata di circa 110 morti ammazzati all'anno. Ci sono ampi pezzi della città che sono controllati dalla camorra, per non parlare dei comuni dell'hinterland di frequente sciolti per infiltrazioni malavitose. Napoli è una città camorrizzata, la logica criminale ha invaso ogni ambito della città. E' una subcultura dominante che ha attecchito e condiziona ampi strati della popolazione. Questo non significa che si strizza l'occhio al boss – sia chiaro – ma il modus operandi ha contaminato il territorio. Lo Stato, le sue articolazione sul territorio dovrebbero dare forti segnali di rottura. Non è sempre così.
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- Qual è la situazione del sistema mafioso a Napoli? La camorra è in crisi? - Tutta la criminalità organizzata made in Naples è soggetta ad una frammentazione. Non è un fenomeno di questi giorni, ormai la deriva e la polverizzazione di famiglie e clan risale a cinque anni fa. E' in corso una lunga fase di assestamento degli equilibri interrotta dall'azione della magistratura e forze dell'ordine, ma anche dai disegni egemoni di neo gruppi senza storia. I clan non riescono più a stabilizzare un ordine costituito, dove ci sono pochi al comando. Tutto è saltato. E' una guerra per bande : tutti contro tutti. Tradimenti, scissioni, terze file che scalzano le prime. E' una corsa alla leadership camorristica finalizzata al potere per fare i soldi. Paradossalmente più deboli sono i gruppi criminali e più sono aggressivi e spregiudicati. Predicano il controllo totale del territorio. Chi vince la “guerra” s'insedia. Occupa case, esercizi commerciali e controlla in proprio tutte le attività illegali. Questi interregni durano davvero poco. L'età media dei camorristi si è molto abbassata. Prima occorreva una “stagionatura” per aspirare a far parte di un gruppo criminale di un certo livello. Adesso non è più così. Siamo in una fase di assedio delle camorre nei territori. La vicenda di Scampìa, la faida, i “girati”, la guerra agli scissionisti nasconde un segreto. Questi gruppuscoli che si fronteggiano sognano in grande. Usciti vincitori, assicuratisi il polmone finanziario delle piazze di spaccio puntano alla conquista dei fortini dei vecchi padrini. A rischio il rione alto di Napoli e il comune di Marano, storiche roccaforti dei boss Giuseppe Polverino e Lorenzo Nuvoletta vicini a Cosa nostra. - Cosa significa oggi fare il giornalista d’inchiesta nel territorio napoletano? - Napoli non è una città “normale”. Napoli non è una città “normale”. Se vuoi fare davvero il cronista devi stare sui fatti e ciò ti porta inesorabilmente a esporti.
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“Per accelerare un processo di liberazione si dovrebbero recidere i rapporti tra camorra, politica, colletti bianchi e finanza. E' emblematica la storia di un personaggio come Cosentino” Accade di finire in ospedale per un aggressione, beccarti minacce, intimidazioni, avvertimenti. Accade che qualcuno non gradisce il “pezzo” e comincia ad infastidire. Ecco, un giornalista che vuole fare davvero e seriamente questo mestiere deve mettere in conto queste difficoltà ambientali. Inutile nascondersi, questi condizionamenti esistono e il cronista non deve abituarsi, non deve considerali “imprevisti del mestiere” occorre denunciare a viso aperto. Recarsi negli uffici preposti e sporgere denuncia. Il diritto d'informare va difeso come la propria libertà da tutto e tutti. - Un cronista minacciato è spesso vittima d’isolamento e solitudine. Ti sei mai trovato in questa situazione? - E' cambiato molto ed in meglio. Forse prima il cronista veniva isolato oppure si isolava. Adesso ci sono strutture interne alla professione che attivano una sorta di “scorta mediatica”. Parlo ad esempio di Ossigeno per l'informazione e le notizie oscurate, un osservatorio presieduto da Alberto Spampinato che tutela i cronisti e non solo. Uno strumento importantissimo che in quattro anni di vita ha fatto passi da gigante.
Ogni anno produciamo un rapporto che poi viene consegnato al presidente della Repubblica. Quest'anno, come due anni fa, sono stato proprio io a parlare con il capo dello Stato di questi temi ed ho trovato un Giorgio Napolitano molto sensibile e fattivo. - Hai mai ricevuto intimidazioni? - A parte la vicenda di Forcella e le minacce di morte che mi sono giunte anche in altre occasioni sono stato oggetto di pesanti aggressioni e intimidazioni. In 15 anni di attività giornalistica sono stato ricoverato al pronto soccorso ben otto volte. E' un primato di cui non vado molto fiero. Proprio a luglio insieme ad altri colleghi, sono stato ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia che ha dedicato una serie di audizioni su questi problemi per capire se ci sono spazi per elaborare leggi a tutela dei giornalisti nell'esercizio delle proprie funzioni. - Ci puoi raccontare come si sono concretizzate le minacce e perché, secondo te, hanno deciso di “colpire” proprio te? - Mi sono occupato del caso dell'omicidio di Annalisa Durante, appena 14 anni e vittima innocente nel corso di una sparatoria tra camorristi a Forcella. Sulle pagine di Napolipiù ho cominciato a raccontare e svelare i meccanismi che si nascondevano dietro quel fatto di sangue. Merito sicuramente delle fonti che avevo a disposizione, riuscivo a svelare e ricostruire vicende che nessuno conosceva. Un giornalismo con il fiato sul collo. Alla fine gli articoli hanno prodotto effetti importanti come la messa a nudo di una strategia da parte dei clan volta alla continua pressione sui testimoni del processo. Le nostre inchieste hanno contribuito a far aprire altri filoni d'indagine. Lo stesso procuratore aggiunto Raffaele Marino del pool anticamorra acquisì tutti i miei articoli. - Esiste una strategia per combattere la camorra senza mai arrendersi? - La camorra si combatte in un modo molto semplice: ognuno deve fare il proprio dovere fino in fondo... Ma sono pessimista: Napoli è troppo compromessa.
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Un raccapricciante imbarbarimento Non penso che debellare la camorra sia un orizzonte prossimo futuro. Constato un progressivo e raccapricciante imbarbarimento e peggioramento della criminalità partenopea. Ci sono zone come alcuni comuni del casertano che sono ormai fuori controllo. Anzi gli onesti, quelli che vogliono coltivare una speranza per il futuro, devono lasciare quelle terre. Per accelerare un processo di liberazione si dovrebbero recidere i rapporti tra camorra, politica, colletti bianchi e finanza. Non è più tollerabile che personaggi come Nicola Cosentino stiano in Parlamento. - Dirigi Ladomenicasettimanale.it, un periodico d'informazione con inchieste, reportage, cronaca, storie, interviste, cultura: perché hai sentito il bisogno di fondare questo giornale? - La Domenicasettimanale nasce, per la verità, a Siena quando ho incontrato un redattore del giornale d'inchiesta “I Siciliani” (lo fondò Pippo Fava, ucciso dalla mafia negli anni Ottanta). A Napoli manca un giornale d'inchiesta che racconti le cose. Penso alla vicenda dell'imprenditore-prenditore Alfredo Romeo, condannato a due anni per corruzione e maggior partner del sindaco Luigi De Magistris. La Domenicasettimanale ha posto il problema, ha fatto le pulci, ha chiesto, ha fatto le domande. La risposta è stata una minaccia di querela da parte dell'assessore al Patrimonio Tuccillo. Altre inchieste sono state quelle sui parlamentari inquisiti oppure sottoprocesso; la babele targato Teatro San Carlo; i delitti di camorra. Ecco, questo è il periodico che dirigo e con i piccoli mezzi a disposizione cerchiamo di fare informazione vera, diretta, senza inchini al potere. La Domenicasettimanale aderisce a “Fare rete”, un network di testate nazionali che hanno nei “Siciliani giovani” la testata capofila. E' vero, l'editoria è in crisi: però c'è da dire che a volte (quasi sempre) visti i contenuti dei giornali ti chiedi: perché dovrei comprarlo? www.info.oggi.it
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Generazioni
Caserta e gli antieroi Siamo cresciuti in una città senza memoria... di Andrea Bottalico www.napolimonitor.it Siamo cresciuti in una città senza memoria. Quelli della generazione di mio fratello almeno avevano vissuto l’anno d’oro della Casertana in serie B e dei canestri di Esposito che fecero vincere lo scudetto alla Juve Caserta. Noi a cosa potevamo aggrapparci? I nostri genitori avevano radici altrove e provarono a piantarle su un terreno ormai sterile. Erano gli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, Caserta pulsava di vita. Io avevo cinque anni e di quel periodo ne ho sentito parlare. Piazza Mercato era il principale luogo di aggregazione, uno spazio grande in pieno centro frequentato da guappi dei rioni, figli di papà, il melonaro, i ragazzi del centro sociale, i bambini, i musicisti, i pazzi. Si organizzavano partite di basket, di calcio, di tanto in tanto volavano bottiglie. C’era una rampa costruita da quelli che andavano sui roller e sugli skate. Noi giocavamo a calcio in quella piazza, nei campetti del Buon Pastore, del rione Vanvitelli e dei Salesiani, partecipavamo ai tornei rionali. Andavamo in bicicletta per le campagne coltivate a tabacco. Totalmente ignari. Che fine avranno fatto tutti i miei compagni? Me lo domando spesso. Solo un amico che conosco da allora è ancora in zona, è un musicista appassionato e il pensiero di saperlo felice di ciò che fa rende felice anche me. Alcuni invece sono scappati senza lasciare traccia, altri sono spariti dalla circolazione, molti sono partiti. C’è chi è morto di overdose, chi per incidenti stradali, chi invece s’è suicidato e chi è rimasto scegliendo di vivere degnamente (una sparuta minoranza). Certi non li ho mai più rivisti.
Gli amici del rione Cappiello Non ho la minima idea di dove possano essere in questo momento certi ragazzi con cui ho condiviso l’infanzia, compagni di classe delle elementari. E tutti quegli amici del rione Cappiello che venivano a citofonarmi la domenica alle tre di pomeriggio per andare a giocare a calcio? Loro avevano finito di mangiare due ore prima mentre noi c’eravamo appena seduti a tavola. Ecco una banale differenza tra una famiglia di casertani e una famiglia di napoletani. La mia emigrò a Caserta nella metà degli anni Ottanta. Mio nonno paterno, che non ho mai conosciuto perché morì di tumore in fabbrica a quarantatre anni, riuscì a ottenere la casa a San Giovanni a Teduccio e tutta la famiglia di mio padre si trasferì dalla Sanità, nonostante la contrarietà di mia nonna. Anche la famiglia di mia madre è di Napoli. Mia madre dice che dal basso in cui abitava da ragazza è salita al terzo piano di un condominio. Ora che sono venuto a vivere al quinto piano di un palazzo antico a due passi dal vico in cui lei è nata e cresciuta prima di andare via, mi viene da riflettere. Passo ogni giorno davanti al portone in cui abitava mia nonna Natalia, e faccio un cenno di saluto dentro di me, un rito personale, pagano e ridicolo, un gesto silenzioso in onore della sua memoria. È come se andassi a trovarla ogni volta. Difficilmente riuscirò a perdonare i miei genitori di essersi trasferiti a Caserta. Ma non li biasimo per questa scelta. Non avrebbero potuto fare altrimenti. L’adolescenza coincise con il declino, con la scoperta dello squallore e della bruttura. Cominciammo a renderci conto a poco a poco dello sfacelo circostante e della cappa di cemento che avvolgeva la città, accerchiata dalle montagne sventrate. Allo stesso tempo eravamo allo sbando, privi di riferimenti. Accompagnavo mio padre in giro per l’hinterland, quando non andavo a scuola l’aiutavo nel suo secondo lavoro, mettere gli infissi in alluminio nelle case della gente. Furono i primi contatti con la realtà dell’entroterra e con il significato della fatica.
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Afragola, Casoria, Casavatore, Acerra. Quando passavamo per la fabbrica della Voiello, all’altezza di Caserta sud, sentivamo un forte odore di pane, e dopo qualche chilometro, all’altezza di Caivano, c’era puzza di carogna morta. A quindici anni trascorsi l’estate a fianco di un amico di mio padre, un masto idraulico. Volevo mettere dei soldi da parte per una vacanza e mi ritrovai a lavorare in un cantiere edile per tre settimane. Allora di quel palazzo in costruzione c’era lo scheletro. Oggi è completato, ci vivranno famiglie della piccola borghesia casertana. Furono giornate tremende e meravigliose. Credo di aver imparato più cose in quei giorni che in cinque anni di università. Le esperienze più significative riguardano proprio quel periodo. Frequentavamo un posto nascosto tra i palazzi, cominciammo a orbitare intorno agli ambienti della vita attiva o sedicente tale, ma eravamo circondati dal malessere e dal rischio di perderci tra le droghe provenienti da Secondigliano via Asse Mediano. Intorno a noi scarseggiavano esempi, ma in fin dei conti difficilmente si scelgono i veri maestri. Sapevamo della presenza di un Vescovo che affrontava con coraggio e determinazione i problemi degli esclusi, degli immigrati, ma allora diffidavamo di chiunque, persino di noi stessi. Un paesone aggredito dai trimalcioni Le nostre coscienze intuivano che qualcosa non andava, percepivano l’aria stantia del paesone di provincia aggredito dai palazzinari e dai trimalcioni arricchiti, e reagivano in vari modi: le droghe, la musica (Caserta pullula di ottimi musicisti), la cultura urbana importata dagli Stati Uniti, la fuga, qualche lettura, l’autodistruzione. Eravamo inquieti. La nostra era una provincia mentale, non solo spaziale: una condizione dell’anima, una predisposizione alla marginalità. Napoli era lontana quanto New York, eppure, quando andavo a trovare mia nonna Natalia restavo sempre affascinato da due cose: l’enfasi dei suoi racconti e la grande città con tutto quel mare.
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La solita maschera di Pulcinella
Banche e centri commerciali In quegli anni sono cambiate radicalmente le cose. Le nostre esperienze politiche venivano facilmente neutralizzate da inutili discorsi impregnati di ideologia e da conflitti inutili tra opposte fazioni. Ma la realtà era altro. Caserta si crogiolava nella sua bolla finanziaria fatta di banche e centri commerciali circondati dai territori saccheggiati della vasta provincia. Da noi la campagna era stata aggredita dal cemento e dalle discariche abusive, il mare più vicino faceva schifo. Provenivano gli echi del coprifuoco a Marcianise, la brutalità dei clan camorristici delle provincie limitrofe, ma a Caserta non si vedevano i morti ammazzati e la città proliferava di miti abusivi. Andavamo al mare in Lazio facendo finta di non vedere i disastri che avevano combinato sul litorale domitio. Nel frattempo, senza neanche rendermene conto, ritrovai al mio fianco una persona che adesso posso identificare come un maestro, al di là del bene e del male. Studiava i testi di filosofi e sociologi, si faceva crescere la barba, fumava la pipa per assomigliare a Lenin e portava i film di Pasolini a casa insieme ai libri di letteratura e di poesia. Era un ottimo narratore di aneddoti intorno alle figure leggendarie, e quand’era piccolo giocava a scacchi con il nonno senza la scacchiera davanti. La sua cultura infinita fu un’ancora di salvezza in mezzo a quello stagno, stimolò in me una certa curiosità, impulsiva e ancora superficiale. Entrava nella stanza che condividevo con mio fratello e mentre studiavo controvoglia iniziava a raccontare i retroscena dei poeti fino ad appassionarmi. Era un intellettuale entrato in una casa di gente semplice. Il tempo gli avrebbe dato ciò che voleva, ma a caro prezzo. Nello stesso tempo si cresceva con la sicurezza di lasciare Caserta, un giorno o l’altro. Piazza Mercato fu chiusa per lavori. Ci si perse di vista, ognuno per la sua strada. Un viaggio solitario a Parigi mi aprì la testa e gli occhi, nacque in me il mito della cultura francofona. A Caserta iniziarono ad aprire i lounge bar per i giovani rampanti della borghesia cittadina, la città si disgregò, molti andarono via, voltarono le spalle alla città di provincia snobbando Napoli e la sua ombra opprimente. Sbarcavano a Roma e a Milano ondate di casertani mentre in città si cominciava a frequentare altri luoghi.
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I giovani manifestavano il loro disagio consumando crack e cobret, andando a ballare in discoteca a Ischitella. La parola d’ordine era “evasione”. Un lavoretto come portapizze Trovai un lavoretto come portapizze, avevo diciassette anni. Cinquanta centesimi per ogni pizza consegnata più le mance: una miseria. La benzina al motorino la mettevi con i soldi tuoi. Decisi di partire non appena finito il liceo. Il giorno della partenza arrivò dopo gli esami di maturità. Avevo scelto Bologna istintivamente, perché era un miraggio, perché volevo andare il più lontano possibile da casa. Avevo messo da parte l’idea di andare a vivere subito a Napoli perché volevo vederla prima da lontano, “poiché ogni visione richiede distanza, non c’è modo di vedere le cose senza uscirne”. Partimmo carichi di meraviglie, ma non ci volle molto per capire che il paesaggio in cui il tuo sguardo s’è specchiato per anni te lo porti addosso come la puzza di frittura all’ultimo dell’anno. A Bologna ci sentivamo liberi dalle catene del paesone di provincia ma provavamo rabbia e fastidio per tutta quella spensieratezza altrui. Ma come? Noi eravamo cresciuti nelle saittelle mentre gli studentelli ne ignoravano persino l’esistenza? In quegli anni a Napoli scoppiava l’emergenza rifiuti ma a Bologna parlavano di solidarietà ai banlieusard parigini e dei bei ricordi del glorioso Settantasette... Un mondo senza evasione possibile In ogni caso, approfittammo di ciò che offriva la nuova città. Biblioteche, concerti, conoscenze, altri stimoli, nuovi modi d’intendere gli spazi, nuove realtà ed esperienze. Le letture propinate dall’università conciliavano sia il sonno che la curiosità, discutevamo sulle problematiche sociali e politiche e fingevamo di ignorare l’idea di un mondo senza evasione possibile.
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Ci illudevamo, almeno fino a quando non ci ritrovammo certi libri fondamentali tra le mani. Anche Bologna viveva il suo inesorabile declino, ovattato e distante da quello che accadeva nei posti a cui volenti o nolenti appartenevamo. Come i soldati, frequentavamo soprattutto gente del sud perché solo con loro riuscivamo a condividere una certa ironia, tanto vitale quanto autoreferenziale. Tutti gli altri risolvevano il problema spinoso della nostra schizofrenia affibbiandoci la solita maschera di Pulcinella. Eravamo macchiette, dovevamo recitare la nostra parte di simpaticoni e affabili meridionali. Dei bolognesi neanche l’ombra. Di Bologna ricordo il freddo che aggrediva le ossa quando mettevo il naso fuori da quella stazione sfregiata di ritorno dalle vacanze di Natale, le ipocrisie, le serate passate a discutere di utopie. Avevamo il futuro davanti a noi ed era tutto nuovo di zecca. Ricordo le bestemmie sul motorino mentre consegnavo pizze per tutta la città nel mese di febbraio (anche lì esercitai questo glorioso “lavoro nel settore dei trasporti alimentari”). La città ci ha nutriti e ci ha affamati Ricordo l’odore stretto dei saloni nelle biblioteche, il senso del vuoto, il disorientamento distratto dall’ebbrezza delle serate trascorse a bere, i progetti mai avviati, i desideri appagati e quelli ingannati. E poi le illusioni travestite da vere e proprie fughe da noi stessi, le prime esperienze di intervento sociale a contatto con i bambini di un campo rom in periferia, tutte quelle menzogne trite e ritrite, le mie e quelle degli altri, quando le verità scottavano troppo per essere ingoiate. Ricordo l’emergere di una nuova coscienza, ogni istante passato a ridere per la sola idea di essere lontani da casa, annebbiati e persuasi dal gusto effimero di una falsa libertà. E, infine, il fascino della piazza Nettuno desolata, dove i volti espressivi e degni dei partigiani restavano là, sulla facciata della biblioteca comunale, a ricordarci il senso ultimo del tempo che non muore mai. Da allora sono passati alcuni anni. Scappai da Bologna in tempo per vivere a Napoli. Adesso, quando torno a Caserta mi sento straniero. Così doveva andare. Caserta ci ha dato la forza di agire e ci ha demotivati allo stesso tempo, ma non è tutto perduto. Caserta ci ha nutriti, Caserta ci ha affamati (non si sputa sul piatto in cui s’è mangiato male).
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Generazioni
Tutti i miei movimenti Una studentessa bussò alla porta della classe. Cominciava qualcosa... di Giulia “Beat” Fippi www.napolimonitor.it Era una mattina del settembre 2005, quando ebbi il mio primo contatto diretto con un pezzo di quello che qui chiamano spesso, con un’espressione dai confini mobili e incerti, il movimento. Una studentessa bussò alla porta della classe, chiedendo all’insegnante di far uscire due rappresentanti. Non avevamo ancora eletto nessuno, ma la professoressa di lettere, profetica, mi mandò fuori come rappresentante provvisoria. La ragazza mi appioppò un pacco di volantini. «Tutta la classe li deve riempire, poi io passo a riprendermeli». Era una cosa per tutti gli studenti, per tutelare i loro diritti, niente a che fare con la politica, disse, per rassicurarmi. Invece, era proprio quello che speravo di trovare al liceo, la politica. Forse per suggestione cinematografica, arrivando al ginnasio mi ero preparata a unirmi a un covo di studenti belli e rivoluzionari, costantemente assediati da orde di spietati fascisti e professori reazionari da contestare. Avevo trovato, invece, una classe quasi tutta di ragazze dall’aspetto irrimediabilmente normale, che venivano da comuni della provincia di cui ignoravo l’esistenza. Si trattava di moduli di adesione all’Uds, il sindacato studentesco all’epoca legato alla Cgil. Restarono nel mio zaino per qualche settimana, prima di essere riciclati come liste della spesa. Durante la nostra prima occupazione, Francesco Caruso venne a parlare con gli studenti.
La mia lista dei cattivi Del suo intervento, ricordo solo che, alle osservazioni di un ragazzo scettico sulle manifestazioni contro il G8, rispose che in realtà i black bloc erano i poliziotti stessi. Tornai a casa abbastanza soddisfatta da quella spiegazione, e per parecchio tempo confinai black bloc e poliziotti nella mia lista mentale dei cattivi, dalla quale escludevo poliziotti onesti e black bloc particolarmente giovani e/o disperati. Tre anni più tardi avevo imparato che il nemico, più che i fascisti, di cui nella mia scuola si vedevano esemplari totalmente innocui e piuttosto rari, erano gli Uds: “servi dei servi”, diceva una scritta in un bagno. I disobbedienti, loro sì, erano tosti. A ridisegnare i miei schemi, arrivò quella che molti ricordano come l’Onda. Nel 2008 ero stata già rappresentante di classe e d’istituto, prendendo la cosa molto sul serio, e ne avevo abbastanza. La mia carica sarebbe scaduta a novembre, dopodiché mi sarei ritirata dalla politica scolastica. Non avevo fatto i conti con il nuovo ministro, Mariastella Gelmini. Il 23 settembre 2008, Giuseppe e io convocammo la prima di molte assemblee, firmando la convocazione come “studenti napoletani”. Giuseppe frequentava già un centro sociale, e ne sapeva molto più di me di politica e movimenti. Quando ci incontrammo, mi mostrò, trionfante, una macchiolina di sangue sul casco, souvenir degli scontri per la discarica di Chiaiano. Non dissi niente, ma lo lasciai fuori dalla lista dei cattivi. Per quanto non particolarmente giovane (non più di me), e niente affatto disperato, mi stava simpatico. Fissammo un appuntamento per telefono, per definire gli argomenti e i tempi dell’assemblea. Quando gli chiesi come riconoscerlo, mi rispose: «Eh, tengo l’SH metallizzata, tengo l’orecchino, sono… come ti devo spiegà… un poco tamarro». «Ok, perfetto».
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Convocammo una manifestazione per il 3 ottobre. A scuola avevamo scritto il volantino, contattato altre scuole, avvisato i giornali e fatto tutto quello che negli anni precedenti era toccato ad altri, più grandi. Il camioncino con l’amplificazione, invece, l’aveva portato il centro sociale Insurgencia, lasciandoci in omaggio anche qualche speaker più navigato di noi. Dormii poco per l’ansia, ma, con mio grande sollievo, al corteo c’era un bel po’ di gente, tutti studenti medi, o quasi. A deludermi, però, furono gli interventi che arrivarono dal camioncino. Avevamo studiato la riforma Gelmini, spiegandola ai compagni di scuola con enfasi drammatica e dovizia di particolari, e sembrava invece, che il corteo fosse soprattutto contro la polizia e la discarica di Chiaiano. Pur senza discutere sulla legittimità della protesta a Chiaiano, i lunghi interventi dei grandi, così diversi da quelli che ci aspettavamo a una manifestazione per la scuola pubblica, ci lasciarono un po’ contrariati. Me e qualcuno del mio collettivo, non tutti. D’altra parte noi del Liceo Vittorio Emanuele eravamo tonti, come sapevano bene al Genovesi (e viceversa). Tutte le scuole erano in agitazione Poco tempo dopo, tutte le scuole del centro storico erano in agitazione, ciascuna a modo suo. Il Pansini, che aveva il preside di sinistra, aveva ottenuto immediatamente un’autogestione, con la scuola aperta fino a tardi per tutti, mentre al Genovesi avevano occupato, dopo diversi e avventurosi tentativi, ma senza concedere nulla a preside, professori e personale ATA. Fotocopiatrici comprese, per la gioia di chi aveva adornato l’atrio con alcune sue parti del corpo in formato A4, b/n. Da noi al Vittorio Emanuele avevamo occupato per modo di dire, chiavi in mano e d’accordo con il preside, dopo diverse giornate di assemblee.
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“Tutte le scuole del centro storico dovevano vedersela con i ragazzi di Santa Chiara. Noi non avemmo problemi, non fecero che strapparci qualche striscione e metterci un po’ di paura” Disegno: Archivio Napoli Monitor.
Al Casanova, i ragazzi che si impegnavano sul serio erano un paio, Rosario e Caterina, eppure riuscirono a mantenere l’occupazione per almeno una settimana. Organizzarono una street parade, il giorno di Halloween. La manifestazione consisteva nell’andare in giro travestiti da mostri, e lo slogan che la lanciava, ottimista, era “cchiù black ‘ra midnight nun po’ vvenì”. I tagli ai laboratori, più che i licei, colpivano soprattutto istituti come il loro, che forma artigiani e odontotecnici. I corsi autogestiti Al Fonseca, invece, sembrava che si facesse molto sul serio. Con l’aiuto dei precari, si erano istituiti corsi autogestiti in varie materie, per permettere a chi voleva di non restare indietro. La curiosità mi spinse a entrare, una sera, per salutare degli amici, ma soprattutto sincerarmi del fatto che, oltre a studiare matematica, giocassero anche a calcio nei corridoi. Così era, per fortuna. Al momento di uscire, rimasi bloccata nell’ingresso. I ragazzi non poterono aprire fino a quando quelli del “sistema” di Santa Chiara non si furono annoiati di bussare violentemente e tirare oggetti vari contro la porta e le finestre.
Tutte le scuole del centro storico dovevano vedersela con i ragazzi di Santa Chiara. Noi non avemmo problemi, non fecero che strapparci qualche striscione e metterci un po’ di paura, ma non entrarono. Il Fonseca ebbe tremila euro di danni, se la memoria non m’inganna, pagati poi dai genitori degli alunni. Con l’inizio delle occupazioni universitarie, smettemmo di riunirci al laboratorio occupato Ska, e ci spostammo nell’aula occupata Flex, gestita da un collettivo abbastanza variegato ma sostanzialmente di ispirazione post-strutturalista e post-operaista, come capii solo molto dopo. Le assemblee pubbliche generali, invece, si tenevano in Aula Magna, sempre nello stesso edificio.
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Là confluivano un po’ tutti i collettivi, chiunque poteva intervenire, si parlava tanto, c’era un sacco di gente. Per le questioni organizzative, cioè per decidere le cose, ci si spostava nelle aule occupate. Una volta, ingenuamente, proposi a una ragazza che non conoscevo di scrivere un volantino nell’aula Flex. Mi rispose di no, che era meglio in R5. Per me faceva lo stesso, era l’aula di fronte. Ma più tardi, scoprii che in R5 bisognava dire “mobilitazione” al posto di “Onda”, “corteo” al posto di “street parade” e non mi ricordo cos’altro. Le restrizioni sul linguaggio Le loro restrizioni sul linguaggio non mi convincevano, e pensai che il volantino degli studenti medi, per come l’avevo in mente io, non fosse compatibile con il loro. La mia proposta di farne uno a parte fu liquidata bruscamente, così sfogai il nervosismo, com’è mia abitudine, con puntigliose osservazioni sull’ortografia altrui. La ragazza che era al computer si infuriò e la lasciai fare. Non ero la sola, tuttavia, ad accumulare una certa insofferenza verso collettivi universitari, partitini dichiarati e non, centri sociali, sindacati di vario genere.
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La prima esperienza politica Come me, molti studenti alla loro prima esperienza politica non sopportavano che si cercasse di mettere un cappello sul nostro movimento. Non conoscevamo le infinite (e infinitesimali) differenze ideologiche e politiche che dividevano i più grandi, né ci interessavano. Noi eravamo la massa ai cortei, ci dicemmo, e le riunioni le avremmo fatte per conto nostro, fuori dall’università. Preparammo una serata di sensibilizzazione sulla riforma, il programma era molto ricco. Avevamo contatti con i giornali, i nostri amici conoscevano i programmi di grafica; i Cobas, ignari delle nostre ambizioni secessioniste, ci mettevano a disposizione la fotocopiatrice; alcuni di noi suonavano, conoscevamo a memoria interi passi della legge 133 e del D.d.L. Aprea. Le mamme cucinavano instancabilmente per la causa. Ci mancava solo una sede, ci vedevamo nelle case. Per il resto ci sentivamo invincibili. Il maltempo ci costrinse a rimandare una mezza dozzina di volte l’iniziativa fino a quando, esasperati, decidemmo di provare a farla lo stesso, sfidando il meteo. La grandine si abbatté sugli amplificatori con inaudita violenza, vanificando il lavoro di un mese e lasciandoci con qualche centinaio di euro di debiti, che colmammo a colpi di pranzi sociali, donazioni e contributi familiari. Accettammo la sconfitta. Dopo un anno d’immobilismo, gli studenti si ritrovarono ad affrontare nuovi tagli all’istruzione. Ero appena arrivata all’Orientale e accolsi con favore l’occupazione di Palazzo Giusso. Meno numeroso ma più determinato rispetto a quello del 2008, il movimento del 2010 chiacchierava e occupava di meno, ma manifestava e bloccava di più. Strade, binari, teatri, cinema, musei.
Dovunque passavamo, gettavamo scompiglio. La conoscenza ossessiva delle leggi non interessava più a nessuno. Fossero discariche, scuole, repressione o sol dell’avvenire, o anche tutto questo insieme, ognuno aveva un buon motivo per stare in piazza, e questo bastava. Chi non aveva mai fatto politica si teneva piuttosto a distanza, ma il casino riusciva lo stesso, anzi meglio, senza troppi “indecisi tra i piedi”, parafrasando una canzone di quell’anno dei redivivi 99 Posse. Buona parte della protesta fu gestita dai collettivi comunisti. Non è che si chiamassero proprio collettivi comunisti, ma sono comunque tifosi di Cuba alle Olimpiadi, e usano l’appellativo “compagno” con disinvoltura. Pur non condividendo la loro impostazione, non misi in discussione la loro superiorità in termini di esperienza e capacità organizzative. Guardai con benevola sufficienza al nuovo gruppetto indipendente, nato dopo un’occupazione di Castel dell’Ovo. Mi dissi che la grandine avrebbe spazzato via anche loro, e infatti così fu. Il megafono e i puri e duri Il megafono diventava nuovamente monopolio di un gruppo di duri e puri dalla parlantina allenata, complici la pigrizia e la timidezza degli altri. In una delle tante assemblee intervenne una studentessa fuori-sede, criticando la retorica degli slogan e il linguaggio pesantemente ideologico. Piovvero su di lei insinuazioni di ogni genere, addirittura velate accuse di neofascismo. Nessuno ebbe il coraggio di riprendere il suo intervento. Neanche io dissi niente, ma quando si presentò l’occasione di occupare uno spazio insieme ai ragazzi dell’aula Flex, non ci pensai due volte. Il loro linguaggio, per quanto largamente incomprensibile, mi sembrava almeno più fantasioso.
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I tempi dello “Zer081” Nella polverosa e dimenticata ex mensa dell’Orientale nacque così lo Zer081. Oggi lo spazio è sotto minaccia di sgombero. In compenso, il collettivo che lo anima si è reso protagonista di quattro nuove occupazioni. Non so dire per quanto tempo partecipai alle loro assemblee e iniziative. Un mese, forse, ma mai con particolare assiduità. La cosa più gratificante fu dipingere maschere di carnevale con i bambini che abitavano nella zona tra Santa Chiara e Banchi Nuovi. A parte questo, partecipavamo a tante iniziative, in uno spirito allegramente ribelle e talvolta spudoratamente sconclusionato. Tuttavia, quando sentii i miei compagni cantare “Ruby libera” e “Se non cambierà bunga bunga pure qua” al sobrio corteo della Fiom, a Pomigliano, mi sentii fuori luogo dietro lo striscione. Gli slogan sono molto diversi, da uno spezzone all’altro dei cortei, a Napoli come ovunque. Una frase sola, mi resi conto, era pronunciata sempre uguale, con la stessa intonazione, forte e monocorde, da qualsiasi megafono, in ogni corteo: «Dietro lo striscione!» L’Uds, lo Zer081, il Cau, Rifondazione, i precari Bros, i Carc, e la lista è ancora lunga. Mi dissi che uno striscione, anche il più bello, non serve che a dividere un corteo a pezzi. Qualche settimana dopo, conobbi la redazione di Napoli Monitor. Finalmente avevo un buon motivo per fare quello che, in fondo, avevo sempre desiderato. Iniziai a scorrazzare avanti e indietro tra gli spezzoni dei cortei, registratore e taccuino alla mano. Non mi sono ancora stancata.
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Colombia
E i ragazzi salvarono il quartiere Belén, il cuore storico di Bogotà: l'ennesimo business per manager rampanti. Ma... di Norma Ferrara www.liberainformazione.org Era destinato a diventare l’ennesimo business per i manager dell'immobiliare ma un gruppo di giovani si è messo di traverso con un progetto alternativo. Adesso per Belén quartiere storico nel cuore di Bogotà, in Colombia, c’è l’opportunità di riscrivere presente e futuro, Costruire uno sviluppo comunitario che lasci al passato il disagio sociale e la violenza delle bande armate. Per questo è nata “Casa B”, luogo di formazione e incontro per gli abitanti del quartiere, fondata nel 2012 da sei giovani ritornati in Colombia dopo anni di studio e lavoro all’estero. Quattromila abitanti, di cui 1500 bambini, una emergenza abitativa che costringe a vivere in case affollate e pericolanti. E una banda che sino a qualche anno fa terrorizzava i cittadini del quartiere (ridimensionata in seguito da un duro intervento delle forze dell’ordine, in vista dei progetti immobiliari in cantiere). Infine, negli ultimi anni, numerosi progetti di espansione edilizia, fra cemento e centri commerciali: così si presentava Belén agli occhi dei giovani colombiani che tre anni fa, con allegria e un pizzico di follia, hanno scelto di scommettere sul destino del quartiere, coinvolgendo i cittadini che qui vivono. “Casa B – spiega il sociologo Dario Sendoya, uno dei fondatori del progetto – ha le sue radici a Roma ed è un progetto di respiro internazionale. Qui in Italia ho imparato che le cose possono succedere, che è possibile immaginare e vivere in maniera diversa”.
Le radici romane di “Casa B” Dario ha studiato a Roma e ha dato vita con alcuni amici ad un primo progetto multiculturale che è l’embrione di Casa B. Poi, alcuni anni dopo, il viaggio in altre città europee e l’incontro con giovani colombiani espatriati negli anni duri del governo Uribe. Con alcuni di loro Dario sceglie di tornare in patria, tre anni fa, per fondare una nuova “Casa” con in mano un “plan de via”, un piano di sviluppo, pensato e progettato durante una tesi di laurea. Alla base c’è un concetto semplice quanto determinante per la nascita di “Casa B”: riscoprire i diritti di cittadinanza a partire dal legame con la terra. Un progetto che mette insieme sociologia e antropologia economica, con uno sguardo alle esperienze indigene e di resistenza socio-culturale colombiane. “Escuela sin escuela” Sebbene “Casa B” sia un progetto nato da esperienze internazionali sin da subito si è radicato nel tessuto sociale del quartiere. A fare da “ponte” fra il centro di aggregazione e i cittadini sono stati proprio i più giovani abitanti di Belén. “Casa B - spiega Dario - è stata co-fondata da quindici bambini, arrivati da noi quando stavamo mettendo in piedi la struttura e decidendo le attività di formazione culturale. Loro ci hanno aiutato a realizzare il progetto, l’hanno pensato con noi e sono stati il miglior “canale di comunicazione” con il barrío. Inoltre, abbiamo fatto una scelta chiara: non ci siamo finti poveri, non ci siamo raccontati diversamente da quello che siamo e questo ci ha reso credibili e autentici agli occhi dei bambini, delle loro famiglie, dei vicini di Casa B”. Tante le attività di animazione culturale portate avanti in questi anni: dai corsi di lingue straniere, a quelli musicali e di arte, alla nascita della “Cine-Huerta”.
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Cine-Huerta è uno spazio in cui si coltiva la terra per una migliore educazione alimentare e si proiettano film a cielo aperto. Quest’anno, durante l’esperienza di turismo responsabile fatta con Libera è stato proiettato, in spagnolo, I Cento Passi e in tanti hanno partecipato alla serata e conosciuto la storia di Peppino Impastato). “Bisogna credere nei bambini - aggiunge Dario – perché loro faranno quello che non siamo riusciti a fare”. Con i ragazzi frequentano la “casa” una cinquantina di giovani. “Con loro stiamo costruendo questo progetto che – dice sorridendo Dario – neppure noi sappiamo bene cosa sia. Non sappiamo dire cosa stiamo facendo ma lo facciamo e speriamo che a continuare il progetto siano i piccoli co-fondatori di oggi”. Un passaggio di testimone, dunque, di questa “escuela sin escuela” in cui si sperimenta una didattica aperta, dove il concetto di sviluppo è declinato a partire dal territorio, dall’identità e guardando dice Sendoya - a uno “sviluppo buono”. Contro la crisi una “rete di affetto” sostiene il progetto. Ma come è organizzata quotidianamente “Casa B”? “Una rete di affetto” “Sulla carta è tutto chiaro: ciascuno ha un compito diverso per portare avanti le tante attività. La verità, però, è che è sempre un gran casino... un caos positivo, perché lo spirito di squadra prende il sopravvento e ci mette tutti in grado di intervenire su tutto”. Come ci racconta, non ci sono grandi “finanziatori” dietro il progetto. “I fondi sono pochi e la verità è che la più grande forza economica è stata e continua ad essere la rete di affetto che sostiene il progetto”. Sembra una utopia in tempi di crisi economica eppure a Bogotà è diventata realtà. Progetti per il futuro di “Casa B”?. “Crescere e continuare a fare quello che stiamo facendo - risponde Dario - d’altronde, dice il poeta,”Al andar se hace el camino”: il percorso si fa camminando”.
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Germania
Mafia qui? Nein, Danke! “E' un problema italiano, non tedesco...”. di Valentina Valentini e Giorgio Garofalo www.stampoantimafioso.it
La mafia non esiste, figuriamoci in Germania. È un problema italiano e non certo tedesco. Ecco, diciamo che le varie dichiarazioni del governo tedesco non promettono bene, visto che nessun territorio può dichiararsi immune e si può star certi che la mafia in Germania esiste, eccome!, ed è sempre più presente e più forte. Già negli anni ’80 la polizia tedesca aveva nel mirino i traffici di cocaina gestiti dalla ‘ndrangheta nell’allora Repubblica Federale Tedesca. Proprio a partire da quegli anni si moltiplicano i locali gestiti da famiglie affiliate alla ‘ndrangheta, luoghi che diventano presto basi operative per lo smistamento della droga in vari paesi europei. E’ così anche negli anni ’90, dopo la caduta del muro di Berlino che ha aperto il mercato ad est: territorio ancora vergine. Insomma, si tratta di un fenomeno che da sempre merita attenzione, eppure troppo spesso ignorato dalle istituzioni tedesche. Questa è stata, in sintesi, la tesi dei relatori al convegno «Mafia made in Germania: inchieste transnazionali» andato in scena in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia di quest’anno. Tesi alimentata dalle analisi di un’inchiesta transnazionale realizzata dal FunkeMedien-Gruppe, Der Spiegel, WDRtv, IRPI e Grandangolo, giornale locale della provincia di Agrigento.
A dire che “c’è ancora molto lavoro da fare per contrastare le attività della criminalità organizzata di stampo mafioso tra Italia e Germania” sono stati CeciliaAnesi, co-fondatrice IRPI- Investigative Reporting Project Italy, Anna Maria Neifer, Westdeutscher Rundfunk, GiulioRubino, co-fondatore IRPI e DavidSchraven, Funke Medien-Gruppe, in occasione della tavola rotonda perugina. Dagli anni '90 ai nostri giorni Dagli anni ’90 ad oggi sono accadute molte cose anche in Germania: la più eclatante la strage di Duisburg che nel 2007 ha aperto gli occhi anche ai tedeschi più scettici. Il 17 gennaio 2013 alcune persone vengono arrestate tra la Germania e Licata, piccola cittadina dell’Agrigento, nell’operazione denominata “Scavo”. Gabriele Spiteri, originario di Licata, e Rosario Pesce, di Riesi, erano stati incaricati di gestire la Baumafia, ovvero la “mafia delle costruzioni”. Entrambi dovevano coordinare i cosiddetti “procacciatori di prestanome”, i quali dovevano trovare tra parenti e amici in Sicilia qualcuno che li aiutasse nel loro operato. I cosiddetti “cretini” dell’apologo di Frank Coppola – riportato nel libro “La Convergenza” di Nando dalla Chiesa – ovvero coloro che più o meno inconsapevolmente si prestano a fare il gioco della mafia. Attraverso i prestanome, Spiteri, che gestiva Colonia, e Pesce, a capo di Dortmund, aprivano varie aziende edili con scopi di riciclaggio. Il sistema funzionava così: il denaro veniva trasferito sui conti correnti delle aziende in questione per pagare alcune fatture false, a cui non corrispondeva alcun servizio di costruzione e il prestanome “titolare” li ritirava in contanti. Il 90 per cento della somma veniva riconsegnata all’imprenditore che aveva comprato la fattura falsa.
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Il dieci per cento invece andava ai due “manager”, Spiteri e Pesce, che li usavano per pagare i commercialisti e i prestanome e per i loro affari. Spiteri e Pesce discutevano spesso in merito al sistema da loro creato e si incontravano presso un bar gestito dallo stesso Spiteri a Colonia. È rilevante notare un aspetto: anche in Italia, le “chiacchierate” tra personaggi appartenenti alla criminalità organizzata si svolgono nei bar e presso ristoranti e pizzerie. Un importante collaboratore di Spiteri, Calogero Di Caro ha raccontato agli investigatori che Spiteri “consumava tanta cocaina quanta l’intera Colonia” e all’interno del bar avvenivano grandi traffici di cocaina. Affari e traffici che Spiteri aveva importato anche in Germania. Di Caro fu scarcerato nel 1994 e divenne collaboratore di giustizia ma dagli inquirenti era considerato come un parziale e poco affidabile aiuto per le autorità. Sta di fatto che i boss lo hanno lasciato vivere e lui ha continuato “la sua attività” anche in Germania. “Cosa nostra ha l’ordine di non uccidere in Germania”, ha affermato un ospite dell’incontro di Perugia, “poiché è importante non destare alcun sospetto”, ma se le cose si mettono male, si uccide. Fra Palma di Montechiaro e Mannheim Lampante è l’esempio di diversi omicidi avvenuti presso il mandamento di Palma di Montechiaro (AG), certamente più vicini alla casa madre siciliana. L’omicidio di Calogero Burgio, di Giuseppe Condello, capo del mandamento di Mannheim (Baden-Württemberg), e Vincenzo Priolo. Da quando Matteo Messina Denaro comanda Cosa nostra siciliana, la regola è la seguente: prima il il business. Non si spara più, a meno che non sia strettamente necessario. Ma, ritenuto poco affidabile e un cane pazzo che usava troppa cocaina, Condello ha tirato troppo la corda, firmando, di fatto, la propria condanna a morte.
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Argentina
Quelli delle barra bravas Tale soluzione è stata molto discussa tra tutti gli altri capi mandamento dell’agrigentino, ma nessuno decideva. Matteo Messina Denaro, dunque, prese la decisione finale: “O ci pensate voi o ci penso io”. Nel mese di gennaio 2012 Condello e Priolo furono ammazzati e infilati all’interno di un pozzo sotto un cavalcavia di contrada Ciccobriglio, tra Campobello di Licata e Palma di Montechiaro. Quello che emerge è il cambiamento che il latitante Matteo Messina Denaro ha avviato all’interno di Cosa Nostra siciliana: è stato fatto un patto in Germania tra varie province mafiose. I capi mandamento tra la Germania e la Sicilia sono ben strutturati. A che punto siamo? Questa storia rivela una ramificazione della mafia, non solo quella siciliana ma anche della ’ndrangheta calabrese, in Germania. C’è ancora molto da fare. La giurisdizione tedesca non ha una normativa antimafia, come in Italia. E, non a caso, i relatori del dibattito di Perugia hanno battuto molto su questo punto chiedendo che “cambi la normativa in Germania” affinché tutti, dal Governo alla società civile, possano finalmente avere una maggiore consapevolezza che la mafia esiste davvero. Nel prossimo futuro, hanno aggiunto, avremo un database dedicato, sperando di vedere presto il reato di associazione mafiosa riconosciuto anche in Germania.
Gli ultras violenti degli stadi qui gestiscono in prima persona vari traffici illegali di Filomena De Matteis www.stampoantimafioso.it
Le “barra bravas” sono gruppi di ultras violenti, nati nelle “villas miserias” (l'equivalente delle favelas brasiliane) come supporto alle squadre di calcio. Sin dall’inizio hanno potuto godere di svariati privilegi, ad esempio viaggi gratuiti durante le trasferte delle squadre da loro sostenute. Tramite un crescente impiego della violenza questi gruppi hanno ottenuto sempre maggiori benefici, fino ad affermarsi come vere e proprie “piccole mafie” in grado di gestire traffici di droga, riciclaggio di denaro sporco e servizi di protezione ai calciatori, il tutto con la complicità della polizia. In particolare, a causa di quest’ultimo fattore, il fenomeno delle barra bravas si è sviluppato enormemente. Persino le cariche più alte delle associazioni calcistiche sembrano non poter nulla davanti a questo problema. Ma come si è arrivati a questo punto? Alla base vi è un intreccio di violenza-denaro-potere: i membri delle barra bravas usano la violenza sia contro i tifosi delle squadre avversarie sia contro i calciatori o i vertici dei club calcistici ai quali sono affiliati, per ottenere maggiori vantaggi o per “stimolare” i giocatori a dare il massimo durante le partite; i soldi arrivano, invece, dalla vendita di gadgets e dei biglietti, dall’assegnazione dei parcheggi a pagamento e dalla protezione ai giocatori; il tutto con l’appoggio di agenti e politici corrotti.
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Sostenevano la dittatura È, infatti, quest’ultimo fattore a rendere gli ultras argentini diversi da quelli europei: in Argentina i tifosi violenti fanno parte del sistema calcistico, arrivando a decidere persino dell’acquisto o della vendita dei giocatori e fanno capo ai politici corrotti di turno. Ne sono un esempio eclatante i barras della squadra Quilmes Atlético Club, sostenitori della dittatura militare (19761983) e in seguito dei governi democraticamente eletti che si fossero dimostrati pronti ad appoggiarli, indipendentemente dall’orientamento politico. Per i membri delle barras contano soltanto i soldi e di conseguenza il sostegno di chi gliene offre di più. I politici, a loro volta, ricorrono all’uso violento degli ultras in quanto vedono questi come una sorta di manodopera tramite la quale poter concludere rapidamente affari illegali. Non è dunque difficile comprendere come i capi delle barra bravas delle squadre più importanti, come ad esempio il River Plate, il Boca Juniors, il Rosario Central ed il Newell’s Old Boys, possano guadagnare cifre che si aggirano attorno agli 11mila euro mensili. Inevitabilmente tutto ciò rende l’attività della tifoseria violenta appetibile. Il potere e il denaro, inoltre, innescano uno spirito di emulazione che crea ancora più violenza, sempre più difficile da fermare. È necessario un intervento decisivo delle istituzioni per combattere un fenomeno come questo dove si assiste alla crescente collaborazione fra barras, poliziotti e politici, che gestiscono ingenti somme di denaro agendo nella più totale libertà e impunità. Nello specifico, le istituzioni argentine dovrebbero eliminare il potere che ha consentito agli ultras di affermarsi fino a diventare gruppi criminali organizzati sia all’interno sia all’esterno degli stadi.
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S C A F F A L E
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Cerimonie
L'antimafia distratta “Trent'anni di mafia”: grande presentazione con intellettuali, giornalisti, opinionisti e autorità varie. Peccato che il “regista antimafia era appena stato condannato a sei anni per un gigantesco imbroglio... di r.o.
“Sono un agente segreto dei carabinieri. La mafia mi cerca per farmi fuori”. Più o meno così è cominciata la storia di Mario Musotto, regista agrigentino, e Vincenzo Balli, un piccolo imprenditore del settore spettacoli. Il Balli s’è fidato e s’è messo a sua disposizione. “Dobbiamo stare attentissimi, la mafia non perdona”. C’è pure un’intera squadra di “carabinieri speciali”, guidati da un fantomatico “maresciallo Orso”, che ogni tanto compaiono a rinnovare le minacce. Basta: il Balli, con l’intera famiglia, passa due anni “blindato” e “sotto copertura” senza osar mettere il naso fuori di casa, terrorizzato dai racconti del Musotto: il quale nel frattempo non manca di farsi – a spese della vittima – gli affari suoi. Alla fine, la storia finisce a conoscenza dei carabinieri veri. Indagini, denuncia, intervento dei giudici e processo. Musocco becca sei anni di carcere (tribunale di Palermo, giudice Patrizia Ferro) e la storia finisce lì.
O meglio, non finisce affatto. Perché nel bel mezzo dell’estate, a Palermo, Agrigento e ovviamente su internet compaiono dappertutto le locandine di un nuovo film “antimafia” (“Trent’anni di mafia”: Grande Presentazione in prima internazionale galattica ad Agrigento, in Canadà, negli Stati Uniti!). Alla prima sono invitate le personalità dell’antimafia, dello spettacolo, della magistratura e quant’altro; il film, ad Agrigento, è dedicato a un magistrato in servizio, uno dei migliori rimasti, invitato a onorare con la sua presenza la prémiere. Peggio la pezza del buco Il povero Balli, venutolo a sapere, scatena su facebook l’iradiddìo. La cosa è un po’ imbarazzante. Il produttore del film, tale Filippo Alessi (la major è la società “Campo di Note”) “apprende con rammarico” la notizia, peraltro a suo tempo uscita dappertutto. Toglie, a lavoro ultimato e all'ultimo momento, il nome del Musotto dal cast e lo sostituisce con quello un altro tizio, non condannato per sequestro: il che per un film antimafia - ha pensato l'Alessi - è già una garanzia. Così il film viene presentato regolarmente, esattamente come l'aveva composto il Musotto. Grande imbarazzo fra il pubblico - con le varie personalità in prima fla – ma tutto sommato è andata bene. Nessuno scandalo, tranne i soliti mugugni su facebook e in rete, cui peraltro nessuno, nella stampa ufficiale, ha ritenuto di dare particolare risalto. “Chiedo la condanna di Musotto - aveva chiesto l'avvocato al processo - anche per eliminarlo dal palcoscenico antimafia, utilizzato da alcuni come esclusiva fonte di business”. Condannare, in tribunale l'hanno condannato, visto che là le sentenze le fanno i giudici e non la brava gente “impegnata” dei salotti. Però lui sul palcoscenico “antimafia” c'è rimasto, e non pare che qualcuno - tolta la breve parentesi obbligata – abbia voglia di cacciarlo via da lì.
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E intanto, al premio Sciascia... Sempre a proposito di “antimafia”, da segnalare un altro evento del genere: non un film stavolta si tratta ma di un capolavoro della letteratura (impegnata, ovviamente). Il titolo della fondamentale opera è “Malerba”, edita da Mondadori (quello di “Gomorra”) e premiata a furor di popolo a Racalmuto, col premio Sciascia. Il popolo, veramente, era un po' infuriato anche perché l'autore del capolavoro, Giuseppe Grassonelli (coadiuvato nella sua fatica da un volenteroso redattore di Mediaset) era fino a quel momento noto alle cronache in qualità non di letterato ma di ferocissimo boss mafioso e assassino. Al tempo in cui capeggiava una delle cosche più feroci della Sicilia, gli stiddari, l'uomo aveva infatti esercitato il suo mestiere con rigore e costanza, allentando il suo faticoso impegno solo per cause di forza maggiore, incarnate in alcuni carabinieri e un tribunale. Grazie a costoro, Grassonelli decise di cambiar carriera e di darsi alla letteratura, dove si fatica di meno e non ci sono carabinieri. L'antico brigante è diventato così – classicamente – il beniamino della società perbene. Dei giudici e concorrenti del premio Sciascia (fra cui alcuni esponenti, ahimè distratti, dell'atimafia vera) solo uno ha avuto la presenza di spirito di scappare a gambe legate dichiarandosi indisponibile alla buffonata. Tutti gli altri, a muso storto, hanno fatto buon viso a cattivo gioco; qualcuno si è pure lanciato in stratosferiche elucubrazioni sulla vis redentrice della letteratura e sulla necessità di assicurare comunque la preziosa testimonianza ecc. ecc. (Ma che ne avrebbe detto Sciascia?” s'è domandato qualcuno. Niente, naturalmente. Sciascia riusciva benissimo a non dire mai niente di veramente scomodo dicendo migliaia di cose terribili e all'apparenza scomodissime. Basta pensare al “professionista dell'antimafia” Borsellino. E' quasi un contrappasso, per lui, il Grassonelli).
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No Muos
Sulla via di Niscemi Quarantasei antenne militari, da questa cittadina siciliana, sor vegliano il mondo. Una giornata contro di Giuseppe Cugnata www.generazionezero.org Entrando a Niscemi si ha quasi la sensazione di essere stati catapultati in una città mediorientale: l’ocra delle abitazioni – lasciate prive di intonaco – si mescola all’argilla delle colline circostanti. Dal golfo di Gela, distante pochi chilometri in linea d’aria, una cappa di polvere si solleva sulle stradine irregolari, mentre l’aria tutt’intorno sembra tremolare per il feroce caldo d’agosto.
Dato che il presidio No MUOS, dal quale partirà la manifestazione, si trova fuori dal centro abitato, chiediamo indicazione a qualche passante sulla strada migliore da seguire. I primi tre tentativi vanno miseramente a vuoto: pare che la gente non abbia la più pallida idea della manifestazione, degli impianti militari e di tutto il resto. Al quarto tentativo un muratore di mezza età, intento a scaricare dei calcinacci dentro al cassone di un camion, ci indica la strada con fare sicuro, lasciando intendere che non siamo stati i primi visitatori a domandare aiuto. Proseguiamo il viaggio verso il presidio.
Dal paesaggio arido e uniforme svettano sporadiche sagome di palme: ogni cosa sembra indefinita e statica, in quest’angolo Sicilia. Ad un tratto, però, qualcosa pare turbare il naturale equilibrio di questi luoghi: in direzione sud-est, una torre di metallo alta più di cento metri si staglia prepotentemente contro la linea dell’orizzonte. È una delle quarantasei antenne statunitensi presenti nella zona. Dagli anni ’90, infatti, il territorio di Niscemi è stato scelto dalla Marina Militare statunitense come sede di una base di trasmissione radio NRTF. In tempi più recenti, poi, la stessa base è stata individuata come luogo adatto per il programma di comunicazione satellitare MUOS; altre tre enormi parabole sono quindi state erette nella campagna del niscemese. Per ostacolare l’attivazione dell’impianto, i manifestanti del coordinamento No MUOS hanno indetto una manifestazione per giorno 9 agosto, ed è per questo che ci troviamo in marcia, nella periferia di Niscemi, sotto un sole inclemente.
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Una riserva naturale Numerosi filari di canneti o di pale di fichi d’india addolciscono il paesaggio, sempre più rigoglioso via via che ci addentriamo nella campagna niscemese: l’area in cui sorge la base americana è stata, infatti, istituita, nel 1997, come riserva naturale, proprio per la varietà di specie animali e vegetali che custodisce al suo interno. Dopo qualche decina di minuti, arriviamo finalmente a destinazione: un murale, con la scritta No MUOS da una parte e la bandiera americana dall’altra, demarca in maniera inequivocabile la zona.
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“L'accondiscendenza del palazzo politico verso i responsabili del programma militare ”
Un vigile urbano ordina di lasciare l’automobile: da questo momento potremo muoverci solamente a piedi. Ci accodiamo ad un gruppo di ragazzi, sperando prima o poi di raggiungere la meta. Proseguiamo per più di un chilometro, mentre un elicottero della polizia ci sorveglia, volando a bassa quota. Giungiamo finalmente al presidio, dove si sono raccolte diverse centinaia di persone. “Ci hanno filmato tutti” Una donna, immediatamente fuori dall' l'ingresso, si lamenta con un conoscente: “Ci hanno filmati tutti mentre camminavamo”, racconta, riferendosi ai poliziotti in borghese che da una macchina hanno continuato a filmare i manifestanti che giungevano al presidio. Scivoliamo lungo la leggera scarpata che dalla strada asfaltata porta all’interno del presidio: a sinistra è stato allestito un piccolo capanno da cui poter prelevare bevande o cibo; a destra sono parcheggiate alcune auto, mentre più in basso, nascoste tra la vegetazione, si distinguono alcune tende da campeggio. Turi Vaccaro, attivista No MUOS, sta a piedi in su, reggendo il peso del corpo sulle spalle e sul collo, in una posa di meditazione. Verso le quattro i manifestanti sono pronti ad abbandonare il presidio diretti verso la base americana. La testa del corteo è composta dagli attivisti del coordinamento No MUOS e dal comitato Mamme No MUOS.
Seguono le bandiere dei partiti e dei movimenti presenti (Prc, Sel, lista Tsipras, Pcl, Pc, Idv, Verdi, Anarchici, No Ponte, No Tav, Usb...) mescolate a numerose bandiere palestinesi. “Ma pirchì a manifestazione No MUOS c’hanna siri i banneri re’ partiti? (le bandiere dei partiti?)” chiede a un amico un ragazzo. Alla coda del corteo si intravedono i pochissimi sindaci e assessori, venuti per l’occasione con la fascia tricolore: l’idea nata sui social network, nei giorni immediatamente precedenti la manifestazione, era che i rappresentanti delle istituzioni fossero molti di più. Il corteo finalmente parte. Superate le prime curve è possibile valutare, a occhio e croce, le dimensioni del serpentone che non supera le duemila/tremila unità: un calo rispetto alle manifestazioni precedenti. Anche tra i manifestanti sembra essere calata la fiacca: gli slogan vengono urlati da poche decine di persone, mentre il resto della colonna sembra somigliare più ad un corteo funebre che ad una manifestazione di protesta. Certo, l’accondiscendenza degli uomini del palazzo politico verso i responsabili del programma militare ha scoraggiato tanti, come anche il compimento dei lavori di cantiere alla base americana. Ma al di là delle giustificazioni, l’unico dato certo è che, a distanza di più di un anno dalla fortunatissima manifestazione del 30 marzo, quando la campagna niscemese venne inondata da più di diecimila anime, il coinvolgimento civile si è sicuramente
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affievolito, complice anche la mancanza di approcci comunicativi più evoluti da parte del coordinamento. Il corteo prosegue placidamente diretto verso uno dei cancelli della base. In un tratto di strada, pochi minuti prima, alcune donne vestite di nero, con uno striscione con su scritto Boicotta Israele,avevano inscenato un flash mob contro l’invasione israeliana nella Striscia di Gaza. Passate le sei la situazione muta radicalmente: il corteo, rimasto compatto durante tutta la marcia, si frammenta. Alcune decine di manifestanti si scagliano a mani nude contro la recinzione metallica che circonda la base, mentre un manipolo di poliziotti in assetto antisommossa sta a guardare al di là della rete. La tensione tra i manifestanti e i poliziotti cresce. La carica contro le prime file Alle 18:35 i manifestanti sfondano la rete. I poliziotti lanciano una carica contro le prime file. Dopo qualche minuto, viene dato fuoco a della sterpaglia immediatamente vicina alla sede degli scontri: una colonna di polvere e fumo si solleva minacciosa sull’intera area. Mentre piovono pietre e manganellate, dei manifestanti si accingono a spegnere il fuoco: una possibile propagazione delle fiamme avrebbe potuto legittimare eventuali divieti ad altre manifestazioni future. Finalmente, senza alcun intervento da parte dei vigili del fuoco, l’incendio viene spento dalle sole braccia dei manifestanti. Le cariche da parte della polizia terminano. Un folto gruppo di attivisti supera la rete e si addentra nella base, diretto verso le antenne presso cui, già da diverse notti, si sono arrampicati sette attivisti. Decidiamo di rimanere fuori dai confini della base: la nostra manifestazione, per oggi, è finita. Sulla strada verso casa, la luna piena ci sorveglia dall’alto, luminosissima, mentre gli ultimi raggi del sole attraversano con vigore le nuvole riempiendo il cielo.
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Giustizia
I “collaboratori” collaborano. E lo Stato? L’istituto della collaborazione con la giustizia degli ex appartenenti ad associazioni mafiose costituisce uno dei principali strumenti di contrasto alla mafia di Irene Astorri www.diecieventicinque.it Per collaboratore di giustizia s'intende chi, dopo aver fatto parte di una organizzazione criminale, decide di dissociarsene e di collaborare con l’autorità giudiziaria.
In Italia la creazione della normativa è stata determinata dalla situazione politicogiudiziaria della fine degli anni sessanta, quando ripetuti atti di violenza crearono grande allarme sociale. Ma soltanto negli anni novanta è stata introdotta una disciplina specifica in materia, grazie al decreto legge 15 gennaio 1991 n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991 n. 82, i cui punti più importanti erano: - poter fornire uno speciale programma di protezione ai collaboratori di giustizia e ai parenti più prossimi e permettere al collaboratore di accedere a vari benefici penitenziari (tra cui misure alternative alla detenzione) - il programma di protezione doveva essere deciso da un’apposita Commissione (istituita dal Ministero dell’Interno) e doveva essere richiesta dal pm, dal prefetto
Scheda PENTIMENTI, GIUSTIZIA E VERITA' Partiamo da un dato: senza i collaboratori di giustizia non sapremmo tutto quello che oggi sappiamo sulle mafie. Non sapremmo i rapporti al loro interno, i riti, i misteri e le verità. Probabilmente dubiteremmo ancora dell’esistenza della mafia. Eppure, questi, nascono col nascere delle mafie nonostante solo con Falcone diventino uno “strumento” fondamentale nelle mani della giustizia. Sicuramente hanno avuto un ruolo di primaria importanza nella lotta al terrorismo, ma quella, come ben sappiamo, è un'altra storia. Il primo pentito di mafia nella storia d’Italia «si chiamava Salvatore D’Amico. A metà dell’Ottocento faceva parte della “fratellanza degli stuppagghieri” di Monreale. Si trasferì a Bagheria, la cui cosca, “i fratuzzi”, era in guerra con quella monrealese. Iniziò a temere per la sua vita e decise di dire quello che sapeva ai giudici. “Undici giorni dopo il D’Amico veniva trovato crivellato da lupara, con un tappo di sughero in bocca ('u stuppagghiu) e sugli occhi il santino di stoffa della Madonna del Carmine che i fratuzzi portavano al collo a mo’ di amuleto e riconoscimento. La mafia aveva ritrovato l’unità per punire il traditore, anche se le due cosche continuarono per anni a distruggersi a vicenda”». Melchiorre Allegra, medico trapanese “pentito” nel 1937, era «affiliato alla famiglia mafiosa palermitana di Pagliarelli. Aveva raccontato la struttura di Cosa Nostra, il rito della “punciuta”, i nomi delle famiglie più importanti e i legami con la politica, la sanità e gli affari».
o dall’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa; - l’ammissione dipendeva dalla gravità e attualità del pericolo, dall’importanza delle informazioni fornite e dall’adempimento degli obblighi previsti dal programma di protezione stesso; - la gestione e l’attuazione dei programmi di protezione era affidata a un servizio istituito presso il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno (Servizio centrale di protezione); - il Ministro dell’Interno, in casi eccezionali, poteva autorizzare il cambiamento delle generalità dei soggetti sottoposti al programma di protezione. Questa legge è stata poi modificata con la successiva del 13 febbraio 2001 n. 45, con cui s'è cercato di eliminare le disfunzioni e incongruenze della precedente.
Tra D’Amico e Allegra intercorrono storie di pentitismi, collaborazioni e confidenze. Nei verbali venivano chiamati “dichiaranti” ma le scarse norme legislative sul tema e le diverse condizioni storiche del tempo hanno lasciato poche tracce delle testimonianze di questi personaggi. Difatti le notizie sono scarse sulla storia del pentitismo prima di Leonardo Vitale. Un “pentito” vero, quest’ultimo. Rese dichiarazioni spontanee dopo una lunga e travagliata riflessione, cercava un ravvedimento, voleva rimediare per il male fatto così come insegna il catechismo della Chiesa Cattolica. I collaboratori da ricordare, per importanza e verità, non sarebbero pochi. Ci sarebbe da raccontare anche di quei “falsi pentiti”, orchestrati a dovere per confondere le carte in gioco e creare sfiducia in questo strumento. Collaboratore però, non è sinonimo di “pentito”. Ognuno di loro è mosso da un motivo diverso che li porta a collaborare con la giustizia. I soldi, la protezione, o forse un riscatto per il male fatto. Spesso considerati dei delatori, che poi è il peccato di Giuda (e il paragone, non mio, è tristemente infelice), sono da sempre osteggiati e criticati dalla pubblica opinione e da molti addetti ai lavori. Eppure costituiscono un pilastro fondamentale della lotta alla mafia. In questo paese, e non solo. Forse basterebbe proteggerli maggiormente, seriamente, in base alla storia e alle verità riscontrate e non trattarli tutti allo stesso modo. Del resto, da D’Amico, a Buscetta, fino ad arrivare a Iovine, è cambiata la mafia, non il modo di trattare e “usare” i collaboratori di giustizia. Almeno fin quando questi, si limitano a portare verità che non fanno male a molti.
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Salvo Ognibene
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“Collaboratori e testimoni di giustizia: due cose del tutto diverse” È stato fortemente limitato il numero dei soggetti sottoposti al programma di protezione: ne possono usufruire solo coloro che forniscono un contributo di notevole importanza, mentre la collaborazione può essere portata avanti soltanto nell’ambito di alcune gravi fattispecie di reato attinenti alla criminalità organizzata (come ad es. terrorismo o eversione). Solo notizie attendibili e complete Il soggetto viene ammesso al programma di protezione solo se le notizie sono nuove, complete, attendibili e rese al pm entro 180 giorni dalla dichiarazione di volontà di collaborazione, oltre al fatto che all’autorità giudiziaria devono essere consegnati beni e denaro di provenienza illecita. Infine viene introdotta una netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia (soggetti vittima di reato o persone informate sui fatti destinate ad una diversa protezione). Nel 2013 l’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta aveva istituito, tramite decreto, una Commissione col compito di elaborare proposte di modifica al sistema per la lotta alla criminalità organizzata. La Commissione, composta dal Presidente Roberto Garofoli e dai membri Magda Bianco, Raffaele Cantone, Nicola Gratteri, Elisabetta Rosi e Giorgio Spangher, dopo aver ascoltato anche il parere di diversi soggetti coinvolti, è approdata alla stesura del “Rapporto della Commissione per l’elaborazione di proposte in
tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità” nel quale vengono sollevate criticità sul sistema normativo vigente. Un primo profilo riguarda il rigido termine previsto (180 giorni) entro il quale bisogna concludere l’assunzione delle dichiarazioni da parte del pentito: quelle successive sono inutilizzabili (salvi alcuni correttivi) e non è prevista alcuna proroga. Secondo la Commissione questo termine è eccessivamente rigido, considerata anche la mole di lavoro esistente nelle Procure. La proposta consiste nell’introdurre una proroga per il pm che dimostri di aver svolto la sua attività lavorativa ma di non essere riuscito ad assumere tutte le dichiarazioni del collaboratore, oltre a quella di creare una sanzione di inutilizzabilità per le dichiarazioni tardive, a meno che non si dimostri che il ritardo sia tale per un giustificato motivo. Le misure di protezione Un secondo profilo riguarda il numero di componenti della Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione: la legge del 1991 prevede due magistrati e cinque funzionari e ufficiali, presieduti da un Sottosegretario di Stato.
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La Commissione propone di aumentare il numero dei magistrati da due a quattro. Il terzo profilo di criticità riguarda infine il sistema della partecipazione a distanza al dibattimento dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Questi ultimi riferiscono diverse informazioni relative ad episodi delittuosi e queste instaurano diversi procedimenti penali: il soggetto deve perciò rendere le sue dichiarazioni in più giudizi, ma ciò genera ingenti spese allo Stato, che si deve occupare dei singoli trasferimenti. Questa situazione ha portato all’uso nei processi della videoconferenza. La videoconferenza Si deve inoltre distinguere se all’interno dei processi il soggetto partecipi come imputato o testimone: a seconda della posizione ricoperta nel processo infatti, il soggetto può o non può rendere la propria testimonianza a distanza, situazione dipendente anche da ragioni di sicurezza ed ordine pubblico. Per questo motivo il giudice deve disporre le cautele necessarie affinché il soggetto non sia riconoscibile ed evitare possibili ripercussioni da parte degli imputati. La Commissione ha perciò proposto di rendere obbligatoria la videoconferenza, anche se il collaboratore o il testimone sia esso stesso un imputato: questo servirebbe per ridurre notevolmente l’onere economico per lo Stato e per l’incolumità sia dei soggetti protetti sia per gli operatori di polizia addetti alla scorta
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Trattativa
Mori, il Sisde e quelle operazioni criminali Nelle nuove carte riflettori puntati sul ruolo dell’ex capo del Ros negli anni ’70 di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com
Palermo. E’ lo spaccato di uno Statocriminale quello che emerge dalle prime indiscrezioni relative all’attività integrativa di indagine della Procura di Palermo che verrà depositata al processo sulla trattativa Stato-mafia. I faldoni sono stati trasmessi anche alla Procura generale che rappresenta l’accusa al processo d’appello in cui Mori è imputato di favoreggiamento aggravato alla mafia.
Il periodo del Sid Questo materiale racchiude una parte dell’attività di indagine sulla permanenza dell’ex capo del Ros Mario Mori al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr) nei primi anni ’70. In quel periodo Mori è un giovanissimo ufficiale dei Carabinieri (da 3 anni era nell’Arma) che comanda una tenenza. Nel 1973 viene chiamato al Sid da un ex ufficiale dei Carabinieri al Servizio Informazione Difesa, Federico Marzollo, all’epoca la persona più vicina all’ex direttore del Sid Vito Miceli (uomo di Licio Gelli. La struttura parallela Miceli predispose la struttura parallela del Sid finalizzata ad organizzare un colpo di Stato tra il ’73 e il ’74 chiamata la Rosa dei Venti, ndr). Marzollo quindi porta Mori al Sid nel ’73, lo sponsorizza e lo avvicina a Vito Miceli. Tra l’altro lo stesso Marzollo era stato allievo ufficiale del padre di Mori. A cavallo tra la fine del ’74 e l’inizio del ’75 succede qualcosa di strano.
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Negli atti acquisiti dalla Procura dagli archivi dell’Aise (il servizio segreto per la sicurezza esterna) risulta in particolare che negli anni di permanenza al Sid Mori ha svolto funzioni operative con tanto di nome e documenti di copertura, riportando anche degli encomi importanti nel corso del ’73 e del ’74 per determinate operazioni. Mori si è occupato nello specifico di “contatti” con i terroristi neri. Il contesto A questo punto occorre inquadrare ulteriormente il contesto. Nel dicembre del ’74 il giudice istruttore di Padova, Giovanni Tamburino (fino a un mese fa a capo del Dap, ndr), che sta indagando sulla Rosa dei venti (con tanto di richiesta d’arresto per l’ex capo del Sid Vito Miceli), manda al Sid una richiesta urgente con la quale chiede che sia trasmessa dall’Autorità Giudiziaria di Padova un’immagine fotografica di Mario Mori. Il giudice Tamburino non specifica altro.
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“Tenetelo fuori fino alla fine del processo Borghese”
L'indagine tolta al magistrato
La cacciata di Mori Come è noto la Rosa dei venti è un’indagine condotta dalla magistratura di Padova sull’organizzazione segreta modello “Gladio” che operava soprattutto nel nord est, faceva riferimento, tra gli altri, all’ex generale Amos Spiazzi, e aveva come obiettivo quello di reiterare il progetto del “Piano Solo” del generale Giovanni De Lorenzo: una sorta di colpo di Stato militare che ci sarebbe dovuto essere tra il ’73 e il ’74. Tamburino chiede quindi la fototessera di Mori nel dicembre ’74. Per quale motivo? Non bisogna scordare che nell’ottobre di quello stesso anno il giudice Tamburino aveva fatto arrestare per l’indagine sulla Rosa dei venti Vito Miceli. Successivamente era stato arrestato anche Amos Spiazzi. Il 4 gennaio del ’75 l’ex generale Gianadelio Maletti (ex numero due del Sid rimasto al Servizio in seguito all’arresto di Miceli) scrive di suo pugno un appunto in cui chiede al direttore del Servizio facente funzioni, l’ammiraglio Mario Casardi (che poi diventerà direttore a tutti gli effetti), di allontanare Mario Mori dal Servizio “nel più breve tempo possibile”. Il 9 gennaio Casardi emette un provvedimento in cui dispone l’allontanamento di Mario Mori dal Servizio con effetto immediato aggiungendo alla richiesta di Maletti un’ulteriore direttiva. Non soltanto Mori deve essere cacciato via dal Servizio, ma deve essere urgentemente allontanato dal territorio della città di Roma.
Perché mai Mori viene mandato via da Roma in quel modo? Agli inizi del 1978 Mario Mori viene quindi restituito all’Arma di appartenenza per poi essere inviato a comandare il nucleo radiomobile di Napoli. In quello stesso anno il Comando generale dei Carabinieri scrive al Sid chiedendo se vi siano motivi ostativi al trasferimento di Mori a Roma. A tutti gli effetti si tratta di una sorprendente anomalia in quanto Mori, dopo essere stato cacciato con tanto di abbassamento delle note caratteristiche, non ha più alcun tipo di rapporto con il Sid. Anni di fuoco Il dato ancora più sconcertante è la risposta del Sid. Siamo nel gennaio del ’78, nella replica si legge che “come da disposizioni impartite” c’è il divieto di trasferire Mori a Roma “fino alla fine della celebrazione del processo Borghese”. Per quale ragione viene sottolineata questa specifica indicazione? Bisogna mettere insieme altri pezzi di questo mosaico. Il giudice Tamburino che stava conducendo l’indagine sulla Rosa dei venti a un certo punto si vede richiesti gli atti dalla procura di Roma. La tesi dei magistrati romani è molto semplice: siccome stiamo indagando sul Golpe Borghese, anche se non sono gli stessi soggetti, si tratta sempre di un colpo di Stato organizzato dai militari e quindi c’è connessione. Il pm che indagava sul Golpe Borghese era un uomo fedelissimo di Giulio Andreotti: Claudio Vitalone.
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Di fatto Tamburino resiste fino al dicembre del ’74, poi però la procura di Roma si appella alla Cassazione e vince. Tutta l’indagine sulla Rosa dei venti viene quindi tolta a Tamburino per essere mandata a Roma così da essere unificata a quella sul Golpe Borghese. Evidentemente il Sid scrive di non mandare Mori a Roma “fino alla fine del processo Borghese” fino a quando è in corso il procedimento che vede tra gli imputati anche Vito Miceli. Ma restano intatti gli interrogativi su quella disposizione del Sid. E’ un dato di fatto che nel giro di un paio di mesi la triade Miceli, Marzollo e Mori viene cacciata dai Servizi. I magistrati del pool stanno lavorando per comprendere in special modo i motivi dell’allontanamento di Mori. Incrociando i dati e analizzando le carte si cercheranno i possibili collegamenti tra Mori, Rosa dei venti e processo sul Golpe Borghese, fino ad arrivare al biennio stragista ‘92/’93. Molti dei principali protagonisti sono morti. E quelli in vita sono consapevoli dei contraccolpi che subirebbero da parte del Sistema nel caso di loro “rivelazioni” e preferiscono tacere. In nome della “sicurezza” La cacciata di Mori potrebbe rappresentare una sorta di “punizione” per aver agito troppo spregiudicatamente? O c’è dell’altro? Fino a che punto quegli stessi apparati che hanno armato la mano di Cosa Nostra, dei terroristi o di chiunque altro (per destabilizzare il nostro Paese attraverso le stragi), hanno utilizzato lo stesso Mori per quelle azioni criminali nel nome della “sicurezza nazionale” o per una “ragion di Stato”?
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Calabria
Chi comanda a Reggio Grazie all’Operazione Meta del 2010 sono emersi i nuovi assetti di potere della ‘ndrangheta operante nella città di Reggio Calabria. Chi comanda dopo la violentissima guerra finita nel 1991? Che clima si respira a Reggio? di Andrea Zolea www.wikimafia.it
L'organigramma della 'ndrangheta Il 2010 è stato un anno giudiziario molto importante per decifrare l’organigramma della ‘ndrangheta. Il 13 luglio, attraverso le operazioni congiunte CrimineInfinito realizzate dalla Dda di Reggio Calabria e di Milano veniva svelata la struttura unitaria della ‘ndrangheta. Venti giorni prima, però, scattava anche l’Operazione Meta, che portò all’arresto di 42 persone nella città di Reggio Calabria. Nonostante le differenze sostanziali tra le due inchieste, entrambe dimostrano quello che il pentito Paolo Iannò, ex-affiliato ai Condello, ha dichiarato ai pm: “la ‘ndrangheta è unica e sola, la ‘ndrangheta ordina i delitti, ci sono state le faide, ci sono stati omicidi fra di loro, faide fra locali e tutte cose, ma una ‘ndrangheta… che esistano due ‘ndranghete no, esiste che la ‘ndrangheta è un corpo, ha regole sociali e nasce a Reggio e si radica in tutte le parti del mondo ’’.
Scheda CRONISTORIA DELLA VIOLENZA MAFIOSA A REGGIO CALABRIA 2010 • 3 gennaio: esplosione di una bomba davanti alla Procura Generale • 21 gennaio: ritrovamento di un’auto piena di armamenti nel giorno della visita di Napolitano a Reggio Calabria • 25 gennaio: intercettata cartuccia caricata a pallettoni indirizzata al Pm Giuseppe Lombardo •17 maggio: intercettato un proiettile spedito con frasi intimidatorie al Pm Giuseppe Lombardo • 5 ottobre: ritrovato un bazooka davanti al tribunale di Reggio destinato all’ex Procuratore Capo della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone 2011 • 1° marzo: intercettato proiettile di kalashnikov spedito al Pm Giuseppe Lombardo • 31 marzo: ucciso al bar Carmelo Morena, pregiudicato reputato vicino ai Condello-Tegano
Questa e altre testimonianze dei collaboratori di giustizia delle due operazioni dimostrano come il cuore pulsante della ‘ndrangheta si trovi nell’intera provincia di Reggio Calabria e il potere delle ‘ndrine sia spartito nei tre mandamenti provinciali: Jonica, Città e Tirrenica. Come ha affermato il Procuratore sostituto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, padre dell’indagine Meta: “il Crimine a Reggio Calabria è Archi, così come sulla jonica è San Luca e sulla tirrenica Rosarno". L'eredità di Giuseppe Di Stefano L'indagine Meta si focalizza sulle attività e i collegamenti dei gruppi mafiosi presenti nella città di Reggio Calabria. Attraverso questa inchiesta è emerso come Giuseppe De Stefano abbia ereditato il potere del padre Paolo. A conclusione della prima guerra di 'ndrangheta i De Stefano avevano soppiantato i Tripodo in città: infatti, dopo le eliminazioni di
• 12 agosto: ucciso Giuseppe Canale, ritenuto affiliato al clan Serraino, a Gallico Superiore 2012 • 9 ottobre: sciolto per infiltrazione mafiosa il Comune di Reggio Calabria • 10 ottobre: arrestato dopo 19 anni di latitanza Domenico Condello, Micu ‘u pacciu 2013 • 8 marzo: ritrovato pacco bomba indirizzato al Pm Giuseppe Lombardo con scritto “se non la smetti ci sono pronti altri 200 kg” • 6 giugno: Antonino Lo Giudice evade dal programma di protezione 2014 • 3 marzo: ucciso il presunto boss Quirino Franco
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Giovanni e Giorgio, a prendere le redini del clan fu De Stefano padre. Grazie anche al capobastone di Archi (quartiere di Reggio Calabria in cui i De Stefano sono egemoni), la 'ndrangheta fece il salto di qualità: aveva rapporti con la destra eversiva, la politica, la massoneria deviata, i servizi segreti e le élites criminali di Cosa nostra e della camorra. Il mammasantissima di Archi fu assassinato il 13 ottobre 1985 con un’autobomba, in risposta al suo fallito tentativo di eliminare Antonio Imerti. Scoppiò così la seconda guerra di ‘ndrangheta tra il gruppo De Stefano ed il cartello Imerti-Condello. La pace, dopo oltre 700 morti, arrivò solo nel 1991 e grazie anche all’intervento dei più influenti boss di Cosa Nostra, del calibro di Leoluca Bagarella. In città, fino all’arresto il 18 febbraio 2008, il boss più influente era Pasquale Condello, detto il Supremo. La struttura di comando Attraverso l’Operazione Meta è emerso anche che le cosche più influenti della città avevano creato una struttura sovra-ordinata capeggiata da Giuseppe De Stefano. L’organismo strutturale cittadino costituisce un’importante novità investigativa perché dimostra come i clan
Nino Fiume è un viscido, Antonino Lo Giudice è un ragno spacciatore di angurie marcie’’. La sentenza di primo grado
più potenti della città di Reggio Calabria protagonisti della cruenta seconda guerra di ‘ndrangheta si siano pacificati e organizzati per la ‘spartizione’ degli affari cittadini: dalle attività delittuose, alle azioni intimidatrie fino alla ‘torta’ degli appalti. Il rampollo della famiglia De Stefano venne arrestato il 10 dicembre 2008, dopo 5 anni di latitanza. Con l’accusa di associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. Nel processo Meta viene indicato con la dote di Crimine, un “fiore” (riconoscimento) concesso solo ai più meritevoli affiliati alla mafia calabrese. Il 31 maggio 2013, interrogato per oltre 5 ore dal pm Giuseppe Lombardo, De Stefano ha negato di essere il “capocrimine”, dichiarando inoltre che i pentiti che lo accusano ‘‘sono dei buffoni […]
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Il 7 maggio 2014 la Corte ha inflitto durissime condanne agli imputati. La pena più alta è stata inflitta a Giuseppe De Stefano, 27 anni. Questa indagine ha fatto emergere l'egemonia dei clan nei 'locali' di competenza territoriale. La cosiddetta “zona grigia” non è stata toccata in quest’operazione. Nonostante ciò, il Pm Giuseppe Lombardo, che in 3 anni ha subito quattro pesanti intimidazioni, nella requisitoria ha sostenuto: “La 'ndrangheta non finisce agli imputati di questo processo, questo è l'abito da lavoro del sistema criminale di cui fanno parte, siamo sulle orme di chi veste l'abito da sera e frequenta salotti dove l'abito da lavoro non è ammesso''. La storia ci insegna infatti che la ‘ndrangheta si è sempre avvalsa di rapporti di scambio con il potere costituito: sia esso la politica, la massoneria, l’imprenditoria o i servizi segreti. Le dichiarazioni di Lombardo sembrano proprio dimostrare che la mafia calabrese non ha perso il capitale sociale che la contraddistingue.
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Milano
Tempo e mafia: i nemici di Expo Expo e organizzazioni criminali. Expo e corruzione. Gli ultimi mesi, la fase finale. Le linee guida della prefettura per contrastare le ditte colluse di Giorgia Venturini www.stampoantmafioso.it
Manca poco. Ancora qualche mese e poi sarà Expo 2015. Siamo alla fase accelerativa. L’ultima. Quella che serve a operai e società edili a completare gli ultimi lavori in cantiere. Come il padiglione Italia, alcuni dei padiglioni tematici e altre strutture interne al sito. Mentre si stanno, invece, avviando le consegne delle aree ai partecipanti esteri, a cui seguirà ancor più intensa fase di costruzione, acquisizione di beni, servizi e forniture, con un aumento esponenziale dei contratti. A passo con quest’ultima fase di lavori, anche il controllo antimafia. La prefettura, la Direzione Investigativa Antimafia, il Gruppo Interforze Centrale per l’Expo (GICEX) e le altre forze di polizia territoriale, si preparano ad intensificare le attività di controllo per l’accesso ai cantieri.
L'infiltrazione mafiosa Quest’ultima fase, però, richiederà maggior attenzione. Non solo perché l’incremento di lavoro e l’aumento dei contratti sono, senza dubbio, elementi favorevoli all’infiltrazione mafiosa, ma anche perché la rincorsa sfrenata degli ultimi mesi per il completamento dei lavori potrebbe portare a qualche svista. A qualche errore di percorso. Così il binomio Expo 2015 e organizzazione criminale ritorna ed essere oggetto di discussione a Roma. In Commissione Parlamentare di Inchiesta sul Fenomeno delle Mafie, infatti, lo scorso 15 maggio il prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca ha voluto, fin da subito, ribadire il proprio impegno nell’antimafia. “Priorità di Milano, ora più che mai, sarà quello di combattere le associazioni mafiose su più fronti, con un’efficace aggressione dei loro interessi economici, impedendo concretamente alle ditte colluse e infiltrate di poter accedere a fondi pubblici attraverso l’affidamento di lavori, servizi e forniture. I controlli si devono intensificare. E per farlo dobbiamo modificare alcune linee guida”. Molti controlli avviati a lavori iniziati In questi ultimi anni, infatti, si è avuta la sensazione che la creazione di presupposti giuridici e di strumenti concreti per lo svolgimento dei controlli mirati e specifici abbia dovuto più inseguire che gestire gli eventi. Infatti, come riportato in Commissione, molte delle attività di controllo sono state avviate a lavori iniziati.
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Ciò è spiegato dal fatto che la normativa del Codice Antimafia consente l’obbligo di stipula del contratto dell’azienda vincitrice della gara di appalto, una volta decorso invano il termine ordinario di 45 giorni oppure di 15 in caso di urgenza, permettendo, così, l’ingresso in cantiere senza che vi sia in molti casi un primo vaglio di controllo ai fini antimafia. Colpa, forse, delle longeve modalità procedurali e dalle troppe pratiche in corso. Tuttavia, non può la burocrazia soffocare il controllo antimafia e spalancare le porte dei cantieri alla ‘ndrangheta. Controlli e tempi di realizzazione Come, quindi, coniugare al meglio l’esigenza di garantire un controllo rafforzato ed efficiente con i tempi di realizzazione delle opere? Una risposta Milano ce l’ha. Si è proceduto, infatti, ad adottare fin dallo scorso ottobre 2013, per i controlli antimafia sulle opere Expo, la modalità così detta speditiva di rilascio delle informazioni antimafia. Questa soluzione, secondo la prefettura, oltre ad essere utile a smaltire un’ingente quantità di pratiche arretrate, è risultata funzionale a consentire l’ingresso nei cantieri alle sole imprese che avevano già superato un primo controllo rilasciando una liberatoria provvisoria. Ciò ha consentito di emettere le liberatorie per 346 imprese, corrispondenti a circa il 35% delle pratiche arretrate. Tuttavia, questa modalità speditiva non è stata sufficiente per la società Expo che, lo scorso mese, ha sollevato, ancora una volta, alcuni problemi legati principalmente al tempo di ingresso degli appaltatori e dei subappaltatori.
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“Fra 'ndrangheta e corruzione”
Nuovo modello procedurale È stato, quindi, delineato un nuovo modello procedurale per l’applicazione dei controlli antimafia, che ha coniugato la richiesta di semplificazione evidenziate dalla società Expo con l’esigenza di non abbassare il livello dei controlli. Un’innovazione così presentata in Commissione dal Prefetto Tronca: “Le soluzioni intraprese consentono di centralizzare, ugualmente, l’attività di controllo speditivo presso la prefettura di Milano e la possibilità della DIA di concentrare la sua attenzione sull’attività di accesso ai cantieri. Il tutto in ottica degli impegni assunti dal Ministero degli Interni con la sottoscrizione del piano di azione Expo Milano 2015 mafia free.
E' un piano che vuole favorire la necessità di integrazione tra i controlli soggettivi e quelli di carattere ambientale. Così facendo verrà potenziato il controllo sui cantieri, possibile solo grazie al contributo di un aumento dei gruppi interforze e dell’utilizzo di piattaforme informatiche, ideate per assicurare la continuità del lavoro nell’attività di analisi dei dati”. Fase finale Oggi siamo alla fase finale, quindi. Quella accelerativa. Quella in cui non è più concesso cambiare linee giuda e introdurre nuovi provvedimenti. Ora le leggi ci sono. Sono chiare. Le idee pure.
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Iniziare a fare i conti conla realtà Sono state spiegate e revisionate in Commissione. Ora c’è solo il tempo di metterle in atto. E per farlo bisogna ripartire. Come? Iniziando a fare i conti con la realtà. Quella che più volte ha dimostrato che la ‘ndrangheta c’è. Da anni ormai è osservatrice speciale nei cantieri dell’Expo. La corruzione pure, inutile negarlo. Il tempo, invece, no. Di quello ne è rimasto poco. C’è solo il tempo di limitare i danni e, per riuscirci, bisogna agire ora. C’è solo il tempo per correre una breve gara. Contro i lavori incompiuti e conto la mafia. A cui la prefettura e gli altri organi antimafia sono costretti a partecipare e a vincere. Le parole, oggi, non bastano più.
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Ambiente
Bonifichi chi può e inquini chi vuole Gli ultimi tre governi hanno fatto una serie di decreti accusati dagli ambientalisti di rendere più complicato bonificare. E favorire chi ha inquinato o inquina ancora di Alessio Di Florio www.ritaatria.it
L’Italia è disseminata di migliaia e migliaia di luoghi inquinati, contaminati in decenni dalle attività più disparate, dalla grande industria pesante a discariche ormai non più in esercizio. La Terra dei fuochi, la mega discarica della Val Pescara (sulle cui vicende è in corso un processo e un altro presto potrebbe avviarsi) o di Micorosa (44 ettari di rifiuti tossici all’aperto sul mare), in provincia di Brindisi e recentemente finita nel mirino della locale procura dopo di alcuni cittadini e di due comitati ambientalisti, moltissimi ex siti industriali, l’elenco è vastissimo. 57 di questi siti, i più pericolosi per l’ambiente e la salute umana, i più contaminati dai veleni più disparati, erano considerati SIN, Siti d’Interesse Nazionale, sottoposti direttamente alla responsabilità del Ministero dell’Ambiente.
Declassati diciotto siti Nel 2013 un decreto del Governo Monti ne diminuì il numero a 39. Tra i siti “declassati”, e quindi non considerati più priorità nazionale, c’erano persino la “Terra dei Fuochi”, “La Maddalena” in Sardegna e la “Valle del Sacco”. Fu promossa dalla Regione Lazio, dal Comune di Ceccano e, ad adiuvandium, dalla “Rete per la Tutela della Valle del Sacco onlus”, un ricorso contro quest’ultimo declassamento. Nelle scorse settimane il Tar del Lazio ha accolto il ricorso affermando che “il ragionamento del Ministero, ad avviso di questo Collegio, è erroneo in radice” e che “La norma applicata sembra anzi ampliare (piuttosto che restringere) le fattispecie dei territori potenzialmente rientranti nell’ambito dei siti di interesse nazionale”. I decreti dei vari governi I movimenti per l’acqua pubblica e contro il biocidio e il Coordinamento Nazionale di Associazioni, Movimenti e Comitati che si mobilitano per i siti contaminati hanno chiesto al Ministero di cancellare quel declassamento e di rivedere totalmente la strategia ministeriale. Una strategia che, negli ultimi anni, appare sempre più orientata secondo gli ambientalisti a “mettere la polvere inquinata sotto il tappeto”, a rendere sempre più complicata la possibilità di avere delle reali e totali bonifiche e di favorire chi ha inquinato o continua ancora ad inquinare. Perché quel decreto non è stato l’unico ad andare nella stessa direzione. Una direzione verso la quale i governi di “larghe intese” (o di “piccole”, tornando all’attualità…) hanno voluto procedere con vari decreti.
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Il “decreto del Fare” del governo Letta (così come precedentemente il “Decreto Semplificazione” del governo Monti) aveva previsto che le bonifiche potessero essere realizzate “se economicamente possibili”. Il decreto “Destinazione Italia” (e siamo al Governo Renzi) prevedeva quasi un condono, con finanziamenti pubblici per le bonifiche (che dovrebbero, invece, essere a carico di chi ha inquinato). “Inquinatore Protetto” L’ultimo tentativo, mentre l’articolo viene redatto in discussione in Parlamento, è di queste settimane: il decreto 91, le cui proposte ambientali sono state definite dal ministro Galletti “Ambiente Protetto” e ribattezzato dai movimenti ambientalisti (che hanno lanciato una mobilitazione per chiedere di modificarlo radicalmente “Inquinatore Protetto” per quanto prevede. La prima proposta che colpisce è quella di modificare i limiti per l’inquinamento dei suoli delle aree militari di 100 volte equiparandoli alle zone industriali. Un “vero e proprio vergognoso colpo di spugna sullo stato di contaminazione delle aree militari del paese” in poligoni, campi di addestramento, e persino nelle caserme, per i movimenti ambientalisti. Eppure, ricordano ancora, “spesso appaiono come ampie zone verdi coperte da macchia mediterranea e boschi! Si pensi a Capo teulada e Quirra (Perdasdefogu) in Sardegna oppure a Monte Romano in Lazio (vasto 5000 ettari!)”. Sono mesi che un’ampio dibattito in molte zone d’Italia si sta animando sulla possibile vendita a Comuni e Regioni per una riconversione civile delle caserme in disuso.
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Il decreto 91 di fatto renderà quasi impossibile qualsiasi riconversione e indurrà gli Enti Locali interessati a non acquistarle più: nel momento in cui dovessero farlo per decidere di puntare sulla loro riconversione civile, le aree e gli immobili non saranno più equiparati a zone industriali e i limiti di inquinamento si ri-abbasserebbero di 100 volte. Imponendo così al Comune o alla Regione che acquista ogni costo di bonifica. Come chiedono i movimenti ambientalisti, chi lo farebbe considerando che, mantenendo l’area militare, si rispetterebbe la legge senza dover spendere un euro? Gli scarichi a mare Per gli scarichi a mare (vera e propria calvario per moltissime località balneari…) “le Autorizzazioni integrate ambientali rilasciate per l’esercizio possono prevedere valori limite di emissione anche più elevati e proporzionati ai livelli di produzione” interessando anche acciaierie, centrali elettriche e a carbone, cementifici, raffinerie, stabilimenti chimici, rigassificatori e inceneritori spessissimo al centro delle proteste ambientaliste in varie parti d’Italia. Si realizzerebbe così il paradosso che maggiore sarà la produzione e più si potrà inquinare. La proposta del Ministro dell’Ambiente Galletti prevede anche una drastica modifica dell’iter delle bonifiche di aree private, con quello che appare un netto favore agli inquinatori che dovranno in futuro pagare i costi della bonifica dell’inquinamento prodotto (anche se, leggendo il decreto, viene il dubbio che non sarà più così ).
Il silenzio-assenso sperimentale Fino al 2017 ci sarà una sorta di silenzio-assenso sperimentale: il privato autocerticherà i dati dell’inquinamento e della bonifica necessaria e, solo dopo aver effettuato la bonifica, dovrà inviare i risultati all’Agenzia Regionale per l’Ambiente che avrà 45 giorni per le sue verifiche decorsi i quali, in mancanza di risposte, l’intervento del privato s’intenderà approvato. Come le cronache ci raccontano, spesso ci vogliono anni e anni per aver un quadro certo dell’inquinamento prodotto in una determinata area. Come potranno le Agenzie Regionali ricostruire la situazione in 45 giorni? Il decreto, tra l’altro, non prevede alcun criterio minimo sulla caratterizzazione (la fase preliminare della bonifica nella quale si cercano le sostanze inquinanti), al contrario dell’attuale normativa, lasciando totale libertà al privato mentre, invece, l’Agenzia Regionale per l’Ambiente avrà due notevoli limiti: effettuerà la verifica solo sul 10% dei campioni e solo sui parametri scelti dal privato. Solo sul 10 per cento dei camioni Dati gli altissimi costi dei piani di caratterizzazione e delle bonifiche e il rischio di richieste di risarcimento per danni sanitari (che d’ora in avanti potrebbero avvenire solo sui dati forniti dall’inquinatore, e quindi, da chi sarà accusato di averli causati) il rischio è di dare avvio ad una lunghissima stagione di piani minimali e di bonifiche che avverranno solo sulla carta. Persino il Sole24Ore ha duramente criticato il decreto di Renzi e Galletti.
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“Un colpo di spugna vergognoso”
Il 18 luglio sul sito del quotidiano di Confindustria è stato pubblicato un articolo nel quale si definisce il comma 4 dell’articolo 15 del decreto che prevede (per la prima volta nella normativa italiana!) la possibilità di Via (Valutazione d’Impatto Ambientale) “postume” (ovvero dopo l’autorizzazione e costruzione di impianti) “ab gubernatoris”, affermando che tale nuova norma favorirebbe il presidente della Regione Marche (che, a quanto si riporta nell’articolo del Sole24Ore, sarebbe indagato dalla Procura di Ancona per le autorizzazioni rilasciate a molteplici impianti a biogas). Chi paga l'inquinamento dei privati? Tirando le somme di tutta questa vicenda, e del decreto attualmente in discussione (ma sono parole che potrebbero valere anche per i precedenti decreti e per la direzione che in generale i governi Monti, Letta e Renzi hanno cercato di intraprendere in materia), il Forum per l’Acqua Pubblica, i comitati di Lazio e Abruzzo Stop Biocidio e il Coordinamento Nazionale Siti Contaminati denunciano “la solita scorciatoia all’italiana, perché il nostro sistema produttivo non vuole pagare quel che dovrebbe per risanare le aree che ha inquinato”. Secondo queste associazioni, chi ci governa vorrebbe donare la possibilità di “chiudere la stagione dei veleni privatizzando le operazioni per risparmiare. Ma è solo un colpo di spugna vergognoso: alzare i limiti di contaminazione non vuol dire risolvere i problemi ma solo nascondere polvere sotto il tappeto”.
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Mazzarrà, tra irregolarità e tangenti
Una svolta sulla discarica dei veleni? La commissione istituita dall’ex assessore Marino per verificare le condizioni degli impianti privati ha sollevato pesanti dubbi sul sito di proprietà della Tirrenoambiente. Diverse le irregolarità riscontrate.
di Carmelo Catania Quella della discarica di contrada Zuppà, una delle tre più grandi discariche private siciliane, è una storia lunga più di dieci anni e più volte al centro di inchieste tra commistioni politico-affaristico-mafiose. Un’enorme collina d’argilla e spazzatura posta a cavallo tra i comuni di Mazzarrà Sant’Andrea e Furnari, in cui ogni giorno arrivano oltre 700 tonnellate di rifiuti prodotti da Messina e altre provincie. Raccolte, triturate, trasportate e interrate dagli operai della Tirrenoambiente Spa, l’azienda guidata da Giuseppe Antonioli che incamera circa 70.000 euro al giorno (in media ogni tonnellata viene pagata 100 euro), una miniera d’oro per i gestori. Nonostante la Regione abbia approvato da tempo un deliberato che impone una distanza minima di 5 chilometri tra le discariche e i centri abitati, l’invaso sorge ad appena 400 metri dal centro abitato di
Furnari, abitato da oltre 3 mila persone, appestando l’aria con miasmi e un fetore insopportabile, tanto da non poter aprire le finestre nemmeno d’estate. Potrebbe finalmente prospettarsi una svolta nella questione dell’impianto della Tirrenoambiente. La commissione ispettiva Tutto comincia con la revisione, da parte dell’assessorato regionale all’Energia, guidato ancora da Nicolò Marino, delle autorizzazioni concesse agli operatori proprietari degli impianti privati nella regione. Per l’impianto di contrada Zuppà, entrato in funzione nel 2003, è stato proposto «l’avvio del procedimento di diniego dell’istanza di rinnovo». Nella comunicazione inviata anche all’azienda partecipata dal comune di Mazzarrà Sant’Andrea, il dirigente regionale Marco Lupo ricorda che il 17 gennaio 2014 «è stata costituita una commissione ispettiva per la verifica degli atti relativi alle discariche private in esercizio per rifiuti non pericolosi site nel territorio siciliano». Commissione che ha sollevato pesanti dubbi sul sito di Mazzarrà. Le irregolarità individuate dal pool investigativo, raccolte in una relazione conclusiva di 170 pagine depositata lo scorso giugno, nel sito messinese riguardano la tutela dell’ambiente e della salute e danno ragione ai cittadini di Furnari che da tempo lamentano una serie di violazioni dal punto di vista ambientale. Paure che sembrano avere finalmente un riscontro ufficiale. Carenze e violazioni Il documento mette in rilievo alcuni punti: l’assenza delle prescrizioni del sindaco, la «mancata applicazione del principio di unica Aia (Autorizzazione integrata
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ambientale) per uno o più impianti localizzati sullo stesso sito e gestiti dal medesimo gestore». E poi le «difformità». Quella nel rispetto del programma di riduzione dei rifiuti biodegradabili, la presenza di rifiuti non ammessi (come liquidi e pneumatici), la mancanza dell’obbligo di trattamento dei rifiuti, dei piani di gestione operativa e post operativa, sorveglianza e controllo e ripristino ambientale. E ancora violazioni volumetriche, la mancanza di coerenza con il piano regionale di gestione dei rifiuti. Inoltre, «il decreto Aia rilasciato non possiede le caratteristiche di conformità legislativa più volte richiamata né conseguenzialmente permette l’effettuazione di controlli efficaci sulle attività di gestione rifiuti autorizzate». Secondo le accuse della Regione, «le attività di gestione dei rifiuti sono state svolte in difformità ad alcune condizioni imposte nel decreto Aia, nonché in difformità al decreto legislativo 36/03 e decreto legislativo 59/05», che normano rispettivamente la gestione delle discariche e la riduzione dell’inquinamento. E ancora « la legittimità dell’atto è palesemente inficiata dall’assenza agli atti del preventivo giudizio di compatibilità ambientale positivo» (Via), non sono conformi l’impermeabilizzazione, e manca l’indicazione della capacità totale dell’impianto. Non solo, il progetto della barriera di confinamento realizzata al di sotto del corpo rifiuti non è stato trasmesso: ciò non rende possibile attestare se la base dell’ampliamento non si attesti su aree già coltivate. Gli ispettori inoltre fanno notare come alcune aree intermedie fra la nuova e la vecchia discarica storica siano «oggetto di coltivazione ed abbancamento». Le immagini tratte da Google Earth «sembrerebbero confermare l’avvenuto sbancamento in tempi non definiti».
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Infine, «non risulta che il piano finanziario sia stato mai trasmesso ed approvato, così come le garanzie finanziarie». Alla commissione, inoltre, «non è chiaro» se la polizza assicurativa sia scaduta a maggio del 2012 e soprattutto se sia stata adeguata dopo l’ampliamento. Decisione rinviata a settembre Tirrenoambiente, che ha annunciato la chiusura del sito per il prossimo 31 agosto per esaurimento della capienza, avrebbe stilato un documento con le contro deduzioni. Il prossimo 2 settembre a Palermo è stata convocata una conferenza dei servizi alla quale è stato invitato anche il comune di Furnari, che ottiene finalmente il riconoscimento delle proprie ragioni. Un appuntamento che potrebbe essere fondamentale: se le criticità riscontrate non dovessero essere risolte, la Regione esprimerà parere negativo al rinnovo delle autorizzazioni. Ma i passi successivi sono messi in dubbio dall’avvicendamento di Marino con Salvatore Calleri, considerato vicino agli ambienti di Confindustria. Il “modello Marino” prevedeva di togliere il monopolio delle discariche ai privati e fare i controlli sui prezzi di conferimento in discarica. Ed è proprio sui rifiuti che nei mesi scorsi l’ex assessore si è scontrato con Giuseppe Catanzaro, che di Confindustria è vicepresidente, lanciando pesanti accuse sui presunti intrecci con Cosa nostra scatenando una reazione fatta di querele e richieste di risarcimento milionarie. I timori degli abitanti di Furnari risiedono tutti in questo legame tra il leader toscano del Megafono e Confindustria. Associazione legata a doppio filo con il nome del gruppo Catanzaro.
Come agirà la Regione, alla luce di quanto evidenziato dalla commissione ispettiva? Calleri bloccherà l’iter o – come sperano i cittadini – agirà in continuità amministrativa? Mazzette alla Regione Negli stessi giorni in cui all’assessorato si avviava l’iter del procedimento di diniego delle autorizzazioni, la procura di Palermo portava a termine l’operazione “Terra Mia”, ordinando l’arresto proprio dell’amministratore delegato di Tirrenoambiente, Giuseppe Antonioli, insieme ad altri tre imprenditori della “munnizza” (Domenico Proto della Oikos di Misterbianco, Calogero e Nicolò Sodano, titolari della discarica Soambiente di Agrigento e del funzionario dell’assessorato regionale al Territorio e ambiente, Gianfranco Cannova, figura chiave di un sistema di corruzione messo in atto per raggirare il sistema di autorizzazioni allo smaltimento dei rifiuti. Gravi i danni ambientali Secondo gli investigatori il quadro di corruzione emerso è molto grave, in quanto ha messo a repentaglio la salute pubblica e alla preservazione del territorio da gravi danni ambientali. Nel corso delle indagini, polizia e Noe dei carabinieri, hanno constatato che «questo settore amministrativo è caratterizzato da una stratificazione normativa e da un complesso e macchinoso apparato burocratico che ha consentito al funzionario infedele, pur non rivestendo un ruolo apicale, di “giostrare” nella gestione delle procedure connesse al rilascio dei provvedimenti, agevolando gli imprenditori e preservandoli dall’ordinaria attività di controllo e
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monitoraggio della pubblica amministrazione consentendo loro in questo modo di superare indenni tutti i controlli. Cannova, secondo l’accusa, gestiva il suo ufficio come un feudo, ricevendo regalie e ingenti somme di denaro dai diversi imprenditori che attendevano dal suo ufficio le autorizzazioni amministrative per l’esercizio delle discariche e che si vedevano garantire una corsia preferenziale per le loro pratiche. Il funzionario, inoltre, avvertiva in anticipo le imprese dei controlli o le informava del risultato di riunioni in assessorato. Quell’Audi sospetta Nei confronti del dipendente regionale l'ex assessore regionale al Territorio Mariella Lo Bello aveva presentato lo scorso marzo un esposto. Il funzionario: aveva predisposto un atto che bloccava l'autorizzazione a una discarica di Gela. A quel punto l’assessore Lo Bello, insospettita dallo “strano” comportamento, avvia una serie di verifiche e salta fuori la storia di una conferenza dei servizi convocata nel settembre 2008 e presieduta dallo stesso Cannova che aveva rilasciato l’Autorizzazione integrata ambientale per l’ampliamento della discarica di Mazzarrà Sant’Andrea, omettendo la vicinanza al centro abitato di Furnari. Nell’ottobre del 2008 il funzionario acquista un’Audi A6 in Lombardia, in una concessionaria che faceva riferimento all’amministratore delegato della società alla quale era stata rilasciata l’autorizzazione. «Abbiamo così trasferito il funzionario e presentato una denuncia sospettando un giro di tangenti per oliare alcune pratiche piuttosto che altre, il tutto in un assessorato noto per le sue lentezze e le improvvise accelerazioni», commentava la Lo Bello.
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Catania/ Il caso Tortuga
Fra abusivismo e mafiosità Quando l’ambiente si rispetta solo a parole... di Ivana Sciacca www.associazionegapa.org Si immaginino due fratelli (i fratelli Testa) che negli anni Settanta decidono di aprire un porto turistico a Catania, proprio al Porticciolo di Ognina. Fin dagli albori dell’iniziativa è chiaro che stanno per edificare in un’area privata vincolata. Cosa vuol dire? Vuol dire che pur trattandosi di un’area privata, per il particolare valore paesaggistico-artistico che la connota, l’area deve comunque rimanere fruibile alla collettività. Intesa non solo come gli abitanti che in quel posto vi risiedono ma, nel senso più ampio del termine, comprendendo tutti coloro che desiderano recarsi in quel posto per goderne la bellezza e quindi chi, al Porticciolo per esempio, potrebbe andarci per pescare, per fare delle foto, una semplice passeggiata e…tanto altro ancora. L’iniziativa dei fratelli Testa si rivela fruttuosa sotto il profilo economico sin da subito, a tal punto che prosegue da generazione in generazione e viene quindi ereditata dai figli che ampliano la loro attività estendendola anche alla vendita e alla manutenzione di imbarcazioni e motori. Questo ampliamento pare richiedere anche maggiori spazi. Una delle caratteristiche vantate dalla Tortuga (il nome della società dei fratelli Testa, ndr) è il “rispetto dell’ambiente”, nota di merito che qualunque cliente di buonsenso potrebbe considerare come surplus qualora non conoscesse i retroscena delle vicende che hanno riguardato questa storica azienda catanese.
Nel 2012 alcuni esposti alla Procura della Repubblica segnalano diversi interventi edilizi “sospetti” da parte dei proprietari della Tortuga. Si temeva che le costruzioni abusive fossero state fatte senza alcuna concessione. Ma, rovistando tra carte bollate e atti ufficiali, si scopre che i titoli concessori non mancavano: c’erano ma erano del tutto illegittimi. Una concessiole illeggittima Parafrasando ulteriormente: si scopre che il Comune di Catania, il demanio marittimo, la Soprintendenza e persino il Genio Civile avevano accordato il loro parere favorevole affinché i fratelli Testa potessero ampliare le loro costruzioni al Porticciolo, pur sapendo di contravvenire all’art. 23 delle Norme di attuazione del Piano Regolatore Generale che prevede, inequivocabilmente, che “nelle aree private vincolate non deve essere aumentata l’attuale consistenza edilizia” (dove per attuale si intende l’anno 1969, ossia l’anno di approvazione del PRG). Nonostante le sentenze del 2012 e del 2013 che imponevano la demolizione delle opere abusivamente realizzate, i lavori alla Tortuga procedono come se nulla fosse accaduto.
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La rivolta dei cittadin L’unica nota positiva in questa vicenda intrisa di mafiosità riguarda l’atteggiamento dei residenti di Ognina che, non volendo farsi togliere la terra da sotto i piedi, fanno ricorso al TAR per evitare che la zona continui ad essere deturpata da chi ne ha tutti gli interessi economici. Gli abitanti creano un comitato, organizzano dibattiti, fanno persino volantinaggi per fare conoscere la situazione che stanno affrontando. Pensando che il Porticciolo è di tutti, ed è giusto che tutti sappiano. Un gruppo di pescatori si aggrega a loro riconoscendo la legittimità di quel diritto: senonché poi gli stessi pescatori fanno un passo indietro poiché convinti (non si sa con quali parole) dal prete della Chiesa di Santa Maria di Ognina. E il lieto fine? Manca... Sarebbe bello, una volta tanto, poter raccontare un episodio a lieto fine ma purtroppo questo happy end ancora non c’è. La tensione al Porticciolo continua ad essere la stessa, aggravata anche dalle minacce e dalle lesioni che alcuni residenti hanno ricevuto, nel mese di giugno, da alcuni membri della famiglia Testa. Ingiurie, intimidazioni, sputi e calci. E tutto questo perché da un lato qualcuno ritiene (mafiosamente) giusto poter coltivare i propri interessi economici a danno della collettività; e dall’altro le istituzioni che dovrebbero essere garanti dei beni pubblici non fanno che strizzare (mafiosamente) un occhio agli stessi soggetti, lavandosi spudoratamente le mani di fronte ai diritti che il popolo reclama senza che nessuno lo ascolti. Nel sito ufficiale della Tortuga si afferma che si tratta di una società che opera nel mercato “puntando verso l’innovazione delle tecnologie e il rispetto dell’ambiente”...
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8-9 agosto 2014 Milazzo (ME)
Associazione Antimafie “Rita Atria” 20 anni di memoria attiva
Venti anni! Venti anni di Memoria Attiva! Venti anni di schiena dritta. Siamo nati nell'inverno del 1994 ma in fondo siamo nati molto prima... abbiamo scelto agosto per permettere ai nostri compagni di viaggio di raggiungere la Sicilia. Sarà un momento di bilancio ma soprattutto sarà un momento di festa. Ci saranno anche eventi intermedi che porteranno all'8 e al 9 agosto... il programma è tutto da definire ma iniziate a segnare queste due date nel vostro calendario. Il ventennale sarà dedicato a Simona Scibilia e a tutti i nostri compagni e compagne del presidio più importante: Presidio Paradiso. Con noi anche Cettina Merrina, Sandro Marcucci e Salvatore Coppola... oltre a Rita Atria. L'immagine dell'evento è la nostra tessera ventennale, non è in alcun modo riproducibile. Ringraziamo Mauro Biani per averci donato la sua arte e Silvestro Nicolaci autore del nostro logo.
8 AGOSTO ore 18.00-20.00: Bilancio politico tra i presidi e le realtà associative che hanno direttamente collaborato con l'associazione. Per partecipare inviare una email all'indirizzo: info@ritaatria.it (oggetto: partecipazione ventennale) dalle ore 20.45 Iniziativa ufficiale in Memoria di Simona Scibilia per festeggiare i nostri venti anni... Saranno presenti esponenti della Magistratura, giornalisti, Istituzioni, Associazioni, Testimoni di Giustizia, Famigliari delle Vittime,... gli Amici di sempre... 9 AGOSTO - Si festeggia... la parola alla musica Witko in concerto Per informazioni: info@ritaatria.it
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Inter viste/ Francesco Monaco
I ragazzi abbandonati e lo Stato che non c'è Ma chi affronta davvero, alle radici, il problema della “devianza minorile”? Cos’è un minore “deviante” e da dove viene?Ne abbiamo parlato con un giudice del Tribunale dei Minori di Catania di Marcella Giammusso www.associazionegapa.org
- A che età il minore è imputabile? “Per quanto riguarda il penale il Tribunale dei Minori si occupa dei ragazzi dai 14 ai 18 anni, mentre per il Civile dalla nascita fino ai 18 anni. L’età dai 14 ai 18 anni si riferisce al periodo in cui è stato commesso il reato, per cui anche se il minore verrà processato a 22 o 23 anni, del caso se ne occuperà lo stesso Tribunale dei Minori. Quando il reato viene commesso da ragazzi che hanno meno di 14 anni inoltriamo procedimenti civili”. I minorenni e la mafia - Il fenomeno della criminalità minorile è occasionale oppure c’è l’inserimento dei minori in organizzazioni criminali? “Dipende dai reati. Se il reato è predatorio, cioè scippi rapine etc., i minori agiscono in modo autonomo. Per quanto riguarda invece reati di droga sono giovani inseriti in organizzazioni criminali.
Il fatto di essere minorenni per alcuni reati è un vantaggio perché la pena si riduce di un terzo. E spesso per il minore entrare in carcere è un salto di qualità. E’ un’iniziazione, un modo per salire la loro scala sociale. Anche le ricettazioni sono da inserire nell’associazione e organizzazione criminale, ma il reato maggiore è lo spaccio di droga”. I reati indotti dalla crisi - Quali sono principalmente i reati commessi? R- I reati predatori sono i più eclatanti , sono quelli che colpiscono maggiormente la popolazione e che sono più avvertiti. E’ più facile che la gente si indigni per lo scippo di una borsa piuttosto che dei miliardi di euro che vengono sottratti alla comunità, cioè a noi, da politici, corrotti e corruttori. Il furto, lo scippo o il borseggio si verificano maggiormente quando c’è crisi economico sociale. Quando i servizi sociali non funzionano, quando c’è meno lavoro, c’è un aumento di questi reati”.
Quindici anni a Catania MAURIZIO, VITA VIETATA Maurizio ha quindici anni, è un ragazzino esile ma molto agile e vivace. Non va più a scuola perché è riuscito a prendersi la terza media grazie alla benevolenza dei suoi insegnanti, non ha più voluto continuare perché “non è portato per lo studio”. A scuola si sentiva emarginato e spesso si assentava per lunghi periodi. Non riusciva a seguire le lezioni come gli altri, allora faceva di tutto per mettersi in mostra, per attirare l’attenzione su di sé. Ma questo atteggiamento aggravava la sua situazione, e spesso tornava a casa con delle note o sospensioni. Dopo la licenza media ha cercato qualche lavoro ma, si sa, di questi tempi non c’è lavoro per nessuno. Figuriamoci per lui che non ha un mestiere. La situazione della famiglia è molto precaria. Suo padre è disoccupato e solo sua madre riesce a lavorare saltuariamente lavando le scale di qualche condominio. Spesso non sanno come fare la spesa e a stento riescono a pagare l’affitto di casa. Maurizio ha tanti desideri, i desideri della sua età. Gli piacerebbe avere dei vestiti griffati, uno scooter per farsi guardare dalle ragazze. Andare a prendere un panino dal “paninaro” e divertirsi con i suoi amici. Ma non ha soldi.
Così passa le giornate sbrigando qualche commissione per la famiglia, poi tutto il giorno a girovagare per il quartiere, magari con qualche amico. La strada è il suo mondo. Ed è lì sulla strada che ha l’opportunità di perdersi in storie di illegalità. Quanti ragazzi nei nostri quartieri hanno una storia simile a quella di Maurizio! Molti riescono in qualche modo ad uscirne fuori, per altri invece è l’inizio di una lunga carriera. Purtroppo per quanto riguarda la prevenzione si fa ben poco. Eppure l’ex Presidente del Tribunale dei minori Gianbattista Scidà già negli anni ottanta aveva fatto giungere grida di allarme denunciando l’alta percentuale di criminalità minorile nella nostra città, facendo emergere così il “caso Catania”, raccontando il disagio dei ceti svantaggiati e facendo emergere le responsabilità dello Stato nell’aver abbandonato i quartieri periferici. Da allora sono passati trent’anni, poco è cambiato. Il grido del Presidente Scidà è caduto nel silenzio delle istituzioni. I quartieri periferici sono ancora trascurati, il disagio minorile è quanto mai presente ed in più c’è la crisi economica sociale che attanaglia tutte le famiglie. M.G.
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quando dopo il primo intervento i genitori non sono in grado di riprendere la situazione in mano. Il terzo livello d’intervento è la dichiarazione della decadenza della podestà dei genitori, il quarto è la dichiarazione dello stato di abbandono e quindi segue l’ultimo livello di intervento che è lo stato di adottabilità.
La “massa alla prova” - La legge prevede modalità di recupero per i minori che non hanno precedenti penali? “Si, nel processo minorile è possibile che l’udienza non si concluda con una condanna. Se si tratta di un reato occasionale e di poco conto c’è “l’irrilevanza del fatto” e quindi non c’è condanna. Il processo si può concludere anche con il “perdono giudiziale”. Anche in questo caso, se è un reato irrilevante e se il ragazzo può fare un risarcimento, viene applicato il “perdono giudiziale”. Infine c’è la “messa alla prova”, che adesso si sta applicando anche ai maggiorenni. Quando il ragazzo confessa, non ha precedenti penali e si è pentito, si chiedono informazioni ai Servizi Sociali. Si fa un programma di intervento elaborato dai Servizi dell’Amministrazione della Giustizia in collaborazione con i Servizi Sociali che preveda le modalità di coinvolgimento del minore nel volontariato, impegno scolastico, corsi di lavoro. Viene sospeso il procedimento ed il ragazzo viene affidato ad un Giudice Onorario. L’Istituto della “messa alla prova” presuppone l’adesione del minore al progetto che consiste implicitamente in un’ammissione di responsabilità. Sull’attività svolta durante la “messa alla prova” e sull’evoluzione del caso i servizi minorili informano il giudice periodicamente. Se il minore non segue il programma viene ripreso il processo penale. Se i Servizi Sociali funzionano bene abbiamo grosse possibilità di recupero del minore. Il Tribunale dei Minori funziona bene se funzionano bene gli altri enti: i Servizi Sociali, USSM, Neuropsichiatria Infantile. Spesso ci capitano casi di minori analfabeti. E’ assurdo, ma molte famiglie pensano che sia superfluo mandare il bambino a scuola e quindi gli permettono di assentarsi continuamente.
“Ma per prevenire si fa ancora poco. Il potere è ancora sordo al grido del Presidente Scidà”
I segnali d'allarme
Lasciare il bambino a casa vuol dire destinarlo ad essere analfabeta e quindi destinarlo ad una vita di subalterno. Lo Stato non può permettere che ci siano analfabeti e quindi in questo caso è più severo, arrivando a procedimenti di adottabilità o comunità se le famiglie non regolarizzano la situazione dei figli”. Strapparli a una vita subalterna - I minori che scontano le pene nel carcere minorile svolgono attività? Hanno la possibilità di studiare? “Nell’Istituto Penitenziario Minorile i minori sono seguiti abbastanza bene dall’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni, frequentano la scuola e non sono abbandonati a se stessi. Un’alternativa al carcere è il collocamento in comunità dove c’è una forma di recupero e spesso abbiamo buoni risultati”. Le azioni di recupero - Ci sono delle azioni correttive per recuperare il minore? “C’è un protocollo. Il primo passo è l’affidamento ai Servizi Sociali e l’educativa domiciliare. Il secondo livello d’intervento il collocamento in comunità,
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- Ci sono degli allarmi che fanno capire che il minore sta per deviare? “Allarmi ambientali e familiari. Spesso sono figli di genitori separati e vivono in quartieri degradati. La disgregazione familiare, la frequentazione ambientale e vivere in certi ambienti devianti favorisce la devianza del minore. Un altro elemento determinante è la crisi economico sociale. Quando un padre è disoccupato e non ci sono soldi in casa, vedere il ragazzino accanto che spaccia, ha lo scooter, il vestito griffato etc. sono delle tentazioni. Alcuni ragazzi sono disponibili a farsi aiutare, altri no. Il disagio economico è molto determinante per la devianza minorile, aumenta l’indice di criminalità. I segnali dovrebbero arrivare dalla scuola e dai Servizi Sociali. Purtroppo spesso la scuola ha delle perplessità a fare le segnalazioni, per mantenere il buon nome dell’istituto. I Servizi Sociali, quando funzionano bene, ci segnalano delle situazioni di disagio ed allora subito si interviene. Da un lato c’è lo Stato che ha l’interesse a migliorare la vita del minore, dall’altro c’è la famiglia che ama i propri figli e magari dice “i figli sono miei e faccio quello che voglio”. Da parte loro c’è l’affetto, il voler bene, ma c’è l’incapacità a crescere bene i propri figli e spesso, nonostante gli sforzi, non ci riescono”.
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Catania/ Via Furnari
Lo sgombero di ”Ciccio pasticcio” Venti famiglie sul lastrico, nel pieno dell'estate di Domenico Stimolo Il fatto è che le vicende sono maturate nel pieno della calura estiva, con un vortice sempre più crescente, teso a buttare sul nudo lastrico cittadino venti famiglie, costituite da oltre sessanta persone. Molti i bambini trucemente interessati. Il “luogo del delitto” è un voluminoso palazzone ubicato nel semicentro cittadino, a pochi passi da una delle principali strade della città, in via Furnari 41. L’edificio esiste da oltre cinquant’anni, dall’inizio del 1960, “consolidando” la sua presenza e quella dei tanti umani residenti per tanti decenni. Certo, il suo inizio di vita è stato alquanto tribolato. A seguito di un vizio d’origine, dovuto alla realizzazione di opere difformi dal progetto originario senza la presentazione di richiesta di sanatoria dalle autorità preposte fu ordinata azione di demolizione. In corso d’opera l’impresa fallisce (1963). Poi, “come fu come non fu”, le carte demolitorie caddero in sonno nei pubblici cassetti, sotto lo sguardo assente della statua dell’elefante, detto liotru, che silente e sbigottito guarda il Palazzo. Erano quelli, e lo furono per lungo tempo, gli anni “stoici”. La città si sviluppava fremente sotto l’impeto tumultuoso dei nuovi tracciati cittadini, dove, nelle strade larghe “un palmo” si innalzavano i torrioni, pieni e zeppi di umane virtù bellamente “incarcerate” negli angusti spazi urbani.
I “custodi delle leggi”? Assenti... Tutti, compreso i “custodi delle leggi”, avevano lo sguardo rivolto altrove... Si cresceva, con grande gioia, a pane, cemento e bottiglioni di spumante festeggiante. Nel frattempo i pochi accumulavano laute ricchezze, in beni mobili e in specie immobili in grande quantità. A seguito del tracollo dell’impresa costruttrice dell’edificio di via Furnari 31 le redini gestionali furono assunte dai preposti alla cura fallimentare. Fin dall’inizio la schiera abitativa dell’edificio, costituita da “possessori, conduttori e occupanti” è stata sempre molto fitta. Ieri come oggi. All’improvviso, il 17 luglio, mentre imperversava una splendida e soleggiata giornata estiva, il “fulmine giustiziere” colpì il sito. Ai cittadini residenti fu notificata, a firma del sindaco, l’ordinanza di sgombero, a carattere d’urgenza, intimando il rilascio delle abitazioni, per “potenziale pericolo per la pubblica e/o privata incolumità”.
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Un vero e proprio colpo a ciel sereno. Da qualche solerte funzionario comunale era stato improvvisamente scoperchiato “l’armadio con le carte della vergogna” che, sordidamente, giaceva negli scantinati, ? NO, di tutto questo, per come pare! Altresì, come raccontano le cronache, da quasi due anni roboanti ruspe si erano alacremente messe al lavoro in una grande area sita alle spalle del palazzo, proprio a ridosso, a pochi metri, effettuando conseguenti profondi scavi. L’intento costruttivo è rivolto a realizzare siti edilizi, da adibire a strutture di privati servizi. Tutto in regola, certamente. Le carte della vergogna Per dovere di narrazione è utile leggere la sequenza degli eventi come dettagliatamente esposti dall’avvocato (Alessandro Pulvirenti) in rappresentanza delle famiglie interessate nel ricorso urgente al TAR presentato il 20 agosto: “In data 2 aprile, una relazione da parte del direttore dei lavori è stata inviata al Comune.
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Una “soluzione” draconiana Si evidenziava, da “esame visivo”, un “potenziale collasso strutturale”. Già il 27 marzo, il curatore fallimentare aveva inviato (al Comune) una nota di consulenza tecnica dove si rilevavano: “una situazione statica e strutturale delle parti comuni non idonea all’abitabilità” e il “non rispetto di tutte le norme di sicurezza inerenti impianti nelle aree comuni”. A seguito delle segnalazioni gli organismi del Comune si allertano prontamente, e senza ulteriori e vincolanti azioni, senza richiedere l’intervento del Genio Civile e delle strutture competenti comunali preposte alle perizie sul campo, da parte del Sindaco viene emesso l’ordine di sgombero. Nessuna richiesta di eventuale intervento viene avanzata ai cittadini interessati rivolta a correggere la situazione in essere per impedire eventuali danni.” La “soluzione” prescelta è draconiana: si devono abbandonare i locali! I cittadini residenti, gente semplice, “umile popolino” direbbe qualche solerte e sapiente sociologo, di fronte all’incalzare degli eventi piovuti sulle loro teste come una mannaia, senza nessun ammanigliamento con “ chi conta”, organizzano la resistenza. Usano la sapienza e la forza della disperazione del “debole” che non vuole essere sopraffatto. In pochissimo tempo nasce e si consolida una solerte e proficua unione di gruppo. Cominciano a bussare al Comune richiedendo “ conto e ragione”. Intanto la notizia si espande. La cosa è troppo grossa. Sessanta persone, privare dalle casa, sono buttate sulla strada. Cominciano ad arrivare gli organi di informazione. Se ne parla in città. Grazie anche alla tenacia propulsiva di “qualche” giornalista che svolge il ruolo del battitore, scevro da condizionamenti. I tentativi di mediazione con il Comune, rivolti anche ad avere assicurata un’altra abitazione, falliscono.
Il 21 agosto, giorno della scadenza dell’ordinanza di sgombero, nella parte di strada di fronte all’edificio c’è gran fermento. A dar man forte nella solidarietà ai “ dannati “ che presidiano il loro tetto sono presenti anche decine di cittadini di varie organizzazioni sociali cittadine. Di fronte all’arbitrio grande è la civica e democratica indignazione. La drammatica vicenda è diventata alta. La gran parte delle strutture informative locali è presente sul luogo del misfatto. Forte è la determinazione a lottare. Il Tar blocca lo sgombero La mattinata scorre, nessuno viene della controparte per eseguire gli “ordini”. Rinasce la speranza. Il giorno dopo piomba come un tuono la buona novella. La Giustizia c’è ancora, vede e provvede. La sentenza del TAR è lapidaria. Sospende il provvedimento comunale, firmato del Sindaco. Il giudizio recita, tra l’altro “ ...in assenza di adeguati accertamenti d’ufficio che facciano fede della sussistenza di un effettivo peggioramento delle condizioni di staticità dell’immobile, atti a supportare l’adozione del provvedimento impugnato, circostanza questa non smentita dall’organo comunale all’uopo convocato presso questo Tribunale, che si è dichiarato impossibilitato a presentarsi in data odierna, a rendere i chiarimenti del caso; - che dell’esigenza di tutela dell’interesse pubblico a garanzia della pubblica incolumità cui è ispirata l’ordinanza sindacale qui in contestazione deve necessariamente coniugarsi con gli interessi privati
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“Cinquemila famiglie attendono una casa popolare”
di cui gli istanti sono titolari, interessi che attengono al fondamentale diritto all’abitazione per sé e per le proprie famiglie; - che, pertanto, in quest’ottica, in assenza di comprovate sopraggiunte situazioni di pericolo, può essere disposta la sospensione del provvedimento contestato; il comune dovrà comunque adottare i necessari ulteriori provvedimenti che si rendessero necessari a seguito degli opportuni accertamenti finalizzati a verificare la sussistenza di sopravvenute situazioni di aggravamento, in concreto, dello stato di pericolo in cui potrebbe versare l’immobile in questione; quali accertamenti dovranno essere effettuati a cura degli organi pubblici a ciò preposti, entro ristretti tempi, e ferma ogni responsabilità in capo al comune di caso di ritardo nei conseguenziali provvedimenti d’urgenza ove necessari”. E’ bene notare che il Comune si è dichiarato impossibilitato a presentarsi. Questa è la positiva conclusione della prima parte. La questione rimane tutta ancora aperta. Un dato è certo. L’ingiustizia non è passata! Il giusto diritto all’abitazione è un valore democratico supremo, da garantire sempre. A Catania molte persone, non solo migranti, sono costrette ad arrangiarsi “sotto le stelle”, dormendo sui cartoni, in strade, piazze ed anfratti improvvisati. In condizioni di assoluta precarietà Una situazione drammatica ed indegna che nel corso del tempo si è accresciuta sempre più. Cinquemila famiglie attendono una casa popolare. In tante migliaia, indigenti, vivono in condizioni abitative di assoluta precarietà. Si violano i principi fondamentali costituenti la nostra Repubblica che innalzano a valore supremo la salvaguardia della dignità delle persone nell’essenza di vita nella propria quotidianità.
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Messina/ Estate ribelle
Il giorno che Accorinti fermò i Tir Bene pubblico vs/ padroni dello Stretto: chi vincerà, alla fine? di Tonino Cafeo Fascia tricolore sulla consueta t-shirt free Tibet e tantissima pazienza per spiegare personalmente ai camionisti – uno per uno - che Messina non può più permettersi di farsi attraversare a tutte le ore dalle centinaia di mezzi pesanti che sbarcano ogni giorno nella Rada San Francesco e nel porto storico della città dello stretto diretti nel resto della Sicilia. Renato Accorinti, anche da sindaco, non intende rinunciare ai metodi e alle battaglie di quarant’anni di attivismo civile e sta combattendo a modo suo l’ennesima puntata di un braccio di ferro che vede da una parte gli interessi di un manipolo di armatori e dall’altra il diritto alla sicurezza e alla salute per un’intera città. Tutto ha avuto inizio il trenta giugno scorso, quando la società Cartour , della famiglia Franza- monopolista di fatto del traghettamento privato sullo stretto di Messina- ha dato unilateralmente il via agli orari estivi della propria autostrada del mare da e per Salerno. Una modifica che ha comportato nuovi disagi per la popolazione dato che lo sbarco dei tir avviene adesso in pieno giorno a poche centinaia di metri dal centro storico della città, al molo Norimberga, e il flusso di mezzi pesanti si aggiunge a quello, già massiccio, che l’ attraversa da quando l’approdo a sud è stato dimezzato dall’eterno cantiere per il ripristino dei moli danneggiati dalle mareggiate invernali. La guerra dei Tir, ad ogni modo, per Messina è storia antica. Già nei primi anni 2000 in seguito a numerosi incidenti mortali avvenuti in aree densamente abitate, era cresciuta una forte mobilitazione
popolare con l’obiettivo - in realtà solo parzialmente realizzato - di spostare il traffico pesante fuori città attraverso la costruzione di un nuovo approdo per i traghetti nella zona sud. Le amministrazioni comunali che si sono succedute nel decennio in cui la vertenza ha avuto il suo massimo sviluppo hanno brillato per cerchiobottismo sviando l’ attenzione dell’opinione pubblica sul fantasma del Ponte sullo stretto oppure inventandosi le soluzioni più fantasiose- è rimasta negli annali quella del doppio approdo a nord e sud della città- pur di evitare di porre limiti agli interessi dei traghettatori. “Il diritto a una città vivibile” Completamente diverso l’approccio della giunta Accorinti. Massima disponibilità a trattare una soluzione in grado di soddisfare le esigenze di tutti, accompagnata però dal massimo rigore sui principi. “Il diritto di duecentocinquantamila messinesi a una città vivibile, liberata dal transito dei mezzi pesanti è un valore non negoziabile”, ha tenuto a precisare il primo cittadino agli armatori come pure alle istituzioni di garanzia (Capitaneria di Porto e Autorità Portuale). I numerosi tavoli tecnici che si sono svolti quest'estate non hanno dato però gli esiti sperati. “Avevamo chiesto a Cartour almeno l’impegno a rinunciare all’orario estivo diurno non da domani ma dall’estate del 2015 - spiega Accorinti - ma è stato risposto di no”. Aggiungendo al rifiuto di qualunque mediazione la non troppo velata minaccia di ridurre drasticamente le corse della Messina-Salerno e di conseguenza licenziare i marittimi in esubero.
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E’ stato inevitabile a quel punto, il ventuno luglio scorso, emettere l’ordinanza che interdice al traffico pesante le principali vie d’accesso al porto storico di Messina fra le 7 e le 21. Un provvedimento fortemente contrastato non solo dai rappresentanti delle organizzazioni datoriali (Confindustria Messina e Aias, l’associazione dei piccoli autotrasportatori siciliani di Giuseppe Richichi) ma anche dai sindacati confederali e persino dagli organismi “terzi” come La Capitaneria Di Porto e l’ Autorità Portuale, i cui esponenti non hanno esitato a minacciare ricorsi “ ove si ravvisassero nell’ordinanza lesioni dei legittimi interessi economici in campo”. La tutela dal basso dei diritti Così Messina è divenuta teatro di un’inedita forma di tutela dal basso del diritto. Sono stati i cittadini, più o meno organizzati, a presidiare tutte le mattine insieme al sindaco e alla Polizia Municipale le vie d’accesso al molo Norimberga ed a vigilare sullo scrupoloso rispetto delle disposizioni previste dall’ordinanza. “Nessuno di noi è contro l’impresa in quanto tale” raffredda così le polemiche Accorinti “ ma vogliamo che gli armatori rispettino le decisioni che il Comune ha preso a tutela di tutti”, in attesa che il 7 agosto sia riconsegnato alla città perfettamente funzionante l’approdo di Tremestieri, dove dovrebbe essere dirottato definitivamente il grosso del traffico pesante.
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Mauro Biani
chi semina
racconta sussidiario di resistenza sociale Contributi di Antonella Marrone, Carlo Gubitosa, Cecilia Strada, Cinzia Bibolotti, Ellekappa, Franco A. Calotti, Gianpiero Caldarella, Makkox, MaoValpiana, Massimo Bucchi, Nicola Cirillo, Pino Scaccia, Riccardo Orioles, Stefano Disegni, Vincino Gallo Formato 17x24, 240 pagine, colori ISBN 9788897194057 15 euro
I
l meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, autore di satira sociale a tutto tondo che unisce la vocazione artistica all’impegno professionale come educatore in un centro specializzato per la disabilità e la non disabilità mentale. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti quando serve, per toccare temi universali come la
nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie. L’AUTORE Mauro Biani (Roma, 6 marzo 1967) ha pubblicato vignette in rete per anni per poi fare il salto verso il professionismo su quotidiani e settimanali nazionali, riviste del terzo settore e organi di informazione indipendente. Ha fondato la I Sicilianigiovani– – pag. 55 5
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rivista di giornalismo a fumetti “Mamma!” che ha chiamato a raccolta un gruppo nutrito di giornalisti, vignettisti e fumettari in cerca di nuovi spazi espressivi. Collabora con il gruppo internazionale “Cartooning For Peace” sotto l’alto patrocinio dell’Onu. Nel 2009 ha pubblicato il volume “Come una specie di sorriso”, una antologia di illustrazioni ispirate alle canzoni di Fabrizio De Andrè.
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puoi richiedere i volumi su www.mamma.am/libri rokuro aKu
g autor d scaricabi e
no alla guerra, the Holy Bile no al nucleare
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n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.
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mP
nicola.
r–esistenza precaria
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KaNJaNo & car o gubi osa
La mia terra la difendo
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l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.
erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.
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ISBN 9788897194002
ISBN 9788897194026
ISBN 9788897194019
ISBN 9788897194033
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a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.
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Fotografa
CATANIA Civita: il mare negato “U trenu a stamatina Passau supra l’archi d’a marina; fu chistu ‘n gran successu, Catania camina ccu progressu” Questo breve inno al progresso, cantato per l’inaugurazione della linea ferroviaria, 1° luglio 1869, mi ha subito colpito, non per la sua bellezza, ma per la nota di speranza, “Catania segue il progresso”, ma a quale prezzo? Il viadotto ferroviario assurge a cicatrice e barriera fra la città e il mare, una cicatrice che rievoca alla memoria lo storico legame tra centro urbano e l’originaria rada naturale che fu la porta di antiche civiltà. Camminare lungo il viadotto equivale a camminare sul flo di un rasoio, da una parte il porto e dall’altra un quartiere la “Civita”, in mezzo il traffco automobilistico. Spinti forse dall’orrenda visione di un porto che non c’è, si è attratti istintivamente verso il quartiere ed è qui che si percepisce il dolore inferto dalla ferita. Gli antichi palazzi sono ormai deturpati e violentati, concrezioni di condizionatori si accavallavano a fli di panni stesi, le piccole
case dei pescatori spariscono sotto l’infusso di quell’anarchico senso del brutto. Ma cosa è rimasto dell’operoso borgo marinaro? Qualche pescatore che ancora intreccia le reti della memoria, come ombra di un lontano ricordo. Resta dentro l’amara consapevolezza che il prezzo pagato in nome del progresso sia stato troppo alto, l’ombra del mare è lì ma non puoi vederne l’azzurro, la città ha eroso il mare! Ma ci chiediamo del perché di questo. Ci chiediamo quali responsabilità le vecchie e nuove amministrazioni che hanno governato la città hanno fatto si che questa erodesse il mare, e non solo, anche oggi c'è un dibattito "politico speculativo" nel far diventare il porto una ammasso di cemento armato che distruggerà la nostra cultura e la brezza di mare che ci ha sempre caratterizzato.
“La metropoli ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era” Italo Calvino, Le città invisibili
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Daniela Calcaterra
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Civita: il mare negato
Chiesa del SS. Redentore, a memoria di una piÚ antica, al suo interno è custodito un busto ligneo del 1536, che prima si trovava nell'antica chiesetta distrutta dall'eruzione del 1669 Daniela Calcaterra
I Sicilianigiovani Sicilianigiovani â&#x20AC;&#x201C; pag. 58
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Civita: il mare negato
Gesta di un tempo si ripropongono nel quotidiano, quel tempo che allâ&#x20AC;&#x2122;interno del piccolo borgo della Civita a Catania sembra essersi fermato. Una signora in vestaglia solleva fno al piano del proprio balcone il cestino con la spesa che il fglio ha attaccato ad una corda dal ciglio della strada, evitandole cosĂŹ la fatica delle scale. Alfredo Magnanti
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Civita: il mare negato di giroâ&#x20AC;?
Nonostante le molte auto parcheggiate, davanti alla porta si continua a lavorare, vivere, raccontare storie... Carlo Majorana
I Sicilianigiovani Sicilianigiovani â&#x20AC;&#x201C; pag. 60
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Civita: il mare negato di giroâ&#x20AC;?
La riparazione della rete è una consuetudine ancora oggi presente nella Civita e che resiste al trascorrere inesorabile del tempo Dario Lo Presti
I Sicilianigiovani Sicilianigiovani â&#x20AC;&#x201C; pag. 61
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Tagghiu e littura: misteri ca dura! Flavia Iraci
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Gente di mare come il signor Salvatore che ha dedicato la sua vita alla pesca Francesco Nicosia
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Civita: il mare negato di giro”
La Civita un tempo era abitata soltanto da pescatori, oggi ne è rimasto appena qualcuno... Rimangono però tanti dettagli nei vicoletti a ricordare come questo quartiere sia stato "partorito" dal mare. Ivana Sciacca
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Civita: il mare negato di giroâ&#x20AC;?
Attraverso i murales l'antico popolo della Civita racconta la sua storia Paolo Parisi
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Storia
Donne per la pace Sicilia, cent'anni fa “Si riunirono nella chiesa gridando e invocando la fine della guerra” di Elio Camilleri Allo scoppio della prima guerra migliaia di ragazzi furono strappati alla terra, molti, come in altre parti d’Italia, si dettero alla macchia e le donne siciliane si preparavano a reggere la fatica del lavoro dei campi: la guerra fu una guerra di massa ed esigeva un’adesione di massa. Si può certamente affermare che le masse popolari subirono la guerra, ma la rifiutarono e si mobilitarono per farla finire. Le donne siciliane coniugarono religione e pacifismo in numerose manifestazioni, cui parteciparono in migliaia; ciò che risulta sorprendente e, per certi versi, incredibile, è che tale simbiosi tra sentimento religioso e richiesta pressante di pace fu respinta ed ostacolata dal clero cattolico che, quasi unanimemente, sostenne le motivazioni politiche della guerra agli Imperi centrali. Alle donne di Sciacca e di altri paesi della provincia capitava un fatto strano: andavano in chiesa e organizzavano processioni per pregare e supplicare la fine della guerra e preghiere e suppliche le recitavano senza sacerdoti. Il clero non partecipava né, tanto meno, organizzava cerimonie religiose contro la guerra e questo non solo ad Agrigento o in Sicilia, ma anche nel resto dell’Italia, in
Francia e nella stessa Germania e papa Benedetto XV pronunciò parole al vento con la sua “Nota di pace” del 1° agosto 1917: non lo ascoltò nessuno e “l’inutile strage” continuò per più di un anno. E così capitò che a Sciacca: “ il 14 gennaio 1916, duecento donne si riunirono nella cattedrale gridando e invocando la fine della guerra. L’arciprete e un funzionario di pubblica sicurezza ristabilirono la calma e più della metà delle dimostranti ritornò a casa. Le altre continuarono la loro protesta andando prima al municipio e poi alla sottoprefettura”. (Jole Calapso. Donne ribelli. Flaccovio. Palermo.1980. pag. 142) Quattro “sediziose e disfattiste” furono denunziate ed arrestate e il frate laico Giovanni Buonomente, sospettato di essere l’organizzatore della manifestazione, fu spedito a Messina. Appena due mesi dopo, a Raffadali, tredici donne furono denunziate all’autorità giudiziaria per avere percorso in corteo con altre donne, ragazze e bambini la strada che portava alla chiesa di S. Giuseppe per assistere alla messa. Il corteo non era autorizzato e neppure erano consentite le invocazioni al Signore e alla Madonna per la fine della guerra. A Cammarata, dieci giorni dopo (25 marzo) le donne che volevano portare in processione la Madonna di Scacciapensieri furono addirittura indotte a forzare la nicchia che ne conteneva la statua e così si svolse una processione con più di duemila persone: tutte imploravano la cessazione della guerra e tutto si svolse nel massimo ordine anche perché gli agenti di pubblica sicurezza non osarono bloccare il rito religioso.
Le denunce arrivarono il giorno dopo per 6 uomini e 14 donne. Non solo il clero siciliano, ma anche nelle altre regioni italiane, come pure in Francia e nella stessa Germania non fu tenuta in nessuna considerazione la Nota di pace di Benedetto XV contro “l’inutile strage”. E allora si capisce come a Sciacca le donne furono buttate fuori dalla chiesa dall’arciprete, come a Raffadali fu sciolta a forza una processione di donne e bambini diretta verso la chiesa. Aveva ragione, allora, George Bernard Shaw a scrivere che era meglio chiuderle le chiese ed evitare così che in esse si preghi per l’annientamento del nemico. Centinaia di arresti di ragazze e donne che, talvolta, portarono in carcere con sé i loro bambini a subire quotidiane ingiurie e violenze per avere manifestato contro la guerra, contro la fame, contro l’insopportabile miseria. Tra Cammarata e Campobello , ad esempio ne arrestarono a decine, tra queste Maria Ponticello, perché si erano distese sui binari per impedire la partenza del treno con le reclute. Un grave episodio si registrò a Gangi il 3 aprile 1917. Una classe di alunni che manifestava a favore della guerra fu presa a sassate dalla gente che di guerra proprio non ne voleva sentire. Nel contesto della guerra le sassate contro le scuole, le proteste contro gli insegnanti erano motivate dal fatto che la scuola era strumentalizzata dal Governo per la propaganda bellica, per organizzare raccolte di fondi per le spese militari, per la Croce Rossa: tutto ciò non era assolutamente condiviso dalle masse popolari, dalle donne che subivano quotidianamente il peso del lavoro dei campi, della fame e della disperazione. A Ribera Maria Segreto, una ragazza di venticinque anni, non ebbe alcun timore di urlare contro la guerra e di incitare le sue compaesane ad unirsi alla protesta, nè la fecero desistere le minacce delle forze dell’ordine.
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Palermo
Una festa ben sorvegliata “U Fistinu” di Santa Rosalia: metafora di una città che declina di Giovanni Abbagnato Le cronache del 390mo Festino della Santuzza palermitana Rosalia raccontano, con il linguaggio freddo di altro tipo di eventi, che hanno partecipato alla manifestazioni clou - tra il 14 e il 15 luglio scorso - circa 300 mila persone, “secondo le stime degli organizzatori”. Si tratta del solito “ballo delle cifre”tra gli organizzatori e la Questura? Purtroppo, quello che più si è notato è stato, ancora una volta, un segno di confusione politica ed ideale dell’Amministrazione comunale presieduta da Orlando che non ha saputo imprimere al Festino quella carica democratica – dai forti connotati simbolici – in una città che, in altri tempi, “prendeva parte” contro le sue pesti, antiche e moderne. Il palesarsi del triste disfacimento di questa ispirazione di governo stavolta è andato ben oltre le parodie della partecipazione popolare in alcune scelte dell’ Amministrazione, andate occasionalmente in scena - il termine non è casuale - con riti francamente inconcludenti sul piano tecnico-amministrativo e senza anima su quello ideale. Il vero segno - cupo è pesante - è stato, però, rappresentato dalla evidente militarizzazione del Festino con una presenza, numerosa e inquietante, di camionette e autoblindo, insieme alle schiere di pesanti scarponi di tutte le Forze dell’Ordine antisommossa, perfino posti a sostanziale sostituzione delle organizzazioni della Protezione Civile, naturalmente con l’idea che possono avere delle Forze antisommossa della gestione della Protezione Civile in quella che doveva essere una festosa manifestazione di popolo.
Senza la “benedizione civile” del popolo Per la storia e il valore dell’azione politico-amministrativa che non si può e non si deve disconoscere al personaggio, dispiace dirlo, ma forse abbiamo assistito alla caduta della parabola politica di Orlando, o SinnacOllando, come la vox populi confondeva a Palermo personaggio e carica istituzionale. Questa triste involuzione del personaggio (che comunque è in atto, al di là di eventuali accordi nella peggiore tradizione politichese che possono riguardare il ruolo del Sindaco) è stata determinata, ben prima di questo Festino, dai contorsionismi politici di Orlando e dall’incapacità di passare da una gestione importante, ma troppo minimale delle emergenze palermitane, ad un progetto vero e socialmente avanzato per la città. Ma il nuovo fatto simbolico, importantissimo in una città come Palermo, è stato rappresentato dal salire di Orlando sul carro della “Santuzza”a gridare il fatidico “Viva Palermo e Santa Rusulia”, non con la “benedizione civile” del popolo - con le sue variegate istanze, che un tempo trovavano il lui una sintesi riconosciuta - ma con la blindatura, francamente imbarazzante, offerta dalla Questura. L'agitazione dei precari Invero, c’erano già i segni di uno “sfruttamento” -eccessivo in termini di cosiddetto ordine pubblico - di informazioni su propositi di precari comunali, tradizionalmente determinati nel voler scegliere il “palcoscenico” del Festino per le loro manifestazioni di dissenso contro l’Amministrazione. Come sembrava provvidenziale per una gestione blindata dell’ordine pubblico al Festino, la situazione creata dall’aggressione all’organizzatrice dei festeggiamenti che - ancorché riconducibile a malavitosi di basso profilo e non a organizzazioni mafiose come lasciato intendere dalla stessa protagonista - con ben altri mezzi doveva essere controllata ed affrontata.
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In realtà, è stata un’altra occasione perduta dai vertici delle Forze dell’Ordine davanti a quei movimenti civili e antimafiosi che hanno provato negli anni – non senza contraddizioni e difficoltà - a favorire il passaggio culturale dalla percezione popolare degli “sbirri” - nel tradizionale significato tutt’altro che edificante – a difensori delle libertà e dei diritti contro le prepotenze mafiose di tutti i tipi, inevitabilmente sempre a braccetto con poteri forti e comitati di affari. L'intimidazione a Rocca e Pellicane Purtroppo, questa strategia della Questura – sicuramente avallata e tollerata dal Comune – volta a dare alla città un eclatante segno autoritario, va rilevata anche nell’intimidazione inviata – preventivamente, nell’immediata vigilia del Festino – a tanti uomini e donne che tengono fede a gravi istanze popolari – spesso sporche di sofferenza e per questo senza voce - attraverso il trattamento riservato persone come Nino Rocca e Toni Pellicane – leader miti ma appassionati del movimento dei senzacasa – non a caso convocati in Questura e denunciati per manifestazione non autorizzata, con una consequenzialità temporale più che sospetta e una motivazione risibile, se non si trattasse di un inquietante, quanto immotivato atto persecutorio. A questo punto, ogni cronaca che si rispetti – o anche che non si rispetti – si chiuderebbe con l’annotazione sullo spettacolo tenutosi sul Piano e sulla mura della stupenda Cattedrale, con testi, forse un po’ troppo didascalici e tradizionali, ma con una macchina scenica complessivamente stimolante e convincente. Una città che si autodivora Ma, in realtà, probabilmente, altro si è imposto sulla scena di questo Festino di una città, forse come il suo Genio, condannata - ineluttabilmente - a divorare, con i suoi figli migliori, i suoi aneliti e le sue speranze.
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Anni Settanta
Hippies a Terrasini Peppino, Lotta Continua e i radical-chic di Salvo Vitale www.peppinoimpastato.com Dell’esperienza della Comune hippie di Terrasini ho parlato nel mio libro Nel cuore dei coralli, Peppino Impastato, una vita contro la mafia (Rubbettino editore). La partecipazione, per un breve periodo, di esponenti della Comune a Radio Aut è stata simpaticamente tracciata nei Cento passi. Carlo Silvestri non ne esce bene, Peppino è molto diffidente, sino a scimmiottare, mettendosi col culo di fuori, alla radio, la proposta di Carlo del “nudo a chiappe selvagge”. Va detto che quelle scene sono state girate a Torre Alba e non a Villa Fassini, luogo di stanza della Comune, poiché allora l’accesso a Villa Fassini non era consentito: il regista fece dipingere sui muri una serie di immagini che ricordavano molto da vicino quelle dipinte sui muri di villa Fassini, oggi cancellate e presenti solo in alcune foto d’epoca. La collaborazione tra la Comune e Radio Aut venne presto interrotta per una forte differenza di vedute, da una parte nell’intendere la lotta contro la mafia come una scelta politica di fondo, dall’altra con la tendenza a ritenere prevalente occuparsi dei bisogni dell’io, particolarmente di quelli sessuali, secondo lo slogan allora molto in voga “il personale è politico”. Da quel libro riporto alcune pagine, compreso il testo di una lettera che Peppino inviò a Lotta Continua, ma che quel giornale, nel quale scriveva Carlo Silvestri, non volle pubblicare. Difficile dire oggi cosa rimane di quell’aspro diverbio che portò Peppino a dare addirittura un pugno a Carlo Silvestri e a chiudere un’esperienza nella quale alcuni redattori erano rimasti coinvolti e affascinati.
L’impegno politico dei cosiddetti “militanti” è stato marginalizzato, costretto in un angolo, come una scelta di pochi esaltati e provocatori, più vicini all’eversione, se non al terrorismo, anziché alle pacifiche manifestazioni di protesta. Il perbenismo ha finito con l’assorbire vaste frange di quella borghesia illuminata e benestante, i cui figli una volta sceglievano di maturare all’interno delle contestazioni al sistema, adesso si definiscono moderati e si allineano sul solco tracciato dal papà. In ultima analisi Carlo sembra avere avuto ragione, scegliendo di ripiegare nel proprio privato, di fare la propria vita, adesso in India, magari di ottenere dalle istituzioni qualche finanziamento per parlare delle sue esperienze e di lasciare a chi ne ha voglia l’arduo sentiero della rivoluzione. Ma Peppino è sempre là, dove la crisi mette in discussione persino la sopravvivenza di ogni singolo uomo, dove le grandi ingiustizie sociali lascino che ci sia “cu mancia e cu talia”, dove le contraddizioni possono esplodere in ogni momento e portare a un mutamento collettivo perché, come ha detto qualcuno, “non si può essere felici sapendo che c’è al mondo qualcuno che soffre”. La “Comune” di Villa Fassini La palazzina, già residenza degli armatori Florio, nella sua struttura in mezzo al verde rappresenta un gioiello d’architettura tardo ottocentesca, opera di Ernesto Basile, o comunque della sua scuola. Nel ’69 diventa la prima “Comune” d’Italia e un punto di riferimento quasi mitico per le varie fasce del movimento hippye europeo e per tutti coloro che avevano vissuto una serie di esperienze post-sessantottesche e di tematiche espresse in Italia dalla rivista Re Nudo. Animatore della “Comune” è Carlo Silvestri, collaboratore di quella rivista e di altri settimanali nazionali. Sino al ’72 il posto conserva la sua struttura di Comune, da quella data in poi, pur continuando ad essere punto di ritrovo e di passaggio per molti giovani in cerca di nuove forme di vita e di socializzazione, diventa quasi un
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fatto personale di Carlo Silvestri, che ne assume interamente la gestione. Il posto aveva problemi di ricezione, di sussistenza economica e di controllo interno tra tante persone di provenienza eterogenea. A frequentarlo erano anche personaggi noti del mondo dello spettacolo, come la Premiata Forneria Marconi, Paola Pitagora, la cantante Giovanna, l’attrice Teresa Ann Savoy, Pino Masi ecc. Regole indispensabili non “fumare”, non bucarsi, non consumare carne, per il resto c’era massima libertà e tolleranza, anche nel praticare il nudismo. Il rapporto della Comune con l’ambiente in principio fu traumatico: in paese, a Terrasini, si guardavano con meraviglia, con ironia, talora con scandalo gli strani tipi che passeggiavano vestiti con fogge strane, lunghi capelli, orecchini, campanellini alle caviglie: circolavano tutte le dicerie possibili, tipiche di un paese bigotto, ma a poco a poco ci si abituò a queste presenze e parecchi giovani del luogo cominciarono a fare “un salto” alla Comune, forse anche attratti dall’idea di qualche possibile o facile esperienza sessuale. Migliore, senza dubbio, il rapporto con i contadini della zona, che accettavano volentieri l’aiuto nei periodi di raccolta e trasporto degli ortaggi. La prima Comune aveva alcune sue tipiche forme di sopravvivenza nella lavorazione di stoffe e di prodotti artigianali e cercava anche un rapporto all’esterno attraverso l’organizzazione di spettacoli e di recitals; successivamente il posto rimase solo un luogo di villeggiatura. L’incontro con Radio Aut, cioè la partecipazione di questa gente con l’unica emittente democratica e di movimento della zona, fu quasi spontaneo, a seguito di alcuni contatti avuti a “Musica e Cultura”, ma non fu esente da contraddizioni: da una parte Peppino e pochi militanti che della politica rivoluzionaria avevano fatto una scelta di vita, dall’altra i “creativi” del ’77, per i quali contava solo esprimere i propri bisogni, i propri problemi, la propria oscura ribellione ai pregiudizi e alla repressione di qualsiasi espressione autenticamente liberatoria.
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Nella gestione degli spazi di trasmissione diventava indispensabile crearsi il problema di chi “stava a sentire” e cresceva l’antitesi tra la volontà di creare gratuitamente lo scandalo e la denuncia aperta e la necessità di mediare alcune posizioni per non rischiare l’isolamento. La rottura si verificò nell’agosto del ’77, allorché Carlo Silvestri lanciò la proposta del “nudo a chiappe selvagge” dai microfoni di Radio Aut e trasmise la notizia dell’iniziativa all’Europeo, a Panorama e a Lotta Continua: si trattava di un invito a fare il bagno nudi, in tutta Italia, il 15 agosto e di creare un caso nazionale: nel proporre l’iniziativa Carlo Silvestri non badò a concordare la proposta con la redazione della radio che, a seguito di un acceso dibattito, rifiutò di essere coinvolta, sentendosi strumentalizzata. Quel giorno, mentre alcuni scesero al “molo” a fare il bagno nudi, Peppino ed altri rimasero alla radio a scrivere a Lotta Continua una lettera che il giornale non pubblicò. Lettera (non pubblicata) a LC Cari compagni, abbiamo letto su L.C. di mercoledì 12 ottobre (p. 11) un annuncio col quale una fantomatica comune, che tra l’altro si definisce “la più vecchia d’Italia” indice tre giorni di amore e di lotta contro le mire speculative della mafia locale che, a quanto pare, avrebbe l’intenzione di togliere la “casa” a Carlo Silvestro, che della comune in questione è titolare, general manager ed unico componente. Ma procediamo con ordine. È dal 1969 che il Silvestro, con notevole strombazzo pubblicitario, lascia intendere a mezza Europa che, a Villa Fassini risiede una comune di cui l’ambiente locale non ha avuto neppur sentore. In realtà Villa Fassini ha funzionato sempre come un vero e proprio ostello, se non luogo di villeggiatura, per Carlo Silvestro e i suoi amici che, rispetto al mondo esterno “indigeno””, si sono posti, fatte le dovute eccezioni, in termini di rifiuto o tutt’al più di tentativi sporadici di colonizzazione sottoculturale.
Mai uno sforzo è stato fatto da parte loro per collegarsi con le realtà politiche e culturali presenti in zona. Ma c’è molto di più. In luglio, dopo aver ricevuto un invito a sfrattare entro l’anno, il Silvestro ha cercato e trovato, dopo averli snobbati per otto anni, contatti con i compagni di Lotta Continua, del Circolo Musica e Cultura e di Radio Aut: chiedeva appoggio per “salvare la casa” (parole sue testuali). Le proposte dei compagni sono state chiare e precise: una campagna di stampa per denunciare la mafia e i suoi rapporti con il territorio (si stava allestendo proprio in quel periodo una mostra fotografica sull’argomento) e un raduno musicale, da tenere entro ferragosto a Villa Fassini, propagandato su scala nazionale e aperto a tutte le istanze politiche e culturali presenti nella zona. La risposta del Silvestro è stata laconica: “in verità io punto ad una congrua buonuscita; se non mi si daranno i venti milioni che intendo richiedere allora faremo la battaglia”. In realtà Carlo Silvestro non aveva, come non ha, alcuna intenzione di promuovere o di accettare proposte di battaglie politiche di qualsiasi genere: sarebbe ben strano da parte sua dopo otto anni di insignificante presenza a Terrasini. Egli puntava essenzialmente a due cose: 1) aumentare il suo peso contrattuale in funzione della “congrua buonuscita”, visto che i compagni le battaglie contro la mafia le hanno fatte sul serio da lungo tempo; 2) penetrare all’interno del gruppo di compagni presenti localmente e a Radio Aut per portarne alle estreme conseguenze il processo di disgregazione e per tentare, successivamente, di riagganciarne una parte su un suo progetto di rivista (“Amore”) che, a quanto ci è sembrato di capire, altro non vuole essere che un pastone qualunquistico che, dietro il paravento della “politica del corpo” e del “recupero dell’erotismo”, avrà un’impostazione a metà strada tra il pornografico e la cronaca mondana (d’altra parte il Silvestro ha un suo “rispettabilissimo” passato di porno fotografo). E lo abbiamo visto all’opera a Radio Aut: dopo quindici giorni di sua presenza, l’incredibile provocazione dell’appello al
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“Una lettera che non fu pubblicata”
nudo: L.C. del 10 agosto pubblicava una lettera del Silvestro e di due suoi collaboratori nella quale era contenuto un appello a spogliarsi nudi alle dodici in punto del 15 agosto. Due giorni dopo lo stesso Silvestro, senza neppure consultare i compagni, lanciava lo stesso appello dai microfoni di Radio Aut spacciandolo per una iniziativa di Lotta Continua e invitando alla “trasgressione a chiappe selvagge” da mettere in atto a Sant’Agata di Militello in occasione di “un raduno di L.C. dove tutti si sarebbero spogliati” (si trattava invero di una festa di D.P.). Sulla cosa, su sollecitazione dello stesso Silvestro, veniva imbastita una campagna di stampa tra lo scandalistico e il sensazionale. Repubblica, La Stampa, Il Giorno, L’Europeo, si scatenavano nella narrazione delle varie fasi della “rivolta a chiappe selvagge” e della “trasgressione di massa”. Radio Aut, come Radio Popolare di Milano, veniva presentata come promotrice dell’iniziativa e: “due redattori di Radio Aut si sono spogliati, esattamente alle dodici, sul molo di Terrasini” (L’Europeo, n. 34, pagg. 18-19). Tutto falso. Solo in poche decine si sono spogliati. Nessun redattore di Radio Aut ha “trasgredito”. Ma tutto questo è sicuramente servito al Silvestro per farsi un po’ di pubblicità e per lanciare l’idea della rivista “Amore”. Così come è bastato ai compagni di Lotta Continua, del Circolo Musica e Cultura e di Radio Aut per rompere definitivamente i ponti con Carlo Silvestro e Villa Fassini (sono la stessa cosa), data la sua latitanza quasi decennale e la sua fuga opportunistica dallo scontro politico con la mafia locale, contro cui i compagni hanno concentrato, da anni e pagando di persona, il loro intervento politico a partire dalle reali esigenze e dai bisogni dei disoccupati, dei proletari e dei non garantiti della zona. Ed è a partire da tutto questo che hanno deciso di prendere le distanze dalle iniziative di Carlo Silvestro, in quanto completamente estranee a qualsiasi esigenza politica, culturale e di liberazione. Saluti Comunisti. I Compagni di L.C., Radio Aut, Circolo Musica e Cultura di Cinisi e Terrasini
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Memoria
L'isola di Danilo Dolci Conosceva pastori, pescatori, braccianti dei più sperduti paesi. Non li consolava con belle parole, ma li aiutava a guardare dentro la vita che era loro imposta. E, anche, dentro se stessi di Giancarla Codrignani Il 28 giugno avrebbe compiuto novant'anni: uno come lui ci farebbe ancora comodo. Perché era uno che credeva che la conoscenza fosse il principale mezzo di cambiamento delle società. E Dio solo sa quanto poco e quanto male siamo cambiati in questi anni pur definiti "età della conoscenza". A tutti la vita di Danilo dovrebbe sembrare quella di un uomo con una marcia in più, ma normale: dotato di buona cultura, desideroso di cambiare il mondo (c'era stata l'esperienza di Nomadelfia), arrivato in Sicilia per ricerche archeologiche, "vede" (forse i guai iniziano proprio dal fatto che non sappiamo davvero "vedere") la situazione di degrado che lo circonda e se ne sente responsabile. Quindi resta e si impegna per una cosa 'romantica' che si chiama il "riscatto" degli esclusi. Solo che lui fa sul serio e si dedica a tre obiettivi: fare conoscenza; fare denuncia; fare rivoluzione (che è cosa serissima e nonviolenta).
Le sue indagini sul campo (Racconti siciliani, 1952/60, Banditi a Partinico, 1955 e Inchiesta a Palermo 1956) sono testi di storia italiana. Per capire il nostro tempo i giovani e i meno giovani smemorati, se vogliono rifare il punto sulle trasformazioni, formali e non formali, dell'Italia repubblicana, possono utilmente partire dalla Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta, alla scoperta delle radici del continuo scorrere sotterraneo e pieno di diramazioni di quella linfa carsica e piena di vita, ma anche di tossico, di cui tutti gli italiani sono portatori. Dolci registra le piaghe dell'analfabetismo, delle diverse forme di sfruttamento e di conseguente passività, della rassegnazione disposta all'obbedienza ai potenti di chi non ha lavoro e della corruzione di chi vuol comandare. Piaghe endemiche, interiorizzate, persistenti anche nel graduale benessere che via via avanza: le denunce di Dolci davano fastidio ai governanti del tempo che lo perseguitarono. Oggi quelli attuali possono celebrarlo senza problemi (ma è interessante constatare che non lo fanno): se la gente passa le domeniche nei centri commerciali, i diritti di cittadinanza nel segno della dignità comune possono restare ignorati. Eppure è anche la rimozione di certi autori del passato che impedisce di prendere atto che i problemi "sociali" vanno ancor oggi condotti a soluzioni funzionali al bene "sociale". Invece vengono prima le ragioni del mercato e quindi degli interessi, e quindi della corruzione.
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Ed è per questo che oggi un'inchiesta sulla mafia Dolci la farebbe a Milano, non a Palermo; a Modena e non a Partinico. Negli anni Cinquanta del secolo scorso stava per realizzarsi il boom economico: ne derivarono i "carrozzoni" e le metaforiche Casse del Mezzogiorno. E' ingenuo dirlo, ma era possibile che i sacrifici che la gente allora sosteneva per uscire dalla miseria, insegnassero quel senso dello stato di cui gli italiani non riescono mai a farsi responsabili. Dire pubblicamente come stanno le cose Come cittadino scomodo, Dolci diceva pubblicamente come stavano le cose, perché ciascuno si assumesse la sua parte di responsabilità, a partire dal basso. Diceva le cose che non si volevano vedere: bambini "affittati" per fare i pastori o per imparare il borseggio; ragazzi sfruttati che "non so se ho 17 o 19 anni... a scuola mai ci sono andato", "sono analfabeto"; altri finiti ignari in galera ("gli sbirri ci portarono tutti in prigione"); contadini arrestati "per due mazzi d'erba", malati a cui "per qualunque malattia servono le mignatte"; crolli di case per frane prevedibili perché "quando c'è vento le case si muovono" e, dentro, "essendo il tetto quasi sfondato, quando piove devono mettere sui letti le bacinelle". In Sicilia Dolci "conosceva" pastori, pescatori, braccianti, mezzadri, campieri e tanta gente che, quando uno veniva ucciso per strada, "sparato", ed era conosciuto come un violento appartenente ad una "famiglia", diceva "bono fecero" e taceva.
www.isiciliani.it Quando i cittadini andavano a votare "non capiscono ciò che significa un partito" perché vedevano morire i sindacalisti e i politici di sinistra, i soli che gli insegnavano il senso dei loro diritti. "I delinquenti - dicevano - sono protetti dal governo". Nel 1954 Dolci denuncia il "disavanzo del Comune di Palermo", il fatto che "il 50 % dell'acqua immessa nella rete va dispersa", che "le condizioni abitative nei quartieri della vecchia Palermo", come nei bassi di Napoli, "è spaventosa": noi oggi leggiamo con qualche perplessità sulla data. C'erano, non lo si deve dimenticare, quelli come Placido Rizzotto, che "cercava l'interesse della gente" e si era messo contro i mafiosi: "ci rubavano l'olio ai contadini… e tra gli esercenti c'è sempre la mafia". Quanto alle terre incolte da dare ai contadini "queste terre le avevano tutte i mafiosi nelle mani". C'era il razionamento: "anche i magazzini li avevano i mafiosi nelle mani e intrallazzavano con il zucchero, intrallazzavano con la farina, intrallazzavano con la pasta, e oltre a questi intrallazzi erano riusciti a mettere un sovrapprezzo a questi generi mediante l'accordo con un assessore comunale". L'amico di Placido che racconta a Dolci queste cose conservando l'anonimo, certamente "un compagno", conclude tragicamente: "per questo l'ammazzarono". E confessa che, se vuol lavorare e sopravvivere, "devo uniformarmi all'ambiente". Un ambiente che descrive così: "gente che ammazza e poi porta la Madonna in processione… I ricchi, la Chiesa hanno paura che le cose possano cambiare in loro danno, ma i poveri sono enormemente sfiduciati. Per i ricchi il mondo è quello che è, adoperano tutti i mezzi per tenerlo nello stesso stato in cui si trova. E il Municipio, di sinistra, non li manda via perché uno dice 'qui comanda la scopetta e io mi devo far ammazzare?'… i braccianti, i contadini ci credevano che le cose potessero cambiare, oggi non più…. La Camera del lavoro si è rifatta più forte di prima che ci fosse Placido, molto più forte. Ma come fruttò? non abbiamo ottenuto niente, la gente si è sgretolata…". Non è fatalismo meridionale: capita tuttora in tutti i paesi poveri che subiscono l'urto della crisi. E' un dato umano su cui contano i poteri forti. Danilo Dolci insegnava - e dimostrava - che non è fatalità.
A Trappeto, dove visse, l'idea del riscatto sociale si fece realtà mediante la creazione (che gli riuscì di realizzare con l'aiuto degli amici solidali) di strutture e programmi: assistenza, in primo luogo sanitaria, scuola e asili per i bimbi, università popolare e biblioteca, interventi per il diritto al lavoro. Il 2 febbraio 1956 fu arrestato alla testa di un gruppo di lavoratori che autonomamente riassestavano una trazzera, una strada abbandonata: una provocazione che, arrivata alla stampa, fu chiamata "sciopero alla rovescia". A tutti i manifestanti fu negata la libertà provvisoria per "occupazione di suolo pubblico e resistenza alla forza pubblica”. Diritto dei cittadini, dovere dello Stato Dolci, una volta scarcerato (ma condannato, non assolto, nonostante le reazioni in tutta Italia) scrisse Processo all'art.4 della Costituzione, quello che rende il lavoro non solo un diritto dei cittadini, ma anche un dovere dello Stato. Se il territorio di Partinico non cambierà - diceva Danilo - e i motopescherecci pescheranno ancora fuori legge, i poveri non avranno assistenza o i ragazzi scuola e se continueranno le "ammazzatine", questo processo almeno impedirà che si possa dire "non sapevamo". Quanto a lui, "meglio in galera con le vittime che liberi se privilegiati". Uno così ha incrociato altre volte la "giustizia", da ultimo quando denunciò, insieme con il giornalista Franco Alasia e con ampiezza di documentazione (cfr. Spreco, 1960 e Chi gioca solo 1966) l'incrocio mafia/politica di esponenti importanti della vita politica siciliana e nazionale, tra cui i democristiani on. Calogero Volpe e il ministro Bernardo Mattarella democristiani, che querelarono.
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Fu un processo-scandalo: durò sette anni e finì con una condanna non scontata in carcere per amnistia. Anche in questo caso valeva la testimonianza pubblica: non si poteva dire che non si sapeva che cosa fosse la mafia. “Subire e tacere è peggio del ricatto” Ai tempi di Trappeto e del "Borgo di Dio" non si parlava comunemente di "mafia", si usava il più anodino "banditismo". Ma Dolci denuncia fin dagli anni Cinquanta che in quel paese di 3.000 anime, in cinque anni un mugnaio era stato sequestrato tre settimane "per 20 milioni", si era verificata una ventina di estorsioni forti, oltre ad una cinquantina per cifre inferiori al milione. Nessun dubbio, dunque, sulla qualità della presenza criminale. Ma "subire e tacere" è peggio del ricatto. Dolci non si stancò , come è noto, di denunciare e fare digiuni di protesta: altrimenti "mi vergognerei di sopravvivere". Noi non ci vergogniamo abbastanza. Ma non noi di Palermo o di Partinico, bensì noi di Milano, di Modena. Di Roma. Eppure viviamo nell' "età della conoscenza". “C'è chi insegna / guidando gli altri come cavalli / passo per passo: / forse c'è chi si sente soddisfatto / così guidato. / C'è chi insegna lodando / quanto trova di buono e divertente: / c'è pure chi si sente soddisfatto se si sente incoraggiato. / C'è pure chi educa senza nascondere / l'assurdo che è nel mondo, aperto ad ogni / sviluppo, ma cercando / d'essere franco all'altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato” (Poema umano, Einaudi, 1974)
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Chiesa
Un decreto contro la mafia Ma c'è chi fa finta di non sentire... di Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it «Non possono essere accolti coloro che si sono resi colpevoli di reati disonorevoli o che con il loro comportamento provocano scandalo; coloro che appartengono ad associazioni di stampo mafioso o ad associazioni più o meno segrete contrarie ai valori evangelici ed hanno avuto sentenza di condanna per delitti non colposi passata in giudicato». Il decreto dell’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi, rappresenta un vero e netto spartiacque nel rapporto tra mafia e Chiesa. E' il primo documento che ha la forza per intervenire, veramente, sia in modo
formale ma soprattutto in modo sostanziale, a bloccare quel processo di “cattolicizzazione dei mafiosi”. Aveva fatto scalpore, lo scorso anno, il decreto del vescovo di Acireale, mons. Antonino Raspanti, che vietava le pubbliche esequie ai soggetti condannati per mafia. Un documento rivoluzionario sul tema, che agisce post mortem, sempre che prima non si fosse verificato un pentimento (e quindi un ravvedimento) durante la vita degli stessi. Il decreto emanato da Pennisi, rompe, senza alcuno indugio, il rapporto tra mafia, Chiesa e quei “fedeli” che grazie alle confraternite riescono ad accaparrarsi quella legittimazione sociali derivante dalla presenza alle feste religiose. Del resto, ed è bene ricordarlo, questo decreto è stato reso necessario dopo i fatti che hanno coinvolto la Confraternita delle Anime Sante di piazza Ingastone, a Palermo, e l’arresto del suo superiore, Stefano Comandè. Pregiudicato per droga e boss di “cosa nostra”, è stato arrestato il 19 aprile scorso, nel bel mezzo dei riti pasquali.
Chiesa
La Madonna non s'inchina dinanzi alla mafia di don Ezio Coco
parroco di S.Cristoforo alle Sciare, Catania
Abbiamo tutti partecipato allo scandalo mediatico dell’inchino della statua della “Madonna delle grazie” dinanzi alla casa del boss Peppe Mazzagatti, durante la processione a Oppido Mamertina in Calabria. È un gesto paradossale perchè comprendiamo come strida questo segno “religioso” con il messaggio rivoluzionario del Vangelo che invece proclama, in maniera incontrovertibile, la liberazione dei poveri e degli oppressi. Sembrerebbe quasi che si sia “costretta” la Madonna a compiere questo gesto, ma tutto ciò ci fa sorridere, anzi ridere, uno scherzo beffardo, pensando all’immagine di quella giovane vergine che dice incondizionatamente “sì” alla volontà di Dio per compiere il Suo progetto di liberazione a favore del Suo popolo.
Poche ore prima dell'arresto... Proprio poche ore prima dell’arresto, durante la solenne funzione religiosa del Venerdì Santo, Comandè portava in processione le statue del Cristo morto e di Maria addolorata. E ancora qualche giorno prima, accompagnava con il gonfalone della sua confraternita, il defunto boss Giuseppe Di Giacomo, freddato mentre stava rientrando verso casa. Un funerale di “mafia”, con gli onori del caso e nuovi e vecchi padrini dietro al feretro. In seguito a questi fatti e al successivo silenzio di Paolo Romeo, cardinale di Palermo (silenzio che dopo due settimane dall’arresto di Comandè comportava che questi manteneva ancora il posto di superiore della Confraternita delle Anime Sante), interveniva proprio Pennisi che durante un convegno a Monreale sull’importanza delle stesse confraternita in relazione al territorio asseriva: «Tutti coloro che appartengono ad associazioni di stampo mafioso o ad associazioni più o meno segrete contrarie ai valori evangelici non possono
Nonostante il mio modesto parere possa sembrare di parte per il ruolo che ricopro, ritengo che in queste occasioni si additi con faciloneria la Chiesa come unica responsabile, dimenticando però, che queste processioni popolari di statue e di fercoli, sono completamente gestite da gente che durante i percorsi cittadini si “appropriano”, nel vero senso della parola, di queste effigi di culto. Un percorso che potrebbe aiutarci a comprendere con verità le posizioni della Chiesa in merito, sarebbe quello di rileggere alcuni ultimi eventi della storia della chiesa, partendo dall’omelia di Giovanni Paolo II il 9/5/93 ad Agrigento “convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”, all’Angelus del 26/5/13 di Papa Francesco, alla scomunica pronunciata da Papa Francesco il 21/6/14 “La ’ndrangheta è questo, adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”; a livello locale, il presidente dei vescovi calabresi, “Bisogna fermare le processioni!”. Tutto questo per indicare una direzione, un movimento, un desiderio a cui la Chiesa stessa tende. Ci affidiamo in modo speciale alla Vergine Maria, che non si inchina ai mafiosi, ma al contrario, ci sostiene nella lotta contro questo cancro sociale che tanto affligge e causa morte.
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“Applicando, semplicemente, il Vangelo”
Don Giuseppe Diana, Don Pino Puglisi.
far parte di associazioni religiose, confraternite, comitati festa o consigli pastorali». Due giorni dopo Pennisi firmava il decreto in oggetto e subito dopo la Curia palermitana lasciava decadere Comandè dal suo ruolo di superiore della Confraternita che veniva sospesa a tempo indeterminato e affidata ad un commissario visitatore. Una situazione paradossale ma sicuramente non è la prima volta che vi sono delle commistioni di questo genere. Il caso del boss D'Ambrogio Per fare alcuni esempi in terra di Sicilia si potrebbe citare il caso, avvenuto nell’estate del 2012, del boss Alessandro D’Ambrogio che con tanto di pettorina, utile per distinguere i confrati dalla massa, sfilava dietro la vara della Madonna del Carmelo nel quartiere di Ballarò, a Palermo. Una festa religiosa che a Palermo, é seconda solo a quella della “Santuzza”, di Santa Rosalia. In questi due anni, D’Ambrogio, 40 anni e una condanna definitiva per associazione mafiosa, è tornato in carcere nel corso dell’operazione Alexander e proprio pochi giorni fa, mentre lui si ritrovava rinchiuso nella sezione 41 bis a Novara, la “Madonna” si è inchinata davanti al covo del boss, l’ agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Ma se Comandè è stato rimosso dal suo ruolo di superiore ad Alessandro D’Ambrogio, «nessuno l’ha ancora sospeso dalla confraternita di Ballarò. Anche il suo vice, Tonino Seranella, è un devoto speciale della processione di fine luglio, pure lui due anni fa spingeva la vara per le strade del popolare mercato palermitano». Sarebbe auspicabile un maggiore controllo sui soggetti facenti parte della Confraternita, anche richiedendo il certificato penale, se necessario. A differenza di quanto pensa monsignor Barbaro Scionti, parroco della basilica cattedrale di Catania, che così rispondeva in merito alle infiltrazioni mafiose nel circolo di
Sant’Agata: «Non siamo qui per cacciare la persone, non possiamo chiedere il certificato penale a chiunque chieda di entrare in un’associazione religiosa. La Chiesa non può imporre questi limiti, ma siamo chiamati a pronunciarci affinché i suoi membri siano dei buoni cittadini, rinnovando le coscienze e fissando delle regole che ci impegneremo a far rispettare». Quello delle infiltrazioni mafiose nelle Confraternite e la loro strumentalizzazione per fini diversi da quello del culto cattolico, non rappresenta però, l’unico fronte da arginare. Anzi, il problema é molto più complesso. Il decreto di Pennisi, così come quello di Raspanti citato all’inizio, rappresenta l’elemento quasi ultimo per porre fuori, definitivamente e veramente, i mafiosi dalla Chiesa. Incompatibilità religiosa ed etica Sicuramente può svolgere una funzione eterrente per giungere al provvedimento più naturale che la Chiesa nazionale dovrebbe adottare e su cui ha perso tempo prezioso: la scomunica. Certo, le parole di Papa Francesco, forti e precise, non lasciano dubbi sull’incompatibilità religiosa ed etica tra la mafia e la Chiesa.
Rimangono parole però a cui nessuna diocesi, nessun parroco è tenuto a sottostare, così come accaduto in tutti questi anni. È arrivato il momento di trasformare le parole in azioni affinché non accadano più fatti come quelli avvenuti recentemente in Calabria, e che per fortuna sono stati oggetto dell’attenzione dei media nazionali. Mi riferisco a Oppido Marmetina, San Procopio e Vibo Valentia. Escluderli una volta per tutte Urge, sempre più, un provvedimento che escluda, una volte e per tutte, i mafiosi dalla Chiesa. Provvedimento, che dia attuazione ai buoni intenti di Francesco e della sua Chiesa e che spieghi come cambiare l’ordinamento canonico ed ecclesiastico per evitare l’accesso dei mafiosi alla comunità ecclesiastica. Del resto, nel corso degli anni, la varie Conferenze Episcopali, nazionale e regionali, hanno prodotto dei buoni documenti per sancire l’incompatibilità tra la mafia e la Chiesa. Per questi motivi non c’è più tempo per aspettare. E ce lo conferma la beatificatio di Puglisi quale martire della Chiesa, ucciso in odio alla fede. Proprio lui, non appena giunto nella sua parrocchia a Brancaccio, non perse tempo a sciogliere la Confraternita di San Gaetano per infiltrazioni mafiose e a mettere fuori i boss dalla comunità della Chiesa. Chiesa che ha continuato ad accoglierli e Chiesa che può dimostrare al suo popolo di aver sbagliato, prima, e di seguire l’esempio del suo beato, ora. Applicando, semplicemente, il Vangelo. 1
S. Palazzolo, Mafia nelle confraternite, Romeo tace e Pennisi attacca: “Fuori i collusi dalla Chiesa”, palermo.repubblica.it/cronaca/2014/05/03/news/mafia_nelle_confraternite_il_vescovo_pennisi_all_attacco_fuori _i_collusi_dalla_chiesa-85096000/ 2 S. Palazzolo, G. Ruta, La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò, palermo.repubblica.it/cronaca/2014/07/29/news/la_ma donna_si_inchina_al_covo_del_padrino_processione_ shock_tra_i_vicoli_di_ballar-92633490/?ref=HRER31#gallery-slider=90944559 3 A. Sessa, Sant’Agata, la festa religiosa che “dava la tessera” al boss Santapaola, www.linkiesta.it/santagata-catania-santapaola#ixzz2iXgn549N
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Pozzallo
Le stragi e il Nostrum Mare Il muro che “difende” la Fortezza Europa. La drammatica testimonianza di Nello Lo Monaco, della locale Protezione Civile di Giuseppe Cugnata www.generazionezero.org Gli uomini in tuta bianca e con le mascherine sono vigili del fuoco. Armati di motosega, ricavano un varco nel ponte del peschereccio appena attraccato al molo. Dalla botola risalgono ad uno ad uno i cadaveri di quarantacinque uomini, morti per asfissia durante una delle tante tratte che dal Nordafrica portano alle coste siciliane. Siamo a Pozzallo, alla periferia meridionale della Sicilia, in quella località che per numero di sbarchi è seconda forse solo a Lampedusa e in cui, a ritmo costante, si consuma la tragedia delle morti in mare.”
La sensazione che si prova all’inizio è lo sgomento, ma dopo due minuti si ritorna alla solita vita, come se nulla fosse”, dichiara Enzo De Benedittis, gestore della bottega solidale di Pozzallo, luogo di incontro per i giovani migranti e per gli abitanti del paese, e continua: “Noi in bottega ne parliamo molto tra di noi. Per quanto riguarda i nostri amici africani cala il silenzio.” I morti di Pozzallo non sono che la punta d’iceberg dell’immane tragedia delle morti in mare che puntualmente si compie durante l’arco della stagione estiva, quando il mare è più calmo e la densità degli sbarchi aumenta. E proprio in seguito ad un’altra tragedia – stavolta quella del 3 ottobre del 2013, quando morirono a largo di Lampedusa quasi quattrocento uomini – è stata attivata l’operazione “Mare Nostrum” da parte della Marina Militare italiana, che prevede la sostituzione del piano di soccorso della Guardia Costiera, con un programma di salvataggio in mare da parte delle navi militari. Per capire meglio come funziona il nuovo programma di salvataggio in mare e come operano, invece, i volontari sulla terraferma abbiamo intervistato il capo della Protezione Civile ragusana Nello Lo Monaco. Pochi giorni dopo l’ennesima – e non ultima – tragedia del mare.
Il barcone dei migranti - A soccorrere il barcone con a bordo i cadaveri dei migranti è stata la “Grecale”, un’imbarcazione della Marina Militare: crede che uno dei motivi della strage possa essere stata una cattiva gestione dell’operazione di salvataggio? “Non ho alcun motivo per esprimermi in questo senso né positivamente né negativamente, a quanto so la tragedia si era già consumata quando i militari sono intervenuti”. L'operazione “Mare Nostrum” - Il 18 ottobre scorso è stata attivata l’operazione Mare Nostrum: cos’è cambiato realmente nella gestione del soccorso in mare dei migranti? “La nuova modalità di recupero dei migranti, che prima venivano intercettati e/o soccorsi in prossimità delle nostre coste mentre adesso vengono intercettati in mare, cambia il quadro delle operazioni e rende imperativa la predisposizione di un piano di emergenza per questo evento che è completamente differente dagli “spiaggiamenti” delle “carrette del mare”; mi risulta che la Prefettura abbia allo studio una revisione del Piano sbarchi del febbraio 2010.
Scheda EXODUS 6 agosto (ANSA). A Pozzallo arrivati 948 tra uomini donne e minori. Ad Augusta altri 549. Nella notte a Palermo annuncianti altri 530 arrivi e ieri sera nel Trapanese un altro sbarco sulla spiaggia di Triscina... *** Fra il 1988 al 2007 (ultimi dati relativamente certi) almeno 8165 emigranti sono morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo; per metà di loro non è stato possibe nemmeno recuperare i corpi. Delle vittime, 2487 erano dirette in Sicilia, 885 in Grecia, 4030 in Spagna. Dei 245531 emigranti che hanno cercato di sbarcare in Italia ne sono annegati in totale, secondo il Viminale, 6323.
Il massimo delle vittime accertate, fra quelle che cercavano di raggiungere il nostro Paese, si è avuto nel 2011 (fughe di massa per cause di guerra da Tunisia e Libia), quando di 64261 emigranti ne morirono in mare ben 2353. In Italia, come in molti altri Paesi europei, da tempo l’immigrazione d’emergenza è vietata per legge. Viene fra l'altro disattesa di fatto la disposizione costituzionale (art.10, comma tre) secondo cui “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
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“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica”
Ma a mio avviso più che di revisione si dovrebbe trattare della redazione di un nuovo piano, nuovo in quanto si riferisce a un evento completamente differente; viceversa, sarebbe come fronteggiare un evento sismico con un piano di emergenza per il rischio idrogeologico. In ogni caso, la Prefettura non ha sinora ritenuto opportuno il coinvolgimento dei vari attori dell’emergenza, dimenticando che la protezione civile è un sistema, come più volte ribadito nella stessa legge”. Mancano mezzi e strutture - Nelle ore successive alla strage, il sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna, denunciava la mancanza perfino delle celle frigorifere per i cadaveri dei migranti: qual è la la situazione reale di Pozzallo e come riesce la Protezione Civile a lavorare, nonostante la mancanza di mezzi e di strutture? “Non è possibile prevedere in maniera strutturale celle frigorifere in numero idoneo a contenere una tale quantità di cadaveri; la Protezione Civile della Regione Siciliana, che integra e coordina il “siste-
ma” di p.c. presente sul territorio, è al momento carente di mezzi ma soprattutto il coordinamento è affidato a chi ha autorità e ritiene di restare da solo nella “stanza dei bottoni”. Anche in occasione dell’ultimo evento disastroso, è stato il Dipartimento Regionale a reperire, mediante il censimento in proprio possesso, la struttura della Ex Provincia e a renderla fruibile in tempi rapidi mediante l’allertamento dei propri funzionari. Il nostro Dipartimento è composto da varie professionalità, uomini addestrati alla gestione di varie emergenze, sia in fase di pianificazione che di prevenzione, ma questo sembra non essere un requisito preferenziale”. L'assenza delle istituzioni - La Protezione Civile di Ragusa lavora costantemente per gestire il soccorso dei migranti: venite sostenuti dalle istituzioni? “Il sostegno delle istituzioni manca del tutto per quanto attiene alla parte finanziaria, e spesso assistiamo sconcertati anche a richieste di materiali e mezzi, o presta-
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zioni, con la pretesa che la protezione civile debba e possa provvedere a tutto, che si tratti di attrezzature o uomini disponibili a farsi carico di ogni cosa (anche il trasporto di rifiuti speciali); dimenticando che la nostra principale risorsa è data dai volontari, che dedicano il proprio tempo ed energia a colmare le inadempienze della macchina pubblica, ma che non possono comprensibilmente investire anche i propri soldi. Andrebbe tributato il massimo plauso e ringraziamento a queste persone che troppo spesso vengono invece bistrattate e considerate alla stregua della servitù in un palazzo nobiliare, un atteggiamento discutibile che mette in dubbio legittimamente la collaborazione del volontariato ad attività che andrebbero pianificate e organizzate in maniera strutturata. Come mai si impiegano i militari (Marina) nelle operazioni di mare, e al momento dello sbarco, a terra, non ci sono altri militari (Esercito) a fornire bus, tende, medici? E come mai troppo spesso le navi militari non attraccano al porto, rendendo le operazioni di sbarco dai tempi incerti e quadruplicati a causa dei trasbordi?”.
Ecomafie
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Torna la Summer School La scuola di lotta al crimine organizzato gestita dalla Facoltà di sociologia dell'Università di Milano: quest'anno si fa il punto sulle ecomafie
Dopo la prima, la seconda e la terza edizione, torna la Summer School in Organized Crime. Quest’anno l’attenzione sarà dedicata al tema delle Ecomafie, attualissimo e pressante. Abbiamo chiesto al suo direttore, Nando dalla Chiesa, il perchè di questa scelta: “Ecomafie perché è la questione che sta esplodendo in tutti i modi: dall’uso e abuso del suolo all’inquinamento, dallo smaltimento dei rifiuti tossici (la terra dei fuochi…) alle agromafie, all’eolico… Insomma: ambiente, cibo, salute…mai così in profondità”. Questa quarta edizione, che si terrà presso la Facoltà di Scienze Politiche Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano dall’8 al 12 settembre, pone molti importanti interrogativi su cui vale la pena riflettere. Se volete informarvi sul programma, sui costi e sulle modalità di iscrizione, potete cliccare qui. http://www.stampoantimafioso.it/2014/07/ 19/ecomafie-torna-summer-school-inorganized-crime/#sthash.ZfxGmb0H.dpuf
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Pianeta
Le banche contro Bitcoin Unicredit chiude il conto bancario a Bitstamp. Novità sulla Bitlicense a New York
di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com
Una delle cause della recente stagnazione di prezzo di bitcoin, attorno ai 500 dollari, viene attribuita ai problemi bancari di Bitstamp; il principale exchange bitcoin in occidente per liquidità e volumi (quanti soldi ci stanno dentro e quanti ne vengono scambiati). Unicredit, nel dettaglio Unicredit banka Slovenija d.d., ha chiuso, sembra senza fornire spiegazioni l'account bancario di Bitstamp; compagnia slovena con sede nel Regno Unito, che utilizzava Unicredit come base europea per i bonifici, sostituita, ma non senza creare disagi per i bonifici già in corso, con la terza banca svizzera Raiffeisen (usando la sede austrica). La scelta di questa banca ha suscitato stupore e perplessità nella comunità Bitcoin, proprio perchè un memorandum interno di Raiffeisen contro Bitcoin uscito su Reddit nell'aprile scorso; in cui si diceva tra le altre cose: "per la vostra sicurezza raccomandiamo a tutti gli impiegati di astenersi dal minare, comprare o vendere bitcoin"). Ora il principale exchange occidentale (ma Kraken e Bitfinex potrebbero in breve mostrarsi come piattaforme più mature) si poggia proprio su di loro.
La moneta senza banche
Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale
Un bancomat per bitcoin
Bitlicence Mentre la California nel giugno scorso ha cambiato le poprie leggi monetarie vecchie di qualche secolo; prima era possibile accettare solo dollari in pagamento; adesso criptomonete come Bitcoin, Litecoin, Dogecoin, ma anche monete delle multinazionali: come Amazon Coin e Starbucks Stars. New York invece propone una regolamentazione di Bitcoin (chiamata Bitlicense perchè le aziende che operano con bitcoin a New York dovranno registrarsi e attenersi alla regolamentazione). La proposta ha creato subito aspre e estese polemiche. Tante nuove aziende, principalmente della Silicon Valley, hanno raccolto finanziamenti per centinaia di migliai di dollari, (nel solo 2014 più di 250 milioni di dollari) numeri superiori a quelli raccolti dalle aziende nei primi anni di Internet. Le loro proteste hanno già portato il procuratore, Benjamin Lawsky, (del New York Department of Financial Services. NYDFS) a prendere altri 45 giorni di tempo e a fare una serie di precisazioni. Intervistato da Coindesk dichiara che "è stato impressionato dal numero di aziende e singoli che prendono seriamente l'industria e seguono con attenzione la tecnologia che gli sta dietro". Il suo dipartimento – precisa - non cerca l'approvazione di ogni pezzo di codice creato dalle aziende che operano con Bitcoin, anche se le parole usate prima potevano lasciare questa interpretazione. "I creatori di software non devono chiedersi se si applica a loro la Bitlicense, infatti non si applica a loro, ma vale per gli intermediari finanziarsi". "Noi – aggiunge - non siamo il tipo di agenzia che pensa di avere il monopolio della verità e fare sempre la cosa giusta.
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Ci sentiamo forti su molte delle disposizioni contenute nei regolamenti proposti ma sappiamo anche che ci potrebbero essere cose che possiamo migliorare". "Se facciamo le cose giuste, penso che le prospettive per la monete elettronica in una forma o in un'altra sono ottime nello stato di New York, ma dovremo fare una cosa alla volta, giorno per giorno". Ue su Bitcoin e Iva La Corte di Giustizia dell'Unione europea (Cgue) sta considerando se debbano essere aggiunte o meno tasse come l'Iva per gli exchange di monete digitali. La domanda è stata presentata alla Cgue dalla Svezia a giugno di quest'anno. Estoban van Goor, avvocato specialista in tasse europee, avvisa che la corte potrebbe impiegare anche più di due anni per prendere una decisione; il risultato della dicisione avrebbe valore per l'intera Unione Europea. Altrove, sempre in Europa, il Regno Unito aveva già esplicitamente dichiarato a marzo che il trading di Bitcoin è esente da Iva.
Link: http://www.reddit.com/r/Bitcoin/comments/22i76 8/raiffeisen_bank_international_internal_memo/ http://www.coindesk.com/price-bitcoin-falls-500lowest-level-since-may/ http://www.coindesk.com/ben-lawsky-bitcoinregulation/ http://www.coindesk.com/europe-inchestowards-decision-bitcoin-vat/
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DA’ UNA MANO
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Storie
La leggenda del beato Matteo dajackdaniel.blogspot.it/
Narrasi che il Beato Matteo, ascesa la collina de lo Fiesole, la città di Florentia giuso rimirasse... di Jack Daniel Narran le chronicae come qualmente ‘l Beato Matteo iovane ascendesse a la collina de lo Fiesole, et ivi stando e la cittade di Florentia giuso rimirando, vide ch’ella cittade repleta era da vitii et dimoni et in cor suo ripromisesi di mondarla d’onne peccata. L’erta collina discendendo, capitolli d’imbattersi in povero tapino, da molt’anni ormai di scrofola paziente, e ‘l Beato Matteo, le mani imposte sul suo capo, tosto ‘l sanò. Et avvenne puro, dismesso ‘l scrofoloso, che in passerotti, merli, cinciallegre, pettirossi et financo in uno Albatros de le Galapagos s’imbattette e con ciascheduno d’essi uccelli amenamente disquisì d’Aristotile et Platone non disdegnando l’economica congiuntura. Repente la Fama di tali prodigi diffusesi nel contado e, saio vestita, s’avanzò la Beata Maria Elena a implorar considerazione. L’ebbe, e subitamente principiò quel pio Ordine delle Boschive, ch’ a riformar lo Mundo cum implorazioni et decretazioni si votò. Nell’appressarsi a le mura di Florentia, cospicua moltitudine s’approprinquò, le Porte aprendo e le chiavi donando e primus super alios nomandolo.
Non giunto era anchora a la Signoria ch’ecco una voce di plurimo cencioso alta levossi “Guai a te, anima prava”. Venia, il cencioso, d’oltre Ponte Vecchio, anima assatanata, che il mondo in genere, e il capitalismo in specie avea in gran dispitto. Erat elli da li sette demoni de lo socialismo posseduto sì da bestemmiar le presenti cose et le sorti magnifiche e progressive. “Guai a te, anima prava!” Avea in juventude la rossa bandiera levata e di rivoluzion fantasticato ma, a tarda età ormai giunto, raminghi gl’ideali, s’accostumava a trascorrer breve vecchiezza maledicendo li maggior sui ch’a sperar lo crebbero. Bestemmiava l’ordine e ‘l sistema ma, deficitando l’uno et l’altro di presenziare, s’appagava nel contumeliar ciascheduno che incautamente transitasse per sua via.
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Da lunge dismesse le speranze di mutar del mondo ‘l destino, non s’era del tutto placato ‘l desio di mutar lo destino suo. Che, siccome insegnaci Eraclito, a inseguir vani ideali sovente s’abrinunzia a concreti guadagni. Era poi l’Eraclito? O forse trattavasi del Briatore, l’illustre pensatore coevo del Beato? Come che sia, capitovvi in sui passi ‘l Beato Matteo lo quale, pur riprovato e contumeliato siccome costumanza, s’appressò al posseduto e mirandolo in angustie domandolli s’elli di minestra abbisognasse. E ‘l satanasse, mal intendendo “Ministero dici?” “Oh no, intendea minestra”. Al che l’ossesso, rassettandosi “Sia Ministra, se tal dee esser, acconcerommi all’uopo”. E ‘l Beato, levati gl’occhi al Cielo “Minestra, dicea, ma cosa fia una vocale dianzi all’avvenir?”. E fu questa la prima conversion che l’aurea historia ci tramanda de le molti e molti che seguiron nelli tempi avvenire. Dopo picciol tempo, sanata e mondata et in fide mani lasciata Florentia, s’incamminaron su la Francigena che mena a Roma per la Toscana. Et ivi giunti l’ossesso di minestre si saziò e ‘l Beato Matteo miracol mostrò, a principiar da la moltiplicazion de le mercedi con la trasmutazion del nulla in octaginta euri e della mirifica apparizion d’un bastimento inabissato nel porto di Genua.
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Bologna
Reti di memorie:
Info: www.prendiparte-bo.it www.piantiamolamemoria.org www.diecieventicinque.it Gruppo fb: www.facebook.com/groups/587095351403343/
2 agosto 1980-2014 Un'iniziativa di tre associazioni bolognesi per i trentaquattro anni dalla strage alla Stazione che coinvolge l'intera cittadinanza, non solo bolognese di Valeria Grimaldi www.diecieventicinque.it Insieme alle associazioni PrendiParte e Piantiamolamemoria, la nostra redazione è stata coinvolta nell'organizzazione di un'iniziativa per il giorno della commemoriazione della strage. Dopo una serie di incontri organizzativi, l'idea che si è voluta rappresentare è stata quella della “rete”, a partire da una foto ritrovata tra gli archivi dell'Associazione familiari delle Vittime che riprende una rete metallica issata per dividere l'ala ovest colpita dalla bomba e la zona antistante la stazione, sulla quale i cittadini bolognesi si ritrovarono ad appendere oggetti, foto e simboli di cordoglio, dolore e vicinanza per l'evento che aveva colpito la cittadinanza.
Si vuole ricostruire questa rete, insieme all'intreccio di una rete più moderna: la rete di internet. E' stato infatti creato un gruppo facebook dove chiunque può iscriversi e raccontare proprie impressioni, ricordi di quel tragico 2 agosto; ma soprattutto, pubblicare foto degli oggetti che si vorrebbero appendere sulla rete che sarà fisicamente allestita il giorno della commemorazione. Chi potrà esserci fisicamente appenderà l'oggetto che ha scelto, chi non ci sarà lo vedrà comunque raffigurato. E' quindi un'iniziativa estesa non soltanto alla cittadinana bolognese e dell'EmiliaRomagna, ma a tutta Italia, proprio per esprimere l'idea della rete che unisce persone e tempi tra lodo distanti. Riportiamo qui la descrizione dell'evento e invitiamo chiunque voglia a condividere e a partecipare. Un oggetto di quel giorno “Una rete metallica, trentaquattro anni fa, separava la zona colpita dalla strage dal piazzale davanti alla stazione. Su quella rete tanti cittadini vollero esprimere il loro dolore annodando fazzoletti, appendendo fogli e riquadri. I bolognesi la chiamavano “rete del pianto”. Quella rete (ma non quella memoria!) purtroppo è andata perduta.
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Trentaquattro anni dopo vogliamo ricostruirla, insieme a voi. Sabato 2 agosto 2014, alla commemorazione della strage, un'altra rete è stata eretta nei pressi della stazione: su di essa chiunque - da qualunque parte di Bologna, dell'Emilia-Romagna o del mondo provenga - potrà venire ad appendere alla rete un oggetto che gli ricordi quel giorno, quella strage, quelle 85 vittime, o che semplicemente lo leghi ad essa da un profondo senso del ricordo. Chi c'era e chi non era ancora nato, chi si trovava nelle vicinanze o invece da tutt'altra parte. Chi non potrà veire a Bologna può utilizzare questa bacheca per “appendere” foto, pensieri, canzoni... Per riannodare i fili di una storia che ha colpito tutti. Per ricostruire una rete tra presente e passato. Per rafforzare un legame fra le persone che, dopo 34 anni, chiedono ancora verità e giustizia. Perché, come disse Torquato Secci, primo presidente dell'Associazione Familiari delle Vittime, alla prima commemorazione, il 2 agosto 1981: “Un Paese che rinuncia alla speranza di avere giustizia ha rinunciato non soltanto alle proprie leggi, ma alla sua storia stessa. Per questo severamente, ma soprattutto ostinatamente, aspettiamo.” E ALLORA, TU: COSA RICORDI DEL 2 AGOSTO 1980?
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Questionario/ Chiesa, mafia e religione
Mafia: cosa ne pensa la comunità dei fedeli? “La scomunica per i mafiosi è necessaria? di Salvo Ognibene www.diecieventicinque.it
Sesso Residenza Età Data Praticante
[] F [] M ................................ ............................... ................................ [] Si [] No
1. Quante volte frequenta la Chiesa durante la settimana? [] Nessuna [] Soltanto la Domenica [] Meno di tre giorni [] Tutti i giorni 2. Secondo lei, è più importanti essere credibili o credenti? [] Credenti [] Credibili
7. Secondo lei è giusto “accogliere” all’interno della comunità della Chiesa persone che nonostante i tanti mali compiuti non si siano mai ravveduti? [] Si [] No 8. Secondo lei in cosa consiste il pentimento? ………………………….......................... .................................................................. .................................................................. .................................................................. 9. C’è differenza tra massoneria e mafia? [] Si [] No 10. Se la risposta è sì, è più grave appartenere alla massoneria o alla mafia? [] massoneria [] mafia [] entrambe [] nessuna 11. La scomunica per i mafiosi é necessaria? [] Si [] No [] Sono scomunicati [] Non sono scomunicati
3. Si definisce più cattolico o più cristiano? [] Cattolico [] Cristiano [] È uguale [] Non so la differenza
12. Se durante la santa messa il prete somministrasse il sacramento della comunione a un mafioso, lei rimarrebbe indifferente? [] Si [] No [] Farei notare il fatto
4. Devozione e fede sono sinonimi? [] Si [] No
13. Lo sa che in molte processioni religiose, le statue vengono portate a spalla da adepti alla mafia? [] Si [] No [] Non è vero
5. Secondo lei il maggior male della società è la mafia? [] Si [] No 6. Se la risposta è no, qual è secondo lei il maggior male della società? ………………………….......................... .................................................................. ..................................................................
14. Ha mai notato episodi del genere? [] Si [] No 15. É a conoscenza del fatto che alcune confraternite sono gestite dai clan o dai boss stessi? [] Si [] No
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16. Secondo lei una persona condannata per favoreggiamento alla mafia o per concorso esterno in associazione mafiosa che non si è mai pentita di quanto fatto, è meritevole di appartenere alla sua stessa comunità da cui le derivano i diritti concessi ad un fedele di Dio? [] Si [] No 17. E se in mancanza di una condanna si accertassero comunque gravi fatti che riconducono il soggetto ad ambienti più o meno vicini a quelli mafiosi da cui l’organizzazione criminale ne consegue sicuramente un vantaggio? [] Si [] No 18. Crede sia giusto concedere i funerali (in forma pubblica) ai condannati per reati di mafia? [] Si [] No 19. Crede che la Chiesa abbia nascosto delle verità sui misteri che l’avvolgono? [] Si [] No [] Sono tutte menzogne 20. Lo sa che all’interno dello IOR (Istituto per le Opere Religiose) sono stati riciclati i soldi della mafia? [] Si [] No Le informazioni ricavate tramite questo questionario saranno utilizzate in forma del tutto anonima per uno studio sul rapporto tra Chiesa, mafia e religione. Non ci sono risposte corrette o errate, pertanto la invitiamo a rispondere con la massima sincerità, rispettando le proprie opinioni personali. È possibile barrare una o più caselle.
La invitiamo a inviare il questionario compilato a: ognibene.salvatore@libero.it La ringraziamo anticipatamente per la collaborazione e la disponibilità.
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Giornalismo/ Baldoni
“Chi sogna di giorno vede molte più cose” Il 26 agosto 2004 veniva ucciso in Iraq Enzo Baldoni, uno dei più interessanti giornalisti del nostro tempo. Lo ricordiamo con i suoi post di allora sulla “Catena di San Libero”, l'e-zine indipendente antenata dei twitter d'informazione di oggi * La Catena di San Libero 3 agosto 2004 n. 242 Enzo Baldoni wrote: < L'americano coi baffoni da tricheco si sposta al mio fianco. Attacchiamo discorso. E' del Texas, si chiama Lee e, come immaginavo, è un contractor che sta andando a Baghdad. Lavorerà a rimettere in piedi una fabbrica di corn flakes per la Kellog's. Ha già lavorato in Cile, in Brasile, in Colombia. Molto americano: prima i Bradley, poi i Caterpillar. E' convinto di riportare la libertà all'Iraq. Gli iracheni sono contenti che noi americani siamo intervenuti, dice. E probabilmente, per una buona fetta della popolazione, è anche vero. Nel cuore tatuato sul braccio sono incise tre lettere: "L.A.L." Qualche società segreta? Ma no. Più modestamente, sono le iniziali di Lee And Linda: "Venticinque anni di matrimonio e una figlia di diciassette anni" borbotta con orgoglio. Ha l'aria di un brav'uomo> Bookmark: bloghdad.splinder.com ______________________________
10 agosto Enzo Baldoni, from Bagdad, wrote: < Finalmente ho un angelo custode. Si chiama Ghareeb, è palestinese, è molto bene introdotto nei posti che contano e di più non posso dire. Come l'ho conosciuto? Un colpo di culo, e che altro? Stasera, finalmente a cena fuori dal compound del Palestine - Sheraton, che è pesantemente controllato dagli americani e dalla neonata polizia irachena. Ceniamo in un kebab sulla strada, nessuno parla inglese, non esistono menù e nemmeno la birra, ma il pollo è delizioso (si mangia con le mani, chiaro). Ghareeb è ingegnere, è intelligente e molto colto, come gran parte dei palestinesi, parla un discreto inglese e conosce bene la storia. Una compagnia piacevole. E poi è più grosso di me e somiglia moltissimo a un certo Giodi di cui sono molto amico. Cosa chiedere di più alla vita? Lontano scoppia una bomba. Poi un'altra. Poi un'altra. Allora cominciamo a contare. Booom! - Quattro. Boom! - Cinque.
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Booom! - Sei. Boom! - Sette. Questa è la reazione alla conferenza stampa del primo ministro Allawi, che oggi non ha dato la minima chance alla resistenza: ha detto che sono fuorilegge, che saranno cacciati e arrestati. Boom! - Otto. Mmmm ... As Sadr sta veramente incazzato.Nella Zona verde partono le sirene. - Le suonano adesso, le sirene: a chi è ferito non serviranno gran che. Boom! - Nove. Passano veloci quattro Humvees dell' esercito Usa, saettando un faro sulla folla. Sembra che scappino. Tutti gli avventori del ristorante mettono si a ridere e schiaazzano all'indirizzo degli americani. Boom! - Dieci. La gente è tranquilla, continua a mangiare e a ridere. I missili sono diretti sulla Zona Verde, quartier generale dei sempre più odiati statunitensi. Boom! - Undici. Boom! - Dodici. Dodici bombe nel giro di un'ora. Difficile sottovalutarne il significato.
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“Dove non c'è l'attenzione dei media le cose non succedono, la gente non muore”
Fantastici americani. In un anno di arroganza, violenza, maltrattamenti in carcere, arresti illegali e disordini sono riusciti a sprecare tutto il capitale di credibilità che si erano costruiti con la cacciata di Saddam. Adesso anche chi li aveva festeggiati all'arrivo non aspetta altro che si tolgano dai coglioni. > Bookmark: bloghdad.splinder.com ______________________________ 17 agosto Enzo Baldoni, Bagdad, wrote: < Si parla tanto di Najaf, giustamente. Ma nel frattempo nessuno dice che, a Kut, ci sono state decine di morti per i bombardamenti dgli F 16. E' che dove non c'è l'attenzione dei media le cose non succedono, la gente non muore > *** < Sono nella sede della CRI di Baghdad, l'unico centro iracheno dove si curano i grandi ustionati. Ho ancora nelle orecchie le urla di due soldatini iracheni orribilmente bruciati dal "fuoco amico" degli F16. Il personale qui è ammirevole, non si risparmia. Stanno caricando camion e ambulanze di medicinali destinati a Najaf. Hanno già l'autorizzazione delle autorità islamiche.
Ma più di tutti hanno paura degli americani, che hanno il curioso vizietto di sparare sulle ambulanze. Partiranno appena avuta la clearance. Assieme al convoglio va Pino Scaccia, della RAI e uno sconosciuto Volontario del Soccorso con un gran culo > *** < ...Anna è un'infermiera volontaria di Messina, una bella faccia italiana, sorridente e concreta: "Lo stress più grande, per noi, sono i bambini. Arrivano qui, ustionati, hanno dolori terribili, urlano, piangono: come fai a non affezionarti? Le loro mamme sono dolcissime, fra donne ci capiamo. Ma ne abbiamo persi tre, in questi ultimi giorni. E questo pesa, pesa. Siamo quasi tutte mamme anche noi". Beppe: "Anche qui ci sono i pregiudizi. Tempo fa una donna m'ha detto, baciandomi le mani (e ero imbarazzato): "Grazie, grazie per aver salvato la mia bambina. Mi avevano detto che voi cristiani avete il cuore nero. Ho scoperto che non è vero". Ecco, queste sono le cose che ci aiutano a tirare avanti" > *** < Facciamo in giro per i reparti. Ci avviciniamo a un piccolo paziente sdraiato.
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Vicino a lui c'è il papà, un bel signore elegante nella sua lunga dishdasha blu. Lo chiama: "Ahmed? Ahmed? Guarda questo signore italiano che ti vuol fare la fotografia!". Io vorrei dire: no, no, lasciatelo in pace, povero cristo. Ma anche Anna, l'infermiera, che sa quel che fare, lo chiama: "Ahmed? Ahmed? Get up!". Forse gli fa bene reagire agli stimoli. Allora, tremolando, aiutato dal padre, un troncone umano annerito e parzialmente coperto di creme che forse è stato un ragazzino si alza a fatica, senza dire parola. La faccia è una crosta immobile in cui solo gli occhi riescono a roteare verso di me. Impressionante. Misericordiosa morfina > Bookmark: bloghdad.splinder.com *** < tornato da najaf, consegnati medicinali, portati fuori donne e bambini nascosti nel camion, stato in casa as sadr, entrato mausoleo ali, visto morire guerrigliero, incontrato comandante esercito al mahdi, cagato sotto causa torretta bradley che si spostava tenendomi di mira, incontrati marines che stavano pian piano entrando a piedi in najaf, lussata clavicola, ricoverato osped. italiano. scusate imprecisioni e stile telegrafico, scrivo solo mano sinistra, tutto bene. forse dovrò interrompere viaggio. presto racconto. vi voglio bene, grazie per starmi vicini > Bookmark: bloghdad.splinder.com ______________________________ 18/08/2004 14:20 E via: con un giorno di ritardo, ma si va a Najaf assediata con la copertura della Croce e della Mezzaluna Rossa. Scendo: nel piazzale alcuni volontari stanno staccando dai camion le bandiere e i manifesti con la Croce. "Ma Beppe!" Beppe è più nero che mai: "Ordini di stamattina. Il carico non può avere nessun simbolo della Croce Rossa:" "Stai scherzando, spero." "Ordini precisi da Roma." "Ma è un suicidio. Gli elicotteri americani dall'alto vedranno solo dei camion bianchi.
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“Ghareeb è veramente teso. Continua a dirmi di non sembrare straniero: niente foto, niente appunti sul taccuino, stai dritto, non ti voltare, niente cintura” “Tocca a me. Prendo la bandiera della Croce Rossa fissata a un manico di scopa, apro la portiera e scendo lentamente in strada”
Il primo mitragliere un po' cowboy prima ci spara e poi chiede chi siamo." "E' arrivato il divieto formale di usare la bandiera di guerra della Croce Rossa per questa missione." "Ma qui siamo a Kafka! E' ridicolo!" "Senti, Enzo: lo sai. Se potessi decidere io, salterei immediatamente su quei camion e andrei a Najaf. Ma io non posso. Tu sei libero: se non te la senti, resta a Baghdad." "Figurati. Ma così davvero è un suicidio, Beppe." Non risponde, mi volta le spalle e se ne va, furibondo. Va bene, ci penso io. Vado in una stanza, stacco la bandiera della Croce Rossa dal muro e me la infilo nello zaino. Ne vedo un'altra ripiegata su un ripiano e ops! dentro anche quella. Vado in cucina da Doriana e Francesco e gli chiedo un manico di scopa. Capiscono al volo e lo svitano dallo spazzolone che stanno usando. Trattasi di furto? Mi faccia causa, la Croce Rossa Italiana: ci facciamo due risate, quando torno. *** 19/08/2004 17:17 Ripartiamo con l'unico camion sovraccarico: dovremo andare lentamente, e speriamo che tenga botta.
Salah commenta: "Bene. Quello che poteva andar male è andato male. Ora, se saremo puri nelle nostre menti e nei nostri cuori, tutto andrà bene." E' un duro, Salah. Mi piace. Ghareeb è veramente teso. Continua a dirmi di non sembrare straniero: niente foto, niente appunti sul taccuino, stai dritto, non ti voltare, niente cintura. Ho insistito sul fatto che lui sia il capo indiscusso della spedizione e che tutti - io per primo - obbediremo ai suoi ordini senza far domande. Lui penserà ai rapporti con gli irakeni e io a quelli con gli americani.E poi, dopo molta, molta strada e molti, molti posti di blocco – oops: a questo posto di blocco non ci sono le camicie azzurro ATM dei poliziotti iracheni. Ci sono dei signori molto armati. Vestiti di nero. Con la fascia verde in testa. Tana. *** 19/08/2004 17:21 "Si apprende che il convoglio della Croce Rossa attaccato sulla strada per Najaf non era stato autorizzato dalla sede centrale ed anzi vietato, per motivi di sicurezza, dal Commissario Straordinario Maurizio Scelli. Quest'ultimo ha disposto l'immediato rientro in Italia del capo missione per riferire sull'iniziativa." questa non ci voleva.
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19/08/2004 19:57 Nel caldo feroce del primo pomeriggio, seguiti dal vecchio Ford sovraccarico, entriamo nella periferia di Najaf. La situazione è pesante, si sentono esplosioni dappertutto, ci sono combattimenti molto duri intorno al cimitero. Dobbiamo prendere strade e stradine polverose. Un sistema invisibile di staffette ci sta guidando: qui un uomo esce dal portone e ci fa segno di voltare a destra, qui un ragazzino ci manda a sinistra, là un vecchio accovacciato a vendere cavolfiori ci suggerisce di andare diritto. Ora Ghareeb è sudatissimo, basterebbe una strada sbagliata per portarci dritti dritti tra le braccia degli americani che stanno accerchiando la città. *** Ogni tanto, prima di un incrocio, Ghareeb chiede: "Uko dabbaba?" (C'è un carro? Dabbaba è un'antica parola che significa "qualcosa che cammina pesantemente e con rumore") Oppure: "Uko dabbabat?" (Ci sono carri?) Fino a un certo punto la gente risponde: "Makow." (non ce ne sono). E poi, alla fine, qualcuno risponde: "Ey!" (sì) Tocca a me. Prendo la bandiera della Croce Rossa fissata a un manico di scopa, apro la portiera e scendo lentamente in strada. *** 20/08/2004 08:36 ANSA - Della ingannevole atmosfera di speranza che si era creata ieri dopo le offerte di resa di Sadr ha fatto le spese anche un convoglio della Croce Rossa italiana che stamattina era partito da Baghdad con aiuti per la popolazione di Najaf ed e' stato investito dall'esplosione di una mina nei pressi della citta' di Babilonia. I vetri di un'ambulanza e di un camion sono andati in frantumi, ma gli operatori della Cri sono rimasti illesi. Il convoglio ha poi proseguito per la citta' santa, per trovarla nuovamente in preda ai combattimenti e riamanendo bloccato per alcune ore, prima di poter fare rientro nella capitale.
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Diario “IL TEPORE DELLA TERRA CHE MI RISCALDA IL CULO”
Ricordo UN MEZZO SORRISO AUTOIRONICO
24 luglio 2004 enzo wrote: < E' tornato. E' tornato il momento di partire. Da un po' di tempo la solita vocina insistente tra la panza e la coratella mi ripeteva: "Baghdad! Baghdad! Baghdad!". Ho dovuto cedere. Come sempre, quando si prepara un viaggio importante, cominciano a grandinare le coincidenze. E chissà quanto sono segni e quanto le provochiamo noi. Ancora una volta, prima di una partenza, mi sono sdraiato sotto le stelle, nella Romagna dei miei nonni e della mia infanzia, in cima a Monte Bora, sulla terra notturna ancora calda del sole di luglio. La terra, sotto, mi riscaldava il corpo. La brezza, sopra, lo rinfrescava. Lucciole, profumo di fieno tagliato, il canto di milioni di grilli. E' qui che da piccolo studiavo spagnolo su un libro trovato in soffitta. E' qui, davanti a un piatto di tagliatelle, che tre anni fa si è fatta sentire la solita vocina che ripeteva: "Colombia, Colombia, Colombia!" Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch'io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo >
27 agosto 2004 Non c'era pacifista più pacifista di Enzo Baldoni, con la sua bandiera della croce rossa sventolata fisicamente fra i due fuochi. Non c'era giornalista più giornalista, col suo "dilettantismo" sofisticatissimo, figlio di internet, una generazione piu in là della carta stampata. Non c'era sessantottino più coerente, a cinquantasette anni, morto così. Qualcuno ha pensato che il primo video fosse fasullo perché il viso "non rivela contrazioni inevitabili per chi si trovi sull'orlo dell'abisso". Infatti. Cosa doveva fare, tremare, supplicare, gridare viva l'Italia? No. Un mezzo sorriso autoironico, tranquillo, quello dei personaggi di Doonesbury, senza nemmeno bisogno di fumetto. E' morto un grande, un grande piccolo uomo, uno di noi tutti. Del resto ne parleremo dopo, quando ci sarà la mente più tranquilla. *** "A che serve vivere, se non c'è il coraggio di lottare?"
20/08/2004 19:00 Bene, ci siamo. Ora tocca a me. Dietro quest'angolo c'è un carro armato americano. Forse l'equipaggio è nervoso. Forse hanno l'ordine di sparare o forse no, ma noi non lo sappiamo. Non posso togliermi dalla testa quel che è successo all'amico e collega di penna Raffaele Ciriello, ucciso in mezzo alla strada dalla raffica di un mitragliere nervoso quando era di fronte armato solo di una macchina fotografica a un Merkava israeliano. Bon, vediamo che succede. Sventolo cautamente da dietro l'angolo la bandiera con la croce rossa. Poi la sventolo più forte. Sbircio dietro lo spigolo. E' un Bradley. E' una specie di rospo color sabbia su una strada color sabbia tra case color sabbia. Sta lì, indifferente, tetragono, acquattato, pronto a sparare la sua lingua vischiosa per catturare l'insetto. Solo che l'insetto sono io, cazzo.
Sventolo ancora la bandiera, faccio un passo, mi riparo dietro un palo della luce e urlo: "Ehi, boys! Italian Red Cross! Don't shoot! We are here for humanitarian reasons! Can we come forward?" "Ehi, boy, don't shoot! I'm coming!" Faccio un passo laterale e mi metto in vista, pronto a schizzare al riparo del palo di cemento. In una mano ho lo bandiera e nell'altra il distintivo dei Volontari del Soccorso, è ridicolo, da laggiù non riescono certo a leggerlo, ma forse per un ragazzotto dell'Ohio o del Wisconsin fa "legality", come quando un poliziotto viene avanti tenendo il distintivo in una mano e la pistola nell'altra. Solo che qui i distintivi, come le chiacchiere, stanno a zero. Sono le tre del pomeriggio, ho la gola secca, ma non credo dipenda dalla calura. Faccio un altro passo di lato, cauto. Sbircio indietro: al riparo dietro l'angolo Gareeb e Salah mi guardano, tesi. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo, mi porto in mezzo alla strada sventolando disperatamente la bandiera con la sensazione che da un momento all'altro mi faranno secco, continuo a urlare red cross don't shoot, con la sensazione di camminare in equilibrio su un filo. Faccio segno a Ghareeb di avanzare lentamente con la Nissan.
I Sicilianigiovani – pag. 85
“Ehi, boys! Italian Red Cross! Don't shoot!”
L'imbecille accelera e schizza via brusco, alle mie spalle. Lo segue il camion dei medicinali. Wew, passato: raggiungo anch'io piano piano l'altro lato, gridando "Thank you! Thank you!" all'indirizzo dei carristi invisibili. *** 20/08/2004 19:01 "Uko dabbaba?" "Uko dabbabat?" C'è un secondo Bradley sul nostro cammino, e poi un terzo: la procedura è la stessa. Smonta, sventola, urla, dirigi il traffico, e nel frattempo càgati sotto. Al terzo è già routine. Nessuno spara, e questo è buono, anche se vicino si sentono raffiche e colpi di mortaio. Gli abitanti di Najaf si sporgono dalle case, salutano, ci indicano la via verso il Mausoleo di Ali. Vediamo i primi armati vestiti di nero con la fascia verde sulla fronte. Poi irrompiamo nel corso principale: in fondo la splendida piastrelltura multicolore del Mausoleo, una fantasmagoria araba di grande bellezza. Il corso è pieno di armati, Ghareeb comincia a suonare i clacson, tutti alzano in aria i mitragliatori aprono le dita a V, ci applaudono, urlano, passiamo tra due ali di uomini festanti armati fino ai denti, anch'io sporgo le dita aV fuori del finestrino, è una festa. *** In fondo al corso un gruppetto di uomini vestiti di nero ci punta le armi. Ci fermiamo. Ghareeb scende. Questo è compito suo. Cominciano a urlare in arabo. Ghareeb sembra furibondo. Urla fortissimo. Un ragazzino con la fascia verde sulla fronte si mette dietro di noi e punta il lanciagranate RPG-7 sul camion. Porca troia. L'autista della Mezzaluna scende, pallido, e aziona il portellone. Lentamente, il portellone si abbassa: si vedono le casse di medicinali con la scritta Italian Red Cross. Il giovanotto alza il lanciagranate e sorride.Gli armati rimettono il mitra in spalla e abbracciano Ghareeb, che è sudatissimo. Via libera per il Mausoleo di Ali. Bookmark: bloghdad.splinder.com ______________________________
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Mestiere
IL GIORNALISMO AI TEMPI DI INTERNET
Modello Feltri o modello Baldoni? Giornalismo. Che differenza c'è fra il giornalismo - per esempio - di Feltri e quello - per esempio - di Baldoni? Non parlo di differenze "politiche". Da un punto di vista tecnico, voglio dire. La differenza è che Feltri grida, mentre Baldoni parla a bassa voce. Non è una novità: anche Appelius gridava ("Il generale Badoglio è entrato ieri ad Addis Abeba") e anche Hemingway ("Vecchio al ponte") parlava a bassa voce. Destra e sinistra dunque, attraverso le generazioni? Non solo. C'è qualcosa di più, che attiene proprio alle radici profonde del mestiere. Il giornalismo di Feltri nasce in un mondo sostanzialmente povero di notizie. Un mondo in cui ciò che succede accade lontano, arriva tardi, e incide relativamente poco sulla vita quotidiana. Quest'ultima, a sua volta, è una vita "normale". Di una normalità che nessuno mette in discussione. "Il generale è entrato ad Addis Abeba"? E che ce ne frega. Non ha importanza, poi, sapere che cosa ne pensa il barbiere di Addis Abeba. Tanto non lo incontreremo mai - il mondo in cui viviamo non ha nulla a che vedere col suo. La notizia e lo scoop Da questo discendono subito due cose. La prima è che la notizia coincide con lo scoop, deve avere un "effetto" traumatico immediato e dev'essere gridata. La seconda è che il gestore di questa notizia, essendo uno dei pochissimi autorizzati a gestirla, è una persona importante. Poiché non mette assolutamente in discussione (e perché dovrebbe?) la "normalità" del sistema, e poiché questo sistema è basato su una gerarchia - ristretta e distinguibile - di piccole e grandi Autorità locali, di notabili insomma, ecco che il giornalista diventa un notabile anche lui. Feltri, e Appelius, in fondo non sono dei giornalisti "fascisti". Sono semplicemente dei gerarchi, dei notabili, esattamente come il sottosegretario dei trasporti o il podestà di Ravanusa.
Gridare è inutile: meglio parlare tutti In più, hanno il bisogno fisiologico di "alzare" emotivamente le "notizie" che danno ("il Negus è semianalfabeta", "Baldoni è d'accordo coi terroristi") perché il valore delle loro notizie dipende principalmente dall'emotività che veicolano qui e ora. Nel caso di Baldoni - del giornalismo di Baldoni - il background è ben diverso. Non siamo più in un mondo in cui si aggirano pochi e stenti segnali. Siamo in un mondo pieno di informazioni, piccole e grandi, per lo più immediatamente visibili nella nostra vita quotidiana. Il somalo, per me, non è un oggetto esotico che trovo sul giornale: è semplicemente il tizio che sta sull'autobus accanto a me. Siamo nello stesso mondo. Da lui, e dal suo mondo, mi giungono continuamente delle informazioni. Il mondo non è nemmeno più un mondo notabilare, retto da pochi. E' un mondo ramificato e complesso, in cui il potere è dato dal consenso. Se al mio nipotino non piacciono le patatine McDonald, e questo finisce nei sondaggi, il presidente Mc Donald - un uomo potente - è nei guai. Questa è una novità, una novità che pesa. Così lo scoop, l'effetto, perdono di valore. Gridare è quasi inutile, perché qua parlano tutti.
Un vecchio Mac Scrivo da un vecchio iMac, in Sicilia, che era (me lo fece avere mesi fa, sapendo che ero senza) di un amico pubblicitario, uno che nel tempo libero se ne andava in giro a raccontare il mondo ed era, fra le altre cose, fra i nostri primissimi lettori. Si affaccia, non malinconico nè debole ma sereno, un senso di struggimento per chi avrebbe potuto essere qui a ridere con gli altri e invece è rimasto là, sulla via dell'umanità e dell'impegno. Vorremmo che la gioia collettiva di queste ore, la solidarietà, la forza che genera, viaggiassero fino a raggiungere coloro che ne hanno più bisogno e più merito adesso, i figli di Enzo Baldoni. (ott.2004)
I Sicilianigiovani – pag. 86
Una vociata occasionale può turbare il lettore d'oggi, ma non persuaderlo. Bisogna convincerlo a poco a poco, sommessamente. Ragionare. Parlare. Portare le cose "piccole", ma fondamentali, su cui la nostra vita si basa, dappertutto. Perciò, se il giornalismo vecchio era quello dell'"effetto", il giornalismo moderno è quello della "storia di vita". La storia si può raccontare con molti trucchi tecnici, per lo più molto antichi (presente Erodoto?). Ma i suoi strumenti fondamentali appartengono all'intellettuale umanistico, alla persona; non al "giornalista" nel senso (specialistico) feltriano. Io per esempio sono un giornalista perché so usare XPress, calcolare un battutaggio, passare un pezzo, mettere in piedi un cartaceo e così via. Non sono un giornalista per quel che scrivo. Questo può farlo "chiunque", con una determinata formazione, e lo farà tanto meglio quanto più sarà vivo. Lo strumento culturale di base non è più cioè l'appartenenza a un notabilato specialistico, ma la partecipazione colta e cosciente alla vita quotidiana delle persone. Questo significa subito che, se faccio il giornalista, non sono necessariamente un notabile: sono semplicemente un tecnico specializzato (in XPress). Per il resto, valgo quanto vale la mia sensibilità e la mia cultura: come tutti. Come ti libera la tecnologia Il giornalismo antico aveva dei mezzi di distribuzione assai limitati. Marco Polo è riuscito a raccontare quel che aveva visto solo grazie a una serie di colpi di culo (finire in cella con un intellettuale) del tutto imprevedibili. Kipling aveva bisogno di un editore. E tutti abbiamo avuto bisogno di rotative, di distributori, di macchine, in ultima analisi (salvo eccezioni: I Siciliani, Avvenimenti e altri pochi) di un padrone. Il giornalismo antico è, per sua tecnologia, coartabile e centralizzato. Il giornale di Baldoni invece si chiama Bloghdad.splinder.com. Se vai su Splinder, puoi farti il tuo giornale - non dico i contenuti - nel giro d'un paio di ore.
www.isiciliani.it Una mail, un sito, una e-zine... Difatti, ce ne sono migliaia. Puoi farlo benissimo anche tu. O puoi fare una mail, un sito, una e-zine come questa. Puoi comunicare. Il giornalismo moderno ha dei mezzi di distribuzione illimitati. Non è centralizzato, e non è coartabile da nessuno. L'unica cosa che gli manca è l'antico status notabilare. Questo è un guaio per il giornalista. Ma non per il lettore. Questa trasformazione è avvenuta ormai da diversi anni, il suo strumento tecnico è l'internet, la sua ideologia l'umanesimo e il suo backgound storico la globalizzazione. Baldoni c'era dentro fino al collo. Adesso, naturalmente, è un "giornalista" anche lui, ora che è morto. Come la Cutuli (promossa inviata dopo), come Ciriello, come Beppe Alfano ucciso dai mafiosi in Sicilia e pagato tremila lire a pezzo, come quel collega di Catania che in questo momento, per sopravvivere, sta scaricando casse e imballaggi all'aeroporto. "Giornalisti" tutti. Ma forse è arrivato il momento di separare le razze. Se Feltri è giornalista, evidentemente Baldoni non lo è. E viceversa. Non è un discorso moralistico, come si dice. E' semplicemente un fatto tecnico, di mestiere. Fra vent'anni, vedremo chi dei due sarà considerato storicamente un giornalista e chi no. “Amico dei terroristi”, disse Farini Sarebbe bene che anche coloro che notabilarmente - tengono i registri del "giornalismo" comincino a riflettere un po' su queste cose. Mi riferisco all'Ordine dei giornalisti e alla Federazione della stampa. Sono dei club simpatici, che hanno avuto una loro funzione ai tempi del giornalismo antico. Adesso però debbono decidere se vogliono continuare a occuparsi di giornalismo o no. Che fine fanno - tanto per dirne una tutte le polemiche di salotto su Farini? Roberto Farini, braccio destro di Feltri, è quello che ha affermato che Enzo Baldoni era amico dei terroristi iracheni.
Promemoria Gli insulti a Baldoni dei “giornalisti” Feltri e
L'ha scritto nero su bianco, avendone dunque (visto che è un giornalista) le prove. Non l'ha scritto perché ce l'avesse in particolare con Baldoni - che gliene frega ma così tanto per fare lo scoop, per l'"effetto". Bene: questo Farini è un "giornalista" o no? In questo momento, nel sistema dei notabili, c'è un'autorità precisa che può stabilirlo, ed è l'Ordine dei giornalisti. Mi aspetto che esso risponda a questa domanda, visto che tocca a lui rispondere. Se no, bisognerà pur trarne qualche conseguenza.
Non è solo l'Ordine il problema... Non è solo l'Ordine, il notabilato, ad essere stato povero in questa vicenda. Io temo che anche la categoria nel suo complesso abbia capito poco di quel che è successo con Baldoni. Il sito non ufficiale più autorevole del giornalismo italiano è, secondo me, il Barbiere della Sera. E' nato come "giornale" spontaneo dei giornalisti, col preciso intento di mettere in piazza ciò che succedeva dietro le quinte dell'informazione. Povero, scattante, appassionato, ha avuto un suo ruolo preciso in quegli anni. Poi, come a tanti succede, s'è ingrassato e s'è ingrandito, e ora è un bel portale di quelli che appena li clicchi ti sparano subito i flash di pubblicità. Non lo leggevo da qualche tempo, l'ho fatto adesso per vedere il dibattito su Baldoni. Ho trovato quanto segue: "Poi però al fine settimana, il nostro si mette la tutina da Superman e va a giocare all’inviato di guerra". "Lo spirito da avventuriero con cui affronta le sue imprese". "E non è un caso che anche ai dirigenti della nostra categoria non sia piaciuto questo finto inviato di guerra". "Deaglio, snob della sinistra, vergognati!".
I Sicilianigiovani – pag. 87
"Non conosco personalmente Enzo Baldoni, ma che sia un personaggio un po' egocentrico, e forse anche leggero ma non per questo buono...". "Baldoni è simpatico, ma, ripeto, NON lo considero un giornalista". "Una persona così è un danno per la categoria". Questa, naturalmente, non era l'opinione di tutti. La maggior parte degli interventi erano complessivamente civili. Ma c'erano anche questi - una consistente minoranza - e facevano opinione. Notabili o giornalisti? Anche le giornaliste Rai, se ve lo ricordate, erano "amiche dei terroristi". Quelle inviate in Iraq, durante e dopo la guerra: sono state insultate esattamente come Baldoni, perché "non erano professionali", erano "simpatizzanti di Saddam" e compagnia bella. Va bene: in questo momento, purtroppo, la cultura di destra in Italia è ridotta a un livello molto basso, e ne escono cose come queste. Potremmo "buttarla in politica", e finirla qui. Purtroppo, il problema è più profondo e riguarda la complessiva concezione del giornalismo in Italia, l'uscita - per chi vuole e può - dal notabilato e il ruolo, nel giornalismo moderno,dei "giornalisti". (La Catena di San Libero, 30 agosto 2004 n. 246)
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IL FILO
Vivere sotto le bombe di Giuseppe Fava
“Lungo la strada, accanto al cimitero, c'erano quattrocento miei compaesani morti nel bombardamento di sette giorni prima, una montagna di corpi spezzati, divelti, gonfi, dilaniati, putrefatti, e in mezzo a loro c'erano esseri umani che per anni io avevo salutato per strada” ____________________________________
La Fondazione Fava
La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare Il sito permette la consultazione gra tuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografi co e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________
Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”
Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebra zioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.
Le bombe che distrussero il mio paese Io ero un ragazzo e rimasi ferito sotto un bombardamento aereo che distrusse il mio paese. Ebbi una gamba e un braccio spezzati, e un occhio quasi lacerato da una scheggia. Mi tennero una settimana in un ospedale da campo, mi ricucirono le ferite e tolsero le schegge senza anestesia. Ci davano un pomodoro al giorno per sopravvivere, dopo una settimana finirono anche i pomodori. Allora scappai; avevo ancora le stesse bende insanguinate e putrefatte del primo giorno, avevo perduto dieci chili, con quella gamba spezzata percorsi venti chilometri per tornare al mio paese, volevo soprattutto disperatamente sapere se mia madre era ancora viva. “Seppellisci quei morti!” Quando arrivai alla periferia del mio paese distrutto, c'erano i soldati inglesi che rastrellavano i vecchi contadini e i ragazzi delle campagne. Presero anche me e mi dettero una vanga. “Seppellisci quei morti!” dissero. Lungo la strada, accanto al cimitero, c'erano quattrocento miei compaesani morti nel bombardamento di sette giorni prima, una montagna di corpi spezzati, divelti, gonfi, dilaniati, putrefatti, e in mezzo a loro c'erano esseri umani che per anni io avevo salutato per strada, ragazzi con cui avevo giocato, certo anche miei compagni di scuola, nessuno tuttavia riconoscibile poiché nessuno aveva sembianza umana. Con le baionette innestate i soldati inglesi ci spinsero verso quella cosa orrenda. “Seppelliteli!”.
I Sicilianigiovani – pag. 88
Con i bulldozer avevano scavato un'immensa fossa in un campo. Io ero un ragazzo, con la gamba e il braccio spezzati, una crosta di sangue su mezza faccia e almeno cinque o sei schegge ancora dentro che l'ufficiale medico non aveva avuto tempo di estrarmi, pesavo altri dieci chili di meno e soprattutto ero convinto che sarei morto per la fame. Ero cioè in uno di quei momenti eccezionali della vita (può capitare una volta, talvolta non capita mai) in cui ci si sente disposti a un gesto di eroismo. Perciò finalmente dissi: “Perché io?”. E l'ufficiale inglese, con la benda bianca sul naso e il berretto rosso disse dolcemente su per giù: “because you fall the war and those are your dead people!”. Pressappoco: perché tu hai perduto la guerra e questo è il tuo popolo sconfitto!
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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualitĂ e cultura
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Giambattista ScidĂ e Gian Carlo Caselli sono stati fra i primissimi promotori della rinascita dei Siciliani.
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Chi sostiene i Siciliani
Ai lettori
1984
Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani
Ai lettori
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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani
Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.
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I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base - da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo - che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.
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