I Siciliani giovani - marzo 2015 - numero 24

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I Siciliani giovani “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”

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marzo 2015 n.24

Bal

Roma come Reggio Calabria, Reggio come la Roma del ‘22

“Signor Presidente...” Lettera aperta sul caso Ciancio

A sinistra: Ester Castano, giornalista antimafia, disoccupata. A destra: Roberto Helg, imprenditore e manager, presidente di società ed enti.

Le due antimafie .

* e il trucco per distinguerle all’istante

QUELLA POVERA E VERA, QUELLA FASULLA CHE FA AFFARI

Venezia/ Satira e no Caruso/ La censura a Catania Roccuzzo/ Il vigile che battè la mafia Salfi/ L’odore dei soldi Vitale/ Il giocattolo dell’antimafia Giordana Cento passi ancora Baldo/ Chi c’era in via D’Amelio Cuccu/ Nania e la massomafia Cordova/ Stato indulgente Abbagnato Ricordo di Sarina Ingrassia D’Urso Lo sguardo di Shadi Cugnata-Pitroso/ Senza lager Tp24/ Vivere sotto tiro Di Stefano/ A Mineo Ficco/ Il muro di Calais P.Trifirò/ Lettera ai cittadini Capezzuto Rossomando Ungaro Giacalone De Gennaro Vitale Castano Ognibene Di Florio Catania Mamma!/ Festa d’aprile Mancini Sciacca Levrini Contatto Olivelli Wild Ottaviano D’Aquino Motta Manisera/ Mafie globalizzate Vita/ Il futuro dei soldi Jack Daniel/ Gli dei e il mercato Reportage Scatto Sociale/ Viaggio nella Moschea di Catania

E.Camilleri/ Storia della antimafia sociale

Mirone/ Un’avventura di Mario Ciancio

Caselli/ Il punto zero della democrazia

Dalla Chiesa/ I nuovi intellettuali


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Signor Presidente

Signor Presidente, il quotidiano La Sicilia non è “la voce delle forze impegnate nella legalità”; Lei sbaglia a dirlo. La Sicilia non è stata affatto, e non è tuttora, voce d'impegno civile, ma esattamente l'opposto. Ha combattuto Scidà, ha esaltato i Cavalieri, ha intimidito pentiti, ha insultato Beppe Montana e Giuseppe Fava. Ha ospitato dei boss, sulle sue pagine e fisicamente. E in questo preciso momento essa è inquisita - in persona del suo proprietario - per eventuale collusione con mafiosi. E' inquisita da magistrati che dipendono dal Csm, di cui Lei - signor Presidente - è il massimo garante. Son giudici coraggiosi, devoti all'ordine, e non terranno conto delle Sue parole. Ma se non lo fossero stati? Se esse, senza volerlo, avessero poi contribuito a salvare un reo? Se sotto indagine fosse stato un santo, Lei avrebbe dovuto esitare a parlare - in bene o in male - di questo santo: per scrupolo, per timor d'influire anche minimamente nel giudicato. E qua non si trattava d'un santo, come Catania sa bene. Scriviamo queste parole non con polemica, non col tono che avremmo usato per un Napolitano o un Cossiga, ma - signor Presidente - con dolore. Lei non è uno dei tanti politici, Lei è dei nostri. Di noi che per decenni abbiamo combattuto - ma questo è il meno - e che abbiamo dovuto chiamare generazioni di giovani a lottare e a soffrire insieme a noi, chiedendo sacrifici e offrendo pericoli, con l'unica ricompensa di servir fedelmente ciò a cui Lei, salendo alla nostra Repubblica, ha giurato. Mai più, signor Presidente. Mai più di questi dolori. I Siciliani giovani (r.o.)

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I Sicilianigiovani marzo 2015 UNA GIORNATA PARTICOLARE O meglio una giornata qualunque, scelta a caso. Prendiamo il due marzo, per esempio. Roma. Clochard pestato a sangue a Trastevere da cinque giovani annoiati. Vittima un italiano sulla cinquantina. Napoli. Immigrato preso a calci nella sede dei vigili urbani. Salta dalla finestra per scappare. Cirò Marina (Calabria). Divieto di circolazione per gli immigrati. Il sindaco: “E' per evitare la scabbia”. Cosenza. Crolla un viadotto dell'autostrada. Muore, dopo un volo di 80 metri, l’operaio che ci stava lavorando su. Si chiamava Adrian Miholca, rumeno,e aveva venticinque anni. Milano. Secondo un studio condotto dalle università di Milano, Roma e Bari, molti italiani usano Twitter per insultare categorie “inferiori”: due milioni di messaggi l’anno, concentrati in Lombardia, Veneto e Roma. Di essi, circa metà sono insulti rivolti alle donne, centodiecimila agli omosessuali, centocinquantamila agli immigrati, 479mila ai disabili e infine gli ultimi seimila, per non dimenticare le tradizioni nazionali, sono per gli ebrei.

Catania. Giovani buontemponi “giocano” con un clochard in una via del centro.

numero ventiquattro

Questo numero Signor Presidente I Siciliani Il punto zero della democrazia di Gian Carlo Caselli I nuovi intellettuali di Nando dalla Chiesa Non vanno d’accordo antimafia e imprese/ di R.Orioles Quale libertà Satira volontaria e non di Lillo Venezia La censura a Catania di Giovanni Caruso Emilia Il vigile che fece paura alla mafia di Antonio Roccuzzo “Licenziato, disarmato, ma ho vinto io di Donato Ungaro Strumenti MafiaMaps di Pierpaolo Farina e Francesco Moiraghi Italia L’odore dei soldi di Marco Salfi “Il giocattolo dell’antimafia” di Salvo Vitale Lo Stato indulgente di Agostino Cordova Cento passi ancora di Marco Tullio Giordana Un uomo dei Servizi in via D’Amelio? di Lorenzo Baldo Barcellona. “Comandava la massomafia” di Miriam Cuccu Mediterraneo Senza lager di Giuseppe Cugnata e Giulio Pitroso Mare di guerra, mare di dolore di Giovanni Caruso Europa Il muro di Calais di Marino Ficco Campania De Luca: il nuovo che avanza di Arnaldo Capezzuto Sicilia A proposito di antimafia e antimafiosi di Rino Giacalone Giornalisti sotto tiro di Tp24 Mafie Il labirinto del Minotauro di Andrea Contatto e Sara Levrini Operazione Aemilia di Michela Mancini Processo Vulcano di Patrick Wild E Parmalat si sente un boss di Ester Castano Una morte dimenticata di Simone Olivelli

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SOMMARIO

DISEGNI DI MAURO BIANI

Ambiente Valle del Mela Il ricatto del lavoro Valle del Mela Lettera ai cittadini di padre Giuseppe Trifirò Il triangolo maledetto di Danilo Daquino Mazzarrà.Se la discarica implode di Carmelo Catania Abruzzo. Contro gli elettrodotti di Alessio Di Florio 46 Catania. Il cemento, i soldi e il mare di Gioli Vindigni Satira Festa d’aprile di “Mamma!” Palestina Lo sguardo di Shadi di Fabio Michele D’Urso Fotoreportage Viaggio nella Moschea di Catania Collettivo Scatto Sociale Memoria Identità di una strage di Diego Ottaviano Storia dell’antimafia sociale di Elio Camilleri Belpaese Un’avventura di Mario Ciancio di Luciano Mirone Catania Gammazita di Ivana Sciacca Sant’Agata di Giovanni Caruso Sud Quando i giornali bullano i bambini “Zingari Raus!”. E Napoli si fa ariana di Luca Rossomando Mafie globalizzate Cecenia. Le vie dell'Obšcina di Samuele Motta Spagna. Fra politica e borghesia mafiosa di Sara Manisera

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Migrazioni Il viaggio di Leila di Sara Manisera Storie Gli dei e il mercato di Jack Daniel Bitcoin Il futuro dei soldi di Fabio Vita Politica “Cosa c’è dietro Isis?” di Maurizio Vitale Camorra Capitale di Riccardo De Gennaro Persone In morte di Sarina Ingrassia di Giovanni Abbagnato Liberazioni Le due Chiese di Bologna di Salvo Ognibene Il filo Sicilia fra Pericle e Mazzarino di Giuseppe Fava

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Italia

Il punto zero della democrazia di Gian Carlo Caselli Sono vicine al traguardo riforme costituzionali che segneranno per decenni il nostro futuro e la qualità della democrazia italiana. Secondo Gustavo Zagrebelsky siamo “quasi al punto zero della democrazia”. E tuttavia – ammonisce Michele Ainis - la riforma “cade nel silenzio degli astanti” come se non ci riguardasse più di tanto. Proviamo allora a ragionarci un poco su. Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. A questa concezione di democrazia se ne vorrebbe sostituire un’altra: basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento) e non più sul primato dei diritti. Ora, è vero che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), ma è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti. Tali limiti presidiano una sfera non decidibile, quella della dignità e dei diritti di tutti: sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi (una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia.

Questa necessità di limiti (che la nostra Costituzione stabilisce fin dal suo primo articolo) è fondamentale in democrazia. Altrimenti, come già insegnava quasi due secoli fa Alexis de Toqueville, può sempre essere in agguato la tirannide della maggioranza. Chi vince prende tutto? La vera democrazia garantisce spazi anche alle minoranze, spazi effettivi. Perché se questi spazi non sono effettivi, se la maggioranza che ha avuto più consenso si prende tutto, allora l’alternanza, che è la quintessenza, il dna della democrazia, viene ridotta a simulacro e la democrazia cambia qualità. La posta in gioco in sostanza è questa: è meglio il tipo di democrazia voluto dalla Costituzione, oppure quello che si sta cercando di sostituirgli? Quale dei due conviene di più ai cittadini? E ancora: se prevedere un abnorme premio di maggioranza e liste di “nominati”, con inevitabili decisive ricadute sull’elezione del Capo dello Stato, e sulla composizione del CSM e della Consulta, equivale ad un fortissimo potenziamento dell’ esecutivo, come non chiedersi fino a che punto esso sia compatibile con una autentica democrazia? Viene in mente Calamandrei, quando ammoniva che la Costituzione non è una macchina che va avanti da sola.Perché si muova bisogna ogni giorno metterci dentro il combustibile, cioè impegno e responsabilità.

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“Che m'importa della politica...” Per questo, dice Calamandrei, una delle peggiori offese che si possano fare alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, quella che spesso ci porta a dire che “La politica è una brutta cosa, che cosa mi importa della politica...”. Calamandrei a questo discorso oppone un apologo, quello dei due migranti, due contadini, che attraversano l’oceano su un piroscafo traballante: uno dorme nella stiva, l’altro sta sul ponte; c’è una grande burrasca, onde altissime; il piroscafo oscilla e il contadino impaurito domanda a un marinaio se c’è pericolo; il marinaio gli risponde che se continua così in mezz’ora il bastimento affonda; allora il contadino corre nella stiva, sveglia il compagno e gli grida “Beppe! Beppe! Se continua questo mare, il bastimento affonda!”; ma quello gli risponde “Che me ne importa, non è mica mio il bastimento!”. “Mica è mio il bastimento!” Questo, conclude Calamandrei, è l’indifferentismo alla politica. Ma attenzione: “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai”. Questo l’augurio di Calamandrei. Un augurio che vale ancora oggi.


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Testimonianze

I nuovi intellettuali Rosalba Cannavò, una delle primissime militanti dei Siciliani giovani, scrisse la prima delle molte tesi di laurea dedicate a Giuseppe Fava. Una piccola e combattiva casa editrice siciliana, la Cuecm di Salvo Torre, ne ricavò un libro, di cui questa era l'introduzione

di Nando dalla Chiesa Chi scrive ha avuto con Fava un rapporto singolare. Un rapporto prima lontano, inconsapevole, nato alla fine degli anni Sessanta attraverso la lettura di Processo alla Sicilia, appassionato reportage dalle zone del sottosviluppo. Un rapporto divenuto più consapevole poco più di una dozzina di anni dopo con la lettura de l Siciliani, il mensile messo su da lui, di nuovo in condizioni di estrema difficoltà, nella Catania assurta a nuova capitale di mafia. E diventato infine ravvicinatissimo attraverso il contatto con la redazione dello stesso mensile dopo la sua morte. Ed è stato proprio in questa terza fase che la curiosità per la figura dell'uomo, il fascino delle sue scelte di vita, l'intelligenza dell'analisi condotta sulle vicende della sua città e della sua isola, hanno stimolato una rilettura più attenta, distesa, meditata delle sue opere e dei suoi scritti giornalistici. L'impressione, o meglio la convinzione che ne ho ricavato è stata quella di trovarmi di fronte a uno dei maggiori intellettuali siciliani di questo secolo. Non c'è- sia chiaro - in questa affermazione il peso che potrebbe esercitare il cosiddetto giudizio di valore, necessariamente positivo di fronte a un uomo che per coraggio e per amore della sua terra è andato incontro alla morte. Si tratta di una valutazione obiettiva. Credo davvero che, sia pure con le migliori intenzioni, si faccia un torto a Giuseppe Fava classificandolo tra i “giornalisti uccisi dalla mafia”. Con Fava è stato ucciso un intellettuale, uno specifico modo di intendere la funzione dell'intellettuale nella Sicilia degli anni Ottanta. Dietro il suo assassinio non c'è d'altronde la paura dello scoop compromettente, non c'è la notizia-polveriera che deve rimanere in un cassetto.

Sta una produzione multiforme, un complesso integrato di parole, di sentimenti, di capacità, di analisi, di abitudini, che certo si trasfondono pienamente nella sua attività giornalistica e le fanno qualcosa di particolare; ma che sono prima di tutto opposizione intellettuale. Si tratta di una figura anomala, per usare un aggettivo che è stato fatto incombere negli ultimi anni sulle vicende siciliane. Una figura poliedrica, che ha accoppiato in sé la straordinaria forza della denuncia civile con una prosa tagliente, capace di squarci improvvisi e di particolari insistiti, degustati con voluttà al momento stesso che si accinge a tornare ai colori forti. Una figura che ha immesso nel panorama della cultura siciliana dei suoi anni la ribellione: ribellione alla rassegnazione, al lamento dello sconfitto, alla nostalgia dell'emigrato, ribellione all'idea che non vi sia altra forza a muovere la storia se non l'avidità dell'uomo. E forse perciò per questo bisogno di costruire vita anziché ricamarne, il suo stile è così lontano dall' ovattata ironia, dal prezioso intarsio, dal ritmo raffinato dei suoi contemporanei. La sua bellissima polemica con Sciascia su I Siciliani del maggio 1983 è, vista oggi, uno dei documenti più nitidi del conflitto tra due modi di essere intellettuali, tra due culture e due Sicilie: la Sicilia che vuole trovare anzitutto in se stessa la forza e la fierezza di reagire e la Sicilia scettica che ama il dubbio fino a trasformarlo in fede. “Pensiero e azione” Ma non è solo su questo piano che Fava porta tutta la carica innovativa del proprio atteggiamento intellettuale. C'è pure la sua capacità di trasformarsi in organizzatore di azione e di pensiero. Che è un corollario della sua caldissima fiducia nella vita (una fiducia che è pur percorsa da qualche vena di pessimismo): poiché è qui che nasce la sua disponibilità a dare agli altri, la persuasione che insieme si possa costruire. Anche per questo si dice troppo poco quando si parla di Fava solo come del “giornalista ucciso dalla mafia”.

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Quel giornalista, in realtà, creò altri giornalisti, diede vita ad un collettivo, fondò una testata tirandola fuori con tenacia dal mondo dell'immaginazione. Fu un maestro. Un maestro che ha insegnato a battersi, coll'arma della parola, a un gruppo di giovani. “I giovani, con l'arma della parola” Ecco perché scoprirlo, apprezzarne il percorso, diventa soprattutto un compito di chi si è trovato nella stessa temperie civile e ha compreso fino in fondo il valore della sua rottura, delle sue intuizioni o dimensioni analitiche, del rapporto stabilito tra informazione e cultura. Ed ecco perché è importante questo libro, che rielabora la tesi di laurea dell'Autrice, già studentessa dell'università di Catania. Perché proviene da una giovane, da un'esponente di quella generazione di siciliani che nella rottura culturale operata da Fava si è identificata, e attraverso quella rottura ha imparato a guardare il mondo. In fondo, dopo quel 5 gennaio del 1984, proprio gli studenti furono la linfa di un movimento di opinione che si trasmise, per canali disparati, a tutto il paese. Un movimento di solidarietà con una rivista e con una volontà di giustizia. Non si tratta dell'unica tesi di laurea dedicata a Giuseppe Fava. E anche questo è un segno che incoraggia. Nelle scuole, nelle università di tutta Italia, sempre più frequentemente mi capita di sentirmi chiedere di parlare di questo intellettuale anomalo. Vuoi dire che, nonostante i media, le idee circolano; quelle, •voglio dire, che non sono ammesse al grande circuito telematica. Il ritratto di Fava fornito da Rosalba Cannavò può essere, con le informazioni i riferimenti e le testimonianze che contiene o a cui rimanda, un mezzo per capire e sapere di più, un primo strumento informativo in attesa e nella speranza che altri ancora ne vengano apprestati. Da studenti siciliani. E magari da nuovi intellettuali. Dalla prefazione a “Giuseppe Fava, storia di un uomo libero” di Rosalba Cannavò, Cuecm 1990


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Italia

Non vanno d'accordo

antimafia e imprese L'antimafia fasulla e quella vera: come si fa a distinguerle? Facile... di Riccardo Orioles “Fior di viola, splendente, vivi nei canti, Atene, tu che hai difeso l'Ellade, tu ardita, tu città degli dei...”

Ma insomma, come faccio a distinguere l'antimafia fasulla da quella di cui fidarsi? Facilissimo: quella povera è quella vera. L'antimafia, difatti, è gratis. Perciò non puoi farci soldi o carriera. Puoi rischiare la pelle, questo sì, puoi farti emarginare dappertutto, puoi - ovviamente - restare senza lavoro, puoi anche fare la fame se occorre. Tutte queste belle cose puoi fare, e altre ancora. Ma soldi e carriera no. Ci spiace, ma non l'abbiamo messa noi questa regola. A noi piacerebbe di più ricevere - in un paese civile - soldi, onori, carriere felici e tranquille, e magari qualche buona parola.

Promemoria Dieci obiettivi dell'antimafia sociale ● Abolire il segreto bancario; ● Confiscare tutti i beni mafiosi o frutto di corruzione o grande evasione fiscale; ● Assegnarli a cooperative di giovani lavoratori; aiuti per chi le sostiene; ● Anagrafe effettiva dei beni confiscati; ● Sanzionare le delocalizzazioni, l'abuso di precariato e il mancato rispetto dello Statuto dei Lavoratori o di accordi di lavoro.

Ci piacerebbe anche di più poter promettere tutte queste belle cose ai ragazzi che, un anno dopo l'altro, arrivano freschi e decisi: “Voglio dare una mano all'antimafia”. Ma, in un paese civile. In questo, la prima cosa che insegnamo è: “Ragazzi, l'antimafia si paga”. Eppure, non restiamo mai soli. Al servizio dei grandi imprenditori La mafia, in Sicilia, nasce storicamente al servizio dei grandi imprenditori del comparto agricolo e successivamente industriale. Già nel 1920, a Palermo, giustiziò per loro conto il sindacalista Fiom Giovanni Orcel; negli anni '40-'60, per conto dei latifondisti, venne assassinato un centinaio di dirigenti contadini. “Imprenditore”, in Sicilia, non è una gran bella parola, e comunque con l'antimafia ha sempre avuto poco a che fare. Così, desta poca sorpresa la “scoperta” che le proclamazioni di questo o quell' esponente dell'imprenditoria “antimafia” andavano in realtà prese cum grano salis. In realtà, la vera sorpresa è data dalla facilità con cui tutta una serie di personaggi del genere ha potuto essere presa sul serio dall'antimafia“perbene”, quella almeno di provenienza non popolare. ● Separazione di capitale finanziario e industriale; tetto alle partecipazioni nell'editoria; Tobin tax; ● Gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali (scuola, università, difesa, acqua, energia, strutture tecnologiche, credito internazionale); ● Progetto nazionale di messa in sicurezza del territorio, come volano economico soprattutto al Sud; divieto di altre cementificazioni; divieto di industrie inquinanti; ristrutturazione di quelle esistenti e bonifica del territorio a spese di chi ha inquinato;

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I motivi son tanti. Primo, l'approssimazione politica di gran parte della nuova antimafia, dove la ripetizione di buoni principi sostituisce spesso la lucidità delle analisi e la radicalità delle azioni. Secondo, è molto più facile prendere a interlocutori (finché non smascherati) i vari Montante e Helg che non gli Umberto Santino, i Pino Maniaci o i Siciliani. I primi hanno denari da mettere nei vari “rinnovamenti”, e i secondi no; i primi non minacciano in alcun modo l'assetto sociale “perbene”, e i secondi sì. Ma così va il mondo; e noi perdoniamo volentieri agli amici perbene quella che non è certo malafede ma solo disattenzione e pigrizia. Noi, all'antimafia dei simboli, preferiamo quella palpabile e concreta. Che fare dei beni confiscati? Affidarli ai Montante o magari (come gl'immigrati) ai Castiglione? Questo, ormai è pacifico, non si può fare più. Metterli all'asta, come dice il capo della commissione “antimafia” siciliana, Musumeci? Allora tanto varrebbe ridarli direttamente ai mafiosi. Invece bisogna farne beni sociali, distribuirli con equità, farne economia sana. Questo è ciò che sostiene Libera da metà anni '90, e noi da dieci anni prima. E fra il buon elefante e le formichine, sarà ben difficile per le bestie feroci - gattopardi e iene - rimettere le zampe sulla preda. ● Controllo del territorio nelle zone ad alta intensità mafiosa. ● Applicazione dell'articolo 41 della Costituzione. Costituzione della Repubblica Italiana Art. 41 - “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.


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REATO DI MIMOSA Le “Mamme No Muos” l'otto marzo l'hanno festeggiato con un corteo a Niscemi, alla base Us Navy del Muos, recentemente dichiarata illegale dalle competenti autorità italiane. Alla fine del corteo hanno deposto delle mimose sul cancello d'ingresso della base. Ora sono indagate per reati vari, con l'accusa di aver tagliato un pezzetto della rete di recinzione della (illegale) base straniera.

Questa è la nostra antimafia. Antimafia utile a tutti, antimafia vera. Certo: alla tv e sui giornali non la troverete, troverete quella urlata. I vari Buttafuoco e Merlo (sempre amici dei Berlusconi e dei Ciancio, e ora improvvisamente grandi antimafiosi) hanno molta più udienza, lassù, dei nostri poveri Giacalone, Ester Castano e Capezzuto. Ma ha davvero importanza? I punti si contano alla fine, dicevano i maestri di tressette, e a Sedriano e a Trapani la borghesia mafiosa, grazie ai nostri cronisti, i suoi bravi colpi li ha pur presi. La vera antimafia è “politica” Quest'antimafia è politica: in un sistema dove i poteri mafiosi sono tanto inseriti nell'economia, è ovvio che la vera lotta alla mafia sia condizione primissima per cambiare qualcosa. Avete già sentito 'sta tiritera, se siete vecchi lettori dei Siciliani. Non si può dire che abbia avuto molto successo: la destra, ovviamente, ha avuto ben altro da fare. Il centrosinistra, col suo partito-nazione, in queste settimane sta reclutando generali e soldati di tutto il vecchio Sistema non esattamente antimafioso. E la sinistra “pura”, gli alternativi? Non sembra che il potere mafioso (e in Sicilia abbiamo avuto due presidenti di fila o condannati o inquisiti) sia esattamente in cima ai suoi pensieri. Con belle e lodevoli eccezioni, certamente: ma certo non proprio al centro della strategia. Perciò per noialtri monotoni, all'improvviso, è stata una bella sorpresa vedere che qualcun altro cominciava a percepire queste cose. Che lo scontro, in Italia, non è più tanto politico quanto sociale. Che è la società civile, non i partiti e partitini, a dovere portarlo avanti.

“Splende nel mondo povero la libertà delle donne, delle ragazze-partigiane di Kobane. Fermano i nazifascisti di Isis, sole ma vittoriose” ”Strumenti di lavoro” dei Siciliani anni '90 Parliamo, come avrete capito, di Libera, di Emergency, della Fiom, della “coalizione sociale” a cui, con gran diffidenza, vorremmo affidare una speranzella, dar fiducia in qualcosa. La diffidenza nasce (oltre che dalle catastrofiche esperienze con altri sindacalisti: vedi Cofferati) dal fatto che per “società civile” s'intendono ancora solo le grosse e un po' verticistiche organizzazioni. La speranza, dal fatto che tutta 'sta baracca nasce fra gli operai. La (moderata) fiducia dalla modestia e dai limiti fissati dai promotori. “Fare altri partiti? - dicono – Dio ce ne scansi. Vogliamo una rete sociale, mettere in comunicazione. Noi siamo la società, quella vera. Non c'interessa il Palazzo. Noi siamo semplicemente il Quarto Stato”. E' un bel progresso rispetto alle ingegnerie precedenti (arcobaleni, azione civili, fors'anche altreurope) che si presentavano con bellissimi progetti chiavi-inmano, cercando disperatamente di farli gestire insieme da tutte le vecchie sette precedenti (carbonari, giacobini, seguaci degli statuti di Spagna e narodniki) le quali, per loro natura, difficilmente potevano invece accordarsi su qualcosa. “Invece ripartiamo dalle origini, dai soggetti sociali”. Questo, secondo noi, comincia a essere buonsenso. Il governo reale? Marchionne Anche dall'altra parte ragionano nudo e crudo, senza tante illusioni. Hanno fatto governi (tre, uno dopo l'altro, tecnici, più tecnici ancora e infine “riformatori”) che a parte la fuffa mediatica - non hanno governato granché. Hanno coperto, in sostanza, l'emergere del governo reale, quello direttamente “sociale” - ma della parte alta della società, dei Marchionne. E sono stati attentissimi, agendo sul corpo sociale, a smantellare via via proprio i ceti sociali che potevano fargli opposizione.

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Prima è toccato agli operai, privati di sindacati e statuti, sospinti (tatcherianamente) nelle curve sud e abilmente divisi, con opportune campagne mediatiche e leghiste, dai loro omologhi neri, che dopo anni d'Italia non sono che operai come tutti gli altri. Adesso stanno attaccando l'altra colonna della vecchia Repubblica, la scuola. Il preside-comandante, i prof soldati semplici ai suoi comandi, non sono solo un rigurgito degli Anni Trenta. Sono un progetto abilissimo e preciso, distruggere ogni luogo sociale e lasciarci ciascuno solo davanti alla sua tv o al suo monitor. Se i Landini e i don Ciotti lo capiranno, potranno contare su molte forze ora sparse e divise. Il laboratorio-Sicilia In Sicilia, nel paese-laboratorio in provincia di Messina, la sindaca “antimafiosa” di due anni fa, la Maria Teresa Collica, è stata buttata giù dalle forze congiunte dei vecchi padroni di destra e nel “nuovo” Pd (escluso, a suo onore, un dirigente che s'è ribellato). A Messina, lo stesso gioco si va preparando per Accorinti. Nè lui né la Collica, in questi due anni, sono stati all'altezza del ruolo: simbolismi moltissimi, tutti belli e civili e degni di gran lode. Ma politique d'abord, mobilitazione dei bisogni della gente, fiacca e poca. Nè i “compagni” li hanno granché educati, né sostenuti: applausi ma non critiche all'inizio, maledizioni ma non mano tesa alla fine – cioè adesso. *** Il Sud, il Mediterraneo, il mondo povero intanto vanno avanti. La Grecia (altro che calimeri) affronta la trattativa coi generali tedeschi, i Brest-Livotsk, e la sta affrontando bene. Fra gl'islamici splende, per la prima volta nei secoli, la libertà delle donne, delle ragazze-partigiane di Kobane, in prima linea col fucile. Fermano i nazifascisti di Isis, abbandonate dall'Occidente ipocrita, ma vittoriose.


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Quale libertà

Satira volontaria e no “La satira ti rende libero, molto libero. Ma...” di Lillo Venezia La satira o, anagrammata, la risata, ti rende libero, a volte molto libero. I greci e i romani ne facevano un gran uso per ridicolizzare comportamenti e costumi sia dei potenti che del popolo. Oggi assurge di nuovo agli onori della cronaca: la strage di Parigi a Charlie Hebdo, perpetrata da terroristi islamici nel nome di Allah, ha riproposto drammaticamente la questione della libertà di stampa ed espressione. Tutti i media, nessuno escluso, hanno condannato il gesto estremo dei due terroristi fratelli che hanno massacrato la redazione del giornale satirico, colpevole di avere pubblicato vignette blasfeme offensive dell’Islam e del suo profeta. Questa la molla, ma è la vera ragione della strage e di altri tentativi di attentati che la cellula jihaidista voleva compire in Francia ed in Europa? A mio avviso c’è qualcosa di più che solo l’offesa all’Islam. Per giorni e giorni il dibattito, nei salotti tv e sui giornali, si è chiesto fino a che punto si può arrivare con la satira. Non senza molta ipocrisia.

La satira non ha confini La satira, in quanto tale, non ha confini prestabiliti: si lascia alla sensibilità di ognuno, di ogni editore, di ogni vignettista o scrittore di satira. Le vignette o gli scritti satirici sulle religioni creano problemi di coscienza e di opportunità, ed in particolare quelle che si occupano del l’Islam e del profeta Maometto non sono accettate da molti fedeli del mondo islamico in quanto non accettano rappresentazioni, neanche favorevoli, del loro profeta e della loro religione.

Quale libertà JE SUIS LILLO'

Non è una persona perbene, non lo è mai stato (nè Sparagna, Wolinski e compagnia bella) e non credo che ai suoi funerali verLillo Venezia era il direttore del Male (ci ranno i pezzi grossi di mezzo mondo, smet tendo per mezza giornata di ammazzare o collaborava anche Wolinski), che era la versione italiana del vecchio Harakiri (che mettere in galera i disegnatori blasfemi. La più bella copertina di Wolinski, ahipoi, cambiato nome, diventò CharlieHebdo). In questa veste ha preso circa duecen- mè, non la vedremo mai: è quella che avrebbe fatto mettendoci le facce compunto querele, di cui qualcuna (per esempio quella del falso monumento ad Andreotti) te di tutti i ciarlatani e gli ipocriti che avelo portò in galera con altri disegnatori bla- va preso per il culo per cinquant'anni e sfemi di quei tempi. Ce lo siamo ritrovato adesso, per giusta vendetta, prendevano ai Siciliani, di cui per un periodo fu anche per il culo lui con la loro "commozione". Non mi chiedete dov'è Lillo e che cosa amministratore: firmò cambiali e ci rimise fa in questo momento, in quale grande - grazie alla scarsa pazienza della Legagiornale lavora e chi, dei valorosi colleghi Coop - i mobili di casa.

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Non si tratta peraltro di una reazione tipica del solo mondo islamico: inoltre, le diverse interpretazioni del Corano producono reazioni violente che in questo momento vengono alimentate da interessi che con la religione non c’entrano nulla. Charlie Hebdo aveva scelto di pubblicare vignette sapendo il rischio che correva: altri invece hanno soprasseduto o per paura di qualche attentato o per rispetto delle idee altrui in tema di religione. Sensibilità diverse, che però non risolvono il problema di un eventuale limite della satira. che ora sono-tutti-charlie, si ricorda di lui. La satira, nel Belpaese, è onorata e protetta, a patto però che sia involontaria. Altrimenti so' cazzi vostri, caro Lillo e caro Wolinski (da vivo). (Ah: guardate che degli islamici morti a Parigi metà erano terroristi e metà erano cittadini che cercavano di fermarli) (Ah: guardate che l'ultima copertina di CharlieHebdo non ce l'aveva con l'Islam ma con uno scrittore antislamico sostenitore dei Le Pen) (Ah: fatevele raccontare complete, le storie, sennò diventate pezzi di satira voi stessi) r.o.


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Certo è che la satira non si può e non si deve normare o avere paletti legali, perché ciò, oltre a limitare la libertà di parola, ne snatura la stessa essenza. D’altronde esistono già norme che la limitano, coi reati di diffamazione e vilipendio. Dico ció per esperienza diretta e personale: la satira mi è costata due anni e sei mesi di reclusione, per vilipendio alla religione di stato e a un capo di stato straniero, cioè il Papa. I cosidetti fanatici religiosi ci sono in tutte le religioni, e non a caso Marx diceva che la religione è l’oppio dei popoli. Un esempio di satira involontaria Infine, un esempio di satira involontaria: il corteo di Parigi, che ha visto sfilare oltre due milioni di persone che si opponevano al terrorismo anche per motivi religiosi e che difendevano la libertà di parola ed espressione.

“La satira è la testa del corteo, quei governanti che sfilano dopo aver fatto guerre, massacrato civili, decretato nuove leggi contro i giornalisti...”

Quella fila di capi di stato... Dov'è la satira? La satira è la testa del corteo, quella fila di capi di stato che sfilavano dopo avere fatto la guerra in Iraq ed Afghanistan (anche se a onor del vero gli americano ed i russi mancavano) e che vedevano uno accanto all’altro Netanyahu il sionista di Israele che ha massacrato oltre 2000 civili palestinesi, moltissimi dei quali bambini, il presidente dittatore del Gabon, i rappresentanti dei regimi fascisti dell’Ungheria e dell’Ucraina, ed infine lo stesso Renzi, che vuole aumentare la pena pecuniaria per la diffamazione (togliendo il carcere), portandola a qualcosa come 50mila euri per i giornalisti (ognuno può fare la propria riflessione, anche satirica): insomma, una testa di corteo davvero da ridere. E infatti qualcuno ha detto: una risata vi seppellirà.

Quale libertà LA CENSURA A CATANIA

Catania, 5 gennaio 1984: viene ucciso dal terrorismo mafioso un uomo, un giornalista, un drammaturgo, un artista che I fatti di Parigi hanno aperto, per l'enne- raccontava la società siciliana "puttana e sima volta, il dibattito sulla libertà di infor- matrigna", oppressa dai poteri occulti e nascosti tra mafia e comitati d'affari. mazione. E’ venuta fuori tutta l'ipocrisia Quell'uomo si chiamava Giuseppe Fava dei grandi giornali e delle grandi firme del e fu censurato da cinque colpi di pistola. giornalismo. Tutti sostengono che i nostri Lo uccisero e poi lo diffamarono affinché giornali sono liberi da ogni condizionala gente di Catania si dimenticasse di lui. mento e da ogni censura.Ma non è vero. Sulla libertà di informazione, di espres- Ma non fu così: i ragazzi dei Siciliani racsione e satira siamo agli ultimi posti. In Si- colsero il testimone continuando a racconcilia, dagli anni '60 agli anni '90 sono stati tare la verità. Fu diffamato e ancora censurato dai notabili catanesi, dall'unico quotiuccisi dalla mafia otto giornalisti che con inchieste e articoli facevano venir fuori le diano della città, dai suoi ex colleghi giorverità sui rapporti tra mafia e politica, ma- nalisti che si autocensurarono. Paura di perdere il posto? Di non essere fia e comitati d'affari, mafia e imprenditoammessi nella società bene? Non sappiaria. Il terrorismo mafioso fermò le penne mo, e in fondo non ce ne importa nulla. Ne dei giornalisti migliori. rispondano alla loro coscienza. Quarant’anni di censura violenta e sanOggi la mafia non uccide più i giornaliguinosa, che la solitudine, l'omertà e la paura fecero sprofondare nell'oblio, nei de- sti siciliani: ci pensa il sistema dei grandi pistaggi, nella diffamazione, allo scopo di editori a censurarli prima. Ci sono ragazzi e ragazze che pieni di entusiasmo vorrebnon accertare mai la verità su quei delitti. Gli stessi giornali siciliani, tutti d’accordo bero indagare sui fatti di cronaca, attraverso un giornalismo che racconti la verità. tra loro, non fecero nulla per difendere i Ma il sistema della grande editoria è li giornalisti che per un giornalismo fatto di pronto a impedirlo: verità dettero la vita.

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“Cara ragazza, vuoi fare la giornalista? Fammi questo pezzo, poi vai in amministrazione dove ti daranno dieci euro, contenta? Vedrai la tua firma sul nostro prestigioso giornale!” “Veramente io volevo scrivere sui centri commerciali e i soldi riciclati ...”. “Ma quale riciclaggio, quale mafia! Lascia perdere... Fammi un bell'articolo sul barocco catanese, no?”. Una censura che non uccide il corpo ma la voglia di raccontare la verità. E oggi, a Catania, com’è la censura? Esattamente come trentun anni fa: un solo quotidiano, con lo stesso editore che fa affari con la politica e le imprese, che si accaparra tutta la pubblicità, non solo commerciale ma anche quella politica, di destra e sinistra. Un quotidiano unico torna utile durante le campagne elettorali! Ma non scoraggiatevi, giovani giornalisti: ci sono anche qui tante piccole testate, qualcuna libera, qualcuna meno, ma ci sono! Ci sono giornali che vengono dalla scuola dei Siciliani, che fanno fare rete per una informazione libera e di base, per un giornalismo di verità. Per cui forza, andiamo avanti! GIOVANNI CARUSO


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Giornalismo

Il vigile-cronista

che fece paura alla mafia Reggio Emilia. “Qua la mafia non esiste”. Davvero? Parte un'inchiesta...

di Antonio Roccuzzo Uno dice: fare il giornalista. Girare il mondo, stare in prima linea, guardarsi intorno e raccontare quel che si vede. Facile a dirsi. La storia del giornalistacittadino Ungaro Donato rasenta il paradosso, perché ambientata a Reggio E. e non a Reggio C. Donato oggi guida un autobus della linea urbana del comune di Bologna e non vive più tra Brescello e Boretto, dove 14 anni fa l’ho conosciuto quando faceva il vigile urbano e ha iniziato a scrivere. Siccome la colpa del fatto che lui abbia il tesserino dell'ordine dei giornalisti di Emilia Romagna in tasca è anche mia, ecco la sua storia. Nel 2000 e fino alla fine del 2004, ero sbarcato a Reggio Emilia per fare il capocronista delle pagine della provincia della “Gazzetta di Reggio” (gruppo Espresso), ma quelle pagine era vuote di corrispondenti. A Brescello, Bassa ovest, il paese dei film sui libri di Guareschi, il giornale non poteva contare su nessuno. No corrispondenti, no news. Un disastro. Un giorno mi chiama il nostro fotografo, Ermes Lasagna, da laggiù, in riva al Po e mi dice che c’è un ragazzo in gamba che fa il vigile ma è fissato che vuole fare il cronista. Si chiama Ungaro e se voglio me lo presenta. Un vigile corrispondente è la soluzione migliore. Conosce tutti e sente tutto. Non buca nulla. L’indomani arriva in redazione questo ragazzo che sembra un moschettiere. Assunto. Non ha mai scritto un articolo, non conosce le regole e ha Guareschi come mito, ma imparerà, perché è una scheggia e ha il tarlo delle notizie. Gli spiego i rudimenti: attacco dove-cideve stare-tutto, soggetto, predicato eccetera, eccetera, frasi brevi, discorso diretto tra virgolette.

Commenti mai e comunque sempre separati dai fitti. Notizie, soprattutto notizie. Lui parte come se avesse avuto l’incarico per scrivere sulle pagine locali del “New York Times” e si scatena. Trova notizie, racconta, disvela, scopre il gusto di fare notizia. Spesso sono notizie clamorose, per quei luoghi. Ad esempio: in quegli anni, lungo l’asse del Po, stavano costruendo la nuova linea della Tav. A Reggio Emilia e provincia poi in pochi anni il numero dei residenti è aumentato di decine di migliaia di unità. La crisi non è ancora arrivata e le imprese edili locali (in gran parte gestite da cutresi) costruivano opere e case a ritmi vertiginosi. Non tutti i cutresi sono mafiosi, ma ci sono anche mafiosi tra loro e sono quelli che negano la mafia e, se qualcuno dice che esiste, accusano l’interlocutore di voler discriminare tutti i cutresi. La sabbia del Po era preziosa, per lavori pubblici e privati. Un’impresa (la Bacchi, reggiana doc, sede a Boretto, proprio lungo l’argine del fiume, poi indagata dalla procura di Reggio E.), estraeva abusivamente sul Po, poi trasportava di notte, facendo concorrenza sleale alle aziende locali che rispettavano leggi e regolamenti su carico, dimensioni, orari, contratti di lavoro. La Forestale si appostava sulle sponde del fiume e indagava sugli abusi della ditta Bacchi. Il corrispondente da Brescello... Il corrispondente da Brescello, Donato Ungaro, dopo mesi a farsi le ossa tra incidenti stradali, furtarelli, rapine e consigli comunali, ormai fiuta i fatti e non li molla. Quando stacca il suo turno in municipio, si scatena: con il fotografo Ermes Lasagna fanno coppia di cronaca che è una meraviglia. Nell’inverno del 2001, durante una nevicata, Ungaro filma le escavazioni illegali e noi pubblichiamo tutto (fermi immagine, perché ancora le pagine web in quell’epoca non esistono). Il video di Donato poi lo diamo in procura al pm che si occupa delle indagini. Qualche settimana dopo al cronista Ungaro, ignoti tagliano le ruote della macchina, per due volte e di notte.

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Come a Catania o a Cutro, ma siamo a Boretto, provincia di Reggio (nell’Emilia), nord ricco e civile del Paese, provincia tricolore e della Resistenza, a dieci minuti dal museo Cervi. Eppure quando lui racconta al giornale dei copertoni squarciati, molti lo prendono per matto, un po’ mitomane: “Ma va là, siamo a Reggio qui... avrai forato. Qui non accadono queste cose!”. Io gli dico di andare dai carabinieri e lui quando ci va quasi lo dissuadono dallo sporgere denuncia. Lui lo fa lo stesso. Poi, fuori dal giornale, arriva un signore che mi dice: “E’ lei che fa il capo qui? Ma lei ce l’ha con i calabresi?”. Lo mando a quel paese in siciliano e un mio collega reggiano mi dice: “Ma non lo sai chi è quello?”. Era un Grande Aracri, della omonima famiglia di Cutro, residente a Brescello, frazione di “Cutrello” (un quartiere chiamato così perché costruito in golena e abitato da immigrati calabresi arrivati lì negli anni Ottanta): ora Grande Aracri è finito al centro del blitz antimafia scattato in sei Regioni del nord il 28 gennaio 2015, ma allora era un “noto imprenditore edile”. E allora, la mafia non esisteva a Reggio E. Non per Ungaro che aveva capito quasi tutto. Anche perché in piazza a Brescello, c’è sempre qualcuno che lo avvicina e gli consiglia di stare cauto. Oppure chi, come un cutrese che abita a “Cutrello” che gli dice di andarci piano con quelle storie scritte sul giornale. Qualche settimana dopo quello scoop sul Po, Ungaro porta in redazione un’altra bella storia: un misterioso progetto di centrale a turbogas (con la medesima compagnia di giro coinvolta nell’affare) da smontare in Portogallo e rimontare qui sul Po, su terreni agricoli. E quella è la volta che a Ungaro gliela fanno pagare. L’allora sindaco di Brescello, Coffrini, licenzia in tronco il vigile urbano-cronista: Coffrini fa l’avvocato ed è padre del sindaco Coffrini junior che ora – dodici anni dopo il padre nega insieme al parroco la presenza della mafia nel suo comune, l’uno e l’altro epigoni poco letterari di Peppone e don Camillo.


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La 'ndrangheta, i politici e una testa dura

“Licenziato, disarmato ma alla fine ho vinto io” di Donato Ungaro

“Il vigile Ungaro Donato lavora poco e propala notizie riservate del Comune”, fu la motivazione del licenziamento. Falsa, perché della centrale a turbogas non c’era traccia negli atti comunali (e questo era il problema, progetto “segreto”). L’operazione antimafia di mercoledì 28 gennaio 2015 ha stabilito che nel 2009 le elezioni comunali a Brescello furono inquinate dal voto mafioso. Ungaro lo scriveva 12 anni fa. Ecco chi è Donato Ungaro. Ora, l’imprenditore reggiano che scavava sabbia abusivamente e che – come accertato dalla procura di Reggio E. - faceva concorrenza sleale alle ditte oneste reggiane, ha subito per questo vari sequestri in base alle norme antimafia. Ma allora era molto protetto e protestava con il mio giornale, mi telefonava: “Ma lei ce l’ha con me? Venga a farsi una gita sul mio vaporetto sul Po…”. Lui organizzava crociere per gente che contava. Io non ci sono andato e neppure Ungaro, ma molti giornalisti locali sì. E ora? Quando sono andato via da Reggio, Ungaro è rimasto lì a cercare di fare il suo lavoro, ma alla fine gli hanno detto che scriveva male (come se le redazioni non fossero piene di tronfi e analfabeti scrittori del nulla) e che non c’erano più soldi, la crisi dell’editoria, sai... Arrivederci e grazie. Due parole bastano per fare a meno di gente come Ungaro. Lui non ha mollato, ha girato per altri giornali e tv, poi si è fatto riconoscere il praticantato. Ha superato gli esami e ha preso il tesserino rosso da professionista. Siccome però non riusciva a vivere di cronache che nessuno pagava, Donato è andato a Bologna e ha trovato un posto da autista di pullman che partono dalla stazione di Bologna. Poi ha avuto problemi di sciatica e ora lavora in ufficio. E’ direttore del giornalino “Piazza Grande” dei sans papiers bolognesi, scrive libri su Guareschi. E aspetta la sentenza della Cassazione per essere riassunto al comune di Brescello: in appello, ha vinto. Licenziamento illegittimo. Se vince la causa, però, non farà più l’autista e neanche il vigile urbano. In fondo, è lui, Ungaro Donato, che ha scoperto che la mafia esiste anche a Reggio Emilia…

Non è mafia solo uccidere le persone, è mafia anche togliere la dignità agli uomini. È mafia anche mettersi al servizio di un imprenditore che con la mafia, secondo un prefetto, conduce affari; mafia è fare dei favori - magari inconsapevolmente - alla mafia, quella vera. La mia storia è banale. È la storia di un vigile urbano di un paesino reso famoso dai film di Peppone e don Camillo, che si mette in testa di diventare giornalista. Incontra un certo Roccuzzo, uno dei picciotti di quel Pippo Fava direttore de I Siciliani ucciso dalla mafia catanese; e inizia a scrivere per la Gazzetta di Reggio. Scrive, il vigile-cronista, di una megacentrale elettrica dell'Ansaldo da costruire su terreni agricoli comprati per pochi soldi, terreni che prima del rogito - però diventano area industriale grazie alla variante approvata dall'amministrazione. Un guadagno straordinario, con l'Ansaldo ora pronta a pagare i terreni fior di milioni; ma al vigile-cronista giunge una voce raccapricciante: secondo un medico, troppa gente a Brescello muore di tumore. La redazione della Gazzetta di Reggio scrive un articolo dove vengono denunciate le impressioni del medico condotto: dal municipio arrivano strali e minacce al vigile-cronista. Ansaldo rinuncia a costruire la centrale e l'imprenditore rimane con i terreni “novelli” industriali senza un compratore. Il sindaco di Brescello, Ermes Coffrini, licenzia il vigile-cronista. L'Ausl conduce un'indagine e scrive che negli ultimi 7 anni il 45 per cento degli uomini è morto per tumore. Solo impressioni? Intanto l'imprenditore scava abusivamente sabbia nel Po, arrivando a deviare il corso del fiume. L'ex vigile, ora solo cronista, filma una draga mentre scava nelle acque del Po e Le Iene ci fanno una puntata, con la Procura che acquisisce le immagini. Una domenica mattina qualcuno taglia le gomme all'auto dell'ex vigile: proprio davanti alla caserma dei carabinieri! La cosa si ripete dopo un po', di notte. Il procuratore del tribunale di Reggio Emilia, Italo Materia, invita il cronista a sporgere denuncia: non dai carabinieri del suo paese ma direttamente da lui.

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L'imprenditore, intanto, invita il cronista a passare da casa sua: «Ho un bel tatami – mi dice Claudio Bacchi –, vieni che sistemiamo le cose da uomini». Antonio Roccuzzo nel frattempo lascia la Gazzetta di Reggio: e la Gazzetta di Reggio lascia a casa l'ex vigile, ora solo cronista. Lui si trasferisce a Bologna e, oltre a fare il tranviere, scrive per Piazza Grande. La Bacchi riceve un'interdizione dal prefetto di Reggio Emilia, per legami con la mafia: non voglio immaginare, a questo punto, chi avrebbe potuto costruire la mega centrale Turbogas di Brescello. Forse, dico forse, le stesse imprese finite nel gorgo dell'operazione Aemilia delle scorse settimane, con un imprenditore edile, Alfonso Di Letto, accusato di avere legami con la 'ndragheta e che è stato intercettato mentre “discute” di politica con un consigliere comunale di Brescello, Maurizio Dall'Aglio, il quale era stato invitato insieme ad altri consiglieri tra cui il sindaco Ermes Coffrini, a recarsi in Portogallo per visionare una centrale Turbogas già costruita dalla Ansaldo. Tutto mentre l'attuale sindaco di Brescello, un Coffrini junior figlio del Coffrini senior che mi licenziò nel 2002, definisce improvvidamente «...una brava persona...» il signor Francesco Grande Aracri, suo concittadino condannato in via definitiva per mafia. A fargli l'eco, il parroco brescellese, che in chiesa grida: «Brescello non è mafiosa». Dopo un paio di mesi gli elicotteri dei carabinieri volavano all'alba sulla parrocchia brescellese, per arrestare gli 'ndraghetisti. Nella mia storia semplice, quasi banale, la mafia non ha ucciso. E nessun brigadiere ha eliminato il suo superiore. Nessun parroco si traveste da “capo-stazione”. L'unico a rimetterci sono stato io, Donato Ungaro; ci ho rimesso il posto di vigile urbano. E di cronista, perché la Gazzetta mi ha lasciato a casa. Sono stato così semplicemente disarmato, perché togliere il lavoro a una persona è privarlo della propria dignità; che è l'unica vera arma civile di un Uomo. L'unica cosa per cui valga la pena di combattere.


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Per un’App contro le Mafie

Appello alla Società Civile, due anni dopo MafiaMaps, il progetto della prima App sulla geografia delle Mafie in Italia. Il 21 marzo parte la campagna di crowdfunding di Pierpaolo Farina e Francesco Moiraghi www.wikimafia.it

Quando abbiamo creato WikiMafia abbiamo pensato prima al sogno e poi ci siamo preoccupati di capire come trasformarlo in realtà: tant’è che la genesi è durata ben 157 giorni, con il primo nucleo di voci lanciato in occasione della presentazione a Milano, il 21 marzo 2013, alla “Meglio Gioventù” all’Università Statale. L’appello del 6 gennaio 2013 Ma una tappa fondamentale per quel primo traguardo fu l’Appello alla Società Civile che vi lanciammo due anni fa. Vi spiegavamo il nostro sogno e vi chiedevamo di aiutarci a realizzarlo: pensavamo non avrebbe risposto nessuno e invece chi in un modo, chi in un altro, avete risposto in abbastanza per permetterci di arrivare dove siamo arrivati.

Dopo WikiMafia Due anni dopo WikiMafia, con appena 150 euro e il lavoro gratuito volontario di una quindicina di ragazzi in giro per tutta Italia, è una realtà consolidata e viene anche citata tra le fonti di Wikipedia in alcune voci di mafia, oltre ad essere consultata e apprezzata soprattutto in ambienti accademici-universitari. C’è ancora tantissimo lavoro da fare e mancano ancora un sacco di voci “fondamentali”, ma siamo ottimisti sul futuro, anche grazie ai nuovi sostenitori che ci permetteranno di irrobustire il sito dal punto di vista informatico.

L’idea di MafiaMaps Lo avevamo presentato come “Mappe delle principali attività mafiose in Italia”, ma quel progetto è rimasto fermo, perché non c’erano le risorse né le forze per gestire anche un capitolo così complesso, a fronte delle troppe voci che mancavano (e che mancano) su WikiMafia.

Il progetto originario delle Mappe La prima app sul fennomeno mafioso Ma c’era anche un altro sogno che era nato con WikiMafia, figlio della stessa volontà di riorganizzare e rendere facilmente fruibili tutte le informazioni rilevanti sul fenomeno mafioso: la mappatura delle mafie sul territorio italiano. Eravamo convinti infatti che non vi fosse solo l’esigenza di riorganizzare in maniera scientifica tutta la conoscenza accumulata in oltre 30 anni sul fenomeno mafioso, ma anche di dare a questa conoscenza una proiezione geografica che aiutasse il cittadino a comprendere effettivamente l’entità della minaccia mafiosa. Perché la mancata consapevolezza del cittadino comune (prima causa del dominio mafioso) è anche figlia della mancata percezione anzitutto geografica del fenomeno nel proprio territorio.

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Così a metà dicembre ci è venuta l’idea di rendere autonome le “Mappe” da WikiMafia e trasformarle nel progetto della prima App per smartphone e tablet che riunisca tutte le informazioni rilevanti sulla geografia del fenomeno mafioso in Italia (dalla mera dislocazione geografica delle famiglie/clan/’ndrine individuate dalle inchieste della magistratura fino ai luoghi in cui sono stati uccisi quelli che le hanno contrastate e sono stati lasciati soli dallo Stato). Un progetto che si pone l’obiettivo di coltivare anche la memoria di quello che è stato e di quello che è il fenomeno mafioso in Italia, ma anche di quello che è stato ed è il movimento antimafia che lo combatte.


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L'integrazione con WikiMafia L’integrazione con WikiMafia sarà totale: cliccando su ogni “obiettivo”, si avranno subito le informazioni rilevanti direttamente dall’Enciclopedia. Ecco quindi MafiaMaps, che però, a differenza di WikiMafia, ha bisogno di molti più soldi per essere sviluppata a dovere. Perché è un lavoro immenso, che richiede un gruppo di persone che se ne occupino a tempo pieno, ma soprattutto richiede una platea vastissima di persone che decidano di finanziarlo. Per finanziare il progetto Per questo lanceremo una campagna di crowdfunding per raccogliere la cifra che ci permetterà di dare “concretezza” a questo sogno. Il tutto partirà sabato 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie, e terminerà sabato 23 maggio, nel 23° anniversario della Strage di Capaci. Persone più sagge di noi ci hanno scoraggiato dall’imbarcarci in questa nuova avventura, perché le probabilità di successo della campagna sono molto basse: non ci importa, pensiamo che uno strumento che rivoluzionerebbe il modo stesso di far conoscere il fenomeno mafioso, soprattutto alle giovani generazioni, debba essere finanziato anzitutto da chi lo userà. Perché questa volta c’è bisogno dell’aiuto di TUTTI affinché il sogno si concretizzi.

Pensate se dovesse diventare realtà: ovunque sarete in Italia, potrete sapere in tempo reale quali clan, quali reati, quanti beni confiscati, chi è stato ucciso e dove etc. grazie alla geolocalizzazione. E il tutto nel palmo della vostra mano. #mappiamolitutti Per questo torniamo a rivolgerci a voi, dopo due anni, a voi studenti, studiosi, giornalisti, professori, blogger, appassionati, associazioni, comitati, antimafiosi e cittadini di ogni ordine e grado. Scrivete questa pagina del movimento antimafia con NOI, condividete la nostra PASSIONE, realizziamo INSIEME questo sogno.

Scheda

MafiaMaps, info utili La campagna di crowdfunding partirà sabato 21 marzo 2015 e si concluderà sabato 23 maggio 2015 Trovate maggiori info sul progetto e la futura campagna su

www.wikimafia.it/mafiamaps L’indirizzo email per entrare in contatto con il Think Tank della campagna è

mafiamaps@wikimafia.it Hanno espresso volontà di sostenere il progetto, tra gli altri, Nando dalla Chiesa, Salvo Palazzolo, Enzo Ciconte, Federico Varese, Nicola Tranfaglia, Fedez e molti altri esponenti della Società Civile.

Perché aveva ragione Paolo Borsellino, quel 18 dicembre 1991, quando diceva che “lo Stato può cambiare se la società civile prende coscienza di se stessa e delle sue potenzialità. Se il cittadino non aspetta che dall’alto arrivi qualche cambiamento ma si adopera per trasformare”. Noi ci siamo stancati di aspettare che dall’alto arrivi qualche cambiamento. Vogliamo provare a produrlo questo cambiamento. Perché loro si occupano di noi tutti i giorni. È anche ora di ricambiare adeguatamente l’attenzione. Milano, 6 gennaio 2015

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L’odore dei soldi

Il metano, la mafia e la mafia dell'“antimafia” In Sicilia quando girano soldi – controllo del territorio, pizzo, appalti - di solito in qualche modo c'è Cosa nostra. La mafia ha cambiato pelle tantissime volte, ma i “piccioli” non li ha abbandonati mai. E' irresistibile, l’odore dei soldi, per Cosa Nostra di Marco Salfi www.telejato.it Un fiume di denaro con tanti affluenti e una sorgente sola: l’impero della famiglia Cavallotti è così. Milioni che i sei fratelli di Belmonte Mezzagno hanno messo insieme anno dopo anno con varie imprese in vari rami: ponti, strade, acquedotti e palazzi. E per finire il metano, un affare che nella Sicilia fine anni ‘80 sarebbe diventato a nove zeri. Ma andiamo con ordine. La Comest, l’azienda più grande del gruppo è quella che si occupa di metanizzazione. L’intuizione geniale che ha consentito a questa azienda di far fortuna è l’utilizzo della “finanza di progetto”, il project financing: tecniche di finanziamento a lungo termine in cui il ristoro del finanziamento stesso è garantito dai flussi di cassa previsti dalla attività di gestione dell'opera prevista. In sostanza, i Cavallotti costruivano materialmente gli impianti a metano per i vari comuni siciliani utilizzando capitali privati derivati da prestiti bancari.

In cambio ottenevano dalla pubblica amministrazione la distribuzione del gas, la gestione e la manutenzione trentennale degli impianti, il tutto ovviamente sotto procedure di evidenza pubblica. Un bell’affare che a detta stessa di Salvatore Cavallotti consentiva al gruppo di fatturare circa venti miliardi di lire. “Ma ci possono essere – chiederà qualcuno - infiltrazioni mafiose in un’operazione così?”. I soldi della metanizzazione Beh, se in Sicilia muovi miliardi e sei di Belmonte Mezzagno, il feudo di Benedetto Spera, fedelissimo di Bernardo Provenzano, qualcosa non torna. In effetti la mafia in questa storia c’è, eccome, ma non nei termini che voi immaginereste. Come per la stragrande maggioranza delle aziende siciliane dell’epoca il pizzo era un obbligo e i Cavallotti non si sottrassero a questa pratica. Nessuno li giustifica per averlo pagato, ma sarebbe opportuno contestualizzare il periodo e capire che se non davi una percentuale dei proventi economici di qualsiasi attività al capo mandamento in cambio della così detta “protezione”, attentati e atti intimidatori di ogni genere avrebbero fatto parte della tua quotidianità. Il gruppo Cavallotti pagò il pizzo? Per le autorità giudiziarie si tratterà d’altro. Dalla comunità europea arrivò in Sicilia una valanga di soldi, destinati proprio alla metanizzazione, un affare clamoroso sul quale cosa nostra non rimase a guardare, estromettendo proprio la famiglia Cavallotti da questo fiume di danaro. Nel 1998 tre dei fratelli Cavallotti furono arrestati e incarcerati. Saranno in seguito assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perché il fatto non sussiste" solo nel 2010 dopo un lunghissimo iter processuale.

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I pizzini di Provenzano Recentemente, durante un’audizione della commissione nazionale antimafia, riguardo all’assoluzione dei fratelli Cavallotti, il dott. De Lucia ha dichiarato testualmente che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta (in un dato modo ndr). Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Il processo, che invece ha visto l’assoluzione dei Cavallotti per questioni di natura sostanziale, nasce da alcuni pizzini inviati da Provenzano al confidente Ilardo e da diverse dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia che se interpretate in maniera coerente, come per altro è stato fatto in altri processi, dimostrerebbero come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 sarebbero state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti. La “messa a posto” L’allora ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, Angelo Siino, ha indicato i Cavallotti non come degli uomini d'onore e neppure come dei soggetti vicini alla mafia ma, come imprenditori oggetto di “messa a posto” che nel gergo mafioso significa il pagamento del pizzo e non raccomandazione, che costituirebbe quindi il fondamento per il reato di turbativa d’asta. La circostanza che Provenzano facesse riferimento nei pizzini, alla “messa a posto” si può stabilire anche dall'importo indicato nei bigliettini, che è più basso rispetto a quello per il quale i lavori furono aggiudicati. Nello specifico si tratta dei lavori per i comuni di Agira e Centuripe.


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“Provvedere alla custodia, alla conser vazione e all'amministrazione dei beni sequestrati, anche al fine di incrementarne, se possibile, la redditività”. E infatti... Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora Prefetto Profili, alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonché nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Venduto e smembrato Fin qui una storia in cui la mafia e la sua infiltrazione nella politica hanno sopraffatto e distrutto in parte un impero economico. Ciò che è rimasto del gruppo Cavallotti è stato devastato, venduto e

smembrato dagli amministratori giudiziari: comportamento avallato dal tribunale delle misure di prevenzione di Palermo. Nel 1999 la prima sezione per le misure di Prevenzione del tribunale di Palermo dispone il sequestro preventivo dell’intero patrimonio della famiglia di Belmonte Mezzagno, viene nominato così un amministratore giudiziario e cominciano i nuovi guai. In gergo legale l’onere della prova viene così invertito, spetta cioè a Cavallotti dimostrare la provenienza lecita dei beni oggetto di sequestro in un procedimento giuridico che è parallelo a quello penale ordinario e che segue regole tutte sue. L’amministratore nominato dal tribunale di Palermo per il gruppo Cavalloti è Andrea Modica de Mohac che stando al quinto comma dell’articolo 35 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione avrebbe dovuto ”rivestire la qualifica di pubblico ufficiale” e avrebbe dovuto “adempiere con diligenza ai com-

Scheda I “PIZZINI” DEL CONFIDENTE ILARDO AL COLONNELLO RICCIO Si tratta di missive dattiloscritte inviate da Provenzano ad Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste pizzini si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe (che si trovano in Provincia di Enna) sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas (che non va confusa con la Gas s.p.a. di cui erano soci Ciancimino Vito, Lapis ed Ezio Brancato - consuocero del dott. Giusto Sciacchitano - e che rispetto alle imprese dei Cavallotti operava in un regime di assoluta concorrenza). Queste missive sono del seguente tenore: 1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

piti del proprio ufficio”. Egli avrebbe avuto il compito di “provvedere alla custodia, alla conservazione e all'amministrazione dei beni sequestrati nel corso dell'intero procedimento, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi.” Per il suo patrimonio personale Nulla di tutto questo è avvenuto. In un recente servizio della trasmissione di Italia Uno “Le Iene”, realizzato anche con la collaborazione di Telejato, sono state messe in evidenza l’incapacità di questo amministratore di gestire questo gruppo e la malafede con la quale avrebbe condotto tutta una serie di operazioni finanziarie, allo scopo di arricchire il suo patrimonio personale attraverso quello delle aziende che gestiva, con la tolleranza del tribunale di Palermo. Se ne parla in un altro dei capitoli dell’inchiesta di Telejato La Mafia dell’”Antimafia”2.

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò" Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla c.d. messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perchè ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Si tratta, in particolare, di “inutilizzabilità patologica” che deve essere apprezzata, secondo la giurisprudenza costante delle Sezioni Unite della Cassazione, anche nel processo di prevenzione.

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1 "Finanza di progetto - Wikipedia" : <http://it.wikipedia.org/wiki/Finanza_di_progetto> 2 "La Mafia dell'”Antimafia”: l'inchiesta di Telejato, audita il.9 febbraio 2015: www.telejato.it/home/mafia2/la-mafia-dellantimafia-linchiesta-di-telejato -audita-inparlamento/>

Il lavoro dell'amministratore Ma qual è lavoro di un amministratore giudiziario? E' importantissima, nella fase del sequestro preventivo, la necessità di mantenere i livelli di efficienza e nel caso delle aziende dei profitti e dei livelli occupazionali. Ciò proprio per la natura temporanea del sequestro: sia che si vada a confisca definitiva (dimostrata quindi la colpevolezza dei soggetti oggetto di misura di prevenzione), sia che si vada alla restituzione del bene al legittimo proprietario, le sue condizioni devono rimanere inalterate, poiché sono soldi e beni o del legittimo proprietario o della collettività. Il percorso penale ordinario dei Cavallotti si è conclso nel 2010 con la sentenza d’assoluzione di cui si faceva menzione prima, tuttavia poiché il giudizio penale ordinario per il nostro ordinamento è cosa assestante rispetto al processo legato all’applicazione delle misure di prevenzione le aziene ad oggi sono ancora sotto sequestro. I presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione sono gli stessi che nel giudizio penale sono stati poi ribaltati come elementi di persecuzione, insomma siamo davanti ad una difforme interpretazione dei pizzini che hanno dato il via a questa brutta vicenda.

“Una vicenda - come molte altre sotto gli occhi di tutti e che come al solito nessuno vuole guardare da vicino...” Le sentenze passate in giudicato possono venire ignorate? In questo caso lo sono state per consentire le operazioni finanziarie di Modica che con aziende a lui riconducibili avrebbe percepito indebitamente cifre considerevoli per aver rilevato debiti già prescritti dalla Comest. Il dottor Vincenzo Paturzo, curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare. Al contrario di quanto sostenuto da Modica, la Comest aveva tutte le risorse economiche necessarie per affrontare il lavoro d’impresa e non era come affermato, in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo, si parla di un’azienda sconvolta da una vicenda giudiziaria importante ma non così malata; tuttavia al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria, la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale. Un’operazione che nei bilanci non darà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro.

Scheda UN “PATTO DI LEGALITA'” I lavori furono eseguiti dalla Gas s.p.a. con i finanziamenti pubblici. Una interessante operazione per la quale è opportuno citare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "Si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato-Lapis" (allegato 8 - trascrizione dell’interrogatorio reso da Ciancimino Massimo il 06//07/2008). In data 08/05/2009 presso il gruppo della Guardia di Finanza di Bologna, innanzi ai magistrati Vincenzo D'Agata, Fabio Scavone e Antonino Fanara, Massimo Ciancimino dichiarava poi:

I debiti prescritti Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti né esigibili) nel 2009 questi sono stati ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro. Il mutismo delle istituzioni, del tribunale e di Modica, incalzato dalle domane del collega Andrea Viviani, è eloquente se si considera che basta un sospetto di incogruenza patrimoniale per far partire un sequestro preventivo come quello che ha coinvolto la famiglia Cavalloti. La mafia dell’”antimafia” insommac'è, e questo dei fratelli Cavallotti ne è un esempio. E restano ancora da esaminare le sorti delle aziende dei figli dei Cavallotti e degli intrecci con Italgas. Telejato, che ha seguito dall'inizio tutta questa vicenda, chiede di essere audita in Commissione nazionale antimafia per raccontare questa e altre vicende che sono sotto gli occhi di tutti e che come al solito nessuno vuole guardare da vicino.

"Il Prefetto di Palermo Profili, in seguito ad una indagine giudiziaria, revocò le concessioni che erano state assegnata ad una impresa riconducibile alla famiglia Cavallotti di Palermo, che si sospettava vicina al clan mafioso dei Madonia. Si decise, in sostituzione, che tali concessioni avrebbero dovuto essere assegnate di ufficio alla società del gas Brancato- Lapis, ove mio padre aveva interesse, e di tale fatto se ne occupò proprio il dott. Sciacchitano oltre che l'ing. Brancato. In effetti avvenne che le concessioni furono assegnate alla nostra "società""(allegato 9 verbale di interrogatorio di Ciancimino Massimo 08/05/2009). L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia il 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso all'inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas Spa spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Secondo quanto dichiarato da Massimo Ciancimino tale accordo non raggiunse gli obiettivi di legalità cui tendeva..

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Polemiche (fra amici)

“Il giocattolo dell'antimafia”

Tanti modi di fare “antimafia:” alcuni onesti, altri no. Ma anche fra gli onesti si litiga, qualche volta... di Salvo Vitale

Recentemente il pittore Gaetano Porcasi ha dipinto un quadro con questo titolo, dove si raffigura un palcoscenico con una tenda aperta da una mano, al cui polso sta un vistoso cronometro: sul palco entra un cavallo bianco con due rotelle a pedali, dietro il cavallo ci sono alcuni scheletri, un libro a terra, quattro fari in alto e uno in basso a illuminare il palco e, in bella evidenza una telecamera e un microfono; sullo sfondo il pubblico. Difficile illustrare tutti i simbolismi dell’opera, anche perché Porcasi, nelle sue raffigurazioni, si serve spesso di riferimenti simbolici non sempre di facile lettura o in linea con i

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Quadro di Gaetano Porcasi

normali parametri di coerenza logica. E d’altronde l’irrazionalismo è stato sempre uno dei moventi che alimentano alcuni aspetti della creatività artistica. L'antimafia Comincerei dal titolo: personalmente non ritengo che l’antimafia sia un giocattolo, né che con essa si possa giocare.L’antimafia è una cosa seria, fatta di lotte durissime, bagnata del sangue di centinaia di uomini barbaramente uccisi per avere creduto nella possibilità di avere una Sicilia, un’Italia, un mondo migliore.


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“Con l’antimafia non si gioca, non si possono fare affari in suo nome, non si può mettere in vetrina una vittima di mafia per conseguire profitti o non si possono nutrire fini segreti per costruire carriere politiche, per sciacquarsi la bocca, per confermare equilibri sociali sedimentati nel tempo, al punto da sembrare immutabili” Sulla via scoscesa dell’antimafia c’è una fila di morti, come ben sa Porcasi, perché con lui abbiamo realizzato un libro che è una sorta di storia illustrata della mafia. Dietro di essi, malgrado i tentativi di diluire l’antimafia in una sorta di “brodo” comune trans-ideologico, c’è in gran parte il colore rosso, come il sangue delle vittime e come il colore delle idee nelle quali esse hanno creduto. E pertanto con l’antimafia non si gioca, non si possono fare affari in suo nome, non si può mettere in vetrina una vittima di mafia per conseguire profitti o non si possono nutrire fini segreti per costruire carriere politiche, per sciacquarsi la bocca, per confermare equilibri sociali sedimentati nel tempo, al punto da sembrare immutabili. L’Antimafia è lotta contro l’immobilità, contro la conservazione, contro il privilegio, contro la divisione in classi della società, contro l’iniqua distribuzione della ricchezza, contro l’illegalità strisciante, contro il mostruoso circuito del pizzo, della corruzione, della tangente, dell’estorsione, del ricatto, del clientelismo, della violenza, del mancato rispetto per la vita oltre che per la dignità alla quale ha diritto ogni uomo. Si sostiene da qualche parte che l’antimafia sia nata con la mafia, come forma di lotta contro di essa, con forti movimenti sociali di rivolta e di ribellione contro le prepotenze, con martiri spacciati per delinquenti e delinquenti ai posti di governo. Di fatto tutti coloro che hanno cercato di far carriera attraverso le idee di rivolta, ma anche quelli che le hanno seguito o inseguito con la nobile bandiera dell’illusione, sono stati quasi sempre fagocitati dalla violenza del potere. Quando Falcone e Borsellino mostrarono che si poteva fare antimafia facendo bene il proprio lavoro di magistrati, ma a condizione che anche altri settori della società si dessero qualche elementare regola

d’onestà, di colpo spuntò una serie di persone, sino ad allora sommerse, che cominciarono a fare “professione d’antimafia”. Sciascia fu il primo a sollevare la questione e a rilevare che per alcuni l’Antimafia era lo strumento e la via più facile per far carriera. (Corriere della Sera 10 gennaio 1987). "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2). I “professionisti” Tra costoro secondo lui c’era Leoluca Orlando, ma anche Paolo Borsellino. Si ricordi che a quella data Sergio Mattarella, oggi presidente della Repubblica, era commissario della Dc in Sicilia e lo fu sino al 1988, quindi, anche lui con Orlando, è da considerare uno degli artefici di quella “primavera siciliana” che sembrò davvero far credere che il mondo potesse cambiare di colpo. Sciascia, per dirla in siciliano, la “scasciò”, cioè individuò come bersaglio da affondare alcuni settori dell’antimafia senza preoccuparsi di distinguere quanto, tra di essa era dovuta a una normale affermazione delle proprie qualità e dei risultati del proprio lavoro, come nel caso di Borsellino, quanto potesse essere frutto di una autentica volontà politica di rinnovamento, come nel caso di Orlando, e quanto solo ricerca di visibilità o strumento per far carriera. Borsellino non replicò e continuò a professare la sua ammirazione per Sciascia come scrittore, ma l’amarezza che provò sarà stata certamente profonda se, un mese dopo la morte di Falcone, il 26 giugno 1992, ebbe a dire: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988,

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quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul Corriere bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" La caccia Da allora è diventato di moda andare alla caccia di professionisti dell’antimafia, affibbiare questa etichetta a chiunque professi l’antimafia, a chi mette a rischio la propria persona, pur di operare per creare una svolta, per tracciare solchi ben definiti tra l’onestà e il malaffare. E’ la vendetta mafiosa, l’arma di resistenza e di offesa con cui la mafia tenta di demolire chi può rappresentare per lei un ostacolo, un pericolo, un potenziale o reale nemico, specie quando tenta di convincere gli altri, creando aggregazioni politiche, usando mezzi di diffusione delle idee, facendo ricorso, se ne ha il potere, alla repressione, attraverso l’operato delle forze dell’ordine e della magistratura, oppure realizzando progetti di educazione alla legalità, soluzioni artistiche, leggi e quant’altro serva a costruire alternative non violente o forme d’economia non fondate sullo sfruttamento. A volere avventurarsi in una ipotesi psicanalitica, si potrebbe pensare che la “mafiosità” introiettata attraverso la trasmissione ereditaria di modelli di comportamento, idee, luoghi comuni, modi di pensare, di giudicare, di condannare, si esplicita anche attraverso queste forme di condanna, all’apparenza giustificate, ma comunque determinate e manifestate dall’originario e incancellabile “sentire mafioso”. Ma questa è una cattiveria nella quale non è opportuno avventurarsi, altrimenti dovremmo spianare la strada a quelli che affermano che “siamo tutti mafiosi” o che, come dice Alfio Caruso, “i siciliani non possono non dirsi mafiosi”.


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“Non bisogna considerare nemici gli amici che dissentono” La guerra

Il quadro

E andiamo ai termini del contendere: a Partinico si è scatenata una guerra senza esclusione di colpi tra il “pittore antimafia” Gaetano Porcasi, che, da qualche anno ha rinunciato a questa autodefinizione e si è ridefinito “pittore d’impegno sociale”, e Pino Maniaci, portavoce di Telejato, autodefinitasi anch’essa “TV antimafia” . Due modi di fare antimafia su binari diversi, uno attraverso l’arte, l’altro attraverso il giornalismo e l’informazione mediatica. Entrambi da tempo conducono anche una battaglia contro alcuni aspetti del mondo dell’Antimafia, parlando di “mafia dell’Antimafia”. Porcasi sostiene che le associazioni antimafia, a partire da Libera e Addio Pizzo, vanno al di là dei loro obiettivi di emancipazione sociale, realizzando redditizie attività commerciali o usando i vari canali del potere per ottenere contributi spesso spesi senza conseguimento di risultati. Maniaci sostiene che è l’Antimafia professata da alcuni settori della magistratura, soprattutto nell’applicazione delle misure di prevenzione, ad avere creato una sorta di circuito perverso dove lucrano figure poco oneste e incapaci di amministrare i beni confiscati e magistrati spessocomplici di queste situazioni. Accomuna entrambi l’accusa che si fanno reciprocamente di utilizzare l’etichetta dell’antimafia, il primo per vendere quadri, il secondo per fare audience. Fino a poco tempo fa Porcasi ha realizzato diverse tele su Maniaci e sul lavoro di Telejato, che sinora hanno fatto bella mostra presso gli studi della piccola emittente. A inasprire gli animi è stata la barbara esecuzione dei due cani di Pino Maniaci, trovati strangolati col fil di ferro, chiaro avvertimento mafioso. E tuttavia alcuni settori di Partinico, bersaglio degli strali di Maniaci, per vendicarsi ed estrinsecare la loro ostilità hanno messo in giro

Ma torniamo per qualche minuto al quadro: mi pare indovinata la metafora del cavallo di Troia, ridotto a giocattolo, di cui alcuni si servono per penetrare nella cittadella della legalità, cioè nel circuito delle istituzioni. Si potrebbe pensare ai tanti commercianti, anche a esponenti della Confindustria siciliana, che professano l’antimafia e si iscrivono a Libero Futuro o ad Addio Pizzo, pur non avendo del tutto rescisso i legami con il circuito mafioso che costituisce il brodo di cultura dei loro affari. Ma si può pensare a politici che fanno professione d’antimafia. Gli scheletri alle spalle sono il chiaro retaggio di complicità che si cerca di occultare. Si potrebbe anche pensare che il palcoscenico dell’antimafia, servendosi del servizio complice delle telecamere e dei giornalisti asserviti al potere, tenta di dare una immagine positiva di sé e del suo operato. Forse questa sarebbe la maschera pirandelliana. Volendo si potrebbe anche dire, dalla presenza del libro, che anche gli intellettuali spesso si associano a questa antimafia da facciata. Sul cronometro non saprei che dire: forse che il tempo passa ma tutto resta uguale. Per contro l’articolo in questione finisce col distruggere il significato generale del quadro, e lo legge come un momento di ripicca di una vicenda personale. Porcasi, non ha comunque sinora smentito l’interpretazione del giornalista né le maldicenze attribuitegli su Maniaci canicida.

la voce che era stato lo stesso Maniaci ad assassinare i suoi due cani per farsi pubblicità e aumentare la sua audience. Non è la prima volta che questo accade: la macchina del fango ha coinvolto spesso Maniaci in una serie di altre maldicenze, secondo tutti i canoni praticati dalle società mafiose: isolare le persone scomode, togliere loro credibilità, additarle al pubblico ludibrio e, in ultima soluzione, eliminarle. Porcasi sembra avere prestato il fianco a queste maldicenze, attraverso alcune dichiarazioni avventate e qualche insinuazione comparsa sul suo profilo facebook. Lui sostiene di avere solo parlato di “maschere pirandelliane”. Una volta in possesso di inoppugnabili prove, Maniaci si è scatenato, replicando alle maldicenze e accusando un giornalista locale e Porcasi di vergognose insinuazioni, degne dei peggiori mafiosi. Successivamente è comparso un articolo del solito giornalista (che una volta lavorava a Telejato) sul Giornale di Sicilia: in esso si sostiene che la telecamera e i microfoni raffigurati nel quadro sono un chiaro riferimento a chi, attraverso l’antimafia cerca di ridare una verginità al suo discusso passato, cioè a Maniaci. Immediata la risposta di Maniaci che, già scottato, ha accusato il giornalista di svendere la sua dignità per i pochi soldi con cui gli viene pagato un articolo e Porcasi di essere un imbrattatele, di non sapere esprimersi in taliano, di avere svenduto la sua nomea di “pittore antimafia”, di usare la pittura antimafia per vendere i suoi quadri.

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Il vero nemico dell'antimafia E siamo alle solite: il vero nemico dell’Antimafia non è da ricercare all’esterno, nel mafioso, ma all’interno, nella pretesa di essere depositari della verità e considerare nemici gli amici che, per qualche ragione, dissentono.


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Inter venti

Lo Stato indulgente “Cresce l'illegalità: adeguare la normativa per contrastarla, o diminuirne, o eliminarne, la punibilità?” di Agostino Cordova In attuazione della legge 28\4\2014 n. 67 è in corso di emanazione il decreto legislativo che introduce l’art. 131 bis C.p., secondo cui verrebbe esclusa la punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore a 5 anni o quella pecuniaria solo o congiunta alla prima, ove il fatto sia di particolare tenuità: ciò qualora sia compatibile con le modalità della condotta (ad esempio, non con l’intensità del dolo), il danno sia esiguo, e l’autore del reato non ne abbia commesso altri, anche se di specie diversa. Lo scopo di tale riforma sarebbe quello di sgravare il lavoro dei magistrati, in modo che possano dedicarsi al trattamento degli altri reati più gravi. Ma, se ex art. 21 della Costituzione lo scrivente può manifestare liberamente il proprio pensiero, c’è da chiedersi: in che misura tale sgravio avverrebbe, dovendosi comunque nei casi in esame accertare prima la sussistenza in sé del reato e poi gli

elementi di non punibilità, e ciò in ogni stato e grado del giudizio? E non esiste una contraddizione per il fatto che non viene eliminato il reato, ma la sua punibilità, tant’è vero che è ammissibile il risarcimento del danno in sede civile? Quindi, se il fatto non è punibile, anziché far conseguire l’insussistenza del reato la riforma condurrebbe contraddittoriamente ad un reato non punibile, analogamente a quello commesso da un infermo di mente? Non è quindi, in concreto, una sorta d’indulto generalizzato e perpetuo? “Reati non punibili” Ed è inoltre significativo che, se i fatti costituirebbero reati non punibili per la tenuità dell’offesa, quest’aspetto non integrerebbe per i reati contro il patrimonio o per motivi di lucro proprio l’attenuante della speciale tenuità di cui all’art. 62 n. 4 C.p.. che ora, unitamente alle modalità non ostative ed all’assenza di precedenti, verrebbe trasformata in causa di non punibilità? A parte tutto ciò. potrebbe non condividersi tale innovazione in quanto, nel contesto di un progressivo dilagare dell’illegalità, anziché adeguare gli organici della magistratura alle esigenze di giustizia, realizzare nuovi istituti penitenziari per ovviare al sovraffollamento delle carceri, ed aumentare le pene per i reati più frequenti o più gravi, si riducono tali esigenze per sopperire all’insufficienza degli or-

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ganici e delle carceri, il che comporterebbe una sempre maggiore decadenza della legalità. Il provvedimento in esame si aggiunge quindi alle periodiche emanazioni di amnistie ed indulti, alla riduzione delle pene per il rito abbreviato ed il patteggiamento, nonché, da ultimo, persino per il voto di scambio politico-mafioso (pena ridotta da 7-12 anni a 4-10 anni), pur essendo stato riscoperto solo nel Dicembre 2013, cioè dopo oltre 20 anni dall’introduzione dell’art. 416 ter C.p., che la mafia assicura voti non solo in cambio di denaro, ma anche di qualsiasi altra utilità. E va aggiunto che la legge 2014\67 prevede addirittura la detenzione domiciliare per tutti i reati puniti con l’arresto, o, fino a 3 anni, con la reclusione., nonché la depenalizzazione di una serie di reati puniti con la sola pena pecuniaria. Inoltre, si sta programmando la depenalizzazione di alcuni reati tributari. “O forse si tratta di poesia?” Quindi, laddove in uno Stato definito di Diritto dovrebbe essere assicurata la legalità adeguando la normativa per contrastare più efficacemente il sempre crescente dilagare dell’illegalità, avviene invece una eliminazione o diminuendone della punibilità: dove andremo a finire? E che incidenza avranno tali riforme sul crescente fenomeno dell’astensionismo da parte degli elettori delusi? Oppure forse chi scrive vaneggia nella Poesia del Diritto?


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Antimafia

Cento passi ancora

Il nuovo libro di Salvo Vitale di Marco Tullio Giordana Mi sono recato a Cinisi per la prima volta nell’inverno del 1999 insieme a Fabrizio Mosca, il produttore de I Cento passi, al tempo ancora in gestazione. Era stato lui a propormi la bella sceneggiatura di Claudio Fava e Monica Zapelli, insieme decidemmo di fare un primo sopralluogo per vedere i luoghi e soprattutto conoscere i famigliari e gli amici di Peppino Impastato. In cuor mio non avevo ancora deciso di fare il film, molti erano i dubbi che mi tormentavano. Non tanto per la figura esemplare e affascinante di Peppino quanto per tutto il resto che avrei dovuto mettergli intorno: la Sicilia e i siciliani, le case, i paesaggi, le parole, i silenzi. Sapevo troppo poco della Sicilia, giusto quello letto sui libri o visto al cinema. Ogni volta che c’ero stato avevo avuto sensazioni molto forti, come davanti a una personalità molto forte, ma erano state visite troppo brevi per trasformarsi in vera cognizione. Temevo quindi di cadere nei luoghi comuni, negli stereotipi coi quali l’isola viene spesso rappresentata. Ero un estraneo, uno straniero che non sa la lingua e deve farsi ripetere le frasi per cominciare a masticarle. Non avrei voluto deludere il mio giovane produttore, così entusiasta e coraggioso, ma nell’intimo meditavo di rinunciare. Aspettavo il momento buono per dirglielo. Poi accadde qualcosa che mi fece cambiare idea. Felicia Impastato parlava svelta, di fretta, come a liberarsi subito dei convenevoli. Gli occhiali ingrandivano i suoi occhi attenti, curiosi, non ostili ma nemmeno ingenui. Si capiva che con lei bisognava essere diretti, dire pane al pane. Nessuno poteva prevedere gli sviluppi successivi, né immaginare che le nostre vite si sarebbero intrecciate in modo così decisivo, in quel momento non eravamo che gli ennesimi visitatori e chissà quante volte l’aveva già raccontata la storia di Peppino.

Eppure appena Felicia cominciò a parlare non ci potemmo più scollare. Nessuna autocommiserazione nelle sue parole, mai una lamentela, una lacrima. Non inveiva, non recriminava. Esponeva i fatti con la semplicità e l’evidenza del testimone e al tempo stesso dello storico che ne sa tutta la portata, tutte le implicazioni. Perfino il modo di dire, la “recitazione” (dovete scusarmi ma il regista è sempre al lavoro, vede tutto attraverso l’occhio della macchina da presa), non utilizzava alcun artificio retorico. Nessun pathos indotto dalle dinamiche del volume o del ritmo, da pause o accelerazioni. Non parole per colpire un pubblico, non conferenza o comizio ma confessione privata, riepilogo per non perdere la memoria. E davvero senza quella memoria, conservata prima di tutti da Felicia, poi da Giovanni e via via da tutti i compagni di Peppino, oggi non ci sarebbero di lui che tracce sbiadite. Mi fecero molta impressione quelle parole e soprattutto il tono. Mi diedero una chiave per avvicinarmi al film. Mi fu chiaro che se l’avessi fatto avrei dovuto adottare quello stesso punto di vista, “interno” e distaccato al tempo stesso. Parlare di quei fatti senza sollecitare la mozione degli affetti, senza gonfiare il petto e ricattare l’interlocutore giocando sulla compassione. Al contrario avrei dovuto essere il più asciutto possibile, allineare gli elementi e mostrarli così com’ erano. Gli spettatori ci avrebbero poi aggiunto i propri sentimenti, il proprio giudizio, ben sapendo che ciò che può fare un film è costruire il mythos, la leggenda, il romanzo attraverso cui far vivere le verità occultate (o distorte fino a renderle irriconoscibili), non certo sostituirsi alla legge o alla comunità delle persone che in tutti quegli anni aveva tenuto acceso il fuoco. Il libro di Salvo Vitale parla proprio di loro, delle ragazze e dei ragazzi che all’indomani dell’omicidio si attivarono perché venisse identificato come tale e non rimanesse impunito. Un lavoro quotidiano, accurato, microscopico, per raccogliere dati, prove, testimonianze che smentissero l’idea assurda del suicidio che inseguivano gli investigatori. O dell’incidente sul lavoro dell’attentatore maldestro, come dissero dopo che la pista del suicidio divenne impraticabile. Tutti questi amici di Peppino, anzi i suoi compagni, quelli che avevano condiviso con lui l’esperienza delle lotte politiche, del circolo Musica e Cultura, di Radio Aut o anche soltanto un’amicizia senza tessera, hanno dovuto battersi per molto tempo contro i depistaggi e la malafede delle prime indagini prima di incontrare giudici e investigatori per bene.

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“Questa silenziosa battaglia” Senza l’incontro di tutte queste forze, senza il contributo di queste persone, la verità non sarebbe mai venuta in luce. Sarebbe rimasta nascosta fra i sassi della ferrovia, nelle ficaie d’India che limitano i campi, nei muri a secco, nell’omertà degli assassini che non ebbero nemmeno il coraggio di firmare, come vuole la tradizione mafiosa del castigo esemplare. Ma come firmare una condanna a morte motivata solo dal ridicolo che Peppino aveva riversato su di loro dai microfoni della radio? Come ammettere di esserne stati umiliati? Salvo Vitale rievoca questa silenziosa sotterranea battaglia iniziata nel momento stesso in cui Peppino è stato assassinato, ne rievoca le stagioni, gli alti e bassi, i momenti in cui i mafiosi sembravano averla vinta, le speranze accese da un giudice volonteroso. Anche nei momenti più disperati, quando sembra davvero che sia il male a prevalere – si sente sempre una forza d’animo, una volontà che s’impone anche a distanza di tanto tempo. Non fu solo l’amore per Peppino, il rimpianto e lo sdegno per la sua fine atroce. Fu soprattutto un atto di ribellione al sopruso e speranza nella giustizia. Fu rifiuto di considerare immutabili le cose e fiducia al contrario che prima o poi la verità viene a galla e diventa patrimonio comune, cultura, condivisione. Sono passati molti anni da quell’autunno del 1999 in cui ho girato I Cento Passi e conosciuto Salvo e molte delle persone di cui parla il suo libro. Inevitabilmente la vita di un regista viene scandita dai suoi film, ognuno porta con sé un tempo lungo di lavorazione, di incontri, di persone che per un periodo ti sono indispensabili come l’aria che respiri. Poi tutto svanisce, cancellato o assorbito dal progetto successivo. La stagione de I Cento Passi invece per me non è mai finita. Dura ancora, la sua energia non si è spenta. Spesso mi invitano nelle scuole a parlare del film, tuttora mi giungono corrispondenze dai luoghi più lontani, gente che lo ha visto in tv o in DVD o su Youtube e vuole saperne di più. Voglio dire che negli anni quest’avventura si è trasformata in qualcosa che non riguarda più solo la professione, ma invade il campo dell’amicizia e degli affetti più profondi. Mi fa un grande piacere ritrovare questi amici nelle pagine di Salvo, oltre ovviamente a ritrovare lui. Appartengono a un periodo molto bello della mia vita, ricordano figure che mi scaldano il cuore. E’ bello vedere che nessuno di loro ha dimenticato, nessuno si è tirato indietro. Serve sapere che c’è gente così.


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Stragi

Un uomo dei Servizi in via D'Amelio? Un ispettore: “Una persona in abiti civili accanto alla macchina del giudice subito dopo l'attentato” di Lorenzo Baldo www.antimafiaduemila.com Si torna a parlare del mistero della presenza degli apparati di intelligence sul luogo della strage di via D’Amelio. A richiamare alla memoria gli interrogativi su quelle strane ombre è l’ispettore di polizia Giuseppe Garofalo. Al quarto processo per la strage di via D’Amelio, davanti ai pm Gabriele Paci e Stefano Luciani, Garofalo ribadisce sostanzialmente quanto già dichiarato nel 2005. I dubbi, però, restano intatti. Che ci faceva un esponente dei Servizi nell’immediatezza dello scoppio dell’autobomba? E perché sarebbe stato interessato alla borsa del giudice Borsellino dalla quale poi è stata sottratta la sua preziosa agenda rossa? Si tratta di un collega dell’uomo dei Servizi, di cui parla Spatuzza, presente nel garage dove si imbottiva di esplosivo la Fiat 126 destinata all’eccidio? “Ricordo – aveva raccontato dieci anni fa Garofalo – di avere notato (in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, ndr) una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto (del giudice Borsellino, ndr). A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice.

Il video con la borsa e il capitano Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi. Sul soggetto posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori. Ritengo che se mi venisse mostrata una sua immagine potrei anche ricordarmi del soggetto”. In quella occasione i funzionari della Dia di Caltanissetta avevano sottoposto all'attenzione dell'ispettore Garofalo il video che riprendeva l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli mentre si allontanava da via D’Amelio reggendo la borsa del giudice assassinato. Dopo averlo visionato, però, l'ispettore aveva escluso che si trattasse della stessa persona in quanto l'abbigliamento del personaggio appartenente ai Servizi era completamente diverso dallo stile casual di Arcangioli. Al Borsellino Quater è stata mostrata un’immagine dello stesso Arcangioli, e la risposta dell’ispettore è stata pressoché la stessa. “E' lui, anzi no, anzi sì...” C’è però un piccolo particolare da chiarire. Il 16 novembre 2005 davanti agli inquirenti Garofalo aveva ravvisato “forti somiglianze tra l'Adinolfi (Giovanni Adinolfi, all’epoca tenente colonnello del Ros di Palermo, ndr) e il soggetto qualificatosi in forza ai Servizi ed interessatosi della borsa”, poi però il 20 gennaio 2006, visionando nuovamente insieme agli investigatori le immagini dell'attentato lo stesso Garofalo “non riconosceva nessuno (neanche l'Adinolfi) ravvisando somiglianze con un soggetto (non meglio identificato) non corrispondente alla figura dell'Adinolfi”. Questo specifico passaggio non è stato affrontato in aula.

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Certo è che lo stesso Adinolfi aveva a suo tempo ribadito quanto già riferito all'autorità giudiziaria di Caltanissetta nell'aprile del 2006 in merito alla sua presenza in via D'Amelio il 19 luglio 1992 ma “seppur riconoscendosi nel soggetto con giacca e occhiali scuri più volte ripreso vicino al col. Arcangioli”. La valigetta di Borsellino Successivamente gli inquirenti avevano riportato che nelle sue ulteriori deposizioni lo stesso Adinolfi “nulla aggiungeva (rispetto alle precedenti dichiarazioni) con riferimento a qualsivoglia circostanza attinente la presenza della borsa appartenuta in vita al Dr. Borsellino”. Le dichiarazioni di Garofalo e Adinolfi si intersecano inevitabilmente con il mistero della relazione di servizio sul ritrovamento della valigetta del giudice Borsellino. Senza alcuna ragione “logica” quel rapporto viene redatto dall'ispettore di Polizia Francesco Maggi solamente il 21 dicembre 1992, per poi essere consegnato al magistrato titolare delle indagini, Fausto Cardella, otto giorni dopo. Per cinque mesi non esiste quindi alcun atto di polizia giudiziaria inerente il ritrovamento della borsa del giudice. Ma questa è un’altra storia.


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Barcellona P.G.

“Qui comandava la masso-mafia” Al processo sulla mafia barcellonese i legami con la massoneria. A capo di una loggia, l'ex senatore Nania di Miriam Cuccu www.antimafiaduemila.com E’ l’ex senatore Pdl Domenico Nania ad essere stato capo di una loggia massonica a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). A dirlo il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico al “Gotha 3”, il processo contro la mafia barcellonese già concluso in primo grado con diverse condanne ai boss. D’Amico, nel corso della sua deposizione, ha descritto i rapporti tra mafia e massoneria e in questo discorso è emerso il nome di Nania, che avrebbe guidato una loggia attiva sia in Sicilia che in Calabria. Il suo nome non era mai rientrato nelle indagini sulla mafia di Barcellona Pozzo di Gotto. Almeno fino a questo momento: nei giorni scorsi, infatti, sono stati depositati i verbali del pentito, interrogato dai pm di Messina Angelo Vittorio Cavallo e Vito Di Giorgio. Il nome di Nania c’è, anche se coperto da omissis. E ci sono quelli dei suoi contatti. Come Rosario Pio Cattafi, avvocato considerato testa di ponte tra Cosa nostra, massoneria e servizi segreti, già condannato in primo grado a 12 anni nel “Gotha Tre”. “Questa persona - racconta D’Amico mi è stata presentata da Pippo Gullotti (boss che ordinò l’omicidio del giornalista Beppe Alfano, ndr) all’incirca negli anni ’92-’93 come ‘uomo d’onore’.

Innanzi a Cattafi stesso disse ‘è un amico nostro’” intendendo dire, precisa il pentito, “organico di quella stessa organizzazione”. In seguito D’Amico, allora capo della mafia militare barcellonese, chiese spiegazioni in merito: “Mi dissero espressamente che era ‘un uomo d’onore’ e che faceva parte della ‘famiglia’ dei barcellonesi”. Nania, Gullotti e Cattafi (già nel 2000 destinatario di misure di prevenzione antimafia per i suoi legami con boss del calibro di Rampulla e Santapaola) erano risultati iscritti alla loggia massonica Corda Fratres, insieme a nomi insospettabili come l’ex pg della Corte d’Appello di Messina Franco Cassata, principale animatore della loggia di cui è stato pure il presidente. Cattafi, Gullotti e il boss Di Salvo D’Amico ricorda di aver saputo già prima chi fosse Cattafi, per esserne stato messo a parte da Gullotti e il boss Sam Di Salvo, condannato per essere uno dei capi della mafia a Barcellona Pozzo di Gotto. “Sempre in questa medesima circostanza racconta ancora D’Amico nei verbali, parlando dell’occasione in cui ha conosciuto l’avvocato - Di Salvo mi disse che Cattafi apparteneva, insieme al Nania ad una loggia massonica occulta, di grandi dimensioni, che abbracciava le regioni della Sicilia e della Calabria. Sempre Di Salvo mi disse che Saro Cattafi insieme al Nania erano fra i massimi responsabili di quella loggia massonica occulta”. Di Salvo, però, specificò al pentito che Nania non si configurava come “un soggetto organico alla ‘famiglia’ barcellonese”, quanto piuttosto un “conoscente del Gullotti” nonché “amico stretto di Marchetta”. Maurizio Marchetta, ex vice presidente del Consiglio comunale di Barcellona Pozzo di Gotto, imprenditore colluso poi trasformatosi in testimone antiracket.

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“La seconda Corleone” Marchetta aveva dichiarato di essere stato destinatario di richieste estorsive da parte di D’Amico e Carmelo Bisognano, salvo poi essere clamorosamente smentito dai due mafiosi che hanno iniziato a collaborare con la giustizia. “Affermazioni gravissime”, secondo Sonia Alfano, quelle pronunciate in aula da D’Amico e che “confermano ancora una volta che Barcellona non è un semplice paesone di provincia”. Barcellona Pozzo di Gotto, conosciuta anche come “la seconda Corleone”, è stata teatro di diversi delitti mafiosi rimasti ancora avvolti in un alone di mistero. Come l’omicidio del giornalista Beppe Alfano, sulla cui morte proprio D’Amico ha gettato una nuova luce scagionando il killer Antonio Merlino perché in realtà, ad uccidere Alfano sarebbe stata un’altra persona. I suoi racconti stanno aprendo inediti squarci su una cinquantina di omicidi e sulla storia della mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola, che avrebbe trascorso l'ultima fase della sua latitanza proprio a Barcellona. Sempre al comune del messinese viene ricondotta, poi, la morte di Attilio Manca, urologo barcellonese trovato cadavere in circostanze misteriose nella sua casa di Viterbo. Dietro al suo decesso potrebbe nascondersi l’ombra del boss Bernardo Provenzano, che da latitante avrebbe subito un’operazione alla prostata proprio da Manca. “La mafia barcellonese è silente – aveva detto la madre di Attilio, Angela – Barcellona ha ancora molta paura, soprattutto della mafia dei colletti bianchi”. E Cattafi e Nania vi sarebbero pienamente inseriti: “Cattafi era uno di Cosa Nostra, Nania era uno della massoneria - ha commentato Sonia Alfano - sembra quasi un rapporto Stato mafia ante litteram”.Ora le nuove rivelazioni di D’Amico potrebbero far tremare molti ambienti di potere.


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Mediterraneo

Senza lager, senza paura Scicli, avamposto della nuova accoglienza di Giuseppe Cugnata e Giulio Pitroso www.generazionezero.org Arriviamo a Scicli che è già buio. Da fuori, il centro, gestito dalla comunità metodista cittadina, si presenta come un bell'edificio, colorato e con larghe vetrate. Se fossimo passati da qui poche settimane prima, però, avremmo visto le saracinesche all'ingresso imbrattate da scritte inneggianti alla chiusura dello stabile. A fine ottobre, infatti, a pochi giorni dall'inaugurazione, la struttura è stata presa di mira da un attacco di matrice neofascista, all'ombra del quale si celano i risentimenti di una sparuta fetta della popolazione sciclitana, avversa all'idea di un centro d'accoglienza nel cuore della città. Ad accoglierci, nell'ampio ingresso, è Giovannella Scifo, responsabile del progetto. Chiediamo dell'intimidazione fascista, “Alcune persone non hanno mai amato l'idea di un centro d'accoglienza nel cuore di Scicli -racconta Giovannella- e così a novembre sono comparse le scritte sulle serrande fuori dal centro. Di fatto, comunque, abbiamo vissuto meglio del previsto questa cosa, perché la dimostrazione di solidarietà da parte della cittadinanza è stata piuttosto forte”. “Dietro al nostro centro – continua non ci sono soldi pubblici. Noi non siamo uno SPRAR, è la Chiesa valdese e metodista che ci sostiene.” - Com'è nato il progetto? “L'ha proposto la Federazione delle Chiese evangeliche d'Italia, che raccoglie larga parte delle confessioni evangeliche italiane: si tratta a tutti gli effetti di un piano nazionale. Poi la Chiesa valdese e metodista, che fa parte della Federazione, ha deciso di finanziare il progetto con l'otto per mille.

“Speranza Mediterranea” Siccome la Chiesa valdese e metodista non investe per la propria cura religiosa, i ricavi dell'otto per mille vengono interamente destinati alle opere sociali sia in Italia che all'estero. Il progetto presentato dalla Federazione si chiama “Mediterranean Hope” ed è diviso in due azioni: una è un osservatorio sulla migrazione a Lampedusa, e l'altra è questa Casa delle Culture di Scicli.” - In cosa consista l'attività del centro? “Credo che l'integrazione non possa passare solamente attraverso l'accoglienza residenziale ecco perché abbiamo deciso di curare anche l'aspetto culturale. Vogliamo sperimentare uno stile di accoglienza che sia diverso, attraverso la fusione del centro d'accoglienza con il centro culturale. In questo senso potremmo definirci avanguardisti. La nostra attività consiste innanzitutto nel fornire alle persone che vengono al centro un 'luogo sicuro' proprio perché il target a cui ci riferiamo sono i minori, le donne incinte, le famiglie: le persone più vulnerabili, insomma. In secondo luogo cerchiamo di integrare nel più breve tempo possibile le persone che stanno al centro, sia attraverso il corso di italiano, sia con le convenzioni stabilite con le scuole di Scicli. In genere, facciamo anche dei colloqui con i ragazzi, per capire quali sono i bisogni e le aspettative di chi abbiamo di fronte. Tutti i ragazzi che stanno qua hanno un progetto di vita e noi dobbiamo trovare il modo di realizzarlo. C'è chi vuole fare il rapper, chi vuole giocare al pallone e diventare il nuovo Pelè e chi semplicemente vuole andare a Roma per studiare. Sono progetti legittimi e che vanno spronati: se a Roma c'è un centro minori, magari non proprio a Tor Sapienza – qui un sorriso ironico - noi non possiamo far altro che aiutare il ragazzo a trasferirsi.” - Quante persone sono ospitate qui? “Potremmo accoglierne fino a trenta, ma attualmente qui abitano diciotto persone: quattordici minori, tre adulti e una bambina di appena quindici giorni.

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I ragazzi che vivono qua sono quelli classificati “particolarmente vulnerabili”, ecco perché non vengono lasciati al centro di Pozzallo, dove manca perfino l'acqua calda e le condizioni sono al limite dell'umano. Questi ragazzi hanno una storia particolarmente dura alle spalle: i siriani, ad esempio, se vengono lasciati da soli possono diventare violentissimi, proprio per l'esperienza che hanno subito. Al centro c'è soltanto un ragazzino siriano, il più piccolo. A volte col cellulare ci fa vedere le foto della sua casa in Siria, con la piscina e la villa, e ora ha perso tutto. I suoi genitori, per salvarlo, lo hanno fatto imbarcare a forza, mentre loro sono rimasti là. Due dei tre adulti, poi, marito e moglie, sono nigeriani e sono partiti con la speranza di poter ritrovare il figlio che era stato fatto partire poco tempo prima e che ora si trova in affidamento in una famiglia a Floridia, in provincia di Siracusa. A Floridia, però, non c'è un centro d'accoglienza, quindi fino a quando, la commissione territoriale non darà loro un permesso scritto, non potranno lasciare Scicli e ricongiungersi col figlio.” - Siete voi a curare gli aspetti giuridici e burocratici degli ospiti del centro? “Sì, per forza, ma purtroppo non c'è una definizione esatta del nostro modello di centro, anche perché non esiste una legge specifica neanche sugli Sprar, visto che i requisiti sono vari e vaghi. Nella stessa guida ministeriale non c'è nulla di specifico, l'unica cosa che è specifica è che la cucina deve essere a norma di HACCP, che è l'unica norma chiara. Dopodiché ci sono i metri quadrati, ci sono altri parametri, ma sono molto limitati. Noi ci atteniamo alla legge regionale che disciplina i centri ricettivi, gli alberghi e la case di riposo, però non c'è una legge specifica sui centri d'accoglienza, per questo poi si verificano casi gravi come il Cara di Mineo o il centro di Pozzallo”.


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Mediterraneo

Mare di guerra, mare di dolore Inter vista ad Alfonso Di Stefano, della Rete antirazzista catanese e del Comitato NoMuos di Giovanni Caruso www.associazionegapa.org Gli emigranti che fuggono alle guerre e alla fame si riversano nelle coste del Nord Africa spinti dall’Isis e molte volte trovano la morte nel Mediterraneo. Credono di trovare la libertà, il lavoro e una nuova casa e invece spesso la realtà è quella del razzismo occidentale, di un’ inadeguata accoglienza e nessuna integrazione. La Sicilia è stata definita “la portaerei del Mediterraneo” per via delle molte basi americane e italiane da dove partono gli aeri portatori di morte in Africa e in Medio Oriente. fra esse le più attive ed importanti sono Sigonella e il MUOS, installato nella sughereta di Niscemi.

- Le dichiarazioni delle istituzioni sono sempre le stesse. Di chi sono le vere responsabilità? “I governi sono i principali responsabili di quest'ennesima strage. Tutti piangono lacrime di coccodrillo, fra chi propone di tornare all'operazione Mare Nostrum e chi delira di blindare ulteriormente la Fortezza Europa. Chi ci ha governato in questi anni ha voluto blindare le nostre frontiere e territori, trasformando porzioni della Sicilia in lager dove tenere segregate a tempo indeterminato migliaia di persone, come accade nel mega Cara di Mineo, a Caltanissetta-Pian del Lago, Trapani, o facendo proliferare centri informali d'accoglienza in palestre,scuole, tendopoli in tutta l'isola. Il Mediterraneo, che storicamente è stato luogo d'incontro e condivisione di popoli e culture, è ormai diventato un immenso cimitero marino. Decine di migliaia di vite sparite nel nulla che gridano rispetto dei loro diritti negati, verità e giustizia. Con quale dignità i rappresentanti istituzionali parlano di politiche migratorie, quando dalla strage del 3 ottobre 2013 a

Lampedusa nulla si è fatto per modificare le vergognose legislazioni liberticide che tante vittime innocenti hanno causato ed hanno ingrassato le mafie? Sono le politiche governative ed europee le principali responsabili: se si fosse riconosciuta la protezione umanitaria di un anno a tutti e tutte coloro che fuggono dalle guerre (com'è avvenuto per irakeni ed afghani), in poche settimane migliaia di richiedenti asilo avrebbero potuto ricongiungersi ai propri familiari in altri paesi europei. In base all'ottusa applicazione della convenzione di Dublino, i richiedenti asilo, una volta iniziata la procedura in Italia, devono attendere oltre un anno per vedere esaminata la propria richiesta, con “no” sempre più frequenti ed arbitrari. Nell'estate 2013 molte associazioni antirazziste e reti di movimento, dopo il naufragio del 10 agosto e la morte di sei migranti nella Plaia di Catania, lanciarono la campagna nazionale per il diritto d'asilo europeo, per iniziare la procedura nel luogo di sbarco e concluderla nel paese europeo prescelto; se il diritto d'asilo europeo e i canali umanitari fossero stati riconosci uti, tante tragedie sarebbero state evitate”. - Ci sembra giusto chiedere un parere a chi da tanti anni lavora sugli emigranti e sui loro diritti e la verità su come viene trattato il fenomeno. Per esempio sulle dichiarazioni del ministro degli esteri che parlava di entrare in guerra nel territorio libico. “Il sonno della ragione genera mostri: si vuole cercare una soluzione “politica”, ma nessuno fa un bilancio autocritico della sciagurata guerra alla Libia nel marzo 2013. Allora l'80% degli attacchi aerei decollò da Trapani-Birgi e Sigonella. Dopo quattro anni la Libia è saccheggiata dalle multinazionali del petrolio (Eni in testa) e da bande locali armate per interessi tribali. Un intervento “umanitario” dell'Occidente (Nato, Onu , Ue o Usa) aggiungerebbe disastri ai disastri precedenti”. - Che ne sarà dei migranti che passano dalla Libia incalzati dallo "stato islamico"?

I Sicilianigiovani – pag. 27

“Consideriamo di una gravità inaudita le notizie che circolano su presunti terroristi dell'Isis infiltrati nei barconi della morte. Invece di accogliere chi fugge dalle guerre, vittima delle ingiustizie planetarie, si continua a non distinguere le vittime dai carnefici. I diritti umani dei migranti, a partire dal diritto d'asilo europeo, verranno sempre più calpestati . Le guerre di civiltà o religione nascondono spesso l'interesse a rapinare le risorse energetiche dei paesi “aiutati”. Le bande terroriste dell'Isis (sostenute da petromonarchie del Golfo, Turchia, e all'inizio dagli Usa) sono state fermate a Kobane in Siria soprattutto dall'eroica resistenza del popolo kurdo. E' vergognoso che la principale organizzazione kurda, il Pkk, che ha contribuito alla sconfitta dell'Isis, sia ancora nella lista nera delle organizzazioni terroriste di Usa ed Ue [www.uikionlus.com]” - Questo farà crescere la paura degli italiani? La useranno i razzisti? “Grazie alle amplificazioni allarmiste di troppi media le forze xenofobe faranno le loro fortune elettorali, temiamo anche nel meridione. In tempi di crisi economica il razzismo dei penultimi potrebbe facilmente attecchire scatendo guerre fratricide fra lavoratori e precari, autoctoni e migranti. Il percorso del movimento antirazzista s'interseca con il movimento antimilitarista che in Sicilia si è espresso con il movimento NoMuos denuncio la campagna allarmista di cosiddetti “esperti”, che all'indomani della pubblicazione della sentenza del TAR del 13/2, hanno affermatoa che la mancata entrata in funzione del MUOS indebolirebbe la sicurezza nazionale(?). Mentono sapendo di mentire: perchè il Muos non è ancora in funzione, è “ad esclusivo uso della marina USA” e la sua presenza diventerebbe così obiettivo di probabili ritorsioni. http://siciliamigranti.blogspot.it/2014/08/appello-perunaccoglienza-degna-dei.html http://www.nomuos.info/


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Europa

Il muro di Calais Siamo al confine tra Francia e Inghilterra, sulle rive del Canale. Duemilaquattrocento esseri umani in fuga sono in attesa di raggiungere l'ultima meta della loro odissea di Marino FIccco “Ma è sicuro che siamo arrivati a destinazione?” si preoccupa un ragazzo sull’autobus che collega Parigi a Londra vedendomi scendere a Calais. Sono l’unico a scendere in quella che è ormai nota come la città da cui i migranti tentano di raggiungere l’Inghilterra. Siamo a nord est, non lontano dal confine col Belgio. Dover e le sue bianche scogliere distano solo 33 km. Quando il cielo è terso le si possono scorgere perfino dalla spiaggia di Calais. Guardando il mare vengono in mente le scene del commovente film Welcome. Oggi secondo la prefettura sono presenti in zona oltre 2400 migranti. Sono uomini e donne, bimbe e bimbi, sudanesi, eritrei, siriani, afghani, iracheni. Hanno storie terribili alle spalle e molti di loro vogliono raggiungere l’Inghilterra, dove sperano di trovare un lavoro e di rifarsi una vita. Visitarli è come entrare in un campo profughi. Vivono in condizioni disumane in squats e jungles. Gli squats sono vecchie case, capannoni o infrastrutture abbandonati e trasformati in alloggio precario, mentre viene chiamata jungle quella che potremmo assimilare a una tendopoli.

La zona a più alta densità di migranti si trova presso la fabbrica chimica della Tioxite. I suoi terreni sono avvelenati, le acque inquinate e l’aria a tratti irrespirabile. Nonostante ciò centinaia di esseri umani continuano a viverci e a lavarsi con queste acque biancastre. I più ricchi o coloro che sono appena arrivati passano la notte in hotel. Il costo di una notte per una famiglia di tre persone si aggira intorno ai 110 euro. Ahmed, 24 anni, siriano, ingegnere informatico, racconta che un posto in camerata può costare 15 euro a notte. Di giorno e di notte provano a nascondersi sotto i camion o nei container per entrare nei ferry diretti verso l’Inghilterra e raggiungere l’Eldorado. Altri provano a passare con documenti falsi ma è troppo rischioso, perché se scoperti si è espulsi dall’Europa. Quelli che se lo possono permettere pagano un passeur, che, se “onesto”, trova un passaggio per l’Inghilterra su un’auto o un camion di un complice. Il sistema è mafioso. In fuga dall'Isis Sofia, professoressa di matematica e madre di due gemelli e di una bimba di sei anni lo sa bene. Costretta a fuggire dall’Iraq dopo essere stata minacciata dall’Isis perché cristiana, ha pagato 48 mila euro per un visto per la Polonia. Da lì è arrivata a Calais e ora vuole raggiungere l’Inghilterra per cominciare una nuova vita. La prima volta che ha contattato un passeur è stata ingannata e ha pagato 8 mila euro per niente. Inshallah il marito la raggiungerà presto. I controlli al porto e nelle stazioni di sosta per i camion sono serratissimi, presidiati dalle forze di polizia, dai vigilanti privati e dalla criminalità. Dal 2003 con gli accordi di Touquet, le frontiere inglesi si trovano in territorio francese, nella zona portuale di Calais.

I Sicilianigiovani – pag. 28

“Ogni individuo ha diritto...” Questo settembre i due ministri dell’interno, Cazeneuve e May, hanno firmato un accordo che prevede un versamento nelle casse francesi di 5 milioni all’anno per tre anni, per finanziare il consolidamento delle frontiere. In pratica il Regno Unito paga la Francia per fare il lavoro sporco a casa sua. Articolo 13 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.” Ma perché rischiare la vita e spendere i risparmi di una vita quando si potrebbe depositare la domanda d’asilo in Francia o in un altro paese europeo? Questi uomini e queste donne hanno fretta di voltare pagina e di cominciare una nuova vita. Cominciare le pratiche per richiedere il permesso di soggiorno in Francia può chiedere anche qualche anno; in Inghilterra, invece, qualche settimana. Maria, 28 anni, etiope, è esperta di marketing e vive a Sheffield, dove ha ottenuto i documenti in tre settimane. Il fidanzato, Elias, 28 anni, farmacista, sta provando a raggiungerla da mesi. Inoltre per molti di loro la sola lingua europea nota è l’inglese e vogliono studiare nelle prestigiose università britanniche. Le storie che custodiscono nei loro cuori sono terribili: i siriani scappano dalla guerra, gli afghani sono stanchi dell’instabilità del loro paese dilaniato dalla violenza, gli eritrei fuggono da una dittatura che impone il servizio militare fino ai 55 anni per uomini e donne. Un giorno vengo fermato da un gruppo di afghani che parlano perfettamente l’italiano. Vengono da Modena e Piacenza. Hanno tutti il permesso di soggiorno ma non trovano lavoro. Preferiscono rischiare la vita, raggiungere l’Inghilterra e viverci da clandestini ma lavorando piuttosto che avere i documenti e restare inattivi.


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“Libertà, eguaglianza e... boh”

Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, articolo 14: “Ogni individuo ha il diritto di cercare in altri paesi asilo dalle persecuzioni”

Gli eroi del nostro tempo In confronto alle loro vicende l’Odissea non è niente. Sono questi uomini e queste donne gli eroi del nostro tempo. Ma non sono mitici, sono reali. Ci sono persone generosissime, che offrono ad ogni occasione il nulla che possiedono. Visitando lo squat della Tioxite, ovunque ci viene offerto tè e caffè. Ci fermiamo al ristorante etiope, dove ci viene servito del superbo doro wat a base di salsa e pollo su deliziose ‘njera. James, sudanese, 35 anni, mi dice che vuole raggiungere Dover a nuoto. Gli spiego che è impossibile. Provo a convincerlo dicendogli che perfino nel film Welcome il protagonista non riesce a raggiungere l’Inghilterra a nuoto. Ma niente: dal giorno dopo il nostro incontro non lo vedo più e risulta non raggiungibile. Forse i fondali della Manica custodiscono un’altra vittima dell’egoismo europeo. Un giorno visitiamo la jungle delle dune, una spiaggia dove molti migranti hanno installato tende e cucina da campo. Non incontriamo nessuno perché ci dicono che la notte prima ci sono stati molti scontri tra sudanesi ed etiopi. In compenso uscendo incontriamo cinque poliziotti in assetto antisommossa che ci bloccano. Da un lato cinque ragazzi con la pettorina della Caritas che portano pesanti taniche di caffè, dall’altra cinque poliziotti armati fino ai denti. Senza alcuna motivazione ci tengono fermi in piedi. Un modo per ricordarci chi ha il potere. La polizia antisommossa è ovunque.

Molti sono violenti con i migranti e numerosissime sono le denunce che raccoglie settimanalmente Médecins du monde. Ma talvolta sono proprio questi poliziotti a difendere i migranti dalle aggressioni dei calesiani. La tensione è palpabile in città: per le strade e nei ristoranti si sentono discorsi razzisti di cittadini stufi di quella che considerano un’invasione. Una mattina accompagniamo i volontari della Caritas a portare un caffè, un sorriso e una parola di conforto a dei siriani accampati sotto un palazzo nella zona del porto. Al nostro arrivo una vecchietta comincia a insultarci dalla finestra. Il giorno dopo qualcuno rompe i vetri posteriori di uno dei furgoni della Caritas. “Mai vista tanta ostilità” Ogni giorno i volontari e i migranti vengono insultati o guardati di malocchio. L’ambiente è davvero ostile. Joel, volontario impegnato ad aiutare i migranti a Calais da oltre venti anni è molto preoccupato perché non aveva mai visto tanta ostilità nei confronti dei migranti. Nel pomeriggio, alle 16 o alle 17, Salam o l’Auberge des migrants si occupano di fornir loro un pasto caldo. Oltre 1000 persone si accodano già dalle 15 per cercare di prendere un pasto. Qui e negli squats i giornalisti prendono d’assalto questi disperati per racimolare storie da pubblicare. Il riferimento per conoscere quello che accade realmente a Calais e dintorni resta il blog di Philippe Wanesson.

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Il resto del tempo il Secours Catholique è in prima linea. Offre assistenza legale e un locale riscaldato. Pochi mesi fa il comune di Calais ha sfrattato la Caritas dalla sua sede. Fortunatamente si è riusciti a riutilizzare una vecchia macelleria e adesso oltre cento migranti vengono quotidianamente in questi locali per riscaldarsi, ricaricare i cellulari e riposare. Nonostante il gran numero di migranti e richiedenti asilo che necessitano assistenza, sono solo tre gli impiegati della Caritas. Per il resto, l’aiuto è possibile grazie alla generosità di decine di volontari, che dedicano davvero tutto il loro tempo libero all’aiuto dei migranti. La scena più commovente è quella della distribuzione del pasto alle 16 o alle 17. Un serpentone di oltre mille esseri umani, il volto scavato dalla fatica e dal freddo. Di primo acchito si potrebbe pensare a scene da campo di prigionia, ma bastano un sorriso e una stretta di mano per restituire l’umanità ad una comunità che rischia di perderla. Forse fra poco sarà attivo in periferia un centro d’accoglienza diurno. Forse risolverà qualche problema, ma sicuramente non la questione dell’alloggio. E permetterà di decentralizzare i migranti… così finalmente la Calais bene non sarà più costretta a guardare in faccia la realtà e ad avere problemi con la coscienza. Siamo a Calais, in Francia, terra di Libertà, Uguaglianza e Fraternità.


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Campania

De Luca: il nuovo che avanza Prima le primarie e dopo... l'avventura

di Arnaldo Capezzuto ladomenicasettimanale.it

Sarà il ras di Salerno (quattro mandati), ora sindaco decaduto (Legge Severino “demenziale”) e condannato in primo grado Vincenzo De Luca per il centrosinistra a contendere lo scettro di presidente della Regione Campania all’uscente Stefano Caldoro nelle prossime elezioni. Si torna indietro col tempo. E’ il remake di cinque anni fa quando lo stesso De Luca perse la corsa alla poltrona di governatore e contraddicendo il suo impegno solenne di condurre un’opposizione dura in consiglio regionale si dimise due giorni dopo la proclamazione. Caos, rinvii, guerre, dimissioni, accuse... Dopo giorni di caos, rinvii, guerre tra candidati, ritiri, dimissioni, accuse, selfie con i cosentiniani doc, le primarie del Pd, a urne chiuse, sanciscono un amaro verdetto: un dinosauro della politica gareggerà contro l’uscente governatore che tranquillamente potrebbe essere rappresentato vignettisticamente senza volto.

ha denunciato lo scrittore Roberto Saviano – e personali reticoli di potere hanno negato con forza il pur timido tentativo di rinnovamento della politica del centrosinistra in Campania. Il pantano non è una novità Il pantano maleodorante non è una novità. Una crisi della politica che altrove, dalla Liguria all’Emilia, non casualmente con il “libero” voto di partito e coalizione del centrosinistra è sprofondato nel caos. E’ una profezia che si autoadempie. Lo stato di salute del partito democratico e in generale del centrosinistra, senza le suggestioni pirotecniche renziane, è davvero poca cosa.

Una vecchia stagione politica

Le scosse sussultorie e ondulatorie delle consultazioni nei gazebo allestiti più o meno in modo creativo in tutta la Campania ci svelano ciò che già sapevamo: i soliti capibastone – questo

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Tornando alla Campania, Andrea Cozzolino e Vincenzo De Luca, i duellanti rimasti in lizza dopo il ritiro di altri due candidati, rappresentano una vecchia, decrepita stagione politica anche se il sindaco decaduto di Salerno strategicamente ricorda che la sua non è una candidatura di partito ma del territorio. Sarà quel che sarà. In realtà sono rimasti in campo gente che resta a galla solo grazie alle solide rendite di posizione e per i fedelissimi a loro legati. Nessuna libera scelta da parte della comunità degli elettori e simpatizzanti del Pd e centrosinistra ha trionfato. Altro che selezione della nuova classe dirigente, da queste parti non hanno saputo né fare né trovare di meglio. A Napoli, la Leopolda si è chiamata Fonderia. Nelle intenzioni doveva dare sostanza alla politica, riempirla e far emergere nuovi politici: il nome emerso è stato quello di Pina Picierno, vabbè ci siamo capiti. E di fronte a questo deserto, proprio in quella sede, il popolo piddino, si è spellato le mani quando a prendere la parola sono stati Antonio Bassolino e lo stesso Vincenzo De Luca. Politici forse dell’era glaciale ma di altra sostanza e caratura. Poco da dire. De Luca ha dato un preciso segnale politico rivolgendosi direttamente ai vertici del Pd: “Sono il principale elettore in Campania e l’azionista di riferimento di Renzi. Io mi sono mosso nell’ambito delle regole dello statuto del partito”. Chi faceva finta di non capire ora deve per forza capire nel centrosinistra: il rinnovamento della politica dev’essere autentico altrimenti crescerà il partito degli astensionisti e l’avventurismo.


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Sicilia

A proposito di antimafia e antimafiosi Trapani. “Chi si rice?”. “Un si rice nente...”. Perché “a megghio parola è chidda chi nun si rice”... di Rino Giacalone www.alquamah.it A Trapani ad un anno dalla scomparsa è stato ricordato il prefetto Fulvio Sodano. Nella Chiesa di Santa Maria di Gesù c’erano oltre mille persone. Se l’evento fosse stato organizzato da altri era certamente da catalogare tra i “grandi eventi”… ma tutto si è svolto senza dare eco nel silenzio più assoluto anche da parte di quei soggetti che vanno in giro a battersi il petto e cercano il fango in casa d’altri… Arrivi a Trapani e ti accolgono due cartelli: “Benvenuti a Trapani città della vela e del sale”; l’altro non è scritto però te lo fanno capire che esiste: “Benvenuti a Trapani, ma non parlate al guidatore e state accorti”. Anzi - magari vi spiegano meglio - non parlate affatto se voleste chiedergli di cambiare direzione di marcia; e se proprio volete parlare, parlate nella lingua del guidatore, rispettando i suoi desideri, e ripetete: “Vossia assabinirica, voscienza mi cumannassi...”. A Trapani, quando due trapanesi s'incontrano, il loro saluto si sostanzia così: “Chi si rice?”. Risposta: “Un si rice nente...”. Perché “a megghio parola è chidda chi nun si rice”. Che c’entra con l’antimafia e gli antimafiosi? C’entra tanto, credeteci. A Trapani siamo passati dalla mafia che non esiste alla mafia sconfitta, così come dissero in coro, anche se in momenti diversi, alcuni sindaci.

Gli applausi a Sciascia A Trapani hanno applaudito quando Sciascia scrisse dei “professionisti dell’antimafia” (che, non dimentichiamolo, era una bordata contro un certo magistrato che si chiamava Paolo Borsellino) e qualche anno dopo è stato scritto, ancora una volta da un sindaco, che l’antimafia è peggio della mafia. Scritto mentre magistrati, giudici e forze dell’ordine andavano scoprendo gli altarini e le casseforti dei mafiosi e mentre un prefetto, coraggioso perchè faceva il proprio dovere (“sventurata la società che ha bisogno di eroi” scriveva Bertolt Brecht), sgomberava i mafiosi e le loro famiglie dai beni confiscati da decenni. Diceva il questore Gualtieri... Una situazione che un questore, non uno qualsiasi, ma quel Giuseppe Gualtieri che da capo della Mobile di Palermo snidò il super latitante dell’epoca Bernardo Provenzano, così commentò: «Diciamo intanto che chi diceva che la mafia non esisteva probabilmente aveva magari un suo tornaconto politico e poi di conseguenza economico; oggi la categoria di chi dice che la mafia è sconfitta è molto più eterogenea, c’è chi lo dice con orgoglio e con grande buonafede, e c’è chi invece chi lo dice perchè magari gli conviene spostare l’attenzione sul problema mafia e magari dirottarla verso alcuni altri reati e problematiche sociali, con ovviamente il conseguente abbassamento della guardia nei confronti della lotta alla mafia, ottenendo anche maggior libertà. Io direi, e sono ottimista, i molti sono in buona fede, i pochi magari perchè attrezzati e molto più “professionisti” nel sostenere questa tesi, sono in malafede».

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Sono trascorsi anni ma crediamo che se dovessimo risentire il questore Gualtieri non cambierebbe una virgola a queste sue dichiarazioni. Siamo convinti che anche l’attuale questore la pensi in questa maniera. Glielo chiederemo presto. Dall'Ottocento a Messina Denaro... Benvenuti a Trapani. La città dove Cosa nostra e massoneria continuano ad animare le stanze del potere segreto, che però è pubblicamente riconosciuto. È una storia antica. Il prefetto Ulloa scriveva già il 3 agosto 1838: “La venalità e la sommissione ai potenti ha lordato le toghe di uomini posti nei più alti uffici della magistratura. Non vi ha impiegato che non sia prostrato al cenno ed al capriccio di un prepotente e che non abbia pensato al tempo stesso a trae profitto dal suo Uffizio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei”. *** Sembra di leggere della Trapani di oggi dove la mafia è sommersa, bene infiltrata, qui comanda la mafia borghese, senza bisogno di coppole e lupare, una mafia che ha fatto diventare legale il proprio sistema illegale. Qui a Trapani continua a regnare quel crocevia misterioso dove, mafia affari politica massoneria servizi segreti, ha regolato la vita non di una città, di una provincia, di una regione, ma la vita dello Stato. Siamo a Trapani, dove solo adesso i familiari di Messina Denaro stanno subendo il sequestro dei beni, ma riescono a far sposare i loro figli dentro la Cappella Palatina a Palermo.


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Trapani

Giornalisti sotto tiro A destra: Giacomo DI Girolamo e Rino Giacalone.

Minacce e polvere da sparo alla redazione di Tp24. Già sotto processo per aver parlato male di un sindaco... di Redazione Tp24 www.tp24.it "Dite a Di Pisa che ne abbiamo tanta" Una busta, anonima, piena di polvere da sparo e con dentro un'altra busta, chiusa, e un messaggio di minaccia. E’ arrivata alla nostra redazione, indirizzata al direttore Giacomo Di Girolamo. La polvere da sparo non era solo per noi. All'interno, infatti, un messaggio rivolto al Procuratore della Repubblica di Marsala Alberto Di Pisa e agli agenti della Guardia di Finanza che fanno parte della sezione di polizia giudiziaria. Anche la busta più piccola conteneva, presumibilmente, della polvere da sparo. La lettera con il messaggio, scritto con un normografo dall’anonimo, contiene minacce a quelli che l'anonimo definisce “i caini dei finanzieri della Procura”. Poi un' eloquente e inquietante conclusione: “Ne abbiamo tanta! Boom!!!”. La lettera arrivata alla redazione di Tp24.it è stata portata agli uffici di polizia giudiziaria presso la procura che l’hanno posta sotto sequestro. Il materiale sequestrato verrà adesso analizzato, ed è partita un inchiesta. Il procuratore Alberto Di Pisa ha infatti denunciato il fatto alla Procura di Caltanissetta e si è detto sereno. “E’ evidente che l’autore non mi conosce affatto. Infatti queste minacce non mi fanno alcun effetto" ha detto Di Pisa. “Sono tantissime le indagini che stiamo seguendo - ha continuato il procuratore non saprei da dove possano arrivare queste minacce. In quarant’anni di carriera non avevo mai ricevuto le minacce che ho ricevuto a Marsala".

“Noi respiriamo libertà” Qualche anno fa al procuratore e alla sezione pg della Guardia di Finanza erano state inviate per posta dei proiettili. “Sono sereno. Ringrazio coloro che in queste ore hanno mostrato affetto, attenzione o semplicemente hanno alzato un sopracciglio, corrucciato un po' la fronte. Ho ancora molte cose da raccontare e da scrivere, su Marsala, Trapani, la Sicilia, le vecchie e nuove mafie e tutto il resto. Lo dico per la prossima occasione: possono risparmiare i francobolli e il tempo e la polvere stessa, che a respirarla fa male. Noi, qui, malmessi - è vero - malconci, anche, noi, qui, tenaci, respiriamo ad occhi aperti e schiena dritta libertà”, è il commento del direttore Giacomo Di Girolamo alla lettera minatoria. Sono arrivati tanti messaggi di solidarietà da amici, colleghi, lettori, esponenti politici. Ha detto la sua anche Ossigeno per l’informazione, l'osservatorio sulla libertà di stampa in Italia, che già in passato si è occupato più volte di noi, soprattutto quan do l'ex Sindaco di Marsala, Giulia Adamo, intentò una causa per risarcimento danni a Di Girolamo, sostenendo che la sua (e nostra) attività giornalistica danneggia l'immagine della città. Il processo è in corso. Tanti messaggi di solidarietà Il commissario straordinario del Comune di Marsala Giovanni Bologna ha inviato una nota di solidarietà al procuratore e agli agenti della Guardia di Finanza. Il i sindaco di Petrosino, Gaspare Giacalone: "Proprio stamattina - ha dichiarato avevo espresso la mia solidarietà al giornalista Rino Giacalone, sotto processo per avere usato parole forti nei confronti di un boss della mafia. Apprendo adesso, invece, che un altro giornalista di valore come Giacomo Di Girolamo ha ricevuto una busta con minacce e polvere da sparo indirizzata anche al Procuratore della Repubblica. Non basta più la solidarietà a questo punto, dobbiamo alzare la testa e garantire loro la libertà di raccontare la mafia. A noi il dovere di combatterla!".

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Di Girolamo e Giacalone L’Associazione Antimafie e Antiracket Paolo Borsellino presieduta dal preside in pensione Francesco Fiordaliso "manifesta la propria piena e viva solidarietà ai giornalisti Rino Giacalone, sotto processo per avere apostrofato in un suo articolo come pezzo di m... il boss mafioso Mariano Agate, e Giacomo Di Girolamo, che ha ricevuto per posta una busta anonima contenente della polvere da sparo e la scritta “Boom”, nonché al Procuratore della Repubblica di Marsala, destinatario di un messaggio intimidatorio. Il clima che si respira in provincia di Trapani si va facendo ogni giorno più pesante a dimostrazione delle crescenti difficoltà di Matteo Messina Denaro e soci, che si sentono sempre più isolati dal contesto ambientale per la diffusone di una coscienza civile e per l’azione pregevole delle forze dell’ordine e della magistratura". Il presidente dell'Irsap Sicilia, Alfonso Cicero, esprime solidarietà e vicinanza. “La lettera contenente minacce e polvere da sparo recapitata ad un giornalista impegnato come Di Girolamo – afferma Cicero – mi induce a manifestare sincera vicinanza a chi come lui narra, con coraggio, fatti di mafia e altresì a solidarizzare con le istituzioni che combattono la mafia, come la Procura di Marsala e la Guardia di finanza, destinatarie del vile avvertimento”.


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Piemonte

Il labirinto del Minotauro Continua il procedimento giudiziario contro le centrali della 'ndrangheta subalpina di Andrea Contratto e Sara Levrini www.filidicanapa.wordpress.com “Il processo va rinviato ad un'altra sezione d’appello”: la richiesta del procuratore generale della seconda sezione penale di Cassazione il 15 Gennaio aveva gelato gli animi di quei piemontesi che da anni si battono contro la ’ndrangheta. Ma la richiesta non è stata accolta, il processo è continuato e in questi giorni il sostituto procuratore generale di Torino, Antonio Malagnino, ha chiesto pesanti condanne (609 anni di carcere in totale) per i 63 imputati Il processo Minotauro, pur con tutte le sue difficoltà, ha inflitto un duro colpo alle 'ndrine piemontesi. Condanna di spicco è quella inflitta al boss Bruno Iaria, condannato a 13 anni, che era la testa e le braccia dell’organizzazione 'ndranghetista nella provincia di Torino. Nella sentenza però c’erano già stati all’epoca molti sconti e ribaltamenti rispetto al primo grado, che avevano destato non poco stupore.

Per la richiesta il procuratore generale si è appellato ad una sentenza di diversi mesi fa - sempre della Cassazione e sempre relativa a imputati del processo Minotauro - che rinviava ad un nuovo processo d’appello Francesco D’Onofrio e Francesco Tamburi. Processo da rifare, secondo quei giudici, perché non sarebbe stata provata l’appartenenza dei due ad un contesto organizzato nel loro caso riferito all’esistenza del “Crimine”, una struttura superiore alle 'ndrine locali che serviva da coordinamento delle stesse. Peripezie processuali Se da una parte il processo per rito abbreviato ha attraversato queste peripezìe, dall'altra nelle aule del Palagiustizia di Torino intitolato a Bruno Caccia si sono regolarmente susseguite le udienze di appello del processo Minotauro con rito ordinario. In primo grado c'erano state 34 assoluzioni e 35 condanne, fra cui quella (dieci anni di carcere) inflitta a Nevio Coral, ex sindaco di Leinì. L’appello si è aperto con l’ammissione da parte dei giudici all'audizione di Nicodemo Ciccia, sodale alla locale di Cuorgnè con la dote di Vangelo, che da circa un anno si è pentito e collabora con la procura di Torino. Ciccia non è il primo pentito che compare nel processo Minotauro; va ricordato che l’operazione nacque dalle dichiarazioni di Rocco Varacalli e durante il processo di primo grado si aggiunsero Rocco Marando con le sue dichiarazioni sulle locali di Volpiano e Costantino Francesco.

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Le dichiarazioni rilasciate dal pentito durante le sei udienze in cui è stato ascoltato sono state in primo luogo un racconto della vita e dell’ingresso nell’organizzazione mafiosa. Dopo gli inizi con lo spaccio di droga la carriera di Ciccia ha subito una svolta con l'affiliazione in carcere e l’incontro con Bruno Iaria, il quale l'ha promosso nella società maggiore una volta terminato il periodo di carcerazione di Ciccia. Ai vertici dellorganizzazione Un percorso che l’ha portato ai vertici dell’organizzazione grazie alla fiducia che Iaria stesso poneva nel compare e che ha permesso ai pubblici ministeri di carpire importanti informazioni sulla struttura della ’ndrangheta in Piemonte e soprattutto, durante un’udienza di una giornata intera, ha portato all’identificazione dei vari personaggi intranei alla ’ndrangheta piemontese. Centinaia di foto sono state passate in rassegna e il pentito è stato in grado di identificarle quasi tutte commentando e dichiarando dove aveva conosciuto o visto il soggetto ritratto e quale ruolo avesse nell’organizzazione.


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La 'ndrangheta a Reggio

Operazione Aemilia Una nuova rotta delle 'ndrine: da Catanzaro a Reggio Emilia di Michela Mancini www.liberainformazione.org L'operazione "Aemilia" condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna non ha fatto luce solamente sui legami tra imprenditori, politici e criminalità organizzata calabrese. La macabra risata di due indagati dopo il sisma che colpì l'Emilia nel 2012 è un capitolo fra tanti. Nelle oltre 1200 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Alberto Giroldi emergono i rapporti tra l'informazione e la 'ndrangheta. Giornalisti che fanno gli interessi dell'organizzazione mafiosa e giornalisti che non si fanno zittire dalle intimidazioni. A Reggio Emilia, nell'inchiesta ritenuta l'epicentro della consorteria criminale, c'è chi offre il proprio microfono a quelli che sono ritenuti membri della cosca Grandi Aracri e c'è chi decide di non essere al servizio di nessuno. Due facce della stessa medaglia, di una sola città e di un solo lavoro. Fra le 117 persone raggiunte da misure cautelari spunta il nome di Marco Gibertini, giornalista dell'emittente locale Telereggio. Gibertini risulta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, adesso si trova nel carcere di Parma in completo isolamento. Nell'ordinanza si legge che avrebbe «concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione ed alla realizzazione degli scopi dell’associazione mafiosa». In particolare «metteva a disposizione del sodalizio e in particolare di Antonio Silipo e Nicolino Sarcone, i suoi rapporti politici imprenditoriali e del mondo della stampa a tutti i livelli».

La cena col politico Nello specifico, risulta che Gibertini sarebbe intervenuto «in un momento di particolare fibrillazione per l’associazione quando nell’autunno del 2012 era scoppiata una polemica in relazione a una cena avvenuta nella primavera precedente durante la quale Sarcone, Brescia, Paolini, Iaquinta e altri avevano incontrato il politico del Pdl Pagliani proprio in vista della realizzazione di una campagna pubblica di contrasto all’azione del Prefetto di Reggio a causa dell’adozione di numerose interdittive antimafia nei confronti di appartenenti all’associazione o a questi vicini e legati». L'attività di Gibertini non finisce qui. Secondo il pm, il giornalista avrebbe «messo a disposizione del sodalizio, seguendo le indicazioni di Nicolino Sarcone, la sua trasmissione sull’emittente Telereggio, nell’ottobre 2012 realizzando l’intervista a Gianluigi Sarcone». Nel gennaio 2013 si sarebbe messo a disposizione direttamente di Nicolino Sacone per fargli ottenere una intervista su “Il Resto del Carlino” pubblicata nel febbraio del 2013 nell'ambito di un'inchiesta (come chiarito dal direttore del Carlino Andrea Cangini, ndr). Il poliziotto amico dei mafiosi Microfoni piegati e penne che continuano a scrivere nonostante le intimidazioni. È il caso della cronista del Resto del Carlino di Reggio Emilia, Sabrina Pignedoli che, come si legge nella carte, nel gennaio del 2013 avrebbe subito minacce dall'agente della P.S. Domenico Mesiano, ora accusato del reato di associazione mafiosa. "L'Infedele ispettore" - così definito dall'accusa - avrebbe telefonato alla giornalista dopo la pubblicazione di un suo articolo riguardo un provvedimento del TAR relativo ai fratelli Salvatore e Vito Muto. Mesiano le disse di smettere di occuparsi con la sua attività giornalistica dei Muto perché quest'ultimi non gradivano.

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E concluse dicendo che se avesse continuato lui le “avrebbe tagliato i viveri”. La giornalista andò a denunciare l'accaduto all'Autorità Giudiziaria e continuò ad occuparsi quotidianamente dell'infiltrazioni della 'ndrangheta nella provincia di Reggio Emilia. Racconta: "Dopo quella telefonata non ho ricevuto altre minacce da Mesiano per cui mi sono sentita libera di continuare a fare il mio lavoro. D'altronde se così non fosse stato non avrei continuato a scrivere. Questo mestiere si può fare solo in un modo. Nessuno può dirmi cosa devo o non devo scrivere ". “Ho cercato di ricostruire tutto” Sabrina Pignedoli, 31 anni, lavora nella redazione del Carlino di Reggio Emilia dal 2008. Nel 2010 ha cominciato ad occuparsi di cronaca nera e giudiziaria. "Non avrei mai creduto che avrei scritto di 'ndrangheta. Un giorno arrivò un'agenzia sull'operazione Pandora (operazione della Dda di Catanzaro su due cosche del crotonese, ndr). Recuperai le carte giudiziarie, quando cominciai a leggere le intercettazioni, capii che non conoscevo davvero il luogo in cui vivevo. Da lì ho cercato di ricostruire quello che c'era intorno a me e non si vedeva". La 'ndrangheta cammina per le strade emiliane diversamente da come fa in Calabria. Spiega Sabrina: "Qui non hanno lo stesso controllo del territorio che hanno al Sud. A Reggio Emilia la 'ndrangheta non si vede: il loro è un potere di tipo economico. Sono persone con i soldi, hanno belle vite. All'apparenza sembrano individui come gli altri”. Si muovono nell'ombra, fanno affari e si insinuano nel tessuto economico locale con grande abilità. Difficilmente sparano. Eppure negli ultimi anni, episodi che potevano destare sospetti ce ne sono stati. Il più eclatante nel novembre 2012: nella bassa reggiana sono stati bruciati 9 camion appartenenti ad una ditta originaria di Cutro. Non era abbastanza per creare nell'opinione pubblica la consapevolezza che le 'ndrine ci sono anche in Emilia.


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Casalesi a San Marino

Il processo Vulcano A distanza di mesi, è ancora attualissimo per la mappa dei clan nella riviera romagnola di Patrick Wild www.gruppoantimafiapiolatorre.it Sette anni a Ernesto Luciano e a Giovanni Formicola. Quattro anni e sei mesi per Vallefuoco. Queste le pene maggiori, contenute nel dispositivo della sentenza letto il 20 dicembre dal giudice Massimo Di Patria. S'è concluso così il primo processo nato dall'indagine Vulcano del ROS di Bologna sulla presenza camorristica tra riviera romagnola e Repubblica di San Marino, che nel febbraio 2011 portò inizialmente al fermo di 10 persone per estorsione e usura aggravata dal metodo mafioso. Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia in quest'area operavano tre gruppi criminali, legati a clan di camorra e a casalesi, che sfruttando lo schermo legale di finanziarie sammarinesi (la Fincapital, ora in liquidazione), società di recupero crediti e rapporti con stimati professionisti, prestavano denaro a strozzo ed estorcevano gli imprenditori in crisi, per impossessarsi delle loro attività economiche. Il Pubblico Ministero della Dda di Bologna, Enrico Cieri, aveva chiesto pene dai 4 agli 8 anni per estorsioni nei confronti di vari imprenditori della zona, evocando l'appartenenza e la vicinanza a clan di camorra e ai casalesi. Tra le vicende ricordate, il pestaggio "dimostrativo" nel capannone di San Marino, la convocazione al bar di Miramare al cospetto di Zio Peppe, le percosse da parte di Formicola all'esterno dell'albergo riminese Quo Vadis, le "visite" al negozio di un'imprenditrice, a pochi passi da viale Ceccarini a Riccione.

Per quanto riguarda il reato di usura aggravata da metodo mafioso, invece, era stata richiesta l'assoluzione per tutti, in quanto durante il processo non era stato possibile provare il fatto: una delle vittime, Luigino Grassi, non si è nemmeno mai presentata per testimoniare. Indagini poco coordinate Nella requisitoria il pm aveva ricordato la difficoltà e gli errori di coordinamento nel gestire le varie indagini che si erano susseguite ed incrociate fra loro, tra Bologna e Napoli, arrivando così a processi frazionati tra loro davanti ai vari Tribunali: in questo, in giudizio abbreviato erano già stati assolti Iavarazzo, Platone, Bacciocchi ed Esposito, e condannato il solo Luciano Luigi, fratello dell'odierno imputato. La sentenza letta quest'oggi riguarda solo una minima parte di quelle stesse vicende, a cavallo tra settembre 2010 e febbraio 2011. Da qui parte delle difficoltà -altre sono dovute al fatto che molte vicende erano avvenute a San Marino, Stato estero- nel provare e chiedere pene più elevate. Sono stati infatti assolti da tutti i capi d'imputazione i sammarinesi Leonardo Raimondi e Roberto Zavoli, oltre a Amedeo Gallo e Antonio Di Fonzo. A prescindere da una valutazione sulle singole condanne, si tratta comunque di un'importante pronuncia - dopo quella sanmarinese di luglio per riciclaggio di denaro sporco - che riconosce anche a livello giudiziario la presenza, tra Romagna e la Repubblica di San Marino, di soggetti inseriti nel settore economico-finanziario della zona, pronti a minacciare imprenditori locali senza timore di ricorrere a metodi violenti e tipicamente mafiosi.

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Come spesso accade fuori dalle regioni di originaria presenza mafiosa, ad essere contestato è l'art. 7 della legge 203/91, la cosiddetta aggravante mafiosa, ma non il 416 bis. Come dire: a Rimini e San Marino c'è il metodo mafioso, ma non la mafia. Continui ed espliciti, infatti, erano i riferimenti di alcuni imputati ad ambienti camorristi o casalesi, all'evidente scopo di intimorire maggiormente le vittime. Assolti i “colletti bianchi” A parte Agostinelli, imprenditore della zona, mancano invece le condanne per i cosiddetti colletti bianchi, che mano a mano si sono defilati dall'indagine oppure sono stati pienamente assolti dalle accuse. Di quell'area grigia dove si incontrano e intrecciano i rapporti opachi tra finanza, imprenditoria e criminalità se ne occuperanno in futuro altre indagini. All’epoca gli arresti suscitarono scalpore, generando soprattutto imbarazzo tra le categorie professionali e un’intera classe politica che fino a quel momento aveva sempre taciuto o minimizzato il pericolo della presenza mafiosa in Emilia-Romagna. Poco attenta la società civile Negli anni qualcosa è cambiato: i politici hanno dato segno di accorgersi della mafia, chi per spontaneo ravvedimento, chi per non incorrere in un vero e proprio suicidio politico. Data la poca attenzione e la bassa partecipazione nei riguardi di questo processo da parte di società civile e istituzione, la sensazione è che il lavoro da fare sia ancora moltissimo.


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Pubblicità e cultura mafiosa

E Parmalat si sente un boss L'immagine mafiosa aiuta a vendere? Secondo certi pubblicitari, si direbbe di sì. E pur di vendere... di Ester Castano #OGGIMISENTO un boss. E’ lo slogan della nuova campagna pubblicitaria Parmalat. L’azienda, al cui nome a più di dieci anni di distanza fa ancora eco il “crac del secolo” scoperto nel 2003, una voragine di 14 miliardi di euro e truffa a 38mila risparmiatori, ha deciso di lanciare il concorso a premi “Oggi cinema” in questo modo: “Oggi ti senti un boss? Condividi sui social la tua foto con la bottiglia e l’hashtag #OGGIMISENTO un boss: potrai vincere un anno di film on demand”. Il tutto corredato dalla riproduzione stilizzata sull’etichetta del volto di un uomo con sigaro in bocca, occhiali scuri da sole in testa, cravatta nera e barba incolta che rimandando all’immaginario della mala italo-americana fa tanto scena del crimine. Il caso ha fatto scalpore fra alcuni consumatori ed è stato segnalato allo IAP, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria. Commenti di dissenso sono arrivati anche da nomi noti dell’antimafia. “E’ un messaggio offensivo”, dichiara Nando dalla Chiesa, professore di sociologia della criminalità organizzata all’Università degli studi di Milano. “Non sempre le imprese si impegnano nel contrastare culturalmente i modelli mafiosi”, afferma il senatore Franco Mirabelli (Pd) della Commissione parlamentare antimafia.

Un concorso a premi Del resto la Parmalat è una delle aziende più importanti nella produzione di latte, la bottiglia in questione con boss e sigaro da gangster è finita sulle tavole di molte famiglie italiane e la polemica fra consumatori attenti era inevitabile. “Pubblicità ignobile”, “E’ disgustoso”, “Ti cadono le braccia se non altro”: sul web utenti non passivi commentano così le immagini della campagna a premi, diffusa sui social come chiesto dal regolamento stesso. Ma perché la scelta del boss? “Non so darle informazioni in più a riguardo – risponde al telefono una gentile centralinista Parmalat con voce pacata – il concorso è stato lanciato il 20 gennaio ed è valido fino al 10 maggio 2015 con un montepremi di 26mila euro. I prodotti promozionati sono Latte Parmalat da un litro Parzialmente scremato, Intero e Magro con gusto. Ma sulla scelta di pubblicità e marketing non posso aiutarla e non saprei chi indicarle”. E se per insegnanti e istituzioni è già difficile educare la cittadinanza alla legalità, lo è ancor più quando a colazione con caffelatte e biscotti è servito l’invito a paragonarsi a un boss che, in Italia, è il termine con cui si indica il capo mafia: il boss di cosa nostra, il boss della cosca, il boss della malavita. “Una pubblicità del genere mi sembra di pessimo gusto - commenta Nando dalla Chiesa - perché uno potrebbe dire oggi mi sento un leone, potrebbe usare altri termini per dire che oggi sono in grado di spaccare le montagne. Invece qui è stato deliberatamente scelto un termine che nella nostra cultura non è il soprannome di Bruce Springsteen, ma indica il boss di cosa nostra o della ‘ndrangheta. Ed è un po’ offensivo, per una storia come quella italiana, che una grande impresa pubblicizzi l’immaginario del boss”.

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Un nomignolo con cui oggi ci si riferisce, anche, per indicare personaggi furbi e dominanti, influenti in azienda e “malandrini” in politica. Erano considerati boss i corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, è considerato boss il latitante siciliano Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa nostra; è boss a Reggio Calabria l’anziano capocosca Giuseppe Mazzagatti di Oppido Mamertina omaggiato la scorsa estate durante la tradizionale processione religiosa con l’inchino della Madonna delle Grazie davanti alla sua abitazione; era boss della Lombardia fino a luglio del 2009, prima di essere ammazzato, compare Carmelo, capo dei capi della ‘ndrangheta padana ucciso a San Vittore Olona, in provincia di Milano, dal a sua volta boss 39enne Antonino Belnome, il primo padrino di ‘ndrangheta nato, cresciuto, affiliato ed infine pentito al Nord, in quella “Brianza felix” per troppo tempo ingenuamente ritenuta immune dall’infiltrazione mafiosa. E quella bottiglia di latte è arrivata anche lì: a Corleone e Palermo, a Oppido Mamertina in provincia di Reggio Calabria, a Milano e nel resto d’Italia. I boss veri e quelli della pubblicità E’ soprannominato “il boss belli capelli” Eugenio Costantino della cosca Di Grillo- Mancuso condannato recentemente giorni a 16 anni di carcere per sequestro di persona, personaggio chiave dell’inchiesta che ha portato allo scioglimento per mafia del Comune di Sedriano (Milano): per gli inquirenti nel 2010 avrebbe venduto un pacchetto di 4mila voti per 200mila euro all’ex assessore regionale Domenico Zambetti (Pdl) della giunta Formigoni. “Non basta che il parlamento e le istituzioni si impegnino a migliorare le norme per il contrasto se poi non c’è sforzo da parte di tutta la società civile e delle imprese nel contrasto dei modelli mafiosi.


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La pizza “La Mafia”, la pasta “Don Vito”, la pizzeria “Don Corleone”, il ristorante “Al Capone”, l'insalata “Sopranos”, il vino “Sangue di Giuda”...

dall’iconografia interna ed esterna dei locali (logo aziendale, arredamento che riprende la scenografia del film Il padrino, quadri di boss italo-americani appesi alle pareti) al menù proposto a tavola: le materie prime arrivano dall’Italia e con dieci o al massimo tredici euro si mangia la pizza “Margherita La Mafia” o la pasta “Don Vito”. Il vino è naturalmente il ‘Sangue di Giuda’, non perché sia più buono di un Tocai friulano o di un Gutturnio piacentino ma perché il nome fa scena, stimolando così l’immaginario del consumatore.

“C'è poco da scherzare” E’ evidente che proporre la figura del boss come immagine a cui aspirare è un dato negativo: affronta con superficialità e rende leggero un tema che invece per gran parte del nostro Paese significa Terra dei fuochi, usura, violenza; significa il venire meno della libertà personale e inquinamento della vita democratica. L’idea che il personaggio boss e più in generale la mafia si possano ridurre a uno scherzo è sbagliato”, dichiara Mirabelli. Una promozione arrivata in tavola con una bottiglia di latte, quella della Parmalat, e percepita come un’offesa per coloro che la mafia nella propria famiglia l’hanno vissuta (e combattuta) e che disgusta quanti oggi si impegnano nel promuovere nelle scuole una cultura della legalità che non lasci spazio alla legittimazione di tutto ciò che possa essere anche solo vicino all’immaginario mafioso. Scuole a cui la stessa Parmalat in occasione di Expo 2015 rivolge un concorso premi sulla nutrizione, tema legato all’esposizione universale: “Un nuovo concorso a premi dedicato alla riscoperta e alla valorizzazione dei prodotti tipici del nostro paese. Per partecipare scegliete un prodotto locale tipico della vostra zona e cucinate questo ingrediente in modo innovativo, unendolo al latte. Partecipate anche voi insegnanti con le vostre classi e stupite la giuria con piatti creativi e originali, in grado di trasmettere i sapori e le tradizioni del vostro territorio. Avete tempo fino al 15 aprile 2015!”, si legge sul sito scuole.parmalat.it. Latte in bottiglia, quelle da un litro parzialmente scremato, intero e magro con gusto, le stesse del #OGGIMISENTO un boss. Non è il primo caso di aziende legate all’alimentazione o alla ristorazione che utilizzano nomi e termini che rimandano alla caricatura dell’italiano tutto pizza e mandolino. E mafia.

Una strategia di marketing

“La mafia se sienta a mesa” Un uso deviato dei termini che in alcuni casi è la fortuna di locali e ristoranti anche all’estero: di pizzerie “Corleone”, “Don Corleone” e “Al Capone” la Polonia è piena, con pizze e insalate chiamate “Soprano” e “Don Carlo”. Il caso spagnolo è ben analizzato da Mauro Fossati, studente di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, che ai ristoranti iberici ha dedicato la sua tesi di laurea magistrale in comunicazione pubblica e d’impresa: relatore il professore Nando dalla Chiesa, ne “La mafia se sienta a mesa”. Legittimazione subliminale Fossati, che attualmente lavora a Dublino come Account Executive per un'azienda americana, studia la legittimazione subliminale dell’organizzazione criminale attraverso la ristorazione. Analizza i brand legati all’immaginario italiano legato allo stereotipo mafioso,

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Lo stesso titolo della tesi “La mafia se sienta a mesa” è ripreso da una catena di ristoranti presenti in tutta la Spagna. Come se mafia, coppola e lupara fossero indice di convivialità e cibo buono. Il tutto all’interno di una precisa strategia comunicativa e di marketing. “La ringraziamo per averci scritto – risponde lo staff dello IAP, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria, alla segnalazione della pubblicità Parmalat - la nostra procedura prevede che le segnalazioni relative a messaggi in diffusione siano vagliate dal Comitato di Controllo, al quale il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale affida il compito di intervenire a tutela degli interessi dei cittadini-consumatori. Al termine dell’istruttoria, il Comitato delibera le iniziative da assumere. Provvederemo senz’altro a sottoporre nel più breve tempo possibile la sua segnalazione al Comitato e La terremo informata sull’esito del caso”. I consumatori attendono risposta, aspettando il giorno in cui qualche grande marchio italiano avrà il coraggio di lanciare l’hashtag #OGGINONMISENTO un boss.


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Sicilia

La morte dimenticata di Francesco Vecchio “So chi ha ordinato la morte di mio padre, ma probabilmente non verrà mai condannato” di Simone Olivelli «Come erano quei giorni? Difficili. Lui cercava di non allarmarci, ma avevamo paura. Una volta fui io a rispondere al telefono e ad ascoltare le minacce». Salvatore, figlio di Francesco Vecchio, l’imprenditore originario di Acireale che venne crivellato di colpi di arma da fuoco il 31 ottobre 1990 nella zona industriale di Catania, oggi vive e lavora lontano dalla Sicilia ma non per questo si è messo dietro le spalle quella terra che oltre ad avergli dato i natali gli tolse il padre, ucciso dalla mafia. «So chi ha ordinato la morte di mio padre, ma probabilmente non verrà mai condannato» dichiara al telefono Salvatore. L’assassinio di Vecchio – ucciso di ritorno dal lavoro insieme ad Alessandro Rovetta, l’amministratore delegato dell’Acciaieria Megara, la società per la quale l’imprenditore acese lavorava come direttore del personale – è infatti uno dei pochi delitti eccellenti che negli anni non hanno registrato un passaggio giudiziario. Nessun processo, nessun imputato. Soltanto delle indagini finite ben presto nel dimenticatoio. Eppure, che dietro l’omicidio dei due ci fosse stata una regia mafiosa lo si era pensato sin da subito: nei mesi precedenti, diversi erano stati gli episodi intimidatori attraverso i quali ignoti avevano avvertito Vecchio di smetterla, di farsi gli affari propri se non voleva che finisse male.

«Quella volta in cui fui io a prendere la cornetta – ricorda Salvatore – mi dissero che mio padre era un ‘cornuto’, che ci avrebbero ammazzati». Per capire i motivi che portarono Vecchio a rendersi inviso agli occhi di chi di lì a poco sarebbe passato dalle parole ai fatti, bisogna tornare un po’ indietro nel tempo: l’Acciaieria Megara già da tempo era entrata tra gli interessi della malavita organizzata, grazie all’aggiudicazione di un finanziamento di 60 miliardi di lire con il quale la ditta, che già occupava un posto di rilievo nel settore, avrebbe puntato a un ulteriore ampliamento. A lavorare nei cantieri erano diverse cooperative che – a detta di Salvatore Vecchio – non erano esenti dalle infiltrazioni mafiose: «I problemi per mio padre iniziarono quando gli viene affidata anche la gestione del personale delle cooperative, che fino a quel momento era stato sotto il controllo del direttore dell’ufficio tecnico. In quelle cooperative – spiega il figlio della vittima – lavoravano anche diversi detenuti con permessi speciali; persone che fino a quel momento avevano avuto la libertà di non presentarsi al lavoro senza che nessuno obiettasse alcunché». Fino a che Vecchio non decise di intervenire. Da lì in poi, la vita dell’imprenditore acese fu un susseguirsi di preoccupazioni e minacce fino all’epilogo più tragico. «In realtà mio padre denunciò quelle minacce – dichiara Salvatore – ma, quando andammo in questura dopo l’omicidio, ci dissero che a loro non risultava nulla». Le indagini si sarebbero arenate poco dopo lasciando a carico di ignoti la responsabilità del gesto, ma nonostante ció la famiglia di Vecchio ha continuato per anni a cercare qualche brandello di verità, qualche elemento utile che potesse ridare respiro all’attività dei magistrati.

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Una testimonianza sepolta Ciò si concretizza diciotto anni dopo, con una scoperta quasi fortuita che lascia di stucco Salvatore: «A ordinare l’omicidio è stato il clan Santapaola-Ercolano, e a dirlo non sono io ma un pentito di primissimo livello». Fu Maurizio Avolta, storico pentito della mafia catanese, nel lontano 1994, a colloquio con i magistrati della Procura di Messina, a raccontare alcuni dettagli del duplice omicidio Vecchio-Rovetta. Di quella testimonianza, però, non se ne fece nulla; anzi, per dirla tutta, fino al 2008 non è mai emersa: «Ho trovato questa parte di interrogatorio all’interno del fascicolo delle indagini – afferma Vecchio – e mi stupisco di come all’epoca dei fatti i magistrati non abbiano approfondito il loro lavoro partendo dalla testimonianza di un pentito su cui si è tantissime volte fatto affidamento». La scoperta ha riacceso la speranza, ma per poco: «Ho fatto richiesta di riapertura delle indagini ma a distanza di anni è difficile trovare un altro pentito che accrediti la versione di Avola, così da poter portare a dibattimento quelle accuse». “Passare ad atti concreti, quotidiani” A distanza di venticinque anni, tuttavia, qualcosa sembra risvegliarsi, almeno per quanto riguarda la memoria: il Comune di Acireale ha annunciato poche settimane fa la volontà di intitolare un piazzale alla memoria di Francesco Vecchio. Per farlo bisognerà attendere che l’iter burocratico faccia il suo corso, ma quel giorno Salvatore sarà presente: «Spero di portare in città anche don Ciotti. Ricordare è importante – conclude – ma è giunto anche il momento di passare ad atti concreti, nella quotidianità. La retorica dell’antimafia non ha più senso».


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ILVE D'ITALIA/ MILAZZO E VALLE DEL MELA

Il ricatto del lavoro

“O inquinati o disoccupati!”. E' la solita storia: industriali e politici, lungi dal rimettere in discussione l'attuale pessimo assetto industriale, usano i licenziamenti come una mazza per ridurre al silenzio operai e popolazione. E dividerli fra di loro. C'è chi casca nella trappola. Ma... di Riccardo Orioles

“Divide et impera”

LE GUERRE DEI POVERI LE RISATE DEI PADRONI E' successo niente dal 27 settembre, da quando cioè Archi e una parte di Milazzo hanno corso il rischio di finire in un apocalittico incendio causato dalla Raffineria? No, non è successo niente. Neanche i serbatoi adiacenti alle case sono stati rimossi. Si sa qualcosa del livello di inquinamento raggiunto in zona dopo decenni di lavorazione continua di sostanze pericolose? No, non si sa niente. I tecnici dell'Arpa, l'ente proposto alla vigilanza, già dall'estate comunicavano: “Ci mancano risorse, ci manca personale”. Hanno fatto qualcosa i politici, hanno fatto qualcosa - almeno per ridurre un po' i pericoli - gli industriali? I politici, niente. Gl'industriali, si sono mossi. Si sono mossi a modo loro, cioè licenziando le prime decine di operai all'Edipower (la centrale termoelettrica adiacente alla raffineria). Secondo le buone regole, hanno annunciato subito che questi licenziamenti sono, per così dire, provvisori.

Si farà un altro impianto al posto di quello da chiudere: un Css, un riciclatore, certo non una fabbrica d'aria pulita. Quando? Domani, dopodomani, prima o poi... Gli operai hanno picchettato la fabbrica, gli ambientalisti si sono immediatamente scagliati contro la fabbrica nuova, peraltro ancora molto virtuale. I sindacati hano aperto il “tavolo di trattativa” alla Regione, ma al tavolo non si sono presentati né gli industriali né i politici, che evidentemente avevano altro da fare. Il momento più tragico Il momento più buffo - o più tragico, secondo i punti di vista - è stato quando nella stessa giornata gli operai sono scesi per strada per difendere la loro fabbrica e gli “ambientalisti” (non molti, stavolta) hanno fatto lo stesso, ma per maledirla. Per fortuna, i due gruppi non si sono incontrati, sennò le risate dei padroni (che già sorridevano pensando al successo infallibile del loro solito “divide et impera”) sarebbero arrivate al cielo.

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Adesso, nel quartier generale dell'opposizione - la sala della parrocchia del paese, presidiata dal crocefisso di padre Peppe, grande quanto quello di don Camillo - si organizza la resistenza. Una resistenza tranquilla, apparentemente, senza slogan né grida, ma determinatissima e decisa. Niente guerre fra poveri, per prima cosa. “Non vogliamo morire di cancro, ma nemmeno di fame senza lavoro”. “Operai e abitanti, uniti!”. “No alla produzione d'inquinamento, vecchio e nuovo, ma sì al lavoro”. E ce ne sarebbe moltissimo, di lavoro, a pensarci bene: qua, per rimettere a posto ciò che il buon Dio ha creato, e l'avarizia ha distrutto, ci vorranno anni e anni, e migliaia di braccia e teste. Non è facile organizzare una lotta del genere: a volte coloro che hanno le conoscenze hanno difficoltà a portarle fuori dai convegni, in linguaggio comune; chi ha entusiasmo ha difficoltà a comprendere che bisogna parlare, convincere, ascoltare tutti. Non manca quanche ambizione personale (in città si vota), che non aiuta. Difficile fare una rivoluzione, la semplice rivoluzione del salvare la pelle.


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“Fra inquinamento e ricatto del lavoro”

Lettera aperta ai cittadini di Valle del Mela e dintorni

di padre Giuseppe Trifirò

parroco

Carissimi cittadini di Milazzo e della Valle del Mela, oggi, come già abbiamo previsto, ci troviamo a lottare contro coloro che vogliono utilizzare la centrale di Archi per bruciare la spazzatura chiamata Css come trent’anni fa abbiamo dovuto lottare contro la trasformazione della centrale termoelettrica a carbone. In un primo incontro, tenutosi a Palermo, i Dirigenti della centrale termoelettrica di Archi avevano abbozzato questo progetto ma erano stati quasi licenziati per molti molteplici motivi. In una seconda riunione, tenutasi sempre mercoledì 21 gennaio 2015, è stato chiesto ai dirigenti della Centrale termoelettrica di Archi di presentare il progetto. In una terza riunione, che si terrà al più presto, sono sicuro che non solo sarà accettato il progetto, ma ci verrà illustrato come il non plus ultra, come un fiore all’occhiello che darà lavoro, risanamento e benessere a tutti. E’ la solita filosofica di questi signori affaristi che si presentano come agnelli mansueti, mentre sono lupi rapaci che per un pezzo di osso in più sono capaci di sacrificare e mandare al macello migliaia di persone.

Quando si voleva trasformare la centrale termoelettrica di Archi a carbone erano a favore il comune di San Filippo del Mela e la Regione Siciliana. Oggi a favore del Css, della spazzatura da bruciare ad Archi, sembrano essere i comune di San Filippo del Mela e di Milazzo, la Regione Siciliana, che si sta preparando ad approvare il magnifico progetto, e i sindacati che difendono, secondo loro, i posti di lavoro. Invito il Sig. Crocetta a rileggersi il documento inviato a tutti i cittadini, me compreso, in occasione delle elezioni Regionali. In quella lettera il Sig. Crocetta si impegnava a risanare tutte le aree ad alto rischio della Sicilia. Cosa che ha fatto subito, ma al contrario. Difatti il modo prescelto per “risanare queste aree” è stato di fare entrare in funzione il nuovo elettrodotto di Terna e di bruciare la spazzatura ad Archi: così secondo lui la nostra aria diventa salubre e si può respirarla, a pieni polmoni, anche sotto i tralicci. Il Sig. Crocetta è certo che tutti dobbiamo, prima o dopo dobbiamo morire, e quindi secondo lui come, il quando e il motivo non ha importanza. Grazie, Sig. Crocetta! “Non siano miopi, i sindacati” I lavoratori si guadagnano il pane col sudore della fronte rischiando la loro vita come l’ha rischiata mio padre, ma esorto i sindacati a non essere miopi, ma di allargare i loro orizzonti e a guardare oltre la punta del loro naso. Lottano giustamente per difendere i posti di lavoro, ma si preoccupano poco della loro salute e di quella di migliaia di cittadini. Nell’incendio della Raffineria non dovevano essere loro i primi a scendere in campo per difendere la vita e la salute dei lavoratori e dei loro familiari?

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Noi invece, che abbiamo sempre lottato, non per la chiusura delle industrie, ma perchè dessero la massima garanzia e la massima sicurezza a tutti, operai e abitanti, siamo stati sempre criticati e malvisti. “Sicurezza per tutti, operai e abitanti” Oggi sono molti coloro che affermano che eliminando queste grosse industrie e restituendo a questo Territorio la primitiva vocazione ci sarebbe più occupazione, più benessere, più turismo e più salute. Sorge però anche un’altra domanda: “Ma dov'erano i sindacati quando noi lottavamo contro il nuovo elettrodotto di Terna?”. Eppure essi erano a conoscenza che i Dirigenti di Terna avevano detto espressamente che il nuovo elettrodotto ci avrebbe liberato dall’inquinamento della centrale termoelettrica di Archi, che era costretta a chiudere in quanto non più competitiva. “Un paese che scompare” Rivolgendomi adesso al sig. Sindaco di San Filippo del Mela lo invito a rileggersi il programma presentato ai cittadini e di ricordarsi delle sue promesse. Fa bene a “proteggere i posti di lavoro”, ma non fino a sacrificare un’intera popolazione, portandola alla miseria e alla morte. Sappia, inoltre, che il paese di Archi sta scomparendo. Da più di 1.500 siamo scesi ad appena mille residenti, di cui molti domiciliati altrove a causa dell’inquinamento e in cerca di lavoro. Al Sindaco, inoltre, non deve sfuggire che le nuove generazioni, specialmente dopo il matrimonio, scappano da Archi, grazie anche alla salvaguardia dei posti di lavoro. E poi, a proposito dell’impegno preso durante l’incendio della Raffineria, a che punto sono i lavori per togliere i serbatoi vicino alle abitazioni?


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“Costruitevi il vostro futuro, non vi fate imbrogliare e non fidatevi di questa classe politica. La maggior parte di essi corrotti, sono ladri e avvoltoi che per impinguarsi si gettano non solo sui cadaveri ma anche sui più deboli e indifesi per sbranarli” Invito anche il Sig. Sindaco di Milazzo a documentarsi sulla lotta sostenuta a suo tempo dal vecchio Sindaco Cartesio contro la trasformazione a carbone della centrale Termoelettrica. Mi congratulo, invece, con i dieci sindaci del Comprensorio per aver deliberato contro il Css e li esorto a non mollare, a difendere i loro cittadini lottando con tutte le loro forze per tutelare la vita, la salute e l’ambiente. Mi rivolgo, nello stesso tempo, a molti altri sindaci del Territorio (da Villafranca ad Olivieri) ad opporsi al Css con tutte le forze, con referendum e altri mezzi a loro disposizione.Non dimentichiamo che contro la trasformazione a carbone allora prese una forte posizione la Provincia di Messina che tra l’altro ha indetto un referendum, dove la popolazione si espresse contro il carbone e a favore del metano, metano che non è mai arrivato perché anche allora alcuni Politici si sono venduti.

Oggi, carissimi sindaci del Comprensorio, l’unica forza contro il Css e la salvaguardia della salute dei vostri cittadini siete voi. Gli occhi dei vostri cittadini sono rivolti a voi, non deludeteli!. Mi rivolgo anche ai Comitati dei Consigli Pastorali per la salvaguardia della salute dei Vicariati di Santa Lucia del Mela e di Milazzo per conoscere la loro posizione nei confronti del Css. “Specialmente voi giovani...” Il mio ultimo pensiero va a voi, cittadini di Milazzo della Valle del Mela e di tutto il Comprensorio specialmente a voi, giovani studenti e adolescenti. Costruitevi il vostro futuro, non vi fate imbrogliare e non fidatevi di questa classe politica. La maggior parte di essi corrotti, sono ladri e avvoltoi che per impinguarsi si gettano non solo sui cadaveri ma anche sui più deboli e indifesi per sbranarli.

Lettera al Signor Governo IL SILENZIO DELLE ISTITUZIONI Egregio Signor Prefetto, Dopo molto tempo, delusi e con grande amarezza, abbiamo deciso di scriverle questa lettera aperta. Delusi, perché abbiamo aspettato con pazienza che lei accogliesse la richiesta avanzata da molti Comitati e Associazioni di essere ricevuti da lei in occasione dell’incendio della Raffineria di Milazzo. Ma la lettera spedita per fax a nome di molte Associazioni e Comitati, non ha avuto nessuna risposta da parte della Prefettura. Alla nostra telefonata di informazione, ci è stato detto che la lettera era stata inviata a un fax sbagliato. Abbiamo rinviato la stessa lettera al fax da voi suggerito, e dopo una seconda telefonata di sollecito avete chiesto tutti gli indirizzi delle Associazioni e Comitati, cosa questa fatta prontamente. Dopo altri solleciti, per telefono, abbiamo ricevuto una lettera del Sig. Prefetto, in cui ci veniva comunicato tutto quello che era stato fatto dagli organi preposti in occasione di detto incendio.. Questo comunicato, Sig. Prefetto, non ci interessa per nulla, poiché ci riferiva quanto noi già sapevamo, ma che non abbiamo condiviso. Inoltre siamo molto amareggiati perché come cittadini impegnati da moltissimi anni alla salvaguardia della salute dei cittadini e della natura abbiamo il diritto di esporre le nostre idee, di criticare l’operato dei nostri governanti e di avanzare le nostre proposte, per garantire l’incolumità e la massima sicurezza per la vita e la salute di tutti i cittadini, compresi quelli che lavorano nella Raffineria e nelle altre industrie pesanti.

In questi 50 anni di industrializzazione del nostro Territorio, tutti coloro che sono morti a causa di queste industrie pesanti chiedono giustizia non solo per loro ma anche per tutti coloro che moriranno a causa dell’inquinamento. “Fatevi sentire, non dormite...” Carissimi, io ho quasi terminata la mia battaglia, ho dato tutte le mie energie per il Signore, per gli uomini e per difendere il Creato. Mi sono sempre schierato dalla parte dei più deboli. Non mi sono mai arreso di fronte alle molte sconfitte e non mi sono mai venduto a questi signori dell’inquinamento e della morte. . Ora tocca a tutti voi piccoli e grandi. Vi esorto, svegliatevi, fatevi sentire, non dormite, non arrendetevi e tenetevi pronti per una eventuale grande manifestazione in difesa della vita, della salute e dell’ambiente.

Vede, Sig. Prefetto, noi difendiamo la vita e la salute di tutti i cittadini gratuitamente, a nostre spese, e ci sentiamo umiliati quando, insieme a una moltitudine di altri cittadini, dai nostri Governanti veniamo classificati come individui che hanno solo doveri senza nessun diritto. La nostra umiliazione si appesantisce e la nostra amarezza diventa insopportabile quando constatiamo che abbiamo molti doveri, compreso quello di contribuire a pagare le molteplici tasse, per assicurare un favoloso stipendio ai nostri Governanti e ai loro Dirigenti, dai quali siamo umiliati e tenuti in minima considerazione, senza poter fiatare. Sig. Prefetto, desideriamo sapere perché non siamo stati ricevuti! Forse le è è stato suggerito che era meglio non farlo? Forse perché il suo operato nel gestire la sicurezza della cittadinanza nell’incendio RAM è stato molto criticato, in quanto non sono stati rispettati tutti i protocolli della sicurezza esterna? Forse perché le direttive Seveso, nel profondo Sud, sono fatiscenti e mal applicate? O forse ancora per altre motivazioni? Gradiremmo saperlo, ma comprendiamo che anche questa è una richiesta utopistica. In realtà siamo in uno Stato Democratico solo sulla carta, poiché nei fatti a pagare è sempre il popolo che vive rassegnato sotto la schiavitù del potere politico, economico e industriale che gli ha tolto il lavoro, la dignità della vita, la salute e la libertà. Sig. Prefetto possiamo ancora "sperare" di essere ricevuti? Speriamo di si! La speranza è sempre l’ultima a morire! sac. Giuseppe Trifirò, Archi S. Filippo del Mela

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“Sosteniamo con serietà, disinteresse e determinazione la lotta per il diritto alla salute e alla vita, senza guerre fra poveri, in nome di un diritto al lavoro che può essere sostenuto realmente solo dai movimenti popolari e non certo dai profittatori” INQUINAMENTO: A CHE PUNTO SIAMO

PAROLE PAROLE PAROLE... Ci raccontano che i tumori qua non esistono e che anzi respiriamo aria pura. Intanto continuiamo ad ammalarci e molti non hanno più i soldi per curarsi. Chi non ha un amico o un parente con malattie da inquinamento?

Convegni, promesse, campagne elettorali. Intanto la raffineria continua indisturbata a controllare le nostre vite. Ora in centrale dicono di voler bruciare la spazzatura (CSS) e che questa “sarebbe la soluzione” perché quando entrerà in funzione l'elettrodotto Terna la centrale non servirà più. Ma questo non solo aggrava l'inquinamento ma lascia senza lavoro centinaia di famiglie. Noi non crediamo alle false promesse. Ci ricordiamo bene dello sterminio della Sacelit. Chiediamo una soluzione VERA che tuteli la salute di tutti: cittadini e lavoratori. BRUCIARE SPAZZATURA (CSS) NON È UNA SOLUZIONE! CI TOGLIE LA SALUTE E CI LASCIA SENZA LAVORO.

È una doppia fregatura buona solo per le campagne elettorali.

NOI NON CI FIDIAMO! Difendiamoci nelle strade!

Comitato Lenzuoli 27 settembre “La vera campagna per noi comincia dopo le elezioni”

Cosa chiediamo VITA, SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO: I PUNTI DEL COORDINAMENTO UNITARIO Le associazioni e i comitati di Milazzo e Valle del Mela, e molti amministratori locali, hanno elaborato un Memorandum per il diritto alla vita, alla salute e alla sicurezza sul lavoro. Eccone i punti essenziali: ● Coordinamento di tutti i Comuni della zona per prendere sempre insieme, e col concorso di associazioni e comitati, ogni decisione ambientale; ● Piano di Emergenza Comprensoriale; ● Immediata rimozione dei pericolosissimi serbatoi adiacenti alle case; ● Coinvolgere i Comuni nelle procedure di autorizzazione; I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011, 20/09/2011 dir.responsabile riccardo orioles

● Pubblicità controlli sanitari e ambientali; ● Rete di monitoraggio effettivo; congrui stanziamenti per l'Arpa; ● Screening tossicologico; ● Progetto di sviluppo alternativo, con Università, Ordini e associazioni; ● Dissalatore contro le acqua di falda; ● Piano di Risanamento (bonifica/riqualificazione) ● Finanziamento del Registro Tumori; ● Strutture sanitarie per patologie croniche ed emergenze; ● Accertamenti periodici sul rischio ambientake percepito; ● Valutazione di Impatto Sanitario.

lenzuoli27settembre@gmail.com

● Richiamiamo inoltre tutte le forze politiche e sindacali al dovere di sostenere con serietà, disinteresse e determinazione la lotta delle popolazioni per il diritto alla salute e alla vita, senza tentare di scatenar guerre fra poveri in nome di un diritto al lavoro che può essere sostenuto realmente e senza false promesse solo dai movimenti democratici, non certo dalle multinazionali basate sulla sola logica del profitto.

Firmato: padre Giuseppe Trifirò, Associazione Abc Sikelia, Associazione Consumatori Siciliani; Italia Nostra di Milazzo; Associazione Il Maestrale; Associazione Adasc, Comitato Luciese Salute e Ambiente; Coordinamento Am● Invitiamo i Comuni ad appoggiare questi obiet- bientale Milazzo-Valle del Mela , Comitato tivi e a non consentire nuovi impianti alla Raffine- Lenzuoli 27 settembre, Comitato Respiriamo ria e alle altre industrie a rischio; a chiedere ispe- Monforte; Comitato zioni straordinarie (Ispra/ Arpa /Ctr), e a pianifica- Tutela Ambiente- Archi; re con le associazioni, i comitati e la cittadinanza Isde; Tsc, Ucid. gli interventi a carico delle industrie presenti.

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Ambiente/ Lentini e dintorni

Il Triangolo maledetto Il primato delle morti per leucemia nei comuni del Siracusano di Danilo Daquino www.telejato.it Il Triangolo è il territorio di appartenenza dei tre comuni di Lentini, Carlentini e Francofonte, nella Sicilia sudorientale. Lentini, seconda colonia Greca in Sicilia, è la patria dell’inventore del sonetto, Jacopo da Lentini, e di Riccardo da Lentini, architetto di fiducia di Federico II: questa grande eredità culturale non ha impedito a Cosa Nostra, di costruite nel “triangolo” diversi appoggi. Ricordiamo per esempio l’arresto a Malta del superlatitante Sebastiano Brunno, reggente del Clan Nardo di Lentini. Il triangolo del polo petrolchimico siracusano, il più grande d’Europa (che vanto!), che si estende dalle porte di Siracusa fino ai territori dei comuni di Augusta, Priolo Gargallo e Melilli, è caratterizzato dal forte impatto ambientale delle industrie. Non c’è da stupirsi, dunque, del fatto che la Provincia di Siracusa, nel registro Ines del 2006, si sia classificata al settimo posto tra quelle in Italia a più alto rischio ambientale. I dati reali confermano in pieno questa classificazione: la percentuale delle gravi patologie che si sviluppano in soggetti di determinate fasce di età è tre volte più alta rispetto al tasso medio nazionale, in modo particolare a Lentini, Carlentini e Francofonte. Ad essere colpiti dai veleni sono soprattutto bambini dai 0 ai 4 anni e anziani: leucemia, malformazioni, e tante altre gravi malattie (molte delle quali sconosciute).

Il nostro inquinamento quotidiano La vita quotidiana è caratterizzata principalmente dalle emissioni industriali, dalle sostanze tossiche provenienti da discariche abusive di rifiuti ospedalieri, molte delle quali gestite proprio da Cosa Nostra, o dall’uranio impoverito dell’incidente aereo di Sigonella, avvenuto nel 1984 in contrada San Demetrio, a pochi passi dal Lago di Lentini e dalla città. La zona in cui si verificò l’impatto in cui morirono sul colpo i nove membri dell’equipaggio, venne, nel giro di 60 secondi, transennata e successivamente chiusa al traffico veicolare per circa quaranta giorni, dai militari americani. Il professor Elio Insirello, biologo e docente di genetica molecolare all’Università di Messina, avanzò qualche anno fa l’ipotesi che l’aereo precipitato nelle campagne lentinesi trasportasse, appunto, diverse centinaia di chili di uranio impoverito, causanti una instabile aerodinamicità. A sostegno di tale tesi c’è un dato: in caso di contaminazione radioattiva, gli effetti si manifestano nell’ecosistema in un arco di tempo che va dai 5 ai 10 anni. A Lentini, guarda caso, si osservò uno strano aumento di patologie leucemiche proprio tra il 1992 e il 1995. E tutt’oggi il fenomeno delle leucemie infantili è in continuo incremento nella cittadina in questione, dove, tra le altre cose, non esiste un registro tumori. Qualcuno cerca di nascondere troppe volte la verità. Noi cercheremo di fornire delle spiegazioni a tutte quelle persone che pretendono giustizia per la morte dei propri cari, ammalati di questa e di altre malattie oncologiche che si sviluppano, per esempio, nei polmoni, nel fegato, nel pancreas, nel colon e nello stomaco. Intanto, sempre a proposito di veleni atmosferici, l’associazione Basta Veleno dalla Zona Industriale si sta battendo per ottenere lo screening gratuito sangue-urine per gli adolescenti di Siracusa e provincia dall’Asp. Il presidente dell’associazione, Peppe Resca, dichiara:

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«A Priolo, Melilli, Siracusa il petrolchimico inquina e uccide da 60 anni! Ad Augusta le malformazioni neonatali sono arrivate a numeri preoccupanti (più del 6% rispetto allo 2,8% di media nazionale). Le autorità non intervengono, secondo noi sono colluse e complici sin dall’inizio... Per risolvere gran parte dei problemi, basterebbe regolamentare la situazione e applicare le leggi che definiscono gli obblighi che le attività industriali con un elevato potenziale d’inquinamento sono tenute a rispettare». In sintesi, l’Unione europea - si legge nella normativa - stabilisce una procedura di autorizzazione e fissa i requisiti soprattutto per quanto concerne gli scarichi. L’obiettivo è evitare o ridurre al minimo le emissioni inquinanti nell’atmosfera, nelle acque e nel suolo, nonché i rifiuti provenienti da impianti industriali e agricoli per raggiungere un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute. “Chiediamo immediate bonifiche” «La nostra associazione - continua Resca - chiede immediate bonifiche, che darebbero lavoro ad 8.000 operai rispetto ai 2.000 attuali per i prossimi 50 anni. Chiediamo inoltre risarcimenti a carico delle aziende. Al momento abbiamo soltanto il 5% della popolazione dalla nostra parte. Il restante 95% rimane ai margini. Ma i valori dei metalli pesanti nelle urine dei bambini porteranno almeno il 70% con noi. Il resto continuerà a essere complice di questo scempio, per il quale noi ci ribelliamo ogni giorno: abbiamo organizzato dei cortei ai quali hanno preso parte poco più di 700 persone. E solo Siracusa conta circa 124.000 abitanti».


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Ambiente/ Il caso Mazzarà

Quella discarica che rischia di implodere Sequestrata la discarica di Mazzarrà Sant’ Andrea, nel messinese, dai carabinieri su mandato della Procura della Repubblica di Barcellona P.G. di Carmelo Catania Per quattordici anni un flusso ininterrotto di autocompattatori carichi dei rifiuti di mezza Sicilia ha intasato quotidianamente le strade da Barcellona a Falcone diretto alla discarica di contrada Zuppà. Una vena d’oro che ha rappresentato un’ingente fonte di guadagno per alcuni imprenditori venuti dal nord oltre che per capi bastone e gregari delle cosche locali.

Poi una mattina accade quello che, pur da tanti auspicato, nessuno si sarebbe mai aspettato. Lo scorso 3 novembre gli autisti di quei compattatori si sono visti sbarrare l’accesso dai carabinieri della compagnia di Barcellona Pozzo di Gotto e del Noe che stavano eseguendo il sequestro del megaimpianto di Tirrenoambiente. Il dossier sulle discariche Il provvedimento è stato adottato nell’ambito delle indagini avviate dalla Procura barcellonese su segnalazione della Commissione ispettiva per la verifica degli atti relativi alle discariche private in esercizio per rifiuti non pericolosi site nel territorio siciliano. La Commissione – istituita dall’assessore Nicolò Marino, silurato poi da Crocetta – aveva il compito di effettuare verifiche sulle quattro discariche private (Tirrenoambiente, Oikos, Gruppo Catanzaro, Siculatrasporti) che in Sicilia agiscono sostanzialmente in una situazione di monopolio nei diversi territori.

Libertà di stampa/ Sindaco vs Mazzeo “QUI LA MAFIA NON ESISTE!” Nell’agosto 2012 l’inchiesta dei Siciliani giovani “Falcone comune di mafia fra Tindari e Barcellona Pozzo di Gotto”, di Antonio Mazzeo, si era soffermata su una serie di vicende che avevano interessato la vita politica, sociale, economica ed amministrativa della piccola cittadina tirrenica, (speculazioni immobiliari dalle devastanti conseguenze ambientali e paesaggistiche; lavori di somma urgenza post alluvione del 2008 dal forte impatto sul fragilissimo territorio); alcuni passaggi erano stati dedicati inoltre alle origini e alla dinamica evolutiva di Cosa Nostra barcellonese. Una settimana dopo la pubblicazione, la Giunta comunale di Falcone col Sindaco Santi Cirella, ritenendo lesa “l’immagine e la rispettabilità del paese” aveva deliberato all’unanimità di sporgere querela nei confronti del giornalista, sollevando scalpore e sdegno nella società civile e provocando una vera e propria pioggia di testimonianze di solidarietà a favore di Antonio Mazzeo. Il 7 febbraio 2013 Francesca Bonazinga, pm del Tribunale di Patti, ha chiesto l’archiviazione riconoscendo che “Il giornalista, seppur utilizza toni particolarmente forti ed espressioni suggestive, a parere di

Inquinate le falde L'obiettivo era riscontrare eventuali violazioni sotto il profilo amministrativo in diversi aspetti: nel rilascio delle autorizzazioni; nella mancanza di un impianto di biostabilizzazione che è un obbligo di legge dal 2003; nei volumi di rifiuti conferiti; nella congruità delle tariffe per tonnellata, punto quest'ultimo, che nessuno aveva mai verificato. La situazione di Mazzarà è apparsa subito molto grave: c'erano importanti violazioni di tipo amministrativo e penale. Si era sbancato dove non si poteva, non erano state inviate alla Regione segnalazioni imminenti e doverose. Più evidenti le violazioni sotto il profilo ambientale. È stata quindi avviata la procedura di revoca delle autorizzazioni, disposto la chiusura della discarica e trasmesso i risultati all'autorità giudiziaria competente, perché ritenuti meritevoli di una valutazione d'interesse penale. E i reati ipotizzati dai pm Francesco Massara e Giorgio Nicola vanno dagli imponenti lavori di sbancamento senza

quest’ufficio, non travalica il limite di critica politica/storica posto che nella ricostruzione della storia del Comune di Falcone richiama fatti da sempre ricollegati al paese nonché problematiche sociali che attengono alla realtà del territorio locale”. “Nel caso di specie – prosegue il pubblico ministero – la critica mossa dal giornalista non si risolve in un attacco sterile e offensivo nei confronti del denunciante ma in una amara riflessione sulla storia del Comune di Falcone, ove, il denunciante viene menzionato solo perché facente parte della gestione dell’Amministrazione Comunale”. Per la dottoressa Bonanzinga, “non sussistono, pertanto, elementi sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio nei confronti dell’odierno indagato per il reato di cui all’. art. 595 c.p. (diffamazione a mezzo stampa)”. Ma nonostante la richiesta di archiviazione, la giunta falconese insiste nella richiesta di processare il giornalista. Contro la richiesta d’archiviazione depositata dal Pm di Patti infatti, il legale del comune tirrenico ha presentato opposizione e il 22 gennaio a Patti si è tenuta l’udienza in Camera di Consiglio per decidere sulla richiesta di archiviazione. Il gip si è riservata la decisione che sarà successivamente comunicata alle parti. Antonio Mazzeo è assistito dall’avvocato Carmelo Picciotto.

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autorizzazione (concessione edilizia, nulla osta del Genio civile e della Soprintendenza) per la realizzazione di un nuovo modulo della discarica in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico, che ha trasformato “in modo irreversibile la morfologia dei luoghi”, all’illegittima coltivazione – di oltre un milione di metri cubi – in sopraelevazione della discarica, che ha comportato il concreto rischio di fenomeni franosi con rilevante pericolo per l’ambiente e per la incolumità delle persone. È stato accertato che sulle pareti della discarica esistano “situazioni di criticità”, con fuoriuscita di percolato e che le “acque sotterranee della discarica presentano notevoli indici di inquinamento”. I vertici di Tirreno Ambiente Ad essere indagati sono tutti i massimi vertici della Tirrenoambiente – alcuni oggi non più in carica – Antonello Crisafulli, Giuseppe Antonioli – che lascia l’incarico di amministratore delegato ma mantiene quello di direttore generale –, Giuseppino Innocenti, Sebastiano Giambò e Francesco Cannone. Insieme ai primi sono indagati anche un alto dirigente regionale dell’assessorato Territorio e ambiente,Vincenzo Sansone, un funzionario regionale, Gianfranco Cannova e un funzionario dell’ufficio ambiente della Provincia di Messina, Armando Cappadonia. Sansone e Cannova per il reato di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, commesso con la sottoscrizione dell’atto che concedeva la Valutazione di impatto ambientale e autorizzava l’ampliamento della discarica., Cappadonia risponde da solo di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici.

Parallelamente alle indagini della procura barcellonese sui reati ambientali – di competenza territoriale delle procure locali – quella di Palermo porta avanti le proprie sul rilascio delle autorizzazioni da parte della Regione. Tangenti e discariche Nel luglio 2014 l’operazione Terra mia ha smascherato un giro di mazzette e ha visto il rinvio a giudizio di funzionari regionali e imprenditori del settore rifiuti. Una richiesta che indicava la Regione siciliana come parte offesa. Il procedimento vede imputati proprio il funzionario dell'assessorato regionale Territorio AmbienteGianfranco Cannova, accusato di aver intascato mazzette in cambio di agevolazioni nel rilascio di autorizzazioni per lo smaltimento dei rifiuti, e Giuseppe Antonioli (Tirrenoambiente) insieme ad altri imprenditori della “munnizza”: Mimmo Proto (Oikos) e i fratelli Sodano (Soambiente). Il processo ha preso il via lo scorso 12 gennaio, ma la Regione non si è costituta parte civile. Pagare per evitare i controlli Cannova, nel corso di un interrogatorio, aveva ammesso di avere intascato tangenti per facilitare le pratiche degli imprenditori. Bastava pagare per evitare i controlli nelle discariche e le possibili chiusure. Il prezzo della corruzione sarebbero stati migliaia di euro in contanti e altri “benefit”. Fatti talmente gravi da far respingere ai giudici la richiesta del funzionario infedele di patteggiamento a quattro anni di carcere.

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Mentre le indagini penali vanno avanti, i nuovi vertici di Tirrenoambiente hanno affidato all’avvocato Antonio Dalmazio l’incarico per impugnare il decreto di sequestro e impugnato – deducendone, tra gli altri, il vizio di illegittimità per violazione del principio del giusto procedimento senza prima acquisire in sede conferenza di servizi l’eventuale “dissenso costruttivo”, rispetto al progetto, di tutti gli enti pubblici interessati – davanti al Tar di Catania i provvedimenti del Dipartimento regionale acque e rifiuti. Chiudiamo? Decida il Tar Lo scorso 18 dicembre i giudici amministrativi hanno ritenuto la domanda cautelare posta dalla ricorrente «meritevole di positiva valutazione», disponendo «che l’Assessorato competente (Energia e servizi di pubblica utilità, retto oggi dal pm Vania Contraffatto) provveda ad indire ed a riesaminare l’istanza di rinnovo del D.R.S. n. 391 del 21 maggio 2009 (che autorizzava la realizzazione all’interno del sito della discarica di un impianto di selezione e biostabilizzazione), presentata dalla ricorrente, in sede di conferenza di servizi, acquisendo nella citata ultima sede il “dissenso costruttivo” degli enti pubblici a vario titolo interessati, entro il termine di giorni 45 dalla comunicazione o dalla notificazione a cura di parte della presente ordinanza.» La stessa ordinanza ha fissato l'udienza per la trattazione di merito del ricorso per l'8 aprile 2015.


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Ambiente/ Abruzzo

In lotta contro gli elettrodotti Comitati, ambientalisti, cittadini da anni lottano contro progetti di elettrodotti che dovrebbero attraversare la Regione di Alessio Di Florio www.peacelink.it /abruzzo Progetti accusati di devastazioni ambientali, irregolarità e rischi per la salute umana. Nella vicenda coinvolto il Primo Ministro montenegrino Milo Djukanovic, coinvolto (ma poi assolto) in inchieste delle Procure di Bari e Napoli “Battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa” disse Pier Paolo Pasolini poche ore prima di essere assassinato nell’intervista rilasciata a Furio Colombo per “Tuttolibri”. Poche parole per riassumere anni di sit-in, manifestazioni, documenti, denunce e tanto altro dei comitati abruzzesi (di cui è stato motore soprattutto il CAST, Antonella La Morgia in testa) in lotta contro due progetti di elettrodotti che dovrebbero attraversare la Regione: il “Villanova-Gissi” e il “TivatVillanova” (Tivat è una cittadina del Montenegro). Gli abruzzesi sono famosi per essere “forti e gentili”, testardi e caparbi in quel che fanno. Qualche anno fa una multinazionale affermò di aver trovato una “regione camomilla” con “zero conflittualità”. Ma fu smentita dai fatti. Il mosaico delle proteste ambientaliste e delle popolazioni che si oppongono a grandi e meno grandi infrastrutture è vastissimo. E questa mobilitazione non è da meno. La vertenza contro il “Villanova-Gissi” ha vissuto importantissimi momenti, con grandissima partecipazione dei cittadini, nel novembre scorso quando ai proprietari dei terreni sui quali dovrebbero sorgere i cantieri furono notificati gli “avvisi di espropri”.

Le irregolarità dei cantieri A partire da Atessa, i tentativi di notifica sono stati seguiti da moltissimi cittadini, mobilitati per impedire gli espropri. E, in molti casi la presenza dei cittadini (e anche di esponenti istituzionali, compreso il presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso) ha ottenuto questo risultato. Gli attivisti del CAST che le hanno seguito, hanno sostenuto che le procedure e l’avvio dei primi cantieri hanno presentato varie irregolarità (formalmente denunciate alla magistratura). Cantieri che sono recentemente tornati sotto i riflettori durante una delle perturbazioni meteo di Gennaio. Comitato No Stoccaggio S. Martino sulla Marrucina, Forum Abruzzese Movimenti per l'Acqua, CAST Comitato Ambiente Salute e Territorio, Nuovo Senso Civico, Comitato No Elettrodotto Cepagatti, Comitato No Elettrodotto Casalincontrada, Stazione Ornitologica Abruzzese ONLUS hanno documentato che alcuni dei cantieri sono letteralmente finiti sott’acqua. Scrivono in un comunicato “il Fiume Pescara ha letteralmente sommerso diversi cantieri dell'elettrodotto in provincia di Pescara e occupato aree in cui presto dovrebbero iniziare i lavori per altri sostegni. Video e fotografie raccolte sabato mattina sono inequivocabili, con scavi che sembrano diventati piscine, recinzioni divelte e strade di accesso ai cantieri che somigliano più a laghi” definendo “raggelante l'immagine relativa all'area del sostegno 15, posta a pochissimi metri dall'alveo normale del fiume e attualmente solo picchettata. Nelle immagini si vede l'apice del picchetto d'angolo sporgere di poco oltre il pelo dell'acqua, in piena corrente. Sul sito che dovrebbe ospitare il sostegno 16, non ancora realizzato grazie all'azione dei proprietari e dei cittadini che si sono opposti all'occupazione, il fiume scorreva come un torrente. Arriviamo quindi al paradosso che Terna dovrebbe ringraziare quelli che allora ha definitivo “intrusi esagitati” perché se fosse stato aperto il cantiere sarebbe stato letteralmente travolto dalle acque.

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Il cantiere del sostegno 19 era del tutto irraggiungibile, sommerso dall'acqua come la strada d'accesso. Inaccessibile, tranne per i gabbiani, che si vedono nelle foto volare attorno al cantiere!” e sottolineando che “tutto ciò è accaduto con una piena di modeste dimensioni. Inoltre quando siamo arrivati l'acqua era già iniziata a scendere, secondo quanto riportato dai residenti. Non osiamo immaginare cosa potrebbe accadere con un evento simile a quello del 1992 (che non fu neanche la più grave alluvione del Pescara mai registrata) o peggio”. “Cosa succederebbe con un'alluvione?” Secondo i comitati e movimenti gli elettrodotti in Abruzzo erano favoriti da una determina di Antonio Sorgi, superdirigente della Regione Abruzzo da anni criticato e attaccato dagli ambientalisti per atti della Commissione VIA(Valutazione d’Impatto Ambientale) che secondo loro avrebbe effetti “dirompenti”. La direttiva avrebbe permesso “di accettare questi grandi infrastrutture praticamente ovunque, addirittura teoricamente anche a Campo Imperatore nel Parco Nazionale del Gran Sasso”, zone secondo gli attivisti non escluse ma soggette soltanto ad un criterio di “repulsione” che potrebbe essere superato “in caso di necessità”. A fine novembre, dopo le prese di posizioni dei cittadini e dei movimenti, il presidente della Regione D’Alfonso ha “revocato in autotutela” questa determina. Corpose le criticità segnalate in un dossier dai comitati e movimenti, dai vizi in fase di “partecipazione della cittadinanza” (previste dalle leggi italiane e da direttive europee!) a modifiche del progetto in corso d’opera, dalla presenza di 5 “sostegni” dell’opera in siti “potenzialmente contaminati o contaminati”, dalla compresenza di altri progetti dal forte impatto ambientale (gli ambientalisti citano il progetto di stoccaggio di metano “Poggiogiorito” alla presenza di “specie faunistiche tutelate dalle direttive comunitarie” che “avrebbero dovuto portare a rivedere diversi aspetti dell'opera” fino a varie possibili irregolarità legate alle valutazioni ambientali.


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Ripercorre la vicenda (e i timori e contestazioni della popolazione) un articolato dossier del Centro Sociale Zona Ventidue di San Vito Marina. Le e i militanti di Zona22 definiscono l’opera “Un'infrastruttura tecnologica considerata (fino al 2007) strategica per il trasporto dell'energia, ma da molti osteggiata perché costosa e dall'impatto irreversibile sui territori. La pericolosità di quest'opera è data dai campi elettromagnetici che vengono considerati perfino dall'AIRC gravemente rischiosi per la salute umana. Inoltre la presenza di questa grande opera porterebbe ad un notevole deprezzamento dei terreni e delle case”. Il dossier di Zona Ventidue evidenzia il ruolo di Milo Djukanovic, Primo Ministro montenegrino “rimasto al potere per più di vent’anni” e “conosciuto in Italia per essere stato inquisito dalle procure di Bari e Napoli per contrabbando internazionale di sigarette e uscito pulito dall'inchiesta solo grazie all'immunità parlamentare”. Ricorda Zona22 che “nel 2007 Prodi e Bersani, poi nel 2010 Berlusconi e Scajola cominciano gli accordi di cooperazione commerciale con il primo ministro del Montenegro Milo Djukanovic”. Negli anni “sono in tanti dal Belpaese a varcare l'Adriatico e a mettersi in prima fila per partecipare alle trattative con il governo del Montenegro. Tra questi: A2A, Enel,Terna, Banca Intesa, Ferrovie dello Stato, Edison, Valtur, Todini. Gli accordi più interessanti sono quelli sull'energia. Il Montenegro sta procedendo a una massiccia privatizzazione delle sue aziende energetiche e la multiutility A2A coglie l'occasione prendendo il 43% della società pubblica montenegrina EPCG (Elektropriveda) con un investimento di 500 milioni di euro. Nell'acquisizione di EPCG saranno determinanti per a A2A i fondi di investimento (5%) in mano a Beselenin Barovic anche lui coinvolto nell'inchiesta sul contrabbando internazionale. In Montenegro, oltre ad A2A, che realizza quattro centrali idroelettriche, c'è possibilità anche per altri di spartirsi la torta. Terna si aggiudica la costruzione dell'elettrodotto sottomarino PescaraTivat, Enel un impianto a carbone e Duferco un termovalorizzatore.

“Nulla di pubblico o in rete”

Il progetto “Srednja Drina” È chiaro il progetto a cui le imprese italiane lavorano: costruire impianti per la produzione di energia pulita, trasportarla in Italia attraverso il cavo sottomarino, e distribuirla sul territorio nazionale costruendo nuovi elettrodotti”. Vari sono gli aspetti legati direttamente alla costruzione dell’elettrodotto Tivat-Villanova. Si legge infatti nel dossier “l'elettrodotto sottomarino di Terna, non trasporterà solo l'energia del Montenegro ma anche quella della Serbia e della Bosnia Erzegovina. In Serbia Scajola nel 2009 prende l'impegno, a nome del governo, di acquistare per 15 anni energia verde e di costruire tredici centrali idroelettriche. Il prezzo concordato è di 150 euro a megawattora, più del triplo rispetto al prezzo di mercato serbo. Più del doppio di quello italiano. Il 7 giugno 2011 l'Italia conclude un accordo con la Republika Srpska (una delle due entità politiche che in base agli accordi di Dayton compongono la Bosnia Erzegovina) per la costruzione di tre dighe sul medio corso della Drina. Un investimento di 830 milioni di euro. Nel progetto “Srednja Drina” viene coinvolta anche la Serbia, che il 25 ottobre 2011, attraverso la più grande compagnia elettrica nazionale (EPS) firma un accordo per la costituzione di una joint venture con Seci Energia del gruppo Maccaferri (che controllerà il 51% della società), per la costruzione di dieci centrali idroelettriche sul fiume Ibar. L'energia prodotta dai fiumi Ibar e Drina verrà mandata verso il Montenegro e poi trasferita in Italia da Tivat a Pescara con un cavo Terna, la cui costruzione è prevista per il 2015, con un costo di 860 milioni di euro. Nel rapporto 2012 la rete CEE Bankwatch riscontra irregolarità nel progetto: l'accordo tra Serbia e Italia sarebbe stato fatto senza gara d'appalto, e Seci Energia non ha alcun tipo di esperienza nella costruzione di centrali idroelettriche. Perplessità anche sull'impatto ambientale delle opere perché l'energia proveniente dalle centrali sulla Drina e sull'Ibar dovrà attraversare il territorio di due parchi nazionali (Lovcen e Durmitor) e una riserva naturale protetta dalla convenzione Natura 2000. Il punto di partenza della linea di trasmissione si trova nei pressi di una centrale a carbone e c'è il pericolo che all'interno del cavo marino di Terna possa passare anche energia non pulita”.

Il Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua Pubblica e i Comitati Abruzzesi No Elettrodotto focalizzano l’attenzione sulla trasparenza e sul ruolo degli enti locali. Augusto De Sanctis del Forum confronta quanto accaduto con l’elettrodotto Tivat-Villanova alle procedure adottate per l’interconnessione Belgio-FranciaInghilterra e il Western Link in Scozia. In entrambi i casi la trasparenza è stata totale e la partecipazione facilitata, con siti web dove si può scaricare ogni documento e dettaglio delle due opere. Per il cavo che dal Montenegro giungerà in Abruzzo “il confronto è impietoso” scrive De Sanctis. “Il comune di Pescara, a Decreto di Autorizzazione concesso dal Ministero dello Sviluppo nel 2011, ammette di non avere il progetto esecutivo. Terna, qualche anno fa, dedica una paginetta del suo sito per rispondere ad alcune critiche arrivate dai cittadini”. “Per avere la documentazione, precisa - devo supplicare gli enti e partecipare a 5-6 assemblee di cittadini dove l’unico Comune che sta cercando di informarli, S. Giovanni Teatino, mi fa vedere la mappa ufficiale che hanno loro sul percorso, uno schizzo dove a malapena si capisce dove passa l’opera. Nulla è pubblico e scaricabile online, tranne il decreto autorizzativo (ci mancherebbe!) dove però non sono consultabili mappe, dettagli costruttivi ecc. Manca... il progetto!”. “Nessuno contesterà”, dice il Comune... Durissimo il giudizio del Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua e dei Comitati anche sul ruolo di alcuni enti locali che, accusano in un comunicato del 5 febbraio, “per qualche euro hanno addirittura firmato accordi in cui si prevede che il Comune si impegna ad intervenire attivamente per cercare di prevenire e dirimere ogni conflitto ambientale, territoriale e sociale dovesse sorgere. Praticamente il comune, per conto di una S.P.A. che oggi ha capitali cinesi, si impegna a mettere la sordina all'opinione pubblica! Addirittura il Comune di Pescara si impegna a restituire le somme ottenute, perline colorate rispetto ai profitti giganteschi di miliardi di euro che l'opera muove, se il cavo non dovesse essere realizzato per, testuale nell'accordo, l'insorgere di conflitti sociali! Un ente si impegna a rispondere per le azioni dei suoi cittadini, cioè di terzi. Quindi gli enti locali devono solo sperare e auspicare che i loro cittadini stiano zitti. Tutto ciò si può leggere nell'accordo TERNA-Comune di Pescara”.

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Ambiente/ Il NoPua

Il cemento, i soldi e il nostro mare Catania. Gli affari di Ciancio o la salvezza della più bella spiaggia cittadina? Una battaglia della società civile

Nell’integrazione si espone che per i consiglieri si “potrebbe configurare l’ipotesi di reato di cui all’art. 323 c.p.” (abuso d’ufficio) e si chiede inoltre alla Procura: “di voler acquisire tutta la documentazione necessaria relativa al PUA e alla delibera consiliare citata”. Il boicotteggio dell'Amministrazione

di Giolì Vindigni www.vedisito.it Per il Comitato No Pua e per gli altri sogetti che lo sostengono è stato un periodo molto intenso. Abbiamo organizzato una protesta all’interno del Consiglio Comunale in occasione della discussione sulla delibera presentata dall’amministrazione che verteva su due punti: 1. la richiesta della ditta Palaghiaccio (struttura realizzata alla plaia con fondi del Patto territoriale Catania sud, di cui il P.u.a. è la prosecuzione) di cambiare la destinazione d’uso da struttura sportiva in centro commerciale; 2. la volontà espressa dall’amministrazione di volersi conformare al parere e alle indicazioni espresse dal C.r.u. (consiglio regionale urbanistica) sul P.u.a. In realtà la delibera è stata usata da una maggioranza trasversale di consiglieri come “cavallo di Troia” per stravolgere in maniera inusuale ed al di fuori di qualsiasi prassi, il parere del C.r.u. e salvaguardare, tanto per cambiare, gli interessi di Mario Ciancio (intaccati dalle indicazioni riportate nel parere del massimo organismo in materia urbanistica della nostra Regione). Su questo ultimo atto del Consiglio Comunale, il Comitato ha consegnato alla Procura un’integrazione all’esposto presentato alcuni mesi fa che si basava sulle motivazioni della sentenza che condanna in primo grado Raffaele Lombardo per concorso esterno in associazione mafiosa.

La nostra azione non si è limitata alla protesta ed alla denuncia. Il Comitato, insieme ad altre venti associazioni e comitati civici, ha richiesto alla Presidenza del Consiglio Comunale e p.c. al Sindaco, di rendere disponibile l’aula consiliare di Palazzo degli Elefanti per un pubblico confronto sul P.U.A. e più in generale sull’idea di sviluppo del nostro territorio e della nostra comunità. La risposta della Presidente del consesso Raciti, arrivata dopo quasi un mese, si è limitata all’invio di un tariffario per la concessione dell’aula consiliare, senza prendere in considerazione lo Statuto comunale che al titolo IV reca i principi per incentivare la partecipazione democratica dei cittadini sulle scelte amministrative. Tariffario che, inoltre, prevede tariffe inaccessibili per chi autofinanzia tutte le attività che svolge. L’Amministrazione non è intervenuta, palesando la volontà di sottrarsi al confronto con una parte significativa della città su temi che riguardano la destinazione del territorio.

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L'assemblea popolare Il Comitato comunque è andato avanti ed ha organizzato insieme a tutte le associazioni ed ai comitati civici che hanno sottoscritto la richiesta dell’aula consiliare, un’assemblea pubblica nei locali dell’Orto Botanico, concessi gratuitamente per l’occasione. Il Convegno ha avuto un’enorme presenza di pubblico. I relatori hanno raccontato la storia di quindici anni di P.u.a. dal punto di vista storico, tecnico, legale; hanno raccontato gli interessi che stanno dietro al progetto e hanno illustrato un’altra idea di sviluppo che valorizzi l’esistente senza devastare il territorio. Durante il dibattito sono intervenuti i rappresentanti di Arci, Legambiente, Libera, delle associazioni locali (Catania Bene Comune, CittàInsieme, Gapa, La Città Felice, Opera Aperta), dei comitati civici (comitato Antico Corso, comitato Centro storico, comitato Popolare Experia, comitato Porto del Sole), delle redazioni dei “Siciliani Giovani”, dei “Cordai” e dei Partiti che hanno sostenuto il Comitato (Azione Civile, movimento Cinque Stelle, Rifondazione Comunista, Sel). L’assemblea prevedeva anche la partecipazione dell’assessore all’urbanistica Di Salvo, della Presidente del consiglio comunale, dei sindacati confederati, che hanno rifiutato il confronto e declinato l’invito. Il Forum sul territorio L’assemblea si è chiusa con la costituzione di un “Forum sul territorio” che ha subito iniziato a lavorare sulla variante del centro storico. Variante che interessa una vasta zona che va da San Cristoforo a San Giovanni Galermo e che ci ri promettiamo di raccontarvi prossimamente.


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, memoria a fumetti della resistenza Durante le manifestazioni di Gezi Park ad Istanbul i turchi cantavano "Bella Ciao". I manifestanti di Parigi di Place de la Republique cantavano "Bella Ciao". Ai funerali dei vignettisti Charb e Tignous si e' suonato e cantato Bella Ciao. Dopo la vittoria di Tsipras la piazza ha cantato Bella Ciao. In Italia qualcuno prova a disegnare "Bella Ciao": a settanta anni esatti della Liberazione dal nazifascismo, una trentina di scrittori e fumettisti hanno voluto raccontare e illustrare dal loro personale punto di vista piccole e grandi storie, che spaziano dal sud al nord dell'Italia, per ricordare l'evento in modo non retorico, onesto ed originale. Una raccolta intitolata "Festa d'Aprile", ispirandosi al titolo della nota canzone scritta e musicata da Sergio Liberovici e Franco Antonicelli, presentata in anteprima su questo numero de "I Siciliani Giovani". Le singole storie raccolte su "Festa d'Aprile" andranno a comporre una immagine corale, unica e contemporanea, come le tessere di un ideale mosaico che raffigura uno degli episodi fondamentali della storia moderna di questo paese: la resistenza al nazifascismo, che non è stata

solo resistenza armata, ma anche resistenza popolare, non armata, nonviolenta. Nel "Rapporto politico della Direzione per l'Italia occupata" datato 12 marzo 1945 e pubblicato dal Partito comunista italiano, si legge infatti che "l'insurrezione nazionale in marcia si è polarizzata da una parte nella lotta armata e dall'altra nella lotta rivendicativa popolare che si è manifestata in scioperi, in manifestazioni di strada, in sabotaggi collettivi e individuali. Sono queste due forme di lotta, combinate e fuse in un tutto unico, che hanno scardinato lo Stato fascista, infranto i suoi piani, fatto fallire ogni sua iniziativa, scavato un abisso incolmabile tra nazifascismo e popolo italiano". E il linguaggio del fumetto è forse il più adatto ad illustrare quella "lotta rivendicativa popolare" fatta anche di piccoli episodi sconosciuti o ritenuti minori, che restituiscono nella sua ricchezza uno dei pochi momenti in cui gli italiani hanno espresso la volontà comune di mettere fine ad un periodo di barbarie e violenze inaudite, per ripartire da un nuovo concetto dello stare insieme e da un nuovo patto di convivenza civile per ricostruire sulle macerie della guerra.

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Ripercorrendo idealmente il percorso fatto dalla Liberazione e dai movimenti resistenziali da Sud a Nord, le storie si dipanano lungo lo stivale e si concludono con la liberazione di tutta l'Italia e con la fine delle ostilità in Europa, in un racconto a più voci che è anche un percorso di viaggio e riflessione sulle influenze e i riflessi avuti da quegli eventi nella nostra attualità contemporanea. Storie che gli autori hanno definito "partigiane", perché ne condividono l'essenza e ritengono giuste e sacrosante quelle scelte di lotta e di resistenza per la libertà e per la pace fatte settanta anni fa, e con questi racconti vogliono poter trasferire ai giovani testimonianze positive, per riaffermare con forza quei valori universali di Libertà e di Dignità umana che più volte ancora oggi sono mortificati, calpestati e disattesi in più parti del mondo. Quelle che trovate in anteprima su questo numero de "I Siciliani giovani" sono tavole di due autori palermitani che hanno partecipato al progetto, il "giovane" Giuseppe Lo Bocchiaro e il "veterano" Gianni Allegra, che ha contribuito con le sue illustrazioni all'avventura editoriale dei "Siciliani" di Pippo Fava. Per la pubblicazione integrale l'appuntamento e' a primavera.


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MANUALE LIBERTARIO CONTRO UN PARTITO AUTORITARIO Contro il cancro del potere politico, niente di peggio di una medicina sbagliata. Per scoprire come mai non funziona ecco a voi vignette e racconti sul comico piĂš potente d'Italia e il suo partito privato, messi a nudo dalle matite spietate di Alessio Spataro e dalle cronache impietose di Carlo Gubitosa. Satira politicamente scorretta e dossieraggio ai limiti dello stalking illuminano il lato oscuro del Movimento Cinque Stelle, fatto di contraddizioni, autoritarismo, xenofobia, propaganda e amplessi contronatura tra giornalismo e politica.

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Palestina

Lo sguardo di Shadi Foto di Shadi Alanzen, Mom em Faiz, Youser Arar.

Scene di vita quotidiana da un angolo del pianeta Terra di Fabio Michele D'Urso Shadi Alanzen, ventidue anni, cittadino di Gaza, ha un sogno: raccontare al mondo la vita a Gaza, i ragazzini, i bambini, la sopravvivenza quotidiana dopo la violenza che la sua terra ha subito questa estate. Shadi vuol raccontare con i suoi occhi e suoi scatti la resistenza del suo popolo. Il suo sogno è lo stesso dei ragazzi della sua età. E' la resistenza civile sua e dei palestinesi giovani come lui, che ha quello stesso strumento non violento: una macchina fotografica. Shadi ci aveva mandato delle foto alcuni mesi fa. Poi, subito dopo era andato a fotografare Jabalia, un territorio a nord del mare. Lì, mentre fotografa l'esercito israeliano viene colpito da gas emesso in una normale giornata di repressione. Niente di che, sembrava, una normale infiammazione che normalmente si poteva rivolvere con una convalescenza di un paio di giorni. Tre, quattro, un paio di settimane: ma sono ottanta giorni che é malato e non ci vede bene, e non sa che gas hanno usato su di lui. Alcuni volontari lo avevano portano all' ospedale, per una prima cura, poi é stato dimesso.

Le macerie recenti Qualche settimana dopo era già in viaggio, cercando di attraversare il valico che porta all'Egitto e da lì oganizzarsi. Ma dal valico di Rafah non si può passare, e Shadi torna indietro. Cammina a piedi per una cinquantina di chilometri fino ad arrivare a casa sua. E nel frattempo l'infiammazione ad uno dei suoi occhi comincia a diventare un incidente che cambirà la sua vita. Passano così questi ottanta giorni, e Shadi fa i primi due interventi al centro oftalmico dell'ospedale di Gaza. I medici gli fanno presente che dovrà farne almeno altri sei, di questi piccoli interventi, ma mancano perfino i medicinali piú basici: forse sarebbe meglio spostarsi in un altro ospedale. Shadi comincia così a chiedere aiuto: "C'è qualcuno che può farmi curare, fuori dal mio paese, con una situazione traumatica come la mia? Potrei avere un permesso una volta aperto anche per un solo giorno il valico per Rafah". Nel frattempo la vita a Gaza trascorre con una infelice quotidianità, e i bambini che lui vorrebbe filmare per un documentario vivono la normalità delle macerie. Ci sono macerie strutturali, come le scuole e gli ospedali fatiscenti o le case con le pareti aperte, e ce ne sono altre recenti, ferite nuove, profonde e laceranti. E resistenza e depressione, voglia di vivere e desiderio di resa viaggiano attraverso le immagini che lui ha voluto fotografare. A sinistra: soldati della forza d'occupazione israeliana. In alto: Shadi Alanzen con la bandiera palestinese, e ancora Shadi dopo l'incidente. Nella pagina a fianco: bambini di Gaza, e una volontaria italiana a Gaza.

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“Nel frattempo la vita a Gaza trascorre con una infelice quotidianità, e i bambini che lui vorrebbe filmare per un documentario vivono la normalità delle macerie. Ci sono macerie strutturali, come le scuole e gli ospedali fatiscenti o le case con le pareti aperte, e ce ne sono altre recenti, ferite nuove, profonde e laceranti”

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puoi richiedere i volumi su www.mamma.am/libri rokuro aKu

g autor d scaricabi e

no alla guerra, the Holy Bile no al nucleare

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n libro per scoprire che non esiste un “nucleare civile” senza applicazioni militari derivate, non esiste “energia atomica pulita” senza rischi inaccettabili, non esistono “armi sicure” all’uranio impoverito senza vittime di guerra. Il figlio di una sopravvissuta alle radiazioni di Nagasaki ha trasformato in una appassionata denuncia a fumetti la cronaca degli incidenti alle centrali nucleari giapponesi e statunitensi, che sono stati nascosti da un velo di silenzio. Nana Kobato, studentessa delle medie, si affaccia sul “lato oscuro del nucleare”, e scopre i pericoli delle centrali atomiche, gli effetti dei proiettili all’uranio impoverito, le devastazioni ambientali che uccidono adulti e bambini. In un racconto a fumetti chiaro e documentato, Rokuro haku descrive gli effetti delle guerre moderne sull’uomo e sull’ambiente, e mette a nudo i poteri occulti che sostengono l’energia nucleare.

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mP

nicola.

r–esistenza precaria

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KaNJaNo & car o gubi osa

La mia terra la difendo

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l libro degli autori di ScaricaBile, il “pdf satirico di cattivo gusto” che ha ridefinito su internet la soglia dell’indecenza con 32 numeri di puro genio e follia, centinaia di pagine maleducate, migliaia di lettori incoscienti. Da oggi lo spirito del magazine più scorretto d’Italia rivive nel libro “The holy Bile”, una raccolta differenziata di scritti e fumetti inediti su qualunquismo, castità, religione e sondini terapeutici. Un concentrato purissimo di anticlericalismo, blasfemia, coprofagia, incesto, morte, pedofilia, prostituzione, sessismo, sodomia, violenza e volgarità gratuite. In breve, uno specchio perfetto dell’Italia moderna, per chi non ha paura di guardare in faccia la realtà con le lenti deformanti della satira. Testi e disegni di Daniele Fabbri, Pietro Errante, Jonathan Grass, Tabagista, MelissaP2,Vladimir Stepanovic Bakunin, Eddie Settembrini, Blicero, G., Ste, Perrotta, Marco Tonus, Mario Gaudio, Flaviano Armentaro, Maurizio Boscarol, Mario Natangelo, Alessio Spataro, Andy Ventura.

erti fumetti non possono farli i radical chic col culo parato o gli intellettuali da salotto. Ci voleva un lavoratore emigrato come Marco “MP” Pinna, che si è bruciato due settimane di ferie per partorire la saga di Nicola, l’antieroe in tuta blu del terzo millennio. Un mondo precario dove Nicola lotta per salvare la sua fabbrica dalla chiusura, e scopre i trucchi più loschi con cui i padroni fregano le classi medio–basse. Più spericolato di Batman, più sfigato di Fantozzi, più ribelle di Spartacus e più solo di Ulisse: Nicola è il simbolo della nostra voglia di resistere alle ingiustizie. Contro di lui un padrone senza scrupoli e una famiglia senza vergogna, incarognita dalle mode più devastanti del momento. Uno spietato “reality show” a fumetti, un micromanuale di economia finanziaria, un prontuario di autodifesa sindacale ma soprattutto lo sfogo di satira rabbiosa di un “artista–operaio”. Ottanta pagine di sopravvivenza proletaria: astenersi perditempo.

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ISBN 9788897194002

ISBN 9788897194026

ISBN 9788897194019

ISBN 9788897194033

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a storia di Giuseppe Gatì, 22 anni, pastore per vocazione, produttore di formaggi per mestiere, attivista antimafia per passione. Il suo volto è salito agli onori delle cronache nel dicembre 2008 per la contestazione al “pregiudicato Vittorio Sgarbi”, che ha scosso la città di Agrigento al grido di “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!” Con l’aiuto degli amici e dei familiari di Giuseppe, Gubi e Kanjano hanno scoperto gli scritti, le esperienze e il grande amore per la terra di Sicilia di questo ragazzo, che ha lasciato una eredità culturale preziosa prima di morire a 22 anni per un banale incidente sul lavoro. Un racconto a fumetti che non cede alle tentazioni del sentimentalismo e della commemorazione, per restituire al lettore tutta la bellezza di una intensa storia di vita.


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ISLAM

Viaggio all’interno della Moschea di Catania

Collettivo Scatto Sociale I Sicilianigiovani – pag. 57


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ISLAM / Viaggio all’interno della Moschea di Catania

Collettivo Scatto Sociale www.scattosociale.it Assalham Allekum. “La Pace sia con voi”. “Crediamo nell’unicità del nostro Dio, nel nostro Profeta, nella Giustizia e nella pace. L’Islam è portatore di una grande civiltà e ha dato la possibilità a chiunque di fare del bene. Non abbiamo nessuna colpa e i media vogliono attribuirci un’immagine distorta di quanto accade a migliaia di chilometri di distanza da noi, per mano di terroristi e ISIS. Dobbiamo stare attenti a ciò che ci circonda.” Le parole dell’Imam Kheit Abdelhafid risuonano ancora come un’eco non ancora dissolta, interrotta soltanto dal brusio dei fedeli che hanno ascoltato in silenzio osservando la preghiera del venerdì. Così scopriamo il vero volto dell’Islam, con il suo messaggio di pace e fratellanza che troppo spesso oggi viene disatteso e manipolato per giustificare dell’azioni violente che mirano alla creazione di un regime intollerante. Entriamo a piedi scalzi, sorrisi e strette di mani ci accolgono. Da un ingresso più piccolo le donne e i bambini accedono alla Moschea. La luce che filtra illumina i volti in preghiera, seguita attraverso uno schermo televisivo che trasmette l’immagine fissa sul pulpito. Una di loro si alza e ci viene incontro, è siciliana, da poco convertita alla religione islamica. È attratta da questo mondo dove le donne “sono trattate come tesori preziosi”, ed è così che il marito la fa sentire, unica e rara. Il nostro sguardo è catturato dalla figura esile di una ragazzina. Veste come tutte le ragazze di oggi e in pochi gesti si trasforma indossando una tunica colorata e un foulard, che avvolge il suo viso facendo risaltare i grandi occhi azzurri. Ci dice: “ho visto un video su youtube, sono rimasta colpita dalle parole dette ed ho cercato subito una Moschea quanto più vicina possibile. Mi sono presentata e mi hanno subito

accolta, ancora sono all’inizio del mio percorso ma sono sempre più coinvolta dalla spiritualità di questo mondo”. I musulmani “catanesi” sono integrati nel tessuto sociale della nostra città. Svolgono lavori di ogni genere, spesso con diritti non riconosciuti, scendendo a compromessi con una

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città che vive in un’illegalità diffusa. La “Moschea della Misericordia” di Catania, inaugurata nel Dicembre 2012, è la più grande del Meridione e si pone come punto di riferimento per oltre ventimila fedeli nella sola provincia di Catania ed oltre settantamila in tutta la Regione.


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Memoria

L'identità di una strage “La strage di Natale”, documentario di Martino Lombezzi insieme all'Associazione Familiari delle vittime sulla Strage del Rapido 904: per realizzarlo, è stata lanciata una campagna di crowdfunding di Diego Ottaviano www.diecieventicinque.it Dialogare l’identità di una strage. Guardare dentro un ricordo. Scoprire in esso uno sguardo forte, di esperienza, di vita. Rievocare memorie di un passato mai troppo lontano. Ricostruire attimi con le parole degli occhi. Ridisegnare certi pensieri con le fotografie della mente. Documentare il linguaggio di un treno. Un treno che porta al Natale, che viaggia verso Milano. Un rapido, il 904, che la sera del 23 dicembre 1984 è fermato dalla vigliaccheria sorda di un atto stragista e di una bomba fatta esplodere nel buio della Grande galleria dell’Appennino. Raccogliere il coraggio. Prendere una macchina da presa. Rompere il silenzio di un ennesimo episodio italiano, poco conosciuto, poco raccontato e ancor troppo violento per eser taciuto. E’ con questo intento che Martino Lombezzi, documentarista e storico con-

Riunire e ricostruire

temporaneo, lavora alla creazione del progetto ‘La Strage di Natale’. Lo scopo è la realizzazione di un documentario per descrivere le emozioni, per mostrare la paura e per raccontare la rabbia di chi ha vissuto la cruda esperienza di una strage. Cinquanta minuti di storia Un progetto racchiuso in una pellicola di cinquanta minuti circa. Un film che dà spazio e voce alla testimonianza dei sopravvissuti. Racconti di persone comuni dal diverso dialetto e raggruppate dalla stessa bandiera. Donne e uomini che nel film condividono il ricordo di un attentato, ne descrivono il vissuto e il successivo percorso di riabilitazione, fisica, e psichica. Emozioni contrastanti. Esperienze traumatiche che alcuni di loro raccontano per la prima volta dopo trent’anni. A queste emozioni e a questi ricordi, il film affianca materiale video dell’epoca. Filmati che contribuiscono e sostengono le parole dei testimoni e che mostrano il crudo teatro offerto dalla cronaca di quegli attimi. Sono questi racconti e queste immagini che danno origine a un percorso emotivo rappresentato da un lavoro di spessore e dignità, che nella memoria trova il mezzo per ricostruire una pagina importante della nostra storia.

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Martino Lombezzi, assieme all’Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage sul Treno Rapido 904, all’associazione Zona e all’associazione culturale YarT Photography, lavora per riunire e ricostruire quegli eventi. Gli autori lavorano per commemorare il loro trentennale e per cogliere un’opportunità rara: fermarsi, pensare e riflettere. Un dovere per noi, per l’Italia, per tutti. Quello di Martino Lombezzi e delle tre associazioni è un progetto che contribuisce ad approfondire un periodo recente della storia del nostro Paese. Un periodo spesso dimenticato, raramente studiato e a volte sconosciuto. E’ in questo passaggio e in questo tralasciare che 2La Strage di Natale” diviene essenziale nel suo sviluppo e nella sua riuscita. Per la totale attuazione è, però, necessaria la raccolta di un importo pari a 9000 euro. Perciò, per sostenere il progetto, le tre associazioni e Martino Lombezzi hanno lanciato una campagna di raccolta fondi attraverso un'azione di crowd funding, ospitata dalla piattaforma online “Produzioni dal basso”. La campagna di raccolta fondi è molto più di una semplice richiesta d’aiuto. E' un’opportunità, un’occasione offerta dagli autori per contribuire al dialogo, alla riflessione e alla conoscenza di tale pagina della nostra storia. Tutti possiamo aiutare e in modo diverso: un passaparola, una donazione, parlarne con insegnanti e amici. Il nostro aiuto per dialogare insieme l’identità di una strage.


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Storia

L'antimafia sociale in Sicilia Il patto fra politici e latifondisti nella Sicilia dell'Ottocento. Un mondo ferocemente diviso fra milioni di disperati e pochissimi abbienti, di cui il braccio armato era la mafia di Elio Camilleri L’antimafia sociale, cioè la vera antimafia, la sola antimafia, quella che fin dall’inizio combattè contro la mafiamafia cioè la vera mafia, nacque quando aristocratici, gabelloti, sovrastanti, campieri strinsero un patto con la stragrande maggioranza dei parlamentari siciliani: ciò avvenne intorno al 1876 con l’avvento della sinistra di Depretis e la definitiva alleanza tra le classi dominanti del sud con quelle dominanti nel nord. In Sicilia ciò significò l’abbandono di una qualsiasi riforma agraria e del proposito, espresso anche da Garibaldi, di distribuire ai contadini le terre demaniali, ecclesiastiche e quelle mal coltivate del latifondo aristocratico.

Non era stata lotta alla mafia quella condotta dal buon Malusardi –prefetto di Palermo in quegli anni- perché, dopo aver perseguitato ladri, briganti e assassini, si stava accingendo a colpire malfattori “con i colletti bianchi”, e perciò fu prontamente sollevato dall’incarico e allontanato dalla Sicilia. I Fasci dei lavoratori Si può dire che la prima manifestazione dell’antimafia sociale fu rappresentata dai Fasci dei lavoratori, che tra l'estate del 1892 e l’autunno del 1893 si costituirono in numerosi comuni; ad essi accedevano contadini, braccianti, artigiani, proletari urbani, donne, a prescindere da appartenenze ideologiche, politiche o religiose: vi parteciparono infatti socialisti, cattolici, democratici, mazziniani, garibaldini, repubblicani. Tutte le richieste erano considerate legittime, se finalizzate al raggiungimento di una giustizia sociale. Il Fascio si compone di operai d'ogni arte e mestiere, di ambo i sessi e d'ogni età, purché provino di vivere “col frutto del proprio lavoro e alla dipendenza dei padroni capitalisti, ecc. Non è considerato operaio colui che ha sotto la sua dipendenza uno o più lavoratori” (dall’Art 4 dello statuto del Fascio di Catania, 1891).

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“Il più grande dopo la Comune” “I Fasci dei lavoratori costituirono il più grande episodio di mobilitazione progressista dei ceti popolari evidenziatosi nell’Europa del XIX secolo dopo la Comune di Parigi” (Giuseppe Carlo Marino, Storia della mafia, Roma, Newton Compton, 2006) Se è vero questo, risulta alquanto complicato stabilire quale fu il carattere ideologico più significativo del movimento. In verità ci fu una certa sufficienza nel considerare il valore politico dei Fasci siciliani. Certi esponenti del riformismo e poi lo stesso Salvemini non espressero un giudizio positivo; in ogni caso ci furono forti resistenze a adottarlo come movimento d’ispirazione socialista, nonostante la piena e convinta adesione al socialismo dei più autorevoli esponenti dei Fasci, come Bernardino Verro, Cammareri Scurti, De Felice Giuffrida, Garibaldi Bosco, Petrina, Alongi, ecc. Uno slancio civile “Essi (i Fasci) furono espressione di quello slancio civile che talvolta si afferma, nei popoli come negli individui, sotto la spinta morale, e in linea di massima aideologica, del rifiuto dell’oppressione e della prevaricazione”. (Marino, ibidem).


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“Il Panepinto, il Verro, l’Alongi e decine di altri dirigenti di base caddero sotto il fuoco della reazione per mano della mafia”

Lo stato d'assedio di Crispi Contro tutta questa gente il siciliano Francesco Crispi, capo del governo, proclamò lo stato d’assedio e lanciò la repressione militare e giudiziaria. Se quella dei Fasci siciliani fu la prima vera lotta alla mafia si capisce bene dove, fin da allora, essa puntasse: a Roma, al Governo, al potere. L’antimafia sociale riprese vigore dopo qualche anno, dal 1906 in piena età giolittiana, con la lotta per le “affittanze collettive”. Si trattava di stipulare dei contratti di affitto dei terreni direttamente con i proprietari del latifondo saltando l’intermediazione parassitaria dei gabelloti. Da qui il tentativo mafioso di limitare quanto più possibile la stipula di tali patti limitandone l’applicazione a terre demaniali o poco fertili. Naturalmente, nel regno della mafia ben tollerato da Giolitti non mancò la repressione mafiosa: Bernardino Verro, Lorenzo Panepinto e tanti altri caddero sotto il fuoco dei gabelloti e dei loro padrini politici.

“Il Panepinto, il Verro, l’Alongi e decine di altri oscuri dirigenti di base caddero, così, uno dopo l’altro, sotto il fuoco assassino della reazione, per mano della mafia, altro aspetto del loro destino, che offrì un alibi alla incomprensibile ed ingiustificata distrazione del socialismo italiano. Eppure quegli uomini seppero riscattare l’onore e il ruolo del Partito socialista, promovendo in Sicilia un autentico movimento unitario di classe”. (Francesco Renda, Storia della Sicilia, Laterza, Bari,1999). Il sistema delle “affittanze collettive” fu il risultato di un’importante evoluzione del movimento cattolico: Luigi Sturzo applicò in pieno i principi della Rerum novarum e li amplificò: “Ponendosi nell’ottica di organizzatore dell’affittanza Sturzo assumeva un linguaggio radicale, non dissimile, almeno nella denuncia, da quello dei suoi concorrenti socialisti. Per gli uni e per gli altri l’antagonista reale era il gabelloto intermediario.”. (Rosario Mangiameli, Officine della nuova politica, Cooperative e cooperatori in Sicilia tra Ottocento e Novecento, Catania, C.U.E.C.M., 2000).

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Il sindacalista cattolico Sturzo passò quindi dalla visione interclassista che ispirava l’enciclica leonina, ad una nuova concezione classista della lotta contadina, ammettendo finalmente lo sciopero come forma di lotta: “Nacque il sindacalismo di classe cattolico italiano e Sturzo ne fu, oltre che il teorico anche il promotore, anche perché egli affrontò e sciolse l’altro nodo essenziale e discriminante per la concezione sindacale cattolica: la liceità del ricorso allo sciopero”. (Renda, ibidem) Risultò, inoltre, essenziale, per il successo delle “affittanze” il flusso costante delle rimesse in dollari degli emigranti siciliani. Questo vero e proprio fiume d’oro servì per aderire al progetto di lottizzazione del fondo, per onorare i mutui accesi con le casse rurali. Servì, certamente, per migliorare le condizioni di vita materiali di centinaia di migliaia di siciliani, ma servì anche per finanziare l’industria del Nord e, in definitiva, per accentuare le differenze tra la Sicilia e le regioni settentrionali.


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Sicilia

Un'avventura di Mario Ciancio A “Repubblica” è in corso un'inchiesta su un certo scempio edilizio in quel di Taormina. Al cronista arriva una telefonata... di Luciano Mirone www.linformazione.eu Un giorno mi telefonò l’uomo più potente di Sicilia, il dottor Mario Ciancio in persona, colui che da editore dell’unico quotidiano della provincia di Catania, era riuscito a diventare nientemeno che presidente nazionale della Federazione degli editori giornali, predecessore addirittura di Luca Cordero di Montezemolo. Amico di presidenti della Repubblica, di presidenti del Consiglio, di ministri, di sottosegretari, di presidenti di Regione, di sindaci, di prefetti, di questori, ma anche di boss, al punto da essere incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa; proprietario di terreni agricoli trasformati in immensi centri commerciali; unica persona della Sicilia orientale in grado di dare o di negare visibilità a un politico, quindi l’unica persona in grado di orientare il voto di migliaia di elettori. Ma se quel politico si chiamava Claudio Fava ed era stato il primo degli eletti in Sicilia, e magari denunciava la mafia e i guasti dell’informazione catanese ed era pure colpevole di essere il figlio di un giornalista ucciso dalla mafia, ecco, quel politico doveva essere assolutamente ignorato. Mario Ciancio era fatto così: aveva una particolare idiosincrasia per le persone con la schiena dritta. L’esperienza con Nino Milazzo gli aveva fatto capire che bisogna sempre diffidare dei giornalisti liberi.

Alla fine degli anni Ottanta, mentre Nino Milazzo era a Milano a fare il vice direttore del Corriere della Sera, Mario Ciancio lo chiamò per fargli dirigere La Sicilia: “Fallo per un atto d’amore verso la nostra città”. Più che un atto d’amore, quella di Ciancio era l’esigenza di rilanciare l’immagine del suo giornale, andata in frantumi dopo i depistaggi sui delitti Dalla Chiesa e Fava. Milazzo interruppe la carriera al Corriere, si trasferì in Sicilia ma fu cacciato pochi mesi dopo perché si era messo in testa di denunciare Santapaola, e i Cavalieri del lavoro, e i comitati d’affare, e questo a Ciancio non stava bene. Stesso destino capitò, molti anni dopo, a una dozzina di cronisti dell’emittente Telecolor che Ciancio aveva acquistato da poco, cronisti con il brutto vizio della verità. A casa anche loro. Come a Varsavia ai tempi del comunismo. Un potere, quello dell’editore catanese, consolidatosi anche oltre Stretto grazie all’acquisto di quote azionarie di giornali e di tivù commerciali, un potere che scaturiva da un grande fiuto per gli affari, da un attaccamento al lavoro e, secondo le voci più maliziose, dall’appartenenza alla massoneria, ma su questo, onestamente, non ci sono le prove. Il mega-albergo abusivo Per Repubblica, allora, mi stavo occupando dello scempio edilizio che – malgrado i rigidi vincoli paesaggistici – si stava perpetuando nella zona di Taormina. Per caso incappai in un mega-albergo che l’editore catanese stava costruendo abusivamente in un luogo bellissimo, considerato inedificabile dal piano regolatore. Dunque quel giorno mi arrivò questa telefonata di Mario Ciancio, il quale mi spiegava “bonariamente” che era cosabuona-e-giusta la realizzazione di questo albergo in un posto dove, se un cittadino comune modificava un balconcino, subiva delle pesanti sanzioni, ma se una irregolarità molto più grave la commetteva l’uomo più potente dell’isola, si dovevano chiudere gli occhi.

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Il Gruppo De Benedetti Solo-un-cretino-come-me-può-darelavoro-a-tanti-padri-di-famiglia.-Ce-nefossero-di-cretini-così.-Risolveremmo-ilproblema-della-disoccupazione! Il Consiglio di giustizia amministrativa di Palermo, accogliendo i ricorsi di cittadini e albergatori che si ritenevano danneggiati da quella costruzione, aveva sospeso i lavori e Ciancio era incazzato perché ci stava rimettendo un sacco di soldi. Il problema è che il Cga si era pronunciato nello stesso giorno in cui Repubblica aveva pubblicato la prima puntata della mia inchiesta, con tanto di foto della costruzione abusiva. Chi poteva levare dalla testa di Mario Ciancio che si trattava di una semplice coincidenza? In ogni caso, anche se la sentenza e l’articolo non fossero usciti in contemporanea, Mario Ciancio si sarebbe incazzato lo stesso, per la semplice ragione che, essendo azionista di Repubblica, non poteva consentire che il giornale che lui – negli anni Ottanta, con voto determinante – aveva contribuito a salvare dalle grinfie di Berlusconi, gli facesse saltare uno degli affari più importanti della sua vita. Quel voto determinante aveva creato un rapporto nuovo fra il Gruppo Ciancio e il Gruppo De Benedetti, aveva aperto scenari inediti e forse imprevisti. Quel voto, decisivo per le sorti di due testate democratiche come la Repubblica e l’Espresso, aveva reso il loro editore vulnerabile nei confronti di Mario Ciancio, che adesso vantava un credito verso De Benedetti. L’occasione dello sdoganamento di Ciancio si presentò quando Repubblica – come stava accadendo nelle altre regioni italiane – decise di aprire a Catania una redazione per stampare l’edizione siciliana da allegare a quella nazionale. Dal punto di vista imprenditoriale De Benedetti aveva fiutato l’affare. Commercialmente parlando, Catania è la città più vivace della regione, e questo gli avrebbe consentito dei guadagni più alti. Non sia mai! La Sicilia deve continuare ad essere l’unico quotidiano della provincia, disse più o meno Mario Ciancio. Se


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“Niente redazione a Catania e niente cronache catanesi” Repubblica sbarca a Catania mi toglie lettori. E questo l’editore più potente della Sicilia non se lo poteva permettere. Non era proprio così, o meglio, non era solo così: dietro l’apparente paura della perdita di lettori c’era molto altro. Perché Mario Ciancio, per promuovere i suoi interessi, ha sempre avuto bisogno del suo giornale: fino a quando poteva tenere sotto scacco i suoi cronisti – magari autoproclamandosi direttore dopo la cacciata di Milazzo – era un conto, ma tenere a bada i giornalisti degli altri, diventava difficile: mica si può stare sempre attaccati al telefono per chiedere agli editori amici di cacciare i cronisti maleducati. E allora niente redazione a Catania. Infatti la redazione siciliana si aprì a Palermo, ma a due condizioni: che Repubblica venisse stampata nello stabilimento catanese di Ciancio, e che nelle province di Catania, di Ragusa e di Siracusa – dove il monopolio dell’editore catanese è sempre stato fortissimo – Repubblica uscisse sì, ma senza le pagine regionali. E ora immaginate questa scenetta: se volevo leggere un mio pezzo pubblicato nelle pagine siciliane di Repubblica, dovevo farmi duecento chilometri fra andata e ritorno, recarmi a Giardini Naxos, primo paese al confine fra le province di Catania e di Messina, e comprare il giornale. Una copia di Repubblica con l’edizione regionale mi costava venti euro... Il Caso Catania Il Caso Catania non è solo la storia di una città che detiene il primato europeo della criminalità minorile, dell’analfabetismo, dei senza casa, di certi magistrati che acquistano casa dai mafiosi, o di un giornalista ucciso dalla mafia. Il Caso Catania è anche una storia di disagio, di malessere, di solitudine in cui si trovano certi cronisti che in quella città hanno il coraggio di dire no. Ma scrivevo per Repubblica e ne valeva la pena. Il giornale ospitava frequentemente – in media un paio di volte a settimana – inchieste, reportage, pezzi di cronaca scritti da me.

Le dinamiche di “Repubblica” Quel viaggio surreale fino a Giardini mi pesava fino a un certo punto perché scrivevo su un quotidiano nel quale valeva la pena di scrivere, il punto di riferimento di tante battaglie democratiche portate avanti sia durante la Prima che durante la Seconda Repubblica. Compravo il giornale, posteggiavo sul lungomare di giardini e mi divertivo a leggerlo. Come per incanto mi riportavo nei paesi dove ero stato il giorno prima, tra le case antiche di Palazzo Adriano, dove Tornatore aveva girato “Nuovo Cinema Paradiso”, o di Stromboli dove cominciò la storia d’amore tra Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, fra i vicoli di Savoca e di Forza D’Agrò, dove Al Pacino, Robert De Niro e Francis Ford Coppola avevano fatto “Il padrino”, o di Acitrezza dove avevo parlato con i pescatori che avevano interpretato “La terra trema”. A Sciacca per “Divorzio all’italiana”, a Ispica per “Sedotta e abbandonata”, a Ciminna per “Il Gattopardo”, a Partinico per “Il giorno della civetta”. Andavo e parlavo con tutti, comparse, figuranti, semplici spettatori per farmi raccontare il sogno fantastico e magico del cinematografo. Alla fine uscivano delle storie bellissime. Le sorelle di Acitrezza che dopo la guerra avevano suscitato scandalo perché erano diventate attrici. Il contadino che si era innamorato di Claudia Cardinale. Alain Delon a Cefalù alla ricerca di donne. Le lettere anonime durante le riprese del Gattopardo. La ragazzina che tentò il suicidio per uno della produzione. Burt Lancaster che voleva dire “minchia” alla siciliana. La casa di Tano Badalamenti distante “cento passi” da quella di Peppino Impastato. Voltavo pagina e mi imbattevo nei siciliani d’America. Un altro reportage a puntate con viaggi nella Sicilia più arcana alla ricerca dei parenti di Martin Scorsese, di Joe Di Maggio, di Liza Minnelli, di Frank Sinatra per farmi descrivere la fame, i patimenti, le origini di chi era diventato famoso oltreoceano.

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Intere pagine piene di fantasticherie ma anche di vicende attuali, Cosa nostra, la massoneria, la mala politica, la morte di Craxi, la cultura in provincia, il paese più piccolo della Sicilia, la città con più disoccupati, i baraccati di Messina, l’inquinamento e le violenze di Gela, la mafia di Barcellona Pozzo di Gotto, l’inganno del Ponte sullo Stretto. Scrivere per Repubblica mi dava la possibilità di essere conosciuto in tutte le città della Sicilia, tranne che nella mia. Avete presente l’inviato di un giornale che manda i suoi pezzi dal buco più impensato del mondo, dove non c’è telefono, luce elettrica, ufficio postale, e dove non arrivano neanche i giornali? Quello ero io! Scrivevo sempre, ma se volevo uscire dal buco in cui ero rintanato, dovevo avere a disposizione una cinquantina di Euro a settimana e una macchina per comprare una copia di Repubblica. E così un giorno mi recai per la prima volta in redazione a Palermo. Oooh-masei-tu-Luciano-Mirone?-Che-piacere!Noi-da-qui-ti-seguiamo-sempre. Nel giro di dieci minuti si raccolse una decina di giornalisti che mi chiedevano le cose più impensate… Il cronista di punta addirittura mi fece leggere in anteprima il pezzo che stava scrivendo, dimmi-cosa-ne-pensi. Di assunzione manco a parlarne, laredazione-è-in-sovrannumero... Per qualche tempo fu il mio cruccio, poi mi accorsi che era il mio punto di forza: mi consentiva di essere libero da qualsiasi condizionamento. Chiedo scusa se parlo di me. Se lo faccio è perché – attraverso questa storia – vorrei raccontare il livello di democrazia di un Paese, ma anche le dinamiche che attraversano un giornale come Repubblica. Dopo quella prima puntata sull’abusivismo a Taormina, conobbi altri retroscena, e mi accingevo a scrivere la seconda, dando la parola a tutti. Dopo aver raccolto una notevole mole di materiale, telefonai al presidente dell’Unione albergatori siciliani – socio di Mario Ciancio – che avevo intervistato in occasione della prima puntata.


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“Il monopolio dell'informazione e l'imputazione per concorso esterno” “A lei non rilascio interviste” Era lui, assieme all’editore catanese, che a Taormina stava realizzando l’albergo abusivo. Quando gli spiegai i motivi della telefonata, in modo garbato mi rispose: “A lei non rilascio interviste”. “Perché?”. “Perché il suo articolo ci ha causato un sacco di danni, lo sa quanti milioni di Euro ci stiamo rimettendo?”. “Mi dispiace, ma mi sono limitato a fare il mio lavoro”. “Lo so, e vedo che lo fa bene, ma mi consenta di dirle che a lei non rilascio dichiarazioni”. “Sto intervistando tutti, è giusto sentire anche lei”. “Lei è troppo di parte, so benissimo da quale parte sta, non mi faccia aggiungere altro. La pubblicazione dell’articolo nello stesso giorno in cui si è riunito il Cga non è casuale”. “No guardi, io non sto da nessuna parte, sennò non l’avrei neanche chiamata. Cerco solo di fare un’informazione obiettiva”. “Mi dispiace… Se vuole posso farla parlare con il mio socio, il dottor Mario Ciancio”. “Va bene”. “Lo chiamo, fisso un appuntamento e le telefono subito”. Il dottor Mario Ciancio forse mi conosceva per avermi letto sui Siciliani o forse… ma sì… aveva letto Gli insabbiati… Ne era uscito a pezzi anche per il tentativo di gettare discredito su un “suo” cronista, Beppe Alfano, corrispondente da Barcellona Pozzo di Gotto. (Per Gli insabbiati, l’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, aveva fatto il mio nome per il premio “Mario Francese”: nel Consiglio dell’Ordine volarono le sedie, niente premio, ma questa è un’altra storia…). Dopo cinque minuti ricevetti una telefonata. Non era il presidente dell’Unione albergatori siciliani, ma Mario Ciancio in persona. Dalle mie parti un giornalista che fa parte del sistema o che aspira a farne parte, una chiamata del genere cerca di giocarsela: quello ti fa capire diplomaticamente di lasciar perdere, e tu altrettanto diplomaticamente gli fai capire che un favore è un favore… Ma per uno che ha Giuseppe Fava come punto di riferimento è un’altra cosa. Per uno così, la telefonata dell’uomo più potente della Sicilia è una telefonata come tutte le altre.

Dalle mie parti, se hai queste strane idee per la testa, inevitabilmente ti metti “contro”. E se ti metti contro, può capitare che siano loro, i potenti, a cercarti. Tivuoi-sistemare-alla-Rai? Quante volte ho sentito questa frase? Ma se il potere non riesce a inglobarti, ci vogliono maniere più energiche per farti tornare alla ragione. Pensavo a questo, mentre parlavo con Mario Ciancio. “Allora, le dicevo… A Taormina c’è un cretino che sta costruendo un albergo… Hanno fermato i lavori, molti padri di famiglia sono in mezzo alla strada”. “Mi dispiace … mi creda. Però dottor Ciancio, poco fa il suo socio mi ha detto che sto facendo questa inchiesta perché sarei di parte. Lei pensa la stessa cosa?”. “Assolutamente no. Il mio amico ogni tanto si fa prendere dalla foga”. Non amava apparire, ma era il re Mario Ciancio si dimostrava una persona affabile e simpatica, diplomatica. Non amava apparire, ma era il vero re di Catania. Tutti dovevano prostrarsi ai suoi piedi per farsi pubblicare una merda di comunicato stampa. Ma in questo caso era lui a cercare me. Evidentemente era in piena emergenza. E per cosa? Non me lo disse apertamente, ma non era difficile intuirlo. Una cosa però fu chiara. Attraverso una frase o una parola, Mario Ciancio voleva capire le mie intenzioni. “Dottor Ciancio, posso avere il piacere di venirla ad intervistare?”. Da questa frase Mario Ciancio comprese che non mi sarei piegato. E comprese soprattutto che stavo diventando pericoloso. Perché è chiaro… Se un potente si scomoda per chiamare un illustre sconosciuto, se non ottiene quello che si è prefissato, si organizza e si attrezza adeguatamente. Quell’albergo era niente rispetto agli affari che l’editore aveva in mente, a Taormina come altrove. E quando fai affari non devi avere ostacoli, non puoi permetterti casini. Mario Ciancio capì, e in modo imperturbabile ne prese atto. Ma-certoMi-faccia-vedere-l’agenda-La-richiamosubito. Ovviamente non richiamò.

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Ma il bello doveva ancora venire. Scrissi la seconda puntata che si rivelò più dirompente della prima, perché - attraverso le testimonianze e le carte - avevo acquisito i nomi dei politici locali, regionali e nazionali che avevano coperto lo scandalo. A Palermo cominciarono le indecisioni e le marce indietro. Mi fecero portare i documenti, andremo-avanti. Prima pensarono di farmi scrivere il pezzo con un collega di Palermo, poi di farmelo scrivere con una firma nazionale. Poi… Poi niente. Sulla vicenda calò il silenzio. Senza una spiegazione. Eppure qualcuno in redazione mi aveva avvisato: guarda che questo è uno pericoloso, io non ci avevo fatto caso, ero troppo ottimista per farci caso. Il pezzo rimase nel cassetto. E pare che la successiva telefonata non fosse arrivata dalla Sicilia, ma da Roma. Qualche mese dopo il direttore della redazione palermitana, la persona che mi aveva fatto scrivere, che mi aveva dato una fiducia incondizionata, venne trasferito. Avvicendamento redazionale, si disse. Da quel momento il silenzio non calò solo su quell’inchiesta. ma anche su di me, non in modo chiaro e diretto, ma in modo ineffabile e felpato. Garbatamente mi spiegarono che non mi sarei occupato di certi argomenti. Tu-sei-adatto-per-lacultura. Per la cultura, certo… Da ogni parte della Sicilia mi chiamavano per denunciare uno scandalo, ma dovevo inventare una scusa per non andare. Ormai mi occupavo di cultura, quindi... Poi Report di Milena Gabanelli si occupò del Caso Catania e tutta l’Italia conobbe la storia dell’imputazione per concorso esterno in associazione mafiosa di Mario Ciancio, del monopolio dell’informazione, delle pagine siciliane di Repubblica che non dovevano essere lette a Catania, la storia di certi intrallazzi. Dopo quell’inchiesta la società civile catanese fu presa da un sussulto di indignazione, raccolse migliaia di firme e le spedì al direttore e all’editore di Repubblica: quello che state facendo non è affatto democratico, vogliamo l’inserto siciliano anche nella nostra città.


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“Repubblica? Democratica a Roma ma a Catania è di destra” E arriva la “firma” da Roma... A quel punto, per evitare lo sputtanamento completo, il giornale non potè tirarsi indietro. E allora arrivò la “svolta epocale”. Adesso i catanesi, come i siracusani e i ragusani, furono finalmente contenti di poter leggere dei fogli alternativi alla stampa catanese che parlassero delle vicende siciliane. Dopo tanti anni di attese frustrate, finalmente l’inserto siciliano di Repubblica usciva anche dalle mie parti. E finalmente anch’io coronavo il mio sogno. A dirigere la redazione di Palermo arrivò “la firma” da Roma: Sebastiano Messina. Credevo che quella presenza fosse legata al rilancio dell’inserto. Andai a trovarlo. Fu gentilissimo. Sì-certo-Scri vi-pure-Inviami-le-proposte. Cominciai con gli scandali del Teatro Bellini di Catania e con la cementificazione della montagna di Letojanni, proprio sotto Taormina. Ora, io non so cosa potrebbe essere successe davvero dietro le quinte di quel giornale, anzi, non so se successe veramente qualcosa. So solo che a poco a poco le cose cambiarono. E so pure che – dopo un periodo di articoli di “cultura” – ero stato rimesso in gioco con le inchieste. In pratica con il cavallo di Troia stavo entrando in un territorio off limits. E allora immagino le discussioni, ma non ho le prove, quindi posso solo immaginare. Comunque… A poco a poco Catania diventò un puntino quasi invisibile sulla carta geografica delle pagine di Repubblica, qualche articolo di cronaca ogni morte di papa, ma scritto rigorosamente da altri.

Io adesso venivo mandato ai convegni di neurochirurgia o alle gare fra muratori per chi costruiva la fioriera più bella. Quando qualcuno scriveva del potere catanese, la sintonia fra il giornale e la società civile si interrompeva. E così arrivavano lettere di protesta di catanesi indignati. “Repubblica è democratica a Roma, ma è di destra a Catania”. E giù a spiegare che in questo processo di nemesi la presenza di Mario Ciancio non era casuale. In compenso uscivano pagine e pagine sul mare invaso dalle meduse, sull’intonaco caduto dalla facciata, sul tombino scoppiato. Ovviamente a Palermo. La “svolta epocale” era questa. Al nuovo direttore di Palermo inviai una lettera accorata dove spiegai quello che sicuramente sapeva: il giornale ha i suoi progetti e non li discuto, volete mettere Palermo al centro di tutto, che sia, ma occupiamoci anche delle altre parti dell’isola, facciamo delle belle inchieste, raccontiamo delle belle storie, parliamo di certi personaggi; queste pagine hanno una potenzialità straordinaria. Silenzio. “Volete questa inchiesta?”. Silenzio Ogni giorno inviavo proposte su qualsiasi cosa. A Paternò la Patrona sta sfilando fra due ali di immondizia arrivate fino al primo piano. Silenzio. Posso fare un’inchiesta sugli Ato? E sullo scandalo dei termovalorizzatori? Silenzio. Posso fare un servizio sul Caso Catania? Silenzio. Hanno ammazzato un giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, si sospetta che sia stata la mafia. Silenzio. Ho

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uno scoop sulla morte di Mauro Rostagno. Silenzio. Su quest’ultima cosa scrissi addirittura al direttore a Roma. Egregio direttore, ho scritto un libro sull’argomento e ho fonti in tutta Italia, ho uno scoop sulla morte di Mauro Rostagno, mi fa sapere per favore? Silenzio Due giorni dopo sulla prima pagina di Repubblica uscì un’inchiesta sul caso Rostagno. Firmato: il vice direttore da Roma. Solita minestra riscaldata, il segnale definitivo che non ero gradito. A questo punto voglio sapere cosa succede. Mi attacco al telefono. Pronto, Palermo, la segreteria di redazione? Potete riferire al capo che vorrei incontrarlo? Certamente! Un mese di silenzio. Trenta giorni dopo: parlo con la segreteria di redazione? Vi avevo detto che volevo parlare col direttore. Il-direttore-si-è-preso-l’appunto-Hadetto-che-ti-avrebbe-richiamato-Non-loha-fatto?-Glielo-diremo-. Ditegli che è importante. Silenzio. E’-stato-lui-ad-andar-via-Non-loabbiamo-mica-cacciato-noi-Ma-no-chenon-è-una-cosa-personale-Magari-ildirettore-è-stato-sovraccarico-diimpegni-e-non-avrà-avuto-il-tempo-dileggere-le-proposte-Figurarsi-a-Roma-Omagari-quelle-mail-non-le-ha-mai-ricevute… Sì certo… e poi della mia richiesta di un incontro si sarà dimenticato, ma sicuramente era sua intenzione chiamarmi, quell’appunto sarà volato dalla scrivania ed è andata così. Sì, è andata certamente così… Intanto le meduse (palermitane) infestavano il mare (palermitano), i muri (palermitani) delle scuole (palermitane) continuavano a scrostarsi e i tombini (palermitani) scoppiavano dopo altri temporali (palermitani), e intanto catanesi si avvicendavano, non io, ma quelli – rigorosamente – del gruppo Ciancio, ed io pensavo… Oooh-che-piacere-sei-LucianoMirone?-Lei-è-di-parte-Un-sovversivoAttento-che-è-uno-pericoloso-Sì-certoConsulto-l’agenda-e-la-richiamo-Subito.


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Catania

La Libreria diffusa Una rete di biblioteche popolari nei quartieri: dopo Gapa, Mangiacarte e Librineria ecco quella del Gammazita, a Castell'Ursino di Ivana Sciacca www.associazionegapa.org E' stata inaugurata la biblioteca popolare dai giovani volontari di Gammazita, associazione culturale che dalla primavera del 2013 opera nella piazza del Castello Ursino nel quartiere di San Cristoforo cercando di restituire decoro e vivibilità a questo che è uno dei più bei luoghi di Catania. Era stato indetto un bando dal Comune rivolto alle associazioni, e i ragazzi di Gammazita hanno vinto con un programma di poche pagine ma tante ottime idee, acquisendo i fondi previsti: in questo modo sono riusciti a dare vita a quattro giorni (dal 18 al 21 dicembre) colmi di iniziative culturali.

Laboratori creativi, presentazione di libri, giochi interattivi, letture, fumetti e burattini, concerti all’aperto tra cui quello di Eugenio Finardi e la proiezione del film “La trattativa”, cui è stata presente la stessa regista, Sabina Guzzanti.

La vera novità è stata tuttavia la presentazione del progetto Libreria diffusa, che prevede la creazione della rete di biblioteche popolari i cui punti nevralgici sono proprio i quartieri meno fortunati, meno felici in cui sono sorte: la Librineria a Librino, la biblioteca GAPAGiovanbattista Scidà a San Cristoforo e la libreria sociale Mangiacarte (itinerante,

Il Castello di Federico E’ stato come se il Castello di Federico di Svevia, simbolo della magnificenza passata della città, fosse tornato a splendere, contornato stavolta da una corte di cittadini (piuttosto che di sudditi), che partecipando agli eventi hanno riscoperto come autodeterminarsi sia sempre possibile, purché attraverso atti concreti anziché chiacchiere.

ma da poco riappropriatasi di una sede) fanno eco a quella costituita dai ragazzi di Gammazita. E invece dioperare in un clima competitivo hanno deciso di dare vita a una rete: la loro unione farà una forza che ha tutti i requisiti per diventare portatrice di cambiamenti positivi. Non è interessante soltanto il fatto che si tratti di biblioteche costituitesi attraverso le donazioni spontanee di comuni cittadini: come ripetono i protagonisti di questa avventura, ciò che più conta è che finalmente si proverà a scrollare la patina di esclusività che, da sempre e in molti contesti, adorna il mondo dei libri.

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“Non sarà un luogo silenzioso e severo: qui le voci dei bambini faranno da sottofondo” Foto di Francesco Nicosia

“Entrando in una biblioteca o in una libreria spesso ci si sente a disagio nel contatto fisico che si stabilisce con il libro. Qualche addetto ti guarda male: hai paura di sporcarlo, di rovinarlo. Ecco: qui non sarà così.” fa uno dei ragazzi di Gammazita. “Non immaginiamo la biblioteca GAPA-Scidà come un luogo silenzioso e severo ma piuttosto vivo, dove le voci dei bambini non vengano censurate ma facciano da sottofondo a un scambio sociale sempre aperto che tenga conto anche e soprattutto dei bambini”, aggiunge un volontario del GAPA. “Incoraggeremo la conoscenza dei libri attraverso il contatto diretto: saranno i nostri bambini ad aiutarci nella catalogazione dei libri. Li toccheranno con mano scoprendo come sono fatti. Questo sarà il primo passo!” aggiunge una rappresentante della Librineria. Tutti concordano sul fatto che se c’è il rischio che qualcuno prenda in prestito un libro senza restituirlo poco importa. Si lavorerà insieme su questo aspetto,

Scheda/ Sant'Agata UNA FESTA DI LEGALITA'? La festa di Sant'Agata è una delle tre più grandi del mondo. Ogni anno il Comune assicura che stavolta andrà tutto bene. Ma com’è andata davvero lo veniamo a sapere sempre dopo. E anche quest'anno... Da anni si parla delle infiltrazioni mafiose nella festa. Una candelora che si "annaca” e si inchina sotto casa di un boss mafioso è insopportabile, anche perché la disposizione data alle candelore è quella di precedere il Fercolo e non di andarsene ognuna per conto proprio. I portatori di ceroni, nonostante l'ordinanza di non accendere i ceri, l’hanno fatto lo stessso di prepotenza. Bancarelle abusive da per tutto, nonostante le promesse di un maggiore controllo. Niente bagni chimici, previsti dalla legge.

ma è comunque un rischio che vale la pena di affrontare se consentirà in qualche modo di affilare le armi della conoscenza in quartieri disagiati come questi, dove di lottare con si finisce mai. Un unico database online È la libreria sociale Mangiacarte a proporre il progetto Libreria diffusa in cui saranno coinvolte le biblioteche già menzionate e qualche altra, come quella di Red militant. Un progetto che prevede un unico database online con tutte le liste di tutti i libri di tutte le biblioteche popolari per agevolare gli scambi qualora un libro che per esempio manchi a San Cristoforo sia invece disponibile a Librino. Insomma sarà uno di quei casi in cui una rete, invece che imprigionare, libererà: dall’ignoranza, dall’indifferenza e da tutte quelle ostilità che ci impediscono di essere una società migliore.

Eppure il Comitato per la legalità nella festa il 31 gennaio aveva mostrato un cauto ottimismo. Il portavoce Renato Camarda ci aveva anticipato le novità: "isole della legalità" in piazza Palestro e Cavour; un nuovo "capovara" nella persona di Claudio Consoli, vice del precedente e appartenente al "Circolo S. Agata" (in passato sotto osservazione della magistratura per connessioni con le famiglie vicine ai Santapaola); più controllo sulle bancarelle abusive. Silenzio invece sulla sostituzione definitiva del cerimoniere della festa, l'irremovibile cavaliere Maina, ultraottantenne, da sempre là per volere dei sindaci di destra e centrosinistra. Il venerabile cav. Maina appare sugli atti giudiziari dei pentiti di mafia, che negli anni '90 lo citano come colui che partecipava alle "passeggiate" delle candelore che facevano "l'inchino" davanti alle case dei boss del quartiere Monte Po.

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“Saranno i bambini ad aiutarci nella catalogazione dei libri” Un cambiamento vero sarebbe di far entrare nella gestione della festa il Comitato e le associazioni aderenti, insieme a Comune, Prefettura e Arcivescovato. Dopo la festa, nella conferenza stampa del 14 febbraio, al Comitato c’era meno ottimimo: “Ci aspettavamo una festa più ordinata, ma dobbiamo rilevare che siamo ancora lontani da una soluzione". Insomma, prima si parla di una festa senza mafia ed illegalità, e poi si fa una festa con tanta illegalità e mafia. Due facce di una città governata nella menzogna e nell'incapacità di ostacolare mafia ed illegalità. Il "Comitato per la legalità nella festa " non l’ha capito. Cara Agata, mi sa tanto che hanno chiuso i cancelli dopo che la mafia è entrata... Giovanni Caruso Gapa


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Sud

Quando i giornali bullano i bambini Catania. Un “soggetto pericoloso” dev'essere sbattuto fuori dalla scuola... Ma è andata veramente così? * Cari giornalisti catanesi, a voi che vi occupate di cronaca locale vogliamo indirizzare questa nota per portare alla luce alcuni aspetti che non sono stati menzionati in quattro articoli apparsi, dal 30 gennaio per tutto il mese di febbraio, sul giornale La Sicilia, in merito alla cronaca di una “aggressione” da parte di un bambino di dieci anni ad un altro più piccolo ed esile. Su questo fatto, definito come una manifestazione di bullismo dentro l'Istituto Comprensivo Giovanni Falcone di San Giovanni La Punta, vorremo esporvi il nostro punto di vista. Siamo coinvolti nella faccenda di cui tanto si è scritto poiché siamo alcuni genitori dei compagni di classe del bambino che è stato definito un bullo. Il bullo è un bambino che ha diritto al sostegno e all’inclusione dentro la scuola per il fatto di aver dei problemi di socializzazione che chiaramente lo ostacolano nelle sue relazioni con gli altri componenti del gruppo classe di base.

Scheda A COLPI DI GIORNALE Sul giornale “La Sicilia” sono apparse quattro cronache di un “grave atto di bullismo”: un bambino di dieci anni è diventato quel “bullo a scuola - che ha picchiato mio figlio”. Quando è avvenuto il fattaccio? “Giovedì mattina intorno alle 10.30 il bambino è stato violentemente picchiato da un suo compagno di classe ( ripetente da un anno) durante lo svolgimento delle attività ricreative”. Quale la violenza psicologica che avrebbe zittito il bambino a scuola, fino alla confessione fatta ai genitori? “Il bullo lo avrebbe minacciato” per chiedere il suo silenzio.

Dopo il presunto pestaggio e successivamente ai primi due articoli, abbiamo ritenuto doveroso divulgare una manifestazione scritta di solidarietà nei confronti della maestra, che si sarebbe comportata con negligenza, non avendo - si scrive nella cronaca - visto alcunché, e che dichiara che quella aggressione non è avvenuta. Un'aggressione non avvenuta Qualche giorno dopo, esce un nuovo articolo in cui si rincara la dose, puntando nuovamente il dito contro il “soggetto pericoloso" che andrebbe in giro indisturbato per la scuola, terrorizzando i bambini e tutto il personale scolastico. Noi, che siamo genitori del gruppo classe, non temiamo affatto per l'incolumità dei nostri figli, perché abbiamo fiducia nella funzione della scuola nel suo insieme, e nell’assunzione di una specifica responsabilità di ogni insegnante nei confronti dei nostri bambini. A conferma di un’altra cronaca da raccontare ai vostri lettori, vi ricordiamo che il giorno della lite tra i piccoli protagonisti della storia l'insegnante accusata di negligenza non era sola, ma assistita dall'insegnante di sostegno preposta, che è per l’appunto ufficialmente responsabile del bambino. Perché questo dettaglio non è stato fatto presente in nessun articolo? Perché nei vostri titoli avete definito bullo un bambino al quale è stato assegnato il sostegno? Di quali altri atti di bullismo si racconta? Il bambino bullo ha già “minacciato un altro bambino con delle forbici”. “Il bullo già conosciuto dalle forze dell'ordine per i suoi trascorsi all'interno della collettività puntese”. “Stiamo parlando di “spiacevolissimi atti di bullismo, comportamenti delinquenziali e non educativi sia nei confronti del personale scolastico che degli alunni di varie classi”. I titoli del primo articolo. 2 febbraio. Occhiello: “Grave episodio alla elementare Falcone di San Giovanni La Punta”. Titolo: “Un bullo a scuola ha picchiato mio figlio”, ma la direzione “Nessun litigio tra i due”. Secondo articolo. 3 febbraio. Occhiello: “Alunno picchiato, è giallo S. G. la Punta”.

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Quali sarebbero gli atti delinquenziali di cui si parla, dando la parola a una mamma facente parte sí del Consiglio d'Istituto, ma estranea alla vita del gruppo classe? Come mai non si è contattata la rappresentante di classe in questione? Quali dovrebbero essere i provvedimenti richiesti con un esposto contro il "fattaccio"? Stiamo parlando infine della possibilità di una esclusione di fatto per il bambino dalle relazioni educative dentro una scuola? O di che? Dove si vuol arrivare? Il pestaggio di cui tanto si scrive è un fatto accaduto? Ci auguriamo una cronaca della nostra scuola che non offenda il lavoro stesso svolto dentro le classi, il disagio cognitivo, quando esso è presente nelle azioni di un bambino. Ci auguriamo un’interpretazione dei fatti come accaduti dentro una scuola pubblica, e che si racconti con ragionevolezza ciò che può accadere dentro e fuori un gruppo classe. O se invece si vuol scadere nei dettagli, non si ometta ad esempio che il bambino in questione svolge ordinariamente con eccezionale bravura i lavori artistici, e che la sua socialità con i nostri figli sta evolvendosi serenamente. Mamme e Papà per la difesa dei diritti alla inclusione dentro e fuori la scuola pubblica a San Giovanni La Punta Valeria Lo Presti Manuela Maccarrone Titolo: “Il bambino accusa un compagno, la maestra smentisce”. Terzo articolo. 8 febbraio. Occhiello: “L´Istituto comprensivo «Giovanni Falcone» di S. Giovanni la Punta”. Titolo. “L’assessore Iraci: «Parliamo di bambini, bisogna muoversi con cautela»”. Quarto articolo. 21 febbraio. Occhiello: “San Giovanni La Punta: Comprensivo Falcone”. Titolo: “Bullismo: bambino picchiato. I genitori: poca vigilanza”. In nessuno dei quattro articoli i cronisti spiegano che stanno scrivendo di un bambino con lieve ritardo cognitivo avente diritto al sostegno della scuola pubblica. (f.m.d'u.)


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Sud

“Zingari raus!”

E Napoli si fa ariana Blitz anti-Rom in via Cupa Perillo,a Scampia Luca Rossomando www.napolimonitor.it Il 18 febbraio , all’alba, più di cento tra carabinieri, agenti della polizia municipale, personale dell’Asìa e dell’Enel hanno effettuato un blitz nel campo rom di via Cupa Perillo a Scampia. Come già accaduto sotto Natale, e in modi meno eclatanti almeno altre quattro volte negli ultimi due mesi, la procura di Napoli ha inviato nella baraccopoli un imponente schieramento di forze con il compito di tagliare gli allacciamenti abusivi di corrente elettrica, sequestrare le automobili e i furgoni lasciati davanti alle baracche privi di assicurazione, elevare multe salate per numerosi abitanti del campo. L’esito della valente operazione è che circa ottocento persone, di cui almeno trecento bambini, neonati e donne incinte, stanno trascorrendo i mesi più freddi dell’inverno senza elettricità, in un insediamento già noto per le sue precarie condizioni igieniche. Il comune di Napoli ha annunciato quasi un anno fa che il campo di via Cupa Perillo è destinato a sparire per far posto a un nuovo “villaggio” per quattrocento persone, la metà di quelle che ci abitano adesso. Una soluzione che assomiglia troppo a un nuovo campo, sia per il carattere temporaneo delle abitazioni da costruire, che per la decisione di insediarvi esclusivamente rom. Tra l’altro il comune dovrebbe avere in corso un censimento di tutti gli abitanti del campo, come misura preliminare di un piano che in ogni caso sembra ancora lontano dalla fase operativa.

Come il gatto e il topo È allora così assurdo pretendere che i magistrati di turno prima di agire in solitario si vadano a informare sulle intenzioni dell’amministrazione, magari sollecitando tempi di attuazione rapidi e certi, o altrimenti concordando soluzioni transitorie, piuttosto che ordinare azioni così drastiche con l’unico risultato di degradare un quadro già di per sé estremo, avvicinando la soglia oltre la quale si mette in pericolo la vita delle persone? Gli agenti sono poi tornati nel campo per staccare gli allacciamenti che qualcuno aveva prontamente riattivato. È un gioco del gatto con il topo che potrebbe continuare all’infinito. Loro attaccano, noi stacchiamo, vediamo chi la dura di più. La questione è se questo tira-e-molla sia una pratica dignitosa, e non invece un balletto umiliante, prima di tutto per chi lo esercita stando dalla parte della legge. Più che un modo per affermare la legalità, assomiglia tanto a una dimostrazione di forza: una dimostrazione fine a se stessa, che non apre spiragli verso alcun tipo di soluzione. Sono napoletani come noi Quel campo è abitato da persone radicate a Scampia da molti anni, che hanno scambi e in molti casi lavorano fianco a fianco con gli italiani; alcuni sono loro stessi cittadini italiani. Eppure è un luogo che non dovrebbe esistere da anni; lo dicono le direttive europee, lo dice il buon senso. Se nonostante tutto si trova ancora lì, le responsabilità sono evidenti e certificate. Ma in un posto dove l’amministrazione pubblica è così inefficiente, non esiste altra via d’uscita che la scure della magistratura per risolvere le criticità più eclatanti? La risposta non può che essere negativa.

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Una legalità sena giustizia Bisogna essere molto sprovveduti, o del tutto irresponsabili, se si crede di sanare l’illegalità di un insediamento di quasi mille persone privandole dell’elettricità e dei mezzi di trasporto. Come dire: qua dentro ci dovete morire di freddo, e vi togliamo pure la possibilità di scappare. Certo, in tanti sarebbero sollevati se domani un’astronave marziana atterrasse a Scampia, Gianturco e Ponticelli e prendesse a bordo tutti i rom che vi sono insediati per dirigersi verso una destinazione sconosciuta. Ma i rom sono lì, non scompariranno da un giorno all’altro. Questioni del genere non si possono affrontare con l’accetta di una legalità senza giustizia, ma con il bisturi di politiche adeguate, efficaci, sollecite. Gli assessori e il sindaco, lenti e parziali nelle misure adottate finora, saranno almeno capaci di esercitare una mediazione, di trovare un compromesso che allenti la tensione? Esiste un’alternativa concreta alle parole di biasimo, che non impegnano e non lasciano traccia nella vita delle persone? Se poi parliamo di legalità, sarebbero da approfondire le numerose testimonianze raccolte al campo, che dicono di sequestri dei veicoli avvenuti nella maggior parte dei casi senza che fosse rilasciata notifica, e soprattutto di operazioni condotte dagli agenti senza risparmiare commenti razzisti, minacce e condotte discriminatorie. Oppure dobbiamo rassegnarci a considerare tali modalità un triste corollario di ogni azione di ripristino della legalità violata dai poveri cristi?


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Mafie globalizzate/ Cecenia

Dall'eroina al plutonio Le vie dell'Obšcina Le guerre, i crimini, i traffici, le complicità di Samuele Motta www.stampoantimafios.it.it La Cecenia è una Repubblica autonoma della Federazione Russa situata nel Caucaso, al confine con la Georgia. Storicamente contesa fra le varie potenze che la circondavano, i suoi abitanti hanno da sempre dovuto difendersi, coltivando una grande volontà combattiva e un forte sentimento etnico-patriottico. Da quando vennero sottomessi fra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento dall’impero Russo, la resistenza dei ceceni contro l’invasore è una costante. Questa resistenza storica si manifesta in particolare durante lo sfaldamento dell’Urss. Negli ultimi mesi del 1991 il generale Dzochar Dudaev, approfittando degli endemici sentimenti anticomunisti ceceni e della confusione regnante a Mosca, rovescia l’élite sovietica locale e prende il potere a Grozny, la capitale. Nasce così la Cecenia, che nel 1993 dichiara unilateralmente l’indipendenza coll nome di Repubblica cecena di Ichkeriya. La scelta indipendentista crea subito una serie di problemi: incertezze economiche e politico-istituzionali, infatti, favoriscono lo sviluppo di alcune attività illecite. Non solo: presto la Cecenia diventa un porto franco del terrorismo e della criminalità, grazie a un decreto –emanato dal neo-presidente Dudaev– dichiarante come prive di valore e inapplicabili sul territorio ceceno quelle sentenze di condanna pronunciate dalle Corti dei Paesi che internazionalmente non avevano riconosciuto l’indipendenza cecena. Inoltre, una sorta di “guerra civile” non dichiarata fra le varie fazioni pro e contro Dudaev e l’embargo russo accentuano lo sviluppo di mercati paralleli e illeciti e la forza delle organizzazioni criminali.

La successiva prima guerra cecena (1994–1996) fra la neonata repubblica e la Federazione Russa favorisce il fiorire e il prosperare delle organizzazioni criminali. Inoltre, la chiamata al jihad da parte del Gran Muftì (l’autorità religiosa della Cecenia, a maggioranza musulmana) porta centinaia di combattenti a rimpolpare le fila cecene. Ciò crea una situazione caotica i cui effetti si sentono ancor oggi. Il conflitto viene vinto dai ceceni; i quali, però, perdono la pace. Infatti, il Paese diventa un buco nero in cui gli affari criminali prosperano più di prima. Dimenticata da Mosca, senza un reale controllo da parte dell’amministrazione del neoeletto presidente Maskhadov e pervasa da una grave crisi economica, in Cecenia fioriscono i “signori della guerra”, che in varie zone esautorano l'autorità governativa, compiendo razzie e rapimenti. Forse anche grazie all’aiuto degli stessi servizi di sicurezza del Cremlino, la situazione si rende così fin da subito critica. La seconda guerra cecena scoppia il 29 settembre 1999. Il sostegno russo a frange minoritarie di lealisti delegittima le autorità e fomenta una vera e propria guerra civile. La fase militare del conflitto si chiuda in maniera vittoriosa per gli uomini di Mosca già nel 2002, anche se la lotta al terrorismo si è protratta fino al 2009. Nel 2005 viene ucciso Maskhadov, ultimo esponente di rilievo dell’indipendentismo “laico” ceceno. Così la lotta viene catalizzata dalla fazione ultrareligiosa, sostenuta da numerosi mujaheddin giunti grazie alla chiamata al jihad in occasione di entrambi i conflitti e finanziata dai Paesi arabi del golfo. È in questo panorama condito da instabilità politica, conflitti etnico-religiosi e guerra perenne che il territorio ceceno diventa uno dei terreni più fertili per l’insorgere di ogni tipo di attività criminale. Il secondo intervento russo in Cecenia, infatti, oltre che come lotta al terrorismo di matrice islamica viene presentato come volto a eliminare un nido della criminalità organizzata, un rifugio da cui numerosi malavitosi gestiscono tranquillamente affari in tutto il mondo.

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Simile a Cosa Nostra In effetti, la criminalità organizzata cecena è tra le più feroci ed efficienti. Chiamata Obšcina (in russo “comunità”), trova nome e origine nel movimento sovversivo fondato nel 1974 da Chož-Ahmed Nouchaev, uno studente universitario. Strutturata su un modello gerarchico simile a quello di Cosa Nostra, ottiene con gli anni la reputazione di essere la più coesa e pericolosa fra le organizzazioni a base etnica. Sebbene in Russia la maggior parte dei gruppi criminali sia plurietnico, molti clan ceceni (con azeri e georgiani, vicini e tradizionali alleati) si sono infatti spinti fino alla Siberia, controllando piantagioni di oppio un po’ ovunque. Inoltre, grazie alla loro solida e strutturata rete di contatti tra le forze dell’ordine, sono divenuti un partner efficiente per molti altri gruppi criminali, ad esempio quelli tagichi o uzbeki. Alcuni studi investigativi recenti hanno dimostrato che la sfera di influenza della mafia cecena si estende da Vladivostok a Vienna, con propagini in tutto il mondo. E' presente nella “triplice frontiera” fra Argentina, Brasile e Paraguay, con l'appoggio dalla considerevole comunità musulmana coinvolta nei traffici di sostanze stupefacenti e di armi dall’America all’Europa. Le attività cui si dedica sono di varia natura: distribuzione di moneta falsa, appropriazione indebita, ricettazione, riciclaggio di denaro, tratta di clandestini, traffico di stupefacenti (che in alcune aree monopolizza) e persino di sostanze radioattive come il plutonio. La principale attività rimane comunque il traffico di droga. A nord e a sud del Caucaso, infatti, transitano le partite di oppio, morfina base e hashish provenienti dalla Mezzaluna d’Oro e in particolare dall’Afghanistan. Esse arrivano dall’Iran o dal Turkmenistan, attraversano il Mar Caspio e si dirigono, passando il Mar Nero, verso i Balcani e verso l’Europa. Questo percorso, noto come “Rotta caucasica”, si connette con la “Rotta balcanica” o con la “Rotta baltica”, portando la droga a San Pietroburgo e negli Stati dell’Europa nord orientale e centrale.


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“Una sempre maggiore sovrapposizione fra le strategie terroristiche e le vie del narcotraffico, con una stretta connessione fra tali attività e il traffico di droga” I tragitti del Caucaso I tragitti che attraversano il Caucaso, oltre a raggiungere l’imponente mercato della Federazione russa, sono anche decisamente sicuri; infatti la mancanza di infrastrutture necessarie a proteggere i confini, le continue guerre o scontri e la scarsa cooperazione internazionale dei vari Paesi della regione rendono quest’area una ghiotta preda per i trafficanti. Il primato ceceno sembra indiscusso anche nel traffico delle armi. Ovviamente la fioritura di questo commercio si deve alla situazione di continua tensione e conflitto della regione caucasica. Questo è un traffico importante, che in passato ha tratto vitalità dall’estrema facilità con le quale giungevano in Cecenia le armi dai depositi ex sovietici e dai Paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico. Il traffico del petrolio Un terzo traffico importante è quello del petrolio, grazie tanto alla vicinanza dei grandi centri petroliferi caucasici come quello di Baku in Azerbaigian quanto al passaggio di una serie di oleodotti in Cecenia. La mafia cecena, ha quanto sembra, ha costruito gran parte delle sue ricchezze iniziali proprio rubando il petrolio dagli oleodotti e rivendendolo al mercato nero. Inoltre, il controllo dell’indotto illecito intorno al petrolio attualmente costituisce una fonte di arricchimento molto importante anche per i militari russi, la polizia cecena filorussa e gli uomini d’affari ceceni che dispongono di una buona rete di relazioni. L’affare del petrolio è redditizio persino a livello locale. I numerosi pozzi e le piccole raffinerie artigianali – detti “samovar” e costruiti e sfruttati illegalmente nei villaggi già dalla fine del primo conflitto – sono spesso oggetto del racket (consistente nell’autorizzazione a usarli e nella protezione in cambio di benefici) da parte sia dei militari dei vari schieramenti sia dei gruppi criminali.

Un’altra attività che ebbe grande importanza durante i conflitti ma che comunque ne ha ancora per via della situazione di indigenza in cui versa parte della popolazione è il mercato nero, in cui al tempo confluivano tutte le merci che venivano sottratte nel corso delle varie operazioni di “pulizia”, come le cosiddette zacistki o zaciski, rastrellamenti indiscriminati contro la popolazione civile in cerca di terroristi. Inoltre, durante i conflitti (specie nel secondo) si sviluppò anche l’usanza, soprattutto fra i militari russi, di ricercare il guadagno tramite la richiesta di un vero e proprio riscatto per le persone arrestate o catturate nel corso di queste azioni e persino per il recupero dei cadaveri; tanto che si venne a creare addirittura un sistema perfettamente rodato di tariffe. Tutto ciò era nelle mani di brigate criminali russo-cecene. Queste rappresentavano la connessione e commistione di interessi e azioni fra forze legali (i militari) e forze illegali (i criminali), a tal punto che difficilmente si potevano distinguere le due sponde. Anche se affievolito, nel mercato nero tale binomio rimane. Perché il via libera ai mafiosi Il vuoto repressivo in Cecenia deriva da tre fattori distinti, ma perfettamente omologati e intersecati fra loro. Il primo consiste nella volontà politica di compiacere le organizzazioni criminali, da parte di uomini dello Stato – ceceno prima, russo ora – che con queste hanno profondi agganci, tanto che alcuni membri del governo centrale o delle amministrazioni locali ne fanno parte. Il secondo nella corruzione pervasiva dell’apparato statale, che garantisce una certa malleabilità e reverenza nei confronti di determinati soggetti. Il terzo fattore - forse quello determinante per il “buco nero” ceceno - consiste nella disattenzione dello Stato che, occupato a risolvere questioni di sicurezza nazionale come il conflitto prima ed il terrorismo poi, lascia ampio margine d’azione ai vari signori della guerra, sia criminali che militari.

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Il terrorismo ceceno è andato presto associandosi a quello cosiddetto islamico (principalmente di stampo wahabita), sia per la chiamata al jihad promossa in entrambi i conflitti, sia per il persistente malcontento socio-economico della popolazione, che vede nelle istituzioni islamiche le uniche davvero salde e con disponibilità economica, dati i finanziamenti che ricevono dai Paesi arabi. Un conglomerato paramilitare Il terrorismo è un elemento che non si può dissociare dal fenomeno criminale in Cecenia e nel Caucaso, soprattutto dopo il 2002. Il caso ceceno è paradigmatico per evidenziare i rapporti fra organizzazioni criminali e quelle terroristiche. In Cecenia, infatti, si è formato un conglomerato paramilitare, che è un utile supporto per condurre azioni terroristiche, tanto da parte dei jihadisti, quanto da quella dei nazionalisti russi. Le stesse entità criminali russe e islamiche, che si sono politicizzate e legate al terrorismo, formarono da allora una sorta di “criminalità ibrida”, un mix tra criminalità organizzata e terrorismo simile a quella che si può riscontrare nei Balcani o in Afghanistan. Ciò deriva da una sempre più costante sovrapposizione fra le attività terroristico–insurrezionali e le vie del narcotraffico, il che crea una stretta connessione fra tali attività e il traffico di droga del quale esse probabilmente si alimentano. In ogni caso in Cecenia le organizzazioni criminali autoctone non si schierano apertamente e definitivamente con nessuno dei diversi contendenti sul territorio, per potersi giovare al massimo negli affari di questa situazione di perpetua no man’s land, così come fanno anche le diverse autorità federali, locali e militari.


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Libri I redattori di Giuseppe Fava Mentre l'orchestrina suonava “Gelosia”, di Antonio Roccuzzo, e Prima che la notte, di Claudio Fava e Miki Gambino, raccontano gli anni dei Siciliani di Giuseppe Fava come vennero vissuti dai ragazzi che con lui condivisero la più bella storia del giornalismo italiano. Una storia che non è finita.

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Mafie globalizzate/ Spagna

Fra politica e borghesia mafiosa Un modello “italiano: affari, riciclaggio e conoscenze eccellenti di Sara Manisera www.stampoantimafioso.it Se con la globalizzazione le economie nazionali sono sempre più interconnesse le une alle altre, è anche vero che l’apertura dei mercati e lo sviluppo del commercio mondiale hanno permesso alle organizzazioni criminali di fare massicci investimenti nell’economia legale, laddove le condizioni legali ed economiche risultano più favorevoli. Uno dei paesi in cui le organizzazioni di stampo mafioso hanno trovato una seconda casa è la Spagna. Perché la Spagna? Anzitutto va ricordato che per quasi quarant’anni la Spagna ha vissuto sotto la dura repressione della dittatura franchista, che ha impedito lo sviluppo di una criminalità locale, a eccezione dei Gallegos Lancheros in Galizia. La controversa transizione spagnola, avvenuta con la morte di Franco dal 1975, ha aperto un vuoto in cui si sono inserite le organizzazioni criminali di diversa nazionalità: russe, cinesi, albanesi e italiane. In secondo luogo bisogna tener conto della posizione geografica della penisola iberica, nodo nevralgico per il transito di droga proveniente dall’America Latina e dal nord dell’Africa. E qui, dunque, le organizzazioni criminali cercano di controllare territori strategici per il traffico di droga, di cocaina e hashish: non è un caso che molti narcos sudamericani, così come latitanti italiani, si siano rifugiati per la latitanza e per i loro affari lungo la Costa Brava, in Galizia o a Tenerife. Già nel lontano 1983 Pasquale Pirolo, luogotenente di Michele Zagaria e braccio destro di Antonio Bardellino nel settore del reimpiego dei capitali illeciti, veniva arrestato con quest’ultimo a Barcellona.

La lista degli arresti in territorio iberico, tuttavia, è lunga: secondo il giornalista e storico Joan Queralt, autore del libro La Gomorra di Barcellona, dal 2000 al 2009 sono stati arrestati 65 affiliati alla Camorra, 24 in Catalogna e 41 nel restante territorio spagnolo. La pervasività delle organizzazioni mafiose italiane è documentata anche dalla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia presieduta da Francesco Forgione dal 2006 al 2008, che accerta la presenza di clan camorristici attivi a Barcellona, Badalona, Valencia, Saragozza, Madrid, Toledo, Malaga, Marbella, Ceuta e Granada ma anche di ‘ndrine presenti a Barcellona, a Palma, Algeciras, Madrid e Malaga. Non solo droga Se da una parte, dunque, la Spagna può essere considerata un vero e proprio catalizzatore delle rotte della cocaina e rifugio ospitale per molti latitanti, è altrettanto vero che essa costituisce un mercato inesplorato e di facile penetrazione, vista l’assenza nell’ordinamento penale spagnolo del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (esiste solo il reato di organizzazione criminale, introdotto dalla Ley Organica 5/2010) e di un regime penitenziario speciale in riferimento ai detenuti per reato mafioso che ha permesso loro il mantenimento di relazioni con gli affiliati e la gestione degli affari dietro le mura del carcere. Inoltre esiste una legislazione in materia di perquisizioni particolarmente garantista, poiché le forze di polizia non possono svolgere perquisizioni durante le ore notturne. Queste condizioni giuridiche ottimali, unite all’assenza di una severa legge sul riciclaggio del denaro (la legge di prevenzione del riciclaggio dei capitali e del finanziamento del terrorismo è stata introdotta solo nel 2010) hanno permesso alle organizzazioni criminali di compiere massicci investimenti nella penisola iberica, tanto è vero che nel 2006 in Spagna vi era la più alta concentrazione europea di banconote da 500 euro, usate dai criminali per loro comodità.

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Notai, avvvocati, banchieri, brokers... I settori in cui la criminalità organizzata ha reinvestito ingenti capitali - grazie alla presenza di una borghesia paramafiosa compiacente fatta di notai, avvocati, banchieri e brokers - sono quello immobiliare e turistico, quello della ristorazione, il settore ittico e della distribuzione alimentare. Un esempio è la società creata a Barcellona a fine del 2002 da Raffaele Amato, La Mer Vacanze Immobiliare S.L, intestata alla moglie Elmelinda Pagano e finanziata con i soldi provenienti da una società offshore con sede nelle isole Vergini britanniche, il cui proprietario era Gaetano Pezzella, titolare di una fabbrica di salumi e impresario attivo nel campo della produzione e commercializzazione di alimentari nonché addetto al riciclaggio di denaro sporco del clan degli Scissionisti. Il gruppo si avvaleva di un promotore finanziario della Banque Monégasque de Gestion di Monaco e di un consulente di affari della società Moores Rowland di Montecarlo. Numerose tuttavia sono le operazioni giudiziarie negli ultimi anni che dimostrano l’enormità del potere economico della mafia italiana; nel 2012 e nel 2013, rispettivamente con l’operazione Laurel VII e VIII, vengono sequestrati più di 175 appartamenti, 141 garage, 43 imprese tra hotels, negozi e ristoranti e 19 ville riconducibili al clan camorrista di Giuseppe Polverino, arrestato proprio in Spagna a Jerez de la Frontera, cittadina in cui viveva anche Raffaele Vallefuoco, latitante a sua volta da dieci anni. Solo attività economiche? No. L’operazione Pozzarro ha accertato il tentativo del clan camorristico dei Nuvoletta di infiltrarsi nella politica locale di Adeje, cittadina situata nell’isola di Tenerife, attraverso la candidatura di Domenico Di Giorgio, giovane avvocato e consigliere di Giuseppe Felaco, capoclan nelle Canarie. Di Giorgio, arrestato nell’operazione Pozzarro era inserito nella lista dei candidati del Partido Popular ed è stato persino fotografato insieme a Mariano Rajoy, leader del Pp e attuale primo ministro spagnolo.


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Beirut

Il viaggio di Leila Da quando è iniziata la guerra civile in Siria, a marzo 2011, più di un milione e mezzo di persone sono fuggite nei paesi limitrofi –Turchia, Egitto, Giordania, Libano ed Iraq–, in cui oggi si vive una forte emergenza profughi.

Dal campo di Shatila (vi ricorda qualcosa?) alla Svezia, fra fughe e arrangiamenti, con suo marito. Ce la faranno? di Sara Manisera www.stampoantimafioso.it Non so quanti sorriderebbero al suo posto. Eppure il sorriso di Leila, dolcissimo, è uno di quei sorrisi rassicuranti e pieni di speranza. Leila ha ventitré anni e vive nel campo profughi di Shatila, periferia sud-ovest di Beirut. Lo stesso che insieme a Sabra, nel 1982, fu attaccato dai falangisti libanesi e dall’esercito israeliano con un massacro di civili inermi, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi. Nello stesso campo profughi, fatto di vicoli tortuosi, latrine a cielo aperto e fili dell’elettricità scoperti, oggi vivono, insieme ai palestinesi, migliaia di profughi siriani palestinesi giunti qui dall’inizio del conflitto in Siria. Anche Leila è una rifugiata. Ha lasciato Aleppo con tutta la sua famiglia, quando è stato evacuato il campo di Handarat. In Siria viveva in un campo per palestinesi, ma niente a che vedere con quello di Beirut. Aveva una vita normale ad Aleppo; studiava all’università, usciva con le amiche. Poi la guerra e la fuga in Libano. Con lei c'è la madre libanese, il padre anziano, malato e preso in cura dall’Agen zia dell'Onu per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA), la sorella con le tre figliolette e il marito. Questi ultimi sono appena stati selezionati dall’UNRWA, come famiglia idonea a trasferirsi negli Stati Uniti. Avranno tutto: casa, corso di inglese, assicurazione e scuola per le bambine.

“Solo un profugo su duecento” Leila non trattiene le lacrime alla notizia. E’ una grande occasione per la sorella; ricostruirsi una vita laggiù, dare la possibilità alle bambine di andare a scuola e vivere un po’ di serenità. Quella che silenziosamente sta cercando anche lei. In questo momento lavora per una piccola organizzazione non governativa all’interno del campo profughi, Welfare Association, impegnata nella ristrutturazione delle case occupate dai rifugiati negli ultimi tre anni; piccoli lavori di manutenzione –uno scaldabagno, una finestra, un soffitto, una porta– per rendere vivibili questi alloggi, se tali si possono definire. Con questa Ong, Leila effettua il monitoraggio sullo stato dell’avanzamento dei lavori e fa da interlocutrice con i proprietari degli shelters (letteralmente “rifugi”), come vengono definiti nel mondo della cooperazione. E’ un progetto che le ha dato la possibilità di pagare il viaggio al marito, palestinese come lei, scappato dal Libano un mese fa. Duemilaecinquecento dollari dati ad un’organizzazione criminale per passaporto e visto falsi e per il viaggio fino in Turchia. Oggi, gli occhi di Leila sono un bagno di gioia. Il marito le ha appena inviato un messaggio: è arrivato in Turchia. Non sa come, non sa con chi. Sa solo che è vivo. La prossima tappa sarà entrare in un paese membro di Schengen e da lì fino al loro sogno, la Svezia. E' il sogno di tanti rifugiati, raccontato anche in un bellissimo film, “Io sto con la sposa”, interamente finanziato dal basso. Una favola moderna, drammaticamente vera, i cui protagonisti - cinque siriani e palestinesi - cercheranno di raggiungere la Svezia con un finto corteo nuziale.

I Sicilianigiovani – pag. 80

I paesi membri dell’Unione Europea si sono resi disponibili a ricevere solo 12.000 persone, lo 0,5% dei siriani che hanno lasciato il paese. Per gli altri non resta che rischiare un viaggio pericoloso via terra o via mare, mettendosi nelle mani delle organizzazioni criminali specializzate nello smuggling di esseri umani, e sperare così di raggiungere la fortezza Europa. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la tratta di esseri umani costituisce una delle fonti più proficue di reddito per la criminalità organizzata transnazionale dopo il traffico di droga. Data la natura del fenomeno, sommerso e illegale, non è possibile offrire dati concernenti i profitti ma è possibile fare una stima indiretta. Solo per la traversata via mare o per i documenti, in media un migrante paga duemila euro ma le stime sono di gran lunga sottostimate, sia perché non tengono conto delle altri fasi del viaggio, sia perché non considerano il nuovo flusso di migranti provenienti dall’Egitto o dalla Siria, in grado di pagare fino a quindicimila euro. E i trafficanti ringraziano l'Europa E’ l’effetto perverso delle politiche migratorie vigenti oggi nei paesi membri dell’Unione Europea: mettere nelle mani dei trafficanti persone vulnerabili, costrette a spendere i propri risparmi e a rischiare la vita, facendo di fatto arricchire le organizzazioni criminali specializzate nello smuggling e nel trafficking. Leila torna a sorridere. Sa che la parte peggiore del viaggio è stata superata. O almeno così spera. Inshallah.


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Storie

E gli dei incontrarono il mercato Austerity sull'Olimpo: le banche hanno posto le loro condizioni. E arrivano le prime barche di turisti dal l'Europa... di Jack Daniel “Euro, sterlina, dollaro...” «Sta arrivando una barca. Attracca! Bella, nuova. Costerà un sacco di soldi, ma non è molto grande. Quattro, forse sei persone. Se siamo fortunati sono tre coppie. Atena, hai finito quelle tovagliette? Sì? da brava, poggiale qua, vicino alla panca. Hanno tirato giù la passerella, ecco, comincio a vederli. Quattro, mi pare che siano quattro. Due coppie. Meglio così, meglio le coppiette che le famiglie. Apollo! I CD, li hai sistemati? Bene. Biondi, devono essere tedeschi, o olandesi. Sembrano ricchi. Forse inglesi, però. Ma non importa, le sterline vanno benissimo, devo solo ricordarmi…. Dove l’ho messa? … Ah, ecco, ecco la tabella coi cambi… Euro, Sterlina, Dollaro. Anche rublo. La skordalia è pronta? E lo Tzatziki? Era? Ma dov’è Era? Chiamate vostra madre, presto!

Ma i turisti che fine hanno fatto? Sono ancora lì, sul molo a scattare foto, abbiamo ancora cinque minuti per prepararci. Per piacere, questa volta non facciamo errori. Atena, mi raccomando con i clienti: non è necessario puntualizzare che quando tu inventavi la geometria i loro nonni, coperti di pelli di uro, adoravano il vischio. Ricordati della scuola di Cupido, se non ci arrivano un po’ di soldi non riusciremo a pagare retta e libri. E la mia schiena, comincia a farsi sentire, le medicine costano e il ticket aumenta. Quindi fai la brava e pensa ai centrini. Ecco, stanno venendo qui, ma sono solo gli uomini, le donne sono rimaste giù a prendere il sole. Bacco, le birre, senza le compagne ne approfitteranno certamente, e porta su anche le bottiglie di Ouzo. Eccoli, sono arrivati, siete pronti? Signori, prego, prego accomodatevi. Tedeschi? Nein? Olandesi? No? Ma non importa, prego, prego. “Du iù know Sirtaki?” Souvenir? Merletto greco di Grecia? Roba fine, autentica, non le solite imitazioni industriali di Aracne. Musica? Prego, da questa parte, musica popolare, good musica, by Apollo, great group, mica the Marsia. Sirtaki. Du iù

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know Sirtaki? Zorba de Griik? Nein Sirtaki, nein Zorba? Fame? Hev iù feim? Moussaka? Ya? Melanzane di Maratona, very good, de best in oll Griiss. Nein Moussaka? Skordalia potato? Gud potato, from Termopili, du iù know Termopili? Leonida? Nein Leonida? Ouzo? Volere Ouzo? Birra? “Era, Afrodite, Apollo...” Sì? E invece no, non vogliono neanche la birra. Era! Ma dove s'è cacciata? Poi sarei io quello che sparisce per le scappatelle…Afrodite è ancora in camera sua? Prego, prego, di qua, forse ho anderstend quello che iù uont, yes. Volere biutiful ragazza, la più bella di tutte. Afrodite! Ti sei truccata per bene? Stiamo arrivando, ci sono due signori, di qua, prego di qua. Eh? Cosa vi pare? Non è bellissima? Pare una dea. Se la volete per soli… No? Non vi interessa Afrodite? Nemmeno lei? Ah, ma forse ho capito, ah, sì, le signore prendono il sole giù al molo, ho capito. Apollo!, puoi venire qui, per piacere? Ecco, guardatelo, biutiful come il sole, de san. Girati, Apollo, ecco, abbassati i pantaloni. Che roba, eh? Non è divino, cioè divain? Interessa you? Accettiamo sterline, no problem.. Olso rublos».


Pianeta

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Il futuro dei soldi “Bitcoin Battle”: sulla stampa economica Usa si discute sull'alternativa fra moneta tradizionale ed elettronica di Fabio Vita www.bitcoinquotidiano.com "Le criptomonete matematiche come Bitcoin hanno futuro?". Campbell R. Harvey, professore di economia alla Duke University, sul Wall Street Journal del 2 marzo risponde decisamente di sì. “Non bisogna giudicare Bitcoin - dice dai suoi primi, inevitabili problemi. Innovazioni di successo possono risolvere problemi importanti”. Quali? Ecco: • Bitcoin permette transazioni online senza preoccuparsi che i dati personali (dati di carta di credito, dettagli del conto in banca, ecc.) siano compromessi. • Chiunque abbia un collegamento cellulare o internet può eseguire operazioni senza interruzione, anche per quantità minime. Questo è importante per color che non hanno accesso bancario, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. • Le rimesse internazionali hanno commissioni minime rispetto al 10% caricato dlle imprese di settore (Western Union e simili). • Le spese di transazione per i commercianti sono minime alle commissioni delle carte di credito. Ottimo per i rivenditori con margini ristretti. • Non vi è alcun rischio di inflazione. I bitcoin vengono creati molto lentamente e il totale di monete che può essere creata è limitata. Questo è importante per chi effettua transazioni in paesi in crisi economica o politica. E' vero, Bitcoin non è sostenuta da alcuna autorità centrale. Ma questo non ha importanza: Bitcoin esiste perché gli utenti gli assegnano un valore. Dire che viola le regole della finanza perché manca un emittitore centrale è superficiale

La moneta senza banche

Trend, tecnologia, applicazioni, mercati Tutto sul bitcoin, in tempo reale

Valorizzare Bitcoin come tecnologia . I governi non "garantiscono" stabilità alle loro valute - basta guardare il rublo o il franco svizzero. Analogamente, il prezzo equo di un bitcoin misurato dal valore attuale dei flussi di cassa futuri potrebbe essere pari a zero. Ma lo stesso vale per le valute come l'euro e dollaro. Nessuna commodity sostiene il valore di un euro o di un dollaro. Si tende a perdere soldi quando li si tiene in contanti. Ma ciò non allontana la gente dal possedere contanti. Ma dimentichiamo un momento i tassi di cambio. La cosa più importante di Bitcoin è la tecnologia dietro di esso, la blockchain (catena dei blocchi): un registro trasparente, online, di ogni transazione effettuata su ogni singolo bitcoin, un gigantesco registro elettronico finanziario utilizzata per autenticare ogni transazione e, nel processo, produrre nuovi bitcoin. Il potenziale della blockchain va ben oltre la moneta Bitcoin. E' un modo sia per verificare la proprietà che per istituire contratti. Immaginate di entrare nella vostra auto. Attraverso il vostro dispositivo mobile, la macchina individua il codice d' identità e la prova di acquisto nella catena di blocco. Questo autorizza la vettura a partire. Ma appena accesa dice che hai mancato tre pagamenti sul tuo prestito auto. Ulteriori termini nella catena dei blocchi assicurano che la macchina si metterà in moto solo per la persona o istituzione che ha versato il denaro. Fare contratti con la blockchain sarebbe facile con l'introduzione di variabili "ifthen" (“se-allora”) nel codice informatico nelle basi della catena. Quasi ogni strumento finanziario, tra cui azioni, obbligazioni o opzioni, potrebbe essere rappresentato e reso verificabile in tale formato. Senza banca Il fatto che la tecnologia blockchain abbia creato una moneta che funziona senza bisogno di una banca potrebbe anche aiutare gli utenti a ottenere prestiti senza una banca, e a fare investimenti senza bisogno di intermediari o cambiavalute.

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Certo, il valore del Bitcoin è fortemente diminuito nel corso dell'ultimo anno. Ma sarebbe un grave errore giudicare il futuro di Bitcoin in base al movimento del tasso di cambio. Un indicatore migliore è l'attività dei "venture capitalist" di tutto rispetto che riversano denaro in centinaia di imprese correlate a Bitcoin e alla blockchain. I problemi delle tecnologie nuove È vero che Bitcoin è attualmente troppo volatile per essere un deposito a lungo termine di valore. Ma gran parte di questo è dovuto alla mancanza di liquidità, che non è inaspettata quando la tecnologia è così nuova. Un cambiavalute Bitcoin, regolato, assicurato e con sede negli Stati Uniti è stata aperto a gennaio, ed è sostenuto dal New York Stock Exchange; questo dovrebbe aggiungere liquidità e ridurre la volatilità. Ci sono dei rischi, come ha mostrato la déblacle di Mt Gox, con di milioni di dollari in Bitcoin spariti nel fallimento del cambiavalute. Ma in una tecnologia nascente entrano sempre molti nuovi operatori: alcuni buoni, altri cattivi. Con lo sviluppo di Bitcoin, è probabile che quelli migliori prevalgano. Il supporto di venture capitalist esperti aumenta anche le possibilità di accesso per le imprese di alta qualità. Infine, molti associano il Bitcoin a operazioni illegali. Ma il vero strumento per le transazioni illegali sono i contanti. I contanti sono anonimi e privati, e - a differenza di Bitcoin - non c'è alcun registro che dettagli ogni transazione in contanti. Di tutto il denaro in dollari circolante, il 78% è rappresentato da banconote da 100 dollari. Ma quanti biglietti da 100 dollari ci sono nel vostro portafoglio?


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XXI secolo

“Cosa c'è dietro Isis?”

L'acuto “antiimperialismo” di certa sinistra di Maurizio Vitale Sono mesi che alcuni fini dietrologi e acuti analisti di sinistra cercano di convincere se stessi e il mondo del fatto che l'ISIS sia un fenomeno voluto e creato dagli USA. Citano, ormai da mesi, le dichiarazioni della Clinton o del Generale Clark, adducono come grave indizio il fatto che ancora l'ISIS non si sia scagliato contro Israele e, con aria pensosa, ma che nasconde un mondo di profonde riflessioni, si chiedono "Ma l'Isis, a chi giova?". In tutto ciò, i suddetti analisti, troppo indaffarati nel cercare l'indizio che collegherebbe l'Isis agli USA, hanno dimenticato di leggere i giornali e in particolare la notizia, fornita dallo stesso comando militare USA, che si sta preparando la grande battaglia per Mosul, in aprile o maggio. Questa battaglia vedrebbe schierati l'esercito iracheno, quello USA (da capire in che forma) e i curdi. Scopo: liberare Mosul dalla morsa dei tagliagole Isis. Il che, in astratto, sarebbe una gran bella cosa, salvo che Mosul è una città di due milioni di abitanti, in prevalenza arabi sunniti. Salvo che le truppe dell'esercito iracheno sono potentemente condizionate dagli elementi sciiti e dallo stesso Iran. E salvo il fatto che, come Human Rights Watch non manca di osservare da mesi, gli arabi sunniti, nelle zone nelle quali sono minoranza, sono soggetti a pulizia etnica da parte di sciiti e curdi. D'altro canto, una delle più importanti cause che hanno permesso l'affermazione dell'Isis (altro che qualche iniziale finanziamento USA!) è stato il fatto che molti sunniti vedono nei tagliagole una sorta di protezione contro i loro avversari storici. Se è lecito il paragone: la protezione che il negoziante cerca dalla mafia contro il rapinatore.

La battaglia di Mosul Questo è il quadro di riferimento della prossima battaglia di Mosul, il cui primo paragrafo si sta scrivendo in questi giorni con l’assalto cominciato il 2 marzo a Tikrit, città natale del sunnita Saddam Hussein. Naturalmente a condurre le operazioni sono le milizie sciite addestrate dagli iraniani, inquadrate o meno nei ranghi dell’esercito iracheno, che si avvale di consulenti militari giunti da mezzo mondo. Sul posto, tra l’altro, segnalata la presenza di Qassem Soleimani, comandante delle forze speciali iraniane. Non certo per caso, visto che è stato uno dei principali artefici della riorganizzazione in senso sciita e filoiraniano dell’esercito. Naturalmente la propaganda irachena presenta la battaglia di Tikrit, come un capitolo della guerra di liberazione contro gli invasori dell’Isis, ma la "liberazione" di Mosul (Tikrit è la prima tappa di avvicinamento), in realtà, vedrà marciare compatti contro la città sunnita tutti i nemici storici affratellati: curdi, sciiti (all'interno dell'esercito iracheno o come milizia paramilitare) e quegli USA che hanno appoggiato il governo dello sciita Al Maliki durante il quale si compivano i raid degli squadroni della morte sciiti. Come finirà la battaglia, ammesso che ci sarà, non lo sappiamo. Ma è possibile che diventi una carneficina di proporzioni sconosciute negli ultimi decenni, salutata, almeno sulle prime, dai fragorosi applausi di tutto l'Occidente (di destra o di sinistra). Le popolazioni civili, già ora soggette alla pulizia etnica, saranno bersaglio di ogni violenza. Non ci sarà luogo nel quale potranno rifugiarsi se non, forse, la Turchia previo attraversamento delle regioni curde. Se prevarrà la coalizione curdo-sciita è facile prevedere l'assoggettamento della popolazione sunnita nei prossimi anni, ed è facile prevedere che, in questo caso, il fuoco coverà sotto alla cenere, pronto a deflagrare in futuro. Perché, purtroppo, questa non è una facile guerra di buoni contro cattivi: l'Isis è ovviamente cattivo (anzi: pessimo) ma chi lo combatte non diventa buono automaticamente per questo. Ma torniamo all'inizio, alla sinistra italiana. Sempre orfana del XX secolo (se non del XIX) vede il mondo come prodotto di un Grande gioco condotto dalle superpotenze e da una in particolare. Gioco imperscrutabile ai più, ma non alla sinistra stessa, ovviamente. Che gli USA possano compiere errori non è contemplato: se qualcosa succede è perché gli USA lo vogliono. Resta solo da capire cosa vogliano.

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Ma non disperiamo: la sinistra è così colta e furba da riuscire a capirlo, persino quando la risposta è ignota agli stessi americani. Anche nel caso dell'Isis, classico esempio di ciò che gli americani non volevano e che, invece, è successo grazie alla loro incapacità e ignoranza. E gli USA, in questa vicenda, di errori ne hanno fatto a bizzeffe. Innanzitutto il GRANDE errore: la guerra in Irak (per tacere dei precedenti). Fatto quello non si sono resi conto che un governo iracheno, costruito col manuale Cencelli delle religioni, avrebbe portato allo strapotere della componente sciita a scapito di quella sunnita con relativi squadroni della morte e successivi sentimenti di rivalsa che avrebbero concimato l'Isis. Poi gli USA si sono convinti che bastasse buttare giù qualche dittatore (prima Saddam poi, in tempi recenti, Assad, Mubarak, Gheddafi tra gli altri) per far scaturire come d'incanto la democrazia. E quindi hanno finanziato chiunque potesse aiutarli nello scopo (ivi compreso l'Isis, ovviamente). Salvo poi trovarsi, in seguito a libere elezioni, i Fratelli Musulmani al Cairo e l'Isis padrone di mezza Siria. Ora, per riparare a questa spettacolare serie di giganteschi errori (ne ho elencati solo alcuni, e solo quelli di questo secolo) stanno finalmente facendo quella che a loro sembra la cosa giusta che rimetterà a posto tutti i cocci: la carneficina di Mosul. Cominciando dal test di Tikrit. In tutta questa tragedia, si aggirano molti fini pensatori della sinistra che ricercano disperatamente una coerenza. Se gli USA hanno agito così è perché hanno voluto ottenere questo risultato. Il sospetto che si siano comportati come un elefante ubriaco in una cristalleria non li sfiora nemmeno. E quindi l'Isis, ovviamente, esiste perché l'hanno voluto (o quantomeno aiutato intenzionalmente) gli americani, non (anche) perché i suddetti americani sono passati da una castroneria all'altra, no, questo no. Ormai solo la sinistra ritiene gli USA infallibili e lungimiranti. Hillary Clinton ammette che gli Usa hanno fatto una cretinata, la sinistra italiana no. P.S. ovviamente io sono di sinistra, e tutto ciò non mi fa per niente piacere. http://www.militarytimes.com/story/military/pentagon/20 15/02/19/centcom-battle-of-mosul-could-begin-inapril/23697219/ http://www.hrw.org/world-report/2015/countrychapters/iraq http://www.hrw.org/news/2015/02/25/iraqi-kurdistanarabs-displaced-cordoned-detained http://www.hrw.org/world-report/2015/essays/tyrannyfalse-comfort


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Politica

Camorra Capitale dopo Mafia Capitale La piovra si fa sempre più grande e sempre più inquina Roma. La magistratura non può farcela da sola, a combatterla. Chi deve assumere l'iniziativa è la città: i cittadini, il lavoro, il volontariato

Te li trovi accanto al bar Quando a Buenos Aires intervistai una donna che era uscita viva dallla Esma, il più grande campo di detenzione e tortura dell’ultima dittatura militare, la prima cosa che le chiesi fu: che cosa farebbe se oggi, al bar o al cinema, riconoscesse uno di quegli aguzzini. Ecco, i cittadini a Roma cominciano a provare quella paura, di sedersi a un tavolo di una pizzeria a Testaccio o di un bar,

di Riccardo De Gennaro

E questo è parecchio inquietante perché molto probabilmente non si tratta di due piovre piccole, ma di una sola piovra che continua a farsi sempre più grande e che rischia di inquinare il tessuto connettivo della città, già indebolito dalla corruzione del potere politico.

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Roma sembra ormai un porto franco. È vero che se la criminalità organizzata è arrivata ad aggredire città del Nord come Milano o del Centro come Parma e Perugia sarebbe ingenuo pensare che Roma si sia sottratta alle sue mire, ma è altrettanto vero che la città non è ancora abituata a ragionare di pizzo, ricatti, ritorsioni: scoprire che i locali sequestrati dai carabieri sono spesso insospettabili luoghi di ritrovo serale suscita un senso di inquietudine maggiore di quello che si prova alla lettura dei libri di Saviano.

come il bar Tulipano, nel frequentatissimo rione Monti, e scoprire di essere seduti accanto a un criminale, che se non ha ucciso può aver minacciato qualcuno, o picchiato o ferito. Nell’ambito dell’operazione Camorra Capitale – si è letto nelle cronache ¬– sono stati sequestrati beni per un valore di circa 10 milioni di euro, riconducibili ad alcuni dei 61 arrestati. In particolare, numerosi esercizi commerciali e immobili. Non è più una questione di malavita locale, quella che – banda della Magliana a parte – agiva a Roma in totale autonomia. La criminalità romana ha aperto alle grandi organizzazioni e i vasi sono comunicanti. Hanno aperto ai grandi clan Non è difficile infatti trovare punti di contatto tra Mafia Capitale e Camorra Capitale, basti pensare, ad esempio, a Massimiliano Colagrande, uomo vicino all’estrema destra, coinvolto nella prima inchiesta e ora tra gli arrestati di questa seconda operazione.

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“Con la forza dell'intimidazione” Così la procura di Roma ha descritto il sistema criminale emerso grazie all’operazione Terra di mezzo: “Un’associazione di stampo mafioso che si avvale della forza dell’intimidazione e dell’omertà, dedita all’estorsione, all’usura, al riciclaggio, alla corruzione di pubblici ufficiali per acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici”. Non sarebbe possibile sintetizzare l’intero scenario in termini più chiari, ribaditi in apertura dell’anno giudiziario, quando per la prima volta è stata citata l’infiltrazione della mafia e della destra eversiva anche nel calcio. Ma la magistratura non può farcela da sola, né la stampa libera, né i pochi politici onesti, che per la verità intervengono anch’essi soltanto dopo che la fogna è stata spurgata. Anche qui chi deve assumere l’iniziativa è la città, intesa come insieme di cittadini che vivono i quartieri, il territorio, il lavoro, il volontariato.


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Persone

In morte di Sarina Ingrassia Deceduta a Monreale la decana del volontariato e dell’associazionismo siciliano di Giovanni Abbagnato Quando l’affetto, la stima e la vicinanza ideale con una persona che ci ha lasciati si mischia con il dovere di raccontarla a chi non l’ha conosciuta - o non l’ha conosciuta abbastanza - succede che certi articoli non si vorrebbe scriverli. Avevo già pensato che dovevo cominciare a raccogliere le idee sul percorso umano e sociale di Sarina Ingrassia perché si perdesse meno possibile di uno straordinario patrimonio ideale, quando, durante il nostro ultimo incontro, compresi che Sarina aveva deciso che il suo percorso si dovesse fermare lì. Si, perché mi piace pensare che Sarina avesse discusso anche del Suo trapasso con il Padreterno che amava profondamente, ma con il quale aveva un rapporto molto dialettico che la portava anche ad

adirarsi con Lui per il dolore degli ultimi, lei donna che aveva preso sempre sopra di sé la responsabilità di occuparsi delle ingiustizie sociali, mai lasciate solo al Cielo. Se si vuole rischiare la sintesi di una vita più intensa di quanto non sia stata lunga, si deve parlare di una storia esemplare di donna impegnata nel mondo della povertà e dell’emarginazione che ha rappresentato apparenti contraddizioni che erano il segno di una dedizione completa verso gli altri che, però, non faceva velo ad una grande autonomia di coscienza e di pensiero. Donna che si sentiva parte della Comunione della Chiesa, ma consapevole della compresenza in Essa di sensibilità e comportamenti diversi, talvolta inconciliabili. Una Chiesa di base Sarina era fautrice di quella Chiesa di base che aveva contribuito a costruire nel tempo con i gruppi comunitari degli anni ’60 e ’70 e, grazie ad una grande “curiosità” intellettuale ed ad una anticonformistica apertura spirituale, incrociò esperienze innovative, più autenticamente ispirate ad una pratica evangelica, come quella della Comunità di Taizè fondata dal monaco Frère Roger. Questa sua predilezione per una Chiesa “di strada” rivolta al dolore degli ultimi non poteva che determinare in lei una netta opposizione, “senza se e senza ma”, a parte significativa della nomenclatura clericale, soprattutto della importante Diocesi della sua Monreale, dominata per lungo tempo dal Vescovo Cassisa, esponente di una Chiesa di potere e chiaccheratissimo, insieme al suo entourage, perché coinvolto in diverse inchieste giudiziarie sulla gestione economico-finanziaria della Diocesi, con sullo sfondo rapporti inquietanti con mafia, politica ed affarismo.

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La laicità della vita pubblica Ma la diversità di opinioni con la Chiesa, soprattutto nelle articolazioni a lei più vicine, non riguardava solo il profilo di coerenza delle gerarchie, ma anche due aspetti fondamentali sul piano concettuale, ossia l’affermazione della laicità nella vita pubblica - più nella pratica che nelle enunciazioni - e il rispetto della solidarietà verso i bisognosi, ma sempre in una logica di promozione sociale e di superamento politico delle forme di ingiustizia sociale. Per comprendere insieme la straordinaria dedizione e l’incondizionata generosità di Sarina, ma anche per rilevarne la sua impostazione di operatrice sociale, basta riportare un episodio degli ultimi giorni della sua vita, quando visitata da un’associazione di volontariato che meritoriamente assiste i malati terminali di cancro, minimizzando sulla sua dolorosissima situazione, chiedeva al medico se poteva indicargli una brava nutrizionista che potesse dare delle informazioni ad alcune mamme dei suoi amati bambini del quartiere in difficoltà della Bavera che non avevano strumenti adeguati per curare una corretta alimentazione dei figli. Contro tutte le forme di povertà Quanto al superamento dello status quo, Sarina, donna schiva e refrattaria ad ogni forma di appariscenza personale, superò la sua esitazione a raccogliere la proposta di Rita Borsellino a candidarsi alle elezioni regionali del 2006, dettando, però, condizioni per un’attenzione particolare nell’attuazione del programma politico alla lotta contro tutte le forme di povertà materiale e culturale - e di un rigore assoluto nella composizione della lista, da rendere inaccessibile ai trasformisti della politica che confondono realismo politico con incoerenza ed opportunismo.


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“Provare ad andare avanti, come piacerebbe a lei, sulla strada dell’ostinata ricerca della giustizia sociale” Bella l’immagine di questa piccola donna, tanto schiva e modesta, che, però, non si sottraeva al compito di salire sul palco del suo affollato e vibrante comizio di conclusione della campagna elettorale durante un affollatissimo concerto spontaneamente organizzato per lei nella piazza di Monreale da giovani artisti, venuti per l’occasione anche da lontano. Volle fortissimamente la sede della sua associazione “il Quartiere” – sempre aperta ai bisogni della gente – in una piccola casa tra le altre modeste case di cui, però, presto e suo malgrado, si diffuse la notorietà che portò stuoli di visitatori da tutto il mondo per conoscere questa esperienza di intervento sociale e divulgarla attraverso interessantissimi servizi giornalistici. Sarina fu punto di riferimento di tantissimi giovani – monrealesi e non - passati dall’impegno nell’associazione, ma anche di un ben più vasto mondo dell’associazionismo siciliano impegnato nel sociale dove lei, grazie alla sua apertura intellettuale, rappresentava un punto avanzato di innovazione nell’intervento nel territorio, senza trascurare il tratto del calore umano per una vera promozione sociale. Guardando i tantissimi volti che gremivano il Duomo di Monreale per rendere l’ultimo omaggio a Sarina, il pensiero sfuggiva e si confondeva tra tante immagini e arrivava a fissarsi per un attimo perfino nel testo di una canzone di Vasco Rossi: “Quando cammino in questa valle di lacrime vedo che tutto si deve abbandonare: niente dura, niente dura e questo lo sai. Però non ti ci abitui mai”. Forse, molta della nostra realtà sta come espressa dalla sensibilità del poeta. E, infatti, non ci si abitua mai alla scomparsa di una piccola donna così modestamente importante, magari semplicemente provando ad andare avanti, come piacerebbe a lei, sulla strada dell’ostinata ricerca della giustizia sociale.

“La verità vi farà liberi”

Le due Chiese di Bologna di Salvo Ognibene

“La verità illumina la giustizia” recita lo slogan scelto per la XX Giornata delle memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa dall’associazione Libera e che si terrà il prossimo 21 marzo, a Bologna. Dopo la prima manifestazione del 2003 a Modena, è la seconda volta che Libera organizza la manifestazione nazionale in Emilia Romagna, e caso vuole che non avrebbe potuto scegliere anno migliore. Proprio in queste ultime settimane il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine si è abbattuto su una delle regioni del nord dove le mafie sono più che radicate tanto da essere definita dalla Procura Nazionale Antimafia, “Terra di mafia”. Undici le mafie presenti ( qui trovate un po’di materiale prodotto negli anni scorsi. Qui, ma anche qui, oltre che qui e qui se non bastasse) che con forti alleanze si sono spartite soldi e territorio, all’insaputa di molti, dato lo stupore generale all’indomani della maxi operazione di polizia “Aemilia”. In realtà c’é chi l’ha sempre saputo (chi ha scritto i dossier riportati sopra e I Siciliani giovani per esempio), l’ha scritto e divulgato. Ed ora non canta vittoria ma si dispiace perché non é stato ascoltato e perché tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Ed anche la Chiesa ha le sue colpe. Se si fosse affrontato il problema piuttosto che gridare al pericolo di danneggiare il turismo (così come ha fatto il parroco di Brescello, don Evadro), se si fosse posta attenzione veramente (siamo ancora in tempo, eh) al problema delle mafie, magari

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non saremmo nella situazione in cui ci troviamo oggi. Ma anche nella Chiesa, così come nella politica, non sono tutti uguali. Per un Sindaco che parla di Francesco Grande Aracri come “uno gentile e molto tranquillo” c’é un altro politico che già alcuni lustri fa (Massimo Mezzetti, oggi assessore regionale alla Cultura con delega alla legalità) non perse tempo a denunciare la presenza del fenomeno mafioso in regione. E per una Chiesa che tentenna sull’argomento, ce n’é un’altra come quella dell’arcidiocesi di Bologna, nella persona del suo vicario, mons. Silvagni, che non si é tirata indietro ad affrontare l’argomento e don Giovanni, la cui voce autorevole è presente nel mio libro “L’eucaristia mafiosa - La voce dei preti”, parlava delle mafie in regione e a Bologna. Ma questo lo sa bene anche don Mario Fini, che abbiamo avuto il piacere di conoscere durante una delle presentazioni nella città felsinea. Ed é a loro che mi rivolgo, sperando poi in un’azione corale, affinché il prossimo 21 marzo siano presenti e vivi all’interno di quel corteo tra i tanti giovani ed i familiari delle vittime di mafia, della stazione di Bologna e della strage di Ustica, che insieme si stringeranno nel primo giorno di primavera. La Chiesa deve fare sentire la sua voce. E quanto sarebbe bello sentire parole forti e giuste (e magari poi seguite dai fatti) da quel palco in Piazza VIII Agosto. “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” dice il Vangelo di Giovanni. E la verità illumina la giustizia.


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IL FILO

Sicilia fra Pericle e Mazzarino di Giuseppe Fava

“Alla fine fu capace di pensare in grande e pensare in proprio” (da” I cento padroni di Palermo”, I Siciliani, giugno 83)

Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. ____________________________________

La Fondazione Fava

La fondazione nasce nel 2002 per mantenere vivi la memoria e l’esempio di Giuseppe Fava, con la raccolta e l’archiviazione di tutti i suoi scritti, la ripubblicazione dei suoi principali libri, l'educazione antimafia nelle scuole, la promozione di attività culturali che coinvolgano i giovani sollecitandoli a raccontare Il sito permette la consultazione gra tuita di tutti gli articoli di Giuseppe Fava sui Siciliani. Per consultare gli archivi fotografi co e teatrale, o altri testi, o acquistare i libri della Fondazione, scrivere a elenafava@fondazionefava.it mariateresa.ciancio@virgilio.it ____________________________________

Il sito “I Siciliani di Giuseppe Fava”

Pubblica tesi su Giuseppe Fava e i Siciliani, da quelle di Luca Salici e Rocco Rossitto, che ne sono i curatori. E' un archivio, anzi un deposito operativo, della prima generazione dei Siciliani. Senza retorica, senza celebra zioni, semplicemente uno strumento di lavoro. Serio, concreto e utile: nel nostro stile.

Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta. Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo. Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene, ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò quanto meno a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità - provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola, le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel

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periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo. Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioé gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse), gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato. Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere.


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I Sicilianigiovani Rivista di politica, attualità e cultura

Con: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Giovanni Caruso, Giovanni Abbagnato, Francesco Appari, Gaetano Alessi, Lorenzo Baldo, Antonella Beccaria, Valerio Berra, Nando Benigno, Mauro Biani, Lello Bonaccorso, Giorgio Bongiovanni, Paolo Brogi, Luciano Bruno, Anna Bucca, Daniela Calcaterra, Elio Camilleri, Giulio Cavalli, Arnaldo Capezzuto, Ester Castano, Salvo Catalano, Carmelo Catania, Giulio Cavalli, Antonio Cimino, Giancarla Codrignani, Andrea Contatto, Dario Costantino, Irene Costantino, Tano D’Amico, Fabio Michele D’Urso, Jack Daniel, Riccardo De Gennaro, Giacomo Di Girolamo, Alessio Di Florio, Tito Gandini, Rosa Maria Di Natale, Pierpaolo Farina, Francesco Feola, Norma Ferrara, Marino Ficco, Pino Finocchiaro, Paolo Fior, Enrica Frasca, Renato Galasso, Rino Giacalone, Marcella Giamusso, Giuseppe Giustolisi, Valeria Grimaldi, Carlo Gubitosa, Sebastiano Gulisano, Bruna Iacopino, Flavia Iraci, Sara Levrini, Alfredo Magnanti, Carlo Majorana, Sara Manisera, Stefania Mazzara, Max Guglielmino, Diego Gutkowski, Bruna Iacopino, Margherita Ingoglia, Kanjano, Gaetano Liardo, Sabina Longhitano, Luca Salici, Dario Lo Presti, Mattia Maestri, Michela Mancini, Sara Manisera, Antonio Mazzeo, Martina Mazzeo, Emanuele Midoli, Luciano Mirone, Pino Maniaci, Loris Mazzetti, Francesco Moiraghi, Massimiliano Nicosia, Francesco Nicosia, Attilio Occhipinti, Salvo Ognibene, Antonello Oliva, Simone Olivelli, Riccardo Orioles, Maurizio Parisi, Salvo Perrotta, Giulio Petrelli, Aaron Pettinari, Giuseppe Pipitone, Domenico Pisciotta, Gaetano Porcasi, Antonio Roccuzzo, Alessandro Romeo, Vincenzo Rosa, Roberto Rossi, Luca Rossomando, Francesco Ruta, Giorgio Ruta, Marco Salfi, Daniela Sammito, Ivana Sciacca, Daniela Siciliano, Vittoria Smaldone, Mario Spada, Sara Spartà, Giuseppe Spina, Miriana Squillaci, Domenico Stimolo, Giuseppe Teri, Marilena Teri, Mara Trovato, Adriana Varriale, Lillo Venezia, Fabio Vita, Salvo Vitale, Patrick Wild, Chiara Zappalà, Teresa Zingale, Andrea Zolea Webmaster: Max Guglielmino max.guglielmino@isiciliani.org Net engineering: Carlo Gubitosa gubi@isiciliani.it Art director: Luca Salici lsalici@isiciliani.it Revisione testi: Sabina Longhitano ignazia@mail.com Web editing: Salvo Ognibene salvatoreognibene@hotmail.it Ebook editing: Carmelo Catania carmelo.catania@gmail.com Coordinamento: Giovanni Caruso gcaruso@isiciliani.it Segreteria di redazione: Riccardo Orioles riccardo@isiciliani.it Progetto grafico di Luca Salici

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I Siciliani giovani - rivista di politica, attualitĂ e cultura fatta da: Gian Carlo Caselli, Nando dalla Chiesa, Antonio Roccuzzo, Giovanni Caruso, Margherita Ingoglia, Norma Ferrara, Michela Mancini, Sara SpartĂ , Francesco Feola, Luca Rossomando, Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari. Salvo Ognibene, Beniamino Piscopo, Giulio Cavalli, Paolo Fior, Arnaldo Capezzuto, Pino Finocchiaro, Luciano Mirone, Rino Giacalone, Ester Castano, Antonio Mazzeo, Carmelo

Cronache

Catania, Giacomo Di Girolamo, Francesco Appari, Leandro Perrotta, Giulio Pitroso, Giorgio Ruta, Carlo Gubitosa, Mauro Biani, Kanjano, Luca Ferrara, Luca Salici, Jack Daniel, Anna Bucca, Grazia Bucca, Luciano Bruno, Antonello Oliva, Elio Camilleri, Fabio Vita, Diego Gutkowski, Giovanni Abbagnato, Pietro Orsatti, Roberto Rossi, Bruna Iacopino, Nerina Platania, Nadia Furnari, Riccardo De Gennaro, Fabio D'Urso, Sabina Longhitano, Salvo Vitale.

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I Siciliani giovani

dalla vita com'è

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Webmaster: Max Guglielmino. Net engineering: Carlo Gubitosa. Art director: Luca Salici. Coordinamento: Giovanni Caruso e Massimiliano Nicosia. Segreteria di redazione: Riccardo Orioles. Progetto grafico di Luca Salici

Gli ebook dei Siciliani I Siciliani giovani sono stati fra i primissimi in Italia ad adottare le tecnologie Issuu, a usare tecniche di impaginazione alternative, a trasferire in rete e su Pdf i prodotti giornalistici tradizionali. Niente di strano, perché già trent'anni fa i Siciliani di Giuseppe Fava furono fra i primi in Italia ad adottare ­ ad esempio ­ la fotocomposizione fin dal desk redazionale. Gli ebook dei Siciliani giovani, che affiancano il giornale, si collocano su questa strada ed affrontano con competenza e fiducia il nuovo mercato editoriale (tablet, smartphone, ecc.), che fra i primi in Italia hanno saputo individuare.

I Siciliani giovani/ Reg.Trib.Catania n.23/2011 del 20/09/2011 / Dir.responsabile Riccardo Orioles/ Associazione culturale I Siciliani giovani, via Cordai 47, Catania / 30 agosto 2012

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I Siciliani giovani

Chi sostiene i Siciliani

Ai lettori

1984

Caro lettore, sono in tanti, oggi, ad accusare la Sicilia di essere mafiosa: noi, che combattiamo la mafia in prima fila, diciamo invece che essa è una terra ricca di tradizioni, storia, civiltà e cultura, tiranneggiata dalla mafia ma non rassegnata ad essa. Questo, però, bisogna dimostrarlo con i fatti: è un preciso dovere di tutti noi siciliani, prima che di chiunque altro; di fronte ad esso noi non ci siamo tirati indietro. Se sei siciliano, ti chiediamo francamente di aiutarci, non con le parole ma coi fatti. Abbiamo bisogno di lettori, di abbonamenti, di solidarietà. Perciò ti abbiamo mandato questa lettera: tu sai che dietro di essa non ci sono oscure manovre e misteriosi centri di potere, ma semplicemente dei siciliani che lottano per la loro terra. Se non sei siciliano, siamo del tuo stesso Paese: la mafia, che oggi attacca noi, domani travolgerà anche te. Abbiamo bisogno di sostegno, le nostre sole forze non bastano. Perciò chiediamo la solidarietà di tutti i siciliani onesti e di tutti coloro che vogliono lottare insieme a loro. Se non l'avremo, andremo avanti lo stesso: ma sarà tutto più difficile. I Siciliani

Ai lettori

2012

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Quando abbiamo deciso di continuare il percorso, mai interrotto, dei Siciliani, pensavamo che questa avventura doveva essere di tutti voi. Voi che ci avete letto, approvato o criticato e che avete condiviso con noi un giornalismo di verità, un giornalismo giovane sulle orme di Giuseppe Fava. In questi primi otto mesi, altrettanti numeri dei Siciliani giovani sono usciti in rete e i risultati ci lasciano soddisfatti, al punto di decidere di uscire entro l'anno anche su carta e nel formato che fu originariamente dei Siciliani. Ci siamo inoltre costituiti in una associazione culturale "I Siciliani giovani", che accoglierà tutti i componenti delle varie redazioni e testate sparse da nord a sud, e chi vorrà affiancarli. Pensiamo che questo percorso collettivo vada sostenuto economicamente partendo dal basso, partendo da voi. Basterà contribuire con quello che potrete, utilizzando i mezzi che vi proporremo nel nostro sito. Tutto sarà trasparente e rendicontato, e per essere coerenti col nostro percorso abbiamo deciso di appoggiarci alla "Banca Etica Popolare", che con i suoi principi di economia equa e sostenibile ci garantisce trasparenza e legalità. I Siciliani giovani

Una pagina dei Siciliani del 1993 Nel 1986, e di nuovo nel 1996, i Siciliani dovettero chiudere per mancanza di pubblicità, nonostante il successo di pubblico e il buon andamento delle vendite. I redattori lavoravano gratis, ma gli imprenditori non sostennero in alcuna maniera il giornale che pure si batteva per liberare anche loro dalla stretta mafiosa. Non è una pagina onorevole, nella storia dell'imprenditoria siciliana.

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In rete, e per le strade

I Siciliani giovani che cos'è I Siciliani giovani è un giornale, è un pezzo di storia, ma è anche diciotto testate di base - da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Napoli a Bologna, a Trapani, a Palermo - che hanno deciso di lavorare insieme per costituire una rete. Non solo inchieste e denunce, ma anche il racconto quotidiano di un Paese giovane, fatto da giovani, vissuto in prima persona dai protagonisti dell'Italia di domani. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.

facciamo rete!

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il coraggio di lottare?” “a che serve vivere , se non c’è

Per dare una mano:

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1983-2013 Trent’anni di libertà

“Un giornalismo fatto di verità

impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo” Giuseppe Fava

In rete e per le strade

“I Siciliani giovani” sono una rete di testate di base, da Milano a Modica, da Catania a Roma, da Bologna a Napoli. Il racconto quotidiano di un paese giovane, fatto da giovani, vissuto. Fuori dai palazzi. In rete, e per le strade.


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